Vedere «da cento occhi». Nietzsche e la relazione 9788898694280, 9788898694761

Nietzsche impone alla filosofia un pensiero della relazione che pensa la relazione oggettiva senza cessare di esserne a

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Vedere «da cento occhi». Nietzsche e la relazione
 9788898694280, 9788898694761

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Nicola Comerci

Vedere «da cento occhi» Nietzsche e la relazione

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Passages

Collana diretta da: Umberto Curi e Carmelo Meazza

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Nicola Comerci Vedere «da cento occhi» Nietzsche e la relazione

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Volume pubblicato con il patrocinio dell’Unione dei Comuni Alta Gallura

© 2016, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via A. Fusco, 21 - 00136 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Passages ISSN: 2282-5282 n. 7 - maggio 2016 ISBN – Edizione cartacea: 9788898694280 ISBN – E-book: 9788898694761 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Fensterblick Leopoldskroner Weiher

© serkat Photography - Fotolia.com

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A mio padre Vincenzo a mia madre Anna Maria a mia sorella Nadia sine quibus non

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Introduzione

0. Contingenze Questo libro nasce dalla volontà di riflettere sul tema della “relazione” in Nietzsche, segnatamente in rapporto a un versante politico, e ciò rende necessaria una preliminare serie di considerazioni metodologiche e contenutistiche. Il dialogo con il pensiero di un filosofo si rivela infatti sempre un compito non agevole, in quanto a venire chiamato in causa, a venire coinvolto, risulta inevitabilmente il pensiero di chi si dispone a pensare un altro pensiero, con tutte le difficoltà e i rischi che in termini di parzialità, “schematismi”, precomprensioni varie sorgono da tale ineludibile coinvolgimento. Nel riferirsi al portato filosofico di una riflessione complessa, stratificata, spesso contraddittoria quale quella di Nietzsche, la cifra di tali rischi si amplifica vertiginosamente1, in partico-

1. Come è noto, è merito di Jaspers, Löwith e soprattutto di Heidegger aver sottratto Nietzsche ad una “catalogazione” meramente letteraria o genericamente culturale per riconoscergli, a pieno titolo, lo statuto di “filosofo”, dando inizio a quella Nietzsche-Renaissance a cui si è assistito, in particolare, nel secondo dopoguerra (cfr.: Jaspers K., Nietzsche. Einführung in das Verständnis seines Philosophierens, Walter de Grunter & Co. Verlag,

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lare se si decide di muovere da un’angolazione politica e con intenti attualizzanti, come qui si intende fare, a causa della

Berlin und Leipzig, 1936, tr. it. Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, Mursia, Milano, 1996; Löwith K., Von Hegel bis Nietzsche, Europa Verlag, Zürich-New York, 1941, tr. it. Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino, 1959²; Heidegger M., Nietzsche, Neske, Pfullingen, 1961, tr. it. Nietzsche, Adelphi, Milano, 1994. Per una ricostruzione di alcune delle prime significative interpretazioni che hanno orientato la Nietzsche-Forschung cfr. Giametta S., Nietzsche e i suoi interpreti: oltre il nichilismo, Marsilio, Venezia, 1995 e Mina A., Nietzsche e la storia della filosofia. Le interpretazioni di Baeumler, Heidegger, Löwith e Jaspers a confronto con la storia della filosofia nietzscheana, Mursia, Milano, 2002). Non meno importante nella storiografia nietzscheana è il ruolo di Deleuze, il quale oppone la filosofia di Nietzsche al Cristianesimo e al nichilismo (così come allo hegelismo), qualificandolo come un “filosofo della differenza” che porta avanti il progetto di critica della ragione già avviato da Kant, senza concludere nell’irrazionalismo ma nella produzione di nuovi valori, secondo la dinamica affermativa e negativa della «volontà di potenza» (cfr. Deleuze G., Nietzsche et la philosophie, Presses Universitaires de France, Paris, 1962; tr. it. Nietzsche e la filosofia, Feltrinelli, Milano, 1992²). Da segnalare inoltre, nello sviluppo degli studi nietzscheani, l’interpretazione di Foucault, che mira a cogliere in Nietzsche un metodo “genealogico” di indagine sulla morale mediante la sua “decostruzione” e l’analisi della “microfisica del potere” che la sostiene, in una direzione di critica all’ideologia che avvicina Nietzsche a Marx e a Freud (cfr. Foucault M., Nietzsche, Freud, Marx, Editions du Minuit, Paris, 1967; tr. it. Nietzsche, Freud, Marx, in “Aut-Aut”, n. 262-263, 1994). Ma è altresì universalmente riconosciuta l’importanza di Colli e Montinari nella corretta e definitiva redazione e edizione delle «Opere di Friedrich Nietzsche» (nonché del Nachlass e dell’Epistolario), lavoro tuttora proseguito da Campioni presso il «Centro interuniversitario “Colli-Montinari” di studi su Friedrich Nietzsche e la cultura europea» da lui diretto (per la storia della nascita dell’edizione Colli-Montinari cfr. Campioni G., Leggere Nietzsche. Alle origini dell’edizione critica Colli-Montinari. Con lettere e testi inediti, ETS, Pisa, 1992). Sullo stato attuale della discussione intorno a Nietzsche, cfr.: Fornari M. C. (a cura di), Nietzsche. Edizioni e interpretazioni, ETS, Pisa, 2007.

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natura sempre “inattuale” della sua filosofia che, costitutivamente, si sottrae ad ogni forma di attualizzazione2.

2. Ciò è apparso chiaro già ai primi attenti commentatori delle sue opere ma, a poco più di un secolo dalla sua scomparsa, la questione assume una complessità anche maggiore, in quanto sono diverse le seduzioni interpretative ereditate che tentano chi si accinge a tale impresa, a cominciare dall’indiscusso fascino storiografico esercitato sia dalle sue proposizioni più celebri (la “morte di Dio”, il “superuomo”, l’“eterno ritorno”, la “volontà di potenza”, il “nichilismo”, etc.), sia dal dato della perdita della ragione che caratterizza l’ultima fase della sua esistenza (cfr.: Chamberlain L., Nietzsche in Turin. The end of the future, Quartet Books, London, 1996, tr. it. Nietzsche. Gli ultimi anni di un filosofo, Editori Riuniti, Roma, 1999; sugli ultimi anni del filosofo cfr. anche Verrecchia A., La catastrofe di Nietzsche a Torino, Einaudi, Torino, 1978, e Werner R., Der wilde Nietzsche oder die Rückkerhr des Dionysos, Deutsche Verlags-Anstalt, Stuttgart, 1994, tr. it. Nietzsche selvaggio, ovvero il ritorno di Dioniso, Il Mulino, Bologna, 2001, cap. nono. Significativo il nesso tra l’ultima produzione nietzscheana degli anni 1880-1888 e la degenerazione della sua malattia stabilito da Klossowski P., nel suo Nietzsche et le cercle vicieux, Paris, Mercure de France, 1969; tr. it. Nietzsche e il circolo vizioso, Adelphi, Milano, 2013). Nietzsche è così sembrato, agli occhi degli studiosi, “innanzitutto e perlopiù” come uno «spirito tormentato», secondo un approccio interpretativo riconducibile, di volta in volta, alla figura intellettuale contemporanea di chi, per dirlo con le sue parole, «si sente sradicato» (Nietzsche Fr., Die fröhliche Wissenschaft, 1882; tr. it. La gaia scienza, in Id., La gaia scienza. Idilli di Messina. Frammenti postumi 1881-1882, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. V, tomo II, Adelphi, Milano, 1991², pp. 13-323, n. 346, p. 246), dell’uomo contemporaneo “problematico”, “artificioso” e “labirintico”, se non addirittura inquadrabile in seno alla deriva postmoderna (cfr., ad es., Smith G. B., Nietzsche, Heidegger and the transition to postmodernity, University of Chicago Press, Chicago-London, 1996; Gerlach, H. M., Friedrich Nietzsche. Piattaforma girevole tra moderno e postmoderno?, in Totaro F., a cura di, Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, Carocci, Roma, 2002, pp. 34-43). Intorno alla sua filosofia si sono pertanto avviluppati residui sedimentati di molteplici interpretazioni, tra loro spesso in contraddizione, tali da renderne ardua una lettura, se non “spassionata”, quantomeno aperta. Ciò rischia di ripercuotersi, in chiave occlusiva, su alcune risorse concettuali presenti nella sua riflessione, che fanno sorgere il sospetto del permanere in esse di risvolti teorici se non proprio inesplorati, comunque poco attra-

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Di Nietzsche e della politica, dunque: già di per sé questo accostamento potrebbe dare da pensare. L’estrema specializzazione e “regionalizzazione” del Novecento non annovera infatti, e con ragione, il filosofo di Röcken tra i “filosofi della politica” tout court, in modo che non si giustifica prima facie un “ritorno a Nietzsche”, qualsivoglia siano le problematiche politiche che si intendano affrontare: potrebbero essere ben altri i pensatori da richiamare e interrogare. A ciò si aggiunge, inoltre, che da un punto di vista meramente storiografico, superato il tentennamento iniziale dovuto alla malcelata distanza del suo pensiero dalla riflessione politica, nonché dall’anelito individualista del suo filosofare, poco incline ad una analisi dei destini del comune e del condiviso, di Nietzsche “filosofo della politica” si è scritto, in maniera contrastante, ma si è scritto. Si potrebbe anzi dire che sia stata proprio l’esegesi politica ad aver incentivato l’interesse degli studiosi intorno alla sua filosofia. E se in un primo momento ha prevalso un pionieristico quanto ideologico posizionamento politico del suo lavoro, con tutte le conseguenze che in termini di semplicistica condanna o di ambigua apologia ne sono scaturite, una volta

versati dalla critica. Il primo passo da compiere sarà dunque di ordine storiografico. Già Jaspers aveva messo in guardia i futuri lettori di Nietzsche sottolineando che «se si crede di veder Nietzsche, ebbene egli non è così: non è questo, bensì un altro. Ma anche l’altro sembra ogni volta sfuggire. Un tratto fondamentale del suo essere è la possibilità di scambiare il suo modo di manifestarsi» (cfr. Jaspers K., Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, cit., pp. 376 ss.). Ed è pertanto a partire da questa consapevolezza che uno studio serio del pensiero nietzscheano deve valutare con prudenza una «critica logica» (Nietzsche cade spesso in contraddizione), una «critica del contenuto» (Nietzsche cade in errore nelle sue «affermazioni di fatto»), e infine una «critica esistenziale» (relativa alle intersezioni esistenti tra la sua analisi dell’esistenza e lo svolgersi “eccezionale” della sua vita). Sono dunque questi “profetici” ammonimenti jaspersiani che una lettura del pensiero di Nietzsche ancora oggi deve tenere presente, in ogni passo che intende compiere.

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affievolitasi la fascinazione della prospettiva genericamente “aristocratica”3 e di quella pregiudizialmente reazionaria4

3. Cfr. Brandes G., Aristokratisk Radikalisme. En Afhandling om Friedrich Nietzsche, in “Tilskuerens”, agosto 1889, pp. 565-613, poi Friedrich Nietzsche – En Afhandling om aristokratisk Radikalisme, in Id., Samlede Skrifter (1901); tr. it. Friedrich Nietzsche o del radicalismo aristocratico, Edizioni di Ar, Padova, 1995. A dire il vero, la collocazione “aristocratica” del pensiero di Nietzsche è stata anche di recente riproposta in diversi studi come, ad es.: Ingravalle F., Nietzsche illuminista o illuminato? Guida alla lettura di Nietzsche attraverso Nietzsche, Edizioni di Ar, Padova, 1981, e Losurdo D., Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e bilancio critico, Bollati Boringhier, Torino, 2004. Si tratta, quest’ultima, di un’opera monumentale, che sottolinea il carattere “aristocratico” dello sguardo di Nietzsche sulla politica, che si riveste così di un carattere diffusamente reazionario se non eminentemente antipolitico. 4. L’assimilazione del pensiero nietzscheano a posizioni che anticipano o precorrono il nazionalsocialismo non gode oggi di molto credito tra gli interpreti, anche se ha avuto, soprattutto nei primissimi studi dedicati al filosofo, diversi convinti sostenitori (cfr., ad es.: Oehler R., Friedrich Nietzsche und die deutsche Zukunft, Leipzig, 1935; Baeumler A., Nietzsche der Philosoph und Politiker, Leipzig, 1931, tr. it. Nietzsche filosofo e politico, Edizioni di Ar, Padova, 2003; Halévy D., La vie de Nietzsche, Grasset, Paris, 1944, tr. it. Vita eroica di Nietzsche, Ciarrapico, Roma, 1983². Per una analisi dedicata ai rapporti tra Nietzsche e il nazismo, cfr. Münster A., Nietzsche et le nazisme, Paris, Kime, 1995; Ascheim S. E., The Nietzsche Legacy in Germany 1890-1990, Berkeley-Los Angeles-London, University of California Press, 1992; Penzo G., Nietzsche e il nazismo. Il tramonto del mito del super-uomo, Milano, Rusconi, 1997). Ad alimentare polemicamente questo clima interpretativo reazionario è stato, dall’alto della sua autorità filosofica, Lukàcs, il quale, muovendo da paradigmi estetici, considera Nietzsche «il giustificatore del capitalismo, nonché della posizione di Hitler e del fascismo» (Penzo G., L’interpretazione lukàcsiana di Nietzsche, in Id., a cura di, Nietzsche contemporaneo o inattuale?, “Quaderni di humanitas”, 1980, pp. 87-101, p. 88; cfr. Lukàcs G., Die Zerstörung der vernuft, Aufbau-Verlag, Berlin, 1954; tr. it. La distruzione della ragione, Einaudi, Torino, 1959: con lo stesso titolo, Mimesis, Milano, 2011). Da non trascurare, inoltre, le conseguenze dell’interpretazione nietzscheana condotta da autori come Spengler e Jünger, che pur essendo più filosofica e orientata verso l’analisi del nichilismo e delle sue ragioni, garantiva comunque il permanere di Nietzsche all’interno

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nonché, inoltre, depotenziatasi la spinta dell’opposto versante

di uno specifico scenario esegetico reazionario. Tra le cause che hanno supportato una lettura “a destra” del pensiero di Nietzsche, viene annoverato il “famigerato” intervento redazionale compiuto sui frammenti nietzscheani dell’ultimo periodo di lucidità mentale dall’amico-discepolo Gast (pseudonimo di H. Köselitz) e dalla sorella E. Förster-Nietzsche, in linea generale considerata «la principale responsabile del fraintendimento e della falsificazione di Nietzsche» (Berto C., Le ultime interpretazioni di Nietzsche, in Penzo G., a cura di, Nietzsche contemporaneo o inattuale?, cit., pp. 38-68, p. 41). Il testo di riferimento è: Nietzsche Fr., Der Wille zur Macht. Versuch einer Umwerthung aller Werthe (1901); poi a cura di Gast e E. Nietzsche 1906² e, riveduta da Weiss, 1911³. Ormai è comunque definitivamente acquisito che tale opera, di per sé, non esiste, in quanto Nietzsche si limitò a predisporne il progetto, decidendo però in seguito di farne rifluire gli appunti preparatori in altri libri a cui stava lavorando, quali il Crepuscolo degli idoli e L’anticristo (cfr. Montinari M., «La volonté de puissance» n’existe pas, Paris, Éditions de l’éclat, 1996, a cura e con postfazione di P. D’Iorio). Il testo redatto da Gast e da E. Nietzsche in Italia ha avuto diverse traduzioni. Una prima del 1922, presso la casa editrice Isis di Milano e poi, quella più diffusa di Treves: La volontà di potenza, Monnanni, Milano, 1927. Tra le sue ultime edizioni italiane, faremo riferimento a quella curata da Ferraris e Kobau e condotta a partire dalla traduzione di Treves: Nietzsche Fr., La volontà di potenza. Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche. Nuova edizione italiana a cura di Maurizio Ferraris e Pietro Kobau, Bompiani, Milano, 1992. Più di recente, infatti, il testo è stato riproposto a cura di Brianese, che mantiene però la numerazione originale dei 372 frammenti attribuita loro da Nietzsche stesso, affiancata da quella disposta da Colli e Montinari (e sulla cui traduzione dei frammenti, ad opera di Giametta, si basa), differenziandosi dunque dalla versione curata da Gast e da E. Nietzsche su cui generalmente hanno lavorato gli interpreti prima che fosse disponibile la versione Colli-Montinari (cfr. Nietzsche Fr., La volontà di potenza. Edizione a cura di Giorgio Brianese, Mimesis, Milano, 2006).

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progressista5, sulla scorta di un importante saggio di Cacciari6 il discorso si è concentrato sulla sostanziale impoliticità del suo pensiero che, di certo, ne ha ben colto e svelato l’anima più solida e profonda. Nella riflessione nietzscheana sulla politica è possibile rinvenire i tratti propri di un orientamento impolitico laddove l’“impolitico” venga inteso, come spiega Esposito (richiamando anche il saggio di Cacciari), alla stregua del «politico guardato dal suo confine esterno. È la sua determinazione, nel senso letterale che ne profila i termini (coincidenti con l’intera realtà dei rapporti tra gli uomini)». L’impolitico non sarà dunque da intendersi banalmente in termini di “antipolitica”, come qualcosa di «diverso dal politico», come anelito alla spoliticizzazione, ma come approccio al «politico stesso guardato 5. Il primo posizionamento ideologico di Nietzsche “a destra” è stato infatti messo seriamente in discussione, nel secondo dopoguerra, a partire dagli anni Sessanta, ad opera di attenti interpreti francesi, interessati a “evadere” dalla dialettica hegeliana e dai confini dello strutturalismo (Bataille, Deleuze, Derrida, Foucault…), tedeschi (Marcuse, Bloch…), e italiani (Colli, Montinari, Banfi, Paci, Cacciari, Campioni…), per poi coinvolgere la quasi totalità della Nietzsche-Renaissance, impegnata nell’opera di “denazificazione” del pensiero nietzscheano e volta ad approfondire “da sinistra” la sua severa critica della società borghese. In particolare, la ricezione italiana di Nietzsche si muove proprio in una atmosfera progressista: «la trascrizione dei motivi nietzscheani all’interno di ipotesi politiche avviene in Italia pressoché esclusivamente a sinistra: superata la posizione “accusatoria” di Lukàcs, l’orizzonte in cui si colloca l’interrogazione di Nietzsche è quello di un heideggerismo contaminato con sollecitazioni marxiste, la cui provenienza più significativa è dalla Scuola di Francoforte» (Bonesio L., Politico o inattuale? Interpretazioni italiane di Nietzsche 1970-1979, in Penzo G., a cura di, Nietzsche contemporaneo o inattuale?, cit., pp. 69-79, p. 68). Per una rassegna delle principali interpretazioni politiche di Nietzsche cfr. anche Ferrari Zumbini M., Nietzsche: storia di un processo politico. Dal nazismo alla globalizzazione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2011. 6. Cfr. Cacciari M., L’impolitico nietzschiano, in Nietzsche Fr., Il libro del filosofo, Savelli, Roma, 1978, pp. 105-120.

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da un angolo di rifrazione che lo “misura” a ciò che esso non è né può essere. Al suo impossibile». In tal modo «si deve dire che l’impolitico non si divide dal politico – ma condivide il suo medesimo spazio», uno spazio interstiziale, di confine, in cui l’impolitico si rivolge all’origine del politico e la presenta nella sua irrappresentabilità: «l’impolitico non è altro che la enunciazione di questa irrappresentabilità»7. Attraverso la riconduzione di Nietzsche nel cono di luce del pensiero impolitico, si è così resa giustizia del suo sostanziale atteggiamento verso la politica, soprattutto laddove essa assume i toni ultimi di una «grande politica» (Großpolitik). Anche da un punto di vista specificamente storiografico, appare dunque tutto da motivare un ulteriore “ritorno” politico a Nietzsche. Senza contare, inoltre, che tale “ritorno” ha di mira un orizzonte espressamente democratico, e che della democrazia il filosofo di Röcken è considerato uno degli avversari più radicali.

1. Elementi La politica diviene per Nietzsche oggetto di riflessione all’interno del quadro più generale di verifica delle possibilità concrete di sviluppo e affermazione dell’individuo. In questo senso, egli si orienta in ambito politico conducendo la sua analisi su due piani diversi del discorso, due piani distinti ma tra loro interconnessi e complementari: quello storico-fattuale, e quello teorico-ideale. Traendo spunto da riferimenti discontinui alla situazione del suo tempo, caratterizzata dal diffondersi del Sozialismus e dallo strutturarsi della democrazia in 7. Esposito R., Categorie dell’impolitico, Il Mulino, Bologna, 1999², pp. XXI e XXVII.

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Europa (con un’attenzione peculiare, perlomeno fino al 1881, a quanto accade nello Stato bismarckiano), se per un verso egli contesta aspramente l’indisponibilità “programmatica” del socialismo a perseguire il raggiungimento della pienezza degli individui, dall’altro rileva invece che, quantomeno a livello ideale, «la democrazia vuole creare e garantire indipendenza per il maggior numero possibile di persone», da intendersi come «indipendenza di opinioni, di vita e di guadagno»8, anche se ciò, tuttavia, a suo dire, non avviene e non può avvenire in seno alle istituzioni democratiche esistenti. Facendo reagire tale duplicità di piani, e senza mai lenire e attenuare la propria ostilità verso il socialismo, Nietzsche si sofferma così a più riprese sullo iato che intercorre tra l’«idea democratica»9 e la sua effettiva concretizzazione nelle forme che va assumendo negli Stati europei, indirizzando pertanto una critica serrata verso la democrazia storica a lui contemporanea, alla quale egli contrappone una «democrazia» da concepirsi come «qualcosa di futuro»10: una democrazia capace di determinare e salvaguardare l’«indipendenza» degli individui, che costituisce uno dei punti tanto singolari e innovativi, quanto poco chiari, della sua visione “profetica” del destino dell’Occidente. A rimarcare questa differenza di obiettivo polemico tra democrazia “realizzata” e democrazia “ideale” è, tra i tanti,

8. Nietzsche Fr., Menschliches, Allzumenschliches. Ein Buch für freie Geister (1878); tr. it. in 2 volumi: 1) Umano, troppo umano, I. Frammenti postumi (1876-1878), «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. IV, tomo II, Adelphi, Milano, 1965, pp. 3-305; 2) Umano, troppo umano, II. Frammenti postumi (1878-1879), «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. IV, tomo III, Adelphi, Milano, 1967, pp. 3-267 (la citazione è tratta dal vol. 2, parte seconda, n. 293, p. 252). 9. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 472, pp. 259-260. 10. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 293, p. 252.

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Derrida, il quale sottolinea che «vi è un altro pensiero della democrazia in Nietzsche che, simultaneamente, si dirige contro la totalità dominante della sua critica», in quanto «la critica della democrazia di Nietzsche» non riguarda «la democrazia in generale», poiché egli isola «alcuni tratti particolari della democrazia, per come era nel suo tempo; in altre parole mette a fuoco una forma altamente determinata di democrazia», che quindi contesta «in nome» di una «democrazia a venire (démocratie á venir) che è un concetto di democrazia piuttosto differente da quello criticato da Nietzsche»11. Ne consegue che è un approccio poco attento quello che considera Nietzsche «un nemico della democrazia in generale. Coloro che sostengono questo, si spingono affrettatamente troppo lontano; sono coloro che hanno una scarsa comprensione della responsabilità, della complessità dell’etico e del politico; sono quelli che appiattiscono il futuro. Nietzsche avrà sempre la meglio su di loro»12. Più che di stabilire manualistiche schematizzazioni, si tratterà allora di insistere «attraverso il testo» di Nietzsche su «quei motivi critici e genealogici che

11. Cfr. Derrida J. and Beardsworth R., Nietzsche and the machine, in “Journal of Nietzsche Studies”, n. 7, Futures of Nietzsche: Affirmation and Aporia, Spring 1994, pp. 7-66; tr. it. Derrida J., Nietzsche e la macchina. Intervista con Richard Beardsworth, Mimesis, Milano-Udine, 2010, pp. 5253. Si tratta di una intervista rilasciata nell’autunno del ’93, che rimanda a quanto espresso da Derrida nel suo Spettri di Marx dello stesso anno (cfr. Derrida J., Spectres de Marx. L’État de la dette, le travail du deuil et la nouvelle Internazionale, Paris, Galilée, 1993; tr. it. Spettri di Marx. Stato del debito, lavoro del lutto e nuova Internazionale, Milano, Cortina, 1994), così come richiama l’indisponibilità del filosofo francese ad inquadrare il pensiero di Nietzsche in seno a dinamiche nazionalsocialiste, come egli aveva già chiarito nel suo Otobiographies del 1984 (cfr. Derrida J., Otobiographies, Galilée, Paris, 1984; tr. it. Otobiografie, l’insegnamento di Nietzsche e la politica del nome proprio, Il poligrafo, Padova, 1993). 12. Derrida J., Nietzsche e la macchina, cit., p. 53.

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fanno appello ad una democrazia a venire»13, come rinvio ad una «nozione di democrazia i cui legami non sono più quelli desumibili dal concetto di democrazia, per come tale concetto è nato e si è sviluppato nella storia dell’Occidente»14, poiché essa «dischiude una nozione di democrazia che, pur avendo qualcosa in comune con ciò che intendiamo con democrazia oggi, specialmente in Occidente, non è riducibile né alla realtà contemporanea della “democrazia” né all’ideale di democrazia che informa questa realtà o fatto»15. Il rimando a una democrazia da intendersi come «qualcosa di futuro» rappresenta una indicazione la cui importanza non è dunque sfuggita agli interpreti, sebbene risulti marginalizzato rispetto al più esteso interesse per altri aspetti delle riflessioni politiche di Nietzsche, tra cui appunto la critica della democrazia storica e la condanna del socialismo, ma anche la disamina dello Stato, la «grande politica» e le “presunte” appartenenze politiche nietzscheane. In particolare, proprio quest’ultimo punto, il serrato dibattito intorno al posizionamento politico di Nietzsche, ha concluso perlopiù per inglobare in sé il riferimento alla democrazia del «futuro», finendo per inquadrarlo, sommariamente, nella più generale avversione del filosofo per la democrazia realizzata, e velarne così la peculiarità e l’originalità rispetto alla storia stessa del concetto occidentale di “democrazia”. Ci si trova pertanto di fronte ad una indicazione rilevante che lascia ancora aperti margini di riflessione interni al discorso nietzscheano e che, inoltre, oggi si ripropone al discorso filosofico in base agli stimoli del presente politico globalizzato, permeato da una profonda trasformazione dei presupposti democratici.

13. Ibidem. 14. Ivi, p. 59. 15. Ivi, p. 53.

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Muovendo, pertanto, dall’assunto della natura impolitica del pensiero di Nietzsche, l’intento di fondo di questo lavoro è quello di provare a riflettere sulla sua “profezia” di una democrazia come «qualcosa di futuro», con l’obiettivo di indagarne la natura secondo una prospettiva che affonda le radici nella più ampia meditazione speculativa nietzscheana, da cui uno studio sulla sua visione (im)politica non può, quindi, non trarre inizio. Il tutto, inoltre, al fine di riattivare in essa alcune risorse che potrebbero rivelarsi produttive a riguardo di specifiche problematiche dell’attuale universo di discussione politica e filosofica in genere. In particolare, tra i temi di riflessione che oggi reclamano alla filosofia politica un’attenzione mirata, si distinguono sia le conseguenze della deriva contemporanea della democrazia in termini di massificazione, dovuta alla dilagante uniformazione delle individualità, sia l’analisi del rapporto idea-dato politico, laddove il venir meno della forza prescrittiva (nonché dell’intrinseca legittimità e validità) delle ideologie problematizza la definizione stessa del factum politico. Riguardo al primo tema, in seno ad un discorso in cui decisa è la ripresa di suggestioni intersoggettive e comunitarie16, si evidenzia e si segnala sempre più l’insorgere di un’anomalia interna all’ambito democratico, nel prospettarsi della

16. Il riferimento è al pensiero di Nancy, che della ripresa di temi comunitari in ambito filosofico-politico è un indiscusso protagonista. Senza tralasciare gli apporti di Esposito, Blanchot, Rancière, Derrida, Cacciari, Marramao, Agamben e altri, è infatti a Nancy che si deve attribuire il merito di aver riproposto, rivisitandolo, il tema della “comunità” all’attenzione della sfera filosofica internazionale (cfr. Nancy J.-L., La communauté désoeuvrée, Christian Bourgois Editeur, Paris, 1986; tr. it., La comunità inoperosa, Cronopio, Napoli, 1992, 2002². Per una analisi del pensiero di Nancy, ci sia consentito rimandare al nostro: Comerci N., Trascendenza, senso, politica. Verso JeanLuc Nancy, in Comerci N., a cura di, L’enigma della trascendenza. Riflessi etico-politici dell’alterità, Editori Riuniti, Roma, 2006, pp. 13-105).

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possibilità concreta di un livellamento generale delle coscienze e della relativa azione di omogeneizzazione degli uomini, che determina la conseguenza di generare una massa di “individui” rinchiusi nel proprio egoismo e non interessati al destino comune, in quanto incapaci di rinvenire in esso collegamenti con il proprio destino. Ad affievolirsi è la differenza a favore dell’indifferenziazione, in modo che a venir meno è la peculiarità del singolo nella sua specificità, che finisce per declinarsi in termini di indeterminazione e indistinzione e che, in ambito politico sfocia, appunto, in livellamento e in massificazione. Da questo «disagio della democrazia», diffuso dal «progressivo restringimento degli spazi civili e degli orizzonti vitali»17, trae origine per il singolo l’esigenza di riaffermare la propria specificità in termini di interesse individuale, senza un riferimento alla situazione generale, di cui non riesce a cogliere il legame con quella personale. Ne risulta una società appiattita e parcellizzata, rinchiusa nel particolare e ben distante dall’interesse comune, che addirittura finisce per essere considerato impedimento a quello singolare, in quanto orientato sull’eguaglianza formale ma impegnato a costruire diseguaglianze reali. Si tratta di un’anomalia dovuta alla trasformazione dell’orizzonte fondativo della democrazia, il concetto di “eguaglianza” che, declinato sempre più come «equivalenza», ha finito per abbandonare l’originario significato di «inequivalenza», come valorizzazione della irriducibile singolarità dell’individuo nella sua partecipazione attiva all’interesse generale. Singolarità che, per reazione, ha come unico modo di riaffermarsi l’egoismo particolare, anche a discapito del bene collettivo18.

17. Cfr. Galli C., Il disagio della democrazia, Einaudi, Torino, 2011. 18. Nancy rileva come «il mondo democratico ha avuto il suo sviluppo nel contesto […] dell’equivalenza generale», che è il modo in cui è stato declinato il concetto di “eguaglianza”, nel senso di una «equivalenza» che

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Per quanto concerne, invece, il secondo ambito indicato, lo sfumare progressivo e inarrestabile della forza prescrittiva delle ideologie del Novecento mette in questione l’analisi del “dato politico” e la stessa possibilità di definirlo come tale, in rapporto ad un suo legame con una prospettiva ideale/ideologica. Uno dei temi più significativi che contraddistingue la riflessione filosofico-politica contemporanea, fino a rappresentarne forse l’orizzonte di fondo, è infatti quello della cosiddetta “crisi dei valori”, come segno dell’abbandono della si manifesta in un quadro che comprende «fini, mezzi, valori, sensi, azioni, opere e persone», considerati «tutti interscambiabili, perché tutti ricondotti a niente che li possa distinguere, tutti rapportati a uno scambio che, ben lungi dall’essere una “partizione” nel senso ricco di questa parola, non è altro che sostituzione dei ruoli o scambio dei posti». Partendo dall’idea di “eguaglianza” come identica possibilità di accesso alle risorse, un uso parziale e interessato della democrazia ne ha trasformato l’originario significato egualitario in termini di intercambiabilità dei valori e delle persone, in un senso cioè che la massificazione propria del Novecento ha poi modificato in uniformità indiscriminata, e che i recenti mezzi di comunicazione (Sartori parla del costituirsi di una vera e propria «videocrazia»: cfr. Sartori G., Homo videns, Laterza, Roma-Bari, 1999) hanno interpretato come disponibilità al controllo, se non al dominio, oclocratico. Sarà dunque dal riproporre un paradigma dell’«inequivalenza» che la democrazia dovrà ripartire, se vorrà essere veramente tale: «il destino della democrazia è legato alla possibilità di una trasformazione del paradigma dell’equivalenza. Introdurre una nuova inequivalenza che, ovviamente, non sia quella del dominio economico (il cui fondamento resta l’equivalenza), quella dei feudi e delle aristocrazie, né quella dei regimi dell’elezione divina e della salvezza, e neppure quella delle spiritualità, degli eroismi e degli estetismi, questa è la sfida». Una inequivalenza che non significa dunque recrudescenza di differenze economiche, di casta o di sangue, bensì un paradigma esistenziale che mira, ogni volta «all’affermazione di un “valore” – o di un “senso” – unico, incomparabile, insostituibile». Unico, incomparabile, insostituibile come ogni uomo è e deve essere considerato, in quanto «ognuno – ogni “uno” singolare di uno, di due, di molti, di un popolo – è unico di unicità, di una singolarità che obbliga infinitamente e si obbliga a essere messa in atto, in opera, e in lavoro» (cfr. Nancy J.-L., Vérité de la democratie, Éditions Galilée, Paris, 2008; tr. it. Verità della democrazia, Cronopio, Napoli, 2009, pp. 47-51).

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trascendenza a favore della sua immanentizzazione in termini di pratiche quotidiane19. Si tratta, come è noto, di una tesi ampiamente e largamente argomentata da più parti, dunque di una convinzione diffusa, insomma di un tema proprio del nostro tempo. In sostanza, la riflessione sulle capacità di trascendenza20 della ragione si interseca con la più ampia riflessione sulla dicotomia trascendenza-immanenza, in un momento in cui il venir meno del presupposto ideologico trascendente, e la conseguente erosione di prospettive teleologiche, apre lo spazio ad un agire strategico post-ideologico orientato e confinato all’immanenza del quotidiano. A partire da questi elementi, l’orizzonte generale su cui si staglia il presente lavoro risulta dall’idea che, andando oltre ogni specializzazione novecentesca, tali problematiche affondino le loro radici in ambiti filosofici più estesi della loro valenza strictu sensu politica. Entrambe le tematiche richiamano infatti questioni filosofiche che trovano nella Krisis contemporanea della ragione e delle sue categorie il loro fulcro nevralgico. Krisis di cui Nietzsche è stato il primo indiscusso “profeta” e teorico, e ciò di per sé già motiva e sollecita una «ri-cognizione»21 di alcuni tratti fondanti del suo itinerario di pensiero, con l’obiettivo di rinvenire in esso prospettive di 19. «I valori sono andati in soffitta. Valori che più che essere comunisti erano valori universali, di cui non c’era niente da vergognarsi. Ma oggi tutto è tattica, gestione del quotidiano, pura amministrazione del potere» (Prospero M.– Gritti R., Modernità senza tradizione. Il male oscuro dei democratici di Sinistra, Piero Manni, Lecce, 2000, p. 62). 20. Per una rivisitazione (anche in chiave politica) del concetto di “trascendenza”, ci sia consentito rimandare ai saggi contenuti in Comerci N. (a cura di), L’enigma della trascendenza. Riflessi etico-politici dell’alterità, cit. 21. «“Ricognizione” vale innanzi tutto come “ri-cognizione”, “conoscenza ulteriore”, “rivisitazione”, “riflessione su qualcosa che già si conosce”» (Garroni E., Ricognizione della semiotica. Tre lezioni di Emilio Garroni, Officina Edizioni, Roma, 1977, p. 7).

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ricerca ancora percorribili. Il coinvolgimento di una filosofia non espressamente politica come quella nietzscheana nasce, pertanto, in prima istanza, dal rimando di tali tematiche politiche ad istanze filosofiche che coinvolgono le possibilità del pensiero come tale. Possibilità su cui, forse più di ogni altro, Nietzsche ha riflettuto. Ma entrando nel merito delle due problematiche richiamate, in un momento in cui emerge fortemente la crisi della singolarità individuale, appare naturale rivolgersi a chi, del singolo e dei suoi diritti si è posto (anche più di Kierkegaard22) come strenuo difensore. La visione nietzscheana della «volontà di potenza» come autoimplementazione o “sopraelevazione” (Überhöhung) della singolarità, nel segno dell’affermazione continua della propria autoeccedenza, rappresenta una via imprescindibile per ridefinire la valorizzazione della differenza irriducibile tra gli individui, andando ben oltre ogni anelito ingenuamente egualitario23 e meramente utilitaristico perseguito nella massificazione. Ciò appare proficuo in sede democratica perché è proprio lo stesso Nietzsche, ripetiamolo, a indicare come fine dell’«idea democratica» la difesa dell’«indipendenza per il maggior numero possibile di persone», e dunque la valorizzazione della loro differenza. Non a caso,

22. Sulla tematica del “singolo” in Kierkegaard ci sia consentito rimandare al nostro: Sul soggetto morale. A partire da S. Kierkegaard, in «Mneme Ammentos», I, n.1, Luglio-Dicembre 2005, pp. 141-170. 23. «Nietzsche aveva capito che l’irresistibile fenomeno conduttore in arrivo nella cultura di domani, sarebbe stata l’esigenza di distinguersi dalla massa. Aveva presente fin dal principio che la sostanza di cui si sarebbe composto il futuro poteva essere trovata nella richiesta dei singoli di essere diversi e migliori rispetto agli altri e, proprio in questo, tutti uguali» (Sloterdijk P., Über die Verbesserung der guten Nachricht. Nietzsches fünftes «Evangelium», Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2000; tr. it. Il quinto «Vangelo» di Nietzsche. Sulla correzione delle buone notizie, Mimesis, Milano-Udine, 2015, p. 58).

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nota Nancy, «è un compito di distinzione che l’esigenza democratica ci mette di fronte», in modo che, per sottrarci alle secche del nichilismo, oggi «abbiamo bisogno di questo apparente ossimoro: una democrazia nietzscheana»24. Et pourtant, senza voler indirizzare il pensiero di Nietzsche verso orizzonti che non ha contemplato, e senza voler far assumere ad esso connotazioni che non può assumere, l’obiettivo di questo lavoro è verificare le condizioni di possibilità di tale «apparente ossimoro», interrogando la nietzscheana visione impolitica della democrazia come «qualcosa di futuro» attraverso una preliminare indagine delle coordinate concettuali e dei paradigmi filosofici che soggiacciono a tale visione ideale, con un’attenzione specifica al moto di affermazione della singolarità interno alla volontà di potenza. In questo senso, l’intento di “attualizzazione” dell’universo nietzscheano in chiave democratica si accompagnerà qui non all’obiettivo di ricondurre e inquadrare la sua riflessione nell’alveo di tale sfera politica o di altre possibili25, bensì al tentativo di “riattivare”, sulla spinta del presente, alcuni elementi teoretici che lasciano ancora aperti margini di sviluppo e approfondimento in chiave politica e democratica. Che significa, d’altro canto, accogliere l’invito di Nietzsche stesso a guardare al passato ricercando in esso ciò che è stato confinato ai margini di un percorso esegetico consolidato per valutare se, nel ripetersi nel presente di condizioni vitali simili, esso riveli possibilità

24. Nancy J.-L., Verità della democrazia, cit., p. 45. 25. L’adozione di un’ottica impolitica vanifica infatti ogni riconduzione della filosofia nietzscheana ad alcuna categoria politica codificata. Fin da ora anticipiamo quindi che non sarà obiettivo di queste pagine prendere parte al dibattito intorno al posizionamento destra/sinistra della sua filosofia che ha, comprensibilmente, impegnato i critici soprattutto nella seconda metà del secolo appena trascorso (cfr., ad es., Livorsi F., Nietzsche, Franco Angeli, Milano, 1985).

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inespresse che si tratta di «coniare di nuovo»26, appunto di “riattivare” in un rinnovato legame con la vita e «con la massima forza del presente»27, secondo il principio che «conoscere storicamente» comporta lo «sperimentare nuovamente»28.

26. Nietzsche Fr., Unzeitgemässe Betrachtungen I-IV, 1873-1876; tr. it. in 2 volumi: 1) Considerazioni inattuali, I-III, in Id., La nascita della tragedia, Considerazioni inattuali I-III, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. III, tomo I, Adelphi, Milano, 1982, pp. 165-457; 2) Considerazioni inattuali IV (Richard Wagner a Bayreuth), in Id., Considerazioni inattuali, IV (Richard Wagner a Bayreuth). Frammenti postumi (1875-1876), «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. IV, tomo I, Adelphi, Milano, 1967, pp. 3-80. La citazione è tratta da Considerazioni inattuali, I-III, cit., p. 311. 27. Ibidem. 28. Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1869-1874; tr. it. Frammenti postumi 1869-1874, «Opere di Friedrich Nietzsche», Adelphi, Milano, 1989, vol. III, tomo III, parte I, n. 7 [185], p. 216. La metodologia che qui si intende adottare prevede la modulazione del “pensare” nel “domandare” e nell’“interrogare”: nello specifico, dell’interrogare ciò che è già stato da Nietzsche stesso interrogato, e su cui anche oggi ci si continua ad interrogare. La strada che si seguirà tuttavia sarà diversa dalla semplice “interrogazione attualizzante”, poiché non si tratterà qui di porre domande “al passato”, seppur così recente, per ricercare risposte valide “per il presente” bensì, seguendo il monito heideggeriano («la storia della filosofia non è affare della storiografia, ma della filosofia») il parametro sarà quello di provare a interrogare filosoficamente l’interrogazione filosofica di Nietzsche alla luce delle domande di oggi che dalla sua domanda traggono origine. E poiché, spiega sempre Heidegger, «in quanto domanda, ogni domanda, e a maggior ragione la sola domanda della filosofia, mette sempre subito anche se stessa nella chiarezza che produce» (Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 374), il nostro interrogare sarà rivolto, in fin dei conti, alla nostra interrogazione, mediante una torsione verso il luogo in cui essa ha tratto origine, l’interrogazione di Nietzsche, appunto. Pensare oggi il pensiero di Nietzsche senza “destoricizzarlo” o, al contrario, riportarlo al da lui tanto odiato Historismus, nella duplicità relativistico-teleologica dei suoi versanti, comporta il far reagire l’interrogazione del nostro tempo con il luogo in cui tale interrogazione ha avuto essenzialmente inizio, la sua riflessione, individuando tra esse un legame che però non sottende una semplice filiazione, bensì ne dichiara una comunanza vitale, esistenziale e tematica.

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E la “vitalità” di una «democrazia nietzscheana» emerge laddove si guardi alla situazione contemporanea dell’orizzonte democratico e non ci si nasconda che, insiste Derrida, «in tutto il mondo vi è oggi un’ispirazione ad un legame fra singolarità» nel segno di una comune «protesta contro la cittadinanza, una protesta contro l’esser membri di una configurazione politica in quanto tale», nello specifico quella dello «stato-nazione», come reinterpretazione in chiave moderna del nesso originario che lega la democrazia al «vecchio concetto di politeia, al topos della polis»29. È opportuno così mantenere ben in vista le implicazioni dell’analisi che qui si intende condurre, in quanto Nietzsche aveva già individuato tali sviluppi della democrazia, sebbene non avesse potuto, ovviamente, scorgere le conseguenze della contemporanea globalizzazione. Come ha mostrato Cacciari infatti, proprio il riconoscimento estremo dei diritti politici della molteplicità dei cittadini, che costituisce l’«assolutizzazione del “politico”» offerta dalla democrazia mediante il relativo scardinarsi dei «rapporti di subordinazione» verso lo Stato, conduce Nietzsche a discutere l’idea stessa di Stato, poiché «la “politicizzazione totale” accresce l’entropia del sistema» in modo che l’impolitico nietzschiano andrà a coincidere con «il riconoscimento della avvenuta perfezione del politico»30 come compiuta partecipazione della società alla politica, che conclude però con una certa “impossibilità” della politica nello Stato. Il discorso si ripercuote sulla struttura del “soggetto” e sull’insieme di presupposti concettuali a cui esso

La vicinanza tra la filosofia del suo e del nostro tempo, entrambe rivolte ai problemi di sempre, è motivata da un’appartenenza umana e destinale che Nietzsche stesso ha svelato nel riconoscere la propria strutturale “inattualità profetica”, che muove ad un confronto tra le due interpretazioni ai fini della chiarificazione, dell’approfondimento e dello sviluppo di entrambe. 29. Derrida J., Nietzsche e la macchina, cit., pp. 59-60. 30. Cacciari M., L’impolitico nietzschiano, cit., pp. 113-115.

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rimanda, come elemento nodale di una costellazione categoriale che non può non risentire dell’onda d’urto generata da una sua problematizzazione teoretica. Sarà allora necessario compiere un passo indietro, operare “genealogicamente” per indagare il luogo in cui il soggetto è stato messo in questione ben prima della Verwindung antisoggettiva novecentesca e dunque, ancora, proprio nella filosofia di Nietzsche. La «politicizzazione totale» presuppone infatti soggetti preliminarmente definiti che si relazionano, mentre una ri-cognizione del pensiero nietzscheano mostrerà come non se ne debba ipotizzare la sussistenza prima della loro relazione, in quanto essi divengono tali nella relazione e grazie alla loro relazione, secondo una dinamica che non raggiunge comunque mai un punto ultimo e conclusivo di definizione individuale. Ne deriverà una visione aperta sia della “soggettività” nietzscheana, sia della singolarità in quanto tale, come ininterrotta esposizione relazionale all’alterità. Una dinamica relazionale di cui il soggetto ne è come attestazione della sua più generale appartenenza alla vita, di cui la relazione, secondo Nietzsche, costituisce la struttura ultima, fino ad identificarsi con essa. In questo modo, sarà necessario ripercorrere il suo cammino filosofico seguendo un itinerario ricostruttivo della sua critica genealogica ai presupposti della ragione individuando, come sentiero-guida per attraversare l’impervio territorio delle sue riflessioni, una sorta di “pensiero della relazione”, nella duplicità dei suoi versanti: come pensiero che non si distacca dalla relazione oggettiva da cui si origina e a cui appartiene (“pensiero della relazione”) e, in questo senso, come pensiero che pensa la relazione (“pensiero della relazione”). Egli impone infatti alla filosofia un pensiero non semplice da interpretare per la ragione avvezza ai dettami della metafisica. Un “pensiero della relazione” che si propone di pensare la relazione a partire dalla relazionalità intrinseca del reale, di cui non cessa di esserne a favore della sostanza, né

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tantomeno sorge in opposizione dialettica ad essa. In più, “un” pensiero della relazione che, sebbene sia cosciente che è soltanto attraverso “un” pensiero della relazione che la relazione oggettiva può essere pensata, rifugge tuttavia la tentazione di porsi come “il” pensiero della relazione, che pertanto si penserebbe attraverso “un” pensiero della relazione. È dunque “un” pensiero che certifica, nel riconoscerlo, il proprio limite, nella consapevolezza di non poter essere altrimenti, nell’impossibilità cioè di porsi come nient’altro che “un” pensiero della relazione. Un pensiero finito che, comunque, nell’averne coscienza, in qualche modo tenta di prendere le distanze da tale finitudine, pur permanendo in essa. Si tratta così di un pensiero per certi versi “interno” ed “esterno” a se stesso, in quanto nel pensare, e tramite il pensare, prende atto che sta pensando e mette in questione gli strumenti a cui ricorre per pensare cercando, per quanto gli è possibile, di sottrarsi al loro condizionamento. Un pensiero della relazione che dalla più generale analisi del mondo inorganico e organico giunge ad affrontare la socialità umana in seno alla politica, di cui la relazione costituisce l’elemento vitale fondante, ma che proprio nella politica viene a perdersi poiché sacrificato alle esigenze ri(con)duttive della ragione. Osservata da un punto di vista nietzscheano, la politica non porta avanti il proposito della modernità di costruire razionalmente una società fondata sull’eguaglianza generalizzata, in modo che non si rende necessaria la neutralizzazione del conflitto intrinseco alla realtà di cui la volontà di potenza certifica il carattere relazionale e contrastivo, che dal mondo sensibile giunge a quello umano. La politica non ha infatti il compito di sopprimere tale conflittualità propria della vita e intrinseca alla natura plurale e molteplice del reale, ciò che la modernità non riesce a pensare, bensì di accompagnarla e renderne conto nel pensiero senza lenirne la potenza creatrice, ma anzi riconoscendone la fecondità speculativa e soste-

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nendone la produttività vitale31. L’obiettivo diverrà così quello di indagare il legame che intercorre per Nietzsche tra la vita e ciò che i francesi definiscono «le politique»32, ad indicare e distinguere quanto della politica, nella politica e dalla politica arretra, si ritrae nel suo stesso esporsi: la relazione, il conflitto, il rimando, il rinvio. Per quanto concerne il secondo ambito problematico rilevato, “ritornare a Nietzsche” appare oggi, a causa dell’attenuarsi della vis prescrittiva delle ideologie, come una strada percorribile per affrontare la delicata questione dell’analisi del “dato politico”, e della stessa possibilità di definirlo tale, in riferimento ad un suo legame con una prospettiva ideale/ideologica. Tanto più che la cosiddetta “crisi dei valori”, come sintomo generale dell’abbandono della trascendenza a favore della sua immanentizzazione in termini di agire quotidiano, costituisce un tema che sottende una domanda, una interrogazione generale sui valori che, in modo neanche tanto velato, a Nietzsche può esser ricondotta, quantomeno nella sua origine e nei suoi presupposti fondamentali, come deriva più generale del nichilismo33. La critica impolitica che egli muove alla politica come

31. Spiega Deleuze che «il senso della filosofia di Nietzsche è l’affermazione pura che ha come oggetto il molteplice, il divenire, il caso. L’affermazione del molteplice è la proposta speculativa mentre la gioia del diverso è la proposta pratica» (Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit., p. 223). 32. Cfr. i due volumi curati da Nancy J.-L. e Lacoue Labarthe P.: Rejouer le politique, Galilée, Paris, 1981 e Le retrait du politique, Galilée, Paris, 1983. 33. Come è noto, «ospite inquietante» Nietzsche definisce il nichilismo, il cui significato egli chiarisce in un frammento postumo dell’autunno del 1887 in cui, nel rispondere alla domanda «che cosa significa nichilismo?», egli dichiara: «che i valori supremi si svalorizzano» (Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1887-1888; tr. it. Frammenti postumi 1887-1888, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VIII, tomo II, Adelphi, Milano,1990³, n. 9 [35], p. 12). Passo che Volpi commenta dicendo che si crea una «situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti

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esibizione di un orizzonte valoriale estende il discorso politico all’ambito ideologico nel suo riferimento al factum politico. Sempre Cacciari spiega che «l’“impolitico” nietzschiano è la critica del “politico” in quanto affermazione di Valore», e ciò non determina il sorgere di un atteggiamento nostalgico, bensì di uno decostruttivo, volto cioè a scoprire «i fondamenti di valore» e «il discorso di valore» che strutturano il politico, e dunque conduce al riconoscimento critico «dell’essere-valore della dimensione del “politico”». Ciò non genera però il semplice «rifiuto» del politico (come vorrebbe Mann), ma sfocia nel «riconoscimento del suo intrinseco nihilismo»34. Ora, per Nietzsche non si tratta semplicisticamente di prendere congedo da una escatologia te(le)ologica basata sulla distinzione tra Bene e Potere, tra trascendenza e immanenza, tra fine e azione. L’elisione del riferimento trascendente non conclude con una mera assolutizzazione dell’immanenza (come, in definitiva, ritiene Jaspers35), in quanto la dottrina dell’«eterno ritorno dell’uguale», nell’apertura all’eterno offerta dall’istante, rielabora la scissione trascendente/ immanente dell’azione secondo una dinamica che supera le categorie del soggetto e della parzialità dell’agire rivolto ad uno scopo, e apre così ad una visione dell’immanenza che

tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al “perché?” e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo» (Volpi F., Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 4). 34. Cacciari M., L’impolitico nietzschiano, cit., pp. 110-111. 35. Jaspers spiega che per Nietzsche è importante chiarire come «l’origine della conoscenza filosofica risieda non già nella riflessione su un semplice oggetto o nella ricerca di una cosa, bensì nell’unità di pensiero e vita, in modo che il pensiero scaturisca dall’intima, sofferta e totale partecipazione dell’uomo: questo è per l’autocoscienza di Nietzsche l’autentico carattere della sua verità» (Jaspers K., Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, cit., p. 348).

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si autotrascende continuamente al proprio interno, senza peraltro riferirsi a una dinamica teleologica (come, finemente, chiarisce Bataille36). Viene pertanto rielaborato il confine dicotomico immanenza-trascendenza, in modo che una visione dell’«eterno ritorno» inteso in chiave transimmanente, nel suo legame con una concezione oltremetafisica della volontà di potenza, può fornire indicazioni preziose per la filosofia politica e per la filosofia in genere riguardo alle modalità di “interpretare” il factum (anche) politico e, di rimando, di interpretare anche se stessa nell’atto di interpretarlo. Ci si trova così di fronte a problematiche più estese del mero riferimento politico, che coinvolgono le pretese della ragione nella sua totalità. Ciò motiva una conversione dello sguardo filosofico su se stesso, sui propri parametri di conoscenza e sulle categorie di cui dispone per conoscere, che vengono reimpostate al fine di sottrarle alle dinamiche “concilianti” e totalizzanti dell’Idea, al fine di renderle capaci di rapportarsi alla molteplicità diveniente e caotica dell’immediato, evitando le seduzioni ri(con)duttive dell’Unità concettuale. E proprio l’intera esperienza filosofica di Nietzsche testimonia un tenace e paziente assedio genealogico alla roccaforte della ragione, senza che ciò determini alcuna indulgenza verso l’irrazionalismo, come è ormai acquisito37. Prendendo le mosse dalla 36. Cfr. Bataille G., Sur Nietzsche, Gallimard, Paris, 1945; tr. it. Nietzsche. Il culmine e il possibile, Rizzoli, Milano, 1970, pp. 21-34. 37. «Il termine “irrazionale” fallisce totalmente nel venire a patti con il “metodo” della genealogia. […] Agli occhi di Nietzsche, la genealogia è un tentativo di dar conto della storia della ragione. Possono esservi problemi con tale conto, talvolta può procedere troppo velocemente, ma come tale la genealogia inscrive se stessa nel retro della ragione; non può pertanto essere una procedura irrazionale di pensiero. Il metodo ed il proposito della genealogia precedono ed eccedono tali distinzioni, riorganizzando le identificazioni della tradizione circa ciò che è razionale e ciò che è irrazionale» (Derrida J., Nietzsche e la macchina, cit., p. 34).

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critica alla metafisica, il suo pensiero riflette sul pensare in generale, problematizzando altresì tale pretesa di pensiero particolare che si rivolge alle condizioni di possibilità del pensare in generale. Un pensiero singolare orientato verso la molteplicità diveniente della vita, e deciso a rendere conto della sua intrinseca struttura relazionale. Il risultato è una problematizzazione filosofica delle dinamiche filosofiche della filosofia, a cui il pensiero della relazione assegna il «compito» di «vedere le cose come sono», cioè di «vederle da cento occhi». Contro l’impersonalità monoteistica e nostalgica dell’Idea, il compito sarà quello di riuscire a «vedere molti prossimi e con molti occhi, tutti occhi personali»38, senza però ricadere in un semplice politeismo rappresentativo39. Il vedere «da cento occhi» dispone infatti, per la filosofia, la necessità di adottare uno sguardo ben più complesso: uno sguardo capace di rapportarsi alla molteplicità intrinseca del reale, che riconosce e a cui riconosce di appartenere nella pluralità di rimandi che lo costituiscono. Vedere «da cento occhi» significherà così prendere coscienza che ogni prospettiva singolare, se per un verso partecipa della pluralità possibile dei rinvii prospettici di cui ne è, dall’altro, e proprio per questo motivo, tende ad abitare la distanza dalla propria

38. Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1881-1882; tr. it. Frammenti postumi 1881-1882, in Id., La gaia scienza, Idilli di Messina. Frammenti postumi 1881-1882, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. V, tomo II, Adelphi, Torino, 1991², pp. 325-589, n. II [65], p. 353. 39. Rileva infatti Taddio, che «se il vedere coincidesse sic et simpliciter con il pensare, non ci sarebbe alcuna esperienza immediata e tutto l’apparire ricadrebbe entro una soggettività dove gli altri e il mondo resterebbero per il pensiero e l’analisi filosofica una “x” misteriosa e inconoscibile. L’Io resterebbe chiuso in se stesso e l’esistenza del mondo esterno non sarebbe pienamente giustificabile, se non come interpretazione soggettiva della realtà» (Taddio L., Fenomenologia eretica. Saggio sull’esperienza immediata della cosa, Mimesis, Milano, 2011, p. 28).

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particolarità, senza però cedere alla seduzione dell’universale. Uno sguardo che, come il pensiero che sottende, non perde di vista la propria finitezza, ma che mentre guarda ha coscienza che sta guardando, e non nasconde il condizionamento che subisce da ciò che ne garantisce la condizione di possibilità: prende atto del mezzo che utilizza per guardare, e dell’inevitabile costrizione che da esso gli deriva. In definitiva, uno sguardo determinato che, non potendo essere nient’altro che uno sguardo tale, mette però in questione il suo «semplice guardare» mentre guarda, dall’interno del guardare e mediante il guardare stesso40. Si tratta di un compito non facile, e Nietzsche ne è consapevole. A tal fine gli appare utile sviluppare questioni che, per essere produttive, riguardino ogni elemento isolato, come va fatto per «i singoli impulsi dell’anima», di cui poi si deve reperire la figura del «reciproco intreccio». Invece di ri(con)­ durre le Blosse Sachen a “fatti complicati”, Nietzsche ricerca gli elementi semplici del reale, le «cose prossime», quelle «più vicine di tutte», nella loro organizzazione concreta, laddove la ragione, più che rielaborare dialetticamente, riconosce la Wirklicheit come il luogo della propria origine, (Ürsprung, da intendersi come “radicamento”, Herkunft41) e del proprio destino, in modo che a venire problematizzato risulta sempre il luogo di mediazione dell’immediato, e dunque la ragione stessa nel suo rapportarsi a ciò che costitutivamente, in quanto

40. Potremmo così definire quello dei «cento occhi», mutuando l’espressione di Wittgenstein «durchschauen» (guardare-attraverso) mediata dalla riflessione di Garroni, una sorta di «sguardo-attraverso» (cfr. Garroni E., Estetica. Uno sguardo-attraverso, Garzanti, Milano, 1992, pp. 14-19). 41. Letteralmente sarebbe: “provenienza” (sul tema del “radicamento”, cfr. Semerari F., Il gioco dei limiti: l’idea di esistenza in Nietzsche, Edizioni Dedalo, Bari, 1993, pp. 40 ss.).

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“im-mediato”, si sottrae, e non può non sottrarsi, ad ogni tentativo di mediazione. È nel cono d’ombra della contemporanea Krisis della ragione che Nietzsche riflette (e che forse inaugura), e al cui interno anche noi oggi riflettiamo42. Dietro le pressanti suggestioni d’origine heideggeriana, la filosofia oggi ha definitivamente accettato che si deve parlare di “cielo e terra”, fare i conti con il pre-historico, in modo che appare opportuno ritornare nel luogo in cui tutto questo è (già) stato indagato in forma non idealistica, e cioè proprio negli scritti nietzscheani. Il tentativo sarà pertanto quello di provare a cogliere dalle parole del filosofo di Röcken lo schema operativo creatore del mondo umano, che nella sua analisi fa implodere i categoriali del «cupo oceano della metafisica»43, per ricondurli quanto più possibile all’orizzonte diffuso e riconosciuto del suo pensiero, il vero fiume carsico della sua riflessione, la “vita” nella sua finitezza,

42. Se per Vattimo è la «filosofia della vita» e la «meditazione sulla decadenza» sviluppate in seno a «quel pensiero riferito all’esistenza nella sua concretezza e storicità» nel suo legame con «il problema della verità e dell’essere», in un senso che «è anche al centro dell’attuale problematica della filosofia», a costituire «la specifica attualità teorica del pensiero nietzscheano» (Vattimo G., Introduzione a Nietzsche, cit., pp. 7-8), Mazzarella invece rimarca che è il «prospettivismo di Nietzsche, nel suo orizzonte nichilistico» a fornire «la cifra più congrua della sua presenza di pensiero nella riflessione contemporanea, il più teoreticamente “avanzato”», laddove ciò venga inteso in profondità come esposizione al nulla, nei termini della «consapevolezza dell’agitarsi nel nulla, di questo rischio immanente» (Mazzarella E., Nietzsche e il giudizio sul Cristianesimo, in Totaro F., a cura di, Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, cit., pp. 28-33, pp. 32-33). 43. Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1869-1874; tr. it. Frammenti postumi 1869-1874, «Opere di Friedrich Nietzsche», Adelphi, Milano, 1992, Vol. III, tomo III, parte II, n. 26 [6], p. 169.

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dimensione relazionale che si configura come lo sfondo della sua interrogazione, nella pluralità delle sue accezioni44. In tal guisa, da un punto di vista ricostruttivo, prima di arrivare strictu sensu alla politica, sarà necessario mettere in atto una sorta di “ermeneutica della finitezza” che consenta di risalire al legame che per Nietzsche intercorre tra mondo inorganico e mondo organico, secondo parametri di continuità garantiti dalla comune appartenenza all’orizzonte vitale: a quell’ambito primordiale relazionale da cui tutta la cultura trae origine e a cui non cessa di riferirsi. Un ambito originario che metaforicamente, e sempre a partire dalle indicazioni di Nietzsche, definiremo “mondo della palude”.

2. Itinerari Sono due i nuclei teoretici che qui si è scelto di assumere e sottoporre a prova teorica al fine di pervenire a focalizzare l’orizzonte possibile di una politica da una prospettiva nietzscheana: l’uomo nella palude e la pesantezza del pensiero della vita, come scenari del discorso in cui si incardina il tentativo di recuperare alla ragione un riferimento più diretto alla contingenza caotica del mondo, da cui trae origine e a cui non cessa di riferirsi. Ciò che vogliamo sottoporre a verifica esegetica è

44. Ora come «vita originaria che sta dietro tutti i fenomeni, ora come concetto biologico, come vita del vivente organico e, nella sua espressione più alta, come vita dell’uomo» (Mazzarella E., Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, Guida, Napoli, 2000, p. 20). Il che non implica l’assunzione di una prospettiva di ricerca di indirizzo biopolitico, già presente, con riferimento diretto o indiretto a Nietzsche, in numerose opere (senza richiamare il contributo “fondativo” di Foucault, cfr. almeno: Stiegler B., Nietzsche et la biologie, Presses Universitaires de France, 2001; Esposito R., Bios. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004).

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che il problema della politica rimandi a quello più generale delle possibilità della ragione nelle sue strutture genealogiche di base, in modo che diviene necessario focalizzare come per Nietzsche l’uomo è sempre “forza” o “saggezza”, l’azione quella dell’“animale” o del “saggio”, la volontà “volontà in sé” o “volontà particolare”, il mondo “Grecità” o “Cristianità”, la terra “Sud” o “Nord”: tutte dimensioni problematiche e feconde, da affrontare ripercorrendo le analisi che Nietzsche ha offerto. E pur riconoscendo la validità di una prospettiva globale d’analisi del suo pensiero45, le intenzioni che sorreggono il presente lavoro esulano da tale ambizione ricostruttiva complessiva, e si soffermano sulla volontà di situarsi su di un punto di osservazione capace di individuare nei suoi scritti un interesse duraturo che funga da guida nei meandri complessi della sua riflessione. In questo modo proveremo a muoverci all’interno dell’“ontologia della vita”, a partire dalla quale, e rimanendo saldamente in essa, il filosofo di Röcken esplora i caratteri della cultura e della conoscenza46. In tale percorso, apparirà 45. Dato il numero “sterminato” di studi esistenti, oltre alle opere di Jaspers, Löwith, Heidegger, Deleuze richiamate sopra, ci limitiamo qui a ricordarne alcune tra quelle disponibili in lingua italiana; altre verranno citate, di volta in volta, più avanti: Banfi A., Introduzione a Nietzsche. Lezioni 19331934, ISEDI, Milano, 1977; Masini F., Lo scriba del caos. Interpretazione di Nietzsche, Il Mulino, Bologna, 1978; Montinari M., Su Nietzsche, Editori Riuniti, Roma, 1981 (e Id., Che cosa ha detto Nietzsche, Adelphi, Milano, 1999); Vattimo G., Introduzione a Nietzsche, cit.; Ferraris M., Nietzsche e la filosofia del Novecento, Bompiani, Milano, 1989; Penzo G., Invito al pensiero di Nietzsche, Mursia, Milano, 1990; Campioni G., Sulla strada di Nietzsche, ETS, Pisa, 1998²; Volonté P., Nietzsche, Xenia, Milano, 1999; Giametta S., Introduzione a Nietzsche: opera per opera, Rizzoli, Milano, 2009; Magris A., Nietzsche, Morcelliana, Brescia, 2014². 46. Come egli dichiara, infatti, «la conoscenza presuppone la vita», in modo che «un’igiene della vita si pone proprio accanto alla scienza» (Nietzsche Fr., Considerazioni inattuali, I-III, cit., p. 352).

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sempre più evidente il ruolo della “relazione” come ambito proprio in cui si definisce la vita in quanto volontà di potenza, in cui il filosofo delinea i caratteri della sua dichiarata ostilità verso la metafisica. Per quanto concerne la struttura del testo, essa si articola in diverse parti tra loro strettamente e volutamente embricate. Nel primo capitolo verrà esaminata l’attenzione di Nietzsche verso l’opera di costruzione del mondo umano a partire da quello sfondo primordiale e mitico da cui trae origine la civiltà, il “mondo della palude”, e le forme che tale opera ha assunto nel suo rapporto con la civiltà greca e con il Cristianesimo, una dicotomia culturale che, paradigmaticamente, ne richiama un’altra, quella tra Nord e Sud, su cui il filosofo riflette a lungo. Ciò servirà a mostrare lo sforzo nietzscheano di sottrarre un “pensiero della vita” alla sua chiusura in una “filosofia della vita”. Ci soffermeremo quindi, rispettivamente nel secondo e nel terzo capitolo, ad analizzare i nuclei centrali del suo pensiero, l’eterno ritorno e la volontà di potenza, proponendo altresì una analisi mirata dei luoghi studiati e delle valenze affrontate con chi vuole confrontarsi con Nietzsche in chiave postmetafisica (in particolare, e in modo più esteso, con Heidegger). Assisteremo qui al delinearsi, soprattutto negli sviluppi ultimi del pensiero di Nietzsche, di una concezione della vita in termini di volontà di potenza, che motiva il passaggio da una metafisica della sostanza ad una sorta di “archi-ontologia” della relazione, per poi giungere ad evidenziare, nel capitolo quarto, i parametri di ridefinizione della “verità” in chiave non idealistica. Nel capitolo quinto tenteremo così di delineare i caratteri dell’uomo postmetafisico, o meglio, oltremetafisico, l’uomo «sintetico», «molteplice» e «complementare», capace di non obnubilare il radicamento della ragione nella “palude” mentre, nell’ultimo capitolo, giungeremo infine a tematizzare le conseguenze impolitiche dell’itinerario compiuto nel pensiero nietzscheano, e le sue possibili ripercussioni

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(seguendo Nietzsche ma andando anche oltre di lui), in un ambito specificamente democratico. Politica democratica, dunque, in quanto oggi il problema che sta di fronte al pensiero, filosofico e non, è quello di chi è escluso, in modo che venga sottolineato che «di contro all’immediatezza della passione ed all’astrazione propri del socialismo […] Nietzsche propone quindi un progresso realistico: una luce che tenga conto dell’ombra»47. Un’ombra in cui, insisteremo noi, vive con sofferenza chi è impedito a partecipare, a cominciare dai più giovani. Da questo percorso scaturirà una celebrazione della filosofia come luogo del pensiero che, pur contrastato dalle circostanze, e a rischio continuo di decretare da sé la propria fine, riafferma sempre di nuovo il problema ultimo dell’uomo: la costruzione della vita.

47. Campioni G., Individuo e comunità nel giovane Nietzsche, in “Prassi e teoria”, anno V – nuova serie – n. 1, 1979, pp. 145-177, p. 177.

44 Ringraziamenti Per motivi diversi, e senza che ciò significhi in alcun modo un loro coinvolgimento di responsabilità in quanto qui esposto, desidero ringraziare: il prof. Carmelo Meazza, il prof. Giuseppe Cantillo, il prof. Tomaso Panu, il dott. Anton Pietro Stangoni, il dott. Silvio Lai e il dott. Franco Mannoni.

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I La vita nella palude

0. Paradigmi Discutendo degli storici e della loro «magnanimità», Nietzsche nota che, tra questi, «assai più numerosi sono quelli che giungono solo alla tolleranza, al riconoscimento di ciò che ormai non si può negare, a un aggiustamento e a un moderato e benevolo abbellimento, nella furba presunzione che l’inesperto interpreti come virtù di giustizia il fatto che il passato sia in genere narrato senza accenti duri e senza l’espressione dell’odio»1. Il filosofo di Röcken rileva che la difesa della verità storica non viene condotta quando ci si trova di fronte a una verità «dalla quale non vien fuori niente», e dunque quando il sapere storico dimentica il proprio legame con la vita nel tentativo di ricondurla a sé, alle proprie istanze e alle proprie necessità attraverso la modulazione del ricordo. In questo modo, come luogo e contenuto della memoria, la vita perde la propria «potenza storica» e si cristallizza in forma, da cui e di cui quindi si può ricavare il senso, essendo stato ridotto il «fenomeno

1. Nietzsche Fr., Considerazioni inattuali, I-III, cit., pp. 305-306.

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storico» a «fenomeno di conoscenza»2. La difesa della verità storica sarà possibile invece se si è mossi dalla «pura volontà di essere giusti»3, cioè in sintonia con la vita: verità, giustizia e vita fanno tutt’uno, in modo che la storia deve accettare di essere «al servizio di una forza non storica»4, la vita, appunto. Ne deriva che il pensiero si muove non quando afferma «l’incomprensibile come sublimità»5, ma solo se aderisce alle cose al modo del fanciullo, che di fronte ai professionisti della Ragione «invece vede» e «invece ode»6. Tanto più che il filosofare moderno, sprofondato nell’interiorità, «è politico e poliziesco, limitato dai governi, dalle Chiese, dalle accademie, dai costumi e dalle viltà degli uomini a un’apparenza erudita; ci si accontenta del sospiro “se invece” o della nozione “c’era una volta”. La filosofia è senza diritto in seno alla cultura storica, qualora voglia essere più di un sapere privo di azione trattenuto al di dentro; se soltanto l’uomo moderno fosse in genere coraggioso e risoluto, se soltanto non fosse, anche nelle sue inimicizie, un essere interiore, egli la bandirebbe; così si accontenta di vestirne pudicamente la nudità»7. Ora, diversamente da quello monumentale e antiquario, lo storico critico8 riattiva il legame con la vita, e concepisce la storia della sua città in maniera personale, come «la storia di se stesso; egli concepisce le mura, la porta turrita, l’ordinanza municipale, la festa popolare come un diario illustrato della

2. Ivi, p. 271. 3. Ivi, p. 304. 4. Ivi, p. 271. 5. Ivi, p. 296. 6. Ibidem. 7. Ivi, p. 298. 8. Cfr. ivi, pp. 272 ss.

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sua gioventù e, in tutte queste cose, ritrova se stesso, la sua forza, la sua diligenza, il suo piacere, il suo giudizio, la sua follia, e le sue cattive maniere. Qui si poteva vivere, egli si dice, giacché si può vivere; qui si potrà vivere, giacché siamo tenaci e non ci si può spezzare da un giorno all’altro. Così, con questo “noi”, egli guarda oltre la caduca e peregrina vita individuale, e sente se stesso come lo spirito della casa, della stirpe e della città»9. Alla storia si deve guardare quindi in termini di posizione di bisogni vitali e di relativo appagamento. La “vita” funge da orizzonte del lavoro storico, e viene definita come vita dell’attivo e del potente, come forza oscura, impellente, insaziabilmente avida di se stessa. Dal campo della storia tale principio metodologico si estende all’ottica più generale della filosofia e della ragione, in modo che emerge che ciò che fa problema al pensiero è il «quadro generale della vita»10. Il discorso sulla storia conclude pertanto non con un giudizio sulla storia stessa, ma si concentra su quello che dovrebbe essere l’interesse fondamentale dell’uomo pensante, la vita, appunto: prima di guardare ad una qualche “transizione”, per Nietzsche è necessario fare i conti con ciò che si vive. Il che significa che diviene proficuo soffermarsi sul modo in cui egli concepisce “il senso” di cui le “cose” della filosofia si rivestono quando si calano nel contesto della vita in modo personale: in modo vissuto, appunto. Muovendosi in questa direzione, Nietzsche incontra Schopenhauer, non soltanto poiché quest’ultimo «è colui che libera dal sistema delle convenienze e dei valori comunemente riconosciuti, è colui che conferma la validità delle posizioni individuali, che a Nietzsche giustifica il suo “no” alla società e ai pietosi conati

9. Ivi, p. 280. 10. Ivi, p. 380.

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borghesi»11, ma anche perché ai suoi occhi il filosofo di Danzica appare, fin dagli anni in cui egli era studente a Lipsia, come un maestro integrale di vita che insegna all’individuo «la potenza purificatrice, che calma e rafforza interiormente, del dolore»12, la brama di annullamento della volontà, il «bisogno di autoconoscenza»13. All’influsso di Schopenhauer Nietzsche coniuga inoltre, per contrasto, il richiamo del mondo greco incentrato sull’equilibrio (una visione che per Nietzsche è propria dell’Atene del V secolo, ma che dal Cristianesimo è stata elevata a paradigma dell’intero Ellenismo), e nulla vi aggiungerà l’Illuminismo se non la possibilità della sua comprensione attraverso il rimando al valore euristico della scienza. Nello specifico, secondo Nietzsche, l’analisi della vita che può suscitare interesse non è quella degli uomini attivi che, in virtù del «mostruoso acceleramento» della vita14 moderna, «rotolano come rotola la pietra, con la stupidità del meccanismo»15. L’opposizione a Hegel è chiara e definitiva16: l’uomo della 11. Banfi A., Introduzione a Nietzsche, cit., p. 45. 12. Nietzsche Fr., Briefwechsel 1850-1869; tr. it. «Epistolario», vol. I, 18501869, Adelphi, Milano, 1976, n. 536, pp. 498-501 (lettera a Carl von Gersdorff, 16 Gennaio 1867), p. 500. 13. Ivi, p. 707 (il riferimento è allo scritto autobiografico, edito postumo, in cui descrive il suo entusiasmo per aver “scoperto” Schopenhauer: Sguardo retrospettivo sui due anni trascorsi a Lipsia, 1865-1867; ivi, pp. 706-707). In margine, si può dire che Nietzsche resta, nonostante tutto, sempre “schopenhaueriano”, poiché è convinto che ogni vita singolare vada osservata distinguendo sempre tra chi attraversa l’esperienza vissuta del dolore e chi invece no, tra chi può mettere a frutto e chi invece non ricorre a tale risorsa. 14. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I , cit., n. 282, p. 197. 15. Ivi, n. 283, p. 198. 16. «Nietzsche, infatti, pensa dopo Hegel e contro Hegel» (Natoli S., Nietzsche e il teatro della filosofia, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 21). In realtà, è ormai acquisito che Nietzsche si rivolge, più che contro Hegel, contro una certa vulgata hegeliana. Ma in generale, è l’opera di “sintesi”

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società civile non viene visto al pari di quello hegeliano che si muove disordinatamente, al modo di una «bestia selvaggia», «da tutti i lati»17. Non attende qui di compiersi e trovare il suo senso nello Stato, ma è tutto quello che può essere in virtù delle sue doti individuali. D’altro canto, non si tratta di “inventare” motivi per cui la vita andrebbe trascorsa nelle «caverne»18 e, soprattutto, essa non è quella che rinviene nelle caverne il suo senso: l’eremita, infatti, «sospetta che in lui esista dietro ogni caverna un’altra caverna più profonda e prosegue dicendo che ogni filosofia nasconde una filosofia, ogni opinione è qualcosa di segreto e ogni parola è anche una maschera»19. Non è tematico qui l’«entrare nell’ambito dell’essere, della verità»20, il cedere ancora una volta alla «risonanza della corda metafisica, da gran tempo ammutolita»21, quali che siano le forme con cui essa si presenta via via nella storia22, bensì l’attenersi alla natu-

messa in campo dalla dialettica verso il molteplice della vita che Nietzsche non condivide. La dialettica gli appare infatti come «il pensiero dell’uomo teoretico che reagisce contro la vita, che pretende di giudicarla, di limitarla e di misurarla» (Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit., p. 222). 17. Hegel G. W. F., Grundlinien der Philosophie des Rechts. Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse (1820); tr. it., Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari, 1954, § 184, p. 165. 18. «Quante caverne ha la vita! La nostra abitudine alle caverne, il nostro desiderarle – un passaggio attraverso budelli oscuri» (Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1882-1884; tr. it. Frammenti postumi 1882-1884, «Opere di Friedrich Nietzsche», Adelphi, Milano, 1986, Vol. VII, tomo I, parte II, n. 18 [26], p. 231). 19. Berto C., Le ultime interpretazioni di Nietzsche, cit., p. 62. 20. Ivi, pp. 62-63. 21. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 153, p. 124. 22. La metafisica si presenta, nell’ottica nietzscheana, in varie forme, tra le quali, le principali sono, essenzialmente: 1) la capacità di cogliere l’essenza delle cose; 2) il rovesciamento dei ruoli originari di prassi e teoria; 3) la ricerca intorno alla differenza tra l’essere ed il fenomeno: tra ciò che è e ciò che

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ra ed ai suoi reali bisogni. Inoltre, il discorso nietzscheano si muove in anticipo rispetto ai moniti heideggeriani circa la funzione onniesplicativa di un Principio Unico, quale la «dimenticanza dell’essere» come peccato capitale della civiltà occidentale23. Così come egli non ritiene che sia possibile affrontare i problemi dell’uomo con il semplice “allineamento” filosofico dei momenti di una pretesa “terapia generale”, e dunque: 1) il mea culpa della società della tecnica; 2) il “ritorno” dell’essere; 3) l’evento felice come gioco «protetto» del divenire nelle «radure» fortunate24. Sostando tra la Grecità e l’Illuminismo, appare; 4) il ricorso all’io come ponte da valicare per guadagnare il regno della certezza; 5) il pensiero inautentico, in quanto appesantito dal mondo (dalla volontà di potenza) e con ciò ostacolo per ogni passo verso la verità; 6) l’isolamento del principio del dolore come negativo o come stimulans. 23. «Nel pensiero di Heidegger l’Occidente è la volontà di impadronirsi dell’“ente” dimenticando l’“essere” dell’ente» (Severino E., Destino della necessità. Κατά τò χρεών, Adelphi, Milano, 1980, p. 229). 24. Heidegger si interroga sul problema della funzione delle teorie nella storia, del rapporto dello spirito con la realtà intera, chiedendosi «come è mai possibile che un processo psichico-mentale interno all’uomo venga fatto coincidere con le cose all’esterno» (Heidegger M., Parmenides, 1942-43, Frankfurt am Main, Klostermann, 1982; tr. it. Parmenide, Adelphi, Milano, 1999, p. 109), ma lo risolve, in chiave, per così dire, “spiritualistica”: «in termini occidentali, la verità è veritas. Il vero è ciò che, su basi di volta in volta differenti, si afferma, rimane in alto e giunge dall’alto: è il comando. Laddove peraltro ciò che sta “in alto”, è l’“altissimo” e il “signore” del potere, appaiono in forme diverse. “Il signore” è il Dio concepito in termini cristiani; “il signore” è la ragione; “il signore” è lo “spirito del mondo”. “Il signore” è “la volontà di potenza”» (ivi, pp. 112-113). Quindi: da un’idea del vero nasce per l’uomo uno specifico modus agendi, specie se si tratta di un soggetto di potere. Ma Heidegger non si chiede però cosa in concreto il potente faccia, come gestisca il potere, come lo organizzi di fronte agli altri uomini e se abbia il diritto di gestirlo per tutti e contro tutti. Il suo interesse si concentra unicamente intorno a quanto risulta, in questo contesto, dell’alétheia, “velata”, o peggio, obnubilata da altri concetti. Tutta la storia passa così attraverso alcune categorie greche, romane, e poi per le elaborazioni di Lutero e di Cartesio.

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la vita gli appare in modo diverso rispetto al passato, un modo inedito, ma sempre in relazione molteplice con esso. La leggerezza e la frivolezza della fantasia omerica erano necessarie per placare e controbilanciare temporaneamente l’animo eccessivamente passionale e l’intelligenza troppo acuta dei Greci. Quando in loro parla l’intelletto: come la vita appare allora aspra e crudele! Essi non si illudono, ma avvolgono di proposito la vita in un giuoco di menzogne. Simonide consigliava ai suoi concittadini di prendere la vita come un giuoco; la serietà era loro troppo nota come dolore […], ed essi sapevano che solo attraverso l’arte la stessa miseria può diventare un godimento. Ma, come castigo, per tale modo di vedere, furono così afflitti dal gusto di favoleggiare, che divenne loro difficile, nella vita di ogni giorno tenersi liberi da menzogna e finzione. Ogni popolo poeta ha un siffatto gusto per la menzogna e in essa per di più ha anche l’innocenza. I popoli vicini lo sperimentarono a volte a loro disperazione25.

La via di mezzo tra istinto e ascesi si situa nella «severa meditazione, concisione, freddezza, semplicità, finanche spinte di proposito al limite estremo, in genere riservatezza del sentimento e taciturnità»26. Con queste brevi considerazioni non abbiamo che cominciato a parlare della “vita” secondo il lessico nietzscheano. Non siamo ancora usciti dall’orizzonte codificato del pensiero che formula concetti e li assume ascoltando le risonanze che producono nell’interiorità dell’interprete. Secondo Nietzsche infatti la vita non rappresenta una sfera dell’esistere che va affermata (dal pensiero), amata (dalla passione), compresa (dalla filosofia). La vita non si pone neanche un “momento” del percorso conoscitivo della ragione che distingue hegelianamente, nella 25. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 154, pp. 124-125. 26. Ivi, n. 195, p. 140.

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rete dei suoi concetti, il punto d’arrivo dell’uomo e ne assume gli aspetti dell’«individuo vivente», del «processo vitale», onde il singolo si realizza come «unità negativa» e si libera dei suoi presupposti oggettivi e conclude nel «genere»27. Altresì essa non è racchiusa in un insieme di eventi che “accadono” in un corpo, successivamente unificati da un “Io” su cui si possono poi costruire filosofie “dell’esistenza” o “dell’Atto” della persona. Al contrario, Nietzsche ambisce e pretende per il proprio pensiero dell’altro: i concetti sono invenzioni degli spiriti forti, sono categorie che appartengono più a chi agisce che a chi si limita a studiare, in modo che la vita si offre prima di tutto nel segno dell’azione e della prassi umana che si confronta con i problemi determinati dell’esistenza.

1. Nella palude Nietzsche fu uno spirito libero, un uomo la cui vita ha costituito, scrive Jaspers, un’«eccezione»28. Un pensatore i cui con-

27. Hegel G. W. F., Wissenschaft der Logik (1812); tr. it. Scienza della logica, Laterza, Bari, 1968, II, p. 866. 28. «Il tratto fondamentale della vita di Nietzsche è il suo essere eccezione. Egli è svincolato da ogni effettivo esserci, dalla professione e da ogni legame con la vita: non si sposa, non ha allievi, discepoli, non si costruisce alcun campo di attività nel mondo. Perde ogni fissa dimora, errando di luogo in luogo, come se cercasse ciò che non trova. Ma proprio questo essere eccezione è la sua sostanza, è cioè il modo in cui si sostanzia tutto il filosofare di Nietzsche» (Jaspers K., Nietzsche, cit., p. 52). Tra le numerose biografie dedicate a Nietzsche, cfr. Janz C. P., Friedrich Nietzsche. Biographie, Carl Hanser Verlag, München, 1978-1979; tr. it. (in 3 volumi) Vita di Nietzsche, Laterza, Roma-Bari, 1980-1982; cfr. anche Safranski R., Nietzsche. Biographie seines Denkens, Carl Hanser Verlag, München, 2000; tr. it. Nietzsche. Biografia di un pensiero, Longanesi, Milano, 2001.

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cetti acquistano «un proprio colore crepuscolare»29, che soffre «di nuovo travaglio e nuova felicità», un solitario che «sa che la libertà si paga con la solitudine»30 e che dunque, per sua stessa ammissione, è costretto a «nascondersi»31 e a vivere «nella sua spelonca»32, ma non per scelta, bensì per necessità esistenziali. Ciononostante, egli intende oltrepassare ogni conseguenza della condizione originaria dell’uomo che «è vissuto troppo a lungo come su gradini di civiltà di interi millenni», «miseramente», in «foreste e caverne, in tratti paludosi e sotto cieli coperti»33. All’origine infatti non c’è né la Creazione (che è una «favola» anche se non ingenua e innocua), né l’Uno (che è una finzione mitica e poi teoretica, che diviene produttiva appena viene affiancata dalla Separazione) e neanche il semplice mondo della «virtù ipocrita della sorella [che] divenne la virtù cristiana»34, bensì il crudo e informe, caotico e avvilente, mondo della palude: un orizzonte di senso primordiale che permane come sfondo destinale dell’uomo, condannato a orientare il suo «intelletto primordiale», di cui ogni pensiero non è altro che un’«immagine»35 che si staglia su una «nebbiosa e ingannevole cintura paludosa, una zona di 29. Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1884-1885; tr. it. Frammenti postumi 1884-1885, «Opere di Friedrich Nietzsche», Adelphi, Milano, vol. VII, tomo III, n. 37 [5], p. 259. 30. Commengé B., La danse de Nietzsche, Gallimard, Paris, 1988; tr. it. La danza di Nietzsche, Guanda, Parma, 1994, p. 15. 31. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 36 [17], p. 235. 32. Ivi, n. 37 [5], p. 259. 33. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 16, p. 144. 34. Colli G., Dopo Nietzsche. Come si diventa un filosofo, Bompiani, Milano, 1978, p. 124. 35. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte I, n. 7 [175], p. 213.

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impenetrabilità, di flusso eterno e di indeterminatezza»36. Una “palude” che rimanda ad un luogo pervaso, direbbe MerleauPonty, dal «silenzio primordiale»37 da cui muove tutto il cammino dell’uomo, che parte e ritorna alla «Natura»38. Si tratta di una dimensione pre-historica all’interno della quale Nietzsche si inoltra ben prima di tanti altri39. Ne deriva che il ritorno a un pensiero come conoscenza si avrà nello strutturarsi di un corretto rapporto tra uomo e natura in seno alla vita, sottraendosi ad ogni immedesimazione mistica o irrazionalistica e proponendosi invece come un «compito» che si confermerà più avanti in seno alla dottrina dell’eterno ritorno: il compito di assumere, e dunque superare, la mediazione che garantisce il riferimento all’immediato: «il mio compito: la disumanizzazio-

36. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 16, p. 144. 37. Merleau-Ponty M., Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris, 1945; tr. it. Fenomenologia della percezione, Bompiani, Milano, 2003, p. 255. 38. « Il concetto di Natura non evoca solo il residuo di ciò che non è stato costruito da me, ma anche una produttività che non è nostra, benché possiamo utilizzarla, ossia una produttività originaria che continua sotto le creazioni artificiali dell’uomo. È al tempo stesso ciò che c’è di più vecchio e qualche cosa di sempre nuovo» (Merleau-Ponty M., La Nature. Notes. Cours du Collège de France, Éditions du Seuil, Paris,1995; tr. it. La Natura. Lezioni al Collège de France 1956-1960, Cortina, Milano, 1996, p. 185). Per un’analisi attenta del pensiero di Merleau-Ponty cfr.: Mancini S., Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Mimesis, Milano, 2001² e Id., L’orizzonte del senso. Verità e mondo in Bloch, Merleau-Ponty, Paci, Mimesis, Milano, 2005, pp. 215-244. Ci sia altresì consentito rimandare al nostro: Comerci N., La deiscenza dell’altro. Intersoggettività e comunità in Merleau-Ponty, Mimesis, Milano, 2008. 39. Sul tema dell’“origine” e del “pre-historico”, e su tutto quello che da qui si diparte, sempre con riferimento diretto o indiretto a Nietzsche, cfr.: Severino E., Destino della necessità, cit.; Colli G., La ragione errabonda, Adelphi, Milano, 1982; Cacciari M., Dell’Inizio, Adelphi, Milano, 1990.

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ne della natura e poi la naturalizzazione dell’uomo, una volta che egli sia giunto al puro concetto di “natura”»40. Se qui ci troviamo di fronte ad un’altra ontologia, o a un’ontologia inedita che rimodula i rapporti tra scienza e filosofia41, allora si annuncia una prospettiva di grande interesse 40. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [211], p. 411. 41. Il rapporto tra filosofia e scienza rappresenta un tema costante della riflessione di Nietzsche, preoccupato di reagire al clima positivistico e storicistico ottocentesco che andava predicando una imminente, se non già avvenuta, “morte della filosofia”. Tuttavia, nei suoi scritti, la difesa della filosofia non sfocia mai in un atteggiamento dichiaratamente «antiscientista», in quanto ciò che lo preoccupava maggiormente era «il destino stesso della cultura»: «il problema per lui non era risolversi a favore dell’una o dell’altra, oppure delimitare i campi reciproci perché ognuna potesse coltivare spensieratamente il proprio orticello. Nietzsche non era né così ingenuo né così meschino; era invece necessario ridare vita e slancio ad una cultura in progressivo appassimento. A questo scopo egli richiedeva il contributo di tutte le forze culturali ma soprattutto la collaborazione di filosofia e scienza. Lo scienziato doveva acquisire l’atteggiamento filosofico, il filosofo quello scientifico. Tuttavia Nietzsche non pensò mai di diluire luna nell’altra o viceversa, di avere cioè una filosofia scientifica o una scienza filosofica» (Castaldi Madonna L., Il razionalismo di Nietzsche, E.S.I., Napoli, 1983, p. 141. Sullo stesso tema, cfr. anche Babich B. E., Nietzsche’s Philosophy of Science, Reflecting Science on the Ground of Art and Life, State University Press, Albany, 1994; tr. it. Nietzsche e la scienza. Arte, vita, conoscenza, Cortina, Milano, 1996). A conferma di ciò ricordiamo i propositi di Nietzsche, peraltro mai realizzati, di studiare scienze fisiche o biologiche presso qualche istituzione universitaria di prestigio. In generale, il legame tra lo scientifico e il non-scientifico rappresenta una convinzione profonda di Nietzsche, in quanto egli sostiene che «non esiste, giudicando rigorosamente, alcuna scienza “priva di presupposti”, il pensiero di una scienza siffatta è impensabile, paralogico: una filosofia, una “fede” deve sempre preesistere, affinché derivi da essa una direzione, un senso, un limite, un metodo, un diritto all’esistenza» (Nietzsche Fr., Zur Genealogie der Moral. Eine Streitschrift, 1887; tr. it. Genealogia della morale, in Id., Al di là del bene e del male. Genealogia della morale, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VI, tomo II, Adelphi, Milano, 1986, pp. 213-367, p. 356). Da rilevare, comunque, la sempre crescente attenzione verso elementi del pensiero nietzscheano presenti, o in qual-

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il cui senso affiorerà non da una semplice dichiarazione d’intenti, bensì dall’indicazione di uno sviluppo sistematico e di una verifica pratica attraverso la dimostrazione delle sue capacità di presa sul “nostro paesaggio”. Allo stato attuale del nostro cammino appare che tutto questo fa dell’uomo, direbbe Heidegger, un essere «gettato», ma in modo particolare, determinato: un essere razionale immerso in un fondo del tutto irrazionale, l’unico essere della natura costretto a vivere in modo “innaturale” e obbligato a cercare sempre di riconquistare il rapporto con la propria origine mentre, nello stesso tempo, si impegna a definire il dominio della propria essenza. Diversamente dal Moderno, in cui il rapporto con lo sfondo irrazionale dell’esistere si concretizza nei termini della cesura, del distacco, per Nietzsche è la tensione ineludibile e permanente che scaturisce dal sostare sulla soglia del versante razionale/irrazionale a caratterizzare l’esistenza umana e a suggerirne la cifra. Le conseguenze per il suo pensiero sono positive (quanto a libertà di giudizio delle riflessioni, a rapporto innovatore nei confronti di ogni pensiero metafisico, etc.), che modo collegati all’orizzonte scientifico. Di recente, ad esempio, Vozza ha rilevato la pregnanza di temi nietzscheani proprio in ambito scientifico, a cominciare dal prospettivismo: «il prospettivismo nietzscheano costituisce il più cospicuo antefatto teorico di quel discorso sul metodo che l’ermeneutica novecentesca ha trascurato a favore di tematiche più prettamente ontologiche o di interpretazione testuale, relegando l’indagine sulle condizioni di possibilità della scienza (o, più in generale, del progetto cognitivo) all’ambito di pertinenza proprio della riflessione epistemologica, intesa perlopiù come erede della tradizione gnoseologica e quindi inesorabilmente imbrigliata nell’obsoleta opposizione metafisica tra soggetto e oggetto». In tal guisa, l’epistemologia «ha sempre più posto l’enfasi sul carattere onnipervasivo dell’interpretazione nel processo di selezione e di osservazione della molteplicità possibile di analisi», in modo che «per aver introdotto l’elemento prospettivistico all’interno della teoria della conoscenza (al di là del nesso tra scienza e metafisica) Nietzsche è stato davvero un destino per l’epistemologia novecentesca» (Vozza M., Esistenza e interpretazione. Nietzsche oltre Heidegger, Donzelli, Roma, 2011, pp. 4-5).

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e negative (quanto a possibilità di trarre tutti gli insegnamenti della storia della civiltà per formulare giudizi sull’esperienza), conseguenze che vanno messe in luce partendo dalla novità e unicità del percorso da lui compiuto. Esso conferisce alla propria meditazione filosofica un senso e un andamento genealogico se non, malgrado ogni apparenza contraria, propriamente storico42, radicato cioè nelle opere delle moltitudini e non soltanto dei saltuari e isolati innovatori43. Osserviamo da vicino. In primo luogo, nella palude l’uomo si confronta con gli animali fino a riuscire (facendo ricorso alla propria differenza essenziale da essi) a dominarli. Proprio mentre elabora la sua fede nell’Illuminismo, Nietzsche scopre e indaga l’orizzonte che ne incarna l’esatto contrario: l’impenetrabile viscosità e magmaticità dell’esistenza, che conferisce senso e tono all’intera sua riflessione. In secondo luogo, la vita non può prescindere dal pensiero, che risulta estraneo ad ogni forma di conoscenza intuitiva. Per l’uomo delle paludi è infatti inconcepibile ciò che

42. Si noti che la critica di Nietzsche allo storicismo e alla sua visione lineare ed «edipica» (Vattimo) del tempo presente negli scritti giovanili subisce, come ben chiarisce Mazzarella, un mutamento nell’approfondimento dell’analisi della storia che egli compie nel distinguere tra cultura storica (Historie) e storia come vita individuale (Geschichte) nel passaggio dalle Considerazioni Inattuali (1873-1876) a Così parlò Zarathustra (1883-1884), attraverso Verità e menzogna in senso extramorale (1873) e Umano, troppo umano (1878-I, 1880-II), che porta il filosofo da una visione iniziale di diffidenza verso la storia ad una sua assunzione presente e decisiva nella strutturazione e nell’azione dell’Oltreuomo (cfr. Mazzarella E., Nietzsche e la storia. Storicità e ontologia della vita, cit.). 43. «È un errore grossolano, l’intendere l’individuo eterno come un qualcosa di completamente isolato. Il suo influsso si propaga eternamente, così come tale individuo è il risultato di innumerevoli generazioni» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte I, n. 8 [99], p. 265).

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Vico44 attribuisce al “bestione” della foresta: egli non può “saltare” dal suo stato primitivo di animale errante alla condizione umana grazie allo spavento causato dal tuono, che gli farebbe comprendere di colpo, appunto intuitivamente, che esiste una realtà prima sconosciuta, qualcuno più potente a cui doversi riferire accettandone le regole, soprattutto quelle di comportamento. Piuttosto, per Nietzsche è verosimile che sia accaduto l’opposto, e cioè che l’uomo abbia per molto tempo confrontato e paragonato eventi, misurato e ponderato situazioni al fine di ottenerne indicazioni atte a rispondere ai propri bisogni e a mettere a frutto le sue risorse: che abbia cioè sceverato l’identico dal diverso, e tracciato dei segni. In questo senso, anche la «menzogna» è da assumere in forma moderata e non come sinonimo di finzione libera e genialistica. Ne viene così che l’obiettivo del pensiero che si struttura in questo modo è la «varietà»: all’interno delle «comunità forti» che si creano nel tempo e producono «istupidimento», è necessario che si incontrino due elementi diversi, da una parte «l’accrescimento della forza stabile per l’unione degli spiriti in una fede comune e nel senso della collettività», mentre dall’altra «la possibilità di giungere a mete più alte perché sorgono nature degeneranti, e a causa loro la forza stabile subisce parziali indebolimenti e ferite. Proprio la natura più debole, come la più delicata e la più libera, rende in genere possibile ogni progresso. Un popolo che in qualche punto presenta qualche crepa e un indebolimento, ma che è in complesso ancora forte e sano, può accogliere in sé l’infezione

44. Ci permettiamo di giustificare il presente e i successivi “singolari” (quanto differenziali) accostamenti tra Nietzsche e Vico in riferimento, anche se su basi ed argomentazioni diverse da quelle qui proposte, alle indicazioni di Piovani (cfr. Piovani P., Oggettivazione etica e essenzialismo, Morano, Napoli, 1981).

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del nuovo e incorporarlo a suo vantaggio»45. Dove è da notare che la comprensione del reale non procede compatta e inarrestabile alla stregua dello Spirito di Hegel che, nella sua processualità dialettica, «s’avanza come una falange corazzata, irresistibilmente, ovunque, con un movimento impercettibile come quello del sole»,46 ma si connota di fasi di debolezza, di sospensione nel dubbio, di momenti di incredulità, di spaesamento e ripensamento. A ciò va aggiunto che il mutamento non ha per Nietzsche di necessità il carattere dell’eroismo, dell’operare isolato ed eccezionale, ma si nutre del contributo di una pluralità di visioni individuali, tutte «personali», come viene confermato in un frammento postumo dell’autunno del 1881, in cui l’accento viene posto sul vedere «da cento occhi», su cui Nietzsche insiste a più riprese lungo il suo cammino. Compito: vedere le cose come sono! Mezzo: riuscire a vederle da cento occhi, di molte persone! Era una via sbagliata, quella di sottolineare l’elemento impersonale e di definire morale il vedere con l’occhio del prossimo. Giusto è – vedere molti prossimi e con molti occhi, tutti occhi personali. L’elemento «impersonale» non è altro che l’elemento personale indebolito, la fiacchezza47.

Ora, vedere «da cento occhi» significa ridiscutere il paradigma «impersonale» del theoréin, il paradigma rappresentativo capace di Sinngebung, per riuscire a dare voce anche a tutti quegli elementi del reale che non parlano con voce umana ma non per questo non si fanno ascoltare e capire, per poi cedere la parola a “molte bocche” che nel passato non l’hanno potuta

45. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 224, p. 162. 46. Hegel G. W. F., Briefe von und an Hegel (1887); tr. it. Lettere, Bari, 1972, p. 158. 47. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [65], p. 353.

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avere: agli esclusi di ogni tempo. Ma rilevare la funzionalità del pensiero libero ad un universo debole non è semplice, e Nietzsche ne è consapevole. In questione non è unicamente il recupero della menzogna, del tentativo48, dell’esperimento, perché così la parola verrebbe data più volte o infinite volte sempre allo stesso soggetto, l’intellettuale. Tematica è invece l’estensione della proprietà e della capacità di esprimersi all’intero universo del discorso, con riguardo specifico a chi da tale orizzonte è stato confinato ai margini dell’esclusione, pur avendo spesso offerto il proprio contributo alla sua strutturazione e definizione. L’intellettuale infatti non è soggetto solo perché portatore privilegiato dell’orizzonte dell’Uno, del Vero e del Bene, ma anche perché portatore della forza che crea e che può bloccare il movimento, che si impone non solo nelle coscienze ma nei costumi e nel fare quotidiano, generando e ripetendo all’infinito se stessa, onde «le nature più forti conservano il tipo»49, in base a quella forza che, come ha scritto Derrida, sposta il discorso teoretico dalla totalità e dalla mediazione all’Infinito: «la forma affascina quando non si ha più la forza di comprendere la forza nel suo interno. Cioè di creare»50. La debolezza dal canto suo non è una condizione che comporta una rinuncia al ruolo della ragione, ma la base per un’operazione ricca, laterale, in modo che, osserva Nietzsche, «l’uomo più malato per esempio avrà forse, in mezzo ad una stirpe bellicosa e inquieta, maggior motivo di stare per conto suo e di diventare in tal modo più calmo e più saggio, il monocolo avrà un occhio più forte, il cieco vedrà più profondamente nella sua interiorità e udrà in ogni caso 48. Non a caso Jaspers descrive il filosofare di Nietzsche come una «filosofia del tentare» (cfr. Jaspers K., Nietzsche, cit., pp. 400 ss.). 49. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 224, p. 161. 50. Derrida J., L’écriture et la différance, Éditions du Seuil, Paris,1967; tr. it. La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1982, p. 5.

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più acutamente»51. L’anello debole della catena appare tale solo dove c’è movimento e tensione, ma rivela la sua utilità appena compie una qualche opera di supplenza rispetto al suo ambiente. Perderlo è comunque perdere una ricchezza; per questo si deve vedere e ascoltare «indicibilmente di più». Gli uomini d’alto livello si distinguono dagli inferiori per il fatto che vedono e ascoltano indicibilmente di più, per il fatto che vedono e ascoltano pensando: questo appunto differenzia l’uomo dall’animale e gli animali superiori da quelli inferiori. Una sempre maggiore pienezza ha il mondo per colui che cresce fino ad attingere le vette dell’umanità; sempre più spesso gli vien gettata l’esca dell’interesse; in continuo sviluppo è la quantità dei suoi stimoli e così pure quella dei suoi modi di godere e di soffrire – l’uomo superiore diventa al tempo stesso sempre più felice e sempre più infelice. Ma in tutto ciò gli resta fedele compagna un’illusione: crede di essere posto come spettatore e ascoltatore dinanzi al grande spettacolo visivo e sonoro, che è la vita; chiama la sua natura contemplativa e, ciò facendo, si lascia sfuggire che è lui stesso il vero poeta e l’inesausto poeta della vita, e che, se anche si distingue indubbiamente molto dall’attore di questo dramma, il cosiddetto uomo d’azione, ancor più si distingue da un mero osservatore e un semplice ospite d’onore davanti alla scena. A lui come poeta è certamente propria la vis contemplativa e lo sguardo retrospettivo sulla sua opera, ma al tempo stesso e innanzitutto gli è propria la vis creativa, che manca all’uomo d’azione, a onta di quel che possono affermare l’apparenza e l’opinione comune. Siamo noi, i pensanti-senzienti a fare realmente e continuamente qualcosa che ancora non esiste: tutto il mondo eternamente crescente di valutazioni, colori, pesi, prospettive, serie graduali, affermazioni e negazioni52.

51. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 224, pp.161-162. 52. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 301, pp. 205-206.

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Et pourtant dal rifiuto della «metafisica tradizionale»53 non si passa ad un pensiero che rinuncia al diritto all’invenzione, bensì ad un pensiero che nasce dalla vita (pensiero della vita), e che ad essa si rivolge (pensiero della vita): un pensiero che opera «osservando ed ascoltando», cioè rapportando le cose che si incontrano a un progetto esistenziale di lavoro, di creatività. Un pensiero che trova nel vedere un modo per penetrare nella vita senza bisogno di una «coscienza tragica»54, che finisce per divenire una metafora esaustiva, e quindi falsa, della vita stessa, come lo è la “metafora” della morale: dire che la vita è tragica non rappresenta un deciso arricchimento rispetto al sostenere che la vita è morale, che il suo senso è interamente e unicamente nella morale. Dalla metafisica lo sguardo filosofico si sposta quindi sulla Natura, sulla sua «grandiosità»55, e da qui al pensiero utile o dannoso56. Ciò che

53. Nota Raschini che «quando Nietzsche usa l’espressione “metafisica tradizionale” intende includervi molta parte del pensiero europeo che di solito non solo non viene considerata appartenente alla metafisica tradizionale, ma, anzi, intende opporsi a quest’ultima», caratterizzata dalla tendenza al «dualismo ontologico», riconducibile alla dicotomia «essere»-«divenire» (Raschini M. A., Nietzsche e la crisi dell’Occidente, Marsilio, Venezia, 2000, pp. 86 ss.). 54. Masini F., Lo scriba del caos, cit., p. 34. 55. «La grandiosità della natura, tutte le sensazioni di alto, di nobile, affascinante, bello, buono, severo, possente, trascinante, che abbiamo nella natura, nell’uomo e nella storia, non sono sentimenti immediati, bensì effetti postumi di innumerevoli errori che abbiamo assimilato – tutto sarebbe freddo e morto per noi, senza questa lunga scuola. Già le linee sicure della montagna, le sicure gradazioni di colore, il piacere diverso per ogni colore sono ereditari: in un momento qualsiasi, questo colore fu, meno di ogni altro, collegato a fenomeni minacciosi, e gradualmente agì in senso tranquillizzante (come l’azzurro)» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [302], p. 442). 56. «L’uomo vuole soltanto la verità: egli desidera le conseguenze piacevoli – che preservano la vita – della verità, è indifferente di fronte alla conoscenza

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conta nella comunicazione non è unicamente la verità, ma anche le sue conseguenze, il suo significato per la vita. Siamo già oltre Schopenhauer che ha di mira la verità ma costruisce ancora per il significato, per le indicazioni esistenziali che se ne possono ricavare e a cui, in fondo, è affidata la valorizzazione di una data teoria. Perveniamo invece a nuove indicazioni per la prassi di ricerca dell’originario della vita laddove, in margine ad ogni concezione intersoggettiva novecentesca, il processo conoscitivo-oggettivante dell’altro viene riabilitato in quanto ritenuto da Nietzsche capace di garantirne la specificità come individuo, l’irriducibile singolarità, il «primo criterio» da seguire. Considerare prima di tutto l’altro uomo come una cosa, come un oggetto della conoscenza, al quale si deve rendere giustizia: l’onestà proibisce di misconoscerlo, anzi di trattarlo partendo da un qualsiasi presupposto inventato o superficiale. Far del bene è la stessa cosa che portare alla luce una pianta per vederla meglio; anche far del male può essere un mezzo necessario, perché la natura si disveli. Non trattare tutti come persone, ma come persone fatte in questo o quel modo: primo criterio! Come qualcosa che deve essere conosciuto, prima di poter essere trattato in questo o quel modo. Una morale con prescrizioni universali fa torto a ogni individuo57.

