Varro: De lingua Latina IX: Introduzione, testo critico, traduzione e commento 9783487422268, 3487422263

Di fronte al naufragio di molte opere grammaticali dell'antichità, il 'De lingua Latina' rappresenta un t

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Table of contents :
SPUDASMATA - Band 167. M. Terenti Varronis - De lingua Latina IX
Impressum
PREMESSA
INTRODUZIONE
I MARCO TERENZIO VARRONE
1.1 Biografia di un erudito
1.2 Le opere
1.3 Il De lingua Latina
1.4 Lo stile
II IL DE LINGUA LATINA NELLA STORIA DELLA LINGUISTICA ANTICA
2.1 La storia della linguistica greca e latina. Problemi e prospettive
2.2 La definizione del concetto di grammatica
2.3 Il contesto storico del pensiero linguistico di Varrone
III IL PROBLEMA DELL’ANALOGIA E IL IX LIBRO DEL DE LINGUA LATINA
3.1 Il concetto di analogia nel pensiero filosofico e scientifico greco. L’origine matematica
3.2 La querelle anomalia-analogia e il ruolo di Varrone
3.3 Il De analogia di Cesare
3.4 Il libro IX del De lingua Latina
IV IL TESTO
4.1 La tradizione manoscritta
4.2 Le edizioni
4.3 Nota al testo
SIGLA
TESTO E TRADUZIONE
‹M. TERENTI VARRONIS - DE LINGUA LATINA - LIBER VIII EXPLICIT. INCIPIT LIBER VIIII›
‹M. TERENZIO VARRONE - LA LINGUA LATINA - FINISCE IL LIBRO OTTAVO. INIZIA IL LIBRO NONO›
COMMENTO
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
INDICE DEI NOMI, DEI VOCABOLI E DEGLI ARGOMENTI NOTEVOLI
SOMMARIO
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Varro: De lingua Latina IX: Introduzione, testo critico, traduzione e commento
 9783487422268, 3487422263

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167

M. Terenti Varronis

De lingua Latina IX

SPUDASMATA BAND 167

Introduzione, testo, traduzione e commento a cura di Antonella Duso

ISBN 978-3-487-15631-6

Grau = Pantone 5497, Rot = Pantone 7427

Angesichts des Verlusts zahlreicher Grammatikwerke der Antike stellt De lingua Latina einen zentralen Mosaikstein in der Geschichte der Linguistik der klassischen Welt dar. Insbesondere im neunten Buch erscheint Varro als überzeugter Verfechter der Analogie, die als wichtigste regulierende Kraft der Sprache bezeichnet wird. Varros argumentatio zeichnet sich durch dichte Abfolgen von als Beweis dienenden exempla aus, die aus verschiedenen Lebens- und Wissensbereichen stammen. Hier finden die ersten wichtigen theoretischen Reflexionen über die Strukturmechanismen der lateinischen Flexions- und Derivationsmorphologie statt. In dieser Edition ist dem lateinischen Text eine umfassende Einleitung vorangestellt. Er wird außerdem von einer italienischen Übersetzung und von einem Kommentar begleitet, der der komplexen polymatheia des «terzo gran lume romano» – wie Petrarca ihn nannte – und der Modernität seiner Auseinandersetzung mit der Sprache und den von ihr aufgeworfenen Fragen Rechnung trägt.

M. Terenti Varronis M. Terenti Varronis · De lingua Latina IX

Di fronte al naufragio di molte opere grammaticali dell’antichità, il De lingua Latina rappresenta un tassello fondamentale nella storia della linguistica del mondo classico. Nel nono libro, in particolare, Varrone si presenta come difensore convinto dell’analogia, intesa come forza predominante e regolatrice del linguaggio. Nell’argumentatio varroniana, caratterizzata da fitte sequenze di exempla probatori tratti da diversi ambiti della realtà e del sapere, trovano spazio le prime importanti riflessioni teoriche sui meccanismi della morfologia flessiva e derivazionale latina. Preceduto da un’ampia introduzione, il testo latino è accompagnato in questa edizione da una traduzione italiana e da un commento che rende conto della complessa polymatheia del «terzo gran lume romano» – come lo definì il Petrarca – e della modernità del suo approccio alla lingua e ai suoi problemi.

De lingua Latina IX Introduzione, testo, traduzione e commento a cura di Antonella Duso

OLMS

(E-Book)

SPUDASMATA Studien zur Klassischen Philologie und ihren Grenzgebieten Begründet von Hildebrecht Hommel und Ernst Zinn Herausgeberinnen Irmgard Männlein-Robert und Anja Wolkenhauer Wissenschaftlicher Beirat Robert Kirstein (Tübingen), Jürgen Leonhardt (Tübingen), Marilena Maniaci (Rom/Cassino), Mischa Meier (Tübingen) und Karla Pollmann (Canterbury) Band 167 M. TERENTI VARRONIS DE LINGUA LATINA IX

2017

GEORG OLMS VERLAG HILDESHEIM · ZÜRICH · NEW YORK

(E-Book)

M. TERENTI VARRONIS DE LINGUA LATINA IX Introduzione, testo, traduzione e commento a cura di Antonella Duso

2017

GEORG OLMS VERLAG HILDESHEIM · ZÜRICH · NEW YORK

(E-Book)

Das Werk ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist ohne Zustimmung des Verlages unzulässig. Das gilt insbesondere für Vervielfältigungen, Übersetzungen, Mikroverfilmungen und die Einspeicherung und Verarbeitung in elektronischen Systemen.

Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.d-nb.de abrufbar.

© Georg Olms Verlag AG, Hildesheim 2017 www.olms.de E-Book Umschlaggestaltung: Inga Günther, Hildesheim Alle Rechte vorbehalten ISBN 978-3-487-42226-8

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PREMESSA

«By reading Varro’s magnum opus without any preconceptions and by attending conscientiously to the sound linguistic science that abounds in it, we have discovered a new Varro». Così, recentemente, uno degli interpreti più rilevanti del De lingua Latina, D.J. Taylor (2015, p. 21), ha riassunto lo stato degli studi su quest’opera a lungo trascurata e che solo negli ultimi decenni ha visto una rivalutazione all’interno della storia della linguistica antica. Dei sei libri superstiti del De lingua Latina, il nono è ancora l’unico privo di commento. La sua importanza strutturale all’interno della triade di libri rivolti a problemi di morfologia nominale e verbale (libri viii-x) e la centralità del concetto di analogia sono solo alcuni tra i principali motivi di interesse che offre. Del tutto inedita è l’idea varroniana di affrontare questioni linguistico-grammaticali in un assetto dialogico, sullo sfondo dell’antica disputa tra analogisti e anomalisti. Lo schema argomentativo della disputatio in utramque partem entro cui si inserisce questo libro, che rappresenta la pars construens a favore dell’analogia (mentre nel libro precedente si erano affrontate le stesse argomentazioni contra analogian), permette a Varrone di analizzare approfonditamente – perché osservati da punti di vista opposti – alcuni processi linguistici fondamentali come la ‘flessione’ e la ‘derivazione’, attraverso le categorie di declinatio naturalis e declinatio voluntaria. Un altro unicum varroniano è il continuo ricorrere nell’argomentazione a schemi numerici, come tripartizioni e quadripartizioni, fino ad arrivare all’uso della proporzione matematica: un espediente che testimonia una precisa volontà di disporre e sistematizzare l’insieme mutevole della lingua in un assetto normativo. La connessione spesso evocata nel De lingua Latina tra regolarità matematica e regolarità flessiva è alla base dell’originale rielaborazione del concetto di analogia da parte del Reatino. Tenendo conto della complessità e varietà di questi piani di lettura, ho ritenuto opportuno premettere al testo e al commento una dettagliata introduzione che inizia con un profilo biobibliografico varroniano necessario a inquadrare il progetto e lo stile del De lingua Latina (cap. i), e prosegue con un’analisi delle principali tappe della linguistica ante-varroniana, in una veloce panoramica dei punti di snodo della storia della linguistica greca

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premessa

e latina (cap. ii). La prospettiva della Quellenforschung si è dimostrata importante per questi libri dell’opus magnum del Reatino, anche se non sempre praticabile per la frammentarietà della produzione grammaticale precedente e coeva. In particolare, l’interpretazione della famosa querelle analogia-anomalia (cap. iii), che tanto rilievo ha avuto nell’antichità (e negli studi del secolo passato), può trovare un nuovo inquadramento grazie alla lettura approfondita di questo nono libro, in cui emerge come obiettivo primario la conciliazione tra le diverse istanze grammaticali della scuola alessandrina e di quella pergamena, nella convinzione che ratio e consuetudo nella lingua coniunctiores sunt inter se quam iei credunt (ix 2). Al centro del presente lavoro, c’è ovviamente il testo, con tutti i problemi che la tradizione manoscritta presuppone (cap. iv). Il testo latino, basato sull’edizione teubneriana di G. Goetz e F. Schoell, viene proposto con una traduzione a fronte e un apparato critico per orientare il lettore tra i molti loci corrupti che purtroppo permangono. Volutamente eterogeneo si presenta il commento, che mira a rendere fruibile l’opera sia ai classicisti interessati ai problemi stilistici e letterari dell’opera varroniana sia ai linguisti interessati alla storia del pensiero grammaticale antico. Molte sono le questioni discusse, in ossequio alla grande varietà di registri stilistici, immagini e contenuti che offre questo testo: basti pensare ad esempio alle innumerevoli serie di exempla scelti a corredo di concetti teorici e tratti dai più disparati ambiti dell’esperienza umana (dall’astronomia all’arte), o al lessico talvolta strettamente tecnico (si pensi alla distinzione infectum/perfectum coniata in questo libro), talvolta invece innervato di reminiscenze poetiche (Lucrezio) o retoriche (Cicerone). Accanto a queste prospettive di lettura si è privilegiata, attraverso l’ausilio interpretativo della prospettiva linguistica contemporanea, l’analisi dei passaggi di testo in cui è evidente l’interesse del Reatino non solo per il singolo fenomeno grammaticale, ma anche per la teoria linguistica generale connessa agli altri ambiti del sapere, come dimostrano i numerosi paralleli istituiti tra ratio linguistica e ratio mundi. Infine, è doveroso per me ringraziare qui brevemente tutte le persone che hanno sostenuto questo lavoro, frutto della rielaborazione della mia tesi di dottorato discussa presso l’Università di Udine ormai diversi anni fa. Desidero prima di tutto esprimere la mia gratitudine a Renato Oniga che mi ha suggerito l’idea di lavorare al commento di questo libro del De lingua Latina, incoraggiandomi a cogliere in un testo così complesso mo-

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premessa

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dernissime intuizioni e basi concettuali della linguistica moderna, e che ha seguito con pazienza tutte le fasi della revisione. Sono fortemente grata poi a Gianluigi Baldo che sempre mi ha sostenuto in questo ambito della ricerca e consigliato in momenti decisivi. Ho trovato un prezioso aiuto nella competenza di Martina Elice che generosamente mi ha assistito nella fase di revisione del testo critico: oltre che sulla sua amicizia, ho potuto contare anche sul sostegno delle mie colleghe Tiziana Brolli e Daniela Marrone. In questi anni ho potuto beneficiare dei consigli e dei suggerimenti di latinisti come Claudio Marangoni, Lorenzo Nosarti, Giovanni Ravenna, Maria Veronese; al nome di Romeo Schievenin si accompagna ancora il profondo dolore per il vuoto che ha lasciato. Sono grata per la lettura attenta di alcune parti dell’Introduzione a Stephanos Matthaios e Paolo d’Alessandro; il mio grazie a Peter Guyot e ai revisori della casa editrice Olms che hanno voluto accogliere questo lavoro nella collana Spudasmata. Congedo queste pagine nel ricordo commosso del mio maestro Emilio Pianezzola, che mi ha avviato alla ricerca scientifica e guidato negli anni: non dimenticherò mai i suoi insegnamenti e la sua umanità autentica. Dedico questo libro a mio figlio Giovanni.

Padova, luglio 2017

A.D.

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INTRODUZIONE I MARCO TERENZIO VARRONE

1.1 Biografia di un erudito Marco Terenzio Varrone nasce a Rieti nel 116 a.C. Dopo l’adolescenza nella città nativa1, si trasferisce nella capitale, per completare in modo adeguato gli studi, in particolare quelli letterari, assistendo alle lezioni di Accio ed Elio Stilone (cfr. infra pp. 12 ss. e 39 ss.). Tra l’84 e l’82, Varrone è in Grecia, in parte per motivi culturali (il consueto grand tour letterario-filosofico, che lo porta a conoscere tra gli altri il filosofo accademico Antioco d’Ascalona), in parte per motivi politici (le epurazioni iniziate sotto il consolato di Mario e Cinna nell’86 e dirette contro i conservatori seguaci di Silla, per il quale simpatizzava anche Varrone). Con l’inizio della dittatura sillana (81-80 a.C.), Varrone rientra in patria, per affrontare un altro momento critico della storia di Roma, questa volta al fianco di Pompeo: al suo seguito, Varrone combatte contro Sertorio (76-71) e contro i pirati (67)2, mentre nel 68 arriva ad ottenere la carica più importante della sua carriera politica, la pretura. Mentre è di stanza in Spagna, durante la guerra civile contro Cesare, di fronte alla schiacciante avanzata di quest’ultimo, Varrone sceglie la resa, e dopo la battaglia di Farsalo non resta al Reatino che rimettersi alla clementia Caesaris 3. Non a caso, Varrone dedica al nuovo protagonista della 1

La giovinezza condotta con mezzi modesti nelle campagne della Sabina, nei pressi del monte Cureto, era per Varrone un vanto: mihi puero modica una fuit tunica et toga, sine fasceis calciamenta, ecus sine ephippio, balneum non cotidianum, alveus rarus (Logist. fr. 19 Bol.). Tra le proprietà di famiglia erano le ville di Baia, Tusculo e Cassino, quest’ultima particolarmente favorita da Varrone come luogo di studio (cfr. l’accurata descrizione in rust. iii 5, 8-17). Un fondamentale punto di riferimento per la stesura di queste pagine viene dalla documentazione magistralmente elaborata da Della Corte 19702. 2 Il settore affidato a Varrone era compreso fra la Sicilia e Delo (rust. ii, praef. 6 tum cum piratico bello inter Delum et Siciliam Graeciae classibus praeessem), come confermano le testimonianze di Floro (i 41, 10) e Appiano (Mith. 95). 3 In realtà, vi sono testimonianze di precedenti tentativi diplomatici da parte di Ce-

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introduzione

politica romana, appena proclamato pontifex maximus, le sue Antiquitates rerum divinarum: ne riceve in cambio l’incarico di bibliotecario della prima biblioteca pubblica romana4. Dopo il 47 a.C., Varrone sceglie di uscire dalla scena politica, e dedica gli ultimi vent’anni della sua vita alla produzione letteraria, dando luogo a quell’impressionante lista di opere, che gli procura il titolo di πολυγραφώτατος, coniato non senza malizia da Cicerone (Att. xiii 18, 2)5. A quest’ultimo, con cui condivise molte vicissitudini politiche (dalla militanza con Pompeo ai complessi rapporti con Cesare), fu legato da un rapporto di stima ‘professionale’ che traspare chiaramente dall’epistolario ciceroniano6, unita però a una sostanziale diffidenza che l’Arpinate provava di fronte all’opportunismo politico del Reatino7.

sare di portare dalla propria parte i pompeiani Varrone e Cicerone (cfr. ad es. Cic. Att. ix 6a e ix 16). L’indecisione di Varrone, che – con il precipitare degli eventi si faceva sempre più evidente – viene descritta nei commentari dello stesso Cesare (civ. ii 17 M. Varro in ulteriore Hispania initio cognitis iis rebus, quae sunt in Italia gestae, diffidens Pompeianis rebus, amicissime de Caesare loquebatur praeoccupatum sese legatione ab Cn. Pompeio teneri obstrictum fide necessitudinem quidem sibi nihilo minorem cum Caesare intercedere neque se ignorare quod esset officium legati qui fiduciariam operam optineret quae vires suae quae voluntas erga Caesarem totius provinciae. Haec omnibus ferebat sermonibus neque se in ullam partem movebat), il quale riporta anche la descrizione della resa finale di Varrone e la consegna delle legioni a Cordova (civ. ii 19-20). 4 La dedica deve risalire probabilmente all’autunno del 47, poco prima della nomina a bibliotecario (cfr. Svet. Iul. 44 destinabat … bibliothecas Graecas Latinasque, quas maximas posset publicare data M. Varroni cura comparandarum ac digerendarum; Isid. orig. vi 5, 1 dedit M.Varroni negotium quam maximae bibliothecae constituendae). 5 È solo il primo di una serie di epiteti più o meno lusinghieri coniati in riferimento alla sua impareggiabile scientia: πολυπειρότατος secondo Dionigi d’Alicarnasso (Ant. Rom. ii 21), vir Romanorum eruditissimus per Quintiliano (inst. x 1, 95), accuratissime doctum atque eruditum lo considerava Apuleio (apol. 42). Vd. Cardauns 2001, pp. 83-84. 6 Un riavvicinamento tra i due si verificò dopo che Cicerone – incoraggiato da Attico e da Varrone stesso – si decise a rielaborare gli Academica con l’inserimento del personaggio di Varrone in qualità di sostenitore della tesi di Antioco di Ascalona (Att. xiii 12, 2; xiii 13, 1-3; xiii 14, 1; xiii 16, 1; xiii 18, 1); cfr. Baier 1997, pp. 26-27. Varrone ricambierà questo munus letterario con la dedica parziale del De lingua Latina, vd. infra p. 17. Dal punto di vista politico, come sottolinea Kumaniecki 1962, p. 240, i due si ritrovarono uniti nelle difficoltà conseguenti alla sconfitta di Pompeo a Farsalo, mentre «le lettere successive a questo evento non passarono mai i limiti di una banale cortesia». 7 È celebre la frecciata contenuta in una lettera ad Attico (ii 25, 1), datata ottobre

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Anche l’ennesima evoluzione della situazione politica, con l’assassinio di Cesare, non lo distoglie dalla sua attività di erudito, e nonostante il suo nome figuri nelle liste di proscrizione, riesce a salvarsi grazie all’aiuto di un luogotenente di Antonio, Fufio Caleno, cui dedica uno dei suoi Logistorici. Grazie poi a qualche compromesso, che la sua indole di uomo concreto non disdegna di intrecciare con il partito di Ottaviano, la sua esistenza continua tranquilla fino alla morte, che lo coglie a novant’anni, nel 27 a.C., lo stesso anno in cui Ottaviano assume il titolo di Augusto8. Dopo una vita senza eclatanti eroismi, è forse in quest’ultimo atto, che il personaggio di Varrone si ammanta di un velo di leggenda: «la morte lo colpì quasi novantenne nel suo lectulus lucubratorius, mentre studiava. Quando morì, all’alba dell’Impero, egli era ormai un sopravvissuto, unico superstite di un mondo lontano e superato. Tutti i grandi della sua generazione, Cicerone, Pompeo, Catone Uticense, Cesare erano finiti tragicamente, travolti dal turbine della guerra civile»9.

1.2 Le opere Girolamo, nel tentativo di redigere un catalogo completo delle opere di Varrone, arrivò a elencarne una quarantina, ma dovette desistere di fronte al numero impressionante e all’incertezza dei titoli10. Aggiungendo all’indice

59. Cicerone si lamenta dello scarso sostegno avuto da Varrone nel perorare la sua causa presso Pompeo e Cesare: mirabiliter enim moratus est, dice ironicamente Cicerone, riportando subito dopo l’inizio del v. 448 dell’Andromaca di Euripide ἑλικτὰ καὶ οὐδέν, «pensieri tortuosi e niente», seguito dalla citazione decurtata di una massima che Polinice pronuncia nelle Fenicie al v. 393 («bisogna sopportare le insensatezze di chi ha il potere»); vd. Pianezzola 1984, p. 167 = 2007, p. 157. 8 In quest’ultima fase della sua vita visse appartato dal mondo esterno, intento solo alla scrittura: Terentius autem Varro humanae vitae expleto spatio non annis, quibus saeculi tempus aequavit, quam stilo vivacior fuit; in eodem enim lectulo et spiritus eius et egregiorum operum cursus extinctus est (Val. Max. viii 7, 3). 9 Traglia 1974, p. 9. 10 Com’è noto il catalogo era inserito nell’Epistula ad Paulam, parzialmente riportata da Rufino apol. ii 20. L’intero elenco si è potuto leggere integralmente solo a partire dal 1848, in tre manoscritti della traduzione rufiniana delle Homiliae in Genesim di

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introduzione

geronimiano i titoli di altre opere citate in autori antichi, il Ritschl giunse a elencarne 74 per un’estensione di circa 620 libri. Di questa vastissima produzione, sono giunti a noi solo il De re rustica, intero, neppure un quarto (6 libri, non integri, su 25) del De lingua Latina e frammenti di varia estensione. Un rendiconto complessivo è ovviamente impossibile ed esula dagli intenti del presente volume: tuttavia, non sarà inutile delineare sintenticamente la πολυμάθεια di Varrone in diversi ambiti del sapere, che troverà ampiamente conferma nel corso del commento al ix libro del De lingua Latina in cui si intrecciano conoscenze da molteplici campi del sapere. Tra le opere perdute, possiamo distinguerne alcune sicuramente ascrivibili all’influenza dei maestri Accio ed Elio Stilone, come il De antiquitate litterarum (sulle origini dell’alfabeto latino), dedicato solennemente ad Accio, in omaggio alla sua competenza in campo ortografico11. Alcuni titoli sul teatro arcaico (De originibus scaenicis, De scaenicis actionibus, De actis scaenicis, Quaestiones Plautinae, De comoediis Plautinis, De personis) rimandano sicuramente alla scuola di Elio Stilone, ‘editore’ di Plauto, e sono la testimonianza dell’interesse e della competenza varroniana anche in questo campo. La sua auctoritas trova conferma nella tradizione manoscritta: com’è noto, le ventuno commedie di Plauto a noi conservate sono quelle di cui già Varrone riconobbe la sicura paternità plautina. Direttamente all’esperienza di vita di Varrone riporta l’Ephemeris navalis 12, diario navale sul periodo della guerra contro i pirati condotta al fianco

Origene: per una ricostruzione di queste vicende testuali e dell’intero elenco si rinvia a Dahlmann 1935a, coll. 1181-1183 e a Ritschl 1848. 11 Da Prisciano (GL ii 7, 27 ss. = Varrone, fr. 1, p. 183 Fun.) si ricava il titolo e l’argomento del secondo libro, ovvero l’origine caldea dell’alfabeto latino (sunt indeclinabilia tam apud Graecos elementorum nomina quam apud Latinos, sive quod a barbaris inventa dicuntur, quod esse ostendit Varro in II de antiquitate litterarum, docens lingua Chaldaeorum singularum nomina litterarum ad earum formas esse facta et ex hoc certum fieri eos esse primos auctores litterarum), e da una testimonianza di Pompeo (GL v 108, 10 ss. = Varrone, fr. 2, p. 184 Fun.) si ha conferma della dedica ad Accio e della discussione sul numero originario delle lettere dell’alfabeto, 16 e non 23: Varro docet in aliis libris, quos ad Accium scripsit, litteras XVI fuisse, postea tamen crevisse et factas esse XXIII. 12 Le ‘Efemeridi’ composte da Varrone furono probabilmente tre: la prima, in ordine di tempo, è quella dedicata a Pompeo alla vigilia della guerra in Spagna, la seconda è appunto la cosiddetta Ephemeris navalis scritta in seguito alla guerra piratica, mentre

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di Pompeo, cui dedica una biografia (De Pompeio). Sicuramente autobiografico sarà stato il De sua vita 13 e, a testimonianza di tanti anni di esperienza politica, saranno nati i dodici libri di Orationes e i quindici del De iure civili. Il passaggio dalla filologia ortografica di impronta acciana agli studi di carattere etimologico, antiquario e dialettico, avvenuto sotto l’influenza di Stilone, trova la sua prima espressione nell’opera monumentale delle Antiquitates. Composta originariamente in quarantuno libri (di cui rimangono numerosi frammenti per tradizione indiretta), si divideva in due sezioni, le Antiquitates rerum humanarum (venticinque libri) e le Antiquitates rerum divinarum (sedici libri). Ogni parte era dotata di un libro introduttivo, da cui si articolava poi una quadripartizione de hominibus, de locis, de temporibus, de rebus: la suddivisione aritmetica dei contenuti – nello specifico la quadripartizione della materia trattata – è un elemento ricorrente nelle opere varroniane, De lingua Latina compreso14. L’analisi delle istituzioni civili, culturali, religiose e linguistiche del popolo romano, dimostra una sensibilità che oggi diremmo ‘antropologica’, pur con tutti i limiti della sua

di una terza Efemeride si ha notizia da Prisciano (GL ii 256, 20 ss.) e il riferimento al mese di luglio introdotto nel calendario in omaggio a Giulio Cesare, ne colloca la composizione dopo il 46; cfr. Della Corte 19702, p. 250. 13 È verisimile che l’opera sia stata dedicata a Lucio Scribonio Libone (di trent’anni più giovane di Varrone) in occasione del suo consolato nel 34 a.C.: vd. Dahlmann 1948, p. 368. 14 Per ricostruire i contenuti delle Antiquitates rerum divinarum è fondamentale la testimonianza di Agostino, che nei libri iv, vi e vii del De civitate Dei discute ampiamente la sistemazione teologica varroniana. Secondo Varrone (div. i, fr. 7 Card. = civ. vi 5 ) vi sono tre generi di teologia: mitica, naturale e civile (mythicon appellant, quo maxime utuntur poetae; physicon, quo philosophi; civile, quo populi). La prima consiste di invenzioni contrarie alla natura e alla dignità degli immortali (in eo sunt multa contra dignitatem et naturam immortalium ficta), la seconda è quella dei filosofi (de quo multos libros philosophi reliquerunt … ut Heraclitus, Pythagoras …), la terza infine è la teologia civile, «quella praticata dai cittadini, quella che soprattutto i sacerdoti dovrebbero conoscere. La prima è adatta soprattutto al teatro, la seconda al mondo fisico, la terza alla città». All’interno di questa teologia tripartita di stampo stoico (cfr. Lieberg 1972; Lehmann 1997, pp. 193-225), Varrone giustifica con la ‘teologia civile’ la religione di stato, anticipando quello che sarà il pensiero di Cicerone nel De natura deorum e nel De divinatione. Per la problematica ricostruzione delle Antiquitates rerum humanarum vd. Salvadore 2012.

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introduzione

concezione etnocentrica, che vede nel modello di vita della Roma arcaica il più valido in senso assoluto. Al medesimo ambito antiquario, appartengono le opere De vita populi Romani 15, De gente populi Romani 16 e il De familiis Troianis, sulla preistoria leggendaria di Roma. Le finalità parenetico-didascaliche, che si possono leggere dietro questa attenzione ai costumi della propria patria, sono individuabili anche nell’opera forse più estesa del repertorio varroniano, ossia i Logistorici, composta di settantasei libri. I Logistorici (letteralmente «discorsi di carattere storico») consistevano, libro per libro, nella trattazione di un tema filosofico con la presentazione di un personaggio storico emblematico (ad es. Marius de fortuna, Pius de pace, Sisenna de historia)17. Ancora più ambizioso il progetto delle Imagines vel Hebdomades, quindici libri con settecento ritratti di personaggi illustri nei vari campi dell’attività umana, organizzati, appunto, in gruppi di sette. La struttura si ispirava parzialmente ai cataloghi greci di storia letteraria, come i Pinakes di Callimaco, ma con un occhio di riguardo alla tradizione delle nobili famiglie romane (le imagines degli antenati celebrate durante i riti funebri). Ad un libro introduttivo seguivano due gruppi di sette figure, uno di latini e un altro di stranieri, che si avvicendavano secondo una precisa sequenza (re e condottieri, politici, poeti, prosatori, tecnici, artisti, varie occupazioni).

15 I quattro libri del De vita populi Romani furono dedicati a Tito Pomponio Attico e composti verosimilmente dopo le Antiquitates e il De lingua Latina (Riposati 1972, p. 85). Per la tradizione dei frammenti del De vita populi Romani vd. Salvadore 2004, pp. 5-23. 16 È possibile datare il De gente populi Romani attraverso la testimonianza di Arnobio (nat. v 8) che permette di collocare con una certa sicurezza la composizione dell’opera all’anno 43 (Taylor 1934, p. 221). Il diciottesimo libro del De civitate Dei di Agostino (in cui si espone la storia della civitas terrena da Abramo in poi) è la fonte principale per l’opera varroniana, spesso citata per la storia greca e latina (cfr. Fraccaro 1907, pp. 23 ss.). Come afferma Hagendahl 1967, ii, p. 627: «As far as our knowledge goes, no profane or Christian writer has occupied himself more intently with Varro or preserved more numerous and precious fragments of his enormous œuvre than Augustine. From De ordine to the last book of De civitate Dei he took Varro as his guide when he wanted to make himself at home in the wide extent of learning that the great polyhistor had explored and mapped down». 17 Anche Cicerone sperava invano di essere il protagonista di uno dei Logistorici di Varrone, come risulta da una lettera ad Attico (Att. xv 13, 3 Varronis διάλογον exspecto).

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Le loro biografie non nascono dal gusto per l’aneddoto, ma sono un patrimonio di valori che per Varrone merita di essere ricordato dall’umanità18. I contenuti morali sono al centro di un’altra sperimentazione di genere, i centocinquanta libri delle Saturae Menippeae: di queste rimangono novanta titoli e seicento frammenti. Dell’opera di Menippo di Gadara, filosofo cinico del III secolo, Varrone riprende il prosimetro e la commistione di serio e comico, lo σπουδογέλοιον, creando così un nuovo genere letterario di satira latina, che si distanzia dalla satira del predecessore Lucilio, anche nella scelta di contenuti dal più deciso orientamento filosofico19. L’espressione più completa del suo spirito enciclopedico furono invece le Disciplinae, composte negli ultimi anni di vita, e primo esempio di una sistematica organizzazione culturale che conoscerà enorme fortuna (il futuro Trivium e Quadrivium medievale). Considerando le poche testimonianze indirette, si può solo ipotizzare la sequenza delle artes trattate: grammatica, dialettica, retorica20, geometria, aritmetica21, astronomia (o filosofia?), musica, medicina e architettura22. I tentativi di ricostruire parti dell’opera pas-

18 Nel primo libro c’era sicuramente l’imago di Omero (Gell. iii 11, 7 M. Varro in libro de imaginibus primo Homeri imagini epigramma hoc apposuit: capella Homeri candida haec tumulum indicat, / quod hac Ietae mortuo faciunt sacra). 19 Cfr. Lehmann 2015, p. 130 che definisce le Saturae varroniane «a collection of popular philosophy». La scoperta di Menippo, schernitore di ogni filosofia dogmatica, avvenne ad Atene: con lui il cinismo divenne un pretesto letterario con cui scherzosamente si irridevano le varie filosofie dogmatiche (Della Corte 19702, p. 44). Varrone scherza sulle dispute tra filosofi (Men. fr. 43 Cèbe ut in litore cancri digitis primordibus stare) e sulle loro ‘battaglie di parole’ (Men. fr. 42 Cèbe): illic viros hortari ut rixarent praeclari philosophi (va notato come anche nei libri viii-x del De lingua Latina emerga spesso questo motivo dell’inutilità della polemica tra studiosi, cfr. §§ 1, 33, 111). La filosofia trova così un’espressione più divulgativa e «comprensibile anche per coloro i quali non sanno leggere i testi della filosofia greca», come afferma Cicerone (ac. i 3, 9 ipse varium et elegans omni fere numero poema fecisti philosophiamque multis locis inchoasti; ad impellendum satis, ad edocendum parum). 20 Cassiod. inst. ii 3, 2 dialecticam vero et rhetoricam Varro in novem Disciplinarum libris tali similitudine definivit … 21 Gell. x 1, 6 (vd. anche commento al § 86). 22 Vitr. vii, pref. 14. Da tutti questi ambiti del sapere, in modo più o meno manifesto, Varrone desume exempla e raffronti anche nel De lingua Latina per argomentare la regolarità o irregolarità dei fenomeni linguistici, vd. in particolare il commento ai §§ 23-28.

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sano attraverso il confronto con il De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella, opera che si colloca nella tradizione artigrafica che ha come modello proprio Varrone23. Ma, come hanno evidenziato gli studi più recenti, mancano i presupposti per utilizzare il De nuptiis nella ricostruzione del Varrone perduto24. La più discussa è la presenza, tra le disciplinae varroniane, della filosofia, messa in relazione da alcuni studiosi con il titulus De philosophia dell’indice geronimiano (Della Corte 19702, p. 248), le cui testimonianze sono contenute nel diciannovesimo libro del De civitate Dei di Agostino, nei capitoli i-iii, che costituiscono una sintesi del pensiero filosofico varroniano25. L’unica opera della vasta produzione varroniana giuntaci in forma completa è il De re rustica. L’argomento di questi tre libri, scritti sicuramente negli anni della vecchiaia (37 a.C. circa), è di carattere apparentemente pratico, nascendo come raccolta di consigli alla moglie Fundania per la gestione di un terreno agricolo: nel i libro è la trattazione dell’agricoltura, nel ii della pastorizia, nel iii delle produzioni di ‘lusso’, come animali da cortile, api, pesci. In realtà, l’opera ha delle pretese letterarie che non passano inosservate, come l’andamento dialogico ripreso dai trattati ciceroniani: l’autore riporta dei colloqui fittizi avuti in tempi diversi, con personaggi dai nomi ‘parlanti’ (ad es. Agrius, Agrasius, Merula, etc., forse suggestione dei suoi interessi plautini).

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Ritschl 1845. Cfr. il punto in Schievenin 1998, p. 492 = 2009, p. 44: «Le citazioni varroniane del De nuptiis e i luoghi in cui Varrone è chiaramente evocato o sono di tradizione indiretta (cioè Marziano le attinge da altri autori, come a iii 329; iv 335; vi 639; vi 662) o trovano riscontro in opere varroniane a noi giunte (viii 817; ix 928): tutti gli elementi esplicitamente dichiarati varroniani da Marziano ci sono dunque noti anche da altre fonti». 25 Lehmann 1997, pp. 315-341. Secondo quanto riporta Agostino, la dottrina di riferimento era quella di Antioco di Ascalona, filosofo accademico maestro di Varrone (Att. xiii 16, 1; xiii 19, 3; fam. ix 8, 1) e di Cicerone ad Atene (fra il 79 e il 78), propugnatore di una conciliazione fra la teoria platonica, aristotelica e stoica. Lo stesso Cicerone considerava Antioco più uno stoico che un accademico (ac. ii 22, 69). Lo spirito antiocheo, secondo alcuni studiosi, sarebbe alla base delle istanze conciliative presenti anche nel De lingua Latina (ad es. nella questione anomalia-analogia) e dell’eclettismo filosofico di Varrone e Cicerone (Boissier 1861, pp. 112 ss.; Michel 1965, p. 74; Dihle 1965, pp. 176-179). 24

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Rispetto all’antecedente catoniano del De agri cultura, il De re rustica è sicuramente al passo con i tempi, per i cambiamenti nella pratica dell’agricoltura, che da piccole realtà è passata alle grandi villae in cui non manca ogni genere di lusso; a questo si unisce però il rimpianto per la frugalità del buon tempo antico, idealizzato da Varrone come la vita agreste. Anche lo stile dell’opera è peculiare: definito dal Norden (1986, pp. 207 ss.) ‘italico’, come quello catoniano, oscilla tra arcaismi e modernità, tra periodi dall’andamento paratattico simile a quello delle leggi delle xii Tavole e aperture allo stile ciceroniano. La necessità, infatti, di animare lo scambio dialogico dei protagonisti e di interrompere le lunghe tirate didascaliche, determina un periodare che presenta numerose caratteristiche sintattiche del latino parlato26.

1.3 Il De lingua Latina Il De lingua Latina fu composto tra il 47 e il 45 a.C., subito dopo le Antiquitates divinae, dedicate a Cesare nel 47. In una lettera ad Attico (Att. xiii 12) datata 23 giugno 45, Cicerone aspetta già di vedere l’opus magnum che Varrone aveva promesso di dedicargli due anni prima. La dedica a Cicerone, com’è noto, è parziale, e riguarda tutti i libri successivi al iv, dal momento che, escludendo il libro introduttivo, i primi tre riportano la dedica all’amico Settimio (questore nel 66). L’ipotesi più probabile per Della Corte (19702, p. 175 n. 41), è che i libri i-iv siano stati editi prima dei libri v e sgg. e che siano stati poi inclusi nell’opera27. Dei venticinque libri originari, testimoniati dall’Index di Girolamo, sono conservati quelli compresi tra il v e il x. Nel progetto originario dell’opera, dopo una introduzione generale, si sarebbero dovute susseguire quattro esadi di libri, ciascuna suddivisa in due triadi, secondo il gusto tipicamente varroniano per la strutturazione numerologica, che si è già potuto notare a

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de Saint-Denis 1947. Questo troverebbe conferma dai riferimenti in ling. v 1 e ling. vii 109. Del resto Varrone non era estraneo alla consuetudine di dedicare i vari libri di una medesima opera a persone diverse: il De re rustica era dedicato alla moglie (i libro), a Turranio Nigro (ii libro) e a Pinnio (iii libro). 27

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proposito delle Antiquitates e delle Imagines. La prima esade (libri ii-vii), dedicata ai problemi di etimologia, è a sua volta suddivisa in due triadi (teoria e pratica), così come la seconda esade, dedicata ai problemi della morfologia (libri viii-xiii). Dal xiv libro in poi, seguiva la sezione riguardante la coniunctio verborum o sintassi28. Le parti superstiti combaciano dunque con la triade pratica relativa all’etimologia e la triade teorica relativa alla morfologia (il problema dell’analogia e dell’anomalia), come si vede più chiaramente dallo schema sottostante: Libro i introduzione generale Libri ii-iv teoria dell’etimologia ii argomenti contrari all’etimologia iii argomenti a favore dell’etimologia iv forma dell’etimologia (quae forma sit etymologiae) Libri v-vii pratica dell’etimologia v vocaboli di luogo e di oggetto vi vocaboli di tempo e di azione vii vocaboli usati dai poeti Libri viii-x teoria della morfologia (declinatio) viii argomenti contrari all’analogia ix argomenti a favore dell’analogia x forma dell’analogia

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Della terza parte, dedicata alla trattazione di quemadmodum vocabula coniungerentur, abbiamo solo pochi frammenti. A differenza delle due parti precedenti, questa doveva consistere di dodici libri, probabilmente suddivisi in triadi (Spengel2, p. xxxvi e Collart 1954, p. 35). Si è molto discusso anche su cosa fosse precisamente la sintassi varroniana. Sicuramente va ipotizzata una relazione con la logica (Collart 1954, p. 44 parla di «une pseudo-syntaxe à la manière des Stoïciens»), la logica dell’ἀξίωμα, della proposizione (proloquium o profatum in latino): una conferma verrebbe da Gellio xvi 8, 6 ( = Varro, fr. 29 G.-S.) che leggeva nel xxiv libro del De lingua Latina la definizione di proloquium come sententia, in qua nihil desideratur, e la esemplificava con enunciati del tipo ‘Hannibal Poenus fuit’; sempre da Gellio (xvi 8, 2) sappiamo che Elio Stilone, maestro di Varrone, scrisse un Commentarium de proloquiis.

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Libri xi-xiii pratica della morfologia Libri xiv-xxv sintassi (coniunctio verborum) Alla rigida suddivisione esterna dei libri che compongono l’opera, corrisponde una fitta rete di strutturazioni interne, a partire dai quattro livelli d’interpretazione previsti per l’etimologia, i quattuor explanandi gradus (v 7), una sorta di percorso verso l’iniziazione alla scienza. Il primo grado, quo populus etiam venit (v 7), prevede la possibilità per chiunque di capire l’etimologia ‘trasparente’, ad es., del termine argentifodinae 29, mentre il secondo, quo grammatica ascendit antiqua (ibid.), è appannaggio dei grammatici, evidentemente alessandrini, impegnati nell’edizione e nell’esegesi dei testi poetici30. Il terzo, quo philosophia ascendens pervenit (v 8), è il livello «dove arrivò a salire la filosofia», in particolare quella stoica, per prima cosciente della dicotomia fondante di ‘significante’ e ‘significato’; in ultimo, ubi est adytum et initia †regis (ibid.), dove risiederebbe il mistero stesso delle origini del linguaggio31.

29 La chiarezza di parole come argentifodinae non dipende dal fatto di essere dei composti (che peraltro sono presenti anche nel secondo gruppo), ma dall’‘evidenza’ della loro etimologia. Per indicare questi vocaboli, la cui etimologia è aperta al popolo, Varrone usa i termini verba aperta (v 184) o ἔτυμα aperta (vii 82) in opposizione ai verba obscura dell’ultimo gradus. 30 Il secondo grado è così definito: secundus quo grammatica descendit antiqua, quae ostendit, quemadmodum quodque poeta finxerit verbum, quod‹que› confinxerit, quod‹que› declinarit; hic Pacui: ‘rudentum sibilus’, hic: ‘incurvicervicum pecus’ , hic: ‘clamide clupeat b‹r ›acchium’. La grammatica antiqua (il cui rappresentante emblematico è Aristofane, cfr. v 9) si occupa dunque dello studio delle neoformazioni poetiche, che prevede tre aspetti: fictio (creazione ex novo di una parola), confictio (creazione di composti) e declinatio (derivazione); cfr. Piras 1998, pp. 74-76. 31 Il passo è oscuro. Alle difficoltà legate alla probabile corruttela del testo tràdito si aggiungono quelle legate al significato delle singole parole e al rapporto tra loro: initia, se si intende come termine equivalente a mysteria, in che rapporto è con il rex evocato nel passo in questione e poco oltre al § 9 e in vii 3 in cui sono citati rispettivamente il rex Latinus con il rex Romulus e Numa? Per il punto sul dibattito cfr. Piras 1998, pp. 62-71. Vd. anche Cavazza 1981, p. 60: «Il quarto grado è quello che ha più impegnato gli studiosi e che vuol porsi al di sopra dei precedenti gradi alessandrino e stoico, costituisce il vertice della ricerca etimologica, un vero e proprio sacrario dove pare proibito l’accesso. Se il testo non fosse corrotto, vorremmo cogliere qui un influsso di carattere mistico-pedagogico che trasfonde nell’etimologia il fascino di una scienza

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Nel suo proposito di abbracciare, fin dove possibile, tutta la lingua latina, Varrone specifica: non solum ad Aristophanis lucernam, sed etiam ad Cleanthis lucubravi (v 9)32. Non limiterà, quindi, l’indagine etimologica ai termini e alle espressioni poetiche (secondo i canoni della scuola alessandrina di Aristofane di Bisanzio), ma la estenderà alle parole d’uso comune (volui praeterire eos, qui poetarum modo verba ut sint ficta expediunt, v 9), secondo l’indirizzo della scuola stoica, simboleggiata da Cleante, maestro di Crisippo33. Nei libri v-vii, richiamandosi esplicitamente alla teoria pitagorica, l’esemplificazione è divisa secondo la quadripartizione34 locus corpus tempus actio (v 12). Nel libro v vengono dunque trattate le etimologie di termini indicanti luoghi e di ciò che è in essi, cioè gli oggetti. Nel vi libro vi sono le etimologie di termini indicanti il tempo e di ciò che avviene nel tempo, cioè le azioni. L’ultimo libro etimologico, il libro vii, è interamente dedicato ai vocaboli poetici (vii 5 dicam in hoc libro de verbis quae a poetis sunt posita), e proprio in apertura si fa riferimento al maestro Elio Stilone, di cui Varrone non manca di apprezzare l’impegno profuso nell’interpretazione degli oscuri Carmi Saliari35. Le difficoltà (obscura multa) che, prima di lui, Elio affrontò

per iniziati». Tra i numerosi studi sui quattro gradi dell’etimologia cfr. in particolare Pfaffel 1981, pp. 12 ss. e pp. 231 ss. e Cavazza 1981a. 32 Non è possibile fare una distinzione netta tra etimologia stoica ed etimologia grammaticale di stampo alessandrino: per Aristofane e gli alessandrini il fine della ricerca etimologica era l’interpretazione dei testi, ma anche per gli Stoici l’etimologia è un mezzo per l’esegesi omerica (Broggiato 2001, p. lxiii). Nel De lingua Latina emergerebbe secondo Pisani 1976, p. 199 una commistione dei due metodi che costituisce la novità della posizione varroniana. 33 Su queste figure e le rispettive scuole cfr. infra § 3.2. 34 Come rileva Piras 1998, p. 46, in Varrone è molto frequente la quadripartizione, sia nel piano generale della singola opera, sia nella trattazione degli argomenti specifici. Erano infatti divisi in quattro libri il De vita populi Romani e il De gente populi Romani, mentre tra le quadripartizioni di argomenti specifici trattati nel De lingua Latina vi sono ad es. i quattro gradi dell’etimologia (v 7-8), la natura quadruplice dell’analogia (x 48), le quattro condizioni necessarie alla morfologia derivazionale (ix 37), etc. Si può ipotizzare che dietro questa attenzione all’aritmologia vi sia, più che una generale influenza pitagorica, l’insegnamento di uno dei maestri di Varrone, Antioco di Ascalona, che cercò di conciliare le posizioni accademiche con elementi stoici, peripatetici e pitagorici (Boyancé 1976, pp. 141-145). 35 ling. vii 2 Aelii hominis in primo in litteris latinis exercitati interpretationem Car-

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nello studio dell’etimologia, spingono Varrone ad una importante puntualizzazione metodologica sull’impossibilità di ricavare l’ἔτυμον di tutte le parole, sia in prosa che in poesia: ut in soluta oratione sic in poematis verba ‹non› omnia quae habent ἔτυμα possunt dici (vii 2). I presupposti dell’etimologia varroniana poggiano sul postulato della mutazione del suono delle parole, che avviene con quattro modalità (ling. v 6): demptio (cancellazione), additio (inserimento), traiectio (trasposizione) e commutatio (trasformazione). Se da un lato tali operazioni anticipano alcune caratteristiche della moderna fonologia diacronica, ad esse non si accompagna tuttavia la consapevolezza del limite che tali leggi devono avere per evitare di cadere nell’arbitrio. Molti altri fraintendimenti nascono in questi libri, in seguito all’esasperazione della pur corretta osservazione dei mutamenti semantici che avvengono nella lingua, ad es. il significato, opposto a quello iniziale, che assume la parola hostis (cfr. v 3). L’eccessiva fiducia nelle correlazioni semantiche porta alle famose etimologie ‘per antifrasi’, indubbia eredità stiloniana: un esempio, in v 117, è l’etimo di vallum spiegato semplicemente quod ea varicare nemo posset. Il passaggio dall’etimologia alla sezione morfologica viene reso esplicito nell’incipit dell’viii libro: se con l’esegesi etimologica si risale all’origine di una data parola, attraverso lo studio dei processi morfologici si può arrivare alla comprensione del complesso ‘sistema’ della lingua. In viii 1, si afferma che la natura dell’oratio è tripartita, e si estrinseca dunque in tre processi. In primo luogo, la creazione di nuovi elementi lessicali (quemadmodum vocabula rebus essent imposita), operazione che avviene sotto il segno dell’arbitrarietà, ovvero l’impositio del casus rectus (l’attribuzione del nome); segue

minum Saliorum videbis et exili littera expedita‹m› et praeterita[m] obscura[m] multa. Il riferimento esplicito a Stilone ha indotto il Reitzenstein (1901, pp. 31 ss.) a sminuire o addirittura a negare ogni originalità di Varrone in campo etimologico. In posizione antitetica il Dahlmann 1932/1997, pp. 55-56 e Schröter 1960, pp. 860 ss., che attribuiscono a Varrone il merito di aver associato lo studio antiquario alla ricerca etimologica di impianto stoico derivatagli da Stilone. Dahlmann propone in tal senso un’ipotesi: il Reatino avrebbe avuto a disposizione nel comporre il De lingua Latina un etymologicon stoico greco tradotto da Stilone, e a questo materiale avrebbe aggiunto quello storico-antiquario già acquisito per la composizione delle Antiquitates e del De vita populi Romani.

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quemadmodum in loquendo declinata sunt verba, ovvero il problema della declinatio, intesa come propago, forza generatrice del linguaggio, e infine ut ea inter se ratione coniuncta sententiam efferant, più semplicemente la sintassi, di cui l’autore, come abbiamo visto, avrebbe trattato nei libri xiv-xxv. Due – dice Varrone – sono i modi in cui nascono le parole, l’imposizione e la flessione: l’uno è la sorgente, l’altro il ruscello. Il processo dell’impositio del caso nominativo è arbitrario, legato alla volontà del parlante, o meglio a quella «di coloro che per primi posero un nome alle cose» (viii 7), ma ad esso segue, per necessità, la flessione di queste forme originarie secondo delle regole precise36. Questa regolarità sistematica viene rintracciata da Varrone in quella che potremmo definire ‘morfologia flessiva’, ossia nella flessione nominale e verbale. Nei primi venti paragrafi del libro viii, che sono sostanzialmente una prefazione a tutta l’esade successiva, vengono toccati alcuni degli argomenti più dibattuti e importanti della linguistica latina, poi ripresi nel corso della trattazione. In particolare, viene abbozzato il problema dei casi (§ 16) e quello riguardante le parti del discorso (§ 11 e § 44) con il problematico status delle parti invariabili (definito genus sterile, § 9). Al par. 21 viene enunciata infine la questione preliminare o meglio fondante di tutta la teoria linguistica varroniana: e cioè se il sistema linguistico si sviluppi secondo l’arbitrio del parlante o secondo una sistematicità paragonabile a quella che si può rintracciare in tutte le altre sfere del vivere umano. Questa dicotomia φύσει / θέσει era alla base della famosa querelle analogia-anomalia, che, qualunque fosse la sua reale consistenza storica (vd. infra § 3.2), ben rappresenta il sofisticato dibattito linguistico presente nella cultura romana in età tardo-repubblicana. E questo richiamo alla disputa teorica viene sapientemente sfruttato da Varrone, sia nella forma che nei contenuti. Infatti, dal paragrafo 26 del libro viii in poi, l’opera varroniana cambia aspetto e prende le sembianze di un dibattito, o meglio ancora di una disputatio in utramque partem, condotta artificialmente dall’autore, che prima (seconda metà dell’viii libro) si fa portavoce e difensore della ‘fazione’

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Come evidenziato da Taylor 1974, pp. 25-26, si tratta di due livelli in successione gerarchica: «the hierarchy of Varro’s levels is directly dependent upon the order of linguistic processes. The first level is that of imposition: […] impositio is prior to declinatio».

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anomalista e poi (ix libro) passa dalla parte analogista37. La facies dialettica che assume questa seconda parte dell’opera ha una sua motivazione in termini di efficacia espositiva: il ‘botta e risposta’ a distanza tra le due scuole, condotto ad arte dall’autore, è anche espediente tecnico che dimostra come ogni argomentazione troppo rigida addotta dall’una e dell’altra parte possa essere facilmente smentita. Questa impasse tra le due teorie viene allora superata da Varrone attraverso una soluzione che riesce a conciliare le due istanze. Si legge infatti in ix 34-35, un passaggio fondamentale della nuova dottrina varroniana sul linguaggio: Ego declinatus verborum et voluntarios et naturalis esse puto, voluntarios quibus homines vocabula imposierint rebus quaedam, ut ab Romulo Roma, ab Tibure Tiburtes, naturales ut ab impositis vocabulis quae inclinantur in tempora aut in casus, ut ab ‹Romulus› Romulo, Romuli, Romulum et ab dico dicebam dixeram. Itaque in voluntariis declinationibus incostantia est, in naturalibus constantia; quas utrasque quoniam iei non debeant negare esse in oratione, quom in mundi partibus omnibus sint, et declinationes verborum innumerabiles, dicendum est esse in his analogias.

Per spiegare, da una parte, l’arbitrarietà nella formazione delle parole e, dall’altra, la regolarità della flessione, il termine declinatio viene specificato ulteriormente nella coppia declinatio voluntaria e declinatio naturalis, cioè da un lato ‘morfologia derivativa’ e dall’altro ‘morfologia flessiva’38. La prima, la formazione di parola è sotto il segno dell’arbitrio, dell’anomalia; la seconda, la flessione, segue un andamento regolare, analogico. L’intuizione che sta alla base di questa distinzione è molto importante: l’irregolarità della morfologia derivativa (declinatio voluntaria) consiste nella possibilità di creare o meno un derivato, di usare questo o quel suffisso, mentre la regolarità che predomina nel meccanismo di flessione (declinatio naturalis) impone senza eccezioni di aggiungere le desinenze previste dai paradigmi. Il procedimento che più interessa Varrone è ovviamente quello della declinatio naturalis, nella quale egli rintraccia delle regolarità sistematiche, di cui l’analogia è il principio guida. Questa concezione di una ‘morfologia come processo’ culmina nel libro x, con la formalizzazione di questo prin37 38

Ax 1995 = 2000; vd. infra § 3.2. Cfr. il commento ai §§ 34-35.

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cipio attraverso la proporzione matematica (in particolare ai §§ 41-50). Considerare la flessione come un processo governato da regole precise, analoghe a quelle della matematica39, è un’intuizione molto importante, che prefigura certe posizioni della linguistica contemporanea di orientamento generativo40. L’innovazione più grande è senza dubbio quella di aver spiegato l’analogia linguistica con l’analogia matematica, riconoscendo al termine analogia non solo le sue origini (andando oltre le classificazioni a lui coeve), ma anche l’originaria funzione euristica che aveva nel linguaggio scientifico (vd. infra § 3.1).

1.4 Lo stile Il giudizio che i contemporanei diedero dell’opera varroniana si può sintetizzare, da una parte, con l’ammirazione per la sua indiscussa auctoritas di erudito in campo etimologico-antiquario, e dall’altra con una certa sufficienza nei confronti dello stile delle sue opere. In particolare, nei numerosi riferimenti a Varrone presenti negli scritti ciceroniani (dove è innegabile il peso di rapporti personali piuttosto tesi tra i due, cfr. pp. 10-11), l’immagine di Varrone è quella del noster diligentissumus investigator antiquitatis (Brut. 60). La mancanza di riferimenti allo stile del Reatino spingerà Agostino (civ. vi 2) a leggervi un implicito giudizio negativo: «homine» inquit [sc. Cicero] «omnium facile acutissimo et sine ulla dubitatione doctissimo». Non ait «eloquentissimo» vel «facundissimo», quoniam re vera in hac facultate multum impar est. In effetti, l’unico riferimento a Varrone ‘stilista’ rintracciabile in Cicerone, e definito paradossale dallo stesso Norden (1986, p. 209), è contenuto in Att. xii 6 in cui il Reatino è descritto come fautore dell’Hegesiae genus. Varrone sarebbe stato quindi un sostenitore dell’asianesimo. Questo sembrerebbe stridere con la solennità e la sentenziosità che Norden riconosce alla scrittura varroniana, riconducendola alla famosa definizione di ‘stile italico’. Nell’interpretazione dello studioso, il riferimento all’asianesimo andrebbe inteso come una sfaccettatura umoristica commista

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Taylor 1977. Oniga 1988, pp. 11-16.

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alla gravitas del Reatino. Nella ‘mescolanza di stile asiano e italico’, come spiega lo stesso Norden41, si contempera infatti il tono solenne e un certo gusto per l’arguzia: gravitate mixtus lepos, per usare la formula che Cicerone aveva coniato per lo stile di Catone (rep. ii 1). Tuttavia, la testimonianza ciceroniana in Att. xii 6, 1 può essere ulteriormente valorizzata, se approfondita con il supporto di altri elementi. Un riferimento all’appartenenza di Varrone alle fila dei simpatizzanti dell’asianesimo è infatti rintracciabile anche in un passo del Dialogus de oratoribus tacitiano, poco considerato dalla critica, in cui Varrone appare in un lusinghiero paragone al fianco di Sisenna: isti … quibus eloquentia Aufidi Bassi aut Servili Noniani ex comparatione Sisennae aut Varronis sordet (dial. 23, 2). È noto (Norden 1986, p. 190), come Sisenna fosse seguace degli asiani, non solo per il suo legame con Clitarco e la sua traduzione dei Milesiaka, ma soprattutto per la sua famigerata mania di adoperare parole inusitate (Brut. 259). Dunque, se Varrone appare in Tacito tra i fautori dell’asianesimo con lo storico Sisenna, famoso per le sue neoformazioni lessicali, tale accostamento andrà letto proprio in riferimento al lessico. A sostenere questa ipotesi, è anche un breve passo degli Academica Posteriora (i 24) in cui Varrone e Cicerone si fronteggiano sull’opportunità o meno di ammettere neologismi e nuovi termini greci nell’uso corrente. La posizione di Varrone, come viene riportata da Cicerone, è di una moderata apertura: dabitis enim profecto, ut in rebus inusitatis – quod Graeci ipsi faciunt, a quibus haec iam diu tractantur – utamur verbis interdum inauditis. Dunque, con moderazione, è possibile ricorrere ai verba inaudita. In effetti, nel De lingua Latina, proprio in ambito lessicale, Varrone dimostra un duplice atteggiamento: il recupero e lo studio della lingua latina attraverso l’approccio etimologico e antiquario e, nello stesso tempo, la creazione di un nuovo lessico tecnico linguistico-grammaticale. A titolo di esempio, solo nell’incipit del libro ix, compaiono neoformazioni come inclinatio, aequabilitas, inaequabilitas (§ 1) e le latinizzazioni dal greco analogia e anomalia. Per la terminologia linguistica, la creatività varroniana è

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«Per capire questo dovremo riflettere anzitutto che il suo tono solenne, bislacco, prepotente è solo un aspetto della sua indole, e che ad esso si accoppia una irrefrenabile tendenza verso un rude umorismo, che viene alla luce in giochetti linguistici d’ogni genere» (p. 209).