Nel destino degli uomini che «vedono e ascoltano pensando», la ricerca dell’originario passa attraverso il rifiuto del presupposto, rifiuto cioè del passato e apertura alla ricerca del nuovo, dell’inedito e, nello stesso tempo, valorizzazione di alcune pura, priva di conseguenze, mentre è disposto addirittura ostilmente verso le verità forse dannose e distruttive» (Nietzsche Fr., Über Wahrheit und Lüge im außermoralischen Sinne, 1873; tr. it. Su verità e menzogna in senso extramorale, in Id., La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. III, tomo II, Adelphi, Milano, 1980², pp. 353-372, p. 358). 57. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [63], pp. 351-352.

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modalità pratiche, l’incredulità, la lateralità, la trasversalità58, modalità meno valorizzate, se non proprio osteggiate, dalla tradizione socratico-platonica, che vi ha contrapposto il conoscere e la frontalità del sapere. Storicamente, infatti, già a partire da Parmenide, le cose avevano assunto una piega diversa, e si erano create contrapposizioni ideologiche che, in seguito, hanno impedito ogni progresso reale, e continuano ancora oggi a creare sempre nuove contrapposizioni, onde il problema non si risolve con il semplice rischiaramento dei termini e dei poli concettuali in questione. Tuttavia, proprio da queste contrapposizioni è necessario ripartire, ed una delle più perniciose è quella della separazione tra spirito greco e spirito cristiano che, secondo Nietzsche, rende impossibile all’uomo la fuoruscita dalla metafisica ed il conseguente “recupero” del mondo. Recupero da perseguire, dunque, attraverso una serrata polemica del pensiero con la Grecia ed il Cristianesimo, colpevoli entrambe di concludere sempre contro il mondo.

2. Grecità e Cristianesimo Per ciò che concerne lo spirito greco, l’avversione di Nietzsche diviene, con il tempo, radicale. Esauritosi l’entusiasmo giovanile in cui esso appare, in pieno rispetto della tradizione goethiana, il «luogo sacro» in cui l’uomo esprime «l’infinito 58. «Dal momento che, secondo Nietzsche è impossibile afferrare l’origine in una padronanza speculare e diretta, il problema di una conoscenza e di un rapporto con l’origine si pone in modo tortuoso, trasversale, indiretto. Afferrare l’origine in un certo senso è un gesto destinato al fallimento: questo gesto da una parte supplisce e dall’altra rivela un posto originariamente vuoto» (Dalmasso G., Il ritorno della tragedia. Essere e inconscio in Nietzsche e in Freud, Franco Angeli, Milano, 1983, p. 50).

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attraverso il finito»59, l’animo del filosofo di Röcken si raffredda sempre di più: la Grecia cessa a poco a poco di essere un modello in quanto, come egli spiega in Ecce Homo, «perfino nei grandi Greci della filosofia, quelli dei due secoli prima di Socrate», al di là delle apparenze, manca la «saggezza tragica», cioè la «trasposizione dell’elemento dionisiaco in pathos filosofico»60. Nei greci, nello specifico, Nietzsche individua il sorgere e il consolidarsi del nesso identificativo tra conoscenza e dominio del reale, tra conoscenza e vita61, dunque tra conoscenza e verità, che raggiunge il suo compimento nel venire ammantata eticamente tramite «lo sguardo e l’innocenza del bene»62. Si perviene così ad un radicale disconoscimento

59. Banfi A., Introduzione a Nietzsche, cit., p. 43. 60. Nietzsche Fr., Ecce Homo (1888); tr. it. Ecce Homo, in Id. Il caso Wagner. Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello. L’anticristo. Maledizione del Cristianesimo. Ecce Homo. Nietzsche contra Wagner, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VI, tomo III, Adelphi, Milano, 1970, pp. 263-386, p. 321. 61. «Laddove vita e conoscenza sembravano venire in contraddizione l’una con l’altra, non si dette mai seriamente battaglia; a quel punto negazione e dubbio erano ritenuti assurdità. Quei pensatori d’eccezione, come gli Eleati, che tuttavia perseveravano nel sostenere i principi opposti agli errori naturali, credettero che fosse anche possibile vivere quest’opposto: così inventarono il saggio, l’uomo dall’intuizione immutabile, impersonale, universale, uno e tutto al tempo stesso, con una facoltà sua particolare per quella conoscenza rovesciata; erano indotti a credere che la loro conoscenza fosse insieme il principio della vita» (Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 110, pp. 138-139). 62. «Non soltanto utilità e piacere, ma istinti d’ogni specie si schierarono nella battaglia per “le verità”; la battaglia intellettuale divenne un’occupazione, un’attrattiva, una vocazione, un dovere, un merito – la conoscenza e l’aspirazione al vero trovarono finalmente il loro posto nel sistema, come un bisogno tra gli altri bisogni. Da quel momento non solo la credenza e il convincimento, ma anche l’esperimento, la negazione, la diffidenza, la contraddizione furono una potenza, tutti gli istinti “malvagi” furono subordinati al conoscere e posti al suo servizio e s’ebbero lo splendore di quel che è

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della vita operato da litigiosi tiranni del pensiero63, più nel dettaglio, «tiranni dello spirito» in perenne conflitto tra loro, responsabili essi stessi della propria scomparsa. Questi molti, piccoli tiranni avrebbero voluto mangiarsi vivi; in loro non era rimasta più alcuna scintilla di amore e anche troppo poca gioia per la loro stessa conoscenza. Il detto che i tiranni muoiono per lo più assassinati e che la loro discendenza ha vita breve, vale anche in genere per i tiranni dello spirito. La loro storia è breve, violenta, il loro influsso si interrompe bruscamente. Quasi di tutti i grandi Elleni si può dire che essi sembrano giunti troppo tardi, così di Eschilo, di Pindaro, di Demostene, di Tucidide; una generazione dopo di loro – e tutto è sempre completamente finito. È questo il lato tempestoso e inquietante della storia greca64.

Il momento apicale di questo processo politico-gnoseologico da cui, secondo Nietzsche, trae origine la «scienza», si ha con la figura di Socrate, a partire dal quale ogni successivo «apparire dei filosofi Greci» diviene «sintomo di décadence»65. Socrate infatti rappresenta «il tipo di una forma di esistenza pri-

permesso, onorato, utile e, in definitiva, lo sguardo e l’innocenza del bene» (ivi, p. 140). 63. «Trovarono questa luce della loro conoscenza, in ciò che ognuno di loro chiamò la sua “verità”. Ma allora la conoscenza aveva ancora un più grande splendore: era ancora giovane e sapeva ancora poco di tutte le difficoltà e i pericoli dei suoi sentieri, poteva, allora, sperare ancora di giungere con un unico balzo al centro di tutto l’essere e di sciogliere di là l’enigma del mondo. Questi filosofi avevano una robusta fede in sé e nella loro “verità” e rovesciavano con essa tutti i loro vicini e predecessori; ognuno di loro era un violento e litigioso tiranno» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 261, p. 184). 64. Ivi, pp. 184-185. 65. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 11 [375], p. 371.

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ma di lui mai esistita, il tipo dell’uomo teoretico»66, che si nutre di «una profonda idea illusoria […], ossia quell’incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere», in modo che, addirittura, «il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere»67. Ne consegue una svalutazione della sostanziale alterità del mondo a favore di una sua ri(con)duzione significativa alla sfera ideale, di cui il principale “responsabile” sarà Platone. E il giudizio di Nietzsche contro gli «Elleni» diventa così ancora più crudo, fino a rinnegare l’entusiasmo iniziale per il loro «ardimentoso realismo». Io vidi il loro istinto più forte, la volontà di potenza, li vidi tremare dinanzi alla sfrenata violenza di questo istinto – vidi tutte le loro istituzioni trovare l’origine del loro sviluppo in misure protettive, allo scopo di cautelarsi reciprocamente dalla loro interiore materia esplosiva. L’enorme tensione interna si scaricava così in un’ostilità tremenda e indiscriminata verso l’esterno: le comunità statali si dilaniavano tra loro, affinché i cittadini di ognuna trovassero pace e protezione da se stessi. Si sentiva la necessità di essere forti: il pericolo era vicino – stava ovunque in agguato. La splendida scioltezza delle membra, l’ardimentoso realismo e immoralismo, che è

66. Nietzsche Fr., Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik (1872); tr. it. La nascita della tragedia, in Id., La nascita della tragedia – Considerazioni inattuali, I-III, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. III, tomo I, Adelphi, Milano, 1982³, pp. 1-163, p. 99. 67. Ivi, pp. 100-101. Dalmasso spiega le motivazioni che sorreggono le argomentazioni nietzscheane: «la scienza riposa così su un mito: che la realtà sia giustificabile con la ragione. C’è una economia complessa secondo Nietzsche che presiede al costituirsi di questa convinzione. La scienza si costituirebbe come difesa dal terrore della morte e come difesa dal pessimismo pratico» (Dalmasso G., Il ritorno della tragedia. Essere e inconscio in Nietzsche e in Freud, cit., p. 46).

68 proprio dei Greci, è stato una necessità, non una «natura». Viene soltanto in seguito, non esisteva da principio68.

E a ben poco serve salvare della Grecità la figura di Epicuro, in cui Nietzsche rileva «la gioia pomeridiana dell’antichità [...], la gioia d’un occhio davanti al quale il mare dell’esistenza si è quietato e che non si sazia più di guardare la sua superficie, e questo screziato, tenero, rabbrividente velo di mare: non era mai esistita – prima di allora – una tale compostezza della voluttà»69; o il «dubbio» che gli resta a proposito delle riflessioni di Eraclito sull’«affermazione del flusso e dell’annientare», sull’esaltazione del «divenire, con rifiuto radicale perfino del concetto di “essere”», in modo da farlo considerare quasi una sorta di “precursore” della dottrina dell’«eterno ritorno»70: il suo giudizio critico verso gli Elleni permane deciso e costante nella sua severità. Se quindi in tale giudizio verso la Grecità osserviamo una evoluzione da un’ammirazione entusiasta ad una critica severa, verso il Cristianesimo il rifiuto di Nietzsche è invece fin dal principio indiscriminato e ininterrotto. Laddove i greci vedevano nei loro dèi un «ideale», i «popoli italici hanno invece una vera religione da contadini, con una costante paura di potenze malvagie e capricciose e di spiriti maligni». Dove gli dèi olimpici arretravano, anche la vita greca era più fosca e piena di paura. Per contro, il Cristianesimo schiacciò

68. Nietzsche Fr., Götzendämmerung, oder Wie man mit Hammer philosophiert (1889); tr. it. Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello, in Id., Il caso Wagner. Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello. L’anticristo. Maledizione del Cristianesimo. Ecce Homo. Nietzsche contra Wagner, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VI, tomo III, Adelphi, Milano, 1970, pp. 51-163, p. 157. 69. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 45, p. 81. 70. Nietzsche Fr., Ecce Homo, cit., pp. 321-322.

69 e frantumò l’uomo completamente e lo sprofondò come in una fonda palude; poi nel sentimento di totale abiezione, fece brillare tutto a un tratto lo splendore di una divina pietà, sicché l’uomo sorpreso, stordito dalla grazia, emise un grido di rapimento e per un attimo credette di portare in sé il cielo intero. Su questo morboso eccesso di sentimento, sulla profonda corruzione della mente e del cuore a esso necessaria, agiscono tutti i sentimenti psicologici del Cristianesimo: esso vuole annientare, spezzare, stordire, inebriare, solo una cosa esso non vuole: la misura, e perciò è, nel senso più profondo, barbarico, asiatico, non nobile, non greco71.

Tale rifiuto raggiunge punte originali nella Genealogia della morale quando l’immagine dell’uomo di Dio viene da Nietzsche radicalmente capovolta rispetto a quella che se ne offre di solito: non l’eroe dello spirito, ma l’egoista più raffinato e violento. Il senso è questo: l’io proprio, che è debole, come egli nota in uno dei Frammenti postumi dell’autunno del 1887, «postula il proprio tipo come misura di valore in genere; lo si proietta nelle cose, dietro le cose, dietro il destino delle cose – come Dio»72. Ci troviamo pertanto di fronte ad un «ardito rovesciamento»73 degli antichi ideali greci, perché «mentre l’antichità credeva nella ragione (nell’origine divina della ragione), nella virtù (come somma razionalità e indipendenza dello spirito), il Cristianesimo insegna il sospetto che tutto in fondo sia malvagio e irrimediabile, che l’orgoglio della mente

71. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 114, p. 98. 72. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 10 [157], p. 190. 73. Nietzsche Fr., Morgenröte. Gedanken über die moralischen Vorurteil (1881); tr. it. Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, in Id., Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali. Frammenti postumi (1879-1881), «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. V, tomo I, Adelphi, Milano, 1986, pp. 1-269, n. 130, p. 98.

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sia il suo più grande pericolo, eccetera»74. Ne consegue, da una parte, l’umanità sgraziata, maldestra e sventata, onde tutto quello che proviene da essa è negativo, espressione di eterna insoddisfazione che si esprime e si mette in mostra perché diventi segno di grandezza sfortunata e così motivo di possibile altrui interesse; dall’altra, «l’ascesi come mezzo di potenza»75. Andando ben oltre Feuerbach, la critica nietzscheana della religione colpisce non soltanto il meccanismo alienante, astrattivo e sostitutivo che la costituisce teoreticamente, ma tocca le motivazioni fisiologiche e psicologiche reali o supposte tali del cristiano e dell’uomo di chiesa. Ora, questa visione si crea nella storia ad opera di un gruppo determinato di uomini: i «deboli» guidati dai «sacerdoti», e ciò genera una contrapposizione tra chi assegna valore e capacità produttiva ai «forti» e chi invece assegna tali virtù ai deboli e agli oppressi, e fa leva sul loro numero per condizionare il progresso della storia. Il superamento della polemica contro tale contrapposizione è pensabile per Nietzsche dapprima come ritorno a quel dionisiaco a cui i greci accordavano una funzione catartica76, anche se ciò rivela ben presto di non costituire una via filosofica soddisfacente in quanto la proposta che ne consegue non presenta caratteri organici tali da assegnare ad ogni elemento il suo posto nell’intero del comportamento. Dal

74. Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1885-1887; tr. it. Frammenti postumi 1885-1887, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VIII, tomo I, 1990², n. 7 [30], p. 291. 75. Ivi, n. 7 [5], p. 258. 76. «Questa è la radice di tutta la libertà di spirito morale dell’antichità. A ciò che era cattivo e pericoloso, a ciò che era animalesco e retrogrado, altrettanto che barbaro, al pregreco ed all’asiatico, che ancora vivevano in fondo alla natura greca, si accordava uno sfogo moderato e non si mirava a distruggerlo completamente» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte prima, n. 220, p. 84).

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contrasto tra spirito greco e spirito cristiano si rende dunque necessario passare all’analisi di una ulteriore contraddizione. Una via articolata all’agire secondo ragione si scorge infatti rilevando come la prima contrapposizione, che avvolge interamente ogni pensiero che voglia presentarsi sulla soglia dell’autonomia, quella tra spirito greco e spirito cristiano, a ben guardare, irrigidendosi consente di individuarne un’altra, quella tra Sud e Nord, la cui dicotomia geografica per Nietzsche diviene, paradigmaticamente, contrapposizione tra orizzonti razionali peculiari e specifici77. Di entrambe è possibile pensare il superamento quando ci si dispone, come Nietzsche ha fatto, ad impegnarsi a lungo in questo compito.

3. Sud e Nord nella storia europea Da tempo è stato rilevato che «i problemi di Nietzsche sono i problemi di sempre: essere e divenire, verità ed errore, bene e male, Dio e uomo»78. Egli riflette sulla prassi orientata dalla palude al senso dell’essenziale e del necessario, in cui compaiono strategie umanizzanti che dividono in due versanti la cultura dell’uomo occidentale. La filosofia convoglia i propri

77. Nel suo continuo e inquieto peregrinare alla ricerca di un clima di volta in volta più favorevole alle sue cagionevoli condizioni di salute, che rappresenta una costante della sua biografia e che trova in Italia una meta privilegiata di riferimento, Nietzsche riflette sulla differenza di Weltanschauungen che la diversità dei luoghi produce nel modo di pensare del Sud e del Nord (non nascondendo una certa propensione per quello del Sud). In tal modo la diversità “di latitudine” diviene occasione (e pretesto) per una critica culturale (soprattutto nei confronti dell’«anima tedesca»), ed è questo il senso in cui si annunciano categorialmente tali riferimenti geografici. 78. Alfieri L., Noi nietzscheani …, in “Prassi e teoria”, anno V – nuova serie – n. 1, 1979, pp. 231-243, p. 233.

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sforzi verso quei modi del fare che tendono a realizzare un rapporto organico ed esaustivo con la contingenza: mira cioè a istituire un vero e proprio ethos umanizzante, totale e riconosciuto, e si dispone a determinare, sulla base del ruolo che le impone la situazione, una vera e propria “natura”. Il pensatore moderno si trova di fronte non soltanto al “bivio” dell’antico e del moderno, dello scienziato e del filosofo, scagliato «come un dardo in mezzo agli uomini», oppure della natura e della società, ma anche di fronte al bivio delle operazioni originarie che a queste opposizioni di superficie conducono. Se per mediare le prime opposizioni è sufficiente il “memento vivere”, il secondo bivio non appare che come una superficiale contrapposizione al Moderno radicato ancora nel “memento mori”. Il cammino della ragione si presenta invece di lunga durata e può, secondo Nietzsche, essere soltanto avviato da un singolo pensatore. Il filosofo di Röcken si propone così di delineare una direzione, un qualche “senso” per la vita dell’individuo, ma il conseguimento di tale obiettivo passa attraverso la ricostruzione dei dati approntati dalla civiltà, che possono dotare di spessore i movimenti della ragione. “Conferire forma” a un problema, non voler “comprendere tutto”, rappresenta il primo passo del filosofare, e il pessimismo di Schopenhauer indirizza verso la corretta via perché rende il mondo “interessante”, capace cioè di mostrare come nel Moderno i bisogni della storia coincidano con quelli dell’educazione, nelle figure dell’educatore e del discepolo che mettono in comune la propria vita: il diritto di essere vivi e vitali e, insieme, la padronanza delle vie tentate dagli altri nel mondo della conoscenza (il selvaggio sperimentare del Romanticismo, il suo recupero operato dall’Idealismo, etc.). Su questa base Nietzsche affronta il filosofare “indipendente”, anche se i dati gli si offrono sotto forma di contraddizione. La

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difficoltà da superare non è rappresentata da Socrate, o meglio, non nasce nel passaggio da Eraclito a Socrate, bensì di fronte a Eraclito e di fronte a Socrate, e a quanto essi rappresentano. A costituire problema non sono, pertanto, la scienza, la ratio e la morale e, nel mondo contemporaneo, l’idealismo hegeliano in quanto volontà di Unità, bensì il confrontarsi di queste due vedute sul problema dell’uomo. Sebbene Hegel sia il filosofo dello Spirito come «boa constrictor», non è il suo sistema a costituire il problema della filosofia moderna, tanto da spingere al ricorso all’aforisma, bensì l’immagine del mondo che se ne ottiene, e la relativa pratica umana: il “filisteismo” apparente ed il nichilismo reale. Non troviamo alle sue spalle una Storia Unica che avrebbe le sue tappe nella Metafisica, nella Morale e nella Ragione, ma cento storie che nascono dal contrasto tra “spirito del Sud” e “spirito del Nord”. La ricerca di Nietzsche non rivela perciò nessun interesse per un vuoto e generico sperimentare, così come non si risolve nella essenziale ermeneutica prospettivistica, ma riflette determinatamente per sviscerare i capitoli di una civiltà incompiuta. La contraddizione che opera come filo conduttore del suo pensiero permane come eredità dei suoi studi giovanili sulla nascita della tragedia e sulle figure di Apollo e Dioniso. Originate dalla cultura mitologica greca, a causa dell’impatto con il Cristianesimo esse declinano su un orizzonte di squilibrio, «perché la dottrina cristiana fu la controdottrina che negava quella dionisiaca»79. In seguito, secondo una prospettiva per cui il Sud e il Nord, con i rispettivi impatti ambientali, suscitano nell’uomo un modus agendi et cogitandi diversificato, esse riacquistano una figura significativa a livello di indagine sulla ragione e di ricerca sulla filosofia.

79. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 41 [7], p. 372.

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Al Sud, Dioniso viene fermato dalla metafisica e produce in modo “innaturale”: le forme che ne derivano non salvano, come già in Grecia, «dall’estasi chiaroveggente e dal disgusto per l’esistenza»80 ma, al contrario, attraverso tutte le mediazioni subite nel corso della storia, egli produce disgusto, nichilismo. Lo stesso Apollo viene trasfigurato già in Grecia quando, con l’unione del dionisiaco e dell’apollineo, l’arte dionisiaca non è più verità: «la verità viene ora simboleggiata, si serve dell’illusione, può e deve quindi usare le arti dell’illusione. […] L’illusione non viene più goduta come illusione, bensì come simbolo, come segno della verità»81. Sopravvive pertanto sotto le spoglie cristiane del Christus Victor, che viene però a simboleggiare la «sconfitta del nemico più difficile da sconfiggere, come istantaneo soggiogamento di un affetto»82, come figura che, fin dalla sua comparsa testimoniava, in bontà e in conoscenza, qualcosa che andava oltre la misura umana. E come Apollo si presenta nelle vesti di Argutorox, “portatore di luce”, così Cristo, risorgendo, restituisce splendore al creato macchiato dal peccato originale, rinnova agli uomini la speranza, anche se a costo di mettere la storia al servizio del «significato»83.

80. Nietzsche Fr., Die dionysische Weltanschauung (1870); tr it. La visione dionisiaca del mondo, in Id., La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. III, tomo II, Adelphi, Milano, 1980², pp. 49-77, p. 65. 81. Ivi, p. 69. 82. Umano, troppo umano, I, cit., n. 138, p. 110. 83. Ciò che non è riuscito ad Eraclito, ridurre tutti gli uomini ad ascoltare il Logos, riesce ora al Cristianesimo, che mette definitivamente la storia agli ordini del significato: «non ciò che il santo è, ma ciò che egli significa agli occhi dei non santi» (Umano, troppo umano, I, cit., n. 143, p. 115). Da qui in avanti al mondo dei potenti, magari bardati di splendenti paramenti sacri, non resta che appropriarsi dei mezzi di comunicazione di massa: il gioco della violenza al potere è compiuto. La storia consiste nel tentativo

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Al Nord, invece, Dioniso insiste all’infinito in se stesso, anche se viene ugualmente ostacolato: è costretto a fagocitare Apollo e a farlo apparire solo al tempo dell’opera giovanile e a farlo sembrare, tramite l’arte, eccezionale. Soltanto gli artisti odiano questo indolente incedere secondo maniere tolte a prestito e opinioni appiccicaticce, e svelano il segreto, la cattiva coscienza di ognuno, la proposizione secondo cui ogni uomo è un miracolo irripetibile; essi osano mostrarci l’uomo quale egli stesso, quale lui solo è fino in ogni movimento dei suoi muscoli e, ancor più, che in questa rigorosa coerenza della sua unicità egli è bello e degno di considerazione, nuovo e incredibile come ogni opera della natura, e niente affatto noioso84.

In seguito, con il maturare del suo pensiero, in Nietzsche i termini della contrapposizione si evolvono, e Sud e Nord vengono affrontati su basi diverse. Il primo versante figura come luogo delle pratiche ispirate al «piccolo scetticismo per ogni cosa, sia esso Dio o uomo o concetto»85, alla «sottile chiarità di cielo»86, al sangue «spumeggiante»87, alla «sottigliezza» e alla «meridionale raffinatezza» con cui il Cristianesimo «ha saputo intuire con quale sorta di passioni stimolatrici può essere almeno temporaneamente debellata la depressione profonda,

generalizzato di appropriarsi di una piccola parte della violenza sociale a disposizione dei gruppi organizzati, e dei singoli che qui e lì vogliono sostituirsi a essi, affondando i propri “canini” in questa materia di cui c’è sempre grande abbondanza. 84. Nietzsche Fr., Considerazioni inattuali, I-III, cit., p. 359. 85. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 207, p. 157. 86. Nietzsche Fr., Jenseit von Gut und Böse (1886); tr. it. Al di là del bene e del male, in Id., Al di là del bene e del male. Genealogia della morale, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VI, tomo II, Adelphi, Milano, 1986, pp. 3-209, n. 240, p. 151. 87. Ivi, n. 254, p. 170.

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la plumbea estenuazione, la nera tristezza dei fisiologicamente inibiti»88. Il Nord viene a simboleggiare invece il luogo delle pratiche ispirate alla «sveltezza» offerta dal «freddo», onde una cosa viene «afferrata al volo, adocchiata e colta in un baleno», senza «averci fatto sopra la cova come su di un uovo»89, modulate come sono dalla «tedesca possanza e sovrabbondanza d’anima, che non ha paura di nascondersi sotto le raffinatezze della decadenza»90, da quell’«anima tedesca» che è «innanzitutto multiforme, di varia origine, più qualcosa di composito e sovrapposto che di realmente costruito»91. Qui, in questa versione della contrapposizione, il Sud mostra che l’uomo nel corso dei secoli non si è soltanto ritirato «sull’isola ideale, in quel mondo di sogno dove la fantasia sublima la propria debolezza improduttiva chiamandola Dio», per garantirsi «un perimetro di sicurezza all’interno del quale consolarsi a buon mercato degli scacchi della vita»92, ma ha saputo costruire un mondo e un «genere di vita» a immagine e somiglianza di quella fantasia chiamata “Dio”, come ben mostra la “fondazione” del Cristianesimo. Il significato, l’originalità del fondatore di una religione si rendono di solito evidenti nel fatto che egli lo vede, questo genere di vita, lo sceglie, per la prima volta prevede a qual fine può servire, come può essere interpretato. Gesù (o Paolo), per esempio, s’imbatté nella vita della povera gente della provincia romana, una vita modesta, piena di virtù, conculcata; egli la interpretò: ripose in essa il più alto senso e valore – e con ciò il coraggio di disprezzare ogni altro 88. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 335. 89. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 381, p. 306. 90. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 240, pp. 151-152. 91. Ivi, n. 244, p. 155. 92. Occhipinti M. F., La metafisica dell’Eterno ritorno in F. Nietzsche, in “Rivista di filosofia neoscolastica”, 1967, pp. 543-587, p. 543.

77 genere di vita, il tranquillo fanatismo da Ernutiani, la segreta sotterranea fiducia in se stessi che cresce sempre di più e infine è pronta a “conquistare il mondo”, (cioè Roma e le classi superiori dell’intero impero)93.

È con infinita sottigliezza, dunque, che il Cristianesimo arriva a conquistare94 il mondo e ad organizzarsi per mantenerne il dominio. Un momento esemplare di quest’ultimo processo di conquista è la teorizzazione della coscienza, che si è «sviluppata soltanto sotto la pressione del bisogno di comunicazione»; all’inizio è stata «necessaria e utile soltanto tra uomo e uomo (in particolare tra colui che comanda e colui che obbedisce) e soltanto in rapporto al grado di questa utilità si è inoltre sviluppata». Coscienza è propriamente soltanto una rete di collegamento tra uomo e uomo – solo in quanto tale è stata costretta a svilupparsi: l’uomo solitario, l’uomo bestia da preda non ne avrebbe bisogno. Il fatto che le nostre azioni, i pensieri, i sentimenti, i movimenti siano anche oggetto di coscienza – almeno parte di essi – è la conseguenza di un terribile «dovere», che domina l’uomo da lungo tempo: essendo esso l’animale maggiormente in pericolo ebbe bisogno d’aiuto, di protezione; ebbe bisogno dei suoi simili, dovette esprimere le sue necessità, sapersi rendere comprensibile – e per tutto questo gli fu necessaria, in primo luogo, la «coscienza», gli fu necessario anche «sapere» quel che gli mancava, «sapere» come si sentiva, «sapere» quel che pensava. Perché, lo ripeto ancora una volta: l’uomo, come ogni creatura vivente, pensa continuamente, ma non lo sa; il pensiero che diviene cosciente ne è soltanto la più piccola parte, diciamo pure la parte più superficiale e peggiore: infatti soltanto questo pensiero 93. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 353, p. 257. 94. Sui motivi che hanno portato, secondo Nietzsche, il Cristianesimo ad affermarsi, cfr. Capodivacca S., Danzare in catene: saggio su Nietzsche, postfazione di Umberto Curi (Nietzsche o della seduzione), Mimesis, Milano, 2009, pp. 53 ss.

78 consapevole si determina in parole, cioè in segni di comunicazione, con la qual cosa si rivela l’origine della coscienza medesima95.

Il punto di vista della fuoruscita dell’uomo dall’ambiente materiale della palude oltrepassa e perde di vista l’uomo primitivo come “allontanatore”, come il puro alexìkakos di Vico, mentre recupera l’astuzia, la scaltrezza propria del Sud. Se infatti per Vico gli uomini primitivi (ancora «giganti») vivevano singolarmente, «se ne stavano ciascuno con le loro mogli e figliuole dentro le grotte, né s’impicciavano nulla l’uno dell’altro, servando in ciò il vezzo dell’immane loro recente origine, e fieramente uccidevano coloro che fussero entrati dentro i confini di ciascheduno»96, ora il primitivo perde ogni facoltà originaria collegabile alla sua struttura fisica (e quindi non all’uomo intero che, invece, appare nel mondo moderno) e ne acquista altre che gli derivano direttamente dall’ambiente e dalla lotta che conduce contro di questo. La civiltà si sviluppa in modo diverso, non più lineare, ma sedimentando valori, principi e modalità della prassi sociale con cui la vita si porta al livello umano. Principi, modalità e valori che nell’alexìkakos trovano l’aspetto violento sempre legato a quello produttivo, sempre conseguenza della conservazione della vita. Mentre l’eroe di Vico si limita a organizzare le condizioni di lavoro, prepara radure protette dalle “irruzioni di animali feroci”, l’eroe97 di Nietzsche è esso stesso produttivo e dispensatore di benessere. In più, il famoso «fulmine» che in Vico spiega tutta la storia perché segna il momento in cui l’uomo prende coscienza di

95. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 354, pp. 259-260. 96. Vico G., Princìpi di scienza nuova (1744), in Id. Opere filosofiche, Sansoni, Firenze, 1971, pp. 377-702, p. 658. 97. Sull’idea nietzscheana di “eroe” cfr. Campioni G., Nietzsche. La morale dell’eroe, Ets, Pisa, 2009.

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Dio e di sé, secondo Nietzsche spiega soltanto la nascita della religione e della metafisica. Allo stesso modo infatti con cui il volgo separa il fulmine dal suo bagliore e ritiene quest’ultimo un fare, una produzione di un soggetto, che viene chiamato fulmine, così la morale del volgo tiene anche la forza distinta dalle estrinsecazioni della forza, come se dietro il forte esistesse un sostrato indifferente, al quale sarebbe consentito estrinsecare forza oppure no. Ma un tale sostrato non esiste: non esiste alcun «essere» al di sotto del fare, dell’agire, del divenire; «colui che fa» non è che fittiziamente aggiunto al fare – il fare è tutto. Il volgo, in fondo, duplica il fare; allorché vede il fulmine mandare un barbaglio, questo è un far-fare: pone lo stesso evento prima come causa, e poi ancora una volta come effetto di essa98.

Da questa “duplicazione” nasce la concezione di “anima” propria del volgo, come struttura propria dell’alexìkakos, che tuttavia non coincide con l’accezione che ne fornirà in seguito il Cristianesimo, e che diverrà la spina dorsale di tutta la civiltà umana. Mentre l’uomo edifica la sua cultura intorno alla prima visione dell’anima grazie alla domanda sull’origine, in modo che la ragione cede la sua primigenia tensione all’invenzione e alla ricerca a favore dell’assunzione di un’istanza difensiva di quanto conquistato, secondo Nietzsche l’idea di “anima” propria della cultura tradizionale appare con San Paolo, e ha come unico compito quello di definire una «specie di terapia sacerdotale»99 dei mali umani. Per i cristiani, infatti, l’anima funge da strumento di una pratica di allontanamento del male e del nemico, nemico che viene personalizzato, isolato dallo sforzo di produttività originaria. In seguito, inoltre, il significato di tale pratica viene stravolto e elevato all’eccesso, come già avevano fatto lo stoico «che è re e saggio», e che rivela

98. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 244. 99. Ivi, cit., p. 347.

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un «nuovo senso di potenza», e «non è possibile assoggettarlo con nessun mezzo, egli governa»100, e gli epicurei che «trionfavano per aver sconfitto l’Acheronte e la paura della morte, la paura della natura»101. Non assistiamo più alla nascita della civiltà, bensì al sorgere del nichilismo, dell’addomesticamento dell’uomo e della barbarie. Non è certo un caso il fatto che una filosofia imperniata sulla figura dell’eroe, in tutte le sue forme, si ricordi di Ercole, che da Vico in poi è posto all’origine di tutte le civiltà della terra, solo per dire che i greci erano tanto modesti che «non si sono vergognati di porre tra le fatiche di Eracle anche la pulizia di una stalla»102. Il culto dell’eroe è dal filosofo italiano abbinato al fanatismo, e in questo si stabilisce lo spartiacque tra Illuminismo e Romanticismo, tra spirito dell’Illuminismo e prostrazione romantica103 al Superuomo. Tuttavia, per Nietzsche, le peculiarità dell’eroe erano altre. Che cosa ammiravano i Greci in Odisseo? Innanzitutto la capacità di mentire e quella della scaltra e terribile rappresaglia; il suo essere all’altezza delle circostanze; l’apparire – all’occorrenza – più nobile dei nobilissimi; il poter essere quel che si vuole; l’eroica perseveranza; il procurarsi la disponibilità di ogni mezzo; l’avere spirito – il suo spirito riscuote l’ammirazione degli dei, essi sorridono nel pensarci; – tutto questo è l’ideale greco! La cosa più notevole sta nel fatto che

100. Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1879-1881, tr. it. Frammenti postumi (1879-1881), in Id., Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali. Frammenti postumi (1879-1881), in Id., «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. V, tomo I, pp. 273-623, Adelphi, Milano, 1986, n. 4 [302], p. 407. 101. Ibidem. 102. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 430, p. 216. 103. Cfr. ivi, n. 298, pp. 183-184.

81 qui il contrasto tra apparire ed essere non è affatto avvertito e non è quindi neppure oggetto di una valutazione etica104.

Ulisse e Napoleone vanno ampiamente rielaborati rispetto alla visione che ne ha proposto la tradizione, al fine di farne emergere il carattere storico, il concentrarsi in un individuo di qualità preparate da una lunga gestazione presso uomini “normali”. Ed in quest’ottica acquista visibilità un altro tipo di eroi, di innumerevoli eroi, ai quali dobbiamo la nostra «pluralità di istinti»105, e per i quali il mondo appariva sempre nell’immagine della «palude» da superare, o meglio, da «sommuovere». Ogni più piccolo passo in avanti nel campo del libero pensiero, della vita plasmata in una forma personale, è stato conquistato da tempo immemorabile a prezzo di martìri dello spirito e del corpo. E non soltanto ogni passo in avanti, ma innanzitutto il camminare, il movimento, la trasformazione come tali hanno avuto bisogno dei loro innumerevoli martiri, attraverso i lunghi millenni impegnati alla ricerca di un sentiero e alla determinazione di un fondamento, martiri ai quali indubbiamente non si pensa quando, come siamo soliti fare, si parla di «storia universale», di questo ridicolo piccolo settore dell’esistenza umana; anche in questa cosiddetta storia universale, che è in fondo un rumore intorno alle ultime novità, non c’è veramente nessun tema più importante dell’antichissima tragedia dei martiri che vollero sommuovere la palude106.

104. Ivi, n. 306, p. 185. 105. «Poiché siamo gli eredi di generazioni che hanno vissuto nelle più varie condizioni di esistenza, conteniamo dentro di noi una pluralità di istinti […] Nel mutare degli ambienti nasce un’eminenza delle qualità dovunque le più utili e applicabili» (Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1884; tr. it. Frammenti postumi 1884, «Opere di Friedrich Nietzsche», Adelphi, Milano, 1990², Vol. VII, tomo II, n. 25 [462], p. 121). 106. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 18, p. 21.

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A motivare tali posizioni è proprio l’indicazione della «palude» come luogo primordiale, che porta Nietzsche nell’orizzonte culturale e naturale del Sud («riscoprire in sé il Sud e tendere sopra di sé un chiaro, splendido, misterioso cielo del Sud, riconquistare la salute meridionale e la riposta potenza dell’anima»107). A ciò si aggiunge che viene recuperato anche il valore paradigmatico del punto di vista del Nord. Se da una parte infatti bisogna fare i conti con Leibniz, Kant, Hegel e Schopenhauer che hanno operato, rispettivamente, con il Soggetto tradizionale (Leibniz), con la morale (Kant), con il principio di causa e con «tutte le consuetudini e i vizi della logica» (Hegel)108 e con l’esistenza (Schopenhauer), dall’altra si deve parlare degli europei come dei fanatici delle forme, che hanno bisogno «di quella mascherata che si chiama indumento» e che per l’anima diventa «il travestimento degli “uomini morali”»109, di ricoprire il corpo eliminandone gli aspetti fastidiosi «col pensiero»110: hanno bisogno di una «riduzione della morale a estetica»111. A primeggiare al Nord, è però l’«anima tedesca», e i suoi «enigmi», che Hegel ha ridotto a «sistema», mentre Wagner «ha finito per metterli anche in musica». L’anima tedesca è innanzitutto multiforme, di varia origine, più qualcosa di composito e di sovrapposto che di realmente costruito: questo dipende dalla sua provenienza. Un tedesco, che si sentisse il coraggio di affermare «ah, due anime albergano nel mio petto», sarebbe assai lontano dalla verità, o più esattamente, resterebbe di molte anime indietro alla verità. Come popolo risultante dalla più straordinaria mescolanza e

107. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 41 [7], p. 372. 108. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 357, p. 267. 109. Ivi, n. 352, pp. 255-256. 110. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [53], p. 347. 111. Ivi, n. II [79], p. 358.

83 da un coacervo di razze, perfino, forse con una predominanza dell’elemento preariano, come «popolo di mezzo» sotto ogni aspetto, i Tedeschi sono più inafferrabili, più vasti, più contraddittori, più sconosciuti, più incalcolabili, più sorprendenti, perfino più terribili di quanto lo siano stati altri popoli – essi sfuggono alla definizione e proprio per questo sono la disperazione dei Francesi112.

Ancora. L’anima tedesca è tutta un intrico di labirinti, in essa ci sono caverne, nascondigli, trabocchetti; molta parte ha nel suo disordine l’attrattiva del misterioso; ben conosce il tedesco i segreti sentieri che portano al caos. E come ogni cosa ama il suo simbolo, così il tedesco ama le nubi e tutto ciò che è indistinto, cangiante, crepuscolare, umido e velato: sente come «profondo» l’incerto, il non formato, tutto ciò che si sposta e che cresce. Lo stesso tedesco non è, ma diventa, egli «si sviluppa». Lo «sviluppo» è perciò il ritrovato e il tratto caratteristicamente tedesco nel grande regno delle formole filosofiche – un concetto sovrano che, associato alla birra ed alla musica tedesca, è all’opera per germanizzare l’intera Europa. Gli stranieri si fermano stupiti e attratti dinanzi agli enigmi che propone loro la natura contraddittoria del fondo dell’anima tedesca (Hegel li ha ridotti a sistema, Richard Wagner ha finito per metterli anche in musica)113.

Laddove si vede chiaramente che Hegel per Nietzsche non rappresenta la scoperta della “dialettica servo-padrone”, ma una forma equivoca di molteplicità. Se si vuole esibire ad oculos l’«anima tedesca», si vada un po’ a scrutare nel gusto tedesco, nelle arti e nei costumi tedeschi: quale zotica indifferenza per il «gusto»! Come la cosa più nobile è messa accanto alla più volgare! Quanto disordinata e

112. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 244, pp. 155-156. 113. Ivi, n. 244, pp. 156-157.

84 ricca è tutta questa economia delle anime! Il tedesco strascica con la sua anima; strascica con tutto quel che interiormente egli vive. Digerisce male i suoi eventi, non ne viene mai «a capo»; la profondità tedesca è spesso soltanto una pesante, tardiva «digestione»114.

Si può insomma parlare addirittura di una preponderanza del Nord rispetto al Sud, ma solo se lo si fa reagire con l’occhio esercitato ai valori ed alle pratiche storiche del Sud. Di per sé la ricchezza delle pratiche del Nord è infatti ipnotica e insieme “irritante”, non produttiva. Non stimola a partecipare, a rendersi parte del movimento ed a produrre il nuovo, bensì è impegnata a «prendere precauzioni, come fa il castoro»115. Schopenhauer non nega, ma cambia il segno davanti al Soggetto (il «fondamento filosofico come l’opposto dell’ideale») che da edificante diventa pericoloso e da alleato, anche oltremodo condizionante, si trasforma in ulteriore momento di problematicità per l’esistenza. Dove l’antico Dio esigeva la sottomissione in cambio della vita eterna, il nuovo categoriale schopenhaueriano esige l’ascesi, una decisione continua contro il proprio essere in nome di una pace interiore solo temporanea. In sostanza, l’uomo del Sud e quello del Nord, partendo dalla rispettiva situazione di provenienza e dal ruolo originario sono andati «sviluppando realmente un carattere, dall’arte la natura»116. Il risultato è che il primo offende per la sua volgarità, il «cattivo gusto» con cui giunge alla meta, con cui costruisce un suo mondo privo di profondità e di valore,

114. Ivi, n. 244, p. 157. 115. «Non sono abbastanza forte per il Nord: laggiù dominano le anime pesanti e artificiose, che continuamente e necessariamente lavorano per prendere precauzioni, come fa il castoro» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., p. 400). 116. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 356, p. 263.

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mentre il secondo non conclude, non viene mai a capo di una questione. Sud e Nord hanno comunque portato avanti nella storia un discorso differente da cui non si è ancora estratto quanto vi è di proficuo. Quello che ora è chiaro alla luce di questa contrapposizione è che l’uomo è pervenuto ad una certa modernità in cui nulla è al suo posto perché è stato dibattuto ora da uno e ora dall’altro dei suoi aspetti mondani, e che quindi la soluzione di tale contrasto deve essere una soluzione storica e non, dunque, una soluzione definitiva. Ne deriva che la filosofia assume il suo ruolo quando si sottrae all’ambito degli accademici “indipendenti”, che «vivono senza filosofia e senza arte»117, e può così portare alla luce verità ancora sconosciute. In più, entrando nel contenuto delle proposte di “terapia sociale” del passato, appare evidente che tecnica e morale, gli strumenti a cui si affida la ragione, autonomamente si rivoltano contro la natura e generano mostri. Il cammino corretto sarà allora quello opposto: il radicamento in un territorio intrinsecamente molteplice, la natura, a cui è impossibile applicare ogni ingenua ricetta, fosse pure quella eraclitea del ritorno alla realtà cosmica singolare nella sua pluralità, una nella sua molteplicità. Il radicamento non è un fondamento, ma non è neanche un’erranza semplicistica, “parolaia”. La costruzione è risolutiva ogni volta che riesce ad essere «elevazione degli uomini»118. Neppure la conciliazione è presente: si avrà quando Nietzsche troverà il modo di fare recuperare l’uomo alla natura.

117. Nietzsche Fr., Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten (1872); tr. it. Sull’avvenire delle nostre scuole, in Id. La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. III, tomo II, Adelphi, Milano, 1980², pp. 79-206, p. 196. 118. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 2 [108], p. 101.

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Una prima forma di incontro, ancora genialistica, ipotetica, ci è offerta direttamente dal «Medioevo». Il Medioevo è l’epoca delle passioni più grandi. Né l’antichità né il nostro tempo posseggono questa dilatazione dell’anima: la sua capacità non fu mai maggiore e mai essa fu misurata con misure più lunghe. La corposità fisica, da foresta vergine, dei popoli barbari e gli occhi troppo spirituali, troppo svegli, troppo lucenti degli allievi cristiani dei misteri, ciò che era più infantile e più giovane, e così anche ciò che era troppo maturo e decrepito, la rozzezza dell’animale da preda e il rammollimento e aguzzamento dello spirito della tarda antichità – tutto ciò si riunì allora non di rado in una stessa persona: allora, quando uno cadeva in una passione, la rapida del sentimento dovette essere più violenta, il gorgo più vorticoso, la caduta più profonda che mai119.

Anche Schopenhauer, e Nietzsche non tarderà a rilevarlo, può essere visto come una prima forma di sintesi allorché si considera che, nella ristrettezza e nell’ingenuità «metà cristiana e metà tedesca», per metà aderente al reale, alle cose, e per metà nebbiosa, informe e arbitraria, il suo pessimismo «si è recentemente presentato a questo secolo»120. Un pessimismo che però non «nega», ma rimane contemplativo: colloca il male al suo posto e rende con ciò il mondo «interessante». Natura, conoscenza e vita: sono queste le direttrici su cui Nietzsche stabilisce le coerenze del suo pensiero, che nella dottrina dell’«eterno ritorno dell’uguale» troveranno un inveramento sostanziale. Qui di fondamentale c’è la natura, ma non come tale bensì per quanto su di essa si può costruire. Non che la natura imponga i parametri della possibilità dell’azione, ma essa parla e indica con molta autorevolezza: porta 119. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 222, p. 228. 120. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 56, p. 61.

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l’uomo (come l’animale) ad un’infinità di esperienze vissute che diventano sempre più chiaramente e, come vedremo, per via analogica, significative.

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II Nello spazio del ritorno

0. Coordinate Con la dottrina dell’«eterno ritorno dell’uguale», che rimodula l’idea del legame temporale in cui le scelte umane combinano necessità e libertà in seno ad un orizzonte razionale oggettivo, si apre per la filosofia di Nietzsche una via nuova e definitiva imperniata sull’idea di crescita, di processo ateleologico fondato sull’espansione progressiva e autoimplementazione della vita in termini di forza. Sono queste le coordinate in cui si delinea l’orizzonte della volontà di potenza (Wille zur Macht), come sfondo di relazione tra «quanti» di potenza che produce l’intensificazione della vita poiché, spiega Nietzsche, «nella vita non c’è niente che abbia valore al di fuori del grado di potenza – dato appunto che la vita altro non è che volontà di potenza»1. La dottrina dell’eterno ritorno radicalizza il legame con la palude e costringe la ragione a confrontarsi con il tempo e con l’accadere. Traduce la creatività sul piano dell’Essere, nel considerare ogni “fine” (l’operare del Sud), anche come “inizio”

1. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 5 [71], p. 203.

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(l’operare del Nord): due estremi che si modulano secondo un discrimine creativo, naturale e umano. In questo senso, inizio e fine pervengono ad un incontro nello spazio interstiziale del ritorno, in base a una dinamica genealogica2 che ridefinisce le possibilità dell’umano e i confini della sua azione. Zarathustra tiene insieme i contrari, ma i contrari non sono più l’“Uno” e il “Tutto”, su cui Nietzsche ironizza spesso, ma proprio il Sud e il Nord, con tutto ciò che essi significano in tema di liberazione dell’uomo e di costruzione del suo futuro. Si tratta di una prospettiva che non compare nell’antichità quando si va oltre i cicli con il progetto umano, con un distacco netto dell’anthropos dal suo habitat e dalle risorse di “maghi” e “indovini”, cioè mediante la costruzione di modelli dell’agire (ad esempio l’“archetipo”) che culminano con la “scoperta” finale della coscienza, ai quali il filosofo tedesco contrappone lo studio dell’uomo nella natura. Non è insomma inventando che si approda a parlare dell’uomo reale e del tempo che lo caratterizza durante l’esistenza, bensì elaborando costruzioni ipotetiche da sperimentare, siano esse pure errate, come quelle che «ci hanno insegnato ad apprezzare l’eroe che si cela in ognuno di tutti questi uomini quotidiani» o, come è avvenuto per la religione, che ha prescritto «di riguardare la peccaminosità di ogni singolo uomo con la lente d’ingrandimento» e ha fatto «del peccatore un grande delinquente immortale: men-

2. Il metodo “genealogico” a cui Nietzsche ricorre non rimanda, infatti, ad una sorta di esame preparatorio, cronologicamente anteriore all’atto, come se si dovessero ordinare gli strumenti prima di dare inizio all’azione, ma a un’analisi contestuale alla ricerca intrapresa, un’analisi che già racchiude i segni di un percorso soltanto in apparenza non iniziato: come se per raggiungere la meta ci si trovasse costretti a dover ripercorrere, in ogni momento, un cammino a ritroso verso l’origine, seguendo un movimento centrifugo e nello stesso tempo centripeto che necessita di una verifica continua del percorso compiuto. Un movimento in cui, dunque, il punto iniziale e finale coincidono, al punto che i loro confini appaiono sfumati.

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tre essa descriveva intorno a lui prospettive eterne, insegnò agli uomini a vedersi da lontano e come qualcosa di passato, come un tutto»3. Non si tratta dunque di inventare, ma di trasfigurare quello che già esiste, si muove e si sviluppa in una dinamica che può essere oggetto di osservazione e costruzione intellettuale: la dottrina dell’eterno ritorno prima, e la volontà di potenza dopo, obbediscono a questo principio e, insieme, lo giustificano. Ne viene che la ragione non appartiene più ai nani, ma ai giganti, e può trovarsi ormai di fronte alla verità: «quelle mani d’acciaio della necessità, che scuotono il bossolo dei casi, giuocano per un tempo infinito il loro giuoco: dovranno allora capitare getti di dadi, che assomiglino perfettamente al finalismo e alla razionalità di ogni grado»4. Oltre la metafisica del Soggetto, che tramite il ricorso all’universalità sancisce il distacco di ogni iniziativa umana dalla natura e da ciò che risulta essere, in qualche modo, vicino, puntuale e determinato, mentre attraverso la compassione prende congedo dalla creazione e impoverisce il mondo, troviamo la ragione e l’anima che sa «essere spugna»5, in grado cioè di dischiudere l’orizzonte del nuovo che supera il mondo rimanendo in esso, e di rapportarsi alla verità come insieme di “nuove verità” «in sacrificio continuo»6. In tal senso, la ragione si dispone ad accogliere una modalità temporale inedita, l’unica possibile, per rappor-

3. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 78, p. 103. 4. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 130, p. 99. 5. Nietzsche Fr., Also sprach Zarathustra. Ein buch für Alle und Keinen (1883-1885); tr. it. Così parlò Zarathustra, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VI, tomo I, Adelphi, Milano, 1973², p. 71. 6. Jaspers K., Nietzsche, cit., p. 158.

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tarsi alla palude e consentire alla cultura di rimanere nel mondo, nelle «cose prossime»7.

1. Tempo e radicamento. I compiti dell’umano Avendo criticato la «professione di fede filistea» di Hegel, che ha creato «una formula per la divinizzazione della quotidianità», predicando la «razionalità di tutto ciò che è reale»8, e avendo preso altresì le distanze dall’irrazionale che, tuttavia, «sembra oggi l’unica cosa “reale”, cioè l’unica cosa che sia operante»9, Nietzsche ritiene di essere approdato in una terra diversa, in cui «dubbi, slanci, bisogni della vita, disperazioni»10 potrebbero trovare risposta. Di contro, essendo partito dall’analisi della vita nella palude, egli tende verso un potenziamento della stessa non in termini di cruda belluinità, bensì di «elevazione degli uomini», come celebrazione del radicamento che non smarrisce né le cupe proiezioni dell’origine nel tempo, né quanto di valido via via si è potuto realizzare. In tal guisa, l’eterno ritorno, «come martello in pugno all’uomo più potente»11, appare innanzitutto come dottrina cosmica, che confligge con l’antropomorfizzazione teleologica del «caos» naturale12. La

7. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n.13 [20], p. 506. 8. Nietzsche Fr., Considerazioni inattuali, I-III, cit., p. 178. 9. Nietzsche Fr., Sull’avvenire delle nostre scuole, cit., p. 195. 10. Ivi, pp. 198-199. 11. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884, cit., n. 27 [80], p. 273. 12. «Il carattere complessivo del mondo è […] caos per tutta l’eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine, articolazione, forma, bellezza, sapienza e di tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane. A giudicare dal punto di vista della nostra ragione, i colpi mancati sono di gran lunga la regola, le eccezioni non sono la meta

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filosofia deve riscoprire l’orizzonte naturale dell’antica palude e, di contro, «naturalizzare» l’uomo, cioè ricondurlo (sotto un profilo teoretico, perché l’uomo non potrebbe comunque, neanche volendo, separarsi dal suo fondo vitale) nella natura stessa, conservandone le caratteristiche originali, via via arricchite da molteplici esperienze che di essa si sono avute e si possono avere. In questo ambito, il divenire rappresenta per Nietzsche la «stessa modalità di esistenza del positivo»13 o la soluzione del vecchio problema dell’Uno e del molteplice in quanto, come spiega Deleuze, «si afferma l’Uno del molteplice, l’Essere del divenire»14. Non si ha più, pertanto, un’opposizione tra molteplicità e unità (categoriali propri del nichilismo), e neanche tra essere e divenire. Ciò non vuol dire però che il molteplice venga «legittimato dall’Uno, né il divenire dall’Essere».

segreta e l’intero congegno sonoro ripete eternamente il suo motivo che non potrà mai dirsi una melodia – e, infine, anche la stessa espressione “colpo mancato” è un’umanizzazione che include in sé un biasimo. Ma come potremmo lodare e biasimare il tutto? Guardiamoci dall’attribuirgli assenza di sensibilità e di ragione, ovvero il loro opposto: l’universo non è perfetto, né bello, né nobile e non vuole diventare nulla di tutto questo, non mira assolutamente ad imitare l’uomo! […] Guardiamoci dal dire che esistono leggi nella natura. Non vi sono che necessità: e allora non c’è nessuno che comanda, nessuno che presta obbedienza, nessuno che trasgredisce. Se sapete che non esistono scopi, sapete anche che non esiste il caso: perché soltanto accanto a un mondo di scopi la parola “caso” ha un senso. Guardiamoci dal dire che morte sarebbe quel che si contrappone alla vita. Il vivente è soltanto una varietà dell’inanimato e una varietà alquanto rara. – Guardiamoci dal pensare che il mondo crei eternamente qualcosa di nuovo. Non esistono sostanze eternamente durature: la materia è un errore, né più né meno del dio degli Eleati» (Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 109, pp. 136-137). 13. Occhipinti M. F., La metafisica dell’Eterno ritorno in F. Nietzsche, cit., p. 551. 14. Deleuze G., Nietzsche, Presses Universitaires de France, Paris, 1965; tr. it. Nietzsche con antologia di testi, Bertani, Verona, 1973, p. 38.

94 Il molteplice è affermato in quanto molteplice, il divenire è affermato in quanto divenire. Questo significa che l’affermazione è essa stessa molteplice [plurale], che essa stessa diviene e che il divenire e il molteplice sono essi stessi delle affermazioni. C’è come un gioco di specchi nell’affermazione ben compresa15.

In questo modo, «l’Essere e l’Uno perdono ben più che il loro senso: ne prendono uno nuovo», e precisamente che «l’Uno si dice del molteplice in quanto molteplice (briciole o frammenti)», mentre «l’Essere si dice del divenire in quanto divenire»16. In sostanza, il divenire appare come giuoco del tempo senza soggetto, come «divenire in azione»17, ma non per questo figura senza attori più o meno protagonisti. Tuttavia, nell’eterno ritorno, per Nietzsche non è in questione la semplice assunzione del divenire, il mero ritorno ad Eraclito: lo Zarathustra, spiega Cacciari, «si conclude in Dioniso, nell’insegnamento della eternità-ripetizione come gioco dell’essere, nella visione della caducità dell’Ente alla luce di tale gioco e, quindi, come ripetizione eterna»18. Ora, insieme alla «caducità dell’ente», ricondotta sempre alla spontaneità della natura, alla sua forza primigenia, c’è in Nietzsche una costante attenzione all’umano e al tipo di prassi che riesce ad elaborare ed in cui si riconosce. Abbiamo infatti che l’idea del “nuovo” comporta un deciso recupero dell’azione e in genere di tutto quello che riguarda il movimento, in modo da riuscire a conciliare l’infinità delle prospettive e la

15. Ivi, p. 37. 16. Ivi, p. 38. 17. Ivi, p. 41. 18. Cacciari M., Introduzione a Fink E., Nietzsches Philosophie, Urban Bücher, Kohlhammer, Stuttgart, 1960; tr. it. La filosofia di Nietzsche, Marsilio, Padova, 1976, pp. 9-30, p. 23.

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perspicuità dei passaggi, al fine di individuarne le intersezioni. Il compito sarà pertanto quello di comprendere a fondo quali siano le modulazioni dell’agire a cui il filosofo si riferisce. Rileggiamo alcuni appunti del 1881-1882, periodo in cui prende forma la dottrina del ritorno in relazione al divenire. Io dubito che quell’uomo durevole, che il finalismo della selezione della specie alla fine produrrà, sia qualcosa di molto più elevato di un Cinese. Tra le combinazioni, molte sono quelle inutili e, riguardo a ciascun fine della specie, periture e inefficaci – ma superiori: a questo vogliamo fare attenzione! Emancipiamoci dalla morale del finalismo della specie! Evidentemente lo scopo è quello di rendere l’uomo uniforme e fisso, come già è accaduto per la maggior parte delle specie animali; queste si sono adattate alle condizioni della terra, ecc., e non si trasformano sostanzialmente. L’uomo si trasforma ancora – è in divenire19.

Ma a questo punto tutto si complica: «quali sono le trasformazioni profonde, che debbono derivare dalle teorie secondo le quali si afferma che non vi è un dio che si curi di noi e non vi è una legge morale eterna (umanità ateisticamente immorale)? che siamo animali? che la nostra vita è transitoria? che siamo senza responsabilità? Il saggio e l’animale si avvicineranno e produrranno un tipo nuovo!»20. Noi siamo animali, ma non soltanto figurativamente, en passant: con tutte le caratteristiche umane rimaniamo animali e l’incontro con la natura avviene sul piano del suo essere più proprio, il movimento. Dopo il pessimismo romantico, Nietzsche intravede un altro pessimismo: «io lo chiamo, quel pessimismo dell’avvenire – poiché è per arrivare, io lo vedo che sta arrivando! – il pessimismo dionisiaco»21. E il ritorno all’indietro non indica soltanto un 19. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [44], p. 345. 20. Ivi, n. II [54], p. 348. 21. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 370, p. 293.

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movimento sul piano del tempo, ma soprattutto sul livello dello spazio. La vita non si accorda con alcun moto lineare, «non in una sola direzione»22, ma con svariate linee direzionali che si intersecano tra loro e sono passibili di molteplici ricostruzioni perché in ogni “stazione” si creano appunto condizioni di vita e sfere di vita. Del tempo si può certo parlare in termini di Aion (tempo originario) e di Kronos (tempo lineare), di anima (distensio animae), di misura (tempo dell’orologio) o di orizzonte globale che costringe anche il pensiero che lo pensa a muoversi paradossalmente al suo interno. In ogni caso il pensiero si trova di fronte a enti infiniti e separati di cui bisogna cogliere, anche attraverso il tempo stesso, il destino, le angosce, le inquietudini, i progetti e portarli alla riunificazione, alla salvezza: al riparo dal divenire. La storia della metafisica, insegna Heidegger, comincia con Eraclito e Parmenide, e ne assume i termini problematici di fondo. Per non impegnarsi con quello che è accaduto o può essere accaduto, si finisce per mirare alle “nuvole” e, perfino, all’apparato. Secondo Nietzsche invece esiste un solo tempo, ed è il «tempo della vita», il tempo del «tipo materno», quando la vita «si rallenta e si addensa e diventa stillante di miele»23. È il tempo del radicamento remoto, che non si configura soltanto in seno alla storia, e da cui pertanto non si può ricavare alcuna ideologia di tipo storicistico o teleologico, in quanto rappresenta tutto ciò che è riservato all’individuo. Il passaggio dalla metafisica al rispetto della verità non avviene neanche come

22. «Noi cresciamo come alberi – questo è difficile a comprendersi, come lo è la vita – non in un solo luogo, ma ovunque, non in una sola direzione, ma sia in alto che in fuori, sia in dentro che in basso; la nostra forza preme a un tempo nel tronco, nei rami, e nelle radici, non c’è più per noi nessuna libertà di fare una qualsiasi cosa isolatamente, di essere ancora una qualsiasi cosa per sé stante» (ivi, n. 371, p. 294). 23. Ivi, n. 376, p. 299.

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aderenza allo speculativo, ad un qualche Principio, sia pure di forma negativa (Abgrund, s-fondamento, assenza, distanza...), ma al relativo del tempo che deve rivelarsi nella sua infinità, che deve avere il modo di affermarsi, in termini di profondità e solidità, come nuova, e diversa, origine (Ürsprung). Il tutto si ripropone nello spazio del ritorno, in cui la «trasformazione incessante» assume una forma determinata che non è di mera necessità. La dimensione tragico-dionisiaca rimane pur sempre, malgrado ogni apparenza contraria, un antropomorfismo, un’interpretazione riduttiva della molteplicità concreta, infinita, a una metafisica radicata in un centro unico, in un Principio fondamentale che si dipana su tutte le regioni del reale come un velo sottile e suggestivo, ma invalicabile. L’istante (Kairòs) si aggiunge alle altre figure del tempo quando se ne assume l’aspetto fondamentale di radicamento della vita nel mondo: non come liberazione «dalla costrizione dell’Eterno ritorno»24, bensì come momento iniziale della creazione. Il «serpente» non parla dell’angoscia, ma dell’inautentico banale, muto e balbettante che si trova nelle strade del mondo. Non isola un momento in cui si decide di tutta la vita come avveniva per l’anima platonica al momento dell’incarnazione, ma si ripresenta tutte le volte in cui «gli uomini creatori di opere», liberi dalla sfera del mito «pieno di demoni»25, si trovano a dover ricominciare: quando, appunto, una fine determina un nuovo inizio, un nuovo compito. In tal guisa, ogni aspetto della realtà si riveste di valore nel rivelare la propria appartenenza all’orizzonte dell’effettivo, e pertanto non se ne può predicare l’irrilevanza secondo presupposti categoriali. La stessa visione tragica della vita e del cosmo risulta essere una interpretazione, una delle tante. Al contrario, lo spirito libero struttura la «conoscenza del tutto 24. Cacciari M., L’Angelo necessario, Adelphi, Milano, 1986, p. 59. 25. Ibidem.

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in relazione a tutto il passato», per diventare così «determinazione del tutto in relazione a tutta l’umanità futura»26. Nel mondo in cui ogni cosa si muove per proprio conto, come fa lo spirito libero, si permane soltanto se ci si muove e si cresce in misura adeguata. Emerge già qui un impegno preciso a cui si deve far fronte singolarmente, in modo nuovo, dato che anche la coscienza appare ora portatrice delle «sue intermittenze»27, e non è certo più sufficiente che l’uomo possa «attingere l’acqua al proprio pozzo»28, perché questo «pozzo» risulta ancora contrapposto al suo mondo. Per Nietzsche infatti la «serietà» dell’esistenza all’altezza del presente va ben oltre i confini della tradizione, e ci sollecita a «guardare nel mondo con quanti più occhi è possibile». La nostra aspirazione di serietà, tuttavia, è: intendere tutto come in divenire, negarci in quanto individui, guardare nel mondo con quanti più occhi è possibile, vivere negli istinti e nelle occupazioni PER farsi così gli occhi, abbandonarsi di tanto in tanto alla vita per poi riposare di tanto in tanto su di essa con l’occhio; conservare gli istinti come fondamento di ogni conoscenza, ma sapere dove essi diventano avversari della conoscenza; insomma, STARE A VEDERE in che misura il sapere e la verità possono ASSIMILARSI – e fino a che punto subentra una trasformazione dell’uomo, quando egli finalmente vive soltanto per conoscere. – Questa è la coerenza della passione della conoscenza: perché esista non vi è altro mezzo se non quello di conservare anche le sorgenti e le forze della conoscenza, gli errori e le passioni, dalla cui lotta essa trae la sua forza di conservazione29.

26. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte prima, n. 223, p. 88. 27. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. II., p. 51. 28. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 286, p. 199. 29. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [141], pp. 380381.

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Ora, il vedere «con quanti più occhi è possibile» implica per la filosofia l’assunzione di uno sguardo nuovo sul reale. Uno sguardo che se per un verso assume la pluralità possibile di rimandi («negarci in quanto individui») di cui ne è, per l’altro rimarca la finitezza ineludibile di ogni conoscenza, il suo radicamento tellurico negli «istinti», nonché dei condizionamenti che gli strumenti della conoscenza, nel renderlo possibile, operano sul guardare. Uno sguardo che dunque, mentre guarda, prende atto che sta guardando e cerca di prendere le distanze da tale semplice guardare («STARE A VEDERE»), pur permanendo all’interno di esso, continuando così a «guardare nel mondo». Ciò che volutamente Nietzsche abbandona, fino a perderla di vista, è l’unità del tutto e la sua traduzione in orizzonte di senso onnipervasivo e saturo, con la conclusione che le sue parti, di conseguenza, divengono momenti definiti di un senso unico. È quest’opera di “sfondamento” del monolitismo monoteistico, senza altresì dialetticamente ricadere nel mero politeismo rappresentativo, a indirizzare il filosofo verso la “fuoruscita” dalla «metafisica tradizionale», come “distacco” da un orizzonte antropomorfico che persegue o configura “un” senso perfino nella mancanza di senso, per aiutare gli uomini a vivere la vita e ad accettare la morte senza, d’altra parte, perseguire il misticismo di alcuna immedesimazione con la natura. La capacità di vivere in mezzo alle vicissitudini più varie deriva all’uomo dalla forza che è nelle cose, e gli si offre come modello insuperato anche in era moderna, quando l’uomo dispone di grandi risorse tecniche e culturali. E se, per inciso, appare grande la tentazione di giudicare Nietzsche come si giudicano i pensatori e gli artisti del suo e del nostro tempo (cioè come, per dirlo con le sue parole, «abbarbicati nel loro angolo, malconci fino ad essere irriconoscibili, non liberi, defraudati del loro equilibrio, emaciati ed angolosi dappertut-

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to, solo in un punto straordinariamente rotondi»30), è tuttavia incauto cedere ad essa, così come lo è leggere il suo “sradicamento” al modo degli intellettuali e artisti borghesi del Novecento, cioè come Entseelung che diviene Entwertung. Lo “sradicamento” di cui parla il filosofo è invece Entsagung, già radicamento nella ripetizione del divenire («intendere tutto come in divenire»), e difficilmente ci si potrebbe aspettare di trovare il nuovo e il vero sulla base dell’analisi fenomenologica del quotidiano banale e “inautentico”, della “finitudine” dell’uomo e della sua “gettatezza”, così come delle più svariate costanti antropologiche o cosmologiche31. Guardiamoci dall’attribuire a questo corso circolare una qualsiasi aspirazione o uno scopo: oppure di valutarlo, secondo i nostri bisogni, come noioso, stupido, e così via. Certamente, in esso si presenta sia il grado estremo di irrazionalità sia l’opposto; ma non deve essere misurato a questa stregua; razionalità e irrazionalità non sono predicati per il cosmo. – Guardiamoci dal pensare come divenuta la legge di questo circolo, secondo la falsa analogia dei movimenti circolari dentro l’anello: non vi è stato prima un caos e poi, gradualmente, un movimento più armonico e infine uno stabilmente circolare di tutte le forze: piuttosto tutto è eterno, indivenuto: se vi fosse stato un caos delle forze, è stato eterno anche il caos e sarebbe tornato in ciascun anello. Il corso circolare non è nulla di divenuto, esso è la legge originaria, allo stesso modo che la quantità di energia è legge originaria, senza eccezione e infrazione. Ogni divenire è in seno al corso circolare e alla quantità di forza: dunque, per descrivere il circolo eterno, non bisogna ricorrere, mediante un’analogia sbagliata, ai circoli che divengono e

30. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 366, pp. 284-285. 31. Cfr. D’Iorio P., La linea e il circolo. Cosmologia e filosofia dell’eterno ritorno in Nietzsche, Pantograf, Genova, 1995.

101 periscono, per esempio quello delle stelle, il flusso e il riflusso, il giorno e la notte, le stagioni32.

Di questo «corso circolare», di questa eternità, fa dunque parte anche l’uomo e l’individuo singolare con le sue molteplici esperienze non imposte né dal vivere sociale moderno delle città grandi e piccole, ma neanche confinate alle sfere “alte” della cultura: arte, religione e filosofia. Ogni volta che parla di “sradicamento”, Nietzsche si riferisce ad un movimento inverso: l’uomo è sempre nella riconquista di un centro, nel punto in cui si nutre un desiderio e si fonda una violazione. Da qui l’esaltazione del debito come stato produttivo, come stimolo, sbilanciamento progressivo. L’eterno ritorno non delinea una condizione riservata a pochi uomini fortunati (e perciò, “superiori”), ma appartiene ad uomini che stabiliscono una gerarchia ed un’origine, e pertanto presuppone la molteplicità: esige la pluralità. Ciò significa che il fare è generalmente indeciso finché il singolo non se ne appropria nell’interpretazione: non si tratta di pervenire ad un uomo la cui vita sia «una piena coincidenza di evento e senso, di essere e valore»33 ma, al contrario, andando oltre la confusione della verità con l’universalità e la generalità, si deve approdare ad una visione dell’uomo la cui vita sia una piena coincidenza di soggettivo e oggettivo, di parziale e totale, di originato nel portato della massa e della gerarchia. Tra la prospettiva umana e la prospettiva cosmica è pertanto necessario un certo equilibrio, motivato dalla comune appartenenza al medesimo orizzonte carnale, come direbbero i francesi. È in questo «anelito verso il finito,

32. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [157], pp. 388389. 33. Vattimo G., Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano, 1979, p. 250.

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verso la zolla di terra»34, in questa aderenza, o meglio, fedeltà «alla terra»35 e al presente richiesta da Zarathustra e, di conseguenza, nella presa di distanza da ogni concezione lineare del tempo, che si esprime il nucleo essenziale del «nichilismo perfetto» inaugurato dalla «morte di Dio», in modo che l’Eterno ritorno significa il raggiungimento della verità del mondo che non sta “dietro” di esso ma vi si identifica, non essendo possibile rinvenirla in un mondo altro, come vorrebbe la metafisica. Tuttavia, è proprio in questa “scoperta” della verità del mondo come volontà essenziale che affiora la possibilità di un rischio involutivo, in quanto sull’idea di “natura” su cui Nietzsche ha riflettuto si è esercitata variamente la critica, nel tentativo di cogliere ciò che di attuale vi è nel suo pensiero, ma sempre ricostruendone il rapporto con l’uomo, al fine di ri(con)durlo nella sfera della sostanza di tutti i fenomeni e, quindi, nella considerazione epistemica del dato quale oggetto per il soggetto conoscente; osserviamo da vicino. Per un verso la natura, collegata a Dioniso e al gioco (Fink36), diviene totalizzante, orizzonte del divenire eracliteo, del gioco “divino”, della infinita vicenda circolare (Cosmo); per l’altro, partendo da questa base interpretativa, essa si contrappone all’uomo facendone una sua “vittima”, e quindi come possibile, quanto deprecabile, oggetto di “vendetta” (Cacciari). Come ha fatto Heidegger riguardo alla risposta che Nietzsche forni-

34. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884, cit., n. 26 [289], p. 207. 35. «Rimanetemi fedeli alla terra, fratelli, con la potenza della vostra virtù! Il vostro cuore che dona e la vostra conoscenza servano il senso della terra!» (Nietzsche Fr., Così parlò Zarathustra, cit., p. 90). 36. Per una analisi del tema del «gioco» nel rapporto Fink-Nietzsche, cfr. Cesarone V., Eugen Fink: la produzione come declinazione della volontà di potenza, in Totaro F. (a cura di), Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, cit., pp. 300-311.

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rebbe «alla domanda relativa alla «costituzione dell’ente» e al suo «modo di essere»37, qui si cerca al di là dell’uomo un “principio” rappresentativo in grado di coniugare in positivo Uno e Molteplice, in grado di costituire una base, un fondamento, tale da configurare un robusto orizzonte di senso. Da una parte si trova l’uomo e dall’altra, per ricorrere proprio al lessico heideggeriano, «l’ente nel suo insieme», mentre nel mezzo si situa la filosofia, il medium della rappresentazione, che non solo “costituisce” oggetti del pensiero, ma si occupa essenzialmente delle loro combinazioni al fine di delineare una teoria più o meno suggestiva e persuasiva. Una teoria che si rivesta di un significato, considerato che non può avere alcun riscontro su ciò che è e si dà all’esperienza ed all’esperimento: la vita. In definitiva, il rischio che incombe sulla dottrina dell’eterno ritorno è l’involuzione metafisica, nella sua forma peggiore, in cui l’individuo singolo sentenzia sul tutto senza termini medi, e quindi «libera la libertà che dorme in lui»38. Nello specifico, gli elementi costitutivi della lettura di Nietzsche sviluppata da Heidegger si indirizzano verso il cuore della riflessione del filosofo di Röcken laddove ne sanciscono il “fallimento” del tentativo di fuoruscita dalla metafisica. Come è ben noto, se infatti per un verso Heidegger ha certificato l’appartenenza del pensiero di Nietzsche all’orizzonte filosofico, riconducendo la sua riflessione nell’ambito dell’ontologia, e tributandogli il rispetto che si deve ad Aristotele, per un altro ne ha ratificato la struttura metafisica nel ritorno ad una concezione dell’«ente in quanto tale» e, dunque, ha “vanificato” gli sforzi nietzscheani di passaggio ad un paradigma altro rispetto alla storia del pensiero rappresentativo. Secondo Heidegger, la lezione di Nietzsche va inserita all’in-

37. Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 384. 38. Fink E., La filosofia di Nietzsche, cit., p. 100.

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terno della storia dell’essere che inizia in Grecia, e attraverso Cartesio, Leibniz e gli idealisti, si trasforma in divenire nella «volontà di potenza», inaugurando di fatto l’epoca del nichilismo, come esito ultimo del percorso della ragione occidentale. La tesi centrale di Heidegger è che «il pensiero dell’eterno ritorno» sia «il pensiero metafisico di Nietzsche»39, in modo che non soltanto Nietzsche proseguirebbe tale tradizione ma addirittura ne costituirebbe, per certi versi, il punto conclusivo ed apicale, in modo da apparire come «l’ultimo metafisico dell’Occidente»40. Nel suo pensiero finirebbero per trovare una sintesi le due prospettive fondamentali di rappresentazione dell’«ente nel suo insieme», e cioè l’essere e il divenire, riconducibili rispettivamente alla meditazione di Parmenide ed Eraclito, come estremo riferimento della storia di oblio dell’essere e della sua ri(con)duzione all’ente, una storia che ha inizio in Grecia e giunge a caratterizzare la nostra epoca. Una storia della quale Nietzsche ha sì individuato i criteri di superamento, da collocarsi nella dottrina dell’eterno ritorno, senza riuscire comunque lui stesso a superarla verso un pensiero dell’essere differente dall’ente, verso un nuovo inizio. Per meglio comprendere tale rischio involutivo, è necessario considerare non soltanto che il divenire dell’eterno ritorno risale genealogicamente ad una sfera primordiale che precede Eraclito e la filosofia stessa, e si modula piuttosto nei termini dell’accadere, ma anche l’estrema importanza riconosciuta da Nietzsche ai sensi anche in ambito speculativo, come vedremo meglio nel prosieguo del discorso41. Emerge però, data

39. Heidegger M., Nietzsche, cit. p. 372; «la posizione metafisica di fondo di Nietzsche è definita dalla sua dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale» (ivi, p. 217). 40. Ivi, p. 398. 41. Cfr. infra, cap. IV.

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la particolare pregnanza teoretica della critica heideggeriana, sia in termini di profondità di analisi, sia per ciò che concerne il condizionamento che ha esercitato (ed esercita) sulla vulgata nietzscheana, la necessità di soffermarci su di essa, con l’intento di problematizzarne gli esiti nella metafisica o, quantomeno, di tentare di discutere i termini di appartenenza di Nietzsche a tale straordinaria tradizione, valutando «altre possibilità in Nietzsche non programmate da una storia della metafisica»42. Nello specifico, proveremo a ricostruire il pas42. Osserva Derrida che è importante «prendere in mano il Nietzsche di Heidegger e mostrare che vi sono altre possibilità in Nietzsche non programmate da una storia della metafisica, che vi sono movimenti più forti, che vanno più lontano di quanto Heidegger chiama la storia del compimento della metafisica; movimenti che in effetti mettono in questione lo stesso Heidegger: la sua lettura di Nietzsche in particolare ed il suo orientamento filosofico in generale» (Derrida J., Nietzsche e la macchina, cit., p. 38). Qui il riferimento è al suo Sproni. Gli stili di Nietzsche, in cui la critica alla lettura di Heidegger passa attraverso gli stimoli dell’interpretazione nietzscheana di Deleuze, per concludersi in un pensiero della différance che modula la tesi che in Nietzsche sia possibile sottrarsi al dominio logocentrico imposto dalla metafisica, sia nella sua forma fonocentrica come elemento apicale del dialogo, sia nell’aspetto razionale che vede nel logos il nucleo solido di configurazione della verità. In tale scenario esegetico, la predominanza in Nietzsche della questione dello stile filosofico, o meglio, dei diversi stili in cui egli espone il suo pensiero, portano a intendere il detto non come semplice tramite di veicolazione di un senso, ma come scritto, una sfera linguistica differenziale che mira prima di ogni cosa all’espressione e sfugge all’inquadramento all’interno di parametri di esattezza e conformità perché non assoggettata aprioristicamente alla verità del logos. In tal modo, Derrida rimprovera ad Heidegger di non aver considerato il valore «spronante, più potente di ogni contenuto, di ogni tesi, di ogni senso» che la scrittura di Nietzsche rappresenta, in quanto fa emergere il nesso differenziale, e dunque non meramente identificativo, tra il pensiero e lo scritto, nei margini di un nomadismo del senso che lo annuncia sempre come traccia (cfr. Derrida J., Èperons. Les styles de Nietzsche, Paris, Flammarion, 1978; tr. it. Sproni. Gli stili di Nietzsche, Adelphi, Milano, 1991. Sul rapporto DerridaNietzsche cfr. Pelgreffi I., Scrittura e filosofia. Jacques Derrida interprete di Nietzsche, Aracne, Roma, 2014). Accogliendo l’invito di Derrida, è

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saggio dell’attenzione filosofica di Nietzsche da un paradigma della sostanza ad una concezione della vita come relazione, e questo ci consentirà di pervenire ad una visione del rapporto che intercorre tra i nuclei centrali del suo pensiero, l’eterno ritorno e la volontà di potenza, che evidenzia lo sforzo antirappresentativo del filosofo nel superare l’ineludibile mediazione della filosofia per cogliere il carattere contingente della vita nella palude. In tal guisa, il confronto con la posizione di Heidegger (che richiamiamo nei nuclei centrali) e con i suoi critici (in particolare Müller-Lauter) ci darà modo di acquisire alcuni aspetti della meditazione nietzscheana di costitutiva importanza per il cammino che stiamo percorrendo.

2. Il Nietzsche di Heidegger Heidegger ha il merito di aver riconosciuto il carattere eminentemente filosofico della riflessione di Nietzsche, attraverso il suo inserimento nella storia della metafisica occidentale, fino ad attribuirgli un ruolo apicale in seno a tale storia, come momento del suo compimento: nel capovolgersi, la metafisica si compie esaurendo le proprie possibilità. E l’incontro con Nietzsche non rappresenta un’esperienza marginale nello sviluppo dello stesso pensiero heideggeriano43, bensì ne codunque dal Nietzsche che è necessario ripartire per tentare di delineare una strada altra rispetto a quella tracciata da Heidegger, ma diversa anche da quella indicata da Derrida, anch’essa per certi versi “condizionata” dalla prospettiva filosofica del suo autore. 43. È a partire dagli anni 1927/1930 che l’interesse di Heidegger per Nietzsche diviene tematico nello sviluppo del proprio pensiero. Tralasciando qualche sporadico cenno giovanile, è in Essere e tempo del 1927 che compare il primo esplicito riferimento a Nietzsche, a proposito della triplicità di

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stituisce un momento centrale poiché, proprio a partire da Nietzsche, Heidegger riflette su nodi centrali della propria

articolazione dell’esperienza storica (cfr. Heidegger M., Sein und Zeit, Max Niemeyer Verlag, Tübingen, 1927; tr. it. Essere e tempo, Utet, Torino, 19862, p. 474; a tal proposito, cfr. Brusotti M., Heidegger su storia monumentale e ripetizione. La seconda Considerazione inattuale di Nietzsche in Essere e tempo, in Gentili C., Stegmaier W., Venturelli A., a cura di, Metafisica e nichilismo: Löwith e Heidegger interpreti di Nietzsche, Pendragon, Bologna, 2006, pp. 125-147). Heidegger “si appassiona” al pensiero di Nietzsche al punto di spingersi ad interessarsi alle vicende di pubblicazione di quanto contenuto nell’“Archivio-Nietzsche” di Weimar (1934), a tenere corsi «quasi esclusivamente» su Nietzsche dal 1936 al 1940, e a lavorare sul suo pensiero fino al 1946-1947 e oltre. Si tratta di un interesse che affiora in diversi scritti; riferimenti espliciti al pensiero di Nietzsche si trovano, tra gli altri: nel saggio dedicato al concetto platonico di verità che risale ai primi anni Trenta, ma pubblicato nel 1942 (Heidegger M., Platons Lehre von Warheith, in “Geistige Ueberlieferung”, 1942, pp. 96-124, poi ripreso in Id., Wegmarken, Frankfurt am Main, Klostermann, 1967; tr. it. La dottrina platonica della verità, in Id., Segnavia, Adelphi, Milano, 1994³, pp.159-192); nel celebre discorso pronunciato il 27 maggio 1933 in occasione della sua nomina a rettore dell’università di Friburgo (Heidegger M., Die Selbstbehauptung der deutschen Universität, 1933; ora in Martin Heidegger Gesamtausgabe, vol. 16: Reden und andere Zeugnisse eines Lebensweges, Frankfurt am Main, Klostermann, 2000; tr. it. L’autoaffermazione dell’università tedesca – Il rettorato 1933/34, Il Melangolo, Genova, 2002); nel saggio dedicato alla “morte di Dio” in Nietzsche del 1936-40 (Heidegger M., Nietzsches Wort «Gott ist tot», 1936-1940, in Id., Holzwege, Frankfurt am Main, Klostermann, 1950; tr. it. La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», in Id., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1977³, pp. 191-246); nello scritto che analizza il famoso “detto” di Anassimandro (Heidegger M., Der Spruch des Anaximander, 1946, in Id., Holzwege, cit.; tr. it. Il detto di Anassimandro, in Id., Sentieri interrotti, cit., pp. 299-348); nel corso universitario del 1951-52 incentrato sulla figura di Zarathustra (Heidegger M., Was heisst Nietzsches Zarathustra?, in Id., Was heisst Denken?, Max Niemeyer Verlag, Tübingen, 1954; tr. it. Chi è lo Zarathustra di Nietzsche, in Id., Che cosa significa pensare, Sugarco, Milano, 1994). Ma è soprattutto nel Nietzsche del 1961 che la lettura heideggeriana si mostra nella sua profondità. Data la diffusa notorietà delle tematiche contenute nel testo, ci limiteremo a richiamarne alcuni elementi essenziali.

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filosofia, e ciò ha comportato un approfondimento dei temi su cui si concentra il suo interesse, in particolare sulla “differenza ontologica” e sulla critica alla metafisica, attraverso le tesi nietzscheane44. 44. Scrive Vattimo che «si può dire che, dopo Sein und Zeit, è principalmente in dialogo con Nietzsche che il pensiero di Heidegger si viene sviluppando, come attestano i numerosi saggi e i riferimenti a Nietzsche sparsi in tutta la sua opera» (Vattimo G., Essere, storia e linguaggio in Heidegger, Edizioni di Filosofia, Torino, 1963, pp. 1-2. Sulle ripercussioni dell’incontro con la filosofia di Nietzsche nel pensiero heideggeriano cfr. Volpi F., Postfazione a Heidegger M., Nietzsche, cit., pp. 943-973). In questo modo la riflessione sul pensiero di Nietzsche viene condotta da Heidegger in parallelo allo sviluppo della propria ontologia, in modo che sono tante le interferenze tra i due piani del discorso, con tutto ciò che ne è derivato. Ma se MüllerLauter rileva i limiti dell’«impressionante autointerpretazione di Heidegger attraverso i testi di Nietzsche» (Müller-Lauter W., Das Willeswesen und der Übermensch, in “Nietzsche-Studien”, n. 10/11, 1981-1982, pp. 132-177; tr. it. L’essenza della volontà e il superuomo. Le interpretazioni heideggeriane di Nietzsche, in Id., Volontà di potenza e nichilismo. Nietzsche e Heidegger, Parnaso, Trieste, 1998, pp. 99-141, p. 101), già Granier aveva dichiarato «inaccettabile», da un punto di vista nietzscheano, l’interpretazione di Heidegger, utile più a capire Heidegger che Nietzsche (cfr. Granier J., Le problème de la vérité dans la philosophie de Nietzsche, Paris, 1966). E pur non potendo qui occuparci nel dettaglio di tali problematiche, ricordiamo, come esempio di questa interferenza, quanto Löwith rileva a proposito della lettura heideggeriana del termine “metafisica” in Nietzsche, che prospetta una vera e propria “forzatura” del pensiero del filosofo di Röcken, al punto che nell’esaminarla sembra quasi di trovarsi di fronte al «pensiero di Heidegger in vesti nietzscheane» (Löwith K., Die Auslegung des Ungesagten in Nietzsche Wort «Gott ist tot», in Id., Sämtliche Schriften, vol.8: Heidegger – Denken in dürftiger Zeit, Metzler, Stuttgard, 1984; tr. it. L’interpretazione di ciò che rimane taciuto nel detto di Nietzsche «Dio è morto», in Id., Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino, 1974², p. 103). Ciò avviene in quanto, secondo Löwith, Heidegger considera il fenomeno di dissoluzione dei valori di cui si nutre il concetto di soprasensibile di origine platonica sostanzialmente identico alla propria visione della metafisica come dimensione di occultamento della differenza tra essere ed essente. In questo modo, commenta Gentili, «è evidente che la posizione di assoluto rilievo che Heidegger riconosce a Nietzsche dipende dal suo inserimento nella storia, e in prossimità

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Il nucleo solido della esegesi heideggeriana è la dottrina dell’«eterno ritorno dell’identico»45, su cui Heidegger incentra la sua lettura del pensiero nietzscheano e a cui conferisce il ruolo di “perno eccellente” intorno al quale far ruotare l’intera meditazione46 del filosofo di Röckert, ivi inclusa la «volontà di potenza». Il pensiero di Nietzsche rappresenta così il compimento della storia della metafisica poiché sostanzia la «fusione conclusiva (Zusammenschluß)» delle due più significative prospettive di determinazione dell’ente, quella di Parmenide e quella di Eraclito, in modo che la dottrina dell’«eterno ritorno dell’identico» e la «volontà di potenza» costituiscono la risposta nietzscheana alla «domanda-guida della metafisica»: «τί τò óν», «che cosa è l’ente?»47, da cui scaturisce la «posizione metafisica di fondo» di ogni pensiero48. In Nietzsche tale do-

del punto di svolta, della metafisica. Giocando sul ruolo di mediazione rappresentato dal platonismo, Heidegger presenta una disinvolta omologazione tra Cristianesimo e metafisica, leggendo in sostanza “metafisica” ogni volta che Nietzsche utilizza il termine “Cristianesimo”». In questo scenario complessivo, viene quasi a sfumare, o quantomeno viene lenita, la critica anticristiana che innerva il pensiero di Nietzsche, cosa che preoccupa non poco Löwith (cfr. Gentili C., Nietzsche, Il Mulino, Bologna, 2011, pp. 264 ss.). 45. Ciò sancisce la sua distanza dalle tesi di Baeumler, che invece tende a sottovalutare il peso teorico dell’eterno ritorno (da intendersi dunque come un elemento religioso con un significato meramente anticristiano) a favore di una specifica lettura politica e “germanica” della volontà di potenza (cfr. Baeumler A., Nietzsche filosofo e politico, cit.). 46. «Di fronte alle molteplici oscurità e ai molti imbarazzi relativi alla dottrina nietzscheana dell’eterno ritorno bisogna fin dal principio dire […] che la dottrina dell’eterno ritorno dell’uguale è la dottrina fondamentale nella filosofia di Nietzsche. Senza questa dottrina, quale suo fondamento, la filosofia di Nietzsche è come un albero senza radici» (Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 218). 47. Ivi, p. 377. 48. Una posizione che «dice come colui che domanda la domanda-guida rimanga inserito nella struttura della domanda-guida e venga perciò a stare

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manda assume i toni del rapporto con la vita e con l’essere49, o meglio, con «l’ente nel suo insieme», in modo che la totalità, la «costituzione» dell’ente, ciò che l’ente è, «l’essentia dell’ente», si riassume nella «volontà di potenza», mentre il «modo d’essere» dell’ente nel suo insieme, come l’ente è, «l’existentia dell’ente», lo indica l’«eterno ritorno dell’uguale»50. Che vuol dire: l’ente nel suo insieme è volontà di potenza, il «fatto ultimo» di ogni accadere (e motiva «l’interpretazione di ogni accadere come volontà di potenza»), mentre il suo modo d’essere è nel ritornare eterno, poiché l’eterno ritorno è il «pensiero dei pensieri»51 che pensa/permette «la stabilizzazione di ciò che diviene, al fine di assicurare il divenire di ciò che diviene nella durata del suo divenire»52. È l’identità dell’identico che ritorna eternamente che fa sì che la volontà di potenza risulti «ora concepibile come stabilizzazione della sopraelevazione (Überhöhung), cioè del divenire», e dunque ci offre il «che cosa è (Wassein)», mentre l’eterno ritorno dell’uguale appare «come la più costante stabilizzazione del divenire di ciò

nell’ente nel suo insieme e rispetto all’ente nel suo insieme e contribuisca così a determinare la posizione dell’uomo nell’insieme dell’ente» (ivi, p. 378). 49. «“Vita” è per Nietzsche un’altra parola per dire essere» (ivi, p. 751). 50. Ivi, p. 747. 51. Ivi, pp. 347-348. 52. «Il termine “eterno” pensa la stabilizzazione di questa costanza nel senso del ruotare che ritorna in sé e corre già avanti a sé. Il diveniente non è però il continuamente altro del molteplice che cangia senza fine. Ciò che diviene è l’uguale stesso, ossia: lo stesso, uguale e identico nella rispettiva diversità dell’altro. Nell’uguale è pensata la presenza diveniente di un identico. Il pensiero di Nietzsche pensa la costante stabilizzazione del divenire di ciò che diviene, in quell’una presenza del ripetersi dell’identico» (ivi, pp. 546547).

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che è costante», e dunque ci prospetta il «che è (Daß-sein)»53 dell’ente. La «volontà di potenza» va a rilevare il precedente concetto di “vita”, in un senso ben lontano da ogni biologismo o positivismo di sorta, che la categorizza come autoconservazione o lotta per la sopravvivenza (che per Nietzsche rappresenta «un caso particolare» della volontà di potenza, distanziandosi in questo modo dalla “volontà di vita”, elemento proprio della Voluntas di Schopenhauer), per assumere invece i caratteri ateleologici di autoaccrescimento costante e autoimplementazione continua, Überhöhung appunto, senza un termine ultimo e conclusivo a cui tendere. Volontà di potenza che, d’altra parte (ed in questo consiste lo sforzo heideggeriano di cogliere l’«impensato» nietzscheano) riduce la potenza alla volontà medesima54, alla «volontà di volontà»55, al volere in quanto tale. Spiega Vattimo che «la volontà vuole se stessa, e il volere è il suo voluto», come «un ordinare che dispone effettivamente di certe possibilità e dispone anzitutto di sé, comanda quindi alle cose e a sé»56. Per Heidegger, essa è essenzialmente «comando», da intendersi nel senso del continuo auto-«superamento-di-sé», del «dare il potere del superpotenziamento» (Ermächtigung zur Übermächtigung)57, a cui corrisponde il permanere-presso-di-sé del comandare, poiché chi comanda nello stesso tempo ubbidisce al comando, in modo che il comandare viene a coincidere con l’autopotenziamento.

53. Ivi, p. 549. 54. Cfr. ivi, pp. 54-55. 55. Ivi, p. 753. 56. Vattimo G., Essere, storia e linguaggio in Heidegger, cit., p. 13. 57. Heidegger M., Nietzsche, cit., pp. 752-753; cfr. anche ivi, p. 534.

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A tal fine, la volontà di volontà opera nel fissare (festmachen) di volta in volta, in seno al divenire, punti di approdo di potenza dai quali ripartire nell’incessante opera di «superpotenziamento». E ciò significa che essa ha necessità di stabilizzare e conservare i risultati raggiunti, ha bisogno cioè di diventare «signora sul grado di potenza di volta in volta raggiunto. La potenza è potenza soltanto se, e fintanto che, rimane potenziamento della potenza e si comanda il più di potenza»58. A conferma di ciò, Heidegger cita un frammento di Nietzsche datato fine 1886 – primavera 1887, che comincia così: «Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza»59. Egli attribuisce a questo frammento una importanza «fondamentale» nell’esegesi nietzscheana, al punto da considerarlo erroneamente il «riassunto dei capisaldi della sua filosofia in poche tesi»60, e lo commenta in questi ter58. Ivi, p. 752. «La potenza è il comando di avere più-potenza. Affinché però la volontà di potenza in quanto superpotenziamento possa aumentare di un grado, quest’ultimo deve essere non solo raggiunto, ma fissato e assicurato. Soltanto in base a questa sicurezza della potenza, la potenza raggiunta può essere elevata. Il potenziamento della potenza, pertanto, è in sé al tempo stesso, daccapo, conservazione della potenza. La potenza può dare a se stessa il potere di superpotenziarsi comandando insieme potenziamento e conservazione» (ivi, p. 754). 59. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 7 [54], p. 297. 60. Heidegger scrive che «questa esigenza metafisica fondamentale, che viene a capo della domanda-guida, è espressa alcuni anni più tardi in una annotazione piuttosto lunga intitolata “Ricapitolazione”, cioè riassunto dei capisaldi della sua filosofia in poche tesi» (Heidegger M., Nietzsche, cit., pp. 386-387). E già prima del Nietzsche egli aveva sottolineato la centralità di questo frammento nello sviluppo del pensiero di Nietzsche, secondo la sua interpretazione che lo considera «compimento estremo della metafisica», in cui «l’essere dell’ente giunge a farsi parola». Nel saggio su Anassimandro (1946), peraltro confondendone la datazione, aveva notato infatti che: «al culmine del compimento della filosofia occidentale incontriamo queste parole: “Imprimere al divenire il carattere dell’essere, questa è la suprema volontà di potenza”. Così scrive Nietzsche in un’annotazione intitolata “Ri-

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mini: «questo non significa: eliminare e sostituire il divenire in quanto instabile – è questo infatti che si intende – con l’ente in quanto ciò che è stabile; ma significa: dare al divenire la forma dell’ente in modo che, in quanto diveniente, venga mantenuto e abbia consistenza, cioè sia. L’impressione, cioè la trasformazione del diveniente in ente, è la suprema volontà di potenza. In questo trasformare, la volontà di potenza si fa valere nel modo più puro. Che cosa è questo trasformare in cui qualcosa

capitolazione”. La scrittura del manoscritto la fa collocare nell’anno 1885, cioè nel tempo in cui, dopo Zarathustra, Nietzsche progettava la sua opera metafisica fondamentale» (Heidegger M., Il detto di Anassimandro, cit., p. 310). Ora, il carattere riassuntivo-riepilogativo, quasi programmatico che egli attribuisce a questo frammento, è tuttavia da attribuirsi ad un equivoco determinato dall’aggiunta del titolo «Ricapitolazione (Rekapitulation)» da parte di Gast, aggiunta prontamente eliminata nell’edizione Colli-Montinari, in cui infatti tale titolo non compare (cfr., di nuovo: Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 7 [54], p. 297. Il titolo è invece ancora presente nell’edizione italiana de La volontà di potenza a cura di Ferraris e Kobau che parte, ricordiamolo, dalla traduzione di Treves: cfr. Nietzsche Fr., La volontà di potenza. Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche, cit., n. 617, p. 337). A specificare che in realtà il titolo del frammento «non proviene da Nietzsche, ma da Peter Gast», cioè che «è stato aggiunto da P. Gast», è Müller-Lauter (cfr.: Müller-Lauter W., Der Geist der Rache und die ewige Wiederkehr. Zu Heidegger später Nietzsche-Interpretation, in Korff W. ed., Redliches Denken. Festschrift für Gerd-Günther Grau, 1981; tr. it. Lo spirito della vendetta e l’eterno ritorno. La tarda interpretazione heideggeriana di Nietzsche, in Id., Volontà di potenza e nichilismo. Nietzsche e Heidegger, cit., pp. 151-166, p. 158, n. 46. Cfr. anche Id., “Der Wille zur Macht” als Buch der “Krisis” philosophischer Nietzsche Interpretation, in “Nietzsche-Studien”, 24, 1995, pp. 223-260; tr. it. “La volontà di potenza” come libro della “crisi” dell’interpretazione filosofica di Nietzsche, in Id., Volontà di potenza e nichilismo. Nietzsche e Heidegger, cit., pp. 67-97, pp. 82-83). In questo modo, rileva Gentili, pur trattandosi di un frammento di indubbia importanza, Heidegger gli «attribuisce erroneamente un valore ricapitolativo», mentre «esso non ha tuttavia quel senso riassuntivo e totalizzante che Heidegger gli riconosce» (Gentili C., Nietzsche, cit., p. 107, n. 58 e p. 310, n. 110; cfr. anche ivi, p. 360). Riprenderemo a breve questo punto.

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di diveniente diventa ente? È il configurare il diveniente nelle sue supreme possibilità, nelle quali esso si trasfigura e ottiene consistenza in quanto sono le sue misure e i suoi ambiti. Questo trasformare è il creare»61. La creazione è dunque opera del soggetto che mette in opera la «costituzione» dell’ente, in modo che emerge pertanto il ruolo centrale della «decisione» (Entschlossenheit)62, attraverso il riferimento ad un soggetto nuovo, lo Übermensch, capace di sopportare il peso dell’eterno ritorno63. Il discorso nietzscheano dell’eterno ritorno e dell’opera creatrice del soggetto si apre così alla sfera del nulla-di-fondamento64, e rappresenta il culmine della metafisica nella sua opera di nascondimento/allontanamento dell’essere nell’/dall’ente. Secondo l’autore di Sein und Zeit, Nietzsche ritiene che sia la decisione a consentire la «redenzione» dal «perenne fluire» del divenire di eraclitea memoria65, nel senso che «il divenire viene man-

61. Heidegger M., Nietzsche, cit., pp. 386-387. 62. Cfr. Nietzsche Fr., Così parlò Zarathustra, cit., pp.: 189-194; 263-270. 63. Heidegger chiarisce che «la ragione di questo eroe è il pensiero dell’eterno ritorno; questo anche là dove non se ne parla esplicitamente» (Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 240). 64. Vattimo chiarisce infatti che per Heidegger «l’eterno ritorno non è una struttura dell’essere ma solo la mancanza di Boden, di fondo ontologico che si rivela come il modo di essere della totalità dell’ente nell’epoca della riduzione di tutto alla soggettività», in modo che «estremo soggettivismo e circolarità (infondatezza) del tutto non si oppongono, anzi sono per Heidegger due facce dello stesso fenomeno» (Vattimo G., Il soggetto e la maschera, cit., p. 206, n. 6). 65. Scrive Heidegger che «è inoppugnabile» che fino al 1881, prima del pensiero dell’eterno ritorno, «Nietzsche sentisse, una affinità con la dottrina di Eraclito, e precisamente così come lui, con i suoi contemporanei, la vedeva». Tuttavia, dopo l’eterno ritorno, «la dottrina del perenne fluire di tutte le cose, nel senso della generale instabilità, non può più essere tenuta per vera; in essa l’uomo non può più tenersi come in un che di vero, perché altrimenti

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tenuto come divenire, e tuttavia viene immessa nel divenire la stabilità, cioè, secondo la comprensione greca, l’essere»66. Tale opera di vendetta nei confronti del divenire si compie, appunto, nell’«attimo» (Augenblick), in cui la decisione “conserva” il grado di potenza raggiunto attraverso la costituzione dell’ente ad opera della volontà e determina così le condizioni per il proseguimento dell’opera di Überhöhung successiva. È dunque la decisione di mordere il «capo del serpente nero» ad inaugurare l’eterno ritorno superando il nichilismo67, e ciò porta alla «costituzione» dell’ente dal divenire, in una trasformazione che si mostra come creazione68. La decisione mostra pertanto la sottrazione della volontà alla sua ontologica storicità69, che così relega il passato, proprio perché già-passato,

sarebbe esposto al cambiamento e all’instabilità senza fine e alla completa distruzione; perché allora non si avrebbe più la possibilità di qualcosa di fisso e quindi vero» (Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 339). 66. Ivi, p. 340. 67. Ad es.: «il nichilismo viene superato soltanto se viene superato dalle fondamenta, se lo si afferra per la testa»; «è il capo del serpente nero che deve essere staccato con un morso»; «infatti questo pensiero è il morso che deve superare il nichilismo dalle fondamenta»; «prima che il morso sia compiuto, nemmeno l’attimo è pensato; infatti il morso è la risposta alla domanda che chiede che cosa sia la porta carraia stessa, l’attimo: è la decisione nella quale la storia fino a ora, in quanto storia del nichilismo, viene messa in discussione e contemporaneamente superata» (ivi, pp. 368, 370). 68. «L’essenza dell’ente è il divenire, ma il diveniente è e ha da essere soltanto nella trasfigurazione creatrice. […] Questo trasformare è il creare. Creare, in quanto creare andando al di là di sé, è nell’intimo: stare nell’attimo (Augenblick) della decisione, attimo nel quale ciò che è stato finora ed è dato in dote viene elevato in ciò che è dato e progettato come compito, e così conservato» (ivi, pp. 386-387). 69. Sulla scia di Heidegger, nota Mazzarella che nell’atto di decidere per l’eterno ritorno, il Superuomo prospetta un «eccesso di misura misurante nella metafisica ultima di Nietzsche, che vuole trovare un metro anche per l’immensurabilità del passato che ci condiziona: un’aperta smentita dello statuto

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nel nulla, e motiva l’apertura all’essere come volontà, la cui temporalità è l’atemporalità del permanere. L’essere «nel suo insieme» si presenta come volontà ed è eterno ritorno del volere, in modo che la volontà diviene volontà di potenza in questo coincidere con l’eterno ritorno. Si ha pertanto il riproporsi di una qualche forma di fondazione metafisica dell’ente da parte del soggetto, in particolare del “Superuomo” (Übermensch), di colui che si fa carico dell’eterno ritorno e riconosce la volontà di potenza come essenza dell’ente, una fondazione dovuta al fatto che, come ammette lo stesso Zarathustra in “Della redenzione” (parte seconda), «la volontà non riesce a volere a ritroso; non poter infrangere il tempo e la voracità del tempo, – questa è per la volontà la sua mestizia più solitaria […]. Che il tempo non possa camminare a ritroso, questo è il suo rovello; “ciò che fu” – così si chiama il macigno, che la volontà non può smuovere». Il compito quasi finito dell’uomo prospettico», in modo che nell’eterno ritorno si ripropone «il paradosso di una volontà di creazione del mondo umano a partire da null’altro che da sé, dove una volontà di potenza che vuole il nulla piuttosto che non volere si fa parodia della contestata creatio ex nihilo del Cristianesimo» (Mazzarella E., Nietzsche e il giudizio del Cristianesimo, cit., p. 33). Ne deriva uno scenario in cui «la volontà di potenza possa volere la sua stessa potenza volitiva – ove non voglia rassegnarsi ad essa come una causalità friabile nel mare del divenire la cui lotta per la potenza è lotta contro il nulla originario. Il “fine”, l’intenzione speculativa della dottrina del ritorno, nel suo intreccio con la “figura” del Superuomo come “attore” che la rappresenta, è appunto questo: una volontà che possa affermarsi come causa sui» (Id., Nietzsche e la storia, cit., p. 112). In tal senso, il Superuomo, continua Mazzarella, «istituisce l’eterno ritorno»: «dell’eternità come attuosa coincidenza di un io volente con una totalità pensata come integralmente volibile e voluta nell’“attimo” della “decisione” si tratta. L’attimo di questa decisione è l’“ora” di un quantum di tempo-volontà che si estende su tutto il suo prima e il suo poi resi percorribili dalla loro circolarità. Nell’attimo la volontà si fa identica con il tempo, non solo nel senso di una protensione coestensiva alla sua totalità, ma in questa raggiunta coestensività ponendosi come identica alla sua stessa radice come temporalità» (ivi, p. 114).

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messianico di «redenzione» affidato al Superuomo consisterà allora nel «redimere coloro che sono passati e trasformare ogni “così fu” in un “così volli che fosse!” – solo questo può essere per me redenzione!»70. In tal modo la volontà diviene la condizione della libertà, in quanto l’assunzione dell’attimo da parte del soggetto tramite la decisione gli consente di guadagnare la propria «identità» e di divenire signore di se stesso, e di pervenire così alla libertà. Pertanto, contrariamente alle intenzioni di Nietzsche di fuoruscire dal paradigma metafisico, secondo Heidegger nel suo pensiero è presente un forte moto di «antropomorfizzazione dell’ente», come pensiero che pensa l’ente e nello stesso tempo contempla l’uomo che lo pensa, e dunque l’eterno ritorno si rivela essere un «pensiero “umano”»71. Si celebra la padronanza di un’origine sull’insieme che da essa viene originato. In questo senso l’itinerario nietzscheano, pur volendo disantropomorfizzare il mondo, si conclude tuttavia con una «suprema antropomorfizzazione» del mondo72. E tale estrema soggettivizzazione si coniuga con un’idea di eterno ritorno che rivela la sostanziale perdita di senso dovuta al nichilismo, in modo che in Nietzsche la volontà di determinare il senso dell’ente «in quanto tale» e «nel suo insieme» culmina con l’affermazione della sua radicale insensatezza, che emerge quando la metafisica incontra il mondo della tecnica73. La piena appartenenza 70. Cfr. Nietzsche Fr., Così parlò Zarathustra, cit., pp. 168-173, p. 170. 71. Heidegger M., Nietzsche, cit., ivi, pp. 299-300. 72. Ivi, pp. 305-306. 73. In un dialogo serrato con la lettura heideggeriana (di cui contesta la riduzione “trascendentale” della negazione della verità in Nietzsche), Severino approfondisce la centralità del ruolo della tecnica nell’atmosfera nichilista squadernata dall’eterno ritorno, come conseguenza della “liberazione” del divenire generata dal venir meno degli immutabili (metafisici, logici, etici, e quindi Dio, l’Idea platonica etc.) propri della tradizione occidentale. Si pro-

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di Nietzsche alla metafisica come storia dell’oblio dell’essere si evince laddove la volontà di volontà viene a rappresentare la forma estrema di nascondimento dell’essere da parte dell’ente: l’opera di fissazione dell’essere dal divenire avviene grazie ad una visione della ragione come «calcolo» (Berechnung), in modo che la verità è il risultato di un’opera di stabilizzazione nell’ente compiuta dalla volontà di potenza ai fini del proprio autoaccrescimento. Ne consegue la perdita di ogni riferimento all’essere seppur inteso come (Ab)Grund, fondamento infondato. L’essenza dell’ente come volontà di potenza permette lo squadernarsi dello scenario del nichilismo nel porre il nulla come lo sfondo proprio del ritornare eterno del moto, immanente e privo di scopo, di auto-superpotenziamento della dinamica di autovolizione della volontà. Se infatti l’istanza fondativa dell’essere dell’ente che soggiace alla volontà di potenza assume un carattere di principio, di inizio, ciò si deve al fatto che ogni volere è la posizione di un «voluto», e nella volontà di potenza il «voluto» è appunto la potenza, secondo il riferimento al comando, all’autoimplementazione di se stessa. Ciò implica dunque che la volontà pone se stessa come voluto, il che significa che essa vuole in realtà il nulla-di-volere, che diviene il voluto della volontà, in una traiettoria che coinvolge l’essere ri(con)dotto all’ente stesso. Ne consegue che, secondo Heidegger, l’essere viene confuso con la presenza (Anwesenheith), e ciò assicura Nietzsche alla storia della metafisica fino a rappresentarne l’estremo compimento, poiché il volere vuole l’essere ridotto però al nulla. L’essere viene pensato a partire dall’ente e ri(con)dotto da Nietzsche all’ente semspetta così il delinearsi di uno scenario diveniente e caotico, volto essenzialmente alla produzione e procrastinazione di se stesso, in cui emerge altresì l’ambivalenza del rapporto della tecnica con il divenire, nei confronti del quale essa si pone, per un verso, come termine di riconoscimento estremo, mentre per l’altro non si sottrae alla possibilità di configurarsi in chiave di suo dominio (cfr. Severino E., L’anello del ritorno, Adelphi, Milano, 1999).

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plicemente-presente, in modo che l’essere diviene valore, e dunque qualcosa che per Nietzsche necessariamente decade e viene nullificato: nel nichilismo la metafisica può così, pertanto, trovare il proprio estremo compimento74.

74. In realtà Heidegger chiarisce che il nichilismo non si squaderna, come pensa Nietzsche, nel momento in cui emerge l’estrema svalutazione di ogni valore, bensì si attua in seno all’estremo moto di oblio/nascondimento/ allontanamento dell’essere operato nell’/dall’ente, che proprio in Nietzsche trova compimento ultimo nel momento in cui viene meno ogni idea di “differenza ontologica”. Se prima di Nietzsche infatti la differenza tra essere e ente, seppur “adulterata” continua, diciamo, a rifulgere in lontananza nella visione della verità come conformità, come «correttezza», con Nietzsche la verità, in quanto errore, si trasforma in «non correttezza», e ciò rappresenta l’«ultimo riflesso» della metafisica. Nel saggio La dottrina platonica della verità, Heidegger scrive: «nella determinazione della verità come non correttezza del pensiero risiede l’adesione di Nietzsche all’essenza tradizionale della verità intesa come correttezza dell’asserire (λόγος). Il concetto nietzschiano di verità rivela l’ultimo riflesso della conseguenza estrema di quel mutamento della verità da svelatezza dell’ente a correttezza del guardare. Il mutamento stesso si compie nella determinazione dell’essere dell’ente (cioè, in senso greco, nel venire alla presenza di ciò che è presente) come ίδέα» (Heidegger M., La dottrina platonica della verità, cit., p. 188). In tal senso Nietzsche appare agli occhi di Heidegger come «il platonico più sfrenato della storia della metafisica occidentale» (ivi, p. 182). Con la dottrina del ritorno la differenza ontologica pertanto si fluidifica fino a scomparire, poiché è l’essere stesso ad allontanarsi in maniera definitiva, nel momento in cui la volontà di potenza non si pone più come il presupposto della costituzione dell’ente, ma vi si identifica: indica il costituirsi dell’essenza come tale, in modo che scompare definitivamente la distanza tra essere e ente, che in precedenza veniva pur sempre mantenuta. Nel rappresentare la tappa conclusiva della metafisica idea di verità che, a partire da Platone, coinvolge Aristotele, Cartesio, Leibniz, Pascal, Schelling e Hegel, Nietzsche in qualche modo annichilisce l’idea stessa di fondamento nella struttura volitiva del volere, nel «volere di volere» della volontà e, nel far questo, la radicale in-fondatezza della volontà conclude il percorso metafisico esaurendone le possibilità essenziali, e sancendo la definitiva “scomparsa” dell’essere esponendosi al nulla sostanziale dell’impossibilità del riferimento.

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Ora, è innegabile che il costrutto interpretativo heideggeriano qui sommariamente richiamato, che conclude con il confinare Nietzsche nell’orizzonte metafisico, abbia rappresentato un punto di riferimento ineludibile degli studi nietzscheani, fino a condizionare le letture successive, in modo da porsi non come una interpretazione, seppur eminente, bensì come la interpretazione della filosofia di Nietzsche, senza considerare lo specifico scenario esegetico in cui si muove75. Tuttavia, con l’edizione corretta delle sue opere, e il proliferare degli studi a lui dedicati, è emerso con crescente chiarezza il debito interpretativo che Heidegger ha contratto con Nietzsche, nel senso che l’indisponibilità di un’edizione puntuale delle sue opere e la forte pregnanza teoretica della lettura che egli fornisce della sua filosofia, al punto da coprire spesso, dicevamo, con il proprio pensiero76 il pensiero di Nietzsche, non pochi dubbi

75. Müller-Lauter nota che la pubblicazione nel 1961 delle lezioni di Heidegger su Nietzsche «ha avuto come conseguenza che da più parti si è visto in esse la esposizione autentica di Nietzsche, a prescindere dalle particolarità del contesto di storia dell’essere in cui è inquadrata» (Müller-Lauter W., L’essenza della volontà e il superuomo. Le interpretazioni heideggeriane di Nietzsche, cit., p. 103). In questo modo la filosofia di Nietzsche viene incardinata in un peculiare scenario semantico, l’unico possibile laddove la si voglia considerare “filosofia”: «Heidegger pensa la storia della metafisica moderna in vista di Nietzsche, o addirittura verso di lui. La circostanza che egli, nel far ciò, ripensi la filosofia precedente a partire da Nietzsche rende evidente una volta di più il primato che gli conferisce all’interno della storia della modernità» (ivi, p.116). La pregnanza del condizionamento della lettura heideggeriana si evince, per contrasto, dal fatto che opere ad essa precedenti, come ad esempio quella di Fink, edita nell’anno prima, e quella di Deleuze, pubblicata immediatamente dopo, nel 1962, prima dunque che il Nietzsche venisse tradotto in Francia (1971), e che infatti Deleuze non conosceva, concludono entrambe nell’indicare in Nietzsche non l’ultimo metafisico ma il primo pensatore postmetafisico. 76. È necessario ricordare, comunque, che con onestà lo stesso Heidegger in numerosi luoghi ammette che suo intento è più quello di pensare il pensiero di Nietzsche («il confronto reciproco con la cosa in questione in

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hanno fatto sorgere sulla linearità della sua ricostruzione. In questo senso, la lettura heideggeriana, non proprio filologicamente ineccepibile e, come osserva Müller-Lauter, spesso viziata da «“aggiunte”» o «citazioni incomplete di passi di Nietzsche»77, appare più come una “interpretazione”, se non come una vera e propria “elaborazione” filosofica del pensiero nietzscheano che come una sua esposizione. Ciò non significa però che, in linea generale, si sia posta in questione l’appartenenza di Nietzsche alla storia della metafisica anche da parte di coloro che, maggiormente, hanno contestato la visione heideggeriana. Tra questi, ad esempio, proprio Müller-Lauter, forse il critico più radicale di tale visione, concorda comunque con Heidegger nel sostenere che «non v’è dubbio che Nietzsche resti un metafisico. Né v’è dubbio che egli compia una restaurazione della metafisica: per esempio quando nella dottrina dell’eterno ritorno pensa la massima

Nietzsche»: Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 20) che di limitarsi ad una sua ricostruzione. Nel saggio sulla “morte di Dio”, ad esempio, dopo aver chiarito che «l’analisi che segue si mantiene, quanto al suo intento ed alla sua portata, nell’ambito di quell’esperienza di pensiero in base alla quale fu pensato Sein und Zeit», riconosce che la sua analisi si rivolge più all’impensato nietzscheano, secondo parametri propri: «ogni delucidazione non può accontentarsi di ricavare il senso dal testo, ma deve anche, senza presunzione, fornire impercettibilmente qualcosa di proprio, ricavato dalla cosa stessa» (Heidegger M., La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto», cit., pp. 194-195, cors. nostro). In egual misura, egli nel Nietzsche, a più riprese ribadisce che «l’esposizione e l’interpretazione sono integrate l’una nell’altra», e ciò orienta la sua esposizione/interpretazione in direzione di quell’«impensato» che, come scrive Müller-Lauter, «è però ciò di cui Heidegger fa esperienza come qualcosa che egli stesso ha da pensare» (Müller-Lauter W., L’essenza della volontà e il superuomo. Le interpretazioni heideggeriane di Nietzsche, cit., p. 100). 77. Ivi, p. 103.

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approssimazione del divenire all’essere»78. Le sue osservazioni alla lettura heideggeriana sono comunque fortemente significative per il nostro percorso: appare così utile richiamarne, a grandi linee, i presupposti.

78. Sebbene egli specifichi che per Nietzsche “metafisica” è da intendersi la derivazione del condizionato dall’incondizionato, e dunque in questo senso il filosofo non andrebbe semplicisticamente inquadrato in seno alla storia della metafisica occidentale, tuttavia egli sostiene che nell’aver ricondotto il mondo alla volontà di potenza, «la pretesa di Nietzsche che la sua filosofia non sia una metafisica non può certo sussistere», in quanto se «si intende per metafisica in senso molto più ampio l’interrogazione sull’ente nella sua totalità ed in quanto tale», ne consegue che «Nietzsche va definito un metafisico» (Müller-Lauter W., Nietzsches Lehre vom Wille zur Macht, in “Nietzsche-Studien”, n. 3, 1974; tr. it. La volontà di potenza in Nietzsche, in Id., Volontà di potenza e nichilismo. Nietzsche e Heidegger, cit., pp. 27-66, p. 27 e p. 31, n. 7). Semmai, la differenza che Müller-Lauter pone tra la propria lettura e quella di Heidegger è che in Nietzsche non si ha un compimento della metafisica, bensì una sorta di “autoimplosione” della metafisica che conclude con una «distruzione della metafisica a partire dalla metafisica stessa», in particolare riguardo alla decostruzione della sfera soggettiva. Ne viene che bisogna cogliere nel pensiero di Nietzsche un dato «più essenziale» rispetto a quanto indicato da Heidegger, e cioè che «dietro le facciate che Nietzsche sempre di nuovo eregge, la metafisica crolli in conseguenza del suo incessante interrogare» (ivi, p. 27). Si tratta di una differenza non da poco, ma che comunque non discute il permanere di Nietzsche in ambito metafisico, anche se ne evidenzia maggiormente lo sforzo di fuoruscita da tale paradigma, quel passo in avanti verso l’«“altro inizio”» (il pensiero dell’essere) che Heidegger non gli riconosce, ritenendo la sua riflessione il limite estremo della metafisica, non di più: «la fine del primo inizio non trapassa nel secondo inizio». Müller-Lauter conclude così: «va notato che la mia interpretazione di Nietzsche contraddice sì fondamentalmente quella di Heidegger, ma che non per questo mi vedo in contrasto con lo sforzo heideggeriano di “Verwindung della metafisica”. Piuttosto, la sua necessità – come anche la necessità dell’“altro inizio” preparato da Heidegger – mi sembra scaturire in misura ancora maggiore dal pensiero di Nietzsche di quanto sia stato messo in luce dalle interpretazioni finora sviluppate» (ivi, p. 27).

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3. Tra Heidegger e Deleuze: Müller-Lauter Inserendosi in una linea interpretativa che trova in Deleuze il suo punto d’origine79, Müller-Lauter ha il merito di aver insistito sulla natura non unitaria, bensì molteplice della volontà di potenza, nell’ambito di una unità che trova proprio il molteplice a suo fondamento: nell’«Uno della volontà di potenza», emerge che il «molteplice viene in primo piano. Solo una molteplicità può essere organizzata in una unità»80. Il nucleo della sua critica verso Heidegger è rappresentato dalla volontà di potenza nella sua configurazione di termine ultimo della metafisica laddove, nel porsi come comando, cioè autooltrepassamento costante rileva, nel sopprimerla, la differenza tra essenza ed esistenza, svelandone la complicazione in seno a se stessa. Nel pensiero di Nietzsche, osserva infatti Heidegger, «la differenza tra essentia ed existentia» scompare, in uno scomparire che «può però essere visto solo tentando di rendere visibile la differenza: volontà di potenza come essentia; eterno ritorno dell’uguale come existentia»81. Il che significa che, essendo la volontà di potenza un ens metaphysicum che si distingue in una molteplicità pur restando sempre in sé, nell’opera continua di autopotenziamento ha necessità di distinguere, al proprio interno, ciò che supera e ciò che viene superato, e quest’ultimo deve saper offrire una certa «resistenza (Widerstand) ed essere inoltre lui stesso qualcosa di costante (Ständiges) che si tiene (sich hält) e si mantiene (sich

79. Egli accetta, in realtà, di condividere con Deleuze soltanto «alcune tendenze» (ivi, p. 47, n. 40), a motivo di una notevole differenza nel concepire il legame tra la volontà di potenza e le forze, come vedremo subito. In ogni modo, ci sembra che non pochi stimoli egli tragga dalla prospettiva molteplice e plurale da cui Deleuze guarda alla volontà di potenza. 80. Ivi, p. 32. 81. Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 926.

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erhält)»82. Ora, anche secondo Müller-Lauter la volontà di potenza va interpretata come essenza, ma è «nell’analisi di cosa significhino in Nietzsche essenza ed esistenza» che emergono le differenze tra la sua prospettiva e quella di Heidegger. Lo studioso insiste infatti sul carattere molteplice e plurimo della volontà di potenza, poiché «si rende giustizia al carattere complicato del volere di cui parla Nietzsche soltanto se si intende il molteplice da lui evocato come il fondamento di ogni semplice»83. Ne deriva che più che alla volontà di potenza ci si deve riferire alle volontà di potenza, o meglio, ad una volontà di potenza che si presenta però come «una molteplicità di forze organizzata in una unità», secondo una visione del molteplice da non intendersi in chiave leibniziana come «una pluralità di datità ultime quantitativamente irriducibili, come pluralità di “monadi” indivisibili»84. Nietzsche infatti descrive la volontà di potenza come un orizzonte primordiale intessuto di molteplici forme di energia che precede e anticipa il concetto fisico di “forza”, e parla di «quanti di potenza (Macht-Quanta)» e «quanti di energia (Kraft-Quanta)»85 che genealogicamente superano una configurazione atomica come riferimento ultimo della scomposizione del reale. Nel passare dalla volontà di potenza alle volontà di potenza, quindi, «viene esclusa ogni possibilità di pensare ad una quasi-sostanzialità delle volontà» e, in tal modo, è possibile affermare che «la volontà di potenza non esiste», poiché «esistono solo pluralità

82. Ivi, p. 756. 83. Müller-Lauter W., L’essenza della volontà e il superuomo, cit., p. 112. 84. Müller-Lauter W., La volontà di potenza in Nietzsche, cit., p. 31, n. 7 e 33 n. 14. 85. Nietzsche FR., Nachgelassene Fragmente 1888-1889; tr. it. Frammenti postumi 1888-1889, «Opere di Friedrich Nietzsche», Adelphi, Milano, 1986², Vol. VIII, tomo III, n.14 [79], p. 47 e n. 14 [81], p. 52.

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di volontà di potenza» divisibili all’infinito86. Ne consegue che l’essentia dei gradi di potenza, che secondo Heidegger verrebbero “fissati” dalla volontà di potenza lungo il suo processo di superpotenziamento, perde di consistenza nel non offrire qualcosa di costante e “solido” capace di opporre resistenza al superamento. Di rimando, la molteplicità e pluralità di potenze diluiscono l’essentia della volontà fino a definirla come un insieme composito di «processi di aggregazione e disaggregazioni di volontà di potenza» che, di volta in volta, si costituisce in unità attraverso l’interpretazione, da intendersi non come risultato dell’opera di un chi interpretante, bensì come «relazione reciproca di accadimenti che si “fissano” a vicenda»87. L’interpretazione è l’accadere dell’incontro tra le potenze, lo stabilirsi della loro relazione ad opera del caso, in un “fissare” che però è semplice esibizione di potenza, in quanto sia nel mondo inorganico, sia nel mondo organico, «ogni interpretazione ha tanto diritto quanto ha potenza»88. Ne viene, che ogni interpretazione si impone per contrasto con le altre possibili, e rimane sempre aperta ad ulteriori interpretazioni eventuali, così come ogni forza è tale per contrasto con le altre che le si oppongono e che le si potrebbero opporre in futuro. Nella lettura pluralistica avanzata da Müller-Lauter, si rende quindi inaccoglibile un’idea della volontà di potenza «come l’unico soggetto metafisico, come l’unico accadimento fondamentale», in quanto «vi sono per Nietzsche contesti di accadimenti, ma non vi è l’accadimento fondamentale. Non vi è l’Uno, vi sono sempre e solo pluralità che si connettono fra loro e si dissolvono». In tal senso, «la filosofia di Nietzsche esclude che la

86. Müller-Lauter W., La volontà di potenza in Nietzsche, cit., pp. 43-44. 87. Ivi, pp. 53-54. 88. Ivi, p. 57.

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questione del fondamento dell’ente nel senso della metafisica tradizionale sia una questione rilevante per l’accadere reale»89. A tale visione si potrebbe obiettare che, pur nella molteplicità del suo configurarsi, il problema della volontà di potenza come “essenza ultima” si ripresenta a riguardo dell’individuo, da considerarsi pur sempre come esito della sua manifestazione, anche e soprattutto laddove si tenga conto che per Nietzsche tale pluralità delle forze si determina anche all’interno dell’individuo stesso. Ogni individuo, infatti, deve pur ritrovare una qualche unità, resa possibile dalla volontà stessa, nella molteplicità dei suoi impulsi, a rischio di venir meno come “individuo”, appunto, e frammentarsi così in una molteplicità di processi senza una logica apparente. Sebbene distinguere ancora tra “unità” e “molteplicità” significhi già porsi al di fuori delle coordinate su cui Nietzsche delinea il proprio percorso, la questione dell’unità individuale si chiarisce nel momento in cui si osserva che nell’ambito del discorso di Müller-Lauter a prevalere è il carattere non sostanziale della volontà di potenza, nella pluralità di forze in cui e di cui si struttura, secondo una preminenza accordata pertanto alla relazione del molteplice in cui viene racchiusa la possibilità dell’interpretazione. In tal senso quello delle volontà di potenza rivela (e si rivela essere) uno sfondo primordiale caotico dominato dal contrasto reciproco tra molteplici forze che si oppongono, in modo che l’unità dell’individuo diviene possibile grazie al comporsi casuale e provvisorio di tale contrasto. Ciò significa che, in primo luogo, ad istituire la relazione tra le volontà di potenza, in cui e da cui si origina l’azione interpretativa delle potenze nell’individuo, è il caso (su cui Nietzsche insiste a più riprese), in modo che il delinearsi, pur non ultimativo, di un “senso” è consequenziale 89. Ivi, p. 66.

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ad un processo di unificazione che accade per motivi del tutto estranei all’azione delle volontà stesse. L’individuo, cioè il risultato dell’opera di relazione/interpretazione, appare così in margine alla relazione casuale tra le potenze, ma non ne rappresenta il fine precostituito: non si ha il rimando ad alcuna teleologia, piuttosto esso appare come un esito non programmato del contrasto tra le volontà. Esito che, in secondo luogo, non assume mai una forma ultima e definitiva, perché sempre esposto a sollecitazioni ulteriori riferibili al “gioco” delle potenze. L’unità dell’individuo si presenta così sempre in forma temporanea, provvisoria, in quanto esposta alla casualità possibile dell’incontro con altre forze, in modo che la sua “identità” (il cui “principio” Nietzsche contesta a più riprese) permane costantemente aperta a modifiche e trasformazioni. Se dunque di una “logica” delle volontà si vuole parlare, ciò sarà possibile laddove si deciderà di accettare il loro incontro in base a dinamiche dovute al caso, dinamiche che prescindono quindi da ogni principium organizzatore, e di cui il tipo di relazione che si instaura tra le volontà di potenza (contrastiva, oppositiva, o altro) fornisce la cifra di senso nell’interpretare l’unita individuale che risulta da tale incontro. Il che significa che le volontà di potenza non sono condizione o garanzia di tale unità, bensì il loro relazionarsi si limita ad attestarne l’interpretazione, che accade, si badi, contemporaneamente all’unità stessa determinata dal caso, in quanto coincide con la relazione tra le volontà di potenza. In tal guisa, l’accadere viene definito come incontro tra le volontà di potenza poichè è la loro relazione a farne emergere i parametri interpretativi: potremmo dire che l’accadere è la relazione interpretativa che si instaura tra le volontà di potenza. Un accadere da cui dipende l’identità individuale, ma che proprio per il fatto di restare sempre esposta al ritorno dell’accadere stesso, lo vedremo subito, non sarà mai definibile in modo ultimativo. Ciò

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spiega perché Nietzsche concluda con l’identificare volontà di potenza e accadere. Come si vede, Müller-Lauter inaugura uno scenario esegetico radicitus differente da quello heideggeriano. Così come, nell’ambito del suo discorso, emerge altresì la distanza che egli stabilisce tra la propria posizione e quella di Deleuze. Si tratta di una differenza sottile, ma costitutiva. Deleuze infatti, muovendosi su una direttrice altra rispetto a quella heideggeriana (che non conosceva90), è il primo ad aver intravisto il carattere molteplice della volontà di potenza come nucleo di forze. Il filosofo francese spiega che la forza è infatti da intendersi sempre al plurale («l’essere della forza è plurale e, a rigore, sarebbe assurdo pensare la forza al singolare»), e dunque bisogna pensarne la pluralità e la relazione che in essa si instaura. Ora, «per Nietzsche il concetto di forza implica che una forza entri in rapporto con un’altra»91, e anzi, «la forza è in rapporto essenziale con la forza», poiché «la sua essenza consiste nella differenza di quantità con altre forze», differenza di attività e reattività che «si esprime come qualità della forza», in quanto «la differenza di qualità così intesa rinvia necessariamente ad un elemento differenziale delle forze tra loro in rapporto e che di esse costituisce anche l’elemento genetico»92. Tale elemento genetico-genealogico di produzione della qualità delle forze nell’ambito del rapporto è, appunto, la volontà di potenza: «sotto questo aspetto, la forza si chiama volontà. La volontà

90. Ferraris spiega infatti che quando Deleuze dà alle stampe il suo Nietzsche e la filosofia (1962), il Nietzsche di Heidegger gli era «sostanzialmente ignoto», poiché «verrà tradotto solo nel 1971» (Ferraris M., L’eredità di Nietzsche, in Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, tr. it. cit., pp. 7-25, p. 14). 91. Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 36-37. 92. Ivi, p. 78

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(volontà di potenza) è l’elemento differenziale della forza»93, e dunque «la volontà di potenza è l’elemento genealogico della forza, differenziale e genetico al tempo stesso», poiché produce «sia la differenza di quantità di forze che siano tra loro in rapporto, sia la qualità che, in questo rapporto, è proprio a ciascuna forza»94. La volontà di potenza, come prodursi di nuove identità e nuove differenze in base al differire continuo della differenza, qualifica se stessa come affermazione costante della propria differenza, poiché «vuole affermare la propria differenza e, nel suo rapporto essenziale con un’altra volontà, fa della propria differenza un oggetto di affermazione»95. Ne viene che è proprio della volontà di potenza l’affermare e il negare come «qualità immediate del divenire stesso», come sfondo asostanziale e relazionale su cui si stagliano l’azione e la reazione proprie delle forze96, in una relazione quantitativa che le distingue in «dominanti o dominate»97. La forza attiva afferma se stessa e la propria differenza, raggiunge l’estremo delle sue possibilità, mentre quella reattiva ha come mira la scomposizione della forza attiva, la separa da ciò che è in suo potere, essendo a sua volta separata da ciò che è in suo potere e dunque non riuscendo a raggiungere l’estremo delle proprie possibilità. La concezione nietzscheana di “forza” afferisce pertanto ad una dimensione più profonda rispetto a quella di

93. Ivi, pp. 36-37. 94. Ivi, p. 78. 95. Ivi, p. 39. 96. Spiega Deleuze che «affermare e negare, apprezzare e svalutare sono espressioni della volontà di potenza, così come agire e reagire sono espressioni della forza» (ivi, p. 82). In questa capacità di affermazione consiste la fecondità del pensiero nietzscheano, che per Deleuze si muove su una direttrice kantiana di critica alla ragione e di produzione di nuovi valori. 97. Ivi, p. 81.

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cui parla la fisica, una sfera primordiale che precede e sottende quella in cui si muove il sapere scientifico. In questo senso, la volontà di potenza come elemento ultimo dell’accadere assume la configurazione di orizzonte differenziale che precede e anticipa il definirsi stesso della forza fisica. Per evitare, inoltre, che tale orizzonte si ponga come principium, Deleuze chiarisce che la volontà di potenza agisce dopo che il caso ha determinato una relazione tra le forze: è «necessario che la volontà di potenza si unisca alle forze, ma ciò è possibile solo per quelle forze che il caso ha posto in rapporto tra loro»98. Pur apprezzando l’indicazione sul carattere molteplice della volontà di potenza, tuttavia Müller-Lauter rileva che Deleuze, nella «distinzione essenziale per la sua interpretazione, tra la volontà di potenza e le forze», finisce comunque per attestare, «certo ad un livello più elevato che in altre interpretazioni, ancora un dualismo, che Nietzsche ha abbandonato a favore della concezione “monistica” dei quanti di volontà, in quanto pluralità di volontà di potenza (interpretabili nell’ambito delle scienze della natura anche come forze) che si organizzano in una continua mutazione»99. In questo modo, egli sostiene che

98. Cfr. ivi, pp. 78-84. 99. Müller-Lauter W., “La volontà di potenza” come libro della “crisi”, cit., p. 95. Egli rileva che Deleuze cade nell’equivoco dualista poiché «come Heidegger, anche Deleuze ha dato particolare rilievo ad una formulazione che…non è di Nietzsche ma di Peter Gast» (ibidem; su Heidegger, cfr. supra, n. 60). Deleuze ha infatti ritenuto fondamentale per l’esegesi della volontà di potenza l’aforisma n. 619 de La volontà di potenza, che nell’edizione Colli-Montinari recita così: «il vittorioso concetto di “forza”, con cui i nostri fisici hanno creato Dio e il mondo, abbisogna ancora di un completamento: gli si deve assegnare un mondo interno, che io chiamo “volontà di potenza”, cioè un insaziabile desiderio di manifestare potenza; ossia un impiego, un’esplicazione di potenza, come impulso creativo, eccetera» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 36 [31], p. 241), mentre nell’edizione di Gast e di E. Nietzsche su cui lavora Deleuze il riferimento al

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«è sufficiente esaminare a fondo gli scritti e i testi postumi di Nietzsche per riconoscere che in Nietzsche non si può parlare della volontà di potenza come dell’elemento differenziale (e in quanto tale distinto) rispetto alle forze», e ciò perché anche la volontà rivela una natura plurale che le viene dal coincidere con i quanti di potenza, in modo da non occupare un livello diverso e distinto rispetto ad essi. Ne consegue che, a riguardo di quanto dicevamo sopra sull’unità dell’individuo, l’interpretazione unitaria che la relazione tra le volontà di potenza fornisce nell’individuo, non rappresenta un passaggio successivo «mondo (Welt) interno» appare invece come: «volontà interna». Non a caso, infatti, se nella traduzione italiana di Nietzsche e la filosofia compare già la versione del frammento emendata da Colli e da Montinari (cfr. Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit. p. 78; così come, del resto, la correzione di «volontà interna» in «mondo interno» compare anche nell’edizione italiana di La volontà di potenza a cura di Ferraris e Kobau: cfr. Nietzsche Fr., La volontà di potenza. Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche, cit., p. 340), nel testo originale di Deleuze del 1962 si legge, invece: «Un des textes les plus importants que Nietzsche écrivait pour expliquer ce qu’il entendait par volonté de puissance est le suivant: “Ce concept victorieux de la force, grâce auquel nos physiciens ont créé Dieu et l’univers, a besoin d’un complément; il faut lui attribuer un vouloir interne que j’appellerai la volonté de puissance”. La volonté de puissance est donc attribuée à la force, mais d’une manière très particulière: elle est à la fois un complèment de la force et quelque chose d’interne» (Deleuze G., Nietzsche et la philosophie, cit., p. 56). In tal modo, dato che non scorge (e non può scorgere) questa modifica operata da Gast sul testo nietzscheano, secondo Müller-Lauter Deleuze ritiene di aver individuato una qualche forma di separazione tra la volontà e la pluralità delle forze, definendola come l’elemento differenziale che di esse qualifica la natura affermativa o negativa. Separazione che cade una volta ripristinato il testo del frammento nella sua forma originaria. Ciò significa che Deleuze «differenzia dove Nietzsche non lo fa, dove non lo può fare, senza rinunciare alla coerenza interna del suo pensiero». Il «completamento» di cui parla Nietzsche viene così inteso da Deleuze come una «addition», mentre invece Nietzsche più che come una «“addizione”», concepisce la sua visione della forza, rispetto al concetto meccanicistico, come una «mera sottrazione» (Müller-Lauter W., La volontà di potenza in Nietzsche, cit., p. 47, n. 40).

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all’accadere casuale della loro relazione, ma accade essa stessa nella relazione e vi si identifica, pur non rappresentandone l’origine. In tal senso, la volontà non “si unisce” alle forze dopo che il caso ne ha stabilito il rapporto, ma essa è già nel rapporto e vi si identifica, come prospetto per l’uomo in termini di essentia della relazione esistenziale tra il molteplice che la struttura. La distanza di Müller-Lauter dal “pensiero della differenza” di Deleuze accentua ancora di più l’attenzione filosofica verso la relazione tra le volontà, e delinea così per Nietzsche uno scenario diverso da quello della metafisica, aristotelicamente incentrato sulla “sostanza”. E sebbene egli non abbia voluto trarre le conseguenze estreme della sua posizione, limitandosi a confinare il filosofo di Röcken all’interno di un quadro totalizzante, le sue considerazioni vanno tuttavia oltre il limite che per esse egli ha stabilito. Se infatti in Nietzsche è possibile rinvenire un moto di “distacco” dalla metafisica, sarà proprio su questa torsione (Verwindung) della sostanza nella relazione che bisognerà soffermarsi, al fine di sottrarre la relazione stessa a ogni specificazione categoriale e predicativa operata dal soggetto per rilevarne, invece, la più immediata e originaria valenza di legame, vincolo, rapporto, rimando: insomma nesso oggettivo tra gli elementi del reale. Ci sembra infatti che sia quella tracciata da Müller-Lauter la via più propria per tentare di intravedere nel cammino di Nietzsche un discorso altro rispetto a quello della metafisica, un discorso che si modula secondo i parametri di un “pensiero della relazione”, nel confine interstiziale in cui si specifica la duplicità di accezioni del genitivo: come pensiero proprio della relazione e, dunque, come pensiero che intende pensare la relazione mentre la pensa, dall’interno della relazione e tramite la relazione, permanendo sempre consapevole di tale intenzione.

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Un pensiero capace di esprimere il proprio radicamento nell’orizzonte della palude senza ricorrere ad un Principio unico di costituzione del reale, e quindi un pensiero che si propone di pensare come tale la relazione da cui trae origine, mantenendo fermo l’obiettivo di non categorizzarne gli estremi nella sostanza. “Sostanza” rispetto alla quale tale pensiero non si pone in termini di negazione dialettica bensì di alterità strutturale, secondo uno sforzo continuo di affermazione la cui tensione non viene mai meno, e che conduce Nietzsche ad esplorare i confini estremi dell’universo filosofico problematizzando, in ogni momento, il sentiero che sta percorrendo: da qui il carattere tortuoso e contraddittorio del suo procedere. Un pensiero che riconosce, dunque, nella vita come relazione il proprio radicamento, che la ragione esprime connotando di tratti relazionali proprio il suo peculiare modo di espletare l’appartenenza alla vita stessa, cioè il pensiero. In questo senso, attraverso “un” pensiero della relazione, la ragione vive la relazione mentre la pensa e per mezzo di essa, in quanto partecipa della relazione vitale pensando la relazione interpretativa tra le potenze dall’interno della relazione che la pensa e tramite la relazione oggettiva di cui ne è. Un pensiero della relazione che, inoltre, non persegue un “nuovo inizio” rispetto alla metafisica, in quanto si distanzia dall’idea stessa della “prosecuzione” o del “congedo”, quindi del “superamento” (in fin dei conti anch’esso interno a ciò che intende superare), ma offre alla ragione una strada altra da percorrere, che ricomprende anche la “domanda sull’essere” nella più profonda chimica vitale della relazione di cui anche la ragione partecipa. In questo modo, l’impresa di Nietzsche, più che a definire un pensiero “successivo” a quello metafisico, è volta a cogliere genealogicamente le dinamiche che nella vita determinano la formulazione di tale, e di ogni, pensiero. Dinamiche che pongono nella relazione interpretativa tra le potenze vitali l’origine stessa della domanda sull’essere, se-

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condo un pensiero che non dimentica, pur sempre, il proprio radicamento in tali dinamiche, la propria continua esposizione alla relazione di cui ne è. Proprio perché rientra nelle dinamiche più generali della vita, da cui la ragione non si distacca ma ne conserva i tratti relazionali nel pensare, il pensiero può secondo Nietzsche garantire il riferimento alla molteplicità e pluralità delle potenze. Ciò richiede alla filosofia l’adozione di uno sguardo conoscitivo nuovo, che le consenta di vedere «da cento occhi», uno sguardo che diversamente dalle modalità ri(con)duttive del theoréin assume in quanto tale la molteplicità come proprio orizzonte costitutivo, in un duplice senso: come pluralità strutturale della Wirklicheit da cui, tramite i sensi, si origina e a cui si rivolge, e come pluralità di rimandi prospettici cui appartiene, mantenendo inoltre viva, mentre guarda, dall’interno del guardare e mediante il guardare stesso, la coscienza del suo essere uno sguardo determinato. Rispetto a quella tradizionale, si intravede così una strada altra per il sapere, in cui la ragione condivide lo sforzo pratico, fattivo, messo in campo dagli uomini nell’opera di costruzione della civiltà a partire dalla palude, di cui non elide e non elude il proprio radicamento, come vorrebbe la metafisica. Una strada che, più che “antimetafisica” o “postmetafisica”, è oltremetafisica, e che Nietzsche intraprende concependo la volontà di potenza come «nuova interpretazione di ogni accadere», in una direzione che va ad identificare l’accadere con l’esito dell’interpretazione delle modalità in cui la relazione tra le volontà di potenza accompagna, tramite la ragione, il senso dell’unità dell’individuo singolare determinata dal caso. In definitiva, ad accadere è sempre la relazione interpretativa tra le volontà di potenza, di cui pertanto bisogna ripensare i rapporti con l’eterno ritorno rispetto a quanto sostenuto da Heidegger.

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4. I «presupposti» dell’eterno ritorno Abbiamo detto che, anche al fine di differenziarsi dalle posizioni esegetiche e ideologiche di Baeumler e di altri, la riconduzione dell’intero percorso di Nietzsche alla dottrina dell’eterno ritorno si riveste di un ruolo assiomatico nella lettura di Heidegger. Su tale elemento egli insiste a più riprese, persuaso che sia questo il nucleo centrale intorno a cui far ruotare la meditazione nietzscheana: l’eterno ritorno è la dimensione teoretica su cui Nietzsche imposta la sua visione rappresentativa dell’«ente nel suo insieme», che gode di profondità speculativa superiore alla stessa volontà di potenza. E tuttavia, le indicazioni di Nietzsche indicano un quadro di subalternità teoretica e concettuale diverso, se non proprio contrario, rispetto a quello delineato nel Nietzsche, cioè un piano di priorità speculativa che vede la volontà di potenza su un gradino teoretico più profondo rispetto alla dottrina dell’eterno ritorno. Si tratta di un punto di cui, lo stesso Heidegger dimostra di accorgersi. Egli rileva infatti che Nietzsche, nei Frammenti postumi databili al 1885, coevi dunque allo Zarathustra, in cui il filosofo comincia a prospettare il piano di lavoro dell’opera La volontà di potenza, che dovrà avere come sottotitolo Tentativo di una nuova interpretazione di ogni accadere100, definisce la volontà di potenza come «l’ultimo fatto a cui perveniamo scendendo in profondità»101. L’eterno ritorno invece, continua Heidegger, per Nietzsche «non è il fatto ultimo, ma “il pensiero dei pen100. Cfr. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 39 [1], p. 303; più avanti Nietzsche precisa che «sotto il titolo non innocuo di “Volontà di potenza”, prende qui la parola una nuova filosofia, o, per dirla più chiaramente, il tentativo di una nuova interpretazione di ogni accadere» (ivi, n. 40 [50], p. 340). 101. Si tratta di un frammento dell’agosto-settembre 1885, intitolato “Per il piano” (ivi, n. 40 [61], p. 348). Heidegger lo cita espressamente e per intero:

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sieri”», in modo che la domanda che egli si pone è relativa alla differenza strutturale tra questi due elementi: «che cosa si nasconde, in fondo, dietro questa differenza tra l’eterno ritorno quale “pensiero più grave” e la volontà di potenza quale “fatto ultimo”?»102. La definizione dell’eterno ritorno come «pensiero più grave» viene avanzata da Nietzsche nei Frammenti del 1884, in un aforisma che rivela altresì l’esistenza di «presupposti» di tale pensiero. 1. Il pensiero: i suoi presupposti, che dovrebbero essere veri, se esso è vero. Che cosa ne deriva. 2. In quanto il pensiero più grave: il suo presumibile effetto, se non viene prevenuto, cioè se non vengono trasvalutati tutti i valori103.

Il motivo cardine dell’interpretazione heideggeriana è che sia «inequivocabilmente» l’eterno ritorno il Grund teoretico fondamentale della filosofia di Nietzsche, in modo che si ha una preminenza dell’eterno ritorno (come pensiero) sulla volontà di potenza (il fatto, l’«accadere»)104. Che poi, in seguito, l’eterno ritorno venga a identificarsi con la volontà di potenza è il risultato, appunto, della sua preminenza originaria: la volontà in quanto potenza è la volontà che vuole se stessa, ed è dun«La volontà di potenza è il fatto ultimo a cui perveniamo scendendo in profondità» (Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 348). 102. Ibidem. 103. Nietzsche FR., Frammenti postumi 1884, cit., n. 26 [284], p. 205. Si noti che Nietzsche parla di «presupposti» dell’eterno ritorno già in un frammento dell’inverno 1883-1884 che però Heidegger qui non cita: «L’ETERNO RITORNO. Un libro di profezia. I. Esposizione della dottrina e dei suoi presupposti ed effetti teoretici» (Nietzsche Fr., Frammenti 18821884, cit., parte II, n. 24 [4], p. 312). 104. «L’esame dei piani degli anni 1884 e 1885 mostra tuttavia inequivocabilmente un fatto: la filosofia che Nietzsche progetta di esporre nel suo insieme è la filosofia dell’eterno ritorno; per darle forma c’è bisogno dell’interpretazione di ogni accadere come volontà di potenza» (Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 348).

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que, nello stesso momento, eterno ritorno dell’identico volere se stessa come proprio «voluto». In tal modo la volontà di potenza può assurgere al ruolo di ens metaphysicum incentrato sul “nulla-di-volere”. Senonchè tale considerazione stride con l’affermazione di Nietzsche dell’esistenza di «presupposti» dell’eterno ritorno. Heidegger lo riconosce, e lo giudica «strano»: infatti, «se la dottrina dell’eterno ritorno deve essere la dottrina fondamentale che tutto determina, essa non può più avere presupposti. Deve, viceversa, essere essa il presupposto di tutti gli altri pensieri»105. Se dunque da La gaia scienza (1882), dove viene enunciata per la prima volta, allo Zarathustra (1885) non abbiamo mutazioni sostanziali della dottrina del ritorno, l’indicazione dell’esistenza di suoi «presupposti» in un frammento del 1884 fa sorgere in Heidegger non poche perplessità, in quanto gli sembra che «la dottrina del ritorno, se non abbandonata», risulti «tuttavia sminuita nel suo significato fondamentale», come se venisse da Nietzsche «risospinta in una posizione subordinata». Per chiarire questo dubbio, prosegue Heidegger, si tratterà allora di capire cosa intenda Nietzsche con questi «presupposti» che, sebbene non esplicitati «direttamente», da «allusioni e dall’orientamento complessivo del suo pensiero lo si può mostrare in maniera inequivocabile: intende la volontà di potenza come la costituzione generale di tutto ciò che è». Ne segue che «il pensiero dell’eterno ritorno viene ora pensato esplicitamente partendo dalla volontà di potenza. Dunque, potremmo ora concludere, il pensiero dell’eterno ritorno viene ricondotto alla volontà di potenza». Ciò contraddirebbe però l’impianto esegetico che Heidegger sta delineando, e infatti egli è pronto a precisare che «questa sarebbe però una conclusione affrettata ed esteriore», in quanto, «anche se le

105. Ivi, p. 353.

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cose stessero così – se la volontà di potenza fosse il presupposto dell’eterno ritorno dell’uguale», ciò non implicherebbe una esclusione di quest’ultimo, un suo superamento da parte della volontà di potenza, in base ad un ulteriore approfondimento della meditazione nietzscheana, bensì «ne conseguirebbe l’inverso», e cioè «che la volontà di potenza richiederebbe l’eterno ritorno dell’uguale»106. Heidegger è costretto pertanto ad ammettere che esiste un problema nello sviluppo dell’interpretazione che sta proponendo, e lo risolve dicendo che la volontà di potenza «richiederebbe» l’eterno ritorno, con una conseguenza immediata: i termini del discorso nietzscheano vengono invertiti, in modo che è l’eterno ritorno a divenire presupposto della volontà di potenza e dunque, si badi, in un senso «inverso» rispetto a ciò che Nietzsche stesso dichiara. In questo modo, e soltanto in questo modo, secondo Heidegger, la dottrina del ritorno riesce a conservare una posizione di priorità rispetto alla Wille zur macht: ma questo è quanto Heidegger pensa, non quanto Nietzsche scrive. Heidegger ammette infatti che non si sta fermando «alla differenza esteriore e letterale delle tesi e dei termini “eterno ritorno dell’uguale” e “volontà di potenza”», ma sostiene che «una filosofia diventa comprensibile soltanto se tentiamo di pensare ciò che essa dice», in modo che bisogna considerare la volontà di potenza come «lo sviluppo del precedente progetto originario dell’ente come eterno ritorno dell’uguale. In verità le cose stanno così». Uno «sviluppo» da intendersi, «nel senso più proprio e intimo di Nietzsche», come «nient’altro che il volere andare indietro a ciò che fu e il volere andare oltre verso ciò che deve essere» (il «“così volli che fosse!”» dello Zarathustra), in modo che l’eterno ritorno, «in quanto accadere», finisce per identificarsi con la volontà

106. Ivi, pp. 353-354.

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di potenza107. E questo nonostante il fatto che per «accadere», Nietzsche intende sempre, ed esclusivamente, la volontà di potenza, non l’eterno ritorno. A tali conclusioni Heidegger è portato in quanto ha già in mente una ben precisa ipotesi esegetica, che vede l’eterno ritorno porsi come il «modo d’essere» dell’ente, e la volontà di potenza come la «costituzione» dell’ente108. Si tratta dunque di una «interpretazione» che ha già una struttura ben definita e di cui si deve argomentare la fondatezza. Et pourtant, il dubbio che sorge leggendo i passi nietzscheani, dubbio che accompagna lo stesso Heidegger e che gli fa riconoscere che sta pensando il pensiero di Nietzsche, è che la sua interpretazione sia appunto “una interpretazione”, che va però, in qualche modo, a stridere con lo sviluppo del pensiero nietzscheano, nel senso che qualcosa di non lineare, perlomeno un’ombra rimanga sullo sfondo, e si tratta proprio del rapporto tra dottrina del ritorno e la volontà di potenza. E non è un caso che egli prosegua, per corroborare ulteriormente la sua tesi (e ciò attesta che ne avverte la necessità), rilevando che Nietzsche, in un frammento del 1885, che nella prima versione della Wille zur macht compare con il numero 1067, alla domanda «che cos’è per me il mondo» risponda in una prima versione che è l’eter-

107. Ivi, p. 355. 108. Egli lo dichiara poco prima, quando spiega come deve essere intesa la volontà di potenza in quanto “presupposto” dell’eterno ritorno: «fondamento conoscitivo (Erkenntnisgrund, ratio cognoscendi)», «fondamento reale (Sachgrund, ratio essendi), «costituzione dell’ente (il suo “che cosa”, la quidditas, essentia)» (ivi, p. 354). E aggiunge che si deve analizzare bene il rapporto tra costituzione dell’ente e suo modo d’essere, da non intendersi nei termini di un «condizionante e un condizionato, tra un fondante e un fondato», sebbene si tratta di non correre troppo nell’interpretazione, in quanto «con queste domande, tuttavia, noi anticipiamo già i passi decisivi dell’interpretazione e della determinazione del rapporto tra eterno ritorno dell’uguale e volontà di potenza» (ivi, p. 354).

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no ritorno, «il rivolere il passato e il volere andare oltre, verso ciò che deve essere», mentre invece viene rielaborato in seguito (e pubblicato nella prima versione spuria e in seguito anche in quella ufficiale) nella forma «questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro»109. In generale, Heidegger è convinto che l’eterno ritorno conservi una posizione di priorità rispetto alla volontà di potenza anche nei frammenti ultimi degli anni 1884-1889, da cui risulta il «fatto inoppugnabile che il pensiero dell’eterno ritorno assume ovunque la posizione determinante», in modo che non si può ipotizzare alcuna sua «retrocessione» nell’impianto complessivo del pensiero di Nietzsche110. Ne viene che «la filosofia che Nietzsche progetta di esporre nel suo insieme è la filosofia dell’eterno ritorno; per darle forma c’è bisogno dell’interpretazione di ogni accadere come volontà di potenza. Quanto più Nietzsche si immerge nel pensiero dell’esposizione complessiva della sua filosofia, tanto più incalzante si fa per lui, quale compito principale, l’interpretazione di ogni accadere come volontà di potenza. Per questo il termine “volontà di potenza” entra nel titolo della progettata opera capitale. Che il tutto

109. Ivi, p. 355. Heidegger si riferisce al famoso frammento 1067 con cui si conclude La volontà di potenza, (cfr. Nietzsche Fr., La volontà di potenza. Frammenti postumi ordinati da Peter Gast e Elisabeth Förster-Nietzsche, cit., pp. 561-562), che corrisponde ad un frammento datato giugno-luglio 1885 (cfr. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 38 [12], pp. 292-293), la cui prima versione viene riportata da Colli e Montinari in nota (cfr. ivi, pp. 441-442). 110. «Poiché questo pensiero [sc.: l’eterno ritorno] deve dominare su tutto, esso può, anzi, deve occupare nei diversi piani posizioni diverse ed esibire forme diverse, e deve in tal modo, nell’esposizione, reggere e guidare ogni volta il tutto in modo diverso eppure unitario. Che le cose stiano così, lo si può documentare in modo inequivocabile con una accurata verifica. Di una retrocessione in secondo piano del pensiero fondamentale dell’eterno ritorno non si trova traccia» (Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 346).

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rimanga nondimeno retto e interamente determinato dal pensiero dell’eterno ritorno è così chiaro che si prova quasi pudore a farlo ancora notare espressamente»111. Si può comprendere perché Heidegger insista sulla priorità teoretica del ritorno sulla volontà: se la dottrina del ritorno appare come il «modo d’essere» dell’ente ri(con)dotto a volontà di potenza, allora la volontà stessa potrà apparire nelle vesti di principio metafisico, come risposta alla Leitfrage metafisica, da cui far muovere, in chiave rappresentativa, l’intero “sistema” nietzscheano. Tuttavia, proprio la necessità che Heidegger sente di dover ribadire a più riprese la priorità della dottrina del ritorno sulla volontà di potenza, nonostante le modulazioni nietzscheane, un dubbio lo fa sorgere. Ci troviamo pertanto di fronte ad una sorta di crux esegetica che merita attenzione, in quanto sembra intravedersi in controluce una strada interpretativa, se non proprio alternativa, quantomeno differente dall’interpretazione metafisica del pensiero di Nietzsche cui giunge Heidegger. Una strada altra, che ci sembra utile provare a percorrere, per diversi motivi, ma tutti riconducibili a uno principale. Se invece di soffermarsi sull’eterno ritorno come fa Heidegger per poi, da qui, passare alla volontà di potenza, ci si concentra preliminarmente sulla volontà di potenza come indica Nietzsche, l’impianto della meditazione nietzscheana può, se non proprio mutare di senso, quantomeno collocarsi in una posizione differente dai parametri della metafisica classica. Ciò non implica, si badi, ipotizzare alcuna «retrocessione» del pensiero del ritorno, bensì rilevare un suo approfondimento, una sua evoluzione nella volontà di potenza, proprio un suo «sviluppo», come sostiene Heidegger, ma da accogliersi in un senso ancora più radicale: come una sorta di Verwindung teoretica dell’eterno ritorno nella volontà di potenza, che dà vita ad un

111. Ivi, p. 348.

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moto di ri-cognizione e ri-modulazione dello schema di pensiero nietzscheano, che dalla volontà di potenza si ripercuote, a ritroso, sull’eterno ritorno, fino a divenirne, in tal senso, un presupposto. Una volontà di potenza non assunta più in guisa di essentia dell’ente, di sua «costituzione», dunque in chiave sostanzialistica (il «che è» dell’essere dell’essente), bensì come dinamica relazionale in cui si configura l’accadere: non sostanza bensì, appunto, relazione. Un moto di ri-cognizione che consenta dunque di «vedere» nella volontà di potenza, preliminarmente emendata da ogni deriva soggettivista (e “ideologica”), la sfera in cui scorgere, in misura quanto più possibile non-mediata, l’accadere dell’immediato, declinato in seno ad una rivisitazione dell’orizzonte scientifico della “forza” in «quanti» di potenza, secondo un’ottica che testimonia sia la distanza di Nietzsche dal paradigma metafisico, sia la sua appartenenza all’orizzonte di pensiero contemporaneo, seppur in una direzione diversa da quella indicata da Heidegger. Il primo passo da compiere sarà allora quello di comprendere a fondo come Nietzsche intenda il volere in opera nella volontà di potenza. Adottando il principio metodologico che Heidegger stesso enuncia nelle pagine del Nietzsche che stiamo esaminando («nell’interpretazione vera e propria che esplicherà il pensiero fondamentale di Nietzsche noi dovremo rifarci alle sue ultime dichiarazioni»112), ne consegue che si deve tenere in seria considerazione l’accento posto da Nietzsche sulla volontà di potenza soprattutto nelle ultime opere, in un quadro che va a configurarsi come un ulteriore approfondimento dei temi della vita e dell’eterno ritorno. È dunque agli scritti pubblicati 112. Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 353. Chiediamo preventivamente venia per il ripetersi di rimandi e citazioni di passi di Nietzsche e dello stesso Heidegger, ripetersi indispensabile a fini di chiarezza, data l’estrema complessità della trama concettuale posta in essere dai due filosofi.

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e ai frammenti postumi dell’ultimo periodo di lucidità (18851889) che ci si deve rivolgere per verificare se sia possibile conferire validità a tale opera di ri-cognizione in chiave oltremetafisica del pensiero di Nietzsche. Prendiamo le mosse dal frammento del 1885 richiamato sempre da Heidegger, nella forma ultima che Nietzsche gli ha conferito: «questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro!». Contrariamente a quanto pensa Heidegger, l’identificazione del mondo con la volontà di potenza e non con l’eterno ritorno, con cui si presenta il frammento nella sua struttura definitiva, non è da ricondursi «alla differenza esteriore e letterale delle tesi e dei termini “eterno ritorno dell’uguale” e “volontà di potenza”» a cui non si deve, pertanto, «restare attaccati» e che si tratta invece di «pensare» al fine di rendere la filosofia di Nietzsche «comprensibile»113. La questione è infatti più complessa di un semplice ripensamento terminologico, in quanto Nietzsche mantiene definitivamente, anche in seguito, il riferimento alla volontà di potenza, come attesta la ripresa quasi letterale del frammento in Al di là del bene e del male, dell’anno successivo114. Ciò significa che non ci troviamo di fronte soltanto ad una «circostanza apparentemente esteriore», bensì all’annuncio di una decisa torsione del pensiero di Nietzsche che dall’eterno ritorno come «pensiero più grave» si concentra sulla volontà di potenza come «l’ultimo fatto a cui perveniamo scendendo in profondità», in modo che emerge, a partire da questo frammento, contemporaneo, ricordiamolo, alla pubblicazione dello Zarathustra (1885), un’attenzione maggiore di Nietzsche verso il manifestarsi del fenomeno: 113. Ivi, p. 355. 114. «Il mondo veduto dall’interno, il mondo determinato e qualificato secondo il suo “carattere intelligibile” – sarebbe appunto “volontà di potenza” e nient’altro che questa» (Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 36, p. 44).

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il suo sguardo sembra rivolgersi, appunto, più «in profondità», verso un’analisi del «fatto ultimo», del darsi dell’evento, «dell’accadere» in quanto tale. Un accadere declinato come volontà di potenza in cui è evidente l’evoluzione del concetto di “vita”, senza però che esso divenga principio metafisico. Ciò si specifica laddove tale sfera si accresce, arricchendosi, del concetto di “forza”, in un senso però, egli precisa nel famoso frammento celebrato da Deleuze, che va anche oltre il «vittorioso concetto di “forza”» elaborato dalla fisica, concetto che «abbisogna ancora di un completamento»115. Un «completamento» da non intendersi dualisticamente come strato ulteriore a cui la “forza” rimanda, bensì genealogicamente come specificazione del suo «mondo interno», cioè della sua natura e del suo carattere più proprio: l’autopotenziamento. Ogni forza è infatti tale in quanto incremento continuo e mutevole della propria potenza e della propria energia; per Nietzsche, si tratta così di completarne il concetto scientifico sottolineandone il valore filosofico. Il richiamo alla forza testimonia pertanto una evoluzione o una torsione del pensiero di Nietzsche non da poco, in quanto gli consente di elaborare l’idea di “volontà” in un senso diverso dalla comune accezione, diciamo, “volontaristica”, come “desiderio”, coniugandola all’accadere. In un frammento del 1884, il filosofo premette infatti che «per sopportare il pensiero del ritorno» è necessaria, tra l’altro l’«eliminazione della “volontà”»116, mentre in un altro dello stesso anno spiega che

115. Citiamo di nuovo il frammento: «Il vittorioso concetto di “forza”, con cui i nostri fisici hanno creato Dio e il mondo, abbisogna ancora di un completamento: gli si deve assegnare un mondo interno, che io chiamo “volontà di potenza”, cioè un insaziabile desiderio di manifestare potenza; ossia un impiego, un’esplicazione di potenza, come impulso creativo, eccetera» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 36 [31], p. 241). 116. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884, cit., n. 26 [283], p. 205.

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esiste un nesso profondo tra volontà e accadere, da declinarsi in seno all’evoluzione del concetto di vita come «esplosione di forza». Volontà? L’accadere autentico di ogni sentire e conoscere è un’esplosione di forza: in certe condizioni (estrema intensità, sicché ne deriva un sentimento gioioso di forza e libertà) noi chiamiamo questo accadere «volere»117.

Ebbene, è a partire da questo elaborato nesso tra volontà/accadere/forza che la meditazione di Nietzsche, nei suoi esiti ultimi, tenta di prendere le distanze da una concezione rappresentativa della totalità dell’ente per rivolgersi ad una considerazione quanto più non-mediata dell’immediato. In tal senso, viene meno il rapporto con la “decisione” mentre il discorso si orienta verso una concezione per certi versi antisoggettivista dell’evento. L’individuazione heideggeriana dell’eterno ritorno come nucleo teoretico centrale nel pensiero nietzscheano rimarca il ruolo della decisione e dell’attimo (il «“così volli che fosse!”»), mentre se si focalizza l’attenzione sulla volontà di potenza, che è lo «sviluppo» ultimo del pensiero di Nietzsche, accordando priorità al darsi dell’evento piuttosto che alla decisione dell’uomo, il quadro di riferimento muta: lo sguardo si concentra sull’accadere, inteso come vita che si autopotenzia in termini, appunto, di «esplosione di forza». Il carattere umano della decisione viene ad essere ridimensionato a favore di una modulazione più profonda della riflessione nietzscheana, che dall’eterno ritorno si muove verso la volontà di potenza, per poi ripercuotersi a ritroso sull’eterno ritorno; osserviamo più da vicino.

117. Ivi, n. 25 [185], p. 55.

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5. Del volere Secondo Heidegger, Nietzsche pone nella volontà l’origine dell’azione di un soggetto agente, in modo che la volontà, in quanto volere di volere, si manifesta essenzialmente come «comando», e dunque Nietzsche appare, nonostante le sue intenzioni, come un metafisico che pensa il caos del mondo attraverso la riconduzione della totalità disordinata della vita a un pensiero dell’essere dell’ente, dell’«essente», seppur modulato dal divenire118. In tal guisa il divenire pretende di avere la meglio sull’essere, ma conclude con lo stabilizzarsi nella presenza incondizionata119 propria di una “metafisica della presenza”. Ne deriva che con Nietzsche si chiude, ad anello, il percorso del sapere metafisico, in quanto nella volontà di potenza la stabilizzazione dell’essere-presente, che è la «prima e ultima interpretazione metafisica dell’essere», viene «salvata nell’improblematicità (Fraglosigkeit)»120. Si rivela pertanto il significato ultimo del nichilismo nietzscheano: il rovesciamento del platonismo operato da Nietzsche, che a suo dire dovrebbe sancirne la fuoruscita dalla metafisica, mentre al contrario ne certifica l’«irretimento» in essa121, si conclude 118. «Nietzsche vuole il divenire e ciò che diviene come il carattere fondamentale dell’ente nel suo insieme; ma egli vuole il divenire, proprio e prima di tutto, come ciò che permane – come l’“ente” in senso vero e proprio; cioè essente nel senso dei pensatori Greci». In questo modo la volontà di potenza «nella sua essenza più profonda altro non è che la stabilizzazione del divenire nella presenza» (Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 538). 119. Ivi, p. 553. 120. Ivi, p. 539. 121. «La filosofia di Nietzsche», rileva infatti polemicamente Heidegger, «stando alla sua stessa testimonianza, è un platonismo rovesciato» (ivi, p. 197). Ma al di là di quanto crede Nietzsche, il semplice “rovesciamento” del mondo soprasensibile non costituisce, secondo Heidegger, la via sufficiente a sottrarsi all’orizzonte categoriale della metafisica: «la metafisica, cioè – per Nietzsche – la filosofia occidentale intesa come platonismo, è alla fine.

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nella mancanza di senso; rimane soltanto la vita in un eterno ritornare autoimplementante senza senso, scopo, fine, anche se, in realtà «la “mancanza di senso” diventa l’unico “senso”»122 conferito pur sempre dal subiectum123. Ora, tutto ruota intorno al modo di intendere la “volontà” nel senso più proprio dell’accezione nietzscheana, in quanto, in più luoghi, Nietzsche sostiene che la volontà così come la si intende comunemente (nell’accezione di “desiderio”) è frutto di un equivoco, di un «errore». Lo stesso Heidegger rileva questo punto e cita due aforismi (il primo del 1883, il secondo del 1888) in cui Nietzsche dichiara la sua distanza dal comune sentire per quanto concerne il concetto di volontà: «Io rido della vostra libera volontà e anche di quella non libera: per me è un’illusione quella che voi chiamate volontà, la volontà non esiste»124; «al principio sta l’errore, grandemente funesto, che la volontà sia qualcosa di agente, che la volontà sia una facoltà…Oggi sappiamo che essa è soltanto una parola…»125. Heidegger interpreta questi passi ricercando l’essenza della volontà nella volontà stessa, liberandola dunque da un voluNietzsche intende la sua filosofia come la controcorrente della metafisica, cioè, per lui, del platonismo. Ma, in quanto semplice controcorrente, essa resta necessariamente conforme, come ogni “anti-”, alla natura di ciò contro cui si volge. L’antimetafisica di Nietzsche, in quanto semplice capovolgimento della metafisica, è un irretimento nella metafisica stessa, siffatto che questa, divorziando dalla sua stessa natura, non è più in grado, in quanto metafisica, di pensare la propria essenza; perciò, alla metafisica e in virtù sua, resta nascosto ciò che effettivamente succede in essa in quanto è se stessa» (Heidegger M., La sentenza di Nietzsche: «Dio è morto», cit., p. 198). 122. Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 554. 123. Ivi, p. 559. 124. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1882-1884, cit., parte II, n. 13 [1], p. 80. 125. Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 72

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to determinato, e dunque riconducendo anche il voluto alla volontà: la volontà è volontà di volontà, volere di volere. Ciò si definisce in seno alla “potenza”, in modo da pensarne il significato, dicevamo, in termini di «comando», dunque ottenimento del potere e pertanto «sopraelevazione di se stesso», nella sua forma più alta che è la giustizia come fondamento della verità «nel senso della ομοίωσις», e questa, a sua volta, «come il fondamento reciproco di conoscenza e arte»126. C’è dunque una visione della volontà di potenza connessa alla conoscenza, alla verità e all’arte: in ultima analisi alla metafisica, in quanto c’è un progetto generale dell’ente nella sua totalità, che si mostra appunto, nella sua costituzione ultima, come volontà. Ne deriva che il riferimento alla giustizia come «potenza fondamentale dell’ente» fa ricadere Nietzsche nella metafisica attraverso l’«antropomorfizzazione di tutto ciò che è», con una ricaduta nel subiectum, seppure riveduto attraverso la mediazione del corpo127. In relazione al concetto fondamentale di “volontà” notiamo che nell’interpretazione heideggeriana, sono due i piani che vanno a convergere in maniera evidente: il primo è quello della volontà intesa comunemente come “desiderio”, (seppure come desiderio privo di un desiderato, e quindi come “desiderio di se stesso”, “volontà di volontà”), a cui Heidegger ricorre quando deve analizzare la “decisione” espressa nello Zarathustra; il secondo invece è il piano della volontà in seno alla sfera della volontà-di-potenza come sfera dell’accadere, e che Heidegger rielabora quindi nei termini della «costituzione» dell’ente. Si tratta di una differenza sottile, appena percettibile, ma non da poco, in quanto le due accezioni di “volontà” per Heidegger sono interconnesse e riconducibili entrambe

126. Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 534-535. 127. Ivi, pp. 536-537.

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alla sfera del soggetto-che-vuole la volontà stessa. In tal guisa, è possibile dire che le due accezioni risultano conseguenza una dell’altra, in modo che è la prima a condizionare la seconda, fino al punto di identificarsi con essa. Pur essendo infatti nel volere-di-volere il «voluto» la volontà stessa, la dinamica del volere/desiderare in qualche modo permane e si fa sentire anche nella seconda accezione, nella costituzione dell’essente, il quale si pone, per così dire, come il “risultato” di tale opera di autovolizione della volontà. Una sorta di voluto “indiretto”, relativo alla conservazione/stabilizzazione del divenire nell’ente funzionale al proseguimento dell’opera di auto-superpotenziamento della volontà. Il che non significa ripristinare una “qualche forma” di differenza ontologica, si badi, perché Heidegger è attento a mostrare la radicale in-fondatezza della volontà, cifra estrema del nichilismo. Come si vede, dunque, il discorso heideggeriano converge pur sempre sulla prima accezione di volontà, come “desiderio”, dal quale discende, indirettamente, la seconda, come «costituzione» dell’ente. Tuttavia, l’interpretazione heideggeriana si fluidifica e sembra perdere di solidità nel momento in cui proviamo a ripercorrere le indicazioni di Nietzsche, il quale si propone costantemente di annichilire la prima accezione di volontà, sottraendo pertanto la volontà al dominio del subiectum, e riferendola piuttosto alla volontà-di-potenza come dato proprio dell’accadere (la “seconda” accezione: «noi chiamiamo questo accadere “volere”»), relativo all’autoimplementazione continua di forza che rappresenta la struttura ultima del mondo. Una autoimplementazione emendata da tratti soggettivi, da non ricondursi altresì ad un principio unico alla stregua della Voluntas schopenhaueriana, su cui il filosofo riflette a lungo prima di prenderne decisamente le distanze. Ed è proprio su questo punto che intendiamo insistere.

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Sul rifiuto del concetto di volontà comunemente inteso come “desiderio” Nietzsche ritorna di continuo nei suoi scritti, nello specifico a partire dalle pagine de La gaia scienza (1882) fino a culminare negli ultimi Frammenti del 1888-1889, in cui la negazione della volontà come “desiderio” viene posta in relazione alla critica del concetto di “causa”. Nietzsche sostiene che la volontà non è altro che una trasposizione fideistica, se non addirittura «magica», della nostra necessità di individuare una causa per l’accadere. Ne La gaia scienza, in un lungo passo intitolato appunto “Causa ed effetto”, egli scrive che tale «dualità» forse «non è mai esistita»128, e in un frammento quasi immediatamente successivo a quello intitolato “L’uomo folle”, in cui viene enunciata la dottrina della morte di Dio, egli precisa che il credere nella volontà è dovuto a presupposizioni fideistiche129. In questo modo, «la fede nella causa e nell’effetto»

128. «Causa ed effetto: probabilmente non è mai esistita una tale dualità – in verità davanti a noi c’è un continuum, di cui isoliamo un paio di frammenti; così come percepiamo un movimento sempre soltanto come una serie di punti isolati, quindi, propriamente, non vediamo, bensì deduciamo» (Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 112, p. 142). Ragionamenti simili li troviamo anche in frammenti dell’anno successivo, in cui il filosofo spiega che «dobbiamo presupporre un ritmo vitale, non causa ed effetto!» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1882-1884, cit., parte II, n. 24 [36], p. 331). 129. «Chiunque è povero di pensiero crede che la volontà sia l’unico principio agente: volere sarebbe qualcosa di semplice, il dato per eccellenza inderivabile, intelligibile in sé. Quando fa qualcosa, quando per esempio vibra un colpo, è convinto d’esserne lui l’autore e di aver colpito perché voleva colpire. In tutto questo non vede affatto un problema, e gli basta il sentimento della volontà, non solo per ammettere causa ed effetto, ma anche per credere di comprendere il loro rapporto. Non sa nulla del meccanismo degli eventi e del centuplicato sottile lavoro che deve essere compiuto per giungere a vibrare il colpo, e, allo stesso modo, ignora l’incapacità della volontà in sé a svolgere anche la parte più esigua di questo lavoro. La volontà è per lui una forza agente in maniera magica: la fede nella volontà, in quanto causa di effetti, è la fede nelle forze magicamente agenti. Ora, ovunque

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diviene «una fede basilare» che serve ancora oggi per dare un senso all’accadere. Anche Schopenhauer non ha tematizzato la volontà in quanto «anche lui aveva fede nella semplicità e nella immediatezza di ogni volere»130. La volontà, in realtà, non ha nulla di immediato, ma è il risultato di una credenza umana che la associa al concetto di “causa”, mentre invece si deve rimodulare il nesso causa-effetto in un ottica di accumulo e liberazione di energie plurime. L’«istinto basilare della vita» è infatti il tendere a «un’espansione di potenza» di cui il processo biologico di autoconservazione rappresenta una piccola parte, se non addirittura «un’eccezione, una provvisoria restrizione della volontà di vita»131 rispetto all’immenso e caotico processo di concentrazione e scarico di energia vitale. Come scrive nei Frammenti postumi del 1881, di preparazione a La gaia scienza, il concetto di «effetto» è una rielaborazione dell’accadere in un’ottica umana, in quanto «dalle grandi liberazioni di energia si deducono grandi “cause”»132, mentre invece «per noi non vi è causa ed effetto, bensì solo delle serie (scariche)»133, poiché anche «nell’organismo più piccolo, si forma continuamente della forza che poi deve scaricarsi», e ciò prima o poi avverrà, di solito in una direzione «abituale», «là dove guidano gli stimoli»134. In questa fase della sua riflessione la volontà per Nietzsche è qualcosa che prescinde, o meglio, trascende l’uomo, una sorta di forza cosmica che determina un accumuoriginariamente l’uomo constatò un accadere fu indotto a credere in una volontà come causa e in esseri capaci di volizioni personali agenti sullo sfondo – essendo ben lontano da lì il concetto di meccanicismo» (Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 112, n. 127, pp. 152-153). 130. Ibidem. 131. Ivi, n. 359, pp. 252-253. 132. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [135], p. 378. 133. Ivi, n. II [81], p. 358. 134. Ivi, n. II [139], p. 379.

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lo di energie e di forze che «deve scaricarsi»: in tal senso, essa difficilmente può essere imputata ad una decisione da parte di un soggetto agente che diventerebbe così origine di una causa con relativi effetti, poiché si tratta di qualcosa che egli subisce piuttosto che dominare. In un frammento dell’autunno 1881, egli critica infatti il carattere volontaristico dell’accadere classificandolo come un «atavismo»135. Si tratta però, appunto, di una “fase” del percorso di Nietzsche, in cui sono ancora forti i richiami di Schopenhauer, su cui egli riflette a più riprese prima di abbandonarli definitivamente, come vedremo subito. Per il momento notiamo che la critica alla concezione volontaristica della volontà in Nietzsche si solidifica man mano che egli approfondisce l’evoluzione del concetto di “vita” in quello di volontà di potenza. Nei Frammenti del 1882-1884 egli esplicita in maniera chiara che «volontà» è «un’ipotesi che per me non spiega più nulla. Per l’uomo della conoscenza non esiste il volere»136, e ciò perché «il desiderio non muove e la ragione che dà ordini non muove», da cui se ne deduce che «la volontà non muove, bensì è un fenomeno concomitante»137. Il discorso allora va man mano chiarendosi nel momento in cui si prende atto che per Nietzsche la vita assume sempre più 135. «Che ogni accadimento sia conseguenza di atti della volontà e in tal modo sia spiegato o non ulteriormente spiegabile – è una credenza che i selvaggi condividono con Schopenhauer: questa credenza dominò un tempo tutti gli uomini; averla e predicarla ancora nel diciannovesimo secolo, nel centro dell’Europa, non fu altro che un atavismo. Il contrario – che cioè in ogni accadimento la volontà non abbia parte alcuna, sebbene così sembri – è vicino a essere dimostrato!» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. 12 [74], p. 474). 136. Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1882-1884; tr. it. Frammenti postumi 1882-1884, «Opere di Friedrich Nietzsche», Adelphi, Milano, 1982, Vol. VII, tomo I, parte I, n. 277, p. 79. 137. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1882-1884, cit., parte II, n. 20 [4], p. 252.

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il carattere di «una molteplicità di forze collegate tra loro in un unico processo nutritivo comune», e ciò coinvolge la conoscenza: «la conoscenza è un mezzo della nutrizione», e questo porta l’uomo a costruire «forme» e «ritmi»138 per tentare di spiegare l’accadere. La conoscenza è insomma un meccanismo a cui l’uomo ricorre per implementare, e dunque proseguire, la vita, rappresentando «immagini dell’accadere, che lo precedono (scopi)», oppure «immagini che lo seguono (spiegazione fisico-matematica)»139. Ne deriva che sia una concezione teleologica, sia una meccanicistica soddisfano un’esigenza di semplificazione conoscitiva dell’accadere volta a garantire all’uomo la possibilità di continuare a vivere, sebbene a costo di una «falsificazione» del nostro rapporto con il reale, come spiega in un frammento del 1885140. La verità appare come «la specie di errore senza di cui una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere», in quanto «ciò che decide è da ultimo il valore per la vita»141. Si badi che per Nietzsche tut138. Ivi, n. 24 [14], pp. 318-319. Il tema viene ripreso dal filosofo, in maniera più esplicita, in un frammento del giugno-luglio 1885: «l’uomo è una creatura plasmatrice di forme e di ritmi; in niente è meglio esercitato e sembra che a niente prenda piacere più che nell’inventar forme» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n.38 [10], p. 290). 139. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1882-1884, cit., parte II, n. 24 [13], p. 317. 140. «Conoscenza: il rendere possibile l’esperienza, per il fatto che l’accadere reale viene enormemente semplificato, tanto rispetto alle forze agenti, quanto rispetto alle nostre forze plasmatrici: in modo che sembri ci siano cose simili e uguali. La conoscenza è la FALSIFICAZIONE con cui ciò che è eterogeneo e incalcolabile viene reso uguale, simile e calcolabile. Dunque la vita è possibile solo grazie a un tale apparato di falsificazione. Il pensare è un trasformare falsificando, il volere è un trasformare falsificando: in tutto ciò c’è la forza dell’assimilazione, che presuppone una volontà di rendere qualcosa uguale per noi» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 34 [252], p. 182). 141. Ivi, n. 34 [253], p. 182.

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to ciò non avviene in maniera inavvertita, bensì deliberata da parte dell’uomo: «perché l’uomo non vede le cose? Perché è di ostacolo a se stesso; egli nasconde le cose»142. Per tale motivo dobbiamo concedere una possibilità all’errore, in quanto può darsi che il suo carattere di falsità sia relativo alla non produttività in termini di conservazione della vita e della specie umana, ma il tutto avviene secondo coordinate che possono, in realtà, essere non corrette al punto che, magari, potremmo accorgerci che «proprio le supposizioni più false sono quelle a noi indispensabili»: il che equivarrebbe ad «ammettere la non verità come condizione di vita»143. In tale inversione dei parametri di definizione di verità-errore si colloca l’analisi gnoseologica che Nietzsche conduce a riguardo dell’opera di ri(con)duzione del molteplice reale all’orizzonte ordinato dell’idea, secondo una dinamica di sem plificazione/«falsificazione» conoscitiva in cui rientra anche il concetto di volontà/causalità, poiché la volontà, come scrive in un frammento del 1884 (e in altri molteplici luoghi…), è un’«invenzione», poiché «si crede che sia essa a muovere», «si crede che superi le resistenze», «si crede che sia libera e sovrana, perché la sua origine ci rimane nascosta e perché l’accompagna l’affetto del comandare», e infine per una motivazione “psicologica”, «poiché nella maggior parte dei casi si vuole solamente quando il successo può essere atteso, la “necessità” del successo viene ascritta come forza alla volontà»144. Ne consegue la problematizzazione dell’identificazione heideggeriana che abbiamo ricordato sopra tra “volontà” e “comando”,

142. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1882-1884, cit., parte II, n. 76, p. 49. 143. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 35 [37], p. 203. 144. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884, cit., n. 27 [24], p. 261.

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seppur intendendo quest’ultimo come moto di autoimplementazione della volontà stessa. Tale identificazione è relativa in Heidegger all’aver individuato nella volontà di potenza un principio metafisico unico di costituzione del reale, che sembra invece distante dall’idea di volontà su cui Nietzsche sta lavorando, in quanto il «comando» è per lui soltanto un «affetto» importante della volontà, che non ne satura dunque le molteplici peculiarità semantiche145.

145. Ad esempio, nei Frammenti postumi 1884-1885, coevi allo Zarathustra, il filosofo ritorna sulla questione e spiega più dettagliatamente che alla base della volontà troviamo tre elementi, e precisamente: una «pluralità di sentimenti», «il pensiero», in modo che la volontà si pone come «un complesso di sentire e pensare», a cui si aggiunge «anche e soprattutto un affetto», nello specifico «quell’affetto del comando». La «pluralità di sentimenti» rilevata da Nietzsche consiste ne: «il sentimento dello stato dal quale ci si vuol togliere, il sentimento dello stato al quale si vuole arrivare, il sentimento di questo stesso “dal quale e al quale”, il sentimento della relativa durata, e infine ancora un sentimento muscolare di accompagnamento che […] inizia il suo giuoco non appena “vogliamo”, per una specie di abitudine» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 38 [8], pp. 288-289). Ma, si badi, a costituire «l’essenziale della “volontà”» non è «quell’affetto del comando» in quanto tale, bensì il credere «in buona fede» che la volontà «sia per l’azione tutta il vero e proprio mobile sufficiente». Il che significa che ogni ordine viene impartito perché si nutre la credenza che esso verrà obbedito, in maniera che ci si aspetta che si verifichi «l’effetto del comando», dunque «l’obbedienza, e quindi l’azione», e ciò ingenera «l’illusione che ci sia l’effetto del comando», in modo che la volontà diviene causa a cui si ascrive «la riuscita dell’attuazione della volontà stessa». In sostanza, abbiamo che la volontà come desiderio non si presenta come un dato immediato, bensì nella forma di «un nido intessuto di sentimenti, stati d’animo e ipotesi false», che il pregiudizio popolare ha riunito in una sola parola, e ciò ha portato Schopenhauer a credere la volontà come «la cosa più conosciuta del mondo, anzi come la sola cosa veramente conosciuta», in quanto «egli si limitò a riprendere e ad esagerare, come in genere fanno i filosofi, un enorme pregiudizio di tutti i filosofi precedenti, un pregiudizio popolare» (ivi, pp. 289-290).

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Se pertanto il carattere di comando rappresenta l’elemento più evidente al «crasso pregiudizio del popolo» di una stratificazione di gradi di cui la volontà si compone, e non il suo aspetto principale, è altrettanto fuorviante identificare la volontà nietzscheana con la Voluntas schopenhaueriana, in quanto Nietzsche tiene a ribadire che il concetto di volontà non ha un carattere di immediatezza intuitiva, come vorrebbe Schopenhauer, bensì è il risultato di una deduzione, di cui bisogna verificare la correttezza146. Si tratta, nello specifico, di una deduzione ingenerata dall’appartenenza del nostro pensiero ad una radice sensista, organica, di cui non abbiamo piena consapevolezza, che ci fa ritenere immediata sia la nostra volontà, sia il fatto che essa sia la manifestazione di una forza cosmica più grande che funga da principio del reale147. I due piani (come desiderio individuale e come «fatto ultimo» dell’accadere) su cui Nietzsche conduce la sua analisi della volontà spesso vengono a sovrapporsi, e questo determina il sorgere di diverse difficoltà nel lettore. Ma ciò che è opportuno sottolineare, al fine quantomeno di problematizzare l’interpretazione “antropomorfica” fornita da Heidegger e ripresa da gran parte della vulgata successiva, è che in Nietzsche non viene mai meno la convinzione che l’idea della volontà come motore della storia sia dovuta alla sua associazione al concetto di “causa”, una associazione che trova origine nel senso comune, nel «pregiudizio popolare», e che dunque va contrastata. In tal senso, i suoi riferimenti critici al nesso volontà/causalità 146. «La volontà viene dedotta – non è un fatto immediato come vuole Schopenhauer. Resta da chiedersi se tale deduzione è giusta» (ivi, n. 26 [327], p. 215). 147. Dopo aver chiarito che «la logica del nostro pensiero cosciente è solo una forma grossolana e semplificata di quel pensiero che è necessario al nostro organismo, anzi ai singoli organi di esso», il filosofo si chiede: «il nostro volere, sentire e pensare cosciente è al servizio di un volere, sentire e pensare molto più vasto. Davvero?» (ivi, pp. 140-141).

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sono continui e costanti negli scritti e nei frammenti del periodo che precede il suo crollo psichico. Concentrandoci ora su quanto contenuto nello Zarathustra (1885), a cui siamo ormai giunti in questa digressione ricostruttiva, e ai cui motivi soprattutto si riferisce l’interpretazione antropomorfica di Heidegger, come è noto, osserviamo che i temi della “decisione”, dell’“attimo” e del “comando” (il «“così volli che fosse!”»), si rivestono di una luce nuova. Contrariamente a quanto ritiene Heidegger, Nietzsche è ben distante da un approdo conclusivo in merito alla questione, e lo dimostra quanto egli scrive già in un lungo frammento del giugno-luglio 1885, dunque nello stesso anno di pubblicazione dello Zarathustra, a cui sembra riferirsi per la comunanza di temi, vocaboli e per il comune riferimento al tema della “redenzione”148; data la sua rilevanza, ma minore notorietà rispetto ai luoghi dello Zarathustra, sembra utile riportarlo per esteso, prima di passare ad analizzarlo. Quand’ero più giovane mi preoccupavo di capire che cosa fosse propriamente un filosofo, perché credevo di scorgere nei filosofi famosi caratteristiche contraddittorie. Mi venne fatto infine di pensare che ci sono due tipi distinti di filosofi: quelli che hanno da mantenere una qualche grande configurazione di valutazioni, ossia di valori posti e creati in precedenza (logici o morali), e quelli invece che sono essi stessi legislatori nel campo delle valutazioni. I primi cercano di impossessarsi del mondo presente e di quello passato, riassumendolo e abbreviandolo con segni. Il compito di questi ricercatori è di rendere perspicui, agevoli da pensare, intelligibili e maneggevoli tutti gli avvenimenti e le valutazioni che ci son stati finora, di vincere il passato, di abbreviare tutto ciò che è lungo, anzi

148. Cfr., di nuovo, Nietzsche Fr., Così parlò Zarathustra, cit., “Della redenzione”: pp. 168-173; “La visione e l’enigma”: pp. 189-194; “Il convalescente”: pp. 263-270.

158 il tempo stesso: un compito grande e mirabile. Ma i filosofi veri e propri sono comandanti e legislatori, essi dicono: così dev’essere! Sono essi che determinano il «verso dove» e l’«a che scopo» dell’uomo, disponendo in ciò del lavoro preparatorio dei lavoratori filosofici, i suddetti vincitori del passato. Questo secondo tipo di filosofo riesce di rado; e in realtà la sua situazione e i suoi pericoli sono mostruosi. Quanto spesso si son bendati gli occhi da sé, per non dover vedere il piccolo spazio che li separa dall’abisso e dalla caduta: per esempio Platone, quando si persuase che il bene, com’egli lo voleva, non era il bene di Platone, ma il «bene in sé», il tesoro eterno, che soltanto un certo uomo di nome Platone aveva trovato nel suo cammino! In forme molto più grossolane, questa stessa volontà di accecamento domina nei fondatori di religioni: il loro «tu devi» non può mai suonare alle loro orecchie come un «io voglio»; essi osano adempiere la loro missione solo come il comando di un Dio, ed è solo come «ispirazione» che la loro legislazione nel campo dei valori risulta un fardello sopportabile, sotto il quale la loro coscienza non si spezza. – Non appena dunque queste due consolazioni, quella di Platone e quella di Maometto, abbiano cessato d’aver vigore e nessun pensatore possa più alleviare la propria coscienza con l’ipotesi di un «Dio» o di «valori eterni», la pretesa del legislatore di valori nuovi si solleva a una nuova e non ancora raggiunta terribilità. Ora questi eletti, nella cui mente comincia a farsi strada l’idea di un tale dovere, tenteranno di tutto per vedere se non possano ancora «al momento opportuno» sfuggire a esso come al loro maggior pericolo, con un salto di fianco: per esempio persuadendosi che la missione sia già compiuta, o che non sia attuabile, o che essi non abbiano le spalle abbastanza forti per reggere tali pesi, o che siano già sovraccarichi di altri compiti più particolari, o che questo stesso nuovo dovere lontano sia un traviamento e una tentazione, una fuga da tutti i doveri, una malattia, una specie di follia. E più d’uno può effettivamente riuscire a sottrarsi: attraverso tutta la storia si nota la traccia di tali uomini che si sottraggono e della loro cattiva coscienza. Ma per lo più venne, per tali uomini fatali, l’ora della redenzione, l’ora autunnale della maturità,

159 in cui dovettero fare ciò che neanche «volevano»; e l’azione che avevano già massimamente temuto di compiere, cadde loro dall’alto lieve e non voluta, come un’azione senza scelta, quasi come un dono149.

Si tratta di un frammento in cui Nietzsche sembra quasi precisare in che termini vadano intese le parole di Zarathustra. Egli ricorda dunque che nell’interrogarsi su che cosa «fosse propriamente un filosofo», ne aveva individuato «due tipi distinti»: i filosofi «che hanno da mantenere una qualche grande configurazione di valutazioni, ossia di valori posti e creati in precedenza (logici o morali), e quelli invece che sono essi stessi legislatori nel campo delle valutazioni»; ovviamente propende per il secondo tipo, e scrive che «i filosofi veri e propri sono comandanti e legislatori, essi dicono: così dev’essere!». Abbiamo dunque un rinnovato riferimento al “comando”, su cui Heidegger ha incentrato la sua attenzione. Tuttavia questo “comando” assume per Nietzsche un valore peculiare e diverso da quello del senso comune, in quanto non si tratta di una esplicitazione di “decisione d’essere”, poiché precisa che anche per quanti di coloro tra «tali uomini fatali», che hanno cercato di sfuggire al loro destino in vari modi, «si sono bendati gli occhi da sé», è giunta infine «l’ora della redenzione, l’ora autunnale della maturità, in cui dovettero fare ciò che neanche “volevano”; e l’azione che avevano già temuto di compiere, cadde loro dall’albero lieve e non voluta, come un’azione senza scelta, quasi come un dono». Un’«azione senza scelta», quasi un dovere, o meglio, un «dono», e dunque di un qualcosa di non pienamente disponibile, quantomeno per ciò che concerne la sua origine, da parte dell’uomo. Nietzsche sembra proprio ritornare su quanto indicato nello Zarathustra anche quando parla del «“così fu”», poiché scrive che la decisione è 149. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 38 [13], pp. 294295.

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di questi uomini che «determinano il “verso dove” e l’“a che scopo” dell’uomo, disponendo in ciò del lavoro preparatorio dei lavoratori filosofici, i suddetti vincitori del passato», per chiarire i caratteri di una “decisione” che però ben poco ha a che fare, di nuovo, con una decisione d’essere: in seno alla volontà di potenza, perché di questo stiamo parlando, non troviamo l’estrinsecazione di una volontà imperiosa e totalizzante propria del soggetto, in quanto si delinea lo scenario innovativo in cui opera «un’azione senza scelta, quasi come un dono», una decisione che non segue le dinamiche imperative del comando ma ha un carattere donativo-destinale e, per certi versi etico («tale dovere»), a cui i «filosofi veri e propri» non possono sottrarsi. Si anticipa qui il senso di quell’esortazione a «imparare a vedere» presente negli ultimi scritti (e che richiameremo anche in seguito) in cui «l’essenziale è appunto non “volere”, saper differire la decisione»150: accogliere l’evento senza condizionarlo, imparando a vederlo «da cento occhi». Se dunque esiste un legame tra questo passo e lo Zarathustra (ed esiste, data l’estrema contiguità, se non proprio identità cronologica tra i due luoghi), significa che anche il «“così volli che fosse!”» di Zarathustra va letto non in seno ad una deriva soggettivista bensì già alla luce nuova della volontà di potenza, in modo che il volere prevale sul potere, dunque la volontà sulla potenza, poiché si tratta, appunto, di un’azione del volere sul volere, laddove però il “voluto” della volontà, cioè la volontà stessa, appare non come l’estremità di una autovolizione, bensì come un «dono», un destino, un compito, un «dovere» che non si voleva ma a cui non ci può sottrarre: ci ritorneremo. Per il momento notiamo che non è necessario insistere su come questo frammento ridiscuta l’interpretazione soggettivista che emerge dalle parole di Zarathustra, in un senso che

150. Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit. p. 112.

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lenisce il carattere imperativo della decisione, che non si pone come decisione d’essere, ma si apre ad una ri-cognizione del concetto stesso di volontà in una direzione nuova, donativa, appunto. D’altra parte, già nei frammenti e negli scritti ad esso successivo, la disamina del nesso volontà/causalità conserva una sua continuità, che si intensifica in una direzione preontologica, nel tentativo di Nietzsche di liberare l’autonomia dell’accadere dalla duplicità rappresentativa delle categorie di essere e divenire, secondo un cammino di sviluppo teoretico sul quale proviamo a indirizzarci.

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III L’onda della volontà

0. Lineamenti Negli ultimi anni della sua riflessione, in particolare dal 1885, l’interesse di Nietzsche per il tema della volontà di potenza come sfera precipua dell’«accadere» diviene preponderante rispetto a quello dell’eterno ritorno. Egli si concentra sul darsi dell’evento, con l’intenzione di sottrarlo quanto più possibile alle maglie della rappresentazione, al fine di evitare le conseguenze dell’opera di ri(con)duzione categoriale del dato ad opera della ragione. In tal senso, a venire messa in questione è la cristallizzazione concettuale dell’accadere sia nella sua accezione temporale (essere/divenire), sia nella sua accezione quantitativa (unità/molteplicità), entrambe da ricondursi ad una presupposizione metafisica e sostanziale dalla quale il filosofo di Röcken tenta di prendere congedo, orientandosi verso una prospettiva differente, quella della relazione. Una prospettiva relazionale a cui il pensiero, da sempre, si rapporta con non poche difficoltà, proponendone, sulla scia di Aristotele, una codificazione soggettiva nella struttura categoriale della “relazione” in quanto specificazione predicativa della “sostanza”. In Nietzsche invece il discorso assume una piega differente, in quanto il pensiero si mostra consapevole

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di rivolgersi alla relazione oggettiva, primordiale e preconcettuale da cui sorge, e di cui pertanto ne è e non intende cessare di esserne categorizzandola, e si pone come spazio liminare di estrinsecazione del senso nell’unità di configurazione interpretativa dell’individuo. Emerge pertanto il tentativo di Nietzsche di forzare la ragione oltre i limiti che le sono propri, nell’obiettivo di recuperare il suo radicamento nello sfondo primigenio e relazionale in cui essa si origina, il mondo della palude, superando così i paradigmi di «falsificazione» imposti dalla conoscenza, senza comunque perseguire alcuna immedesimazione mistica o irrazionalistica con il mondo naturale. Ne deriva una sorta di metariflessione sulle condizioni stesse della riflessione, che conduce la filosofia a muoversi sul confine estremo dell’orizzonte razionale, nelle sue possibilità di rapportarsi all’immediato relazionale.

1. La mediazione dell’immediato: contro la rappresentazione Nei Frammenti postumi 1885-1887, dopo aver spiegato che «ciò che vive è l’essere», e che «al di fuori di esso non c’è nessun altro essere»1, Nietzsche riprende la disamina del nesso volontà/causalità, rilevando l’origine mitologica del concetto di “effetto”, consequenziale all’entificazione del divenire all’interno di una “causa”: «noi abbiamo considerato i mutamenti in noi stessi non come tali, ma come un “in sé” che è a noi estraneo, che noi soltanto “percepiamo”; e li abbiamo posti non come un accadere, ma come un essere, come “proprietà” – e abbiamo anche inventato un’essenza a cui appartengo-

1. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. I [24], p. 9. Si noti che, come in questo caso, Nietzsche utilizza il termine “essere” anche per definire l’ente.

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no, cioè abbiamo posto l’effetto come agente e l’agente come ente»2. Si tratta di un tema che, con il medesimo riferimento “mitologico”, si riflette nell’opera che vede la luce nel 1886, Al di là del bene e del male, in cui la polemica contro il concetto di causa si specifica verso la «causa sui»3 (“storicamente” colpevole di irretire all’estremo la relazione nella sostanza). Al fine di evitare di incorrere nell’errore di «reificare “causa” ed “effetto”», egli spiega che non bisogna dimenticare che causa ed effetto non sono altro che «meri concetti», e quindi «finzioni convenzionali destinate alla connotazione, alla intellezione, non già alla spiegazione», in quanto «siamo noi soltanto ad aver immaginosamente plasmato le cause, la successione e la funzionalità di una cosa rispetto all’altra, la relatività, la costrizione, il numero, la norma, la libertà, il motivo, lo scopo», e quindi se pretendiamo che «questo mondo di segni» definisca

2. In questa convinzione «il concetto di “effetto” è arbitrario», in quanto basato sull’idea che tali mutamenti devono avere una causa che non siamo noi, e dunque li classifichiamo come effetti di qualcos’altro, secondo un «ragionamento» che si rivela già «mitologia», poiché «separa l’agente e l’agire». Ne risulta isolato un aspetto dell’accadere e trasformato in un essere, l’effetto appunto, nel momento in cui individuiamo un soggetto causa dell’azione che si distingue dall’azione stessa. In questo modo viene «posto sotto l’accadere un essere che con l’accadere non fa tutt’uno, e invece permane, è, e non “diviene”». In sostanza, dopo aver sottratto al divenire una causa (il soggetto) trasformandolo in un essere, in qualcosa che «permane», sottraiamo altresì un effetto, trasformando anch’esso in un essere: «porre l’accadere come un agire, e l’effetto come un essere: è questo il duplice errore, o interpretazione, di cui ci rendiamo colpevoli» (ivi, n. 2 [84], p. 91 e n. 2 [84], p. 92). 3. Nietzsche la definisce come «la maggiore autocontraddizione che sia stata concepita fino a oggi, una specie di stupro e d’innaturalità della logica», una vera e propria «assurdità» che trova origine nella «rozza scempiaggine» del «“libero volere”», cioè nel «desiderio di portare in se stessi l’intera e ultima responsabilità per le proprie azioni», a cui corrisponde, per contrasto, «il non libero volere», che nasce da «un abuso di causa e effetto» (Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., pp. 25-26).

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i caratteri dell’«“in sé”» e quindi sia esplicativo, stiamo operando in «maniera mitologica»4. Ora, il tentativo di Nietzsche è ormai chiaro, ed è quello di pervenire ad una nuova visione dell’accadere reso possibile dalla “scoperta” della volontà di potenza, laddove però la stessa “volontà” risulti affrancata sia da una «connotazione» causale, opera di un principio, sia da una presupposizione volontaristica, riconducibile al soggetto. Per far ciò, è necessario porre in questione la mediazione concettuale riconoscendola appunto come tale: come uno strumento cioè a cui l’uomo ricorre per interpretare il reale senza però ricadere nella “mitologia” di una sua intrinseca configurazione nei termini in cui viene interpretato. Ci ritroviamo di fronte allo “spinoso” problema di come “raggiungere l’immediato” attraverso l’inevitabile ricorso alla mediazione, tenendo fermo però il carattere mediale proprio della “mediazione”: è questo il problema di ogni filosofia, e Nietzsche ne è consapevole. Ciò lo spinge ad una radicalizzazione genealogica ed archeologica del pensiero nella sua base organica, istintuale, sensistica, che lo porta ad affermare che «dai sensi proviene innanzi tutto ogni cosa degna di fede, ogni buona coscienza, ogni evidenza della verità»5. E se questo movimento di scavo nelle radici del pensiero da una parte è motivato dalla volontà di delineare le condizioni di recupero di quell’orizzonte primordiale, il mondo della palude, da cui la civiltà ha preso le mosse, che è una costante nel pensiero di Nietzsche, d’altra parte stride con il ragionamento che il filosofo sta conducendo sul rapporto mediazione-immediato nella definizione del nesso tra eterno ritorno e volontà di potenza: l’eterno ritorno, infatti, per quanto «abissale», resta pur sempre un «pensiero». Ciò lo porta ad un continuo ripen-

4. Ivi, p. 26. 5. Ivi, n. 134, p. 78; affronteremo questo tema nel prossimo capitolo.

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samento e approfondimento delle posizioni raggiunte, sempre in vista dell’obiettivo ultimo di superare i limiti della rappresentazione. Indicativo di questo tormentato procedere è il continuo reinizio del suo discorso che, mentre vaglia le pretese dell’Uno, subisce però le pulsioni emersive del molteplice, come mostra, ad esempio, un lungo passo sempre di Al di là del bene e del male in cui Nietzsche ipotizza cautamente la riconduzione di ogni volontà esistente nel mondo ad un manifestarsi di forze da far risalire ad un’unica volontà primordiale, che sarebbe appunto la volontà di potenza, sebbene si preoccupi esplicitamente di non ricadere nelle trame della «rappresentazione»6. 6. Nietzsche inizia il suo ragionamento premettendo che «posto che nient’altro sia “dato” come reale salvo il nostro mondo di bramosie e passioni», e dunque non sia possibile inferire carattere di «“realtà”» a null’altro se non ai «nostri istinti – il pensare, infatti, è soltanto un rapportarsi reciproco degli istinti -: non sarebbe allora permesso di fare il tentativo e di porre la questione se questo “dato” non basti a intendere […] anche il mondo meccanicistico (o “materiale”)?». Ciò significa chiedersi se non sia possibile intendere il mondo fisico come «una forma primitiva del mondo degli affetti», quindi «come una preformazione della vita?». Egli specifica però che non si tratta di concepire ciò come «un’“apparenza”, una “rappresentazione” (nel senso di Berkeley e di Schopenhauer)», ad indicare che è ben conscio di muoversi sul confine insidioso della mediazione rappresentativa, ma insiste rilevando che «è permesso fare questo tentativo», cioè la trasposizione della immediatezza della coscienza dei nostri affetti sul mondo fisico, laddove «si prende come punto di partenza la coscienza morale del metodo», che implica il «non accettare molteplici specie di causalità, fintantoché il tentativo di far bastare una soltanto di esse non si sia spinto sino al suo limite estremo (- sino al suo assurdo, mi sia consentito dire)». E il «limite estremo» a cui condurre il ragionamento è quello che deriva dal fatto che se «effettivamente riconosciamo la volontà come agente, se noi crediamo alla causalità del volere […] siamo costretti a fare il tentativo di porre ipoteticamente la causalità del volere come causalità esclusiva». Ora, poiché la volontà agisce sulla volontà di potenza e non sulla «“materia”», ciò implica «osare l’ipotesi» che ovunque vengano «riconosciuti “effetti”, non agisca il volere sul volere», in modo che anche nel mondo fisico, in «ogni accadimento meccanico, in

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Da qui il carattere interrogativo del passo che mostra per un verso la titubanza di Nietzsche di fronte alla seduzione offerta dal considerare la volontà di potenza come Principio della realtà, vicino ma comunque distinto dalla metafisica Voluntas schopenahueriana7, dall’altro la consapevolezza della fallacia

quanto in esso diventa operante una forza, non sia appunto forza volitiva, effetto del volere». E dunque, conclude Nietzsche, «posto infine che si riuscisse a spiegare tutta quanta la nostra vita istintiva come la plasmazione e la ramificazione di un’unica forma fondamentale del volere – cioè della volontà di potenza, come è la mia tesi -; posto che si potesse ricondurre tutte le funzioni organiche a questa volontà di potenza e si trovasse in essa la soluzione del problema della generazione e della nutrizione – si tratta di un solo problema –, ci si sarebbe con ciò procurati il diritto di determinare univocamente ogni forza agente come: volontà di potenza» (cfr. ivi, n. 36, pp. 43-44). Il passo si conclude con la riconduzione del mondo alla volontà di potenza, secondo l’affermazione del famoso frammento del 1885 classificato poi come n. 1067 nella redazione della Wille zur Macht, che abbiamo già richiamato: «Il mondo veduto dall’interno, il mondo determinato e qualificato secondo il suo “carattere intelligibile” – sarebbe appunto “volontà di potenza” e nient’altro che questa» (ibidem). Tale riconduzione del mondo alla volontà di potenza trova riscontro in altri luoghi di Al di là del bene e del male, quando Nietzsche scrive che essa è da concepirsi come «il fatto originario di tutta la storia» (Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 259, p. 178), e serve ad indicare da una parte che il suo interesse, dopo lo Zarathustra, ha ormai approfondito in termini ontologici l’eterno ritorno a favore della volontà di potenza, mentre dall’altra è indice della riflessione che sta conducendo, direbbe Jaspers, per tentativi, nell’intento di rendere conto dell’accadere nei termini della volontà di potenza senza incorrere nella morsa stringente della «rappresentazione». 7. Come notano Colli e Montinari, nelle due opere di questo periodo, Al di là del bene e del male e Genealogia della morale (1887), Nietzsche per certi versi compie una sorta di «riaccostamento» a Schopenhauer, in quanto sia nella Voluntas, sia nella volontà di potenza, si parla pur sempre «di una sostanza irrazionale, che è in noi (ogni teologia è superata) e di cui diventiamo partecipi per un’apprensione immediata. La differenza rispetto a questa sostanza si riduce al fatto che Schopenhauer la rifiuta e vuole negarla, Nietzsche invece l’accetta e vuole affermarla» (Colli G., Montinari M., «Al di là del bene e del male» e «Genealogia della morale» nell’opera di

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di tale opera di riconduzione del reale ad un’origine unica, elemento cardine appunto di ogni atteggiamento metafisico. Si tratta comunque di un’oscillazione in cui egli, in questi anni (1886-1887) ancora indugia, ma da cui si affrancherà subito, dato che la sua insufficienza teoretica gli è comunque già ben evidente. Tanto più che Nietzsche ha altresì già ben chiaro che il credere nell’esistenza di una volontà anche nel mondo fisico ha un’origine psicologica, come trasposizione della volontà interiore sul mondo esteriore, e lo spiega proprio negli appunti di questo periodo, quando nota che tale considerazione causale dei mutamenti che sentiamo avvenire in noi trova una motivazione ben specifica nella credenza dell’«anima», che sottende quella della «volontà», e ciò si basa su un pregiudizio generato dall’idea che esista un soggetto agente distinto dall’agire8. Ne deriva pertanto che il concetto di “causa”, così come quello consequenziale di “effetto”, discendono da una abitudine, o meglio, da un’esigenza «psicologica», quella di reificare il divenire nell’essere, di entificare l’accadere che avviene in noi e di trasporre questa dinamica nel mondo fisico. Ciò implica Nietzsche, in Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male. Genealogia della morale, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VI, tomo II, Adelphi, Milano, 1986, pp. 371-376, pp. 371-372). 8. «I movimenti non sono “prodotti” da una “causa”: questo sarebbe ancora l’antico concetto di anima! – Essi sono la volontà stessa, ma non in tutto e per tutto» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. I [37], p. 12). E a seguire egli precisa che «il credere nella causalità deriva dal credere che ciò che agisca sia l’io, dal separare l’“anima” dalla sua attività. Cioè da un’antichissima superstizione» (ivi, n. I [38], p. 12). Alla base di ciò troviamo, di nuovo, «la separazione dell’accadere in un fare e in un patire, la supposizione di un soggetto agente», in modo che in questo discorso «si nasconde la fede nell’autore, come se, togliendo dall’“autore” tutto il fare, l’autore stesso continuasse ad esistere» (ivi, n. 7 [I], p. 239). «“Causa ed effetto” risale al concetto di “fare e autore”. Da dove viene questa separazione?» (ivi, n. 7 [34], p. 291).

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la necessaria quanto arbitraria attribuzione di un senso all’accadere, dato che l’uomo non riesce a rappresentarsi il divenire come tale, e pertanto ha bisogno di fissarlo in un concetto (sia pur esso quello di “divenire”), e stabilizzarlo nell’essere/ ente, in una causa, in un effetto, come fa la scienza, «la quale ci vuole rendere il mondo rappresentabile e nient’altro!». Per l’identico motivo abbiamo necessità di conferire al divenire una intenzione, mentre dobbiamo prendere atto che, semmai, «tutto l’accadere in base a intenzioni è riducibile all’intenzione dell’accrescimento di potenza»9. Se da una parte constatiamo l’ormai avvenuto superamento del concetto di “vita” in quello di “volontà di potenza” («tutto ciò che mostra la vita è da considerare come formula rimpicciolita per tutta quanta la tendenza; perciò una nuova determinazione del concetto “vita”, come volontà di potenza»10), dall’altra rileviamo il carattere illusorio dell’idea di “essere”, che si pone come «invenzione di colui che soffre del divenire»11, una invenzione relativa alle necessità della conoscenza di operare su qualcosa di stabile sottratto alle dinamiche del divenire. Ma ciò cambia se muta la nostra idea dell’io, dalla cui esistenza desumiamo l’esistenza di «tutti gli altri “enti”»12, e per rivedere la quale sarà allora necessario prendere atto che «l’“essere” manca. Ciò che “diviene”, il “fenomenale” è l’unica specie d’essere» in quanto 9. Ivi, n. 2 [88], p. 93. 10. Ivi, n. 7 [54], pp. 297-298. In un frammento del 1888 Nietzsche aggiunge che «la vita, […] aspira a un sentimento massimo di potenza; è essenzialmente un aspirare a un di più di potenza; l’aspirare non è niente altro che l’aspirare alla potenza; il nucleo più profondo e intimo resta questa volontà» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [82], p. 52). 11. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 2 [110], p. 102. 12. «Se “c’è solo un essere, l’io”, e a sua immagine sono fatti tutti gli altri “enti” – se infine la fede nell’“io” si sostiene e cade con la fede nella logica, ossia nella verità metafisica della categoria razionale; se d’altra parte l’io si dimostra qualcosa che diviene: allora – - -» (ivi, n. 7 [55], p. 298).