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pari a quella di Cicerone per l’ambito filosofico: la difficoltà maggiore era sicuramente quella di trasporre concetti e teorie greche in una lingua come il latino, che nella fase classica, era poco funzionale alla descrizione astratta e alla speculazione teoretica. Nella composizione del De lingua Latina, ed in particolare nella sezione ‘morfologica’, Varrone dovette sentire particolarmente questa verborum inopia nel lavoro di ‘traduzione’ e reinterpretazione delle fonti greche usate per la discussione sul criterio analogista e anomalista. Non a caso, un espediente retorico cui Varrone ricorre spesso per aggirare le difficoltà espressive è quello degli exempla che seguono sistematicamente ogni enunciato teorico (cfr. § 9 e nota relativa). Le differenze stilistiche tra la prima e la seconda sezione che noi leggiamo del De lingua Latina sono molte, e indiretta conseguenza dello scarto contenutistico e della diversa destinazione delle due triadi superstiti: abbiamo infatti da una parte la sezione pratica della trattazione sull’etimologia e dall’altra la parte teorica sulla declinatio. Le sequenze etimologiche dei libri v-vii sono spesso semplici enunciazioni di quello che era evidentemente materiale già ‘schedato’ da Varrone e seguono l’unico criterio della quadripartizione locus corpus tempus actio (cfr. infra § 1.3). Viceversa, la materia della parte morfologica richiede un diverso approccio espositivo, che ha tutto l’aspetto di un dibattito, o meglio di una disputatio in utramque partem 42. Attraverso questo espediente, egli presenta il materiale in forma

42 Evidentemente la disputatio in utramque partem era sentita come particolarmente adatta all’esposizione teorica e, si potrebbe aggiungere, ‘familiare’ al lettore di Varrone. Infatti, se si guarda alla coeva produzione ciceroniana, la presenza è notevole sia nelle opere filosofiche sia in quelle retoriche, e ne viene riconosciuta la grande utilità in quanto maxima dicendi exercitatio (Tusc. ii 3, 9), pur con tutti i limiti che l’estremizzazione del metodo comportava. Negli Academica posteriora i 12, 44-46 Cicerone riferisce infatti della pratica retorica dell’accademico Arcesilao di Pitane che disquisiva ut contra omnium sententias dicens in eam plerosque deduceret, ut cum in eadem re paria contrariis in partibus momenta rationum invenirentur, facilius ab utraque parte adsensio sustineretur. Fu proprio Arcesilao a riportare in auge il metodo che risaliva sostanzialmente a Socrate e alla sua pratica di far esporre agli ascoltatori le loro opinioni e in seguito controbattere. Da Platone che, nel Fedro, mette alla prova l’efficacia di due discorsi antitetici come strumento del metodo dialettico diairetico (Fedr. 264e-266b), si arriva al sillogismo aristotelico, e precisamente al διαλεκτικὸς συλλογισμός, preferibile secondo Aristotele

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dialogica e ripartisce idealmente i contenuti pro e contra tra i rispettivi contraenti (analogisti e anomalisti): Varrone avrebbe quindi creato l’unicum di una dialettica a tesi trasferita in un manuale linguistico43: forse – secondo la suggestiva ipotesi di Ax 1995, p. 168 = 2000, p. 156 – nell’intendimento iniziale di Varrone i libri viii-x avrebbero dovuto essere un dialogo letterario vero e proprio che non poté essere completato per la morte dell’autore. Basandoci sul testo esaminato, e quindi sul ix libro, molti sono gli elementi che confermano questa lettura e permettono anzi di approfondire l’analisi in una certa prospettiva. Possiamo affermare che, se è evidente il sottostante modello retorico del dialogo, è altrettanto evidente che per Varrone il punto di riferimento è il modello ciceroniano44. La traccia sottostante al De lingua Latina è quella del dialogo di tipo aristotelico (preferito da Cicerone), dove il discorso si svolge in forma più serrata, le spezzature sono meno frequenti e la tesi in discussione è illustrata e sostenuta dal personaggio principale: in questo caso è Varrone stesso, che espone nel ix libro la teoria analogista con particolare convinzione. È, come Cicerone nei suoi dialoghi, esponente della teoria ‘forte’ destinata a prevalere, e, in quanto analogista convinto, parla in prima persona dell’analogia e risponde alle accuse mosse contro di essa (cfr. ix 26 credo, 31 equidem non dubito, 34 ego … puto, 46 respondeo, 47 ad quae dico, etc.). Non solo, l’influenza della prassi retorica ciceroniana è presente anche all’interno del ix libro, nella

(Topica i 1-2, 100a 18 ss.) agli altri tipi di sillogismo (epidittico, eristico e paralogismo) nelle scienze connesse alla filosofia, poiché permette di sceverare il vero dal falso discutendo su entrambi gli aspetti della questione (πρὸς ἀμφότερα διαπορῆσαι). A livello pratico, questa ‘tecnica’ era una delle exercitationes cui l’oratore doveva applicarsi costantemente: lo stesso Cicerone era solito esercitarsi con assiduità, dibattendo di un argomento il pro ed il contro in greco e in latino (Att. ix 4; vd. in particolare Granatelli 1990 e Ax 1995 = 2000). 43 Ax 1995, p. 166 = 2000, p. 155. 44 Se dal punto di vista biografico i profili di Cicerone e Varrone sono stati spesso oggetto di studio ‘in parallelo’ (βίοι παράλληλοι li definisce Baier 1997, p. 15), è significativo che sia stato ancora poco approfondito dagli studi il confronto tra i contenuti, il lessico e lo stile dei due grandi autori repubblicani. Pur essendo i loro scritti diversi per finalità e per genere, sono molti i punti di contatto tra le due esperienze letterarie, a partire dalla comune volontà – per così dire – di ‘trasporre’ in ambito romano un’enorme quantità di sapere dal mondo greco.

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strutturazione dell’argumentatio, che prende talvolta le movenze della requisitoria (cfr. ad es. § 7), negli exempla serrati (come ai §§ 9-16) e nell’insistita interrogatio (§§ 23-32). Come si è visto, l’espediente retorico, senza essere dichiarato, è parte integrante della discussione grammaticale: rimane poco chiaro, se effettivamente (come sostiene Ax 1995 = 2000) questa parte dell’opera fosse destinata ad avere una vita separata dal resto del De lingua Latina (come farebbe pensare la doppia dedica, a Settimio e a Cicerone) e, in secondo luogo, se quella che ci è giunta fosse solamente una ‘bozza’ incompleta che necessitava ancora di un’attenta rilettura e revisione, resa impossibile dalla morte dell’autore. Quest’ultima ipotesi troverebbe conferma nelle numerose ripetizioni e incongruenze anche sintattiche che si trovano in generale nel De lingua Latina e che rendono così ardua la comprensione di numerosi passaggi di testo. L’impressione che comunque si ricava con certezza da una attenta lettura del testo, è come la presenza della componente retorica sia finalizzata ad un intento pratico, e non sia una scelta artistica tout court 45. Non vi è insomma, da parte di Varrone, una palese intenzione di ‘emulare’ a livello formale i dialoghi letterari dell’amico Cicerone o di sperimentare nuovi esiti stilistici (cui Varrone si mostra in generale poco interessato), ma qua-

45 In virtù di questo, andrebbe rivalutato il ruolo che la facies dialogica potrebbe avere nella ricostruzione della querelle tra analogisti e anomalisti, di cui questi tre libri (viii-x) del De lingua Latina sono fonte pressoché unica (cfr. infra § 3.2). Come si vedrà, è impossibile negare la reale esistenza del dibattito linguistico che ebbe in Roma grandissima risonanza, ma a destare qualche dubbio negli studiosi è la concreta plausibilità di un vero e proprio ‘botta e risposta’ tra i capiscuola Cratete e Aristarco, la cui datazione non coincide neppure perfettamente. A non convincere è proprio la determinante testimonianza di Varrone, che andrebbe secondo la maggioranza degli studiosi ridimensionata per la sua estremizzazione nella lettura della querelle. Ma è indubbio come nell’esposizione varroniana delle due teorie linguistiche abbia avuto un notevole peso la ‘schematizzazione’ della disputatio in utramque partem, che come prima conseguenza ha proprio quella di esasperare le posizioni riducendole a due fazioni opposte. Il carattere fittizio della disputa è anche evidente dalla tipologia dei crimina che vengono prima mossi contro l’analogia (libro viii) e poi ribattuti (libro ix) sistematicamente seguendo un ‘canovaccio’ comune. Ancora una volta, credo si debba rivalutare il parallelo con Cicerone e la semplificazione cui la materia filosofica o retorica inevitabilmente va incontro nel momento in cui viene esposta nella forma dialogica.

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lunque intento artistico è subordinato ad un fine didascalico, che appare chiaro anche dai numerosi richiami all’attenzione rivolti nel corso dell’esposizione al lettore (come il tipico stilema didascalico intelleges in ix 6 o non vides in ix 31). Dunque l’espediente retorico del dialogo doveva apparire funzionale all’obiettivo didascalico: Varrone era consapevole che la novità della materia e della terminologia trattata avrebbero creato difficoltà ma soprattutto diffidenza verso l’elevato contenuto tecnico di questi libri. In questo senso, andranno letti infatti gli inserti ‘d’autore’ che si sono rintracciati nel ix libro, in particolare la lunga sezione dei §§ 23-28, dove consonanze con il materiale ciceroniano del De natura deorum e reminiscenze lucreziane si intersecano (vd. commento al § 28). Sono tuttavia innegabili le incoerenze sintattiche e la trascuratezza di sezioni intere di testo. La lunghezza dei periodi è spesso spropositata, come in ix 34, definito da Laughton 1960, p. 26 «an accumulation of subordinate clauses», ma in generale abbondano irregolarità di ogni tipo: omissione della copula, anastrofe della congiunzione, del relativo e dell’interrogativo, pleonasmi e ridondanze tipiche del sermo cotidianus, come ad es. et etiam, etiam quoque, nisi si, item eodem modo, etc. Inoltre, nelle costruzioni delle infinitive spesso manca il soggetto, come anche l’antecedente del relativo e non di rado si verificano incongruenze nell’applicazione della consecutio temporum, ad es. l’oscillazione tra il presente e l’imperfetto congiuntivo e tra l’imperfetto e il perfetto46. Riassumendo, senza sconfessare la celebre ‘stroncatura’ di Norden al De lingua Latina («è scritta nel peggiore stile latino che mai un’opera in prosa ci abbia mostrato»47), e facendo una differenziazione tra le due parti dell’opera che hanno caratteristiche completamente diverse, è possibile arrivare ad un giudizio più obiettivo dello stile di Varrone, in particolare per il libro in esame. Il De lingua Latina si trova a metà strada tra il modello della Kunstprosa e l’opera tecnica tout court, con uno stile che da un lato presenta trascuratezze stilistiche e dall’altra il gusto per l’artificio retorico, da una parte la brevitas catoniana e dall’altra l’eccesso della ridondanza asiana. Si tratta di

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Traglia 1993, p. 732. Norden 1986, p. 208.

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uno stile che, pur sacrificato dagli angusti confini del sapere tecnico-grammaticale e dalla mancanza di un lessico specialistico adeguato, si muove tra modelli letterari, anche poetici, che sostanziano l’esposizione teorica e ne esaltano la vocazione didascalica. In questo modo, Varrone ha creato un modello originale di prosa tecnica per la linguistica.

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II IL DE LINGUA LATINA NELLA STORIA DELLA LINGUISTICA ANTICA

2.1 La storia della linguistica greca e latina. Problemi e prospettive Gli studi classici hanno avviato da tempo un’attenta revisione del modello storiografico predominante da fine Ottocento in poi nella storia della linguistica antica, un modello ‘cumulativo’, di stampo positivista, in cui la ricostruzione dello sviluppo storico della disciplina poggiava sull’idea di un progressivo processo di accumulazione di nuove nozioni, da cui si generava l’equivoco di una grammatica antica rudimentale e non ancora compiutamente formalizzata. Nelle grandi sistemazioni ottocentesche (ad es. Classen 1829; Lersch 1838-1841), questa rigida periodizzazione della disciplina veniva osservata come una rigida sequenza evoluzionistica di fasi in crescendo: dall’emergere nell’alveo della filosofia dei primi rudimentali concetti linguistici in Grecia (dai filosofi pre-socratici al Cratilo platonico), fino alle complete sistemazioni manualistiche dell’ars grammatica nella tarda latinità. Il panorama degli studi si è gradualmente modificato sulla scia di alcuni importanti studi che dagli anni ’60 in poi hanno rimesso in discussione alcune opere e alcuni protagonisti cruciali della storia della linguistica antica che in queste pagine riassumeremo solo brevemente per poter adeguatamente valorizzare il contributo varroniano1.

1 Cfr. Taylor 1987, p. 1: «Historians of linguistics traditionally view the early history of the discipline as a unity; that is to say, they have tended to treat all ancient Greek and Latin grammatical theory and practise as parts of one continuous tradition extending from, say, the early 5th century B.C. to the late 5th century A.D. During this time the facts of grammatical gradually accumulated and were ultimately recorded in the great grammatical tomes and compendia which figure so prominently in subsequent intellectual history». A questo schema interpretativo tradizionale, che ha predominato nelle sistemazioni storiche dall’Ottocento (Lersch 1838-1841; Steinthal 1890-18912) a oggi (es. Barwick 1922; Robins 1951 e 1967; Law 2003) si possono affiancare gli spunti di innovazione metodologica per un rinnovamento nella storiografia linguistica

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In particolare è stata oggetto di un completo riesame quella fase della storia della cultura ellenistica che tra III e II secolo a.C. vide l’emergere di figure come Aristofane di Bisanzio, Cratete di Mallo, Aristarco e Dionisio Trace con la sua controversa Techne Grammatike (vd. discussione infra), pionieri dell’ars grammatica che la sistemazione varroniana nel De lingua Latina, dimostra di presupporre come fonti principali. Un profondo rinnovamento nell’approccio critico ha inoltre recentemente investito l’analisi delle teorie delle due grandi ‘scuole’ grammaticali dell’antichità, da una parte quella stoica, dall’altra quella alessandrina: l’attenta revisione delle (poche) testimonianze superstiti ha senza dubbio evidenziato uno scenario non solo di forte rivalità tra fautori di due visioni diverse del sistema linguistico (così come ci è restituito dalle fonti antiche, vd. infra § 3.2 sul dibattito analogia-anomalia) ma anche di reciproca profonda influenza tra le dottrine grammaticali stoica e alessandrina2. In questo senso, l’istanza conciliativa tra le due scuole greche che già si ritrova nelle pagine varroniane dei libri viii-x del De lingua Latina a partire dai concetti di declinatio naturalis e declinatio voluntaria, è un prezioso riflesso che il testo offre sul di-

avanzati, tra gli altri, da Schmitter 1987 che propone di interpretare la storia della linguistica all’interno della storia della scienza, come ‘storia di teorie’, dall’impostazione di Kaster 1988, con il rilievo dato al contesto socio-istituzionale in cui trova sviluppo la disciplina e infine da Giannini 1989. Quest’ultima propone un nuovo modello storiografico per la storia della linguistica antica in cui siano compresenti: la contestualizzazione della disciplina nel proprio orizzonte epistemologico ed istituzionale, l’analisi evolutiva che miri a valorizzare i singoli contributi originali degli autori, congiuntamente a un indispensabile approccio interdisciplinare, «trovandosi la grammatica in una sorta di confluenza tra interessi linguistici, filosofici e filologici» (p. 502). Nella stessa direzione conducono le riflessioni di Baratin-Desbordes 1981, pp. 9-13 e Swiggers-Wouters 1996, pp. 123-125, che auspicano un approccio metodologico più attento al ‘contenuto’ e al ‘contesto’ dei testi grammaticali dell’antichità: il complesso (e spesso poco conosciuto) background dei testi antichi, l’interpretazione della terminologia che questi testi offrono e la problematica traduzione nella terminologia linguistico-grammaticale moderna sono i punti cruciali che lo studioso deve affrontare. Fondamentali anche dal punto di vista metodologico i volumi miscellanei curati da Swiggers-Wouters 2002, 2003 e 2011. L’utilità della storia della linguistica antica per comprendere molti problemi della linguistica contemporanea è giustamente segnalata da Graffi 2010, pp. 22-40. 2 Importante in tal senso il contributo di Matthaios 2002, pp. 188-191 e 2005, pp. 29 ss.

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battito nel mondo greco e latino attorno a queste categorie. Se questi ambiti della grammatica ellenistica sono stati negli ultimi decenni oggetto di studi decisivi3, molto resta ancora da chiarire – come osservato da più parti – di quella che viene comunemente individuata dalla storiografia linguistica come ‘terza fase’, quella cioè della ricezione delle teorie grammaticali greche a Roma e che D. Taylor ha efficacemente valorizzato in quanto momento di ‘sintesi’ tra le varie istanze di dibattito linguistico nate nel mondo greco4. In particolare è il periodo a cavallo tra il II e I secolo a.C. che si può definire cruciale per la maturazione e l’affermazione della disciplina grammaticale come autonoma e che culmina nell’originale sistemazione dell’opera varroniana5. Il De lingua Latina si presenta come un unicum nella storia della grammatica: è la prima opera a noi giunta – seppur parzialmente – dall’antichità che affronta congiuntamente i due ambiti principali del dibattito grammaticale, l’origo verborum (l’etimologia) e lo studio della morfologia che presupponeva una sintesi more Romano tra le teorie greche dell’analogia e dell’anomalia finalizzata all’applicazione nella lingua latina. L’opera varroniana si pone in una posizione di assoluta originalità rispetto a quella che sarà almeno fino a Gellio la duplice tradizione dell’ars grammatica romana:

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Il punto in Pagani 2011 con esaustiva rassegna bibliografica. Taylor 1987, pp. 2 ss. e Taylor 1996, p. 12: «in the next or third stage Romans apply the results of Greek language science to the analysis of Latin and begin formulating their own linguistic principles and procedures». 5 Rimane ancora problematico lo status della linguistica latina, relativamente al concetto di ‘originalità’. Il pregiudizio, radicato nella storiografia letteraria almeno a partire da Mommsen, si basa su un’idea di originalità intesa come uno spontaneo movimento di pensiero che nulla ha a che fare con ciò che lo precede. In una prospettiva che suggerisce quasi una ‘caduta’ dal mondo greco a quello romano, l’apporto degli autori latini e dello stesso Varrone rimarrebbe circoscritto, secondo questa visione, ad una passiva ricezione di teorie greche: il saggio di Dahlmann 1932/1997 su Varrone, con la sua meticolosa Quellenforschung, ci fornisce in proposito un contributo esemplare. Una interessante rassegna bibliografica sulla fortuna di questa interpretazione è in RomeoTiberio 1971, che citano ad esempio Hughes 1962, p. 41: «in matter of linguistics, the Romans were, generally speaking, little more than translators (sometimes mistranslators) of what the Greek had developed» e Leroy 1963, p. 7: «les Latins s’efforçant de plier servilement l’étude de leur langue aux “regles” formulées par les théoriciens grecs et ne faisant que reprendre et propager les idées de ceux-là». 4

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da una parte quella della ‘grammatica tecnica’ (con la definizione di grammatica, gli officia della stessa, le litterae, le syllabae e infine le partes orationis) e dall’altra quella della ‘lingua corretta’ che doveva corrispondere al genere greco di trattazione περὶ Ἑλληνισμοῦ, dedicata alla trattazione della Flexionslehre in base ai quattro canoni (natura, analogia, consuetudo, auctoritas) creati per stabilire una norma sicura per la morfologia6.

2.2 La definizione del concetto di grammatica Le prime definizioni latine dell’ars grammatica sono varroniane. Provengono dai Disciplinarum libri e giungono a noi per tradizione indiretta (frr. 107, 108, 109 e 110 secondo l’edizione Goetz-Schoell). La più articolata recita: ars grammatica quae a nobis litteratura dicitur scientia est ‹eorum› quae a poetis historicis oratoribusque dicuntur ex parte maiore. Eius praecipua officia sunt quattuor: scribere legere intellegere probare (fr. 107 G.-S.= GL vi 4, 4-7)7. Nella prima parte, la definizione presuppone, se non addirittura traduce (pur con una notevole differenza di cui ci occuperemo tra poco) quella che viene considerata la prima definizione ‘tecnica’ di grammatica nel mondo greco e che viene attribuita a Dionisio Trace8. Sotto il nome di

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Cavazza 1987, p. 89. Com’è noto, il termine latino ricalca il greco γραμματική che designa però solo a partire dell’età ellenistica una disciplina autonoma che solo in minima parte corrisponde al concetto moderno di grammatica. Le prime considerazioni sul linguaggio erano contenute nei frammenti dei filosofi pre-socratici che dibattevano sull’origine φύσει o θέσει del linguaggio: con Protagora vide luce una prima classificazione dei nomi secondo il genere e dei modi verbali (indicativo, congiuntivo, ottativo, imperativo; vd. Pfeiffer 1968/1973, pp. 37-38). Ma è nel Cratilo platonico, considerato il primo trattato di linguistica dell’antichità che il linguaggio diventa protagonista attraverso l’analisi dell’etimologia e il rapporto convenzionale o naturale tra le parole e le cose. Nel Cratilo e anche nel Sofista si alimenta il dibattito sulla ὀρθότης ὀνομάτων, unitamente alle osservazioni sulla struttura del logos; nasce la distinzione tra ὄνομα e ῤῆμα (Soph. 261d) che rappresenta il punto di partenza per le successive riflessioni sulle parti del discorso. 8 Ancora più antica è la definizione di ‘grammatica’ di Eratostene nato a Cirene tra il 276 e il 273 a.C. e successore di Apollonio alla direzione della Biblioteca di Alessandria, geografo e matematico. Secondo le fonti: Ἐρατοσθένης ἔφη ὅτι γραμματική ἐστιν ἕξις παντελὴς ἐν γράμμασι, γράμματα καλῶν τὰ συγγράμματα (Schol. Vat. Dion. Thrax in 7

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questo filologo alessandrino, allievo di Aristarco e in seguito insegnante a Rodi dopo la secessio doctorum da Alessandria, vissuto tra il 170 e il 90 a.C. e specializzato nell’esegesi dei testi omerici, è stata tramandata la prima teorizzazione sulla struttura della lingua greca, rimasta sostanzialmente di riferimento in tutta la tradizione latina successiva. La Techne nasce in ambiente alessandrino, riunisce le acquisizioni di secoli di riflessione e pone le basi da una parte per quella che sarà la filologia, dall’altra per la grammatica descrittiva dei giorni nostri9. Nell’incipit dell’opera la grammatica viene definita ἐμπειρία τῶν παρὰ ποιηταῖς τε καὶ συγγραφεῦσιν ὡς ἐπὶ τὸ πολὺ λεγομένων (GG i/i 5, 1-2)10, ossia come una disciplina finalizzata alla conoscenza e all’interpretazione dei testi letterari. Subito dopo, nel testo dionisiano, vengono enumerate le sei parti di cui è composta la disciplina: «la prima è la lettura esperta secondo le regole dell’accentazione, la seconda l’interpretazione secondo i tropi poetici presenti nel testo, la terza la spiegazione delle glosse e illustrazione di carattere storico, la quarta la ricerca etimologica, la quinta la considerazione dell’analogia, e infine la sesta il giudizio critico delle opere poetiche, che è la cosa più bella di questa disciplina»11. Fin qui il programmatico incipit, in cui la disciplina grammaticale è tout court attività filologica su testi letterari, nel solco della tradizione alessandrina. La grammatica è pertanto l’arte che si acquisisce attraverso la pratica diretta degli scritti di poeti e prosatori: invece che sullo statuto epistemologico della disciplina,

GG i/iii 160, 10-11), «Eratostene sosteneva che la grammatike è la padronanza completa nelle lettere, intendendo con lettere le composizioni letterarie» (trad. proposta da L. Pagani in www.aristarchus.unige.it/pawag, s.v.): una disciplina dunque pratica, basata sui testi (per un inquadramento esaustivo della definizione, si rinvia a Matthaios 2011). Su questi stessi principi, si fonderà la definizione che Dionisio Trace cent’anni dopo darà della disciplina che si accingeva a diventare ‘tecnica’. 9 Prencipe 2002, p. 50. 10 «La grammatica è la conoscenza empirica delle parole usate solitamente dai poeti e dagli scrittori». Di Benedetto 1958-1959, p. 179 traduce: «esperienza il più possibile estesa di quanto si legge presso poeti e scrittori».

Μέρη δὲ αὐτῆ ἐστιν ἕξ• πρῶτον ἀνάγνωσις ἐντριβὴς κατὰ προσῳδίαν, δεύτερον ἐξήγησις κατὰ τοὺς ἐνυπάρχοντας ποιητικοὺς τρόπους, τρίτον γλωσσῶν τε καὶ ἱστοριῶν πρόχειρος ἀπόδοσις, τέταρτον ἐτυμολογίας εὕρεσις, πέμπτον ἀναλογίας ἐκλογισμός, ἕκτον κρίσις ποιημάτων, ὃ δὴ κάλλιστόν ἐστι πάντων τῶν ἐν τῇ τέχνῃ. 11

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la definizione presta attenzione al metodo su cui si fonda, ossia lo studio attivo di testi e l’osservazione dei fenomeni linguistici, riflettendo «lo status di un’arte in formazione, non ancora acquisita in modo definitivo, ma per così dire alla ricerca delle sue regole attraverso il metodo induttivo»12. Com’è noto, la testimonianza di Dionisio Trace è resa problematica dai dubbi di autenticità sollevati da più parti e che investono la seconda parte dell’opera13. Questa non sembra infatti avere alcun collegamento non solo contenutistico, ma anche formale con la prima parte: si tratterebbe di un arbitrario montaggio forse attribuibile a un anonimo compilatore che aveva premesso al trattato tecnico-grammaticale la celebre definizione della grammatica, quest’ultima di sicura paternità dionisiana perché citata integralmente da Sesto Empirico14. Quel che più interessa però sottolineare in questa sede è il dibattito che attorno alla definizione di grammatica di Dionisio si accese nell’antichità: Sesto Empirico ci riferisce di numerose critiche rivolte a questa, avanzate da Tolemeo Peripatetico e Asclepiade di Mirlea, ovvero già nel corso del I secolo a.C., epoca in cui – come abbiamo già detto – avviene un importante cambiamento in seno alla grammatica. In particolare, Asclepiade (apud Sex. Emp. adv. i 74), attivo ad Alessandria, in Spagna e a Roma in età pompeiana15, proponeva significativamente di sostituire ἐμπειρία con τέχνη af12

Callipo 2011, p. 45. Dopo la definizione e la suddivisione della grammatica nella prima sezione dell’opera, la seconda tratta della lettura, seguita da accentazione e interpunzione (parr. 3-4): dal § 5, che contiene una discussione sulla rapsodia, si fa evidente uno iato tra prima parte e i capitoli tecnici che seguono (§ 6 le lettere, §§ 7-10 le sillabe e §§ 1120 le parti del discorso) considerando, tra le altre cose, che delle sei parti della grammatica menzionate in § 1 solo la prima viene discussa. Il sospetto di non autenticità dei parr. 6-20, ossia della trattazione grammaticale vera e propria, era già stato avanzato negli scholia alla Techne stessa (cfr. Prolegomena Vaticana, in GG i/iii 124, 7-14 e 161, 2-8) e ampiamente supportato dagli studi di Di Benedetto attraverso l’esame di tutte le fonti a disposizione confrontate per la prima volta anche con i papiri grammaticali. 14 Adversus Mathematicos i 57. Cfr. Di Benedetto 1958-1959, pp. 181-182. In seguito, Di Benedetto ha rivisto la sua posizione, estendendo a tutti i parr. 2-20 dell’opera dionisiana il giudizio di inautenticità (Id. 1998, pp. 152-153). 15 Si dedicò all’esegesi dei testi di Omero e Teocrito; sempre grazie a Sesto Empirico (Adversus Mathematicos i 252-253) leggiamo un frammento relativo alla descrizione delle parti della grammatica: per Asclepiade essa comprende una sezione tecnica (τεχνικόν), una storica (ἱστορικόν) e infine quella propriamente filologica (γραμματικόν). 13

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fermando: γραμματική ἐστι τέχνη τῶν παρὰ ποιηταῖς καὶ συγγραφεῦσι λεγομένων. La stessa problematica terminologia si ritrova nella definizione varroniana citata poco sopra, che utilizza il termine scientia, sicuramente più vicino a τέχνη che ad ἐμπειρία (anche se nella tradizione grammaticale latina il termine usato per tradurre τέχνη sarà ars,che si trova del resto già in Varrone, ling. viii 6). Ma la conseguenza più importante di questo dibattito sorto attorno alla vexata quaestio dell’autenticità dell’opera dionisiana potrebbe essere un’altra: se la Techne è spuria16, nel primo secolo a.C. mancava ancora un’opera di riferimento, un’opera di fissazione canonica dell’ars grammatica. La storia della grammatica andrebbe pertanto rivista completamente: non scienza definita già nel II secolo a.C., ma ancora disciplina in evoluzione, e «se non è possibile usare la Techne come fonte delle conoscenze grammaticali di III secolo a.C. è allora necessario rivalutare il contributo di grammatici vissuti Cfr. Pagani 2007, pp. 31-34. 16 In questo senso, il dibattito è ancora aperto. Un’ipotesi così radicale come quella di Di Benedetto ha incontrato una serie di critiche volte a ridimensionare la portata delle conclusioni: all’analisi di tipo ‘negativo’ si è talvolta preferito il recupero del nucleo originario dionisiano, distinto rispetto alle aggiunte più tarde (Belardi 1974). Queste presenze autentiche si possono rintracciare anche attraverso il confronto con altri testi grammaticali successivi alla Techne dionisiana, e che solo apparentemente la ignorano. Secondo Belardi 1974, infatti, alcuni loci varroniani (x 22, viii 1, viii 49, viii 63) riporterebbero la classificazione dionisiana dei casi morfologici. Accettano in pieno l’ipotesi di Di Benedetto, ad es. Fraser 1972, Pinborg 1975, Siebenborn 1976, Saraiva Barreto 1979-80, mentre la rifiutano Pfeiffer 1968/1973, pp. 271 ss. ed Erbse 1980, pp. 252-258 che ne contestano l’eccessivo ricorrere ad argomentazioni e silentio: Di Benedetto infatti aveva posto in rilievo il sospetto silenzio di autori come Apollonio Discolo, Erodiano, Sesto Empirico e Quintiliano, i quali non citano mai dalla Techne. Questo oblio, che assumerebbe quasi l’aspetto di una damnatio memoriae, non sarebbe spiegabile se non con la non-autenticità dell’opera. Nell’ultimo lavoro (postumo) di V. Law (2003) si considerano autentici solo i primi 5 capitoli dell’opera. Matthaios 2002, p. 170 ss. ha ulteriormente modificato i termini della questione: non è necessario identificare in Dionisio Trace l’autore della Techne per riconoscere che le nozioni lì contenute risalgano all’ambiente alessandrino del II-I secolo a.C. (vd. Callipo 2011, pp. 32-33). In più, con Pagani 2010, pp. 408-409 si deve riconoscere come il dibattito sull’autenticità non debba inficiare l’autorità grammaticale di Dionisio Trace, nota anche attraverso altri frammenti tràditi che provano il contributo di questo grammatico alla riflessione sugli aspetti linguistici come presupposto del lavoro di interpretazione dei testi letterari.

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dopo Dionisio Trace per ricostruire l’evoluzione delle ricerche linguistiche nel corso del I secolo a.C.: Asclepiade di Mirlea, Tirannione il Vecchio, Trifone (noti solo per frammenti) ma soprattutto Varrone con il De lingua Latina e le preziose informazioni che può riservare sugli sviluppi della linguistica a quest’altezza temporale»17.

2.3 Il contesto storico del pensiero linguistico di Varrone È tra II secolo e I secolo a.C. che si realizza l’incontro tra cultura greca e cultura romana con l’inevitabile emergere del dibattito linguistico. Un importante ruolo di intermediazione culturale, com’è noto, giocò l’isola di Rodi. In questa fase cronologica si colloca infatti il momento di massimo fervore culturale dell’isola, un centro di studi in cui si incontrarono le varie anime culturali della grecità in un momento in cui la crisi politica e culturale di Alessandria aveva portato come conseguenza una diaspora di intellettuali18. A Rodi convivevano la tradizione alessandrina con l’insegnamento grammaticale di Dionisio Trace, la filosofia stoica di Posidonio, la retorica di Apollonio Molone. L’isola poteva quindi vantare i migliori grammatici e retori dell’epoca e questo attirò molti discepoli da Roma: Quinto Scevola, Marco Antonio oratore, Metello Numidico, Elio Stilone, Servio Sulpicio, Cicerone e Cesare sono solo alcuni nomi19.

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Callipo 2011, p. 32. Cfr. Di Benedetto 1958-1959, pp. 199 ss. Nel 145 a.C., il sovrano Tolomeo viii aveva allontanato da Alessandria tutti gli intellettuali sospettati di simpatia per il rivale al trono (Tolemeo Eupatore): primo tra tutti Aristarco, seguito dal discepolo Dionisio Trace, che scelsero proprio Rodi come sede per continuare la loro attività di insegnamento. Polibio (xxix 6, 4 e xxxi 3, 1) racconta l’abilità con la quale i Rodii, pur mantenendo una discreta indipendenza politica persino da Roma, riuscivano a procurarsi sostanziosi finanziamenti dai sovrani illuminati dei regni vicini; cfr. Della Corte 1939, pp. 255-256. 19 Un elenco completo è stato redatto da Mygind 1999, pp. 247-293. L’importanza di questo ‘passaggio’ per la disciplina nascente a Roma, viene giustamente messo in luce da Nicolai 1992: «I maestri rodii, che trasmettono a Roma le ultime novità della scienza grammaticale (Tirannione ad esempio), non concepivano una rigida separazione tra grammatica e retorica perché lo stile, l’elocutio, non poteva essere definito se non attraverso un approfondimento coordinato di concetti grammaticali e concetti retorici» (p. 212). 18

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Fra questi, spicca il nome di Elio Stilone, maestro di Varrone e pioniere nella vita culturale romana per l’impulso dato a Roma alla prosa, precisamente a quella retorica sviluppatasi relativamente tardi, e allo studio dell’etimologia. Ricordiamo la nota testimonianza di Svetonio (gramm. 3, 1 e 3, 4): Instruxerunt auxeruntque ab omni parte grammaticam L. Aelius Lanuvinus generque Aeli Ser. Clodius, uterque eques Romanus multique ac varii et in doctrina et in re publica usus … Posthac magis ac magis et gratia et cura artis increvit, ut ne clarissimi quidem viri abstinuerint quominus et ipsi aliquid de ea scriberent utque temporibus quibusdam super viginti celebres scholae fuisse in urbe tradantur.

Nativo di Lanuvium, Stilone fu a Rodi al seguito di Cecilio Metello Numidico nel 100 a.C., dove probabilmente ebbe l’occasione di conoscere e ascoltare le lezioni di Dionisio Trace20. Com’è noto, a Elio viene attribuita nell’Anecdoton Parisinum (un breve testo tràdito dal codice Parisinus Latinus 7530, ff. 28r-29r = GL vii 533-536) l’introduzione a Roma dei segni diacritici usati ad Alessandria da Aristarco per la revisione testuale (obelos, antisigma etc.). L’interesse per l’esegesi trova conferma anche negli studi linguistici e filologici plautini, nei quali Stilone si distinse particolarmente per aver riconosciuto come autentiche solo 25 commedie delle 130 che andavano sotto il nome del commediografo21. Svetonio (gramm. 2, 3) ricorda poi le molte orazioni scritte da Elio per personaggi famosi (orationes nobilissimo cuique scribere solebat), e lo stesso fa Cicerone (Aelius … qui scriptitavit orationes multis, orator ipse numquam fuit, Brut. 169). Nel campo propriamente linguistico, oltre all’adesione alla diffusa teoria del latino come ‘dialetto greco’22, alcuni frammenti testimoniano un relativo interesse per il sermo rusticus come fonte di arcaismi23. E questo gusto per l’arcaismo

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Cfr. Della Corte 19812, p. 100. La testimonianza è di Gellio, noct. iii 3,12: Feruntur autem sub Plauti nomine comoediae circiter centum atque triginta; sed homo eruditissimus L. Aelio quinque et viginti eius esse solas existimavit. Questa 1984 attribuisce proprio ad Elio Stilone la prima vera edizione critica del testo plautino, a cui risale la colometria conservataci dalla tradizione manoscritta. 22 Gabba 1963. 23 Dalivum – ait esse – Aelius stultum. Oscorum quoque lingua significat insanum (fr. 21

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sarà stato anche alla base dell’interpretatio carminum Saliorum24 e dell’interesse per le xii tavole, noto solo grazie a brevi cenni25. Come probabile corredo agli studi filologici vanno intese le riflessioni di natura etimologica di Stilone. Il suo è il primo esempio – come ha notato Della Corte 19812, p. 105 – di ricerca etimologica «che non abbia fini apologetici e non voglia asservirsi ad alcun preconcetto filosofico, ma preferisce al contrario la pura ricerca linguistica, e l’indagine, nel corpo della parola, delle origini, degli sviluppi, nelle cause e negli effetti». Le più famose sono le etimologie κατʼἀντίφρασιν, «per immagine contraria», secondo cui miles viene connesso etimologicamente ‘per antifrasi’ a mollitia, quod nihil molle sed potius asperum quid gerat (fr. 15, p. 61 Fun.); lo stesso meccanismo era alla base dell’indagine attorno agli etimi di manes (fr. 1, p. 57 Fun.), caelum (fr. 7, p. 59 Fun.), ordinarius (fr. 26, p. 64 Fun.), simultas (fr. 71, p. 75 Fun.). Celeberrime quelle di lucus, ludus e Ditis, raccolte in un’unica testimonianza quintilianea (inst. i 6, 34 = fr. 59, p.72 Fun.): Lucus quia umbra opacus parum luceat et ludus quia sit longissime a lusu et Ditis quia minime dives.

Si tratta di tentativi sicuramente ascrivibili all’influenza delle idee etimologiche degli Stoici convinti che nullum esse verbum cuius non certa explicari origo possit 26: in particolare, la fiducia negli axiomata stoici e

8, p. 60 Fun. = Paul. Fest. p. 59, 17 ss. Lindsay). Aelius Dium Fidium dicebat Diovis filium, ut Graeci Διόσκορον Castorem, et putabat hunc esse Sancum ab Sabina lingua et Herculem a Graeca (fr. 9, p. 60 Fun. = Varro, ling. v 66). Della Corte 19812, p. 109 arriva ad attribuire a Elio intuizioni moderne sul provincialismo come fenomeno arcaizzante e conservativo, anche se le poche informazioni ricavabili dai frammenti possono solo suggerire un’acuta osservazione della realtà linguistica. Sul problema della Sprachbewusstsein nel mondo romano si veda l’analisi di Müller 2001 (in particolare pp. 271 ss.). 24 Frr. 1-3, pp. 57-58 Fun. Tra tutte le testimonianze spicca la famosa etimologia di manes: manuos in carminibus saliaribus Aelius Stilo significare ait bonos, ut inferi di manes pro boni dicantur a suppliciter eos venerantibus propter metum mortis, ut immanes quoque pro valde ‹non bonis› dicatur. 25 In Cicerone, top. 10 = fr. 6, p. 59 Fun; de leg. ii 59 = fr. 13, p. 61 Fun. e in Festo, p. 372, 2 ss. Lindsay = fr. 36, p. 66 Fun. 26 Aug. dialect. 6, 9. Cfr. Zamboni 1976, pp. 20-21.

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l’interesse già aristotelico sull’essenza dell’opposizione contraria (SVF ii 173) nonché dell’opposizione contraddittoria (SVF ii 172-179) finirono per portare Elio Stilone ad applicare questi principi anche nel campo linguistico. Al di là delle indubbie inesattezze di tali ricostruzioni etimologiche che molta fortuna ebbero nella grammatica tardo-antica (ad es. Maltby 1991, p. 349, s.v. lucus) è importante valorizzare, con Oniga 1997a, la teoria morfologica sottesa a queste derivazioni antiche che presuppongono in primo luogo la possibilità, tra le risorse del sistema morfologico della lingua, di derivare una parola dal suo contrario: una volta individuato un morfema comune a due parole, si postulava un rapporto di derivazione tra un tema verbale (es. lucere nel caso di lucus) e un tema nominale (lucus appunto) basandosi sull’analogia con altre derivazioni più trasparenti presenti nella lingua, come quelle del tipo scire/scius. La mancanza di una adeguata restrizione semantica a queste derivazioni produceva tuttavia sequenze etimologiche scorrette27. «Questo metodo etimologico di Stilone doveva servire al suo discepolo [sc. Varrone] per costituire la storia culturale: un intero mondo filologico con le sue idee cardinali» (Della Corte 19702, p. 34): nell’enciclopedismo varroniano troveranno infatti spazio le molteplici suggestioni culturali e grammaticali del mondo alessandrino da una parte e dall’altra di quello stoico-pergameno. Oltre all’apprendistato culturale a Rodi, fu un altro il canale attraverso il quale intere generazioni di romani appresero la disciplina grammaticale, ossia l’insegnamento dei γραμματικοί greci a Roma. Molti di questi grammatici che poi ebbero in Roma grande successo, provenivano da luoghi remoti, talvolta come schiavi o prigionieri di guerra; se di nascita libera, trovavano nell’insegnamento e nella ricerca grammaticale un’opportunità

27 Dal punto di vista antropologico questa metodologia antica presenta corollari assai interessanti. Si può infatti rilevare con Oniga 1997a, pp. 235-237 come «l’indagine etimologica per “antifrasi” non si è spinta al di là della pur importante individuazione dell’origine di questo processo logico nella dialettica stoica […]. Nelle etimologie per antifrasi è evidente infatti l’emergere di una particolare logica, libera da ogni costrizione, che si manifesta anche in altri campi del pensiero antico […]. Ci accorgiamo dunque che le spiegazioni date dai grammatici latini per mezzo dell’antifrasi possono fornirci importanti informazioni sulla diffusione di un modo di pensare e di concepire il linguaggio di tipo essenzialmente mitico».

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di riconoscimento sociale. Staberio Erote, ad esempio, arrivò a Roma presumibilmente nell’83 a.C., a bordo di una nave di schiavi proveniente da Antiochia e come tutti gli altri finì esposto sulla catasta, per essere venduto28. Dopo esser stato affrancato per le sue capacità intellettuali, aprì una scuola presso la quale ebbe come allievi anche personalità illustri come Bruto e Cassio, e dovette essere apprezzato a tal punto da motivare addirittura il titolo di conditor grammaticae attribuitogli da Plinio il Vecchio (nat. xxxv 199). Ma, cosa ancor più interessante, sappiamo che si occupò di analogia, nel suo lavoro De proportione (un antecedente del De analogia di Cesare). Evidentemente, le riflessioni linguistiche sulla ἀναλογία o proportio non circolavano solo in una ristretta cerchia di eruditi, ma erano oggetto di discussione prima di tutto in sede didattica, dove il problema della ratio loquendi era necessariamente sentito come primario. Significativa è poi la storia di Tirannione, detto il Vecchio: allievo di Dionisio Trace a Rodi e poi insegnante ad Amiso, sulle rive del Mar Nero, finì in schiavitù, quando nel 70 a.C. il comandante romano Lucullo conquistò la città. Fortunatamente entrò nelle grazie di quest’ultimo e del suo legato Murena, fatto che gli permise prima l’affrancamento e in seguito una carriera di successo sia come insegnante sia come bibliotecario29. Ebbe un ruolo importante nel recupero delle opere acroamatiche di Aristotele, i cui manoscritti erano stati acquistati dal bibliofilo Apellicone di Teo e portati in seguito a Roma come bottino di guerra da Silla, dopo il sacco di Atene dell’87-86. Alla morte del figlio di Silla, nel 46, la biblioteca fu affidata alla custodia di Tirannione, che fu quindi il primo a divulgare in Roma i nuovi testi aristotelici. Della stima di cui godeva questo ‘insegnante bibliofilo’ abbiamo prova nell’epistolario di Cicerone30. A Tirannione è attribuita la 28

Svet. gramm. 13,1: vd. Power 2012 sulle problematiche testuali del passo. Per un’analisi generale vd. Bonner 1986, pp. 81 ss. 29 Le notizie biografiche provengono dalla Suda (τ 1185 Adler), da Plutarco, Lucull. 19 e da Strabone xii 3, 16. Si rinvia alla voce curata da L. Pagani, ‘Tyrannion [1] Maior’, in: Lexicon of Greek Grammarians of Antiquity (http://referenceworks.brillonline.com/ browse/lexicon-of-greek-grammarians-of-antiquity). 30 Questi nel 56 a.C. scrive al fratello Quinto in merito all’educazione del nipote: Quintus tuus, puer optimus, eruditur egregie; hoc nunc magis animum adverto, quod Tyrannio docet apud me e contemporaneamente si compiace con l’amico Attico per l’opera dell’erudito greco come bibliotecario, tanto che postea vero quam Tyrannio mihi libros disposuit, mens addita videtur meis aedibus (Att. iv 8, 2).

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prima trattazione sulle parti del discorso, un Περὶ τῶν μερῶν τοῦ λόγου (fr. 56 Haas)31. In un pregevole studio, è stata messa in rilievo l’importanza di questa figura anche per Varrone, che dovette conoscerlo attorno agli anni sessanta, al ritorno dalla propretura in Asia32: da questo incontro sarebbe scaturito nel Reatino l’interesse per le speculazioni linguistiche e, non a caso, la maggior parte dei suoi scritti grammaticali risulta essere posteriore all’anno 47. Dello scambio culturale tra i due si ha riprova nella corrispondenza tra gli studi di Tirannione, rimasti per noi poco più che titoli, e gli interessi varroniani. In particolare, il Περὶ τῆς Ρωμαϊκῆς διαλέκτου sarebbe la teorizzazione della diretta filiazione della lingua latina da quella greca, quale si ritrova successivamente in Varrone (frr. 295-296, pp. 311-312 Fun.; ling. v 26)33. L’influenza di un Περὶ προσῳδιῶν di Tirannione si ritrova anche nello studio della pronuncia e dell’accento, tanto che in un frammento sull’opera De sermone Latino di Varrone (GL iv 529, 10-530, 12 = fr. 282, p. 301 Fun.) si può rintracciare un vero e proprio debito teorico sulla teoria dell’‘accento medio’34. È ancora da Tirannione che derivano probabilmente le citazioni aristoteliche presenti nel De lingua Latina (in particolare quelle relative alla descrizione delle partes orationis in viii 11)35. 31

All’interno di quest’opera si dovrà collocare la definizione di grammatica come

θεωρία μιμήσεως (Schol. Vat. Dion. Thrax in GG i/iii 121, 17 = fr. 57 Haas) attribuita

a Tirannione, in cui grammatica e retorica risultano unite nell’imitazione dei modelli, a dimostrazione della commistione di queste due discipline nella prassi scolastica di ambiente rodio, trapiantata poi in Roma (Nicolai 1992, pp. 205-206). 32 Lehmann 1997, pp. 118 ss. 33 Cfr. Gabba 1963, p. 189. 34 Tyrannion vero Amisenus, quem Lucullus Mithridatico bello captum Lucio Murenae concessit, a quo ille libertate simul et civitate donatus est, quattuor scribit esse prosodias, βαρεῖαν μέσην ὀξεῖαν et περισπωμένην … In eadem opinione et Varro fuit, qui in leges suas redigit accentus, ductus scientia et doctrina eius, qua omnibus a se propositis evidentissimas affert probationes, ut id quoque pro media prosodia facit dicendo ipsam naturam nihil facere totum, ubi non sit medium; ut enim inter rudem et eruditum, inter calidum et frigidum, amarum et dulcem, longum et brevem est quiddam medium, quod neutrum est, sic inter imam summamque vocem esse mediam, ibique quam quaerimus prosodiam. … scire enim oportet rationis huius recens non esse commentum, sed omnium qui ante Varronem et Tyrannionem de prosodia aliquid reliquerunt plurimos et clarissimos quosque mediae huius fecisse mentionem … Il frammento riferisce quindi di una teoria tirannoniana sull’accento medio (oggetto di una vera e propria pubblicazione, come segnala l’espressione scribit), condivisa e poi ampliata da Varrone. 35 Lehmann 1997, pp. 128-129.

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III IL PROBLEMA DELL’ANALOGIA E IL IX LIBRO DEL DE LINGUA LATINA

3.1 Il concetto di analogia nel pensiero filosofico e scientifico greco. L’origine matematica Il problema del rapporto tra analogia e anomalia occupa un posto fondamentale nel dibattito linguistico antico e nella riflessione varroniana sviluppata nel ix libro del De lingua Latina. Sarà perciò utile, preliminarmente, cercare di ripercorrere in breve la storia del termine greco ἀναλογία1.

1

Appare più controversa l’evoluzione del concetto di ‘analogia’ nella linguistica moderna. Come osservò Pietro Ferrarino 1947, pp. 427-428: «Bisogna guardarsi bene dal confondere il termine di analogia usato dai linguisti moderni, con quello dei filosofi e dei grammatici antichi, giacché l’analogia – nel senso odierno – viene quasi a coprirsi proprio con la sua antitesi nell’antichità, e cioè con l’anomalia». Effettivamente, nella grammatica storica e comparata ottocentesca, a partire almeno da Bopp 1833-1852, con un rovesciamento pressoché totale rispetto all’accezione originaria del termine, di analogia si parla sempre in termini di falsche Analogie. La concezione romantica dell’epoca guardava infatti alle origini della lingua come ad uno stato di perfezione e considerava in termini negativi qualsiasi processo diverso rispetto a questo quadro ideale. Una svolta importante arriva con i neogrammatici. Com’è noto, la prima formulazione del principio della ineccepibilità delle leggi fonetiche è dovuta a Leskien il quale, per spiegare comunque l’esistenza di apparenti eccezioni, inserisce nella dialettica il principio dell’analogia (1876, p. 2). La formulazione divenuta classica del concetto di legge fonetica si ritrova poi ancor più rigida nell’opera fondamentale di Osthoff e Brugman (1878), dove l’analogia assurge a principio linguistico fondamentale. Per analogia si intende, infatti, il riavvicinamento concettuale di una forma ad un’altra, l’influsso che la forma di un vocabolo esercita su quella di un altro con cui si trova in un rapporto logico di parallelismo. Non più considerato solo come corruzione erronea, l’influsso analogico diviene un fattore con valenza psicologica che contrasta i fattori fisiologici che sono alla base delle leggi fonetiche. La teoria neogrammaticale continua a privilegiare comunque l’assoluta uniformità e regolarità dei fenomeni dell’evoluzione linguistica. Un rovesciamento di prospettiva avviene nel Novecento grazie al pensiero di Ferdinand de Saussure. Il punto di vista prevalente nello studio del linguaggio diventa infatti non

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Un primo utilizzo è documentato nella teoria musicale pitagorica e precisamente nei frammenti di Archita di Taranto (400-350 a.C. circa), autore di quello che si può definire il primo vero testo matematico pervenutoci dal mondo greco. Nello studio sui rapporti proporzionali che legano le note musicali, Archita utilizza il termine analogia nell’accezione di uguaglianza di rapporti matematici. La scuola pitagorica distingueva infatti tre specie di proporzioni: quella aritmetica (a – b = c – d), quella geometrica (a : b = c : d), e quella armonica (1/b – 1/a = 1/d – 1/c). Solo la prima delle tre viene definita con il termine ἀναλογία (Archita, fr. 2, 23 ss. Diels-Kranz): ἀριθμητικὰ μέν, ὅκκα ἔωντι τρεῖς ὅροι κατὰ τὰν τοίαν ὑπεροχὰν ἀνὰ λόγον • ὧι πρᾶτος δευτέρου ὑπερέχει, τούτωι δεύτερος τρίτου ὑπερέχει. καὶ ἐν ταύται τᾶι ἀναλογίαι συμπίπτει ἦιμεν τὸ τῶν μειζόνων ὅρων διάστημα μεῖον, τὸ δὲ τῶν μειόνων μεῖζον 2.

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Il termine matematico greco, ἀναλογία, è formato a partire dal termine logos, che nel lessico specifico designa appunto il rapporto tra due numeri

più l’evoluzione diacronica, ma il funzionamento sincronico: l’analogia non è più un fattore di turbamento nell’evoluzione fonetica ma diventa la fonte, interamente grammaticale e sincronica, della creatività linguistica. «Una forma analogica è una forma fatta a immagine d’una o più altre secondo una regola determinata. Così, ad esempio, il nominativo latino honor è analogico. Si è detto dapprima honos : honosem, poi, per rotacizzazione della s, honos : honorem. Il radicale ebbe da quel momento una doppia forma; questa dualità fu eliminata dalla nuova forma honor, creata sul modello di orator : oratorem, con un procedimento che studieremo più oltre e che già ora riconduciamo al calcolo del quarto termine d’una proporzione, ossia oratorem : orator = honorem : x, con x = honor» (de Saussure 1916/1967, p. 195). La scelta di esemplificare il concetto attraverso una proporzione matematica è significativa, perché la creazione analogica è concepita come un processo governato da una regola precisa, e il modello della proporzione fornisce uno schema interpretativo efficace di tale processo. In tal modo, la linguistica contemporanea finisce per riavvicinarsi alla concezione antica del termine (qui e altrove in questo paragrafo viene ripreso e ampliato quanto proposto in Duso 2006). 2 «La proporzione aritmetica si ha quando tre termini stanno fra loro in rapporto secondo una data eccedenza; ovvero di quanto il primo supera il secondo, di tanto il secondo supera il terzo. In questa uguaglianza di rapporti (analogia) accade che l’intervallo dei termini maggiori è minore, quello dei minori è maggiore». Cfr. Huffman 2005, pp. 179-180.

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il problema dell’analogia e il ix libro del DE LINGUA LATINA

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o grandezze. Il termine entra così a far parte in modo definitivo del lessico scientifico greco, e da questo preciso ambito viene mutuato nella riflessione filosofica di Platone e Aristotele. Platone, che conobbe personalmente Archita (com’è dimostrato dall’esplicita citazione nella vii lettera platonica), riprende occasionalmente il rapporto di tipo numerico come uno schema, un modello funzionale alla propria ricerca di articolazioni e rapporti comprensibili tra le idee. Com’è noto, il procedimento fondamentale di Platone è la diairesis (cioè il passaggio dall’uno al molteplice e viceversa), tuttavia anche l’analogia ha un ruolo centrale nel procedimento logico, come in Repubblica vii 533e 7-534a 8 dove il termine definisce il rapporto tra le quattro forme di conoscenza: Ἀρκέσει οὖν, ἦν δ’ ἐγώ, ὥσπερ τὸ πρότερον, τὴν μὲν πρώτην μοῖραν ἐπιστήμην καλεῖν, δευτέραν δὲ διάνοιαν, τρίτην δὲ πίστιν καὶ εἰκασίαν τετάρτην • καὶ συναμφότερα μὲν ταῦτα δόξαν, συναμφότερα δ’ ἐκεῖνα νόησιν • καὶ δόξαν μὲν περὶ γένεσιν, νόησιν δὲ περὶ οὐσίαν • καὶ ὅτι οὐσία πρὸς γένεσιν, νόησιν πρὸς δόξαν, καὶ ὅτι νόησις πρὸς δόξαν, ἐπιστήμην πρὸς πίστιν καὶ διάνοιαν πρὸς εἰκασίαν • τὴν δ’ ἐφ’ οἷς ταῦτα ἀναλογίαν καὶ διαίρεσιν διχῇ ἑκατέρου, δοξαστοῦ τε καὶ νοητοῦ, ἐῶμεν, ὦ Γλαύκων, ἵνα μὴ ἡμᾶς πολλαπλασίων λόγων ἐμπλήσῃ ἢ ὅσων οἱ παρεληλυθότες 3.

L’analogia è alla base anche della teorizzazione della metafora poetica, così come viene elaborata da Aristotele nella Retorica (1407a 15) e nella Poetica (1457b, 7-9). In entrambi i casi, dopo aver affermato che la metafora consiste nel trasferire a un oggetto il nome che è proprio di un altro, vengono elencati i vari tipi di sostituzione: l’ultimo è quello per analogia. La

3 «Dunque va bene, dissi, chiamare come s’è fatto prima, scienza la prima frazione, pensiero dianoetico la seconda, credenza la terza e immaginazione la quarta; e queste due ultime insieme opinione e le altre due insieme intellezione; e va bene dire che l’opinione ha per oggetto la generazione, l’intellezione l’essenza, e che l’intellezione sta all’opinione come l’essenza alla generazione, e la scienza sta alla credenza e il pensiero dianoetico all’immaginazione come l’intellezione all’opinione. Quanto poi alla corrispondenza degli oggetti ai quali questi termini si riferiscono [analogia] e alla bipartizione [diairesis] dell’una e dell’altra sezione, opinabile e intelligibile, lasciamole stare, Glaucone, perché non ci facciano dilungare assai più di quanto abbiamo fatto prima» (trad. F. Sartori).