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affermare che qualcosa «“si modifica”», presuppone «sempre già qualcosa che stia e rimanga dietro la modificazione»13. In realtà, per Nietzsche, l’essere non «manca» in quanto obliato o allontanato definitivamente a favore dell’ente “costituito” dalla volontà di potenza come suo voluto, bensì in quanto l’“essere” stesso è un’illusione a cui si affida la metafisica nel porlo come sostrato, fondamento che consente il divenire di ciò che si modifica, l’ente appunto. Ne consegue che «l’“essere” manca», in quanto si tratta di una illusione (Täuschung) o schema rappresentativo necessario alla conoscenza, da cui il filosofo di Röcken prende nettamente le distanze. Il che vuol dire che Nietzsche si muove già oltre il paradigma metafisico e le sue strutture gnoseologiche, in direzione di una visione nuova dell’immediato. Nel frammento datato fine 1886 – primavera 1887, tanto considerato da Heidegger, che abbiamo già ricordato e che inizia in questo modo: «Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza», Nietzsche sostiene che tale dinamica ci conduce di fronte ad una «duplice falsificazione, attraverso i sensi e attraverso la mente», motivata dalla necessità di «conservare un mondo dell’essere, del persistere, dell’uguaglianza di valore ecc.». La conservazione è resa possibile dal valore e, in tal guisa, possiamo capire perché «dai valori che si attribuiscono a ciò che è scaturisce la condanna e la scontentezza per ciò che diviene: solo dopo che fu inventato un tal mondo dell’essere». Ne deriva il fatto che l’essere è un’illusione necessaria per la conoscenza, la quale sarebbe «in sé impossibile nel divenire»14. Si può notare che il ragio-

13. Ivi, n. 7 [I], p. 239; qui Nietzsche scorge finemente i tratti della “differenza ontologica”. 14. «“L’essere» come illusione; rovesciamento dei valori: l’illusione era ciò che conferiva valore – la conoscenza è in sé impossibile nel divenire; com’è

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namento che il filosofo sta conducendo ha un ovvio carattere critico, e dunque in nessun modo ne sostiene la percorribilità, percorribilità che vorrebbe Heidegger, il quale individua invece in questi passi, lo abbiamo visto, il centro sostanziale, quasi programmatico (egli lo definisce «riassunto dei capisaldi del suo pensiero»15), di definizione della volontà di potenza come nucleo della costituzione dell’ente attraverso la creazione. Abbiamo però già osservato che Heidegger è stato tratto in inganno dal titolo «“Ricapitolazione” (Rekapitulation)» inserito arbitrariamente da Gast nell’edizione de Der Wille zur Macht, e prontamente eliminato da Colli e Montinari, nella cui edizione il titolo infatti non compare16. In questo modo egli non coglie il carattere critico di tale disamina. Appare infatti fuori luogo che Nietzsche intenda restringere e confinare la volontà di potenza come nuova visione dell’accadere al modus agendi della conoscenza, nelle sue modalità di «consolidamento»17 valoriale del divenire nell’essere, e dunque di semplificazione/« falsificazione» del mondo, dato che da tale modus egli prende continuamente le distanze. Si tratta dunque di un frammento rilevante, ma nel senso opposto a quello individuato da Heidegger, sviato appunto dal titolo aggiunto da Gast.

dunque possibile la conoscenza? Come errore su se stessa, come volontà di potenza, come volontà di ingannare» (ivi, n. 7 [54], p. 297). 15. Heidegger M., Nietzsche, cit., pp. 386-387. 16. Cfr. supra, cap. II, n. 60. 17. Come egli ribadirà ne L’anticristo, «la prosecuzione di uno sviluppo non è assolutamente, per una qualsivoglia necessità, elevazione, potenziamento, consolidamento» (cfr. Nietzsche Fr., Der Antichrist. Fluch auf das Christentum, 1889; tr. it. L’anticristo. Maledizione del Cristianesimo, in Id., Il caso Wagner. Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello. L’anticristo. Maledizione del Cristianesimo. Ecce Homo. Nietzsche contra Wagner, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VI, tomo III, Adelphi, Milano, 1970, pp. 165-262, n. 4, p. 170).

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Così come per il divenire, identica difficoltà la ragione incontra di fronte alla pluralità e molteplicità degli enti di cui il mondo si compone, rispetto alla quale lo «spirito» opera con identici intenti di dominio unificatrici e riduttivi. In Al di là del bene e del male, sempre di questo periodo, Nietzsche scrive che «quell’imperioso qualcosa che è chiamato “spirito” dal volgo vuole signoreggiare in sé e sentirsi padrone: possiede la volontà di ridurre il molteplice ad unità, una volontà allacciante, infrenante, avida di dominio e realmente dominatrice»18. In questo modo «la forza appropriativa dello spirito nei riguardi di ciò che estraneo si rivela in un’accentuata inclinazione ad assimilare il nuovo all’antico, a semplificare il multiforme, a ignorare o a respingere quel che è del tutto contraddittorio», al punto che «arbitrariamente e con maggior vigore essa sottolinea, mette in evidenza, falsifica a proprio vantaggio determinati tratti e linee di quanto le è estraneo, di ogni frammento del “mondo esterno”». Permane, tuttavia, in quest’opera di semplificazione e «falsificazione» del mondo esterno, «forse il malizioso presentimento che le cose non stiano in questo e quel modo, che ci si limiti appunto a lasciarle essere così e così»19, anche se resta viva la sensazione che in quest’opera di ri(con)duzione del molteplice reale all’orizzonte unitario dell’idea si stia perdendo più di qualcosa. L’«illusione» dell’essere è dunque consequenziale alla definizione di un polo unico dei nostri mutamenti interni, che vengono ri(con)dotti ad un “io” sottratto ai mutamenti stessi, un polo stabile, e da qui tale ri(con)duzione viene estesa anche al mondo esterno, la cui strutturale molteplicità viene sottomessa ad un’opera di unificazione categoriale.

18. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 230, p. 139. 19. Ivi, n. 230, pp. 139-140.

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Si tratterà pertanto di rivedere le dinamiche stesse del darsi dell’evento e cercare di rimodulare la natura della conoscenza, al fine di pervenire ad «una nuova interpretazione dell’accadere», da considerarsi ormai come «essenziale per l’essere organico», in una prospettiva che andrà a incidere sulla dicotomia essere/divenire e su quella di unità/molteplicità o, meglio, sulla percezione della loro ineludibilità al fine di evitare la sostanziale insensatezza di tutto ciò che è. Compito non agevole, e Nietzsche ne è ben conscio, nel tentativo di sottrarre il discorso sia ad una concezione teleologica, sia ad una «meccanicistica», la cui «inservibilità» è dovuta al fatto che «dà l’impressione dell’insensatezza»20, senza pertanto ricadere nell’idea di una mancanza di senso assoluta. Se infatti l’uomo rifugge «“la mancanza di senso dell’accadere”» che gli deriva «dall’aver riconosciuto la falsità delle interpretazioni finora escogitate», non è tuttavia detto che ciò rappresenti «una credenza necessaria». Semmai bisogna rilevare una certa «immodestia dell’uomo», che piuttosto che credere all’esistenza del caso, «dove non vede il senso, lui lo nega!»21. Ci troviamo sulla soglia del «nichilismo» (su cui il filosofo vieppiù concentra la sua attenzione: è questo il periodo in cui egli compone il famoso Frammento di Lenzerheide22), ossia di fronte alla «mancanza di senso», alla «distruzione degli ideali», alla «nuova desolazione», in un insieme asemantico che per essere sopportato ne-

20. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 7 [54], p. 298. 21. Ivi, n. 2 [109], p. 102. 22. Si tratta di un frammento datato 18 giugno 1887 intitolato Il nichilismo europeo (cfr. ivi, n. 5 [71], pp. 199-206), di recente ripubblicato in forma autonoma (cfr. Nietzsche Fr., Der europäische Nihilismus, 1887; tr. it. Il nichilismo europeo. Frammento di Lenzerheide, Adelphi, Milano, 2006, con postfazione di Campioni G., Il «sentimento del deserto». Dalle pianure slave al vecchio Occidente, ivi, pp. 47-60).

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cessita di «nuove arti»23 che pongano l’uomo in condizione di relazionarsi all’accadere prescindendo dalla causalità e da tutti gli altri schemi interpretativi a cui è abituato a fare ricorso. Nietzsche polemizza così, paradigmaticamente, con i trascendentali medievali, in modo che è a partire da un loro superamento verso una nuova concezione dell’accadere del mondo che si innesta la possibilità di una «nuova perfezione»24. In un frammento intitolato “Negazione della causalità”, egli sostiene dunque che «per non rendere tutto responsabile di qualunque cosa e per non stare a complicare ciò che è semplice», dobbiamo prendere atto che «il “caso” esiste veramente»25, cioè l’evento che si dà senza che debba essere ri(con)dotto in uno schema causale di comprensione. Se infatti non possiamo negare, insiste in un altro passo dello stesso periodo, «l’assoluta necessità di ogni accadimento», dobbiamo però rilevare che essa «non ha nulla della costrizione»26, e questo perché, continua poco dopo, «non c’è nessun avvenimento in sé. Ciò che accade è un gruppo di avvenimenti, trascelti e riassunti da un essere interpretante»27. Si tratta pertanto di assumere come elemento base la necessità di sottrarsi agli errori della conoscenza e alla sua volontà di semplificazione («falsificazione») della realtà, decidendo per una visione nuova dell’accadere. Il che motiva le innumerevoli analisi critiche che Nietzsche dedi23. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 7 [54], p. 298. 24. «Posto che la nostra abituale concezione del mondo fosse un equivoco: si potrebbe concepire una perfezione, entro la quale anche tali equivoci fossero sanzionati? Concezione di una nuova perfezione: ciò che non corrisponde alla nostra logica, alla nostra “bellezza”, alla nostra “bontà”, alla nostra “verità”, potrebbe essere perfetto in un senso superiore a quello del nostro stesso ideale» (ivi, n. 7 [36], p. 292). 25. Ivi, n. 2 [167], p. 138. 26. Ivi, n. I [114], p. 29. 27. Ivi, n. I [115], p. 29.

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ca alle varie concezioni rappresentative codificate dalla ragione: dal volontarismo/casualismo («non c’è affatto una volontà. I. Casualismo. 2. Non c’è qualcosa come causa-effetto»28), al finalismo («bisogna comprendere che un’azione non viene mai causata da un fine»)29, al meccanicismo («fermarsi alla concezione meccanicistica del mondo è come se un sordo si proponesse come fine di comporre la partitura di un’opera»30), per passare poi alla disamina complessiva delle Weltanschauungen «artistica», «scientifica», «religiosa» e «morale», tutte «sintomi di un istinto dominante»31 nei confronti dell’altro e del mondo, nell’insopprimibile esigenza umana di imporre un ordine al caos. Un ordine che è quello della conoscenza, del voler cioè «riportare qualcosa di estraneo a qualcosa di noto, di familiare», attraverso l’individuazione di una «regola» capace di sottrarre al mondo il suo «aspetto pauroso»32. Non è da trascurare il fatto che Nietzsche insista a più riprese su questo punto, la visione dell’io come principio ordinatore e della filosofia come sapere regolativo. Il tema della trascendenza verso l’accadere senza operare una sua ri(con)duzione ad uno schema che gli preesiste è il nucleo centrale intorno a cui ruotano sia l’eterno ritorno, sia la volontà di potenza. Le pretese della scienza di riportare il ripetersi di un fenomeno alla regolarità di una regola, ad una «formula», sono indice infatti del permanere ancora all’interno di una con-

28. Ivi, n. 5 [9], p. 177. 29. Cfr., ad es., ivi, n. 7 [I], pp. 237-239. 30. Ivi, n. 7 [34], pp. 293-294. 31. Cfr. ivi, n. 7 [3], pp. 245-246. 32. «Smussamento del sentimento del nuovo e dello strano: tutto ciò che accade regolarmente non ci sembra più problematico. Perciò quello di “cercar la regola” è il primo istinto di chi conosce, mentre per il fatto che sia trovata la regola niente è ancora “conosciuto”!» (ivi, n. 5 [10], p. 177).

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cezione mitologica che regge il «pregiudizio scientifico»33. Ci troviamo di fronte ad una vera e propria «superstizione» che muove l’uomo della conoscenza, in quanto l’«istinto segreto della scienza» ha un fondamento irrazionale, e cioè «la paura dell’incalcolabile»34, a cui esso reagisce con il ricorso alla regola. Come si vede, pertanto, la sfera in cui il filosofo si muove è quella di un ripensamento generale dell’atteggiamento metafisico che sottende la gnoseologia nel suo rapporto con il mondo. Il tutto declinato in una chiave preontologica, laddove le categorie di “essere” e “divenire”, o meglio, il modo di “pensarle”, divengono il perno su cui si incentra la sua riflessione, che lo spinge ad approfondire genealogicamente l’eterno ritorno nella volontà di potenza, secondo un moto che dal «pensiero più grave» si rivolge al «fatto ultimo». Una nuova concezione della trascendenza verso il mondo sarà infatti possibile laddove vengano rimodulate le categorie di essere e divenire in una prospettiva inedita che si sottragga alla morsa della rappresentazione, una prospettiva garantita dall’eterno ritorno: «che tutto ritorni, è l’estremo avvicinamento del mondo del divenire a quello dell’essere: culmine della contemplazione»35. La via che Nietzsche intende perseguire, dunque, è quella di una visione dell’accadere che si presenta come “nuova” nel porsi in una forma quanto più

33. Ivi, n. 2 [154], p. 128. «Una volta che io abbia ridotto in una formula un accadere regolare, mi sono facilitata, abbreviata, eccetera, la designazione dell’intero fenomeno. Ma non ho constatato una “legge”; solo ho sollevato il problema da cosa dipenda il fatto che qualcosa qui si ripete: è una supposizione pensare che alla formula corrisponda un complesso di forze e di scatenamenti di forze a tutta prima sconosciuti; è mitologia pensare che delle forze obbediscano qui a una legge, in modo che per effetto della loro ubbidienza noi abbiamo ogni volta lo stesso fenomeno» (ivi, n. 7 [14], p. 285). 34. Ivi, n. 5 [10], p. 177. 35. Ivi, n. 7 [54], p. 297.

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estranea alla mediazione rappresentativa. Sarà l’eterno ritorno come «culmine della contemplazione», cioè della visione non condizionata o addirittura viziata dalle capacità visive di chi vede, dalle strutture conoscitive di chi conosce, a garantire un ripensamento («estremo avvicinamento») del divenire all’essere. Si tratterà allora di giungere ad una rinnovata concezione dell’interpretazione, sottraendola alle insidie del linguaggio per riuscire a cogliere la vera natura dell’interpretare, senza presupporre l’azione di un soggetto interpretante. Non si deve chiedere: «chi interpreta, allora?». L’interpretare stesso, come una delle forme della volontà di potenza, ha esistenza come un affetto (ma non come un «essere», bensì come un processo, un divenire)36.

Ora, Nietzsche è ben conscio che anche l’eterno ritorno può incorrere nel rischio della codificazione nella regola, finendo così anch’esso per rappresentare il sintomo di un desiderio di regolarità, e dunque per riproporre un atteggiamento rappresentativo, in fin dei conti metafisico, ri(con)duttivo cioè del molteplice reale all’ordine dell’idea. E questo motiva, a dispetto di ciò che pensa Heidegger, l’intensificarsi della sua attenzione verso la volontà di potenza nelle ultime opere e negli ultimi frammenti, cioè verso una definizione dell’accadere non condizionata/viziata dalle possibilità conoscitive di chi tale definizione propone. In questo senso, il filosofo avverte le difficoltà che sorgono laddove il pensiero si dispone a superare l’inevitabile condizionamento che esso stesso opera sugli oggetti della conoscenza mentre li conosce, senza ricadere tuttavia nell’ipocrita presunto “disinteresse” teoretico dichiarato dalla scienza. Non a caso quando egli si dispone ad analizzare la «fandonia più grande» costituita dalla conoscenza, l’obiettivo polemico diviene l’ambizione della scienza di porsi in una

36. Ivi, n. 2 [151], p. 127.

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posizione disinteressata, non partecipe né condizionata dal paradigma conoscitivo che essa stessa sviluppa da una posizione «di sorvolo»37, come direbbe Merleau-Ponty. Nietzsche ha ben chiara la questione di fondo di ogni prospettiva gnoseologica, e cioè il fatto del condizionamento che il pensiero compie nell’atto del pensare, quindi del conoscere nell’atto di conoscere. Ne deriva che egli sta riflettendo sull’influsso che la stessa dottrina del ritorno, in quanto «pensiero», potrebbe esercitare sul reale, e ciò lo spinge ad approfondirne il significato in una visione dell’accadere quanto più scevra da tale interferenza, come la volontà di potenza intende porsi. E che le cose si muovano in una direzione antirappresentativa lo testimonia un frammento di poco successivo, sempre interno a quelli che stiamo analizzando (1885-1887), in cui ancora una volta il pretesto polemico è Kant e la sua teoria morale, anche se il vero obiettivo è l’idea del «tutto» e dunque ogni concezione rappresentativa totalizzante, residuo di una concezione teologica del reale, al fine di «riprendere per le cose prossime e nostre ciò che abbiamo dato all’ignoto al

37. Cfr. Merleau-Ponty M., La structure du comportement (1938), Presses Universitaires de France, Paris,1942; tr. it. La struttura del comportamento, Bompiani, Milano, 1963. Scrive Nietzsche che, al contrario, il conoscere «è sempre un “mettersi in una condizione rispetto a qualche cosa”», in modo che sempre si stabilisce una relazione, un condizionamento rispetto a ciò che si intende conoscere, un interesse. Tuttavia, chi conosce, «vuole che ciò che egli vuol conoscere non lo riguardi, e che la stessa cosa “non riguardi nessuno”: qui c’è anzitutto una contraddizione tra il voler conoscere e la pretesa che la cosa non riguardi chi conosce (a che allora conoscere?)», in modo che diviene superfluo ipotizzare l’esistenza di una “cosa in sé”, una cosa non condizionata dalle operazioni della conoscenza, in quanto «anche ammesso che ci fosse un “in sé”, un non condizionato, esso, proprio per ciò, non potrebbe essere conosciuto!» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 18851887, cit., n. 2 [154], p. 128.).

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tutto»38. Prospettiva non totalizzante, analisi dei presupposti del pensiero e della difficoltà di spingere il pensiero stesso, e con esso la filosofia, a pensare una volta che si sia acclarato l’inevitabile condizionamento che esso opera sul reale, sulle «cose prossime»: sono questi gli interrogativi che Nietzsche si pone, come riconosce nel frammento successivo, quando si chiede se «non dovrà finire tutta la filosofia con il portare alla luce i presupposti su cui poggia il movimento della ragione?». Per chiarire: può la ragione continuare a pensare nel momento in cui ha preso atto dell’opera di «falsificazione» che essa stessa opera, e non può non operare, sul reale e su se stessa, e dunque è passata ad analizzare i fondamenti del pensiero, che divengono così tema e possibilità del pensiero stesso? È possibile per la filosofia continuare a pensare nel momento in cui risultano messi in questione i fondamenti stessi del pensiero? A cominciare dal soggetto, che costituisce l’elemento nodale da cui tutti gli altri categoriali dipendono: «noi crediamo nell’io come in una sostanza, come nell’unica realtà, secondo la quale noi in genere attribuiamo realtà alle cose», superato il quale ritorna alla luce quel realismo «più antico», sebbene non possiamo non rilevare che «qui c’è una barriera: il nostro stesso pensare implica quella fede (con la sua distinzione di sostanza e accidente, fare e autore, ecc.)», in modo che «farla cadere significa non poter più pensare»39. Una fede che, «per necessaria che sia alla conservazione degli esseri», non ha tut-

38. Nota il filosofo, che «mi sembra importante che ci si sbarazzi del tutto, dell’unità, di una qualunque forza, di un incondizionato; non si potrebbe fare a meno di prenderlo come istanza suprema e di battezzarlo “Dio”. Bisogna mandare il tutto in frantumi; disimparare a rispettare il tutto; riprendere per le cose prossime e nostre ciò che abbiamo dato all’ignoto al tutto […] Dunque: non c’è un tutto, manca il grande sensorio o inventario o magazzino di forze» (ivi, n. 7 [62], pp. 301-302). 39. Ivi, n. 7 [63], p. 302.

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tavia «a che fare con la verità»40, e con un’idea della realtà che è tale solo se si lascia raccogliere e “catturare” dal pensiero: dalla consapevolezza di ciò, ormai non si può più tornare indietro.

2. Intorno alle forze L’insieme di queste perplessità teoretiche costituisce l’orizzonte in cui si sviluppa la redazione delle ultime opere di Nietzsche (Il caso Wagner, Crepuscolo degli idoli, L’anticristo, Ecce Homo, Nietzsche contra Wagner, datate 1888), e soprattutto i Frammenti postumi del 1887-1888 e del 1888-1889 ad esse, rispettivamente, preparatori e, di poco, successivi. In questi scritti Nietzsche riporta in forma più o meno compiuta l’esito dei ragionamenti sul tema della trascendenza del e verso il mondo, modulato intorno al nesso causalità/volontà, e la meditazione sul rapporto tra eterno ritorno e volontà di potenza, in vista di una «nuova interpretazione dell’accadere» sempre più plasmato sul concetto di “forza”. E se dunque ricordiamo ancora l’invito di Heidegger a considerare le «ultime dichiarazioni» del filosofo come quelle capaci di fornirci l’«interpretazione vera e propria» che «esplicherà» il suo «pensiero fondamentale», agli scritti che precedono il suo crollo psichico dovremo dedicare particolare attenzione. Nel dettaglio, sono in particolare i Frammenti postumi 18871888 a fornire indicazioni preziose sullo sviluppo del pensiero nietzscheano in chiave oltremetafisica, secondo una modulazione decisa dell’accadere in termini di volontà di potenza che si nutre degli esiti concettuali a cui il filosofo è pervenuto negli anni e nelle opere precedenti, e che ora trovano, se di “siste-

40. Ibidem.

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ma” si vuole parlare, una loro “sistema(tizza)zione” teoretica più puntuale. La base di partenza è ancora il venir meno del soggetto e, parallelamente, dell’oggetto, della “cosa” («la “cosalità” è stata creata da noi»41). Tutte queste finzioni42 sono necessarie perché funzionali all’uomo e alla sua necessità di individuare punti di riferimento stabili per la conoscenza, necessari per la prosecuzione della vita43. Allo stesso modo non esistono nella realtà dimensioni quali la causa e l’effetto44, ma anche le categorie, la sostanza, l’essere, la materia e lo spirito, la coscienza45 e, infine, la stessa ragione, in modo che l’intero «mondo fittizio»46 della conoscenza appare come nient’altro che una 41. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [106], p. 53. 42. «Una volta che si sia capito che il “soggetto” non è niente che produca effetto, ma solo una finzione, molte cose ne seguono. Solo in base al modello del soggetto abbiamo inventato le cose e le abbiamo introdotte nel guazzabuglio delle sensazioni. […] Se rinunciamo al soggetto agente, rinunciamo anche all’oggetto su cui si opera» (ivi, n. 9 [91], p. 41-42). 43. In diversi luoghi Nietzsche insiste sulla strumentalità delle categorie metafisiche e della loro funzionalità per la vita; in un frammento di qualche anno prima scrive: «ciò che mi divide nel modo più profondo dai metafisici è questo: non concedo loro che l’“io” sia ciò che pensa; al contrario considero l’io stesso una costruzione del pensiero, dello stesso valore di “materia”, “cosa”, “sostanza”, “individuo”, “scopo”, “numero”; quindi solo una finzione regolativa col cui aiuto si introduce, si inventa, in un mondo del divenire, una specie di stabilità, e quindi di “conoscibilità”. […] Per quanto consueta e indispensabile questa finzione possa essere, niente dimostra che la sua natura non sia fittizia. Qualcosa può essere condizione di vita e tuttavia falso» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 35 [35], p. 203). 44. «“Causa ed effetto”: falsa interpretazione di una guerra e di una relativa vittoria» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [106], p. 53). 45. Cfr. ivi, n. I I [145], p. 276. 46. «Il mondo fittizio di soggetto, sostanza, “ragione”, ecc. è necessario: è in noi un potere che ordina, semplifica, falsifica, separa artificialmente» (ivi,

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menzogna necessaria a cui l’uomo deve credere in quanto «conoscenza e divenire si escludono a vicenda»47. Ciò perché «ammettere l’essere è necessario per poter pensare e dedurre: la logica adopera solo formule per ciò che rimane sempre uguale a se stesso»48. Ne deriva che l’idea stessa di verità come conformità alle cose è un’invenzione, il risultato di un’opera di trasposizione di un «impulso» che l’uomo «proietta» sul mondo, un suo «“fine”», e specificamente il risultato di un’opera di creazione che si racchiude nel «rendere saldo» qualcosa nel moto perpetuo e «falso» del divenire49. La verità è qualcosa che l’uomo crea e non scopre, in quanto non esiste in sé ma è riferibile ad una prospettiva umana specifica, che è quella della stabilità, o meglio, della fissazione del divenire nell’essere, che porta Nietzsche a ribadire che l’essere è un’«illusione»50, così come sono da considerarsi illusorie la causalità, il finalismo, la necessità51, il determinismo52. In questa direzione, alla critica

n. 9 [89], p. 40); «Se abbandoniamo il concetto di “soggetto” e “oggetto”, rinunciamo anche a quello di “sostanza” – e quindi anche alle varie modificazioni di quest’ultimo, per esempio “materia”, “spirito” e altri esseri ipotetici, “eternità e immutabilità della materia”, ecc. Ci siamo sbarazzati della materialità» (ivi, n. 9 [91], p. 42). 47. Ivi, n. 9 [89], p. 40. 48. Ibidem. 49. «La volontà di verità è un rendere saldo, un rendere vero-durevole, un eliminare dalla nostra presenza quel carattere falso, una reinterpretazione dello stesso senso dell’essere. La verità non è pertanto qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, – ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo, anzi a una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine: introdurre la verità, come un processus in infinitum, un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa sia “in sé” fisso e determinato. È una parola per la “volontà di potenza”» (ivi, n. 9 [91], p. 43). 50. Ivi, n. 9 [89], p. 41. 51. Cfr. ivi, n. 9 [96], p. 46. 52. Cfr. ivi, n. 9 [91], p. 41.

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del «principio di identità» da lui già avanzata qualche tempo prima53, si aggiunge ora il rifiuto dello stesso «principio di contraddizione», che parte da assunti che esso stesso presuppone, e cioè che ci sia un “essere” e che il pensiero possa coglierne la “verità”54. Si tratta, in questo come in altri casi concernenti la definizione della verità, del medesimo atteggiamento gnoseologico determinato da una «grossolana confusione», e cioè che il nostro rapporto con essa consista nella nostra volontà e possibilità/capacità di coglierla55. Pertanto, da questa decostruzione dell’arsenale metafisico non si salva nulla, in quanto il presupposto di base è l’umanizzazione dell’accadere per fini conoscitivi, e ciò spiega perché, secondo Nietzsche, si deve riconoscere all’intera logica occidentale e ai suoi presupposti («la forma, la specie, la legge, l’idea, lo scopo») un carattere di «illusorietà», in quanto «la nostra costrizione soggettiva a

53. In un frammento del giugno-luglio 1885 Nietzsche aveva infatti già notato che «il principio di identità ha come sfondo l’“apparenza” che ci siano cose uguali. Un mondo in divenire non potrebbe, in senso stretto, essere “compreso”, essere “conosciuto”; solo in quanto l’intelletto che “comprende” e che “conosce” si trovi di fronte a un mondo rozzo già creato, messo insieme con mere parvenze, ma divenuto solido per avere questa specie di illusione conservato la vita – solo in questo senso si dà anche qualcosa come la “conoscenza”, cioè un misurare tra loro gli errori vecchi e quelli nuovi» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 36 [23], p. 239. Sul tema, cfr. Klossowski P., Nietzsche e il circolo vizioso, cit.). 54. Cfr. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [97], pp. 46-48. 55. «La determinatezza e trasparenza logica come criterio di verità (“omne illud verum est, quod clare et distinte percipitur”, Descartes); con ciò l’ipotesi meccanica del mondo è gradita e credibile. Tutto ciò è una grossolana confusione, come: simplex sigillum veri. Da dove lo si sa, che la vera natura delle cose sta in questo rapporto col nostro intelletto? Non è possibile che la situazione sia diversa? Che l’ipotesi che maggiormente gli dà il senso della potenza e della sicurezza venga da esso massimamente preferita, apprezzata e quindi detta VERA?» (ivi, n. 9 [91], p. 44).

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credere nella logica esprime solo il fatto che noi, molto tempo prima di prendere coscienza della logica stessa, non abbiamo fatto altro che RIPORNE i postulati nell’accadere»; ne deriva che «il mondo ci appare logico perché prima noi stessi lo abbiamo logicizzato»56 al fine di rendere possibile la vita. Ora, la profonda penetrazione teoretica che Nietzsche compie sui capisaldi della metafisica ne certifica l’appartenenza alla riflessione contemporanea, se non la primogenitura, nonostante la colpevole redazione dei suoi ultimi scritti ad opera della sorella Elisabeth e di Gast. Una colpa emendata dal prezioso lavoro di Colli e Montinari, a cui dobbiamo altresì una notazione importante che attesta l’ormai avvenuto passaggio di Nietzsche ad una concezione oltremetafisica, nonostante le perplessità di Heidegger. Rilevano infatti i due curatori, nella nota posta in fondo al volume che contiene i Frammenti del 1887-1888, che tale «critica radicalissima» dei presupposti e, in generale, dell’intero sostrato semantico su cui si regge la conoscenza porta il filosofo di Röcken a superare l’oscillazione («la nuova metafisica di stampo schopenhaueriano») di cui abbiamo fatto menzione sopra, ancora rinvenibile in Al di là del bene e del male e in Genealogia della morale, riguardo alla possibilità di considerare la volontà di potenza come forza metafisica, in quanto la decostruzione del soggetto non può non coinvolgere la natura stessa della volontà57. 56. Cfr. ivi, n. 9 [144], pp. 71-72 («Sull’“illusorietà logica”»). 57. «L’estensione e la maturazione della critica sul ‘soggetto’ non può non ripercuotersi – a bella riprova dell’onestà intellettuale di Nietzsche – sulla concezione stessa dell’azione e della volontà. Nell’azione ciò che corrisponde al soggetto, ossia chi agisce, è stato estratto concettualmente da essa, quindi è una finzione, così come è una finzione lo ‘scopo’, l’‘intenzione’. A sua volta la volontà non esiste, come non esiste il pensiero: c’è soltanto un ‘voler qualcosa’. Il concetto metafisico di volontà di potenza, spogliato di ogni riferimento a un soggetto permanente, minaccia così di sgretolarsi» (Colli G., Montinari M., I frammenti postumi dell’autunno-inverno 1887-

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Nietzsche, infatti, non ha ormai dubbi nel dichiarare la propria «assoluta diffidenza per la forza organizzatrice della volontà rispetto al tutto»58, sia perché «non c’è una volontà: ci sono puntuazioni di volontà, che accrescono o diminuiscono costantemente la loro potenza»59, e sia perché, come ormai sappiamo, «non c’è un “tutto”», in quanto il mondo «non è assolutamente un organismo, bensì il caos»60. Allo stesso modo, l’identificazione della volontà con il «comando», nel senso in cui lo intende Heidegger, come «lo stato d’animo dell’essere superiore»61, è riduttiva e parziale, in quanto «che qualcosa venga comandato, fa parte del volere», ma «con ciò non è naturalmente detto che la volontà venga “effettuata”…». La volontà sarà allora piuttosto da intendersi, chiarisce Nietzsche, come uno «stato di tensione generale, per cui una forza tende a scaricarsi», che non è da ridursi ad un semplice «“volere”», desiderare o comandare62. Si tratta di luoghi importanti, in quanto se per un verso rileviamo la distanza di Nietzsche dalla concezione della “volontà” come “desiderio” a cui, in ultima analisi, fa riferimento Heidegger, per l’altro, consequenziale al primo, scorgiamo cosa intende Nietzsche quando coniuga volontà e accadere, in un senso cioè ben distante da ogni riferimento alla soggettività costituente e demandato, al contrario, ad un accumulo di energia e alla successiva «esplosione» di forze.

1888 nell’opera di Nietzsche, in Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1887-1888; tr. it. Frammenti postumi 1887-1888, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VIII, tomo II, Adelphi, Milano, 1990³, pp. 421-428, p. 424). 58. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [43], p. 17. 59. Ivi, n. I I [73], pp. 247-248. 60. Ivi, n. I I [74], p. 248. 61. Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 534. 62. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. I I [114], 264.

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Si tratta di un “volere” che precede il soggetto e si attua nella Wirklicheit, in uno strato più profondo in cui si muovono relazioni contrastive tra «quanti» di potenza che la scienza interpreta come “forze”. Si apre un orizzonte filosofico nuovo, di difficile definizione in quanto costitutivamente sfugge alla mediazione rappresentativa perché innestato non sulla sostanza, bensì sulla relazione. Nessuna «sostanza», piuttosto qualcosa che in sé aspira a rafforzarsi; e che solo indirettamente vuole «conservarsi» (vuole superarsi)63.

Non esiste pertanto una «sostanza», bensì un «qualcosa» (etwas)64 che tende al proprio autopotenziamento. Un «qualcosa» di cui emergono unicamente i tratti relazionali, di contrasto o conflitto, e la cui definizione non pochi problemi crea all’impeto categorizzante della ragione. In questo senso, la visione della volontà di potenza come una «nuova interpretazione dell’accadere», riprende e intensifica il processo di problematizzazione del pensiero rappresentativo, poco incline a pensare a fondo la relazione e dunque «ogni accadere, ogni movimento, ogni divenire come uno stabilire rapporti di grado e di forza, come una lotta…»65. 63. Ivi, n. 9 [98], p. 49. 64. In limine, notiamo che forse sarebbe proficuo indagare le intersezioni che, anche se su presupposti radicalmente diversi, potrebbero sussistere tra questa indicazione nietzscheana e i percorsi che hanno condotto il “primissimo” Heidegger alla meditazione sull’«es gibt», in cui «il venire avanti del qualcosa indica il farsi-mondo di un mondo, cioè il farsi evento per un accadere senza presenzialità, in cui l’inevidenza del secondo piano dell’esperienza garantisce e sostiene ogni possibile evidenza del primo» (Mascia G., Sulle tracce del Dasein. La prospettiva heideggeriana degli Erlebnisse al pensiero dell’Esserci, in “Quaderni di InSchibboleth”, n° 1, ottobre 2012, pp. 93-116, p. 97) e relativo superamento del paradigma della presenza. 65. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [91], p. 43.

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Il primo passo da compiere sarà quello di ripensare ancora l’idea del divenire nel senso in cui è stata concepita dalla metafisica, in rapporto cioè all’essere. Se Nietzsche è categorico nell’affermare che «il divenire non ha uno stato finale, non sfocia in un “essere”», lo è ancora di più quando scrive che «non si può ammettere in genere nessun essere», in quanto «questa ipotesi dell’essere è la fonte di ogni denigrazione del mondo»66. E se, dunque, ribadisce per l’ennesima volta il carattere illusorio dell’essere, lo stesso non può però dirsi del divenire, poiché «il divenire non è uno stato illusorio; è forse il mondo dell’essere un’illusione»67. Una illusione derivante dal fatto che, come abbiamo visto, l’uomo tende a innestare nel divenire l’essere mediante la nozione etica di valore, come punto di riferimento stabile su cui agire, a cui riferirsi: «il punto di vista del “valore” è il punto di vista delle condizioni di conservazione e di potenziamento rispetto a strutture complesse, la cui vita ha una durata relativa entro il divenire»68. Ma se prendiamo atto che «fa parte del nostro ineliminabile bisogno di conservazione il porre costantemente un più grossolano mondo del permanente, di “cose”, ecc.» di questa dinamica, e accettiamo altresì che «non ci sono unità durevoli ultime, non atomi, non monadi», e che «anche qui “l’essere” è stato introdotto solo da noi (per ragioni pratiche, di utilità, prospettiche)»69, si può comprendere perché il valore del divenire «è uguale in ogni momento: la somma del suo valore rimane uguale a se stessa», che equivale a dire che il divenire «non ha nessun valore, perché manca qualcosa con cui misu-

66. Ivi, n. I I [72], p. 246. 67. Ivi, n. I I [72], p. 247. 68. Ivi, n. I I [73], p. 247. 69. Ibidem.

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rarlo, e in riferimento a cui la parola “valore” abbia senso»70. La «conservazione» nel valore del grado di potenza raggiunto nel moto di autoimplementazione proprio della volontà in una essentia per Nietzsche è dunque un qualcosa di cui bisogna svelare tanto l’utilità quanto, tuttavia, l’infondatezza: non esiste, in realtà, se non «per ragioni pratiche», un momento del «superpotenziamento» della volontà che viene fissato e stabilizzato per poter poi, a partire da questo, proseguire l’opera di Überhöhung. Ciò implicherebbe inoltre una visione del tempo di tipo lineare, edipica, laddove il rischio di ricadere in una “filosofia della storia” verrebbe evitato unicamente dalla mancanza di prescrizione di un fine specifico da raggiungere, ma pur sempre ad una visione del tempo plasmata sullo spazio, come insieme di punti susseguentisi, si ritornerebbe, e Nietzsche ne è consapevole. Tanto più che ormai sappiamo che la volontà di potenza non è unica: «non c’è una volontà», bensì esistono molteplici «puntuazioni di volontà, che accrescono o diminuiscono costantemente la loro potenza». Ad un processo lineare di conservazione/accrescimento del grado di potenza raggiunto, Nietzsche oppone una pluralità di scariche di potenza, «un’espansione di potenza» dovuta a un’«esplosione» di forze che non segue una successione cronologica e che si esaurisce nel loro accadere, secondo un moto che prevede anche la diminuzione del grado di potenza (cioè la manifestazione di un grado di potenza inferiore agli altri). Ne deriva una radicale distanza dalla ferrea teleologia storica e una rimodulazione propria del tempo in accordo con il tempo della vita. Un tempo vitale pluridirezionale, che scardina la logica umana e orienta la ragione verso una pluralità caotica e, appunto, ateleologica: un tempo modulato unicamente dai ritmi dell’accadere come «esplosione»

70. Ivi, n. I I [72], p. 247.

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di forze che si compie e si esaurisce, o meglio, si dissipa e si consuma nel suo accadere, senza rimando, rinvio e senza lasciare traccia alcuna. Ne consegue altresì che «il senso del divenire dev’essere adempiuto, raggiunto, compiuto in ogni attimo»71, in modo che «contro il valore di ciò che rimane in eterno uguale a se stesso […] c’è il valore di ciò che è più breve e fugace, il seducente scintillio dorato sul ventre del serpente vita»72. Sospendendo il giudizio “filologico” sull’utilizzo del termine “valore”, indice della difficoltà del filosofo di liberarsi dell’apparato categoriale della metafisica contro cui pur si sta muovendo, possiamo rilevare che egli è ben lontano dall’assegnare una priorità ad un dato momento dello scorrere temporale, cioè all’«attimo», uno degli “assunti” di gran parte della vulgata nietzscheana. In ogni momento dell’accadere la “scarica” di forze si consuma nell’accadere stesso, si compie «in ogni attimo», in modo che non troviamo in queste considerazioni un rilievo conferito all’attimo della “decisione” in cui la volontà stabilizza un grado di potenziamento raggiunto, in quanto ogni «esplosione» di forza contempla, d’altro canto, anche la possibilità della diminuzione: ci troviamo in un territorio altro e distante da quello che si è intravisto nello Zarathustra. Ciò è comprensibile in quanto il venir meno del soggetto annulla la possibilità della cesura temporale inaugurata dalla decisione, in quanto la volontà perde il suo carattere di unicità, a cui è connesso un elemento valoriale, appunto il suo carattere di cesura significativa, di differenza insomma, e si riduce a «puntuazioni» di forze che ritornano in continuazione senza raggiungere, spiega nei Frammenti postumi 1888-1889,

71. Ivi, n. I I [82], p. 250. 72. Ivi, n. 9 [26], p. 11.

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«l’“una volta per tutte”»73. Di rimando, viene meno la possibilità dell’inizio e del nuovo corso, e soprattutto del controllo su di esso che conseguirebbe dal rappresentarne l’origine: viene meno il dominio su quanto, dal quel momento in poi, avverrà74. Si tratta, quest’ultima, di un’idea che ci viene dalla trasposizione psicologica della nostra “interiorità” sul mondo esterno. Se già nei Frammenti del 1885-1887 il filosofo aveva criticato «l’idea insensata di pensare se stessi come autori di una libera scelta per la propria esistenza e anche per il proprio essere così e così»75, nel Crepuscolo degli idoli, una delle sue ultime opere pubblicate (1888), l’idea della «volontà come causa» viene definitivamente rigettata parallelamente a quella della “coscienza” e dell’“io”76, come egli ribadisce anche in

73. «Se il mondo in genere potesse irrigidirsi, inaridirsi, morire, diventare nulla, o se potesse raggiungere uno stato di equilibrio, o se avesse uno scopo qualunque, che racchiudesse in sé la durata, l’immutabilità, l’“una volta per tutte” (insomma, espresso in termini metafisici: se il divenire potesse sfociare nell’essere o nel nulla), allora questo stato dovrebbe essere raggiunto. E invece non è stato raggiunto: donde segue…» (Nietzsche FR., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [188], p. 164). 74. Notiamo che, di nuovo, ciò implicherebbe una accettazione indiretta della linearità del tempo e del continuum temporale propri dello storicismo, di cui le Considerazioni Inattuali (in particolare la Seconda) hanno già svelato l’insufficienza a favore di una visione critica della storia. 75. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 2 [123], p. 111. 76. «La concezione di una coscienza (“spirito”) come causa, e più tardi anche quella dell’io (del “soggetto”) come causa, sono semplicemente filiazioni posteriori determinatesi dopo che da parte della volontà la causalità si stabilì come data, come empiria…Nel frattempo abbiamo riflettuto meglio. Di tutto ciò oggi non crediamo più neanche una parola. Il “mondo interiore” è colmo di immagini ingannevoli e di fuochi fatui: la volontà è uno di questi. La volontà non muove più nulla, di conseguenza neppure spiega più nulla – essa accompagna semplicemente dei processi, può anche mancare» (Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit., pp. 86-87).

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altri luoghi, ad esempio ne L’anticristo, dello stesso anno77. Il tutto in seno ad una visione dell’accadere ricercato, per quanto possibile, nella sua immediatezza, che non richiede né effettua alcun rimando o rinvio ad altro da sé: non ad una forza metafisica che con e in esso (non) si manifesta, rimanendo fuori dalla scena ma decidendo per l’ente, in modo che ci troveremmo di fronte alla “differenza ontologica”, e neppure al riferimento ad un parametro di valutazione valoriale esterno ma dirimente. A ciò si aggiunge, inoltre, che l’accadere in seno all’eterno ritorno non ha nulla a che fare con alcun determinismo di fondo. Nei Frammenti postumi 1887-1888 Nietzsche è chiaro: «l’assoluta necessità di uno stesso accadere in un corso cosmico come pure in tutti gli altri per l’eternità, non è un determinismo riguardo all’accadere, ma solo l’espressione del fatto che l’impossibile non è possibile… che una determinata forza non può essere appunto nient’altro che questa determinata forza»78. A questo «nient’altro che» dobbiamo prestare attenzione, per comprendere cosa Nietzsche intende quando parla di «forza», su cui ritorniamo brevemente. L’individuazione del concetto di “forza” nasce in seno all’evoluzione del concetto di “vita” come volontà di potenza, a cui Nietzsche sta lavorando da tempo, come abbiamo già visto. Ne abbiamo già segnalato traccia nei Frammenti del 188179,

77. «…la vecchia parola “volontà” serve soltanto a contrassegnare una risultante, una sorta di reazione individuale che consegue necessariamente a una quantità di stimoli in parte contraddittori, in parte concordanti – la volontà non “agisce” più, non “muove” più…» (Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., n. 14, p. 180). 78. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 10 [138], p. 178. 79. Cfr. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [139], p. 379.

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per ritrovarlo poi in quelli del 1882-188480, ne La gaia scienza81, per poi passare al «vittorioso concetto di “forza”» descritto nei Frammenti del 1884-188582, in cui Nietzsche spiega che «si potrebbe definire la vita come una forma durevole di processo delle determinazioni di forza, in cui la diverse forze in lotta crescono per parte loro in modo diseguale»83. Ed egli continua nei Frammenti del 1885-1887: «qualcosa di vivo soprattutto vuole sfogare la sua forza»84, poiché, dichiara ne L’anticristo, «la vita stessa è per me istinto di crescita, di durata, teso a un’accumulazione di forze, alla potenza»85. Ma è nei Frammenti postumi 1887-1888 che il filosofo fornisce indicazioni preziose sul rapporto vita-forza quando scrive che «la vita stessa non è un mezzo per qualche altra cosa», e dunque non dobbiamo ipotizzare l’esistenza di «un principio in base al quale la vita si dispiega…»86. Il che significa che Nietzsche non si sta orientando verso una “metafisica della forza”, tantomeno verso una visione metafisica della Wille zur macht da cui le forze deriverebbero, sia perché forza e potenza si identificano, sia perchè la sua struttura molteplice e relazionale ne inibisce ogni configurazione semplicisticamente sostanziale. Il concetto di “forza”, con cui si conclude il percorso teoretico che dalla “vita” porta alla “volontà di potenza”, rappresenta piuttosto il termine ultimo della meditazione nietzscheana sull’accadere, da intendersi pertanto come rapporto tra le forze di cui le vo-

80. Cfr. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1882-1884, cit., parte I, n. 24 [14], pp. 318-319. 81. Cfr. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 359, pp. 252-253. 82. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 36 [31], p. 241. 83. Ivi, n. 36 [22], p. 238. 84. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 2 [63], p. 77. 85. Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., p. 171. 86. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [13], p. 8.

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lontà di potenza costituiscono, nella loro tessitura, lo sfondo relazionale (e non il principio) in cui si determina l’accadere. Uno sfondo asistematico dominato dalla casualità e caoticità dell’incontro tra le volontà di potenza, e che prima di essere differenziale o oppositivo o altro, e per poterlo essere, è relazionale, in quanto è la relazione a consentire ogni tipo di legame, ivi incluso quello differenziale. Ciò rinvia ai margini di ciò che abbiamo definito un “pensiero della relazione”, volto a riproporre il radicamento della ragione in un orizzonte vitale in cui i «quanti» di potenza o di energia, che la scienza interpreta come “forze”, si trovano in costante e casuale rapporto tra loro, in un moto perpetuo di affermazione/negazione, e di casuale definizione in unità. Nietzsche osserva la «natura nuda, in cui le quantità di potenza sono semplicemente riconosciute come decisive»87 senza riconduzione a principi, cause o fondamenti altri. È l’impossibilità del rinvio dell’accadere a qualcos’altro di diverso da sé che il filosofo intende quando spiega che «una determinata forza non può essere appunto nient’altro che questa determinata forza», in modo che ne viene inibita altresì la possibilità di configurare l’accadere della volontà di potenza come origine o inizio. Nei teoreticamente densi Frammenti postumi 1888-1889, i suoi ultimi scritti prima del tracollo psichico, a cui ora ci rivolgiamo, il filosofo esprime chiaramente tale convinzione quando scrive che «in summa: un accadere non è né causato né causante»88, in modo che se non presuppone un fondamento di cui sarebbe manifestazione, dispiegamento, “dischiusura” o “schiudimento”, neanche si pone come un inizio capace di garantire dominio o controllo sull’insieme che da esso trae origine. Un insieme che

87. Ivi, n. 9 [75], p. 34. 88. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [98], p. 65.

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è e permane relazionale, e che per questo non pochi problemi crea alla ragione. La relazione impone infatti alla ragione un pensiero in cui a divenire costitutiva è l’esigenza per la filosofia di reimpostare i propri parametri rispetto a quelli codificati dalla metafisica. Un pensiero della relazione che pensa la relazione sostando all’interno di essa, e di cui non elude il proprio costitutivo esserne. Un pensiero che non perde di vista il proprio radicamento (Herkunft) pur abitando la distanza da esso, in quanto riconosce il condizionamento che subisce da ciò che ne garantisce la possibilità, e che pertanto si muove con cautela sul confine duplice dell’appartenere e del differire. Un pensiero della relazione che, pur consapevole che ogni pensiero in generale non può non presentarsi che attraverso un pensiero determinato, non ambisce tuttavia a porsi come il pensiero della relazione, quasi fosse la relazione stessa a pensarsi attraverso tale determinato pensiero della relazione. Da ciò scaturisce per la filosofia l’esigenza di una interrogazione89 che, nell’interrogare, interroga anche se stessa dall’interno di tale specifica interrogazione: come domanda che, mentre si pone, dall’interno del suo porsi, mette in questione le proprie possibilità di domandare e gli strumenti che utilizza per farlo. Un pensiero della relazione, inoltre, che in quanto tale individua nella molteplicità e nella casualità i propri parametri di riferimento, e richiede dunque una trasformazione dello sguardo filosofico tale da consentire ad un pensiero singolare di rendere conto del carattere plurale di ciò a cui si rivolge e 89. Ben prima di Heidegger, Nietzsche ha infatti in qualche modo intuito per la filosofia l’esigenza di distinguere tra “interrogazione” (Frage) e semplice “proposizione interrogativa” (Fragesatz), nell’intento di evidenziare ciò che fa di una domanda proprio una domanda (cfr. Heidegger M., Einführung in die Metaphysik, Tübingen, 1953; tr. it. Introduzione alla metafisica, Milano, 1968, p. 33).

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da cui trae origine. Contro la solidità monistica e rappresentativa del theoréin, il compito sarà pertanto quello di imparare a vedere «da cento occhi», assumendo che si sta vedendo, mentre si sta vedendo, da dove e attraverso quale mezzo si sta vedendo, per poter così riuscire a «vedere quel che è»90, cioè abituare «l’occhio alla pacatezza, alla pazienza, al lasciar-venire-a-sé»: potremmo dire, a lasciar-essere il dato senza voler dominare «il caso particolare da tutti i lati»91 costringendolo entro la sfera di semplificazione e «falsificazione» propria della conoscenza. In tal guisa, si comprenderà che nell’«imparare a vedere […] l’essenziale è appunto non “volere”, saper differire la decisione»92, e emergerà che «la natura è il caso»93, poiché «“le cose” non si comportano con regolarità, non secondo una regola». Anzi, apparirà chiaro che «non ci sono cose (si tratta di una nostra finzione)», e «altrettanto poco si conformano a una costrizione di necessità»94. Il concetto di “cosa” non è altro che il risultato di un «feticismo» che «crede alla volontà come essere, all’io come sostanza, e proietta la fede nell’io come sostanza in tutte le cose – soltanto in tal modo crea il concetto “cosa”»95, come conseguenza della fissazione del divenire nell’essere. E se alla base, «al principio» di tutta questa falsificazione del mondo vero in mondo apparente96, «sta l’errore, grandemente funesto, che la volontà sia qualcosa di agente,

90. Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 112. 91. Ivi, p. 105. 92. Ibidem. 93. Ivi, p. 112. 94. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [79], p. 47. 95. Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 72. 96. Cfr. ivi, pp. 69-76.

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che la volontà sia una facoltà», noi tuttavia «oggi sappiamo che essa è soltanto una parola…»97. Tali parole del Crepuscolo degli idoli, che abbiamo visto citate da Heidegger con notevole perplessità, in quanto scardinano la struttura “antropomorfica” che egli intende rinvenire nella meditazione di Nietzsche, e sottraggono il discorso ad una prospettiva soggettivista in quanto, al contrario, ne discutono proprio il carattere rappresentativo, ci conducono nel cuore delle ultime riflessioni del filosofo di Röcken sull’accadere e sul suo rapporto con l’essere e il divenire. Se ormai è assodato che per Nietzsche, come Eraclito aveva già intravisto, «l’essere è una vuota finzione», in modo che il «“mondo apparente”», quello testimoniato dai sensi, che «non ingannano» in quanto «ci mostrano il divenire, lo scorrere, il cangiamento», «è l’unico mondo», mentre «il “vero mondo”», quello che sostiene «la menzogna dell’unità, la menzogna della cosalità, della sostanza, della durata»98 non esiste nella realtà99, poiché «è solo un’aggiunta mendace…»100, allora sarà il divenire l’orizzonte da cui partire al fine di comprendere la struttura e la dinamica dell’accadere, senza però identificare i due termini, ricadendo così in una delle due risposte iniziali alla «domanda-guida» della filosofia. L’intento sarà così quello di scorgere nell’accadere una sfera genealogicamente anteriore all’essere e allo stesso divenire, che si modula secondo i parametri imposti dalla dinamica di relazione propria delle volontà di potenza, in cui si struttura la 97. Ivi, p. 72. 98. Ivi, p. 70. 99. «Della realtà era stata fatta un’“apparenza”; un mondo completamente inventato, quello dell’essere, era stato fatto realtà…» (Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., p. 176). 100. Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 70.

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tessitura delle forze, e che per Nietzsche si modula secondo i caratteri dell’eterno ritorno, che negli ultimi scritti, in particolare nei Frammenti postumi 1888-1889, accentua i parametri antirappresentativi e antitotalizzanti richiesti dalla concezione plurale delle volontà di potenza. Si tratterà così di indagare in che modo la torsione dell’eterno ritorno nella volontà di potenza si ripercuote, di rimando, sulla dottrina dell’eterno ritorno, in modo da verificare se, facendo reagire i temi accadere/volontà-di-potenza/forza, sia possibile aggiungere “tasselli” alla problematizzazione della riconduzione del pensiero di Nietzsche ai cardini propri della «metafisica tradizionale».

3. Pensare la relazione: l’interpretazione Nietzsche approfondisce la propria riflessione sui capisaldi della metafisica erodendone i presupposti di fondo, fino a pervenire ad uno stato in cui la ragione si trova nell’impossibilità di procedere in quanto inibita dalla difficoltà in cui incorre chi pone il pensiero stesso come tema e condizione di possibilità del proprio pensare. Ciò significa che egli ha piena consapevolezza del fatto che perseguire un cammino antimetafisico comporterebbe l’abbandono radicale di ogni categoriale al fine di non incorrere nel «feticismo» del linguaggio che condiziona la ragione stessa101; si tratta di una difficoltà in cui si vengono a trovare tutti coloro che della metafisica occidentale hanno voluto indagare e problematizzare i fondamenti.

101. «Il linguaggio, quanto alla sua origine, appartiene all’epoca della più rudimentale forma di psicologia: noi entriamo in un grossolano feticismo se acquistiamo consapevolezza dei presupposti fondamentali della metafisica del linguaggio, ossia, per esprimerci chiaramente, della ragione» (Ivi, cit., p. 72).

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Ne deriva che i termini della lettura della “metafisicità” del pensiero di Nietzsche lasciano spazio a notevoli perplessità, considerando gli sviluppi del pensiero di Nietzsche che qui abbiamo ricostruito. Perplessità che si nutrono della “decostruzione” operata da Nietzsche di tutte le categorie che sorreggono l’interpretazione “antropomorfica” avanzata da Heidegger (soggetto, volontà, causa/effetto, creazione, essere, cosa/ente…), ma che concernono la struttura stessa dell’eterno ritorno nel suo rapporto con la volontà di potenza. Se infatti si attesta l’idea che la volontà di potenza rappresenti una evoluzione, un approfondimento, se non una vera e propria Verwindung teoretica dell’eterno ritorno, in quanto suo presupposto che ne impedisce l’assunzione di un carattere rappresentativo, allora sarà qui che dovremo concentrarci al fine di comprendere come la volontà di potenza non sia da riferirsi ad una visione del mondo che conclude nell’essere come fissazione del divenire nella “cosalità” dell’ente102, bensì alla sfera stessa dell’accadere come relazione. Il che significa che se una diversità tra il percorso di Nietzsche e quello della metafisica esiste, ciò sarà da attribuirsi al tentativo del filosofo di Röcken di muoversi da una metafisica della sostanza verso una sorta di “archi-ontologia”103 della relazione,

102. «Se il mondo avesse uno scopo, questo sarebbe già stato raggiunto. […] Se fosse in genere capace di un persistere e fissarsi, di un “essere”, se avesse solo per un momento in tutto il suo divenire questa capacità dell’“essere”, sarebbe di nuovo da un pezzo giunto alla fine di ogni divenire, e quindi anche di ogni pensare, di ogni “spirito”» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, n. 36 [15], p. 233). 103. Decliniamo qui in sede ontologica una proposta lessicale di Derrida che, discutendo di tematiche etiche, propone di utilizzare il prefisso «“archi-”» per indicare genealogicamente un qualcosa di più profondo di un semplice «arretramento dietro» («credo debba esservi in Nietzsche un rapporto alla legge – ovviamente non ciò che viene chiamata “la legge morale” – che assume la forma di un arretramento dietro l’etico al fine di

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anteriore e più originaria della stessa «falsificazione» “ontologica” della relazione nella sostanza. Laddove l’accadere del «qualcosa» viene approcciato in termini diversi sia dall’essere, sia dal divenire stesso, quest’ultimo sempre suscettibile di un processo di entificazione: di venire ri(con)dotto dalla conoscenza alla reificazione, alla cosalizzazione. In uno degli ultimi schizzi preparatori all’opera (mai conclusa) La volontà di potenza. Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori, il filosofo precisa che «la volontà di potenza non è un essere, non un divenire, ma un pathos, è il fatto elementarissimo da cui soltanto risulta un divenire, un agire…»104, dunque un essereaffetto delle forze da cui discendono poi il divenire e l’agire. La volontà di potenza indica dunque qualcosa di più profondo del divenire stesso, un «fatto elementarissimo», poiché lo precede così come precede l’essere: va intesa come accadere, che prima di mostrarsi alla conoscenza in termini di sostanza (il «che è» dell’essere), si pone come mera relazione tra le potenze, una relazione determinata dal caso, e dunque non riconducibile ad alcun principio. Una relazione il cui “pensiero” è compito della ragione imparare a pensare, e dunque, in quanto essa stessa volontà di potenza, reimparare a vivere nel pensiero e tramite il pensiero. Ora, la volontà di potenza come «nuova interpretazione dell’accadere» si ripercuote sulla dottrina dell’eterno ritorno accentuandone il carattere antirappresentativo, nel mantenere sempre aperto lo spazio della relazione come carattere ultimo del ritornare: a ritornare è sempre la relazione. In questo modo, Nietzsche prende le distanze da un atteggiamento spiegarlo. Definirei questo gesto di pensiero “archi-etico”. […] In quanto “genealogia”, il gesto di Nietzsche non può mancare di ri-affermare o promettere qualcosa che potremmo chiamare archi-etico o ultra-etico»: Derrida J., Nietzsche e la macchina, cit., p. 40). 104. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [79], p. 50.

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genericamente metafisico in quanto non si può più parlare né di ente né di essere, né di una loro «conservazione» ai fini del «superpotenziamento», bensì unicamente di relazione tra potenze e del loro accadere come scariche di energia. Ciò è possibile, spiega il filosofo, se osserviamo con attenzione la visione del mondo come insieme di forze e del loro rapporto, che va oltre la «finzione» rappresentata dagli «atomi»105. Se infatti prendiamo atto che l’idea dell’esistenza nel mondo di “cose” ci deriva dalla trasposizione nel mondo della parvenza di unità che riconosciamo al nostro io, allora, se abbandoniamo il «pregiudizio dei sensi» che deriva dal «pregiudizio psicologico», non ci troviamo più di fronte a delle “cose” bensì, ricordiamolo, a «quanti di potenza (Macht-Quanta)», «quanti di energia (Kraft-Quanta)»106. Nel dettaglio, ci troviamo di fronte a «dei quanti dinamici, in un rapporto di tensione con tutti gli altri quanti dinamici: la cui essenza consiste nella loro relazione con tutti gli altri quanti, nel loro “agire” su di loro»107, in modo che l’individuazione viene determinata dalla relazione dominante-dominato, su cui interviene l’essereaffetto, il «pathos» della volontà di potenza: «se A agisce su

105. «I fisici credono a lor modo in un “mondo vero”: un sistema atomico fisso, uguale per tutti gli esseri, con movimenti necessari – sicché per essi il “mondo apparente” si riduce al lato, accessibile ad ogni essere a modo suo, dell’essere universale e universalmente necessario (accessibile e anche accomodato – reso “soggettivo”). Ma in ciò si ingannano: l’atomo che essi postulano è ricavato dalla logica del prospettivismo della coscienza ed è pertanto esso stesso una finzione soggettiva» (ivi, n. 14 [186], p. 162). 106. Ivi, n.14 [79], p. 47 e n. 14 [81], p. 52. Già nella Genealogia della morale aveva spiegato che «un quantum di forza è esattamente un tale quantum di istinti, di volontà, d’attività – anzi esso non è precisamente null’altro che questi istinti, questa volontà, quest’attività stessa» (Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 244). 107. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [79], pp. 4950.

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B, solo allora A è localizzato, separato da B»108. Il che non va inteso, ovviamente, in termini definitivi o ultimativi, in quanto i poli che si relazionano restano appunto tali, poli-in-relazione (in modo che il rapporto può subire un rovesciamento, se si modificano i rapporti di forza tra gli estremi), e neanche in termini causali, in quanto «nel credere alla causa e all’effetto si dimentica sempre la cosa principale: l’accadimento stesso»109, poiché «causa è una facoltà di produrre effetti, inventata e aggiunta all’accadere…», e ciò spiega perché «l’interpretazione della causalità è un’illusione…»110. L’accadere invece è pura relazione casuale, e il mondo è da concepirsi come un «mondo di relazione», al di là di ogni paradigma della sostanzialità dell’essere. Il mondo, se si prescinde dalla nostra condizione di vivere in esso, il mondo che non abbiamo ridotto al nostro essere, alla nostra logica, e ai nostri pregiudizi psicologici, non esiste come mondo «in sé»; esso è essenzialmente mondo di relazione: ha in particolari circostanze, una faccia diversa da ogni punto diverso; il suo essere è essenzialmente diverso in ogni punto; preme su ogni punto, ogni punto gli si oppone – e queste addizioni sono in ogni caso del tutto incongruenti111.

La struttura relazionale del mondo è una intuizione già presente in Nietzsche da diverso tempo, addirittura fin dal 1880 («il mondo, dunque, è per noi la somma delle relazioni rispetto a una sfera limitata di ipotesi fondamentalmente erronee»112),

108. Ivi, n. 14 [80], p. 50. 109. Ivi, n. 14 [81], p. 52. 110. Ivi, n. 14 [98], p. 65. 111. Ivi, n. 14 [93], p. 61. 112. Si tratta di un lungo e articolato frammento dell’autunno 1880 dedicato al tema della conoscenza: cfr. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1879-1881, cit., n. 6, [441], p. 520.

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ma che per essa soltanto nella riflessione più matura, in seno allo scenario archi-ontologico inaugurato dal moto di affermazione-negazione proprio delle volontà di potenza, egli trova gli spazi teoretici necessari a chiarificarne il senso all’interno di un più generale pensiero della relazione. Diviene così possibile comprendere meglio l’identificazione tra “mondo” e “volontà di potenza” avanzata dal filosofo nel frammento del 1885 più volte richiamato: se infatti «questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro!», e dato che il mondo «è essenzialmente mondo di relazione», ne consegue che la volontà di potenza si pone come struttura relazionale e non sostanziale dell’accadere, in modo che «la teoria di una volontà-potenza svolgentesi in ogni accadere»113 impedisce ogni riconduzione a una essentia o a qualsivoglia principio metafisico. Nella relazione infatti è la potenza a prevalere sull’essenza, in modo che «la misura di potenza determina quale essere ha l’altra misura di potenza: sotto quale forma, violenza, necessitazione esso opera o resiste»114. Tutti gli individui inorganici e organici, incluso l’uomo, sono concepiti come interpretazioni risultanti dell’eterno riproporsi della relazione tra le volontà di potenza di cui il mondo si struttura, del loro contrasto e della resistenza al contrasto che esercitano. Nello specifico, la relazione in seno alla volontà di potenza del vivente, dal «protoplasma» all’uomo, si qualifica in senso lato come crescita, potenziamento, e vi si identifica. Più da vicino, essa si pone come conflitto: la volontà di potenza «può manifestarsi solo contro delle resistenze; cerca quel che le si contrappone», e si muove in termini di affermazione sulla affermazione, e quindi in termini di «appropriazione», di «assimilazione», nel senso del «voler sopraffare», del «for-

113. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 277. 114. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [98], p. 65.

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mare», del «modellare e rimodellare», e ciò avviene «finché il vinto sia passato interamente sotto il potere dell’aggressore accrescendolo»115. Questo perche «è implicito nel concetto del vivente che esso necessariamente cresca, che allarghi la sua potenza e che quindi accolga necessariamente in sé forze estranee»116. Ciò si ripercuote sull’idea stessa di individuo biologico, a proposito del quale Nietzsche capovolge l’idea darwiniana del prevalere dell’ambiente sull’organismo imponendogli l’adattamento al fine della propria conservazione: «Darwin sopravvaluta fino all’inverosimile l’influsso delle “circostanze esterne”»117. Al contrario, egli sostiene che in realtà è l’orga115. «La volontà di potenza può manifestarsi solo contro delle resistenze; cerca quel che le si contrappone – questa la tendenza originaria del protoplasma, quando mette fuori pseudopodi e si tasta intorno. L’appropriazione e l’assimilazione è anzitutto un voler sopraffare, un formare, un modellare e rimodellare, finchè il vinto sia passato interamente sotto il potere dell’aggressore accrescendolo» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [151], p. 77). 116. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [192], p. 167. 117. Cfr. il frammento intitolato “Contro il darwinismo” (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 7 [25], pp. 289-290), e quello intitolato “Anti-Darwin” (Id., Crepuscolo degli idoli, n. 14, p. 117). Nietzsche si dimostra sempre piuttosto critico nei confronti dell’evoluzionismo darwiniano, al cui moto cerca di sottrarre l’interpretazione dello Übermensch, anche se, come spiega la Fornari, «è vero però che Nietzsche accoglie senz’altro le suggestioni del darwinismo, operandone un’originale e significativa trasposizione culturale, in vista di un suo radicale superamento» (Fornari M. C., Superuomo ed evoluzione, in Totaro F., a cura di, Nietzsche e la provocazione del superuomo. Per un’etica della misura, Carocci, Roma, 2004, pp. 45-66, p. 57). In particolare, in opposizione al darwinismo, sempre la Fornari rileva che Nietzsche «precisa il suo concetto di vita come dissipazione, ma soprattutto in che senso egli intenda la cosiddetta battaglia per l’esistenza» (Fornari M. C., La morale evolutiva del gregge. Nietzsche legge Spencer e Mill, Ets, Pisa, 2006, pp. 325-326). Evoluzionismo darwiniano che arriva a Nietzsche mediato, in ambito morale, dalla frequentazione di Rée, del quale, dopo l’entusiasmo iniziale, criticherà duramente i presupposti naturalistici nell’osservazione della nascita degli istinti morali. Ma anche in seguito

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nismo a dominare l’ambiente attraverso la volontà di potenza, la quale opera semplificando la «separazione», in modo che in una unità apparente viene occultata una «complicatezza» effettiva del risultato dell’evoluzione inteso come governo e dominio di ciò che è separato, e si mantiene in uno stato di tensione, di contrasto, che però non emerge, non si mostra, viene occultato dalla semplificazione conclusiva. È questo il modo in cui «la volontà di potenza interpreta», in quanto «la formazione di un organo» si pone come «una interpretazione» di «gradi», «confini», «diversità di potenza»; e sebbene diverse gradazioni di potenza «non potrebbero ancora sentire se stesse come tali», ciò implica che «ci dev’essere qualcosa che

al distacco da Rée, Nietzsche continuerà comunque «la sua indagine sulla genesi e sulla storia dei sistemi etici, convinto che soltanto la conoscenza dell’uomo delle origini quale “animale sociale” […] possa far luce sul fenomeno imperituro della morale» (ivi, p. 122) rivolgendosi al pensiero evoluzionistico e utilitaristico di Spencer, di cui demolirà la teoria dell’adattamento dell’individuo alla società, responsabile del principale istinto che sta alla base della nascita della morale: l’«istinto gregario» o «istinto del gregge» (Heerdeninstinkt), basato sulla paura (ivi, p. 162), e di Mill, del quale giudicherà invece «impossibile» una «morale dell’altruismo», e di cui dunque contesterà l’idea di «una felicità universale […] che aspira all’uguaglianza di tutti con tutti» (ivi, pp. 236, 270). Si noti comunque che il confronto con il darwinismo e con le sue “diramazioni” morali di stampo anglosassone non rappresentano per il filosofo di Röcken un riferimento marginale e improduttivo; sempre la Fornari rileva infatti che al di là della «critica di certi aspetti e generalizzazioni del darwinismo», Nietzsche «parte da qui per mettere progressivamente in crisi i forti residui metafisici e i presupposti morali, non rivelati, presenti nelle stesse ricerche di storia del costume e della morale» (ivi, p.13), fino a caratterizzare il sorgere e il definirsi del suo più generale metodo genealogico. In particolare, ci preme rilevare che non pochi sono gli influssi che Nietzsche trae da Mill (e dalla sua presentazione del pensiero di Tocqueville), in merito alla «discussione critica dell’affermarsi delle tendenze democratiche» e, soprattutto, alla «valutazione del peso assegnato all’individuo in rapporto alla massa» (ivi, p. 221), elementi su cui ci concentreremo più avanti, in conclusione (cfr. infra, cap. VI).

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voglia crescere e che interpreti sul suo valore ogni altra cosa che voglia crescere»118. Secondo Nietzsche l’«interpretare» della volontà di potenza non è da ricondursi ad un chi dell’interpretazione, ed è da intendersi, come si è visto, «non come un “essere”, bensì come un processo, un divenire»119, in modo che non si perviene alla fissazione, alla stabilizzazione conclusiva di un “ente” o della verità, in quanto permane aperta la processualità dell’interpretazione, la sua possibile ulteriore definizione nell’eterno ritornare della relazione che la struttura. È lo stesso principio della «durata» a venir messo in discussione. E ciò significa che, andando oltre l’apparenza sensibile, la volontà di potenza segna la cifra dell’accadere che è sempre accadere di un «qualcosa», della relazione casuale tra le volontà di potenza che si affermano opponendosi conflittualmente nel grado di potenza/resistenza che riescono ad esprimere, e nello stato di tensione che riescono a esporre, grazie all’opera di provvisoria interpretazione di «complessi dell’accadere, apparentemente duraturi in relazione ad altri complessi»120. Da qui, in seguito, la conoscenza deriva, per necessità relative alla conservazione della vita, sia l’essenza dell’ente, della cosa121, sia l’idea stessa

118. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 2 [148], p. 126. 119. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 2 [151], p. 127. 120. «La durata, il restare uguale a sé, l’essere non ineriscono né a ciò che si chiama soggetto, né a ciò che si chiama oggetto: sono complessi dell’accadere, apparentemente duraturi in relazione ad altri complessi – cioè per esempio attraverso una diversità nel ritmo dell’accadere (quiete-movimento, denso-rado: tutte antitesi che non esistono in sé e con cui effettivamente si esprimono solo diversità di grado, che si presentano come antitesi per una certa misura prospettica)» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [91], p. 42). 121. «La genesi delle “cose” è in tutto e per tutto opera degli esseri che formano rappresentazioni, pensano, vogliono, sentono» (Nietzsche Fr., Fram-

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di “essere”, la sua «illusione». Il dato ultimo dell’“essere” va a configurarsi pertanto in termini relazionali, precedendo ogni ipotesi funzionale sulla sostanza e sulla presenza. Viene dunque superata l’idea stessa di “ente” e quella di “essere” ma non, come vorrebbe Heidegger, in quanto di quest’ultimo si raggiunge l’oblio assoluto come compimento della metafisica, ma in quanto Nietzsche ne scardina intimamente i presupposti: il che significa che continuare a parlare di “essere” in qualunque forma significa permanere all’interno della metafisica. Metafisica da cui Nietzsche prova a prendere le distanze nel vanificare ogni riferimento ad un qualsivoglia principio per definire l’accadere della volontà di potenza: «se qualcosa avviene così e non altrimenti, in ciò non c’è nessun “principio”, nessuna “legge”, nessun “ordine”»122. È infatti il caso a determinare la relazione e l’incontro tra le volontà di potenza, da cui scaturisce l’interpretazione che qualifica tale relazione nell’individuo. Volontà di potenza che non diventano, a loro volta, comunque mai un principio: è la loro struttura non sostanziale e relazionale a impedirle di porsi come ens metaphysicum o Ürsprung del reale, in base al fatto che, come è stato detto, «l’idea dei quanta di volontà di potenza distrugge l’idea di una volontà di potenza come principio unico, come ens metaphysicum»123. Il legame casuale che si instaura tra la molteplicità di forze che si relazionano viene descritto così in termini di “interpretazione”, cioè organizzazione provvisoria della molteplicità delle potenze in una unità semantica sempre rimodulabile in base al loro moto inarrestabile, e non dunque in seno ad un processo di fondazione ultima e definitiva. Ed è per questo motivo che

menti postumi 1885-1887, cit., n. 2 [152], p. 127). 122. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [81], pp. 5152. 123. Gentili C., Nietzsche, cit., p. 358.

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l’archi-ontologia della relazione motiva il prospettivismo di cui si nutre la riflessione di Nietzsche, in quanto «ogni centro di forza ha per tutto il resto la sua prospettiva», in modo che «la realtà consiste esattamente in questa azione e reazione particolare di ogni individuo verso il tutto»124. La relazione impone infatti al “soggetto” l’interpretazione, in modo che si chiarisce altresì la questione del prospettivismo nietzscheano. Heidegger rileva la notazione de La gaia scienza quando il filosofo sottolinea che «non possiamo girare con lo sguardo il nostro angolo»125 e ne deduce che, nel riconoscere la prospetticità di ogni visione, Nietzsche si stia tuttavia però collocando nel «punto di vista dell’assenza di punti di vista», in modo che l’«aut-aut» di fronte al quale egli si trova consiste nello scegliere tra la rinuncia all’antropomorfizzazione dell’ente, e dunque pervenire alla possibilità di «cogliere l’essenza del mondo da una posizione all’infuori di ogni angolo», oppure all’accettazione dell’inevitabile rinuncia a un «coglimento non antropomorfico della totalità del mondo»126. Ancora una volta dunque il pensiero di Nietzsche viene ricondotto da Heidegger alla rappresentazione, essendo lo stesso prospettivismo una rappresentazione. Senonchè, per un verso, 124. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [184], p. 160. 125. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 374, p. 298. Cfr. Heidegger M., Nietzsche, cit., pp. 316-319. 126. Secondo Heidegger, «Nietzsche si decide per la fusione delle due volontà», sia «per la volontà di disantropomorfizzare l’ente nel suo insieme», sia «per la volontà di prendere sul serio l’essenza dell’uomo come colui che sta in un angolo», in modo che egli «esige, in uno, la suprema antropomorfizzazione dell’ente e l’estrema naturalizzazione dell’uomo», laddove questo si traduce, in fin dei conti, nel rendere «decisivo da quale angolo l’uomo veda, e da dove l’angolo si determini nel suo luogo» e, in particolare, «diventa soprattutto decisivo se e come, nella determinazione del luogo dell’angolo in cui l’uomo necessariamente viene a stare, parli in maniera determinante quella prospettiva sull’ente nel suo insieme» (ivi, cit., pp. 317-318).

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continuando a leggere il passo de La gaia scienza in questione, si nota che il filosofo di Röcken precisa subito che «oggi per lo meno siamo lontani dalla ridicola presunzione di decretare dal nostro angolo che solo a partire da questo angolo si possono avere prospettive», poiché essendo il mondo «divenuto per noi ancora una volta “infinito”», pertanto «non possiamo sottrarci alla possibilità che esso racchiuda in sé interpretazioni infinite»127. Per Nietzsche tutte le volontà di potenza interpretano, in modo che risulta non pertinente la domanda sul chi interpreta, mentre si impone la questione del comprendere il «processo» dell’interpretare. Un processo, in cui l’interpretazione che provvisoriamente si impone è quella che ha più potenza, che esprime più forza, nel quadro di una gerarchia che però può essere sovvertita dal mutare della relazione tra le forze. Nietzsche ha ben chiaro che lo stesso prospettivismo rientra all’interno di ciò a cui si riferisce, in modo che egli pensa il prospettivismo mentre lo sta pensando, dal suo interno e attraverso di esso. Ne consegue che se da una parte il rilevare il posizionamento dell’uomo in un «angolo» è funzionale a sottolineare l’ineludibile carattere di finitezza e storicità del suo pensare, come pensiero definito e temporalmente determinato che si rivolge al pensare in generale, dall’altra l’obiettivo è quello di ribadire la necessità per la filosofia di assumere un punto di vista molteplice, plurale, non sostanziale ma relazionale: quello dei «cento occhi», appunto. Un punto di vista consapevole che mentre guarda, riconosce che sta guardando e prende atto del condizionamento che subisce dal mezzo che utilizza per guardare. Ancora. L’interpretare considerato in seno alla volontà di potenza se da una parte mostra che essa non si pone rispetto alla caoticità di forze esistenti in termini di fondazione, bensì di

127. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 374, p. 298.

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modulazione, dall’altra fa capire che essa, nell’unità individuale interpretata, non pretende di sopprimere una volta per tutte la «complicatezza» della contingenza da cui nasce e a cui si rivolge. E sebbene tale «complicatezza» risulti occultata dalla semplificazione finale offerta dall’interpretazione avanzata, ciò non toglie che essa permanga ben viva e conflittuale al di sotto e al di dentro dell’interpretato, sempre pronta a riemergere e disponibile a un’altra interpretazione, consequenzialmente al ritornare del riconfigurarsi del nodo di relazioni cui appartiene o ad altre possibili. In questo senso, il molteplice relazionale/conflittuale della contingenza non viene a perdersi nell’orizzonte ordinato dell’idea, ma continua a far sentire i propri effetti e a spingere in avanti la conoscenza, verso una interpretazione ulteriore. La volontà di potenza si pone così non come “principio”, ma come possibilità del rinvio, del rimando, dell’apertura all’ulteriorità dell’interpretare, che qui trova la propria ragion d’essere nel ritorno della relazione. Ora, a ben guardare, tale prospettivismo “consapevole”, che testimonia il limite ultimo a cui Nietzsche conduce la sua disamina antimetafisica, non elude comunque due interrogativi di fondo che affiorano da quanto visto, entrambi esposti al rischio di involuzione metafisica. Il primo, più generale, concerne il riconoscimento che proprio le relatività di tutte le interpretazioni può ritorcersi contro lo stesso prospettivismo, qualificandolo appunto come una prospettiva tra le tante possibili. Nietzsche dimostra di essere conscio che questa conclusione rientra all’interno di ciò che essa determina, quando ammette che anche la sua, in fin dei conti, è una «concezione» del mondo, una struttura di pensiero che si rivolge al mondo, ma che consente però di sopportare la vita permanendo sulla soglia estrema del nichilismo. Nello stesso frammento in cui descrive il mondo come «mondo di relazione», a sottolineare la centralità che esso riveste nello svolgersi del suo pensiero, egli riconosce che «il nostro caso singolo è abbastanza inte-

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ressante: abbiamo costruito una concezione per poter vivere in un mondo, per percepire appunto tanto da farcela ancora a reggere…»128. La risposta a questo primo interrogativo andrà dunque ricercata nel radicamento dell’uomo nella palude: essendo tutto il mondo non altro che un sistema di relazioni interpretative tra le volontà di potenza nella loro natura molteplice, l’uomo, in quanto egli stesso volontà di potenza, appare come un essere interpretante/interpretato in cui confluiscono i molteplici stimoli interpretativi della sfera inorganica ed organica. Non esiste infatti prima un “soggetto” che poi interpreta, bensì l’interpretare è consustanziale all’uomo come sintesi del suo esserne delle volontà di potenza. Di conseguenza, poiché l’interpretazione, come forma eminente di pensiero della relazione, nasce in seno alla relazione tra le forze e ne mantiene la struttura, testimonia così un qualcosa che ha un’origine che precede l’uomo. In quanto volontà di potenza, l’uomo interpreta, poiché partecipa del moto continuo di relazione tra le volontà di potenza, ma il suo interpretare è parallelo all’essere interpretato: il moto casuale delle volontà permane in lui e continua attraverso di lui, in modo che nell’esserne della relazione tra le volontà di potenza, ne è egli stesso interpretato. In tal guisa, l’interpretazione è un evento che accade in lui e di cui partecipa, di cui ne è, senza peraltro poterne individuare un’origine certa: un accadimento interno al flusso del più generale accadere, di cui l’uomo non dispone nella sua interezza, e questo motiva il carattere donativo della decisione che Nietzsche ha già rilevato, e su cui tra breve ritorneremo al fine di svilupparne meglio le implicazioni. Prima è necessario però soffermarsi sui problemi che sorgono laddove un determinato pensiero della relazione che pensa la relazione, pur rifuggendo ab initio da tale intenzione, rischia

128. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [93], p. 61.

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tuttavia di proporsi come il pensiero della relazione, che si origina da se stessa e si pensa attraverso tale specifico pensiero della relazione. Per quanto concerne il secondo interrogativo che affiora in controluce dal discorso nietzscheano, consequenziale al primo ma forse più profondo, si annuncia così il problema filosofico di come un’affermazione singolare («il nostro caso singolo»), di come cioè un pensiero della relazione (quello dell’“uomo Nietzsche”) finisca per ambire ad esporre il pensiero della relazione: in definitiva, di come un pensiero particolare riveli, in qualche modo, pretese di rappresentare il pensiero in generale. Nietzsche avverte questo rischio, e ha consapevolezza del percorso estremo che sta compiendo, nel tentativo di spingere la ragione sul limite ultimo delle sue possibilità, e ciò lo spinge a riflettere su come il pensiero possa pensare anche se stesso in quanto pensiero che pensa il mondo mentre pensa il mondo permanendo in esso, cercando altresì di non restare imbrigliato nella rete della rappresentazione, e dunque cedere alle tentazioni dell’universale. Si tratta di una questione rilevante, che per Nietzsche si ripercuote sulla filosofia e sulle sue stesse condizioni di esistenza. Una questione che emerge proprio laddove si specificano le difficoltà della ragione nel rapportarsi alla relazione, fluidificandone la struttura al fine di impedirne una involuzione metafisico-trascendentale, in modo da riuscire a rapportarsi all’accadere senza sostanzializzarlo in una qualche di “metafisica della relazione”. Si tratta di un interrogativo a cui cerca di rispondere la dottrina dell’eterno ritorno.

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4. Il ritorno dell’onda Come abbiamo già rilevato, per Nietzsche l’«accadere non è né causato né causante»129, ed è pertanto da tale assunto di base che si deve provare a ripensare il rapporto tra volontà di potenza ed eterno ritorno. Seguendo l’ordine dei Frammenti postumi 1888-1889, ci troviamo ormai in condizione di guardare all’eterno ritorno in un’ottica diversa dalla considerazione heideggeriana di «modo d’essere» dell’ente. Se infatti teniamo per ferma l’idea nietzscheana che l’ente, la cosa, e tantomeno la «cosa in sé», in realtà “non esiste”, non è ma simboleggia una rappresentazione prospettica derivante dal nostro bisogno di «schematizzare», di «imporre al caos tutta la regolarità e tutte le forme necessarie per soddisfare il nostro bisogno pratico»130 di sussidio alla vita131, altrettanto dovremo dire del suo «modo d’essere»: la relazione non può né “essere”, né “divenire”, bensì può, al limite, accadere, esporsi nelle “scariche” di energie. Ed è qui che si delinea il senso ultimo della dottrina dell’eterno ritorno come riproporsi eterno dell’anelito relazionale sostenuto dalla teoria della volontà di potenza, la quale, in questo senso, può costituirsi come suo presupposto, laddove la natura evenemenziale dell’accadere si coniuga a quella eventuale dell’interpretazione, e viene sottolineata e ribadita in seno ad una visione esegetica che ne sancisce, proponiamo noi facendoci aiutare, il carattere di «evento d’eccezione»132 rispetto ad una regolarità presunta e pretesa dalle esigenze del-

129. Ivi, n. 14 [98], p. 65. 130. Ivi, n. 14 [152], p. 122. 131. «Logicizzazione, razionalizzazione, sistematizzazione come sussidi alla vita» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [91], p. 43). 132. Cfr. Meazza C., L’evento esposto come evento d’eccezione. Materiali per un pensiero neocritico, II edizione ampliata, InSchibboleth, Roma, 2014.

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la ragione. La combinazione tra volontà e potenza (in modo che la volontà non è da intendersi dunque come “desiderio”), e il suo accostamento alla sfera della relazione e dell’accadere, inaugura un cammino nietzscheano per certi versi inesplorato, tutto da percorrere, e di cui proviamo a indicare le coordinate. Un cammino teoretico impervio e difficile, e che si basa sull’intenzione di sottrarre il pensiero alle griglie rappresentative della ragione per rendere conto dell’accadere come relazione: la ricerca è tesa a pervenire ad una interpretazione dell’evento oggettivo che non ne occulti l’immediatezza senza cadere nella mediazione a cui la filosofia, e la ragione in genere, inevitabilmente ricorrono e in cui restano imbrigliate. Compito arduo, perché a tal fine la filosofia dovrebbe, come è stato detto, «compiere un passo estremo: autoavvertirsi di costituire non la via privilegiata per l’impensabile ma il suo ostacolo più tenace». Se questo deve comportare la “fine” del pensiero e della stessa filosofia in quanto ineludibile “velamento” dell’immediato, allora Nietzsche è disposto anche ad accettarlo. La filosofia deve sapere farla finita con sé, deve sapersi finire, sapersi in una certa fine. Forse è questa una delle eredità di Nietzsche che si impongono come la grazia di una speciale lucidità. Praticarsi in una certa fine non significa l’impegno nella triste retorica dell’elaborazione di un lutto. Praticare la fine significa raggiungere l’idea che l’impensato, come l’aperto già sempre ritratto senza venir meno, costituisce il sogno della filosofia. Il suo sogno, non il suo delirio, poiché quest’ultimo ha a che fare con la hybris dell’inattingibile133.

L’attenzione va dunque posta sulle modalità di accesso all’accadere nella sua “purezza” relazionale, di fronte al paradosso della sua inattingibilità, senza interferenze da parte di quelle categorie della ragione (a cominciare dalla “sostanza”, per fini133. Ivi, pp. 190-191.

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re con quella stessa di “relazione”) di cui Nietzsche ha svelato la natura strumentale, funzionale alle esigenze di comprensione avanzate dalla ragione stessa. E abbiamo più volte rilevato come, in tale ottica rientri anche, e non possa non rientrare, in quanto pur sempre pensiero, seppur «abissale»134, l’eterno ritorno. Ma dato che la volontà di potenza come «fatto ultimo», appare come evento plurale e relazionale, casuale, senza fondamento, che accade in seno alla natura, in quanto suo presupposto si ripercuote sull’eterno ritorno facendolo reagire con il tema della “vita”: la vita ritorna come sempre ritornante, riproponentesi, poiché a ritornare è il ritorno stesso del mondo in quanto sistema, tessuto di relazioni. Lo sguardo di Nietzsche si orienta sull’accadere inteso come possibilità pura «che si compie in ogni attimo», e ciò implica che l’accadere è sempre uguale nel suo ritornare e, per poterlo essere, deve compiersi, esaurirsi mentre accade e nell’accadere stesso. Il che significa che il ritorno dell’accadere deve ritrarsi nell’atto stesso di ritornare, ma non nel senso di un «venir meno», bensì in quello del consumarsi nell’istante del suo accadimento o, meglio, del consumare l’istante (ogni istante) del suo accadimento, senza lasciare traccia, per consentire così, da sé, la possibilità del proprio ritorno. In tal guisa, Nancy definisce l’eterno ritorno «una struttura del presente», come presa d’atto del «passaggio» del presente135 e affermazione assoluta del suo hic et nunc, del qui e ora, che non conclude però con la «determinazione di una presenza», ma si pone come «la designazione di ciò che si dà in eccesso e/o in difetto sia del permanente e del continuo sia del progressivo e dell’evolutivo, oppure della ritenzione e del-

134. Nietzsche Fr., Così parlò Zarathustra, cit., p. 197. 135. Nancy J.-L., La pensée dérobée, Galilée, Paris, 2001; tr. it. Il pensiero sottratto, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 176.

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la proiezione, dell’inaugurale e del terminale o dell’attesa e del rinvio»136. L’eterno ritorno si pone come «l’affermazione del senso come ripetizione dell’istante, nient’altro che questa ripetizione». La circolazione procede in tutti i sensi: questa è l’idea nietzscheana dell’«eterno ritorno», l’affermazione del senso come ripetizione dell’istante, nient’altro che questa ripetizione e, di conseguenza, niente (dato che si tratta della ripetizione di ciò che essenzialmente non ritorna), ma la ripetizione già inclusa nell’affermazione dell’istante, in questa affermazione-domanda (re-petitio) afferrata nella liberazione dell’istante, che afferma il passaggio della presenza e attraversa la presenza stessa, con essa, affermazione abbandonata nel suo stesso movimento – pensiero impossibile, pensiero che non si trattiene nella circolazione che pensa, pensiero del senso attraverso il senso, della sua eternità come verità del suo passaggio137.

L’eterno ritorno è dunque la mera attestazione del ritornare del ritorno/ritiro dell’accadere relazionale in ogni istante, che qualifica appunto l’istante come questo ritorno, e dunque, per converso, l’eterno ritorno testimonia lo squadernarsi della possibilità del rinvio, del rimando ad una ulteriorità del ritorno/ritiro/rinvio in seno alla fatticità assoluta. In tal modo, continua Nancy, la dottrina del ritorno si annuncia come «il pensiero inaugurale della nostra storia, della storia contemporanea»138, poiché esso costituisce la cifra propria del nichilismo, in quanto se da una parte il nichilismo «apre su un deserto di senso», dall’altra però prospetta la possibilità del proprio superamento nel racchiudere in sé il proprio eccesso: «l’eccesso del ni-

136. Ivi, p. 23. 137. Nancy J.-L., Être singulier pluriel, Galilée, Paris, 1996; tr. it. Essere singolare plurale, Einaudi, Torino, 2001, p. 8. 138. Ibidem.

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chilismo qui vuole dire: da una parte in che modo giunge fino all’estremità terribile dell’annientamento, dall’altra parte in che modo esce da se stesso e apre su un fuori»139. Il contrasto tra i due versanti non va però inteso in termini dialettici, né in una visione teleologica di rimando dell’uno all’altro, e neppure in un “ritorno” in senso ciclico e fine a se stesso. È Nietzsche a negare che sia il nulla da doversi intendere come «compimento», in quanto «questo significherebbe ancora finire da qualche parte, e così sottrarsi al nulla del nulla»140. L’eterno ritorno non rappresenta quindi, heideggerianamente, il «modo d’essere» dell’essente, bensì l’attestazione/affermazione dell’accadere della volontà di potenza in quanto milieu di relazione, nella sua ri-petizione («re-petitio») eterna, «nient’altro che questa ripetizione». Ri-petizione che, proprio nella sua finitezza, declina la propria libertà141 nel permanere costantemente esposta all’ulteriorità insopprimibile dell’eccesso, del rinvio. Un ritorno di cui nulla garantisce a priori la possibilità. Parimenti, non abbiamo «costituzione» dell’ente ad opera della volontà, in quanto la volontà è scarica relazionale di forze vive, e non opera del soggetto. Così come non abbiamo «conservazione» dell’essentia del grado di potenza raggiunto 139. Nancy J.-L., Il pensiero sottratto cit., pp. 174-175. 140. Come si vede, dunque, la tesi heideggeriana che vede la filosofia di Nietzsche rappresentare il «compimento» della metafisica nel concludere nel nulla consequenziale al definitivo abbandono dell’essere, perde di valenza e di spessore. Il “nulla” a cui si riferisce Nietzsche si sottrae infatti alla dicotomia “essere-nulla” propria della metafisica, e in cui, per certi versi, volutamente, ancora si mantiene Heidegger. 141. «Ripetere: fare esperienza del fatto che il pensiero “metafisico” si è chiuso – e questa chiusura libera le possibilità e le richieste del pensiero finito, cioè del pensiero che riprende e rimette in gioco tutta la sua esperienza come un’esperienza della finitezza. Libertà di ripetere, liberazione nella ripetizione» (Nancy J.-L., L’expérience de la liberté, Galilée, Paris, 1988; tr. it. L’esperienza della libertà, Einaudi, Torino, 2000, p. 57, n.12).

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e relativo potenziamento, in quanto l’accadere si consuma nel suo esporsi, si confina all’istante del suo accadimento, secondo i parametri di una auto-esposizione e auto-ritrazione continua della sua origine. In questo modo, l’auto-superpotenziamento coincide con l’autoesposizione/autoritrazione e si compie in esse, si dissipa e si consuma in esse, in un senso che vede nel ritornare il contestuale ritrarsi della propria possibilità. Non troviamo qui una definizione dell’ente come “manifestazione”, “schiusura” dell’essere, in quanto la fatticità assoluta cui mira Nietzsche rivela che l’essere non è l’ente, poiché sappiamo che «l’“essere” manca» e che «ciò che “diviene”, il “fenomenale” è l’unica specie d’essere»142: come dice Nancy, «il passaggio della presenza». Potremmo dire, facendoci ancora aiutare, che l’essere «differisce dall’ente, ma differisce fino al punto da essere nient’altro che l’ente»143, l’accadere puro della volontà di potenza, come «fatto ultimo»; insistiamo ancora sul «nient’altro che». L’eterno ritorno, il «pensiero abissale», non si pone come il «modo d’essere» dell’essente e neanche come pensiero singolare con pretese universali, bensì appare come l’orizzonte, lo sfondo ermeneutico tanto umano quanto consapevole di comprensione dell’accadere della volontà di potenza come relazione tra «centri di forze» che si scaricano: uno sfondo di cui dobbiamo però tenere presente continuamente l’esposizione al rischio di cadere nella «falsificazione» conoscitiva, e di cui dunque dobbiamo chiarire la capacità regolativa, al fine di non cedere alle seduzioni della rappresentazione. Per Nietzsche il mondo può apparire come una relazione tra «quanti» di forze che si ripetono nel loro ritornare, e in tale ritorno non è possibile alcuna novità: questo è un punto fermo 142. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 7 [I], p. 239. 143. Meazza C., L’evento esposto come evento d’eccezione, cit., p. 197.

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nello sviluppo del suo discorso, e ne troviamo traccia a partire dai frammenti del 1881 fino a quelli del 1888144. Nel considerare l’accadere secondo il parametro euristico e metodologico dell’«evento d’eccezione», si tratta pertanto ora di prendere in esame la natura eccezionale dell’accadere. Notiamo innanzitutto che l’accadere non è inizio di un nuovo corso; in generale non dà inizio all’insieme che origina, proprio perché ritorna eternamente, e nel ritornare e per ritornare, deve eternamente ritrarsi nel suo eventualizzarsi come darsi del dato. Già nello Zarathustra il filosofo aveva scritto che «in ogni attimo comincia l’essere»145, in modo che il carattere evenemenziale del dato cede il carattere conservativo/iniziale dell’evento e, con esso, la sua possibilità di dominio. Ciò emerge maggiormente se trasponiamo il discorso che Nietzsche compie sul rapporto eccezione/regola al darsi dell’accadere, in modo che l’evento appare sempre eccezionale pur nel rapporto con la regolarità del suo ritornare: l’eccezione è tale se relazionata ad una regola, ed è per questo che sarà allora necessario, come egli precisa in Al di là del bene e del male, studiare «la filosofia della “regola” in lotta con l’“eccezione”», tenendo presente che l’eccezione è «fin dall’inizio in posizione sfavorevole rispetto alle “regole”»146, anche se non è vero, come precisa in un frammento del 1887, che «una specie d’eccezione muova guerra alla regola» in quanto, al contrario, «la sopravvivenza della regola è il presupposto per il valore dell’eccezione»147. Si

144. Cfr., tra i tanti luoghi, ad es., Nietzsche Fr.: Frammenti postumi 18811882, cit., n. II [213], p. 411; n. II [232], p. 416; n. II [245], p. 419; Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 36 [15], p. 233; Frammenti postumi 18881889, cit., n. 14 [188], p. 165. 145. Nietzsche Fr., Così parlò Zarathustra, cit., p. 266. 146. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 219, p. 127 e n. 253, p. 167. 147. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [158], p. 81.

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tratta di passaggi complessi nella loro specificità teoretica. Se infatti a livello generale possiamo definire l’eccezione proprio ciò che, eccedendola e differenziandosene, e proprio per il fatto che se ne differenzia, garantisce l’esistenza della regola, nel momento in cui consideriamo l’accadere come evento d’eccezione rispetto al suo eterno ritornare lo sottraiamo, per l’eccedenza a cui rimanda, alla necessità del suo stesso eventualizzarsi. Ogni regola, infatti, nel nostro caso l’eternità del ritorno, non esprime in se stessa un carattere di necessità: la sua necessità è uno schema che «noi» introduciamo, ovvero, «la necessità non è un fatto, è un’interpretazione»148. Ciò significa che l’accadere dell’evento è eccezione in seno all’eterno ritorno inteso come sua regola: avviene, ma non possiamo affermarne la necessità, è solo uno degli schemi ermeneutici possibili che il vedere «da cento occhi» ci offre. Il fatto è che per Nietzsche l’accadere va concepito il più possibile senza mediazioni, e ciò diviene possibile laddove acquisiamo che il pensiero della relazione impone la prospetticità anche dell’eterno ritorno nel suo porsi come sfondo, orizzonte, come “regola” dell’accadere: viene così problematizzata la sua stessa pretesa di pensiero singolare con valenza universale. Si tratterà allora di esaminare da vicino cosa il filosofo intende per “regola”. Al rapporto tra accadere e regola è dedicato un lungo frammento dell’autunno del 1887, intitolato “Per combattere il determinismo”, in cui il filosofo giunto ormai alla visione del mondo come insieme di quanti di potenza che si relazionano, contesta l’idea della necessità della costrizione offerta dalla regola, cioè la già criticata pretesa «formulabilità dell’accadere». La «necessità meccanica» non è un fatto: siamo noi soltanto che, nell’interpretare ciò che accade, ve l’abbiamo introdotta. Abbiamo interpretato la formulabilità dell’accadere come conseguenza di una necessità che impera al di sopra 148. Ivi, n. 9 [91], p. 41.

221 dell’accadere. Ma dal fatto che io faccia qualcosa di determinato non segue affatto che io sia costretto a farlo. Non si può dimostrare la costrizione nelle cose: la regola dimostra solo che un unico e medesimo accadimento non è anche un altro accadimento149.

È, questo, un frammento significativo, in cui Nietzsche sottolinea che l’accadere si sottrae alla necessità stessa dell’accadere, in modo che il suo ritorno assume la forma, potremmo dire, di un inizio sottratto alla necessità di iniziare. In più, si tratta di un inizio che si distingue dalla sua esposizione, si svincola da essa, in quanto nell’esporsi si ritrae, si conclude o, meglio, si consuma nell’esposizione stessa, e ciò consente la pensabilità/accettabilità del successivo ritorno, poiché mantiene sempre aperta la possibilità di ritornare: è nel suo eterno ritornare che non coincide con la realtà del suo essersi esposto, in quanto l’accadere eccede, nel senso che vi è indifferente, il suo essere ritornato, così come la possibilità di ritornare ancora. Il ritornare della relazione infatti permane esposto ad ulteriori configurazioni della relazione stessa, in modo che il suo accadere coincide con il proprio ritrarsi poiché è parallelo al suo consumarsi, cioè al saturarsi-esaurirsi nella/della specifica configurazione relazionale accaduta, che resta così sempre disponibile ad ulteriori combinazioni delle differenti dinamiche delle forze che la compongono, o all’intervenire di altre forze con cui entra in relazione. L’accadere della vita è sempre eccezione rispetto alla regola, poiché la regola stessa «dimostra solo che un unico e medesimo accadimento non è anche un altro accadimento», e pertanto non è nient’altro che tale accadimento: eccezionalità dell’accadere che nel suo ritornare/ritrarsi consente, di rimando, il ritorno stesso mentre gli impedisce, in ultima analisi, di porsi come origine, poiché fa eccezione rispetto all’insieme stesso a cui dà inizio, in quan149. Ibidem.

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to ogni combinazione di forze si esaurisce nell’individuo che determina ma può sempre ritornare di nuovo, appunto, come “combinazione”. Ci troviamo in un orizzonte teoretico ben diverso da quello della decisione d’essere e dell’“attimo” che si è soliti intravedere nello Zarathustra e che è stato diffusamente recepito come la summa della riflessione di Nietzsche sul tema. In tale prospettiva, l’“attimo” proprio della “decisione” implicherebbe la fondazione di un insieme, insomma una decisione d’essere, che nel caso del «“così volli che fosse!”» si rivolgerebbe al passato, al «“così fu”»150. Se consideriamo però la descrizione dell’interpretare come inerenza dell’uomo al moto continuo delle volontà di potenza di cui, appunto, ne è, e riprendiamo ora il frammento del 1885 che abbiamo riportato sopra, in cui il filosofo descrive l’agire dei veri filosofi come «un’azione senza scelta, quasi come un dono»151, osserviamo il delinearsi di una decisione che però ben poco ha a che fare con una decisione d’essere perché, come Nietzsche spiega in uno dei suoi ultimi scritti, «l’essenziale è appunto non “volere”, saper differire la decisione»152: accogliere l’evento senza coprirlo, imparando a vederlo «da cento occhi», e dunque prendendo atto che la nostra visione è sempre situata nonché “orientata” da ciò che ne costituisce la condizione di possibilità. La volontà di potenza indica una volontà che si riferisce sì alla volontà stessa come suo voluto, poiché si tratta di un’azione del volere sul volere, ma non come indice di un AbGrund radicale che conclude, per contrasto, con la stabilizzazione dell’essere nell’es-

150. Cfr. Nietzsche Fr., Così parlò Zarathustra, cit., “Della redenzione”, pp. 168-173, in particolare p. 172. 151. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 38 [13], pp. 294295. 152. Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit. p. 112.

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sente, dato che il voluto coincide con la volontà medesima, ma in quanto segno del prevalere della volontà sulla potenza. Potenza da intendersi in seno alla sua natura di «fatto ultimo» dell’accadere, che dunque rimanda più alla possibilità del volere che alla mera volontà come voluto: il volere sul volere è da intendersi non come “volere il nulla-di-voluto” poiché rivolto alla volontà stessa, e dunque non come estremo apicale del nichilismo come sostiene Heidegger, piuttosto come volere la possibilità del volere. Il discorso nietzscheano non conclude nel nulla, bensì nella possibilità. Il voluto si identifica sì con la volontà, ma nella sua possibilità, in duplice forma: volontà del possibile ancora-volere, e volontà del volere-ancora il possibile. Dalla realtà il discorso si sposta pertanto sulla possibilità, in modo che non c’è volontà di creazione né di costituzione e relativo dominio sull’ente, in quanto la decisione si rivolge alla possibilità, non alla «presenza» reale: o meglio, la decisione coincide con il possibile, e per tale motivo non vi è la garanzia di appoggio su un fondamento. È questo il significato ultimo dell’atmosfera nichilistica in cui si muove la riflessione di Nietzsche. Un possibile che però, si badi, non precede la propria manifestazione ma si tiene, potremmo quasi dire, «sempre nell’evento di una esposizione per il quale inizio e consumo di un fondamento convergono»153. È il darsi del fenomeno che squaderna, altresì, la propria possibilità, che dunque non lo precede ma, per il fatto che esso si è manifestato, ne attesta la possibilità di manifestazione. Ci troviamo di fronte insomma a quella “decisione” descritta da Nietzsche come un «dono», che appare quasi, proponiamo noi, come una sorta di «decisione indecisa, in un poter volere nel quale tutto il volere sarebbe preso dal potere stesso di volere», in modo che ci troviamo ben lontani da ogni «decisione d’essere»: diremmo che «c’è un salto senza ritorno nel momento in cui il volere 153. Meazza C., L’evento esposto come evento d’eccezione, cit., p. 359.

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prevale sul potere: si perderebbe la natura fontale di questo potere se il volere cadesse nella decisione d’essere»154. Ribadiamo: non si ha dunque qui un ritorno alla “creazione” come azione cosciente del soggetto, tanto più che per Nietzsche, “creare” significa decidersi per il divenire155, e quindi non si ha alcuna costituzione dell’ente nella sua totalità, «nel suo insieme», poiché il filosofo si muove su ben altre sponde e prende atto della prospetticità della sua posizione nel rinnovare l’invito a vedere «da cento occhi». Lo sguardo è rivolto alla vita intesa nel suo nucleo relazionale di volontà di potenza, e il ritornare dell’evento qualifica il ritorno stesso come evento relazionale che eternamente ritorna e eternamente si ritrae, poiché esaurisce la possibilità della configurazione relazionale in cui è accaduto, esponendosi ad ulteriori configurazioni, autotrascendendosi nella loro possibilità. Il che vuol dire che l’immanenza del ritorno si autotrascende nella possibilità del ritorno stesso. Ciò impedisce una classi-

154. Ivi, p. 99. 155. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 17 [3], p. 311. In generale, è l’idea stessa di eterno ritorno dell’identico a impedire una dinamica di creazione ex nihilo; il filosofo si premura più volte di dichiarare la propria distanza dal concetto cristiano di “creazione” («L’ipotesi di un mondo creato non deve preoccuparci neanche per un istante. Il concetto “creare” è oggi del tutto indefinibile, inattuabile nella mente; niente più di una parola, di un rudimento dei tempi della superstizione; con una parola non si spiega niente. L’ultimo tentativo di concepire una mondo che comincia è stato recentemente fatto più volte con l’aiuto di un procedimento logico – per lo più, come si può indovinare, per un recondito fine teologico»: Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [188], pp. 165166). Si tratta di una convinzione già esposta in precedenza dal filosofo, determinata dal fatto che «non ci è lecito ipotizzare alcuna creazione assoluta, perché con questo “concetto” non si può concepire niente. Far venir fuori improvvisamente dal nulla una forza che non è data: questa è davvero un’ipotesi!» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1882-1884, cit., parte II, n. 24 [36], p. 331).

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ficazione univoca e totalizzante: tutto ritorna, a cominciare dall’atto stesso del ritornare, ma tutto si ritrae, dissipandosi, consumando la relazione nell’atto stesso del ritornare, sempre di nuovo. In questo scenario, “decidere” significa pertanto non delineare un senso per il reale ma accettare quel «dono» e disporsi ad accogliere l’accadere imparando a vederlo «da cento occhi», cioè interpretare secondo la pluralità possibile delle interpretazioni offerte dalle volontà di potenza di cui ne siamo. In tal guisa, l’identità del ritorno viene riferita più alla possibilità del ritornare squadernata dal contestuale ritiro piuttosto che a «ciò che diviene», a «ciò» che ritorna, come vorrebbe Heidegger156. La sua lettura mira infatti a cogliere nel flusso del divenire un momento della sua fissazione e stabilizzazione nell’essentia, seppur già modulata nell’existentia. In fin dei conti, l’identità è data dalla stabilizzazione, fino a coincidere con essa. Tuttavia, ormai sappiamo che in Nietzsche il mondo è costituito da relazioni, non da sostanze o da essenze. Il che significa che, a rigor di logica, non si potrebbe neanche parlare di un «ciò» (sostanziale) che diviene: Nietzsche non lo accetterebbe, significherebbe ritornare ai categoriali della metafisica da cui sta cercando, con fatica, di liberarsi. Piuttosto si deve parlare di un «qualcosa» (etwas) relazionale che accade. Et pourtant, in seno all’eterno ritorno dell’uguale, l’identità è semmai da riferirsi al ritorno stesso nel suo pos-

156. «Il termine “eterno” pensa la stabilizzazione di questa costanza nel senso del ruotare che ritorna in sé e corre già avanti a sé. Il diveniente non è però il continuamente altro del molteplice che cangia senza fine. Ciò che diviene è l’uguale stesso, ossia: lo stesso, uguale e identico nella rispettiva diversità dell’altro. Nell’uguale è pensata la presenza diveniente di un identico. Il pensiero di Nietzsche pensa la costante stabilizzazione del divenire di ciò che diviene, in quell’una presenza del ripetersi dell’identico» (Heidegger M., Nietzsche, cit., pp. 546-547).

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sibile ritornare, tanto più che quel «qualcosa» che ritorna assume sempre i caratteri dell’eccezione che, come tale, eccede il momento/atto stesso del ritornare, senza stabilizzarsi nella presenza dell’essente in quanto nucleo di relazione. Ne viene che Heidegger, non conferendo il giusto peso alla struttura relazionale del mondo proposta da Nietzsche, finisce così per “non pensare” il ritornare del ritorno nel suo contestuale eterno ritiro, e nella possibilità di ulteriori relazioni che ne scaturisce. L’eterno ritorno è un pensiero che “dà origine”, garantisce soltanto la possibilità (non la necessità) del ritornare stesso, e non del «qualcosa» che effettivamente ritorna che, d’altra parte, in quanto strutturalmente relazionale, si emancipa dalla «presenza» nell’eccedere sempre il momento del proprio ritorno fino a porsi come nient’altro che il proprio ritorno. E questo ne garantisce sia l’unicità (Einzigkeit)157 irriducibile, sia l’“identità” dell’esposizione. “Identico” è pertanto il ritornare/ ritrarsi di un sistema di relazioni, la volontà di potenza che, come contrasto di forze sempre diverse, non sfocia nella definitività della presenza ma si mantiene sulla soglia eventuale della possibilità del proprio ritorno, di cui però non possiamo ipotizzare nulla poiché non lascia traccia158. E il porsi del ritorno come “regola” viene giustificato, per contrasto, se assumiamo che l’accadere del «qualcosa» è sempre un’“eccezione”, in quanto eccede l’atto stesso dell’esporsi, in quanto cioè costitutivamente già esposto a un’altra esposizione. Una ulteriorità che però non può essere garantita aprioristicamente in seno al determinismo o al finalismo: entrambi questi schemi di comprensione del reale si sono ormai svelati essere, appunto, “schemi”, strumenti introdotti dall’uomo, in-

157. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1879-1881, cit., n. 3 [59], p. 316. 158. Cfr. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [188] 5, p. 165.

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terpretazioni. In tal senso il ritornare eterno dell’attimo non segna una discontinuità nel tempo (prima e dopo il nichilismo, prima e dopo il Superuomo), ma uno sfondo euristico la cui sintassi contempla l’accadere dell’evento della relazione, la volontà di potenza, da intendersi però anche come eterno ritiro, evento che nel ritornare “sfoga” la sua forza, la esaurisce e sempre si ritira perché esposto ad altre possibili relazioni e consente, così, la possibilità del ritorno della relazione stessa, senza però poterla garantire in senso assoluto. Un’immagine metaforica e poetica della volontà di potenza come moto di ritorno/ritiro è offerta da Nietzsche ne La gaia scienza, all’origine della formulazione della dottrina del ritorno, in un paragrafo intitolato “Volontà e onda”, in cui descrive l’eterno ritornare della volontà di potenza paragonandolo appunto al moto dell’onda, nel suo moto perpetuo di ritorno e ritiro, in una immagine naturalistica che ben rende il nucleo delle riflessioni nietzscheane. Come s’avvicina avida quest’onda, come se ci fosse qualcosa da raggiungere! Con quale furia terrificante s’insinua nelle più intime latebre degli anfratti di roccia! Si direbbe che essa voglia prevenire qualcuno, si direbbe che là sia nascosto qualcosa che ha valore, un alto valore. – E adesso se ne torna indietro un po’ più lentamente, ancora tutta bianca di turbamento – è delusa? Ha trovato quel che cercava? Si finge delusa? – Ma già un’altra onda s’avvicina, più avida e più selvaggia della prima, e anche l’anima sua pare colma di segreti e bramosa di scavar tesori. Così vivono le onde, così viviamo noi, i dotati di volere!159.

Ogni onda ritorna sempre uguale ma sempre diversa nella sua irriducibile singolarità, sempre di nuovo grazie all’identica volontà di potenza come sistema di relazioni e, in questa identità

159. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 310, pp. 211-212.

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relazionale, espone la propria unicità, da intendersi sia come il modo in cui declina in maniera peculiare il carattere eccedente l’atto stesso del ritornare, sia la modalità di saturare il ritorno di cui ne è, il proprio consumarsi, e quindi il proprio essere nient’altro che quest’onda. E sempre «se ne torna indietro», si ritira senza venir meno e senza lasciare traccia, senza conservare nulla poiché ha saturato, erodendolo, quel determinato nesso di relazioni di cui è, in modo che è il ritiro stesso a consentire la possibilità del ritorno: per consentire ad un’altra onda «più avida e selvaggia della prima» (ma non “di più” perché conserva qualcosa «della prima» e su di essa si appoggia per riproporsi), di avvicinarsi, senza però poter garantire tale ritorno. E così via, in eterno. Proprio alla stregua della singolarità eccedente dell’onda, come sistema di relazioni che non si confina all’evento stesso del suo ritorno e si ritira nel consumare le possibilità di tale sistema, si verifica l’eccezionalità di ogni accadere, nel suo rappresentare un «evento d’eccezione», cioè un «evento esposto in un ritiro», come «eccesso ritirato rispetto a ciò che rende possibile», come «un’apertura non appartenente a ciò che rende possibile, quindi in ritiro, non numerabile, in relazione a quanto raccoglie come insieme», in modo che ne diviene altresì difficile l’identificazione tra attimo e totalità temporale160. L’evento si ripete nel suo essere eccezione rispetto alla regola, che ne testimonia l’unicità eccedente il ripetersi stesso, senza dunque garantire conservazione/fissazione/continuità, in un inizio da intendersi come l’«esposizione» del suo «ritiro», la ripetizione dell’onda 160. «Se per evento d’eccezione intendiamo un’apertura non appartenente a ciò che rende possibile, quindi in ritiro, non numerabile, in relazione a quanto raccoglie come insieme, nel rischio di un’ipotesi estrema, potremmo dire che l’ora di una confidenza fidata, per la quale tutte le ore circolano senza precipitare nella fissazione, è sempre un evento d’eccezione di cui la norma non sarebbe altro che la sua possibilità» (Meazza C., L’evento esposto come evento d’eccezione, cit., pp.: 315, 287, 196).

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dell’eterno ritorno. Questa ci sembra essere, si è ormai capito, la peculiare «logica» inaugurata dalla volontà di potenza161. Da qui il senso innovativo del ripetersi: ogni elemento della vita appare sempre nuovo poiché il ripresentarsi sempre identico della dinamica relazionale tra le volontà di potenza garantisce, nella causalità di cui si nutre l’insopprimibile Einzigkeit di ogni accadere, il suo modo peculiare di interpretare la possibilità del ritorno e del ritiro. Ogni accadere è infatti un inizio che non domina e non inaugura, in quanto nel suo darsi si ritrae, mentre l’autoimplementazione della vita come volontà di potenza ne garantisce il ritorno. Ritorno che però è eccezione rispetto alla regola del ritornare, è sempre un “in più” poiché eccede la regolarità del ritornare nel senso che non se ne cura: ogni ritorno, nel ripresentarsi sempre identico della relazione tra volontà di potenza, eccede il ritorno stesso, in quanto ogni accadere si ritrae nel/dal suo ritornare nel non poter garantire il ritorno stesso. Nel diventare volontà di potenza, cioè implementazione continua di forza, incessante «autosuperamento»162, il concetto di vita come sistema di relazioni sempre diverse e sempre uniche eccede il proprio ritorno: è eccezione eccedente l’atto stesso del ritornare, eccedente la regolarità stessa del suo ritorno tra tutte le «combinazioni possibili»163.

161. «La logica di un evento d’eccezione dovrà situarsi nella speciale convertibilità di un ritiro e di un inizio. Costringerà a pensare l’inizio in un certo ritiro e il ritiro in una speciale esposizione. […] Ritiro, inizio ed esposizione si ritroveranno in un orizzonte univoco, convertibili l’uno nell’altro» (ivi, p. 95). 162. «L’incessante volontà di potenza, o di continua creazione, o di trasformazione, o di autosuperamento---» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 35 [60], p. 214). 163. Cfr. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [188] 5), p. 165.

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Ne consegue una visione nuova della singolarità incentrata sulla relazione, la cui unicità è assicurata dalle modalità in cui interpreta sia il fatto stesso del suo “essere-singolare”, il caso peculiare in cui è ritornata e in cui si ritirerà, che dissiperà in modo da porsi come nient’altro che quella singolarità, sia l’esposizione all’ulteriorità del ritorno della relazione, a cui permane aperta e disponibile. Si tratta di una singolarità che declina in sé i cardini di una identità non sostanziale ma relazionale, differenziale e contrastiva riguardo al mondo, agli altri e a se stessa. Questo perchè ogni accadere è determinato dal risultato della relazione tra le forze, («il suo essere è essenzialmente diverso in ogni punto» e «preme su ogni punto, ogni punto gli si oppone – e queste addizioni sono in ogni caso del tutto incongruenti») di cui la dottrina della volontà di potenza costituisce il grado di misura, e ciò dà origine ad un elemento sempre diverso ma identico nel senso che è pur sempre risultante del ripresentarsi di una combinazione di potenze, esterne ed interne, e della loro relazione. Ciò ne garantisce la singolarità e l’unicità, in seno alla relazione combinativa la cui possibilità rimane comunque aperta rispetto alle soluzioni esistenti per le quali è possibile, e ad altre ulteriori rispetto alle quali potrebbe ritornare. In tal senso l’identità singolare si delinea in chiave archi-ontologicamente relazionale, fino ad annunciarsi non in termini di autoreferenzialità e autonomia, bensì di rimando, richiamo ed eterno ulteriore rinvio. Si tratta di un approccio teoretico difficile da considerare per la filosofia, più adusa a indirizzarsi verso un pensiero dell’ente «in quanto tale» o «nel suo insieme», mentre Nietzsche pone l’attenzione sull’accadere e sul fatto che la conoscenza ha bisogno dell’essere e del divenire per essere possibile. All’interno di questo ambito di disamina delle categorie razionali che vanno ricondotte le affermazioni sulla «volontà di eternare», cioè di conservare, di «fissare in forme immutabili, d’eternare,

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d’essere»164 il divenire sulle quali Heidegger tanto insiste165, in quanto Nietzsche è ben conscio che «non siamo abbastanza sottili per vedere il presumibile flusso assoluto dell’accadere», in modo che «il permanente esiste solo in grazia dei nostri rozzi organi, i quali compendiano e distendono su superfici cose che in tal modo non esistono affatto»166. Tuttavia, più che sull’essere o sul divenire, l’attenzione dovrà soffermarsi sul «fatto elementarissimo» dell’accadere. Si chiarisce altresì il movimento di «trasvalutazione dei valori» che la volontà di potenza mette in campo. Per Nietzsche il valore si trasvaluta nel ritorno in quanto tale: la vita ritorna, accade, dunque non è né diviene. La «trasvalutazione dei valori» è in questo ritornare continuo, e nel dire che la vita è ritorno, questo ritornare, si evita ogni forma di «costituzione» valoriale dell’ente, poichè il ritornare come evento d’eccezione sempre modifica anche il ritornare stesso nel suo porsi quantomeno come ulteriore ritorno/inizio-ritiro, come evento che eccede il suo stesso ritornare in quanto incide sul carattere regolativo del suo porsi come “regola”, e quindi differisce dal suo stesso ritornare. Il pensiero dell’eterno ritorno ritorna sempre ritraendosi, dunque è “identico” poichè differisce dal suo stesso essere pensiero differente (come pensiero non totalizzante). La volontà di potenza, come evoluzione del concetto di “vita”, è il continuo ripresentarsi della vita (anche inorganica), che in se stessa è implementazione della vita stessa: dunque eterno ripresentarsi dell’implementazione della vita. Sappiamo che Nietzsche parla continuamente della vacuità del concetto di “causa-effetto”: esiste un accadere puro che 164. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 369, p. 292. 165. Cfr. Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 387. 166. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [293], p. 439, cfr. anche ivi, n. II [330], pp. 454-455.

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si espone e si consuma nel suo accadere a cui noi poi diamo il nome di “effetto” facendolo precedere surrettiziamente da una “causa”. Viene squadernato uno scenario in cui nulla precede il ritorno, non si contempla un rinvio ad un’assenza, né ad una chiamata, né ad un rimando all’«idea superflua» di un «incondizionato»167 o ad un categoriale che manca sempre nella scena o viene meno dalla scena ma vi detta legge. Il ritorno dell’accadere è possibilità pura, e in questo modo è eccezione rispetto alla regola del ritornare, in quanto nell’accadere, esponendosi, sospende la regolarità del ritorno nel porsi come singolarità che, in quanto tale, eccede nel ritornare dell’individuo il ritorno stesso di una specie. L’accadere insomma, ogni volta, nell’infinità varietà di scariche vitali pluridirezionali possibili, ritorna reinventando la stessa regola del ritornare, in modo che qui il pensiero, e con esso la filosofia, si scopre sempre «in ritardo ed in anticipo»168, poiché l’immediato sfugge alle maglie della mediazione, diviene inattingibile. La “differenza ontologica” si esaurisce nel ritorno stesso del dato come volontà di potenza, implementazione avvenuta, esposta, che non la precede ma si consuma ritraendosi in tale esposizione, poiché «al massimo del ritiro corrisponde il massimo dell’esposizione»169, e non domina la scena proprio perché si ritira e ritornerà sempre in un nuovo ritorno, un ulteriore inizio/ritiro. L’essere non viene definitivamente obliato, come vorrebbe Heidegger, piuttosto «manca»: lo sguardo di Nietzsche si sposta sulla relazione archi-ontologica come

167. «Dall’incondizionato non può nascere niente di condizionato. Ora, tutto ciò che conosciamo è condizionato. Ne consegue che non vi è incondizionato – si tratta di un’ipotesi superflua» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884, cit., n. 26 [429], p. 243). 168. Meazza C., L’evento esposto come evento d’eccezione, cit., p. 197. 169. Ivi, p. 282.

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ambito in cui l’“essere” stesso, volendo, diviene pensabile/possibile. Un caso esemplare dell’esistenza in cui emerge l’eventualizzarsi eccezionale dell’accadere del e nel mondo è fornito, secondo Nietzsche, dall’arte. Nel problematizzare il rapporto che intercorre tra gli artisti e le loro opere, in una serie di frammenti datati 1885-1886, il filosofo nota che «l’opera non appartiene alla loro regola, essi la sentono come la loro eccezione»170, e poi precisa che in questa logica va inteso il mondo, coè «come un’opera d’arte che genera se stessa»171, in quanto «il mondo stesso non è altro che arte»172, cioè volontà di potenza, relazione tra forze che si scaricano. L’arte dunque, come eccezione che sfugge alla regola propria dell’artista, testimonia le dinamiche con cui accade l’accadere del/nel mondo: come eccezione che sfugge, nel suo ritornare, alla regolarità del ritorno, in quanto l’implementazione continua di forza impedisce la riconduzione del ritorno dell’uguale ai parametri propri della regolarità. In tal guisa, come egli scrive negli ultimi frammenti prima del crollo psichico, l’arte rappresenta per l’uomo «la grande creatrice della possibilità di vivere, la grande seduttrice alla vita, il grande stimolante per vivere», in quanto costituisce «l’unica forza antagonistica superiore, contro ogni volontà di rinnegare la vita», una possibilità di «redenzione» per l’uomo della conoscenza, d’azione, del sofferente173: contro ogni istinto nichilistico di negazione della vita e della corretta visione del mondo, dell’imposizione cioè ad esso di strutture interpretative atte a delinearne un senso, per sfuggi-

170. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. I [139], p. 34. 171. Ivi, n. 2 [114], p. 106. 172. Ivi, n. 2 [119], p. 108. 173. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 17 [3], pp. 310311.

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re all’«angoscia» che deriva dalla sua radicale insensatezza174, l’arte è il tramite per raggiungere l’«amor fati», e quindi l’assenso incondizionato alla vita (Ja-sagen zum Leben), «lo stato più alto che un filosofo possa raggiungere», cioè «la posizione dionisiaca verso l’esistenza»175, in cui il tragico si delinea come «istanza contraria al pessimismo»176. Con la teoria della volontà di potenza prende forma dunque la possibilità per la ragione di comprendere il radicamento dell’uomo nella palude, in quanto l’eterno ritornare della possibilità dell’interpretare, del vedere «da cento occhi», delinea i termini dell’appartenenza dell’uomo al campo sensibile mostrando altresì l’insufficienza e la strumentalità del concetto metafisico di “verità”, poco incline a contemplare un pensiero della relazione. Il passo ulteriore da compiere sarà pertanto quello di rimodulare tale concetto mostrando il radicamento della ragione nella palude, radicamento offerto dal suo legame con i sensi, con i «nostri rozzi organi», poiché non si può più negare che «tutte le nostre categorie razionali hanno origine sensistica: ricavate dal mondo empirico»177.

174. «Ma la grande, la vera e propria angoscia è che il mondo non ha più nessun senso» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 39 [15], p. 309). 175. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 16 [32], p. 282. 176. Curi U., Meglio non essere nati. La condizione umana tra Eschilo e Nietzsche, Bollati-Boringhieri, Torino, 2008, p. 14 (sul tema del “tragico”, in rapporto a Freud, cfr. anche Capodivacca S., Sul tragico. Tra Nietzsche e Freud, Mimesis, Milano, 2012). 177. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [98], p. 49.

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IV La verità dei sensi sociali1*

0. Intersezioni Attraverso l’assunzione dell’ottica relazionale garantita dalla natura molteplice delle volontà di potenza prende forma, per la filosofia, la più volte ripetuta esortazione di Nietzsche a vedere «da cento occhi». La possibile pluralità delle interpretazioni, come esito dell’esserne dell’uomo delle volontà di potenza, radicalizza il suo rapporto con il sensibile e apre alla ridefinizione del concetto di “verità” in un ambito più prossimo alla palude. Questo perché la natura relazionale delle volontà di potenza si qualifica essenzialmente come «pathos», nel senso che ogni forza è esposta come tale alla possibilità di essere affetta dall’azione esercitata da altre forze2, in modo che è la sensibilità a dominare la trama, lo sfondo intessuto di «quanti» di potenza. Ne deriva, per la ragione, il compito di una ricognizione genealogica delle proprie capacità di rapportarsi

1. *Questo capitolo rappresenta una estensione e una rielaborazione del saggio: La verità dei sensi sociali e della loro ragione. Intorno a Nietzsche, già edito in “Quaderni di InSchibboleth”, n. 0, Aprile 2012, pp. 9-33. 2. Cfr. Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 90-92.

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a tale sfondo, nel senso di recuperare, cioè di reimparare a pensare il proprio radicamento in esso, secondo un traiettoria che si ripercuote sul concetto di “verità” al fine di ridefinirne i legami con l’ambito del sensibile, ambito che precede e sottende la sua strumentale3 configurazione categoriale. Difatti, ad elaborare un nuovo concetto di verità, in cui risultino separati i momenti dell’indagine sull’essere e dell’offerta del significato, Nietzsche si adopera fin dalle prime opere, procedendo ad una esplorazione dell’orizzonte veritativo che prende le mosse dal comune sentire per assurgere quindi ad un pensiero espressamente filosofico. Egli non si limita così soltanto ad ogni specie di veduta profonda e suggestiva4 (la poesia, il vivere pericolosamente, la profondità della notte, il mondo del mito...), e neanche ad ogni modalità di condizionamento effettivo, naturale e culturale, in quanto la situazione esistenziale e filosofica da cui prende le mosse è quella del radicamento primitivo dell’uomo che si muove nella palude e da cui, malgrado gli sforzi millenari, in fin dei conti non si è mai allontanato del tutto, conservandone e trasponendone i tratti comportamentali nella vita associata e civile. Tale operazione di ri-cognizione della verità comincia dunque da lontano, e si

3. «Nietzsche è la coscienza ed il profeta insieme della crisi, il testimone e l’annunciatore della dissoluzione della totalità, della caduta della coscienza trascendentale, del crollo della verità. La sua filosofia è però insieme ricostruzione genetica dei fondamenti che hanno reso possibile il costituirsi di tali principi. È Nietzsche a demistificare le false legittimazioni teoretiche rivelando le basi reali su cui si è consolidato il concetto di verità. Non c’è nessun soggetto trascendentale, nessuna universalità, nessuna teoria pura alla base di ciò che la filosofia ha chiamato “verità”. essa è disoccultata come pretesa di verità, velleità, volontà di verità. Ciò che si è considerato per secoli come il “vero” ha avuto la base del suo costituirsi nel fatto che lo si è voluto considerare come tale» (Cortella L., Crisi e razionalità. Da Nietzsche ad Habermas, Guida, Napoli, 1981, pp. 13-14). 4. Cfr. Negri A., Nietzsche. La scienza sul Vesuvio, Laterza, Bari, 1994.

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innesta su due direttrici del discorso nietzscheano: la prima, più visibile, è costituita dalla critica al pensiero tradizionale, in particolare platonico e idealistico5; la seconda, meno visibile, risponde alle esigenze vitali dell’uomo, e sostiene come filo conduttore l’operare dell’uomo reale, l’uomo che si pretende oltremetafisico. Per Nietzsche infatti, come è noto, l’Idealismo trae origine da un’intuizione di Platone, che «guardò dentro l’Erma terribilmente devastata della vita politica del suo tempo, e nel suo interno vide ancora qualcosa di divino. Egli credette di poter estrarre quest’immagine divina e pensò che il lato esterno, dall’aspetto feroce e barbaricamente contraffatto, non appartenesse all’essenza dello Stato: tutto lo slancio e tutta la sublimità della sua passione politica si attaccarono a quella fede, a quel desiderio, ed egli si consumò in quell’ardore»6. Da tale forte convincimento la filosofia concluse che il proprio compito non fosse quello di produrre categorie operative, cariche di conseguenze per l’azione, ma di provare a svelare quanto celato dall’apparenza. Di rimando però, essa smarrì la trasformazione e cominciò a produrre per il significato, propugnando «la liberazione dall’essere»7 e, così facendo, perse gradualmente di oggettività, che rimane da ricercare.

5. Sul metodo della verità in Nietzsche cfr.: Sini C., Semiotica e filosofia. Segno e linguaggio in Peirce, Nietzsche, Heidegger e Foucault, Il Mulino, Bologna, 1978; Natoli S., Ermeneutica e genealogia: filosofia e metodo in Nietzsche, Heidegger e Foucault, Feltrinelli, Milano, 1981. 6. Nietzsche Fr., Fünf Vorreden zu fünf ungeschriebenen Büchern (1872); tr. it. Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, in Id., La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e scritti dal 1870 al 1873, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. III, tomo II, Adelphi, Milano, 1980², pp. 207-255 (Lo Stato greco: pp. 223-237), p. 237. 7. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 16, p. 26.

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Il compito della filosofia consiste pertanto, secondo il filosofo di Röcken, nel ri-pensare l’oggettività e distinguerla da tutto ciò che a livello metodologico attiene all’opera trasformatrice dell’universalità, la quale si rivolge alla contingenza, alla Wirklicheit, alla palude, secondo un movimento rappresentazionale di ri(con)duzione delle volontà di potenza nel loro carattere eminentemente molteplice, conflittuale e relazionale, all’ordine unitario, aconflittuale e sostanziale dell’Idea. Nel far questo, il risultato però è quello di “idealizzare” la faktizität, in modo che le cose vengono “spolpate”, rese «esangui», «più scarne»8. Il compito diviene quello di costituire il nuovo attraverso la critica dell’antico, mediante la rielaborazione dei suoi elementi portanti d’origine storica in una dinamica genealogica. Il dato fenomenico può infatti vedere correttamente riconosciute nel concetto la sua collocazione e le sue relazioni se considerato in alcuni momenti della ricerca tra loro strettamente interconnessi, in un ordine di successione necessaria: rispetto alla comunità e al suo tempo, alla possibilità di comunicazione intersoggettiva e di leggibilità del mondo, alla specificità professionale che assume quest’ultimo e lo analizza, alla globalità dell’uomo, al soggetto per cui è oggetto, alla volontà di cambiamento che guida gli uomini degli ultimi secoli. Le figure che innervano tale operazione, che si vuole radicale, sono perciò diversificate e focalizzano luoghi teorici precisi, tutti ispirati alla valorizzazione della vita nel suo legame con l’esperienza, e che trovano “compimento” nel pensiero scientifico. Esse sono: 1) il recupero critico dei fondamenti sociali della conoscenza (maschera); 2) il ricorso all’aforisma come modalità langagiére di aderenza/adesione all’essere, per chi sa di muoversi nella palude (essere e significato); 3) la definizione moderna della figura del filosofo (mondo); 4) la riscoperta del corpo e dell’immagine (sensi); 5) la verità come generalità o ti8. Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 113.

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picità e non come universalità (oggettività); 6) il rovesciamento di teoria e prassi (nuova soggettività estranea al theoréin così come all’“ascolto” dell’Essere). Cominciamo.

1. La maschera, l’aforisma, le pratiche La prima figura, la maschera, racchiude in sé lo sdegnato rifiuto opposto da Nietzsche al travestimento moralistico, e dunque menzognero, della conoscenza e della scienza. È il principio emerso dalla critica al modo tradizionale di accostarsi alla storia, volto cioè a occultare quanto di fronte alla coscienza pubblica non è possibile occultare, sdoganandolo come errore del passato ormai superato nei fatti. Se infatti all’epoca dei greci la menzogna era considerata parte integrante di ogni ricerca, in quanto ne manifestava il carattere di sforzo autentico di comprensione del reale, in seguito, con il Cristianesimo, il vero si contrae nel Bene, e il mondo esperienziale diviene il risultato di una quantità di errori e fantasie9, in modo che l’errore viene giudicato spesso «originario» e condizionante10. 9. «Per il fatto che da millenni abbiamo scrutato il mondo con pretese morali, estetiche, religiose, con cieca inclinazione, passione o paura, e abbiamo straviziato negli eccessi del pensiero non logico, questo mondo è diventato a poco a poco così meravigliosamente variopinto, terribile, profondo di significato, pieno d’anima e ha acquistato colore – ma i coloristi siamo stati noi: l’intelletto umano ha fatto comparire il fenomeno e ha trasferito nelle cose le sue erronee concezioni fondamentali. Tardi, molto tardi egli riflette. E ora il mondo dell’esperienza e la cosa in sé gli appaiono così straordinariamente diversi e separati, che rifiuta di concludere da quello a questa; oppure, in maniera orridamente misteriosa, invita a rinunciare al nostro intelletto, alla nostra volontà personale: per giungere all’essenziale attraverso il diventare essenziali» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 16, p. 26). 10. «L’individuo senziente considera ogni sentimento, ogni mutamento come qualcosa di isolato, cioè di incondizionato, privo di connessione: essi affiorano in noi senza collegamento con un prima ed un dopo. Noi abbia-

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Al contrario, secondo Nietzsche «l’errore, la parvenza è la base della conoscenza», in quanto «il suo presupposto è una limitazione erronea», dovuta all’origine vitale, sensibile di ogni assunto conoscitivo: «come se esistesse un’unità di misura della sensazione; ovunque si trovano specchi e organi del tatto, nasce una sfera», di conseguenza, come sappiamo, «se col pensiero si elimina questa limitazione, si elimina anche la conoscenza: concepire “relazioni assolute” è assurdo»11. Si rende pertanto ineludibile ritornare alla Grecia, alla «voluttà della tragedia», secondo una doverosità necessaria ad evitare «i più alti e delicati brividi della metafisica», che ricevono la loro dolcezza «soltanto dall’ingrediente della crudeltà che vi è commisto»12. E ciò per contrastare, più in generale, la «forza appropriativa dello spirito» nei riguardi dell’alterità, la sua «volontà di ridurre il molteplice all’unità, una volontà allacciante, infrenante, avida di dominio e realmente dominatrice». Riproponiamo un frammento di Al di là del bene e del male che abbiamo già in parte richiamato. La forza appropriativa dello spirito nei riguardi di ciò che è estraneo si rivela in un’accentuata inclinazione ad assimilare il nuovo all’antico, a semplificare il multiforme, a ignorare o a respingere quel che è del tutto contraddittorio: allo stesso mo fame, ma originariamente non pensiamo che l’organismo vuole essere conservato, quella sensazione sembra farsi valere senza motivo e scopo, essa si isola e si considera volontaria. Dunque: la credenza nella libertà della volontà è un errore originario di ogni essere organico, antico come l’epoca da cui esistono in questo moti di logicità; la credenza in sostanze incondizionate e in cose uguali è del pari un errore originario, altrettanto antico, di ogni essere organico. In quanto perciò ogni metafisica si è di preferenza occupata di sostanza e di libertà del volere, la si può definire come la scienza che tratta degli errori fondamentali dell’uomo – però come se fossero verità fondamentali» (ivi, n. 18, p. 29). 11. Nietzsche Fr., Frammenti postumi (1879-1881), cit., n. 6 [441], p. 520. 12. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 229, p. 138.

241 modo arbitrariamente, e con maggior vigore, essa sottolinea, mette in evidenza, falsifica a proprio vantaggio determinati tratti e linee di quanto le è estraneo, di ogni frammento del «mondo esterno». Così facendo mira a incorporare nuove «esperienze», a inserire nuovi elementi in vecchi ordini – a una crescita dunque; o, con maggior precisione, al senso della crescita, al senso di un incremento di forza13.

Si ripresenta la funzione rassicurante della «maschera», mediante cui lo spirito «assapora altresì il senso della sua sicurezza, anzi proprio attraverso le sue arti proteiformi trova la migliore delle difese dei nascondimenti!». Per Nietzsche, invece, proprio «contro questa volontà di apparenza, di semplificazione, di maschera, di mantello, insomma di superficie – giacché ogni superficie è un mantello – agisce quella sublime inclinazione dell’uomo della conoscenza, la quale prende e vuole prendere le cose in profondità, nella loro multiformità, alle loro radici: quella sorta di crudeltà della coscienza e del gusto intellettuale, che ogni ardimentoso pensatore riconoscerà in se stesso, posto che abbia temprato e aguzzato abbastanza a lungo – come si conviene – il proprio sguardo nei riguardi di se medesimo e si sia assuefatto a una severa disciplina e anche a severe parole»14. Dalla lettura di questa serie di considerazioni risulta che la conoscenza è sempre un fatto della vita in quanto relazione tra le volontà di potenza, un momento in cui la verità non può entrare come La verità, con tutte le conseguenze che da ciò si possono e si devono trarre. Le varie posizioni che intorno alla verità in una data epoca affiorano, e spesso si affermano, non possono afferire unicamente al confronto interno alla razionalità, all’orizzonte della forma monista o pluralista,

13. Ivi, n. 230, pp. 139-140. 14. Ivi, n. 230, pp. 140-141.

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oppure della loro alternanza. Ciò che qui emerge è il rifiuto deciso e definitivo di ogni ottica della separazione che serva a privilegiare l’umano e l’interiore rispetto al mondo esteriore. La ragione umana infatti rivela la sua appartenenza alla vita come relazione, il suo esserne, attraverso il pensiero: la ragione vive pensando, e mantiene dunque il suo legame con la relazione attraverso il pensiero della relazione sotteso dal vedere «da cento occhi». In questo senso, ogni interpretazione della realtà mira a cogliere, come sappiamo, i «complessi dell’accadere, apparentemente duraturi in relazione ad altri complessi»15, secondo un legame relazionale che però si può riattivare, cioè si può reinterpretare: è l’apparenza della durata che non si deve trascurare. In ambito storiografico, ad esempio, più che cercare di relegare l’errore nel passato, si tratta di assumerne l’originario rapporto con la vita e da qui modularne il legame con l’attuale momento del divenire vitale, e su questo legame cominciare a costruire. Si rende pertanto necessario abbandonare la serialità del continuum storicotemporale codificato dagli storici, per rivolgersi a ciò che del passato è stato confinato ai margini del significato storico, al fine di valutare se nel suo ripetersi, e proprio per il suo ripetersi nel presente, esso racchiude (direbbe Benjamin…) un potenziale inespresso che si tratta di riattivare in un nuovo e diverso legame temporale con la vita, quella del presente. A questo livello vitale anche la menzogna può divenire premessa della verità e, come tale, si strappa alla pretesa di usarla come arma «contro gli altri», i mentitori. La seconda figura del “metodo”, l’aforisma, rivela invece il bisogno per la ragione di attenersi all’essere sotto il profilo langagier, e la sua funzione costitutiva consiste nel contrastare l’errore del filosofo che «crede che il valore della sua filosofia

15. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [91], p. 42.

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risieda nel tutto, nell’edificio»16, da cui ne deriva che il sistema prevale sul frammento, sul passo breve, confinato al limite della provvisorietà17. Al contrario, per Nietzsche, soltanto i miopi credono che una cosa offerta a pezzi sia «frammentaria», embrionale, mentre «una cosa detta con brevità può essere il frutto e il raccolto di molte cose pensate a lungo: ma il lettore che in questo campo è novizio e non ha ancora affatto riflettuto al riguardo, vede in tutto ciò che è detto con brevità qualcosa di embrionale, non senza un cenno di biasimo per l’autore, che gli ha messo in tavola per pranzo, col resto, simili cose non finite di crescere, non maturate»18. Prendendo le distanze dalla traduzione del materialismo nietzscheano in pensiero che erra su un piano di “misticismo”, magia19, “cifre” et similia, si può comprendere perché Nietzsche ricorre agli aforismi in quanto, nota Deleuze, «un aforisma, si è detto, formalmente si presenta come un frammento; è la forma del pensiero pluralista; nel suo contenuto, esso vuole esprimere e formulare un senso», e ciò perché «solo l’aforisma

16. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte prima, n. 201, p. 78. 17. Incontriamo qui il problema della leggibilità del mondo e della collocazione dell’uomo in un orizzonte sicuro e rassicurante, quando la scomposizione storica (Copernico-Galilei) e geografica (scoperta delle Americhe) del cosmo antico-medioevale rimette in questione, nel Moderno, la possibilità per la ragione di risalire all’essenza delle cose. 18. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte prima, n. 127, p. 52. 19. «L’aforisma», spiega ad esempio Masini, «è un pensiero allo stato fluido che trova per un attimo fulminante la sua cristallizzazione; piani diversi di pensiero sembrano quindi intersecarsi in una sorta di scrittura magica» (Masini F., L’aforisma gioca con l’equivoco, in “Spirali”, n. 56, 1983, pp. 12-13, p. 12). Non ci sembra tuttavia pertinente ricondurre il discorso nietzscheano, sotto alcun profilo, e dunque anche sotto quello linguistico, ad una riconduzione mistica o magica con il mondo.

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è in grado di esprimere il senso, l’aforisma è l’interpretazione e l’arte di interpretare»20. Nietzsche ricorre quindi all’aforisma perché l’uomo stesso, in quanto essere che è un dover essere, è risposta, è interpretazione, come rimando determinato della situazione su se stessa, e ciò significa che la molteplicità infinita delle interpretazioni possibili che si rivelano a chi vede «da cento occhi» si modula, e non può non modularsi, attraverso la singolarità finita dell’uomo che opera pensando in maniera plurale. Altrimenti detto, la completezza rimane necessaria, ma un pensiero della relazione non dimentica che si tratta della completezza del pensiero e non del reale, completezza dell’idea e della riflessione, la cui costruzione passa sempre attraverso la pluralità dei frammenti prospettici in cui sempre si offre la contingenza. Invertire le parti tra reale e razionale è proprio l’errore della metafisica, che ha pensato di poter partire dall’Uno a cui si deve adeguare la completezza del pensiero oppure reagire polemicamente al fine di fondare una propria libertà di spirito. Istruttivo, a tal proposito, è per Nietzsche l’errore di Schopenhauer, persuaso di aver superato l’Idealismo e di aver recuperato il piano dell’essere, mentre invece continua a elaborarne concettualmente il significato, al fine di isolarne il senso. Da tale dinamica, ad esempio, l’idea di “natura” risulta stravolta, proprio come accade in ambito religioso, in cui «tutta la natura è una somma di azioni di esseri dotati di coscienza e di vo-

20. «Il senso di un essere, di un’azione, di una cosa, questo è l’oggetto dell’aforisma. Nonostante la sua ammirazione per gli scrittori di massime, Nietzsche sa bene ciò che manca al genere della massima: essa è adatta soltanto ad individuare moventi, e per questo essa, in generale, si occupa solo dei fenomeni umani. Ora, secondo Nietzsche, i moventi anche più riposti, oltre che un aspetto antropomorfico delle cose, sono un aspetto superficiale dell’attività umana» (Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 59-60).

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lontà, un immane complesso di atti arbitrari»21. Di rimando, l’operare dell’uomo appare sempre e strettamente finalizzato. Nell’affrontare il problema della responsabilità, Schopenhauer nota infatti che se alcune azioni fanno insorgere nell’uomo un sentimento di «disagio» relativo alla «coscienza della colpa», e poiché se il suo agire fosse regolato da necessità non sussisterebbe una motivazione a tale disagio, dato che ciò avviene allora se ne conclude come egli sia necessariamente orientato verso il pensiero libero e responsabile. Non solo: la sua libertà non si restringerebbe alla sfera dell’«operari», ma finirebbe per strutturarne l’«esse», in quanto «il suo volere sarebbe anteriore alla sua esistenza». Tuttavia, secondo Nietzsche, egli «fa l’errore di indurre, dal fatto del disagio, la fondatezza, la ragionevole ammissibilità di questo disagio», per giungere così «alla sua fantastica conseguenza della cosiddetta libertà intelligibile». Il «disagio» che investe l’uomo dopo una cattiva azione «non ha affatto bisogno di essere razionale», e pertanto se ne deduce che poiché lo «si ritiene libero, ma non perché è libero, prova pentimento e rimorsi»22. Il discorso ricade così nella «metafisica»23, in cui il carattere contingente e molteplice della realtà viene obnubilato nelle maglie necessarie e unitarie del concetto, e il pensiero costruisce un’immagine teleologica del destino umano volta a impressionare le masse e a consentirne il dominio. Sebbene dunque in Schopenhauer permanga l’infondata certezza del riferimento all’essere, in realtà egli si rivolge alle “cose” per costituirle in idea.

21. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 111, p. 93. 22. Ivi, n. 39, p. 50. 23. «Nietzsche non si stanca di obiettare a Schopenhauer che egli rimane ancora legato a una visione metafisica, anche se pensa di essersi scrollato di dosso la metafisica oggettiva» (Penzo G., Invito al pensiero di Nietzsche, cit., p. 77).

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Diversamente, secondo Nietzsche, il pensiero che sorge dopo il maestro del pessimismo, costruisce sul reale e contrappone i propri risultati a quelli della metafisica, edificati per il significato, che invece vanno indagati in quanto parte del reale. Grazie all’essere originario come palude, e prendendo atto che «tutto l’essenziale dell’evoluzione umana è avvenuto in tempi remotissimi, assai prima di quei quattromila anni che all’incirca conosciamo»24, si può andare oltre gli «adoratori delle forme»25, gli idealisti, che devono ormai accettare che «se la loro causa deve prosperare, abbisogna dello stesso concime maleodorante che è necessario a tutte le altre imprese umane»26. Il pensiero della relazione, insomma, si dispone ad accogliere, a vedere «da cento occhi» il carattere multiforme, relazionale del tutto, e lo può fare tramite l’ausilio dell’aforisma e del frammento, imprescindibile al fine di delineare una interpretazione come organizzazione (seppur provvisoria) delle volontà di potenza in unità. Una immagine suggestiva di questa dinamica Nietzsche la fornisce nella figura dell’«uomo-cerchio», che è «colui che esercita un’attrazione su caratteri e ingegni diversi, sicché si acquista tutta una cerchia di amici; questi però vengono in tal modo essi stessi in amichevoli contatti fra loro, nonostante ogni diversità»27. L’uomo che riesce ad avere amici fa in effetti di più che rendersi la vita piacevole: consente agli altri di unirsi fra loro. Estendendo il discorso, se ne deduce che chi filosoficamente riflette sulle Blosse Sachen consente alle stesse di mostrare la loro struttura relazionale, al fine di formulare del loro rapporto una intepretazione, pertanto una forma possibile, seppur apparentemente duratura poiché esposta

24. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 2, p. 16. 25. Ivi, n. 3, p. 17. 26. Ivi, n. 490, pp. 271-272. 27. Ivi, n. 368, p. 217.

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all’ulteriorità del ritorno, della ri-petizione dell’interpretare. La molteplicità come riferimento obbligato del pensiero non serve a contraddire l’essere e permettere all’uomo di trovare un posto per la sua libertà (simbolica), ma proprio per conferire forma all’informe. Se è vero che da Cartesio28 in poi la certezza è una questione che riguarda non più le grandi problematiche e le domande originarie, ma un bisogno che si ripete nell’identico modo per ogni singolo dato, allora l’aforisma diventa un esperimento necessario della filosofia. Il terzo momento del percorso riguarda perciò la definizione della specificità culturale che tratta il dato problematico, e che coinvolge la questione delle pratiche e della loro eticità (Sittlichkeit). Il problema è ormai quello della figura stessa del filosofo nella società e nel mondo moderno, questione che si è imposta all’attenzione di Nietzsche attraverso l’annosa polemica di Schopenhauer (come “spirito libero”) nei confronti di Hegel (che invece figura come “funzionario”); leggiamo qualche passo. Scrive Nietzsche che a differenza degli scienziati, i filosofi «non sono impiegati e neanche datori di impieghi», e si servono «di ciò che da quelli è stato conquistato e assicurato, con una certa principesca calma e con scarsa e rara lode: in un certo modo come se quelli appartenessero a una specie di esseri inferiori»29. Viene però a mancare ai filosofi «ogni partecipazione impersonale a un problema della conoscenza» in quanto, «come essi stessi sono persona da cima a fondo», anche le loro convinzioni e conoscenze «crescono insieme fino a formare una persona», in cui le singole parti si completano a vicenda fino a delineare una «totalità». Si 28. Per la ricostruzione dei rapporti tra Nietzsche e Cartesio riguardo al metodo e alla passione per la conoscenza, cfr. Campioni G., Les lectures français de Nietzsche, Presses Universitaires de France, Paris, 2001. 29. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 171, p. 204.

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determina così «quell’illusione» di completezza che dalla filosofia si estende alla scienza, ed essi finiscono per dimenticare che «è la vita che circola nella loro creazione, che opera questo incantesimo»30, in modo che occorre loro riscoprire «la fantasia», «lo slancio», «l’ingegnosità inventiva», «il presentimento», «l’induzione», «la dialettica», «la deduzione», «la critica», «la raccolta del materiale», «l’impersonalità nel modo di pensare», «la contemplazione», «la visione sinottica, e non poca giustizia e amore verso tutto ciò che è»31. Se da qui si ritorna alla figura ellenica del saggio che ammaestra la città e inizia l’uomo ai segreti dell’essere e del quotidiano, si nota che il baricentro della conoscenza si è spostato decisamente dal sapere al ricercare, dal disporre della conoscenza passata alla padronanza del presente. Tenendo sempre come punto di riferimento la Grecia, Nietzsche indica pertanto i compiti a cui il “nuovo” pensatore dovrà necessariamente ottemperare, e precisamente: a) saldare i conti con l’uomo della «lenta tristezza», il «prete asceta»32, rovinato da secoli di addomesticamento morale. A tal fine, egli precisa che il saggio «non conosce una moralità oltre quella che trae dalle sue leggi da lui stesso, anzi già la parola “moralità” non gli si adatta. Egli infatti è diventato assolutamente scostumato, in quanto non riconosce costumi, tradizioni, bensì soltanto nuove domande della vita e nuove risposte. Va avanti per sentieri non mai percorsi, la sua forza aumenta quanto più egli peregrina. È simile a un grande in-

30. Ivi, n. 171, pp. 204-205. 31. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 43, p. 38. 32. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 345.

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cendio che porti dentro di sé il proprio vento e ne sia intensificato e portato innanzi»33; b) divenire condottiero: «dove dobbiamo tendere noi, con le nostre speranze? Verso nuovi filosofi, non c’è altra scelta; verso spiriti abbastanza forti e originali da poter promuovere opposti apprezzamenti di valore e trasvalutare, capovolgere “valori eterni”: verso precursori, verso uomini dell’avvenire che nel presente stringono imperiosamente quel nodo che costringerà la volontà di millenni a prendere nuove strade»34; c) mostrarsi «imprudente»: il vero filosofo sperimenta, cioè «vive in guisa “non filosofica” e “non saggia”, soprattutto imprudente, e sente il peso e il dovere di cento esperimenti e di cento tentazioni di vita – e mette continuamente a repentaglio se stesso, giuoca il suo giuoco cattivo…»35; d) essere raccoglitore e creatore, al fine di «percorrere la cerchia dei valori e dei sentimenti di valore umani e per potere scrutare dall’alto verso ogni lontananza, dagli abissi verso ogni solitudine, dal cantuccio verso ogni orizzonte»36; e) accettare il proprio compito destinale: «un filosofo: un uomo, cioè, che costantemente vive, vede, ascolta, sospetta, spera, sogna cose fuori dell’ordinario; che viene colto dai suoi stessi pensieri quasi dal di fuori, dall’alto e dal basso, come da quel genere di avvenimenti e di fulmini che è suo proprio; e forse è egli stesso una procella che si avanza gravida di nuo-

33. Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1876-1878; tr. it. Frammenti postumi (1876-1878), in Id., Umano, troppo umano, I e Frammenti postumi (1876-1878), «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. IV, tomo II, Adelphi, Milano, 1965, pp. 309- 488, n. 24 [8], pp. 432-433. 34. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 203, p. 103. 35. Ivi, n. 205, p. 108. 36. Ivi, n. 211, p. 119.

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vi fulmini; un uomo fatale, intorno al quale c’è sempre un brontolio e un rovinio, qualcosa che si cretta e sinistramente accade»37. Ora, da questi elementi rileviamo che il pensiero e l’essere trovano un modo particolare ed inedito d’incontro. La novità che Nietzsche inserisce nella filosofia non riguarda quindi unicamente lo stile, che egli arricchirebbe «di due mezzi espressivi: l’aforisma e il poema»38, ma concerne la figura stessa del filosofo, che ritorna al modello antico e si inserisce nella natura, e fa questo per poter «naturalizzare» l’uomo, che ha subito nel corso dei millenni le trasformazioni più “innaturali”. Il pensiero oltrepassa d’un balzo i luoghi tradizionali della pratica filosofica (l’accademia, il cenacolo etc.) per proiettarsi là dove l’essere “parla” o vorrebbe farlo, nella contingenza fattuale del suo darsi, e di cui il “vero” filosofo si pone come l’interprete creativo, l’interlocutore naturale, adeguato. Ma ciò non avviene, insistiamo, in base ad una immedesimazione mistica o ad un salto nell’irrazionalismo, bensì in seno ad una sorta di dinamica di autocompimento della ragione nella vita. La ragione, infatti, ne è della vita tramite il pensiero, che rappresenta il suo peculiare modo di vivere: la ragione vive in quanto pensa, sebbene il pensiero non possa non condurla ad allontanarsi dalla vita. Emerge così la cifra paradossale della filosofia di Nietzsche e, in fin dei conti, di ogni filosofia, in quanto l’intenzione di recuperare il radicamento nell’immediato deve ineludibilmente fare i conti con l’imprescindibilità della mediazione. In questo modo, egli prospetta una ragione che, nel pensare, prende le distanze dal pensiero, ne abita la distanza ponendosi all’interno e all’esterno di esso. Rispetto ad una posizione totalizzante, la ragione per Nietzsche assume

37. Ivi, n. 292, pp. 201-202. 38. Deleuze G., Nietzsche con antologia di testi, cit., p. 22.

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invece una condizione liminare, partecipe e consapevole della funzione che svolge ma attenta a non restarvi imbrigliata, con la conseguenza di trattenere la filosofia sempre sulla soglia estrema della disponibilità a compiere, se necessario, il passo estremo della rinuncia a se stessa.

2. I sensi, l’oggettività Con la quarta figura, la riscoperta del corpo e dell’immagine, il discorso nietzscheano si riveste di tratti prettamente gnoseologici: una volta svincolato dal peso della storia e della coscienza, l’uomo può ricercare nuove radici, mondane, plurali e relazionali. Se il ricorso alla coscienza rivela una strategia antica di rassicurazione nei confronti di un mondo la cui insopprimibile alterità non ne consente l’immediata certificazione in termini di verità, in modo che la definizione di quest’ultima viene subordinata alla fase «intenzionale» (Husserl) del rapporto conoscitivo, per Nietzsche l’io che si autotrascende si manifesta invece come forza o impulso in cerca di esperimento e di verifica. L’interno e l’esterno possono così rapportarsi in misura reciprocamente funzionale, e ricorrono non più all’ambiguità e alla rassegnazione, ma alla teoria della «ripetizione eterna»39 e alla necessità di considerare il peso e il ruolo della relazione intersoggettiva storica, effettiva. Questo significa che, per ciò che concerne l’oggetto, bisogna presupporre sempre una certa duplicità degli eventi ed un rapporto stretto tra dato e significato. Osserviamo da vicino.

39. Cfr. Cacciari M., Introduzione a Fink E., La filosofia di Nietzsche, cit., p. 23.

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All’origine della conoscenza troviamo l’«ego»40, ma il luogo da cui partire restano i sensi, poiché persino la «severa scienza» non può «infrangere il potere di antichissime abitudini della sensazione»41. I sensi restano dunque un punto di partenza imprescindibile, anche quando si tratta di muoversi nel campo della speculazione più azzardata: «quanto più astratta è la verità che si vuole insegnare, tanto più bisogna prima di tutto sedurre i sensi perché la colgano»42. Coerentemente con il suo recupero del vedere e del raccogliere, Nietzsche prende le distanze da una concezione dell’intuizione che non ne sottolinei il legame con la «sensazione»43, e chiude i conti con Schopenhauer44. Egli esalta quindi le condizioni e le situazioni in cui i sensi apportano il loro contributo alla fatica ed «al rigore della scienza», isolando alcune operazioni ed atteggiamenti preliminari che radicano il conoscere

40. «Come potrebbe l’ego agire senza l’ego?»: Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n.133, p. 105. 41. Ivi, n. 16, p. 27. 42. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1882-1884, cit., parte I, n. I [109] 8., p. 28. Lo stesso aforisma compare, in veste leggermente modificata, in Al di là del bene e del male: «quanto più astratta è la verità che tu vuoi insegnare, tanto più devi sedurre anche i sensi a essa» (Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 128, p. 77). 43. «L’intuizione trae le sue radici dalla sensazione» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte I, n. 7 [168], p. 208). 44. «Col concetto di “conoscenza intuitiva” Schopenhauer ha nuovamente introdotto di contrabbando il peggiore misticismo, quasi che una tal conoscenza permettesse di vedere immediatamente l’essenza del mondo, come attraverso un buco del mantello dell’apparenza, e quasi vi fossero uomini privilegiati che, senza la fatica e il rigore della scienza, fossero in grado di comunicare qualcosa di definitivo e di decisivo sul mondo, grazie a una miracolosa veggenza. Uomini del genere non esistono: il miracolo infatti non troverà più gente disposta a crederci, anche nel campo della conoscenza» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi (1876-1878), cit., n. 23 [71], p. 415).

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nel mondo, e precisamente: a) il «partire dalle cose prossime e più piccole»45; b) la «grande qualità della ponderatezza, che è in fondo la virtù delle virtù, la loro progenitrice e regina»46; c)

45. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n.13 [20], p. 506; «esiste un disprezzo simulato di tutte le cose a cui in realtà gli uomini attribuiscono massima importanza, di tutte le cose prossime. Si dice per esempio “si mangia solo per vivere”, – un’esecrabile menzogna, come quella che parla della procreazione dei figli come del vero scopo di ogni voluttà. Viceversa l’apprezzamento delle “cose importanti” non è quasi mai del tutto genuino: i preti e i metafisici ci hanno bensì avvezzati in tutti questi campi a un linguaggio ipocritamente esagerato, ma non hanno cambiato il sentimento, che non attribuisce a queste cose più importanti l’importanza attribuita a quelle disprezzate cose prossime. – Una spiacevole conseguenza di questa doppia ipocrisia è tuttavia che le cose prossime, come per esempio il mangiare, l’abitare, il vestirsi, l’aver rapporti sociali, non sono fatti oggetto di riflessione e di riforma costante, serena e generale, e invece, poiché esse sono reputate degradanti, si distoglie da esse la propria serietà intellettuale e artistica; sicché qui l’abitudine e la frivolezza ottengono una facile vittoria sulle persone irriflessive, specialmente sulla gioventù inesperta» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 5, pp. 135-136; cfr. anche, di seguito, a riguardo delle «cose più vicine di tutte», di «ciò che è più piccolo e ordinario», ivi, n. 6, pp.136-137). 46. Cfr. ivi, n. 294, pp. 252-253.

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il rispetto dei sensi47; d) la passione48; e) il viaggiare49; f) l’as47. «Un tempo i filosofi avevano paura dei sensi: abbiamo noi forse – disimparato troppo questa paura? Oggi noi siamo tutti quanti sensisti, noi uomini del presente e dell’avvenire in filosofia, non già secondo la teoria, ma secondo la prassi, la pratica… Quelli invece credevano di essere accalappiati dai sensi fuori dal loro mondo, il freddo mondo delle “idee”, in una pericolosa isola del Sud, dove, com’essi paventavano, le loro filosofiche virtù si sarebbero liquefatte come neve al sole.[…] Questi vecchi filosofi erano senza cuore: filosofare fu sempre una specie di vampirismo. In certe figure, come anche in quella di Spinoza, non sentite qualcosa di profondamente enigmatico e sinistro? Non vedete il dramma che qui si sta rappresentando, il costante, progressivo impallidire, la desensualizzazione interpretata sempre più idealisticamente? Non subodorate la presenza, nello sfondo, di una qualche occulta succhiatrice di sangue, che comincia coi sensi, e infine non le avanzano, e non si lascia avanzare, altro che ossa e scricchiolii? – voglio dire categorie, formule, parole. […] E noi non temiamo i sensi, perché ….» (Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 372, pp. 294-295); «Il senso della verità è: intendere la sensazione come la parte esterna dell’esistenza, come una svista dell’essere, un’avventura. In compenso, dura assai poco! Smascheriamo questa commedia, e a questo modo godiamocela! Non pensiamo al ritorno in ciò che è privo di sensazione come a un regresso! Invece proprio così diventiamo integralmente veri, ci completiamo» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [70], p. 355). 48. È necessario provare «qualcosa della grande passione dell’uomo della conoscenza, che vive e deve vivere continuamente nelle nubi burrascose dei problemi più alti e delle più gravi responsabilità (quindi non può affatto vivere in posizione di spettatore, standosene al di fuori, in maniera indifferente, sicura, obiettiva…)» (Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 351, p. 254). 49. «L’immediata osservazione di sé è ben lungi dal bastare per conoscere se stessi: abbiamo bisogno della storia, giacché il passato continua a scorrere in noi in cento onde; noi stessi infatti non siamo se non ciò che in ogni attimo sentiamo di questo fluire. Anche qui anzi, se vogliamo tuffarci nel flusso del nostro essere apparentemente più peculiare e personale, vale il detto di Eraclito: che non si scende due volte nello stesso fiume. È questa una saggezza che, anche se divenuta a poco a poco vecchia, è tuttavia rimasta tanto robusta e verace, quanto lo fu un tempo: altrettanto dell’altra secondo la quale, per capire la storia, si devono visitare i residui viventi delle epoche storiche – si deve viaggiare, come viaggiò il padre Erodoto, nelle nazioni – queste sono infatti solo gradi di civiltà più antichi, che si sono fissati, e

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sunzione dell’origine «prevalentemente» animale dell’uomo50; g) la rivitalizzazione delle «pietrificazioni del sentimento»51.

su cui ci si può posare – tra le popolazioni selvagge e semiselvagge, specie là dove l’uomo ha smesso, o non lo ha ancora vestito, l’abito dell’Europa» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte prima, n. 223, p. 87). Il tema del “viaggio” ricorre in vari luoghi nietzscheani, e sempre in posizioni rilevanti; ad esempio, quando in un frammento giovanile (1874) si sofferma sui compiti dell’«Educazione del filosofo», egli indica al primo posto la necessità di «renderlo insensibile all’elemento nazionale, facendolo viaggiare da giovane» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte II, n. 32 [73], p. 389). 50. «Quanto è fallace la sensazione! In fondo a tutti i nostri movimenti che abbiano per base delle sensazioni si trovano giudizi – opinioni assimilate su determinate cause ed effetti, su di un meccanismo, sul nostro “io”, e così via. Ma è tutto falso! Ciononostante: anche se sappiamo come stanno le cose, appena agiamo praticamente, siamo costretti ad agire contro ciò che sappiamo e a metterci al servizio dei giudizi della sensazione! È questo il gradino della conoscenza – molto più antico di quello dell’invenzione del linguaggio – e ha in sé elementi prevalentemente animali» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [323], p. 452). 51. «Uscendo all’aperto, mi stupisco sempre di pensare con quale magnifica determinatezza tutto agisce su di noi, la foresta così, e il monte così, e che in noi non c’è confusione, errore, esitazione riguardo a tutte le sensazioni. Eppure deve esserci stata un tempo la massima incertezza e qualcosa di caotico; soltanto dopo immensi spazi di tempo tutto ciò è stato così saldamente trasmesso; uomini che sentivano in modo essenzialmente diverso la distanza, la luce, il colore, e così via, furono eliminati, e difficilmente poterono riprodursi. Questo modo di sentire diversamente deve essere stato giudicato ed evitato, per lunghi millenni, come “la follia”. Non ci si intendeva più, si lasciò che l’“eccezione”, isolata, perisse. Un’immane crudeltà è esistita fin dagli inizi di tutto il mondo organico, che ha escluso ciò che “sentiva diversamente”. – La scienza, forse, non è se non la continuazione di questo processo di esclusione; essa è del tutto impossibile, se non si riconosce l’“uomo normale” come la misura suprema, da conservare con tutti i mezzi! – Noi viviamo dei residui delle sensazioni dei nostri primi antenati: in pietrificazioni del sentimento, per così dire. Essi hanno poetato e fantasticato – ma la decisione se la tale poesia o fantasia avesse il permesso di sopravvivere veniva dall’esperienza che diceva se con essa era possibile vivere o si periva.

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Per inciso, notiamo come non appaia sufficiente riferirsi alla fenomenologia52 per descrivere il senso del lavoro di ricerca di Nietzsche, in base al fatto che egli parli sempre di “interpretazioni”. Si tratta infatti non di celebrare impressioni e intuizioni personali, ma di un recupero, stimolato dalle osservazioni del presente, di ciò che altri, nel tempo, hanno vissuto, pensato e interpretato. Ci troviamo pertanto di fronte, come è stato notato, a un «discorso su dei discorsi»53, anche se per comprendere Nietzsche è necessario non perdere mai di vista l’uomo e la sua concretezza storica e sociale. Dietro di noi non permane infatti soltanto un indefinibile insieme di conoscenze da cui si impone l’urgenza dell’ermeneutica, ma soprattutto i «residui delle sensazioni dei nostri primi antenati», da cui proviene l’istanza dell’aggiornamento, ma non di un nuovo metodo di ricerca. Il compito sarà così quello di rapportarsi ai suoi scritti rilevandone il principio metodico, onde il pensiero filosofico studia il passato ipotizzando ciò che può essere accaduto nel momento in cui il sapere umano muovendosi nella palude e dalla palude, attraversava una soglia importante, in cui nasceva un nuovo modus agendi et cogitandi. Accogliendo il suo invito, l’obiettivo “genealogico” diviene pertanto quello di immergersi «nell’oceano delle passate concezioni del mondo»54 e ricercare gli eventi «nel loro nascere»55, indagando quanto può essere accaduto in rapporto alle ipotizzabili condizioni del tempo ed all’idea non «dell’uomo che sa»,

Fossero errori o verità – purché rendessero possibile la VITA» (ivi, n. II [252], pp. 422-423). 52. Cfr. Vattimo G., Il soggetto e la maschera, cit. 53. Foucault M., L’archeologie du savoir, Gallimard, Paris, 1969; tr. it. L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano, 1971, p. 232. 54. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 616, p. 292. 55. Ivi, n. 10, p. 20.

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ma dell’uomo «che può»56: dell’uomo che ancora non è pervenuto al sapere, e quindi alla capacità di gestire le situazioni, ma che ancora vaglia possibilità o, meglio, assapora il valore stesso della possibilità e, come direbbe Heidegger, della sua preminenza sull’effettività. Dell’uomo che indugia sulla soglia della scelta e quindi si decide ad attraversarla e, così facendo, passo dopo passo, con fatica giunge al mondo in cui noi viviamo. Come sempre, per Nietzsche il tema della filosofia non è quello dell’unità della storia, né della Wirkungsgeschichte gadameriana, o della continuità e uniformità dello sviluppo umano. Non è in questione il problema del senso grazie a cui l’intellettuale può prendere le distanze dal condizionamento del quotidiano e rivolgersi in modo certo alla pratica. Non della Verità si tratta insomma, ma della verità che sostiene la vita piuttosto che avvilirla: delle «nuove verità», delle cose non ancora scoperte e utili all’uomo. Da qui l’importanza accordata al tema del «commediante», e alla sua funzione nella creazione di condizioni adatte alla vita ed alla cultura. All’origine dell’artista e del genio c’è infatti l’uomo, in particolare uno specifico tipo di uomo, quello a cui Nietzsche è (per principio) ostile: l’uomo del «basso popolo»57. Dopo i sensi, infine troviamo l’operazione conoscitiva propriamente e tradizionalmente intellettuale (quale incontro di forma e contenuto nel concetto), che ora deve concludere e certificare il superamento dell’Idealismo e la sua opera creazione di significati, indiscutibilmente utili, ma non necessariamente veri: deve tenere conto di quanto visto sull’essenza del filosofo e sulla riscoperta dei sensi, e sul ruolo del rapporto tra dionisiaco e apollineo in relazione alla formazione ed alla

56. Nietzsche Fr., Considerazioni inattuali, I-III, cit., p. 141. 57. Cfr. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 361, p. 278.

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precipitazione del concetto nella sua dinamica di semplificazione/«falsificazione» della realtà. Non è più dunque soltanto questione di immagini e di idee relative, o di passaggio dal vedere all’ascoltare (che esalta la passività della coscienza e consente l’ex-sistere delle cose), ma di intenzionalità scientifiche complesse che tendono a strutturarsi, tramite l’ipotesi, dietro l’urgenza dell’evento e della volontà di sapere. L’esperienza conoscitiva non può essere più la conclusione di un contatto, di un incontro casuale della coscienza con una resistenza esterna che non si lascia assimilare, riflettere, ridurre in immagine o in intuizione ma che, al contrario, rimane protervamente collocata nello spazio e nel tempo, onde si porrebbe sempre il problema di un contrasto, di uno sforzo cui il soggetto sarebbe condannato in eterno. È, invece, in questione lo svolgimento dell’annoso problema del rapporto tra filosofia e scienza, in cui si assegna ora alla prima ed ora alla seconda la priorità assoluta in seno alla problematica gnoseologica, questione che deve giungere a contenere al proprio interno la risposta alla duplice esigenza della filosofia come bisogno dell’uomo e della scienza come risorsa pratica, funzionale a rendere tale bisogno non conclusivo o esaustivo, ma risolvibile in modo sempre più soddisfacente. Ciò che ormai appare chiaro, dopo l’inserimento “forzato” del pensiero nel mondo, è l’insufficienza delle modalità ideate in passato per stabilire un rapporto del pensiero con l’essere, tali da strutturare il momento in cui il soggetto si autotrascende per concretizzare la propria intenzionalità e raggiungere il dato. Una insufficienza relativa all’intellettualismo del loro radicamento nell’orizzonte dello scienziato che «sorvola» il mondo e sposta l’analisi dell’uomo dall’esistenza al significato. Non è perciò la riflessione, il ritorno necessario al soggetto, che istruisce e prepara la mediazione, ma è il senso sociale che, attraverso l’uomo, porta allo scoperto caratteristiche del

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reale che rivelano un determinato valore già sperimentato dalla comunità: nello spazio orizzontale e non verticale della memoria (passato e presente che, come tali, richiedono un futuro e costruiscono un senso, un telos), non troviamo unicamente la cosa intersensoriale, o multisegnica, ma anche quella plurisensoriale e comunitaria, o meglio, comunitariamente plurisensoriale58. Di fronte a tutto ciò, si comprende come lo stesso rifiuto della coscienza e del soggetto sia interamente subordinato all’orizzonte della coscienza finché l’intero discorso non viene riportato alla storia e all’ontologia materialistica, e non si scopre come autocoscienza culturale, come orizzonte cioè in cui le produzioni della natura e quelle dell’uomo si intersecano di necessità con risultati variamente giudicabili ma pur sempre presenti e operanti, anche se l’intellettuale «separato», che si vuole “panoramico”, non risolve il rapporto soggetto-oggetto o non lo dichiara morto e sepolto.

58. Spiega infatti Masullo, che «è la comunità umana che fonda la soggettività e quindi l’oggettività» (Masullo A., Il senso del fondamento, Editoriale Scientifica, Napoli, 2007, p. 162, n. 16), in quanto «senza pluralità, non v’è oggettività» (ivi, p. 119). Ciò si comprende se ci si rapporta alla «pluralità dell’uomo […] non come accidentale, ma come essenziale» (ivi, p. 138), poiché «il soggettivo è, in breve, la pluralità comunicante: pluralità comunicante intra-soggettiva (tempo e memoria), che suppone a sua volta la fondamentale pluralità comunicante inter-soggettiva (la comunità)» (ivi, p. 139, cors. nel testo). E questo perché, «esser “soggetto” significa aver trasferito il comune di molteplici possibilità nell’“oggetto”, e avere nello stesso tempo conferito uno status di oggettività formale (non di “oggetto”, cioè, ma di forma della relazione in cui si definisce la oggettività degli oggetti) alla propria possibilità o soggettività, che si costituisce così come “io”» (ibidem.). Di conseguenza, «il fondamento dell’oggettività comincia ad apparire come il fondamento stesso dell’uomo, la cui soggettività è una possibilità, cioè il vivere nell’orizzonte dell’oggettività, come coscienza oggettiva o coscienza del significato o coscienza della possibilità di ogni fatto che di volta in volta l’umano possibile è» (ivi, p. 122).

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E si spiega altresì che il ricorso all’immagine quale premessa del concetto, nel suo rapporto con la cosa e con la parola, non diviene “altro” non appena se ne teorizza l’apertura, affidata all’emozione, ma soltanto quando se ne vede la nascita nella comunità che distingue l’irreale dal reale: il peso bruto della materia dalla sua traduzione operativa, funzionale, nell’anima. In termini gnoseologici, si può dire che il rapporto della cognizione con il suo oggetto necessita di due condizioni: che l’oggetto sia esterno al pensiero e che sia “di contro”, cioè alla portata delle nostre possibilità strutturali di coordinazione del pensiero con l’oggetto: una alterità assolutamente altra non sarebbe infatti conoscibile. È la corretta posizione della questione del Trascendentale che è non una condizione dell’interiorità da scoprire e portare in superficie, ma un’operazione (e neanche soltanto kantianamente categoriale), un «comportamento trascendentale»59, quindi una sintesi, perché attraverso il gioco dei sensi degli ideati gli eventi cessano di essere fenomeni relazionali per diventare elementi significanti. Non più quindi soltanto significato o ideale anticipato, al punto da vanificare il collocarsi della filosofia nell’orizzonte di domanda e risposta, da qualche veduta metafisica, ma “cosa” che si dota di significato non appena si verificano le condizioni del conoscere. Giunti così all’analisi della quinta figura indicata, la verità come generalità o tipicità e non come universalità/oggettività, rileviamo momenti diversi dell’operare conoscitivo che cercano di mettere a fuoco la molteplicità all’interno dell’oggettività stessa. A tal fine si rende però necessario isolare due diverse concezioni dell’“oggettività”.

59. Cfr. Manno M., Il comportamento trascendentale, Peloritana, Messina, 1973.

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Una prima, equivoca e poco funzionale, che vede l’uomo, “gettato” nel mondo, «errare negli enti», letteralmente reificato, ridotto a cosa tra le cose, e può essere richiamata tanto per fini nobili e grandi (come il superamento dell’alienazione), quanto per “pretestuose” contrapposizioni del pensiero all’umanesimo (responsabile di aver “obliato” l’essere nella tecnica), se non addirittura in vista di nostalgici ritorni ad ottiche universalistiche ormai tramontate. E non è certo un caso che in questo contesto si cerchi di spostare l’interesse umanistico dall’alienazione (come superamento del non-essere individuale) all’identità (come fondazione dell’essere individuale mediante la liberazione di sé), che è problema dell’intellettuale di professione, non di quello genericamente esistenziale. Il secondo tipo di oggettività invece, d’origine assolutamente mondana, si impernia sulla concezione del mondo come «mondo di relazione», insieme di forze contrastanti viste «da cento occhi», poiché «quanti più affetti lasciamo parlare sopra una determinata cosa, quanti più occhi, differenti occhi sappiamo impegnare in noi per questa stessa cosa, tanto più completo sarà il nostro “concetto” di essa, la nostra “obiettività”»60. Ed è proprio a questa «“obiettività”» resa possibile dal pensiero della relazione che si rivolge Nietzsche, con impegno e con intenti d’innovazione. La “nuova” oggettività si presenta pertanto: a) come critica di una «specie di vampirismo»61; b) come uso adeguato dell’intelletto come «strumento dei no-

60. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 323 61. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 372, p. 295.

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stri istinti»62; c) come relazione di una forza con un’altra63; d) come «semplificazione»64; e) come collaborazione di senso 62. «L’intelletto è lo strumento dei nostri istinti e nulla più, non è mai libero. Si tempra nella lotta dei vari istinti, e con ciò affina l’attività di ogni singolo istinto. Nella nostra più grande equità e onestà è contenuta la volontà di potenza, di infallibilità della nostra persona: lo scetticismo è dimostrato soltanto nei riguardi di qualsiasi autorità, non vogliamo essere gabbati, neppure dai nostri istinti! Ma che cos’è propriamente a volere tutto ciò? Un istinto, certamente!» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi (1879-1881), cit., n. 6, [130], p. 454). 63. «Che cos’è dunque conoscenza? Il suo presupposto è una limitazione erronea, come se esistesse un’unità di misura della sensazione; ovunque si trovano specchi e organi del tatto, nasce una sfera. Se, col pensiero, si elimina questa limitazione, si elimina anche la conoscenza: concepire “relazioni assolute” è assurdo. Dunque l’errore, la parvenza è la base della conoscenza. Solo mediante il confronto di molte parvenze nasce la verosimiglianza, dunque gradini di parvenza. Egualmente il linguaggio è una presunta e creduta base di verità: l’uomo e l’animale costruiscono dapprima un mondo nuovo di errori, e affinano sempre più tali errori, in modo che vengono scoperte innumerevoli contraddizioni, e con ciò si diminuisce la quantità degli errori possibili, oppure si esaspera l’errore. “Verità”, a dire il vero, si trovano soltanto nelle cose inventate dall’uomo: per esempio, il numero. Egli vi mette dentro qualcosa e poi lo riscopre – questo è il modo della verità umana. Inoltre, la maggior parte delle verità sono di fatto solamente verità negative: “Questo e quello è, l’altro non è” [...]. Questa è la sorgente di ogni progresso della conoscenza. Il mondo dunque, è per noi la somma delle relazioni rispetto a una sfera limitata di ipotesi fondamentalmente erronee» (ivi, n. 6, [441], p. 520). Il dato impone all’uomo la sua presenza e si porta dietro le sue “regole” (l’estensione, la durata, etc.) a cui l’uomo deve rispondere con le proprie (lo spazio, il tempo, l’abitudine, la continuità, la contiguità e disposizione degli oggetti, la relazione, la sintesi, etc.). 64. «Vi sono stati innumerevoli modi cogitandi, ma si sono conservati soltanto quelli che portavano avanti la vita organica – saranno stati anche i più raffinati? La semplificazione è il bisogno principale dell’essere organico; vedere i rapporti molto più concisamente, cogliere la causa e l’effetto senza i numerosi anelli intermedi, trovare simili molte cose non simili – tutto ciò è stato necessario – così il nutrimento e l’assimilazione sono stati ricercati molto più di tutto il resto, perché molto più spesso è stata stimolata la credenza che ci fosse da trovare qualcosa per nutrirsi – un grande vantaggio

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e intelletto65; f) come idealizzazione “determinata” dei «tratti principali, così da far scomparire in tal modo gli altri»66.

per l’incremento dell’essere organico! Il desiderio, moltiplicato per mille dalla probabilità di appagamento moltiplicata per mille, gli organi di questa ricerca rinvigoriti – l’errore e l’equivoco possono crescere all’infinito, ma le occasioni favorevoli diventano più FREQUENTI! L’“errore” è il mezzo per ottenere il caso fortunato!» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 18811882, cit., n. II [315], p. 448). È la divisione di Cartesio che fa sentire i suoi effetti con prepotenza, in quanto ripresa degli antichi “confronti” da cui è nata la ragione, organizzando il dato in un modo o in un altro onde non si strutturano mai «relazioni assolute». 65. «L’ebbrezza apollinea riesce soprattutto a eccitare l’occhio, così che esso acquista la forza della visione. Il pittore, lo scultore, il poeta epico sono visionari par excellence. Nello stato dionisiaco per contro l’intero sistema degli affetti è eccitato e potenziato, in modo che questo scarica in una volta tutti i suoi mezzi espressivi e al tempo stesso tira fuori e mette in rilievo la forza del rappresentare, del riprodurre, del trasfigurare, del trasformare, ogni specie di mimica e di arte da commedianti» (Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit., pp. 113-114). Questo è il punto più innovatore dell’intera elaborazione, in quanto il senso nella tradizione non collabora ma, al massimo, fornisce la presenza dell’oggetto, consente tramite l’impressione di distinguere tra essere ideale o fantastico ed essere possibile, sebbene non riguardi l’ambito dell’invenzione razionale, dove la finzione si crede sovrana, specie come intuizione o immaginazione libera, fantasia. Nasce così l’ideaguida che agglomera le cose e le esperienze conferendo loro compattezza e valore di ipotesi interpretativa, sia a livello locale (concetto), sia a livello globale (sistema). L’idea, che in filosofia si vuole intuitiva e necessaria perché contiene i germi del sistema, sorge in effetti dall’ideale, che si concretizza in idea quando non può essere più sostituito o per verifica o per fine della riflessione sull’argomento. 66. «L’essenziale nell’ebbrezza è il senso dell’aumento di forza e della pienezza. Di questo sentimento si fanno partecipi le cose, le si costringono a prendere da noi, le si violentano, – questo processo si chiama idealizzare. Liberiamoci qui di un pregiudizio: l’idealizzare non consiste, come si crede comunemente, in una sottrazione o in una eliminazione di ciò che è piccolo, accessorio. Il punto decisivo sta piuttosto nel tirar fuori grandiosamente i tratti principali, così da far scomparire in tal modo gli altri» (ivi, pp. 112113).

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In particolare, l’idealizzazione determinata, «nel tirar fuori grandiosamente i tratti principali» di una data realtà che, se ripetuti a sufficienza, garantiscono generalizzazioni in grado di delineare tipi, specie e generi, in definitiva è in grado di fornire quanto ricercato dalla scienza. L’elemento “generale” e la relativa applicazione a una molteplicità possibile di casi non nasce quindi dall’approssimazione, dalla genericità, ma al contrario dalla specificità, che consente l’individuazione del tratto distintivo che caratterizza un dato fenomeno. In questa direzione è possibile determinare significati e non verità, risalire ogni momento oltre la palude per dominarla, senza però mai obnubilare il rapporto con essa neanche quando, come oggi avviene, vagando sulla superficie delle cose, il pensiero filosofico si fa forte della Krisis del Soggetto, di una crisi che colpisce ancora una volta un aspetto del pensiero tradizionale e metafisico, mentre non scorge che l’assumerlo come unico obiettivo polemico significa, in definitiva, rafforzare ciò che resta, liberare le vedute universali da una contraddizione ormai evidente. Significa, insomma, permanere nell’Idealismo. Ora, il pensiero dell’essere produce all’incrocio di singolare e universale: nell’oggettivo. Partendo dalla socialità dei sensi e dall’importanza del criterio epistemologico della prossimità con le cose, di cui «dobbiamo ridivenire buoni vicini»67, Nietzsche giunge ad una ragione che vuole costruire singolarmente, ma con valenza universale, ed è consapevole delle difficoltà di tale impresa. È per questo che egli può obiettare a Kant che in effetti «è egoismo sentire il proprio giudizio come legge

67. «Noi dobbiamo ridivenire buoni vicini delle cose prossime e non distogliere da esse lo sguardo così sprezzantemente come finora si è fatto, mirando alle nuvole di là da esse e ai mali spiriti della notte» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 16, p. 144).

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universale, ed è daccapo un egoismo cieco, limitato, senza pretese poiché rivela che tu non hai ancora scoperto te stesso, che non hai ancora creato a te stesso un tuo proprio ideale, un ideale assolutamente tuo»68. Ma, cosa più importante, egli può sostenere che, ricordiamolo, gli uomini d’alto livello «vedono e ascoltano indicibilmente di più, per il fatto che vedono e ascoltano pensando: questo appunto differenzia l’uomo dall’animale e gli animali superiori da quelli inferiori»69. E qui forse si allenta il nodo del rapporto senso-intelletto: dopo il passaggio dalla separazione all’autonomia, tale rapporto è nell’esperienza e nella «teoria della ripetizione di tutto ciò che è esistito»70, in modo che il ritorno si pone in seno ad un esperire che è di «tutto l’uomo», e non solo del pensiero. Una prova che chiama in causa l’umano nella sua interezza71, o meglio, la «specifica multilateralità dell’uomo»72. Dove tutto diviene, anche i concetti trovano, perdono e modificano la loro forma insieme alle note che li contraddistinguono. Non si danno, tuttavia, approssimazioni o genericità. Un uomo reale è in tutto e per tutto qualcosa di necessario (anche in quelle cosiddette contraddizioni), ma noi non sempre conosciamo questa necessità. L’uomo inventato, il fantasma, vuole significare qualcosa di necessario, ma solo agli occhi di quelli che intendono anche un uomo reale secondo una rozza e innaturale semplificazione: sicché un paio di tratti forti, spesso ripetuti, con molta luce sopra e molta ombra e penombra intorno, soddisfano completamente le loro esigenze. Essi sono, cioè, subito pronti a trattare il fantasma come uomo reale e necessario, perché sono avvezzi a prendere, 68. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 335, p. 228. 69. Ivi, n. 301, p. 205. 70. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [165], p. 391. 71. Cfr. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 107, pp. 83-85. 72. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 34 [179], p. 158.

266 nell’uomo reale, un fantasma, un’ombra, un’arbitraria abbreviazione per il tutto73.

Non le fluttuazioni insegue, fino alla fine, Nietzsche, (e certamente non le cerca in Sterne, come vorrebbe Negri74), ma le «decisioni durevoli»75, che operano sempre di necessità in un ambiente caotico e sempre in divenire, la palude, in cui pensare diviene problematico.

3. Pensare nella palude Nella palude, intesa come paradigma dell’inizio di ogni comportamento razionale, non rimane spazio per le separazioni originarie e fondanti di un qualsivoglia «Principio, Serbatoio, Riserva, Origine», come direbbe Deleuze76. Diviene invece fondamentale sia la divisione funzionale del linguaggio, ispirato alle partizioni dualistiche di natura pitagoricoplatoniche77 (“amico-nemico”, “bene-male”, “vita-morte” e, quindi, in filosofia, alle partizioni “essere-non essere”, “verofalso”, “senso-non senso” etc.), sia l’organizzazione linguistica del reale, in cui anche il falso può apparire vero e si impone la

73. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 160, p. 128. 74. Cfr. Negri A., Nietzsche. La scienza sul Vesuvio, cit., pp. 128-130. 75. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 212, p. 121. 76. Deleuze G., Logique du sens, Éditions de Minuit, Paris,1969; tr. it. Logica del senso, Feltrinelli, Milano, 1975, p. 70. 77. Come è stato notato, infatti, «tutto il patrimonio nozio-onomatologico della cultura greca riflesso nella letteratura platonica si muove nell’humus dottrinale orfico-pitagorico, si presenta cioè dualisticamente, oppositivamente impiantato e svolto» (Buccellato M., Filosofia e linguaggio filosofico, in “Rivista di filosofia”, vol. XLII – VI della Terza serie -n. 3, Luglio-Settembre 1951, pp. 237-261, p. 253).

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necessità di ri-pensare il pensiero. Il pensare inesauribile non ha significato generico, incentrato sul registro della memoria e dei suoi accantonamenti che ritornano come elementi centrali del concetto, ma si articola in una diversa accezione della trascendenza, fruizione dell’empirico, operatività o strumento, rappresentazione, conoscenza, sintesi, ripetizione e, soprattutto, in espressione simbolica, trasmissione, rispecchiamento dell’uomo naturale: insomma genealogia, “pensiero all’indietro”, che arretra alla ricerca di ciò che può essere accaduto quando gli uomini hanno cominciato ad agire e si sono corretti in questo o in quel campo (inteso come momento originario e fondante) del mondo, e neanche per quelle di ruolo nel presente. Pensare l’uomo soltanto tra uomini, seguire la nascita della filosofia soltanto al tempo di Socrate e di Platone, conduce alla morale e al dualismo bene-male e, dunque, a formalizzare (rimanendone prigionieri, specie con Parmenide) quel tanto di dualistico che c’era nel mito e nella religione. Significa cioè accettare la ragione per quello che appare nel dialogo del sofista con Socrate: come sapere di un uomo e non-sapere di un altro, sapere troppo umano che con Platone deve soltanto diventare Vero, deve essere tradotto sul piano Metafisico. Pensare nella palude implica invece adottare un pensiero della relazione che muove a riscoprire i sensi sociali e una filosofia viva perché costruttiva. A ben vedere, pensare nella palude significa fare i conti filosoficamente con la cultura contemporanea, costretta oggi a ricercare una enciclopedia delle scienze capace di contrastare l’attuale dominio della tecnica senza “demonizzazioni parolaie”. Significa focalizzare il nesso dell’incrocio singolare-universale con una possibile mediazione di questo: nominare il materialismo e preparare un’idea della società in cui ci sia posto per gli esclusi e per una filosofia capace di garantire loro un posto nel mondo e nel pensiero. In

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definitiva, pensare nella palude significa svelare due elementi importanti, tra loro in rapporto di reciproco completamento; osserviamoli. Primo obiettivo: rilevare il carattere paradigmatico della figura storica dell’alexìkakos e della sua istanza di superamento del mondo e di liberazione da chi non partecipa di tale natura. Nell’etica eroico-aristocratica è da individuarsi infatti uno dei nuclei originari dello spiritualismo che, sulla base di una presupposizione universalistica, va a coprire la reale composizione dei rapporti umani, già aprioristicamente orientati da una condizione universale distintiva, votata all’esclusione. Troviamo quindi la base per l’elaborazione di ogni spiritualismo, che risulta perciò sempre datato, determinato ed elaborato al fine di rispondere a problemi del tempo in cui sorge e non dell’eterno: non riconducibile ad un criterio di valore in base al principio del vero e del falso. Si può cogliere il rapporto di tale superamento del mondo con la comparsa della lirica greca, che sposta l’interesse umano dai problemi del conoscere l’oggetto verso quelli del senso dell’oggetto che si trova con la riflessione, e quindi con un restringimento del campo operativo della ragione, con la riduzione del conoscere alla ricerca di un fondamento. Riflessione e meditazione coincidono con l’intero orizzonte dell’individuo. Ne derivano due conseguenze, in quanto bisogna riconoscere da una parte che la ricerca del “fondamento” non è un processo che rinuncia all’estensione per guadagnare in intensione, ma solo una perdita del molteplice, che non soltanto ne determina la riconduzione al senso unico della Filosofia della storia, ma ne comporta la perdita di ogni senso effettivo; dall’altra, che la Metafisica appare superflua se la si pretende conoscenza generalizzata, universale, mentre diviene effettiva finché risponde ai problemi della parte sociale che la promuove e vi si riconosce, in quanto cioè ne rappresenta l’ideologia, e si affianca a quello «strato assai terrestre e oscuro di passione, errore, avidità di potere e

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di onori, di forze ancora attive dell’imperium romanum, uno strato da cui il Cristianesimo ha preso quel gusto terreno e quel residuo terreno, che gli hanno reso possibile il perdurare in questo mondo e gli hanno dato per così dire la sua stabilità»78. Il pluralismo nasce soltanto con il materialismo e con la persona (ogni persona, compreso il malvivente) che si mostra come essere che è insieme dover-essere. Il compito diviene così quello di ritornare al conoscere radicato originariamente e direttamente nella molteplicità, in cui il pensiero opera con una logica filosofica di natura “ergologica”, in grado quindi di acquisire la verità andando oltre il metodo dell’ipotesi (logica sperimentale), della matematica (logica simbolica), del funzionalismo o dipendenza, che satura le condizioni funzionali (linguistiche), per coprire quegli spazi operativi che restano estranei ai sistemi logici già noti e nati per altri scopi. Spazi che diventano evidenti e praticabili appena si considera l’unilateralità e la parzialità cui soggiace di necessità ognuna delle logiche richiamate, e che così impongono di tentare, invece, una loro organica riunificazione. Secondo obiettivo: rilevare il ritorno al mondo attraverso «il contare, il numerare, l’eguagliare» e, dopo l’assunzione del «corpo storico naturale» come orizzonte proprio dell’uomo (reso evidente da Hegel e da Marx), passare alla conoscenza come ampliamento progressivo della rete concettuale offerta dalle scienze, attraverso scomposizioni e precisazioni che restituiscano il quadro umanistico, cioè filosofico, del reale. Quindi ri-pensare il soggetto non come soggetto gnoseologico, soggetto della riflessione, ma come nesso, crocevia materiale, luogo di transito del senso che nel “soggetto” classico e nelle sue leggi d’azione e di conoscenza trova anche un rispecchiamento cosciente, per approdare infine alla teoria

78. Nietzsche Fr., Considerazioni inattuali, I-III, cit., p. 341.

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sociale che non appaia come forma del dominio. Ciò può avvenire se si presta attenzione al fatto che l’opposizione di essere e pensiero consenta il “divenir-soggetto” della sostanza non in termini di compiutezza o autofondazione, ma venga inteso come processo a duplice percorso individuale e sociale. Della persona importa non tanto la definizione, poiché la teoria deve sempre lasciar trapelare la parte che essa recita, senza quindi cadute o derive istrionesche. A questo punto rimane da condurre il logos come ragione dell’essere nell’ultimo nascondiglio in cui si cela la vecchia volontà di universalità: il privilegio della teoria rispetto alla pratica, posizione che è però sempre da considerare, direbbe Derrida, «logocentrica». Se il riferimento ad un essere forte può fondare l’identità ma può anche rivelarsi come nuovo legame, l’opposto riferimento ad un essere debole è sufficiente per strappare il singolo ai vincoli del quotidiano e dell’«errare negli enti». Ma il problema si configura in questi termini unicamente se il filosofo permane all’interno della problematica metafisica umanistica che cerca rassicurazioni e non si porta mai sul piano della vita o addirittura su quello, secondo Nietzsche, più realistico della morte. Pertanto, se il pensiero non opera intendendo il nichilismo come pura perdita o come «chance» imprevista79, mentre invece individua la persistenza dell’uomo nella palude ed il suo bisogno di pratiche e di teorie adeguate, la situazione appare differente: l’uomo si guarda attorno da ogni lato, vede «da cento occhi», non cerca identità ma relazioni e, in questo modo, si dispone ad accogliere la molteplicità. E se, da questo punto di vista, osserviamo la Krisis del Soggetto, le cose non cambiano di molto: non ci troviamo di fronte alla perdita dell’umano o della sua sostanza a favore del for79. Cfr. Nancy J.-L., Essere singolare plurale, cit.

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malismo, o del venir meno del centro stabile della metafisica a favore dell’indifferenza e della molteplicità come “guazzabuglio informe”, ma ad un nuovo concetto dell’umano più ampio e meno categorico o categorizzabile, in una visione dell’identità sempre esposta alla relazione, a cui si può pervenire nel momento in cui si prende atto di elementi che abbiano già analizzato, a cominciare da quanto visto sul soggetto della metafisica, che per Nietzsche altro non è che il risultato di un complesso di stratificazioni80. Di rimando, tale approccio relazionale si riflette sull’“oggetto” poiché, ricordiamolo, «se rinunciamo al soggetto agente, rinunciamo anche all’oggetto su cui si opera. La durata, il restare uguale a sé, l’essere non ineriscono né a ciò che si chiama soggetto, né a ciò che si chiama oggetto: sono complessi dell’accadere, apparentemente duraturi in relazione ad altri complessi»81. Parimenti, una visione relazionale si annuncia laddove si problematizza quella della sostanza, che viene a cadere insieme a quella del soggetto, poichè secondo Nietzsche, «il concetto di sostanza è una conseguenza del concetto di soggetto: non inversamente! Se abbandoniamo l’anima, “il soggetto”, viene a mancare il presupposto di una qualunque “sostanza”. Si acquistano gradi dell’essere, si perde l’essere. […] Il nostro grado di sentimento della vita e della potenza (logica e connessione del vissuto)

80. «Soggetto: è questa la terminologia del nostro credere in un’unità attraverso tutti i diversi momenti di altissimo sentimento della realtà; noi intendiamo questo credere come effetto di una sola causa, crediamo al nostro credere fino al punto di fantasticare, per amor suo, di una “verità”, di una “realtà”, di una “sostanzialità”. “Soggetto” è la finzione derivante dall’immaginare che molti stati uguali in noi siano opera di un solo sostrato; ma siamo noi che abbiamo creato l’“uguaglianza” di questi stati; il dato di fatto è il nostro farli uguali e accomodarli, non l’uguaglianza (che è anzi da negare)» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n.10 [19], pp. 115-116). 81. Ivi, n. 9 [91], p. 42.

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ci dà la misura di “essere”, “realtà”, non-illusione»82. In tal guisa, il discorso sulle sostanze e, quindi, sulla Sostanza, viene edificato sulla base di una considerazione dei sensi già del tutto rifiutata dal filosofo tedesco. Vige qui il grossolano pregiudizio sensistico che le sensazioni ci insegnino verità sulle cose – che io non possa nello stesso tempo dire di una stessa e medesima cosa che è dura e che è molle. […] La logica è il tentativo di comprendere, o meglio di rendere per noi formulabile, calcolabile, secondo uno schema di essere da noi posto, il mondo reale83.

I sensi non insegnano e quindi non sbagliano, in modo da richiedere il ricorso alla fondazione emendatrice dell’Io, ma rapportano al mondo e al suo costitutivo carattere relazionale e contrastivo. Ma tale espressione ancora non satura tutto quello che si potrebbe dire partendo dai nuovi sensi come necessari per l’esperienza, come tramite di essa attraverso la «dissimulazione». Il crescere della «dissimulazione» secondo la gerarchia ascendente degli esseri. Nel mondo inorganico, essa sembra mancare, in quello organico comincia l’astuzia: le piante ne sono già maestre. Gli uomini massimi, come Cesare, Napoleone […], e del pari le razze superiori (gli Italiani), i Greci (Odisseo); la scaltrezza appartiene all’essenza dell’elevazione dell’uomo… problema dell’attore. Il mio ideale di Dioniso… Punto di vista di tutte le funzioni organiche, di tutti i più forti istinti di vita: la forza vuole l’errore in ogni vita; l’errore come presupposto stesso del pensiero. Prima che si «pensi» si dev’essere già «inventato»; la formazione predisposta di casi identici, dell’illusione dell’uguaglianza, è più originale della conoscenza dell’uguale84.

82. Ivi, n. 10 [19], p. 115. 83. Ivi, n. 9 [97], p. 48. 84. Ivi, n. 10 [159], pp. 191-192.

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Non si può più nascondere infatti che la ragione ha origine «dal mondo empirico»85. A venire rifiutato da Nietzsche non è pertanto il comprendere in quanto tale, l’idea che le cose abbiano uno stato o un grado, bensì una visione della conoscenza come idealizzazione/creazione, e quindi una concezione del reale conseguente ad una opera di sua ri(con)duzione ideale. Nel reale non troviamo sostanze, ma vita, volontà di potenza, cioè un «qualcosa che voglia crescere e che interpreti sul suo valore ogni altra cosa che voglia crescere»86. Non c’è una sostanza, ma relazioni che non coincidono con un aggregato di equazioni o con un principio per natura impotente. La «pienezza e perfezione animale» è la premessa di qualunque azione umana riuscita. Quando si parla di conoscenza non c’è soltanto la corrispondenza, l’adaequatio, l’incontro delle parole e delle cose, ma anche la pienezza del “soggetto” che solo può restituire una cosa coerentemente pensata e totale. A questo punto, il “sistema” nietzscheano sembrerebbe pronto per mostrare la sua capacità di lettura del reale. In quanto originato nella pratica, non va infatti “arrotondato” all’infinito, ma applicato. Platone è di fatto il grande maestro di Nietzsche, il grande educatore, e non già Schopenhauer. E solo così il filosofo può sentirsi compiuto e può coronare degnamente la sua vita, di necessità “breve”. Tuttavia, la ridefinizione del concetto di “verità” nel suo legame con i sensi sociali fornisce a Nietzsche le coordinate per ri-pensare il radicamento nella palude, sebbene permanga la domanda relativa alle condizioni per esprimere tale radicamento. Il dato su cui riflettere, in definitiva, è quello di superare la “naturale” tendenza del linguaggio alla ri(con)duzione concettuale e rappresentativa.

85. Ivi, n. 9 [98], p. 49. 86. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 2 [148], p. 126.

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In tal senso, il filosofo avverte la necessità di penetrare l’orizzonte del simbolico in vista di una sua modulazione, tale da renderne fattivo il riferimento alla relazione: se pensare la relazione è già uno dei dilemmi profondi della filosofia, tale dilemma si acuisce nel momento in cui essa si propone di esprimerla. Il rischio è quello della sostanzializzazione del riferimento, di una sua “reificazione” categoriale funzionale alle necessità della comunicazione ma esposta alle insidie del linguaggio, in modo che la decostruzione dei presupposti della metafisica impone una conversione dello sguardo filosofico verso un radicamento della mediazione nell’immediato relazionale, al fine di riuscire a portarlo ad espressione senza perderlo come tale nella rappresentazione.

4. Il peso del simbolico Traiamo inizio dalla musica, che secondo Nietzsche più di ogni altro mezzo artistico consente di esprimere il radicamento nella palude, e dunque dal musicista, «maestro di piccole cose». Superata la fascinazione wagneriana, è alla musica di Bizet che il filosofo si rivolge: una musica «amabile», che «non fa sudare». «Il bene è leggero, tutto ciò che è divino corre con piedi delicati»: principio primo della mia estetica. Questa musica è malvagia, raffinata, fatalistica: malgrado ciò essa resta popolare – ha la raffinatezza di una razza, non quella di un individuo. È ricca. È precisa. Costruisce, organizza, porta a compimento: con ciò essa è in antitesi alla musica tentacolare, alla «melodia infinita»87.

87. Nietzsche Fr., Der Fall Wagner (1888); tr. it. Il caso Wagner, in Id., Il caso Wagner. Crepuscolo degli idoli, ovvero come si filosofa col martello.

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Ritroviamo qui l’insieme delle idee sulla filosofia e sulla conoscenza che Nietzsche pone alla base anche della sua riflessione più matura. Se vogliamo tener conto del principio secondo cui l’azione partecipa dell’origine di ogni idea, e di ciò che si riferisce all’una prima di ciò che si riferisce all’altra, allora bisogna prestare attenzione alla sfera musicale. La musica, che come arte è più vicina al mondo quotidiano, completa il «pathos filosofico» e rovescia sul pensatore «una piccola grandine di ghiaccio e di saggezza, di problemi risolti…»88. La musica, come d’altronde ogni arte, costituisce un momento necessario del fare umano, è essa stessa divisa in due momenti, accumulo e scarica di energie: è volontà di potenza, insomma. Se poi viene intesa globalmente, essa testimonia l’origine (possibile) del concetto e della filosofia, anche se per Nietzsche il linguaggio, a dire il vero, non potrà mai tradurre in toto «la più profonda interiorità della musica»89. La musica libera la tensione accumulata nell’organismo stabilendo una direzione laddove vi sono “grovigli”, quindi suggerisce una soluzione ove vi sono problemi. Ma per Nietzsche è l’arte in genere che, nell’opL’anticristo. Maledizione del Cristianesimo. Ecce Homo. Nietzsche contra Wagner, «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. VI, tomo III, Adelphi, Milano, 1970, pp. 3-50, p. 7. 88. Ivi, p. 8. 89. «Appunto il simbolismo cosmico della musica non può essere in nessun modo esaurientemente realizzato dal linguaggio, perché si riferisce simbolicamente alla contraddizione e al dolore originari nel cuore dell’uno primordiale, e pertanto simboleggia una sfera che è al di sopra di ogni appartenenza e anteriore a ogni appartenenza. Rispetto a tale sfera ogni apparenza è piuttosto soltanto un simbolo: quindi il linguaggio, come organo e simbolo delle apparenze, non potrà mai e in nessun luogo tradurre all’esterno la più profonda interiorità della musica, ma rimarrà sempre, non appena si accinga a imitare la musica, solo in un contatto esteriore con la musica, mentre neanche con tutta l’eloquenza lirica potremo avvicinarci di un solo passo al senso più profondo di essa» (Nietzsche Fr., La nascita della tragedia, cit., pp. 49-50).

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porsi al nichilismo, fa precipitare il valore delle risoluzioni individuate in altri ambiti dell’operare, in particolare nella sfera teorica propria del «labirinto dell’anima moderna», alla luce della sapienza accumulata dall’uomo nei secoli, di fronte al simbolico ed alla «cattiva coscienza del […] tempo»90. Uno specifico campo dell’operare estetico mostra così il passaggio negli altri ambiti del discorso. In tal modo appare chiaro che il discorso tradizionale della filosofia con Nietzsche si estende, sebbene non trovi in tale estensione una risposta: non mostra cioè nuovi contenuti né rinvia ad un loro bisogno, come invece è possibile fare mediante l’uso allargato e perciò adeguato, funzionale, del simbolico. È la ragione (o la sua negazione) che qui si risolve nel dettato del Logos, e non il contrario. Ma non è tuttavia garantito che tale risolversi rappresenti una soluzione, perché “simbolico” non si identifica in modo automatico con “plurale”. Ciò diviene possibile se ci si dispone, come propone Blanchot, alla modulazione della prospettiva simbolica fornita garantita dalla ripetizione, evidenziando dunque «la pluralità della parola plurale: parola intermittente, discontinua e che, senza essere insignificante, non parla in ragione del suo potere di rappresentare e nemmeno di significare. Ciò che parla in essa non è la significazione, la possibilità di dare senso o di togliere senso, sia pure un senso multiplo»91. La parola ripetuta non è una risposta, ma una realtà, una risorsa, cosa che Hegel non scorgerebbe quando sostiene che «se c’è veramente una separazione infinita»92 nella sorte degli uomini, allora

90. Nietzsche Fr., Il caso Wagner, cit., p. 6. 91. Blanchot M., L’Entretien infini, Gallimard, Paris, 1969; tr. it. L’infinito intrattenimento. Scritti sull’“insensato gioco di scrivere”, Einaudi, Torino, 1977, p. 214. 92. Ivi, p. 171.

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la parola diviene «la terra promessa in cui l’esilio si realizza come soggiorno»93. Secondo Blanchot, invece, se c’è un abisso invalicabile, la parola «lo attraversa»94. La parola si sostituisce a qualcosa che manca, sta al posto di altro, e precisamente di una «mancanza originaria»95, che ci destina ad essere «eternamente isolati da ciò che è vicino, eternamente destinati all’estraneo»96. Il che diverrebbe significativo in Nietzsche per il tramite della «parola frammentaria»97, la «parola d’intervallo»98, con la conseguenza che la cultura finirebbe per proporsi in termini di reazione, manifestazione di reattività, non di creatività, non sforzo titanico riservato ai pochi che vogliono migliorare il mondo. Ora, a ben guardare, quanto proposto da Blanchot, ancora una volta si situa nei parametri di una “normalizzazione” storiografica del discorso di Nietzsche, in modo che il simbolico assolverebbe alla sua funzione di rimando, più o meno diretto, all’immediato certificandone, per converso, l’inattingibilità e dunque l’indisponibilità, ma giungendo comunque per assumersi, o addirittura riservarsi, l’onere del riferimento ad esso. Per Nietzsche, al contrario, lo abbiamo visto, ogni operazione concettuale si radica nella prossimità, e pertanto la distanza non diviene mai metafisica, non diviene cioè sinonimo di mancanza, ma indica solo una collocazione possibile: riguarda l’uomo per cui «prossime» sono le «cose» che lui può o non può vedere e toccare. Nell’ottica di Blanchot invece, il simbolico, anche se è universo di segni che rinviano 93. Ivi, p. 172. 94. Ivi, p. 171. 95. Ivi, p. 314. 96. Ibidem. 97. Ivi, p. 216. 98. Ibidem.

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ad altro (stare-per), di per sé non conduce in nessun luogo, non crea alcun orizzonte di senso capace di inglobare le cose e le loro relazioni. Si tratta quindi di cogliere prospettive altre e, innanzitutto, di analizzare come il simbolico possa essere inteso nella sua funzione di promozione civile, per poi cercare di comprendere quanto esso consenta di vedere e di intendere. A tal fine, si rende necessario focalizzare il carattere stesso del simbolico o la finalità che lo richiede, la funzione che assolve nel contesto operativo della vita umana dei singoli e della comunità: il suo essere atto. In quest’ultimo senso il simbolico appare come luogo di significazione (dell’esterno) e di trasmissione o di espressione (dell’interno). Per Cassirer, ad esempio, la rappresentazione è necessaria perché l’uomo deve organizzare il suo mondo facendone la propria dimora. L’uomo «non può vivere la propria vita senza esprimere la propria vita. Le diverse modalità di questa espressione costituiscono una «sfera nuova»99. Così egli cerca di fissare «punti stabili, poli immobili», ed approda al linguaggio che «è stato il primo tentativo dell’uomo di articolare il mondo delle sue percezioni sensoriali»100. In tal guisa, spiega Melandri, il simbolico ritrova la sua funzione specifica «nel rendere esplicito quanto ci è già noto in maniera intuitiva ma confusa, nel completarlo attraverso una rete di relazioni»101, nel comunicare «significati già acquisiti»102.

99. Cassirer E., An Essay on Man. An Introduction to a Philosophy of Human Culture, Yale University Press, Yale, 1944; tr. it. Saggio sull’uomo, Armando, Roma, 1968, p. 368. 100. Ivi, pp. 345-346. 101. Melandri E., Contro il simbolico. Dieci lezioni di filosofia, Ponte alle grazie, Firenze, 1989, p. 47. 102. Ivi, p. 50.

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A tali posizioni, Nietzsche avrebbe tuttavia obiettato che «non si comunicano mai pensieri, si comunicano movimenti, segni mimici, che vengono da noi letti in chiave di pensiero…»103. Se infatti è vero che il pensiero si presenta sempre in forma già logicizzata, unilineare e comprensibile dall’altro grazie alla non-contraddizione formalistica, ciò non avviene per l’espressione umana, che si porta dietro il peso dell’esperienza intersoggettiva sedimentata in grumi di nozioni, che vengono risvegliati dalla forza del dialogo. L’istanza a cui sottoporre la parola non è infatti quella di scoprire quando nasce (“all’origine”, “in principio”, etc.), bensì dove nasce, delle suggestioni che prospettano e producono l’interpretazione. Ma se questa è l’ipotesi, l’affidarsi a Nietzsche non muove all’esaustività dell’analisi della questione: in sua compagnia, oltre i luoghi tradizionali (l’interiorità, la convenzione, la totalità dei rimandi, etc.) si procede lentamente, con cautela. Eppure, a questa elaborazione del problema si può pervenire. Ci troviamo a prendere in esame la secolare questione della base soggettiva di ogni significazione, onde le stesse parole possono assumere significato diverso a seconda del soggetto che le pronuncia (Benveniste) o del valore sociale che si attribuisce alle cose nominate (Hjelmslev). La questione però oggi si complica in filosofia con la sopravvenuta Krisis del soggetto e la conseguente perdita dell’intenzionalità del senso. Da qui trae origine un percorso tortuoso della ricerca, procedendo nel quale notiamo che al “discorso figurato”, alla “semiotica”, all’occasione per “allegorizzare”, al simbolo come segno della natura, come segno che «sta al di fuori di ogni religione, di ogni concetto di culto, di ogni storia, di ogni scienza naturale, di ogni esperienza mondana, di ogni cono-

103. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., n. 14 [119], p. 87.

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scenza, di ogni politica, di ogni psicologia, di ogni arte»104, va sostituito il discorso sulla natura, che comprende l’uomo già al suo interno: il discorso della natura come volontà di potenza che prende forma nella pluralità degli uomini. Il che implica l’imporsi di una certa diffidenza nei confronti dell’espressione. L’aspetto espressivo del simbolo tende infatti a risolversi in quello rappresentativo. Ma il richiamo che Nietzsche compie all’“interiorità” può sottendere un richiamo ad un Io presupposto, anche quando si tratta di un richiamo opportunamente forte e accorato, anche quando vuole recuperare la funzione demistificante del testo proprio andando oltre la rappresentazione. Ciò fa emergere, ad esempio, il valore dell’espressionismo come «rivoluzione per l’elementare», in cui «l’Io sommerge il mondo» ma opera come «un soggetto inesistente, il flusso dell’inconscio, la rivolta, o meglio il rivolgimento del profondo, a sommergere le cose»: come un soggetto che si rovescia sulle cose «mute e logore»105. E si motiva l’ipotesi106 che vedrebbe in Nietzsche l’inizio della «liberazione di un significato» che non è, in definitiva, «altro dall’esistenza, sforzandosi di pensare non solo nell’autenticità di una metafisica tragica, ma anche nello spectrum “ironico”- occasionalista del saggismo»107. La liberazione dalla rappresentazione è liberazione dall’intimismo, e da ogni forma di condizionamento sociale: è recupero del misticismo non come «appello alla trascendenza», bensì come «dichiarazione polemica contro il pratico-funzionale,

104. Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., n. 32, pp. 206-207. 105. Masini F., L’espressionismo: una rivoluzione per l’elementare, in “Metaphorein”, n. 1, 1977, pp. 44-54, p. 47. 106. Cfr. Masini F., Una metafora infernale. Del nichilismo: Requiem di Gottfried Benn, in A.A.V.V., La materialità del testo, Bertani, Verona, 1977, pp. 25-40, p. 35. 107. Masini F., Per una filosofia del saggismo, in “Metaphorein”, n. 8, Sett. 1982, p. 100.