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rappresentazione attraverso una proporzione matematica rende esplicito, dal punto di vista formale, quello che modernamente viene inteso come rapporto di similarità paradigmatica esistente tra le parole che possono essere sostituite in una medesima posizione sintagmatica all’interno di una data frase4. La formulazione è la seguente (Poetica 1457b, 6-9; 16-22): μεταφορὰ δέ ἐστιν ὀνόματος ἀλλοτρίου ἐπιφορὰ ἢ ἀπὸ τοῦ γένους ἐπὶ εἶδος ἢ ἀπὸ τοῦ εἴδους ἐπὶ τὸ γένος ἢ ἀπὸ τοῦ εἴδους ἐπὶ εἶδος ἢ κατὰ τὸ ἀνάλογον … τὸ δὲ ἀνάλογον λέγω, ὅταν ὁμοίως ἔχῃ τὸ δεύτερον πρὸς τὸ πρῶτον καὶ τὸ τέταρτον πρὸς τὸ τρίτον • ἐρεῖ γὰρ ἀντὶ τοῦ δευτέρου τὸ τέταρτον ἢ ἀντὶ τοῦ τετάρτου τὸ δεύτερον. καὶ ἐνίοτε προστιθέασιν ἀνθ’ οὗ λέγει πρὸς ὅ ἐστι. λέγω δὲ οἷον ὁμοίως ἔχει φιάλη πρὸς Διόνυσον καὶ ἀσπὶς πρὸς Ἄρη• ἐρεῖ τοίνυν τὴν φιάλην ἀσπίδα Διονύσου καὶ τὴν ἀσπίδα φιάλην Ἄρεως 5.

Un passaggio decisivo per la definizione del concetto di analogia nel mondo antico è costituito dall’opera del matematico alessandrino Euclide, gli Elementi, in cui trova spazio una vera e propria teoria delle proporzioni. Sono due i loci fondamentali nell’opera: il libro quinto (def. 8) in cui si espone una definizione già eudossiana della proporzione (Ἀναλογία δὲ ἐν τρισὶν ὅροις ἐλαχίστη ἐστίν, «una proporzione che consista di tre termini è la minore possibile») in cui Euclide si riferisce al tipo di proporzione unanimemente definita proporzione continua, avente cioè i due medi eguali tra loro (ovvero a : b = b : c); il settimo libro (def. 21) in cui il rapporto proporzionale viene invece riferito distintamente ai numeri6.

4

Oniga 2002, p. 317. «Metafora è l’imposizione di una parola estranea, o da genere a specie, o da specie a genere, o da specie a specie o per analogia. […] Si ha per analogia quando il secondo elemento sta al primo come il quarto al terzo: si darà allora il quarto al posto del secondo oppure il secondo al posto del quarto. Talvolta si mette anche ciò a cui si riferisce la parola sostituita. Per esempio, la coppa sta a Dioniso nello stesso rapporto dello scudo nei confronti di Ares: si potrà dunque chiamare la coppa ‘scudo di Dioniso’ e lo scudo ‘coppa di Ares’» (trad. G. Paduano). 5

Ἀριθμοὶ ἀνάλογόν εἰσιν, ὅταν ὁ πρῶτος τοῦ δευτέρου καὶ ὁ τρίτος τοῦ τετάρτου ἰσάκις ᾖ πολλαπλάσιος ἢ τὸ αὐτὸ μέρος ἢ τὰ αὐτὰ μέρη ὦσιν, «numeri in proporzione sono 6

quando il primo del secondo e il terzo del quarto sia equimultiplo o la stessa parte o siano le stesse parti» (trad. F. Acerbi).

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Il nesso profondo tra filosofia e matematica nell’antichità è sufficiente a spiegare il passaggio di questa accezione tecnica del termine dalla matematica alla filosofia e alla linguistica. Proprio nella fucina culturale di Alessandria, luogo di incontro e scambio culturale, in cui confluiscono sia scienziati che letterati, si deve presupporre il passaggio da questo particolare status tecnico-matematico a quello di categoria interpretativa del linguaggio che ritroviamo nella linguistica antica7. La nascita della nuova analogia, quella in senso linguistico, avvenne a questa altezza cronologica in cui risalgono i primi contatti e scambi tra le due discipline della matematica e della linguistica, che restano per breve tempo ‘sorelle’. Euclide, e dopo di lui Eratostene, che significativamente si fa chiamare philologos, erudito sia di matematica che di letteratura e filologia, operano nel III secolo a.C, proprio ad Alessandria. Il concetto matematico di analogia viene rifunzionalizzato nella prassi esegetica dei grammatici alessandrini. L’analogia matematica offre ai grammatici un campo adatto a fornire una cornice concettuale e uno schema formale per la diorthosis dei punti controversi del testo omerico. Negli scholia che tramandano l’opera esegetica di Aristarco di Samotracia, si rintracciano diversi casi in cui la proporzione matematica diventa strumento di correzione: per determinare una forma morfologica, è sufficiente riferirsi a un paradigma morfologicamente simile a quello ricercato e, attraverso un procedimento puramente matematico, stabilire le forme dubbie8. Si va dal

7

Lo stretto connubio tra matematica e grammatica è provato anche, a titolo di esempio, dall’origine matematica della definizione di comparativo presso i grammatici greci, come inequivocabilmente ha dimostrato Berrettoni 2007. 8 In assenza di testimonianze per tradizione diretta, i disiecta membra del suo lavoro esegetico (216-144 a.C.) sopravvivono fondamentalmente negli scholia tardo antichi (in particolare quelli conservati nel Codice Veneto Marciano greco 454 dell’Iliade) nei commentari di Eustazio e negli Etymologica bizantini (Schironi 2004, pp. 11-12). Nella risoluzione dei problemi testuali omerici, Aristarco fu il più cauto tra gli Alessandrini suoi predecessori. Si impegnò a rimuovere corruttele, congetture e interpolazioni da questi testi, attraverso un esame attento della tradizione manoscritta migliore e un meticoloso studio dell’usus linguistico omerico usato come criterio guida negli interventi correttivi (da cui il motto Ὅμηρον ἐξ Ὁμήρου σαφηνίζειν , riportato dalla testimonianza di Porphyr. quaest. Hom. p. 297,16 Schrader). Sempre all’attività esegetica erano rivolti gli ὑπομνήματα, di cui parla la Suda (α 3892 Adler: λέγεται δὲ γράψαι ὑπὲρ ωʹ βιβλία ὑπομνημάτων μόνων) e alcune opere critiche (συγγράματα), di cui una sul Catalogo

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semplice confronto tra due forme simili che permette a Aristarco di correggere ψεύδεσσι in ψευδέσσι sulla base del confronto con la forma σαφέσσι (sch. Hdn. ad Il. 4, 235a = fr. 52A1 Matthaios) sino alla formalizzazione di una vera e propria sequenza proporzionale per stabilire, ad esempio, l’accentazione del participio πείρων e precisamente ὡς γὰρ ἔκειρε κείρων, οὕτως ἔπειρε πείρων (sch. Hdn. ad Il. 24, 8a = fr. 92A Matthaios)9. L’analogia, assieme alle teorie grammaticali ellenistiche, arriva poi a Roma (vd. infra §§ 3.2 e 3.3) ed è proprio alla fine dell’età repubblicana che inizia a maturare anche tra i non specialisti l’interesse per gli aspetti teorici della matematica e della geometria (ne è riprova il titolo di alcune monografie varroniane come il De mensuris, De geometria, De principiis numerorum, ascrivibili anche all’interesse per la mistica dei numeri pitagorica)10. È proprio in Varrone che possiamo leggere la storia del termine nelle sue ‘tappe evolutive’ dal greco al latino. Nel De lingua Latina (x 37) si può infatti reperire una ricostruzione dettagliata ed etimologicamente ineccepibile del termine: Sequitur tertius locus, quae sit ratio pro portione; ‹e›a graece voca[n]tur ἀνὰ λόγον; ab analogo dicta analogia. Ex eodem genere quae res inter se aliqua parte dissimiles rationem habent aliquam, si ad eas duas alterae duae res collatae sunt, quae rationem habeant eandem, quod ea verba bina habent eundem λόγον, dicitur utrumque separatim ἀνάλογον, simul collata quattuor ἀναλογ‹ί›α11.

Varrone chiarisce dunque in primo luogo la struttura etimologica della parola greca ἀναλογία, che effettivamente deriva per ipostasi dal sintagma

delle navi, una in polemica con Filita e una contro i chorizontes. Su Aristarco in generale cfr. Pfeiffer 1968/1973, pp. 329-360 e Montanari 1993, pp. 270-273. 9 A valorizzare l’applicazione dei criteri analogici nella prassi ecdotica alessandrina sono stati soprattutto gli studi di Siebenborn 1976, pp. 63-64 ed Erbse 1980. I frammenti ‘grammaticali’ di Aristarco sono raccolti e ampiamente commentati in Matthaios 1999. 10 Garcea 2008. 11 Poco oltre, in ling. x 42 Varrone delimita il campo di utilizzo dell’analogia: hoc poetae genere in similitudinibus utuntur multum, hoc acutissime geometrae, hoc in oratione diligentius quam alii ab Aristarcho grammatici. Sono qui richiamati in poche righe: la Poetica di Aristotele, la scuola matematica da Pitagora ad Euclide e la teoria alessandrina con Aristarco e i suoi seguaci.

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preposizionale ἀνὰ λόγον, da lui tradotto con pro portione. Se infatti pro portione, che significa ‘in rapporto’, è un sintagma comune in latino fin dalle origini, il calco lessicale vero e proprio per ἀναλογία, cioè proportio, si riscontra solo una volta nel De lingua Latina (viii 57). Che la parola non sia ancora entrata comunemente nel lessico latino nel I secolo a.C. trova conferma in un passo di Cicerone ‘traduttore’ (Timaeus 13, 25 ss. Giomini): Id optime adsequitur, quod Graece ἀναλογία, Latine (audendum est enim, quondam haec primum a nobis novantur) comparatio proportiove dici potest.

Anche Cicerone, infatti, dovendo tradurre il termine greco che legge in Platone (Tim. 31c), usa solo con molte cautele il neologismo proportio: è significativo che i due autori latini, pur partendo da presupposti diversi, si trovino a riflettere pressoché contemporaneamente sullo stesso termine tecnico greco e sul modo di tradurlo. Nel solco della tradizione alessandrina, Varrone si richiama espressamente all’analogia matematica per spiegare l’analogia linguistica riconoscendo al termine non solo le sue origini (andando oltre le classificazioni a lui coeve), ma anche l’originaria funzione euristica che aveva nel linguaggio scientifico. L’analogia ha quindi in Varrone un doppio significato: è un principio di regolarità sotteso alla lingua, ma è anche il metodo attraverso il quale la speculazione linguistica può trovare spiegazione e soprattutto giustificazione. Analogia quae dicitur, eius genera sunt duo: unum deiunctum sic est, ut unum ad duo sic decem ad viginti; alterum coniunctum sic: ut est unum ad duo, sic duo ad quattuor … Quadruplices deiunctae in casibus sunt vocabulorum, ut rex regi, ‹lex legi ›, coniunctae sunt triplices in verborum tribus temporibus, ut legebam [ab] lego legam, quod quam rationem habet legebam ad lego hanc habet lego ad legam12.

12 ling. x 45-47. Per l’uso di modelli matematici nel x libro del De lingua Latina vd. Taylor 1977 e infra il commento ai §§ 52 e 96.

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3.2 La querelle anomalia-analogia e il ruolo di Varrone L’analogia – com’è noto – è al centro della più famosa disputa linguistica dell’antichità che contrappose la scuola di Alessandria d’Egitto a quella di Pergamo13. Si è già detto di come l’analogia in campo grammaticale nasca come criterio di ricostruzione e correzione dei testi omerici in ambito alessandrino; diversamente, l’anomalia è un concetto che ha origini filosofiche, e precisamente stoiche, basato sulla constatazione empirica che nella lingua c’è discrepanza tra la forma fonetica e il significato dell’oggetto nominato14. Il fatto che, in età ellenistica, nell’ambito della Homererklärung ad Alessandria si prediligesse il criterio dell’analogia e nella rivale Pergamo si propugnasse invece la validità del principio dell’anomalia nella lingua, ha portato a supporre che tra i due fronti si fomentasse un’acerrima polemica, un vero e proprio scontro tra due scuole opposte. Il caposcuola stoico Crisippo (ca. 280-208/205 a.C.), autore di un Περὶ τῆς κατὰ τὰς λέξεις ἀνωμαλίας (in quattro libri secondo quanto riferito da Diogene Laerzio vii 192), intendeva verosimilmente con anomalia linguistica il problema logico-formale dell’incoerenza tra la φωνή e il σημαινόμενον (vd. ad es. Ap. Dysc. coni. in GG ii/1.1, 215, 18-216, 2) nel rapporto non sempre biunivoco tra λέξις e φύσις 15. Ad Alessandria, invece, con Aristofane di Bisanzio (ca. 257-180 a.C.), l’interesse per l’esegesi e la διόρθωσις dei testi portava ad elevare il principio analogico a criterio pratico e selettivo per risolvere i problemi linguistici. Originariamente, quindi, trattandosi di problemi diversi, un contrasto tra la concezione di Crisippo e quella della grammatica alessandrina non aveva ragion d’essere. La fase cronologica, cui invece sembra risalire una reale divergenza tra le due scuole, è quella della ‘generazione’ successiva a Crisippo e Aristofane (Dahlmann 1932/1997, p. 59)16.

13

La bibliografia sull’argomento è immensa. Alcuni riferimenti generali in: Lersch 1838-1841; Steinthal 1890-18912, i, pp. 357-374; Colson 1919; Dam 1930; Fink 1952; Mette 1952; Marache 1954; Pagliaro 1958; Frede 1978. Più recentemente Ax 1991 = 2000; Schenkeveld 1994; Broggiato 2001, pp. xxxiii-xl e Blank 2005. 14 Dahlmann 1932/1997, p. 58. 15 Belardi 1990a, p. 8; cfr. anche Sluiter 1990, pp. 22-26 e Sluiter 2000, p. 377. 16 Gli studi degli ultimi decenni (Taylor 1987, pp. 11-12; Callanan 1987, p. 26, pp. 57-60, p. 107; Schenkeveld 1994, p. 293 e Ax 1990 = 2000) hanno puntato ad

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Secondo quanto riferisce lo stesso Varrone in ling. ix 1, fu Cratete (180145 a.C.)17, allievo di Crisippo, a riprendere nei suoi scripta il pensiero del maestro, contrapponendolo a quello di Aristarco18, allievo di Aristofane: l’iniziativa fu cioè unilaterale. Basandosi sulle testimonianze del De lingua Latina (cfr. §§ 3 e 34 e nota relativa) e di Sesto Empirico (adv. math. i 148-154 e 175-247), Mette (1952) ha ricostruito la posizione anomalista di Cratete, che andrebbe inserita nel quadro della discussione sui criteri della correttezza linguistica (Ἑλληνισμός): in contrapposizione all’analogia, Cratete proponeva il criterio dell’osservazione dell’uso linguistico (παρατήρησις τῆς συνηθείας). Il fondamento metodologico di questa teoria andrebbe cercato, secondo Mette, nella scuola medico-empirica, che in età ellenistica si contrapponeva a quella logico-dogmatica19. In generale, vista la precarietà delle fonti, la tendenza degli studi moderni è di ridimensionare la portata della questione, rispetto alla vulgata degli studi più datati20, che la consideravano una colonna portante della grammatica antica21. In particolare, secondo Fehling (1956-1957, p. 51),

una revisione critica delle testimonianze sul conto di Aristofane, cui un’antica tesi del Nauck (1848, pp. 264-271) attribuiva una monografia Περὶ ἀναλογίας in cui si sarebbero discussi i parametri e le condizioni per l’analogia. 17 Come ricorda Broggiato 2001, pp. xx ss., la maggior parte delle testimonianze e dei frammenti tràditi di Cratete riguardano soprattutto l’esegesi dei testi omerici. Gli unici due titoli conservati sono infatti: Διορθωτικά (T 10 e T 14 Broggiato) o Περὶ διορθώσεως (T 16 Broggiato) e Ὁμηρικά (T 11-13 Broggiato) che dovevano appartenenere al genere dei commentari. Sesto Empirico (adv. math. i 79 = fr. 94 Broggiato) riporta la definizione data da Cratete delle finalità e delle prerogative della sua attività di esegeta: il κριτικός, come si definiva egli stesso, deve essere in grado di padroneggiare tutto il complesso delle conoscenze filosofiche connesse con il linguaggio e l’esegesi di un testo letterario, a differenza del γραμματικός, che si deve limitare alla prosodia e alla spiegazione delle glosse. Questa peculiare visione dell’esegesi poetica lo porta a riconoscere in Omero testimonianze di teorie geografiche, astronomiche e a trattarne approfonditamente (cfr. ad es. frr. 20, 29, 50 Broggiato), dimostrando non solo che la πολυμάθεια è una prerogativa imprescindibile del poeta, ma anche che la poesia è un mezzo per trasmettere nozioni cosmologiche e astronomiche. 18 Vd. supra pp. 49-50. 19 Broggiato 2001, p. xxxvii. 20 Come Lersch 1838-41, pp. 79-85 e Steinthal 1890-18912, ii, pp. 121-126. 21 Tra gli studiosi di Varrone, Collart (1954, pp. 144-157; 1963, pp. 128 ss.) am-

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l’unica fonte della controversia sarebbe proprio Varrone, il quale avrebbe maldestramente copiato e rielaborato dalle fonti di cui disponeva. Pertanto la querelle non sarebbe mai esistita. La tesi di Fehling è senza dubbio radicale. Giustamente Calboli (1962, pp. 176 ss.) ha cercato di ‘riabilitare’ le altre fonti della querelle, da Aulo Gellio (ii 25) a Sesto Empirico (adv. math. i 79 e 248). Tuttavia, nell’incipit gelliano di ii 25 (in Latino sermone, sicut in Greco, alii ἀναλογίαν sequendam putaverunt, alii ἀνωμαλίαν), la controversia è intenzionalmente espressa al passato (putaverunt) e potrebbe derivare per intero da Varrone, unica fonte citata. Dall’altra parte, il testo di Sesto Empirico (II d.C.) vuole essere una critica a tratti feroce nei confronti delle complicate e sterili teorie grammaticali che si erano andate radicando nell’insegnamento: il suo giudizio propende per l’anomalia, in quanto rispettosa dell’uso comune e condanna i rigidi dettami delle teorie di stampo analogista, ma non offre niente di concreto sulla presunta disputa. Una parziale riabilitazione di Varrone come fonte è nell’analisi di Siebenborn (1976, pp. 97 ss.), che parte dal presupposto della reale storicità della disputa, che avrebbe potuto trovare motivo d’essere nella tendenza alessandrina ad accostare nei procedimenti analogici parole le cui somiglianze non erano solo formali, ma riguardavano anche la sfera del significato. Ma la testimonianza decisiva potrebbe essere un’altra: quella del grammatico Staberio Erote, autore di un De proportione, la cui importanza per la storia della grammatica è stata ricordata sopra, al § 2.3. Dell’opera rimane un unico brevissimo frammento riportato da Prisciano (GL ii 385, 1-3 = fr. 1, p. 107 Fun.), inserito in una lunga serie di esempi di irregolarità nella diatesi verbale: Staberius de proportione: non esse positiones regulae, a quibus interdum analogia calumniatur, συκοφαντεῖται. Interpretando per quanto possibile il frammento, secondo Staberio, le imposizioni dei nomi alle cose

mette l’esistenza della controversia, ma ritiene che la polemica tra le due parti sia stata volutamente ‘ingigantita’ dal Reatino per «mieux faire valoir sa propre doctrine et la fortifier par une flatteuse comparaison» (1954a, p. 157). Anche il Reitzenstein 1901, pp. 44 ss. e il Barwick 1922, p. 179 ritengono sicura l’esistenza della querelle, mentre il Dahlmann 1932/1997, pp. 57-85 ritiene di poter individuare proprio nei libri viiix del De lingua Latina una posizione anomalista sostanzialmente compatta e per contro una posizione analogista cronologicamente differenziata (l’viii libro andrebbe infatti riferito ad una fase dottrinale precedente a quella del ix).

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non sono pertinenti alla regolarità e per questo l’analogia viene accusata ingiustamente (in greco συκοφαντεῖται). Il ragionamento di Staberio appare molto vicino a quello di Varrone, perché il termine positio corrisponde esattamente a quello che in Varrone viene chiamato impositio nominum 22. E proprio come Varrone, Staberio afferma che il procedimento di dare i nomi alle cose non è soggetto a regole, perché dipende dalla volontà di chi ha deciso di creare la parola (Varrone parla in proposito di declinatio voluntaria). Questo fenomeno non può essere addotto come un argomento contro l’analogia, perché dopo che la parola è stata creata, la sua flessione sfugge alla libertà del parlante, ma avviene secondo precise regole grammaticali (è ciò che Varrone chiama declinatio naturalis). La coincidenza tra Varrone e Staberio sembra confermare che il dibattito analogia/anomalia ferveva particolarmente nel I sec. a.C. a Roma. La stessa soluzione proposta da Varrone, basata sull’opposizione tra declinatio voluntaria (basata sull’anomalia) e declinatio naturalis (basata sull’analogia) potrebbe aver avuto in Staberio un precursore. Ad ogni modo, se c’era chi, come Cesare, scriveva a favore dell’analogia, c’era anche chi, come ci informa Staberio, calunniava la stessa analogia. Non stupisce, dunque, che Varrone abbia tentato una conciliazione tra le due posizioni opposte dei grammatici contemporanei, come avviene nel De lingua Latina. In conclusione, della critica di Fehling, si potrà accogliere solo la parte che nega la necessità di far risalire le origini della controversia ai due capiscuola Crisippo e Aristofane, ma non si potrà negare che, dopo l’insegnamento di Cratete, sia sorto a Roma un effettivo dibattito grammaticale, di cui Staberio, Cesare e Varrone sono testimoni.

3.3 Il De analogia di Cesare È stato giustamente notato23 come l’opera di Cesare grammatico non abbia goduto di particolare fortuna negli studi degli ultimi due secoli. In particolare nelle grandi sistemazioni sulla storia della linguistica e della grammatica

22

Sul significato tecnico-grammaticale del termine positio, frequente in Prisciano, cfr. il commento di Groupe Ars Grammatica 2010, p. 85, n. 41. 23 Poccetti 1993, pp. 599-601 e Garcea 2012, pp. v-viii.

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dell’antichità, il contributo di Cesare è passato spesso sotto silenzio. La tendenza è stata quella di relegare la sua figura ad un ruolo marginale nel processo che, nella Roma del I secolo a.C., portò alla creazione di una lingua letteraria e all’elaborazione di un ideale linguistico. La frammentarietà del testo del De analogia è senza dubbio penalizzante, ma le ragioni di tale scarso interesse sono da ricercarsi anche nel difficile inquadramento del personaggio storico-politico, che difficilmente si concilia con la figura del grammatico24. Solo recentemente si è giunti ad un complessivo riesame del materiale grammaticale cesariano in toto con le sue connessioni alla produzione grammaticale coeva, in particolare il De lingua Latina 25. Punto controverso rimane il difficile riconoscimento dello status dell’opera, da alcuni considerata un dilettantistico trattato retorico26, che esprimeva l’indirizzo purista dell’autore all’interno della polemica tra atticisti e antiatticisti27. Ma chiaramente nell’opera sono compresenti ambedue le finalità, retorica non meno che grammaticale28. Propriamente alla prima sfera, quella retorica, andrà riferito il più famoso frammento del De analogia, che proviene da Gellio (i 10, 3-4): tamquam scopulum, sic fugias inauditum atque insolens verbum (fr. 2 Garcea =

24

La figura di Cesare, condottiero e grammatico al tempo stesso, era già ‘mitizzata’ ai tempi di Frontone: cogites C. Caesarem atrocissimo bello Gallico cum alia multa militaria tum etiam duos De Analogia libros scrupulosissimos scripsisse, inter tela volantia de nominibus declinandis, de verborum aspirationibus et rationibus inter classica et tubas (Parth. 9, p. 224, 12-17 v. d. H.). 25 L’edizione di Garcea (2012) presenta testo critico e commento dei frammenti preceduti da un’introduzione sistematica sul dibattito linguistico di età cesariana con un prezioso confronto continuo con i testi dei principali interlocutori di Cesare come Cicerone, Varrone e Nigidio Figulo. 26 Dahlmann 1935, pp. 258-275 e Della Corte 19812, pp. 143-144. 27 Il rapporto tra atticismo e analogismo è stato molto discusso. Secondo Dihle 1957, pp. 173 e 175, la retorica, la Stillehre e la grammatica furono sempre intimamente connesse, mentre Holtz 1979, pp. 217 ss. pensa addirittura ad una ‘concorrenza’ tra le due discipline, per cui la grammatica avrebbe svolto una funzione propedeutica alla retorica. Gay 1929, pp. 110-114 ritiene innegabili i punti di contatto tra atticismo e analogismo, che avevano il comune obiettivo di purificare la lingua; per Marache (1954) si deve usare prudenza in queste schematizzazioni e nella apparentemente facile connessione tra analogia e atticismo (cfr. anche Cavazza 1981, p. 134). 28 Calboli 1962, p. 226.

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fr. 2, p. 146 Fun.); esso trova infatti spiegazione nel confronto con la parallela produzione ciceroniana, e in particolare con il De oratore (iii 151 ss.) cui Cesare sembra replicare con questa indicazione normativa che suona come un prerequisito dell’eloquenza. Com’è noto, Cesare dedica all’Arpinate il De analogia (da questi ‘recensito’ con una maliziosa serie di complimenti in Brut. 253), e in qualche caso i due si fronteggiano sui medesimi problemi ortografici e grammaticali, ma muovono da presupposti completamente diversi. La ratio loquendi è per Cicerone un corollario all’ars rhetorica per cui la correttezza linguistica e l’osservanza delle norme grammaticali non vanno disgiunte dall’osservanza della norma sancita dall’uso e dalla gradevolezza uditiva dell’enunciato. Un approccio più marcatamente grammaticale traspare dagli altri frammenti superstiti del De analogia che presentano questioni di natura ortografica29 e morfologica. A muovere Cesare è un intento normativo-razionalizzante della lingua latina, volto a preservare il patrimonio linguistico e un uso del latino basato su regole certe, prevedibili e quindi facili da imparare e diffondere anche in contesti culturali non romani. Lo stesso principio razionalizzante era il comune denominatore delle più importanti riforme cesariane in campo legislativo, dove era intervenuto selezionando e riducendo il corpus delle leggi, o in campo di politica culturale con la riforma del calendario fondato su basi scientifiche e di sicura affidabilità e infine con la creazione della prima biblioteca pubblica in cui raccogliere i testi fondamentali del sapere, progetto che Cesare affidò proprio a Varrone30. Dall’analisi dei frammenti superstiti emerge una competenza tecnica tutt’altro che da dilettante: molte delle indicazioni normative attribuite a Cesare hanno finito coll’affermarsi a tutti gli effetti nella prassi linguistica latina. In questo novero, rientra ad es. il fr. 7, 10-12 Garcea = fr. 14, p. 152 Fun. (= Pomp. GL v 199, 13-15):

29

Queste – secondo la distribuzione del materiale frammentario ipotizzata da Garcea 2012, p. 30 – erano concentrate nel i libro, il ii libro dell’opera vedeva invece una maggiore presenza di questioni inerenti la flessione. 30 Schiesaro 2010, pp. 242 ss.

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introduzione Ille [Varro] dicit lac non debemus dicere, sed lact. Sed dixit Caesar contra ipsum rem valentissimam, nullum nomen duabus mutis terminari.

Contrariamente a Varrone, che voleva resuscitare la forma etimologica *lact, Cesare difende la forma lac, entrata a far parte dell’uso corrente, e lo fa nell’intento di rispettare la fonetica latina, secondo la quale il nesso con due occlusive finali va evitato. Similmente, in altri frammenti, il criterio analogista applicato da Cesare cerca di dirimere alcuni casi dubbi nella grammatica antica (e moderna): ad es. il fr. 22, 3-4 Garcea = fr. 8, p. 149 Fun. (= Char. p. 113, 23-114, 9 B.) presenta quello del genitivo plurale di panis (uno degli antichi imparisillabi che la lingua ha reso parisillabi come iuvenis, senex, canis, mensis o con l’aggiunta di suffisso -i al nominativo o ricavando i casi obliqui da un tema diverso): ‘panis’ autem genetivum pluralem Caesar de analogia II ‘panium’ dixit 31. La selezione operata dalla tradizione indiretta ci riconsegna altre sequenze e precetti dell’opera cesariana che cercavano di dirimere ad esempio le oscillazioni della flessione dei femminili con tema in -i e dei neutri sempre con tema in -i (con nominativo uscente in -e, -al, -ar). Carisio (pp. 156, 24-157, 2 B. = fr. 16 Garcea = fr. 21, p. 154 Fun), che attingeva al Dubius sermo di Plinio, afferma che quest’ultimo sarebbe stato favorevole ad una forma generalizzata di ablativo singolare in -e, mentre, dal canto suo, Cesare riteneva che i femminili con tema in -i dovessero avere l’ablativo in -i, e quindi la stessa uscita al dativo e all’ablativo singolare: … ac ne illa quidem ratio recepta est quam C. Caesar ponit in femininis, ut ‘puppi’ ‘resti’ ‘pelvi’. Similmente, Plinio riferisce dei precetti cesariani riguardanti i sostantivi neutri uscenti in -e -al -ar che per Cesare dovevano avere l’ablativo singolare identico al dativo singolare e cioè in -i, come ancor oggi si prescrive nelle grammatiche scolastiche (frr. 13-15 Garcea = frr. 22-24, pp. 154-155 Fun)32. Da questi esempi concernenti la morfologia nominale e in particolare volti a disciplinare il complesso ‘quadro’ dei paradigmi flessionali della terza declinazione – senza dubbio la più complessa – emerge la competenza tecnica dell’autore che ha come obiettivo l’uniformità del paradigma morfo-

31 32

Vd. Traina-Bernardi Perini 19986, p. 168. Vd. § 112 e nota relativa.

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logico e la salvaguardia della coerenza dell’organizzazione grammaticale. Più discussa e contrastata negli studi moderni appare invece la testimonianza tratta dalle Institutiones di Prisciano (GL ii 14, 10-14 = fr. 4, 11-15 Garcea = fr. 15, p. 152 Fun.) e spesso invocata dagli studiosi moderni come esempio del fanatismo analogista dell’autore, con la proposta cesariana di un genitivo con tre i, e cioè Pompeiii: Pompeiii quoque genetivum per tria i scribebant, quorum duo superiora loco consonantium accipiebant, ut si dicas Pompelli; nam tribus i iunctis qualis possit syllaba pronuntiari? quod Caesari doctissimo artis grammaticae placitum a Victore quoque in arte grammatica de syllabis comprobatur33.

Si tratta del frammento dal più spiccato carattere ortografico tra quelli superstiti del De analogia 34 e riguarda il problema, ampiamente dibattuto prima e dopo Cesare, del genitivo singolare dei nomi in -ius. Carisio (p. 98, 17-99, 14 B.) riferisce le opinioni divergenti di Varrone, Lucilio e Plinio: Lucilius Aemilius et cetera nomina quae ante u habent i duplici i genetivo singulari finiri debent, ut necesse sit adversus observationem nominum nominativo non minorem fieri genetivum; idque Varro tradens adiecit vocativum quoque singularem talium nominum per duplex i scribi debere, sed propter differentiam casuum corrumpi. Lucilius tamen et per unum i genetivum scribi posse existimat: ait enim ‘servandi numeri et versus faciendi nos Caeli Numeri numerum ut servemus modumque’. Numquam enim hoc intulisset, nisi et Caelium et Numerium per ii, ‹huius Caelii› huius Numerii, faciendum crederet. Denique et in libro viiii sic ait ‘porro hoc si filius Luci fecerit, i solum, ut Corneli Cornificique’, et paulo post ‘pupilli pueri Lucili, hoc unius fiet’. Et Plinius quoque dubii sermonis v adicit esse quidem rationem per duo i scribendi, sed multa iam consuetudine superari.

33

Precisa giustamente Garcea 2012, p. 143: «We have no source which expressly states that Caesar tackled this issue in De analogia, but the description doctissimus artis grammaticae he is given, together with the fact that other problems related to litterae are covered in this treatise, appears to confirm the attribution. As far as the original wording is concerned, Priscian’s use of the word placitum can only confirm the idea that it was merely an opinion, even if a placitum can prove to be as prescriptive as the person pleased has the power to be». 34 Bernardi Perini 1983, p. 166 = 2001, p. 44.

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Secondo Varrone, in casi come Lucilius e Aemilius, il genitivo singolare dovrebbe uscire con due i per evitare che il genitivo sia più breve del nominativo; anche il vocativo singolare dovrebbe scriversi in egual modo, ma tuttavia per la differenziazione dei casi, si è cambiata la desinenza. Lucilio, invece, ritiene che il genitivo di questi nomi possa scriversi con una i sola (come dimostrano gli esempi Caeli, Numeri, Corneli e Cornifici), e così Plinio, che alla ratio che prevede il genitivo con due ii, oppone l’invalsa consuetudo di scriverlo con una sola i. Da quali presupposti, dunque, nasceva la proposta apparentemente strana di tre i? Dietro questo problema ortografico, c’è evidentemente il valore fonetico di consonante doppia [jj] che il parlante attribuiva al fonema semivocalico /j/ in posizione intervocalica (Niedermann 19534, p. 105). In questa direzione va infatti la testimonianza di Quintiliano (i 4, 11), confermata in Velio Longo (GL vii 54, 16 ss.), sull’usus scribendi di Cicerone, che preferiva in alcuni casi questa grafia fonetica con due i (sciat enim Ciceroni placuisse ‘aiio’ ‘Maiiamque’ geminata i scribere)35. Essa sembra particolarmente diffusa anche nelle iscrizioni di età tardo repubblicana e augustea (ad es. CIL ii 1964 cuiius, eiius, maiiorem; CIL xiii 3672 maiiestati; CIL vi 9797 Traiiani; CIL xiii 11759 Pompeiianus). Indiretta conferma se ne può avere anche dalla metrica: la prima sillaba di parole come aio, maior e peior ha di norma quantità lunga (Plaut. Cas. 71; Verg. Aen. vi 386; Ov. met. iv 394; Mart. i 103, 5), cioè si tratta di una sillaba con vocale breve che vale come lunga perché è una sillaba chiusa, come avviene quando la vocale è seguita da una consonante doppia36. Pertanto, se si diceva (e si scriveva) Pompeii-us, al genitivo dobbiamo ammettere la possibilità di una forma non contratta di genitivo con tre i [Pompeii-i]: Cesare muoveva dal presupposto di fornire anche al genitivo singolare la stessa coerenza grafematica del resto della flessione. È altresì probabile che dietro questa proposta vi sia anche l’osservanza del principio caratteristico della struttura flessionale delle lingue classiche, presente anche nella dottrina grammaticale stoica, per cui il nome nel caso ‘zero’ non può avere un’esten-

35

Garcea 2012, pp. 140-147. Questo si può constatare anche negli esiti romanzi di termini come maior e peius: ad es. nell’it. maggiore e peggiore, dove la semivocale latina diventa affricata palatale, ma rimane comunque doppia (cfr. Väänänen 19823, p. 106). 36

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sione superiore a quella che assume nei casi obliqui della declinazione 37. Come si è potuto vedere da questa campionatura rappresentativa dei frammenti di Cesare, si delinea un quadro pienamente coerente e in linea col multiforme dibattito linguistico del tempo. L’osservanza del criterio analogista si coniuga con il rispetto per la consuetudo e l’attenzione posta alla coerenza della flessione nominale non è disgiunta dal presupposto di interrelazione tra ‘significante’ e ‘significato’. Da questi presupposti nasce il delectus verborum, canone dell’elegantia linguistica di Cesare: in esso coesistono convenzionalismo e arbitrarietà, che rispondono all’esigenza pratica di purezza linguistica e chiarezza espressiva. Il De analogia è dunque un testo redatto con l’intento di discutere in modo sistematico problemi fonologici e morfologici all’interno del dibattito sulla lingua che animava grammatici di professione e non, nel I secolo a.C. Con Garcea-Lomanto (2011, p. 145) possiamo sottolineare una prima sostanziale differenza con il De lingua Latina varroniano, in merito alla natura del linguaggio e dell’analogia: i frammenti del De analogia provano che per Cesare la ratio determina l’organizzazione e il funzionamento della lingua, ha carattere convenzionale e va rispettata per salvaguardare la coerenza del sistema linguistico; Varrone, pur muovendo da convinzioni analogiste e dagli stessi presupposti, ammetterà la compresenza di irregolarità e arbitrio nel linguaggio e la necessità di una conciliazione, così come sarà proposta soprattutto nel ix e x libro.

37

Poccetti 1993, p. 616. Spesso invocata assieme a quello di Pompeii come esempio dell’astrusità dei precetti cesariani è la proposta di coniare un participio presente ens, entis da sum ricavato analogicamente da potens (fr. 28, p. 156 Fun. = fr. 31, 8-9 Garcea). La testimonianza è di Prisciano (GL iii 239, 7-8 Caesar non incongrue protulit ‘ens’ a verbo ‘sum es’, quomodo a verbo ‘possum potes’ ‘potens’ ) e – come per la maggior parte degli altri precetti grammaticali e ortografici del De analogia – è proposta disattesa nell’usus scribendi dei Commentarii cesariani. Lungi dal dimostrare che Cesare raccomandasse tale neologismo (come sottolinea giustamente Garcea 2012, p. 248) il frammento tradisce nella sequenza attribuita a Cesare lo schema di una proporzione matematica possum : potens = sum : ens, anche se i più leggono dietro a ens una creazione analogica sul modello del participio greco ὢν (Poccetti 1993, p. 632).

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3.4 Il libro IX del De lingua Latina Appena presentati i due protagonisti della discussione (Cratete e Aristarco), Varrone (ix 1) parla di fraintendimento da parte del primo degli scritti del proprio maestro Crisippo e del rivale Aristarco (ut neutrius videatur pervidisse voluntatem). Immediatamente, infatti, viene avanzata dall’autore stesso l’ipotesi di una coesistenza dei due principi linguistici dell’analogia e dell’anomalia, che sono coniunctiores inter se quam iei credunt (§ 2). Prima di ribattere punto per punto alle affermazioni contenute nel libro viii, mantenendo così lo schema retorico del dibattito, Varrone chiarisce alcuni dei concetti che più saranno sfruttati nella discussione, disponendoli in coppie in opposizione dialettica: natura/usus, multitudo/finis, orator/ poeta. Il primo criterio (§ 4) riguarda i limiti nell’applicazione dell’analogia, il secondo l’applicabilità della correzione analogica (che deve essere evitata nel caso di forme errate fortemente radicate nell’uso) e il terzo (§ 5) le libertà ‘espressive’ di cui godono alcune categorie di parlanti. Per il popolo, invece, è assolutamente necessario affidarsi ad un criterio linguistico ben preciso, al quale a sua volta si uniformerà il singolo parlante. Dopo aver programmaticamente annunciato che procederà rispondendo puntualmente (de singulis criminibus) alle affermazioni dell’viii libro, Varrone ritorna sulla necessità della compresenza dei due criteri (consuetudo e similitudo) nel parlare così come nelle altre sfere del vivere umano, ossia nell’arredare (§ 9), nella pratica medica (§ 11), nella pittura (§ 12), nell’arte militare, nell’apprendimento (§ 15), evidenziando così le analogie metodologiche che intercorrono tra linguistica e antropologia. L’idea di uno sviluppo progressivo della lingua è invece alla base dell’affermazione in ix 17 consuetudo loquendi est in motu: l’evoluzione della lingua non va avversata ma controllata attraverso la ratio, come ad esempio nel caso del neologismo, ammesso solo se ratione introductum (§ 20). Dopo questo enunciato teorico sul neologismo, Varrone inserisce una fitta sequenza argomentativa (§§ 20-22): come in tutti gli altri aspetti della vita umana (in particolare nell’abbigliamento, nell’arte e nelle leggi) così anche nella lingua non deve prevalere l’amor assuetudinis. La sezione che va dal § 23 al § 30 (in cui l’autore esordisce con la provocazione: quae enim est pars mundi quae non innumerabiles habeat analogias?), è tesa a dimostrare l’esistenza di una ‘regolarità come principio universale’. Viene infatti proposto un parallelo tra lingua e scienza, tra la

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ratio che regola i fenomeni linguistici e la ratio che si rintraccia nei fenomeni celesti, nello sviluppo delle specie animali, e così via. Viene analizzata la regolarità delle traiettorie degli astri (§ 24), la distanza fissa tra equatore e solstizi (§ 25), la regolarità delle maree (§ 26), della seminagione (§ 27) e delle specie animali (§ 28). La stessa anima umana, conclude Varrone, è divisa in otto parti, tra loro in rapporto proporzionale di somiglianza (§ 30). Non sarà illegittimo, pertanto, rilevare la regolarità rintracciabile nelle parti del discorso (§ 31) e in particolare, nella tripartizione dei tempi e delle persone verbali comune al greco e al latino (§ 32). È pertanto dimostrata la natura sistemica del linguaggio, come del mondo: quare qui negant esse rationem analogiae, non vide‹n›t naturam non solum orationis, sed etiam mundi (§ 33). Quella che segue, è sicuramente l’affermazione teorica più importante dell’opera. In ix 34, Varrone distingue infatti tra declinatio naturalis e declinatio voluntaria, ovvero tra ‘flessione’ e ‘derivazione’ (o più genericamente ‘formazione di parola’): la prima regolare, perché a tutti i temi si devono obbligatoriamente applicare le regole di flessione; la seconda irregolare, perché diversi sono i suffissi che si possono aggiungere ad una stessa base e soprattutto perché la derivazione non è ‘obbligatoria’, ovvero è regolata dall’anomalia. A livello generale (§ 35), quello della declinatio è un principio presente in tutte le lingue ed è quindi un ‘universale linguistico’, il quale permette che da un numero finito di elementi si crei un numero infinito di nuovi elementi linguistici. Dopo questo assioma teorico, Varrone intende fornire un corollario pratico, con le quattro condizioni necessarie alla morfologia derivazionale (§ 37): (a) l’esistenza dell’oggetto da designare (come l’esempio in ix 38: neque a terra terrus dicatur), (b) l’oggetto deve essere effettivamente in uso, (c) la parola deve essere declinabile (non come le lettere dell’alfabeto che sono indeclinabili, cfr. ix 38), (d) la somiglianza della parola con altre dello stesso tipo flessionale deve essere certa e verificata al di là della forma superficiale (figura verbi). Subito dopo (§ 40), rispondendo a viii 39-41, dove ci si interrogava sul criterio più opportuno per determinare la somiglianza di due parole, Varrone indica nella vox (forma superficiale) e non nel significato (significatio) il criterio più sicuro, ma non infallibile. Spesso, nomi come abies e paries, esteriormente simili, sono in realtà di due generi diversi: il primo femminile, il secondo maschile. Esiste cioè una discrepanza tra la

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forma fonetica di superficie (figura o vox) e la struttura morfologica soggiacente ad una parola (materia o res). In tale ambito, rientra anche la noncoincidenza tra genere grammaticale e genere fisico, come dimostrato con l’esempio dei due gentilizi etruschi Perpenna e Alfena, il primo maschile, il secondo femminile. Rispondendo alla critica in viii 12, Varrone sostiene l’importanza del confronto dei casi obliqui qualora sia necessario sincerarsi della somiglianza tra due nomi (§ 43). Agli anomalisti, che arrivano a negare l’esistenza dell’analogia perché questa non si riscontra nella maggior parte dei fenomeni linguistici, risponde che la varietas e la similitudo, come coesistono nella vita quotidiana, così sono presenti nella lingua: la dispositio delle supellectiles obbedisce a entrambe le istanze, proprio come la dispositio verborum (§§ 46-47). In viii 51 la ‘parte anomalista’ aveva messo in discussione l’analogia per l’esistenza degli indeclinabili (come i nomi delle lettere dell’alfabeto). Qui Varrone risponde (§ 52) distinguendo acutamente tra ‘caso morfologico’ (vox) e ‘caso astratto’ (res). Dopo aver citato una testimonianza enniana (§ 54) contenente un particolare caso di morfologia nominale (ne-hilum > nihilum), Varrone ritorna sul problema del genere grammaticale: perché esistono termini ‘declinabili’ in tutti e tre generi (albus, alba, album), altri in due (Metellus, Metella), altri in uno solo (tragoedus)? Di seguito, viene posta una prima, importante distinzione tra i generi maschile e femminile (habent inter se natura quandam societatem) e il genere neutro, riferibile solo agli oggetti inanimati (§ 59). Si apre poi una lunga serie di esempi dedicati all’onomastica, disciplina che ha un posto di rilievo negli interessi antiquari di Varrone e che vede un’ampia trattazione nei libri v e vi del De lingua Latina. Al § 60, viene trattata la genesi del sistema trinominale romano, seguita dall’approfondimento su alcuni particolari praenomina. Anche le eccezioni presenti nella classe dei nomi propri sono l’espressione della voluntas umana, non della fallacia della ratio analogista (§ 62). In ix 63 vi è una prima definizione del ‘numero grammaticale’ (numerus), accompagnata da un corollario di eccezioni, come quella dei pluralia tantum (§ 63), o dei ‘collettivi’ (multitudinis vocabula). A partire dai §§ 70-71, la discussione, prima incentrata su fenomeni inerenti la flessione nominale, si sposta sul versante della derivazione, a partire dal caso degli aggettivi denominativi in -ianus (§ 71), per arrivare alla formazione dei comparativi e superlativi, definita in termini di incrementum

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(§ 72), e dei diminutivi (§ 73), per i quali distingue tre gradi di magnitudo (cista cistula cistella). Vengono poi esaminate le forme cosiddette ‘difettive’, come frugi (§ 75) o colis (§ 76): nonostante la morfologia flessiva presenti delle ‘lacune di produttività’, non è comunque giustificabile la messa in discussione della regolarità dei processi morfologici e pertanto dell’analogia (§ 77). È come se – spiega Varrone – si mettessero in dubbio le proporzioni del corpo di una statua per la sovrapposizione di una testa non congruente: così il paradigma flessivo di una parola non viene meno al principio di regolarità proporzionale se manca di uno dei casi (§ 78). Seguono casi specifici su alcuni sostantivi che oscillano tra due uscite diverse, come i nomi di alberi che nell’uso oscillano tra la seconda e la quarta declinazione (§ 80) o come decusis/decussis e dupondius/dupondium, gladium/gladius. Tra i casi ‘anomali’ spiccano i numerali (§ 82), che dal quattro al cento sono indeclinabili (usque a quattuor ad centum), nonché le peculiarità dei nomi delle monete. L’argomento offre lo spunto per una digressione ‘aritmologica’ molto importante (§ 86), che sostanzia il parallelo più volte ricordato tra la regolarità dei principi matematici e i principi linguistici (numeri antiqui habent analogias). Dal § 89, ritorna la discussione su fenomeni linguistici di spicco, come appunto l’omonimia (§ 89) e la sinonimia (§ 90), cui Varrone è il primo a dare un inquadramento teorico in latino, seguito (§ 92) da una riflessione generale sulla similitudo tra cose (o parole), che si può stabilire dopo aver considerato non solo l’apparenza (facies), ma anche una certa corrispondenza con la sostanza (vi et potestate). Un aiuto nei casi di ambiguità, quando cioè il solo nominativo di una parola non è sufficiente a fornire univocamente l’indicazione di genere o di numero, può essere l’elemento extrinsecus, come ad esempio il pronome dimostrativo hic haec hoc, che Varrone riconosce come ‘veicolo’ di informazioni morfologiche, in aggiunta ai morfemi del caso (§ 94). Una ‘rudimentale’ ma comunque decisiva sistemazione alla morfologia verbale viene fornita ai §§ 95 e seguenti. Questa si divide in quattro partes: tempora, personae, genera (diatesi attiva, media e passiva), divisiones (l’aspetto verbale). In particolare, la distinzione terminologica infectum/ perfectum è un conio varroniano (§ 96). Sono analizzati nello specifico i perfetti a raddoppiamento (§ 99), il verbo anomalo sum (§ 100) e l’imperativo, o species imperandi (§ 101). Una prima classificazione delle coniu-

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gazioni verbali latine è al § 109, e si basa sulla vocale tematica della seconda persona singolare. Il libro ix si conclude con una rapida peroratio finale che riassume tutti i punti nodali del libro (§§ 113-115).

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IV IL TESTO

4.1 La tradizione manoscritta La tradizione manoscritta di quanto rimane del De lingua Latina (sei libri su venticinque) dipende da un archetipo conservato, il Mediceo Laurenziano 51.10, noto come F, codice in beneventana esemplato a Montecassino e contenente l’opera varroniana (ff. 1r-33v), la Pro Cluentio di Cicerone (ff. 36v-51v) e la Rhetorica ad Herennium (ff. 52r-83r)1. Il manoscritto, oltre a essere testimone del De lingua Latina, è il capostipite di uno dei due rami della tradizione superstite della Pro Cluentio 2 e costituisce uno dei co-

1 Per la valutazione della posizione stemmatica del manoscritto relativamente al De lingua Latina, il resoconto più aggiornato è in Piras 2012 (in particolare alle pp. 841843): lo studioso, dopo aver vagliato precedentemente l’ipotesi di una trasmissione bipartita (vd. Piras 2000) arriva a concludere che non solo F è il testimone più antico, ma anche che «non si ha un altro ramo di trasmissione rispetto a quello rappresentato dal Laurenziano: ad esso è riconducibile tutta la tradizione che è piuttosto estesa» (p. 842). Rispetto a questa ricostruzione che fu avanzata per la prima volta da Angelo Mai nella sua praefatio all’edizione al De republica ciceroniano, in cui F è definito codex omnium parens (la posizione fu poi ripresa da Keil 1848, Spengel 1854, Lachmann 1876a, e Groth 1880), nel corso dell’Ottocento hanno avanzato pareri diversi Mueller 1833, p. xii, Canal 1874, pp. xix ss., Antonibon 1899, pp. 22 ss. Secondo questo versante degli studi, sostanzialmente, non da F, ma da un archetipo molto lacunoso (da cui si sarebbe originato F medesimo) sarebbero discesi tutti i manoscritti del De lingua Latina, sicché «solo alcuni discendono in linea retta dal Laurenziano, gli altri o sono collaterali o provengono da collaterali» (Antonibon 1899, p. 23). A fronte di questa che è un’ipotesi difficilmente dimostrabile (vd. Goetz-Schoell, p. xxx), Piras 2000, pp. 749-753 sottolinea opportunamente la necessità di un accurato censimento di tutto il materiale manoscritto e delle edizioni a stampa che possa integrare le collazioni parziali finora compiute, in gran parte risalenti al secolo scorso. 2 Per la tradizione manoscritta della Pro Cluentio vd. Rizzo 1979 che ritiene il codice «copiato da un esemplare in cattivo stato, lacunoso per caduta di fogli» e segnala anche come nella sezione relativa alla Pro Cluentio, come per il De lingua Latina, vi siano

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dices integri della tradizione della Rhetorica ad Herennium 3. La datazione è stata variamente attribuita alla seconda metà e alla fine dell’XI secolo, anche se recentemente Newton ha assegnato il manoscritto con maggior precisione al 11004. L’origine del codice si ricava essenzialmente dalla tipologia della scrittura e dall’annotazione in margine che reca la parola Casinum al f. 13r, cui va aggiunta la considerazione che il manoscritto presenta il caratteristico sbiadimento dell’inchiostro sul lato carne della pergamena, comune a molti codici di sicura origine cassinese5. Un altro elemento che sottolinea la ‘specificità’ cassinese è lo stato lacunoso in cui versano le porzioni relative al De lingua Latina e all’orazione ciceroniana, con ogni probabilità dovuto alle condizioni dei modelli usati nella trascrizione6. Il manoscritto contiene molti fogli o parti di fogli lasciati in bianco dal copista, che spesso rileva personalmente la mancanza di parti nell’antigrafo, con annotazioni come quelle che si leggono ai ff. 10v e 12r hic deest in exemplari folium unum o al f. 29r hic desunt tria folia in exemplari 7. Questo sistema di segnali finalizzato ad avvertire il lettore della presenza di lacune del testo, che si riscontra anche in altri codici cassinesi dell’XI secolo, dimostra che la trascrizione

numerosi spazi lasciati in bianco, pensati per aggiungere in un secondo momento le parti mancanti (pp. 23-27). 3 Sulla Textgeschichte della Rhetorica ad Herennium, si rinvia a Spallone 1997, p. 147 che sottolinea la differenza tra la sostanziale integrità del testo pseudo-ciceroniano (per il quale la studiosa ipotizza un modello di ascendenza germanica) e lo stato lacunoso delle sezioni del De lingua Latina e della Pro Cluentio. 4 Newton 1999, pp. 345-346. 5 Loew 1980 passim; Cavallo 1975, p. 385 = 2002, p. 268; Tarquini 2002, p. 25. 6 L’ipotesi avanzata da Cavallo 1975, pp. 398-399 (= 2002, pp. 269-270) è che «nell’XI secolo a Montecassino si riesumarono, per così dire, manoscritti più antichi o antichissimi, i più ormai mutili o in via di deterioramento, i quali erano stati cercati e raccolti nel cenobio e taluni anche trascritti tra l’VIII e il IX, al tempo di Paolo Diacono e di Ilderico, quando s’era avuta la prima rinascenza culturale dell’abbazia. […] Più tardi, nel secolo XI, all’epoca della seconda rinascenza culturale del cenobio, i codici sopravvissuti alle tragiche vicende cassinesi furono renovati, dunque trascritti in nuova veste». 7 Sono lasciati in bianco i ff. 21v, 29v, 31r, 34r-35v e sono solo parzialmente scritti i ff. 10v, 12r, 12v, 21r, 22r, 29r, 30r, 30v, 33v. Si rinvia all’accurata descrizione in Spallone 1996, pp. 153-156 e Tarquini 2002, pp. 25-29.

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fu effettuata non solo per finalità di conservazione, ma anche e soprattutto perché il testo potesse essere letto e consultato8. È assai probabile che i libri i-iv e xi-xxv del De lingua Latina mancassero già nell’esemplare da cui discendeva F, ma questa mutilazione resta difficilmente ascrivibile ad una precisa fase storica. Al di là del momento in cui questo avvenne, è la modalità (casualità o selezione intenzionale) ad essere oggetto di discussione. Taylor ipotizza che «the losses are more readily explicable in terms of human design rather than chance» (1996, p. 38). Verosimilmente, secondo lo studioso, nella tarda antichità, alla luce delle tendenze diffuse negli studi grammaticali, potrebbe essere stata operata una ‘selezione’ sull’opera varroniana: la parte teorica sull’etimologia (ii-iv), forse percepita come anacronistica, venne ignorata come l’intera sezione sulla sintassi (xiv-xxv), mentre i tre libri sui paradigmi flessivi (xi-xiii) dovettero sembrare superflui e forse anche primitivi rispetto alle più sofisticate teorie del tempo. Al contrario, delle etimologie dei libri v-vii si percepì l’immenso valore antiquario, e similmente si apprezzò la teoria morfologica, «a topic absent from numerous artes grammaticae circulating in late antique times»9. Accanto a questa suggestiva ipotesi, non si può tuttavia escludere il carattere accidentale della perdita dei libri i-iv e xi-xxv: un’assenza così vasta di blocchi consecutivi di libri può forse essere spiegata con l’organizzazione del materiale imposta dal formato del codice (che prevedeva solitamente raggruppamenti ampi di libri). Il caso del Laurenziano 51.10 può essere infatti accostato a quello del Laurenziano 68.2, anch’esso di sicura origine cassinese datato all’XI secolo e contenente i libri xi-xvi degli Annales e i libri i-v delle Historiae tacitiane: è evidente che la perdita di libri consecutivi conserva una traccia dell’originaria organizzazione in pentadi o decadi10. Il nostro manoscritto ha una storia affascinante. Fu con ogni probabilità asportato da Montecassino nel 1355 da Zanobi da Strada per conto del Boccaccio, il quale, giunto a Firenze, si affrettò a trarne di sua mano una copia che inviò in dono al Petrarca11. Successivamente il codice compare

8 Pecere 1994, p. 26. Si configura come un ‘livre d’étude’ nell’analisi di Newton 1999, pp. 281-282. 9 Taylor 1996, p. 39. 10 Sulla questione in generale vd. Canfora 1974, p. 27 e passim. 11 Sabbadini 1905, pp. 30-31 fu il primo a ipotizzare che il manoscritto contenente

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nell’inventario della biblioteca di S. Marco a Firenze (come testimonia la nota erasa e ora illeggibile al f. di guardia anteriore iiv), probabilmente acquisito dall’eredità di Niccolò Niccoli al momento della sua morte, avvenuta nel 143712. Da qui il passaggio alla biblioteca Medicea, dove compare alla sua apertura nel giugno del 157113. Il codice cassinese presenta una scrittura di difficile lettura per il deterioramento dell’inchiostro e per il distacco del supporto membranaceo; manca inoltre di un fascicolo contenente circa un sesto del testo tràdito del De lingua Latina, ovvero la porzione di testo che va da v 118 a vi 61. Tale perdita avvenne sicuramente dopo il 1521, anno in cui Pier Vettori e Jacopo da Diacceto lo collazionarono14, e prima del 1740, quando Girolamo Lagomarsini segnalò la lacuna15. Per la ricostruzione di questa porzione di F, oltre alla citata collazione del Vettori, si ricorre ai presunti descripti dei quali non è a tutt’oggi disponibile un elenco esaustivo, anche se un ampio resoconto è fornito nei Prolegomena all’edizione di Goetz-Schoell. A tal proposito, all’interno di questa rapida rassegna (che non ha pretese di completezza) sulla tradizione manoscritta del De lingua Latina, è opportuno ricordare almeno i principali descripti che risalgono, con pochissime eccezioni, al Quattrocento o all’inizio del Cinquecento: l’Escurialensis III. g. 20 (E ) del 1412, il Florentinus Laurentianus 51.5 ( f ) del 1427, lo Hau-

Varrone e Cicerone di cui Petrarca parla in Fam. xviii 4, 1, ringraziando il Boccaccio per il dono, fosse proprio una copia dell’attuale Laurenziano 51.10. Nell’epistola Petrarca definisce eximia et prorsus rara gli opuscula contenuti nel manoscritto: recepi ecce iterum a te librum ex Varronis ac Ciceronis opusculis eximiis prorsus et raris, quibus nichil animo meo gratius, nichil optatius, nichil demum poterat advenisse iocundius. Accessit ad libri gratiam quod manu tua scriptus erat, que res sub oculis meis inter illos duos tantos heroas lingue latine te medium fecit. Vd. ampia discussione in Piras 2000, pp. 755-756 e Piras 2012. 12 Cfr. Billanovich 1947, pp. 101 ss. e Ullman-Stadter 1972, p. 100. 13 Taylor 1996, pp. 39-42. 14 La collazione di F effettuata dal Vettori e dal Diacceto è riportata nell’esemplare dell’edizione del Leto conservato a Monaco (4° Inc. s.a.1908a ). Oltre alle varianti di F, il Vettori inserì anche delle correzioni al testo varroniano (che verranno contrassegnate nell’apparato critico del presente volume con la sigla Vict come nell’edizione di Goetz-Schoell). 15 Piras 2000, p. 752; Tarquini 2002, p. 26.