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l’utilitario, la distrazione extra-artistica, contro l’ottusità materialistica di una borghesia che considera l’artista positivisticamente come un mero “creatore tecnico” e per la quale tutto è oggetto di scambio e mercificabile»108. L’allontanamento dalla rappresentazione è, ancora, scoperta del teatro “panoramico” il cui punto di vista «tende a costruire una pluridimensionalità scenica, relativizzando gli eventi, demolendo la psicologia magari per via del paradosso ironico-sofistico, isolando il contesto narrativo e documentario e così via»109. Troviamo qui in opera la «provocazione», che «quando raggiunge il bersaglio, “brucia”, non ammette un comportamento evasivo ed elusivo, un fin de non recevoir, pena il discredito o l’autoannullamento di chi è apostrofato. La provocazione è perentoria e indilazionabile, coglie di sorpresa ed ha una strana forza pedagogica, nel senso che “aggredisce”, costringe ad essere ben desti, a sapere quel che si dice, a verificare quel che si pensa»110. La liberazione dalla rappresentazione è, infine, liberazione dalla totalità attraverso l’allegoria, intesa come «chiave ermeneutica e come perno dialettico di una teoria critica dell’avanguardia»111, quindi come «struttura nella quale lo spazio immaginativo-linguistico-sperimentale dell’avanguardia si costituisce, come un campo di forze articolate dalla negazione e quindi desublimazione delle contraddizioni che da elementi portanti diventano tensioni rovescianti»112. L’allegoria ha la sua «radice soggettiva» nella malinconia che può «produrre significanti, cioè i segni del linguaggio allegorico, figure grafiche,

108. Masini F., Brecht e Benjamin. Scienza della letteratura e ermeneutica materialista, De Donato, Bari, 1977, p. 66. 109. Ivi, p. 154. 110. Ivi, cit., p. 155. 111. Ivi, p. 115. 112. Ibidem.

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emblemi, geroglifici»113, e può pertanto porsi come obiettivo «l’apparenza dell’infinito»114. Tutto ciò deve allora essere reinterpretato con volontà di verità nel lessico nietzscheano, in cui la parola diventa vera quando opera poeticamente, attraverso l’analogia: l’albero parla della crescita, il disordine cittadino della palude, i monti delle cose difficili e vere, la caverna del raccoglimento necessario... Giungiamo pertanto ad un primo punto d’approdo: al cono d’ombra in cui vive il “soggetto”, si contrappone la luce dell’infinito della prassi. E se l’infinito rappresenta una conquista fondamentale, ed oggi è tema di molte discussioni, ciò non significa che debba essere considerato unicamente come conquista fittizia, un altro modo per riproporre le stesse soluzioni. È vero che «l’eroismo borghese» si annida ovunque, anche nel Renzo del Manzoni, “grande” per la sua pazienza, ma dalla sua critica (cioè dalla rottura delle «categorie scientifico-letterarie quali la normatività del bello, l’oggettività del conoscere, il disinteresse artistico, l’individualità d’eccezione, il genio, l’autonomia dell’opera d’arte, etc.»115) non nasce né l’infinito né nient’altro in quanto, se estremizzata, tale critica produce il vuoto e l’incultura. Più che guidare alla ricerca di altro tramite l’allusività del significante, la critica produce qualcosa soltanto negli spiriti forti che già cercano di creare, mentre nei «poveri di spirito» genera al massimo sfiducia e qualunquismo, e da qui il rifiuto di Nietzsche di accordare loro il diritto al giudizio sulla vita116. Il compito consisterà quindi nel non trasportare i

113. Ivi, p. 117. 114. Ivi, p. 121. 115. Ivi, p. 82. 116. «Le persone fiacche, i poveri di spirito non hanno il diritto di giudicare la vita»: Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1875-1876; tr. it. Frammenti postumi (1875-1876), in Id., Richard Wagner a Bayreuth. Frammenti

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problemi reali su un piano diverso rispetto a quello in cui si sorgono, perché in questo caso ne risulta coinvolto e stravolto anche il linguaggio. In un senso affine, secondo Gramsci la “signora del bel mondo” non crede di «aver perso l’anima», di averla «venduta ai monopoli», ma è convinta di rappresentare una incarnazione dello Spirito, persuasa com’è che il suo compito sia quello di dover «conservare sulla terra la qualità e la bellezza»117: non ha bisogno di aperture “critiche”, espressive, se non per aver un ulteriore senso delle sue capacità superiori. In una frase: i suoi bisogni sono unicamente bisogni di senso. Il reale può essere trasceso con facilità e senza danno, ma dando ad intendere di aver conquistato un punto di vista massimamente universale. La versione libertaria di tale posizione recupera la leggerezza: si scopre Kundera, si approda all’esaltazione dell’immateriale, della «creatività in se stessa, della funzione del produrre in quanto tale, scissa dal riferimento a ciò che si produce»118. Tutto ciò, però, è solo indice del ricadere nell’ideologia: separatezza, di cui Nietzsche non si occupa. La sua critica non rifiuta i problemi, né li evita, bensì li affronta con lo scopo di penetrarli nel profondo. Di contro, le critiche diventano stimolanti e produttive di infinito, di nuove ipotesi, di nuove verità, se caricate di sensi alternativi nel quadro di una alternativa prassi specifica. Per questo motivo, egli rivela che la sua profondità deriva dalla pesantezza della scelta di vita compiuta, non dai significanti liberi o liberati e scatenanti: «Un indagatore io? Oh, risparmiate questa parola! -/ Io sono soltanto

postumi (1875-1876), «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. IV, tomo I, pp. 81-339, n. 5 [183], p. 155. 117. Gramsci A., Il materialismo storico, Editori Riuniti, Roma, 1971, p. 44. 118. Tagliagambe S., Gli scambi immateriali, in “Alfabeta”, n. 76, 1985, pp. 25-27, p. 26.

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pesante – parecchie libbre!/ Io cado, cado continuamente/ ed è nel fondo che cado!»119. Se si rimane al di fuori di questa ottica, si conclude con il pretendere di rappresentare il vero volto della realtà, la storia dell’uomo nella sua interezza, si finisce cioè con il riportare il discorso culturale nell’alveo dicotomico della lotta di ragione e non-ragione, essere e non-essere, etc. Ogni elemento ha ancora una valenza «contro» qualcosa: è, direbbe Nietzsche, reattivo, intriso di ressentiment e di spirito di vendetta. Il discorso sulle capacità plurali del simbolico, sulle sue capacità di rimando, che non eludono la pesantezza ma pongono il pensare come separazione di evento e significato e come “traduzione” del fatto in immagine, deve continuare per portare il tema dell’infinito e dell’«elevazione» dell’uomo a caricarsi della realtà non solo del molteplice, ma anche del determinato: è volto a mostrare l’altro e non soltanto le alterità ed il loro vano rincorrersi, a rischio di riproporre una metafisica, immanentistica, ma pur sempre metafisica, e non nuove verità. Nel simbolico bisogna pertanto individuare il momento discorsivo, onde si ottengono e si accumulano contenuti particolari di pensiero, nozioni che diventano patrimonio dell’umanità. Il che non significa pervenire ad una negazione del mondo. Estraniarsi dall’intuizione sensibile, innalzarsi all’astratto, – ciò una volta è stato realmente sentito come elevazione: noi non possiamo più sentire interamente allo stesso modo. L’orgia delle più pallide immagini di parole e di cose, il giuoco con tali esseri invisibili, inascoltabili, impercepibili, furono sentiti come una vita in un altro mondo più alto, prendendo

119. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 44 di «SCHERZO, MALIZIA, VENDETTA». Preludio in rime tedesche, pp. 24-36, p. 32.

285 le mosse dal profondo disprezzo per il mondo sensibile, palpabile, allettatore e malvagio120.

Questo passo, e quello secondo cui lo scrittore «ode» e «non cerca», ed «un pensiero brilla come un lampo», sembrano, a prima vista, generare diffidenza sul portato culturale dell’umanità, ma vanno accostati, per essere compresi a fondo con un altro testo, già richiamato, in cui Nietzsche presenta l’apparizione improvvisa dell’apollineo come «scarica» del dionisiaco121. Se nell’espressione c’è qualcosa di «irripetibile», questo non è dovuto al mistico, ma proprio al suo contrario: al logico, inteso come legame contrastivo, relazione conflittuale, in quanto radicato nella vita, secondo il moto delle volontà di potenza che dalla natura/palude giunge all’idealità. Anche Omero, in fin dei conti, nasce dalle filosofie popolari. Le conoscenze reali, infatti, come di fatto è successo nella storia, devono essere «messe in luce ad una ad una e poco per volta»122. In questo senso il simbolico è una ricchezza inestimabile ma per nulla autonoma, né autoreferenziale, e perfino inerte se l’uomo non vi ricorre metodicamente come avviene per gli attrezzi da lavoro, comunicando le proprie esperienze che devono congiungersi con altre esperienze attraverso le istituzioni (quali, ad es., la lingua). Tuttavia, anche qui si rischia di trovarsi di fronte a seri pericoli. Se si guarda infatti alla funzione storica violenta della scrittura, onde la parola in quanto «immutabile», nella forma «di formula, di legge, di credenza, di dogma» finisce per uccidere123, appare chiaro che sia la rappresentazione, sia l’espressione sono 120. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 43, pp. 37-38. 121. Cfr. Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 114. 122. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 43, p. 38. 123. «La parola uccide, tutto ciò che è immutabile uccide» (Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., n. 32, p. 206).

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vittime del decorso civile dell’uomo. Né possiamo pensare che questa posizione così drastica assunta da Nietzsche abbia un carattere d’occasionalità, in quanto la si può reperire altrove, quando egli descrive la figura dell’artista124, che è sottoposto a molte leggi da cui può svincolarsi soltanto riportandole, una volta per tutte, dall’opera alla vita vissuta. Ciò però si paga a caro prezzo, sia durante il lavoro di composizione, sia dopo, quando il frutto del suo lavoro si offre agli altri mostrando il “costo” della comunicazione125. Ne risulta, in sostanza, quanto Nietzsche ha già detto per il Sud, dove il cammino della civiltà ha prodotto un mondo che

124. «Ogni artista sa quanto sia distante dal sentimento del lasciarsi andare il suo stato “più naturale”, la libertà, cioè, con cui egli ordina, stabilisce, dispone, dà forma, negli attimi dell’“ispirazione” – e quanto rigorosamente e sottilmente, proprio in questo momento, egli obbedisca a mille molteplici leggi, le quali si burlano di ogni formulazione per concetti proprio sulla base della loro durezza e determinatezza (anche il concetto più stabile ha qualcosa di evanescente, di multiforme e di polivalente di fronte a esse). L’essenziale “in cielo e in terra” è, a quanto sembra, per dirlo ancora una volta, che si ubbidisca a lungo e in una sola direzione: ne risulta e ne è risultato, a lungo andare, sempre qualcosa per cui vale la pena di vivere sulla terra, per esempio virtù, arte, musica, danza, ragione, spiritualità, – qualcosa di trasfigurante, di raffinato, di delirante e di divino» (Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 188, p. 86). 125. «Il lungo asservimento dello spirito, la sospettosa costrizione nella comunicabilità dei pensieri, la disciplina cui si sottoponeva il pensatore nel meditare all’interno di una regola ecclesiastica o cortigiana o sulla base di certi presupposti aristotelici, la lunga volontà dello spirito di interpretare ogni avvenimento secondo uno schema cristiano e di riscoprire, giustificandolo, in ogni fortuita contingenza ancora una volta il Dio cristiano, – tutto quanto v’è in ciò di violento, di arbitrario, di aspro, di orribile e d’irragionevole è risultato essere il mezzo attraverso il quale fu istillata nello spirito europeo la sua forza, la sua spregiudicata curiosità e raffinata mobilità: pure ammettendo che in tal modo dovette essere conculcata, soffocata e corrotta una parte insostituibile della sua energia e del suo spirito» (ivi, n. 188, pp. 86-87).

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è frutto del lavoro sapiente dello studio umano e della comunicazione adeguata dei suoi risultati, anche se ciò ha portato, alla fine, al nichilismo. Ha ricondotto l’uomo nella palude, ma una palude diversa, non più popolata di “mostri” e infestata dai miasmi, ma abitata da uomini ridotti a mostri e infestata da pensieri distorti e portatori di ulteriori miasmi. Di fronte alla débacle della parola sapiente che si fa norma, non resta che la “differenza” (différance), rispetto alla quale però, in ultima analisi, si rende difficile definire i termini ultimi dell’opera di “decostruzione” a cui rimanda. Neanche qui il discorso può trovare riposo, ma ne ricava comunque, per contrasto, un’indicazione preziosa. La polemica contro le «relazioni restrittive» del simbolico non sfocia in ottiche di liberazioni onnisintetiche, ma cerca luoghi, radici, non fondamenti ma relazioni, trame e tessiture che esprimono combinatorie dichiaratamente soggettive (anche se assomigliano alle posizioni del Glaucone platonico) per tendere alla riflessione, all’autocoscienza possibile. L’importante è non dare per scontato che la parola serva (con la verità) per strutturare e mantenere l’identità personale, né che di contro a questa finalità del fare umano ci sia solo l’infans. Il tema della finitezza umana va insomma riportato al livello di problematicità originaria, prefilosofica, senza strumentalizzarlo al fine di “far quadrare” prospettive teoretiche date (e datate), senza vincolare cioè la riflessione all’unità assoluta di certezza e verità del Cogito. Senza utilizzarlo come medium privilegiato per approdare all’Essere e costringere così la parola dentro i suoi rapporti o nella loro negazione. Il compito consiste nel non ipostatizzare, anche nel caso del segno, una sola forma del fare: quella dell’alexikakos, dell’eroe, che si nasconderebbe in ogni uomo o, comunque, ne costituirebbe l’aspirazione. In questo caso il linguaggio come veicolo di espressione aiuterebbe l’uomo nel suo compito, ma essendo questo compito sempre quello della lotta, anche il linguag-

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gio muterebbe il suo status da Logos (ragione dell’uomo), da mezzo di comunicazione, a strumento di conflitto. In più, se è vero che “tutto è segno”, è altresì indiscutibile che il segno non è tutto, e anche rimanendo alla visione dell’uomo come lotta, non si deve caratterizzare di necessità questa concezione, non deve avere una sua parte anche in questa posizione. Di contro, tenendo presente quanto detto, allora il simbolico può operare, direbbe Sini, come una sorta di «rimbalzo»126 e come domanda. Trova così conferma ciò che in Nietzsche rappresentava soltanto un’ipotesi: vedere del simbolico il dove della nascita, almeno riguardo a quella che è stata definita anche «parola parlante»127, come Ürsprung originaria in cui il senso informe assume una forma. Nei paraggi corporei distinti dalle circostanze del mondo troviamo il fenomeno della voce, del “voler dire”. Per il soggetto, come «luogo di grafemi originari», «la voce è propriamente il gesto del venire-al-mondo: prima testimonianza del sé “gettato, cioè posto a distanza, espulso”»128. Il gesto si manifesta in termini di creazione di un mondo di attesa e di risposta, da cui nasce una distanza che appunto crea il rimbalzo: «col rispondere accade anche il rimbalzo: la risposta pone a distanza il mondo in una sembianza determinata dalla natura stessa del gesto»129. Il rimbalzo ha la caratteristica di far ritornare indietro la voce dell’essere su se stesso: ogni espressione ritorna a sé, poiché uscendo, la voce opera, rientrando, si compie. C’è qui un percorso naturale, 126. Cfr. Sini C., Col dovuto rimbalzo, in A.A.V.V., Di-segno. La giustizia del discorso, Jaca Book, Milano, 1984, pp. 13-50. 127. Cfr. Merleau-Ponty M., Fenomenologia della percezione, cit., pp. 269 ss. 128. Sini C., Col dovuto rimbalzo, cit., p. 27. 129. Ivi, p. 28. Per una analisi approfondita ed esaustiva del pensiero di Sini cfr. Comerci V., Filosofia e mondo. Il confronto di Carlo Sini, Mimesis, Milano, 2010.

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della forza concentrata nel gesto, del tutto estraneo ad ogni condizionamento morale o direttamente ispirato all’uomo, che quindi elude i limiti delle culture tradizionali ispirate ai principi che hanno portato al nichilismo. Qualcosa di simile troviamo già in Nietzsche, a riguardo dell’artista e del filosofo, colui che esprime un bisogno ed una distanza, che deve imparare dagli altri, da coloro che hanno “un’immagine del mondo”. L’anima moderna, che in gioventù gli appariva già come sovraeccitata, ora gli si mostra invece come un “labirinto”, tutt’altro che una via radiosa per il futuro. Ma l’infinito non è libero da ogni vincolo, e questo significa che il molteplice plurale non viene lasciato a se stesso, ma può essere “raccolto”, ospitato, accolto: il problema è di capire come; il cerchio ora si può chiudere. Rileviamo che il tempo trova nell’arte la propria “cattiva coscienza”, che “rimbalza” su se stessa e ne mette allo scoperto il senso. La sfiducia, il nichilismo che non separa il bene da sé, non si rivolta al passato, non si nutre del passato, ma non separa il Bene neanche innalzandolo oltre il proprio orizzonte e relegandolo nel futuro. In questo giuoco di azione e di rimbalzo non c’è posto per la dilazione e per le costruzioni teoriche che su di essa si possono avanzare ideologicamente per costruire nuove immagini del mondo. Il simbolico richiede ora una strategia nuova all’uomo, che deve ritrovare se stesso nelle azioni che compie. Funziona adeguatamente se si fa portatore del rispecchiamento della forza originaria, una forza di relazione. E di «rispecchiamento di sé» parla Nietzsche sia in Aurora, sia nella Genealogia della morale. La differenza delle sue forme dipende dall’uomo: l’artista, come il filosofo, rispecchia se stesso e crea illusioni, mentre il nobile rispecchia la sua forza, senza dividere al suo interno l’uomo130. A quest’ultimo operare 130. Cfr. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., pp. 294-295.

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bisogna così ritornare per trovare il senso del moderno sotteso alle perversioni del mondo immerso nel nichilismo. Non è sufficiente infatti distinguere tra «NICHILISMO PASSIVO», inteso come «declino e regresso della potenza dello spirito», dunque abbandono, e «NICHILISMO ATTIVO», da concepirsi come «cresciuta potenza dello spirito»131, cioè come passaggio ad «una ontologia che rinnega proprio tutti gli elementi di “potenza” dominanti nel pensiero metafisico, nella direzione di una concezione “debole” dell’essere»132. Si tratta invece di guardare al nichilismo come «stato NORMALE»133, come «fenomeno di norma», che «può essere un sintomo di forza crescente o di debolezza crescente»134: partendo dalla realtà e dalla società come palude, in cui tutto è stasi, emerge infatti che il nuovo non è più questione di pensiero e di ontologia; emerge che non è possibile alcuna collocazione diversa ed esterna del pensiero rispetto al tutto. Il pensiero non sta sotto l’essere o di fronte all’essere, ma dentro l’essere e fa parte della vita, dell’evento che urge e si espone nelle sue ramificazioni di potenza. Non fa rima soltanto con saggezza e tradizione, non isola la memoria per ipostatizzarla ma, al contrario, aspira alla profondità che è problematicità e verità. Nel far questo, rivela la propria centralità in quella che per Nietzsche costituisce l’opera di «elevazione» dell’umano, il processo di crescita individuale e storica che dalla sfera naturale conduce l’uomo verso il mondo odierno, e su cui ci dobbiamo concentrare per comprendere quale sia la forma di umanità a cui il filosofo si rivolge. 131. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [35], pp. 12-13. 132. Vattimo G., Al di là del soggetto. Nietzsche, Heidegger e l’ermeneutica, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 37. 133. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [35], p. 12. 134. Ivi, n. 9 [60] B., p. 27.

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V L’«elevazione degli uomini»

0. Obiettivi Già da tempo sono stati tracciati i confini esegetici entro cui è possibile individuare nel pensiero di Nietzsche, se non un vero e proprio “sistema”, quantomeno un atteggiamento «sistematico»1, di cui è possibile reperire traccia in vari luoghi. La Genealogia della morale, ad esempio, inizia con una sorta di “inno” al sistema: i pensieri nascono e crescono come testimonianza di «un’unica volontà, di un’unica salute, di un unico regno terrestre, di un unico sole»2. L’enfasi con cui Nietzsche scrive queste parole si giustifica dalla consapevolezza di aver abbandonato un terreno millenario, la riflessione come luogo della verità e della stabilità del pensiero, per uno ancora 1. Spiega Löwith che «nonostante questa sincera intenzione di uscire in mare aperto, l’esperimento nietzscheano, proprio per la rotta che tiene fino in fondo, è condotto certamente in modo sistematico: è un tentativo sistematico, ma non certo un sistema non sottoposto a verifica. La tendenza verso orizzonti illimitati, attestata dall’aforisma, si delimita da sé mediante una “innata affinità” dei concetti» (Löwith K., Nietzsches Philosophie der ewingen Wiederkehr des Gleichen, Kohlhammer, Stuttgart, 1956; tr. it. Nietzsche e l’eterno ritorno, Laterza, Roma- Bari, 1982, pp. 82 ss.). 2. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 214.

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più originario, che privilegia la socialità dei sensi, l’esperienza collettiva dell’accadere, i «cento occhi» e le «cinquecento mani». Non abbiamo alcun diritto di essere, in una qualche cosa, isolati: non possiamo né sbagliare singolarmente né cogliere singolarmente la verità3.

Rimane pertanto da indagare a fondo il movimento di «elevazione» dell’uomo capace di vivere in tale orizzonte vitale e conoscitivo, al fine di provare a delineare, dopo la dipartita dal paradigma del “soggetto”, i tratti di un umanesimo innovatore. La Krisis del soggetto porta infatti Nietzsche ad interrogarsi sulle possibilità dell’umano di sperimentare il proprio radicamento nella palude, laddove ciò significa sottrarsi alle tentazioni nostalgiche del ritorno all’unità monistica della sostanza, e del suo esito gnoseologico nella rappresentazione, a favore di una sua apertura configurazionale alla pluralità della relazione, che introduce alla possibilità di (re)imparare a vedere «da cento occhi». Il tutto si innesta sulla concezione dell’interpretare come sintesi unitaria di molteplici interpretazioni possibili, di per sé già sintetizzate, in modo che ogni sintesi ulteriore risulta sempre più elaborata delle precedenti. In quanto volontà di potenza, l’uomo infatti modula volontà di potenza che gli preesistono nel mondo culturale, e che trovano origine nelle volontà di potenza del mondo naturale. E la possibilità di interpretare lo stesso interpretare è resa possibile dall’incorporazione di nuovi quanti di potenza attraverso la memoria. In questo modo, l’«elevazione degli uomini» consiste nel superare «interpretazioni più ristrette»4 come segno

3. Ibidem. 4. «Che il valore del mondo stia nella nostra interpretazione (e che forse in qualche luogo siano possibili interpretazioni diverse da quelle meramente umane); che finora le interpretazioni siano state tutte valutazioni prospet-

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dell’accrescimento delle volontà di potenza di cui l’uomo ne è senza poterne disporre in senso pieno, senza poterne indicare con certezza l’origine ultima, secondo un movimento genealogico di arretramento che si conclude nel mondo della palude. È l’esserne della relazione tra i quanti di potenza che soggiace alla possibilità di interpretare e, dunque, alla possibilità dell’elevazione dell’uomo, una relazione che si tratta di sottrarre alle modalità reificanti/entificanti della ragione. A partire da qui, il filosofo conduce una fenomenologia dell’umano in cui emerge, tra l’altro, il suo interesse per il mondo giovanile, laddove la possibilità di esperire la relazione si declina nell’attenzione verso coloro che, per definizione, tale sfera relazionale inabitano e di cui ne sono in quanto Zwischen dello sviluppo umano: gli «uomini dell’avvenire», i giovani, appunto. Un interesse generato dalle dinamiche di esclusione a cui i giovani sono sottoposti dalla cultura e, conseguentemente, dalla società: esclusione che essi subiscono a causa del loro inerire archi-ontologico alla relazione, anch’essa da sempre, in fin dei conti, “esclusa” da un sapere metafisico più orientato verso la sostanza. Se infatti il pensiero non cela le difficoltà che incontra nel rapportarsi alla relazione nella duplicità delle sue forme apicali, il divenire e il molteplice, e dunque non nasconde la propensione verso «la formazione predisposta di casi identici, dell’illusione dell’uguaglianza», in un anelito unificatore che «è più

tivistiche, in virtù delle quali noi nella vita, ossia nella volontà di potenza, ci conserviamo per lo sviluppo di potenza; che ogni elevazione degli uomini comporti il superamento di interpretazioni più ristrette; che ogni rafforzamento mai raggiunto, ogni allargamento di potenza apra nuove prospettive e imponga di credere a nuovi orizzonti – tutte queste cose si ritrovano ovunque nei miei scritti» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 2 [108], pp. 101-102).

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originale della conoscenza dell’uguale»5, tale nucleo teorico non può venire svincolato da un discorso sulle categorie su cui si innestano i tentativi di perseguire teoricamente ogni elevazione dell’uomo. Tuttavia, il ricorso alle categorie del pensiero è di per sé problematico: il rischio a cui ci si espone è infatti quello dell’occultamento della concretezza e originaria faktizität dell’uomo a favore della celebrazione di una sua presunta “natura ideale”. Questo appare evidente non appena ci si dispone a leggere la realtà in termini di un deciso antiidealismo e, quindi, se ci si propone di comprendere lo sforzo di sommuovere la palude dietro la spinta «del bisogno che del molteplice l’uomo nietzschiano avverte»6. Per il filosofo di Röcken diviene così necessario mettere a frutto il concetto di verità che richiama il valore imprescindibile dei sensi sociali e dell’astrazione determinata, che si incontrano con la critica dell’Idealismo “nel sistema”, nel segno di un uomo «sintetico», «molteplice» e «complementare», come esibizione di una nuova forma di singolarità relazionale. Si tratta di un’operazione pratica condotta nei punti di incrocio di teoria e azione, come assunzione di quelle figure umane storico-concrete che questi incroci abitano e trasformano o, quantomeno, tentano di trasformare. Ciò motiva il preliminare confronto teoretico, del resto mai concluso, con l’ambito religioso, una delle prime risposte che l’uomo offre all’emergere delle perplessità esistenziali. In tal senso, una di queste figure, forse la più importante, è la “sostituzione” che consente, per converso, di introdursi nel nucleo profondo del pensiero nietzscheano. Un pensiero che non è

5. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 10 [159], p. 192. 6. Semerari F., Donare, comprendere, sperimentare. Oltreuomo e alterità in Nietzsche, in Totaro F. (a cura di), Nietzsche e la provocazione del superuomo. Per un’etica della misura, cit., pp. 153-176, p. 166.

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soltanto teoretico, come appare quando lo si riduce alla scoperta del nichilismo e della critica delle categorie eterne, ma soprattutto umano, nel senso che pensa filosoficamente volgendo continuamente lo sguardo alla condizione e ai problemi concreti dell’uomo nell’opera di costruzione della vita.

1. Della sostituzione Per comprendere cosa Nietzsche intende per “sostituzione”, è utile fare riferimento a una figura di matrice teologica, la “trasfigurazione”7, che nella visione del filosofo assume una valenza “rovesciata”, nel porsi come movimento naturale dell’arte e della conoscenza, e ciò apre la strada ad una «nuova trasfigurazione»8, di cui si devono ricostruire le coordinate di comprensione, a cominciare dalla critica del «mistero». Lo stato supremo, la liberazione stessa, quella ipnosi totale e quiete finalmente raggiunta vale sempre per costoro come mistero in sé, a esprimere il quale non bastano neppure i più alti simboli, come prendere albergo e rimpatriare nel fondo delle cose, come affrancarsi da ogni illusione, come «sapere», come «verità», come «essere», come sbarazzarsi da ogni meta, da ogni desiderio, da ogni fare, come un al di là anche del bene e del male9.

Il risultato è che acquista consistenza il contesto ontologico del “sapere” religioso e le latitudini costruttive di tale “ra-

7. Cfr., ad es., Evdokimov P. N., L’art de l’icône. Théologie de la beauté, Desclée de Brouwer, Paris, 1972; tr. it. Teologia della bellezza. L’arte dell’icona, Ed. Paoline, Roma, 1981. 8. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 8, p. 12. 9. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 337.

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gione”: la follia dell’amore di Dio e «l’uomo nuovo»10. Non troviamo elementi intermedi, poiché le cose sono simboli o allegorie di Dio e delle sue azioni11. L’uomo naturale, affine alle «cose prossime», di fatto viene sostituito nella teoria, ed in attesa della sostituzione pratica nella storia, con un uomo altro, di natura differente. La positività «si risolve tutta in pura e semplice creaturalità, con il risultato che la concreta storicità dell’esistenza viene considerata unicamente come la finitezza oltre cui l’esperienza religiosa ci farebbe come “saltare” (in Dio, nella sua trascendenza), o che andrebbe al massimo considerata come luogo di una messa alla prova»12. Ogni discorso rivolto al futuro deve partire da qui, e non semplicemente limitandosi a innovare appena qualche concetto (l’Essere, l’Evento, etc.). Dal mistero, insomma, si origina la contraddizione, l’impossibilità del senso preciso. All’origine della civiltà contemporanea, che in qualche modo è ancora civiltà dei primordi, perché questi «esistono del resto in ogni tempo o sono ancora una volta possibili»13, si situa «lo stesso istinto della libertà» o «volontà di potenza»; soltanto che, precisa Nietzsche, «la materia su cui si scatena la natura plasticamente formatrice e tirannica di questa forza è qui appunto lo stesso uomo, il suo intero, animalesco antico sé»14. In luogo di nuove verità, il «pensiero 10. Evdokimov P. N., L’amour fou de Dieu, Éditions du Seuil, Paris, 1973; tr. it. L’amore folle di Dio, Ed. Paoline, Roma, 1981, p. 79. 11. «Dio toglie l’uomo dal mondo e ve lo ricolloca in quanto santo, ricettacolo delle manifestazioni di Dio e sorgente della santificazione del cosmo» (ivi, p. 71). 12. Vattimo G., La traccia della traccia, in Id. e Derrida J. (a cura di), La religione, Laterza, Bari, 1995, pp. 75-89, p. 81. 13. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., pp. 269-270. 14. «Questa segreta tirannide su se stessi, questa crudeltà di artisti, questo piacere di dare a se stessi, quasi greve, riluttante, sofferente materia, una

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misterioso» trova una contraddizione, o meglio, la contraddizione. Si tratta di un vero e proprio “paradigma”: quello della nascita di qualcosa, paradigma che si delinea all’interno di una specifica visione della vita e dell’azione, ma che ha pretese di valenza universale. L’istinto di libertà o la volontà di potenza opera dovunque come contraddizione, separazione, chiarimento progressivo di due vie che si possono percorrere. Tuttavia, il processo creativo ha successo se al suo inizio è possibile rinvenire un gesto che è un lavoro di scavo, di elaborazione e di precisazione, insomma un conferire forma attraverso l’interpretazione, da intendersi come primo implicito distacco e implicita distanza, nascosta innovazione. Eliminando il mistero, la trasfigurazione opera soltanto se parla del mondo, e non come una sua ritrascrizione in seno a un registro metafisico. Soltanto in seguito, da questa volontà di innovazione, possono nascere le vie della creazione e, tra queste, appunto la “sostituzione”, che è la via operativa scelta dal Cristianesimo per rapportarsi alla vita ed alla realtà. Con il Cristianesimo infatti, scrive Nietzsche, in origine non troviamo «l’oceano del divenire»15, non il caos dei «primordi»16, in quanto nella dimensione vitale è sempre costante la presen-

forma, di marchiare a fuoco una volontà, una critica, una contraddizione, un disprezzo, un no, questo sinistro e orrendamente gioioso travaglio di un’anima docilmente scissa in se stessa, che si cagiona dolore per gusto di cagionare dolore, tutta questa “cattiva coscienza” attiva ha infine – già lo si indovina –, in quanto vero e proprio grembo materno di ideali e fantastici eventi, dato altresì alla luce una profusione di nuove sorprendenti bellezze e affermazioni e forse, per la prima volta, innanzitutto la bellezza… Che cosa, infatti, sarebbe “bello” se prima la contraddizione non fosse divenuta cosciente a se stessa, se prima il brutto non avesse detto a se stesso: “Io sono brutto”?» (ivi, pp. 287-288). 15. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 314, p. 187. 16. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 288.

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za di Dio17. Se gli dei antichi esprimevano un senso di riconoscenza degli uomini verso i loro antenati, un senso di debito per una generazione originaria, «fondatrice della stirpe»18, con il Dio cristiano, in quanto «massimo dio», tale senso di debito ha raggiunto «il maximum»19. Fermo restando che per Nietzsche Dio rappresenta anche una «forza religiosa» 20, il resto segue da sé. L’uomo avverte la propria pochezza di fronte a cotanta Potenza, cotanta Bellezza, cotanto Amore. Scegliendo di posizionarsi dalla sua parte, l’infimo può prendere il posto della superiorità, e i deboli possono diventare carnefici21.

17. I cristiani «hanno un’ambizione che suscita il riso: questa gente sminuzza le sue cose più personali, le sue stupidaggini, tristezze e oziose preoccupazioni, come se l’in-sé delle cose fosse tenuto a darsene cura; non si stancano mai di coinvolgere Dio stesso nelle più piccole afflizioni in cui si vengono a trovare. E questo continuo, di pessimo gusto, mettersi a tu per tu con Dio! Questa giudaica e non soltanto giudaica invadenza di muso e zampe nei riguardi di Dio!» (ivi, p. 350). 18. Ivi, p. 288. 19. Ivi, p. 291. 20. Nota Fink che «ciò che Nietzsche combatte come “Dio” è, dunque, anzitutto, il rapporto tra idea ontologica e ideale morale. In “Dio”, secondo Nietzsche, viene pensata la svalutazione delle cose che sussistono sulla terra, provate dalla testimonianza dei sensi, che vengono considerate apparenza priva di essenza, e, conseguentemente, viene condannata la vita dei sensi e degli istinti, intesa come “il male”; in “Dio” viene posto come Assoluto, un Essere fantastico, immaginario, puramente pensato, senza tempo; e con ciò l’Essere che si muove nel tempo delle cose terrene, l’unico reale, viene defraudato proprio della sua genuina realtà. “Dio” significa dunque per Nietzsche, anzitutto, non una forza religiosa, ma una determinata ontologia, che si formula contemporaneamente anche come una determinata morale nemica della vita» (Fink E., La filosofia di Nietzsche, cit., p. 181). 21. «Pullulano tra loro i bramosi di vendetta travestiti da giudici, che hanno sempre in bocca la parola “giustizia” come bava avvelenata, sempre con una smorfia sulle labbra, sempre pronti a sputare su tutto quanto non ha l’aria scontenta e va di buon animo per la sua strada. Fra costoro non manca neanche quella nauseabonda genia di vanitosi, di aborti di menzogna, che

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Da qui, la sostituzione continua ad operare in modo sistematico nei confronti della realtà naturale e storica fino ad arrivare ad una nuova «sistematizzazione di ogni mezzo d’aberrazione del sentimento»: «al posto degli atleti abbiamo i nostri martiri»22. Ciò non vale per il Vecchio Testamento, abitato «da grandi uomini»23, che però viene deliberatamente obnubilato per il Nuovo, in cui, tenendo fermo il principio che «una sola cosa è necessaria», e che raggiunto il regno di Dio tutto il resto è facile, hanno la meglio i «piccoli maneggi settari» che svalutano la vita: «umiltà e prosopopea incollate l’una all’altra; una loquacità del sentimento che quasi assorda; passionalità, non passione, penoso giuoco mimico»24. Nasce la nuova figura del prete come «uomo dalla lenta tristezza»: il «prete asceta» che fa «risuonare nell’anima umana ogni sorta di straziante

mirano a far da “anime belle” e a esibire semmai sul mercato, avviluppata in versi e in altri pannolini, la loro malconcia sensualità come “purità di cuore”: la genia degli onanisti morali e di quelli che “soddisfano se stessi”. La volontà dei malati di rappresentare una qualsiasi forma di superiorità, il loro istinto delle vie traverse, che conducono a una tirannide sui sani – dove non è mai giunta questa volontà di potenza caratteristica propria dei deboli?» (Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 327). 22. Ivi, p. 249. «Ancora in pieno splendore greco-romano, che era anche uno splendore di libri, di fronte a un antico mondo letterario ancora non intristito e ridotto in briciole, in un tempo in cui si poteva leggere alcuni libri per il possesso dei quali si darebbe oggi in cambio mezze letterature, la balordaggine e la vanità di agitatori cristiani – sono chiamati padri della Chiesa – osava già decretare: “Anche noi abbiamo la nostra letteratura classica, non abbiamo alcun bisogno di quella dei Greci” – e intanto rimandavano boriosamente a libri di leggende, lettere di apostoli e trattatelli apologetici» (ivi, p. 349). 23. «Il Vecchio testamento – bene, è tutt’altra cosa: per il vecchio testamento, tutto il mio rispetto! In esso trovo grandi uomini, un paesaggio eroico e qualcosa di estremamente raro sulla terra, l’incomparabile ingenuità del forte sentire: e ancora più, trovo un popolo» (ivi, p. 350). 24. Ibidem.

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ed estasiata musica […] con l’utilizzare il senso di colpa»25 di fronte a Dio. La vita normale della «maggioranza dei mortali», viene riletta in funzione di questo Essere supremo che ne mostra, per contrasto, la limitatezza. Il sentimento della nullità dell’uomo diviene così teoria, in cui i valori della vita attiva vengono piegati in direzione di un atteggiamento tanto decadente quanto reattivo, dominati dal ressentiment26 e atti a giustificare un comportamento non liberale ma vendicativo, “piccino” e privo di grazia. Il prete asceta e accorto, di fronte all’uomo tribolato dagli affanni più svariati, assume in sé il compito del Salvatore, elabora una «specie di terapia sacerdotale»27 che si fonda sulla coscienzaponte e trova, in successione, la colpa, la fede (che tramuta la colpa in peccato) e la liberazione: «tutto era ormai scoperto, divinato, sfruttato, tutto stava a disposizione del mago, tutto da quel momento serviva alla vittoria del suo ideale, l’ideale ascetico…»28. Che però qui non proprio tutto “funzioni” si vede dal fatto che il risultato della terapia sacerdotale segue vie traverse: «l’alleviamento consiste in ciò: che l’interesse del sofferente viene fondamentalmente stornato dalla sofferenza –, che un fare e di nuovo soltanto un fare entra costantemente nella coscienza e resta quindi poco posto in essa per il soffrire: infatti è angusta, questa stanza della coscienza umana!»29. 25. Ivi, p. 345. 26. Tra i primi a contestare le argomentazioni nietzscheane è Scheler, convinto che non il Cristianesimo bensì l’etica borghese moderna tragga origine dal ressentiment (cfr. Scheler M., Über Ressentiment und moralischen Werturteil. Ein Beitrag zur Pathologie der Kultur, 1919, in Id., Gesammelte Werke, V, Bern, 1954, pp.33-147; tr. it. Il risentimento nella edificazione delle morali, Milano, Vita e Pensiero, 1975²). 27. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 347. 28. Ibidem. 29. Ivi, p. 339.

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Si afferma il valore del prossimo, il bisogno della «comunità», del «cenacolo»30: in luogo del «pathos della distanza» e della gerarchia, si persegue l’utilità31, che nasce per glorificare se stessa elaborando una morale che sacrifica la verità al desiderio di umiliare l’uomo superiore: l’«istinto d’armento […] acquista infine parola (e anche parole)»32. Dove è da notare che all’acquisto della parola seguono «parole» cioè elaborazioni della filosofia che non rappresentano mai invenzioni, ma costruzioni degli intellettuali cristiani che hanno tratto, passo dopo passo, «una conclusione dopo l’altra»33. Ne consegue che alle categorie operative, «al servizio del bisogno»34, vengono sostituiti i concetti più generali e più vuoti, i concetti generici, che nascono «dal fatto che la verità è stata posta come essere, come Dio, come la stessa istanza

30. «Con una tale evocazione di “volontà di reciprocità”, di educazione del gregge, di “comunità”, di “cenacolo”, codesta volontà di potenza, così stimolata, sia pure in grado minimo, deve d’altro canto prorompere in maniera nuova e molto completa: l’educazione del gregge costituisce un passo e una vittoria sostanziali nella lotta contro la depressione. Nello svilupparsi della comunità si consolida, anche per il singolo, un nuovo interesse che abbastanza spesso lo solleva al di là dell’elemento più personale del suo malcontento, del suo aborrimento di sé» (ivi, pp. 340-341). 31. I nobili antichi «prendendo le mosse da questo pathos della distanza si sono per primi arrogati il diritto di forgiare valori, di coniare designazioni di valori: che cosa importava loro l’utilità! Proprio in rapporto a una siffatta calda scaturigine di supreme valutazioni che ordinano e rilevano la gerarchia, il punto di vista dell’utilità è quanto di più estraneo e incompatibile vi possa essere: qui il sentimento è appunto pervenuto a un’antitesi con quel basso grado di calore che è il presupposto di ogni calcolatrice prudenza, di ogni computo utilitario – e non per una volta soltanto, per un momento eccezionale, sebbene durevolmente» (ivi, p. 225). 32. Ivi, p. 226. 33. Ivi, p. 365. 34. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 6 [I I], p. 224.

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suprema, dal fatto che non era in alcun modo lecito alla verità essere problema»35. All’origine della logica non c’è la «differenza ontologica tra Essere autentico e inautentico»36, non c’è il semplice errore umano della «indifferenza della comprensione umana dell’Essere», ma concetti corposi coniati da uomini superiori, uomini «potenti che hanno fatto una legge dei nomi delle cose, e tra i potenti sono stati i più grandi artisti dell’astrazione quelli che hanno creato le categorie»37. Lo stesso «scopo» è visto come «fondamento» e quindi come conclusione, sintesi, ritorno allo Stesso: «da tempo immemorabile, infatti, si è creduto di comprendere nello scopo comprovabile, nell’utilità di una cosa, di una forma, di un’istituzione, anche il suo fondamento d’origine, e così l’occhio sarebbe stato fatto per vedere, la mano per afferrare»38. Secondo Nietzsche, tuttavia, dell’orizzonte cristiano non tutto è da condannare, bensì da rovesciare: «la storia umana sarebbe una cosa veramente troppo stupida senza lo spirito che da parte degli impotenti è venuto in essa»39. L’ideologia del nemico può tornare utile, i deboli possono offrire un contributo. Ma la Verità, e con essa il superamento dell’Idealismo, partecipa poco o nulla di questo discorso. Ogni sviluppo viene invece ottenuto sul piano teorico soltanto sostituendo un opposto con un altro, servendosi di tutte le vie operative, anche quelle, come abbiamo visto, «traverse».

35. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 357. 36. Fink E., La filosofia di Nietzsche, cit., p. 178. 37. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 6 [I I], p. 224. 38. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 265. 39. Ivi, p. 232.

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2. Verso «la terra dei figli» La «terapia sacerdotale» racchiude, al proprio interno, il pericolo di ogni Idealismo: contiene non solo il momento morale (trasvalutazione dei valori della grecità), ma anche il momento pratico organizzativo onde un pensiero, per configurarsi come effettivo, deve divenire «pastorale», cioè deve diventare materialismo, seguire le regole del mondo e così guadagnare il piano dell’efficacia e della produttività. Uno spiritualismo che si voglia definire tale, infatti, pratica la morale e interpella i potenti, ma si declina fattivamente nell’edificazione di Chiese, di luoghi di formazione, insomma di segni tangibili e riconoscibili. E qui il materialismo che veniva prima rifiutato, rimanendo così “immediato”, non umanizzato, si “vendica” presentandosi (nel momento delle scelte dei tempi e dei luoghi delle iniziative, nei progetti di trasformazione, nel reperimento dei fondi necessari, nei rapporti con gli enti pubblici e privati, etc.) per quello che è nella realtà storica realizzata dall’uomo: freddo, cinico, spietato e perciò disposto alla collusione con le forze politiche reazionarie di ogni tipo. Si vendica, inoltre, perché al di fuori della religione non consente di individuare nulla ad eccezione della struttura socio-economica a cui l’uomo è costretto ad assoggettarsi. La vendetta del materialismo obnubilato porta così a vedere dovunque solo materia, rimpicciolimento dell’uomo e mai la vita con i suoi momenti fondamentali: famiglie, donne, giovani, case, città, animali, etc. Quella vita che, secondo Nietzsche, invece Gesù aveva individuato nella sua profondità40.

40. Qualcosa di simile avviene in ambito politico, di cui però appare unicamente l’aspetto più brutale, mentre nel materialismo umanizzato si riesce a vedere il Cristianesimo come parte del mondo e della storia, e quindi nei suoi aspetti vari e a giudicarlo per quello che è e che riesce ad essere. La stessa distinzione tra fini e mezzi della pratica ateistica è concepita soltanto come base per la condanna del mondo, che lotta per i fini e riesce ad essere

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In Nietzsche il discorso non si limita però alla delineazione dell’inversione dei due mondi, come vorrebbe la teologia, ma se ne ricerca, attraverso la pratica dell’uomo di chiesa, le premesse (la volontà di potenza) e le conseguenze. Il problema diviene così quello del ruolo della metafisica nella cultura e nella vita sociale, onde i risultati che si ottengono sono l’opposto di quello che si cerca e si pensa di aver ottenuto. Leggiamo un frammento del 1886-1887, contemporaneo alla Genealogia della morale. L’adattarsi troppo presto ai compiti, alle compagnie, alle istituzioni della vita quotidiana e del lavoro, in cui ci pone il caso, quando ancora né la nostra forza né il nostro fine hanno cominciato a dettar legge nella nostra coscienza; la troppo precoce sicurezza morale, il ristoro e la comunanza in tal modo conquistati, questo accontentarsi prematuro che si ingrazia il sentimento come liberazione dall’inquietudine interna ed esterna, e così vizia e trattiene nel modo più pericoloso; l’imparare a stimare al modo dei propri «pari», come se avessimo in noi una misura e il diritto di porre noi stessi dei valori, la premura di porre sullo stesso piano contro la voce intima del gusto, che è anch’esso una coscienza, tutto ciò diventa un incatenamento terribile e sottile; e se alla fine non avviene un’esplosione che faccia saltare a un tratto tutti i legami dell’amore e della morale, un tale spirito intristisce e si immeschinisce, diventa effeminato e si appiattisce41.

solo preda dei mezzi, degli idoli che «nel loro contrasto si moltiplicano» (ivi, p. 262), e non per valorizzare e sviluppare ciò che nel mondo è vivo e aspira a crescere all’infinito: non si riesce a toccare ciò che per il pensiero religioso, al pari di ogni Idealismo, si offre come dato, come presupposto o come «risposta che precede la domanda». Tutto questo si vanifica presso gli animi più grandi, sensibili e pensosi, di tutti i tempi. Il superamento dell’Idealismo resta pertanto ancora da trovare, ed il discorso si deve spostare sul terreno delle conseguenze pratiche delle teorie. 41. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 7 [6], p. 264.

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Si noti che tale passo ha pretese generali, in quanto racchiude in sé una specifica presa di posizione rispetto al modo di leggere la storia e di intendere l’impegno umano nel mondo. Di fronte ad una situazione giudicata insoddisfacente per e dalla ragione, rispetto all’usuale ricorso alla separazione e alla trasformazione, che portano con meccanismi diversi all’unificazione degli elementi validi, qui il richiamo è invece alla “sostituzione”, che ha la caratteristica di essere totalizzante e radicale. Le sue conseguenze sono perciò profonde e durature. Della terapia sacerdotale bisogna dunque rilevare gli effetti in termini di giovamento, miglioramento dell’uomo. Ci si dovrebbe quanto meno intendere sulla parola «giovare». Se con essa si vuol esprimere che un tale sistema di trattamento avrebbe migliorato l’uomo, non ho nulla da obiettare: soltanto aggiungo quel che per me significa «migliorato» – lo stesso che «addomesticato», «indebolito», «avvilito», «raffinato», «infrollito», «svirilizzato» (quasi lo stesso, dunque, che danneggiato…)42.

Pure bisogna ricominciare: in Aurora, Nietzsche aveva già descritto l’uomo dalla «buona indole» come nemico di tutti, e perfino di se stesso43. E proprio qui riparte la storia, e non sulla base generalissima del fatto che dove tramonta una fede

42. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., pp. 347-348. 43. «O voi di buona indole e perfino nobilmente entusiasti, io vi conosco! Volete aver ragione davanti a noi, ma anche davanti a voi, e soprattutto davanti a voi stessi. E una suscettibile e sottilmente cattiva coscienza vi pungola e vi incalza tanto spesso, proprio contro il vostro entusiasmo. Come diventate allora ricchi nell’abbindolare o nell’intorpidire la coscienza! Come odiate gli onesti, i semplici, i puri, come fuggite i loro sguardi innocenti! […] Quanto siete assetati di trovare uomini della vostra fede in questa condizione – che è quella del pervertimento intellettuale – e di accendere le vostre fiamme al loro tizzone! Ahimè, il vostro martirio! Ahimè la vostra vittoria sulla consacrata menzogna! Dovete infliggere a voi stessi tanto dolore? Dovete proprio?» (Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 543, pp. 254-255).

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ne sorge un’altra. Ricominciare però non è facile: il pensatore che non dimentica, bensì tiene conto dei «fatti della storia: vacillamenti, terremoti, vaste e lunghe tristezze, fulminee offerte di gioia»44, ha bisogno di alleati, di posizioni nuove, di contromovimenti, capaci di indicare un’altra «meta»45. La risposta non può essere che l’erosione della contraddizione e la trasformazione, di rimando materialistica, della sostituzione idealizzante. Il discorso sulla sostituzione dei giudizi sulla realtà produce i suoi risultati. Tutta la storia dopo Roma, appare come un correre verso il “nulla”. Non è la scrittura che vincola l’uomo impedendone la creatività e la crescita, ma la riduzione della forza da elemento espressivo a elemento metafisico, come se, nota Nietzsche, «dietro il forte esistesse un sostrato indifferente, al quale sarebbe consentito estrinsecare forza oppure no»46, e disponesse della libertà di operare ovunque con l’arte «nel mutare i nomi, nel ribattezzare»47, nel fissare vedute e terminologie. La sostituzione della cultura fa scomparire il 44. Ivi, n. 545, p. 256. 45. «L’ideale ascetico esprime una volontà: dove si trova la volontà opposta in cui si esprimeva un ideale opposto? L’ideale ascetico ha una meta – questa è abbastanza universale da far apparire tutti i restanti interessi dell’esistenza umana, commisurati a essa, meschini e angusti; spietatamente in vista di quest’unica meta, interpreta epoche, popoli, uomini, non considera valida alcun’altra interpretazione, alcun’altra meta, rigetta, nega, afferma, conferma unicamente nel senso della sua interpretazione […]; non si assoggetta ad alcuna potenza, crede invece al suo primato su ogni potenza, alla propria assoluta distanza di rango in ordine a ogni potenza – crede non esservi alcuna potenza sulla terra che non debba ricevere unicamente a partire da esso un senso, un diritto all’esistenza, un valore, come strumento della sua opera, come via e mezzo per la sua meta, per un’unica meta… Dov’è il contrapposto di questo sistema chiuso di volontà, meta e interpretazione? Perché manca il contrapposto?… Dov’è l’altra “unica meta”?» (Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 352). 46. Ivi, p. 244. 47. Ivi, p. 340.

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mondo, e riportarlo all’esistenza significa ricondurlo alla luce, consentirgli di essere visto, perché solo così può essere ancora offerto alla prassi. Questo “vedere” non è, però, un obiettivo generico o “genialistico”, ma un obiettivo rispettoso del mondo e delle sue configurazioni reali e storiche. Il compito della filosofia sarà allora quello di rispettare il mondo, esplorando le peculiarità in cui si specificano le regioni dell’umano. In primo luogo, nel mondo moderno, terribilmente agitato, in cui ormai gli Europei «ronzano a sciami confusi come api e vespe»48, anche le donne accrescono la complessità del mondo. Nietzsche riflette a lungo sulle donne, sulle peculiarità e potenzialità del loro «intelletto»49, sebbene non nasconda qualche diffidenza di fondo verso di loro50. Ma il discorso 48. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 285, p. 198. 49. «L’intelletto delle donne si manifesta come perfetta padronanza, presenza di spirito, sfruttamento di tutti i vantaggi. Esse lo trasmettono come loro qualità fondamentale ai loro figli, e il padre vi aggiunge il fondo più oscuro della volontà. L’influsso del padre determina per così dire il ritmo e l’armonia, secondo cui si svolgerà la musica della nuova vita; mentre la melodia di essa proviene dalla donna. – Detto per coloro che sanno trarre profitto da qualcosa: le donne hanno l’intelletto, gli uomini il sentimento e la passione. Ciò non è contraddetto dal fatto che gli uomini giungano in realtà tanto più lontano con il loro intelletto: essi hanno gli impulsi profondi e più forti; sono questi che portano così lontano il loro intelletto, che di per sé è qualcosa di passivo. Spesso le donne si meravigliano segretamente della grande venerazione che gli uomini tributano al loro sentimento. Se gli uomini nella scelta della loro compagna, cercano soprattutto un essere profondo, pieno di sentimento, e le donne invece un essere intelligente, fornito di presenza di spirito e brillante, si vede in fondo chiaramente come l’uomo cerchi l’uomo idealizzato e la donna la donna idealizzata, ossia non l’integrazione, bensì il perfezionamento dei propri pregi» (ivi, n. 411, pp. 229-230). 50. «Nei tre o quattro paesi civilizzati d’Europa si potrà fare delle donne, con alcuni secoli di educazione, tutto ciò che si vorrà, perfino degli uomini, non certo dal punto di vista sessuale, ma comunque sotto ogni altro punto di vista. Per tale influsso esse avranno un giorno acquistato tutte le virtù e forze maschili; con esse ad ogni modo dovranno accettare anche le loro debolezze

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muta quando la vita stessa mostra di essere «donna»51, nel senso che si estende un modo di essere particolare, estremamente intrecciato nei suoi momenti importanti, al generale, e di questo si può tentare di delineare una figura, sempre temporanea, in base ai sensi ed all’esperienza. Un complicarsi ulteriore della vita che torna a vantaggio della sua costruzione: non una metafora, ma un nuovo e fecondo punto d’osservazione, punto di costruzione di sempre nuove prospettive. Da qui il configurarsi di un nuovo “pericolo” per la civiltà: le donne

e vizi: tanto, come s’è detto, si potrà raggiungere. Ma come sopporteremo il conseguente stato di transizione, che forse potrà durare persino un paio di secoli, durante i quali le follie e le ingiustizie femminili, loro antichissimo retaggio, pretenderanno in più di prevalere su tutto ciò che è stato acquistato e appreso? Sarà questo il tempo in cui la collera costituirà la vera passione virile, la collera per il fatto che tutte le arti e scienze saranno inondate e sommerse da un inaudito dilettantismo, la filosofia sarà condannata a morte da un chiacchiericcio dissennato, la politica diventerà più fantastica e partigiana che mai, la società sarà in piena dissoluzione, perché le custodi dell’antico costume saranno diventate ridicole a se stesse e in ogni rapporto si saranno adoperate per rimanere al di fuori del costume. Se infatti le donne avevano la loro più grande potenza nel costume, a che dovranno appigliarsi, per riconquistare una simile pienezza di potenza, quando avranno rinunciato al costume?» (ivi, n. 425, p. 235). Tra i tanti luoghi in cui il filosofo discute (più o meno polemicamente) delle donne, cfr. anche: Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte I, n.: 7 [38] e 7 [39], p. 151; 73 [31], pp. 149 ss.; n. 7 [122], pp. 173 ss. (in particolare della donna nella politeia platonica); Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., nn. 377-437, pp. 223-239; Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., nn.: 237-239, pp. 145-149. Sul rapporto filosofico (e non solo) di Nietzsche con le donne, in particolare riguardo al tema della “verità”, cfr. Derrida J., Sproni. Gli stili di Nietzsche, cit. 51. «Il mondo è stracolmo di cose belle, ma […] ciononostante è povero, molto povero di begli attimi e disvelamenti di siffatte cose. Ma forse è questa la più potente magia della vita: c’è su di essa, intessuto d’oro, un velo di belle possibilità, colmo di promesse, di ritrosie, di pudori, d’irrisioni, di seduzione. Sì, la vita è una donna» (Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 339, p. 235).

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possono legittimamente avanzare un credito verso il mondo, e ne può nascere lo spirito di vendetta che non può nuocere ai potenti, ma che certamente farà concorrenza ai deboli. Anche se, d’altra parte, può derivarne un vantaggio, in quanto ambiti importanti della vita sono rimasti nei secoli in ombra e inattivi, e ora possono essere studiati e “messi a frutto”, come ad esempio a riguardo della condizione dell’uomo che, “abbandonato” dalla donna lavoratrice, vive nella solitudine. Si avverte una situazione di mancanza, di incompletezza, che permane anche quando la domanda che si pone è la seguente: «gli spiriti liberi vivranno con donne?»; a cui segue la risposta: «essi, simili ai profetici uccelli dell’antichità, come coloro che nel presente pensano il vero e parlano la verità, debbano preferire volar soli»52. Zarathustra parla così ad un essere monosessuale, che produce allo stesso modo: sia che si presenti come uomo, sia che si presenti come donna. Compaiono le «madri maschili»53 che crescono insieme a coloro che mettono al mondo. Sempre in quest’ottica di esplorazione delle regioni del mondo umano, si inserisce sia il riproporsi del simbolo del “contadino”, «la specie più nobile»54, sia l’ammirazione verso una crescita pluridirezionale, multilaterale e vigorosa55. L’eterno

52. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 426, pp. 235-236. 53. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 72, p. 99. 54. Sostiene uno dei re che, come Zarathustra, cercano l’uomo superiore: «un contadino sano, rozzo, astuto, testardo, tenace rimane, oggi, per me ancora il migliore e il preferito degli uomini: questa è oggi la specie più nobile» (Nietzsche Fr., Così parlò Zarathustra, cit., p. 297). 55. Quando Zarathustra torna alla sua caverna senza aver trovato l’uomo superiore, uno di questi re gli dice: «al pino, o Zarathustra, io paragono chi, come te, cresce: lungo, silenzioso, duro, solo, fatto del migliore e più duttile legno, splendido, – infine, però, coi rami forti e verdi protesi verso il suo dominio, con forti domande per i venti e i temporali e tutto quanto abbia domicilio sulle altezze» (ivi, pp. 340).

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ritorno consente a Zarathustra di guardarsi attorno in modo nuovo, “trasvalutando” ciò che nella cultura popolare tradizionale del Sud e dell’Oriente appare come fatalismo, in direzione di ciò che è operativamente vicino e possibile. Crescere diventa un ramificarsi, un mettere rami da ogni parte, e questo elemento è inedito sia rispetto ai modelli di crescita antichi, secondo cui si cresce solo allontanando l’altro, il pericolo, e quindi, con la filosofia, l’errore; sia rispetto a quello moderno (modellato sostanzialmente su quello antico dell’alexìkakos) dell’altalena tra il signore che sottomette il servo ed il servo che, dialetticamente, cerca di prendere il posto del signore. Crescere significa, invece, perseguire il proprio grado di potenza, orientandosi in molteplici direzioni di sviluppo. Dalla terra il discorso si sposta quindi sul mare, il cui moto tempestoso diviene simbolo dell’inquietudine di un’epoca. Dopo «le tavole dei buoni», così Zarathustra parla ai «fratelli»: «il mare è in tempesta: molti vogliono servirsi di voi per tornare in piedi. Il mare è in tempesta: tutto è in mare»56. Ma il mare qui non è semplicemente scrutato dalla terra ferma come fa Platone, ma con i piedi immersi nella palude, ed appare come ambito di movimento incessante e problematico, senza aprioristiche prospettive di approdi, dove che sia. Da qui la necessità della partenza, del viaggio di scoperta, la necessità di fare «vela sul mare», verso destinazione ignota. Si annuncia l’orizzonte del nuovo, che in un frammento del 1883 Nietzsche presenta sinteticamente e metaforicamente come «terra dei figli» che si oppone alla «terra dei padri», e in cui sarà possibile «redimere il passato». Che m’importano le vostre terre dei padri e delle madri? Io amo soltanto la terra dei miei figli, la non scoperta, verso la quale faccio vela sul mare, cercandola. Nei miei figli voglio

56. Ivi, p. 260.

311 riparare di essere figlio dei miei padri: e redimere così il passato57.

E, qualche anno dopo, nello Zarathustra, egli insiste: Fratelli miei, la vostra nobiltà non deve guardare all’indietro, bensì in avanti! Voi dovete essere come degli scacciati da tutte le terre dei padri e degli avi! La terra dei vostri figli voi dovete amare: sia questo amore la vostra nobiltà nuova, – la terra non ancora scoperta, nelle lontananze remote del mare! Questa terra io ordino di cercare e cercare, alle vostre vele! Nei vostri figli dovete riparare di essere figli dei vostri padri: così dovete redimere tutto il passato! Questa tavola nuova io pongo sopra di voi!58 Laggiù il nostro timone vuole dirigersi, là dove è la terra dei nostri figli! Laggiù, lontano, più tempestoso del mare, si scatena il nostro grande anelito! 59

Giunge così il momento di esplorare le terre nuove, dei «nuovi figli», degli «uomini dell’avvenire»: per parlarne in modo adeguato è necessario però dissodare il terreno affrontando gli aspetti del pensiero nietzscheano che fungono da base alla sua considerazione del ruolo dell’uomo nel futuro.

3. L’uomo «sintetico», «molteplice» e «complementare» Un primo esito della fenomenologia dell’umano che Nietzsche intraprende è la necessità di una «forza creatrice (che lega gli

57. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1882-1884, cit., parte II, n. 13 [15], p. 120. 58. Nietzsche Fr., Così parlò Zarathustra, cit., pp. 248-249. 59. Ivi, p. 261.

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opposti, sintetica)»60, di cui dispone quello che più avanti il filosofo definirà «l’uomo sintetico, assommante, giustificante»61, o meglio, «il grande uomo sintetico, in cui le diverse forze siano spregiudicatamente aggiogate verso un solo fine»62. Un uomo che, di fatto, ancora non esiste, ma che si costituisce nel progredire dell’elevazione dell’umano nell’interpretazione. L’idea delle molteplici volontà di potenza che pervengono a una unità apparentemente duratura nell’interpretazione spinge il filosofo a confrontarsi con il dilemma che struttura organicamente la ragione al tempo: il problema non è il “tempo” in quanto tale, né il concetto di “tempo” oppure, dal punto di vista «di chi pone il problema, l’esserci»63, la necessità di passare alla categoria del “come”, della modalità con cui si danno per l’uomo gli accadimenti temporali. Il discorso ruota invece intorno al modo di concepire l’uomo nel suo legame con il tempo in cui si determina l’interpretazione, che apre la strada ad una riflessione sulla nascita della bellezza, della verità, et similia. Diversamente da Vico, Nietzsche si muove dal punto di vista storico della cultura come radice del processo a quello della società, sebbene non siano ancora presenti diversi aspetti essenziali e specificamente condizionanti l’uomo e i suoi tentativi di costruzione del proprio mondo. Uno di questi, ad esempio, è la scrittura. La storia della civiltà che ne deriva è scarnificata, ma in essa l’uomo riveste comunque un’importanza fondamentale (che continua a conservare anche oggi,

60. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884, cit., n. 26 [204], p. 185. 61. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 10 [17], p. 113. 62. Ivi, n. 9 [119], p. 60. 63. Heidegger M., Der Begriff der Zeit. Vortrag vor der Marburger Theologenschaft (Juli 1924), Max Niemeyer, Tübingen, 1989; tr. it. Il concetto di tempo, Adelphi, Milano, 1998, p. 57.

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quando si ipotizza, da altri lidi, un «nuovo soggetto», che «accentua in sé il processo anziché l’identificazione»64). Ora, la Krisis della metafisica del soggetto e il bisogno di riaffermare le istanze del molteplice pongono Nietzsche di fronte ad una nuova forma di umanità, quella dell’«uomo molteplice», da comprendersi come «il caos più interessante che ci sia forse stato finora; ma non il caos prima della creazione del mondo, bensì dopo di essa»65, come espressione della capacità di vedere «da cento occhi» e trovare, nell’interpretazione, una sintesi tra la molteplicità delle volontà di potenza, senza altresì sopprimere nel pensiero tale molteplicità che si rivolge al molteplice da cui si origina. Una forma di uomo difficile da definire se non la si assume per ciò che è: non una soluzione, ma una rimodulazione dei parametri di ragionamento in vista di una reimpostazione dei problemi umani nella palude, primo fra tutti l’eterno problema della “verità”, che mostra chiaramente i suoi limiti rispetto alle aspettative nietzscheane di mantere vivo il riferimento alla relazione. L’attenersi della filosofia con coerenza al duplice registro del fatto e dell’idea (l’adaequatio) pone infatti problemi, più che risoluzioni; osserviamo da presso.

64. «Gli antichi filosofi si sono prefissi lo scopo di spiegare il mondo. Il materialismo dialettico che vuole invece trasformarlo parla a un nuovo soggetto e può farsi intendere solo da lui: un soggetto che non più, semplicemente, spiega, cogita e sa, ma un soggetto inafferrabile perché trasforma il reale. Questo soggetto che comprende il movimento del precedente accentua in sé il processo anziché l’identificazione, il rigetto anziché il desiderio, l’eterogeneo anziché il significante, la lotta anziché la struttura» (Kristeva J., La révolution du langage poétique, Éditions du Seuil, Paris, 1974; tr. it. La rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio, Venezia, 1979, p. 148). 65. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [119], p. 60.

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Innanzitutto, l’«uomo molteplice» non è un intellettuale di professione, non è uno spirito libero, e può presentare anche aspetti negativi, propri della vita, che però non urtano, non “offendono”. Non mi sfugge la volgarità di tutto ciò che piace al mezzogiorno europeo, […] ma questa volgarità m’offende tanto poco quanto quella che si incontra passeggiando per Pompei e, in fondo, anche nella lettura d’ogni libro dell’antichità […]. Popolare è e rimane la maschera! Ben venga dunque la corsa di tutta questa mascherata nelle melodie e nelle cadenze, nei ritmici guizzi e gaiezze di queste opere! Proprio come la vita dell’antichità! Che cosa si comprende di essa, se non si intende il piacere della maschera, la buona coscienza di ogni mascherata? Qui lo spirito degli antichi trova lavacro e ristoro – e forse era questo lavacro, per le passionalità rare e sublimi del mondo antico, ancor più necessario che per quelle volgari66.

Il discorso prende così corpo attraverso l’onnipresente riferimento all’ambito religioso, declinato attraverso la dicotomia Sud-Nord: «l’architettura della Chiesa si basa ad ogni modo su di una libertà e liberalità di spirito meridionali, come pure su una meridionale diffidenza verso la natura, l’uomo e lo spirito – si basa su di una conoscenza dell’uomo, un’esperienza dell’uomo, interamente diverse da quelle che il Nord possiede»67. In Lutero si nascondeva «l’odio abissale contro “l’uomo superiore” e contro la signoria dell’“uomo superiore”, come l’aveva concepito la Chiesa: egli infranse un ideale che non seppe raggiungere, mentre sembrava combattere e aborrire la degenerazione di questo ideale»68. Sulla stessa linea, riguardo a Wagner, Nietzsche rileva il proporsi non di «bellez66. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 77, pp. 101-102. 67. Ivi, n. 358, p. 272. 68. Ivi, p. 273; sul rapporto con Lutero cfr. Ballabio E., Lutero e Nietzsche, Sovera, Roma, 2005.

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za, non sud, nulla di meridionale, sottile chiarità di cielo, non leggiadria, non danza, non la minima volontà di logica» ma, al contrario, di «una pesante bardatura, qualcosa di volutamente barbarico e maestoso, uno sfavillare di erudite e venerande preziosità e merletti: qualcosa di tedesco nel senso migliore e peggiore del termine, qualcosa di multiforme, d’informe e di inesauribile alla maniera tedesca»69. La sintesi non è ancora nelle cose, ma il filosofo non è costretto a vagare nel nulla, a «mirare alle nuvole», perché oltre al mondo materiale ha a disposizione anche quello sociale e culturale su cui misurare le proprie ipotesi, verificarle e valutarne il tasso di novità. L’umanità dispone ormai di molte ricerche e di un grande accumulo di materiali, di molte interpretazioni già disponibili nella cultura, nei pensieri delle «figure affini del passato»70 con le quali è possibile stabilire un confronto, intrattenere un dialogo. E ciò apre alla riflessione (non solo filosofica) possibilità inedite, tra le quali, appunto, quella di poter pensare il Sud e il Nord con tutto ciò che essi producono o consentono nel moderno. La stessa «morte di Dio» non è un prodotto d’origine essenzialmente teoretico, non è un fenomeno che si manifesta in questo o in un altro luogo, ma appare laddove c’è diffidenza e, inoltre, laddove c’è bisogno di un’altra verità rispetto a quella della «metafisica razionalistica»71, quando si delinea il

69. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 240, p. 151. 70. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 10 [3], p. 106. 71. Dalmasso spiega infatti che che «non è un problema se Dio esiste o non esiste. Dio è esistito, sì, ma adesso è morto. È morto perché entrato nella scena di una coscienza dominatrice, di una coscienza per cui la ragione e la morale sono per l’uomo moderno opera delle sue mani. Se Dio non è più ciò di fronte a cui la coscienza un tempo si poneva come commossa e trepidante, spaventata e gioiosa rispetto a una potenza che la genera, allora è morto. L’affermazione di Nietzsche non è però interpretabile in termini meramente atei: Dio è un’illusione perché il Dio della morale, dell’intellet-

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confronto con le figure pubbliche più recenti della violenza intellettuale (interpretativa e perciò formativa): il settario e il giornalista. Se il primo «cancella nell’essere venerato i tratti e le idiosincrasie originali, spesso spiacevolmente strane – non le vede neppure»72, il secondo invece non vede perché non ha bisogno di costruire, ma solo di «deformare», di ridurre tutto alla sua misura: assimila, eguaglia riportando tutti di fronte al suo problema e procede poi alle invenzioni più raffinate e adatte al caso. Così, se il settario non vede, il giornalista invece non sente73. La condanna74 di quest’ultimo comportamento non viene però solo dal filosofo di professione, ma dal vedere «da cento occhi» le diverse situazioni della vita, che «portano con sé le loro particolari vedute. Così si partecipa in modo conoscitivo alla vita e alla natura dei molti, non trattando se stessi come individui unici fissi e costanti»75. Alla menzogna sorda

tualismo, il Dio rassicurante, puntello di una metafisica razionalistica e di una moralità, è un Dio che non interessa nessuno» (Dalmasso G., Chi dice io. Razionalità e nichilismo, Jaca Book, Milano, 2005, p. 39. Sul tema della morte di Dio cfr. anche Angelino C., Il “terribile segreto” di Nietzsche, Il Melangolo, Genova, 2000). 72. Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., n. 31, p. 204. 73. «Il potere della stampa consiste nel fatto che ogni individuo che la serve si sente solo pochissimo obbligato e vincolato. Egli dice di solito la sua opinione, ma per una volta anche non la dice, per giovare al suo partito o alla politica del suo paese o infine a se stesso. Tali piccoli delitti di disonestà o forse solo di disonesto silenzio, non sono difficili da sopportare per l’individuo, tuttavia le conseguenze sono straordinarie, perché questi piccoli delitti vengono commessi da molti nello stesso tempo. [...] Siccome sembra quasi moralmente indifferente scrivere o non scrivere una riga in più, fra l’altro magari senza neanche la firma, uno che abbia denaro ed influenza può fare di ogni opinione l’opinione pubblica» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 447, p. 247). 74. «Ancora un secolo di giornali e tutte le parole puzzeranno» (Nietzsche FR., Frammenti postumi 1882-1884, cit., parte I, n. 168, p. 65). 75. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 618, p. 293.

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e cieca si può opporre, ancora una volta, che la voce dei molti in cui deve trovarsi la volontà di verità perché essi aderiscono alle cose, alla natura ed ai suoi esperimenti. L’uomo molteplice è infatti concreto e temporale perché viene dentro alcune cose76, perché viene dopo alcune cose e prima di altre che sono, comunque, oggi già visibili e valutabili in riferimento a progetti di vita. Il mondo è andato avanti senza di noi, e ora ci troviamo di fronte ad un’enorme quantità di scritture. L’autocoscienza non si trova più di fronte ad un’altra autocoscienza di cui deve razionalmente “giustificare” l’esistenza, ma si struttura nel tempo per accumulo di forze sociali che alla fine riescono a trovare uno sbocco creativo adeguato. L’uomo appare come il «fenomeno concomitante di ogni crescere della

76. «Si parla del “conflitto dei motivi”, ma con ciò si designa un conflitto che non è il conflitto dei motivi, vale a dire: alla nostra coscienza riflettente emerge, di fronte a un’azione, una serie di conseguenze di diverse azioni, che pensiamo di poter effettuare tutte quante, e così mettiamo queste conseguenze a confronto. Crediamo di esserci risolti ad un’azione, quando abbiamo stabilito che le sue conseguenze saranno quelle, in misura preponderante, più favorevoli; prima di giungere a questa conclusione del nostro riflettere, ci tormentiamo spesso, onestamente, per la grande difficoltà di divinare le conseguenze, di vederle in tutta la loro forza e realmente tutte, senza ometterne alcuna per errore: per cui il conto fatto deve inoltre essere ancora diviso per il caso. Anzi, per esprimere la maggiore delle difficoltà: tutte le conseguenze che, prese per sé, è così difficile determinare, devono ora tutte insieme equilibrarsi fra loro su un’unica bilancia, e molto spesso ci manca per questa casistica di giudizio, unitamente ai pesi, anche la bilancia, a causa della diversità qualitativa di tutte queste possibili conseguenze. Ma supposto che anche di ciò si venisse a capo, e che il caso ci avesse collocato sulla bilancia conseguenze suscettibili di equilibrarsi vicendevolmente: abbiamo allora in effetti, nell’immagine delle conseguenze di una determinata azione, un motivo per compiere quest’azione stessa – sì, un motivo! Tuttavia nell’attimo in cui finalmente cominciamo ad agire, veniamo abbastanza spesso determinati da un genere di motivi diverso da quello di cui ora si sta parlando, che è quello dell’“immagine delle conseguenze”» (Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 129, pp. 95-96).

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cultura»77. Segni di questo «fenomeno» si possono individuare nella figura di Napoleone, il quale «intende la necessaria unità dell’uomo superiore e dell’uomo terribile. Ripristina “l’uomo”; recupera per la donna il tributo dovutole di disprezzo e di paura. La “totalità” come salute e attività suprema; riscopre la linea retta e il grande stile nell’agire; afferma l’istinto più potente, quello della vita stessa, la brama di dominio»78. Ma si tratta, appunto, di un’anticipazione, poiché a mancargli è l’«andatura»: egli rivela, in definitiva, «un certo stile dello spirito con cui anche grandi personalità tradiscono la loro origine plebea o semiplebea»79. L’uomo molteplice, letto attraverso l’ottica dell’eterno ritorno e del «nichilismo compiuto», se non è sintesi assoluta, permane comunque uomo sintetico, quindi sintesi pratica, compiuta in lui e attraverso di lui dalle volontà di potenza, e si annuncia come amore in una accezione spazio-temporale, cioè nell’esistenza e nel mondo. Nietzsche ne aveva già parlato in precedenza, ma questa sintesi recupera ora un contesto appropriato, diviene sintesi conoscitiva: «l’amore di sé fornisce i motivi di tutte le nostre azioni», e tale proposizione «ci spinge ad affrontare la vita a modo nostro e rifiuta metri estranei; questo dà coraggio»80. E se è vero che «la massima parte del nostro essere ci è sconosciuta», tuttavia «noi amiamo noi stessi, parliamo di noi come di qualcosa ben conosciuto, in base a un po’ di

77. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 10 [5], p. 107. 78. Ivi, n. 10 [5], p. 108. 79. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 282, p. 190. 80. Nietzsche Fr., Nachgelassene Fragmente 1878-1879; tr. it. Frammenti postumi (1878-1879), in Id., Umano, troppo umano, II. Frammenti postumi (1878-1879), «Opere di Friedrich Nietzsche», vol. IV, tomo III, pp. 271-386, Adelphi, Milano, 1965, pp. 271-386, n. 30 [187], p. 325.

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memoria»81. Su queste premesse nasce la conoscenza, poiché «la vera genesi dei concetti [...] deriva dalla sfera pratica, dalla sfera dell’utilità, donde anche trae la sua forte fede»82. Così è possibile comprendere che «il bisogno insegna a lavorare, a pensare, a frenarsi»83, poiché è l’azione che si pone come premessa del conoscere in quanto interpretazione: «tutto il pensare, il giudicare, il percepire, in quanto confrontare, ha come presupposto un “PORRE come uguale” e anzi un “FARE uguale”». E il «fare uguale» è la medesima cosa «dell’incorporazione della materia assimilata nell’ameba»84. Sarà allora imprescindibile delineare «una propria strada», un progetto in cui le cose incontrate e da incontrare prendano un posto appropriato, in relazione alla «sollecitudine lungimirante». I fisiologi, come i filosofi, credono che la coscienza, nella misura in cui cresce in chiarezza, cresca in valore; che la coscienza più chiara, il pensiero più logico e freddo siano di prim’ordine. Tuttavia – in base a che cosa si determina questo valore? Il pensiero più superficiale, più semplificato, è, rispetto allo scatenamento della volontà, il più utile (perché lascia pochi motivi). La precisione dell’agire sta in antagonismo con la sollecitudine lungimirante e spesso incertamente giudicante: quest’ultima è guidata da un istinto più profondo85.

La ragione viene dopo l’impulso e modera tutto, specie l’atteggiamento fideistico necessario ad ogni iniziativa, ad ogni progetto. La ragione si qualifica come una forma di incredulità che fa coppia necessaria con il prorompere delle forze so-

81. Ivi, n. 32 [7], p. 329. 82. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 8 [2], p. 314. 83. Ivi, n. 5 [61], p. 196. 84. Ivi, n. 5 [65], p. 198. 85. Ivi, n. 5 [68], pp. 198-199.

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vrabbondanti libere in natura. Prima di ogni altra cosa, è una deriva dello scetticismo. Liberata da ogni contesto metafisico, non deve sostituirsi alla pratica fornendo le ali della libertà all’individuo, non deve sottrarlo a se stesso per lanciarlo verso l’Infinito e il Vero. Non può essere più confusa con l’uomo nella sua totalità e non deve farsi carico della totalità dei suoi problemi. Se pure esiste una “filosofia della ragione”, questa non coincide con la “filosofia dell’uomo”. Non è possibile infatti costruire arbitrarie generalizzazioni sul rapporto tra mondo e “mente”, ad esempio in termini di reciprocità, oppure sul ruolo della “mente” nel mondo, come accade nella simbolicità. Il simbolico partecipa infatti della conoscenza ma non si identifica con la ragione soltanto perché consente all’uomo il controllo degli ideati, e la loro comunicazione e trasmissione. Il rapporto ragione-mondo è determinato di volta in volta dalla contingenza e dai problemi che in essa sorgono e pretendono soluzione. L’inautentico non costituisce un problema, ma una realtà, ed entra nella filosofia in termini non definitivi, perché sempre esposto ad un ulteriore ingresso. La sintesi pratica-ragione avviene grazie a un capovolgimento del modello teoretico metafisico: il pensiero passa dallo schema della teoria che pretende di divenire pratica a quello della vita che si arricchisce nella e con la teoria, per ritornare quindi alla pratica. Il pensiero attuale, che si vuole laico, rifiuta tuttavia di riportare l’uomo ai primordi, perché questo significherebbe obnubilarne la differenza dalla sfera meramente animale. Resta così in attesa della «nuova metafisica», del pensiero che approda all’impensato, che custodisce «il mistero» e oltrepassa l’incessante “errare” tra gli enti. Si limita a raccogliere l’intera evoluzione dell’umanità attorno al personale punto di vista filosofico e, da qui, a criticare il tutto. Nella storia infatti non può essere accaduto altro rispetto a quello che il filosofo rileva “sporgendo il collo” dalla finestra del suo studio. In caso contrario, di solito, c’è sempre e solo errore, o meglio,

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un errore: l’oblio dell’essere, la sostituzione del sentiero del giorno con quello della notte, del pensiero dei fini con quello dei mezzi operato già da Prometeo («il cui doron agli esseri umani si rivela essere, insieme e indissolubilmente, anche un dolon»86) e portato a compimento nel moderno, quando si vince la “violenza dell’essere”. Un errore di cui il filosofo ancora non si è assunto la colpa, in modo che non può, di conseguenza, rinnovare il mondo da lui stesso in precedenza deturpato. Ora, nella visione di Nietzsche tutto questo non è presente. Egli affida la sua elaborazione del nuovo mondo al rovesciamento della metafisica e, contro il theoréin, sottolinea il valore costitutivo del vedere «da cento occhi», in seno a una ricognizione della molteplicità della prassi vitale che si configura più come alchimia degli estremi che come sintesi asettica di presupposti: per questo «gli uomini della sintesi non possono svilupparsi dalla “formica”»87. Con essi non bisogna fare i conti, ma si deve studiarne la dinamica dell’estremo declino, il nichilismo, un pensiero in cui, «in un certo riguardo, viene eternizzato l’“invano”, la mancanza di un fine ultimo; esso è in tal senso il pensiero più paralizzante»88. Per la verità, si tratta infatti sempre di una sintesi fragile e facilmente deturpabile. L’amore, per ripetersi, deve caricarsi di forza, e la ragione, che in un mondo in divenire rinuncia all’universalità per l’oggettività della verità, realizza solo «una finzione regolativa, col cui aiuto si introduce, si inventa, in un mondo in divenire, una specie di stabilità e quindi di “conoscibilità”. Il credere alla grammatica, al soggetto e oggetto grammaticale, ai verbi, ha soggiogato finora la metafisica; io insegno ad abiurare a que86. Curi U., La cognizione dell’amore. Eros e filosofia, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 123. 87. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 5 [81], p. 209. 88. Heidegger M., Nietzsche, cit., p. 363.

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sta fede»89. La decisione del pensiero che ormai, trascorso il momento della coscienza «ancora subanimale», opera nell’orizzonte delle «cose prossime» rendendo perspicui gli avvenimenti che in esso si danno, dal canto suo si interessa della vita e quindi anche dell’altro, e quindi soltanto secondariamente e indirettamente. Non che manchi in Nietzsche, nonostante tutto, un qualche richiamo alla morale ed al dover essere, onde si deve «misurare la realtà sul mondo inventato dell’incondizionato, dell’uguale a se stesso»90, ma ciò va ricondotto al più originario motivo della vita, che a sua volta si appoggia necessariamente solo all’io come «costruzione del pensiero»91. La questione ora muta però di prospettiva, in quanto emerge con forza, potremmo dire, la «scoperta del limite oggettivo dell’io, per cui esso non è padrone di sé, non determina il suo “essere soggettivo” né il suo “essere razionale”, ma al contrario è da questi determinato»92. Il rapporto all’altro non viene così ri(con)dotto al tipo delle contingenze da risolvere teoricamente, in modo che si può dire che di fronte a «tutte le cose amare della vita», l’uomo si relaziona all’altro in termini di equilibrio e giustizia, non di dominio ma di modalità condivise di «espansione di potenza», evitando di riferirsi ad ogni egualitarismo, anche se si deve ridere dell’altro e del suo dolore come si ride di sé e del proprio dolore. Insomma non ridere degli altri, bensì ridere «di se stessi insieme agli altri»93: ridere perché, in fondo, «il non essere potrebbe apparirci più prezioso dell’essere»94. Al 89. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 35 [35], p. 203. 90. Ivi, n. 35 [37], p. 204. 91. Ivi, n. 35 [35], p. 203. 92. Cantillo G., L’eccedenza del passato, Morano, Napoli, 1993, p. 335. 93. Nietzsche Fr., Frammenti postumi (1879-1881), cit., n. 7 [284], p. 572. 94. Ivi, n. 6 [123], p. 451.

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dolore del negativo di hegeliana memoria si sostituisce, pertanto, il negativo del dolore: il processo non nasce più dal negativo che si deve sopportare in vista del bene, ma dall’urto che si deve accettare per avere il negativo che apre al nuovo, all’aperto e infinito presentarsi del diverso, del differente. Non c’è negazione della negazione, perché una negazione determinata che si ripete all’infinito appare ed è, in effetti, indeterminata; piuttosto si tratta di disporsi a cogliere e ad accogliere ogni «affermazione della affermazione», come esposizione alla diversità che il molteplice vitale presenta95. Ancora, e più nel dettaglio. La ragione dell’uomo molteplice non sublima96 in modo che per Nietzsche, come vorrebbe Kaufmann, «lo spirito non è completamente opposto alla vita, ma diretto soltanto contro un livello di essa. La sua missione non è quella di distruggere ma quella di realizzare, di sublimare o, per usare espressioni delle Considerazioni, di trasfigurare e di perfezionare la natura dell’uomo»97. La ragione dell’uomo molteplice non trasfor-

95. Si evidenzia la distanza di Nietzsche dal moto dialettico hegeliano, colpevole di non cogliere la natura affermativa dell’altro nel trasformarlo nel negativo del sé, come rileva Deleuze: «se la dialettica trova il suo elemento speculativo nell’opposizione e nella contraddizione, ciò deriva inanzitutto dal fatto che essa riflette una falsa immagine della differenza, un’immagine rovesciata, come quella che si forma nell’occhio di un bue. La dialettica hegeliana è una riflessione sulla differenza, ma una riflessione che capovolge l’immagine: all’affermazione della differenza come tale essa sostituisce la negazione di ciò che differisce; all’affermazione di sé la negazione dell’altro, all’affermazione dell’affermazione la famosa negazione della negazione» (Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit., p. 222). 96. Cfr. Petterlini A., Sublimazione e desublimazione in Nietzsche e Freud, in Totaro F. (a cura di), Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, cit., pp. 145-154. 97. Kaufmann W., Nietzsche: Philosopher, Psycologist, Antichrist, Princeton University Press, Princeton, 1968²; tr. it. Nietzsche filosofo,

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ma, nel senso che, essendo propria dell’uomo, inserisce nel reale, ostacolando e superando le “inclinazioni” naturali, quel tanto di bello e di buono che rende la vita vivibile, sopportabile. Qui opera sempre la posizione autonoma (e superiore) dello Spirito rispetto alla Natura. La ragione dell’uomo molteplice, mossa dalla volontà di potenza, invece interpreta, quindi placa e controbilancia imponendo «misura» (Maß)98 a tutto ciò che nel mondo è presente e ha una sua giustificazione, anche se sconosciuta. Viene affermata la molteplicità delle volontà di potenza nella peculiarità e ricchezza di vita che essa esprime, senza inquadrarne aprioristicamente la fenomenologia in seno ad uno schematismo rigido e onnicomprensivo. Vedendo «da cento occhi», e con la «delicata sensibilità di una bilancia»99, la ragione si affida così al «“bene più prezioso fra gli uomini”», che abbiamo già incontrato: la «grande qualità della ponderatezza, che è in fondo la virtù delle virtù, la loro progenitrice e

psicologo, anticristo, Sansoni, Firenze, 1974, p. 293. 98. «L’uomo misuratore. Forse tutta la moralità dell’umanità ha avuto origine dall’enorme eccitamento intimo che prese gli uomini primitivi quando scoprirono la misura e il misurare, la bilancia e il pesare (la parola “uomo” significa infatti colui che misura, egli si è voluto chiamare dalla sua scoperta più grande!) Con queste idee essi salirono a sfere affatto incommensurabili e imponderabili, ma che in origine non sembravano esserlo» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 21, p. 147). A tal proposito, Totaro spiega che «la misura può allora essere declinata come la concreta potenza di orientamento alla pienezza dell’umano e della vicenda storica, nel positivo “dire di sì” che si afferma anche nel negativo e assume il profilo di una ponderata creatività. In questa direzione, la misura può diventare il punto di approdo della maturità nel conoscere e nell’agire e costituire il sigillo di una capacità esistenziale esteticamente pregevole» (Totaro F., Prefazione a Id., a cura di, Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, cit., pp. 9-11, pp. 10-11). 99. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 112, p. 81; cfr. anche ivi, n. 5 [31], p. 418.

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regina»100. Dunque la ragione pondera gli elementi del reale e sviluppa modalità relazionali del pensare e dell’agire volte a considerare l’importanza di ogni suo aspetto, a cominciare dalle cose più piccole e prossime. Forza e ragione restituiscono la volontà di potenza come eccellenza, morale dell’autodominio, autoimplementazione, mentre si impone la necessità parallela di considerare il modo in cui essa si manifesta nel mondo nel suo polimorfismo irriducibile. I due movimenti della ragione, che operano placando e controbilanciando, avvengono a distanza dal mondo oggettivo degli uomini, per cui pure vengono pensati. Nell’allontanarsi dalla tendenza del pensiero a schematizzare il reale, e dunque a ri(con)durne la molteplicità all’unità dell’idea obnubilandone la ricchezza costitutiva, l’uomo molteplice altresì prende congedo dalle pratiche conoscitive di una ragione che si ripercuote sulla stessa visione dell’uomo e della sua natura, fino a confinarne la peculiarità irriducibile in un quadro oggettivo segnato dall’incompletezza. Al contrario, l’uomo molteplice si presenta come quell’«uomo complementare» (complementärer Mensch) di cui Nietzsche parla nell’aforisma 207 di Al di là del bene e del male, nel momento in cui ne individua la differenza dall’«uomo oggettivo» (objektive Mensch), colui che rinuncia a «tutto il soggettivo» e «alla sua maledettissima ipsissimosità» (verfluchte Ipsissimosität). Si tratta di un tipo d’uomo, l’«uomo oggettivo», che rifiuta di interrogarsi prima di tutto su se stesso, sulla sua umanità, e preferisce “appiattirsi” sul costituito, sull’acquisito, su ciò che gli proviene dall’esterno, al punto da divenire «uno strumento: uno specchio – non già “scopo a se stesso”», con la conseguenza che «quel che ancora gli resta della “persona”, gli sembra casuale, spesso

100. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 294, pp. 252-253.

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arbitrario, ancor più molesto: tanto è divenuto a se stesso un passaggio e un riflesso di figure e di avvenimenti estranei». Le identiche modalità oggettivanti utilizzate sul mondo esterno vengono quindi riproposte a riguardo dell’uomo, che pertanto si limita a rispecchiarne le dinamiche fino a smarrire i contenuti irriducibili della propria umanità, del proprio grado di volontà di potenza. Proprio contro questo tipo d’uomo, «un uomo “senza se stesso”» Nietzsche prospetta così la necessità di un «uomo complementare, in cui si giustifica la restante esistenza»101, ciò che dell’umano non soggiace a schematismi precostituiti, e che dunque è in grado di indicare e di vivere un’eccedenza di potenza in termini di singolarità, di irriducibilità rispetto al costituito e al definito. Il pensiero che si vuole antimetafisico risulta oltre la politica, oltre la tecnica, oltre l’economia. L’uomo che ne nasce è oltremetafisico, e Nietzsche lo osserva con attenzione: l’uomo «sintetico» è ora veramente uomo «molteplice» in quanto uomo «complementare», e dunque Oltreuomo102 (Übermensch), uomo capace di rimanere fedele alla terra, ancorato alla palude, nel senso che è strumento culturale organico (come critica del passato e della coscienza, del mondo “brutto”; come radicamento del senso della vita nella natura; come autocoscienza; come apertura allo sviluppo ed al futuro; etc.) e può divenire strumento utile per chiunque nella storia voglia “disporne”. 101. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 207, pp. 110-112. 102. Accogliamo qui l’ormai condivisa indicazione di Vattimo, che preferisce tradurre «Übermensch» con “Oltreuomo” e non con “Superuomo”, per evitare il riferimento ad una presunta superiorità (per razza, origine o altro) dell’uomo nuovo su cui tanto ha insistito gran parte della critica. Con la traduzione “Oltreuomo” invece si «intende appunto accentuare la trascendenza di questo tipo di uomo rispetto all’uomo della tradizione. L’incapacità di cogliere questa trascendenza e novità sembra accomunare parte delle interpretazioni che sono state date della filosofia di Nietzsche» (Vattimo G., Il soggetto e la maschera, cit., p. 183, n. 11).

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Da qui deriva, forse, il travaglio nietzscheano dell’età matura, per un completamento accettabile del sistema. Se è vero infatti che in ogni opera ciò che conta, ciò che è necessario, è il «gusto unitario», «la costrizione imposta da uno stesso gusto a dominare e a plasmare nel grande come nel piccolo»103, è tuttavia vero che «la brevità della nostra vita richiede che a un certo punto si giunga al culmine e il fine sia raggiunto: altrimenti rimaniamo eternamente sospesi, e non si riesce per impazienza a tollerare questo stato. L’apparenza della verità è individualmente necessaria»104. La figura del sistema è dunque connaturata alla ricerca filosofica105; tuttavia, se nel pensiero di Nietzsche è possibile individuare “un” senso complessivo, esso va delineato ricercando il nuovo nell’approfondimento di temi già individuati, a cominciare dall’eterno ritorno e dall’istanza di radicamento dell’uomo oltremetafisico nella palude, nel luogo in cui trae origine la vita e, quindi la cultura, in un nesso di reciprocità che nella sua meditazione non viene mai meno. Ed è in questo punto che il discorso nietzscheano si rivolge ai giovani, poiché è ad essi che il filosofo affida il compito di rigenerare la cultura mantenendone il legame con la vita. Datemi prima la vita, e allora io vi creerò da essa anche una cultura! – Così grida ogni individuo di questa prima generazione, e tutti questi individui si riconosceranno fra loro a questo grido. Chi darà loro questa vita? Nessun dio e nessun uomo: solo la loro stessa gioventù. Liberate dalle catene quest’ultima e avrete liberato con essa la vita106.

103. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 290, p. 195. 104. Nietzsche Fr., Frammenti postumi (1879-1871), cit., n. 4 [286], p. 403. 105. Cfr. Löwith K., Nietzsche e l’eterno ritorno, cit., in particolare: pp. 82 e ss. 106. Nietzsche Fr., Considerazioni inattuali, I-III, cit., p. 350.

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Proprio nell’orizzonte silenzioso, paludoso e stagnante della vita, non votato per costituzione alle lotte ed ai cimenti dell’Eroe, occupano un posto rilevante i giovani, per i quali la vita è non solo la radice a cui legano il tutto, ma anche il luogo delle difficoltà legate al problema dell’affermazione, della crescita umana e culturale, e che ha bisogno del segno che esprime non padronanza ma distanza: non apprezzamenti ma differenza, non “terapie” sistemiche ma bisogni di trasformazione dell’unità in molteplicità possibili, non progetti ma percorsi, investimenti dell’anima, movimenti, segni mimici. Se è vero che dovunque ci troviamo di fronte ad universi di significato, e che i segni che ne sono all’origine forniscono al singolo anche simboli di conferma, di riconoscimento, precomprensioni che “sequestrano” il pensiero, è anche vero che accanto all’interiorizzazione di tutto questo c’è anche l’impulso all’uso diverso, che tende alla ridefinizione analogica dell’esistente: la relazione, il rimando, il rinvio, il rimbalzo, la sporgenza del segno, trovano il riscontro naturale nella coscienza come “intenzionalità”, come intersezione continua di pensieri e delle loro reciproche influenze. Ancora. Se è vero che l’uomo è sempre “gettato” in una precomprensione finita, è vero anche che da questa situazione non ci si allontana con l’ermeneutica (o con la semiosi infinita), se non a prezzo di «scambiare l’effetto con la causa». Se ne viene fuori invece, seguendo Nietzsche, considerando che l’uomo già da sempre si relaziona al mondo in quanto ne è, appartiene alla tessitura delle sue relazioni. E ciò significa che se l’uomo non è più “soggetto”, egli è però il luogo in cui le volontà di potenza trovano espressione come relazione, quindi in seno a una nuova singolarità relazionale che guarda da ogni parte, che si rivolge alla pluralità col dovuto realismo, «uomo molteplice» che vede «da cento occhi»: l’uomo del futuro, il giovane. Il luogo in cui il simbolico “nasce”, in cui cioè affiora la sua pluralità costitutiva come sfera del rinvio e della trascenden-

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za relazionale, è infatti abitato dai giovani, essendo essi stessi la dimensione umana primigenia in cui si mostra la struttura relazionale della volontà di potenza, che in quanto tale spesso assume i caratteri del contrasto, del conflitto. Nietzscheanamente i giovani “sono” qualcosa proprio come luogo in cui la relazione conflittuale appare innanzitutto nella parola e nella voce, e si mostra matura, anche se non potente: si struttura ancora in forma di interrogazione, domanda, stupore e meraviglia. Meglio: non parola né sistema, bensì narrazione, discorso: rete, trama di segni per un soggetto in itinere, che si struttura nel raccontare/raccontarsi. Lo stupore del giovane (da cui poi sorge la diffidenza: il reale, l’unica “cosa operante”, si mostra come irrazionale) non è più quello del bambino (muto, infante, passivo), né quello del filosofo metafisico (astratto), ma è stupore operativo, sempre inteso come progettazione di sé e degli altri, e quindi volto alla produzione di significato, di simboli, di parole, di senso. E se il mondo degli adulti appare poco produttivo e fecondo perché dominato ovunque dalle pratiche, da intendersi come habiti, interiorizzazioni di una reazione consolidata e sedimentata che diventa strumento di organizzazione conservatrice, la domanda all’origine non si pone invece come istanza di produzione di “terapie”, magari organizzate in sistema: la domanda entra nelle pratiche del soggetto con l’obiettivo di suscitare il dubbio, scardinare il consolidato, inaugurare una alternativa. Di fronte al Filosofo, che invita a «combattere in fila nei ranghi» e ad «annientare tutti coloro che non vogliono mettersi nei ranghi»107, sorge infatti la risposta dell’individualità ancora alla ricerca dell’autonomia, che penetra nella comunicazione cercandovi discorsi, narrazioni che agiscono in modo plurale: agli incroci, dove tra il produttore dei messaggi ed il ricevente resta sempre in agguato il rischio dell’incomprensione. 107. Nietzsche Fr., Sull’avvenire delle nostre scuole, cit., p. 179.

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Ora, condizione della domanda è il sorgere della possibilità di parola, della possibilità dunque di superare l’esclusione che eventualmente la inibisce. E che i giovani rappresentino una “categoria” eminente dell’esclusione è un luogo comune. La ragione di ciò è da individuarsi nel loro non essere sostanza ma relazione, in modo che, non riuscendo a pensarli, a categorizzarli, la filosofia li esclude. La filosofia, infatti, non riesce a parlare della relazione, e la esclude declinandola nella sostanza, fino a sostanzializzare la stessa “relazione” nel categorizzarla: l’orientarsi verso la sostanza implica infatti già l’esclusione della relazione. Allo stesso modo, proprio per il loro inerire alla relazione, la filosofia non riesce a parlare dei giovani, e dunque li esclude. Si tratterà allora di ripensare la relazione per consentire una possibilità all’inclusione. In questo modo i giovani potranno “entrare” nella filosofia e chiedere, al pari delle donne, un posto nella politica. Andando al di là della retorica partitica, il discorso, infatti, oggi “cade” sui giovani non più perché preoccupato dalla pretesa mania «dell’avventura nietzscheana, avventura azzardata, perché ne va del rischio supremo, della follia, della morte»108, ma per una necessità della filosofia, ormai liberata dalle ipoteche della «Filosofia universitaria», interessata alle modalità che permettono di «esaminare dei giovani in filosofia»109: piuttosto si tratta di rinvenire la filosofia vitale, scientifica, determinata, che nasce e muove dalla relazione. Ci scopriamo così a navigare su un rivolo del fiume carsico della filosofia di Nietzsche, la vita. Un rivolo poco frequentato dagli interpreti: quando la vita si annuncia all’esistenza, nella giovane età, in cui sono presenti e ancora non sopiti «i più forti

108. Le Gal Y., Unzeitgemass, in “Concilium”, n. 5, 1981, pp. 15-27, p. 18. 109. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte II, n. 32 [75], p. 390.

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istinti, ossia l’ardore, l’ostinazione, l’oblio di sé», «l’arditezza del sentimento»110 e altro.

4. I giovani nella «società mercantile» come “realtà dell’idea” La fenomenologia dell’umano che Nietzsche conduce mostra come risvolto l’interesse per la sfera giovanile, l’ambito vitale in cui la relazione si configura in termini evidenti e si rapporta al mondo e agli altri. E che i giovani nel loro statuto non-sostanziale richiamino in quanto tali la sfera relazionale delle volontà di potenza emerge laddove si analizzi la difficoltà che la «Filosofia universitaria» trova nel rapportarsi ad essi, come testimonianza della sua più generale difficoltà di rapportarsi alla relazione, che genera l’esclusione dal pensiero e, di rimando, dalla possibilità di vita; per questo bisogna parlare dei giovani. I giovani, spiega Nietzsche, «hanno un valore in sé e non sono da giudicare come meri passaggi e ponti», poiché «anche i pensieri non giunti a compimento hanno un loro valore»111. Giovani e poeti infatti guardano al mondo in un modo che ha un suo senso, anche se non immediatamente rinvenibile. Un senso che non è necessariamente quello dell’odio e dell’orgoglio. Senza contare che parlare dell’essere è parlare anche dei giovani, e parlare dei giovani è parlare dell’essere, risalire al luogo in cui il fenomeno si radica e accade: il mondo come insieme di relazioni di volontà di potenza contrastanti. Il giovane è infatti il luogo o l’ambito in cui la relazione emerge e si rende visibile: relazione con il mondo, con gli altri, con il tem-

110. Nietzsche Fr., Considerazioni inattuali, I-III, cit., pp. 343-344. 111. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 207, p. 144.

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po e con lo spazio. L’interrogazione verterà allora sulle possibilità che la filosofia, prigioniera da sempre del registro della comprensione/rappresentazione del senso del mondo, ha di portarsi dove questo registro è del tutto sconosciuto, e dove opera il gesto del bisogno che produce la distanza dall’immediato generata dalla mediazione. A grandi linee, osserva Nietzsche, la filosofia si pone nei confronti dei giovani sempre assumendosi, innanzitutto e perlopiù, il compito non di comprenderli, ma piuttosto di rispondere al loro fare, che si vuole generale e «distante». Ma mentre la donna radica la sua essenza nella «differenza sessuale» e dice: «io differisco […] essenzialmente da Filippo»112, il giovane rappresenta unicamente uno Zwischen, uno “stare tra” radicato nel tempo, un “non ancora” sostanza che sfugge ad una qualche determinazione categoriale densa e specifica (come, ad esempio, proprio la “differenza sessuale”), che non sia quella, tanto generica quanto poco definita, di “giovane”. La donna reclama a gran voce, e con ragione, il suo diritto alla «rappresentazione» e a non essere «assimilata nel linguaggio»113, a non essere soltanto «altro dal Medesimo»114. Pretende di essere riconosciuta come tale, e quindi rappresentata nella sua essenza e nella sua materialità, nel sociale e nel campo della forza: nella sessualità si contestano a tutto campo le generalizzazioni, al fine di passare dalla Donna alle «donne in carne ed ossa»115,

112. Cavarero A., Per una teoria della differenza sessuale, in A.A.V.V., Diotima. Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano, 1987, pp. 43-79, p. 73. 113. Ivi, p. 62. 114. Ivi, p. 99. 115. Braidotti R., In metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire, Feltrinelli, Milano, 2002, cit., p. 39.

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alle «multiple differenze che strutturano il soggetto»116. In tal modo, la donna esibisce un suo discorso che oscilla tra recupero del tempo ed elaborazione del «nomadismo filosofico»117. Sostiene infatti la Irigaray: «volendo mettere il tuo divenire in cerchio, non stai forse anticipando un qualche trionfo micidiale su delle forze che si prodigano, in un gioco di casi e necessità, senza potersi contenere né ritrarsi. Padroneggiarsi. Salvo deperire, per non aver visto il giorno nell’istante in cui la linfa chiedeva la fioritura. Né prima né dopo. Né ieri né domani, quando è oggi. E una volta, sì una sola volta. Mai ripetibile»118. E ancora, parlando all’Altro. Il tutto, per te e per me, non è lo stesso. Per me, non è mai uno. Mai terminabile, sempre in-finito. Quando tu parli dell’Infinito, mi sembra che tu dica una totalità chiusa: una membrana solida vuota che conterrebbe e riunirebbe tutti i possibili. Assoluto dell’identità a sé – in cui tu eri, sarai, potresti essere. Per me? Un’espansione fluida, non inquadrabile una volta per tutte. Nemmeno mediante progetti o proiezioni119.

Si tratta di un orizzonte critico che coinvolge nella sua condanna ogni opzione realistica, costruttiva, del pensiero, che per rifiutare un ordine costruito sulla base del principio dell’Uno Victor e poi dell’Homo Victor si sposta sul piano dell’apertura di principio: è un discorso che si muove dentro la filosofia e ne eredita i condizionamenti, ma assume, seleziona e scarta posizioni consolidate nel tempo. 116. Ivi, p. 41. 117. Ivi, p. 91 e ss. 118. Irigaray L., Amante marine. De Friedrich Nietzsche, Éditions de Minuit, Paris, 1980; tr. it. Amante marina. Friedrich Nietzsche, Feltrinelli, Milano, 1981, p. 73. 119. Irigaray L., Passions élémentaires, Éditions du Minuit, Paris, 1982; tr. it. Passioni elementari, Feltrinelli, Milano, 1983, p. 89.