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niensis Gl. Kgl. Saml. 1987.4° del XV secolo (H ), il Gothanus Membr. II 118 del XV secolo (G), e infine il Parisinus Latinus 7489 (a), il Guelferbytanus 24 Gud. lat. n. 4329 (M), il Basileensis F IV 13 ( p), il Vindobonensis Lat. 3187 (V), il Vaticanus Latinus 1556 (α), anch’essi tutti risalenti al XV secolo16. Un accenno a parte merita l’excerptum eseguito probabilmente a Montecassino nel secolo XII (Montecassino, Archivio dell’Abbazia, n. 361, pp. 65-67), il cosiddetto fragmentum Casinense, contenente i §§ 41-56 del v libro del De lingua Latina. Una classificazione dei recentiores è offerta su basi ortografiche da Flobert nella sua edizione del vi libro17: si distingue una prima classe, che comprende i mss. f, a, H, G ritenuti arcaizzanti (principalmente caratterizzati dalla grafia quom al posto di cum, quoi per cui, e dal rispetto scrupoloso della dittongazione), una seconda classe comprendente V e p, che si distingue per la confusione tra a e t e i dittonghi spesso monottongati, e infine una terza classe in cui si inseriscono M, α ed E, che presentano una ortografia molto negletta con monottongazioni e assibilazioni. Oltre ai manoscritti citati, altri due meritano di essere presi in considerazione. In primo luogo, va ricordato il ‘misterioso’ manoscritto siglato solitamente con B, probabilmente databile al XV secolo e non più identificabile. Le sue varianti furono annotate da Pier Vettori in una copia dell’editio Gryphiana stampata a Lione nel 1535, conservata ora a Monaco (Res.A.lat.b.2059). La collazione del Vettori si interrompe tuttavia in corrispondenza di ling. ix 74. Sempre questo codice (o una copia molto simile) fu usato dall’Augustinus nella preparazione della sua edizione pubblicata a Roma nel 1557, la cosiddetta editio vulgata (cfr. infra). Il secondo codice è il Vallicellianus D 49.3. Su questo manoscritto, datato tradizionalmente al sec. XV18, si sono concentrati gli sforzi degli studiosi con risultati che potrebbero rimettere in discussione tutta la cronologia dei recentiores. Attraverso un confronto paleografico condotto tra il testo del ix libro del Vallicellianus e quello corrispondente nell’Escurialensis III. g.20, copiato nel 1412 a Firenze, van Rooij è giunto nel 1987 alla conclu-

16 Si rinvia alle pp. xxx-xxv dell’edizione Goetz-Schoell e alle pp. 10-22 di Antoni bon 1899 per la descrizione dei singoli manoscritti. 17 Flobert 1985, pp. xxvii-xxviii. 18 Antonibon 1899, p. 12 e Goetz-Schoell, p. xxxv.

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sione che il manoscritto ora conservato a Madrid fu esemplato proprio sul Vallicelliano, che quindi dovrebbe essere retrodatato ante 1412 e risulterebbe essere quindi la più antica copia conservata di F. Nella stessa direzione conduce l’identificazione proposta da A.C. de la Mare della mano che ha redatto il testo e i notabilia in pre-antiqua del Vallicelliano, ossia quella di Coluccio Salutati: un dato che porta a ritenere il codice anteriore al 1406, anno in cui il Salutati morì19.

4.2 Le edizioni Altrettanto cursoriamente, in ordine cronologico, è opportuno ricordare le più importanti edizioni a stampa, a partire dall’editio princeps a cura di Pomponio Leto, pubblicata a Roma attorno al 147120; ad essa segue l’edizione di Francesco Rolandello, stampata a Venezia attorno al 1478. Simile a quest’ultima, ma con in più i testi di Nonio Marcello e Festo, è l’editio Veneta, pubblicata nel 1483 e ristampata nel 1492. Va ricordata poi l’editio Gryphiana stampata a Lione nel 1535 dal Gryphius con le Castigationes del Bentinus, cui a sua volta si deve l’editio Parisiensis del 1529. Di gran lunga più importante fu l’edizione di Antonio Agustín, la cosiddetta editio vulgata, stampata a Roma per la prima volta nel 1554 da Vincenzo Luchino e ristampata sempre a Roma nel 1557 da Antonio Blado, in parte basata su B, il manoscritto ora perduto ma a suo tempo collazionato da Pier Vettori21. Quello dell’Augustinus sarà il testo-standard del De lingua Latina, fino al-

19 de la Mare 1994, 107, n. 35. L’importanza di questi progressi nella storia della tradizione del De lingua Latina è ben riassunta in Taylor 1996, p. 38 che afferma: «van Rooij’s identification of Vallicellianus D 49.3 as the earliest apographon of F and de la Mare’s identification of its script as Coluccio Salutati’s are together the most significant discovery to date regarding the codices descripti and the many other manuscript copied from them». 20 Il luogo e la data non sono specificati nel frontespizio. Gli studiosi si sono a lungo interrogati su quale manoscritto fosse alla base dell’edizione del Leto. Sulla scia della rivalutazione del codice Vallicellianus D 49.3 è stato recentemente condotto un confronto tra questo e la princeps da cui è emerso che fu molto probabilmente il Vallicelliano il manoscritto principale usato dal Leto (Sarullo-Taylor 2013). 21 Vd. supra n. 14. Sulla cosiddetta editio vulgata vd. Kent vol. i, pp. xiv e xxix.

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l’edizione di L. Spengel, ed è inoltre la prima edizione in cui si ha la consapevolezza che i sei libri superstiti appartengono tutti alla stessa opera, mentre le edizioni precedenti, a partire dalla princeps, attribuivano al De lingua Latina solo i primi tre libri conservati, numerati dal iv al vi; i successivi vii-ix venivano invece riferiti a un De analogia 22. Nel saggio introduttivo intitolato Ordo et ratio librorum, l’Augustinus dimostra, infatti, che la prima e la seconda triade sono consecutive e che hanno due diversi dedicatari, P. Settimio per la prima e M.T. Cicerone per la seconda; diversamente, non viene corretto l’uso invalso fino a questa edizione di considerare il De lingua Latina come composto da ventiquattro libri e non da venticinque (del primo libro non veniva considerato, infatti, il carattere introduttivo). All’inizio dell’opera trovano spazio congetture e ipotesi esegetiche non accolte nel testo ascrivibili in parte all’Augustinus, in parte ai viri docti elencati nella prima pagina numerata della sua edizione (Pomponio Leto, Angelo Tifernate, Francesco Rolandello, Aldo Manuzio, Michele Bentino, Angelo Colocci, Ottavio Pantagato, Pier Vettori e Gabriele Faerno)23. Segue l’editio Vertranii, a cura di Vertranio Mauro e pubblicata a Lione nel 1563, e poco dopo vengono pubblicati gli importanti Coniectanea in

Per l’adeguata identificazione e la datazione (spesso controversa) delle varie edizioni del De lingua Latina pubblicate tra Quattrocento e Cinquecento si è fatto ovviamente riferimento ai Prolegomena delle varie edizioni critiche moderne, alla ricca ‘Nota bibliografica’ di Antonibon 1899, pp. 179-187, nonché all’ampio regesto delle Editiones redatto da Kent (vol. i, pp. xxvii-xxxiii). I dati così raccolti sono stati integrati con quelli ricavati dai principali repertori di incunaboli e dai cataloghi on-line delle principali biblioteche europee che offrono le digitalizzazioni complete di quasi tutte queste edizioni. 22 Cfr. Brown 1980, p. 459. 23 Poiché si tratta di un’edizione in cui probabilmente sono confluite varianti di vari manoscritti e congetture di più studiosi peraltro non puntualmente identificati, si sono adottate in apparato sigle differenti per orientare il lettore sulla provenienza di tale materiale, sulla scorta ad es. dell’edizione di Flobert. La sigla Aug in Emend. nell’ap parato critico qui allestito si riferisce alle congetture e varianti contenute nelle Adnotationes iniziali intitolate Dubia et varia ed Emendata, cui vanno aggiunte quelle segnalate a margine del testo dell’edizione con una croce e con un semicerchio, secondo quanto spiega lo stesso editore al termine della sezione Dubia et Varia (queste ultime verranno indicate in apparato con la sigla Aug in marg.). Infine, con Aug ex B sono segnalati i casi in cui il testo dell’Agustín coincide con varianti del codice B leggibili ancora nei marginalia di Pier Vettori all’editio Gryphiana del 1535 (vd. supra).

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M. Terentium Varronem De lingua Latina dello Scaligero (Parigi 1565). L’edizione a cura di Adrianus Turnebus (Parigi 1566), modificò la vulgata con numerose emendazioni, così come quella di Ausonius Popma (Leida 1601), e poi quella curata dallo Scioppius, che si servì anche di collazioni di manoscritti vaticani operate da Fulvio Orsini. Infine, l’ultima delle edizioni ‘prescientifiche’ fu quella Bipontina, pubblicata a Zweibrücken in Baviera nel 1788, che presentava insieme i commenti di Augustín, Scaligero, Popma e Turnèbe. La svolta nella storia del testo varroniano arriva con l’edizione di Leonhard Spengel del 1826, che è la prima edizione del De lingua Latina in cui il manoscritto di riferimento è finalmente F, seguito nella corretta numerazione dei libri superstiti e per il quale il filologo tedesco si basava sulla collazione effettuata da Pier Vettori nel 1521. La successiva edizione critica è di K.O. Mueller (1833) ed è particolarmente curata sotto l’aspetto della presentazione del testo: vengono divisi e numerati i paragrafi, corretta la punteggiatura e identificati i principali errori dei manoscritti (aplografie, dittografie, etc.). Una menzione particolare spetta all’edizione (finora non sufficientemente valorizzata) di Pietro Canal, edita a Venezia nel 1874, all’interno della collana ‘Biblioteca degli scrittori latini’ per i tipi di Antonelli, intesa spesso – ma a torto – seconda edizione di una precedente del 1846, recante il titolo Opere di Varrone, e contenente soltanto il De re rustica, a cura di G. Pagani24. Oltre a valorizzare alcuni manoscritti ‘minori’, Canal dimostra un notevole intuito nell’emendatio25: molte sue congetture trovarono infatti posto tacitamente nella seconda edizione dello Spengel, curata e pubblicata postuma dal figlio Andreas (1885). Alcune di queste ‘indebite appropriazioni’ da parte del filologo tedesco non sfuggirono al pronipote di Canal, Giulio Antonibon che, nelle pagine introduttive del suo saggio sulle varianti

24 Timpanaro 1974, p. 678. Molti studiosi moderni lamentano la scarsa considerazione di cui ha goduto questa edizione critica, di cui sbagliano però il riferimento bibliografico, come fanno Goetz-Schoell, p. xxxvii; Kent, i, p. xxxii; Traglia 1974, p. 40 e Riganti 1978, p. 15. Per una panoramica sulle pubblicazioni dell’abate veneziano Pietro Canal, vd. Timpanaro 1974, pp. 678-679 e Nardo 1997, pp. 141-175. 25 Così anche Taylor 1996, p. 48: «Canal has a knack for understanding what the real problems posed by the trasmitted text are and therefore for correcting them […] Canal’s edition is demonstrably superior to those of his predecessors».

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dei principali codici del De lingua Latina, non mancò di lamentarsene con un certo fervore26. Nell’edizione del secondo Spengel vengono inserite a testo congetture che nella prima edizione erano prospettate dubitanter in apparato critico; altre ancora, ma del tutto inedite, vengono attribuite al padre Leonhard e risalgono ai decenni di lavoro successivi alla prima edizione; altre congetture infine sono avanzate in prima persona dal figlio Andreas. L’apparato critico che correda il testo (migliorato rispetto alla prima edizione grazie alla nuova collazione di F compiuta da Heinrich Keil) risulta assai esaustivo, anche se in molti casi sovrabbondante per la vastità del materiale confluito, in particolare per le varianti di scarso valore offerte dagli apografi27. L’ultima edizione critica, in ordine di tempo, è quella pubblicata nel 1910 (e ristampata nel 1964) per la collezione Teubneriana da G. Goetz e F. Schoell. Essa ha il grande pregio di riprodurre assai fedelmente il testo di F, grazie alla nuova collazione condotta sul manoscritto da Schoell che individua nelle pagine introduttive dell’edizione le varie tipologie di errori presenti in F: lacune in presenza di omoteleuto, errori di trascrizione, soprattutto aplografie, dittografie (di gran lunga le più frequenti), trasposizioni, errori nello scioglimento di sigle e casi di glosse interpolate28. La linea scelta dagli editori è sicuramente conservativa: il testo con tutte le sue corruttele e ambiguità ortografiche non viene quasi mai modificato con congetture, che invece vengono relegate sempre in apparato critico, dopo essere state accuratamente selezionate. L’emendatio viene praticata, infatti, con molta prudenza dai due editori, che preferiscono usare in abbondanza le cruces, piuttosto che accogliere le congetture degli editori precedenti, e in particolare quelle di L. Spengel29. Ottime soluzioni testuali proposte dai

Antonibon 1899, pp. 6 ss. Taylor 1996, p. 50. 28 Goetz-Schoell, pp. xxii-xxx. «Errare humanum est, but our scribe regularly tests the limits of his fallible humanity. F is therefore a codex corruptissimus» chiosa ironicamente Taylor 1996, p. 33. 29 Taylor 1996, p. 51 giudica l’edizione teubneriana «ultra-conservative», mentre Riganti 1978, pp. 15-16 ne osserva la distanza dal precedente lavoro degli Spengel: «L’apparato di questa edizione [sc. Goetz-Schoell] presenta un pregio e un difetto esattamente opposti a quelli dell’edizione di A. Spengel: da un lato, è rigoroso e stringato, e non fa posto ad emendamenti di scarsa attendibilità; dall’altro, esclude ingiustamente 26 27

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due editori si trovano nell’Appendice (Adnotationes), mentre altrettanto utili sono i loci similes che accompagnano il testo30.

4.3 Nota al testo Il testo offerto nel presente lavoro, che si pone come obiettivo primario l’analisi dei contenuti linguistici del nono libro, si basa sull’edizione teubneriana di Goetz e Schoell che, per quanto di impostazione per certi versi ottocentesca, è ancora l’edizione critica di riferimento31. Si è pertanto rinunciato a una revisione sistematica della tradizione manoscritta che esula dalle competenze di chi scrive, pur non trascurando alcuni passaggi fondamentali preliminari all’elaborazione del testo critico del ix libro, come l’autopsia diretta del Laurenziano 51.10 e il controllo di tutto il testo e in particolare dei punti problematici nella riproduzione digitale32, unitamente all’autopsia virtuale dei principali manoscritti descripti. In mancanza di una revisione complessiva dei codici apografi (auspicio più volte espresso dagli studiosi varroniani), si è rinunciato a integrare l’apparato della teubneriana con le varianti del rivalutato codice Vallicelliano33 che non compare pertanto nei Sigla. lezioni degne di nota dei codici apografi ed emendamenti di importanza risolutiva ai fini della costituzione del testo». 30 Sono almeno da ricordare, per l’apporto all’esegesi del testo varroniano, le edizioni criticamente rivedute con traduzione di tutto il De lingua Latina: la prima, in ordine cronologico, è quella di R.G. Kent (già ampiamente citato nel corso di questo capitolo per la sua accurata descrizione della tradizione manoscritta), la seconda, più divulgativa, a cura di A. Traglia, pubblicata nel 1974, offre l’unica traduzione italiana completa dell’opera; per i singoli libri dell’opera vanno qui menzionate le edizioni con traduzione e commento: quella a cura di J. Collart pubblicata nel 1954 per il quinto libro, quelle di Riganti 1978 e Flobert 1985 per il sesto, quella di Dahlmann 1966 2 per l’ottavo libro e, per l’ultimo libro superstite, il decimo, l’importante edizione di Taylor 1996 che supera il lavoro di Traglia 1967. 31 Si attende con grande interesse la nuova edizione, sempre per l’editore Teubner, curata da Giorgio Piras. 32 Un accurato esame del manoscritto beneventano è stato possibile anche grazie alla competenza della dott. ssa Lidia Buono del ‘Laboratorio per lo studio del libro antico’ dell’Università di Cassino, cui va il mio sentito ringraziamento. 33 Vd. supra pp. 71-72.

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In alcuni casi, il testo offerto si discosta dall’edizione di riferimento e talvolta accoglie le scelte di editori precedenti: nella tavola comparativa al termine di questo capitolo si dà conto delle divergenze tra il nostro testo e quello stampato nella teubneriana. Visto il problematico stato del testo e l’estrema essenzialità dell’apparato critico dell’edizione Goetz-Schoell, è sembrato opportuno redigere un apparato critico che fungesse da ‘ausilio tecnico’ alla comprensione. L’apparato, che non ha pretese di completezza, ha quindi una funzione eminentemente pratica: segnalare i punti problematici e contenere le indicazioni essenziali sulle ipotesi esegetiche che si sono avvicendate nel tempo. Va in tal senso segnalato che, nell’edizione di Goetz-Schoell, il contributo filologico di Leonhard Spengel è indicato in apparato in modo non sempre inequivocabile attraverso l’unica sigla Sp: la maggior parte delle congetture o degli interventi testuali dell’editore tedesco è però posteriore all’edizione del 1826 e a rendere complicata l’identificazione della paternità e della cronologia di diverse congetture spengeliane, è proprio l’assetto ‘cumulativo’ dell’edizione del 1885, in cui il figlio Andreas sin dalla prefazione afferma di voler dare la massima visibilità ai materiali che il padre aveva preparato in vista della nuova edizione. Distinguendo con le sigle L. Sp 1 e L. Sp 2 (sulla scia dell’edizione del vi libro curata da Flobert per le Belles Lettres) si sono indicate in apparato le congetture contenute rispettivamente nella prima e nella seconda edizione. Quanto ipotizzato da Spengel senior in articoli minori è stato segnalato in apparato con i precisi estremi bibliografici (poi restituiti per esteso nei riferimenti bibliografici finali), laddove possibile: altrettanto si è fatto con altri studiosi intervenuti nel dibattito sul testo varroniano in articoli o studi citati spesso in modo poco perspicuo nell’apparato di Goetz-Schoell34. Inoltre, sempre nell’ottica di favorire la leggibilità dell’apparato critico, si è preferito evitare di riportare la trascrizione diplomatica delle lezioni di F, come invece fanno in genere gli editori teubneriani, operando i consueti scioglimenti dei segni di abbreviazione e delle note tachigrafiche.

34 In un unico caso non si è riusciti a indicare con precisione il riferimento bibliografico relativo al vir doctus Ant. Miller (vd. apparato critico al § 37), di cui – per quanto ho potuto vedere – non sono noti scritti di argomento varroniano, né in generale di carattere strettamente filologico; egli viene citato in modo piuttosto generico tra i sodales seminarii solo da L. Spengel nella prefazione alla seconda edizione (p. xxxiv).

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La discussione dei principali loci corrupti e la disamina delle congetture più importanti (che spesso – ma non sempre – nell’edizione Goetz-Schoell si trova delle Adnotationes finali) sono rinviate, quando rilevanti per la comprensione del testo, alle note di commento relative ai passi dibattuti.

[

Vengono di seguito elencate le divergenze tra il testo qui accolto e l’edizione Goetz-Schoell. Sono contrassegnate da asterisco le congetture che i medesimi editori propongono in apparato critico o nelle Adnotationes e che si accolgono in questa edizione.

la presente edizione

edizione goetz-schoell

§1 e‹ius›de‹m›(*)

† et de

§3 ex hac consuetudo

ex hax *** consuetudo

eorum quod

eorumque

§4 analogiarum

analogia † an

§7 cur non modo ‹non› videatur

cur non modo videatur

§8 [quod] sine reprehensione

quod sine reprehensione

§ 14 non modo ‹non› patiemur

non modo patiemur

§ 24 a septemtrionali circumitu et is

a septemtrionali †circumit cum is

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il testo

§ 28 nascitur [id est] mulus aut mula

nascitur id est mulus aut mula

§ 30 qua loquimur voce oratio est

qua loquimur voce † orationem

§ 33 ex pelago sermonis ‹po›puli

ex pelago sermonis †puli

§ 37 similitudo figura‹e› verbi

[similitudo] figura verbi

§ 40 in re dissim‹ili par›ilis figurae formas, in [dis]simili imponunt dispariles(*)

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† in re dissimilis figurae formas indissimiles imponunt dispariles

§ 44 ex ‹declin›atis verbis(*)

ex aliis verbis

§ 46 nos dissimilitudinem ***

nos † dissimilitudinem

§ 53 Quare in hoc tollunt esse analogias. Quare in hoc † tollunt esse analogias. § 54 Casus ‹tan›tum [cum] commutantur § 58 ‹quod› ad silentium

casus †tum cum commutantur

ad silentium

quod omnia [habent] lumen habere quod omnia †habent lumen habere § 59 neutra cum his ‹nullam›(*)

†neutra cum his

§ 65 in quo multitudinis utri

in quo multitudinis †ut utre • I •

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§ 68 primum balneum (nomen e‹s›t graecum) ‹cum› introiit(*) § 71 Aquilius, ‹Faustus: quod si esset› Faustius

primum balneum nomen †et graecum introiit Aquilius; †Faustius

§ 80 sed ‹manus nec› consuetudo

sed *** consuetudo

§ 86 redimus ad unum et novem: hinc

redimus ad unum † et • V • hinc

§ 89 graecanice

†graecancaene

§ 94 assumi‹mus›

†assumi

§ 96 traduci ‹infecti› potest(*)

traduci potest

§ 102 est verbi caput(*)

†externi caput

§ 113 haec murenae

haec †nerene

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SIGLA

F H V p a G M B

Florentinus Laurentianus Plut. 51.10, saec. XI Hauniensis Gl. Kgl. Saml. 1987.4°, saec. XV Vindobonensis Lat. 3187, saec. XV Basileensis F IV 13, saec. XV Parisinus Lat. 7489, saec. XV Gothanus Membr. II 118, saec. XV Guelferbytanus 24 Gud. lat n. 4329, saec. XV codex deperditus ab Antonio Augustino usurpatus et a Petro Victorio collatus in editione Gryphiana Monaci servata

Laet Rhol

Pomponius Laetus ed., Romae, Georgius Lauer, 1471 ca. Pomponius Laetus et Franciscus Rholandellus edd., Venetiis 1478 ca. Pomponius Laetus et Franciscus Rholandellus edd., Venetiis, Octavianus Scotus, 1483 Johannes Baptista Pius ed., Mediolani, Leonardus Pachel, 1510 Venetiis, Aldus Manutius et Andreas Torresanus, 1513 Petri Victorii notae in editione Laeti Monaci servata, 1521 Michael Bentinus ed., Parisiis, Simon Colinaeus, 1529 Antonius Augustinus ed., Romae, Vincentius Luchinus, 1557 Marcus Vertranius Maurus ed., Lugduni, Haeredes Sebastiani Gryphii, 1563 Iosephus Scaligerus (Coniect.), Parisiis, Robertus Stephanus, 1565 Henricus Stephanus (App.), [Genevae], Henricus Stephanus, 1591 Ausonius Popma ed., Lugduni, Christophorus Raphelengius, 1601 Caspar Scioppius ed., Ingolstadii, Adamus Sartorius, 1605 Leonhard Spengel ed., Berlin, Duncker et Humbloth, 1826 Konrad Otfried Mueller ed., Leipzig, Weidmann, 1833 Pietro Canal ed., Venezia, Antonelli, 1874 Leonhard Spengel-Andreas Spengel edd., Berlin, Weidmann, 1885 Andreas Spengel in L. Sp2 Georg Goetz-Friedrich Schoell edd., Leipzig, Teubner, 1910

ed. Ven Pius Ald Vict Bent Aug Vertr Scal Steph Popma Sciop L. Sp1 Mue Canal L. Sp2 A. Sp GS

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TESTO E TRADUZIONE

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‹M. TERENTI VARRONIS DE LINGUA LATINA LIBER VIII EXPLICIT. INCIPIT LIBER VIIII

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[1] *** nesciunt docere quam discere quae ignorant: in quo fuit Crates, nobilis grammaticus, qui fretus Chrysippo, homine acutissimo qui reliquit περὶ ἀνωμαλίας †lei libri contra analogian atque Aristarchum est nixus, sed ita, ut scripta indicant eius, ut neutrius videatur pervidisse voluntatem, quod et Chrysippus de inaequabilitate cum scribit sermonis, propositum habet ostendere similes res dissimilibus verbis et dissimiles similibus esse vocabulis notatas, id quod est ver[b]um, et [cum] Aristarchus, de aequabilitate cum scribit e‹ius›de‹m›, verborum similitudinem qua[ru]ndam ‹in› inclinatione[s] sequi iubet, quoad patiatur consuetudo. [2] Sed ii qui in loquendo partim sequi iube‹n›t nos consuetudinem partim rationem, non tam discrepant, quod consuetudo et analogia coniunctiores sunt inter se quam iei credunt, [3] quod est nata ex quadam consuetudine analogia et ex hac consuetudo, ex dissimilibus et similibus verbis, eorum quod declinationibus constat, neque anomalia neque analogia est repudianda, nisi si non est homo ex anima, quod est [homo ex anima quod est] ex corpore et anima. [4] Sed ea quae dicam quo facilius pervideri possint, prius de trinis copulis discernendum (nam [cum] confusim ex utraque parte pleraque di-

M. TERENTI …VIIII om. F. Cum ultima parte libri octavi periit initium noni. 1 Insignis eorum est error qui malunt quae suppl. Boot 1894, p. 411 : Multi minus suppl. Spengel 1830, p. 8 || 3 περὶ ἀνωμαλίας a : perianomalias F | lei libri F : his libris Ald : iii (vel iiii) libros Spengel 1858, p. 9 || 6 dissimiles similibus Wilmanns 1864, p.14, n. 1 : dissimilibus similes F : similibus dissimiles Canal || 7 verbum F corr. Ald | cum secl. L. Sp2 || 8 cum scribit Mue : conscribit F | eiusdem (scil. sermonis) dubitanter GS : et de (lineolis del. de) F | quandam Groth 1880, p. 53 : quarundam F || 8-9 in inclinatione A. Sp : inclinationes F : in declinatione L. Sp2 || 10 iubent Vict || 13 post ex hac lac. sign. Mue qui suppl. consuetudine item anomalia; itaque: consuetudine item anomalia quare quoniam suppl. dubitanter L. Sp2 | eorum quod F : eorumque L. Sp2 GS || 15 homo ex anima quod est om. V p, secl. A. Sp : ex anima quod est del. Aug ex B || 17 cum del. Mue

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‹M. TERENZIO VARRONE LA LINGUA LATINA FINISCE IL LIBRO OTTAVO. INIZIA IL LIBRO NONO



[1] *** non sanno insegnare, invece di imparare quello che non conoscono: in questa situazione si trovò Cratete, famoso grammatico, il quale, basandosi su Crisippo, uomo di ingegno acutissimo e autore di † libri Sull’Anomalia, se la prese contro l’analogia e contro Aristarco, ma in modo tale che, a quanto si deduce dai suoi scritti, sembra non aver capito fino in fondo le intenzioni né dell’uno né dell’altro. Crisippo, infatti, quando scrive dell’irregolarità del linguaggio, si propone di dimostrare che cose simili vengono denotate da parole dissimili e che cose diverse vengono indicate con parole simili, il che è vero. Aristarco, quando parla della regolarità del linguaggio, vuole che si segua una qualche analogia nella flessione, sempre nei limiti in cui l’uso la rende possibile. [2] Ma quelli che ci prescrivono di seguire nella lingua chi l’uso, chi la regola, non sono poi così tanto in disaccordo, poiché l’uso e l’analogia sono più legati tra loro di quanto essi credano, [3] dal momento che l’analogia è nata da una qualche consuetudine, e dall’analogia nasce la consuetudine, che è costituita da parole in parte dissimili e in parte simili; e poiché la consuetudine si fonda sulla declinazione di queste, né l’anomalia né l’analogia vanno rifiutate, a meno che non si voglia dire che l’uomo non è fatto anche di anima, perché è costituito sia di corpo che di anima. [4] Ma perché si possa più agevolmente comprendere appieno quello che dirò, prima di tutto sarà bene fare delle distinzioni sulla base di tre coppie oppositive (infatti le argomentazioni da entrambe le parti vengono espresse per lo più alla rinfusa, mentre devono

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cuntur, quorum alia ad aliam referri debent summam): primum de copulis naturae et ‹u›suis: haec enim duo sunt quod †erigunt diversa, quod aliud est dicere ‹esse› verborum analogias, aliud dicere uti oportere analogiis; secundum de copulis multitudinis ac finis, utrum omnium verborum dicatur esse analogiarum usus an maioris partis; tertium de copulis personarum, qui eis debent uti, quae sunt plures. [5] Alia enim populi universi, alia singulorum, et de ieis non eadem oratoris et poetae, quod eorum non idem ius. Itaque populus universus debet in omnibus verbis uti analogia et, si perperam est consuetus, corrigere se ipsum, cum orator non debeat in omnibus uti, quod sine offensione non potest facere, cum poeta[e] transilire lineas impune possit. [6] Populus enim in sua potestate, singuli in illius: itaque ut suam quisque consuetudinem, si mala est, corrigere debet, sic populus suam. Ego populi consuetudinis non sum ut dominus, at ille meae est. Ut rationi optemperare debet gubernator, gubernatori unusquisque in navi, sic populus rationi, nos singuli populo. Quare ad quamcumque summam in dicendo referam, si animadvertes, intelleges, utrum dicatur analogia esse an uti †oporteret redigeretur dici id in populum aliter ac inde omnibus dici in eum qui sit in populo. [7] Nunc iam primum dicam pro universa analogia, cur non modo non ‹ › videatur esse reprehendenda, sed etiam cur in usu quodammodo sequenda; secundo de singulis criminibus, quibus rebus possint quae dicta sunt contra solvi, dicam, ita ut generatim comprehendam et ea quae in priore libro sunt dicta et ea quae possunt dici atque illic praeterii. [8] Primum quod aiunt, qui bene loqui velit, consuetudinem sequi oportere, non rationem similitudinum, quod, alterum si neglegat, sine offensione facere non possit, alterum si sequatur, [quod] sine reprehensione non sit futurum, e‹r›ra‹n›t, quod qui in loquendo consuetudinem qua oportet uti sequitur, ‹sequitur› non sine [ea] ratione.

1 quorum Ald : quarum F || 2 usuis Spengel 1830, p. 9 : suis F | quod erigunt F : quae exigunt Laet cum aliis : quod derigunt Spengel 1830, p. 9, n. 8 : quo deriguntur (scil. analogiae) dubitanter GS coll. X 74 || 3 esse suppl. Spengel 1830, p. 9, n. 8 || 5 analogiarum usus Mue : analogia an usus F || 10 poeta L. Sp2 (prop. L. Sp1) : poetae F || 17-18 locum corruptum ind. edd. plerique inde a Mue || 20 non suppl. Steph || 26 quod seclusi || 27 errant Aug : erat F || 28 sequitur suppl. Canal | ea secl. GS

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essere ricondotte ai rispettivi criteri generali). In primo luogo bisogna distinguere la coppia ‘natura’ e ‘uso’: questi sono concetti diversi †. Una cosa è dire che le analogie tra le parole esistono, un’altra dire che bisogna usarle. In secondo luogo, la coppia relativa all’estensione e ai limiti: cioè se l’analogia si debba applicare a tutte le parole o solo alla maggior parte di esse. Il terzo criterio riguarda la distinzione delle persone, e cioè come i parlanti debbano servirsi dell’analogia, perché ce ne sono di molte specie. [5] Una cosa, infatti, è la condizione del popolo nel suo insieme, un’altra, quella del singolo individuo, e inoltre, tra gli individui, l’oratore è diverso dal poeta, dal momento che i loro diritti non sono gli stessi. Perciò, il popolo in generale deve seguire in tutte le parole il principio dell’analogia e, se è abituato a parlare scorrettamente, deve correggersi. L’oratore, invece, non deve servirsene in ogni situazione, perché non potrebbe farlo senza urtare l’uditorio. Al poeta è addirittura consentito oltrepassare impunemente queste limitazioni. [6] Il popolo, infatti, ha potere su sé stesso e i singoli dipendono da lui. Come ciascuno deve correggere il proprio uso linguistico, se sbagliato, così deve fare il popolo. Ovvero, io non ho potere sull’uso linguistico del popolo, ma lui ne ha sul mio. Come il capitano deve sottomettersi al regolamento, e a sua volta chiunque sia a bordo della nave deve seguire il capitano, così il popolo deve seguire la regola, e noi singoli il popolo. Perciò, a qualunque cosa io mi riferisca nella discussione, se sarai attento, potrai discernere se si sta parlando dell’esistenza dell’analogia o piuttosto della necessità di servirsene † va ricondotto al popolo e al singolo che ne fa parte. [7] Per prima cosa, parlerò ora in favore dell’analogia in generale: sul perché, non solo non sia da biasimare, ma anzi sia da applicare in qualche modo nell’uso linguistico. In secondo luogo, tratterò delle singole critiche, e con quali argomentazioni possano essere confutate le accuse mossegli contro, e farò in modo di includere nell’esposizione, volta per volta, quanto detto nel libro precedente, e quanto di ciò che lì ho tralasciato può ancora essere detto. [8] In primo luogo, gli anomalisti sostengono che, chi vuole parlare correttamente, dovrebbe seguire la consuetudine e non un principio di regolarità, perché se si trascura la prima non si può farlo senza infastidire l’ascoltatore, e se si segue la seconda non si potrà farlo senza finire per essere criticati. Ebbene sbagliano, perché chi nel parlare segue la consuetudine in modo opportuno, la segue non senza una regola.

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[9] Nam vocabula ac verba quae declinamus similiter, ea in consuetudine esse videmus et ad ea‹m› conferimus et, si quid est erratum, non sine ea corrigimus. Nam ut, qui triclinium constrarunt, si quem lectum de tribus unum imparem posuerunt aut de paribus nimium aut parum produxerunt, una corrigimus et ad consuetudinem co‹m›munem et ad aliorum tricliniorum analogias, sic si quis in oratione in pronuntiando ita declinat verba ut dicat disparia, quod peccat redigere debemus ad ceterorum similium verborum rationem. [10] Cum duo peccati genera sint in declinatione, unum quod in consuetudinem perperam receptum est, alterum quod nondum est et perperam dicatur, unum dant non oportere dici, quod ‹non› sit in consuetudine, alterum non conceditur quin ita dicatur, ut si‹t› similiter, cum id faciant, ac, si quis puerorum per delicias pedes male ponere atque imitari vatias c‹o›eperit, hos corrigi oportere si conceda‹n›t, contra, si quis in consuetudine ambulandi iam factus sit vatia aut conpernis, si eum corrigi non conceda‹n›t. [11] Non sequitur, ut stulte faciant qui pueris in geniculis alligent serperastra, ut eorum depravata corrigant crura? Cum [de] ‹vi›tuperandus non sit medicus qui e longinqua mala consuetudine aegrum in meliorem traducit, quare reprehendendus sit qui orationem minus valentem propter malam consuetudinem traducat in meliorem? [12] Pictores Ap[p]elles, Protogenes, sic alii artufices egregii non reprehendundi, quod consuetudinem Miconos, Dioris, Arimm‹a›e, etiam superiorum non sunt secuti: Aristophanes improbandus, qui potius in quibusdam ve[te]ritatem quam consuetudinem secutus? [13] Quod si viri sapientissimi et in re militari et in aliis rebus multa contra veterem consuetudinem cum essent ‹a›usi, laudati, despiciendi sunt qui potiorem dicunt oportere esse consuetudinem ratione. [14] An cum quis perperam consuerit quid facere in civitate, non modo ‹non› patiemur, sed etiam p‹o›ena[m] afficiemus, idem si quis perperam

2 ad eam Aug ex B : ad ea F || 9 in declinatione Groth 1880, p. 54, n. 330 : inde clinationum F : declinationum Laet || 11 non suppl. Aug in Emend. || 12 sit Laet : si F || 14 concedant Ald : concedat F || 17 vituperandus G H Vict : detuperandus F || 22 Dioris, Arimnae Aug ex B : dioros arim. me F || 24 veritatem p Laet : veteritatem F || 26 ausi Canal : usi F || 29 non suppl. Aug ex B | poena Laet : penam F

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[9] Infatti, noi vediamo che i nomi e i verbi che flettiamo seguendo rapporti di somiglianza sono nell’uso comune; a questo facciamo riferimento e, se si commette un errore, non possiamo correggerlo senza questo criterio. Come accade ad esempio a chi ha preparato una sala da pranzo: se, di tre divani, se ne è collocato uno diverso rispetto agli altri due o magari lo si è sistemato solo troppo avanti o troppo indietro rispetto ad essi, lo sistemeremo sulla base della consuetudine comune e nello stesso tempo dell’analogia con le altre sale da pranzo. Così nel linguaggio se qualcuno, mentre parla, flette in modo irregolare le parole, noi dobbiamo correggere l’errore basandoci sull’analogia con gli altri vocaboli simili. [10] Vi sono due tipi di errore nella flessione: uno è la forma erroneamente entrata nell’uso comune, l’altro è la forma non ancora entrata nell’uso, ma comunque sbagliata. Secondo gli anomalisti, solo questa seconda eventualità non è ammissibile, perché non è entrata nella consuetudine. L’altro tipo di errore, essi ritengono che non possa che essere accettato. Facendo così, è come dire che, se un ragazzino per gioco ha cominciato a mettere male i piedi e a fare lo zoppo, lo si può correggere; al contrario, se qualcuno, a forza di camminare così, è già diventato storpio o le sue ginocchia si toccano, pensano che non vada corretto. [11] Non ne consegue dunque che sbagliano coloro che legano le stecche alle ginocchia dei bambini, per raddrizzare le loro gambe storte? Ma dal momento che non è da biasimare il medico che corregge il malato nelle sue inveterate cattive abitudini, perché dovrebbe essere criticato chi vuole correggere la lingua corrotta da cattive abitudini? [12] I pittori Apelle, Protogene e altri artisti famosi non sono certo da biasimare, perché non hanno seguito la prassi di Micone, Diore, Arimma, e di altri ancora più antichi. E Aristofane dovrebbe essere disapprovato, perché in certi casi ha preferito seguire la correttezza linguistica, piuttosto che l’uso? [13] Se uomini di grande valore furono elogiati per aver osato trasgredire molto la consuetudine sia nell’arte militare, sia in altri ambiti, allora devono essere oggetto di biasimo coloro che sostengono la superiorità della consuetudine rispetto alla razionalità. [14] E ancora, se qualcuno è abituato a compiere azioni contrarie al vivere civile, non solo non lo tollereremo, ma lo puniremo a dovere. Lo stesso avverrà nei confronti di chi è abituato a parlare in modo scorretto: o forse

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consuerit dicere verbum, non corrigemus, cum id fiat sine p‹o›ena? [15] Et hi qui pueros in ludum mittunt, ut discant quae nesciunt verba quemadmodum scribant, idem barbatos qui ignorabunt verba quemadmodum oporteat dici non docebimus, ut sciant qua ratione conveniat dici? [16] Sed ut nutrix pueros a lacte non subito avellit a consuetudine, cum a cibo pristino in meliorem traducit, sic maiores in loquendo a minus commodis verbis ad ea quae sunt cum ratione modice traducere oportet. Cum sint ‹in› consuetudine contra ratione‹m› alia verba ita ut ea facile tolli possint, alia ut videantur esse fixa, quae leviter h‹a›erent ac sine offensione commutari possunt statim ad rationem corrigi oportet, quae autem sunt ita ut in praesentia corrigere nequeas quin ita dicas, his oportet, si possis, non uti: sic enim obsolescent ac postea iam obliterata facilius corrigi poterunt. [17] Quas novas verbi declinationes ratione[s] introductas respuet forum, his boni poetae, maxime scenici, consuetudine subigere aures populi debent, quod poetae multum possunt in hoc: propter eos quaedam verba in declinatione melius, quaedam deterius dicuntur. Consuetudo loquendi est in motu: itaque sole‹n›t fieri et meliora deteriora ‹et deteriora› meliora; verba perperam dicta[m] apud antiquos aliquos, propter poetas non modo nunc dicuntur recte, sed etiam quae ratione dicta sunt tum, nunc perperam dicuntur. [18] Quare qui ad consuetudinem nos vocant, si ad rectam, sequemur: in eo quoque enim est analogia; si ad eam invitant quae est depravata, ni[c]hilo magis sequemur, nisi cum erit necesse, [se]quam in ceteris rebus mala exempla: nam ea quoque, cum aliqua vis urget, inviti sequemur. Neque enim Lysippus artificum priorum potius ‹secutus› est vitiosa quam artem; sic populus facere debet, etiam singuli, sine offensione quod fiat populi. [19] Qui amissa ‹non› modo qu‹a›erant, sed etiam quod indicium dent, idem, ex sermone si quid deperiit, non modo ni[c]hil impendunt ut requi-

8 in suppl. ed. Ven | rationem Laet : ratione F || 10 possunt Ald : possint F | statim Mue : si enim F (in ras.) || 14 ratione Laet : rationes F || 18 solet fieri et meliore deteriora meliora verba F, suppl. et corr. Canal || 24 quam Canal : sequar F || 26 secutus suppl. GS duce Laet || 29 non suppl. Vertr Sciop

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non lo correggeremo, solo perché non è prevista una pena per questo? [15] E quelli che mandano a scuola i figli perché imparino come si scrivono le parole che non conoscono: se loro stessi, seppur adulti, non sapranno come vanno detti alcuni vocaboli, non insegneremo anche a loro le regole per parlare correttamente? [16] Ma come la nutrice, quando smette di dare il latte ai bambini, non sconvolge improvvisamente le loro abitudini alimentari nel momento in cui li fa passare dal vecchio cibo ad uno migliore, così è opportuno che, nel parlare, si facciano passare i più grandi dalle forme meno corrette a quelle regolari, ma sempre con gradualità. Tra le parole scorrette che sono in uso, alcune sono facili da estirpare, altre sembrano più tenaci. Quelle che non hanno radici profonde e possono essere cambiate senza problemi, è opportuno che siano subito corrette secondo la regola, mentre di quelle che sono tali da non poter essere corrette subito diversamente, sarebbe opportuno, se possibile, evitare l’uso. Così diventeranno desuete e poi, una volta dimenticate, si potranno correggere più facilmente. [17] Le nuove forme flessive, create secondo le regole grammaticali ma respinte dalla gente, devono essere imposte alle orecchie del popolo, attraverso l’uso da parte dei buoni poeti, soprattutto degli autori di teatro. Perché i poeti hanno un grande potere in questo: si deve a loro se alcune parole si flettono più correttamente e altre meno correttamente. L’uso linguistico è in costante evoluzione: pertanto alcune forme corrette finiscono col diventare scorrette e viceversa. Alcune parole dette male da alcuni autori antichi, grazie ai poeti ora sono usate correttamente, ma anche alcune parole, che una volta erano usate con criterio, ora vengono usate a sproposito. [18] Per questo, noi seguiremo chi ci spinge verso la consuetudine, purché sia corretta: perché anche in questo consiste l’analogia. Se ci invitano ad un uso sbagliato, noi non lo seguiremo (a meno che non sia strettamente necessario) più di quanto facciamo con i cattivi esempi in altri frangenti: li seguiremo, seppur controvoglia, quando costretti. Lisippo non seguì certo i difetti degli artisti precedenti, ma l’arte: così deve fare il popolo, e anche il singolo, senza urtare il popolo. [19] Quando qualcuno ha perduto qualcosa, non solo la cerca, ma dà anche indizi per trovarla: e invece, qualora si sia persa qualche forma linguistica, non solo si dovrebbe evitare di impegnarsi nel rintracciarla, ma

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rant, sed etiam contra indices repugnant ne restitua[n]tur? [20] Verbum quod novum et ratione introductum quo minus [ut] recipiamus, vitare non debemus. Nam ad usum in vestimentis aedificiis sup[p]ellectili[s] novitati non impedit vetus consuetudo: quem enim amor assuetudinis potius in pannis possessorem retinet quam ad nova vestimenta traducit? An non s‹a›epe veteres leges abrogatae novis cedunt? [21] Nonne inusitatis formis vasorum recentibus a Graecia adlatis obliteratae antiquae consuetudinis sinorum et capu[l]larum species ? His formis vocabulorum incontaminati‹s› uti nol[l]ent quas docu‹e›rit [o]ratio propter consuetudinem veterem? Et tantum inter duos sensus interesse volunt, ut oculis semper aliquas figuras supellectilis novas conquirant, contra auris expertis velint esse? [22] Quotus quisque iam servos habet priscis nominibus? Quae mulier suum instrumentum vestis atque auri veteribus vocabulis appellat? Sed indoctis non tam irascendum quam huiusce pravitatis patronis. [23] Si enim usquequaque no[me]n esset analogia, tum sequebatur, ut in verbis quoque non esset, non, cum esset usquequaque, ut est, non esse in verbis. Quae enim est pars mundi quae non innumerabiles habeat analogias? Caelum an mare an terra, quae in his? [24] Nonne in caelo ut ab aequinoctiali circulo ad solstitialem et hinc ad septemtrionalem divisum, sic contra [a] paribus partibus idem a bruma versum contraria parte? Non quantum polus superior abest [et abest et] a septemtrionali circumitu et is ad sol[i]stitium, tantumdem abest inferior ab eo quem ἀνταρκτικὸν vocant astrologi et is ad brumalem? Non, quemadmodum quodque signum exortum hoc anno, [quod] quotquot annis eodem modo exoritur? [25] Num

1 restituatur ed. Ven : restituantur F || 2 ut secl. Vertr || 4 supellectili Aug ex B : suppellectilis F || 5 quam Vict : quem F || 7 adlatis Laet : ablatis F || 9 inconta minatis L. Sp2 : incontaminati F | nolent quas Steph : nollent quae F | ratio Rhol : oratio F || 13 servos Ald : servor F || 14-15 indoctis Aug in marg. : inductis F || 16 non Aug ex B : nomen F || 23 polus Scal : polo F | et abest et secl. Mue cum aliis || 23-24 circumitu et is ad solstitium Oniga 2016 : circumit cum his ad solistitium F : circulo et is ad solstitium Mue || 26 quod secl. Ald cum aliis

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addirittura andare contro gli indizi, per evitare la restituzione? [20] L’introduzione di neologismi creati secondo il criterio analogico non deve essere evitata. Per quanto riguarda ad esempio l’uso dei vestiti, degli edifici e dell’arredamento, la vecchia consuetudine non ha mai impedito che sopraggiungessero delle novità: chi è che, per amore dell’abitudine è rimasto vestito di stracci piuttosto che passare a vestiti nuovi? Forse non accade spesso che le leggi abrogate cedano il passo alle nuove? [21] Non è forse vero che, con il sopraggiungere di diverse e più recenti forme di vasi dalla Grecia, sono andati dimenticati i vecchi modelli di vasi a conca e ad ansa? Forse non vorranno usare le nuove forme lessicali corrette suggerite dall’analogia, solo per amore dell’uso antico? E vogliono creare una tale differenza di trattamento tra i due sensi così che con gli occhi sono sempre alla ricerca di nuove fogge d’arredo, mentre vogliono lasciare l’udito privo di novità? [22] Quanti sono quelli che hanno servi con i nomi che si usavano una volta? Quale donna chiama con vocaboli desueti il suo corredo di vestiti e gioielli? Ma non bisogna prendersela con gli ignoranti, quanto piuttosto con chi è responsabile di questo scempio. [23] Se non vi fosse ovunque il principio dell’analogia, allora di conseguenza non vi sarebbe nemmeno nella lingua: ma dal momento che essa è dappertutto, ne segue che non può non essere presente anche nella lingua. Qual è infatti la parte di universo priva di innumerevoli analogie? Cielo, mare, terra: quale tra queste? [24] Non è forse vero che, in cielo, come un emisfero è suddiviso a partire dall’Equatore Celeste fino al Tropico del Cancro e da questo al Circolo Polare, così nell’emisfero opposto si ritrovano le stesse articolazioni? Non è analoga la distanza che separa il Polo Nord dal Circolo Polare Artico e quest’ultimo dal Tropico del Cancro, di quella che separa il Polo Sud dal Circolo Polare Antartico (come lo chiamano gli astronomi) e quest’ultimo dal Tropico del Capricorno? Non è forse vero che, come ciascuna costellazione è sorta in cielo quest’anno, sorge ogni anno allo stesso modo? [25] È forse in modo diverso che il sole giunge dal punto

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aliter sol a bruma venit ad aequinoctium, ac contra cum ad solstitium venit, ad aequinoctialem circulum et inde ad brumam? Nonne luna, ut ab sole discedit ad aquilonem et inde redit in eandem viam, sic inde fertur ad austrum et regreditur inde? Sed quid plura de astris, ubi difficilius reperitur quid sit aut fiat in motibus dissimiliter? [26] At in mari, credo, motus non habent [dis]similitudines geminas, qui in XXIIII horis lunaribus cotidie quater se mutant, ac cum sex horis ‹a›estus creverunt, totidem decreverunt, rursum idem, itemque ab his? An hanc analogian ad diem servant, ad mensem non item, alios motus sic item cum habeant alios inter se convenientes? De quibus in libro quem de ‹a›estuariis feci scripsi. [27] Non in terra in sationibus servata analogia? Nec cuius modi in praeterito tempore fructuum genera reddidit, similia in presenti reddit? Et cuius modi tritico iacto reddidit segetes, sic ordeo sato proportione reddidit parilis? Non, ut Europa habet flumina lacus montis campos, sic habet Asia? [28] Non in volucribus generatim servatur analogia? Non ex aquilis aquilae atque ut ex turdis qui procreantur turdi, sic ex reliquis sui[s] cuiusque generis? An aliter hoc fit quam in aere in aqua? Non hic conchae inter se generatim innumerabili numero similes? Non pisces? [s]an e murena fit lupus aut merula? Non bos ad bovem collatus similis et qui ex his progenerantur inter se vituli? Etiam ubi dissimilis fetus, ut ex ‹asino et› equa mulus, tamen ibi analogia: quod ex quocumque asino et equa nascitur [id est] mulus aut mula, ut ex equo et asina hinnulei. [29] Non sic ex viro et muliere omnis similis partus, quod pueri et puellae? Non horum ita inter se [non] omnia similia membra, ut separatim in suo utroque genere similitudine sint ea paria? Non, omnes cum sint ex anima et corpore, partes quoque horum proportione similes? [30] Quid ergo cum omnes animae hominum sint divisae in octonas partes, eae inter

6 similitudines Mue : dissimilitudines F || 7 XXIIII Ald : XXIII F || 9-10 aut prius aut posterius alios delendum putav. GS || 17 sui Aug ex B : suis F || 20 an e murena Aug in Emend. : sane murena F || 22 asino et suppl. L. Sp2 duce Aug ex B || 23 id est seclusi : item Aug : idem V p || 26 non secl. Sciop || 27 similitudine sint ea paria Lachmann 1850, p. 95 : similitudine sint paria Mue : similitudines intra paria F || 28 quoque M p Laet : quaque F

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solstiziale d’inverno all’equinozio, e al contrario, una volta arrivato al punto solstiziale d’estate, ritorna di nuovo all’equinozio e di lì al solstizio invernale? E non avviene lo stesso per la luna che, come si allontana dal sole in direzione nord e poi ritorna sulla stessa orbita di questo, così si volge verso sud per poi tornare indietro? Ma perché parlare ancora degli astri, quando è difficile trovare qualcosa nei loro movimenti che non sia regolare o che non si verifichi con regolarità? [26] E i movimenti del mare, come io ritengo, non hanno forse andamento duplice e regolare, se nel giro di ventiquattro ore lunari le maree cambiano quattro volte al giorno e per sei ore la marea cresce, per altre sei decresce, poi cresce e decresce ancora? O le maree non mantengono forse questo ritmo analogico nel ciclo giornaliero, e parimenti in quello mensile, dal momento che hanno movimenti uguali e altri convergenti? Ma su questi argomenti ho già scritto nel mio libro Sugli Estuari. [27] Sulla terra non è forse mantenuta la regolarità nelle seminagioni? Le varietà di frutti che produceva un tempo, non le produce simili anche oggi? E come, se si semina frumento, produce messi di tale tipo, se si semina orzo, produce messi dello stesso tipo, sempre nella stessa proporzione? E come l’Europa ha fiumi, laghi, monti e campi, questi non li ha anche l’Asia? [28] Non si mantiene forse una regolarità nei volatili, specie per specie? Non nascono forse le aquile dalle aquile, i tordi dai tordi, e così tutti gli altri uccelli, ciascuno secondo la propria specie? E nell’acqua è diverso che nell’aria? Non ci sono qui conchiglie simili fra loro, secondo il proprio genere in quantità innumerevole? E i pesci? Forse che dalla murena nasce il pesce lupo o il pesce merlo? E il bue, paragonato al bue, non è forse simile a se stesso, e non sono simili tra loro anche i vitellini da essi generati? Anche quando i piccoli sono diversi da chi li ha generati, come il mulo nato da un asino e una cavalla, tuttavia anche qui c’è una regolarità: infatti dall’accoppiamento tra qualunque asino e cavalla nasce un mulo o una mula, come dall’accoppiamento di un cavallo e di un’asina nascono sempre i bardotti. [29] Non si assomigliano forse i figli nati da un uomo e da una donna, ovvero i bambini e le bambine? Non si rintracciano delle somiglianze nella loro fisionomia, anche se ciascuno con le proprie peculiarità? E poiché tutti gli uomini sono fatti di anima e corpo, non sono anche le parti dell’anima e del corpo in proporzione tra loro? [30] Che dunque, essendo l’anima umana divisa in otto parti, queste non sono forse simili fra loro secondo

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se non proportione similes? Quinque quibus sentimus, sexta qua cogitamus, septuma qua progeneramus, octava qua voces mittimus. Igitur quoniam qua loquimur voce oratio est, hanc quoque necesse est natura habere analogias: itaque habet. [31] An non vides, ut Graeci habeant eam quadripertitam, unam in qua si‹n›t casus, alteram in qua tempora, tertiam in qua neutrum, quartam in qua utrumque, sic nos habere? Ecquid verba nescis ut apud illos sint alia finita, alia non, sic utra‹que› esse apud nos? [32] Equidem non dubito, qui‹n› animadverteris item in ea[m] innumerabilem similitudinum numerum, ut trium temporum verba, ut trium personarum. Quis enim potest non una animadvertisse in omni oratione esse ut legebam lego [lego] legam si‹c› lego legis legit, cum haec eadem dicantur alias ut singula, alias ut plura significentur? Quis est tam tardus qui illas quoque non animadvert‹er›it similitudines, quibus utimur ‹in› imperando, quibus in optando, quibus in interrogando, quibus in infectis rebus, quibus in perfectis, sic in aliis discriminibus? [33] Quare qui negant esse rationem analogiae, non vide‹n›t naturam non solum orationis, sed etiam mundi; qui autem vident et sequi negant oportere, pugnant contra naturam, non contra analogian, et pugnant volsillis, non gladio, cum pauca excepta verba ex pelago sermonis ‹po›puli minus trita afferant, cum dicant propterea analogias non esse, similiter ut, si quis viderit mutilum bovem aut luscum hominem claudicantemque equum, neget in [cornibus] bovom hominum et equorum natura similitudines proportione constare. [34] Qui autem duo genera esse dicunt analogiae, unum naturale, quod ut ex †natis nascuntur lentis sic et lupinum†, alterum voluntarium, ut in fabrica, cum vident scenam ut in dexteriore parte sint ostia, sic esse in si-

3 oratio est L. Sp2 : orationem F || 6 sint M : sit F || 7 ecquid Sciop : et quid F || 8 non Aug ex B : ne F | utraque Aug : utra F || 9 quin animadverteris Sciop : qui animadvertunt F | in ea L. Sp2 : in eam F | similitudinum Sciop : similitudinem F || 12 sic Bent : si F || 13 animadverterit L. Sp1 in app. crit. : animadvertit F || 14 in imperando Sciop : imperando F || 20 populi Canal : puli F : usu populi dubitanter GS || 23 cornibus secl. Sciop || 26 lentibus seminatis B : lentibus natis (satis Aug in Emend.) Aug | sic ex lupinis lupinum Aug

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un determinato rapporto? Ci sono infatti i cinque sensi, la sesta è la facoltà del pensiero, la settima è quella preposta alla generazione, l’ottava alla fonazione. Dal momento che è proprio attraverso la fonazione che esprimiamo il linguaggio, è necessario che questo sia per natura governato da una regolarità: e così è. [31] Non vedi forse che, come i Greci hanno diviso il discorso in quattro parti (quella che ha i casi, quella che ha i tempi, quella che non ha nessuno dei due e quella che li ha entrambi), così la stessa divisione si ritrova anche presso di noi? O forse non sai che da loro si distingue tra definiti e indefiniti, e così è anche nella nostra lingua? [32] Sono egualmente certo che hai osservato come nella lingua vi sia un numero infinito di analogie, come la serie dei tre tempi e delle tre persone. Chi può non aver osservato come nella lingua nel suo complesso vi sono i tre tempi legebam, lego, legam, così come le tre persone lego, legis, legit, e che a queste che si riferiscono al singolare, ne corrispondono altrettante quando ci si riferisce al plurale? Chi è così stupido da non aver notato anche le analogie tra le forme che usiamo nel modo imperativo, nel congiuntivo, nell’interrogativo, nell’aspetto non finito o finito, e via dicendo per le altre articolazioni del paradigma? [33] Perciò, coloro che negano l’esistenza del principio dell’analogia, non solo non vedono qual è la natura del linguaggio, ma anche quella del mondo reale. Quelli invece che la riconoscono, ma non ritengono vada seguita, non vanno contro l’analogia ma contro la natura. E combattono con le pinzette, non con la spada, perché dall’immensità che è la lingua comune traggono ad esempio poche parole meno usate, concludendone che l’analogia non esiste. Sarebbe come se uno per aver visto un bue con un corno rotto o un uomo cieco di un occhio o un cavallo zoppo negasse che nella natura dei buoi, degli uomini e dei cavalli vi è una proporzione corporea. [34] C’è invece chi ritiene vi siano due tipi di analogia: uno naturale, in base al quale, come le lenticchie nascono †, così il lupino †, e uno volontario, per cui, in un laboratorio di un artigiano si può vedere uno scenario teatrale in cui una porta è collocata a destra, e così similmente è

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nisteriore simili ratione factam, de his duobus generibus naturalem esse analogian, ut sit in motibus caeli, voluntariam non esse, quod ut quo‹i›que fabro lubitum sit possit facere partis scenae: sic in hominum partibus esse analogias, quod ea‹s› natura faciat, in verbis non esse, quod ea homines ad suam quisque voluntatem fingat, itaque de eisdem rebus alia verba habere Graecos, alia Syros, alia Latinos. Ego declinatus verborum et voluntarios et naturalis esse puto, voluntarios quibus homines vocabula imposierint rebus quaedam, ut ab Romulo Roma, ab Tibure Tiburtes, naturales ut ab impositis vocabulis quae inclinantur in tempora aut in casus, ut ab ‹Romulus› Romulo Romuli Romulum et ab dico dicebam dixeram. [35] Itaque in voluntariis declinationibus inconstantia est, in naturalibus constantia; quas utrasque quoniam iei non debeant negare esse in oratione, quom in mundi partibus omnibus sint, et declinationes verborum innumerabiles, dicendum est esse in his analogias. Neque ideo statim ea in omnibus verbis est sequenda: nam si qua perperam declinavit verba consuetudo, ut ea aliter sine offensione multorum ‹efferri non possint›, hinc [o]rationem verborum praetermittendam ostendit loquendi ratio. [36] Quod ad universam pertinet causam, cur similitudo et sit in oratione et debeat observari et quam ad finem quoque, satis dictum. Quare quod sequitur de partibus singulis deinceps expediemus ac singula crimina quae dicunt ‹contra› analogias solvemus. [37] In quo animadvertito natura quadruplicem esse formam, ad quam in declinando accommodari debeant verba: quod debeat subesse res qu‹a›e designe[n]tur, et ut sit ea res in usu, et ut vocis natura ea sit quae significavit, ut declinari possit, et similitudo figura‹e› verbi, ut sit ea quae ex se declinatu genus prodere certum possit. [38] Quo neque a terra terrus ut dicatur postulandum est, quod natura non subest, ut in hoc alterum maris, alterum feminae debeat esse; sic neque

2 quoique B : quoque F || 4 eas Laet : ea F || 8 Tibure Tiburtes Aug : tybere tyburtes F : Tybure Tyburtes Laet || 9 Romulus suppl. Aug in Emend. || 16 efferri non possint suppl. Ald (post aliter), trai. L. Sp2 : dici non possint suppl. Canal fortasse rectius || 17 rationem a : orationem F || 21 contra suppl. L. Sp2 || 23 res quae Rhol : resque F | designetur Laet : designentur F | ut sit ea res Laet : ut ea res G H a : ut cares F || 24 similitudo secl. A. Sp GS duce Ant. Miller || 25 figurae Mue coll. IX 40 : figurave dubitanter GS : figura F | declinatu L. Sp2 : declinata F | possit Aug in Emend. : possunt F

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allestito nella parte sinistra. Ma di questi due tipi, sostengono che solo l’analogia naturale esiste, come nei moti celesti, mentre quella volontaria non esisterebbe, perché qualunque artigiano può costruire lo scenario a suo piacimento. Così esisterebbe l’analogia nelle parti del corpo umano, perché sono opera della natura, ma non sussisterebbe l’analogia nelle parole, perché queste le creano gli uomini a proprio piacimento. Infatti, per indicare gli stessi oggetti, i Greci hanno a disposizione una parola, i Siriaci un’altra e i Latini un’altra ancora. Io ritengo che si debba parlare in generale di due tipi di formazione di parola: una volontaria e una naturale. La volontaria è il metodo con cui gli uomini hanno imposto i nomi alle cose, come dal nome Romulus è stato creato il nome Roma, o da Tibur deriva Tiburtes; mentre quella naturale è il metodo con cui i nomi imposti alle cose ricevono la flessione secondo il tempo e il caso, come ad esempio dal nominativo Romulus si ha il dativo Romulo, il genitivo Romuli e l’accusativo Romulum, e da dico si ha l’imperfetto dicebam e il piuccheperfetto dixeram. [35] Pertanto, nella formazione di parola volontaria c’è irregolarità, nella naturale c’è regolarità. Poiché nemmeno gli anomalisti dovrebbero negare l’esistenza di entrambi questi procedimenti nel linguaggio, visto che si ritrovano ovunque nel mondo, e poiché le forme flesse sono infinite, bisogna ammettere che esse siano generate da procedimenti analogici. Non per questo, l’analogia va seguita in tutte le parole: infatti, se nell’uso sono invalse forme flessive errate, così che esse non possano essere espresse diversamente senza urtare la suscettibilità altrui, in questo caso la norma linguistica ci insegna a mettere da parte le forme regolari. [36] Per quanto riguarda la questione in generale, del perché l’analogia è presente nella lingua, perché deve essere osservata e fino a che punto, ho già parlato sufficientemente. Perciò, nel seguito, esamineremo via via le singole questioni e confuteremo una per una le obiezioni mosse contro di essa. [37] Nel far questo va tenuto presente che per natura esiste uno schema quadripartito cui le parole devono essere adattate nel processo di formazione: la prima condizione è che l’oggetto da designare esista, la seconda è che l’oggetto sia effettivamente in uso, la terza prevede che la natura della forma sonora che designa l’oggetto sia declinabile e l’ultima che la somiglianza della forma della parola sia tale da poter essa stessa rivelare con certezza attraverso tutta la flessione la categoria cui appartiene. [38] Perciò, non si deve pretendere che da terra si dica terrus, perché non trova supporto nella realtà che debbano esistere le due forme, una maschile e una femmi-

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propter usum, ut Terentius significat unum, plures Terentii, postulandum est, ut sic dicamus faba et fabae: non enim in simili us‹u› utrumque: neque ut dicimus ab Terentius Terentium, sic postulandum ut inclinemus ab A et B, quod non omnis vox natura habet declinatus; [39] neque in forma collata qu‹a›erendum solum, quid habeat in figura simile, sed etiam nonnumquam in eo quem habeat effectum. Sic enim lana Gallicana et Apula videtur imperito similis propter speciem, cum peritus Apulam emat pluris, quod in usu firmior sit. Haec nunc strictim dicta apertiora fient infra. Incipiam hinc. [40] Quod rogant ex qua parte oporteat simile esse verbum, a voce an a significatione, respondemus a voce; sed tamen nonnumquam qu‹a›erimus genere similiane sint quae significantur ac nomen virile cum virili conferimus, feminae cum muliebri: non quod id quod significant vocem commoveat, sed quod nonnumquam in re dissim‹ili par›ilis figurae formas, in [dis]simili imponunt dispariles, ut calcei muliebres sint an viriles dicimus ad similitudinem figurae, cum tamen sciamus nonnumquam et mulierem habere calceos viriles et virum muliebris. [41] Sic dici virum Perpennam ut Alfenam muliebri forma[m] et contra parietem ut abietem esse formam similem, quo‹m› alterum vocabulum dicatur virile, alterum muliebre et utrumque natura neutrum sit. Itaque ea virilia dicimus non quae virum significant, sed quibus proponimus hic et hi, et sic muliebria in quibus dicere possumus haec et hae. [42] Quare ni[c]hil est, quod dicunt Theona et Diona non esse similis, si alter est ‹A›ethiops, alter [g]albus, si analogia rerum dissimilitudines adsumat ad discernendum vocis verbi figuras.

2 simili usu Spengel 1830, p. 10, n. 10 : similius F || 10-11 a voce an a Laet : ob oceana F || 14-15 in re dissimili parilis figurae formas in simili GS in app. crit. duce Mue : in re dissimilis figurae formas indissimiles F || 17-18 ut Alphenam Mue : aut plenam F | forma Ald : formam F || 19 quom Mue : quo F : cum Aug || 20 sic itaque F corr. Reiter 1882, p. 97 | virum Ald: utrum F || 22 possumus M Laet : possimus F || 24 albus Mue : gallus F

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nile. Così, in riferimento all’uso, non si deve pretendere che, come si dice Terentius al singolare e Terentii al plurale, si debba dire anche faba al singolare e fabae al plurale, perché non entrambi i termini sono in uso. E ancora, per il fatto che da Terentius diciamo Terentium, non dobbiamo pretendere di flettere le lettere dell’alfabeto A e B, perché non ogni parola è per natura passibile di flessione. [39] Nel confronto tra due forme non si deve guardare solo la somiglianza esteriore, ma talvolta anche il loro sviluppo nella flessione. Così, infatti, ad un incompetente la lana della Gallia sembra simile nell’aspetto esteriore a quella apula, mentre l’esperto compra a maggior prezzo quella apula perché è più resistente all’uso. Tutto quello che ho detto ora in forma sintetica, verrà chiarito più sotto. Comincerò da qui. [40] Quando chiedono da cosa si dovrebbe capire la somiglianza tra due parole, se dalla forma o dal significato, io rispondo: dalla forma. Ma, talvolta noi guardiamo se sono simili nel genere anche i significati e rapportiamo i nomi maschili ai significati maschili e i nomi femminili ai significati femminili: non perché veramente il significato influisca sulla forma della parola, ma perché talvolta a oggetti diversi vengono imposti nomi simili e a oggetti simili nomi diversi. Così, quando diciamo ‘calzature da donna’ o ‘da uomo’, lo facciamo in riferimento alla somiglianza nella forma, mentre tuttavia sappiamo che talvolta la donna porta calzature da uomo e viceversa. [41] Così, si declina nella forma femminile Perpenna uomo, come Alphena donna; al contrario paries e abies sono simili nella forma, sebbene il primo sia vocabolo di genere maschile, il secondo femminile, ed entrambi non siano per natura né maschio né femmina. Pertanto noi chiamiamo maschili non tanto i nomi che si riferiscono a qualcosa di maschile, ma quelli cui preponiamo i dimostrativi maschili hic e hi, e così chiamiamo femminili quelli per i quali possiamo usare i femminili haec e hae. [42] Essi dicono una cosa senza senso, quando affermano che i nomi Teone e Dione non sono simili se uno è Etiope e l’altro è bianco, come se l’analogia dovesse basarsi sulle differenze delle cose designate per distinguere le forme dei vocaboli.

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[43] Quod dicunt, simile sit necne nomen nomini, impudenter Aristarc‹h›um praecipere oportere spectare non solum ex recto, sed etiam ex eorum vocandi casu: esset enim deridiculum, si similes inter se parentes sint, de filiis iudicare: qui errant, quod non ab eo‹rum› obliquis casibus fit, ut recti simili facie ostendantur, sed propter eos facilius perspici similitudo potest eorum quam vim habea[n]t, ut lucerna in tenebris allata non facit quae ibi sunt posita similia sint, sed ut videantur, quae sunt, quoius ‹mo›di[s] sint. [44] Quid similius videtur quam in his est extrema littera crux Phryx? Quas, qui audit voces, auribus discernere potest nemo, cum easdem non esse similes ex ‹declin›atis verbis intellegamus, quod cum sit cruces et Phryges et de his extremis syllabis exemptum sit E, ex altero fit, ut ex C et S, crux, ex altero G et S, Phryx. Quod item apparet, cum est demptum S: nam fit unum cruci, alterum Phrygi. [45] Quod aiunt, cum in maiore parte orationis non sit similitudo, non esse analogian, dupliciter stulte dicunt, quod et in maiore parte est et si in minore parte [est et si in minore] sit, tamen sit [in maiore], nisi etiam nos calceos negabunt habere, quod in maiore parte corporis calceos non habeamus. [46] Quod dicunt nos dissimilitudinem *** : itaque in vestitu in supellectile delectari varietate, non paribus subuculis uxoris; respondeo, si varietas iucunditas, magis varium esse in quo alia sunt similia, alia non sunt: itaque sicut abacum argento ornari, ut alia ‹paria sint, alia› disparia, sic orationem. [47] Rogant, si similitudo sit sequenda, cur malimus habere lectos alios ex ebore, alios ex testudine, sic item genere aliquo alio? Ad quae dico non dis‹similitudines solum nos, sed› similitudines quoque sequi saepe. Itaque ex eadem supellectili licet videre: nam nemo facit triclinii lectos nisi paris

4 eorum L. Sp2: eo F || 5 simili Laet : simile F || 6 habeat Laet : habeant F || 78 quoius modi sint Spengel 1858, p. 14 : quoius dissint F || 9 phryx Ald : frix F | quas (scil. litteras), qui distinx. GS || 10 declinatis dubitanter GS : aliis F || 11 exemptum Ald : exemplum ex exemplis deletis -is F || 12 phryx Ald : frix F || 13 phrygi Ald : frigi F || 16 est et si in minore secl. L. Sp2 | in maiore secl. L. Sp1 || 19 post dissimilitudinem lac. ind. L. Sp2 : ante dissimilitudinem lac. ind. GS : sequi post nos add. Aug || 22 paria sint alia suppl. Aug ex B || 26 suppl. Mue

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[43] Dicono che Aristarco avrebbe a torto insegnato che, per riconoscere se un nome è simile ad un altro, non basta guardare il solo nominativo, ma anche il vocativo dei due termini. Per loro, infatti, sarebbe ridicolo giudicare se due genitori sono somiglianti fra loro, basandosi sull’aspetto dei figli. Sbagliano, perché non si dice che il confronto dei casi obliqui determini la somiglianza dei casi retti, ma che attraverso questi si può capire meglio l’entità della loro somiglianza: proprio come una lucerna che, portata nel buio, non rende più somiglianti gli oggetti che sono lì riposti, ma fa sì che essi appaiano nella loro natura. [44] Che cosa sembra più somigliante dell’ultima lettera di queste due parole, crux e Phryx? Non c’è nessuno che, dal suono, sia in grado di distinguerle con l’udito, mentre dalla flessione dei due nomi ci rendiamo conto che non sono la stessa cosa. Essendo infatti al plurale cruces e Phryges, se togliamo la e dalle sillabe finali, ne viene che nella prima è x = c + s, nella seconda x = g + s. La stessa differenza appare se si toglie la s: nel primo caso infatti si ha cruci, nel secondo Phrygi. [45] Dicono poi che, non essendoci regolarità nella totalità della lingua, allora non esiste l’analogia. Ma si sbagliano doppiamente: essa esiste nella maggior parte dei casi e anche se si verificasse in piccola parte, tuttavia sussisterebbe comunque. A meno che non vogliamo dire che non portiamo i calzari, solo perché non li indossiamo in tutto il corpo. [46] Ma essi dicono che la varietà *** : infatti ci piace la varietà nel vestire, negli arredamenti e addirittura nelle sottovesti della moglie. Ma – rispondo io – se la varietà è piacevole, è ancora più vario ciò in cui alcune cose sono simili, altre no. Come facciamo nell’abbellire le nostre credenze con pezzi d’argenteria, in modo che alcuni siano appaiati, altri no, così avviene anche nella lingua. [47] Ma – chiedono – se bisogna seguire una regolarità, allora perché c’è chi preferisce letti d’avorio, chi di tartaruga, chi di altro genere? A questo rispondo che noi non seguiamo solo la varietà, ma spesso anche l’uniformità. Lo si può notare anche dall’arredamento della casa: nessuno fa i letti triclinari diversi per materiale, altezza e forma. Chi fa i tovaglioli diversi tra

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et materia et altitudine et figura. Qui‹s› facit mappas triclinaris non simili inter se? Quis pulvinos? Quis denique cetera, quae unius generis sint plura? [48] Cum, inquit, utilitatis causa introducta sit oratio, sequendum non quae habebit similitudinem, sed quae utilitatem. Ego utilitatis causa orationem factam concedo, sed ut vestimenta: quare ut hic similitudines sequimur, ut virilis tunica sit virili similis, item toga togae, sic mulierum stola ut sit stola‹e› proportione et pallium pallio simile, sic, cum sint nomina utilitatis causa, tamen virilia inter se similia, item muliebria inter se sequi debemus. [49] Quod aiunt ut persedit perstitit sic † percubuit quoniam non sint, non esse analogian, ut in hoc er‹r›ant: quod duo posteriora ex prioribus declinata non sunt, cum analogia polliceatur ex duobus similibus similiter declinatis similia fore. [50] Qui dicunt quod sit ab Romulo Roma et non Romula neque ut ab ove ovilia sic a bove bovilia, ‹non› esse analogias, errant, quod nemo pollicetur e vocabulo vocabulum declinari recto casu singulari in rectum singularem, sed ex duobus vocabulis similibus casus similiter declinatos similes fieri. [51] Dicunt, quod vocabula litterarum latinarum non declinentur in casus, non esse analogias. Hi ea quae natura declinari non possunt, eorum declinatus requirunt, proinde ut non eo‹rum› dicatur esse analogia quae ab similibus verbis similiter esse‹nt› declinata. Quare non solum in vocabulis litterarum haec non requirenda analogia, sed ‹ne› in syllaba quidem ulla, quod dicimus hoc BA, huius BA, sic alia. [52] Quod si quis in hoc quoque velit dicere esse analogias rerum, tenere potest: ut eni‹m› dicunt ipsi alia nomina, quod quinque habeant figuras, habere quinque casus, alia quattuor, sic minus alia, dicere poterunt esse litteras ac syllabas in voce quae

1 quis Ald : qui F || 5-6 sequimur Sciop : sequeremur F || 6-7 stola ut ex toga ut corr. manus altera F | stolae Aug : stola F || 10 ante percubuit lac. ind. L. Sp1 : et percupivit post percubuit add. Aug || 11 errant Rhol : erant F || 15 ovilia Aug : ovilla F | bovilia Aug : bovilla F | non suppl. Steph || 21 requirunt G H a : sequirunt F | eorum dicatur L. Sp2 : eadicatur ex eodicatur corr. manus altera F || 22 essent L. Sp2 : esse F || 23 ne suppl. Ald

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loro? Chi i cuscini? Chi differenzia insomma tutte le altre cose che sono parecchie per numero, ma appartengono ad una stessa categoria? [48] Poiché, si dice, il linguaggio è stato introdotto per utilità, non bisogna seguire il criterio della somiglianza, ma quello dell’utilità. Io ammetto che il linguaggio sia stato creato per utilità, ma è come per i vestiti: pertanto, come seguiamo la somiglianza e facciamo le tuniche da uomo tutte simili tra loro e ugualmente le toghe, le stole femminili e i pallii, così, sebbene i nomi siano stati imposti per l’utilità di chi parla, dobbiamo usare i nomi maschili in modo uguale tra loro e così allo stesso modo dobbiamo fare con i nomi femminili. [49] Quando dicono che non esiste l’analogia, perché se ci sono i perfetti persedit e perstitit, allora dovrebbero esserci anche i perfetti † e percubuit, sbagliano. Infatti le ultime due forme non derivano dalle prime due, mentre l’analogia vuole che da forme simili si derivino forme a loro volta simili e similmente flesse. [50] Quelli che dicono che l’analogia non esiste perché da Romulus deriva Roma e non Romula, e da bos non si ha bovilia come da ovis ovilia, sbagliano. Infatti, nessuno impone che da un nome se ne derivi un altro, passando da un nominativo singolare ad un altro nominativo singolare, ma si dice solo che da due voci simili si derivano due voci simili flesse in maniera analoga. [51] Affermano che l’analogia non esiste, per il fatto che i nomi indicanti le lettere dell’alfabeto latino non si flettono nei vari casi. Essi pretendono che si declini ciò che per natura non è declinabile, come se non si fosse già detto che l’analogia è propria di quelle forme che vengono flesse analogamente da forme simili. L’analogia, non solo non va ricercata nei nomi delle lettere dell’alfabeto, ma neppure in quelli delle sillabe: noi diciamo infatti al nominativo BA, al genitivo BA, e così via. [52] Se qualcuno volesse sostenere che, anche in questo caso, sussiste l’analogia, lo si potrebbe comprendere. Infatti, come dicono gli stessi anomalisti, esistono alcuni nomi che hanno cinque casi, perché hanno cinque uscite, altri quattro o ancora meno. Così, si potrà dire che i nomi delle lettere dell’alfabeto e delle

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singulos habeant casus, in rebus pluri[mi]s; quemadmodum inter se conferent ea quae quaternos habebunt vocabulis casus, item ea inter se qua‹e› ternos, sic qu‹a›e singulos habebunt, ut conferant inter se dicentes, ut sit hoc A, huic A, esse hoc E, [huiusce E] huic E. [53] Quod dicunt esse quaedam verba quae habeant declinatus, ut caput, quorum par reperiri quod non possit, non esse analogias, respondendum: sine dubio si quod est singulare verbum, id non habere analogias. Minimum duo esse debent verba, in quibus sit similitudo. Quare in hoc tollunt esse analogias. [54] Sed nihilum vocabulum recto casu apparet in hoc [Enn. Ann. 6-7 Sk.]: ‘quae dedit ipsa capit neque dispendi facit hilum’, quod valet nec dispendii facit quicquam. Idem hoc obliquo apud Plautum [Most. 245]: ‘video enim te ni[c]hili pendere prae Philolacho omnis homines’, quod est ex ne et hili: quare dictus est ni[c]hili qui non hili erat. Casus ‹tan›tum [cum] commutantur, de quo dicitur, de homine: dicimus enim hic homo nihili [est] et huius hominis nihili et hunc hominem nihili. Si in illo commutaremus, diceremus ut hoc linum et limum, sic nihilum, non hic nihili, et ‹ut› huic lino et limo, sic nihilo, non huic nihili. Potest dici patricus casus, ut ei praeponuntur praenomina plura, ut hic casus Terentii, hunc casum Terentii, hic miles legionis, huius militis legionis, hunc militem legionis. [55] Negant, cum omnis natura sit aut mas aut femina aut neutrum, ‹non› debuisse ex singulis vocibus ternas figuras vocabulorum fieri, ut albus alba album; nunc fieri in multis rebus binas, ut Metellus Metella, Ennius Ennia, nonnulla singula, ut tragoedus, comoedus; sic esse Marcum, Nume-

1 pluris Canal || 2-3 quae ternos Koeler 1790, p. 21 : quaternos F || 4 hoc E ex hoc est F | huiusce E secl. L. Sp2 || 6 capitis, nihil nihili post caput add. Reitzenstein 1901, p. 54, n. 3 || 8-9 in hoc tollunt esse analogias locum corruptum ind. GS : in hoc tollunt iniuste analogias Müller 1865, p. 798 || 9 nihilum Lachmann apud Vahlen 1903, p. 4 in Adn. et Müller 1865, p. 797 : in nihil Sciop : initium F || 10 ipsa capit Sciop Scal (coll. V 60) : ira caput F || 12 enim secl. Vertr cum Plauti codd. | Philolacho F : Philolache Aug in Emend. cum Plauti codd. || 13-14 casus tantum Fay 1914, p. 263 : casus tum cum F || 15 est secl. L. Sp2 || 17 ut suppl. Mue || 21 non suppl. Mue || 22 Metella Laet : Metelle F || 22-23 Ennius Ennia Laet : enuus enua F : equus equa con. Cheesman 1994 || 23 tragoedus comoedus Christ 1861, p. 61 : tragoeda comoeda F : ‹tragoedus comoedus, non› tragoeda comoeda dubitanter GS

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sillabe hanno un solo caso nella forma, ma più casi nella sostanza. In questo modo, si metterano a confronto tra loro i nomi che hanno quattro uscite, quelli che ne hanno tre o una sola, in modo da istituire una proporzione di questo tipo: come ad un nominativo A sta un dativo A, così ad un nominativo E sta un dativo E. [53] Agli anomalisti che sostengono che l’esistenza di alcune parole come caput, la cui flessione non ha riscontro altrove, sia la prova che l’analogia non esiste, si deve rispondere: senza dubbio, dove si verifica un’eccezione, non può sussistere l’analogia. Devono esserci almeno due parole simili perché si verifichi un rapporto di somiglianza. Perciò, in questo caso, negano l’esistenza dell’analogia. [54] Ma il termine nihilum (‘nulla’) appare al caso retto in questo verso [Enn. Ann. 6-7 Sk.]: ‘la [terra] stessa riprende il corpo che ha dato e non ne spreca niente’, dove significa ‘non fa alcuno spreco’. Questo stesso termine si ritrova al caso obliquo in Plauto [Most. 245]: ‘vedo che rispetto a Filolaco consideri una nullità tutti gli altri uomini’, dove è formato da ne e hili: perciò è detto nihili (‘da nulla’) l’uomo che non valeva hili (‘un filo’). A cambiare caso è solo il nome al quale si riferisce, cioè all’uomo: diciamo infatti homo nihili (‘uomo da niente’) al nominativo, hominis nihili al genitivo, hominem nihili all’accusativo. Se cambiassimo, invece, le desinenze dell’altro termine, dovremmo dire al nominativo nihilum (come diciamo hoc linum e limum) e non hic nihili, e ancora, al dativo, nihilo (come diciamo huic lino e limo) e non huic nihili. Si dice invece solo al caso genitivo, come si fa nelle espressioni hic casus Terentii, hunc casum Terentii, hic miles legionis, huius militis legionis, hunc militem legionis, dove gli si antepongono i nomi più vari. [55] Gli anomalisti affermano che, essendo tutta la natura di genere maschile, femminile o neutro, avrebbero dovuto esserci tre distinzioni di genere per ogni singola voce, come albus alba album. Invece, in molti casi, ne abbiamo solo due, come Metellus Metella, Ennius Ennia o alcuni con una sola forma come tragoedus e comoedus. Esistono le forme Marcus Nu-

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rium, at Marcam, at Numeriam non esse; dici corvum, turdum, non [non] dici corvam, turdam; contra dici pantheram, merulam, non dici pantherum, merulum; nullius nostrum filium et filiam non apte discerni marem ac feminam, ut Terentium [et Terentium] et Terentiam, contra deorum liberos et servorum non itidem, ut Iovis filium et filiam, †Iovem Iovem et Iovam; item magnum numerum vocabulorum in hoc genere non servare analogias. [56] Ad h‹a›ec dicimus omnis orationis quamvis res naturae subsit, tamen si ea in usu‹m› non pervenerit, eo non pervenire verba: ideo equus dicitur et equa: in usu enim horum discrimina; corvus et corva non, quod sine usu id, quod dissimilis natura‹e›. Itaque quaedam al‹i›ter olim ac nunc: nam et tum omnes mares et feminae dicebantur columbae, quod non erant in eo usu domestico quo nunc, ‹nunc› contra, propter domesticos usus quod internovimus, appellatur mas columbus, femina columba. [57] Natura cum tria genera transit et id est in usu discriminatu‹m›, tum denique apparet, ut est in doctus et docta et doctum: doctrina enim per tria haec transire potest et usus docuit discriminare doctam rem ab hominibus et in his marem ac feminam. In mare et femina et neutro neque natura maris transit neque feminae neque neutra, et ideo non dicitur feminus femina feminum, sic reliqua: itaque singularibus ac secretis vocabulis appellati sunt. [58] Quare in quibus rebus non subest similis natura aut usus, in his vocabulis huiusce modi ratio qu‹a›eri non debet. Ergo dicitur ut surdus vir, surda mulier, sic surdum theatrum, quod omnes tres ad auditum sunt comparatae; contra nemo dicit cubiculum surdum, ‹quod› ad silentium, non ad auditum; at si fenestram non habet, dicitur c‹a›ecum, ut c‹a›ecus et c‹a›eca, quod omnia [habent] lumen habere debent. [59] Mas et femina habent inter se natura quandam societatem, neutra cum his ‹nullam›, quod sunt diversa; inter se

1 corvum Ald : corbum F || 2 corvam Ald : corbam F || 3 nostrum Aug : neutros F || 5 itidem ed. Ven : ididem F | non Iovem et Iovam Aug : non Iovium et Ioviam dubitanter L. Sp2 : non Ioviden et Iovidam dubitanter GS || 8 in usum Aug ex B : in usu F || 10 naturae Vertr || 12 nunc suppl. Sciop || 14 discriminatum tum Reiter 1882, p. 86 : discrimina totum F || 15 doctus Aug ex B : docto F || 17 maris L. Sp2 : mares F || 22 tres F : res Bent : tres res Mue || 23 quod post surdum add. Canal || 25 habent secl. Mue : ubi habitent Canal || 26 nullam post his add. GS in app. crit. : non habent add. L. Sp2 in app. crit.

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merius ma non Marca e Numeria; come si dice corvus e turdus non si dice invece corva e turda. Viceversa, abbiamo panthera e merula e non pantherus e merulus. Nessuno di noi ha difficoltà a distinguere la femmina e il maschio tra i nostri figli, come Terentius e Terentia, mentre non distinguiamo altrettanto bene i figli delle divinità e i figli di schiavi, come ad esempio il figlio e la figlia di Giove, che non sono † Iovem e Iova: sono moltissimi i nomi che in tali distinzioni di genere non osservano l’analogia. [56] A questo rispondiamo che in tutto il linguaggio, anche se la cosa da nominare esiste in natura, ma non se ne fa uso, all’uso non perviene neppure il vocabolo che la designa. Si dice infatti equus ed equa, perché la differenziazione tra i due sessi serve all’uso quotidiano, mentre non si dice corvus e corva, perché la diversità di sesso, pur esistendo in natura, non ha uso pratico. Così, oggi, per alcuni termini è diverso rispetto al passato: infatti, una volta si chiamavano indifferentemente columbae i maschi e le femmine, perché non erano animali di uso domestico come oggi; ora, al contrario, per l’uso familiare che ne facciamo, li distinguiamo: e il maschio viene chiamato columbus, la femmina columba. [57] Quando la natura ‘attraversa’ tutti e tre i generi e tale distinzione è accolta nell’uso, allora si manifesta, come è nel caso di doctus docta doctum. La dottrina, infatti, può passare in ciascuno di questi tre generi e l’uso ha insegnato a distinguere una ‘cosa dotta’ dagli ‘uomini dotti’, e tra questi l’‘uomo dotto’ e la ‘donna dotta’. Ma in ciò che è di per sé maschile o femminile o neutro, né la natura del maschio, né quella della femmina, né quella del neutro passa da un genere all’altro: e pertanto non si dice feminus femina feminum. Infatti, si hanno dei vocaboli appositi e distinti per indicare ogni genere. [58] Perciò, ogniqualvolta manchi nelle cose la somiglianza della natura o dell’uso, non si può richiedere in quei vocaboli questo tipo di criterio. Dunque, come si dice ‘uomo sordo’ e ‘donna sorda’ così si dice ‘teatro privo di sonorità’, perché tutte e tre queste cose sono fatte per ricevere suoni. Al contrario, nessuno dice ‘stanza da letto sorda’ perché questa si qualifica in rapporto al silenzio e non all’udito. Semmai, se è priva di finestra, si dirà ‘cieca’, come si dice anche riferito ad un uomo o ad una donna: tutt’e tre hanno infatti bisogno della luce. [59] Per natura, i generi maschile e femminile hanno tra di loro qualche legame, ma nessuno con il neutro, perché sono diversi; e anche tra i nomi neutri sono in po-

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quoque de his perpauca sunt quae habeant quandam co‹m›munitatem. Dei et servi nomina quod non item ut libera nostra transeunt, eadem e‹s›t causa, quod ad usum attinet ‹et› institui opus fuit de liberis, de reliquis nihil attinuit, quod in servis gentilicia natura non subest in usu, in nostri‹s› nominibus qui sumus in Latio et liberi, necessaria. Itaque ibi apparet analogia ac dicitur Terentius vir, Terentia femina, Terentium genus. [60] In praenominibus ideo non fit item, quod haec instituta ad usum singularia, quibus discernerentur nomina gentilicia, ut ab numero Secunda, Tertia, Quarta, in viris ut Quintus, Sextus, Decimus, sic ab aliis rebus. Cum essent duo Terentii aut plures, discernendi causa, ut aliquid singulare haberent, notabant, forsitan ab eo, qui mane natus diceretur, ut is Manius esset, qui luci, Luci[li]us, qui post patris mortem, Postumus. [61] E quibus quae cum item accidisset feminis proportione ita appellata, declinarant praenomina mulierum antiqua, Mania, Lucia, Postuma: videmus enim Maniam matrem Larum dici, Luciam Volaminiam Saliorum carminibus appellari, Postumam a multis post patris mortem etiam nunc appellari. [62] Quare quocumque progressa est natura cum usu vocabuli, similiter proportione propagata est analogia, cum in quibus declinationibus voluntariis maris et feminae et neutri, quae voluntaria, non debeant similiter declinari, sed in quibus naturales, sint declinatus hi qui esse reperiuntur. Quocirca in tribus generibus nominum in‹i›qu[a]e tollunt analogias. [63] Qui autem eas reprehendunt, quod alia vocabula singularia sint solum, ut cicer, alia multitudinis solum, ut scalae, cum debuerint omnia esse duplicia, ut equus equi, analogiae fundamentum esse obliviscuntur naturam et usu‹m›. Singulare est quod natura unum significat, ut equus, aut quod coniuncta quodammodo ad unum usu[m], ut bigae: itaque ‹ut› dicimus una Musa, sic dicimus unae bigae.

2 est dubitanter L. Sp1 || 3 et suppl. L. Sp2 || 4 nostri F || 8 in mulieribus ante Secunda supplenda esse put. L. Sp2 (ante in viris GS) || 12 Lucius p Ald | quae F : secl. Mue cum aliis : ‹ae›que A. Sp || 17 vocabuli Aug ex B : vocabula F || 21 inique Ald : in quae F || 24 usum Mue || 26 usum F corr. A. Sp | ut suppl. L. Sp2 (prop. L. Sp1)

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chissimi ad avere qualcosa in comune. Per lo stesso motivo, i nomi degli dei e degli schiavi non cambiano genere come i nostri nomi di uomini liberi, perché è così in riferimento all’uso: per gli uomini liberi c’era la necessità di fare queste distinzioni, che non riguardavano le altre categorie. Per questo, è consuetudine che i servi non abbiano il gentilizio, che è invece necessario per i nomi di noi che siamo nel Lazio e di libera nascita. In questi, si manifesta l’analogia: si dice infatti Terentius in riferimento all’uomo, Terentia per la donna e Terentium per la famiglia. [60] La stessa cosa non si verifica ugualmente nei prenomi, perché sono stati istituiti per distinguere il singolo individuo tra persone con lo stesso gentilizio, e ve ne sono alcuni formati su base numerica come Secunda, Tertia, Quarta per le donne e Quintus, Sextus, Decimus per gli uomini, e altri formati su altre radici. Quando c’erano due o più persone col nome Terentius, ne notavano qualche segno particolare per distinguerli, sicchè da questo forse deriva il fatto che chi nasceva di mattina (mane) veniva chiamato Manius, chi di giorno (luci) Lucius e chi nasceva dopo la morte del padre Postumus. [61] Sulla base di questi, quando si verificarono le stesse circostanze anche per le donne, vennero coniati per analogia gli antichi prenomi femminili Mania, Lucia, Postuma. Vediamo infatti che Mania è chiamata la madre dei Lari, Lucia Volaminia è nominata nei Carmi Saliari e che ancora oggi da molti viene chiamata Postuma chi nasce dopo la morte del padre. [62] Perciò, dovunque si estese la natura con l’uso di un vocabolo, altrettanto si estese anche l’analogia con regolarità. Infatti, quanto c’è di volontario nelle declinazioni per i generi (maschile, femminile e neutro) non deve essere declinato secondo l’analogia, ma deve esserlo quanto in quei nomi si riferisce alla natura. Ne consegue che a torto gli anomalisti negano l’esistenza dell’analogia nei tre generi dei nomi. [63] Quelli poi che criticano l’analogia perché alcuni vocaboli hanno solo il singolare (come cicer), e altri solo il plurale (come scalae), perché invece tutti i nomi dovrebbero avere ambedue i numeri (come equus equi), dimenticano che il fondamento dell’analogia sta nella natura e nell’uso. Singolare è quello che indica un’unità in natura, come equus, o quello che indica più cose che per il loro uso compongono per così dire un tutt’uno, come bigae. Pertanto, come diciamo una Musa, così diciamo unae bigae.

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[64] Multitudinis vocabula sunt unum infinitum, ut Musae, alterum finitum, ut duae, tres, quattuor : dicimus enim ut hae Musae sic unae bigae et binae et trinae bigae, sic deinceps. Quare tam unae et uni et una quodammodo singularia sunt quam unus et una et unum; hoc modo mutat, quod altera in singularibus, altera in coniunctis rebus; et ut duo tria sunt multitudinis, sic bina trina. [65] Est tertium quoque genus singulare ut in multitudine, uter, in quo multitudinis utri: uter poeta singulari, utri poetae multitudinis est. Qua explicata natura apparet non debere omnia vocabula multitudinis habere par singulare: omnes enim numeri ab duobus susum versus multitudinis sunt neque eorum quisquam habere potest singulare compar. Iniuria igitur postulant, si qua sint singularia, oportere habere multitudinis. [66] Item qui reprehendunt, quod non dicatur ut unguentum unguenta, vinum vina sic acetum aceta garum gara, faciunt imperite: qui ibi desiderant multitudinis vocabulum, quae sub mensuram ac pondera potius quam sub numerum succedunt; nam in plumbo, [oleo,] a‹r›ge‹n›to, cum incrementum accessit, dicimus [enim] multum [oleum], sic multum plumbum, argentum; non [multa olea] plumba, argenta, cum quae ex hisce fiant, dicamus plumbea et argentea (aliud enim cum argenteum: nam id tum cum iam vas: argent ‹e›um enim, si pocillum aut quid item): quod pocilla argentea multa, non quod argentum multum. [67] Ea, natura in quibus est mensura, non numerus, si genera in se habe‹n›t plura et ea in usum venerunt, a genere multo, sic vina et unguenta, dicta: alii generis enim vinum quod Chio, aliud quod Lesb[i]o, sic ex regionibus aliis. †quae ipsa dicuntur nunc melius unguent[i]a, cui nunc genera aliquot. Si item discrimina magna essent olei et aceti et sic ceterarum rerum eiusmodi in usu co‹m›muni, dicerentur sic olea ut vina. Quare in utraque re ‹i›nique rescindere conantur analogiam, [s]et cum in dissimili usu similia vocabula qu‹a›erant et cum item ea quae

7 utri Canal : ut (suprascr.) utre I F : utrei A. Sp : utri et dubitanter GS || 16 oleo secl. Spengel 1858, p. 8 | argento Aug : aceto F || 17 enim secl. Ald | oleum secl. Spengel 1858, p. 8 || 18 multa olea secl. Spengel 1858, p. 8 || 20 argenteum Aug ex B : argentum F || 22 habent Laet || 24 Lesbo V p Ald : Lesbio F | quae F : itaque dubitanter L. Sp2, sed plura intercidisse put. GS in Adn., p. 287 || 27 re inique Canal : denique F || 28 et cum Aug : sed cum F | quaerant L. Sp2 : querunt F

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[64] I nomi plurali sono di due tipi: uno indeterminato, come Musae, l’altro determinato come duae, tres, quattuor. Come diciamo infatti hae Musae, così diciamo unae bigae, binae bigae, trinae bigae, e così via. Perciò, in un certo senso, unae, uni e una sono singolari come unus, una, unum: l’unica differenza sta nel fatto che questi si usano in riferimento ai nomi singolari, quelli in riferimento ai nomi che indicano un insieme di cose. Come sono plurali duo e tria, lo sono anche bina e trina. [65] C’è anche un terzo tipo di singolare che è anche un plurale: uter, al plurale utri; al singolare uter poeta, al plurale utri poetae. Una volta spiegata la natura di queste forme, appare chiaro come non tutti i nomi plurali debbano avere un corrispondente singolare. Infatti, tutti i numerali a partire dal due sono plurali e nessuno di essi può avere un rispettivo singolare. Dunque, pretendono ingiustamente che ad ogni singolare spetti avere un corrispettivo plurale. [66] Ugualmente, quelli che obiettano che, come si dice unguentum, unguenta e vinum, vina, così non si dice acetum, aceta e garum, gara, lo fanno da sprovveduti: in questo caso vogliono un plurale per termini che riguardano più la misura e il peso che il numero grammaticale. Nel caso del piombo e dell’argento, quando c’è un aumento quantitativo, lo indichiamo con multum, ottenendo multum plumbum, argentum, e non plumba e argenta. Per indicare gli oggetti fatti di questi materiali, diciamo plumbea e argentea (perché argenteum va insieme ad un’altra parola, come ad esempio ‘vaso’; infatti argenteum si usa in riferimento ad una coppa o simili) dal momento che si parla di ‘molte coppe d’argento’ e non di ‘molto argento’. [67] Per quanto riguarda le cose per natura non soggette a numero ma a misura, se ve ne sono più qualità e sono già nell’uso, in considerazione delle diverse varietà, vengono dette al plurale, come vina e unguenta. Di un tipo è infatti il vino di Chio, di un altro quello di Lesbo e così quello di altre regioni. † al giorno d’oggi si parla in modo più appropriato di unguenta, di cui vi sono numerose tipologie. Allo stesso modo, se vi fossero grandi differenze tra i vari tipi di olio, aceto e di altre cose di tal genere che sono nell’uso comune, si direbbe olea così come si dice vina. Perciò, in ambedue i casi, si sforzano inutilmente di distruggere l’analogia, sia perché pretendono che siano simili vocaboli che sono dissimili nel loro uso, sia perché pensano

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metimur atque ea quae numeramus dici putent oportere. [68] Item reprehendunt analogias, quod dicantur multitudinis nomine publicae balneae, non balnea, contra quod privati dicant unum balneum, quod plura balnea ‹non› dicant. Quibus responderi potest non esse reprehendendum, quod scalae et aquae caldae, pleraque [quae] cum causa, multitudinis vocabulis sint appellata neque eorum singularia in usum venerint; idemque item contra. Primum balneum (nomen e‹s›t graecum) ‹cum› introiit in urbem publice ibi consedit, ubi bina essent coniuncta aedificia lavandi causa, unum ubi viri, alterum ubi mulieres lavarentur; ab eadem ratione domi suae quisque ubi lavatur balneum dixerunt et, quod non erant duo, balnea dicere non consuerunt, cum hoc antiqui non balneum, sed lav[i]atrinam appellare consuessent. [69] Sic aquae caldae ab loco et aqua, quae ibi scateret, cum ut colerentur venissent in usum nostris, cum aliae ad alium morbum idoneae essent, eae cum plures essent, ut Puteolis et in Tuscis, quibus utebantur, multitudinis potius quam singulari vocabulo appellarunt. Sic scalas, quod ab scandendo dicuntur et singulos gradus scanderent, magis erat quaerendum, si appellassent singulari vocabulo scalam, cum origo nominatus ostenderet contra. [70] Item reprehendunt de casibus, quod quidam nominatus habent rectos, quidam obliquos, quod dicunt utrosque in vocibus oportere. Quibus idem responderi potest, in quibus usus aut natura non subsit, ibi non esse analogiam. [71] Sed ne in his vocabulis quae declinantur, si transeunt e recto casu in rectum casum: quae tamen fere non discedunt ab ratione sine iusta causa, ut hi qui gladiatores Faustinos: nam quod plerique dicuntur, ut tris extremas syllabas habeant easdem, Cascelliani, ‹Caeciliani,› Aquiliani, animadvertant, unde oriuntur, nomina dissimilia Cascellius, C‹a›ecilius, Aquilius, ‹Faustus: quod si esset› Faustius, recte dicerent Faustianos; si‹c› a Scipione quidam

4 non suppl. Popma | responderi Ald : respondere F || 5 quae secl. L. Sp2 || 7 nomen est graecum dubitanter GS : nomen et grecum F : nomen ut graecum Mue : nomen graecum ut A. Sp | cum post graecum add. dubitanter GS || 12 consuessent ed. Ven : consuescent F || 23 transeunte recto F || 26 Caeciliani post Aquiliani add. Aug ex B : ante Aquiliani transp. L. Sp2 | animadvertant Aug : animadvertunt F || 27-28 Faustus quod si esset add. Mue || 28 sic Laet

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che le cose che misuriamo e quelle che contiamo numericamente debbano essere indicate alla stessa maniera. [68] E ancora, criticano l’analogia perché dicono che i bagni pubblici sono chiamati al plurale balneae e non balnea, mentre, al contrario, i privati parlano di un singolo balneum, e non di più balnea, che non si usa. A costoro si può rispondere che non c’è nulla da obiettare sul fatto che scalae e aquae caldae (per lo più a ragione) sono detti al plurale e le loro forme singolari non sono entrate nell’uso; la stessa cosa avviene al contrario. Quando fu introdotto per la prima volta il bagno a Roma (il nome è greco), era un edificio pubblico collocato in un luogo adatto ad avere due locali congiunti dove fare il bagno, uno per gli uomini, l’altro per le donne. Per lo stesso motivo, chiamarono balneum il luogo in cui ognuno fa il bagno a casa propria e, dal momento che non c’erano due costruzioni, non ebbero l’uso di chiamarlo balnea al plurale. Gli antichi erano soliti chiamare il bagno di casa lavatrinam e non balneum. [69] Così per le fonti termali (aquae caldae): quando i nostri iniziarono ad abitare quelle zone per la bellezza dei luoghi e per l’acqua che ne scaturiva, essendo quelle acque un toccasana per svariate malattie, ed essendo molte le acque utilizzate, come a Pozzuoli e in Etruria, le chiamarono con un nome al plurale anzichè al singolare. Quanto a scalae: dal momento che deriva da scandere e che le scale si salgono gradino per gradino, ci sarebbe stato più da meravigliarsi se le avessero chiamate al singolare scala, dato che l’origine del nome indica il contrario. [70] In modo analogo, polemizzano sui casi: alcuni nomi hanno solo il nominativo, altri solo i casi obliqui, mentre dovrebbero esserci entrambi nelle parole. A questi si può rispondere la stessa cosa: dove non c’è un fondamento di natura o uso, non c’è analogia. [71] Non diversamente avviene nelle parole derivate, nel passaggio da nominativo a nominativo. Queste difficilmente si allontanano dalla norma senza un giusto motivo, come si può vedere nel caso dei gladiatori detti Faustini. Perché, anche se la maggior parte dei gladiatori sono chiamati con appellativi che hanno le stesse tre sillabe finali, come Cascelliani, Caeciliani, Aquiliani, va comunque notato che derivano da nomi diversi, ossia Cascellius, Caecilius, Aquilius, Faustus: che se il nome fosse stato Faustius, allora sì che si sarebbe dovuto dire Faustiani. Così da Scipio alcuni derivano malamente Scipionini, mentre si deve

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male dicunt Scipioninos: nam est Scipionarios. Sed, ut dixi, quod ab huiuscemodi cognominibus raro declinantur cognomina neque in usum etiam perducta, natant quaedam. [72] Item dicunt, cum sit simile stultus luscus et dicatur stultus stultior stultissimus, non dici luscus luscior luscissimus, sic in hoc genere multa. Ad quae dico ideo fieri, quod natura nemo lusco magis sit luscus, cum stultior fieri videatur. [73] Quod rogant, cur ‹non› dicamus mane manius manissime, item de vesperi: in tempore vere magis et minus esse non potest, ante et post potest. Itaque prius est hora prima quam secunda, non magis hora. Sed ‘magis mane surgere’ tamen dicitur qui primo mane surgit quam qui non pri‹mo›[r]: ut enim dies non potest esse magis quam *** mane; itaque ipsum hoc quod dicitur magis sibi non constat, quod magis mane significat primum mane, magis vespere novissimum vesper. [74] Item ab huiuscemodi ‹dis›similitudinibus reprehenditur analogia, quod cum sit anus cadus simile et sit ab anu anicula anicilla, a cado duo reliqua quod non sint propagata, sic non dicatur a piscina piscinula piscinilla. Ad huiuscemodi vocabula analogias esse ut dixi, ubi magnitudo animadvertenda sit in unoquoque gradu eaque sit in usu co‹m›muni, ut est cista cistula cistella et canis catulus catellus, quod in pecoris usu non est. Itaque consuetudo frequentius res in binas dividi partis ut maius et minus, ut lectus et lectulus, arca et arcula, sic alia. [75] Quod dicunt casus alia non habere rectos, alia obliquos et ideo non esse analogias, falsum est. Negant habere rectos ut in hoc frugis frugi frugem, item colem colis cole, obliquos non habere ut in hoc Diespiter Diespitri Diespitrem, Maspiter Maspitri Maspitrem. [76] Ad haec respondeo et priora habere nominandi et posteriora obliquos. Nam et frugi rectus est natura frux, at secundum consuetudinem dicimus ut haec avis, haec ovis, sic haec frugis; sic secundum naturam nominandi est casus cols, secundum consuetudinem colis, cum utrumque conveniat ad analogian, quod et id quod

8 non add. Aug in Emend. || 9 vesperi in Popma : vespertino F || 12 primo Steph | lac. ind. L. Sp2 sic supplens in app. crit. magis quam ‹dies, sic mane non magis quam› mane || 15 dissimilitudinibus L. Sp2 : similitudinibus F || 16 quod secl. Mue || 19 eaque Mue : ea que F || 24 colem colis cole Mue : rolem rolis role F || 28 cols Mue : rois F || 29 colis Mue : rolis F

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dire Scipionarii. Ma, come ho già detto, poiché è raro che gli appellativi si derivino da questo tipo di nomi, e poiché non sono ancora pervenuti nell’uso, ci sono delle forme oscillanti. [72] Ancora, gli anomalisti fanno notare che, nonostante stultus e luscus siano simili e si dica stultus stultior stultissimus, non si può dire invece dire luscus luscior luscissimus, e così vi sono molti altri esempi di questo genere. A tali obiezioni rispondo che ciò si verifica perché in natura nessuno può essere più cieco da un occhio di un altro cieco da un occhio, mentre uno può essere più o meno stolto di un altro. [73] Chiedono polemicamente perché non si dice mane manius manissime, e così anche con vesperi ‘di sera’. In realtà, nella misurazione del tempo, non si può parlare di un più e un meno, ma solo di un prima e un dopo. Perciò, l’ora prima precede la seconda, non è ‘di più’ della seconda. Tuttavia noi diciamo magis mane surgere in riferimento a chi si alza più di buon’ora di un altro che si alza più tardi. Ma il giorno non può essere più che ***, pertanto usare magis in questo senso, non è in sé coerente, perché magis mane significa ‘di prima mattina’, magis vespere ‘sera tardi’. [74] Ugualmente, basandosi su questo tipo di irregolarità, criticano l’analogia, perché nonostante anus e cadus siano una coppia simile, da anus si deriva anicula e anicilla, mentre da cadus non si ottengono le altre due forme, e così da piscina non si hanno piscinula e piscinilla. Come ho già detto, in questo tipo di vocaboli si verifica l’analogia laddove occorra notare la grandezza della cosa in tutti i suoi gradi, e questo sia nell’uso comune, come nel caso di cista cistula cistella o canis catulus catellus (ma non si usa per il bestiame in generale). Di solito è più frequente che le cose siano distinte in due gradi, uno maggiore e uno minore, come lectus e lectulus, arca e arcula e così via. [75] Obiettano che alcune parole non hanno il nominativo, altre mancano dei casi obliqui e per questo non sussisterebbe regolarità analogica: ma sbagliano. Dicono privi del nominativo nomi come frugis, frugi, frugem e così anche colem, colis, cole; privi dei casi obliqui nomi come Diespiter, Diespitri, Diespitrem e Maspiter, Maspitri, Maspitrem. [76] A questo rispondo che i primi hanno il nominativo e i secondi i casi obliqui. Infatti, il vero nominativo di frugi è frux, anche se per consuetudine diciamo haec frugis come haec avis e haec ovis. Così, secondo natura, il nominativo sarebbe cols, ma secondo l’uso si ha colis. Entrambe le forme si accordano con l’ana-

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in consuetudine non est cuius modi debeat esse apparet, et quod est in consuetudine nunc in recto casu, eadem est analogia, ac pleraque, quae ex multitudine cum transeunt in singulare, difficulter efferuntur ore. Sic cum transiretur ex eo quod dicebatur haec oves, una non est dicta ovs sine I, sed additum I ac factum ambiguum verbum nominandi an patrici esse‹t› casus. Ut ovis, et avis. [77] Sic in obliquis casibus cur negent esse Diespitri Diespitrem non video, nisi quod minus est tritum in consuetudine quam Diespiter; quod [in]nihil‹i› argumentum est: nam tam casus qui non tritus est quam qui est. Sed est‹o› in casuum serie alia vocabula non habere nominandi, alia de obliquis aliquem: nihil enim ideo quo minus siet ratio, percellere poterit hoc crimen. [78] Nam ut signa quae non habent caput [et] aut aliquam aliam partem, nihil[h]o minus in reliquis membris eorum esse possunt analogiae, sic in vocabulis casuum possunt item fieri ac reponi quod aberit, ubi patietur natura et consuetudo: quod nonnumquam apud poetas invenimus factum, ut in hoc apud N‹a›evium in Clastidio [fr. praet. 2 R3.]: ‘vita insepulta laetus in patriam redux’. [79] Item reprehendunt, quod dicatur haec strues, hic Hercules, hic homo: debuisset enim dici, si esset analogia, hic Hercul, haec strus, hic homon. Haec ostendunt non[a] non analogian esse, sed obliquos casus non habere caput ex sua analogia. Non, ut si in Alexandri statua imposueris caput Philippi, membra conveniant ad rationem, sic et †Alexandri membrorum simulacrum caput quod respondeat item sit? Non si quis tunicam in usu ita consuit, ut altera plagula sit angustis clavis, altera latis, utraque pars in suo genere caret analogia. [80] Item negant esse analogias, quod alii dicunt cupressus, alii cupressi, item de ficis platanis et plerisque arboribus, de quibus alii extremum VS, alii EI faciunt. Id est falsum: nam debent dici E et I, fici ut nummi, quod est ut nummi‹s› fici‹s›, ut nummorum ficorum. Si essent plures ficus, essent