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A riguardo dei giovani, invece, questo non avviene. I giovani costituiscono infatti un “problema” per i filosofi soltanto se lo diventano di fatto nella società120, perché in questo modo sconvolgono la loro visione globale del «sistema della verità» che si fonda in un modo o in un altro sempre su «tre parole» (o vi sfugge solo per esaltare le «fantasie di fuga»121). Se infatti la filosofia non parla dei giovani non è certo per una questione di linguaggio e di sfiducia nella propria capacità di dire il Vero e l’universale: non per un preteso carattere violento del significante, che tende a ripetere se stesso, e neanche perché la filosofia sia condannata eternamente ad essere solo «viaggio di ritorno», «nostos da sé a se stessa»122, bensì per un suo limite interno: chiusa al reale concreto e alla molteplicità della lingua in quanto parlare, atto concreto di espressione, oltre che mera parola, sistema e, magari, parola poetica, regola. La filosofia non parla dei giovani perché non riconosce loro una configurazione autonoma, senza tematizzare però il motivo di tale “mancanza”, e cioè la loro natura eminentemente relazionale, come ambito umano esemplare del confronto/contrasto di affermazione tra le volontà di potenza, che li sottrae, di rimando,

120. Significativo ad esempio, anche se un po’ datato, è quanto emerso dalla Tavola rotonda organizzata da “La città futura” (settimanale dei giovani di sinistra) nel 1978, in cui la filosofia scopre che a leggere Nietzsche sono i giovani. La questione che si apre concerne il pericolo dell’irrazionalismo o della «caduta della dialettica»: i filosofi Luporini, De Giovanni e Cacciari non riescono neanche a “vedere” i giovani, non riescono cioè a porli, se non come interlocutori, quantomeno come “problema”. L’annichilatio mundi con cui il pensatore rimane solo con le sue impressioni, malgrado le lodevoli intenzioni individuali, impedisce di scorgere il nuovo, ed il luogo in cui questo dovrebbe esibire le proprie istanze (cfr. la “Tavola rotonda” di “La città futura”: Nietzsche e la cultura della crisi, in “La città futura” , n. 13, 1978). 121. Braidotti R., In metamorfosi, cit., p. 227. 122. Agamben G., Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino, 1982, p. 116.

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ad una visione conoscitivo-sostanzialistica: in definitiva, ripetiamo, la filosofia non parla dei giovani perché non intende o non riesce a parlare della relazione. Ciò significa, ribadiamolo ancora, che l’esclusione dei giovani rientra nel più generale moto di esclusione della relazione oggettiva dal pensiero. Per riuscire a superare questo limite, sarà allora necessario prima provare a vedere «da cento occhi», interpretare, nel segno di una interpretazione che ammette la pluralità e la pesantezza del simbolico. Le conseguenze sono notevoli, a cominciare da quanto concerne i luoghi della socialità. La grande città, ad esempio, si presenta al suo interno compatta quanto insensata, pertanto base ideale, scrive Nietzsche, per la «palude della solitudine»123, per una condizione di vita che consiste nel «giacere sul ventre di fronte a piccoli fatti rotondi»124. Il nichilismo «attivo» non si ha dove ogni spicciolo movimento è un passo avanti, una trasformazione, ma dove ogni trasformazione determinata, interna al tutto, è movimento. Nella palude non individuiamo più un interno ed un esterno, e trasformare diviene la norma. Sarà allora necessario ritornare a separare, dividere, enumerare, confrontare, interrogare. Sarà, in sostanza, necessario vivere in modo nuovo, adatto all’uomo della nuova palude, al nuovo uomo primordiale che non dispone più di un numero limitato di utensili con cui rapportarsi, ma di innumerevoli sofisticati strumenti, pericolosi tanto quanto quelli più elementari del suo lontano antenato. E qui, in questa pesantezza della vita, non recupera valore il discorso stereotipato che mostra subito i suoi limiti e la sua tendenziosità, la pura volontà di strutturare concettualmente l’esperienza. Non a caso Nietzsche indica il valore dell’educazione storica solo dove nasce da «una forte corrente

123. Nietzsche FR., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [59], p. 224. 124. Ibidem.

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vitale nuova» e ritrova nell’espressione libresca un’espressione «mercantile», priva cioè della ricchezza di ciò che si vede «per la prima volta». Bisognerà allora divenire pesanti, farsi carico liberamente e creativamente non delle cose che costringono nel tragico, che rendono «attendenti», pesi difficili che impongono di scegliere e rischiare, e prima ancora di uscire dal silenzio. Quel silenzio che, come la palude, circonda e si fa presente, prepotente nei più esclusi, nei giovani che chiedono la parola e che, contro ogni dinamica di esclusione, fanno sentire il loro «grido». Ai nostri giorni, per “scorgere” i giovani sarà allora necessario provare a farlo come Nietzsche ha fatto, superando cioè i limiti propri dei filosofi, «per cui è impossibile metterli in un posto e vedere in essi strumenti utili, – essi possono vivere solo nella loro aria, sul loro suolo. Questa limitazione suggerisce loro tutto ciò che di una scienza “appartiene a loro”, vale a dire, ciò che essi possono portarsi nella loro aria e nella loro dimora; credono sempre di radunare la loro “proprietà” dispersa. Se si impedisce loro di costruire il loro nido, periscono come uccelli privi di tetto; la mancanza di libertà è per essi una tisi»125. Vedere i giovani è perciò molto difficile, ma non impossibile. Tanto più che non appena il pensiero si dispone a farlo, cioè dopo aver recuperato il mondo concreto e vario, plurale e molteplice, emergono aspetti di non poco interesse per la filosofia. Il discorso si radica così nella storia e nell’ottica dell’«autoproduzione umana», che assomiglia molto, nel senso che lo “comprende” e lo supera, a quello di Nietzsche, e deve seguire la via del rispetto degli individui: del loro reale Zwischen archi-ontologico e delle loro condizioni di vita. Ciò

125. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 171, p. 204.

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diviene possibile se ci si dispone ad accettare in essi, più che una “sostanza”, una configurazione relazionale: il giovane diviene così paradigma umano di quella “archi-ontologia della relazione” rinvenibile nelle meditazioni del filosofo di Röcken, che porta il pensiero stesso ad autorimodularsi in chiave relazionale. In tal guisa è possibile prendere congedo dalla metafisica e dal rifiuto dell’Idealismo di soffermarsi sui giovani in quanto privi di “sostanza” specifica. Qui si inserisce insomma, con prepotenza, la nietzscheana «volontà di potenza» che non attesta il permanere di Nietzsche nel solco della metafisica, come vorrebbe Heidegger, ma è la cifra di ciò che è «buono» nell’uomo come segno di elevazione di potenza126, e non alla stregua della teoria della caducità dell’ente, onde l’unica azione possibile è quella potente, disincantata, kairotica, volta a salvare i singoli fenomeni. Ognuno di essi può attingere tale salvezza secondo tre vedute: una antica (Aristotele e la sostanza), una moderna (Cartesio e la legge), e una attuale, scientifica e disincantata. Soltanto che, a voler restare a Nietzsche, la sostanza non nasce per “salvare l’ente”, non per rispondere all’eccesso di movimento, ma per la perdita della sua cognizione umana: per la presunzione umana di essere ormai fuori della palude, al sicuro dall’accadere, dalla relazione. E, contrariamente a quanto si vorrebbe, il divenire e il movimento non vengono unificati d’autorità e ridotti a bersaglio di comodo per il pensiero, ma permangono come l’orizzonte infinitamente problematico delle operazioni determinate degli esseri. Ne deriva che, posto in questi termini, il rapporto con Nietzsche diviene problematico, come si evince dal problema dell’ente che si cerca di “salvare” superando le “vecchie” teorie della “sostanza”. È ormai chiaro infatti che 126. «Che cos’è buono? – Tutto ciò che eleva il senso della potenza, la volontà di potenza, la potenza stessa nell’uomo» (Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., n. 2, p. 168).

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l’“ente” in Nietzsche non deve essere “salvato”: il distacco dalla sostanza nasce dalla celebrazione della relazione. Il che significa che si deve intenzionare l’orizzonte dell’esperienza consapevole, passare dal pensiero puramente scientifico a quello critico-morale. Il pensiero deve ricorrere alla logica propria della filosofia, applicandola al settore più delicato del conoscere: la società e il suo futuro, il destino dell’io, la vita stessa. Operare con l’autorità della ragione, e non ispirandosi a pretese quanto misteriose «competenze», per emergere in quanto persona e far crescere ovunque la responsabilità. Soltanto allora può, e deve, intervenire il giudizio. Tuttavia, non potendo qui pretendere di assolvere interamente a tale compito, si può però tentare di portare a compimento questa opera “di scavo” nel pensiero di Nietzsche, in cui molte delle questioni appena introdotte sono state affrontate e poste all’ordine del giorno della filosofia contemporanea. Ma anche per tentare di cogliere quanto egli ha pensato in relazione alle domande che il tempo attuale pone alla filosofia: interrogare le domande del nostro tempo alla luce della sua interrogazione.

5. Per una fenomenologia dei giovani Secondo Nietzsche, in concreto, “fare filosofia” consiste nell’affrontare il problema della civiltà umana dall’epoca in cui l’uomo viveva nelle paludi fino a giungere al mondo contemporaneo. L’orizzonte problematico dell’eterno ritorno gli consente di analizzare l’unificazione del mondo su basi diverse da quelle da cui muove Hegel, il filosofo dello Spirito come «boa constrictor», che con la dialettica “sintetizza” economia, politica e filosofia trascendentale, per farne un tutto unico capace di assegnare un posto ad ogni elemento del reale sociale, e capace quindi di presentare (sia pure con tutti i ben noti

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limiti) una data epoca nei vari momenti che reciprocamente si integrano per consentire una forma determinata di vita associata. Al contrario in Nietzsche, dopo Hegel, il presente viene ad essere ricostruito sull’asse temporale, in modo che l’incontro è tra generazioni che inglobano le qualità umane e le modalità operative corrispondenti alle “scoperte” del Sud e del Nord, con il risultato di aprire all’azione sociale lo spazio del futuro, creativo, non violento e illimitato. La religione, inoltre, consente al filosofo di Röcken di tenere alta l’attenzione rivolta al rapporto padre-figlio e, più in generale, al rapporto tra gli adulti e saggi con i giovani e innocenti. È da qui che nascono Al di là del bene e del male e L’anticristo, che presentano l’uomo «molteplice» e «complementare», difficilmente prevedibile, e lo «spirito libero», che per crescere deve inventarsi la sua virtù, due figure che se inserite opportunamente nel nuovo contesto ci spingono a leggere l’interesse nietzscheano per il mondo giovanile come elemento importante della sua riflessione, in seno ad una visione dell’esclusione che si tratta di provare a superare. Tutto questo può essere ripercorso analiticamente in due momenti specifici. Innanzitutto bisogna pervenire a una conoscenza dei giovani non orientata verso una definizione, verso un’essentia asettica, proprio per il carattere eminentemente relazionale dell’“oggetto” della ricerca. Da un punto di vista fenomenologico, potremmo dire che più che a ridurre «tratti essenziali generali, che possono essere comuni a più oggetti, a un numero illimitato di oggetti», come vorrebbe Husserl, e dunque «sulla base dell’essenza della specie rilevata, aderente alla cosa» giungere quindi a «rilevare un che di aderente e di “comune” a tutte le cose»127, si deve porre l’accento sulla Lebenswelt poiché,

127. Husserl E., Ideen zu einer reiner Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie I (1913), Auflage, Nijhoff, den Haag, 1976;

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come spiega la Stein, le essenze che nascono dall’esperienza vissuta «sono unità che devono essere costruite con un certo movimento e che hanno bisogno, per questo, di tempo»128. Ad un insieme simile di principi si ispirava Nietzsche attraverso i suoi pensieri “sparsi”, che però si possono raccogliere agevolmente. I giovani appaiono così correttamente “collocati”, come singole unità d’esperienza, entro il mondo degli adulti e dei «vecchi», da cui vanno distinti per poter cogliere la loro specificità relazionale. Non la felicità, ma la conservazione più lunga possibile è il contenuto di tutta la morale della comunità e della società fino ad oggi (anzi a spese della felicità di ogni individuo). Dunque, neppure l’utilità. Chi ha interesse alla conservazione? I capi alla testa di famiglie, classi, ecc., i quali vogliono continuare a sussistere nella sopravvivenza delle loro istituzioni, che prolungano il loro sentimento di potenza. Tutti i vecchi: chi sente fortemente la sua vita personalmente troppo breve, o ancora breve, cerca di imprimersi nell’anima e nei costumi della nuova generazione, e di continuare, così, a vivere e a dominare. Tutto questo è vanità. – L’individuo contro la morale della società e in disparte rispetto ad essa – quando il pericolo maggiore per tutti è passato, singoli alberi possono crescere con le loro condizioni di esistenza129.

Il movimento non può arrestarsi, così come non si arresta il divenire, e il problema è quello di padroneggiarlo e non quello di opporvisi cercando consolazione, opponendo cioè al divenire che porta la fine dei nostri sogni «un’altra bolla tr. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologia, Einaudi, Torino, 1965, pp. 445 e 816. 128. Stein E., Endliches und ewiges Sein (1936), Louwain, Nauwelaerts, 1950; tr. it. Essere finito e essere eterno, Città nuova, Roma, 1999, p. 82 (sul pensiero della Stein cfr. Pulina G., L’angelo di Husserl. Introduzione a Edith Stein, Zona, Arezzo, 2008). 129. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [59], p. 350.

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di sapone»130. Detto in altro modo, partendo dal concetto di “vita” intesa come volontà di potenza, il movimento non rivela più un “principio”, un’origine, ma un tramite mediante cui e in cui la forza si auto-superpotenzia. In questo orizzonte problematico, che vede il rovesciamento del rapporto adultogiovane, si trova il motivo, l’unico motivo possibile, del rapporto di Nietzsche con Rousseau, onde egli ha potuto dire che quest’ultimo è uno dei filosofi con cui si deve in qualche modo «discutere»131, ponendolo in antitesi diretta a Platone, che rappresenta nella filosofia l’autonomia del soggetto “realizzata”: la filosofia dell’uomo maturo sotto tutti gli aspetti, compresi quelli del “genio”. A partire da qui si scorge che chi conferisce senso alle cose, chi riesce a fornire meglio degli altri contorni netti e operativi al mondo, è colui che deve organizzare la vita: colui che cerca una formazione superiore e deve distinguere «il lato istruttivo di una cosa e individuare il punto, in cui una lacuna del suo pensiero può essere colmata o un’idea può essere da esso confermata»132. In definitiva, si tratta di colui che dà senso alle cose in movimento e in relazione, «l’anziano», che le trasforma in unità concettuale imponendo la distanza dalla vita. Il giovane non può capire che l’anziano ha vissuto una volta anch’egli i suoi rapimenti, le sue aurore del sentimento, i suoi giri e voli del pensiero: già lo offende il pensare che essi sono esistiti due volte; ma del tutto ostile lo rende il sentire che,

130. Nietzsche Fr., Frammenti postumi (1879-1881), cit., n. 4 [199], p. 386. 131. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte prima, n. 408, p. 129. 132. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 254, pp. 180-181.

342 per diventare fecondo, egli deve perdere quei fiori, fare a meno del loro profumo133.

Il giovane è incredulo, prevenuto e perciò ancora non creativo. Vive in «difesa», è ancorato alla negazione, e non alla sostituzione o alla transvalutazione. Criticare un libro, per i giovani significa solo: fare in modo che non uno dei pensieri produttivi di esso gli si avvicini, e difendere la propria pelle con le mani e coi piedi. Il giovane vive in stato di difesa contro tutto ciò che è nuovo e che egli non può amare in blocco, e commette al riguardo, ogni volta che può, un delitto superfluo134.

In bilico su due mondi, il giovane reagisce come l’animale in pericolo: guarda da ogni parte, persegue la molteplicità delle opzioni, e quindi si oppone, inaugura il conflitto, testimonia volontà di potenza come volontà di affermazione verso/contro altre affermazioni. Ciò rende difficile intrattenere rapporti con lui, ma rende anche possibile la vera educazione. Già nelle opere giovanili di Nietzsche è presente una prospettiva nuova e comune alle generazioni che cercano rispettivamente la continuità e la crescita. La prospettiva di una formazione alternativa e strutturata secondo valori estranei alla «decadenza» così come allo scetticismo del «dio che ha perduto se stesso»135. Contro decadenza (Nord) e scaltrezza (Sud), gli adulti ricorrono alla legge e al plagio mentre, per converso, si impongono movimento, crescita e orgoglio: nuovi principi che diventano nuovi valori, ma anche nuovi elementi del vissuto su cui si può costruire una fenomenologia dell’uomo e delle sue essenze operative, «regionali», come direbbe Husserl. Il nuovo si

133. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte prima, n. 293, p. 104. 134. Ivi, n. 161, p. 60-61. 135. Nietzsche Fr., Frammenti postumi (1879-1881), cit., n. 6 [31], p. 430.

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radica in un umanesimo di alto respiro morale che si precisa con l’eterno ritorno, e che viene garantito da un “soggetto” singolare nuovo, come concrezione o mediazione storica «in cui l’individuo infrange il limite dell’individuale»136 per rivolgersi all’apertura costitutiva agli altri, di cui costitutivamente ne è. Prospettiva percorribile perché viviamo nell’epoca del confronto, e l’uomo può presentarsi come essere razionale, fondato non sulla comprensione della realtà, ma sul chiarimento del «problema della civiltà»137. Se lo scetticismo, come parziale ritorno all’antico, a prima dell’«interruzione dello sviluppo» rappresentata dalle scuole socratiche, è un ripiego, l’incredulità è invece il valore che proviene dall’affermazione delle volontà di potenza, come elemento di progresso e quindi da tutelare con ogni mezzo. Nei confronti dei giovani talenti bisogna comportarsi attentamente secondo la massima goethiana: che spesso non si deve danneggiare l’errore per non danneggiare la verità. Il loro stato è simile alle malattie di gravidanza e comporta voglie strane: che si dovrebbero alla meglio soddisfare e compatire, per amore del frutto che da loro si spera. Certo come infermieri di questi strani malati, bisogna essere esperti della difficile arte della volontaria umiliazione di sé138.

I giovani appaiono dunque, tra l’altro, come «strani malati», e la loro stranezza è una prova del valore paradigmatico della malattia139. Una precisazione ci viene, ancora una volta,

136. Bertram E., Nietzsche. Versuch einer Mythologie, Georg Bondi, Berlin,1918; tr. it. Nietzsche. Per una mitologia, Il Mulino, Bologna, 1988, p. 446. 137. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 249, p. 177. 138. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte prima, n. 285, pp. 102-103. 139. «Chi è spesso ammalato, non solo trae un molto maggiore godimento dallo star bene, a causa delle frequenti guarigioni, ma ha anche un senso

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dal riferimento allo spirito degli artisti dove un certo stato “patologico” si combina con la creatività e conclude nell’utilità generale140. Il mutamento nel sistema, lo vedremo subito, viene dagli elementi più deboli: non solo, ma tale movimento è infinito. Dopo aver detto che il pensiero deve disumanizzare la natura e naturalizzare l’uomo, Nietzsche precisa che noi «ci sentiamo probabilmente troppo grandi, di qui la sopravvalutazione per la quale trasferiamo dentro lo spazio una misura troppo grande. È possibile che tutto sia molto più piccolo. Dunque il mondo reale più piccolo, ma mosso molto più lentamente, ma infinitamente più ricco di movimenti, al di là di ogni nostra immaginazione»141. Secondo il filosofo non vi è sostanziale differenza tra i movimenti che avvengono nel mondo naturale ed in quello segnato dall’uomo, e questo determina effetti positivi in quanto porta all’attenzione ciò che di solito è trascurato. Strappati al plagio millenario, i giovani

altamente affinato di ciò che è sano e di ciò che è malato nelle opere e nelle azioni, proprie e altrui: sicché per esempio proprio gli scrittori malaticci – e fra essi sono purtroppo quasi tutti i grandi – sogliono avere nei loro scritti un tono di salute molto più sicuro e continuo, perché si intendono, meglio di quelli fisicamente robusti, di filosofia della sanità e guarigione dell’anima e ne conoscono meglio i maestri. Mattino, sole, bosco e sorgente» (ivi, n. 356, p. 121). 140. «Tali spiriti – possono essere spiriti di prim’ordine – mirano sempre a plasmare o interpretare selvaggiamente, arbitrariamente, fantasticamente, disordinatamente, sorprendentemente se stessi e quanto li circonda come libera natura: ed è bene agiscano così, poiché solo così son di profitto a se medesimi. Una cosa sola, infatti, è necessaria: che l’uomo raggiunga l’appagamento di sé – sia con questa, sia con quella composizione poetica e artistica: soltanto allora l’uomo è tollerabile a vedersi. Chi non è pago di se stesso è continuamente pronto a vendicarsene: noialtri saremo le sue vittime, se non altro perché dovremo sopportare la sua spiacevole vista. Infatti la vista del brutto rende scadenti e tetri» ( Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 290, p. 196). 141. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [184], p. 399.

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possono infatti acquisire autonomia e quindi creatività, ma mai diventare un soggetto autonomo, tanto ipotetico quanto inutile, se non se ne riconosce il carattere di pura fantasia e di negazione della vita. Se l’uomo è incompiuto, se cioè «non è ancora esaurito per le sue possibilità più grandi», e quindi ancora capace di offrire possibilità di civiltà, tale fenomeno portatore di novità nella società diviene, nel giovane contemporaneo, un fattore macroscopico, un evento dell’essere, una svolta nella gestione umana e tecnica del tempo. Al di fuori di ogni narrazione, il pensiero si rivolge da solo verso l’attenzione al possibile, alla parte che, come scrive Husserl a proposito della fenomenologia razionale, «include il tutto»142. La parte, dal canto suo, quando è assunta nella teoria per quello che ontologicamente è (e non, invece, per ciò che può significare), ritorna nell’ambiente della vita quotidiana, stabilisce relazioni intenzionali che si riferiscono alle operazioni dell’uomo nel versante attivo/passivo, all’infinita trama di relazioni in cui il mondo si offre non solo nei generi e nelle specie, ma anche nelle singolarità concrete e nelle loro personali esperienze, e mette in evidenza il bisogno di trasformazione del reale. Ne viene che l’io si struttura in termini identitari, seppur non ultimativi, laddove sostiene e sopporta la dicotomia tra normalità e crisi, in un procedere che caratterizza anche la personalità adulta, e anzi cessa di essere decisiva proprio laddove si riscontra con maggiore frequenza. Nei giovani c’è altro rispetto al solo rapporto di equilibrio o disequilibrio tra il sé ed il reale, e si mostra nella tessitura reciproca tra l’uomo e gli altri, tra l’uomo e le cose del mondo. Emerge un rapporto specifico all’essere sociale che Nietzsche ha colto e che adesso si può svolgere e formalizzare, inserire nelle forme.

142. Husserl E., Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologia, cit., p. 849.

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Un ulteriore aspetto interessante dell’elemento giovanile per un sistema di filosofia all’altezza del tempo moderno emerge, di nuovo, dal confronto con il movimento ed il pensiero delle donne. Queste ultime non appaiono “organizzabili”, e quando lo diventano come, ad esempio, nella filosofia della Irigaray, esse non incidono sul sistema, ma si distaccano da esso e vi si contrappongono. L’uomo appare in veste di patriarca, in quanto «il pensiero maschile ha ratificato il meccanismo che fa apparire necessari la guerra, il condottiero, l’eroismo, la sfida tra le generazioni. L’inconscio maschile è un ricettacolo di sangue e di paura»143. E la condanna e il rifiuto di queste concezioni non sfocia nella ricerca di una prassi nuova orientata non alla separazione e alla distinzione bensì alla creazione, in cui cioè le donne possano riconoscersi e diventare protagoniste mantenendo la volontà di costruzione che nella prassi tradizionale era sottesa, ma alla definizione di un “soggetto” radicalmente nuovo, totale e alternativo a quello esistente: un soggetto umano che si vuole nato e radicato nella natura e perciò autentico, ma pur sempre competitivo. Dalla Irigaray, tuttavia, Nietzsche viene descritto alla stregua dell’uomo tradizionale che trascura l’elemento liquido, tipicamente femminile, e quindi egli finisce con il trascurare il mare (e ciò suscita, a dire il vero, non poche perplessità…). L’uomo viene riassunto simbolicamente nella inarrestabilità della sua opera di «penetrazione» all’esterno144, è visto come volontà di ripiegare il divenire all’essere, in modo che anche l’eterno ritorno viene concepito unicamente come un estremo tentativo di anticipare «un qualche trionfo micidiale»145. In seno a queste considerazioni resta appena accennato 143. Lonzi C., Sputiamo su Hegel, in A.A.V.V., I movimenti femministi in Italia, Savelli, Roma, 1976, pp. 107-136, p. 127. 144. Cfr. Irigaray L., Amante marina. Friedrich Nietzsche, cit., p. 16. 145. Ivi, p. 73.

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un elemento importante: le donne parlano “innanzitutto e perlopiù” di materialismo, e quindi la giovane si radica nella natura e nel lavoro indicando il terreno in cui si trova ogni giovane. Le donne devono contrapporsi all’uomo secondo la logica tradizionale della forza pura: uno a uno. La stessa creatività femminile, l’incanto delle donne, è pensabile come lo stare per sé, annullando o allontanando la “distanza” cui la condanna l’uomo: ancora ipotizzando o praticando il «nomadismo filosofico». Si torna dall’origine al principio. Ma invece di andare oltre Nietzsche, si rischia in realtà di arenarsi su Hegel, per il quale le donne mantengono come principio «l’unione indeterminata del sentimento»146. Ciò non avviene invece nei giovani, per i quali, innanzitutto, la possibilità dell’alternanza e dello scambio dei ruoli tra adulti e giovani rende la sottomissione del debole nel sistema un fatto temporaneo, e perciò non scalfibile sul piano della pura ragione. La violenza qui viene camuffata di paternalismo, e pertanto non si scorge, si subisce soltanto. In seguito essi entrano però nel sistema con una logica propria: una logica molteplice e relazionale, che non soltanto enfatizza la parte rispetto al tutto, il luogo del possibile rispetto alla creazione, ma recupera ad un nuovo livello, della cultura diffusa, l’individualismo del mondo antico, che vedeva all’origine di ogni processo di crescita «la classe dominante dei pensatori, dei nobili, dei preti»147. Dopo la scoperta dell’eterno ritorno, la legge non rende eterno, come si pretende, l’essere, perché la polemica nietzscheana è sì contro l’impedimento della creatività degli intellettuali (lo spirito libero), ma blocca la vita: la pratica. La legge è sempre quella che viene «dalla costrizione del necessario, dell’opportuno e di ciò che è conforme all’esperien-

146. Hegel G. W. F., Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 348. 147. Nietzsche Fr., Frammenti postumi (1879-1881), cit., n. 6 [31], p. 430.

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za, cose tutte in cui noi vediamo di solito i nostri inesorabili padroni»148. È sempre legge che si impone a noi dall’esterno, anche se la liberazione non è più quella «dello schiavo nei Saturnali» che opera «momentaneamente», ma una liberazione mirata, che trova in Gesù una figura esemplare, un soggetto storico attivo e calato nella continuità e ripetibilità del fare. È la vita intera, al livello umano, che si muove verso la liberazione. Mentre la vecchia «catena totale dell’essere»149 liberava le energie dell’autore, ora la pratica non sa leggere, ma vive. In tal guisa trovano un punto d’incontro, probabilmente, Dioniso e Cristo, e sempre così, forse, si comprende meglio anche un’idea della fede come estensione della ragione, e non viceversa. Se prima la teoria scorgeva, di fronte al moderno, la risorsa del tragico, del «grido di dolore senza uguali»150, ora troviamo dell’altro, e precisamente il recupero del ruolo, onde il confronto con gli adulti non avviene come per le donne nel segno una ricerca di parità e di contrapposizione, ma di un luogo in cui i giovani possano essere “per-sé” come ambiti relazionali. L’individuo diviene, di contro alla «cineseria königsberghese», inventore di se stesso: «ognuno si inventi la sua virtù, il suo imperativo categorico»151, si crei la sua realtà operativa, divenga «eccezione». L’esigenza del riconoscimento messo in luce da Hegel a proposito del singolo viene sostituito dal bisogno di realtà: diventa quello di contare non per gli altri, ma di contare per se stessi. Riuscire a sentire se stessi in quanto tali e non come appendice di un mondo trovato a cui dover conformare la propria volontà e la propria intera vita in attesa del sospi-

148. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 213, p. 147. 149. Ivi, n. 208, p. 145. 150. Nietzsche Fr., Considerazioni inattuali IV (Richard Wagner a Bayreuth), cit., p. 25. 151. Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., n. I I, p. 177.

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rato “riconoscimento”, attesa che inizia con l’assunzione della paternità da parte del genitore e porta diritto all’assunzione in fabbrica o in un posto di lavoro e di responsabilità. Trovare il senso che possa essere via per dare origine a qualcosa, dunque. L’emancipazione (l’incredulità) che annulla la legge della reazione, che ormai si serve della tecnica più che del comando diretto per autogarantirsi continuità, non lascia il vuoto, non squaderna il “famigerato” nichilismo, ma crea lo spazio dell’attrito perché non è globale, non intacca affatto il sistema, ma è relativa ad una prassi e libera uno spazio che diventa tempo, spazio di vita, dover essere. L’individuo non è mai elemento formale, del diritto che ne protegge con l’iscrizione all’anagrafe l’esistenza, elemento che poi nella società diviene realtà dell’idea, Wirklicheit, ma realtà che con la crescita e con l’ideale si volge all’idea. Non si inquadra come «elemento formale [che] secondo la sua determinazione universale, contiene, per prima cosa, l’opposizione della soggettività e dell’oggettività»152, ma in quanto individualità storica indirizza alla storia l’interezza delle sue forze creative di autodeterminazione. L’eterno ritorno rilegge la storia dell’essere come nostra storia e, viceversa, la nostra storia come vicenda dell’essere, come esistenza e pratica. E così Nietzsche può vedere in Gesù (ed in se stesso) il giovane: «la vita del redentore non è stata nient’altro che questa pratica»153. Il concetto, l’esperienza «vita», la sola che egli conosca, si oppone, per lui, a ogni specie di parola, di formula, di legge, di credenza, di dogma. Egli parla semplicemente di quel che è più interiore: «vita» o «verità» o «luce» è la sua parola per quanto è massimamente interiore – tutto il resto, l’intera re-

152. Hegel G. W. F., Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 105. 153. Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., n. 33, p. 208.

350 altà, l’intera natura, lo stesso linguaggio, ha per lui soltanto il valore di un segno, di un simbolo.[…] La cultura non gli è nota neppure per sentito dire, non avverte la necessità di lottare contro di essa – egli non la nega … Lo stesso vale per lo Stato, per l’intero ordinamento e l’intera società civile, per il lavoro, per la guerra – egli non ha mai presentito il concetto ecclesiastico di «mondo» … Negare è appunto per lui del tutto impossibile –. Così pure gli manca la dialettica, gli manca la rappresentazione del fatto che una fede, una «verità» potrebbe essere dimostrata mediante ragioni (le sue dimostrazioni sono «luci» interiori, sentimenti di piacere e autoaffermazioni interiori, nient’altro che «dimostrazioni della forza»)154.

Di specifico, Gesù non nega, ma oppone, cioè sostituisce “ingenuamente” (fino ad accettare l’uscita nel deserto, la simulazione dell’abbandono paterno come via per imparare a tenere duro e sopravvivere, divenire la «realtà dell’idea»). Alla sostituzione del «dio che aiuta, che dà consigli» con un «Dio che esige»155, egli sostituisce se stesso riservandosi l’onere della correzione: la vita al posto della Legge. E questo vale, si è già visto, come paradigma generale per la cultura tradizionale e per quella che si vuole nuova. La vita del redentore non è mai riconducibile all’uno, non si riconosce in un «pensiero fondamentale», ma soltanto nel vedere «da cento occhi». Nel caso dei giovani storici, concretamente esistenti, la vita si fonda sulla diffidenza e quindi sull’esame preliminare della realtà che loro si offre. E questo li pone dentro il sistema: essi non lo guardano come se ne stessero fuori, come se fossero una cosa diversa e distante come accade invece alle donne, che poi si riconnettono al movimento sulla base di principi estrinseci (ad es. la richiesta di quote di partecipazione, di presenza, negli organismi colonizzati perlopiù dagli uomini etc.).

154. Ivi, n. 32, pp. 206-207. 155. Ivi, n. 25, p. 195.

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Se proprio la filosofia vuole parlare di differenza, allora deve farlo dove la visione del padre esprime il senso dell’eternità e della completezza, e quella del figlio la volontà di accogliere la possibilità della trasfigurazione radicale del tutto. Il campo sociale appare strutturato attraverso due ordini insieme separati e reciprocamente riferibili, non è una via privilegiata per individuare in esso l’origine di una nuova forma, di una “astrazione reale”, ma il luogo di relazione di forze concrete che hanno non solo le loro contingenze, ma livelli diversi di operazione e concrezione storica. Il primo ne rappresenta la sostanza, e si compie «per mezzo del segno, del linguaggio»156 (e secondo Deleuze, con «l’istituzione»157); il secondo manifesta invece la sua positività e immanenza nella «trasfigurazione» o ritrascrizione infuturante o razionalità possibile. Ordini in movimento necessario da cui è non escluso l’incontro appena se ne individuano le figure portanti, o tali in modo credibile e perspicuo, non “giornalistico”. Chi non può dare, dice Nietzsche, non può ricevere, e questo significa, di rimando, che chi può dare può anche ricevere. Tale campo dell’azione, correttamente, si divide sempre per due (adulti e giovani), ma da ogni parte sta chi dà e insieme chi riceve. L’avere figli ed eredi allarga l’egoismo: «lo sviluppo di una moralità più alta dipende dal fatto che uno abbia figli; ciò lo dispone altruisticamente, o più esattamente: allarga il suo egoismo nel senso della durata e gli fa perseguire con serietà scopi che vanno oltre la sua vita individuale»158. Tradotto il principio nel linguaggio “sostanzialistico” che caratterizza il

156. Hegel G. W. F., Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 152. 157. Deleuze G., Empirisme et subjectivité, Presses Universitaires de France, Paris, 1953; tr. it. Empirismo e soggettività, Cappelli, Bologna, 1981, p. 34. 158. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 455, p. 251.

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pensiero della società moderna, alla sostanza (autocosciente) non si oppone l’accidente delle «determinatezze finite», ma il sentimento della particolarità radicato nella natura delle cose. Di fronte alla sostanza non c’è il nulla che deve diventare (tramite il «duro lavoro contro la semplice soggettività del comportamento, contro l’immediatezza degli istinti, contro la vuotezza soggettiva del sentimento e contro l’arbitrio del libito»159) degno e capace di rappresentare la realtà dell’idea, ma il non essere dell’essere che va assunto per quello che è: malattia e relativa cura. Perciò al giovane che riesce a non essere mandato nel «deserto» (dove, come Gesù, impara unicamente a “resistere”), ma rimane nel mondo della cultura per arricchire la molteplicità di cui è in potenza portatore, non resta che trasformarsi appropriandosi dell’autocoscienza, delle figure fondamentali del passato e delle relative pratiche. A questo punto emerge la possibilità di una individuazione costruttiva del rapporto reale dei giovani con gli adulti. Focalizzata infatti la loro relazione con il movimento, bisogna però capire di quale tipo esso sia. Da una parte i giovani, quando si scoprono come tali, come uomini del prossimo futuro, si trovano già formati dalla società. Questi giovani non difettano né di carattere né di buone maniere, né di buone attitudini, né di diligenza: ma non si è lasciato loro il tempo di darsi una direzione, piuttosto sono stati abituati, fin dall’infanzia, a ricevere una direzione. Allorquando furono abbastanza maturi per «essere inviati nel deserto», venne fatto invece qualcos’altro – li utilizzarono, li alienarono da se stessi, li educarono all’essere quotidianamente usati, di tutto questo crearono per loro una teoria dei doveri – e ora non possono farne a meno e non vogliono altro. Resta il fatto che a questi poveri animali da tiro non si possono rifiutare le «ferie» – come viene chiamato questo ideale di ozio di un

159. Hegel G. W. F., Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 168.

353 secolo stremato dal troppo lavoro: in cui è concesso una volta tanto abbandonarsi alla pigrizia e rincretinirsi e bambineggiare a proprio piacimento160.

Non resta quindi loro che guardarsi attorno, localmente e infinitamente, mettendo allo scoperto la loro debolezza e facendola “fruttare”, muovendosi vertiginosamente da ogni lato, insomma guardando «da cento occhi». Le parole non riguardano più le cose e le forme, ma l’autoproduzione che cerca la sua figura fuori del Progetto, ma sempre ben dentro la divisione del lavoro, la presenza del controllo sociale sulle volontà molteplici. Diviene difficile così parlare di “distacco” dalla politica o di indifferenza verso di essa. Quanto essi rifiutano è invece la società che li plasma a propria immagine e somiglianza, con modalità autoritarie talmente subdole da risultare meno visibili di quelle che nella società pesano da millenni sulle donne. Il “rifiuto” della politica sorge invece successivamente, perché essa è espressione della società. In altre parole, la violenza che subiscono le donne si rende visibile perché si trasmette di madre in figlia, mentre quella del giovane si presta alla pensabilità dell’annullamento ciclico. L’ottica del sistema economico-sociale aperto all’invenzione crea la falsa veduta della possibilità, ma consente anche la chance del realismo: la scappatoia ingannatrice del possibile riconoscimento o il ripiegamento sulle proprie possibilità. D’altra parte, proprio reagendo in modo determinato a questa volontà plagiatrice, i giovani trovano una via oggi percorribile. La morale è innanzitutto un mezzo per conservare in genere la comunità e per impedirle di perire; essa è poi un mezzo per conservare la comunità a un certo livello e in una certa bontà. I suoi motivi sono la paura e la speranza: essi sono tanto più

160. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 178, p. 129.

354 duri, potenti e grossolani, quanto più è ancora forte l’inclinazione al falso, all’unilaterale e al personale161.

La conclusione è invece, alla lunga, l’«incredulità», l’affermazione di sé nel contrasto con l’altra affermazione. L’osservazione tradizionale della decenza ha bisogno per continuare sulla sua strada di ragionamenti e questo non può che portare a dubbi sulla sua buona volontà. È allora, dice Nietzsche, che scatta la repressione: la persona che esercita e manovra la paura e la speranza «viene da noi e ci dice in faccia: “Ella disturba la mia moralità con la Sua incredulità, mio signor incredulo; non credendo alle mie cattive ragioni, cioè a Dio, a un aldilà che punisce, al libero arbitrio, Ella ostacola la mia virtù…”. Morale: bisogna eliminare gli increduli, essi ostacolano la moralizzazione delle masse»162. L’incredulità di chi mostra di vedere «da cento occhi» (come Gesù, di fronte al fare della povera gente, «vede questo genere di vita»…), anche se è aggredito dalla morale, è tuttavia già oltre la morale: si rivolge alla società ed assume il carattere positivo dell’uomo molteplice, contiene un ideale, un comportamento trascendentale che attende di farsi idea, che ha la funzione «di promuovere e dirigere operazioni concrete nell’esperienza consapevole, al fine di determinare un giudizio consapevole, in cui possa esercitarsi l’umano come fatto sociale e politico, come comprensione-ricostruzione dell’esperienza»163. Lo spazio viene dopo il tempo, ma lo spazio dell’uomo nuovo rimbalza sul tempo segnandone la prevalenza del futuro. Le estasi non sono semplici parti indifferenziate, ma componenti a vario titolo.

161. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 44, p. 162. 162. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, cit., 14 [112], p. 79. 163. Manno M., Il comportamento trascendentale, cit., p. 107.

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Non siamo certo ancora all’«uomo molteplice» e «complementare»: lo si raggiungerà con il tempo, con l’avvento dell’Oltreuomo. Tuttavia i giovani, nel loro legame con la forza vitale e con il futuro, sono per Nietzsche gli individui che più si avvicinano a quei «nuovi filosofi» che sentono «il peso e il dovere di cento esperimenti e di cento tentazioni di vita», e dunque sono capaci di percorrere «nuove strade»164, a cominciare dalla politica, la sfera umana in cui la relazione si mostra in maniera più evidente. Una politica, in particolare democratica, che Nietzsche intende come «qualcosa di futuro» a cui ora, in conclusione, ci rivolgiamo al fine di indagarne struttura e possibilità.

164. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 203, p. 103.

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VI La democrazia come «qualcosa di futuro»

0. Prospettive Sebbene Nietzsche non venga annoverato tra i “filosofi della politica” tout court, il riferimento a tale ambito eminente della relazione umana compare nei suoi scritti con una frequenza tale da qualificarlo come qualcosa di più che un interesse liminare delle sue riflessioni. Il pensiero della relazione che sottende e sorregge la sua meditazione si muove infatti dal mondo naturale fino a raggiungere quello umano, coinvolgendo necessariamente la sfera in cui la relazione si mostra nella maniera più evidente, la politica appunto. Pertanto, nel concludere questo cammino intorno alla sua filosofia, si tratta ora di soffermarsi sul nesso esistente tra la relazione vitale e la politica, la sfera della socialità umana in cui l’intersecarsi tra struttura e destino interindividuale mostra i suoi risvolti più significativi. Una politica nello specifico democratica, laddove è la relazione stessa a rimandare alla democrazia come ambito precipuo in cui il ritorno e il rinvio possono manifestarsi in termini concreti senza saturarsi in un processo di totalizzazione. La relazione ci conduce insomma al nostro punto d’approdo in territorio nietzscheano, la politica, fino a comprendere la sua critica del potere come elemento “misterioso” da deci-

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frare, strappandolo ai miti con cui da sempre lo si riveste, e sottoponendolo all’esame della ragione. Il tutto al fine di verificare se, traendo spunto dalle risultanze del percorso compiuto, sia possibile declinare le proposte impolitiche di Nietzsche in un orizzonte democratico impegnato a salvaguardare l’«indipendenza» degli individui, senza che ciò renda però ineludibile l’«abolizione del concetto di Stato». Si tratta insomma di sottoporre a verifica se gli approdi filosofici di Nietzsche non rendano superabile in sede democratica lo iato tra reale e ideale da lui stesso individuato e se, andando anche oltre le sue convinzioni, essi non rendano compossibili la democrazia come «qualcosa di futuro» e la permanenza della dimensione statale. Per poter fare questo, il compito sarà quello di indagare preliminarmente se un paradigma archi-ontologico della relazione possa fornire alla politica strumenti teoretici validi: per affrontare la questione del riconoscimento e del rispetto della singolarità irriducibile degli individui in ambito democratico; per sviluppare il problema del rapporto teoria-factum politico; infine, per verificare se, a partire da Nietzsche, sia possibile approfondire il tema dell’ampliamento della partecipazione politica e sociale al mondo degli esclusi, con tutte le conseguenze che ne possono derivare in riferimento alla contemporaneità.

1. Democrazia e singolarità Nietzsche estende ad ogni ambito del reale la propria contrarietà filosofica e metodologica all’imposizione di una struttura unitaria ideale sulla molteplicità plurale della contingenza, che ha come fine quello di eliderne le differenze per controllarne o neutralizzarne la potenzialità relazionale e vitale. Ciò avviene anche a riguardo della politica. In tal modo, nei

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famosi paragrafi di Umano, troppo umano dedicati all’analisi dello Stato1, il filosofo motiva la sua ostilità per il Sozialismus, reo di perseguire come obiettivo il prevalere delle esigenze dell’istituzione statale su quelle della molteplicità dei singoli cittadini, in base ad un principio di “eguaglianza” che mira all’indeterminazione generalizzata degli individui. Il socialismo, infatti, «ambisce a una pienezza di potere statale» che «aspira espressamente all’annientamento dell’individuo», per trasformarlo in un «appropriato organo della comunità»2. Ne viene che al grido «Quanto più Stato è possibile», proprio dei socialisti, dovrà levarsi in maniera più decisa il «grido opposto: Quanto meno Stato è possibile»3. Se dunque l’egualitarismo indiscriminato è ciò che motiva il netto rifiuto di Nietzsche verso il socialismo, piuttosto titubante egli appare invece nei confronti della democrazia che, se da un punto di vista genericamente culturale egli considera l’espressione di una forma di vita decadente4, da una prospettiva

1. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., nn. 438-482, pp. 241-268 (Uno sguardo allo Stato). Si tratta di uno spazio (a dire il vero anche poco organico) in cui Nietzsche riprende temi già esposti in precedenza e ne introduce altri che svilupperà in seguito. 2. Ivi, n. 473 (Il socialismo con riguardo ai suoi mezzi), p. 261. 3. Ivi, p. 262. 4. È opportuno chiarire che Nietzsche conferisce al termine “democrazia” varie accezioni semantiche, non esclusivamente politiche. Come forma politica, lo utilizza per riferirsi sia alla democrazia ateniese sia a quella moderna, e non ne sviluppa le differenze costitutive, in modo che essa viene a coincidere, a grandi linee, con la “sovranità popolare.” In una accezione culturale più ampia, la democrazia va invece a riunire in sé sia il principio etico di “eguaglianza”, sia il modello di vita introdotto dal Cristianesimo e fondato sulla compassione, in modo da porsi come simbolo di una dimensione vitale dominata dalla debolezza, dall’impotenza, dalla stanchezza e dalla malattia («noi, che abbiamo una fede diversa – noi, per i quali il movimento democratico rappresenta non soltanto una forma di decadenza dell’organizzazio-

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specificatamente politica le riconosce però, quantomeno in linea teorica, nel suo significato ideale, diverse possibilità di valorizzazione dell’individuo contro l’opera di indifferenziazione e omologazione condotta dallo Stato, di cui la democrazia si pone come il contraltare naturale. Sempre in Umano, troppo umano, ma in un altro luogo, egli si interroga infatti sulla democrazia e indica come suo fine precipuo quello di «creare e garantire indipendenza per il maggior numero possibile di persone», nello specifico da intendersi come «indipendenza di opinioni, di vita, di guadagno»5. La democrazia persegue così l’obiettivo di determinare e tutelare la strutturazione dell’individuo in termini di singolarità, sostenendone le rivendicazioni e valorizzandone le istanze rispetto all’irruenza della totalità statale cui appartiene. Da ciò deriva una dicotomia ineludibile che non rende compossibili lo sviluppo dell’individuo e l’esistenza dello Stato: «il disprezzo, la decadenza e la morte dello Stato, la liberazione della persona privata […] saranno la conseguenza dell’idea democratica dello Stato: in ciò consiste la sua missione»6. E se Nietzsche è sicuro che «la stupidità dei socialisti»7 non abbia futuro, poiché «il popolo è lontanissimo dal socialine politica, ma anche una forma di decadenza, cioè d’immeschinimento, dell’uomo, un suo mediocrizzarsi e invilirsi»: Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 203, p. 103). In ogni modo, il suo atteggiamento negativo è sempre rivolto alle strutture democratiche storicamente manifestatesi da cui distingue, e a cui contrappone, una diversa visione ideale della democrazia, come ora proviamo a mostrare. 5. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 293, p. 252. 6. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 472, pp. 259-260. 7. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 34 [75], p. 122. In generale, il filosofo non tralascia mai di esprimere giudizi poco lusinghieri nei confronti del socialismo; ad esempio, già nel 1871 aveva scritto: «il socialismo è una coseguenza dell’incultura generale, dell’educazione astrat-

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smo come teoria del cambiamento riguardo all’acquisto della proprietà», in modo che mirerà a creare «lentamente un ceto medio che potrà dimenticare il socialismo come una malattia superata», ciò sarà possibile grazie ad una «dilagante democratizzazione»8, da considerarsi ormai un elemento imprescindibile per comprendere il futuro dell’Europa, nel segno di una “ineluttabilità” democratica che al filosofo proviene dalle idee di Tocqueville, mediate dalla recensione-saggio di Mill a De la démocratie en Amérique9. Questo non significa, tuttavia, che Nietzsche accolga con favore tale sviluppo storico-politico delle forme di governo

ta, della grossolanità dell’anima» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 18691874, cit., parte I, n. 9 [69], p. 304). 8. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 292, p. 251. 9. Cfr. Tocqueville de A., la démocratie en Amérique (1835-1840), Pagnerre, Paris, 1848; tr. it. La democrazia in America, in Id., Scritti politici, Utet, Torino, 1968. Oltre ad un fugace riferimento in una lettera a Overbeck del 1887, Nietzsche menziona Tocqueville nei suoi scritti una sola volta, dichiarando ammirazione nei suoi confronti: «le teste più fini del secolo scorso, Hume e Galiani, tutte incaricate di affari di Stato; così anche Stendhal e Tocqueville» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 34 [69], p. 120). I rapporti di Nietzsche con le idee di Tocqueville furono però “indiretti”, poiché la sua analisi della democrazia gli arrivò mediata dal saggiorecensione di Mill De Tocqueville on Democracy in America (II) (in “Edimburg Review”, ottobre 1840; ora in Id., Collected Works of John Stuard Mill, University of Toronto Press – Routledge and Kegan P., Toronto and London, 1963 e ss; tr. it. Tocqueville sulla Democrazia in America, 1840, in Id., L’America e la democrazia, Bompiani, Milano, 2005). E pur non potendone condividere l’idea del diffondersi dell’uguaglianza come conseguenza di un “disegno” divino, Nietzsche accoglie diversi spunti delle tesi di Tocqueville, a cominciare dall’ineluttabilità dell’avanzare democratico e dei rischi che ne conseguono in termini di soppressione dell’autonomia dell’individuo e di neutralizzazione della sua forza vitale, secondo una dinamica di indifferenziazione conseguente proprio all’estendersi generalizzato del principio di “eguaglianza”.

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che vede il popolo divenire soggetto di potere. Piuttosto egli considera l’affermarsi del kratos del demos come il risultato dell’avanzare di forze reattive mosse dal ressentiment verso i “dominatori” di un tempo, permanendo così sempre piuttosto diffidente rispetto alla «incipiente signoria della plebe, per opera della quale tutto diventa opaco e plumbeo»10. Egli giudica però «il movimento democratico come qualcosa di inevitabile»11, e pertanto si propone di analizzarne il significato teorico scorgendo nella ragione stessa della Democrazia come sistema politico ideale il pieno riconoscimento della singolarità dell’individuo, anche se non ritiene che tale piano ideale possa trovare concretizzazione storica nelle forme effettive di democrazia che osserva sorgere in Europa nella seconda metà dell’Ottocento. Le sue perplessità riguardo alle istituzioni democratiche europee sono infatti diverse, e concernono sia gli strumenti di cui si avvalgono, a cominciare dal «suffragio universale», che a suo dire perde di legittimità se ad esprimersi con il voto è la maggioranza dei cittadini e non la sua totalità: «vengono alle urne a malapena i due terzi, anzi forse nemmeno la maggioranza di tutti i votanti»12. Ma, soprattutto, a non convincere Nietzsche è, da un punto di vista espressamente teoretico, la possibilità della democrazia europea di costituire lo sfondo politico e sociale di manifestazione delle forze vitali proprie della volontà

10. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 287, p. 199 11. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 34 [108], p. 135. 12. «Una legge la quale dispone che la maggioranza abbia l’ultima decisione sul bene di tutti, non può essere edificata sulla stessa base che viene fornita solo da essa stessa; ha bisogno necessariamente di una base ancora più larga, e questa è l’unanimità dei cittadini. Il suffragio universale non deve essere solo l’espressione di una volontà maggioritaria: lo deve volere tutto il paese» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 276, p. 242).

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di potenza («la democrazia europea non è o “è solo” in piccolissima parte uno scatenamento di forze»13), da cui deriva la sua incapacità di incarnare i fondamenti dell’«idea democratica» come tale, e dunque di realizzare quell’«indipendenza» del «maggior numero possibile di persone» a causa del persistere dello Stato. Et pourtant, egli si attesta sulla realistica constatazione che «la democratizzazione dell’Europa è inarrestabile», ma come «anello nella catena di quegli enormi provvedimenti profilattici che costituiscono il pensiero dell’epoca moderna», una sorta di baluardo «contro i barbari, contro le epidemie, contro l’asservimento materiale e spirituale»14. In questo senso, le istituzioni democratiche si limitano a fungere «da istituti di quarantena contro l’antica peste delle voglie tiranniche»15, senza riuscire però a garantire quel pieno sviluppo dell’individuo, quell’«indipendenza» che pure dovrebbe costituire il fine peculiare dell’ideale democratico. Esiste dunque, a suo avviso, una distanza insanabile tra il presupposto ideale e la contemporanea fenomenologia storica effettiva dell’orizzonte democratico. Non è un caso che il filosofo riferisca il proprio discorso ad una visione della democrazia che ancora non esiste: una visione ideale che, perseguendo le esistenti «strade» democratiche, sarà difficile realizzare. Io parlo della democrazia come di qualcosa di futuro. Ciò che già ora si chiama così si distingue dalle precedenti forme solo per il fatto di viaggiare con nuovi cavalli: le strade sono ancora quelle vecchie, e le ruote sono anch’esse quelle vec-

13. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 34 [163], p. 153. 14. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 275, p. 241. 15. Ivi, n. 289, p. 251.

364 chie. – È veramente diventato minore il pericolo, con queste carrozze del bene dei popoli?16

La diffidenza di Nietzsche riguardo alle forme democratiche che egli vede configurarsi negli Stati europei ha dunque origine nel fatto che non scorge in esse le condizioni per raggiungere quella difesa dei diritti dell’individuo che pure dovrebbe costituire la ragione stessa e il fine ultimo della democrazia qua talis. E le cause di tale difficoltà sono da individuarsi nel rapporto dicotomico che intercorre tra il «bene dei popoli», cioè il Bene comune, di cui lo Stato si fa interprete, e il diritto dei singoli ad esprimere la propria individualità. Il tema è quello dell’appiattimento e del sacrificio delle qualità dei singoli a favore delle esigenze della totalità cui appartengono17, e per questo la democrazia gli appare come «qualcosa di futuro», una forma di governo che ancora deve essere realizzato e che forse, continuando a percorrere strade «vecchie», non lo sarà mai. È dunque il parametro dell’«indipendenza» dell’individuo quello che Nietzsche adotta per valutare la politica democratica secondo un generale atteggiamento «non politico

16. Ivi, n. 293, p. 252. 17. Egli spiega che «le questioni e preoccupazioni ogni giorno nuove del bene pubblico inghiottono un tributo quotidiano del capitale di mente e di cuore di ogni cittadino; la somma di tutti questi sacrifici e perdite in energia e lavoro individuale è così mostruosa, che il fiorire politico di un popolo si trae dietro quasi necessariamente un impoverimento e infiacchimento spirituale e una diminuita capacità per opere che richiedono grande concentrazione e unilateralità». La conseguenza è che agli interessi comuni vengono sacrificati gli impulsi individuali, in modo che «alla fine si può chiedere: ma metterà conto tutta questa fioritura e magnificenza dell’insieme […] quando a questo fiore grossolano e variopinto della nazione devono essere sacrificate tutte le piante e i virgulti più nobili, delicati e spirituali, di cui il suo suolo era finora così ricco?» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 481, p. 268).

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(unpolitisch)»18, cioè impolitico che, al di là di diffuse pretese valenze antidemocratiche o antisocialiste, fornisce la cifra di quella «grande politica» (groß Politik)19 da lui vagheggiata negli ultimi scritti prima del tracollo psichico.

18. Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 106. 19. Come è ben noto, temi antidemocratici e antisocialisti sono infatti presenti in vari luoghi nietzscheani, come ad esempio in Genealogia della morale, dove egli si domanda: «chi ci garantisce che la moderna democrazia, l’ancor più moderno anarchismo, e specialmente quella tendenza alla “commune”, alla forma più primitiva di società, che è oggi comune a tutti i socialisti d’Europa, non debba significare essenzialmente un enorme contraccolpo – e che la razza dei conquistatori e dei signori, quella degli ariani, non sia per soccombere anche fisiologicamente?» (Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 229; cfr. anche ivi, pp. 239-242, i richiami alla «furia della bionda bestia germanica»), o in un frammento del dicembre 1888 – gennaio 1889 intitolato “La grande politica”, in cui Nietzsche si schiera contro «la volgarità del numero», e dichiara la necessità per la grande politica di «affermare la fisiologia sopra tutti gli altri problemi», al fine di «creare una potenza abbastanza forte per allevare l’umanità come un tutto superiore, con spietata durezza contro la degenerazione e il parassitismo della vita – contro ciò che corrompe, avvelena, calunnia, manda in rovina…» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1888-1889, n. 25 [I], pp. 407-408). La critica più attenta ha tuttavia ormai chiarito che, pur essendo presente in Nietzsche una certa innegabile tensione conservatrice, solo una lettura interessata e pregiudiziale del suo pensiero può rinvenire in esso temi che precorrono quelli propri del nazionalsocialismo. Anche Ferraris, ad esempio, sempre piuttosto attento a non spostare troppo «a sinistra» il baricentro del pensiero di Nietzsche, precisa comunque che egli «nazista non lo fu mai, per ovvi e ineludibili motivi cronologici» (Ferraris M., Spettri di Nietzsche. Un’avventura umana e intellettuale che anticipa le catastrofi del Novecento, Guanda, Milano, 2014, p. 33). In generale, sulla scia del saggio di Cacciari L’impolitico nietzschiano più volte richiamato, è invece ormai acquisito che le considerazioni nietzscheane si volgono verso la politica tout court, fino ad assumere tonalità impolitiche. Gentili spiega infatti che l’«ideologizzazione della filosofia di Nietzsche si sottrae grossolanamente all’evidente paradosso di una grande politica che, proprio in quanto grande, si presenta nello stesso momento come impolitica o antipolitica» (Gentili C., Nietzsche, cit., p. 385; in generale, sul tema nietzscheano della «grande politica» e sul suo carattere

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Riguardo allo Stato, in particolare, facendo reagire il piano ideale con quello storico-effettivo, il suo sguardo si sofferma sulla politica di Bismarck, in modo che la sua riflessione sulle possibilità della democrazia si interseca con quella dei caratteri dello Stato proprio del “secondo” Reich, di cui contesta il connubio tra nazionalismo populista, democrazia di massa, derive plebiscitarie e interventismo statale. In questo senso, le analisi discontinue che del concetto di “Stato” Nietzsche offre muovendosi dal confronto con la polis greca, il principato rinascimentale20 e, infine, l’Impero romano, hanno come riferimento ultimo di confronto l’epopea bismarckiana e il conflitto con la Francia. Ciò non toglie che il filosofo sia più interessato, così come avviene per la democrazia, al significato ideale dello Stato (che egli media riferendosi, polemicamente, a modelli teorici contrattualisti21, hobbesiani, hegeliani e essenzialmente impolitico, cfr. ivi, pp. 364-388). La «grande politica» su cui Nietzsche riflette si nutre del confronto tra Kultur e Politik/Zivilisation, e assume prospettive decisamente impolitiche, nella convinzione che non si tratti di sviluppare un’altra (filosofia) politica, bensì di trovare il modo di riportare alla luce ciò che dalla e nella politica si ritrae per poi ritornare: la vita come principio di relazione che struttura, garantisce la condizione di possibilità e fornisce la cifra di esistenza di ogni politica, da assumersi, in particolare, come compito o destino della civiltà (democratica) del «futuro». 20. A suscitare l’interesse di Nietzsche per il Rinascimento è da una parte l’interesse per il pensiero di Machiavelli, dall’altra la fascinazione e la stima verso il lavoro e la personalità riservata e silenziosa di Burckhardt, una stima che, seppur ricambiata, però verrà accolta sempre con molta freddezza e distacco dallo storico, cosa di cui Nietzsche si mostrerà sempre piuttosto rammaricato (sul rapporto tra i due intellettuali, cfr. Bernoulli K. A., Franz Overbeck und Friedrich Nietzsche. Eine Freundschaft, Dieterich, Jena, 1908; tr. it. parziale in Overbeck F., Ricordi di Nietzsche, Il Melangolo, Genova, 2000, e Rossi R., Nietzsche e Burckhardt, Tilgher, Genova, 1987). 21. Nietzsche esprime sarcasmo nei confronti della «fantasticheria» che fa coincidere l’istituzione dello Stato «con un “contratto”» (Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 286), mentre invece lo Stato è da considerarsi «di nascita infame», cioè consequenziale ad un atto di conquista, e dunque

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positivistici, di cui rileva, genericamente, l’identica convinzione di una eguaglianza sostanziale degli uomini) piuttosto che alla effettività politica in cui esso si manifesta, a cui comunque dedica qualche attenzione, almeno fino al 1881, per poi concentrarsi soltanto sulla sua valenza teorica negli ultimi scritti. E tale interesse è motivato sempre dalla convinzione che lo sviluppo dell’individualità trovi nello Stato il proprio ostacolo e il proprio impedimento. Ne deriva, a ben guardare, che la critica mossa da Nietzsche allo Stato nazionale sorge dal “tipo” di democrazia che esso prevede e di cui necessita, e cioè una democrazia “snaturata” che non può perseguire il suo fine ultimo, l’«indipendenza» degli individui, in quanto ostacolata dal processo di omologazione e massificazione che lo Stato impone al fine della propria conservazione: «lo Stato non vuole, e non ha mai voluto, una qualità migliore, bensì la massa!»22. Fin dai tempi dei greci il deperimento della democrazia in direzione della massificazione trova infatti nello Stato il suo strumento23 e la sua ragione, proprio perché lo Stato opera contro «lo sviluppo dello spirito», essenzialmente considerato «come un impedimento e un ingombro»24. E tale prospettiva si mantiene, nel tempo, fino al strumento atto a conservare un ordine imposto con la forza (cfr. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte I, n. 10 [1], pp. 350 ss.). 22. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1881-1882, cit., n. II [179], p. 394. 23. La natura strumentale dello Stato è un’idea da cui Nietzsche non si distaccherà mai (cfr., di nuovo, tra i numerosi luoghi in cui appare tale definizione: Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte I, n. 10 [I], p. 352). 24. «Temuto dallo Stato lo sviluppo dello spirito. La polis greca era, come ogni forza politica organizzatrice, esclusiva e diffidente verso il fiorire della formazione intellettuale, la cui possente spinta fondamentale si rivelò per essa quasi solo come un impedimento e un ingombro. […] Dunque la formazione intellettuale si sviluppò nonostante la polis: certo indirettamente e contro volontà anch’essa giovò, perché nella polis l’ambizione del singo-

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Reich bismarckiano, in cui: la standardizzazione di un’istruzione pubblica «mediocre»25, come elemento funzionale alla creazione di una cultura di massa, cioè una «cultura indebolita»26 subordinata alla burocrazia e volta alla creazione di «impiegati intelligenti»27; l’avanzare della seconda rivoluzione industriale e del capitalismo, che favorisce il lavoro in fabbrica come uniformazione del processo produttivo verso il basso e diviene causa di uno sfruttamento ben peggiore della stessa schiavitù del passato28; l’assestarsi della stampa (con la sua «disonestà minima»29) su di interessi di parte, con l’obiettivo di condizionare l’opinione pubblica e rendere «goffo» il pensiero30 e, infine, il suffragio universale (maschile), perseguono il fine di omologare gli individui in un ambito democratico in cui a perdersi è il valore della singolarità, e dunque la ragione stessa dell’«idea democratica». Alla base di ciò vi è l’idea della inevitabile distinzione tra «governo e popolo», come tra «due separate sfere di potenza, una più forte e alta con una più debole lo veniva eccitata al massimo, sicché quegli, una volta entrato nella strada della formazione intellettuale, proseguiva in essa fino all’estremo limite» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 474, p. 262). 25. «Nei grandi Stati la pubblica istruzione sarà sempre tutt’al più mediocre, per la stessa ragione per cui nelle cucine grandi si cucina nel miglior caso mediocremente» (ivi, n. 467, p. 255). 26. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte I, n. 8 [87], p. 259. 27. Ivi, n. 8 [57], p. 248. 28. Scrive Nietzsche che «sotto tutti i rispetti gli schiavi vivono più sicuri e felici del moderno operaio», poiché «il lavoro dello schiavo è molto poco lavoro in confronto a quello del “lavoratore”» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 457, p. 252). 29. Cfr. ivi, n. 447, p. 247. 30. «Si vede subito come nella nostra epoca democratica, con la libertà di stampa, il pensiero diventi goffo» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 18841885, n. 34 [92], p. 129).

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e bassa» che si tratta di accordare mediante il «compromesso» della Costituzione (come lo definiva Bismarck31), in modo che lo Stato, «o più chiaramente, il governo si saprà costituito tutore a favore di questa massa incapace»32. Ora, si tratta di una perplessità, quella relativa al nesso democrazia-massificazione su cui Nietzsche insiste, che oggi mostra la sua attualità “profetica” laddove lo snaturamento del concetto di “eguaglianza” in termini di indistinzione e uniformazione indifferenziata determina, «in politicis»33, atomismo e dunque intercambiabilità, che vanno sempre più a caratterizzare, paradossalmente, l’effettivo manifestarsi dell’ordinamento democratico in chiave di esclusione dalla possibilità di partecipazione attiva alla gestione del potere. Il tutto perseguito mediante meccanismi che limitano la possibilità di scelta dei rappresentanti da eleggere, o attraverso politiche economiche eterodirette i cui effetti non si riflettono, se non in negativo, sulla vita quotidiana immediata, facendo sorgere il sentimento dell’inutilità della politica. Senza contare, inoltre, l’utilizzo virulento dei mezzi di informazione a difesa di specifici interessi di parte, che muovono all’incredulità e alla sfiducia generale verso ogni “manovra” governativa. Ciò motiva il distacco, se non proprio il rifiuto verso la politica, che si manifesta con l’astensione dal voto, e con il crescente processo di spoliticizzazione della società, sempre più chiusa nell’interesse individuale. In tal senso, la democrazia viene a perdere il significato originario di principale ambito politico di autosviluppo e partecipazione dell’individuo al destino comu-

31. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 450, p. 248. 32. Ivi, n. 472, p. 256. 33. «È l’epoca delle masse: esse si sdraiano sul ventre dinanzi a tutto quanto è quantitativamente esorbitante. E così pure in politicis» (Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 241, p. 152).

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ne, fino ad assumere quasi connotati “oclocratici”, e costringe la filosofia politica a una ri-cognizione dei propri presupposti metodologici e della propria funzione in un tempo dominato dalle logiche finanziarie globalizzate. Nel momento in cui il venir meno delle ideologie ricopre di un velo di pragmatismo quotidiano l’agire politico, si definisce l’attualità di una prospettiva impolitica che prende origine dalla critica profonda che Nietzsche conduce sui valori e sulla loro possibilità nell’era del nichilismo. Come ha mostrato Cacciari infatti, l’impoliticità di Nietzsche muove dalla critica alla politica occidentale permeata dall’escatologia teologica propria della civiltà cristiana, imperniata sul concetto di redenzione dell’uomo nella sua totalità, e conclude pertanto con il negare il politico «in quanto affermazione di Valore», poiché testimonia «la critica radicale dell’essere-valore della dimensione del “politico”»34. Tutto ciò si ripercuote, in ambito strettamente filosofico-politico, sulla dicotomia immanenza-trascendenza, nel senso che impone una ri-cognizione del rapporto che intercorre tra la filosofia politica e il suo oggetto, il dato politico, a cominciare dalle modalità della sua delineazione e individuazione. In tal modo, la torsione anti-ideologica del nostro tempo impone alla filosofia politica una riflessione sul rapporto tra teoria e prassi politica, che si sostanzia nella definizione e qualificazione stessa del factum politico.

34. «L’“impolitico” nietzschiano è la critica del politico in quanto affermazione di Valore. L’“impolitico” non è il rifiuto nostalgico del “politico”, ma critica radicale del “politico”: esso va oltre la maschera del “politico” (il suo disincanto, la sua necessità, il suo essere destino) per scoprirvi i fondamenti di valore, il discorso di valore che ancora lo fonda» (Cacciari M., L’impolitico nietzschiano, cit., p. 109-110).

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2. Politica e relazione In una terminologia più recente, ridiscendere dal mondo delle “anime doverose” alla politica reale equivale a passare dalla “politica” a «le politique», dalla prassi ispirata dall’ideologia a ciò che nell’effettivo manifestarsi della politica si ritrae35, pur costituendone la condizione di possibilità: la relazione. In un linguaggio nietzscheano, «le politique» assume così i caratteri relazionali/differenziali delle volontà di potenza, e qualcosa di simile alla consapevolezza del suo «retrait» si intravede proprio nel più generale atteggiamento unpolitisch di Nietzsche, che costituisce il significato ultimo della «groß Politik» come generale presa di distanza dalla politica, e che coinvolge anche l’effettiva fenomenologia democratica del suo tempo. Declinando e attualizzando, quindi “rivitalizzando” il suo pensiero secondo tale ottica, emerge il legame della volontà di potenza con la sfera politica, della quale la relazione appare come la struttura fondante, e di cui però ogni “filosofia politica” sclerotizza il movimento vitale nel volgersi dell’idea al factum politico al fine di individuarlo, teorizzarlo, e dunque comprenderlo come tale ri(con)ducendolo a se stessa, con il risultato di smarrirne o occultarne l’originaria forza relazionale. È proprio tale opera di ri(con)duzione che Nietzsche osteggia, nel momento in cui una politica che «grande» voglia definirsi deve essere invece in grado di conservare il dinamismo della vita intrinseco della struttura relazionale mondana, relativa all’azione autoaffermativa messa in opera dalle volontà di potenza che, nel darsi politico effettivo, assume la forma del conflitto, come il pensiero impolitico non si stanca di ribadire36.

35. Cfr. i due volumi curati da Nancy J.-L. e Lacoue Labarthe P.: Rejouer le politique, cit. e Le retrait du politique, cit. 36. Dopo aver chiarito che la neutralizzazione del conflitto è il fine precipuo della politica moderna («la politica moderna non è addirittura nata per neu-

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Dinamica relazionale-conflittuale che rappresenta, pertanto, l’“immediato” della vita nella politica, e quindi l’“immediato” della politica, le politique appunto, che ogni “filosofia” o “teoria” politica smarrisce, dimentica, vela e occulta nell’opera di mediazione categoriale. La filosofia politica, che per sua natura si presenta infatti come costruzione ideale, unitaria, aconflittuale, incontra e non può non incontrare difficoltà nel rapportarsi al fenomeno politico che di per sé è reale, quindi molteplice, conflittuale. Questo avviene perché la filosofia, sia pur essa “filosofia del conflitto”, non può non ri(con)durre al proprio livello aconflittuale, quello dell’idea, la conflittualità intrinseca della contingenza politica e, nel far questo, finisce per tralasciare, cioè per negare, paradossalmente, il dato essenziale, il factum, della politica, ciò che ne struttura i parametri di possibilità in quanto pensiero-del conflitto. In sostanza, si rimarca lo iato che sussiste tra la filosofia politica e il suo oggetto, le politique, rilevando la presenza di uno scarto che è la stessa filosofia a produrre sussumendo all’interno delle proprie categorie il dato storico effettivo, secondo una dinamica che rimanda al paradigma occidentale di controllo (o dominio) del pensiero sulla vita. Si tratta di un agire teoretico inaugurato dalla scienza e dalla conoscenza in genere, impegnate a costruire il proprio oggetto operando secondo parametri di semplificazione e «falsificazione» del reale. La filosofia infatti non può non operare una ri(con)duzione del molteplice reale e contingente all’unità dell’Uno ideale e necessario, se non a patto di rinunciare a se

tralizzare il conflitto?»), Esposito spiega che invece l’impolitico, «tutt’altro che confliggere col conflitto politico, che negare la politica come conflitto, la considera l’unica realtà e tutta la realtà. Aggiungendo, tuttavia, anche che è solo la realtà» (Esposito R., Categorie dell’impolitico, cit., p. XV. Sul carattere intrinsecamente conflittuale della politica cfr. anche Id., Nove pensieri sulla politica, Il Mulino, Bologna, 1993, cap. I).

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stessa come principio esplicativo ed euristico. Ma, tale operazione, che in ambito politico richiama l’impossibilità del Moderno di rendere conto del divenire e della molteplicità, ha finito con il fallire a causa delle pressioni esercitate dalla realtà, sempre “poco propensa” a sottostare ai dettami della ragione, in modo da far sorgere la domanda sull’effettiva possibilità di riuscita di questo compito, fino a decretare la necessità, per la filosofia, di operare il proprio ritiro, di sentire la propria fine. Pensando invece come Nietzsche insegna a pensare, il riconoscimento e il rispetto du politique diverrà possibile se si ridefinisce il rapporto idea-evento politico facendo riferimento alla sua visione dell’interpretare posto in opera dalla volontà di potenza, come modulazione razionale del conflitto che non culmina però nella saturazione “falsificatrice” dell’idea, in quanto consente di mantenere viva la pluralità diveniente delle forze vitali in relazione, di cui l’interpretazione rappresenta una apparentemente duratura, quindi provvisoria, organizzazione, dimodoché, nel far questo, non impedisce ma anzi sollecita l’ulteriorità dell’interpretare stesso. Ne consegue che la dicotomia trascendenza-immanenza si riveste di un significato nuovo, relativo proprio al venir meno del suo carattere dicotomico. L’interpretare non implica infatti la mera “applicazione” di un costrutto ideale ad un evento che in ragione di ciò diviene factum politico, in modo che la stessa definizione della politicità del factum riconosce il preventivo riferimento ad un orizzonte ideale, che ne permette appunto la classificazione in tal senso. Piuttosto, l’interpretazione, la configurazione di una molteplicità di eventi e della loro «costellazione» di sensi37 in una unità di significato che si autotrascende nell’esporsi 37. «Il senso è quindi una nozione complessa: c’è sempre una pluralità di sensi, una costellazione, un complesso di successioni, ma anche di coesistenza, che fanno dell’interpretazione un’arte» (Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit., p. 34).

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alla possibilità della propria ulteriorità interpretativa, ridiscute sia la pienezza dell’immanenza, sia il carattere trascendente del presupposto ideale. In tal modo, l’istante contingente, in cui ogni interpretazione prende forma, resta sempre aperto all’eternità del proprio significato, in una sorta di autotrascendimento interno che non comporta un semplice superamento della trascendenza a favore dell’immanenza (come vorrebbe Jaspers), bensì una più profonda elisione del confine che la separa dall’immanenza: nella possibilità del suo eterno ritorno, l’immanenza di ogni attimo si autotrascende. Ne viene che sarà possibile interpretare come factum politico l’evento che supporta la propria ulteriorità come apertura alla possibilità del rinvio relazionale e che, dunque, mantiene attiva la forza vitale propria delle volontà di potenza; approfondiamo. Bataille chiarisce che Nietzsche ha espresso «l’aspirazione estrema, incondizionata» dell’uomo «a prescindere da un fine morale e dal servizio di un Dio»: quella di divenire «uomo totale». E nota però che ciò dovrebbe condannarlo all’inazione, al fine di evitare la «frammentazione» propria di un «agire che specializza, e limita dentro l’orizzonte di una data attività». Tuttavia, «se è vero che nel senso in cui lo si intende abitualmente, l’uomo d’azione non può essere un uomo totale, l’uomo totale conserva una possibilità di agire», in base ad una «libertà» che richiede due condizioni: di non farsi trascendere, dominare, dall’azione e, all’inverso, di non ridurre l’azione ai fini propri della ragione. Ciò sarà possibile laddove l’immanenza dell’eterno ritorno predicherà l’immotivazione dell’istante (nella sua apertura all’eterno) come scopo, attraverso la sottrazione del motivo di caratura morale38. In questo modo, per utilizzare i termini di Nancy, ci troviamo di

38. Cfr. Bataille G., Nietzsche. Il culmine e il possibile, cit., pp. 21-34.

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fronte ad una specie di «“transimmanenza” del senso»39 che espone la finitezza del senso nella necessità dell’immanenza di autotrascendersi continuamente. Ed è dunque nel legame tra l’istante (ogni istante) e l’eterno, offerto dalla dottrina del ritorno che è possibile rinvenire i parametri di osservazione del dato contingente, che assume una connotazione politica, si configura cioè come factum politico laddove riconosce, senza occultarlo, il carattere dinamico e relazionale in e da cui si origina: lo mantiene vivo e produttivo, lo accompagna senza occultarne e obnubilarne la struttura diveniente e molteplice. Una molteplicità in divenire che il prospettivismo consapevole dei «cento occhi» garantisce nel consentire la possibilità del rinvio, della circolazione del senso e non di una sua fissazione totalizzante nella teoria o, peggio, nell’istituzione totalitaria. Abbiamo dunque l’indicazione di un agire altro rispetto al mero inquadramento in seno a schemi di comprensione rigidi e codificati, che nell’opera di ri(con)duzione pertinentizzante del factum ne cristallizzano la ricchezza vitale. Parimenti, non ci troviamo di fronte ad una dinamica di mera “applicazione” all’evento politico di dettami che gli preesistono e che, pertanto, lo qualificano come tale. In maniera diversa, la ragione politica vede «da cento occhi» la pluralità di significato delle volontà di potenza, e riflette mediante un «pensare secondo misura» che placando e controbilanciando riesce a prestare attenzione anche alle «piccole cose quotidiane»40, non perde

39. Cfr. Nancy J.-L., Le sens du monde, Galilée, Paris, 1993; tr. it. Il senso del mondo, Lanfranchi, Milano, 1997, pp. 74 ss., (cors. nel testo). 40. «Non si tratta quindi di inquadrare le azioni entro schemi rigidi o esclusivi, con il risultato di impoverirne la consistenza, ma di riconoscere la ricchezza degli aspetti vitali che le costituiscono. Il pensare secondo misura conduce allora alla ponderazione più affinata e più delicata degli ingredienti del pensare e dell’agire, persino all’attenzione alle piccole cose quotidiane, le quali non sono il contrassegno di un’esistenza minore ma diventano, al

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di vista il contatto con la palude. Nietzsche è deciso nel sostenere l’importanza per il «grande politico» di «vedere molte cose, soppesarle le une con le altre, calcolarle le une rispetto alle altre e trarre da esse una rapida conclusione»41. Di rimando, la decisione può qualificarsi più che come atto volontario/volitivo del soggetto, come «un’azione senza scelta, quasi come un dono»42, di cui non gli è del tutto definita l’origine: anche quando sembra che l’interpretazione trovi origine nel singolo a cui è affidata per il ruolo che ricopre nella società, in riferimento al grado di realizzazione della propria potenza che ha raggiunto, in realtà ciò non è dovuto ad un’opera né di creazione ex nihilo né di cesura verso il passato, ma alla valorizzazione ponderata della pluralità degli stimoli e degli apporti, noti o meno, che gli provengono dalle volontà di potenza di cui ne è, e quindi dalla ricchezza vitale generata dalla molteplicità di comunicanti che operano anche mettendo in comune la loro potenza43, e danno vita così quasi ad una nuova forma di comunità della potenza. Un nuovo essere in

contrario, il banco di prova di un filosofare con sane radici nella vita» (Totaro F., Misura, potenza, vita in Nietzsche, in Id., a cura di, Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, cit., pp. 54-64, p. 59) 41. «Vedere molte cose, soppesarle le une con le altre, calcolarle le une rispetto alle altre e trarre da esse una rapida conclusione, una somma piuttosto sicura, – è questo che fa il grande politico, il grande condottiero, il grande commerciante: – cioè la rapidità in un specie di calcolo mentale» (Nietzsche Fr., Umano troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 296, p. 254). 42. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 38 [13], pp. 294295. 43. Della possibilità di rinvenire in Nietzsche una sorta di «messa in comune della potenza» relativamente al nesso temporale che intercorre tra promessa e responsabilità (Verantwortung), discute Rametta in riferimento a una idea di comunità non necessariamente riferità all’alterità (cfr. Rametta G., Responsabilità e potenza nel pensiero di Nietzsche, in Giacobini B. a cura di, Il problema responsabilità, Cleup, Padova, 2004).

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comune caratterizzato da ciò che è stato definito, «a partire da Nietzsche ma correggendone gli esiti selettivi», una sorta di «etica della equipotenza», ovvero «del conferimento di senso e di scopo all’agire di ciascuno»44, in seno ad un paradigma etico che «non significa affatto appiattimento e livellamento, tanto meno spirito di decadenza e di rinuncia», poiché «la potenza che da ciascuno può essere voluta e partecipata non cessa infatti di indicare la meta dell’eccellenza nella sua realizzazione»45. Non si tratta, pertanto, nel decidere e nell’agire politicamente di perseguire la composizione generosa delle istanze che provengono dalle volontà di potenza, situandosi così sul versante opposto del dominio e dell’imposizione forzata, ma del pensarle relazionalmente disponendosi a vedere «da cento occhi» le possibilità che da esse derivano, per poi orientarsi verso la direzione migliore, poiché «stare nella volontà di potenza significa appunto tenere sempre desta la tensione a ciò che è ottimo»46, a ciò che consente la prosecuzione dell’autoimplementazione, e dunque del rinvio relazionale. Di conseguenza, un’etica dell’equipotenza può evitare l’indeterminazione, il livellamento e la massificazione degli individui nel garantire all’altro la realizzazione del proprio grado di potenza secondo le proprie qualità e i propri meriti47: quel-

44. Totaro F., Superuomo e senso dell’agire in Nietzsche, in Id. (a cura di), Nietzsche e la provocazione del superuomo. Per un’etica della misura, cit., pp. 111-133, p. 129. 45. Cfr. Totaro F., Misura, potenza, vita in Nietzsche, cit., p. 60. 46. Ibidem. 47. «Detto in altri termini, non a tutti è data uguale potenza, né tutti possono realizzare la potenza allo stesso modo, pena un decadente spirito di rinuncia o il piatto livellamento dell’umanità tipico della modernità; ma proprio l’impossibilità di una realizzazione “omogenea” e uniforme della potenza non impedisce di promuovere e auspicare una realizzazione eccellente della potenza stessa da parte di ciascuno, secondo le modalità di declinazione più

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l’«indipendenza» che Nietzsche considera il fine ultimo della democrazia «come qualcosa di futuro». E deve farlo in quanto il raggiungimento del grado di potenza dell’altro, come fonte di ulteriori prospettive e pertanto garanzia di prosecuzione del rinvio, diviene condizione di esistenza della stessa democrazia come «qualcosa di futuro». Rispetto all’uguaglianza indifferenziata propugnata dalla democrazia storica e dal Cristianesimo, Nietzsche si muove a partire da una angolazione etica incentrata su un «nuovo canone», quello del riconoscimento della diversità: «sii diverso da tutti gli altri, e rallégrati se ognuno è diverso dall’altro […] Per tanto tempo, per troppo tempo, è stato detto: uno come tutti, tutti come uno»48. Una diversità la cui cifra è fornita dal peculiare grado di potenza che ciascuno può raggiungere e che, inoltre, si deve «aiutare» a perfezionare: il filosofo non tralascia di sottolineare che la valorizzazione di ogni singolarità sia l’obiettivo profondo del suo insegnamento. Il mio fine non è qualcosa di valido per tutti, per questo esso è, tuttavia, comunicabile sia perché vi sono persone a me simili, sia anche perché quelli che sono l’opposto di me, ne trarranno l’energia e il piacere di formulare parimenti il loro essere e di convertirlo in spirito attivo. Voglio aiutare tutti coloro che cercano il loro modello, facendo vedere come si cerca un modello: e la mia gioia più grande è incontrare modelli

proprie ad ogni individuo» (Giovanola B., Nietzsche e il superuomo: volontà di potenza come volontà di misura, in Totaro F., a cura di, Nietzsche e la provocazione del superuomo. Per un’etica della misura, cit., pp. 135-152, p. 147. Cfr. anche Id., La misura a partire da Aurora, in Totaro F., a cura di, Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, cit., pp. 186-204, pp. 193 ss., e Id., Nietzsche e l’Aurora della misura, Carocci, Roma, 2002). 48. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1879-1881, cit., n. 3 [98], p. 324.

379 individuali che non sono eguali a me. Il diavolo si porti tutti gli imitatori, i seguaci, i laudatori, gli ammiratori, i fedeli49.

Ora, tale discorso vale anche per coloro che, nell’opera di ricerca del proprio «modello», risultano essere più deboli di altri. Per Nietzsche il grado di debolezza dell’individuo non è infatti fornito dal risultato di una lotta, dal fallimento di una operazione di conquista, bensì è relativo alla difficoltà di pervenire al proprio livello di potenza, alla separatezza rispetto ad esso50. In questa luce prospettica, egli precisa che è «una falsa opinione» quella che identifica «gli esemplari supremi» con i «conquistatori», i «dinasti, ecc.»: gli «individui più alti», non sono infatti i «più forti», bensì «gli uomini creativi, sia quelli migliori moralmente, sia quelli utili in senso grandioso – cioè i tipi più puri, coloro che migliorano l’umanità», e soltanto laddove impera la violenza «gli individui più forti vengono a sostituire i migliori»51. Sarà così il riferimento alla misura (Maß) e alla possibilità di perfezionare il proprio grado di potenza a fornire la cifra di forza dello Übermensch, dell’Oltreuomo: alla domanda «quali uomini si riveleranno allora i più forti?», Nietzsche risponde «i più moderati, quelli che non hanno bi-

49. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 6 [50], p. 434. 50. «Nietzsche chiama debole o schiavo non chi è meno forte, ma chi, qualunque sia la sua forza, è separato da ciò che è in suo potere. La misura e la qualificazione delle forze non dipendono allora da una quantità assoluta ma dalla loro relativa realizzazione: chi riesca infatti, seppur dotato di forza inferiore, a portare quest’ultima al suo limite estremo, risulterà forte alla pari di chi lo è già, poiché la sua minor forza verrà compensata dall’astuzia, dall’accortezza, dalla spiritualità che essa contiene e che le consente di sollevarsi dalla sua inferiorità. Forza e debolezza non possono essere giudicate sulla base dell’esito della lotta o del successo, in quanto, ancora una volta, un fatto, nella sua essenza, consiste nel trionfo dei deboli» (Deleuze G., Nietzsche e la filosofia, cit., p. 89). 51. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte II, n. 30 [8], pp. 337-338.

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sogno di principi di fede estremi, quelli che non solo ammettono, ma anche amano una buona parte di caso, di assurdità», e dunque «gli uomini che sono sicuri della loro potenza e che rappresentano con consapevole orgoglio la forza raggiunta dall’uomo»52. Ne consegue che per il filosofo di Rockën non soltanto i «più forti», coloro che hanno raggiunto la propria potenza, determinano lo sviluppo di un gruppo sociale, in quanto il raggiungimento e il perfezionamento del proprio margine di potenza costituisce il contributo che anche «la natura più debole» può apportare al progresso della comunità cui appartiene. Il ruolo costitutivo assunto dai deboli nello sviluppo della storia umana riveste una funzione centrale nella riflessione di Nietzsche, ed è ribadito in un arco di tempo che va da Umano, troppo umano («ogni progresso deve in complesso esser preceduto da un parziale indebolimento. […] Proprio la natura più debole, come la più delicata e la più libera, rende in genere possibile ogni progresso. Un popolo che in qualche punto presenta qualche crepa e un indebolimento, ma che è in complesso ancora forte e sano, può accogliere in sé l’infezione del nuovo e incorporarlo a suo vantaggio»), alla Genealogia della morale («volevo dire: anche il parziale divenire inutile, l’intristirsi e il degenerare, lo smarrirsi di senso e conformità al fine, la morte, insomma rientrano nelle condizioni di progressus reale»)53, fino a L’anticristo («sarebbe del tutto indegno di uno spirito profondo, vedere nella mediocrità in sé già un’obiezione. Essa è anzi la necessità prima perché possano esistere eccezioni: una civiltà elevata trova in essa la sua condizione»54). A diffe-

52. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 5 [71], p. 206. 53. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 224, pp. 161-162 e Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 277. 54. Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., n. 57, p. 170.

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renza di quanto diffusamente si pensa, lo sguardo di Nietzsche rivela pertanto tratti inclusivi e, anzi, si rivolge contro ogni esclusione: «se l’uomo d’eccezione tratta proprio i mediocri con dita più delicate di quelle con cui tratta se stesso e i suoi pari, non è, questa, pura cortesia del cuore – è semplicemente il suo dovere…»55. Osservando dal punto di vista di quella che abbiamo definito “archi-ontologia” della relazione, assistiamo così all’inaugurazione di un paradigma impolitico o oltrepolitico in cui il discorso sulla democrazia si innesta su una sfera nuova, quella dei «cento occhi», in cui è possibile la crescita e l’autoimplementazione «du politique» nel suo eterno ritorno/ritiro costante attuato dal rimando alla possibile pluralità e molteplicità delle prospettive. Il tutto racchiuso all’interno del moto generale di «espansione delle forze» che contempla sia la «conservazione», sia l’«accrescimento», ma anche la diminuzione di quanto raggiunto, laddove anche i momenti di arresto, di involuzione, di debolezza, proprio perché tali, quindi per «difetto», diventano stimolo e forniscono il loro contributo alla crescita del tutto come avviene, antidarwinianamente, nel corpo56. Una crescita che si sottrae, inoltre, alle maglie stringenti della Filosofia della storia poiché ogni totalizzazione del discorso politico viene inibita proprio dalla natura stessa du politique come dato relazionale, e dalla possibilità del suo eterno ritorno come «evento d’eccezione», che non prosegue necessariamente tramite il «consolidamento» nello storicamente costituito in direzione di uno sviluppo già previsto.

55. Ibidem. 56. «D’altra parte un difetto, una degenerazione può riuscire della massima utilità, agendo come stimolante per altri organi» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, n. 7 [25], p. 289).

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In tal senso la democrazia, nel suo tessuto intrinsecamente relazionale, appare come il luogo più consono e, nello stesso tempo, la condizione di possibilità del ritorno/ritiro/rinvio del politico e del suo potenziamento continuo, così come pone gli ostacoli più grandi alla sua sclerotizzazione nel sistema. Sotto un profilo più teorico, è pertanto la natura propria «du politique» a richiedere il coinvolgimento, la partecipazione anche di coloro che risultano esclusi perché meno forti, i deboli, al fine di individuare spazi e luoghi sempre nuovi e diversificati di circolazione del senso, in modo che un popolo può «accogliere in sé l’infezione del nuovo e incorporarlo a suo vantaggio»57 e poter così perpetuare, nel ritorno/ritiro del rinvio/rimando infinito, la propria ateleologica autoimplementazione continua. Si annuncia pertanto una visione etica orientata all’inclusione e non all’esclusione, e che «in politicis» si traduce in una ricognizione della partecipazione democratica. Perfino la possibilità estrema del dominio della maggioranza degli esclusi, dei più deboli, che non poco preoccupa Nietzsche58, trova la propria ragione nella costanza del ritorno/ ritiro, in quanto il rinvio non si conclude ma lascia sempre aperta la possibilità di una ulteriore nuova configurazione di potenziamento del politico stesso. Ciò è dovuto al carattere attivo-reattivo delle forze, che implica una logica che supera la logica stessa delle forze: come nota Derrida, «la logica della forza rivela, entro la sua logica, una legge più forte di questa sua stessa logica», e ciò spiega perché «Nietzsche è sedotto (intrigato e allarmato) dal modo in cui la reattività determi57. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 224, p. 162. 58. Egli scrive che la lotta «si conclude a svantaggio del forte, del privilegiato, delle felici eccezioni. Le specie non crescono nella perfezione: i deboli tornano sempre a soverchiare i forti – ecco quel che succede, essi sono in gran numero, sono anche più accorti…» (Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit., p. 117).

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na che il più debole divenga il più forte, dal fatto che la più grande debolezza divenga più forte della più grande forza». Il che vuol dire che la forza iniziale può trasformarsi, secondo il moto reattivo che è proprio alla dinamica delle forze, nel suo opposto, cioè in debolezza, con il risultato che quando «Nietzsche accorre in soccorso dei forti perché sono più deboli dei deboli», in un certo senso, «soccorrendo la forza, Nietzsche soccorre la debolezza, una debolezza essenziale». Ne deriva che «si devono difendere i più deboli che sono gravidi di futuro, perché sono loro i più forti», e ciò comporta che «in Nietzsche parlare nel nome del più forte significa anche parlare nel nome del più debole»59. Oggi tutto questo discorso rinnova la sua vitalità nel momento in cui, in un ambito democratico caratterizzato dall’«omogeneizzazione», dal «livellamento medio» e dal «mediocrizzarsi dell’uomo», il rischio che si annuncia è la sottomissione a chi gestisce le condizioni del potere60, quasi si tratti di

59. Derrida J., Nietzsche e la macchina, cit., pp. 43-44, cors. nostro. 60. Il «movimento democratico d’Europa» nasconde «un immenso processo fisiologico» di «omogeneizzazione degli Europei» dovuto al «loro crescente distacco dalle condizioni alle quali devono la loro origine razze vincolate dal punto di vista del clima e delle classi, una loro progressiva indipendenza da ogni milieu determinato», che comporta «la lenta ascesa, quindi, di un tipo umano essenzialmente sovranazionale e nomade». Ora, a partire da ciò, «si verrà a formare un livellamento medio e un mediocrizzarsi dell’uomo – un uomo che è un utile, laborioso, variamente usabile e industre animale da branco», in modo che «la democratizzazione dell’Europa tende alla generazione di un tipo predisposto alla schiavitù nel senso più sottile», di cui potrebbero approfittarsi «uomini d’eccezione, della più pericolosa e ammaliante qualità» generati, per converso, dalle identiche condizioni che determinano il sorgere dell’altro “tipo” di umanità. In questo senso, «la democratizzazione dell’Europa è al tempo stesso un’involontaria organizzazione per l’allevamento di tiranni – intendendo questa parola in ogni senso, anche in quello più spirituale» (Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 242, pp. 154-155).

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un «provvido e venerabile “sopra” in rapporto ad un “sotto” avvezzo alla modestia»61, e dunque l’esclusione dei più dal potere stesso. La causa di ciò è il venir meno dell’uguaglianza differenziata, della singolarità, dell’unicità, dell’eccedenza: si delinea così una volontà di potenza normata, che incorpora le differenze e le sottopone al comando che proviene dalla centralizzazione del potere (come, per certi versi, mutatis mutandis, avveniva nel Moderno). L’affermarsi dell’«animale da branco» rappresenta lo snaturamento dell’idea di volontà di potenza, che di per sé è affermazione singolare, autoimplementazione, Überhöhung continua, e che trova invece nella massificazione la propria degenerazione, a causa dell’intercambiabilità a cui sono soggetti gli individui sottoposti ad atomizzazione numerica. A venire soppresso è l’anelito differenziale a favore dell’indifferenziazione, in modo che il principio di “eguaglianza”, dall’originario significato di “medesima possibilità di accesso alle risorse” in base alle proprie capacità e ai propri meriti, ha finito per assumere quello di equivalenza strutturale, quindi indistinzione e, appunto, intercambiabilità, che nella sfera politica conduce al livellamento verso il basso (come esclusione dall’accesso alla gestione del potere) e alla massificazione. Ad eclissarsi è dunque l’irriducibilità del singolo, la sua inequivalenza, mentre lo snaturamento dell’eguaglianza in chiave di omologazione indifferenziata spinge poi l’individuo a riaffermare la propria specificità in termini di personale interesse utilitaristico, senza riuscire più a coglierne il legame con la situazione generale. Ne consegue un assetto sociale atomizzato e confinato al particolare, estraneo ed ostile all’interesse comune, perché spesso considerato ostacolo a quello individuale. Un assetto sociale disinteressato alla politica e pertanto facilmente governabile. Ed è proprio l’individualizzazione esasperata dell’individuo il fine precipuo di un 61. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 450, p. 249.

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potere che mira alla conservazione di se stesso attraverso l’elisione delle differenze e della loro relazione, che garantisce il consolidarsi dell’esclusione dalla possibilità di accesso ai ruoli di governo poiché impedisce ai singoli di organizzarsi tra loro. L’individualismo conduce, infatti, all’egoismo come reazione alla massificazione, il che fa perdere di vista la relazione e la condivisione della comunanza di futuro, e dunque affievolisce l’interesse per i destini del condiviso e genera ostilità verso la politica, vero obiettivo della spoliticizzazione della società e propedeutico alla conservazione del potere mediante la generalizzazione dell’autoesclusione da esso da parte dei più. In seno a queste derive “egoistiche” dell’orizzonte democratico, consequenziali all’estremizzazione dell’egualitarismo (che Nietzsche aveva già intravisto anche a riguardo del socialismo62), la «volontà di potenza» come autoimplementazione costante e continua della singolarità, forte o debole che sia in base al grado di potenza che riesce a testimoniare, nel segno della propria autoeccedenza, se “riattivata” in maniera nuova (anche rispetto a gran parte della vulgata nietzscheana), e pertanto in maniera inclusiva e non escludente, costituisce una prospettiva imprescindibile al fine di ribadire e riqualificare la differenza insopprimibile degli individui, e riconfigurare così le possibilità dell’inclusione. Senza pertanto cedere ingenuamente a seduzioni esegetiche di natura progressista, ma neanche occultando i limiti delle pretese di tipo reazionario ancora ricorrenti, (il che, in entrambi i casi, implicherebbe il far torto all’impianto unpoli-

62. La Fornari rileva infatti che Nietzsche ritiene che «la pretesa di eguali diritti e l’individualismo non si escludono», in modo che il fine del socialismo è «la società come mezzo per rendere possibili molti individui» chiusi dunque nel loro «egoismo individuale» (cfr. Fornari M. C., La morale evolutiva del gregge. Nietzsche legge Spencer e Mill, cit., pp. 310, 309).

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tisch del pensiero nietzscheano), rileviamo la fecondità di una visione impolitica orientata alla celebrazione dell’irriducibile peculiarità del singolo di fronte ai rischi insiti anche nella democrazia rappresentativa, da ripensare (anche andando oltre Nietzsche) in chiave di democrazia realmente partecipativa. Una democrazia come «qualcosa di futuro» in cui l’accento di Nietzsche viene posto sulla «morte dello Stato», laddove però il riferimento critico è rivolto essenzialmente allo Stato nazionale, mentre il filosofo sembra più disponibile a considerare, entro certi margini, la possibilità di un futuro unitario e federato per l’Europa nella sua interezza; osserviamo da vicino.

3. Il «fine dello Stato» Da sempre lo Stato si impone il compito di proteggere gli uomini da se stessi, dalla loro ineludibile conflittualità reciproca (condensata, hobbesianamente, «nel naturale bellum omnium contra omnes»63), mediante la codificazione normativa della relazione primigenia, che la struttura in un sistema di regole volte a depotenziare proprio tale conflittualità e, dunque, a garantire la convivenza di più soggetti nel sistema sociale. Una codificazione che però determina la cristallizzazione della relazione in un sistema di rapporti incentrato sull’omologazione identitaria, con la conseguenza di solidificare, e quindi impedire, il moto di continuo autoampliamento dell’individuo che si nutre della relazione contaminativa con gli altri. Un processo di omologazione dell’identità che la democrazia, come sistema ideale, pone tuttavia in discussione, in quanto prevede la possibilità per il singolo di avanzare le proprie pre63. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte I, n. 10 [I], p. 351.

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tese identitarie rispetto a quelle stabilite dallo Stato. Stato che, pertanto, reagisce, pena la propria sopravvivenza, esasperando il carattere di equivalenza dell’identità nella massificazione egualitaria, facendo sorgere così una dicotomia oppositiva che ha spinto Nietzsche a decretarne «il disprezzo, la decadenza e la morte» come la «missione» della democrazia64 del futuro. In tal modo, le conseguenze paradossali del «riconoscimento» da parte dell’impolitico nietzschiano «della avvenuta perfezione del politico»65, come generale partecipazione della comunità alla politica, concludono con una certa impossibilità della politica democratica nello Stato, a causa dell’accentuarsi dell’individualità da parte dei singoli e, dunque, della difficoltà a riconoscere e a sottostare ai condizionamenti normativi di un più esteso interesse generale a cui si viene subordinati. Ne deriva che, secondo Nietzsche, l’avvenuto isolamento dell’individuo lo porterà a tradurre in politica unicamente il proprio interesse singolare, e ciò determinerà necessariamente il venir meno dello Stato, come sfera istituzionale di configurazione del Bene comune. Laddove è da notarsi che per “Stato” Nietzsche intende, innanzitutto e perlopiù, lo Stato nazionale, in quanto l’incremento degli scambi commerciali relativo al consolidarsi e al diffondersi del capitalismo contribuirà ad un «indebolimento», se non a una vera e propria «distruzione delle nazioni» (Vernichtung der Nationen)66, a favore di «una federazione

64. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 472, pp. 259-260. 65. Cfr. Cacciari M., L’impolitico nietzschiano, cit., pp. 113-115. 66. «L’uomo europeo e la distruzione delle nazioni. Il commercio e l’industria, lo scambio di libri e di lettere, la comunanza di tutta la cultura superiore, il rapido mutar di luogo e di paese, l’odierna vita nomade di tutti coloro che non posseggono terra – queste circostanze portano necessariamente con sé un indebolimento e alla fine una distruzione delle nazioni, per lo meno di quelle europee; sicchè da esse tutte, in seguito ai continui incroci,

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europea (ein europäischer Völkerbund) in cui ogni popolo, delimitato in base a opportunità geografiche, possederà la posizione di un cantone e i particolari diritti di questo»67. Ora, da una parte ciò mostra la lungimiranza di Nietzsche nell’intravedere il profilarsi di un futuro transnazionale dell’Europa68 mentre dall’altra, in qualche modo, lascia aperti margini di discussione intorno alla stessa istituzione statale, da concepirsi però anch’essa in modo nuovo e inedito, e non soltanto per

dovrà nascere una razza mista, quella dell’uomo europeo» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 475, pp. 262-263). 67. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte seconda, n. 292, p. 251. 68. Già ne La gaia scienza il filosofo definisce «piccola» una politica «costretta a volere la perpetuazione degli staterelli d’Europa», che non contempla l’esigenza di essere «buoni europei, gli eredi dell’Europa, i ricchi, stracolmi, ma, anche negli obblighi, smisuratamente ricchi eredi d’un millenario spirito europeo» (Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 377, p. 302). L’esortazione a divenire «buoni Europei» ritorna in diverse opere, come ad es. in Al di là del bene e del male (n. 241, p. 152), e da qui segue la condanna dell’«insania nazionalista» e la sollecitazione a cogliere «i segni meno ambigui in cui la volontà che l’Europa ha di unificarsi si manifesta» (Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 256, p. 171). A dire il vero, il limite europeo non sembra soddisfare appieno il filosofo, come risulta da qualche richiamo ad un carattere «sovraeuropeo» (übereuropäisch) che compare in un frammento postumo del periodo di Al di là del bene e del male (cfr. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1885-1887, cit., n. 2 [36], p. 71), o vari richiami all’Oriente (il cui carattere viene posto in relazione con il Sud) che ricorrono di tanto in tanto, ad indicare che non è solo all’Europa che egli estende la sua analisi, e che tale analisi non ha soltanto un carattere geografico, politico, bensì umano, perché posto in relazione allo Übermensch (cfr. Brusotti M., L’«oltreuomo», il «buon europeo», l’«oltreuropeo», in Totaro F., a cura di, Nietzsche e la provocazione del superuomo. Per un’etica della misura, cit., pp. 29-43). In ogni caso, rilevando tale istanza di superamento del dato geopolitico esistente, Derrida propone la creazione di una «nuova “Internazionale”» che «ascolta la promessa di una “democrazia a venire”» e che forse, nelle sue intenzioni, “getta lo sguardo” fino a valicare i confini dell’Europa (cfr. Derrida J., Nietzsche e la macchina, cit., pp. 60 ss.).

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quanto concerne il suo carattere sovranazionale. Nel suo procedere tortuoso e problematico, spesso contraddittorio, dopo una critica severa del «terribile Stato della violenza e della necessità», Nietzsche afferma anche che «il fine dello Stato è che in esso si possa vivere in modo buono e bello: ossia che esso fornisca la base di una civiltà»69. Ciò sembra suggerire che, come per la democrazia, il filosofo individui anche per lo Stato una qualche distonìa tra il suo reale manifestarsi negli ordinamenti storico-politici e il piano ideale della sua configurazione. Egli non è comunque andato oltre tali riferimenti generici, limitandosi a denunciare la natura essenzialmente “brutale” (perché impositiva) e strumentale dello Stato; proviamo allora noi a sviluppare tali indicazioni, sempre a partire dalle sue riflessioni, in particolare da quanto egli teorizza a riguardo della soggettività, dalla cui difesa il discorso sempre muove. La «politicizzazione totale» presuppone uno scenario comunitario abitato da soggetti preliminarmente definiti rispetto alla relazione che condividono, in quanto espressione autonoma e individuale della volontà di potenza. Tuttavia, il percorso genealogico compiuto da Nietzsche intorno ai categoriali occidentali ridiscute la possibilità di una definitività ultima della strutturazione del “soggetto”. Come abbiamo visto, infatti, la ri-cognizione relazionale del pensiero nietzscheano rivela una visione della singolarità che non preesiste alla relazione con gli altri, ma diviene tale nella relazione e mediante la relazione, in base ad una dinamica interna alle forze vitali che non si conclude mai in una definizione individuale. Nietzsche precisa infatti che «il concetto “individuum” è falso. Questi esseri non

69. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte II, n. 30 [8], p. 338.

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esistono affatto isolatamente»70. Stare nella relazione significa infatti, prima di ogni cosa, esserne della relazione in maniera ininterrotta, così come ininterrotto è il movimento vitale che la sottende, in modo che non è possibile considerare «se stessi come individui unici fissi e costanti»71. Una relazione con l’altro da intendersi in tutte le sue forme72, ma di cui il filosofo sottolinea i tratti eminentemente affermativi, oppositivi e differenziali (come, ad esempio, quelli che contrappongono il “genio” e la massa negli scritti giovanili73) ma la cui valenza, in ogni modo, non viene mai meno, non si conclude in un processo di saturazione e solidificazione. Rispetto a quanto consegnato dalla tradizione, la singolarità nuova a cui Nietzsche fa riferimento non conclude con la sostanza, ma si attesta nella 70. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 34 [123], p. 140. Appaiono pertanto molto discutibili, posto che vi siano stati, eventuali generici influssi stirneriani sul pensiero di Nietzsche (cfr. Laska B. A., Nietzsches iniziale Krise, in “Germanic Notes and Reviews”, vol. 33, n. 2, Fall/Herbst, 2002, pp. 109-133). 71. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 618, p. 293. 72. Anche se più interessato al tema del contrasto e del confronto, il filosofo non trascura di soffermarsi comunque, a più riprese, sulla fenomenologia della relazione intersoggettiva anche nei suoi aspetti non conflittuali, quali l’amicizia, l’amore, la comprensione, il riconoscimento, il rispetto e il dono etc. (cfr. Semerari F., Donare, comprendere, sperimentare. Oltreuomo e alterità in Nietzsche, cit.). 73. Il rapporto conflittuale e oppositivo tra il “genio” e la massa, che si instaura in base a parametri culturali a partire dagli stimoli della grecità, è un tema ricorrente negli scritti giovanili del filosofo (ad es.: «non è certo la massa a produrre l’individuo, anzi essa gli oppone resistenza»: Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte I, n. 8 [59], p. 249). È Campioni a rilevare però che l’iniziale atteggiamento di netta contrapposizione tra l’individuo più dotato, il “genio”, e la comunità cui appartiene, subisce una attenuazione nello sviluppo del pensiero di Nietzsche, in particolare in Umano, troppo umano, «in cui si apre una dialettica profonda […] tra lo spirito libero e il progresso della totalità» (cfr. Campioni G., Individuo e comunità nel giovane Nietzsche, cit., pp. 170 ss.).