4 ovs sine I L. Sp2 (prop. L. Sp1) : ovs sine una F || 5 esset L. Sp2 (prop. L. Sp1) : esse F || 8 nihili Aug in Emend. : in nihil F || 9 esto L. Sp1 in app. crit. : est F || 10 siet Mue : si et F || 11 et secl. Laet || 18 hic homon corr. ex hoc homon F || 19 non non L. Sp2 : noua non F || 21 sic et Aug : sit et F | 21-22 sic et ~ item sit : licet ad ~ id non sit Canal fortasse recte || 23 plagula Ald : placula F || 28 add. L. Sp2 : ut nummi fici F

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logia, perché anche quella che non è in uso dimostra come dovrebbe essere regolarmente, mentre quella che è in uso attualmente al nominativo segue la regola di tanti altri nomi che, nel passare dal plurale al singolare, darebbero luogo a suoni difficilmente pronunciabili. Così, nel fare il passaggio da haec oves, non si disse ovs senza la i, ma la i si aggiunse, e così si creò l’ambiguità tra il nominativo e il genitivo. Come per ovis, avvenne anche per avis. [77] Non capisco poi perché gli anomalisti neghino l’esistenza dei casi obliqui Diespitri e Diespitrem, se non in considerazione del minor uso che comunemente se ne fa rispetto a Diespiter. Ma questo è un argomento che non vale nulla: infatti, un caso che non è usato, esiste tanto quanto quello che lo è. Ma ammettiamo pure che esistano alcuni nomi la cui flessione manchi del caso nominativo, e altri dei casi obliqui: in virtù di questa mancanza, non si potrà affatto demolire l’esistenza di un criterio razionale. [78] Come nelle statue che sono prive della testa o di qualche altra parte, questo non pregiudica minimamente che ci possano essere le proporzioni nel resto del corpo, così nelle parole, possono essere ugualmente determinati e ristabiliti i casi mancanti, ove lo consentano natura e uso. Così talvolta fanno anche i poeti, come in questo verso del Clastidium di Nevio [fr. praet. 2 R3.]: ‘lieto reduce in patria con la vita sfuggita al sepolcro’. [79] Così gli anomalisti polemizzano sul fatto che si dica haec strues, hic Hercules, hic homo, perché se sussistesse l’analogia, si dovrebbe dire hic Hercul, haec strus, hic homon. Questi esempi non dimostrano affatto che l’analogia non esiste, ma che i casi obliqui non hanno il nominativo conforme alla loro flessione. Se si ponesse la testa di Filippo su una statua di Alessandro, le altre parti del corpo non sarebbero sempre proporzionate fra loro, † la testa conforme a una statua che riproduce le membra di Alessandro? E ancora, nella pratica, se uno cucisse una tunica con liste larghe da una parte e strette dall’altra, nessuna delle due parti, presa di per sé, sarebbe priva di analogia. [80] Negano inoltre che vi sia analogia, basandosi sul fatto che alcuni dicono al plurale cupressus, altri cupressi, e che così avviene per il fico, il platano e la maggior parte di nomi di piante che escono al nominativo plurale con -us o -ei. Ma questo è sbagliato, perché dovrebbero uscire in e + i, ed essere fici come nummi, perché al dativo è nummis, ficis e al genitivo num-

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ut manus; diceremus ut manibus, sic ficibus, et ut manuum, sic ficuum, neque has ficos diceremus, sed ficus, ut non manos appellamus, sed ‹manus nec› consuetudo diceret singularis obliquos casus huius fici neque hac fico, ut non dici‹t› huius man[u]i, sed huius manus, ‹n›ec hac mano, sed hac manu. [81] Etiam illud putant esse causae, cur non sit [in] analogia, quod Lucilius scribit [1153-1154 Marx]: ‘decu‹s›is sive decusibus est’. Qui errant, quod Lucilius non debuit dubitare, quod utrumque: nam in aere usque ab asse ad centussis numerus aes adsignificat, et eius numero finiti casus omnis ab dupondio sunt, quod dicitur a multis duobus modis hic dupondius et hoc dupondium, ut hoc gladium et hic gladius; ab tressibus virilia multitudinis hi tresses et ‘his tressibus confido’, singulare ‘hoc tressis habeo’ et ‘hoc tres‹s›is confido’, sic deinceps a‹d› centussis. Deinde numerus aes non significans. [82] Numeri qui ‹a›es non significant, usque a quattuor ad centum, triplicis habent formas, quod dicuntur hi quattuor, hae quattuor, haec quattuor; cum perventum est ad mille, quartum assumit singulare neutrum, quod dicitur hoc mille denarium, a quo multitudinis fit milia denarium. [83] Quare quo‹nia›m ad analogias quod pertineat non est ut omnia similia dicantur, sed ut in suo quaeque genere similiter declinentur, stulte qu‹a›erunt, cur as et dupondius et tressis non dicantur proportione, cum as sit simplex, dupondius fictus, quod duo asses pendeba[n]t, tressis ex tribus aeris quod sit. Pro assibus nonnumquam aes dicebant antiqui, a quo dicimus assem tenentes ‘hoc [ab] aere aeneaque libra’ et ‘mille ‹a›eris legasse’. [84] Quare quod ab tressis usque ad [du]centussis numeri [ex] eiusdem modi sunt com-

2-3 manus nec suppl. Mue duce L. Sp1 || 4 dicit Aug : dici F | mani Laet | nec hac L. Sp2 : et hac F || 6 in secl. Ald || 7 decusis Lachmann 1876, p. 121 duce Mue : decuis F || 13 ad Aug : a F || 17 denarium Aug in marg. : denaria F || 18 quoniam Mue : cum F | pertineat F : pertinet L. Sp2 || 20 as sit Ald : adsit F || 21 pendebat Aug : pendebant F || 23 ab secl. Sciop | aere aeneaque Aug : aerea eneaque F | eris F || 24 centussis Aug : ducentussis F | ex om. Aug

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morum, ficorum. Se il plurale fosse ficus, si declinerebbe come manus e dovremmo dire ficibus come diciamo manibus, e ficuum come manuum; non dovremmo dire has ficos ma ficus, come diciamo manus e non manos. Così al singolare non si userebbe dire nei casi obliqui huius fici e hac fico, come non si dice huius mani né hac mano, ma huius manus e hac manu. [81] Come argomento contro l’esistenza dell’analogia, usano anche quello che scrive Lucilio [1153-1154 Marx]: si dice ‘decusis o se vuoi decusibus (per dieci assi)’. Nel dire questo sbagliano, perché Lucilio non avrebbe dovuto avere dubbi su quale tra le due forme fosse corretta: infatti nei nomi delle monete in rame, da uno a cento assi, il numero esplicita il valore in assi e tutti i vari casi sono determinati dal numero di aes (tranne dupondius, che oscilla tra la forma hic dupondius e hoc dupondium, così come hoc gladium e hic gladius): a partire dalla moneta da tre assi, si usa pertanto il plurale maschile hi tresses e si dice his tressibus confido. Al singolare si dice invece hoc tressis habeo e hoc tressis confido, e così via fino a centussis. Da qui in poi, il numero non si accompagna più ad aes. [82] I numerali che non denotano aes, dal quattro al cento, hanno triplice valenza, ossia quattuor è al maschile hi quattuor, al femminile hae quattuor e al neutro haec quattuor. Quando si arriva a mille, questo assume una quarta forma al singolare neutro, perché si dice hoc mille denarium, da cui si ha il plurale milia denarium. [83] Perciò, visto che non è necessario, per quanto concerne l’analogia, che tutte le parole siano simili ma che ciascuna nel suo genere sia flessa in maniera simile, è assurdo da parte loro domandare perché as, dupondius e tressis non si flettono in modo analogo. Questo avviene perché as è parola semplice, mentre dupondius è un composto che indica il peso di due assi, e tressis deriva dalle tre unità di rame che la compongono. Gli antichi confondevano asses con aes, motivo per cui, se abbiamo in mano un as, diciamo: ‘con questo aes e questa bilancia di rame’ e ‘aver lasciato un migliaio di aes’. [84] Quindi, visto che nei numeri da tressis fino a centussis si tratta di composti simili,

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positi, eiusdem modi habent similitudinem: dupondius, quod dissimilis est, ut debuit, dissimilem habet rationem. Sic as, quoniam simplex est ac principium, et unum significat et multitudinis habet suum infinitum: dicimus enim asses, quos cum finimus, dicimus dupondius et tressis et sic porro. [85] Sic videtur mihi, quoniam finitum et infinitum habeat dissimilitudinem, non debere utrumque item dici, eo magis quod in ipsis vocabulis ubi additur certus numerus in miliariis aliter atque in reliquis dicitur: nam sic loquontur hoc mille denarium, non hoc mille denari‹orum›, et haec duo milia denarium, non duo milia denari‹orum›. Si esset denarii in recto casu atque infinitam multitudinem significaret, tunc in patrico denariorum dici oportebat; et non solum in denariis, victoriatis, drachmis, nummis, sed etiam in viris idem servari oportere, cum dicimus iudicium fuisse triumvirum, decem‹virum, centum›virum, non centum virorum. [86] Numeri antiqui habent analogias, quod omnibus est una [non novenaria] regula, duo actus, tres gradus, sex decuriae, qua‹e› omnia similiter inter se respondent. Regula[e] est numerus novenarius, quod, ab uno ad novem cum pervenimus, rursus redimus ad unum et novem: hinc et nonaginta et nongenta ab una sunt natura novenaria; sic ab octonaria, et deosum versus ad singularia perveniunt. [87] Actus primus est ab uno ‹ad› nongenta, secundus a mille ad nongenta milia; quod idem valebat unum et mille, utrumque singulari nomine appellatur: nam ut dicitur hoc unum haec duo, ‹sic hoc mille, haec duo› milia et sic deinceps multitudinis in duobus actibus reliqui omnes item numeri. Gradus singularis est in utroque actu ab uno ad novem, denarius gradus ‹a› decem ad nonaginta, centenarius a centum ‹ad› nongenta. Ita tribus

6 vocabulis M Laet : vocalibus F || 8 denariorum L. Sp2 : denarii F || 9 denarium non Aug : denaria non F | denariorum Christ 1861, p. 62 : denarii F || 11 drachmis Rhol : et rachmis F || 13 decem‹virum, centum›virum suppl. GS duce Mue : decemvirum F || 14 non novenaria secl. L. Sp2 : non del. Aug || 15 quae Rhol : qua F || 16 regula Sciop : regulae F || 17 unum Aug : unam F | novem (V‹IIII›) L. Sp2 : V F | nonaginta (LX‹XXX›) Ald : LX F | nongenta L. Sp1 : nungenti F || 19 ad nongenta Aug : DCCCC F || 21 sic hoc mille, haec duo suppl. Gronovius 1656, p. 13 || 24 a suppl. Aug | ad suppl. Aug

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questi seguono la stessa flessione. Dupondius, che è diverso, ha logicamente un paradigma flessivo differente. Così as, essendo semplice e primo, ha tanto il singolare, quanto il plurale indefinito: in generale diciamo infatti asses, per circoscrivere usiamo dupondius, tressis e via dicendo. [85] Mi sembra inoltre che, essendo ‘determinato’ e ‘indeterminato’ due categorie diverse, non sia giusto pretendere che entrambe si dicano allo stesso modo, tanto più che in questi stessi vocaboli dove si aggiunge un certo numero in migliaia, lo stesso numero si dice altrimenti che negli altri casi. Si dice infatti hoc mille denarium e non hoc mille denariorum e haec duo milia denarium e non duo milia denariorum. Se fosse denarii al nominativo e indicasse una quantità indeterminata, allora al genitivo sarebbe stato opportuno dire denariorum. E così non solo con i termini denarii, victoriati, drachmae, nummi, ma anche con viri bisogna osservare questa differenza, perché diciamo che è stato il iudicium triumvirum, decemvirum, centumvirum, non centum virorum. [86] Nei numeri antichi ci sono delle analogie, perché per tutti è valida una sola regola e sono in due serie, con tre gradi e sei decadi ciascuna, che si corrispondono perfettamente tra di loro. La regola è il numero novenario: da uno si arriva al nove e di nuovo si torna all’uno e al nove; da questo ne discende che anche novanta e novecento sono della stessa natura novenaria. Ugualmente, ci sono numeri di natura ottonaria e successivi, fino ad arrivare alle unità. [87] La prima serie va da uno a novecento, la seconda da mille a novecentomila. Poiché uno e mille hanno sempre lo stesso valore unitario, vengono entrambi detti al singolare. Infatti come si dice hoc unum, haec duo così si dice hoc mille, haec duo milia e così via tutti i restanti numeri plurali delle due serie. In entrambe le serie, vi sono: il grado delle unità che va dall’uno al nove, quello delle decine da dieci a novanta, quello delle centinaia da cento a novecento. Così nei tre

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gradibus sex decuriae fiunt, tres miliariae, tres minores. Antiqui his numeris fuerunt contenti. [88] Ad hos tertium et quartum actum ab decie‹n›s minores imposuerunt vocabula, neque ratione, sed tamen non contra est eam de qua scribimus analogiam. Nam [ut] decien[i]s cum dicatur hoc deciens, ut mille hoc mille, ut sit utrumque sine casibus vocis, dicemus ut hoc mille, huius mille, sic hoc deciens, huius deciens, neque eo minus in altero, quod est mille, praeponemus hi mille, horum mille ***. [89] Quoniam in eo est nomen co‹m›mune, quam vocant ὁμωνυμίαν, obliqui casus ab eodem capite, ubi erit ὁμωνυμία, [obliqui casus] quo minus dissimiles fiant, analogia non prohibet. Itaque dicimus hic Argus, cum hominem dicimus, cum oppidum, graecanice hoc Argos, cum latine Argi. Item faciemus, si eadem vox nomen et verbum significabit, ut et in casus et in tempora dispariliter declinetur, ut faciamus a Meto quod nomen est Metonis Metonem, quod verbum est metam metabam. [90] Reprehendunt, cum ab eadem voce plura sunt vocabula declinata, quas συνωνυμίας appellant, ut [Sap‹p›ho et] Alc‹a›eus et Alc‹a›eo, sic Geryon, Geryonus, Geryones. In hoc genere quod casus perperam permutant quidam, non reprehendunt analogiam, sed qui eis utuntur imperite; quod quisque caput prenderit, sequi debet eius consequenti‹s› casus in declinando ac non facere, cum dixerit recto casu Alc‹a›eus, in obliquis dicere Alc‹a›eoni et Alc‹a›eonem; quod si miscuerit et non secutus erit analogias, reprehendendum. [91] ‹Reprehendunt› Aristarchum, quod haec nomina Melicertes et Philomedes similia neget esse, quod vocandi casus habet alter Melicerta, alter

1 miliariae tres L. Sp2 duce Ald : miliaria et res F || 2 decies F || 4 ut secl. L. Sp1 : et Canal || 7 post horum mille lac. ind. Mue coll. VIII 68 || 8 omonimyan F || 9 omonimya F | obliqui casus om. Aug || 11 graecanice Pius : grecancaene F : graece L. Sp2 || 12 nomen et Pius : nominet F | significabit Pius : significavit F || 16 synonimyas F | Sappho (Sapho F) et secl. Aug in Emend. | alceus et alceo F || 19 consequentis L. Sp1 : consequenti F || 20 alceus F || 21 alceoni et alceonem F || 23 reprehendunt suppl. Canal duce Aug in marg.

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gradi ci sono sei decine, tre dell’ordine delle migliaia, tre degli ordini più piccoli. Gli antichi si fermarono a queste sequenze numeriche. [88] A queste due serie i moderni ne aggiunsero una terza e una quarta, a partire da un milione: imposero questi nomi senza seguire il principio di regolarità, ma tuttavia non andarono neppure contro l’analogia di cui stiamo trattando. Infatti, se usiamo deciens, al caso neutro hoc deciens, come con mille diciamo hoc mille, e dal momento che in entrambi i casi si tratta di voci indeclinabili, diremo hoc mille, huius mille e così hoc deciens, huius deciens e nondimeno potremo preporre al secondo ordine, che è del mille, hi mille, horum mille ***. [89] Quando si verifica il caso di un nome in comune, che chiamano omonimia, l’analogia non vieta che i casi obliqui flessi dal medesimo nominativo (dove si è verificata appunto l’omonimia) siano differenti. E così diciamo hic Argus se ci riferiamo ad un uomo, se ci riferiamo alla città è hoc Argos alla greca oppure alla latina Argi. Se lo stesso vocabolo è sia un nome che un verbo, ci comporteremo ugualmente, perché li declineremo differentemente secondo i casi e secondo i tempi, come avviene con Meto, che, se è nome fa Metonis Metonem, se è verbo, metam, metebam. [90] Biasimano poi il fatto che di uno stesso nome si possano avere più forme flesse, che chiamano sinonimie, come Alcaeus e Alcaeo, oppure Geryon, Geryonus, Geryones. Ma quanto a ciò, se qualcuno per sbaglio scambia una forma per un’altra, questo non va imputato all’analogia, ma a chi usa in modo improprio queste forme. Infatti, qualunque forma di base si scelga, questa va seguita per tutta la flessione di tutti i casi che ne discendono: se si sceglie come nominativo Alcaeus, non si avrà nei casi obliqui Alcaeoni e Alcaeonem, perché se si mescolano le cose, e non si segue l’analogia, questa sì sarà cosa degna di biasimo. [91] Rimproverano Aristarco, perché non considera simili i nomi propri Melicertes e Philomedes, dal momento che, al vocativo, il primo fa Melicerta

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Philomede‹s›, sic qui dicat lepus et lupus non esse simile, quod alterius vocandi casus sit lupe, alterius lepus, sic socer, macer, quod in transitu fiat ab altero trisyllabum soceri, ab altero bisyllabum macri. [92] De hoc etsi supra responsum est, cum dixi de lana, hic [hic] quoque amplius adiciam similia non solum a facie dici, sed etiam ab aliqua coniuncta vi et potestate, quae et oculis et auribus latere soleant: itaque s‹a›epe gemina facie mala negamus esse similia, si sapore sunt alio; sic equos eadem facie nonnullos negamus esse similis † in nationes ex procreante dissimilis. [93] Itaque in hominibus emendis, si natione alter est melior, emimus pluris. Atque in hisce omnibus similitudines non sumimus tantum a figura, sed etiam aliu‹n›de, ut in equis et as[ut]inis, cuius modi faciant pullos, ut in pomis, quo sint suco. Si igitur [sequitur] idem sequitur in similitudine verborum quis, reprehendundus non est. [94] Quare similitudinum discernendarum causa nonnunquam ut pronomen assumitur, sic casum aliquem assumi‹mus›, ut in his nemus, lepus, hic lepus, hoc nemus: itaque discedunt ac dicuntur hi lepores, haec nemora; sic aliud si quid assumptum erit extrinsecus, quo similitudo penitus perspici possit: non enim erit remotum ab natura; neque enim magnetas lapides duo inter se similes sint necne, perspicere possis, nisi minutum extrinsecus prope apposueris ferrum, quod similes lapides similiter ducunt, dissimiliter dissimiles. [95] Quod ad nominat[i]uom analogia‹m› pertinet, ita †declinatum arbitror, ut †omnia quae dicuntur contra ad respondendum ab his fontibus sumi possit. Quod ad verborum temporalium rationem attinet, cum partes sint quattuor, tempora, personae, genera, divisiones, ex omni parte quoniam repre-

1 Philomedes Mue : Philomede F || 8 si natione sunt [ex procreante] dissimili dubitanter GS : si natione sunt procreati dissimili A. Sp : si natione seu procreatione dissimiles Sciop : si natione sexu procreante dissimilis Lachmann 1850, p. 56 || 11 et asinis Groth 1880, p. 60 n. 376 duce Lachmann 1850, p. 176 : aetas ut inis F || 11-12 igitur sequitur idem sequitur deleto priore sequitur F || 13 similitu dinum L. Sp2 : similitudinem F || 14 assumimus L. Sp2 : assumi F || 20 nomina tuom L. Sp2 | analogiam Aug || 21 declinatum F : deliquatum dubitanter GS | contra ante omnia suppl. dubitanter GS || 24 personae genera divisiones L. Sp2 : personarum generum divisionem F

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e il secondo Philomedes. E ancora riprendono chi afferma che lepus e lupus non sono simili, perché l’uno ha il vocativo lupe, l’altro lepus; e così anche per socer e macer, perché nel corso della flessione il primo diventa trisillabo (soceri), il secondo bisillabo (macri). [92] Sebbene io abbia già prima risposto a questo problema, quando ho parlato della lana, aggiungerò anche in questo caso qualcosa di più dettagliato. Due cose non possono essere dette simili solo sulla base del loro aspetto esteriore, ma anche sulla base di una certa corrispondenza tra forma e sostanza, che solitamente sfugge alla vista e alle orecchie. Spesso neghiamo che due mele identiche siano simili per il fatto che hanno un gusto diverso; così neghiamo che dei cavalli identici d’aspetto siano simili † che genera prole diversa. [93] Così, nel comprare schiavi, paghiamo di più quello di nazionalità migliore. E in tutte queste cose, noi non ci basiamo soltanto sull’apparenza, ma facciamo anche riferimento ad altro, come al tipo di prole, nel caso dei cavalli e degli asini o al succo, nel caso delle mele. Se dunque qualcuno segue lo stesso criterio per la somiglianza delle parole, non deve essere biasimato. [94] Di conseguenza, per individuare le somiglianze tra parole, come talvolta si fa riferimento al pronome, così ricorriamo ad un caso della flessione, come in nemus e lepus, hic lepus e hoc nemus: essi vengono flessi e diventano hi lepores e haec nemora. Se, infatti, si farà ricorso a qualche elemento estrinseco che permetta di vedere più in profondità la somiglianza tra due parole, non sarà un procedimento innaturale. Non saresti in grado di distinguere se due calamite sono simili o meno tra loro senza accostarvi esternamente un piccolo pezzo di ferro: le calamite simili lo attraggono nello stesso modo, il contrario fanno quelle dissimili. [95] Per quanto riguarda l’analogia tra i nomi, † credo sia stato declinato † da queste fonti si può trarre la risposta a tutte le obiezioni. Per quanto concerne l’analogia nel sistema verbale, che è composto di quattro parti (tempi, persone, genere e aspetto) risponderò puntualmente

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hendunt, ad singula respondebo. [96] Primum quod aiunt analogias non servari in temporibus, cum dicant legi lego legam et sic simili‹ter› alia: nam quae sint ut legi rem perfectam significare, duo reliqua lego et legam [et lego] inchoatam, iniuria reprehendunt: nam ex eodem genere et ex divisione idem verbum, quod sumptum est, per tempora traduci ‹infecti› potest, ut discebam disco discam, et eadem perfecti, sic didiceram didici didicero. Ex quo licet scire verborum ratione‹m› constare, sed eos, qui trium temporum verba pronuntiare velint, ‹in›scienter id facere; [97] item illos qui reprehendunt, quod dicamus amor amabor amatus sum: non enim debuisse in una serie unum verbum esse duplex, cum duo simplicia essent. Neque ex divisione si unius modi ponas verba, discrepant inter se: nam infecta omnia simplicia sunt, et perfecta duplicia inter se paria in omnibus verbis, ut haec amabar amor amabor, amatus ‹sum amatus eram amatus› ero. [98] Quare item male dicunt ferio feriam percussi, quod est ordo feriam ‹ferio› feriebam, percussi percutio percutiam. Sic deinceps in reliquis temporibus reprehendenti responderi potest. [99] Similiter errant qui dicunt ex utraque parte verba omnia commutare syllabas oportere aut nullum, in his pungo pungam pupugi, tundo tundam tutudi; dissimilia enim conferunt, verba infecti cum perfectis. Quod si infecta modo conferrent, omnia verbi principia incommutabilia viderentur, ut in his pungebam pungo pungam et contra ex utraque parte commutabilia, si perfecta ponerent, ut pupugeram pupugi pupugero.

3 similiter alia L. Sp1 ex H : simile alia F : mille alia Aug | legi rem Müller 1865, p. 422 : legerem F || 4 et lego secl. L. Sp2 || 6 infecti post traduci suppl. dubitan ter GS, post ut L. Sp2 || 8 rationem Aug : ratione F || 9 inscienter L. Sp2 : scienter F | item Aug : idem F || 14 sum amatus eram amatus suppl. Canal || 15 ferio suppl. Ald

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ad ogni critica mossa contro ogni singola parte. [96] Per prima cosa, dicono che i verbi non osservano la regolarità analogica nei tempi, dal momento che si dice al perfetto legi, al presente lego e al futuro legam, e così via: infatti le forme come legi indicano un’azione compiuta, mentre gli altri due verbi lego e legam una incompiuta. Ma si sbagliano, perché, preso uno stesso verbo di determinato genere e aspetto, lo si può far passare attraverso i tempi dell’infectum come discebam, disco, discam e quelli corrispondenti del perfectum, cioè didiceram, didici, didicero. Da questo si può desumere che c’è una ratio nel sistema verbale, ma quelli che si mettono a recitare la serie dei tre tempi, lo fanno senza sapere quello che dicono. [97] Si comporta allo stesso modo, chi critica il fatto che diciamo amor, amabor, amatus sum, sostenendo che in una stessa serie non ci dovrebbe essere una forma verbale composta, quando le altre due sono semplici. Ma se si prendessero delle forme che sono dello stesso aspetto verbale, non si vedrebbero discrepanze: infatti le forme dell’infectum sono tutte semplici, quelle del perfectum sono composte da due elementi, tutte in piena corrispondenza fra loro, come in queste due sequenze: da un lato amabar, amor, amabor e dall’altro amatus sum, amatus eram, amatus ero. [98] Ugualmente sbagliano a dire ferio feriam percussi, perché la sequenza corretta è feriam ferio feriebam, percussi percutio percutiam. E così di seguito si può rispondere a chi mette in discussione gli altri tempi. [99] Allo stesso modo, sbagliano quando dicono che tutti i verbi dovrebbero avere un mutamento nelle sillabe iniziali e finali (come pungo, pungam, pupugi e tundo, tundam, tutudi), o non averlo affatto. Ma così mettono a confronto cose diverse, forme verbali dell’infectum con quelle del perfectum. Se mettessero a confronto tra loro solo le forme dell’infectum, le parti iniziali del verbo si dimostrerebbero invariabili, come in pungebam, pungo, pungam e, per contro, se si confrontassero le forme del perfectum, come pupugeram, pupugi, pupugero, queste apparirebbero variabili all’inizio e alla fine.

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[100] Item male conferunt fui sum ero, quod fui est perfectum, cuius series sibi, ut debet, in omnibus personis constat, quod est fueram fui fuero; de infectis sum quod nunc dicitur olim dicebatur esum et in omnibus personis constabat, quod dicebatur esum es est, eram eras erat, ero eris erit; sic huiusce modi cetera servare analogiam videbis. [101] Etiam in hoc reprehendunt, quod quaedam verba neque personas habent ternas neque tempora terna: id imperite reprehendunt, ut si quis reprehendat naturam, quod non unius modi finxerit animalis omnis. Si[c] enim natura non omnes formae verborum terna habe[a]nt tempora, ternas personas, non habent totidem verborum divisiones. Quare cum imperamus, natura quod infecta ‹ver›ba solum habe‹n›t, cum aut praesenti aut absenti imperamus, fiunt terna, ut lege legito legat: perfectum enim imperat nemo. Contra quae ‹non› sunt imperandi, ut lego legis legit, novena fiunt verba infecti, novena perfecti. [102] Quocirca non si genus cum genere discrepa[n]t, sed in suo †quisque genere si quid deest, requirendum. Ad haec addita si erunt ea quae de nominatibus supra sunt dicta, facilius omnia solventur. Nam ut illic est verbi caput rectus casus, sic hic in forma est persona eius qui loquitur et tempus praesens, ut scribo lego. [103] Quare ut illic fit, si[c] hic item acciderit in formula, ut aut caput non sit aut ex alieno genere sit, proportione eadem quae illic dicimus, cur ni[c]hilominus servetur analogia; item, si[c] ut illic caput suum habebit et in obliquis casibus transitio erit in aliquam formulam, qua assumpta reliqua facilius possint videri verba, unde sint declinata: fit enim, ut rectus casus nonnunquam sit ambiguus, ut in hoc verbo volo, quod id duo significat, unum a voluntate, alterum a volando; itaque a volo intelligimus et volare et velle.

8-9 si enim Aug : sic enim F || 9 terna habent G H a : terna habeant F || 11 infecta verba G : infectaba F : infecti verba Spengel 1830, p. 10, n. 11 | habent G : habet F | aut praesenti aut absenti L. Sp2 : et praesenti aut absenti F || 13 non suppl. Canal || 15 discrepat Laet : discrepant F || 15-16 quoiusque Mue fortasse recte || 17 nominatibus L. Sp2 : nominatiuis F || 17-18 est verbi caput rectus dubitanter GS : externi caput (caput s.l.) rectus F || 19 si Mue : sic F || 21-22 si ut A. Sp : sicut F

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[100] Similmente mettono sullo stesso piano in modo scorretto le forme fui, sum, ero, perché fui è un perfetto la cui serie fueram, fui, fuero è, come deve essere, coerente in tutte le sue persone; per quanto riguarda l’infectum, una volta si diceva esum (anziché sum, forma attuale) e rimaneva coerente in tutte le persone della serie, dal momento che si diceva esum es est, eram eras erat, ero eris erit. Allo stesso modo vedrai che gli altri verbi di questo tipo osservano l’analogia. [101] Polemizzano anche su questo fatto, e cioè che alcuni verbi non hanno né tutt’e tre le persone né tutt’e tre i tempi. Ma questa critica è sciocca, perché è come se si rimproverasse la natura, perché non ha plasmato tutti gli animali allo stesso modo. Se per natura, infatti, non tutte le forme verbali hanno i tre tempi o le tre persone, possono non avere altrettante distinzioni aspettuali. Per esempio, se comandiamo qualcosa a qualcuno (presente o assente che sia) al modo imperativo, che per natura è proprio solo dei verbi all’infectum, abbiamo tre forme: lege, legito, legat. Nessuno infatti può ordinare un’azione già avvenuta. Al contrario, negli altri modi che non sono l’imperativo, come lego, legis, legit, si hanno nove voci nel sistema dell’infectum e nove in quello del perfectum. [102] Perciò, non va cercata la discrepanza tra due generi di cose, ma piuttosto la mancanza di qualcosa † nel proprio genere. Se oltre a questo si porrà attenzione a quanto ho detto prima riguardo i nomi, tutto verrà risolto più facilmente. Infatti, come abbiamo visto sopra, se il nominativo è la forma di base del nome, così qui, la forma di base del verbo è quella di chi parla ed è al presente, come scribo e lego. [103] E quindi, nel caso si verifichi anche qui, come talvolta nei nomi, la mancanza della forma di base all’interno del paradigma o che questa sia di altra natura, in riferimento alle stesse cose che abbiamo detto sui nomi, affermiamo che l’analogia viene comunque osservata. Se, come abbiamo visto in quel caso, si avrà una forma di base di un tipo e una flessione che segue un paradigma di tipo diverso, una volta individuato questo, si potrà riconoscere più facilmente l’origine di queste altre forme flesse. Talvolta accade infatti che la forma di base sia causa di ambiguità. Come, ad esempio, nel verbo volo, che ha due significati, il primo da voluntas, il secondo da volare. Dunque di fronte a volo, noi pensiamo sia a volare che a velle.

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[104] Quidam reprehendunt, quod pluit et luit dicamus in praeterito et praesenti tempore, cum analogi‹a›e sui cuiusque temporis verba debeant discriminare. Falluntur: nam est ac putant aliter, quod in praeteritis U dicimus longum pluit ‹luit ›, in praesenti breve pluit luit: ideoque in lege venditionis fundi ‘ruta c‹a›esa’ ita dicimus, ut U producamus. [105] Item reprehendunt quidam, quod putant idem esse sacrific[i ]o et sacrificor, [e]lavat et lavatur; quod sit an non, nihil commovet analogiam, dum sacrifico qui dicat servet sacrificabo et sic per totam formam, ne dicat sacrificaturus aut sacrificatus sum: haec enim inter se non conveniunt. [106] Apud Plautum [Truc. 322 ss.] cum dicit: ‘piscis ego credo qui usque dum vivunt lavant diu minus lavari quam haec lavat Phronesium’, ad lavant lavari non convenit, ut I sit postremum, sed E; ad lavantur analogia lavari reddit: quod Plauti aut librarii mendum si est, non ideo analogia, sed qui scripsit est reprehendendus. Omnino et lava[n]t et lavatur dicitur separatim recte in rebus certis, quod puerum nutrix lava‹t ›, puer a nutrice lavatur, nos in balneis et lavamus et lavamur. [107] Sed consuetudo alterum utrum cum satis haberet, in toto corpore potius utitur lavamur, in partibus lavamus, quod dicimus lavo manus, sic pedes et cetera. Quare e balneis non recte dicunt lavi, lavi manus recte. Sed quoniam in balneis lavor lautus sum, sequitur, ut contra, quoniam est soleo, oporte‹a›t dici solui, ut Cato et Ennius scribit, non ut dicit vulgus, solitus sum, debere dici; neque propter haec, quod discrepant in sermone pauca, minus est analogia, ut supra dictum est. [108] Item cur non sit analogia, afferunt, quod ab similibus similia non declinentur, ut ab dolo et colo: ab altero enim dicitur dolavi, ab altero colui; in quibus assumi solet aliquid, quo facilius reliqua dicantur, ut i‹n› Murmecidis operibus minutis solet fieri: igitur in verbis temporalibus, quo‹m› similitudo s‹a›epe sit confusa, ut discerni nequeat, nisi transieris in aliam personam aut in tempus, quae proposita sunt no‹n e›sse similia intellegitur,

4 luit add. Aug || 4-5 in lege venditionis L. Sp2 : invenditionis lege F || 6 sacrifico Aug : sacrificio F || 7 sacrificor lavat Aug in Emend. : sacrifico relavat F || 8 sa crifico Aug in Emend. : sacrifici F || 10 piscis add. s.l. F || 12 I sit H : T sit F || 13 mendum ex mendunt F || 14 lavat H : lavant F || 20 oporteat Mue : oportet F || 26 ut in Aug : uti F || 27 quom Aug : quo F || 29 non esse Vertr : nosse F

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[104] Alcuni criticano il fatto che usiamo le forme pluit e luit sia al perfetto che al presente, mentre l’analogia dovrebbe differenziare i verbi secondo ogni tempo. Ma sbagliano: infatti è diverso da quanto credono, perché, mentre al perfetto è pluit luit con la u lunga, al presente è con la u breve. Proprio per questo, nel contratto di vendita di un fondo, noi usiamo la clausola ‘ruta caesa’ , con la u lunga. [105] E ancora, polemizzano perché ritengono che le forme sacrifico, sacrificor e lavat, lavatur sono la stessa cosa. Che la cosa sia vera o no, nulla toglie all’analogia, purché chi dice sacrifico mantenga la forma sacrificabo e così via per tutto il paradigma; e non usi sacrificaturus o sacrificatus sum, perché tali forme non si accordano con le altre. [106] Dove Plauto [Truc. 322 ss.] dice: ‘credo che i pesci, che si lavano (lavant) per tutta la vita, in realtà si lavino (lavari) molto meno di quanto si lava (lavat) questa Fronesio’, la forma lavant non corrisponde a lavari, con la i finale al posto della e. L’analogia abbina lavari a lavantur. Che sia un errore di Plauto o del copista, è chi ha scritto così a dover essere ripreso, non certo l’analogia. In generale, sia lavat che lavatur sono usati propriamente ciascuno in contesti definiti, perché si dice ‘la balia lava (lavat) il bambino’, ‘il bambino viene lavato (lavatur) dalla balia’, ‘noi ci laviamo (lavamur, lavamus) nei bagni pubblici’. [107] Ma anche se per l’uso sarebbe sufficiente l’una o l’altra di queste due forme, si usa preferibilmente lavamur se ci riferiamo a tutto il corpo, lavamus quando si tratta di qualche parte, come quando diciamo ‘mi lavo (lavo) le mani, i piedi, etc’. Pertanto, uscendo dal bagno, non sarà appropriato dire lavi (mi sono lavato), ma lavi manus (ho lavato le mani). Ma se a proposito di bagni si dice lavor, lavatus sum, ne consegue che se si dice soleo, si dovrà dire solui – come scrivono Catone ed Ennio – e non come dice il volgo solitus sum. Come ho spiegato sopra, non sarà per queste poche incoerenze della lingua, che si sminuirà l’analogia. [108] Allo stesso modo, sostengono che l’analogia non esiste, per il fatto che da forme verbali simili tra loro non derivano forme altrettanto simili, come nel caso di dolo e colo. Dal primo si ottiene infatti il perfetto dolavi, dal secondo colui. Solitamente, in questi casi, ci si rifà a qualche altro elemento, per individuare più facilmente le altre forme, così come si è soliti fare con le opere piccolissime di Mirmecide. E così si farà con i tempi verbali, dal momento che l’analogia è spesso poco evidente, da non poterla individuare senza flettere il verbo in un’altra persona o in un altro tempo. Che i verbi sopra detti non siano simili, lo si evince dalla flessione nella se-

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cum transitum est in secundam personam, quod alterum est dolas, alterum colis. [109] Itaque in reliqua forma verborum suam ut[e]r‹um›que sequitur formam. Utrum in secunda forma verb[or]um temporale habeat in extrema syllaba AS an IS a‹u›t ES, ad discernendas similitudines interest: quocirca ibi potius index analogiae quam in prima, quod ibi abstrusa est dissimilitudo, ut apparet in his meo, neo, ruo: ab his enim dissimilia fiunt transitu, quod sic dicuntur meo meas, neo nes, ruo ruis, quorum unumquodque suam conservat similitudinis formam. [110] Analogiam item de his quae appellantur participia reprehendunt multi; iniuria: nam non debent dici terna ab singulis verbis amaturus amans amatus, quod est ab amo amans et amaturus, ab amabar amatus. Illud analogia quod praestare debet, in suo quicque genere habet, casus, ut amatus amato et amati amatis; et sic in mulieribus amata et amatae; item amaturus eiusdem modi habet declinationes, amans paulo aliter; quod hoc genus omnia sunt in suo genere similia proportione, sic virilia et muliebria sunt eadem. [111] De eo quod in priore libro extremum est, ideo non es‹se› analogia‹m›, quod qui de ea scripserint aut inter se non conveniant aut in quibus conveniant ea cum consuetudinis discrepent verbis, utrumque *** : sic enim omnis repudiandum erit artis, quod et in medicina et in musica et in aliis multis discrepant scriptores; item in quibus conveniunt in scriptis, si etiam repudiat natura, quod ita ut dicitur, non sit ars, sed artifex reprehendendus, qui debet in scribendo non vidisse verum, non ideo non posse scribi verum. [112] Qui dicit hoc monti et hoc fonti, cum alii dicant hoc monte et hoc fonte, sic alia quae duobus modis dicuntur, cum alterum sit verum, alterum falsum, non uter peccat tollit analogias, sed uter recte dicit confirmat; et quemadmodum is qui [cum] peccat in his verbis, ubi duobus modis dicuntur,

2 utrumque Sciop : uterque F || 3 verbum Mue || 4 AS an IS aut ES corr. Canal duce Rhol : As an Is at si F || 6 meo meorum (deleto meorum, suprascr. neo ruo) F || 10 multi; iniuria GS : multa iniuria F || 11 amaturus ab Rhol : ab amaturus F || 17-18 esse analogiam Mue : est analogia F || 19 discrepent Mue : discrepant F | post utrumque lac. ind. L. Sp1 : falsum est suppl. Popma : falsum suppl. A. Sp : est leve suppl. dubitanter GS || 21 in scriptis A. Sp : ut scriptis F || 27 cum secl. L. Sp1

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conda persona che, nel primo caso è dolas, nel secondo è colis. [109] E così nelle forme restanti, ciascun verbo segue la propria coniugazione. Per riuscire a distinguere le somiglianze tra le forme verbali, è importante vedere soprattutto quale sillaba finale presentano nella seconda persona: se as o is o es. Pertanto, qui sarà l’elemento indicatore dell’analogia, e non nella prima persona, dove la somiglianza è difficile da vedere, come si vede in meo, neo, ruo. Queste forme, infatti, si flettono in modo diverso, perché è meo meas, neo nes, ruo ruis, e ciascuno di questi verbi mantiene la propria coniugazione. [110] Molti hanno da ridire sull’analogia che riguarda i cosiddetti participi. Anche questa critica è ingiusta. Non è corretto dire che da ogni verbo derivano tre participi, come amaturus amans amatus, perché amans e amaturus derivano da amo, mentre amatus viene da amabar. Ciò che l’analogia deve invece garantire, ossia il caso, ciascuno nel suo genere ce l’ha, come amatus amato e amati amatis. Così al femminile sarà amata e amatae. Ugualmente, amaturus ha la stessa flessione, mentre amans è leggermente diverso. Poiché tutte le parole di questo tipo sono proporzionalmente simili (ciascuno secondo il proprio tipo), i maschili e femminili sono gli stessi. [111] Veniamo all’argomento trattato alla fine del libro precedente: non sussisterebbe l’analogia, per il fatto che quelli che hanno scritto su di essa, o non sono d’accordo tra di loro, o i casi su cui concordano, sono in contrasto con le parole di uso comune. In entrambe i casi si tratta di *** . Se è così, allora bisognerà ripudiare tutte le arti, perché nella medicina, nella musica e in molte altre discipline coloro che scrivono sono in disaccordo tra loro. Ma se anche i punti nei quali si trovano d’accordo nei loro scritti vengono smentiti dalla natura, allora, come si dice in questi casi, non è l’arte a dover essere condannata, ma l’artefice che nei suoi scritti non ha visto il vero, senza che questo comporti che il vero non lo si possa scrivere. [112] C’è chi dice hoc monti e hoc fonti, mentre altri dicono hoc monte e hoc fonte, e così avviene per altri nomi che hanno due uscite: dal momento che una è corretta e l’altra è sbagliata, non sarà certo chi sbaglia a mettere in discussione l’analogia, ma anzi chi usa la forma corretta darà una conferma a questa. Come chi sbaglia con questi nomi (che possono essere detti

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de lingua latina · liber ix 113-115

non tollit rationem cum sequitur falsum, sic etiam in his ‹quae› non [in] duobus dicuntur, si quis aliter putat dici oportere atque oportet, non scientiam tollit orationis, sed suam inscientiam denudat. [113] Quibus rebus solvi arbitraremur posse quae dicta sunt priori libro contra analogian, ut potui brevi percucurri. Ex quibus si id confecissent quod volunt, ut in lingua latina esset anomalia, tamen nihil [l]egissent ideo, quod in omnibus partibus mundi utraque natura inest, quod alia inter se † alia sunt, sicut in animalibus dissimilia sunt, ut equus bos ovis homo, item alia, et in unoquoque horum genere inter se similia innumerabilia. Item in piscibus dissimilis murena lupo, [h]is soleae, haec murenae et mustelae, sic aliis, ut maior ille numerus sit similitudinum earum quae sunt separatim in murenis separatim in asellis, sic in generibus aliis. [114] Quare cum in inclinationibus verborum numerus sit magnus a dissimilibus verbis ortus, quod etiam vel maior est in quibus similitudines reperiuntur, confitendum est esse analogias. Itemque cum ea non multo minus quam in omnibus verbis patiatur uti consuetudo co‹m›munis, fatendum illud †quo quando analogian sequi nos debere universos, singulos autem praeterquam in quibus verbis offensura sit consuetudo co‹m›munis, quod ut dixi aliud debet praestare populus, aliud e populo singuli homines. Neque id mirum est, cum singuli quoque non sint eodem iure: nam liberius potest poeta quam orator sequi analogias. [115] Quare cum hic liber id quod pollicitus est demonstraturum absolverit, faciam finem; proxumo deinceps de declinatorum verborum forma scribam.

1 quae add. Aug | in del. Aug || 6 egissent Aug : legissent F || 7-8 quod alia inter se alia sunt F : quod alia inter se similia, alia dissimilia sunt Mue || 10 is L. Sp2 (prop. L. Sp1) | murenae G H Ald : nerene ex merene F : merulae A. Sp || 14-15 confitendum Aug : conferendum F || 16-17 quo quando F : quodammodo Aug : quoque modo Mue : quoquo modo Canal || 22-23 absolverit Ald : absolverim F || 23 forma Pius : firma F

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la lingua latina · libro ix 113-115

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in due modi) non compromette l’analogia seguendo la forma errata, così è anche nel caso di nomi che non si dicono in due modi: se qualcuno pensa che si debba dire diversamente da come deve essere detto, non distrugge per questo la scienza del linguaggio, ma mette a nudo tutta la sua ignoranza. [113] Le argomentazioni con cui ho ritenuto si potessero confutare le accuse poste nel libro precedente contro l’analogia, sono state brevemente passsate in rassegna, per quanto è stato possibile. Anche se, sulla base delle loro critiche, riuscissero a realizzare il loro obiettivo – l’anomalia nella lingua latina – tuttavia non varrebbe a nulla, perché ovunque nel mondo sono presenti entrambe le nature: alcuni esseri †, così nel regno animale vi sono specie diverse, come il cavallo, il bue, la pecora, l’uomo e così via, e per ciascuna di queste specie vi sono infiniti esseri simili tra loro. Allo stesso modo, ad esempio tra i pesci, la murena è diversa dal pesce lupo, questo dalla sogliola, la sogliola dalla murena e dalla carpa e così da altri pesci, ma è comunque prevalente il numero di esseri simili all’interno di ogni singola specie, di murene, pesci asino, e altri tipi. [114] Perciò, pur essendoci nella flessione un gran numero di parole nate da parole dissimili, c’è comunque un numero maggiore di casi in cui si riscontrano similarità, e pertanto si deve ammettere l’esistenza dell’analogia. Dal momento che l’uso comune permette di servirci dell’analogia per quasi tutte le parole, bisogna ammettere che noi tutti dovremmo seguire l’analogia †, anche singolarmente, eccetto i casi in cui si urterebbe l’uso comune, perché ho già puntualizzato cosa deve rispettare il popolo e cosa il singolo individuo. Questo non deve meravigliare, dal momento che non tutti i singoli parlanti godono degli stessi diritti: il poeta, infatti, può seguire più liberamente dell’oratore la regola dell’analogia. [115] Dal momento che questo libro ha concluso l’esposizione di quanto si riprometteva di dimostrare, porrò fine ad esso. Nel successivo parlerò dei paradigmi flessivi.

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1. nesciunt … ignorant: in F l’inizio del ix libro è interessato dalla lacuna che coinvolge la fine del folium 21r (libro viii paragrafo 84) fino alla prima metà del f. 22r che contiene solo 23 righe (rispetto alle 39 presenti, pur con qualche minima variazione, nelle altre pagine). Nel manoscritto manca qualsiasi indicazione relativa all’incipit del libro ix. Questa la descrizione del Groth 1880, p. 53 che a sua volta si rifà alla collazione del Vettori: una et dimidia pagina relicta liber nonus sine inscriptione incipit. Id quod Victorius supercilio pagellae ascriptum fuisse tradit: liber VIIII nunc deletum est incertis tantum umbris relictis. La frase iniziale, che sembra una provocazione contro una certa ottusità delle due scuole grammaticali contrapposte (alessandrina e stoica), è certamente incompleta, anche se il senso generale è intuibile grazie al contesto. Vista l’entità della lacuna, non sono condivisibili i tentativi di integrazione avanzati dagli editori: a partire dalla lunga e suggestiva proposta di Boot 1894, p. 411 (Insignis eorum est error qui malunt quae) accolta direttamente a testo nelle edizioni di Traglia e di Kent, a margine della quale va notato però come, sulla base dell’usus scribendi varroniano, possa risultare improbabile la scelta del sostantivo error, che nel De lingua Latina è usato solitamente nell’accezione specifica di ‘errore grammaticale’ e non di ‘errore dottrinale’ (cfr. vi 14 e 77; x 6 e 8). Più cauta e stringata è invece l’integrazione iniziale (Multi minus) avanzata da Spengel 1830, p. 8. in quo fuit Crates: su Cratete di Mallo vd. Introduzione, § 3.2. Sulla resa di in quo, nesso reso inevitabilmente sfuggente dalla lacuna iniziale, sono divisi i traduttori: si può intendere infatti come in quo peccato (ad es. Traglia ad loc. «in questo errore») o come in quo numero (vd. Canal ad loc. «Hannovi alcuni, i quali, innanzi che apprendere […] di questo numero fu Cratete») soluzione che può poggiare sul confronto con vi 2 (huius rei auctor satis mihi Chrysippus et Antipater et illi in quibus, si non tantum acuminis, at plus litterarum, in quo est Aristophanes et Apollodorus, qui omnes uerba ex verbis ita declinari scribunt). Per il passo in questione, la traduzione del Kent «in that position was Crates … » sembra la più condivisibile.

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Chrysippo, homine acutissimo: dello stoico Crisippo (cfr. Introduzione § 3.2) viene sottolineata l’acutezza di ingegno e la paternità di un’opera sull’anomalia. Egli non a caso viene definito homo acutissimus: l’aggettivo acutus era effettivamente l’epiteto più usato per definire i rappresentanti della scuola stoica (cfr. ThlL i 464, 83 - 465,7). Il termine va ricondotto infatti, con Moretti 1995, p. 65, alla particolare fama di brevitas ed obscuritas di cui godeva la retorica stoica, e in particolare alla proverbiale ἀσάφεια cui veniva associato proprio Crisippo (Arrian. Epict. dissert. i 17, 15-16 = SVF ii fr. 29). In particolare Cicerone, nelle accuse mosse contro l’impianto dottrinale e filosofico della Stoà, non manca di criticarne anche il peculiare orationis genus, definito in modo proverbiale come acutum, subtile, obscurum: accedit quod orationis etiam genus habent fortasse subtile et certe acutum, sed ut in oratore exile, inusitatum, abhorrens ab auribus vulgi, obscurum, inane, ieiunum, ac tamen eius modi, quo uti ad vulgus nullo modo possit (de orat. iii 66). La caratterizzazione di acutus è negli scritti ciceroniani una prerogativa pressoché costante riferita al caposcuola Crisippo: ut eum quem acutissimum ferunt Chrysippum (de orat. i 50); quam quidem certationem homo et acutus et diligens Chrysippus (fin. ii 14); et Chrysippus tibi acute dicere videbatur (nat. deor. iii 25). La critica di Cicerone all’acutum dicendi genus è rivolta soprattutto all’inefficacia delle sottigliezze retoriche e delle strategie dialettiche degli Stoici, che incalzano l’interlocutore con le loro argomentazioni, che prima scoprono e poi nascondono, come fossero acumina: ad extremum ipsi se compungunt suis acuminibus et multa quaerendo reperiunt non modo ea, quae iam non possint ipsi dissolvere, sed etiam quibus ante exorsa et potius detexta prope retexantur (Cic. de orat. ii 158) e ancora in parad. 2 e fin. iv 7 (pungunt quasi aculeis interrogatiunculis angustis). qui reliquit … libri: la lezione di F è lei libri, possibile corruttela di III libros o di IIII libros, «ut Diogenes tradit» come osserva Spengel 1858 p. 9, sulla base delle indicazioni sulla produzione crisippea provenienti da Diogene Laerzio vii 192, che attribuiva con certezza al caposcuola stoico un Περὶ τῆς κατὰ τὰς λέξεις ἀνωμαλίας in quattro libri (cfr. Introduzione § 3.2). Vahlen 1908, pp. 334-335, sulla scorta dell’Aldina che leggeva his libris, intende diversamente la pericope di testo e separa la iunctura corrotta dal titolo dell’opera: homine acutissimo, qui reliquit Περὶ ἀνωμαλίας, iis (ieis) libris contra analogian atque Aristarchum est nixus.

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contra … est nixus: per l’espressione cfr. Cic. Sest. 103 e Tusc. i 50. La medesima accusa viene mossa a Cratete anche nella parte finale del v libro della Poetica di Filodemo, che fornisce la testimonianza più dettagliata sulle teorie cratetee sulla valutazione della poesia. In un passo conservato in doppia copia nei due papiri che trasmettono il v libro filodemeo, il P.Herc. 1425 e il P.Herc. 1538, alla col. xxiv 27-32 (= fr. 101b Broggiato), Cratete viene accusato di «travisare (ἀποτυγχάνειν) le opinioni di Eracleodoro e di coloro che concordano con lui» (Broggiato 2001, pp. 260-261). ut scripta indicant eius: degli scripta di Cratete cui fa riferimento Varrone non si conoscono i titoli, ma in particolare nessun frammento della tradizione indiretta rimanda ad un’opera interamente dedicata all’anomalia grammaticale. Gli unici due titoli conservati delle opere di Cratete riguardano l’esegesi dei testi omerici (vd. Broggiato 2001, pp. xx-xxi e Introduzione, p. 53 n. 17): probabilmente Varrone, o la fonte da cui cita, si riferisce alla produzione cratetea in toto, pressoché contemporanea a quella di Aristarco e quindi verosimilmente ‘costellata’ di reciproci attacchi più o meno diretti. È possibile che parte della rivalità sia nata proprio dal comune impegno nell’esegesi omerica e, in particolare, attorno alla prassi interpretativa dei testi dell’Iliade e dell’Odissea, in cui la scuola stoica si distingueva per l’uso dell’allegoria. A titolo di esempio, Strabone i 2, 24-25 (= fr. 37 Broggiato) riferisce della discussione di Cratete e Aristarco su un passo del primo libro dell’Odissea (α 22-25) in merito alla corretta collocazione geografica degli Etiopi, per cui viene riportato un vero e proprio ‘botta e risposta’ tra i due, con relative proposte di lettura del passo interessato. Come sintetizza Montanari 1993, p. 274 «la polemica tra Cratete e Aristarco si svolse sul terreno dell’omeristica […]. Secondo Cratete, Omero era un poeta che utilizzava allegorie nei suoi poemi, mentre secondo Aristarco, Omero non lo faceva e perciò l’esegesi allegorica non aveva spazio di applicazione. È una divergenza di metodo critico che è anche una divergenza di interpretazione della poetica». de inaequabilitate … sermonis: inaequabilitas, che qui traduce il termine greco ἀνωμαλία, è un conio varroniano che nasce sulla base del suo antonimo aequabilitas (vd. infra). Il termine inaequabilitas ritorna solo altre due volte nel De lingua Latina. Nell’ottavo libro, in due passi a breve distanza l’uno dall’altro, si può seguire la graduale evoluzione del termine da sino-

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mimo di differentia e diversitas (ThlL vii 1, 809, 63-71) a vocabolo tecnico per indicare l’anomalia linguistica: itaque in vestitu cum dissimillima sit virilis toga tunica‹e›, muliebri‹s› stola pallio, tamen inaequabilitatem hanc sequimur ni[c]hilo minus (viii 28); quare cum, ut in vestitu ‹a›edificiis, sic in supellectile cibo ceterisque omnibus quae usus ‹causa› ad vitam sunt assumpta dominetur inaequabilitas, in sermone quoque, qui est usus causa constitutus, ea non repudianda (viii 30). Rispetto ad anomalia o dissimilitudo, altra variante terminologica di anomalia più diffusa nell’opera del Reatino (12 occorrenze ‘tecniche’ del vocabolo su 16, secondo Marini 2009, p. 205), il termine inaequabilitas appare quanto mai efficace per condensare l’assunto teorico crisippeo espresso subito dopo, ovvero l’incoerenza tra ‘significante’ e ‘referente’ che è alla base del linguaggio. similes res dissimilibus verbis et dissimiles similibus: la complessità di rapporti tra σημαίνοντα, σημαινόμενα e τυγχάνοντα (SVF ii fr. 166) elaborata da Crisippo viene semplificata nell’esposizione varroniana attraverso la contrapposizione tra res e verba. Si tratta di due termini che compaiono spesso nei libri viii-x del De lingua Latina, anche se, come avremo modo di vedere per tutta la terminologia tecnica grammaticale di Varrone, il loro significato tende ad oscillare tra diverse accezioni, difficilmente riconducibili ad un’unica definizione. A questa difficoltà si deve aggiungere la presenza di termini molto vicini a res, come ad esempio materia, e termini assimilabili a verbum, come figura e vox, che ora li specificano ora li sostituiscono. In linea generale, comunque, res indica il ‘referente’, l’oggetto designato attraverso la parola, mentre verbum riassume in sè il concetto di ‘significante’, ovvero il σημαῖνον stoico (Roesch 1999). Nel rifiutare la tripartizione stoica tra parole, cose e interpretazioni, per attenersi ad una opposizione binaria in cui rimangono solo parole e cose, Varrone si colloca nella tradizione aristotelica e alessandrina, ma anche epicurea (vd. fr. 2592 Us. e 147 Arr. per l’opposizione binaria φωναί e τυγχάνοντα): così si spiega l’uso della medesima coppia verba/res in Lucrezio; cfr. Dionigi 20053, p. 107. Aristarchus, de aequabilitate cum scribit: come sopra accennato, la coppia di antonimi aequabilitas/inaequabilitas traduce il greco ἀναλογία/ ἀνωμαλία. A differenza di inaequabilitas, che è un hapax varroniano, aequabilitas è termine ampiamente diffuso nella prosa ciceroniana, anche se in accezioni diverse da quella grammaticale. In orat. 21, l’aequabilitas è pre-

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rogativa dell’orator medius il quale, in dicendo fluit nihil afferens praeter facilitatem et aequabilitatem, mentre nel De natura deorum (ii 15) è la regolarità che governa il mondo, una sorta di constantia ordinum. Infine, il termine viene impiegato anche nel De re publica (i 43 e i 53) come traduzione del termine greco ἰσονομία (Fantham 1973).