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relazione. Relazione che eccede quindi i confini della singolarità “tradizionale” proiettandola all’esterno, nel segno di una eccedenza che non consente al singolo stesso di sentirsi compiuto e appagato né riguardo alla propria identità, né riguardo a quella dell’altro, configurando dunque l’identità stessa in seno ad una intersezione continua di transito del senso garantita dal carattere attivo-reattivo delle forze. La relazione tra le volontà di potenza singolari confligge così con la visione di un Io irrelato e avulso dalla relazione con l’alterità rispetto alla quale esso stesso si definisce. La realtà sociale è connotata da una pluralità di forze in costante tensione per affermarsi, cioè interpretare e interpretarsi, in modo che la singolarità appare come il risultato mutevole di un sistema di contrasti perennemente indirizzato all’affermazione così come esposto alla negazione da parte dell’altro, a cui si cerca di opporsi: «l’uomo è una forza che resiste: in relazione a tutte le altre forze»74. Il raggiungimento del proprio grado di potenza che in modo apparentemente duraturo costituisce il delinearsi orientativo dell’identità, si esprime pertanto in termini non autonomi né ultimativi, poiché sottoposto perennemente alle sollecitazioni che provengono dalla relazione affermativa verso gli altri e da parte degli altri. È l’eterno ritorno a porsi come la ri-petizione dell’atto di consunzione dell’identità nella differenza, e dunque dell’apertura al rinvio relazionale che delinea la struttura di una identità singolare nuova, eccezionale, una sorta di «identità non identica»75, da concepirsi come un risultato non

74. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1882-1884, cit., parte II, n. 24 [14], p. 318. 75. Curi U., Endiadi. Figure della duplicità, Feltrinelli, Milano, 1995 (Milano, Cortina, 2015²), p. 18 (mutuiamo qui un’espressione utilizzata dal suo Autore in altri contesti, ma che ben ci sembra rendere il punto in questione).

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previsto, quasi come uno “scarto” 76 del moto di autoaffermazione delle volontà, e quindi della tensione attiva e reattiva, interna ed esterna, delle forze di cui lo stesso “individuo” ne è. L’identità permane sempre esposta alla differenza rispetto a sé e agli altri, e si esprime consumandosi e diventando altro da sé, come impone la dottrina della volontà di potenza, che modula la natura dell’uomo nuovo, dello Übermensch, in uno scenario caratterizzato dal «continuo oltrepassamento di sé»77. Di conseguenza, se da una parte appare inibito ogni processo conclusivo ultimo dell’identità, dall’altra emerge che l’archiontologia relazionale a cui il singolo inerisce, e che lo struttura, lo porta a coniugare, seppur diacriticamente, la propria affermazione con il moto di affermazione degli altri, considerandolo come condizione ineludibile, sebbene oppositiva, per contrasto, del proprio sviluppo. Trasponendo questo discorso sul piano politico, ne risulta lenita la dicotomia individuata da Nietzsche tra democrazia e Stato, in quanto la democrazia non necessita della fine dello Stato poiché il singolo rileva nel Bene comune, nel progresso collettivo non un limite, bensì

76. Uno “scarto” che si pone pur sempre in termini affermativi (in rapporto al moto di affermazione delle volontà di potenza), e relativo alla propria autoconsunzione. Non bisogna dimenticare infatti il monito di Deleuze a considerare la distanza di Nietzsche dall’opposizione e dalla contraddizione hegeliana, in cui a prevalere sull’affermazione è la negazione dell’altro da sé, in modo che l’identità si prospetta sempre in negativo. Il filosofo francese insiste invece sul punto che è l’affermazione il moto principale della volontà di potenza, da cui discende, logicamente, la negazione, che mantiene comunque rispetto all’affermazione una potenza minore. 77. «Detto in altri termini: la volontà di potenza supera se stessa, va oltre (über) se stessa. Al contempo, essa trova la sua adeguata realizzazione in un uomo che sappia esprimerne la più autentica essenza e che, anch’egli, vada sempre oltre se stesso e viva del continuo oltrepassamento di sé» (Giovanola B., Nietzsche e il superuomo: volontà di potenza come volontà di misura, cit., p. 137).

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una condizione per il proprio progresso. Si annuncia così una diversa concezione della partecipazione del singolo alla collettività (Campioni), sulla base dell’intrinseca interdipendenza e relazionalità conflittuale del moto affermativo di Überhöhung. L’affermazione singolare è possibile infatti se trova qualcosa contro cui affermarsi, e dunque altre affermazioni, l’affermazione degli altri: non è della pienezza valoriale dell’Idea del Bene che si partecipa, bensì dell’identico moto di autoaffermazione differenziale e oppositivo delle volontà, poiché è nella parità col «nemico» che si può crescere. La «natura forte», spiega infatti Nietzsche, «ha bisogno di resistenza, perciò cerca la resistenza: il pathos aggressivo fa parte necessariamente della forza»; e dato che «la misura della forza di chi attacca ci è data, in certo modo, dal nemico di cui ha bisogno», ne consegue che «la ricerca di un avversario […] più potente rivela sempre una crescita». In tal senso, «il compito non è quello di dominare le resistenze in genere, ma di dominare quelle che fanno ricorrere a tutta la propria forza»78. Ne deriva che, se venisse a mancare un adeguato termine di confronto, verrebbe meno altresì la propria possibilità di crescita. Rispetto ad una diffusa visione del rapporto partecipativo come “comunanza di uno sforzo volto al perseguimento di un fine condiviso”, rileviamo qui una prospettiva nuova e diversa del collettivo politico come spazio di condivisione del conflitto, e se ciò per un verso fornisce la cifra du politique, per l’altro rimodula la partecipazione e l’inclusione in quanto orientata sull’idea che il potenziamento del singolo necessiti del potenziamento dell’altro, poiché è in relazione oppositiva all’affermazione d’autrui, e al rapporto contrastivo che con essa si instaura, che si profila l’affermazione di sé. A essere comune e partecipato è il moto di autoaffermazione, che nella

78. Nietzsche Fr., Ecce Homo, cit., p. 282.

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sua continuità ha però bisogno della parità col «nemico», del contrasto con un moto di identico livello costituito dall’altro, la cui potenza si deve preliminarmente consentire e, nel caso, perfino «aiutare» a raggiungere, al fine di poter proseguire il proprio. Il perseguimento del grado di potenza operato dall’altro diviene così necessario punto di contrasto che consente il proprio moto di autopotenziamento. Ne segue che il singolo non concepisce dialetticamente il proprio bene in opposizione a quello generale, nella consapevolezza che senza lo sviluppo affermativo degli altri, non sarà del tutto possibile neanche il determinarsi del proprio sviluppo. Si intravede così una profonda torsione dei presupposti etici della democrazia, fondati sull’eguaglianza e sullo spirito di collaborazione e di condivisione dell’impegno volto al Bene comune, e pertanto estranei ed ostili ad ogni forma di conflittualità e di antagonismo. Così come, da latitudini ben diverse, parimenti ostile al conflitto è un certo «ottimismo liberale», incentrato sulla tanto pretesa, quanto astratta, natura ideale dell’homo oeconomicus, anch’egli bisognoso della pace sociale per il conseguimento dei propri obiettivi personali. Pur nella differenza di paradigmi e di intenti che le separa, entrambe queste posizioni convergono infatti in una proiezione utilitaristica dello Stato come mezzo per arginare il conflitto intersoggettivo attraverso l’opera di normalizzazione della relazione e del confronto di cui si nutre, che ha però la “controindicazione” di fungere altresì da ostacolo per lo sviluppo del singolo. Approfondendo il discorso nietzscheano, al contrario, lo Stato non si pone come limite per il progresso del singolo, bensì come sua condizione, laddove esso non si impegni a recidere il conflitto in vista di un aprioristico Bene superiore, piuttosto si prefigga di sostenerne e incoraggiarne gli aspetti positivi e fecondi, di cui tale Bene può avvantaggiarsi al punto da trarre da essi la propria configurazione.

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Il pluralismo relazionale e la competizione appaiono infatti come qualcosa di costitutivo dell’orizzonte comunitario, come lo era già «l’agone» per i greci, «il più nobile e fondamentale pensiero greco»79. Spiega Nietzsche che «l’agone è necessario, se si vuol mantenere la salute della città», e ciò motiva perché per i greci «lo scopo dell’educazione agonistica era il benessere della collettività, della società politica»80. In tal guisa, in seno a una visione nuova e «radicale» della democrazia (radical democracy)81, si ha una rimodulazione “agonistica” delle dinamiche democratiche in direzione del Bene comune, nell’ambito del quale, di rimando, soltanto è possibile l’affermazione della potenza singolare che, d’altra parte, di tale Bene risulta essere elemento imprescindibile. Lo Stato, che dell’interesse generale è custode, non viene più a rappresentare un argine per il moto di autoespressione del singolo, in quanto si assume il compito di interpretare l’ineludibile conflitto tra le potenze in ambito democratico, in modo da gestire la fenomenologia dei suoi aspetti costruttivi come orizzonte funzionale anche per quanto concerne il bene individuale, la possibilità di autoaffermarsi. Da tale flusso di rimandi e di compenetrazione tra il bene singolare come autoperfezionamento, e il Bene plurale come orizzonte ed esito di tale Überhöhung generalizzata, ne consegue che la democrazia come «qualcosa di futuro» può e deve garantire l’esistenza dello Stato come «base di una civiltà», laddove si concepisca il potere non come imposizione 79. Nietzsche Fr., Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, cit. (Agone omerico: pp. 245-255). 80. Ivi, pp. 251-252. 81. Cfr. Schrift A. D., Nietzsche, Foucault, Deleuze, and the subject of radical democracy, in “Angelaki. Journal of theoretical humanities”, vol. 5, n. 5, august 2000, pp. 151-161 e Id., Nietzsche for Democracy, in “NietzscheStudien”, XXIX, 2000, pp. 220-233.

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normativa di una eguaglianza indifferenziata (che anche dove riuscisse, risulterà pur sempre momentanea), bensì in seno al processo di interpretazione posto in essere dalle volontà di potenza di cui lo Stato ne è. Il potere non si volge all’imposizione dell’ordine interno e alla codificazione della relazione mediante la fissazione sommaria e generalizzata dell’identità dei suoi membri e la cristallizzazione dei loro rapporti, che implicherebbe sia il disconoscimento della peculiarità degli individui, sia l’eliminazione della produttività vitale della relazione funzionale all’interesse generale, bensì, diversamente, si adopera per creare condizioni tali da non impedire l’autoimplementazione reciproca e continua delle volontà di potenza che lo costituiscono, a cui inerisce. In quest’ottica, lo Stato non si prodiga per “bloccare” centralisticamente il moto continuo di Überhöhung delle volontà nell’identità normata, ma regolamenta e incoraggia l’agone, la competizione tra i singoli, cioè interpreta con misura, si apre alla pluralità della loro relazione declinando il concetto di “eguaglianza” nell’accezione semantica di inequivalente autorealizzazione individuale nel/ del proprio grado di potenza. Esso si attesta pertanto, nel più vero senso democratico, come ciò che crea le condizioni di espressione e di condivisione del medesimo moto agonistico di autopotenziamento che proviene agli uomini dal loro esserne della volontà di potenza, anche se ciò determina esiti differenti in riferimento al diverso grado di potenza raggiungibile da ciascuno in base alla quantità di forze attive e reattive di cui partecipa e, soprattutto, all’impegno che profonde in tale opera di autoperfezionamento. Una differenza di esito che determina così la differenza di diritti conseguibili dal singolo in base al merito: «il torto non sta mai in diritti ineguali, sta nel pretendere “uguali” diritti»82. 82. Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., n. 57, p. 251. Resta inteso che, come vedremo subito, il riferimento meritocratico è relativo alla possibilità di

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Il che non significa che lo Stato si disinteressi del proprio ordine interno. In quanto volontà di potenza, esso interpreta accogliendo la molteplicità e la pluralità delle forze che costituiscono la Gesellschaft, sostenendone e favorendone lo sviluppo in termini di autorealizzazione di potenza, e dunque non ri(con)ducendole in una unità indistinta e indifferenziata, al fine di consentirne il moto di autoregolazione dell’agire nella misura di un bilanciamento delle pulsioni di autoaffermazione che dalla società provengono e in essa si manifestano. Il suo intervento avverrà soltanto nei casi estremi in cui si profili il rischio del venir meno del factum politico, cioè nei casi dell’interruzione del rinvio nella totalizzazione, anche se ciò appare improbabile a causa della capacità del sociale di autoregolarsi «entro il limite della misura» proprio nell’agone. Nel descrivere il valore e «il nocciolo della concezione greca dell’agonismo», Nietzsche spiega infatti che «essa aborrisce il dominio esclusivo e teme i suoi pericoli; essa desidera, come strumento di difesa contro il genio, un secondo genio», e dunque presuppone che «esistano sempre parecchi geni, i quali si stimolino vicendevolmente all’azione e del pari si mantengano vicendevolmente entro il limite della misura»83. In tal guisa, il politico non abdica a favore dell’economico84 se rivolge la sfera

crescita sociale, e non ai diritti basilari dell’individuo. Abbiamo intanto già visto che per l’«uomo d’eccezione» non è «pura cortesia del cuore», bensì un «dovere» trattare «con dita più delicate di quelle con cui tratta se stesso e i suoi pari» i «mediocri», coloro che non riescono ad emergere nonostante l’impegno profuso. 83. Nietzsche Fr., Cinque prefazioni per cinque libri non scritti, cit. (Agone omerico, cit.), p. 251. 84. Non si piega cioè all’interesse di «quei solitari del denaro, veramente internazionali e senza patria, i quali, nella loro mancanza naturale dell’istinto politico, hanno imparato a usare malamente la politica come strumento della Borsa, e a sfruttare lo Stato e la società come apparati per il loro arricchimento» (ivi, Lo Stato greco, cit., p. 234: ci permettiamo di rilevare la

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del diritto al sociale, rispettandone la capacità di autonormarsi tramite «misura». Il tutto secondo una prospettiva che avvicina, a grandi linee, le dinamiche della società a quelle del corpo, in cui la relazione tra i diversi organi si modula verso l’interpretazione e la scelta della configurazione più adatta alla manifestazione della vita in termini di estrinsecazione, esplosione continua e ateleologica, senza richiamare pertanto una dinamica organicistica, conservativa e adattativa, di stampo darwiniano. Nietzsche si muove infatti su posizioni radicitus distanti dalla visione evolutiva della società proposta da Spencer sulla base dell’economia del corpo inteso come “organismo”, cioè come insieme in cui le parti collaborano all’«adattamento»85 alle sollecitazioni dell’ambiente esterno in vista della propria conservazione, da cui deriva una concezione della società modulata secondo parametri che privilegiano il tutto rispetto alla parte, con consequenziale mortificazione dell’individuo e relativa soppressione della sua singolarità. Nella Genealogia della morale il filosofo dissolve tale nesso conservativo tra le parti e il tutto. Nel corpo infatti una parte si relaziona all’altra in termini di affermazione e negazione, in un moto interpretativo sostenuto dagli organi che non giunge ad una conclusione né persegue il fine della conservazione dell’organismo, ma si modula secondo il moto deiscente della vita. La vita del corpo non si pro-

vitale attualità di queste considerazioni a riguardo dell’odierna situazione della finanza globale). 85. Cfr. Nietzsche Fr., Genealogia della morale, cit., p. 278, in cui il filosofo si scaglia contro «l’“adattamento”, vale a dire una attività di second’ordine, una semplice reattività», che ha finito per connotare la vita nella sua interezza, in modo da qualificare «la vita stessa come un intrinseco adattamento, sempre più finalistico, a circostanze esteriori (Herbert Spencer)». Sul tema cfr. di nuovo Fornari M. C., La morale evolutiva del gregge. Nietzsche legge Spencer e Mill, cit., parte seconda.

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duce infatti per conservarsi, ma per estrinsecare, consumare e dissipare la volontà di potenza di cui ne è, in modo che vengono a cadere i presupposti organicistici da cui muove le proprie analisi Spencer. Di conseguenza, per Nietzsche la società non appare composta da elementi che vengono sacrificati per le esigenze di conservazione del tutto, bensì da un insieme molteplice di «quanti di energia» che si relazionano affermandosi contrastivamente e conflittualmente, interpretandosi e interpretando secondo il grado di potenza che riescono a mettere in campo. Potenza interpretativa che il politico riconosce al sociale garantendogli la continua possibilità di rimodulazione del rinvio relazionale tra le molteplici volontà di potenza singolari. In questo modo, ad una concezione della società come ambito di normalizzazione delle differenze in vista della prosecuzione dell’esistenza del tutto, Nietzsche contrappone una visione sociale in cui la pluralità delle volontà di potenza trova, nella possibilità della relazione interpretata, il proprio grado di potenza nella misura dell’autoaffermazione. Ed è in questo quadro democratico di diffusa autorealizzazione delle nuove singolarità che possono altresì emergere le figure più dotate in termini di sviluppo del grado di potenza, «quegli esseri magicamente inafferrabili e impenetrabili, quegli uomini enigmatici, predestinati alla vittoria e alla seduzione»86, i «signori della terra»87: insomma non eroi ma uomini che si distinguono dagli altri uomini in quanto già incarnano il tipo dello Übermensch, e a cui verrà affidato il compito e demandata la responsabilità etica di accogliere, così come il «dono», anche il «dovere»88 della decisione, in un oriz-

86. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 200, p. 98. 87. Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., n. 21, p. 189. 88. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1884-1885, cit., n. 38 [13], pp. 294295.

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zonte politico plurale sideralmente distante dalla venerazione che le masse tributano al «grand’uomo della massa», colui che riesce a incarnare, al ribasso, quella volontà di potenza che la massa riconosce di non avere89. Ne consegue che la democrazia del «futuro» si pone come lo spazio precipuo in cui gli uomini più nobili, quelli maggiormente dotati, i «migliori»90, insomma coloro che incarnano la figura dell’uomo «sintetico», 89. «La massa deve avere l’impressione che ci sia una forza di volontà possente, anzi invincibile, per lo meno deve sembrare che ci sia. Tutti ammirano la volontà forte, perché nessuno ce l’ha […]» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 460, p. 253). 90. Sarebbe infatti tanto “forzato” quanto contraddittorio, e proprio per il percorso sulla singolarità fin qui compiuto, non rilevare che per Nietzsche esiste una differenza tra gli uomini che determina un certo carattere elitario del suo pensiero, ma non in base a qualsivoglia forma di “lignaggio” (come vorrebbe una lettura semplicisticamente aristocratica del suo pensiero) o alla mera forza (ricordiamo che i «migliori» non sono «i più forti»), ma in riferimento al grado di potenza che ciascuno è in grado di esprimere, e alla capacità e all’impegno che tutti, e non dunque aprioristicamente alcuni, profondono o meno nel perfezionarlo. Da ciò deriva la loro attitudine a ricoprire ruoli di governo o altri di minore responsabilità pubblica, e questo motiva l’ammirazione del filosofo per lo «Stato perfetto di Platone» e la divisione dei compiti che esso contempla (cfr. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1869-1874, cit., parte I, n. 10 [I], pp. 356-357). Tuttavia, a differenza di Platone, per Nietzsche la situazione di “dominio” può mutare, in conseguenza del moto attivo-reattivo delle forze, che può trasformare i “deboli” in “forti” e viceversa. In questo senso, l’accento posto sul valore del singolo restituisce alla democrazia un valore meritocratico di cui, paradossalmente, l’egualitarismo indiscriminato la priva. Sarà dunque da questa angolazione che andrà interpretato il ruolo dello Übermensch in una sfera democratica, un uomo nuovo che si sottrae al rischio dell’indifferenziazione rappresentando un continuo «trascendimento» rispetto alla omologazione massificata richiesta dalla configurazione storica della democrazia (cfr. Torengen P. J. M. van, L’«Übermensch» e la democrazia. Ricerca sulla misura in Nietzsche, in Totaro F., a cura di, Nietzsche e la provocazione del superuomo. Per un’etica della misura, cit., pp. 177-192). Sulla demokratia platonica, cfr. Curi U., Per non dimenticare il ritorno. Platone e la democrazia, in Id. e Sini C. (a cura di), Democrazia, Il Poligrafo, Padova, 2001, pp. 11-28.

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«molteplice» e «complementare», ai quali è affidato il compito della ponderazione della pluralità e l’onere della scelta, si affermano nella comunità91 nell’accettare la responsabilità della condivisione, del risultato della messa-in-comune delle volontà di potenza di cui ne sono. E dunque nell’accogliere il gravoso «dono» di decidere, interpretano con misura, cioè con «piena risolutezza del pensare e del ricercare» e altrettanta moderazione nell’agire92, in funzione della prosecuzione del potenziamento generale delle volontà di potenza. A un alto grado di potenza è connesso infatti anche un alto grado di responsabilità, di «dovere», a cui l’uomo che accetta di vivere nell’era del nichilismo non può sottrarsi. Un homo aristocraticus la cui definizione, se sottratta ai pesanti condizionamenti che le derivano da una certa vulgata nietzscheana, rivela così tratti inclusivi e non escludenti poiché, come è stato finemente rilevato, per Nietzsche «essere aristocratici diviene la meta perseguibile per ciascun individuo disposto ad agire come “corda tesa” fra l’esistente e il possibile»93.

91. Sull’evoluzione in Nietzsche del rapporto tra individuo e comunità, prima conflittuale e poi dialettico, di cui supra (nota 73), cfr. ancora Campioni G., Individuo e comunità nel giovane Nietzsche, cit. 92. «Misura. La piena risolutezza del pensare e del ricercare, ossia il libero pensiero divenuto proprietà del carattere, rende moderati nell’agire: giacché indebolisce la cupidigia, trae a sé molta dell’energia disponibile a vantaggio di scopi spirituali e mostra la quasi inutilità o l’inutilità e pericolosità di tutti i mutamenti repentini» (Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 464, p. 255). 93. «Gli sfruttamenti del superuomo compromessi con la cultura nazifascista hanno cavalcato la sua versione selettiva in senso escludente. Se ci si svincola da tale ipoteca restrittiva, essere aristocratici diviene la meta perseguibile per ciascun individuo disposto ad agire come “corda tesa” fra l’esistente e il possibile, curvando l’ordine dei dati secondo una prospettiva di trasformazione creatrice» (Totaro F., Introduzione a Id. a cura di, Nietzsche e la provocazione del superuomo. Per un’etica della misura, cit., pp. 9-18, p. 11).

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Declinare quanto visto in uno scenario politico democratico, come proposta per la contemporaneità, è possibile infatti se si approccia il discorso nietzscheano in chiave di inclusione, e si estende alla possibilità di partecipazione degli esclusi, dei più deboli, di coloro che sono impediti a partecipare della “pienezza” dell’Idea, ma che vanno comunque considerati come elemento nodale di «progressus reale». Si tratta ora quindi di provare a interpretare tutto questo in quadro democratico effettivo, in cui non si verifichi più la separazione tra potere e società. Osserva infatti Nietzsche che «bisogna imparare […] che il governo non è altro che un organo del popolo», e ciò sarà possibile quando apparirà che il governo altro non è che «lo strumento della volontà popolare, non un sopra in paragone a un sotto, ma soltanto una funzione dell’unico sovrano, il popolo»94.

4. Per un nuovo scetticismo: una possibilità per gli esclusi Quanto visto delinea, a livello generale, i margini di una via altra rispetto alla contemporanea dissoluzione del riferimento alla trascendenza e contestuale soluzione immanente del movimento attivo e creativo della società che in politica, soprattutto in ambito partitico, preme invece sulla “teoria” elaborata a partire dalla “pratica”: la tattica. I partiti politici infatti, privati delle varie ideologie operano mettendo a frutto se stessi come organizzazione, e il proprio sapere organizzativo come realtà da offrire alla società in vista di una nuova dialettica base-vertice, scelta-decisione. Quanto più il mondo globalizzato si presenta complesso, tanto più si ritiene che c’è bisogno,

94. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, I, cit., n. 450, p. 249 e n. 472, p. 257.

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come si diceva già tempo fa, di maggiore direzione95. Il “problema” politico viene così demandato interamente alla struttura metafisica posseduta dall’attore della trasformazione96. In Nietzsche, tuttavia, l’invito è quello di considerare lo sguardo plurimo e consapevole dei «cento occhi». E soltanto tenendo insieme i due fattori, il laterale e lo sguardo molteplice, si perviene a recuperare le possibilità politiche della soggettività nuova passando per il valore dell’incredulità, del sospetto riguardo alla ri(con)duzione del significante al significato, che è sì ambiguo, ma comunque operativamente funzionale. L’incredulità è infatti un’ottica che può fornire contributi importanti se assunta per rispondere alla politica come puro agire strategico. In tal guisa una nuova (e «grande») politica diviene veramente pensabile, e non come arte del calcolo degli uomini, (che peraltro sono «incalcolabili», poiché le loro «condizioni di vita sono delicate, multiformi e difficilmente calcolabili»97), e neanche come insieme di regole asettiche e smorte dedotte dalle pratiche “interiorizzate” con fatica nel corso degli anni, bensì laddove il valore si riveste di caratteri

95. Scriveva Tronti, che bisogna operare nel «tempo-ora», che «ricollocato nella storia di lunga durata, ha più potenza di trasformazione di qualunque progetto di società migliore. A condizione che non si pretenda di tutto illuminare con la luce solare della ragione. L’oscuro dei fatti, l’invisibile delle azioni, l’insondabile dei processi, ti stanno davanti e devi coglierli così come sono, nella giusta misura tra coscienza e decisione» (Tronti M., Con le spalle al futuro, Per un altro dizionario politico, Editori Riuniti, Roma, 1992, p. 83). 96. Oggi, in particolare, vince il frontalismo dell’eroe che fonda un partito “monarchico” e ripropone brutalmente, come se i secoli ed i millenni non fossero mai passati per chi vive solo dell’egoismo più becero, l’uomo “nobile” dell’antica Grecia, che è anche “buono” e offre, visto che “siamo un popolo di individualisti, ma creativi”, prosperità a chi è già fuori del bisogno e può sfruttare i doni ricevuti dalla natura e dalla sorte. 97. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 62, p. 68.

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vitali, in modo che il senso del mondo può tornare a mostrarsi in tutta la sua «ricchezza». Ricchezza della vita da non assumersi come egemonia della potenza (Spinoza), ma come polimorfismo semantico proficuo e produttivo del molteplice del reale, a cui l’arte introduce, se si posseggono le condizioni vitali necessarie a recepirlo98. Due aforismi giovanili, il cui contenuto di pensiero è mantenuto da Nietzsche anche nei tempi della maturità, ci immettono sulla via che porta alla riflessione del filosofo sul mondo e la sua interpretazione. Il primo spiega che dall’universalità bisogna passare alla verità. Non la verità e la certezza costituiscono l’antitesi del mondo dei dissennati, ma l’universalità e l’obbligatorietà universalmente imposta di una credenza, insomma la non arbitrarietà del giudicare. E il più grande lavoro degli uomini fino ad oggi fu quello di mettersi d’accordo gli uni cogli altri su moltissime cose e d’imporsi una legge dell’armonia – indifferenti al fatto che queste fossero vere o false. Tale è la regola disciplinatrice della mente che ha conservato l’umanità, ma gli istinti contrari sono ancor sempre così potenti che in fondo è lecito parlare dell’avvenire dell’umanità con scarsa fiducia. Continuamente indietreggia e si altera l’immagine delle cose, e forse a partire da oggi maggiormente e più rapidamente che mai; proprio gli spiriti più eletti continuano a recalcitrare contro quella obbligatorietà universalmente imposta: i ricercatori della verità in prima fila!99.

98. «Il sobrio, lo stanco, l’esaurito, l’inaridito (per esempio un erudito) non può concepire assolutamente niente dell’arte, non avendo la forza artistica primigenia, l’urgere della ricchezza: chi non può dare, non può neppure ricevere nulla» (Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [102], pp. 50-51). 99. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 76, p. 100.

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Ne deriva, e lo sappiamo, che il soggetto “va in crisi”, «non è niente che produca effetto, ma solo una finzione»100 che lascia al suo posto un numero infinito di prospettive conoscitive che partono da altrettanti individui determinati, «esseri che formano rappresentazioni, pensano, vogliono, sentono»101. Il soggetto cede il posto all’uomo che agisce assumendo la molteplicità di prospettive di cui ne è. Il secondo aforisma ci rimanda così alla figura mitica di «Argo dai cento occhi». Chi, dopo lunga esercitazione in quest’arte del viaggiare, è diventato un Argo dai cento occhi, accompagnerà alla fine dappertutto la sua Io – voglio dire il suo ego – e riscoprirà, in Egitto e in Grecia, in Bisanzio e in Roma, in Francia e in Germania, nel tempo dei popoli nomadi o di quelli stabili, nel Rinascimento e nella Riforma, in patria e all’estero, anzi in mare, bosco, pianta e montagna, le avventure di viaggio di questo ego divenente e trasformato102.

Ciò che Nietzsche pensa vale, oltre che per il suo tempo afflitto dal gregarismo, per noi e per il nostro tempo in cui l’affiliazione passa attraverso la manipolazione potente del segno, e risulta perciò sempre non come effetto di semplice adesione, ma come conseguenza del ritorno dell’azione del soggetto sul reale, come espressione di una qualche volontà di potenza (questa volta sì) intesa come comando, imperio, che si impone soprattutto verso chi è privo di difese, verso coloro che non hanno ancora un posto definito nella società: gli esclusi. Se infatti colui che è integrato è già padrone delle modalità per collegare oggetto e significato, assumendolo come segno della propria interiorità, l’escluso è invece condannato a interpre-

100. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [91], p. 41. 101. Nietzsche Fr., Frammenti postumi, 1885-1887, n. 2 [152], p. 127. 102. Nietzsche Fr., Umano, troppo umano, II, cit., parte prima, n. 223, pp. 87-88.

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tare, è «gettato» nell’interpretazione. L’interpretazione non è qui il trastullo che per l’adulto acculturato ha il vantaggio di essere sempre nuovo, ma una necessità di vita: il luogo in cui l’uomo si pone, in opposizione ad ogni e qualsiasi heideggerismo, come “essere per la vita”. Ritroviamo una costante preoccupazione nietzscheana: quella della vita vissuta come recupero del proprio mondo, che si oppone ad ogni “strategia dell’anima” perché all’orizzonte della palude non si sfugge, e bisogna imparare ad abitarne la distanza, cercando in esso, ove vi siano, amici e alleati. Il recupero del valore del mondo è il recupero di ciò che si è fatto e, in particolare di ciò che si può fare, e questo non può mai prescindere da una interpretazione del mondo, non può ridursi a rimandare questioni nel futuro e porsi così in contrasto con chi tali questioni non è in grado neanche di scorgere. La risposta pretende la conoscenza, perché non deve rimuovere dubbi ed ostacoli, ma ordinare e organizzare il reale, e impostare problemi da affidare al lavoro futuro. Politica è, in questo senso, sempre trascendenza immanente, non come riferimento ad un mondo altro, bensì come portato naturale del pensiero che opera sempre in modo funzionale ed esterno al darsi delle cose, come utilizzo di abilità specifiche nel guardare al futuro, nell’intenzionarlo restando nel mondo. Al centro della filosofia nietzscheana troviamo l’esortazione a pensare relazionalmente e dunque a sentire e a vedere «da cento occhi». Il futuro si offre senza che venga più preteso un prezzo troppo alto. Naturalmente non tutto è “a portata di mano”, non tutto è nell’orizzonte del singolo, ma la sua possibilità si apre quando si comincia dalla “parte”. Si ripropone il valore paradigmatico dell’incredulità come premessa per una rinascita dell’invenzione del pensiero dovunque umiliato dalla tattica e dalla preponderanza e prepotenza delle pratiche. Il nostro è infatti il tempo dell’incredulità perché, dopo la le-

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zione dell’Illuminismo, ha fatto propria la volontà di verità, di sapere, volontà che non è uguale al “guazzabuglio” tanto caro all’attuale postmoderno, e che sarebbe fieramente avversato da Nietzsche. L’incredulità può produrre una grande idea? Sì, se non si combatte l’opposto, ad esempio il Cristianesimo, «nell’intento di distruggerlo, ma solo per por fine alla sua tirannia e sgombrare il campo per nuovi ideali, per ideali più robusti…»103. Sì, se non si vede l’operare degli esclusi come un tentativo di sostituire, bensì di riproporre nella politica l’orizzonte dei limiti. L’incredulità perciò non è “dire” tante cose sempre nei luoghi deputati, ma stimolare a raccogliere dovunque contributi per il proprio progetto. Portare l’anello di Gige di platonica memoria, ma non più per farne lo strumento di una sostituzione a proprio favore degli elementi del potere, ma per sottrarre quest’ultimo all’orizzonte della sua invisibilità, a cui rimane legata anche oggi ogni teoria mitica (anche se si pretende disincantata) del potere. Il pensiero di colui che è escluso è carico di sospetto, di incredulità, e della necessità di reinterpretare ogni cosa, e deve mirare a partecipare alla politica perché soltanto in questo modo essa può muoversi, può sperare cioè di «sommuovere» le pratiche consegnate in eterno alla palude culturale, rassegnate a trovare motivazione nella distanza dall’avversario. Ma che cosa, in sostanza, si deve vedere? Dove il postmoderno parla del nostro tempo condizionato dalla infinita pluralità informativa offerta dalla tecnica, Nietzsche ci parla di una «esplosione» di forze attive che, nel relazionarsi, si esprimono in molteplici prospettive e che dunque pretendono e inaugurano, come le volontà, molteplici contenuti e direzioni. Egli ci parla di un nuovo scetticismo, quale «scetticismo della virilità temeraria», scetticismo che «disprezza e

103. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 10 [117], p. 167.

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cionondimeno attira a sé; scava e prende possesso; non crede in nulla, ma non si perde in ciò; offre allo spirito una prodigiosa libertà, eppure raffrena severamente il cuore»104. Si tratta del punto di vista del «doppio determinato», che assegna ad ogni momento attivo il suo valore ed il suo ruolo, le possibilità e i limiti. Il doppio non trova la validità nella suggestione del Nulla e dell’Estremo (Bataille), bensì del desiderio di conoscenza dell’uomo. In quest’anima non dimora alcun disinteresse; ma, piuttosto, un sé bramoso di tutto, che vorrebbe vedere attraverso molti individui come attraverso i suoi stessi occhi e mercé loro vorrebbe afferrare, come per mezzo delle sue stesse mani – un sé che va sempre a riprendersi anche tutto il passato che niente vuole perdere di quel che potrebbe appartenergli105.

Non siamo quindi ai «flussi libidinali» di cui bisogna incoraggiare, direbbe Lyotard, la «divagazione errante»106. Così come non abbiamo a che fare con il ritorno del «divagamento ferino» di vichiana memoria, ma ci troviamo di fronte a un uomo «molteplice» e plurale che nella sua funzione è «un potere che ordina, semplifica, falsifica, separa artificialmente», ma anche uomo «sintetico» che opera in vista di una verità che è «volontà di padroneggiare la molteplicità delle sensazioni»107, dove è da ribadire fortemente il valore plurale e ordinatore della sensazione. I simulacri vincono nella moda, ma non nella vita. E infatti la filosofia, dopo la temporanea “ubriacatura” di visioni onnicom-

104. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 209, p. 116. 105. Nietzsche Fr., La gaia scienza, cit., n. 249, pp. 181-182. 106. Lyotard J.F., Dérive à partir de Marx et de Freud, Unions Generale d’Éditions, Paris, 1973; tr. it. A partire da Marx e Freud: decostruzione e economia dell’opera, Multhipla, Milano, 1979, p. 159. 107. Nietzsche Fr., Frammenti postumi 1887-1888, cit., n. 9 [89], p. 40.

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prensive e totalizzanti, ritorna a pensare il pensiero, ritorna alle pratiche specifiche, alle sintesi, come dice Nietzsche, nel pensiero. E tuttavia dimentica, ancora una volta, l’incredulità, che rimane impensata e se ne perde insieme il rovesciamento diretto e automatico e quello mediato, possibile sulla politica. Incredulità che era già stata individuata da Platone come lo strumento più adatto alla volontà di potere, e che mostra un volto più consono all’oggi, se però nell’affrontarla si compie un passo indietro, fino a Socrate. Socrate infatti può aiutare in tale compito, se si recupera il senso reale della sua filosofia innovativa. Al tempo di Socrate, tra uomini tutti quanti di istinti infiacchiti, tra i vecchi Ateniesi conservatori, che si lasciavano andare – «verso la felicità», come essi dicevano, verso il piacere, stando a quel che facevano – e che nello stesso tempo continuavano ad aver sempre sulle labbra le antiche magniloquenti parole, alle quali da un pezzo la loro vita non dava più a essi alcun diritto, era forse necessaria l’ironia per la grandezza dell’anima, quella socratica, maliziosa sicurezza del vecchio medico e del plebeo, che sezionava spietatamente la sua stessa carne, come la carne e il cuore dei «nobili», con uno sguardo il cui linguaggio sonava in maniera abbastanza perspicua: «Lasciate andare le vostre finzioni dinanzi a me! Qui – noi siamo uguali»108.

Sarà così necessario passare all’uomo che, muovendosi al di là del bene e del male, si scopre «signore delle proprie virtù, ricco quant’altri mai di volontà; questo appunto deve chiamarsi grandezza»109. Per l’individuo educato da Zarathustra il nostro tempo offre le navi più adatte per attraversare nella sua estensione il mare dell’interiorità. E in effetti il pensiero ha ormai scoperto un percorso alternativo rispetto al passato (non arcai108. Nietzsche Fr., Al di là del bene e del male, cit., n. 212, p. 121. 109. Ivi, p. 122.

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co): non muovendo dall’individuo, tramite la persona, ai valori, anche se decentrati, e poi, di fatto, alla tattica, ma da ciò che intenziona il movimento, il nuovo che si riempie di rapporti, rimandi, relazioni, tessiture, interferenze e intersezioni. Oltre l’ideale dell’oggi, bisogna essere nobili per se stessi. Dinnanzi a un mondo delle «idee moderne», che vorrebbe confinare in un angolo e in una «specializzazione», un filosofo, ove mai oggi un filosofo potesse esistere, sarebbe costretto a porre la grandezza dell’uomo, l’idea di «grandezza» proprio nella sua vastità e multiformità, nel suo essere intero in molte cose: determinerebbe persino il valore e il rango, a seconda di quali e quante cose uno sia in grado di sopportare e di riassumere sopra di sé, a seconda del limite fino al quale uno può tendere la sua responsabilità110.

In questa ottica, la ricerca che ognuno conduce su se stesso confligge con una visione totalizzante dell’uomo politico come “tiranno” e lo costringe ad aprire, alla lunga ed alla fine, il suo palazzotto irto di bastioni e di guardie corazzate. Per quanto concerne ancora la filosofia, essa nasce nella città come dimensione economica di produzione e consumo di relazioni sociali, paradigmi consumistici e culturali, nonché «vetrina del conflitto»111. È la città che porta ai comportamenti individuali, agli spazi imponderabili del consumo singolare delle offerte che provengono dalla società, e al pensiero inteso come avventura in terra straniera in cui, come è stato detto, «attraversare un mondo ostile, percorrere un itinerario obbligato, dominando i passaggi, tenendo in pugno l’insieme, badando a serbare per sé e a nascondere agli altri il colpo d’oc-

110. Ivi, p. 121. 111. Tronti M., Il destino della politica, in Bolaffi A., Ilardi M. (a cura di), Fine della politica?, Editori Riuniti, Roma, 1986, pp. 15-24, p. 21.

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chio complessivo della propria ricerca»112. Il discorso diviene quindi denuncia e non analisi, mentre è solo quest’ultima che consente l’impostazione dei problemi e la loro risoluzione. Si elude così, o si sfiora appena, il terreno del potere e la sua invisibilità. La democrazia, che secondo Tronti si oppone all’Uomo (alla persona umana in generale) e non si radica, invece, nella difesa del diritto alla vita, del diritto d’esistenza per tutti, va assunta come potere «inerente […] a un rapporto sociale determinato»113, come arte di tenere insieme «discussione e decisione, passione e disciplina, militanza vera e vera dirigenza»114. Tuttavia, da questa visione della politica come arte e come scienza, che intende recuperare gli insegnamenti della storia («molta storia va messa nella politica di oggi»115) consegue un ragionamento tanto serrato quanto incompleto. Nello specifico, si distinguono nell’idea del Partito, dai termini funzionali da cui è nato, quelli umanistici. Il partito che nasce in Inghilterra è un organismo funzionale che difende gli interessi “di parte”. È un luogo di lotta che si trascina all’infinito, e quello che una parte non realizza viene addebitato, con disinvoltura che porta allo scoperto il cinismo (spesso ammantato di linguaggio volutamente religioso) di chi opera in questo contesto, alle colpe dell’altro fronte. Il partito di Lenin nasce con intenti diversi, eppure anch’esso diventa una Chiesa. Questo perché Lenin sostiene i professionisti della politica (che già sono scelti, e dunque separati) e nello stesso tempo favorisce il superamento di ogni posizione di parte favorendo i processi di riconoscimento e di identificazione in esso da parte delle moltitudini. La contraddizione della prassi “buona” sorge al112. Ivi, p. 23. 113. Tronti M., Il tempo della politica, Editori Riuniti, Roma, 1980, p. 96. 114. Ivi, p. 101. 115. Tronti M., Con le spalle al futuro, cit., p. 54.

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lora tra le mosse dei dirigenti e il peso delle masse. In questa direzione si rilegge l’intera vicenda del socialismo in Russia: la paura del frazionismo, la paura del numero, il problema del ricambio dei dirigenti, il bisogno di indottrinare i giovani116. Tali convinzioni vengono ripetute in ogni occasione da intellettuali che affermano di volere più “direttori di coscienza”, e vengono importate di peso in Italia, dove si lascia intendere che i dirigenti, con la loro pletora di “fedeli” pensatori, nobilitati da Gramsci e strappati al loro ghetto tradizionale, siano tutti “sosia” di Lenin. Si tratta di eroi capaci di «costeggiare l’abisso», di gestire lo stato d’eccezione che «è l’inferno dove si decidono i rapporti di forza per un lungo periodo a venire»117, in grado quindi di partecipare «dell’umano e del divino in tutta la loro tremenda bellezza»118. Rinasce il filosofo-eroe di memoria platonica, che come l’Angelo si oppone all’uomo comune: «Dio concede il tempo all’uomo, perché per sua natura diveniente, affinché possa ri-vedere le proprie scelte, ma costringe l’Angelo ad un solo, irreversibile aut-aut. Dopo quell’istante la figura dell’Angelo sembra decisa in eterno»119. Ma come l’angelo e l’uomo procedono su binari diversi, lo stesso avviene in politica, per l’eroe ed il popolo. Ora, il valore di questa “analisi” si può mettere facilmente alla prova. Il socialismo giunge, a causa della sua fedeltà al materialismo, ad un punto in cui non può più andare avanti, ad una contraddizione reale, ad una pratica il cui principio non 116. Nota Procacci: «ricapitoliamo: a mano a mano che esso (il partito) allargava la sua base di massa e affondava le sue radici nella società, il partito serrava ulteriormente le sue file, acquisiva una dimensione pedagogica e veniva elaborata un’ideologia ufficiale di partito» (Procacci G., Il partito nell’Unione Sovietica, 1917-1945, Laterza, Bari, 1974, p. 114). 117. Tronti M., Il tempo della politica, cit., p. 41. 118. Cacciari M., Geo-filosofia dell’Europa, Adelphi, Milano, 1994, p. 98. 119. Cacciari M., L’Angelo necessario, cit., p. 104.

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può essere universale, mentre tuttavia l’obiettivo si pretende universale. La via d’uscita non si scorge né è sufficiente individuarla in una struttura qualunque che abbia la forma della democrazia, il soggetto (la scienza metafisicizzata) che sarebbe valido per tutti in maniera indistinta. L’organizzazione verticale mima sempre il mondo antico e, oggi, quello del capitale e della finanza, che allineano in modo tradizionale i passaggi della prassi politica ed i momenti del suo portatore (successo= valore= diritto= visibilità= eroicizzazione= mito). Già in Hegel aveva fatto la sua apparizione il «quarto potere» che, riunendo amministratori, burocrati e classe media, rappresenta il punto di vista di “coloro che sanno”: la conclusione è la separazione della politica. Come si vede, il problema non diviene mai quello del bisogno di raccogliere il diverso, di includere l’escluso, senza però curarlo semplicemente, senza poterlo più costringere a Unità mondana o ultraterrena, ma accentuandone l’erramento, lo sradicamento, la distanza, l’esclusione. L’attenzione si sofferma sempre sul rapporto tra operare esistenziale delle masse e ruolo sostanziale dei dirigenti. Il primo è da intendersi come «infinito gioco delle parti»120, mentre il secondo si delineerà, di conseguenza, attenendosi a principi derivati dalle filosofie della “domanda personale”, che riconducono ogni problematica sociale moderna entro l’orizzonte del senso, e leggono le risposte a quelle problematiche non in chiave funzionale, ma contemplativa: non per il valore determinato, ma in rapporto ai bisogni dell’anima che aspira alla pace e cerca armonie. Nel riferirsi dunque al contesto determinato del pensare, appare che il partito politico moderno diventa luogo di investimento di speranze che vanno oltre le garanzie che offre lo Stato moderno con il suo sistema dei diritti. Il partito si pone contro lo Stato e ne chiede il deperimento. Esso, dal canto suo pretende riconoscimenti per i suoi sacrifi120. Ivi, p. 52.

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ci. La volontà democratica entra in conflitto immediato con se stessa nello svolgimento del suo compito. Si stabilisce, di fatto, una disuguaglianza tra chi fa e chi invece riceve o si muove a ridosso del moto principale. La conclusione è che lo smarrimento rilevato nelle città non nasce dalla perdita dei luoghi, ma dalla non corrispondenza tra aspettative promosse in campo politico dall’esistenza del partito e delusione delle stesse per le difficoltà obiettive del movimento che dovrebbe corrispondervi, nonché per l’inadeguatezza delle persone, sedicenti eroiche, chiamate a condurre il movimento. Il filosofo “pigliatutto”, come il Dulcamara di Donizetti, individua subito la soluzione e se il male è anche in Dio, il modo di superarlo si trova sempre121. D’altra parte, con l’incredulità i bisogni dell’anima si trasformano nel diventare adulti, ed il mondo umano si apre fino ad includere nel proprio orizzonte quello della natura (e della palude), dell’aspettativa di una vita ricca e felice, in modo che il mondo si colora di scene non previste né prima prevedibili: l’Eroe non è

121. Il male dice Pareyson, che non sdegna di citare Nietzsche, si vince con la sofferenza. L’essere è «libertà», uomo è il rapporto con l’essere, è «questo rapporto», e «la sofferenza vince il male». In un pensiero capace di affondare le sue sonde fino al momento dell’«Inizio», e in grado di risalire al momento anteriore alla creazione dell’uomo fino a vedere che «con la sua caduta l’uomo ha ridestato nella positività divina quella negatività che, vinta e soggiogata, qui perdurava dormiente», con il risultato di scoprire il «segreto dell’essere», non può rimanere celato il valore della sofferenza che è «l’energia nascosta del mondo», e rimediare al dramma della caduta, vero «cataclisma per il mondo». Tutto è risolto, e il reale ridiviene razionale, anche se non proprio al modo hegeliano, in quanto ora diviene necessaria una dose di spirito tragico. Questa soluzione non può soddisfare chi non è avvezzo a «discorsi temerari» e a frequentare il «carattere abissale» della libertà, la malvagità sconfinata dell’uomo e la sofferenza soltanto per l’aspetto del suo significato e non del suo essere (cfr. Pareyson L., Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino, 1995, in particolare pp. 11, 10, 70, 260-271).

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più ridotto all’umano dal “cameriere” perché questo è “cameriere”, ma solo perché possedendo, unico al mondo fuori del mito, l’anello di Gige, conosce i retroscena del Padrone e del Potere. Cessa di essere martire «colui che si proibisce l’ascesi, colui che si proibisce immagini di redenzione e di Ordnung, sia essa mondana che sovramondana»122 per diventare sospetto, responsabile o complice di quanto l’uomo antico ha escogitato e ricoperto di «mistero» per impadronirsi del potere, del discorso «d’autorità»123. Diversamente, e in opposizione a questo quadro, si deve assumere come programma della democrazia come «qualcosa di futuro» l’architrave relazionale rinvenibile negli scritti di Nietzsche, che oggi potremmo declinare in una terminologia più recente, come archi-ontologia dell’«essere-in-comune»124 della potenza. In tal senso, partecipare non significa più entrare nelle camere riposte del re, vederne la moglie nuda e ucciderlo per sposarla, in quanto ciò che il mito (in quanto “mito”, dunque costruito a posteriori) non può dire è che la moglie del re fa orrore quanto lui: anche le sue mani gentili grondano di sangue. Altresì, desiderare la luna è insensato, ma lo è anche aspettarsene, in chiave cooptativa, una porzione dalle persone sbagliate. Partecipare significa invece divenire parte di un movimento laterale, orizzontale, che agisce nella produzione materiale, nella connessione concreta di materialità e idealità del lavoro, alla luce dei doni naturali e con il fine

122. Sabbadini S., Massimo Cacciari: intransitabili utopie, in “Nuova Corrente”, n. 78, 1979, pp. 203-211, p. 207. 123. Kristeva J., La rivoluzione del linguaggio poetico, cit., p. 443. 124. Nancy J.-L., La comparution in Id./Bailly J.-C., La comparution (politique à venir), Christian Bourgois Editeur, Paris, 1991, pp. 49-100; tr. it. La comparizione (Dall’esistenza del “comunismo” alla comunità dell’“esistenza”), in Zanardi M. (a cura di), Politica, tr. it. Cronopio, Napoli, 1993, pp. 11-58, p. 47.

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di andare oltre il dato senza bisogno di “riconoscimento”, ma con le proprie opere in mano. Non rinunciare all’aspetto moderno e democratico del mondo moderno, ma volgerlo verso un approfondimento del ricambio da affidare non alla “base”, ma ad un criterio di valore effettivo. La vita nella palude comporta infatti non solo volontà di potenza intesa come autoimplementazione, autoaffermazione di sé, ma anche come autoproduzione, onde il vivente opera in un continuo cointeressamento a sé, alla propria consapevolezza. In quest’ambito, l’uomo si specifica in seno alla totalità dei suoi atti, che si afferma insieme alle altre ricerche di affermazione in riferimento alla coniugazione personale della situazione spirituale e sociale effettiva, per rimestare un universo di discorso politico stantio e “ributtante”, con i suoi innesti e prestiti di negazione e cambiamento operativo. E allora, veramente, si potrà dire che il presente non appare come «mero campo dei vincitori, da cui […] la giustizia sia sempre costretta a fuggire»125. Anche chi è debole e perde, secondo Nietzsche, costituisce momento di trasformazione e di abbattimento dei forti nei loro salotti. Né è detto che di ciò non si possa cominciare a fare teoria perché parlare degli esclusi e della loro ottica sociale significa ormai parlare di alcune dimensioni, la critica, la teoria e la pratica, tutte collocabili oltre l’orizzonte dello sradicamento e comprensibili proprio al suo opposto. Per ciò che concerne la critica, si deve rilevare che l’appropriarsi del tema del rischio da parte dell’eroe e del suo cantore (e poi teorizzatore) è l’estremo momento in cui la prevaricazione passa dalla prassi alla teoria, dal fatto alla sua riduzione a valore, dal luogo della necessità nel mondo primitivo (della palude originaria) all’ideologia di quello sviluppato. Chi rischia veramente in questo mondo è soltanto chi è animale 125. Cacciari M., L’Angelo necessario, cit., p. 87.

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“implume”, che non si colloca dentro il movimento del tempo in cui vive. Il suo rischio è ben più grande, costante e assillante, del rischio dell’eroe: è l’orizzonte di chi non nasce eroe e non comincia da subito a “strozzare serpenti”, ma non per questo risulta improduttivo ed estraneo all’«orizzonte dei segni e del lavoro umano»126: può essere pienamente se stesso solo nel (possibile) futuro. Riguardo alla teoria, invece, si deve fare riferimento alla coscienza nei termini impostati secondo il parametro del vedere «da cento occhi»: come passaggio dalla retorica interessata alla logica, o dall’incredulità alla conoscenza. Come presenza cioè dell’uomo all’interno di un mondo dato che ha già il suo senso nella vita del processo sociale, processo da cui soltanto con estrema fatica e dopo ripetuti tentativi di inserimento attivo nella “laboriosità universale” ci si estranea o ci si sradica (per disperazione). In tal senso il libro non esprime più il racconto delle gesta che l’eroe-guerriero consegna all’eroe-cantore affinché quello abbia forma e «sempre voce»127. Non racconta più il «ritorno dell’eroe», la «reinserzione, dopo il colloquio con l’inesprimibile e il silenzio di fronte alla trascendenza»128, e neanche il confronto con il Nulla, col presunto intorpidimento generale delle coscienze, onde si rende ineludibile la funzione della veglia, dello sguardo attento e continuo, attraverso l’impellenza della domanda, attraverso cioè quello che hanno già cominciato a dire le donne, coniugando in modo nuovo il pensiero dell’ardire con il rifiuto della prevaricazione. La ragione discorsiva insegue e raggiunge gesti e parole per rilevare energia e renderla disponibile per il pensiero, e

126. Ivi, p. 528. 127. Cacciari M., L’Angelo necessario, cit., p. 99. 128. Paci E., Dall’esistenzialismo al relazionismo, D’Anna, Messina-Firenze, 1957, p. 327.

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per non disperderla nel mondo. Si persegue, tuttavia, soltanto un discorso preciso e verificabile, l’inserimento della pratica sociale, del “noi” come sfida all’interno di una geografia di rimandi e relazioni. A tal fine la ragione deve radicarsi nella sfera reale della vita, il suo orizzonte primordiale, la palude. La riflessione non mette capo solo all’ascolto dell’interiorità, al suo arricchimento; non è necessariamente un ripiegamento della vita che dal nulla «sempre ritornante, [intende] passare all’essere»129, alla ricerca di «armonie non ancora realizzate», non è «fede in un’infinita possibilità positiva»130: non è mai eroica, ma realistica. Ciò spiega perché qualcosa di questo radicamento nel vissuto trapela nella gnoseologia, in modo che la sensibilità viene estesa ai bisogni. È per questo che la ragione è individuale, e muovendosi tra società e scienza, può lavorare per trasformare il contesto sociale. La ragione conoscitiva rispetto a quella significativa non privilegia la sintesi: non vuole ricondurre la vita alla totalità delle intenzioni, dei programmi. Ogni individuo in processo, è inizio se non altro di se stesso, e si muove, non può non muoversi contro la subordinazione a chi ha capito: «la subordinazione ad una “politica” (o ad una “cultura, il che è lo stesso”) separata, esterna, patrimonio di chi “ha capito” gli interessi storici e può illuminare gli oppressi»131. Il libro parla ovunque della ristrutturazione in corso, di infinite e interminabili ristrutturazioni. Non siamo però ancora a ciò che può saldare la critica con la conoscenza in modo reale, consentendo la verifica: l’esperienza come luogo reale delle opere e dei giorni e come tentativo generalizzato di sottrarsi

129. Ivi, p. 326. 130. Ivi, p. 345. 131. Di Paola F., Marx, la Heller e i nostri bisogni, in “Ombre rosse”, n. 9/10, 1975, pp. 5-24, p. 23.

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al rischio a cui espone ogni nascita. Ora, in ogni testo il senso non può essere autonomizzato e staccato dal soggetto, ma è necessario che «se ne analizzi il processo di produzione insieme col soggetto»132. Giungiamo così, infine, alla pratica, per la quale si può parlare del mondo solo andando oltre il luogo dei “gesti minimi”. Ciò che non è eroico e conclusivo può essere visto invece come reticolato di eventi, di pensieri, di comunicazioni133. Si ripresenta pertanto lo «spazio del possibile come luogo legittimo per rivolgere domande alle teorie»134, non come estrema risorsa delle teorie, ma come sospetto verso le stesse. Tra topologia e topografia una indicazione sul soggetto e sulla sua “invenzione” viene dai vecchi discorsi135. La molteplicità dei dialetti

132. Kristeva J., Semanalisi: condizioni d’ una semiotica scientifica, in “Nuova Corrente”, n. 59, 1972, pp. 237-266, p. 239. 133. Riconoscere una «topologia della ragione», spiega Papi, significa «riconoscere una teoria o una conoscenza per quello che è nella sua dispersione rispetto ad altri mondi, ma nella realtà organizzata del suo sistema» (Papi F., Sulla razionalità filosofica e le topologie della ragione (appunti), in “Materiali filosofici”, n. 2/3, 1979, pp. 113-143, p. 140). 134. Ivi, p. 134. 135. «I “nuovi percorsi della soggettività” sono ancora un tracciato troppo primordiale per poter prevedere la topografia dei possibili incroci, svincoli e punti di arresto ed anche per potersi ridurre ad un itinerario troppo esclusivo che percorra la strada a ritroso. E sia chiaro che non è qui in gioco la salvezza, la sopravvivenza del soggetto, bensì la sua invenzione; giammai, comunque, la sua destituzione o la sua sostituzione con un vagheggiante feticcio. La strada che porta a questo nuovo tracciato della soggettività passa certo trasversalmente e contraddittoriamente per i luoghi classici della teoria e della pratica individuale e collettiva, esaltandone i limiti e le inadeguatezze storiche, e in tale attraversamento utilizza sollecitazioni diverse che stanno nella crisi, ma non cancella ogni direzione affermando con autorità il carattere inesorabilmente positivo della fuga» (Stabile G., «Nuove» e «vecchie» forme di «razionalità», in “Ombre rosse”, n. 29, 1979, pp. 108-116, p. 113).

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si può opporre ai linguaggi. È questo lo spazio a cui conduce il bivio di Eracle, elemento caratterizzante la paidéia di ogni tempo e che ancora oggi, malgrado le scienze novecentesche, riporta il discorso umanistico entro la cornice dualistica del causale e del dipendente, del primo e del secondo piano, del maschile e del femminile, della morte (e della gloria) e della vita. Il bivio di Eracle è incentrato sulla necessità di fare i conti con la Legge e con la Virtù. Perciò la prassi va ricondotta nel paesaggio “moralizzato”. Le vie percorribili sono soltanto due, sempre colorate emotivamente: la trasgressione e l’appartenenza. Misconoscere proprio ciò che è costitutivo dell’umano: l’ethos del trascendimento. Ma, al di là della retorica, in esso c’è solo il ritorno della violenza. L’uomo che diventa adulto ripete, come dice Saba, quello che ha appreso136. L’identica furia incosciente si trova nell’Iliade, quando Agamennone «gettò Pisandro a terra,/ colpendolo al petto con l’asta; quello cadde rovescio./ Ippoloco saltò giù, ed egli a terra l’uccise,/ tagliando le braccia con la spada, troncandogli il collo;/ e come un tronco lo spinse a rotolar tra la folla»137. È sufficiente fuoruscire dalla gabbia di questa paidéia e dai suoi necrofori, dalla vecchia canzone da organetto della violenza gratuita, senza però pretendere di uscire nel vuoto, nel vero, perché si offra la guida del Nord e del Sud per passare

136. «La sua vita era tutta un trar di sorti,/ un vario/ volger di casi. E non più solitario/ perditore, in un canto ora piangeva./ Col suo nemico il suo male volgeva/in riso./ Né come di vantarsi egli era usato,/ seppe di un colpo le catene frangere,/ con cui l’aveva il destino servile/legato;/ ma i nodi a lui dolorosi, pian piano,/ con cauta più che violenta mano/ a disciogliere apprese, ed altri in vece/ sua vi legava. Era ancora schiavo in parte,/ e in parte/ padrone. E a molti d’ubbidire fece/ apprendere l’arte » (Saba U., L’uomo (1928), vv.148-164). 137. Omero, Iliade, L. XI, vv.143-147.

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alla vita, all’innovazione creativa, capace di ulteriore innovazione.

5. Per concludere: con Nietzsche, nel futuro Nello spazio liberato dall’ideologia dei sedicenti eroi e riportato alla palude in cui vivono gli uomini, il nuovo si configura come mondo in attesa di voce: è silenzio. Il nuovo non può essere una sublimazione spiritualistica del vecchio, una corsa risoluta verso l’integrazione. Il compito è quello di trovare l’“incastro” materialistico e razionale della trascendenza con la prassi molteplice e relazionale. Non si tratta più per nessuno di vincere il mondo, né di perseguire strenuamente la costituzione del nuovo. Il nuovo e il vero non costituiscono l’artificio che mantiene in piedi la natura, ma lo è l’infante. I discorsi non sono più due in attesa di essere ri(con)dotti all’ordine dell’Uno, ma la prassi e la voce che si riproducono all’infinito, che nascono all’infinito. Questo è l’inedito dato di partenza: la differenza tra l’antico ed il moderno, il mondo degli adulti e quello dei giovani. Poi seguono le mosse, i gesti, i movimenti costituenti del vero mondano, a cominciare dalla prassi, con tutta la sua paradossalità. Su questa base, che non è la più radicale, poiché non arriva alla presenza o all’essere che è un dover-essere», non arriva al «vicino» che, come abbiamo visto, è in Nietzsche il più importante, ma almeno è vera, si può andare oltre, verso un nuovo soggetto singolare già plurale (Nancy). Ogni operazione è uno spostamento. Ognuno costituisce, infatti, un percorso: più che avere un percorso, è un percorso. Ma tutto questo resta astratto, finché la voce non obiettiva la presenza. Alla fine ci ritroviamo in una “rete di segni” in cui iniziano le vicende individuali, il materialismo, la storia, ed oggi la Krisis,

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che non viene studiata ma vissuta in modo paradossale (vivendo dentro di essa e dovendo, nello stesso tempo, cercare di padroneggiarla, dominarla) e perciò all’apparenza offrendo solo esempi di sradicamento. Il nuovo invece questa volta si vede non più nell’appartenenza, nella distanza che non si pone come semplice rifiuto, ma nello svolgimento con l’uomo e per l’uomo, e non tra il nulla e il tutto. Ciò che è dei giovani, e di ogni infante, non solo è vero, è il suo proprio ma, nella misura in cui riesce ad esprimersi, appartiene anche agli altri. Lungi dal sostanziarsi della saggezza-riflessione degli adulti, il giovane offre sempre del suo al mondo della maturità e del sapere consolidato. Se, come dice Merleau-Ponty, nelle case in cui nasce un bimbo «tutto muta», il discorso si può (e si deve) spingere là dove il bimbo finisce col portarsi crescendo e unendosi agli altri: nella città e nella politica. Il problema che si pone, ormai, è che però nella città non rimane niente, «nulla vi è in essa di custodibile con cura»138, ma concerne la modalità inedita del suo modello di cambiamento che, come ogni cosa fortemente osteggiata e repressa, non può che mostrarsi tendenzialmente per quello che è, e in questo modo, offrirsi all’uomo e alla cultura. Nel concludere questo percorso intorno a Nietzsche, rimane così da prendere in esame il “senso storico” della contrapposizione che il filosofo instaura, per sé e per i posteri, tra punto di vista plurale, il punto di vista dei «cento occhi», e l’orizzonte dell’intellettuale di professione, che invece privilegia una visione del reale come Spirito, secondo un’ottica nostalgica dominata da grandi Verità, ed il ruolo dell’intuizione-contrapposizione, capace di far emergere un’ottica teoretica (un rapporto idea-natura che non è più quello tra forma e contenuto,

138. Cfr. Cacciari M., Passaggio fuori dal labirinto, in “Rinascita”, n. 22, 1981.

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di partecipazione tra cose e idee, ma tra molteplice e relativa ipotesi di unificazione) che dovrebbe incarnare lo Zeitgeist per essere all’altezza di sempre «nuove verità». Tronti sostiene che «il primo Novecento è il luogo di nascita del nuovo nomos operaio, che calza gli stivali delle sette leghe e spezza il tempo, rivoluzione in atto come accelerazione forzata e salto nella volontà di mutamento, anzi di rovesciamento, del potere»139. Viene indicata qui la strada da percorrere in quanto il mondo nel Novecento si è arricchito non solo in termini di condizioni di vita e di speranze, ma anche in termini di vedute artistiche e filosofiche sul reale. E diverse di queste ultime, a torto o a ragione, si reputano debitrici nei confronti di Nietzsche, anche se in effetti si limitano a riprenderne unicamente la volontà critica, e in una direzione da lui rifiutata in partenza. Trovare il senso del discorso di Nietzsche significa perciò fare chiarezza in questo movimento: risalire al fatto che con la morte di Marx (1883), il crollo psichico di Nietzsche (1889) e il suicidio di Van Gogh (1890), il vecchio mondo ottocentesco scompare e cede tendenzialmente il posto al Novecento, che si indirizza lungo due binari: uno pratico, che si richiama a Marx, ed uno teoretico, che si richiama a Nietzsche. Il Novecento non è infatti soltanto il secolo di Hitler e, di contro, di Lenin e di Mao, il secolo, in sostanza, dell’afflato totalitario, onde si può intendere che la soluzione di tutti i problemi, semplice e chiara, sia racchiusa nel suo contrario, nel suo opposto, il pluralismo, ma è anche il secolo di Simmel e poi di Lukàcs, un secolo quindi che non nasce armato di rispecchiamento, ma della teoria dell’«anima» e delle «forme». Il nuovo secolo è il secolo dell’anima, e di fronte a quest’ultima si deve collocare una corretta ricezione di Nietzsche tale che non si riduca a una semplice assimilazione filosofica, ma

139. Tronti M., Con le spalle al futuro, cit., p. 101.

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rappresenti un contributo al nostro fare. Ciò è possibile però se si segue una strada altra rispetto a quella che opera in vista dell’“inquadramento” del filosofo di Röcken nel nuovo secolo: tentiamo un percorso altro. Con l’inizio del Novecento i sensi diventano sensibilità e non trovano, come si pretende, una opposizione ed un rimedio alla tecnica, ma soltanto un corrispettivo nel linguaggio dell’anima che, di fronte alla tecnica, si crea un proprio mondo. Rispetto a Nietzsche c’è, quantomeno all’inizio, un deciso moto di ritorno al passato, movimento che ormai può essere indagato e messo fruttuosamente alla prova. Al centro di tutto si trova dunque l’anima, così come si può individuare e isolare nella metafisica e nell’arte o nell’arte metafisica: come luogo cioè in cui diventa «interessante la resistenza degli oggetti»140, in cui quindi è difficile ma possibile «decidersi, personalmente e culturalmente, nei confronti dell’estetico»141. In tale ambito è forse possibile rileggere anche Kant, e in questo senso farne un “eroe dello spirito”. Ma anche a voler rimanere legati al concreto, l’individuo resta soltanto il risultato preordinato del sistema, se non la sua cifra più evidente. E se pur l’individuo risulta vincitore nel confronto col proprio destino interiore, o sconfitto nell’orizzonte dell’esterno (della città senza luoghi e punti di riferimento umani), egli appare sempre strutturato in forma unilaterale e spirituale. A soffrire, quando si soffre, è sempre l’anima, afflitta dai sensi di colpa che sorgono non appena, oppure quando essa resta vittima del Gestell, dell’imposizione della tecnica. All’esaltazione della profondità genealogica di Nietzsche si sostituisce così lo slancio verso il cie-

140. Luckàcs G., Naplò-Tagebuch (1910-1911), Akadémiai Kiadó, Budapest, 1981; tr. it. Diario (1910-1911), Adelphi, Milano, 1983, p. 44. 141. Cacciari M., Metafisica della gioventù, in Luckàcs G., Diario (19101911), cit., pp. 69-148, p. 84.

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lo, in modo che osserviamo pertanto il ritorno del paradigma della “sostanza”. Alla decostruzione nietzscheana dell’io si sovrappone la scomposizione dell’anima, con i suoi erramenti nei territori dello stupore e dell’inquietudine. Il filosofo di Röcken appare qui come «lo “spirito libero”, consapevole dell’inconsistenza e della ingannevole fissità della realtà e dei valori, alla ricerca di un uomo nuovo e di una nuova morale. I momenti di questa ricerca si configurano per Nietzsche come un passaggio dall’uomo allo Übermensch»142. Nell’epoca dello “s-velamento dell’essere”, egli diviene così un campione dell’universalità contro l’oggettività che ha invaso anche l’arte. Diviene, in definitiva, un momento della vita dello spirito. E «lo spirito», spiega Musil, «disfa, scompiglia, ristabilisce in un nuovo rapporto. Il bene e il male, il sopra e il sotto non sono per lui concetti scetticamente relativi, bensì membri di una funzione, valori che dipendono dalla concatenazione in cui si trovano…»143. Lo spirito mette ordine, il suo ordine, un ordine dimezzato, un ordine senza pretese, ma che prevale sul reale. In questo modo procede lo spirito europeo, e l’arte si deve muovere a piccoli passi ed è tale solo per gli artisti: ma ciò che è nuovo nell’opera rispetto alla realtà, «ciò che è diverso, lo notano solo l’artista stesso ed il simpatizzante. Essi riconoscono nell’immagine cosa è loro mancato, cosa è loro aleggiato davanti»144.

142. Vigliani A., Musil e gli ordini della realtà, in Morello R. (a cura di), Anima ed esattezza. Letteratura e scienza nella cultura austriaca tra Ottocento e Novecento, Marietti, Genova, 1983, pp. 63-82, p. 65. 143. Ivi, p. 64. A riguardo dell’influsso di Nietzsche su Musil, cfr. Seidler I., L’immagine di Nietzsche, in A.A.V.V., Musil. Anni senza sintesi, Lerici , Cosenza, 1980, pp. 191-218. 144. Gruteich M., L’arte è anarchica, anche i critici lo sono, in A.A.V.V., Teoria e pratiche della critica d’arte, Feltrinelli, Milano, 1978, pp. 181-190, p. 182.

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Si delinea pertanto la figura di un intellettuale che opera «nel mondo del mistero», che si trova «atrocemente e splendidamente ripiegato» sull’interrogativo del senso della verità; di una verità che si manifesta e «non rimuove l’apparenza, dal momento che il manifestarsi della luce, l’esplodere della luce, è percepibile solo come accecamento»145. Un accecamento in cui «si rivela non già la verità, ma l’abisso dell’apparenza come mistero, il mistero di una superficie che è la stessa profondità. Il profondo, infatti, sta nella superficie, vive nel gioco della superficie. Nell’accecamento generale, questo gioco ci diventa, in qualche modo, familiare: si guarda il mistero dell’apparenza con occhi che furono inspiegabilmente abbacinati»146. L’intellettuale è da sempre in lotta con la Sfinge che gli pretende ad ogni costo la verità. Il suo mestiere è il pericolo: rispondere o perire. La vita occupa per lui soltanto il secondo posto nel contesto delle esperienze, e solo come un derivato dalla teoria (effetto dell’ottica speculativa). Il pericolo non sorge però soltanto dal luogo delle pratiche, dove fin dall’antichità «pensatori, nobili e preti» si combattono da eroi, e neppure soltanto dai luoghi della politica dove è pretesa la sottomissione servile alle mode del momento finché esse sono chiaramente vincenti, e nei confronti delle quali si può chiedere più fascismo (fascismo di sinistra), più democrazia (in accordo con la Chiesa), più rivoluzione (gramscismo, allargamento della “questione meridionale”), ma soprattutto da un potere intellettuale forte che mira a escludere, a mettere “fuori gioco”. Così a sinistra la Sfinge-Lukàcs rappresenta il mito come verità che impedisce il passaggio al mondo dell’uomo, rende cioè impossibile all’intellettuale l’invenzione.

145. Masini F., Verità dell’apparenza, in A.A.V.V., La verità, Feltrinelli, Milano, 1980, pp. 24-29, p. 28. 146. Ibidem.

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Al fine del recupero della possibilità dell’inclusione, sarà allora a Nietzsche che bisognerà rivolgersi, nel cui pensiero è possibile leggere le premesse, le motivazioni, le istanze della condizione contemporanea. La filosofia corre però il rischio di chiudersi, poiché il nichilismo non è un giuoco, né un frutto del caso: almeno così egli pensa, e in tal senso ci invita a pensare. E qui si ferma il suo discorso, che si può sempre riprendere e approfondire, ma non condurre oltre i suoi limiti, che riguardano una certa incomprensione di fondo del suo presente storico, di quanto nel suo tempo si stava preparando, ma che conferisce all’incredulità un aspetto determinato e produttivo, non solo intellettuale ma diffuso, e che resta ancora tutto da esplorare. In particolare, quanto visto si riflette non soltanto sulla concezione dell’uomo, ma anche su quella del giovane al quale, in quanto Zwischen, non si riconosce non solo una “configurazione ontologica” specifica, ma perfino una struttura razionale definita. Egli non può essere che coscienza o incoscienza, padronanza o mancanza della stessa, oppure «eterna domanda», infans che può «fare esperienza senza mai averla»147. In tal modo, tra la disapprovazione del 1977, relativa alla «perdita di materialismo»148 da parte dei giovani, e allo sconforto generato dalle loro «forme di coscienza», che non coincidono con la «razionalità politica nuova, orientata alla introduzione e progressiva espansione del lavoro concreto nel processo produttivo non meno che negli apparati della riproduzione»149 poiché, in

147. Agamben G., Infanzia e storia, Einaudi, Torino, 1978, p. 18. 148. D’Alema M., Le esperienze, gli orientamenti e i comportamenti politici delle nuove generazioni, in ISTITUTO GRAMSCI, La crisi della società italiana e le nuove generazioni, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 31-58, p. 75. 149. Vacca G., Vecchio e nuovo nella formazione della coscienza socialista dei giovani, ivi, pp. 99-143, p. 139.

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definitiva, non sono adulti a tutti gli effetti, si deve giungere nel 1986 allo spettro della fine della politica e da qui ripartire per un cammino scabroso, irto di pericoli e ancora tutto da definire. Prima ancora di approdare alla Città come causa di ogni malessere, il pensiero trova già le sue risposte ampiamente significative. In seno a questo schema, in effetti, la figura giovanile non esprime ragione perché non possiede vita, ma solo un affacciarsi sregolato alla stessa. Uno slancio che non ha né inizio e né compimento visibili e isolabili. Non si può trovare il materialismo «sul posto», là dove l’indagine muove concretamente i suoi passi, se esso è già presente come elemento fondamentale della vita. Il materialismo non può essere recuperato come «stato di emotività» che si apparenta poi al dolore, che avvinghia l’individuo, uomo e animale, da ogni parte, perché ciò è conseguenza di un “pensare” che si protende inutilmente, cioè a-posteriori, verso il “vedere”. Lo stesso pensiero pedagogico, là dove si vuole post-moderno, parla sempre della difficoltà di unificare i saperi e mai della necessità di una nuova figura del ragazzo e del giovane. Di rimando, ogni deroga dal vecchio ordine appare soltanto congiunturale, riconducibile, secondo la terminologia di Tronti, non alla «teoria» ma alla «storia», ed il giovane è da assumere come tale nel progetto sociale: indica solo se stesso, è tautologico, è simbolo di volontà di rinnovamento presso gli altri che rimangono gli artefici del tutto. Tale accanirsi sul progetto, manifesta un riferimento non tanto oscuro né invisibile, al mondo dei giovani e delle speranze; ha le sue conseguenze dirette sul loro problema. L’uomo come spirito è un “enigma”, ma anche il mondo dei giovani diventa un enigma. E infatti viene approcciato in termini di “anime”, di “incomprensione” o di «estraneità ultraterrena» che regna

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«nei loro pensieri e nelle loro opere150. Traduce i rapporti tra generazioni in quello tra padri e figli, il tutto diviene complesso. Nella nuova figura del maestro l’insegnamento non è solo un sapere da trasmettere ma, come è stato rilevato, è «al tempo stesso un’origine, un processo che non rimanda al di là e al di fuori di se stesso e che, nel medesimo tempo, nella sua attuazione e performatività, si costituisce anche come modello e iniziazione di procedure di pensiero e di pratiche di linguaggio. Anche qui si produce una duplicazione all’interno di una condizione che è tutta immanente, per cui ciò che il maestro fa è al tempo stesso un’esemplarità. Per cui ciò che il maestro compie nel suo insegnamento produce l’eco di una ragione esemplare che non sussiste però al di fuori del suo compimento»151. Ma l’allievo non può fare altro che passare, al modo del passato, dall’inautenticità all’autenticità, in un movimento che muove all’ortodossia. Così il discepolo «lascia cadere l’immagine o la rappresentazione dell’insegnamento del maestro nella propria mente, dove ora essa imprime intransitivamente uno stampo o un modello di come procedere, di come andare avanti, di come formulare giudizi, trarre inferenze, stabilire connessioni simboliche»152. Anche qui il giovane si vuole “unificato” solo quando e se possiede «un luogo e un ruolo reali nei quali esprimere a pieno titolo la propria identità ed il proprio essere»153.

150. Gargani A. G., Scienza, letteratura e civilizzazione, in Morello R. (a cura di), Anima ed esattezza Letteratura e scienza nella cultura austriaca tra Ottocento e Novecento, Marietti, Genova, 1983, pp. 34-52, p. 43. 151. Gargani A. G., La figura del maestro. Esemplarità, autenticità e inautenticità, in Vattimo G., Filosofia ’94, Laterza, Roma-Bari, 1995, pp. 15-35, p. 18. 152. Ibidem. 153. Rauty R., Percorsi e linguaggi metropolitani, in “Democrazia e diritto”, n. 4-5, luglio-ottobre 1989, anno XXIX, pp. 279-299, p. 290.

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L’unificazione si compie su più piani, ma resta il fatto che la sua concezione resta quella di sempre elaborata dalla tradizione e dalla politica. Il giovane che «mette alla prova se stesso», che viene in chiaro «circa il proprio interno valore», e che quindi ha occasioni «per misurare le forze, per applicarle a un compito, per farle fruttare a uno scopo»154, è solo, e non può essere altro che una figura ipotetica, una “testa di turco” da usare nel combattimento con l’avversario, come strumento astratto di propaganda, non come elemento del proprio progetto, bensì come elemento di una strategia che nel passare alla costituzione pratica diventa surrettizio in quanto il giovane è figlio di un vecchio, un erede di vecchi privilegi: un ennesimo terreno di caccia per la pratica di ogni giorno dove scovare l’“animale” remissivo da allevare come fedele dei “salvatori della patria” che, appena guardati da vicino, suscitano moralmente orrore. Il problema di fondo resta così ancora quello della ragione che impedisce al discorso di sottrarsi alla tradizione ed al massimo riesce a individuare unicamente le proprie difficoltà insolubili, definite come paradossi e con ciò ri-assunte nel cielo della filosofia. Nietzsche insegna però che la ragione non nasce in Grecia come trascrizione sul registro logico delle domande originarie e ambigue del mito, e neanche come precipitato del parlare vivo, ma ben prima, nelle operazioni umane (e non solo puramente biologiche) compiute nell’orizzonte della palude. Essa si pone innanzitutto come ragione pratica, operativa, trasformatrice di relazioni di forze, a cui le domande circa l’origine delle cose si aggiungono per “deragliamento” tipicamente intellettuale, cioè universalizzante, del binario umano primigenio, attraverso poeti e sacerdoti, e trovano poi sistemazione finale dopo la ragione universale propria della scrittura, che

154. Tronti M., Con le spalle al futuro, cit., p. 100.

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consente di nominare in modo non ambiguo l’assente (l’astratto) e dopo la scoperta della lirica, che pone l’orizzonte del senso non solo per i re e per le dinastie, ma anche per ogni singolo155. L’animale ha un solo pensiero, mentre l’uomo ne ha due: uno istintivo ed uno nato sul distacco della ragione dalla natura e 155. Ruggiu insiste sull’importanza, per il costituirsi dell’orizzonte culturale di Parmenide, della «lirica» e del «democraticismo». Parmenide è democratico per la scoperta dell’essere. «L’essere si impone e quindi l’iniziativa è primariamente dell’essere; ma insieme noi siamo momento dell’essere, siamo essere, siamo soggetti alle sue leggi e ai suoi processi; esso stesso in noi si svela e quindi noi in esso ci disgeliamo». E ancora. «L’immagine geometrica della sfera suggerisce una espressione grandiosa del reale, non piatta e uniforme, ma animata da un consesso di enti ciascuno dei quali è perfettamente uguale con ogni altro, poiché ha la medesima potenza e gli stessi diritti di essere. La giustizia dell’essere si fonda su questa perfetta uguaglianza; la giustizia che si esprime come uguaglianza, insieme se ne fa garante». Parmenide si fa dunque garante dell’essere dell’ente, ma non della sua essenza o intimità. (cfr. Ruggiu L., Parmenide, Marsilio, Padova, 1975, pp.: 31-41, 96, 138-140, 198, 272, 317-369). Rossi, d’altra parte, coniuga l’orfismo soggettivistico alla lirica come conquista dell’interiorità e del valore del singolo. Se infatti il primo, rispetto alla religione olimpica, prepara «un rapporto diverso, più irrazionale ma religiosamente più autentico, fra l’uomo e la divinità», la seconda non offre solo modi onde «la cultura possa rispondere alla storia» e creare dei tipi, ma anche di vedere la determinata situazione esistenziale e storica dell’uomo. L’opera infatti offre già «tutte le mediazioni necessarie, le peculiarità e gli errori di prospettiva che fan sì che una situazione sia vista in un certo modo prima che, conseguentemente, vi si risponda in un modo corrispondente». Le tematiche abbandonano la «soggezione alla tradizione non solo contenutistica ma anche espressiva del mito», e cercano il «libero movimento delle idee». Ne nasce «la molteplicità e la varietà d’interessi», la tematica dello sfogo immediato e l’espressione dei sentimenti, che determinano pian piano la differenza degli individui comuni ed il loro diritto alla parola. Il problema del “che fare” diventa così quello del “che pensare”, con le conseguenze immaginabili sul piano del rapporto del pensiero umano all’essere (cfr. Rossi M., Le origini della filosofia greca, Editori Riuniti, Roma, 1984, pp.: 31, 195-196, 214-245).

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dal complesso di relazioni di forze che espone e in cui si espone. Da questo “deragliamento” trae origine la “ragione sostanziale”, che dà a se stessa il proprio contenuto, cioè l’idealismo esclusivo proprio degli eroi dello spirito. Non solo Socrate è un eroe che sa, ma in forma ancora grezza lo è già Edipo, il cui dolore non ha più rapporto con quello che trova sfogo nelle feste dionisiache: non è il non-potere che ha condotto alla rovina lui e la sua città, ma il sapere o la padronanza ancora magica (il destino e non un qualunque sapere lo mette contro il padre) e non ideale (Platone) dell’invisibile. Ora, prendere le mosse dalla comprensione come orizzonte proprio della ragione piuttosto che dalla trasformazione significa voler prendere la parte per il tutto, imporre un discorso “di casta” come orizzonte globale degli uomini. E la stessa violenza esclusiva si opera assegnando alla tecnica (o allo spirito) l’origine e il senso attuale dell’umano, come si vede nella incapacità generalizzata (questa sì, universale) di arrivare a parlare dei giovani. Nella teoria sociale i corpi sociali assumono spessore paradigmatico, e alcuni più rilevanza di altri, tanto da delineare un forma data che però non è mai semplice aggregato di reciprocità, delineazione di giochi oppositivi più o meno drammatici o drammatizzabili, allineamento di figure culturali portatrici di problematiche arcaiche e perciò suggestive, o di “convinzioni” dalle ipotetiche capacità plastiche, ultrapotenti, nei confronti del vivere materiale e storico, bensì contenuto vivente di destini umani che si relazionano e si intersecano, luogo di svolgimento della reale vita eterna. Il reale resta al suo posto, è la concezione che di esso si propone ad essere errata: è sufficiente correggere questa ed il capitale monopolistico (padrone della tecnica), che incarna una convinzione infondata, svolgerà il suo compito correttamente e linearmente, consentendo alla natura le difese necessarie per la sua prosecuzione. La critica non delinea un cammino per il passaggio nel nuovo, ma solo il salto in una fede diversa. Qui il discorso

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politico può ripartire focalizzando luogo della violenza e luogo della non violenza, o della “debolezza” e del cambiamento. La via che si vuole disincantata, e quindi nuova, in effetti, non rimane l’unica possibile, e ritroviamo Nietzsche nella forma che gli è propria, quella della esaltazione della vita e quindi del senso e della molteplicità concreta della prospettiva ideologica della sostituzione. Il nichilismo in lui non si rivela mai a partire dalla presupposizione dello spiritualismo di cui si deve tenere d’occhio il fungere gagliardo o declinante. Non riguarda l’anima e, per suo tramite, la coscienza e la padronanza della totalità, e non può investire allo stesso modo il mondo degli adulti e quello dei giovani. Nei primi diventa infatti ottica operativa (nichilismo «attivo») e nei secondi invece proprio il contrario: diventa istanza di riflessione e di metodo, attenzione rivolta da ogni parte, ad ogni cosa che può essere significativa per la vita. Come afferma Derrida, che gli esclusi siano «gravidi di futuro» Nietzsche lo intuisce, e ciò appare vero laddove se ne individui la possibilità, per l’avvenire, di perpetuare il rinvio del segno, il ritorno del rimando. Oggi tutto questo è confermato perché, rispetto al tempo di Nietzsche, c’è un qualcosa di più, rappresentato dallo sviluppo estremo della tecnica nella tecnologia, che moltiplica in maniera indefinita la possibilità del contatto, del rapporto. A voler ricorrere al vedere «da cento occhi» cui ci esorta Nietzsche, il mondo umano si rivela ancor più per quello che è, un «mondo di relazione». Non basta dialettizzare incanto e disincanto, pensiero negativo e pensiero positivo, destra e sinistra, dogmatismo e antidogmatismo e continuare dentro la filosofia con pensiero forte e pensiero debole, Aion e Kairos, essere ed evento, etc., dove ogni volta da una parte starebbe tutta la verità (sia pure in forma problematica) e dall’altra tutto l’errore. Il rivestire le stesse con la patina del pluralismo,

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quando già è scoperto che «la verità è una pratica finita»156, che è tenuta ad obbedire a regole facilmente rintracciabili e non nel comportamento dei ricercatori, non è altro che bieca difesa dell’interesse personale, di classe o di casta. Se si guarda a queste posizioni teoriche si può dire con Nietzsche: «essi sì che sanno cosa è la verità!», mentre resta fermo per lui che in realtà «i grandi spiriti sono degli scettici». Non lasciamoci indurre in errore: i grandi spiriti sono degli scettici. Zarathustra è uno scettico. La gagliardia, la libertà che nascono dalla forza e dall’eccesso di forza dello spirito sono dimostrate dalla scepsi. Gli uomini della convinzione non sono da prendere in alcuna considerazione per tutto quanto è fondamentale sul valore e sul disvalore. Convinzioni sono carceri. Non vedono abbastanza lontano, non vedono sotto di sé: ma per poter intervenire nel discorso sul valore e il disvalore, si devono vedere cinquecento convinzioni sotto di sé – dietro di sé157.

Il tempo, dopo Nietzsche, è andato avanti in maniera autonoma e repentina, e recuperare da questo contesto spiritualizzato e misticizzato del Novecento (e da ciò che direttamente o indirettamente ne deriva) qualche “brandello” di teoria politica che tenga conto degli esclusi e non della necessità di dialettizzare dimensioni contemplative e dominanti è impresa non semplice, ma possibile. Ci troviamo quindi in condizione di concludere il nostro cammino intorno a Nietzsche. L’aiuto che con il suo pensiero ci offre è di tipo materialistico e storico, e si vede quando egli si pone di fronte agli «indigenti dello spirito» nelle vesti di un «confessore», che vorrebbe vivere «nell’oscurità, e facilmente esposto alle beffe, troppo in basso per destare invidia o inimi-

156. Sini C., Filosofia e scrittura, Laterza, Bari, 1994, p. 149. 157. Nietzsche Fr., L’anticristo, cit., n. 54, p. 241.

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cizia, senza nessuna febbre in testa, con un pugno di sapere per provvista e una borsa ricolma di esperienze, essere per così dire, uno spirituale medico dei poveri e aiutare questo e quello, tra quanti hanno la testa confusa da opinioni, ma senza che costui possa individuare chi lo ha aiutato. Non volere, dinanzi a lui, aver ragione e celebrare vittoria, ma parlargli in modo che, dopo un piccolo impercettibile avvertimento o una contraddizione, egli dica a se stesso il giusto, e fiero di ciò se ne vada»158. Qui non si rinnega l’esperienza e il sapere, ma ci si oppone al suo utilizzo come strumento di dominio. Si valorizza, dietro lo schermo del riferimento al dialogo socratico violento e «tirannico», la ragione che si mostra pertinente nei confronti della presenza e del caso problematico risolvibile, ma anche educata alla e dalla complessità e dolorosità delle vicende umane. La ragione della sostituzione come contromovimento, che trova il proprio contenuto nella reazione, anche se è questa che ad ogni costo vuole combattere, non è ancora materialismo (capacità di portare sullo stesso piano tutti gli elementi che ci danno il mondo), anche se è già umanesimo progressivo. Nietzsche non pone solo l’esigenza di un discorso aperto, ma il valore di un tipo di vita che non si nasconde dietro lo schermo del vero e del falso. Il sistema di Nietzsche si vuole come sistema della ragione ripristinata a cui affida la «grande politica», che va oltre, si distacca dall’altra, da quella cioè che non affonda perché sbaglia, ma sbaglia perché ha perso sicurezza, non sa essere causa vera di quello che fa, non sa trovare la ragione di una iniziativa, la «motivazione». Il «mondo interiore» è colmo di immagini ingannevoli e di fuochi fatui: la volontà è uno di questi. La volontà non muove più nulla, di conseguenza non spiega più nulla – essa accom-

158. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 449, p. 221.

436 pagna sempre semplicemente dei processi, può anche mancare. Il cosiddetto «motivo»: un altro errore. Semplicemente un fenomeno superficiale della coscienza, un concomitante dell’azione, che inoltre nasconde, piuttosto che rappresentarli, gli antecedentia di un’azione. Per non parlare dell’io! Esso è divenuto una favola, una finzione, un giuoco di parole: ha cessato in tutto e per tutto di pensare, di sentire e di volere!… Che cosa ne consegue? Non esistono affatto cause spirituali! Tutta la loro presunta empiria se ne è andata al diavolo159. Quel che è posteriore, la motivazione, viene vissuto per primo, spesso con cento dettagli che svaniscono come in un baleno, segue la detonazione… Che cosa è avvenuto? Le rappresentazioni che vennero generate da un certo stato intimo, sono state erroneamente intese come causa del medesimo160.

Da tutto questo appare che lo spiritualismo novecentesco non è solo equivoco, ma errato. Pure Nietzsche non convince, perché non riesce a cambiare dopo averne teorizzato il bisogno: non siamo «serpenti»161. Da qui una sua certa incomprensione, e la conseguente avversione, per la democrazia storica e il socialismo, che egli si trascina dall’orizzonte familiare e scolastico. E allora egli diviene maestro proprio con l’essere cattivo maestro. Nietzsche si ferma all’incrocio di singolare e universale perché risente, nonostante tutto, dei confini dell’orizzonte culturale di formazione onde doveva risolvere, come Schopenhauer, i problemi dell’essere in quelli del significato, e pretende per il proletariato (le «classi lavoratrici») proprio quel passaggio dall’uno all’altro che era il perno della sua critica alla tradizione: «a che scopo esisti tu individuo? Domandati ciò, e se nessuno te lo può dire, allora tenta di giustificare per così dire a posteriori il senso della tua esistenza, proponendo a 159. Nietzsche Fr., Crepuscolo degli idoli, cit., pp. 86-87. 160. Ivi, p. 88. 161. Nietzsche Fr., Aurora, cit., n. 455, p. 223.

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te stesso un fine, una meta, un “a questo fine”, un alto e nobile “a questo fine”»162. Da qui, da questa veduta giovanile, egli non si distaccherà mai. Se ne conclude che, malgrado tutti i suoi sforzi, la sua meditazione non costituisce affatto l’ultima parola della filosofia, bensì una sua decisa premessa. Per ciò che attiene al discorso attuale sul destino degli esclusi, risulta che l’obiettivo della formazione perseguita sulla base della spiritualizzazione e della costruzione politico-sociale di luoghi «adatti allo spirito» viene prima vissuto, anticipato, come causa, e il discorso si muove sul nulla e nel nulla presentandosi ancora come istanza di fare doveroso, eroicistico. Quel che non c’è deve solo essere voluto, con determinazione: come scelta autentica che conferisce autenticità e prestigio di fronte alle «signore del bel mondo» indicate a suo tempo da Gramsci come aspiranti detentrici del senso del reale. Si circoscrive ogni dato della prassi in un orizzonte spirituale e poi si riconduce l’effetto ad elemento che deve funzionare nella teoria anche come causa, come dato da modificare. A questo punto la ragione è, di contro, uguale all’essere singolare, ma in modo nuovo. La politica è uguale al singolo ma non all’individuum, perché esige la democrazia come «qualcosa di futuro», e dunque il soggetto si scopre singolare nell’essere relazionale, come spazio di esposizione e ritiro continuo du politique, il luogo in cui si attua l’interpretazione e si affermano la relazione e la possibilità del rimando, del rinvio, del ritorno. I giovani trovano compimento in Gramsci e nel partito laddove i problemi della libertas maior opposta alla libertas minor non scompaiono per effetto del disincanto o non appena una qualche teoria riesca a elaborare una nuova veduta culturale capace di solleticare e acquietare gli istinti selvaggi delle «signore del bel mondo», di consentire loro di “realizzare l’essenza”. 162. Nietzsche Fr., Considerazioni inattuali, I-III, cit., p. 147.

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Al contrario, la verità, come ritiene Nietzsche, va in profondità, oltre il vero e il falso, oltre il bene e il male e, sconfinando, si impone.

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Bibliografia

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Indice dei nomi

Agamben, G. 24n, 334n, 427n Agamennone 420 Alfieri, L. 71n Anassimandro, 107n, 112n Angelino, C. 316 Apollo, 73-75 Aristotele, 103, 119n, 163, 337 Ascheim, S. E. 17n Babich, B. E. 55n Bailly, J.-C. 415n Ballabio, E. 314n Banfi, A. 19n, 41n, 48n, 65n Bataille, G. 19n, 36 e n, 374 e n, 408 Baeumler, A. 17n, 109n, 135 Beardsworth, R. 22n Benjamin, W. 242 Benveniste, É. 279 Berkeley, G. 167n Bernoulli, K. A. 366n Berto, C. 18n, 49n Bertram, E. 343n Bizet, G. 274 Blanchot, M. 24n, 276 e n, 277

Bloch, E. 19n Bolaffi, A. 410n Bonesio, L. 19n Braidotti, R. 332n, 334n Brandes, G. 17n Brianese, G. 18n Brusotti, M. 107n, 388n Buccellato, M. 266n Burckhardt, J. 366n Cacciari, M. 19 e n, 24n, 31 e n, 35 e n, 54n, 94 e n, 97n, 102, 251n, 334n, 365n, 370 e n, 387n, 412n, 416n, 417n, 422n, 424n Campioni, G. 14n, 19n, 41n, 43n, 78n, 174n, 247n, 390n, 393, 401n Cantillo, G. 322n Capodivacca, S. 77n, 234n Cartesio (Descartes), R. 50n, 104, 119n, 184n, 247 e n, 263n, 337 Cassirer, E. 278 e n Castaldi Madonna, L. 55n

472 Cavarero, A. 332n Cesare, G. 272 Cesarone, V. 102n Chamberlain, L. 15n, Colli, G. 14n, 18n, 19n, 53n, 54n, 113n, 130n, 131n, 140n, 168n, 172, 185 e n Comerci, N. 24n, 27n, 54n Comerci, V. 288n Commengé, B. 53n, Copernico, N. 243n Cortella, L. 236n Curi, U. 77n, 234n, 321n, 391n, 400n D’Alema, M. 427n Dalmasso, G. 64n, 67n, 315n, 316n Deleuze, G. 14n, 19n, 34n, 41n, 49n, 93 e n, 105n, 120n, 123 e n, 128-132, 144, 235n, 243, 244n, 250n, 266 e n, 323n, 351 e n, 373n, 379n, 392n De Giovanni, B. 334n Demostene, 66 Derrida, J. 19n, 22e n, 24n, 31 e n, 36n, 60 e n, 105n, 106n, 199n, 200n, 270, 296n, 308n, 382, 383n, 388n, 433 D’Iorio, P. 18n, 100n Dionisio, 73-75, 94, 102, 272, 348 Di Paola, F. 418n Donizetti, G. 414 Dulcamara, 414

Epicuro, 68 Eraclito, 68, 73, 74n, 94, 96, 104, 109, 114n, 197, 254n Ercole (Eracle), 80, 420 Eschilo, 66 Esposito, R. 19, 20n, 24n, 40n, 372n Evdokimov, P. N. 295n, 296n Ferraris, M. 18n, 41n, 113n, 128n, 131n, 365n Ferrari Zumbini, M. 19n Feuerbach, L. 70 Fink, E. 94n, 102 e n, 103n, 120n, 251n, 298n, 302n Fornari, M. C. 14n, 204n, 205n, 385n, 398n Förster-Nietzsche, E. 18n Foucault, M. 14n, 19n, 40n, 256n Freud, S. 14n, 234n Galiani, F. 361n Galilei, G. 243n Galli, C. 25n Gargani, A. G. 429 Garroni, E. 27n, 38n Gast, P. (Heinrich Köselitz), 18n, 113n, 130n, 131n, 172, 185 Gentili, C. 107n, 108n, 109n, 113n, 207n, 365n Gerlach, H. M. 15n Gesù Cristo, 74, 76, 303, 348350, 352, 354 Giacobini, B. 376n Giametta, S. 14n, 18n, 41n Gige, 407, 415

473 Giovanola, B. 378n, 392n Glaucone, 287 Gramsci, A. 283 e n, 412, 437 Granier, J. 108n Gritti, R. 27n Gruteich, M 425n Halévy, D. 17n Hegel, G. W. F. 48 e n, 49n, 52n, 59 e n, 73, 82, 83, 92, 119n, 247, 269, 276, 338, 339, 347-349, 351n, 352n, 413 Heidegger, M. 13n, 14n, 30n, 41n, 42, 50n, 56, 96, 102109, 111-115, 117-125 128n, 130n, 134-143, 146-149, 155-157, 159, 171, 172 e n, 178, 181, 185-187, 195n, 197, 199, 207, 208 e n, 217n, 223, 225 e n, 226, 231 e n, 232, 257, 312n, 321n, 337 Hitler, A. 17n, 423 Hjelmslev, L. T. 279 Hume, D. 361n Husserl, E. 251, 339 e n, 342, 345 e n Ilardi, M. 410n Ingravalle, F. 17n Ippoloco, 420 Irigaray, L. 333 e n, 346 e n Janz, C. P. 52n Jaspers, K. 13n, 16n, 35 e n, 41n, 52 e n, 60n, 91n, 168n, 374 Jünger, E. 17n

Kant, I. 14n, 82, 179, 264, 424 Kaufmann, W. 323 e n Kierkegaard, S. 28 e n Klossowski, P. 15n, 184n Kobau, P. 18n, 113n, 131n Korff, W. 113n Kristeva, J. 313n, 415n, 419n Kundera, M. 283 Lacoue Labarthe, P. 34n, 371n Laska, B. A. 390n Le Gal, Y. 330n Leibniz, G. W. 82, 104, 119n Lenin, N. (Ulianov, V. I.), 411, 412, 423 Livorsi, F. 29n Lonzi, C. 346n Losurdo, D. 17n Löwith, K. 13n, 14n, 41n, 108n, 109n, 291n, 327n Lukàcs, G. 17n, 19n, 423, 426 Luporini, C. 334n Lutero, M. 50n, 314 e n Lyotard, J. F. 408 e n Machiavelli, N. 366n Magris, A. 41n Mancini, S. 54n Mann, Th. 35 Manno, M. 260n, 354n Manzoni, A. 282 Maometto, 158 Marcuse, H. 19n Marramao, G. 24n Marx, K. 14n, 269, 423 Mascia, G. 187n Masini, F. 41n, 62n, 243n, 280n, 281n, 426n

474 Masullo, A. 259n Mazzarella, E. 39n, 40n, 57n, 115n, 116n Meazza, C. 213n, 218n, 223n, 228n, 232n Melandri, E. 278 e n Merleau-Ponty, M. 54 e n, 179 e n, 288n, 422 Mill, S. Jh. 205n, 361 e n, Mina, A. 14n Montinari, M. 14n, 18n, 19n, 41n, 113n, 130n, 131n, 140n, 168n, 172, 185 e n Morello, R. 425n, 429n Müller-Lauter, W. 106, 108n, 113n, 120-126, 128, 130132 Münster, A. 17n Musil, R. 425 e n Nancy, J.-L. 24-26, 29 e n, 34n, 215-218, 270n, 371n, 374, 375n, 415n, 421 Napoleone, (B.), 81, 272, 318 Natoli, S. 48n, 237n Negri, A. 236n, 266 e n Occhipinti, M. F. 76n, 93n Odisseo (Ulisse), 80, 81, 272 Oehler, R. 17n Omero, 285, 420n Overbech, F. 361n, 366n Paci, E. 19n, 417n Papi, F. 419n Pareyson, L. 414n Parmenide, 64, 96, 104, 109, 267, 431n

Pascal, B. 119n Penzo, G. 17-19, 41n, 245n Petterlini, A. 323n Pindaro, 66 Piovani, P. 58n Pisandro, 420 Platone, 67, 119n, 158, 237, 267, 273, 310, 341, 400n, 409, 432 Procacci, G. 412n Prometeo, 321 Prospero, M. 27n Pulina, G. 340n Rametta, G. 376n Rancière, J. 24n Raschini, M. A. 62n Rauty, R. 429n Rossi, M. 431n Rossi, R. 366n Rée, P. 204n, 205n Ruggiu, L. 431n Saba, U. 420 e n Sabbadini, S. 415n Safranski, R. 52n San Paolo, 76, 79 Sartori, G. 26n Scheler, M. 300n Schelling, F. 119n Schopenhauer, A. 47, 48 e n, 63, 72, 82, 84, 86, 111, 151, 152 e n, 155n, 156 e n, 167n, 168n, 244, 245 e n, 247, 252 e n, 273, 436 Schrift, A. D. 395n Seidler, I. 425n Semerari, F. 38n, 294n, 390n

475 Severino, E. 50n, 54n, 117n, 118n Simmel, G. 423 Simonide, 51 Sini, C. 237n, 288 e n, 400n, 434n Sloterdijk, P, 28n Smith, G. B. 15n Socrate, 65, 66, 73, 267, 409, 432 Spencer, H. 205n, 398 e n, 399 Spengler, O. 17n Spinoza, B. 254n, 404 Stabile, G. 419n Stegmaier, W. 107n Stein, E. 340 e n Stendhal, (Marie-Henrie Beyle), 361n Sterne, L. 266 Stiegler, B. 40n Taddio, L. 37n Tagliagambe, S. 283n Tocqueville de, A. 205n, 361 e n Torengen, P. J. M. van, 400n Totaro, F. 15n, 39n, 102n, 204n, 294n, 323n, 324n, 376n, 377n, 378n, 388n, 400n, 401n Treves, A. 18n, 113n Tronti, M. 403n, 410n, 411 e n, 412n, 423 e n, 428, 430n Tucidide, 66 Vacca, G. 427n Van Gogh, V. 423 Vattimo, G. 39n, 41n, 57n, 101n, 108n, 111 e n, 114n, 256n, 290n, 296n, 326n, 429n

Venturelli, A. 107n Verrecchia, A. 15n Vico, G. 58 e n, 78 e n, 80, 312 Vigliani, A. 425n Volonté, P. 41n Volpi, F. 34n, 35n, 108n Vozza, M. 56n Wagner, R. 82, 83, 314 Weiss, O. 18n Werner, R. 15n Wittgenstein, L. 38n Zanardi, M. 415n Zarathustra, 90, 102, 107n, 116, 159, 160, 309 e n, 310, 409, 434

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477

Indice

Introduzione

p. 13

I. La vita nella palude

p. 45

II. Nello spazio del ritorno

p. 89

III. L’onda della volontà

p. 163

IV. La verità dei sensi sociali

p. 235

V. L’«elevazione degli uomini»

p. 291

VI. La democrazia come «qualcosa di futuro»

p. 357

Bibliografia

p. 441

Indice dei nomi

p. 471

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Passages | 7

Nietzsche impone alla filosofia un pensiero della relazione che pensa la relazione oggettiva senza cessare di esserne a favore della sostanza, né sorgendo in opposizione dialettica ad essa. Un pensiero della relazione consapevole che è soltanto attraverso “un” pensiero della relazione che la relazione può essere pensata, ma che rifugge tuttavia la tentazione di porsi come “il” pensiero della relazione che si pensa mediante “un” pensiero della relazione. Un pensiero che riconosce così l’impossibilità di porsi come nient’altro che “un” pensiero della relazione, e quindi un pensiero finito che, assumendola, tenta comunque di distanziarsi da tale finitudine, pur permanendo in essa. Quasi un pensiero interno ed esterno a se stesso, poiché nel pensare, e tramite il pensare, prende atto che sta pensando e mette in questione gli strumenti a cui ricorre per pensare. Ciò rinvia alla necessità per la filosofia di vedere «da cento occhi», secondo una traiettoria che dal mondo inorganico e organico raggiunge la socialità umana, in cui la relazione si apre alla sfera della politica. In vista di una democrazia che Nietzsche intende come «qualcosa di futuro», in chiave inclusiva e non escludente.

Nicola Comerci (Tempio Pausania, 1976) è docente di ruolo di filosofia nei licei. Laureato in Filosofia (Roma “La Sapienza”, 1999), dopo un periodo di formazione a Parigi, ha conseguito il dottorato di ricerca in Filosofia e Teoria delle scienze umane nel 2004 (Università di Macerata). Dallo stesso anno, fino al 2011, ha insegnato Filosofia politica all’Università di Sassari, dove svolge attività di ricerca e insegnamento. È autore di diversi articoli e interventi di natura etica e politica in ambito ermeneutico e fenomenologico. Tra le sue pubblicazioni: L’enigma della trascendenza. Riflessi etico-politici dell’alterità (Editori Riuniti, Roma, 2006, a cura di); La deiscenza dell’altro. Intersoggettività e comunità in Merleau-Ponty (Mimesis, Milano, 2008).

€ 14,00

ISBN E-book 9788898694761