‹in› inclinatione[s] sequi iubet: inclinatio è un altro tecnicismo introdotto nel De lingua Latina attraverso la specificazione in senso grammaticale di un termine coniato sul greco ἔγκλισις, che vede le prime occorrenze nella prosa ciceroniana con una molteplicità di accezioni. Per indicarne solo alcune, inclinatio è usato da Cicerone in riferimento alla teoria atomistica (παρέγκλισις), dove è inclinatio atomorum (nat. deor. i 73), e ancora (in de orat. ii 129 e Mur. 53) l’inclinatio voluntatis è la ‘disposizione d’animo’. Nelle due occorrenze nel De lingua Latina, il termine sembra confondersi con il più comune declinatio e, in effetti, nella voce del ThlL vii i 940, 27, i due vocaboli vengono considerati come perfetti sinonimi. In realtà, come si vedrà più avanti, declinatio, oltre a derivare da un altro sostantivo greco (κλίσις), sembra essere usato da Varrone con un senso più ampio di ‘formazione di parola’ cioè flessione, composizione e derivazione. Diversamente, inclinatio si può tradurre, circoscrivendo il significato, con il solo termine ‘flessione’. Questa traduzione si giustifica alla luce del fatto che la grammatica alessandrina, cui Varrone si sta riferendo in questo passo, riconosceva esclusivamente il principio della flessione, come ha evidenziato Barwick 1922, p. 179. Nella grammatica più tarda, inclinatio si specializzerà nel senso di modus (modo verbale: vd. Diom. GL i 334, 12 e i 338, 13, dove è modum sive inclinationem) sul modello del termine tecnico greco ἔγκλισις (cfr. ad es. Ap. Dysc. Synt. iii 88 [= 346. 3]). 2. partim … consuetudinem partim rationem: in questa anticipazione della struttura dialettica del libro ix, appaiono i due termini che più frequentemente Varrone usa per definire le posizioni antitetiche delle due scuole di pensiero: nella prassi linguistica degli anomalisti il principio guida è quello della consuetudo, mentre da parte analogista si predilige il principio della ratio, la regola. Consuetudo e ratio sono termini molto comuni, già ampiamente diffusi nel dibattito sull’eloquenza (nella contrapposizione tra atticismo e asianesimo) nonché criteri irrinunciabili nel delectus verborum

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dell’oratore: solum quidem, inquit ille, et quasi fundamentum oratoris vides locutionem emendatam et Latinam, cuius penes quos laus adhuc fuit, non fuit rationis aut scientiae sed quasi bonae consuetudinis (Cic. Brut. 258). quod consuetudo et analogia coniunctiores sunt: è già un primo spunto di quello che sarà il tentativo di conciliazione tra le due posizioni antitetiche, cui Varrone dedica gran parte di questo libro e del successivo, attraverso l’introduzione del concetto di declinatio, specificato ulterioremente al § 34 in declinatio naturalis e declinatio voluntaria, per spiegare la coesistenza nella lingua di anomalia e analogia.

3. quod est nata ex quadam consuetudine analogia: che la ratio nasca da una forma di consuetudo è dato acquisito già dalla scuola aristarchea. Infatti, secondo la testimonianza di Sesto Empirico (adv. math. i 202 e 205), questa particolare teoria ‘conciliativa’ risalirebbe a Tolomeo Pindarione, allievo di Aristarco. Vissuto probabilmente attorno al II sec., filologo ed esegeta omerico, come lascia pensare il gran numero di citazioni che proviene dagli scoli omerici di Didimo ed Erodiano, si occupò anche della teoria grammaticale vera e propria (Montanari 1981, pp. 97 ss.). Nel passo di Sesto Empirico, Pindarione viene citato nell’ambito di un’ampia sezione (§§ 196-208) dedicata alla teoria grammaticale, con la consueta contrapposizione tra analogisti alessandrini e anomalisti pergamenei. In particolare si discute su quale sia la forma corretta di lingua greca, o meglio sul criterio da seguire per stabilire qual è il greco corretto. Una delle argomentazioni della parte anomalista è quella che anche l’analogia si fonda sull’uso: conviene pertanto seguire esclusivamente la συνήθεια. La replica è allora ‘affidata’ a Pindarione, il quale accetta l’osservazione che l’analogia prende le mosse dalla consuetudine comunemente accettata (§ 202 ἀναλογία ὁμολο γουμένως ἐκ τῆς συνηθείας ὁρμᾶται), ma ribatte che la lingua greca comunemente osservata e ammirata da tutti è quella omerica: pertanto sarà da preferirsi la συνήθεια di Omero (ποίημα γὰρ οὐδὲν πρεσβύτερον ἧκεν εἰς ἡμᾶς

τῆς ἐκείνου ποιήσεως· διαλεξόμεθα ἄρα τῇ Ὁμήρου κατακολουθοῦντες συνηθείᾳ). Se così fosse, ribatte subito Sesto (ibid. 205), parleremmo in modo sicuramente ridicolo, e dovremmo dire μάρτυροι (Hom. Il. ii 302) al posto di μάρτυρες e σπάρτα λέλυνται (Hom. Il. ii 135) invece di σπάρτα λέλυται. È notevole il fatto che Sesto, riferendosi a questa teoria, parli di οἱ

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ἀπὸ Πινδαρίωνος, alludendo ad una cerchia di allievi che avrà forse divulgato

un pensiero in parte analogo a quello di Varrone. Anche se l’affermazione

ἀναλογία ὁμολογουμένως ἐκ τῆς συνηθείας ὁρμᾶται (§ 202) sembra confer-

mare questa ipotesi, nella sostanza (§ 205) il pensiero dei due eruditi è molto diverso: Pindarione da buon esegeta di Omero auspicava una sorta di consuetudo omerica, giustamente ritenuta anacronistica da Sesto, mentre Varrone è ben consapevole dell’evoluzione linguistica (come dirà dopo al § 17 verba perperam dicta[m] apud antiquos aliquos propter poetas non modo nunc dicuntur recte, sed etiam quae ratione dicta sunt tum, nunc perperam dicuntur) che non va arginata ma semmai sottoposta ad una selezione secondo i canoni dell’analogia. consuetudo … constat: l’importante definizione di consuetudo viene incastonata in un lungo iperbato. Con Taylor 1974, p. 50 si può notare come il termine nel De lingua Latina «refers to the presence of skewness in language and is used by Varro in both a synchronic and a diachronic sense». Il periodo è ritenuto incompleto dalla maggior parte degli editori moderni, che segnalano una lacuna tra ex hac e consuetudo e suggeriscono diverse congetture. Mueller propone di integrare la pericope consuetudinem item anomalia. Itaque … Leggermente diversa l’ipotesi testuale di L. Spengel (consuetudinem item anomalia. Quare quoniam), che interviene anche sul tràdito eorum quod volgendolo in eorumque. Diversamente, Goetz-Schoell segnalano la lacuna, ma confermano la correzione eorumque. Appare tuttavia preferibile il tentativo di Canal di preservare il testo («ho lasciato intatta la lezione de’ codici, ancorché si reputi universalmente errata; perché […] dà un senso giusto e migliore a mio avviso di quello che è dato dalla correzione del Mueller», p. 554), riferendo eorum a similibus senza modificare il tràdito eorum quod. nisi si non est homo ex anima: analogia e anomalia appartengono alla lingua così come il corpo e l’anima all’uomo. Secondo Baier 2001, p. 18, tramite il paragone del corpo e dell’anima, Varrone traccia un parallelo con l’impianto etico dell’uomo e pone l’evoluzione linguistica nel contesto di una teoria ascendente sull’origine della cultura. La compresenza di corpo e anima e quindi la duplice natura dell’uomo compare anche in un frammento del Liber de philosophia di Varrone, compendiato da Agostino nel De civitate Dei xix 1-3 = fr. 4, 2-14 Lang.: [Varro] quid sit ipse homo, quae-

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rendum putat, sentit quippe in eius natura duo esse quaedam, corpus et animam, et horum quidem quorum melius esse animam longeque praestabilius omnino non dubitat, sed utrum anima sola sit homo … an corpus solum sit homo … an vero nec anima sola nec solum corpus, sed simul utrumque sit homo, cuius sit pars una sive anima sive corpus, ille autem totus ex utroque constet, ut homo sit. Più avanti, al § 30, Varrone affronterà la suddivisione dell’anima secondo la dottrina stoica.

4. prius de trinis copulis discernendum: come nel resto dell’opera, Varrone organizza la materia da esporre in modo dialettico, attraverso coppie e/o terne di termini in opposizione. La struttura ternaria (Collart 1954, p. 35 parla di una sorta di «règle de trois»), in particolare, è alla base dei libri morfologici del De lingua Latina: oratio natura tripartita esset … cuius prima pars, quemadmodum vocabula rebus essent imposita, secunda, quo pacto de his declinata in discrimina ierint, tertia, ut ea inter se ratione coniuncta sententiam efferant (viii 1). In questo passaggio, vengono usate tre coppie di criteri distintivi, definiti copulae. Il termine copula è di non facile interpretazione nonché traduzione e compare altre due volte nel De lingua Latina: in viii 10 (igitur et in his rebus quae sunt nomina, quod discrimina vocis plura, propagines plures, et in his rebus quae copulae sunt ac iungunt[ur] verba ) e x 33 (accedunt ad has species a copulis divisionum quadrinis: ab infecti et perfecti…). Nella prima di queste due attestazioni, il significato di copulae è senza dubbio quello di ‘congiunzioni’, mentre nel secondo caso si tratta di ‘coppie di distinzioni’ (etimologicamente vicino all’italiano ‘coppia’). Quest’ultimo è sicuramente il più vicino al significato che copula sembra presentare in questo passo del nono libro, in cui Varrone indica le coppie di criteri entro cui delimitare il linguaggio. de copulis naturae et ‹u›suis: il primo dei discrimina, apparentemente oscuro, si chiarisce con gli esempi presentati al § 38: quo neque a terra terrus ut dicatur postulandum est, quod natura non subest, ut in hoc alterum maris, alterum feminae debeat esse; sic neque propter usum, ut Terentius significat unum, plures Terentii, postulandum est, ut sic dicamus faba et fabae: non enim in simili us‹u› utrumque. Ovvero, nell’applicazione dell’analogia esistono dei limiti, costituiti da un lato dalla corrispondenza tra linguaggio e realtà

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naturale (natura), in virtù della quale non si creano parole che non hanno senso in natura, e dall’altro dal discrimen dell’uso linguistico, che limita la creazione di forme non necessarie (come, ad esempio, il plurale di faba, che manca in latino, perché la parola è singulare tantum: vd. § 38). Risulta pertinente la congettura di Spengel volta a restituire appieno la forma di genitivo arcaico usuis che ha un’altra occorrenza (anch’essa ricostruita per congettura dal filologo tedesco) in x 73 (usui‹s› species videntur esse tres) corroborata dalla testimonianza di Aulo Gellio iv 16, 1 in cui si fa esplicito riferimento alla predilezione varroniana per tale forma in -uis: M. Varronem et P. Nigidium, viros Romani generis doctissimos, comperimus non aliter elocutos esse et scripsisse, quam senatuis et domuis et fluctuis, qui est patrius casus ab eo, quod est senatus, domus ‹,fluctus›; huic senatui, ‹domui,› fluctui ceteraque is consimilia pariter dixisse. Effettivamente l’uso del genitivo in -uis del temi in -u è un tratto distintivo dello stile varroniano (Traglia 1993, p. 722), probabilmente una forma antica di derivazione locale (un sabinismo per Leumann 1977, p. 442). ‘

haec enim duo sunt quod †erigunt diversa: la forma tràdita erigunt non è pertinente al contesto. L’ipotesi avanzata da Spengel nel 1830 tenta di recuperare il testo con una minima integrazione, ‹d›erigunt: gli editori Goetz-Schoell, che lasciano intatto il testo, riportano la congettura in apparato e vi accostano dubitanter l’alternativa quo deriguntur sulla base del confronto con x 74 (quae derigitur ad naturam verborum). Tuttavia, se le altre occorrenze del verbo nel De lingua Latina sembrano convergere con il senso del passo e afferiscono allo stesso ambito semantico (referre, accommodare ad aliquid, vd. ThlL v 1, 1238, 50-53), la mancanza della caratteristica costruzione del verbo con ad e accusativo nel passo in questione rende meno plausibile questa ipotesi. de copulis multitudinis ac finis: il secondo criterio riguarda le limitazioni della correzione analogistica, che non deve essere applicata alle forme errate ormai fortemente radicate nell’uso. Anche questo secondo discrimen, come il precedente, enunciato qui in modo apodittico fino all’oscurità, verrà poi spiegato in seguito, al § 35 (neque ideo statim ea in omnibus verbis est sequenda: nam si qua perperam declinavit verba consuetudo, ut ea aliter sine offensione multorum ‹efferri non possint›, hinc [o]rationem verborum praetermittendam ostendit loquendi ratio). La difficoltà nella comprensione

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di questa sezione di testo è dovuta anche a una corruttela che spezza l’interrogativa indiretta disgiuntiva (utrum … an). La proposta di Mueller (seguita da Canal e Kent) ha il pregio di preservare la duplicità di condizioni cui fa riferimento il termine copula; diversamente, altre proposte di emendazione (vd. Goetz-Schoell in apparato critico) non fanno che accrescere tali discrimina, interrompendo così l’insistito parallelismo binario che predomina in questa sezione del libro.

5. oratoris et poetae: il terzo criterio (de copulis personarum) riguarda la linea di confine tra linguistica e stilistica: il poeta e l’oratore hanno, in diversi gradi, maggiori ‘licenze’ linguistiche. Le eccezioni concesse al poeta e all’oratore sono argomento di discussione anche in Cicerone, che nell’Orator (§§ 77-79) si pronuncia a favore di una diligens neglegentia per l’oratore, e ancora più polemicamente, al § 155, si rivolge contro i fautori di un’analogia che pretende di correggere addirittura le forme poetiche di Pacuvio e Accio. Molto netta appare inoltre la distinzione che l’Arpinate traccia, sempre nell’Orator (§ 202), tra lingua della prosa e lingua della poesia (transferunt [sc. poetae] verba cum crebrius tum etiam audacius et priscis libentius utuntur et liberius novis) dal momento che è prerogativa di quest’ultima la possibilità di un uso più disinvolto di neologismi e arcaismi. Ed è proprio l’uso dei verba inusitata che distingue ulteriormente la prassi poetica da quella oratoria: le due discipline, pur essendo molto vicine (poetis … est proxima cognatio cum oratoribus, de orat. iii 27), non godono della medesima licentia nella scelta del lessico. In questo, le posizioni di Cicerone e Varrone coincidono perfettamente (cfr. anche Cic. de orat. i 70 est enim finitimus oratori poeta, numeris adstrictior paulo, verborum autem licentia liberior, multis vero ornandi generibus socius ac paene par; in hoc quidem certe prope idem, nullis ut terminis circumscribat aut definiat ius suum, quo minus ei liceat eadem illa facultate et copia vagari qua velit). Va notato che sia Varrone che Cicerone, per indicare le potenzialità delle diverse categorie di parlanti, ricorrono spesso a termini come ius, facultas, licentia, potestas, mutuati dal lessico giuridico.

6. ut … gubernator … , sic populus: tra le varie modalità esemplificative cui ricorre Varrone, la più rara è sicuramente quella della comparatio, cui preferisce (come si vedrà in seguito) una meno sofisticata serie di esempi e

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raffronti tratti dalla quotidianità e presentati semplicemente in forma di elenco. L’intento è di sintetizzare e chiarire il concetto appena espresso: è cioè necessario, quasi un dovere civico, che il popolo si affidi ad un criterio linguistico ben preciso al quale a sua volta si uniformerà il singolo parlante. L’autorità della ratio agisce sul popolo, mentre l’autorità del popolo ha la meglio sull’arbitrio di ciascuno: il passaggio è duplice e ben rappresentato dal confronto col gubernator che agisce dietro comando altrui ma che ha la responsabilità su ciascun membro del suo equipaggio. La comparatio deve la sua efficacia soprattutto al valore topico dell’immagine del comandante nella pratica retorica: in Cicerone inv. i 58 (nam navis optime cursum conficit ea, quae scientissimo gubernatore utitur) il motivo è inserito a titolo di esempio nella probatio, mentre nel De re publica l’immagine del gubernator è strettamente connessa con l’ideale del buon governo (ad es. v 8 = Att. viii 11, 1 ut enim gubernatori cursus secundus, medico salus, imperatori victoria, sic huic moderatori rei publicae beata civium vita proposita est, ut opibus firma, copiis locuples, gloria ampla, virtute honesta sit; huius enim operis maximi inter homines atque optimi illum esse perfectorem volo). In questo senso, è possibile tracciare un parallelo tra la discussione sui due principi della consuetudo e della ratio in campo linguistico e la dicotomia tra natura e ratio sull’origine delle leggi, ampiamente dibattuta da Cicerone nel primo libro del De legibus. si animadvertes, intelleges: espressioni come queste, in seconda persona, che richiamano direttamente l’attenzione del lettore, sono circoscritte ai soli libri ottavo e nono. Sulla base di questa constatazione, Ax 1995 = 2000 ha ipotizzato che questo tipo di Anredeform sia indizio di quello che nell’intento dell’autore dovevano essere a livello formale l’ottavo e il nono libro del De lingua Latina, e cioè un dialogo a tutti gli effetti. La riprova di questo sarebbe la veste formale della disputatio in utramque partem (vd. Introduzione, pp. 26-27). A questo va aggiunto che tali espressioni sono anche riferibili all’intento didascalico che percorre tutta l’opera. Non solo il richiamo all’attenzione del lettore-discente, ma anche la tecnica digressiva, gli exempla che puntellano l’esposizione teorica di Varrone, appartengono in qualche modo alla prassi comune dell’opera didascalica. Con Conte 1991, p. 19, se ne possono sintetizzare così le caratteristiche principali: «il testo, mentre descrive e mostra le cose, insegna verità di cui il lettore diventa catecumeno. Messo in stato di ricettività (sta qui la funzione di appelli e

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invettive), il lettore è pronto ad ammirare e ad accogliere la descrizione come rivelazione privilegiata. La digressione e l’exemplum ritornano organici alla forma del testo […], come nella frase, l’attributo si trova aggiunto al sostantivo a completarne la modalità specifica e la qualificazione relativa al contesto, così gli exempla, le similitudini, le digressioni e le chiuse […] sono integrati al discorso di cui costituiscono il contenuto didascalico né più né meno che la dottrina trattata nelle parti tecnico-espositive». Nonostante la vistosa diversità di genere letterario e la complessità di un’indagine volta alla ricerca di connessioni contenutistiche tra l’opera lucreziana e il De lingua Latina (si veda in tal senso Deschamps 1997, pp. 108 ss. e 1998, assieme alle pertinenti osservazioni correttive in Pittà 2015, pp. 517-535) si avrà modo di notare nel corso dei prossimi paragrafi come alcuni stilemi memorabili della poesia didascalica del De rerum natura lucreziano siano presenti in alcuni passi altamente significativi del De lingua Latina. Anche le forme di richiamo all’attenzione, come intelleges o non vides (ix 31), hanno importanza in questo senso. In Lucrezio, infatti, nonne vides, non cernis, vides sono stilemi di carattere formulare (presenti soprattutto nelle sezioni ad elevato contenuto tecnico del secondo e quinto libro) che rispondono alla ricerca «di una formula che, in un serrato contesto didattico, permettesse di deviare dal succedersi delle argomentazioni tecniche, ed introdurre brevi digressioni descrittive ed esemplificative» (Schiesaro 1984, p. 151); con la stessa funzione appaiono nell’argomentare varroniano. utrum dicatur analogia … sit in populo: i tentativi di sanare l’ultimo periodo del § 6, che manca di senso compiuto, non sono condivisibili. Sicuramente l’interrogativa indiretta utrum … an ha lo scopo di distinguere due problemi di diversa natura, il primo riguardante l’esistenza dell’analogia (dicatur analogia esse), il secondo la necessità della sua applicazione che ha per corollario (ma qui inizia la corruttela testuale) il problema dei diversi livelli di fruizione, come lascia supporre la distinzione in populum e in eum qui sit in populo, tra la comunità dei parlanti e i singoli parlanti. Si tratta di una distinzione teorica, perché la consuetudo populi predomina su quella dei singoli: questo stesso discrimen tornerà anche alla conclusione del libro, al § 114. Le proposte di emendazione che da Mueller in poi si sono avanzate per sanare il passo sono quasi delle riscritture: uti oportere[t] ‹ea et quom poscitur ut usus ad id quod oporteret› redigeretur dici id in populum aliter ac [inde omnibus dici] in eum qui sit in populo (Mueller ad loc.); uti oportere et

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redigere ‹ad eam verba,› tum dici id in populum aliter ac in eum qui sit in populo (Reiter 1882, p. 42). Infine l’audace proposta avanzata in apparato critico da G.-S.: uti oportere[t] ‹ea itemque intelleges si ad analogiam usus loquendi› redigeretur, dici id in populum aliter ac ‹in singulos nec› i‹de›m de omnibus dici in eum qui sit in populo. Nonostante le massive integrazioni al testo, la soluzione ipotizzata dall’edizione teubneriana è seguita, pur con qualche modifica, da Kent e riproposta anche da Traglia che così traduce ad loc.: «comprenderai se si vuol alludere all’esistenza dell’analogia o alla necessità della sua applicazione. Analogamente, comprenderai che se si adegua all’analogia la pratica del parlare, bisogna che si distingua riguardo al popolo e riguardo ai singoli, ché la stessa cosa che vale per tutti può non valere nei confronti di un particolare individuo».

7. nunc iam primum dicam pro universa analogia: il passaggio è parallelo a viii 25 (quod huiusce libri est, dicere contra eos, qui similitudinem sequuntur … dicam prius contra universam analogiam, dein tum de singulis partibus). In queste sequenze introduttive, Varrone enuncia programmaticamente la struttura dialettica dei libri viii e ix: la stessa prassi si riscontra anche nella sezione etimologica. Nonostante la triade teorica sull’etimologia sia andata perduta, nel libro v, il primo della triade ‘pratica’ (cfr. schema alle pp. 18-19), si accenna al § 1 all’organizzazione dei libri precedenti: de his tris [sc. ii-iv] ante hunc feci quos Septumio misi: in quibus est de disciplina, quam vocant ἐτυμολογικήν: quae contra eam dicerentur, volumine primo, quae pro ea, secundo, quae de ea, tertio. dicam: come giustamente rilevato dal Dahlmann (1932/1997, p. 80), Varrone dimostra un forte assenso con la materia esposta nel ix libro, in cui ricorrono molto più frequentemente che nell’viii libro espressioni in prima persona (§ 26 credo, § 31 equidem non dubito, etc.), soprattutto negli snodi principali dell’argomentazione in difesa alla tesi analogista (vd. infra § 34 ego… puto). non modo ‹non› videatur esse: il costrutto non modo (non) … sed etiam, usato con moderazione nel De re rustica, è raro nelle parti superstiti del De lingua Latina. Le occorrenze sono significativamente concentrate nel ix libro, spesso in punti controversi del testo tràdito (§ 19). In particolare, in

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queste righe del § 7 e poi al § 14, il testo presenta l’omissione della seconda particella negativa nella formula non modo non… sed etiam, da alcuni editori ritenuta una forma ellittica (vd. ad es. le osservazioni di Mueller e Canal ad loc.) sulla scorta dell’usus ciceroniano (ma su questo vd. le puntualizzazioni di Beier ad Cic. de off. i 21 p. 165; Wolff 1856, pp. 15-17; ThlL viii 1321, 35 ss). de singulis criminibus: il termine tecnico crimen, riferito alle accuse contro l’analogia, è connesso tematicamente al successivo solvi. La stessa terminologia giurisprudenziale ricompare al § 36 (singula crimina solvemus), al termine della prima parte della requisitoria sull’analogia che, come qui preannunciato, si divide in due momenti: la riflessione generale sull’analogia (pro universa analogia) e sulla necessità di applicarla nel linguaggio (cur in usu quodammodo sequenda) e, a seguire, il dibattito vero e proprio. Come in un dibattimento giudiziale, muovendo dallo status causae all’argumentatio defensoris, Varrone presenta in qualità di ‘avvocato difensore’ dell’analogia le argomentazioni contro le accuse mosse degli anomalisti. Questi paralleli con la prassi oratoria riconducono, da una parte, all’opera ciceroniana e, dall’altra, alla tecnica espositiva del poema didascalico lucreziano, che non di rado si rifà al modello dell’oratoria forense (Schiesaro 1987, pp. 45 e 52). et ea quae in priore libro sunt dicta: proprio in virtù della particolare strutturazione dei due libri viii e ix e della facies retorica-giudiziale di cui riveste la materia, Varrone riprende i crimina contestati nel libro precedente all’analogia, in modo che ne esca ‘assolta’. In realtà, non tutte le accuse rivolte all’analogia nell’viii libro vengono riconsiderate nel ix libro, nel corso del quale appaiono in qualche occasione anche critiche inedite, per le quali cioè non è possibile rintracciare un riferimento nel libro precedente (come ad es. ix 53-54, 81-88, 89, 90). Questa discrepanza tra viii e ix libro ha spinto Reitzenstein (1901, pp. 56 ss.) a distinguere nel ix libro due fonti, una cui riferire le sezioni che corrispondono con l’viii libro, e una seconda con la quale l’viii libro non avrebbe nessun vero legame (§§ 40-50, 70-71, 91-94, 95-110, 111-112). L’ipotesi non è condivisa da Dahlmann (1932/1997, p. 79), che pure suddivide con sicurezza per questi due libri il materiale proveniente dalle fonti greche tra ‘aristarcheo’, ‘crisippeo’e ‘crateteo’, ma non crede in questa Quellenforschung bipartita e spiega la discre-

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panza di argomenti tra i due libri come puro espediente letterario per amore di varietas. Più probabilmente questa eterogeneità (su cui vd. anche Collart 1954, pp. 149 ss.) rappresenta la conferma del complesso lavoro di rielaborazione operato da Varrone sul materiale grammaticale greco cui attingeva e che nell’articolata intelaiatura di quest’opera, forse non completamente rifinita dall’autore, trovava a fatica una simmetria perfetta.

8. rationem similitudinum: Spengel 1861, p. 295 ipotizzò la correzione rationem et similitudinem, basata sulla presunta sinonimia in questo passo dei due termini ratio e similitudo («Varro sagt für analogia sowohl ratio als similitudo, aber nicht ratio similitudinum»). Tuttavia, a supporto della lezione tràdita si può confrontare x 11 similitudinum … ratio, nonché considerare che l’antitesi binaria su cui si basa l’intero passo (da una parte la consuetudo, dall’altra la ratio similitudinum) e che viene anche confermata dalla specificazione successiva alterum si neglegat … alterum si sequatur, verrebbe affievolita con la modifica testuale proposta dallo studioso. Poco dopo si incontra la iunctura sine offensione, che viene ripetuta per ben cinque volte (§§ 5, 8, 16, 18, 35) in questi primi paragrafi del ix libro in riferimento all’usus linguistico del populus: non si riscontra invece nel resto dell’opera varroniana. Parallelo a sine offensione è il nesso sine reprehensione (anche in viii 66) preceduto da un quod evidentemente pleonastico.

9. nam ut, qui triclinium constrarunt … sic si quis in oratione: un’altra modalità esemplificativa particolarmente sfruttata da Varrone è quella del confronto con la vita quotidiana, con la realtà pratica. In questo caso, l’elemento su cui si basa il paragone è il triclinium: se uno dei tre letti ivi sistemati non è perfettamente allineato con gli altri, lo si dovrà correggere basandosi sull’uso comune e sul confronto con le altre sale tricliniari. Nel paragone varroniano tra oratio e triclinium, il verbum dispar viene paragonato al lectus impar. Per correggere l’irregolarità si userà in tutti e due i casi la consuetudo e la similitudo. Il paragone con l’arredamento di una casa non è nuovo nel De lingua Latina e proprio il triclinium si ritrova in viii 32 e ix 47, due passaggi in responsione: nel primo l’anomalista osserva che si preferisce la varietà all’uniformità anche nella scelta del mobilio, più pre-

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giato quanto più è originale, nel secondo l’analogista ribatte che invece c’è sempre una logica razionale nel modo di costruire gli oggetti d’arredamento, così come nella lingua. Il paragone ha in sé una certa pregnanza, perché individua correttamente il valore dell’ambiente domestico come spazio simbolico. Com’è noto, linguistica e antropologia hanno tra loro delle indubbie analogie metodologiche: l’antropologo cerca infatti di descrivere i sistemi culturali individuando un insieme di regole, una ‘grammatica’ dei comportamenti, prendendo a modello il metodo del linguista. Inedito sembra in questo contesto l’uso del verbo consterno (assimilato qui impropriamente a tego in ThlL iv 508, 60): il senso del passo è evidentemente quello di lectos tricliniares in triclinio ponere, con Forcellini iv 798 s.v. triclinium, i 2b. Più consueto in latino è il nesso triclinium sternere con il verbo semplice, per cui cfr. ad es. Cic. Mur. 75. Bene Kent ad loc. che intende ‘to arrange the dining-room’.

10. duo peccati genera sint in declinatione: secondo Varrone vi sono due tipi di errori nella flessione. Il primo riguarda la forma errata entrata nell’uso comune, il secondo la forma sbagliata ma non ancora di uso comune. Per gli anomalisti, la prima forma va accettata; per gli analogisti (e Varrone), anche se è nell’uso, non è comunque ammissibile. Tuttavia (come specifica infra al § 16) va fatta una distinzione tra errori più o meno facili da ‘estirpare’ dalla consuetudo: sint ‹in› consuetudine contra ratione‹m› alia verba ita ut ea facile tolli possint, alia ut videantur esse fixa. Proprio nel caso di una mala consuetudo, era già stata invocata al § 6 la necessità irrevocabile di correggere l’errore linguistico, che si verifica soprattutto nella fase particolarmente delicata dell’impositio nominum, nella quale gli uomini seguono più il loro capriccio che la regolarità, come spiegato in x 60 facile est enim animadvertere, peccatum magis cadere posse in impositiones eas quae fiunt plerumque in rectis casibus singularibus, quod homines imperiti et dispersi vocabula rebus imponunt, quocumque eos libido invitavit: natura incorrupta plerumque est suapte sponte, nisi qui eam usu inscio depravabit. Per il termine peccatum cfr. l’uso in Cicerone, ad es. de orat. i 124 oratoris peccatum si quod est animum adversum, stultitiae peccatum videtur.

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11. non sequitur, ut stulte faciant: il procedere è tipicamente retorico, prima con una serie incalzante di domande provocatorie (tecnicamente si tratta della figura della interrogatio, cfr. Cicerone, orat. 137 ut interrogando urgeat; vd. Elice 2003), poi nei paragrafi successivi (fino al § 17) con la successione ininterrotta di esempi e di similitudini tratti dalle situazioni più svariate. Come abbiamo già avuto modo di osservare nella nota ad intelleges (§ 6), anche in questo caso, l’incalzare delle domande retoriche, spesso di tipo negativo (non sequitur), costituisce un macroscopico stilema della prosa didascalica di Varrone. qui pueris in geniculis alligent serperastra: exemplum tratto dalla prassi medica, che spesso viene accostata da Varrone a quella del grammatico. Traglia 1976, p. 186 giustamente ricorda come la medicina fosse considerata al tempo alla stregua delle altre arti liberali: Cesare, secondo quanto ci riporta Svetonio (Iul. 42) riteneva coloro che professavano l’arte medica alla pari degli altri liberalium artium doctores, mentre Cicerone poneva la medicina tra le arti liberali non mediocris utilitatis (off. i 152). Nel De lingua Latina, il primo confronto tra le due artes si trova in v 8, il cuore della teoria etimologica varroniana: al quarto grado, il più arduo dei quattuor explanandi gradus delle origini delle parole, ubi est adytum et initia regis, Varrone auspica di arrivare attraverso la conoscenza scientifica; altrimenti vi giungerà per congettura (at opinionem aucupabor), come talvolta fa il medico di fronte al paziente ammalato (quod etiam in salute nostra nonnunquam facit cum ‹a›egrotamus medicus). Siebenborn 1976, pp. 117-118 dedica particolare attenzione a questo parallelo tra grammatica e medicina che compare, nell’ambito della discussione tra τέχνη ed ἐμπειρία, già negli scholia a Dionisio Trace (Schol. Vat. Dion. Thrax in GG i/iii 158, 8), in cui la grammatica viene definita ἀδελφή della medicina all’interno delle μικταὶ τέχναι: come la medicina è indispensabile per la salute, così la grammatica è basilare per insegnare a parlare correttamente. Il parallelo tra le due scienze è significativo: la natura biologica del linguaggio (che recentemente è stata ripresa, non senza polemiche, dalla linguistica di stampo generativista) era riconosciuta anche in Lucrezio. Nel v libro del De rerum natura (vv. 1028-1090), l’autore considera infatti il linguaggio come una facoltà innata della mente umana, che si sviluppa spontaneamente nel bambino, proprio come negli animali si sviluppano altre facoltà peculiari (Baier 2001, p. 9 e Camardese 2002).

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12. pictores Ap[p]elles … consuetudinem … non sunt secuti: come è avvenuto per la pittura, così nella lingua è necessario prescindere dalla consuetudo. Il confronto che viene istituito da Varrone è tra pittori greci di diverse generazioni e fama: da una parte, Micone, vissuto nel V sec. (e verosimilmente contemporaneo ai due sconosciuti Diore e Arimma), la cui fama però fu sempre offuscata dal rivale Polignoto (con il quale dipinse il tempio arcaico dei Dioscuri ad Atene), e dall’altra i famosissimi Apelle e Protogene, entrambi del IV sec. Puramente congetturale la ricostruzione dei due genitivi di presunti nomi di artisti greci Dioris e Arim‹m›ae (in F è dioros arim. me) sui quali si sono concentrati invano gli sforzi degli editori moderni: L. Spengel propone (in apparato) nella prima edizione di sostituire il testo tràdito con le forme Polygnoti e Arcesilai, mentre Mueller suggerisce sempre in apparato la coppia Cimonos e Eumari; infine Antonibon 1899, p. 136 ritiene di intravedere nella lezione di alcuni descripti (ad es. H che offre dyorosari me) l’indizio di un nome unico, Dioscoridis, ossia Dioscoride di Samo, il mosaicista di età greco-romana cui vengono attribuiti due quadretti a mosaico policromo ritrovati a Pompei (ora al Museo nazionale di Napoli); tuttavia il profilo biografico dell’artista (fine II secolo a.C.) non sembra allineato cronologicamente con quello degli altri artufices egregii citati nell’esempio. Al di là dell’impossibile ricostruzione del dettaglio testuale, è evidente che il confronto è di carattere proverbiale perché l’arte greca, in particolare la pittura greca di età classica, era vista a Roma in una prospettiva idealizzante (Robert 1995 e Bettini 2003, p. 59; sull’atteggiamento della società romana nei confronti dell’arte greca a Roma vd. ampia analisi in Saladino 1998 e per la funzione retorica della tematica artistica Baldo 2004, pp. 3849). I maestri greci di V e IV secolo rappresentavano la summa artistica della pittura di tutti i tempi: così è nel famoso excursus di storia dell’arte di Plinio il Vecchio (nat. xxxv 57-111) che aveva tra la sue fonti probabilmente lo stesso Varrone (vd. Robert 1995, p. 294, n. 17: forse la fonte era un’opera perduta o un libro delle Disciplinae; nelle Imagines vel Hebdomades era la ritrattistica ad avere con ogni probabilità un suo peso accanto ai profili biografici di uomini illustri). Il parallelo tra consuetudo linguistica e consuetudo pittorica è ancora più stringente se si considera il comune status privilegiato (potestas audendi) che condividono pittori e poeti: cfr. Hor. ars 9 (pictoribus atque poetis quidlibet audendi semper fuit aequa potestas). La stessa comparatio tra l’ars dicendi e la pittura è proposta da Cicerone nel Brutus

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(69-70): similis in pictura ratio est: in qua Zeuxim et Polygnotum et Timanthem et eorum, qui non sunt usi plus quam quattuor coloribus, formas et liniamenta laudamus; at in Aetione Nicomacho Protogene Apelle iam perfecta sunt omnia. Aristophanes improbandus, qui … ve[te]ritatem quam consuetudinem secutus?: come già detto al § 3.2 dell’Introduzione, Aristofane non è per Varrone uno dei protagonisti diretti della querelle, che nella sua ricostruzione riguarda la generazione successiva di esegeti, Aristarco e Cratete. L’esempio di Aristofane si riferisce probabilmente alle innovazioni del metodo di lavoro del filologo alessandrino, che per l’emendazione dei testi omerici avrà seguito potius veritatem quam consuetudinem (sulla presenza e sul ruolo dell’analogia nelle testimonianze aristofanee vd. Callanan 1987, pp. 107-122 e Ax 1990 = 2000). La ricostruzione stessa del termine veritatem è problematica: infatti, la lezione di F è veteritatem. Il termine, che sarebbe un hapax assoluto, nasce con ogni probabilità da un errore del copista (un raro caso di inserzione bilettere, cfr. Havet 1967, p. 339) influenzato dal nesso veterem consuetudinem di poco successivo. Veritatem è quindi correzione universalmente riconosciuta dagli editori a partire dall’editio princeps del Leto. A conferma di veritas in questo contesto, viene il confronto con un passo dell’Orator ciceroniano (155-162), in cui alla consuetudo viene contrapposto proprio il verum: § 156 quid verum sit, intellego: sed alias ita loquor, ut concessum est, … alias ut necesse est, … quod in his consuetudo varia non est; § 157 ‘scripserunt’ esse verius sentio, sed consuetudini auribus indulgenti libenter obsequor. Per il Sandys 1885, p. 172 il significato di verum è nel testo ciceroniano quello di «grammatically correct according to the law of analogy», ovvero ‘corretto secondo le regole grammaticali’. Si tenga poi presente che in ix 112, gli ‘indicatori’ verum e falsum sono utilizzati da Varrone per distinguere genericamente le forme esatte da quelle errate (qui dicit ‘hoc monti’ et ‘hoc fonti’, cum alii dicant ‘hoc monte’ et ‘hoc fonte’, … cum alterum sit verum, alterum falsum …). Concludendo, se l’exemplum dei due pittori ‘rivoluzionari’ (vedi supra) e questo su Aristofane innovatore sono veramente collegati tra loro, il termine consuetudo andrà inteso indicativamente come ‘prassi desueta’ che Apelle e Protogene superarono nella pittura, così come fece Aristofane che, nell’esegesi dei testi antichi, si sarà preposto come obiettivo primario il ripristino delle forme originariamente corrette.

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13. quod si viri sapientissimi et in re militari et in aliis rebus: il cuore dell’argumentatio varroniana è costituito da una serie di esempi tratti da ambiti sociali di fondamentale rilievo antropologico, come la disciplina militare, la giurisprudenza, la scuola, in cui si riscontra la fondante dicotomia consuetudo/ratio. L’allusione a viri sapientissimi innovatori sia nel campo militare sia in aliis rebus è forse un riferimento a figure come quella di Cesare (cfr. § 3.3), la cui lucida razionalità si esplicava in eguale misura nella tattica militare come nella grammatica analogistica: il De analogia fu composto, come dice significativamente Frontone (Parth. 9, p. 224, 12-17 v. d. H.) inter tela volantia, inter classica et tubas. Al di là delle suggestioni, il confronto tra res militaris e prassi linguistica ruota attorno al termine ratio, che è la regola linguistica ma è anche vocabolo tecnico che indica la tattica militare, come in Cesare (cfr. ad es. Gall. i 40, 8-9; ii 22, 1; iv 23, 5). Dal campo militare, tale accezione di ratio viene impiegata nel traslato in campo forense, come in Cic. Verr. i 33-34 (nunc quoniam pugnare contra me instituisti … necesse est istius modi rationi aliquo consilio obsistere. Tua ratio est ut secundum binos ludos mihi respondere incipias …).

14. an cum quis perperam consuerit quid facere in civitate … p‹o›ena[m] afficiemus: il parallelo è con la civilis ratio, che determina le regole della vita civile (cfr. Cic. rep. iii 4 ratio civilis et disciplina populorum). Come il linguaggio, anche la vita civile costituisce un fondamentale sistema di segni e di regole che fondano il diritto, cui Cicerone darà una definizione nel De legibus (i 28): neque opinione sed natura constitutum esse ius. In particolare, i toni di questo confronto (tra coscienza civile e coscienza linguistica) si avvicinano molto per la terminologia al genus iuridiciale. Afficere poenam è infatti una iunctura tecnica che ricorre spesso nell’oratoria ciceroniana (ad es. S. Rosc. 113; Phil. i 30 e ii 18; Balb. 18; Cluent. 129 e 170; cfr. ThlL i 1210, 47-50). La pregnanza del parallelo tra comportamento linguistico e comportamento civile viene rafforzata anche dalla doppia valenza semantica di error: da una parte quello linguistico e dall’altra l’error iuris, ovvero l’infrazione della legge (cfr. Cic. inv. i 41).

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15. et hi qui pueros in ludum mittunt… idem barbatos: una sorta di invito ad una ‘alfabetizzazione’ che coinvolga non solo i pueri ma anche i barbati, qui ignorabunt verba quemadmodum oporteat dici. Il termine ratio ricorre anche in questo esempio, sotto forma del nesso particolarmente allusivo qua ratione (accostabile a quo modo), molto raro in Varrone (cfr. rust. i 2, 28).

16. sed ut nutrix pueros … cum ratione modice traducere oportet: l’argomento di questa similitudo è sicuramente proverbiale (cfr. Otto 1890, pp. 247-248). Come la nutrice deve usare gradualità nello svezzamento del bambino (non subito avellit a consuetudine), così si deve essere graduali (modice traducere oportet) nell’impartire le nozioni linguistiche ai discenti. Lo stesso motivo si ritrova in Cic. de orat. ii 39, 162 (ego autem si quem nunc rudem plane institui ad dicendum velim, his potius tradam adsiduis … qui omnis tenuissimas particulas atque omnia minima mansa ut nutrices infantibus pueris in os inserant): l’iniziazione all’oratoria, dovrebbe avvenire con la stessa insistente gradualità che usano le nutrici con i piccoli. Un analogo parallelo ritorna in Quintiliano che auspica, nella fase dell’apprendimento, quin ipsis quoque doctoribus hoc esse curae velim, ut teneras adhuc mentes more nutricum mollius alant, et satiari velut quodam iucundioris disciplinae lacte patiantur (inst. ii 4, 5). Con questo sofisticato paragone, si conclude una parte dell’argumentatio pro analogia, condotta attraverso l’uso ripetuto della similitudo, che qui, più che rispondere ad una esigenza esornativa, è propriamente un locus dimostrativo, come da formulazione aristotelica (rhet. 1393b 4 ss.) e come si ritrova nella definizione della Rhetorica ad Herennium: similitudo est oratio traducens ad rem quampiam aliquid ex re dispari simile. Ea sumitur aut ornandi causa aut probandi aut apertius dicendi aut ante oculos ponendi (iv 46, 59); ante oculos ponendi negotii causa sumetur similitudo (iv 46, 60). Su questo espediente retorico poggia proprio lo schema dell’enthymema aristotelico (cfr. Lausberg 1969, pp. 199-200), che si può intravedere dietro la struttura argomentativa di questi paragrafi: la ratio è il parallelo probante condotto attraverso i motivi proverbiali sopra analizzati (cfr. ad. es. il concetto espresso al § 14: se è giusto punire chi ha l’abitudine di commettere reati), cui segue per via deduttiva la conclusio di interesse linguistico (allora è giusto correggere chi ha l’abitudine di parlare male). In generale, come si avrà

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modo di vedere, la tecnica retorica è presente a livello formale in tutta l’esposizione dei libri viii e ix, non solo nella presentazione della materia secondo la disputatio in utramque partem, ma anche, in forma meno evidente, nell’uso di singole figurae sententiae, come appunto l’accumulazione argomentativa o l’insistita interrogatio.

17. quas novas verbi declinationes … his boni poetae, maxime scenici … multum possunt in hoc: l’auctoritas poetica ha un ruolo importante nelle innovazioni linguistiche. Nei quattro canoni della Latinitas che Diomede (GL i 439, 15 ss.) e Carisio (p. 62, 14 ss. B.) attribuiscono a Varrone (fr. 115 G.-S.), l’auctoritas viene dopo natura, analogia e consuetudo. È l’ultimo criterio di correttezza linguistica cui rifarsi, ad illam quem ad modum ad aram sacram decurritur. Non enim quicquam aut rationis aut naturae aut consuetudinis habet, cum tantum opinione secundum veterum lectionem recepta sit nec ipsorum tamen, si interrogentur cur id secuti sunt, scientium. subigere: la scelta del verbo in un contesto metalinguistico (subigo non compare altrove nel De lingua Latina, ma è usato nel De re rustica in riferimento agli animali, come sinonimo di adsuefacio, cfr. OLD ii 2029, s.v. 4) richiama il famoso verso lucreziano at varios linguae sonitus natura subegit / mittere et utilitas expressit nomina rerum (v 1028-9) sull’origine del linguaggio. Sorge spontaneo il confronto di questi versi con viii 27 cum utilitatis causa verba ideo sint imposita rebus ut ea‹s› significent: la comune identificazione dell’utilitas (già presente nel pensiero epicureo di Ep. Hdt. 75-6; cfr. Schrijvers 1974) come fondamento dello sviluppo del linguaggio umano e stimolo all’impositio nominum è la conferma di congruenze anche a livello teorico tra le due opere. L’espressione consuetudine subigere aures populi è stata tradotta sulla scorta di Traglia con «imporre alle orecchie del popolo attraverso l’uso [sc. da parte dei poeti]» e non «abituare le orecchie all’uso» (come in Kent e Taylor 1974, p. 50), perché la consuetudo che qui intende Varrone è quella dei poeti (vd. Piras 1998, 102 n. 176).

‹et deteriora› meliora: l’integrazione di et deteriora (omissione probabilmente dovuta a un saut du même au même) è proposta di Canal. Rispetto

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alla soluzione di L. Spengel, che interviene su tutta la frase (ex melior deterior, ex deteriore melior), quella di Canal ha l’indubbio vantaggio di connettersi meglio alla bipartizione quaedam … melius, quaedam … deterius di poco sopra. consuetudo loquendi est in motu: Taylor 1974, p. 51 e n. 37 attribuisce alla sentenza un tono eracliteo («It would be a disservice to Varro’s erudition to overlook the Heraclitean tone of this sentence, for it denotes a descriptively valid tenet of linguistics and also connotes an epistemological assertion»), mentre Collart 1954, p. 272 osserva giustamente come l’idea di uno sviluppo progressivo della lingua avvicini il pensiero varroniano a quello epicureo, quale si ritrova in Lucrezio (vd. ad es. l’espressione omnia cum rerum primordia sint in motu, ii 308). Il costrutto esse in motu è nell’uso ciceroniano, cfr. ThlL viii 1537, 37-40. Il medesimo concetto si legge in Quint. inst. viii 3, 34 (et quae vetera nunc sunt fuerunt olim nova, et quaedam sunt in usu perquam recentia) e in Hor. ars 70-72 (multa renascentur, quae iam cecidere, cadentque / quae nunc sunt in honore vocabula, si volet usus, / quem penes arbitrium est et ius et norma loquendi). Questa osservazione lascia intravedere una certa prospettiva storica nella linguistica varroniana (sfiorando qui il problema del mutamento linguistico, che costituisce del resto una questione per molti versi aperta anche nelle teorizzazioni moderne, cfr. King 1969/1973), perché individua un’evoluzione diacronica (apud antiquos … nunc) nell’innovazione linguistica: gli errori introdotti nel sistema finiscono per grammaticalizzarsi e per diventare essi stessi ‘norma’.

18. [se]quam in ceteris rebus mala exempla: cfr. § 3. Si è inserita nel testo l’ottima congettura di Canal [se]quam che anche Goetz e Schoell accolgono nella loro edizione. Il tràdito sequar, oltre che sospetto per la forma singolare, sarebbe ripetizione del precedente sequemur (la stessa forma compare ben tre volte nella frase in questione). L’aggiunta del se si sarà determinata con ogni probabilità dall’antecedente necesse. Lysippus: dopo la sequenza di artisti greci citati al § 12, il parallelo tra lingua e storia dell’arte torna con un’altra figura leggendaria, lo scultore greco Lisippo la cui acme è fissata attorno al 328 a.C., certamente in concomi-

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tanza con Alessandro Magno, di cui fu l’artista prediletto e il ritrattista ufficiale (Arr. i 16, 7; Plut. Alex. 4; Cic. fam. v 12, 13; Hor. epist. ii 1, 240; sulla statuaria della famiglia reale macedone, cfr. infra § 79). Considerato il creatore del ritratto fisiognomico, si rivolse allo studio del corpo umano, a un ideale di bellezza che seppe incarnare nelle sue rappresentazioni di eroi e divinità; il suo contributo al progresso dell’ars è condensato nelle parole di Plinio il Vecchio (xxxiv 65): statuariae arti plurimum traditur contulisse capillum exprimendo, capita minora faciendo quam antiqui, corpora graciliora siccioraque, per quae proceritas signorum maior videretur. Non habet Latinum nomen symmetria, quam diligentissime custodiit nova intactaque ratione quadratas veterum staturas permutando, vulgoque dicebat ab illis factos quales essent homines, a se quales viderentur esse. Propriae huius videntur esse argutiae operum custoditae in minimis quoque rebus. 19. qui amissa ‹non› modo: l’integrazione di non davanti a modo qu‹a›erant è riconosciuta come necessaria a partire dal Vertranio e dallo Scioppio. Su questi casi di omissioni in presenza del costrutto non modo (non) … sed etiam, cfr. § 7 e nota relativa.

20. verbum quod novum … vitare non debemus: Varrone sembra puntellare con circospezione questa affermazione sulla liceità dei neologismi, che in apparenza sembra contraddire il celebre monito di Cesare tamquam scopulum sic fugias inauditum atque insolens verbum (fr. 2 Garcea = fr. 2, p. 146 Fun.). In realtà, la posizione di Varrone è chiarita da un passo inserito sia da Goetz-Schoell che da Funaioli tra gli incertae sedis fragmenta, in cui viene ripreso alla lettera il pensiero cesariano: ego insolens atque infrequens verbum proferre velut spina calcare devito (Varro, fr. 125 G.-S.= fr. 463 Fun.). Dunque, ciò che deve far evitare il neologismo è il fatto di essere insolens, cioè deviante rispetto al sistema linguistico, più che il semplice fatto di essere un neologismo in quanto tale. Se esso è infatti costruito secondo le regole (ratione introductum, come dice qui Varrone) è invece ammissibile. Il dibattito sull’opportunità dei neologismi è comunque presente anche in molti luoghi ciceroniani, ed in particolare nelle opere filosofiche, dove maggiormente si fa sentire l’inopia del lessico latino. Una straordinaria occasione di confronto tra i due autori sul problema dei verba nova è offerta

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da una sezione degli Academica Posteriora (i 24-25), dove gli interlocutori Varrone, Attico e Cicerone discutono brevemente sul modo più opportuno di rendere in latino i molti termini astratti filosofici greci. Contrariamente ad Attico, che propende per un uso più spregiudicato di nuovi termini dedotti dal greco, Varrone e Cicerone invocano una certa prudenza, il primo indicando comunque la possibilità di usare «occasionalmente parole mai sentite prima» (cfr. ibid. i 24 dabitis enim profecto, ut in rebus inusitatis – quod Graeci ipsi faciunt, a quibus haec iam diu tractantur – utamur verbis interdum inauditis), e il secondo restringendo il campo delle neoformazioni. Non vanno infatti ammessi nuovi termini greci oltre quelli che sono già di uso corrente (cfr. ibid. i 25 sed enitar ut Latine loquar nisi in huiuscemodi verbis, ut philosophiam aut rhetoricam aut physicam aut dialecticam appellem, quibus ut aliis multis, consuetudo iam utitur pro Latinis) e si dovranno semmai coniare nuovi vocaboli (aut enim nova sunt rerum novarum facienda nomina) oppure usare opportunamente quelli preesistenti con un senso mutato o specializzato (aut ex aliis transferenda). novitati non impedit vetus consuetudo: per la particolare costruzione di impedio vd. Hofmann-Szantyr 1965, p. 88. Come al § 10 alla teorizzazione dell’errore linguistico seguiva una serie di esempi di varia natura, così anche dopo questo enunciato teorico sul neologismo, Varrone inserisce una fitta sequenza argomentativa. Come in tutti gli altri aspetti della vita umana (in particolare nell’abbigliamento, nell’arte e nelle leggi), anche nella lingua non deve prevalere l’amor assuetudinis: sarebbe semplicemente una pretesa anacronistica, come se una donna chiamasse con vocaboli desueti i suoi vestiti e gioielli alla moda (quae mulier suum instrumentum vestis atque auri veteribus vocabulis appellat?). In ambito lessicale, per la contrapposizione tra i due poli opposti consuetudo e novitas, cfr. Cic. nat. deor. ii 96 (sed adsiduitate cotidiana et consuetudine oculorum adsuescunt animi, neque admirantur neque requirunt rationes earum rerum quas semper vident, proinde quasi novitas nos magis quam magnitudo rerum debeat ad exquirendas causas excitare). an non s‹a›epe veteres leges abrogatae novis cedunt?: la novitas riguarda anche l’insieme delle leggi, perché le veteres leges vengono spesso sostituite da quelle nuove. L’argomento giuridico ricorre spesso nella trattazione varroniana (come al § 14 sed etiam poenam afficiemus …) perché percepito dalla mentalità romana come il modello di sistema di regole per

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eccellenza (cfr. Daube 1969) e quindi particolarmente adeguato all’esemplificazione del sistema linguistico. Viceversa, risponde all’interesse etimologico e al gusto antiquario di Varrone la presenza massiccia (soprattutto nei libri v-vii) di lessico giuridico arcaico, di cui quest’opera è fonte primaria (cfr. in particolare Cenderelli 1973).

21. formis vocabulorum: con il termine forma nel De lingua Latina si indicano prevalentemente le varie forme flesse di un lessema; cfr. ThlL vi 1, 1079, 53 ss. e Garcea 2008, p. 81, n. 26 che segnala come passi paralleli viii 9, 33, 47; ix 101 e 109; x 56 e 70.

22. servos habet priscis nominibus: il riferimento alle modalità con cui venivano scelti i nomi per gli schiavi torna più volte negli exempla e nella teoria linguistica esposta nei libri morfologici: nel libro viii, dopo alcuni cenni al problema ai §§ 6 e 10, Varrone fornisce al § 21, a margine dell’esemplificazione del concetto di declinatio voluntaria, uno specimen della prassi onomastica a Roma per gli schiavi, che spesso si vedevano cambiare il nome originario con uno nuovo indicante semplicemente il paese straniero di provenienza o quello del padrone. Diversamente, al § 83 dello stesso libro si accenna alla ratio con cui venivano assegnati i cognomina ai liberti dopo la manumissio (con prassi diversa in caso di societatum et fanorum servi o servi publici Romanorum). Nel ix libro, il riferimento al mondo servile torna nell’esemplificazione sul genere grammaticale al § 59 (e solo per cenni è presente ai §§ 55 e 93); vd. nota relativa. Presuppone una prospettiva diacronica invece il richiamo formulato in questo paragrafo ai «nomi che si usavano una volta» per gli schiavi e che potrebbe riferirsi all’antica prassi dei nomi con suffisso in -por < puer (es. Marcipor, «lo schiavo di Marco»), poi caduta in disuso, testimoniata tra gli altri da Quint. inst. i 4.26; Plin. nat. xxxiii 26; Fest. p. 306 Lindsay (ma sulle controverse attestazioni epigrafiche e letterarie di questo usus vd. analisi in Cheesman 2009).

23. quae enim est pars mundi quae non innumerabiles habeat analogias?: l’intera sezione dei §§ 23-27 (che non trova paralleli nel libro viii)

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si può definire un excursus filosofico-scientifico, i cui contenuti sono disposti seguendo la suddivisione stoica del cosmo presente anche nel v libro del De lingua Latina nella ripartizione delle etimologie (Dahlmann 1932/1997, pp. 29 e 64). La divisione del cosmo secondo la dottrina stoica (esposta in Chrys. SVF ii fr. 528, 21 ss. λέγεσθαι δὲ κόσμον ‹καὶ› σύστημα ἐξ οὐρανοῦ καὶ ἀέρος καὶ γῆς καὶ θαλάττης καὶ τῶν ἐν αὐτοῖς φύσεων· λέγεσθαι δὲ κόσμον καὶ τὸ οἰκητήριον θεῶν καὶ ἀνθρώπων) è quella che si ritrova nel

sedicesimo libro delle Res divinae (fr. 226 Card. = Aug. civ. vii 6) dicit ergo idem Varro adhuc de naturali theologia praeloquens deum se arbitrari esse animam mundi, quem Graeci uocant κόσμον, et hunc ipsum mundum esse deum … adiungit mundum dividi in duas partes, caelum et terram; et caelum bifariam, in aethera et aera; terram vero in aquam et humum; e quibus summum esse aethera, secundum aera, tertiam aquam, infimam terram; quas omnes partes quattuor animarum esse plenas, in aethere et aere inmortalium, in aqua et terra mortalium. Seguendo questa stessa traccia, l’esposizione delle partes mundi di Varrone comincia dunque dal cielo (§§ 24-25), passa attraverso la teoria delle maree (§ 26), la terra (§ 27) e infine arriva ai corpora (§§ 2829): gli uccelli, gli animali acquatici e terrestri e infine l’uomo. Il parallelo probatorio che Varrone tenta di istituire per la difesa dall’analogia è tra la ratio linguistica e la ratio mundi: se tutto il cosmo è governato da una certa regolarità, non si può non ammettere che la ratio analogica sia anche nel linguaggio. Merita di essere notato come la sezione presenti consonanze formali e contenutistiche con il secondo libro del De natura deorum ciceroniano che coincide con l’esposizione dello stoico Balbo, in particolare con i §§ 40 ss. dedicati alla dimostrazione del logos o ratio divina che governa il mondo e in cui le parti del cosmo sono descritte in una sequenza analoga a quella del passo varroniano in questione. L’ascendenza posidoniana che gli studiosi hanno visto in alcuni passaggi del ii libro del De natura deorum (vd. discussione in Pease 1955, pp. 45-48 e Reinhardt 1921, pp. 121 ss.) è riferibile anche a questa sezione del ix libro (com’è noto, Posidonio di Apamea fu maestro sia di Cicerone che di Varrone) di cui Dahl mann 1932/1997 (pp. 48 e 64) ha evidenziato i tratti tipicamente posidoniani ai §§ 24 ss. Va altresì notato come un’esplicita affermazione sull’analogia tra la struttura della lingua e la struttura del mondo cui Varrone tende in questa sezione sia rintracciabile anche in Lucrezio, che pure parte da presupposti diversi. Ai versi 812 ss. del primo libro del De rerum natura, Lucrezio, nel ribadire la validità della teoria atomistica, afferma che

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gli atomi danno luogo, attraverso diversi motus, alla varietà dei corpi e dei fenomeni presenti in natura. A partire dal v. 823, viene introdotto il paragone con la realtà linguistica: quin etiam passim nostris in versibus ipsis / multa elementa vides multis communia verbis, / cum tamen inter se versus ac verba necessest / confiteare et re et sonitu distare sonanti. L’equipollenza di struttura fisica e struttura verbale, «la comparabilità, o meglio la connaturalità, tra verba e res» (Piazzi 2011, p. 32) conduce Lucrezio ad una attenta valutazione e valorizzazione di tutte le realtà, avvertite come parimenti importanti: minerali, piante, cielo, mare, animali (Dionigi 20053, p. 38). L’ambito linguistico, in generale, e il poema stesso di Lucrezio, in particolare (nostris in versibus ipsis), diventano così un grande paradigma, simulacrum et imago, che illustra il fenomeno della combinazione degli atomi (Piazzi 2005, p. 20).

24. nonne in caelo: il primo esempio di ‘regolarità universale’ riguarda l’astronomia sferica e la meccanica celeste. Sono notevoli le consonanze con la formulazione del De natura deorum di Cicerone: qui κύκλος Graece dicitur … ut omnes partes sint inter se simillumae a medioque tantum absit extremum … ne hoc physici intellegere potuistis, hanc aequabilitatem motus constantiamque ordinum in alia figura non potuisse servari? (nat. deor. ii 48). ab aequinoctiali circulo: il termine tecnico aequinoctialis circulus (equatore celeste) è l’equivalente semantico del greco ὁ ἰσημερινὸς κύκλος (Aristot. Meteor. 345a 3), come si legge in Hyg. astr. i 6, 2 (circulus aequinoctialis, a Graecis ἰσημερινός appellatus, ideo quod sol, cum ad eum orbem pervenit, aequinoctium conficit); vd. Le Boeuffle 1987, pp. 31-32. Dal punto di vista astronomico, l’equatore celeste è il cerchio massimo sulla volta celeste, perpendicolare all’asse del mondo (che coincide con l’asse di rotazione terrestre), che rappresenta la proiezione sulla volta celeste dell’equatore terrestre. Il sostantivo aequinoctium, composto ‘prosastico’ in -ium, con primo membro aggettivale e secondo nominale (cfr. Oniga 1988, pp. 114-115), ha il suo equivalente nel greco ἰσημερία (da notare che il secondo membro dei due composti è completamente antitetico: in latino è nox, in greco è ἡμέρα). In poesia vengono solitamente preferite delle perifrasi, come in Lucr. v 687688 (donec ad id signum caeli pervenit, ubi anni / nodus nocturnas exaequat lucibus umbras), ma anche nella prosa ciceroniana (nella sezione ‘astrono-

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mica’ del secondo libro del De natura deorum non compare mai) aequinoctialis si trova solo nel sermo familiaris delle Epistole (Att. x 17 e xii 28). Un’eccezione è in Catullo (carm. 46, 2 iam ver egelidos refert tepores, / iam caeli furor aequinoctialis / iucundis Zephyri silescit aureis), con la prima attestazione dell’aggettivo aequinoctialis in poesia (Schievenin 1995, p. 21). ad solstitialem: il termine tecnico astronomico solstitium ‘solstizio d’estate’ (opposto a bruma ‘solstizio d’inverno’) è un altro composto in -ium formato da sol e sistere, ‘fermata del sole’, come spiega lo stesso Varrone in vi 8, solstitium, quod sol eo die sistere videbatur. Nel nostro passo, solstitialis circulus indica il tropico del Cancro, cioè appunto il circolo in cui si trova il punto solstiziale d’estate. ad septemtrionalem: circulus septemtrionalis (rust. i 2, 4; Vitr. ix 4, 5; Sen. nat. v 17, 2) è traduzione dal greco (cfr. Erath. Cat. 15 ὁ δ’ ἀρκτικὸς κύκλος) preferita al calco circulus arcticus che si legge ad es. in Hyg. astr. i 6. L’aggettivo septemtrionalis, dal composto septemtriones o septentriones (talvolta nella forma di giustapposto septem triones, cfr. ad es. Cic. Arat. frg. 5, 1) ha le sue prime occorrenze nell’opera varroniana. polus superior abest … a septemtrionali circumitu et is ad sol[i]stitium: in questa seconda parte del § 24, il testo non è di facile ricostruzione e sicuramente lacunoso. Il passo è stato di recente oggetto di una approfondita analisi in Oniga 2016, corredata da una proposta testuale che qui viene accolta nel testo. In F si legge non quantum polus superior abest et abest et a septemtrionali circumit cum his ad solistitium, tantumdem abest inferior ab eo quem ἀνταρκτικὸν vocant astrologi et is ad brumalem? L’espunzione di et abest et ad opera di Mueller appare plausibile e generalmente condivisa dagli editori in quanto ripetizione. La forma verbale circumit appare invece in una posizione sintattica nella quale si auspicherebbe una forma nominale, cui il precedente aggettivo septemtrionali dovrebbe con tutta evidenza riferirsi. La soluzione proposta dal Mueller (a septemtrionali circulo et is ad solstitium) sanerebbe in tal senso il passo ripristinando la simmetria fra i tre elementi nell’emisfero settentrionale (polus superior, circulus septemtrionalis, solstitium) rispetto ai tre elementi corrispondenti nell’emisfero meridionale, ma lascia qualche perplessità in merito alla genesi dell’errore, l’origine cioè della corruttela di un facile circulo, termine che ricorre poco sopra nello

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stesso paragrafo e poi subito dopo nel successivo. Goetz e Schoell propongono di conseguenza in apparato un’ipotesi alternativa, partendo dalla convinzione che il passo si sia corrotto non tanto a partire da un errore di copiatura da circulo a circumit, ma da una lacuna più vasta: cir‹culo et is ad solstitialem, quem sol cir›cumit cum it ad solstitium. A supporto di questa scelta testuale, Goetz e Schoell citano Mart. Cap. viii 818-820, dove ciascuno dei tre cerchi presi in esame (septemtrionalis, solstitialis, aequinoctialis) viene spiegato nel suo significato etimologico; in merito al secondo cerchio, si dice solstitialis est, ad quem sol aestivus accedens solstitii fine repulsus abscedit. Il parallelo tracciabile con il passo varroniano è tuttavia generico, soprattutto se si tiene conto che la spiegazione etimologica inserita nella congettura degli editori teubneriani sarebbe circoscritta solo al circulus solstitialis diversamente da quanto avviene in Marziano. Più probabilmente si dovrà pensare che il termine astronomico tràdito non fosse stato compreso dal copista e banalizzato per mezzo della comunissima forma verbale circumit: circuitu era l’ipotesi di L. Spengel a quanto apprendiamo nell’apparato della seconda edizione riveduta dal figlio Andreas, ma ancora più adeguata appare la sua variante grafica circumitu (ancora in rust. i 5, 4), che si pone come termine più ricercato rispetto a circulo e che permette di capire più facilmente la genesi della corruttela da circumitu et is a circumit cum his (Oniga 2016, pp. 140-141). quotquot annis eodem modo exoritur: l’affermazione sulla regolarità delle traiettorie degli astri è confrontabile con quella ciceroniana: Hanc igitur in stellis constantiam, hanc tantam tam variis cursibus in omni aeternitate convenientiam temporum non possum intellegere (nat. deor. ii 54), o ancora, sensum autem astrorum atque intellegentiam maxume declarat ordo eorum atque constantia (nat. deor. ii 43).

25. num aliter sol a bruma venit ad aequinoctium: anche in nat. deor. ii 49 l’equinozio e il solstizio sono descritti nella stessa sequenza: inflectens autem sol cursum tum ad septem triones tum ad meridiem aestates et hiemes efficit et ea duo tempora quorum alterum hiemi senescenti adiunctum est alterum aestati. È inoltre presente la stessa assimilazione tra moto lunare e solare che si trova nel discorso di Balbo: neque solum eius [sc. lunae] species ac forma mutatur, tum crescendo, tum defectibus in initia recurrendo, sed

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etiam regio, quae cum est aquilenta aut australis in lunae quoque cursu est brumae quaedam et solstitii similitudo (nat. deor. ii 50). La descrizione dell’orbita apparentemente percorsa dal sole sulla sfera celeste nel corso dell’anno (cioè l’eclittica) è piuttosto precisa dal punto di vista astronomico: com’è noto, l’eclittica è inclinata rispetto all’equatore celeste e il sole, nella sua orbita, interseca l’equatore nei due punti equinoziali, raggiungendo la massima distanza a nord nel solstizio d’estate, a sud nel solstizio d’inverno. Similmente, l’orbita della luna è inclinata (di circa 6 gradi) rispetto all’eclittica, producendo su scala più ridotta un analogo allontanamento della luna dal sole verso nord a partire dal nodo ascendente e verso sud a partire dal nodo discendente. L’attenzione ai problemi di geografia astronomica non è limitata a questa sezione del De lingua Latina, ma trova spazio anche nella trattazione dei ritmi stagionali e delle seminagioni nel De re rustica (i 2737). Non è possibile ricostruire in quali altre opere perdute Varrone approfondisse il problema delle coordinate geografiche e celesti cui fa cenno in queste poche righe. Vago è il riferimento a un’opera specialistica contenuto in una testimonianza di Cassiodoro inst. ii 7, 2 p. 155, 11 Mynors (Varro libro, quem de astrologia conscripsit, stellam commemorat ab stando dictam): il riferimento all’etimologia di stella, contenuto peraltro anche in un passo del De nuptiis di Marziano Capella (viii 817) lascia pensare a una citazione desunta da un trattato linguistico-grammaticale, più che da un’opera astronomica vera e propria (Boccuto 1985, p. 145; Schievenin 1998 = 2009). Più interessante sembra invece un’altra testimonianza proveniente sempre da Cassiodoro (inst. ii 6, 1) nella quale si afferma che Varro, peritissimus Latinorum, huius nominis causam sic extitisse commemorat, dicens prius quidem dimensiones terrarum terminis positis vagantibus ac discordantibus populis pacis utilia praestitisse; deinde totius anni circulum menstruali numero fuisse paritum, unde et ipsi menses, quod annum metiantur, edicti sunt. Verum postquam ista reperta sunt, provocati studiosi ad illa invisibilia cognoscenda coeperunt quaerere quanto spatio a terra luna, a luna sol ipse distaret, et usque ad verticem caeli quanta se mensura distenderet; quod peritissimos geometras assecutos esse commemorat. La testimonianza attribuisce a Varrone la spiegazione del termine ‘geometria’ entro cui sarebbe confluito ogni tipo di misurazione: da quello più pratico della terra, per la delimitazione dei confini di proprietà alla divisione dei mesi, fino alla misurazione delle distanze tra i corpi celesti. È probabile pertanto che all’interno di un’opera perduta di Varrone, verosimilmente i Disciplinarum libri (cfr. § 1.2), venisse attribuito

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alla tematica astronomica uno spazio rilevante, anche se inserito all’interno della sezione dedicata alla geometria.

26. at in mari, credo, motus non habent [dis]similitudines geminas: anche il fenomeno delle maree viene affrontato a più riprese da Cicerone nel secondo libro del De natura deorum in cui – come si è detto – sono evidenti le affinità formali e contenutistiche con questi paragrafi del nono libro varroniano. Cicerone indica le maree come aestus maritimi (nat. deor. ii 19 e ii 132 aestus maritimi … accedentes et recedentes). La fonte per Cicerone e Varrone è con ogni probabilità Posidonio di Apamea, che nel Περὶ ὠκεανοῦ esponeva la sua famosa teoria sulle maree, riportata da Strabone iii 5, 8 (= Posid. fr. 26, 127 ss. Theiler): φησὶ δὲ τὴν τοῦ ὠκεανοῦ κίνησιν

ὑπέχειν ἀστροειδῆ περίοδον, τὴν μὲν ἡμερήσιον ἀποδιδοῦσαν, τὴν δὲ μηνιαίαν, τὴν δ’ ἐνιαυσιαίαν συμπαθῶς τῇ σελήνῃ. Fu Posidonio a stabilire la corri-

spondenza tra il movimento della luna e quello del mare, e a calcolare la corrispondenza matematica tra il ritmo delle maree e il movimento giornaliero, nonché il ciclo mensile della luna (Laffranque 1964, p. 190). Lo stesso Varrone rinvia qui alla trattazione delle maree contenuta nel suo De aestuariis (uno degli scritti varroniani sul mare assieme al De litoralibus e all’Ephemeris navalis; cfr. Introduzione § 1.2). Un certo rilievo stilistico viene conferito a questa pericope di testo dal parentetico credo iniziale, usato (solo qui nel De lingua Latina) con evidente tono sarcastico contro gli anomalisti per l’evidenza del fenomeno che ha una incontrovertibile regolarità (vd. anche Traglia 1993, p. 771).

27. non in terra in sationibus servata analogia?: come nell’argumentatio ciceroniana, alla cosmologia seguono il mondo vegetale e poi animale: age ut a caelestibus rebus ad terrestres veniamus, quid est in his in quo non naturae ratio intellegentis appareat (Cic. nat. deor. ii 120). La regolarità nella seminagione dei campi è un precetto che ricorre più volte nel De re rustica. Ogni prodotto ha la sua stagione di semina ideale che va osservata: sationis autem gradus, secundus, hanc habet ‹curam›: natura ad quod tempus cuiusque seminis apta sit ad serendum (i 39,1). La regolarità del processo stagionale e dei prodotti della natura (semina rerum) appare anche in Lucrezio (i 175181) come prova dell’esistenza di un principio universale, senza il quale i

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semi si schiuderebbero in modo anormale (… subito exorerentur / incerto spatio atque alienis partibus anni).

28. non in volucribus generatim servatur analogia?: l’avverbio generatim vede sette occorrenze in tutto il De lingua Latina, quasi tutte in contesti classificatori. Si può accostare questo utilizzo dell’avverbio generatim all’usus lucreziano (soprattutto nel primo libro del De rerum natura): in particolare, per l’analogia del contesto, si confronti con i 225 ss. in cui Lucrezio rappresenta la propagazione delle specie animali κατὰ γένη nell’argomentazione a sostegno dei principi della fisica epicurea (Praeterea quaecumque vetustate amovet aetas, / si penitus perimit consumens materiem omnem, / unde animale genus generatim in lumina vitae / redducit Venus, aut redductum daedala tellus / unde alit atque auget generatim pabula praebens?). Più in particolare, oltre alla presenza di tessere lessicali comuni ai vv. 1021 del proemio del De rerum natura (aeriae primum v o l u c r e s te, diva, tuumque / significant initum perculsae corda tua vi / … efficis ut cupide g e neratim saecla propagent), si può rilevare una consonanza tra l’imagery del De rerum natura e quella scelta da Varrone per esemplificare l’ordine razionale del mondo. Da una parte è Venere che viene invocata come divinità preposta alla forza creatrice della natura e protettrice dell’universale equilibrio (ἰσονομία) che regge il mondo, dall’altra c’è la convinzione che vi sia una ratio, un principio di regolarità, che agisce nel mondo naturale, come nel linguaggio (la connessione tra il proemio lucreziano e il De lingua Latina trova inoltre conferma nelle consonanze tra le prerogative di Venere ai vv. 13-37 del poema e l’etimologia di Venus come vis vinctionis esposta da Varrone in v 61-62; cfr. Collart 1954, p. 183, Veneroni 1976 e Deschamps 1986). Per l’allure lucreziana presente nelle immagini di queste righe vd. anche nota successiva. hic conchae inter se generatim innumerabili numero similes: anche la figura etimologica innumerabili numero ha un parallelo nella poesia lucreziana, cfr. vi 485 innumerabilem enim numerum summamque profundi, dove la iunctura è riferita al numero infinito di atomi. lupus aut merula: in v 77 Varrone discute la formazione degli ittionimi latini (vocabula piscium pleraque translata a terrestribus ex aliqua parte si-

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milibus rebus, ut anguilla, lingulaca, sudis … vernacula ad similitudinem ut surenae, pectunculi, ungues) dimostrando di cogliere l’essenza della classificazione nell’assimilazione (vocabula piscium translata) fra i nomi di animali terrestri (a terrestribus) e animali marini («la parola che designa l’animale marino viene formata per metafora da una parola designante un referente terrestre»: Guasparri 1998, p. 411). Su questi nomi di pesci cfr. de SaintDenis 1947a, pp. 59 e 64. ex quocumque asino et equa nascitur [id est] mulus aut mula: cfr. rust. ii 8, 6 hinnus qui appellatur est ex equo et asina e Colum. vi 37, 5 ex equo et asina concepti. Ho espunto id est, che considero una glossa estranea al testo.

30. quid ergo cum omnes animae hominum sint divisae in octonas partes: cfr. § 3. La divisione dell’anima in otto parti era di origine stoica e, secondo quanto riportato da Tertulliano in un passo del De anima (14, 2) nel quale vengono riassunte le principali teorie sull’anima, era propriamente di matrice crisippea: dividitur autem [sc. anima] in partes, nunc in duas a Platone, nunc in tres a Zenone, nunc in quinque ab Aristotele, et in sex a Panaetio, in septem a Sorano, etiam in octo penes Chrysippum … Un’altra testimonianza su questa suddivisione stoica viene da Diogene Laerzio vii 110 (= Chrys. SVF ii fr. 828) ed è enunciata in modo pressoché identico al passo in questione: Φασὶ δὲ τὴν ψυχὴν εἶναι ὀκταμερῆ· μέρη γὰρ αὐτῆς τά τε πέντε αἰσθητήρια καὶ τὸ φωνητικὸν μόριον καὶ τὸ διανοητικόν, ὅπερ ἐστὶν αὐτὴ ἡ διάνοια, καὶ τὸ γεννητικόν. Se in questo passo Varrone sembra seguire da

vicino la divisione di Crisippo, sappiamo da Agostino (civ. vii 23) che nelle Antiquitates Rerum Divinarum (fr. 227 Card.) distingueva tre animae gradus (vegetativa, sensitiva e razionale), come già Aristotele nel De anima: Varro in eodem de diis selectis libro tres esse adfirmat animae gradus in omni universaque natura: unum quod omnes partes corporis quae vivunt transit et non habet sensum sed tantum ad vivendum valetudinem. Hanc vim in nostro corpore dicit permanare in ossa … Secundum gradum animae in quo sensus est … Tertium gradum esse animae summum, quod vocatur animus, in quo intellegentia praeminet.

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oratio est… necesse est natura habere analogias: come Kent ad loc. ho accolto nel testo la correzione oratio est proposta da L. Spengel nella seconda edizione al posto del tràdito orationem. Con Reiter 1882, p. 43 si può osservare come il costrutto necesse est con accusativo e infinito sia rarissimo nel De lingua Latina e assai poco usato anche nel De re rustica (vd. i 35, 1; ii 1, 3; ii 1, 15).

31. an non vides: sullo stilema interrogativo di allocuzione al lettore vides/non vides e il suo rapporto con il genere didascalico, in particolare con la poesia lucreziana, cfr. § 6. ut Graeci habent eam quadripertitam: utilizzando lo schema della quadripartizione (vd. Introduzione, p. 20 e n. 34), vengono qui distinte le parti del discorso: in qua sint casus (quella che ha i casi, ovvero i sostantivi), in qua tempora (quella che ha i tempi, ovvero i verbi), in qua neutrum (quella che non ha né i casi né i tempi, ovvero gli avverbi) e infine in qua utrumque (quella che ha tutt’e due: i participi). La stessa quadripartizione appare altre volte, in vi 36, viii 44, x 17 (cfr. Taylor 1974, pp. 16-20). Questa classificazione quadripartita delle partes orationis non trova precisi paralleli nelle testimonianze greche precedenti relative a questo problema assai discusso nell’antichità. Se è ampiamente riconosciuta l’origine della distinzione tra componente nominale (ὄνομα) e verbale (ῥῆμα) già in Platone (Crat. 399b, 425a; Soph. 262a-263d), le successive acquisizioni nell’individuazione delle categorie grammaticali distinte sono oggetto di discussione tra gli studiosi moderni (così come nell’antichità, cfr. Quintiliano, inst. i 4, 17 … partes orationis, quamquam de numero parum convenit). Problematico è già il contributo di Aristotele che aggiunse alle due categorie ‘platoniche’ il concetto di σύνδεσμος (poet. 1457a 1 ss. e rhet. 1407a 20), da alcuni inteso come ‘nesso sintattico’, ‘preposizione’ o forse più genericamente ‘elemento relazionale del discorso’ (Belardi 1985, pp. 131-145). Ad Aristotele sembra potersi ascrivere anche il concetto di ἄρθρον (poet. 1457a 1 ss.), dall’enunciazione altrettanto complessa in cui convoglieranno i pronomi e gli articoli in seno alla classificazione stoica (Quint. inst. i 4, 19). Con Crisippo e Diogene di Babilonia le parti del discorso arrivano a cinque (Diogene Laerzio vii 57 = SVF ii fr. 147), con l’inclusione appunto di ἄρθρον e la distinzione dell’ὄνομα dalla προσηγορία (appellativo). La categoria autonoma del par-

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ticipio – quella che nella divisione varroniana presenta sia il tratto del caso sia il tratto del tempo – che veniva anticamente attribuita alla scuola stoica (così sembra di leggere nella testimonianza ad es. di Dionigi d’Alicarnasso, de comp. verb. ii 4-18) va con ogni probabilità attribuita ad Aristarco (vd. recentemente Matthaios 2002, pp. 167 ss.). Quintiliano (i 4, 20) riferisce esplicitamente in tal senso che Aristarco conosceva otto parti del discorso: nome, verbo, congiunzione, articolo, participio, pronome, preposizione e avverbio (vd. Matthaios 1999, pp. 520 ss.; per un quadro di sintesi cfr. anche Callipo 2011, pp. 170-178). sic nos habere?: la comparazione tra le strutture linguistiche del latino e del greco è qui mirata all’individuazione di un universale linguistico. Per questo motivo, quella che predomina nella schematizzazione varroniana è la volontà di giungere ad una classificazione universale delle categorie lessicali attraverso i due tratti sintattici di tempo e caso. Per le analogie presenti tra il dettato varroniano e la teoria linguistica contemporanea dei ‘tratti’, si veda Oniga 2014, pp. 50-51. alia finita, alia non: la distinzione tra finitum e infinitum è un discrimen interno alla categoria nominale. In viii 45, Varrone distingue infatti quattro partes appellandi: i provocabula, ossia i pronomi indefiniti quis e quae, i nomina che sono i nomi comuni (ut scutum et gladium), i nomi propri (come Romulus e Remus) ed infine i pronomina (ut hic e haec). La prima categoria (il provocabulum) è secondo Varrone indefinita (infinitum), il nome comune (vocabulum) è ‘quasi indefinito’ (ut infinitum), il nome proprio è ‘quasi finito’, mentre il pronomen è finitum.

32. equidem non dubito … ut trium temporum verba, ut trium personarum: va notato con Reiter 1882, p. 18 che in apertura di periodo è presente l’unica occorrenza di equidem nel De lingua Latina; l’avverbio è presente in un solo passo anche nel De re rustica (i 5, 1). Per quanto riguarda il contenuto, le serie di opposizioni ternarie qui enunciate sono una peculiarità della struttura grammaticale delle lingue indoeuropee, e in particolare del greco. La prospettiva varroniana che, come detto, mira a cogliere gli universali linguistici, individua dunque la tripartizione dei tempi e delle persone verbali, comune al greco e al latino, mentre manca di osservare

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come in realtà il latino tenda a rispondere con opposizioni binarie alle opposizioni ternarie greche (due soli gradi apofonici nell’opposizione infectum/perfectum, due sole diatesi contro le tre greche, due soli numeri, contro i tre indoeuropei; cfr. Traina 19934, pp. xi-xiv). quis est tam tardus qui illas quoque non animadvert‹er›it similitudines: dopo l’incipit provocatorio (con leggera variatio è anche nell’uso ciceroniano, ad es. Cic. Balb. 43 quis est tam demens…) segue un elenco di forme e modi verbali. Si susseguono l’imperativo (in imperando), il congiuntivo (in optando), le forme interrogative (in interrogando) e la distinzione infectum/perfectum: una lista in cui si nota una certa mescolanza (se non confusione) tra i concetti di modo, tempo e aspetto verbale. Gli stessi compaiono esposti in forma molto più analitica in x 31-32, dove Varrone enuncia le sei species della flessione verbale (Hartung 1973): eorum declinatuum species sunt sex: una quae dicitur temporalis, ut legebam gemebam, lego gemo; altera personarum, ut sero meto, seris metis; tertia rogandi, ut scribone? legone? scribisne? legisne? Quarta respondendi, ut fingo pingo, fingis pingis; quinta optandi, ut dicerem facerem, dicam faciam; sextam imperandi, ut cape rape, capito, rapito. La prima species è il tempo, la seconda la persona, la terza la forma interrogativa, la quarta il modo indicativo, la quinta l’optativus (ossia il congiuntivo) e per ultimo è enunciato l’imperativo. La distinzione aspettuale viene specificata subito dopo (al § 33 accedunt ad has species a copulis divisionum quadrinis: ab infecti et perfecti, emo edo, emi edi; ab semel et s‹a›epius, ut scribo lego, scriptitavi lectitavi; faciendi et patiendi, ut uro ungo, uror ungor; a singolari et multitudinis, ut laudo culpo, laudamus culpamus) assieme ad un’altra copula divisionum, quella che distingue tra il semel e il saepius, tra ‘momentaneo’ e ‘durativo’ (anche se gli esempi addotti da Varrone sono più che altro forme di frequentativo), cui segue quella della diatesi e del numero. Per la categoria verbale del ‘modo’ cfr. infra § 101. 33. quare qui negant esse rationem analogiae, non vide‹n›t naturam non solum orationis, sed etiam mundi: l’affermazione è significativa perché dichiara la natura sistemica del linguaggio, sulla base del parallelo con la ratio mundi; cfr. la formulazione in Cic. nat. deor. ii 46-47 mundo autem certe nihil est melius; nec dubium quin quod animans sit habeatque sensum et rationem et mentem id sit melius quam id quod is careat. Ita

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efficitur animantem, sensus mentis rationis mundum esse compotem; qua ratione deum esse mundum concluditur. La ratio investe tutti e quattro i gradi nella scala della natura (piante, animali, uomini, divinità), nell’ultimo dei quali – quello della divinità – diventa perfetta e assoluta (in quo necesse est perfectam illam atque absolutam inesse rationem, ibid. 35). Da Diogene Laerzio vii 142-143 (= SVF ii fr. 633 = Posid. fr. 304, 9 ss. Theiler) apprendiamo che Posidonio condivideva quella che era stata la tesi di Crisippo: il cosmo è un essere vivente ragionevole, fornito d’anima e intelligenza ( ὁ κόσμος καὶ λογικὸν καὶ ἔμψυχον καὶ νοερὸν). Per Posidonio, le cose che esistono sono parti di un unico grande organismo, in cui esse per effetto della sympatheia «sono concresciute venendo a costituire un’unità vitale. E come nel corpo umano ogni cambiamento di un qualsiasi membro viene sentito anche dall’insieme, così anche nel macrocosmo ogni singolo processo coinvolge il tutto, mentre d’altra parte ogni cosa singola può esistere solo come parte dell’organismo che risulta dall’insieme di tutte le parti» (Pohlenz 1967, i, p. 441). et pugnant volsillis, non gladio: l’origine dell’espressione è con ogni evidenza proverbiale (cfr. Otto 1890, p. 378). L’esemplificazione attraverso immagini desunte dall’ambito militare è comunque un tipico espediente della trattatistica retorica latina, in particolare di quella ciceroniana (cfr. Mastrorosa 2000). si quis viderit mutilum bovem … neget … similitudines proportione constare: l’argomentazione di Varrone ricorre ancora una volta all’analogia col mondo biologico. Non si possono considerare come paradigmatici i verba minus trita per dimostrare che nel linguaggio l’analogia non esiste, sarebbe – dice Varrone – «come se uno, per aver visto un bue con un corno rotto … negasse che nei buoi vi è una proporzione corporea». La perfezione o meno del sistema del linguaggio è problema ancor oggi di grande attualità e a lungo dibattuto dai linguisti (cfr. ad es. Eco 1993), nonché un nodo centrale nella teorizzazione chomskiana del linguaggio (Chomsky 1981, pp. 133 ss. e Chomsky 1991, pp. 164-165).

34. qui autem duo genera esse dicunt analogiae: questa argomentazione ‘anomalista’ che distingue due tipi di analogia (naturalis e voluntaria)

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non ha riscontro nell’viii libro. Essa è fondata sulla constatazione che, in natura, la vera analogia (analogia naturalis) si verifica senza che vi sia l’interferenza dell’uomo, come avviene per i movimenti dei corpi celesti, mentre il linguaggio è creazione soggettiva degli uomini (quod ea homines ad suam quisque voluntatem fingat), in cui non può sussistere la vera analogia. Infatti, continua l’anomalista, per indicare uno stesso oggetto, i Greci usano un parola, i Latini un’altra, i Siriaci un’altra ancora (itaque de eisdem rebus alia verba habere Graecos, alia Syros, alia Latinos). Per questa argomentazione, è possibile rintracciare un parallelo con un passo di Sesto Empirico (adv. math. i 145), nel quale viene riportata una simile obiezione anomalista: εἴπερ γὰρ φύσει τὰ ὀνόματα ἦν καὶ μὴ τῇ καθ’ ἕκαστον θέσει ἐσήμαινεν,

ἐχρῆν πάντας πάντων ἀκούειν, Ἕλληνας βαρβάρων καὶ βαρβάρους Ἑλλήνων καὶ βαρβάρους βαρβάρων. L’inedita terminologia analogia naturalis e ana-

logia voluntaria, molto probabilmente, viene introdotta da Varrone come variatio rispetto alla più consueta coppia declinatio naturalis e declinatio voluntaria, per creare un presupposto alla sua teoria conciliativa (ego declinatus verborum et voluntarios et naturalis esse puto). La seconda parte della frase iniziale, così com’è nel manoscritto Laurenziano (quod ut ex natis nascuntur lentis sic et lupinum) è sicuramente lacunosa; dalle suggestive ipotesi congetturali formulate dagli editori (ed es. L. Spengel ex satis nascuntur lentibus lentis sic ex lupinis lupini; ex lenti nascatur lentis sic ex lupino lupinum secondo A. Spengel) emerge il tentativo di ripristinare il parallelismo tra i due cola ex … /ex …, guastato nel testo tràdito da errori di copiatura determinati probabilmente dai ripetuti omeoarcti e dall’eccezionalità del lessico botanico.

ad suam quisque voluntate fingat: fingere viene usato da Varrone per designare la creazione linguistica (ad es. in v 9 verba ut sint ficta … quod finxisset Ennius … rex Latinus finxisset e x 35 si is qui finxit poeta aliquod vocabulum et ab eo casu‹m› ipse aliquem perperam declinavit) o più precisamente, in alcuni casi, la derivazione (ad es. v 178 corollarium … fictum a corollis) o la flessione (ad es. viii 33 ut quisque duo verba in quattuor formis finxeri[n]t similiter). ego declinatus verborum et voluntarios et naturalis esse puto: è sicuramente l’affermazione teorica più rilevante dell’opera, già precedentemente adombrata in viii 21-23. La distinzione tra due tipi di declinatio,

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infatti, non solo permette a Varrone di uscire dall’impasse della disputa analogia/anomalia, ma anche di dare una prima sistemazione e spiegazione delle variazioni morfologiche della lingua. A fondamento della dicotomia è la nozione di declinatio: sulla base del fondamentale studio di Taylor (1974), dobbiamo intendere tale concetto come ‘formazione di parola’ che include sia la derivazione sia la flessione. La dicotomia varroniana distingue infatti tra declinatio voluntaria e declinatio naturalis, cioè appunto tra ‘derivazione’ (o più genericamente ‘formazione di parola’) e ‘flessione’. Si noti anche la distinzione metalinguistica tra imponere (per la declinatio voluntaria) e inclinare (per la declinatio naturalis). È chiaro che nel primo caso siamo nel dominio della voluntas, dell’arbitrarietà del singolo, nel secondo invece, il verbo inclino, (come declino) richiama il concetto alessandrino di κλίσις, di flessione vera e propria (vd. Introduzione, pp. 22-24). ab R OMULO R OMA , ab T IBURE T IBURTES : l’irregolarità della morfologia derivazionale viene illustrata con due esempi: da Romulus deriva per ‘retroformazione’ il nome Roma, mentre da Tibur si è coniato Tiburtes e anche in questo passaggio è evidente il dominio dell’arbitrio, ovvero dell’anomalia. La prova della sua irregolarità è data dai differenti suffissi che si possono aggiungere ad una stessa base, come da Alba ad es. si ha sia Alba-ni che Albe-nses (viii 35). ab ‹ROMULUS› ROMULO ROMULI ROMULUM et ab DICO, DICEBAM, DIXERAM : la regolarità predomina invece nel meccanismo della flessione. Se nella declinatio voluntaria il derivato può essere creato in vari modi o non essere creato affatto, nella declinatio naturalis a tutti i temi si devono applicare obbligatoriamente le regole di flessione, creando quindi di necessità le forme flesse.

35. in voluntariis declinationibus inconstantia est, in naturalibus constantia: l’incostantia della derivazione e la costantia della flessione sono riconosciuti come ‘co-fattori’ del sistema linguistico. La dicotomia tra declinatio voluntaria e declinatio naturalis è formalizzata in tutto il De lingua Latina attraverso l’opposizione di due gruppi di termini ‘tecnici’: da una parte impositio, voluntas, inconstantia, consuetudo, anomalia, dall’altra declinatio, natura, constantia, ars, ratio, analogia.

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et declinationes verborum innumerabiles … loquendi ratio: quello della declinatio è un principio presente in tutte le lingue (cfr. viii 3 declinatio inducta in sermones non solum latinos, sed omnium hominum utili et necessaria de causa), ed è quindi un ‘universale linguistico’, il quale permette che da un numero finito di elementi (i cosiddetti vocabula primigenia) si crei un numero infinito di nuovi elementi linguistici (vi 37: cum unde nata sint, principia erunt pauca, quae inde nata sint, innumerabilia). È evidente il parallelo con la teoria atomistica, cui Varrone si rifà esplicitamente in vi 39: Democritus, E‹pi›curus, item alii qui infinita principia dixerunt, quae unde sint non dicunt, sed cuiusmodi sint, tamen faciunt magnum: quae ex his constant in mundo ostendunt. Nella sua concezione biologica e generativa del linguaggio, Varrone non solo instaura un parallelo tra gli elementi primordiali inconoscibili che costituiscono i corpi e i verba primigenia, ma – a ulteriore conferma della ricezione della teoria atomistica in ambito linguistico – definisce la parola come una sorta di atomo rispetto al discorso: cfr. x 77 verbum dico orationis [vocabulis] partem, quae sit indivisa et minima. Questa riflessione varroniana sull’infinità dei prodotti linguistici e la capacità creativa dei meccanismi del linguaggio attraverso l’uso virtualmente infinito di mezzi finiti può essere efficacemente confrontata con le teorie linguistiche attuali, in particolare con il modello generativo (cfr. Oniga 1988, pp. 53-55). L’integrazione di efferri non possint, necessaria dal punto di vista sintattico, risale all’edizione aldina ed è sostanzialmente accettata all’unanimità dagli editori, anche se, sulla base dell’usus scribendi varroniano, a questa soluzione sembra preferibile la formula dici non possint proposta da Canal nella sua edizione. 36. ac singula crimina quae dicunt ‹contra› analogias solvemus: si conclude come preannunciato al § 7 la sezione volta a dimostrare la reale esistenza e pervasività del criterio analogistico. Inizia una lunga sezione organizzata sullo schema delle argomentazioni dei §§ 40-99 del libro precedente, che vengono puntualmente riprese e introdotte attraverso le formule quod rogant o dicunt, aiunt o ancora item qui reprehendunt, formule che, dal punto di vista stilistico, sono tipiche del genere diatribico (Norden 1986, i, pp. 141-142).

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37. quadruplicem esse formam, ad quam in declinando accommodari debeant verba: prima di iniziare il dibattito, Varrone chiarisce quali sono le quattro condizioni necessarie alla morfologia derivazionale. Come afferma subito dopo, la prima condizione è che l’oggetto da designare esista (quod debeat subesse res qu‹a›e designe[n]tur), perché sarebbe inutile coniare la forma *terrus quando esiste già terra; la seconda prevede che l’oggetto sia effettivamente in uso (perché se prendiamo il termine faba, singolare collettivo, non c’è alcuna necessità di creare un plurale fabae); la terza vuole che la parola sia declinabile (ut declinari possit), perché se è naturale declinare i nomi di persona, non lo è altrettanto per i nomi delle lettere dell’alfabeto; infine, la quarta richiede che la parola riveli con certezza il suo tipo flessionale (et similitudo figura‹e› verbi, ut sit ea quae ex se declinatu genus prodere certum possit). Questo elenco di disposizioni normative nasce essenzialmente dall’esigenza di anticipare alcune obiezioni anomaliste che verranno trattate subito dopo. I primi due punti di questo schema quadripartito sono identici ai primi due dei quattro gradus in x 83-84 (gli ultimi paragrafi superstiti del De lingua Latina) in cui vengono indicati i prerequisiti necessari all’analogia: primum ut sint [t]res, secundum et earum sit usus, tertium uti hae res vocabula habeant, quartum ut habeant declinatus naturalis. E l’esempio con cui viene illustrato il secondo gradus è identico a quello presente in queste righe, ovvero il singolare collettivo faba. quod debeat subesse res qu‹a›e designe[n]tur: viene qui espresso in modo esplicito il rapporto di connessione tra referente (res) e parola (verbum). Il dibattito sulla relazione tra ‘vocabolo’ e ‘cosa’ risale al Cratilo platonico, in particolare alla sezione 435d-440e, dove si nega la possibilità di trovare sempre una corrispondenza tra parola e cosa designata (sul carattere referenzialistico della semantica antica vd. il punto in Gusmani 2005). La riflessione linguistica stoica distingue (Chrys. SVF ii fr. 166) tra la forma della parola (φωνή, σημαῖνον), il suo significato (σημαινόμενον, δηλούμενον, πρᾶγμα), e ciò a cui si riferisce la parola nella realtà (τυγχάνον). La distinzione maggiormente esplicitata nel De lingua Latina è quella tra la forma esteriore della parola (ovvero il ‘significante’) e il ‘referente’ (Sluiter 1990, pp. 22-23). Diversamente, la distinzione tra ‘significante’ e ‘significato’ è raramente formalizzata. Un esempio di questa distinzione è in viii 40: Quaero enim, verbum utrum dicant vocem quae ex syllabis est ficta, eam quam audimus, an quod ea significat, quam intellegimus, an utrumque. La parola vox

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(quae ex syllabis est ficta) si riferisce evidentemente al ‘significante’, mentre al ‘significato’ e al processo che avviene a livello intellettuale rinvia la presenza del verbo intellego come specificazione del processo della significatio (Roesch 1999, pp. 77-80). Per capire invece il rapporto che, secondo Varrone, sussiste tra parola e referente, è importante rifarsi alla sua teorizzazione sull’origine del linguaggio, esposta nei libri etimologici del De lingua Latina. Per Varrone, infatti, le parole (verba primigenia) sono state attribuite alle cose da un impositor, che ha seguito come criterio-guida la natura: natura enim dux fuit ad vocabula imponenda homini (vi 2). Per questo motivo i verba primigenia hanno un valore particolare: essi rivelano infatti la natura dell’oggetto designato (per esempio, in v 28, la parola amnis rinvia al flumen che descrive un ambitus). Il rapporto che unisce i verba alle res è quindi un rapporto di ‘designazione’, indicato dal Reatino attraverso il verbo significo: cum utilitatis causa verba ideo sint imposita rebus ut ea‹s› significent, si id consequimur una consuetudine, nihil prodest analogia (viii 27). et similitudo figura‹e› verbi … genus prodere certum possit: la struttura sintattica di questa frase presuppone una corruttela del testo. Così come nell’edizione del secondo Spengel, anche Goetz e Schoell espungono nel testo similitudo, mentre in apparato propongono di correggere in similitudo figurave verbi, scelta che implica però una sostanziale equivalenza tra i due termini similitudo e figura, connotati invece da due significati specifici ben distinti di ‘somiglianza’ e ‘forma flessa’. Appare quindi preferibile la correzione proposta da Mueller similitudo figurae verbi che preserva maggiormente il testo tràdito e trova un parallelo nel nesso similitudo figurae al § 40 (vd. comm. ad loc.).

38. neque a TERRA TERRUS ut dicatur: l’esempio coglie una proprietà fondamentale del linguaggio, cioè la sua enorme potenzialità di creare parole nuove partendo da parole già esistenti (come appunto sarebbe *terrus da terra). Le regole di formazione di parola, in cui si esplica l’analogia varroniana, offrono potenzialità infinite di creazione di nomi nuovi, ma tali potenzialità sono sfruttate dalla lingua solo laddove ci siano effettivamente degli oggetti o dei fenomeni nuovi a cui dare un nome. Per questo fenomeno, Aronoff 1976, p. 41 ha coniato il termine tecnico ‘blocking’, perché

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l’esistenza di una data forma sembra ‘bloccare’ la produzione di un’altra forma con la stessa base lessicale e lo stesso significato. Una definizione più precisa del fenomeno è tuttora problematica (cfr. la discussione in Scalise 1983, pp. 52 ss.). La questione delle ‘derivazioni mancate’ è al centro del dibattito linguistico contemporaneo: vd. ad esempio Simone 1983 e, con particolare riguardo alla morfologia derivazionale latina, Oniga 1988, alle pp. 105 ss. (dedicate alla questione delle parole ‘possibili ma non esistenti’). sic postulandum ut inclinemus ab A et B, quod non omnis vox natura habet declinatus: il passo è parallelo a viii 64-65, dove l’indeclinabilità dei nomi delle lettere dell’alfabeto veniva portata a supporto della tesi anomalista (secundo quod Crates, cur quae singulos habent casus, ut litterae graecae, non dicantur alpha alphati alphatos, si idem mihi respondebitur quod Crateti, non esse vocabula nostra, sed penitus barbara … sin quod scribunt dicent, quod Poenicum si‹n›t singulis casibus, ideo eas litteras graecas †nominari, sic Graeci nostra senis casibus non quinis dicere debebant; quod cum non faciunt, non est analogia). L’origine straniera dei nomi delle lettere dell’alfabeto (vocabula barbara), che non sono passibili di modificazione o declinazione alcuna, era stata oggetto di discussione anche nel De antiquitate litterarum (Prisc. GL ii 7, 27 ss. = fr. 1, p. 183 Fun.): nomen, velut a et b, sunt indeclinabilia tam apud Graecos elementorum nomina quam apud Latinos, sive quod a barbaris inventa dicuntur, quod esse ostendit Varro in II de antiquitate litterarum, docens lingua Chaldaeorum singularum nomina litterarum ad earum formas esse facta ex hoc certum fieri, eos esse primos auctores litterarum, sive quod simplicia haec et stabilia esse debent quasi fundamentum omnis doctrinae immobile, sive quod nec aliter apud Latinos poterant esse, cum a suis vocibus vocales nominentur, semivocales vero in se desinant, mutae a se incipientes vocali terminentur, quas si flectas, significatio quoque nominum una evanescit. Dunque, per Varrone, l’immutabilità (immobile) dei nomi delle lettere dell’alfabeto è addirittura garanzia di stabilità del sistema linguistico universale, di cui sono posti a fundamentum, perché se venissero flessi, sparirebbe anche il significato dei loro nomi (significatio … evanescit). In questo dato si riconosce la peculiarità della fonetica, che nell’antichità si fondava proprio sulle lettere dell’alfabeto, vere e proprie unità minime della lingua, non riducibili né modificabili e la descrizione fonetica si limitava alla pronuncia delle singole lettere. In Sch. Marc. Dion. Thr. GG i/iii 316, 24 (= fr. 95 Broggiato) si ha notizia che Cratete definiva la lettera dell’alfa-

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beto, στοιχεῖον, come la parte più piccola del linguaggio: Ὁρίζεται δὲ τὸ

στοιχεῖον ὁ μὲν Κράτης οὕτω, «φωνῆς μέρος [τὸ] ἐλάχιστον»·«μέρος ἐλάχιστον» εἶπεν ὡς πρὸς τὸ ὅλον σύστημα τῆς ἐγγραμμάτου φωνῆς (vd.

ampia discussione in Ax 1986, pp. 218 ss.).

39. neque in forma collata qu‹a›erendum solum, quid habeat in figura simile, sed etiam … effectum: nel confronto tra due forme, non si deve guardare solo la somiglianza esteriore (figura), ovvero la superficie fonologica, ma anche il loro sviluppo o ‘realizzazione’ (effectus) nella flessione. Si tratta di una prima enunciazione di un importante principio linguistico, che verrà ulteriormente sviluppato subito dopo al § 40. sic enim lana Gallicana et Apula videtur imperito similis propter speciem: il paragone con i due tipi di lana che all’apparenza sono di uguale qualità, ma che ad un controllo più approfondito si rivela diversa, esprime molto bene il concetto di figura nella lingua. Taylor 1974, p. 106, n. 30 ha individuato un parallelo illustre per questa similitudo (anche per la presenza del termine figura) e precisamente in Lucr. i 358-363: denique cur alias aliis prestare videmus / pondere res rebus nilo maiore figura? / Nam si tantundemst in lanae glomere quantum / corporis in plumbo est, tantundem pendere par est, / corporis officiumst quoniam premere omnia deorsum, / contra autem natura manet sine pondere inanis. Lucrezio, nel corso della dimostrazione dell’esistenza del vuoto, osserva che il peso specifico degli oggetti è diverso a seconda della maggiore o minore quantità di vuoto in essi contenuto, esemplificando il concetto con un exemplum analogamente tratto dalla cultura materiale: «se in un gomitolo di lana c’è la stessa quantità di materia che in un uguale pezzo di piombo, è naturale che pesino uguale, poiché è proprio della materia premere ogni cosa verso il basso, mentre invece la natura del vuoto è priva di peso» (trad. L. Piazzi). Rispetto a Lucrezio, Varrone sfrutta nell’immagine la proverbiale superiorità della lana apula per chiarire il concetto sopra esposto sulla necessità di una verifica empirica (cfr. Plin. nat. viii 190 lana autem laudatissima Apula; Mart. viii 28, 3-4; Colum. vii 2).

40. quod rogant ex qua parte oporteat simile esse verbum, a voce an a significatione, respondemus a voce: il passo è parallelo a viii 39-

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41. Come accennato al § 37, qui Varrone distingue tra ‘significante’ e ‘referente’. Il criterio più attendibile per individuare la somiglianza tra due parole è la vox e non la significatio, cioè la cosa a cui la parola si riferisce. Ma la stessa vox può essere ingannevole, come nel caso di Perpenna e Alfena o paries e abies (cfr. infra), che superficialmente sembrano uguali, ma hanno in realtà una ‘sostanza grammaticale’ diversa che Varrone definisce con il termine materia (cfr. infra § 41). nonnumquam in re dissim‹ili par›ilis figurae formas, in [dis]simili imponunt dispariles: viene illustrata la discrepanza tra quella che in termini linguistici è la forma fonetica di superficie (che Varrone indica alternativamente con figura o vox) e la struttura morfologica soggiacente (materia o res) di una parola, nonché la necessità del processo di astrazione da parte del parlante, cfr. x 7 similia vocibus esse ac syllabis confitemur, dissimilia esse partibus orationis videmus. In x 11 i concetti vedono una definizione vera e propria: quarum ego principia prima duum generum sola arbitror esse, ad quae similitudines exigi oporteat: e quis unum positum in verborum materia, alterum ut in materiae figura, quae ex declinatione fit. Taylor 1974, pp. 90-93 ha giustamente evidenziato l’importanza di queste ‘categorie’ (vox-figura/materia-res), che definisce rispettivamente come «grammatical form» e «grammatical substance», sottolineandone peraltro la notevole oscillazione terminologica nel De lingua latina: «Varro replaces figura with vox “sound” and materia with res “thing”. There is no apparent reason for this switch, which is at odds with his usually consistent metalanguage, and why he did so must of necessity remain unanswered» (p. 93). Vox (vd. anche in x 63) ha sicuramente una maggiore pregnanza icastica rispetto a figura nel denotare la rappresentazione fonetica di una parola, mentre l’uso di res (usato al § 37 per indicare il ‘referente’ di un termine) crea qualche problema interpretativo per la varietà di significati che assume. Lomanto 2001, pp. 182-183 vede nei due termini la riproduzione dell’opposizione aristotelica ὕλη e μορφή: per giudicare se le parole sono simili o difformi, «occorre valutare contemporaneamente la fisionomia che esse presentano fuori contesto, quali semplici entrate lessicali (materia) e le modificazioni (figurae) che in esse si producono all’interno di un contesto, dove se ne precisano valori e funzioni attraverso i rapporti sintattici e semantici con gli altri elementi dell’enunciato» (cfr. sulla questione anche Garcea 2007, pp. 343344).

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41. itaque ea virilia dicimus non quae virum significant: il genere grammaticale non sempre coincide con il genere fisico (cfr. § 51). Varrone appare qui consapevole del fatto che ‘maschile’ e ‘femminile’ sono tratti grammaticali astratti del ‘significante’, che non sempre coincidono con effettive proprietà fisiche del ‘referente’: la selezione dei tratti referenziali pertinenti per la categorizzazione del genere è arbitraria. L’intuizione ricorda le riflessioni di de Saussure sull’arbitrarietà del segno linguistico: «il legame che unisce il significante al significato è arbitrario, o ancora, poiché intendiamo con segno il totale risultante dall’associazione di un significante a un significato, possiamo dire più semplicemente che il segno linguistico è arbitrario» (de Saussure 1916/1967, pp. 85-86). Gli studi sul genere grammaticale non hanno riconosciuto in effetti insiemi di proprietà semantiche che funzionino come tratti necessari e sufficienti per individuarne le categorie, in modo particolare quella del maschile e del femminile (Lazzeroni 1993). La classica tripartizione dei generi risale a Protagora, come testimonia Aristotele in rhet. 1407b (ὡς Πρωταγόρας τὰ γένη τῶν ὀνομάτων διῄρει, ἄρρενα καὶ θήλεα καὶ σκεύη) e Varrone è il primo a trasporre nella lingua latina il concetto tecnico-grammaticale di genus. Nel De lingua Latina, il genere maschile è indicato con il termine mas, e più raramente con il nesso virile genus (x 8), mentre il genere femminile è femina (ad es. ix 38), ed in qualche raro caso muliebre genus (viii 46) o semplicemente muliebre (viii 51). Il genere neutro è sempre neutrum genus (Collart 1954, p. 160, n. 8). PERPENNAM ut ALFENAM : per esemplificare la possibilità di una non-coincidenza tra genere grammaticale e genere fisico, Varrone sceglie due nomi etruschi, entrati nell’onomastica gentilizia romana. A livello ‘di superficie’ i due nomi sembrano essere due femminili (muliebri forma), mentre in realtà Perpenna è un nome maschile. Il gentilizio Perpenna (o Perperna, cfr. Perin ii 454 s.v. con elenco di figure storiche) presuppone l’etrusco *perprna non attestato, ma ricostruibile attraverso le forme latine e il gentilizio etrusco perpru. Alfena deriva invece verosimilmente dal gentilizio etrusco *alfna (Hadas-Lebel 2004, p. 208 e ThlL i 1541, 33-35). quibus proponimus HIC et HI, et sic muliebria … HAEC et HAE : quest’uso varroniano dei dimostrativi come indicatori del genere grammaticale prefigura quella che sarà l’evoluzione dal dimostrativo latino all’articolo nelle

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lingue romanze (cfr. Giusti 2001). È Varrone stesso ad includere per primo il dimostrativo nella categoria dell’articolo (che veniva desunta dal greco): prima pars casualis dividitur in partis duas, in nominatus ‹et in articulos: articuli› sunt quod ‹aeque finitum› neque finitum est ut hic et quis; de his generibus duobus utrum sumpseris, cum reliquo non conferendum, quod inter se dissimiles habent analogias; così leggiamo in x 20 (18) secondo il testo stabilito da Taylor 1996.

42. quare ni[c]hil est, quod dicunt THEONA et DIONA non esse similis: viene respinta l’accusa anomalista avanzata in viii 41, in cui si negava la possibilità di far coesistere similitudo formale e dissimilitudo dei referenti: sin illud quod significatur debet esse simile, Diona et Theona quos dicunt esse p‹a›ene ipsi geminos, inveniuntur esse dissimiles, si alter erit puer, alter senex, aut unus albus et alter ‹A›ethiops, item aliqua re alia dissimile‹s›. Come rende evidente l’argomentazione varroniana, la dissimilitudo dei referenti (l’appartenenza a due popoli diversi) non esclude la similitudo formale dei due nomi propri. Va notato infine che Theon e Dion sono due nomi greci di persona che ricorrono spesso come nomi fittizi negli exempla contenuti nelle testimonianze della dialettica crisippea, cfr. ad es. SVF ii frr.153, 166, 184, 193, 201, 202a-202b, 204, 206, 215. 43. quod dicunt, simile sit necne nomen nomini … Aristarc‹h›um praecipere: Varrone aggiunge una preziosa testimonianza sul dibattito nato in ambiente alessandrino attorno alla definizione delle condizioni necessarie all’applicazione del criterio analogico. Secondo quanto riporta una testimonianza di Carisio p. 149, 26 ss. B. (= fr. 375 Slater; vd. Callanan 1987, pp. 26 ss.; 43 ss.), Aristofane riteneva che si dovessero confrontare tra loro solo termini aventi lo stesso genere, caso, terminazione, numero di sillabe, accento, e a queste cinque condizioni Aristarco aveva aggiunto il veto di confrontare parole semplici con parole composte: huic Aristophanes quinque rationes dedit uel, ut alii putant, sex; primo ut eiusdem sint generis de quibus quaeritur, dein casus, tum exitus, quarto numeri syllabarum, item soni. Sextum Aristarchus, discipulus eius, illud addidit, ne umquam simplicia compositis aptemus. Varrone in questo passo e similmente in viii 68 e ix 91 riferisce che Aristarco, relativamente all’exitus delle parole da confrontare, impose la ve-

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rifica della similitudo non solo del nominativo ma anche del caso vocativo dei due termini da confrontare. non solum ex recto, sed etiam ex eorum vocandi casu: Ammonio (in Aristot. interpr. 42, 30 ss. Busse = Chrys. SVF ii fr. 164) riferisce della discussione sorta tra Stoici e Peripatetici attorno al problematico status del casus rectus. Per gli Stoici, che davano un’interpretazione su base etimologica (Ildefonse 1997, p. 160), il nominativo era una πτῶσις, in quanto caduto ἀπὸ τοῦ νοήματος, mentre per i Peripatetici, il nominativo non era un caso, ma la forma a partire dalla quale il nome ‘cadeva’ negli altri casi. Allo speciale statuto del nominativo nel sistema casuale si deve probabilmente l’oscillazione della denominazione latina, ora casus nominandi vel nominativus, ora casus rectus, formule che riproducono rispettivamente ὀνομαστικὴ e ὀρθὴ (o εὐθεῖα) πτῶσις, l’una in prospettiva nomenclaturale della lingua, l’altra in prospettiva sintattico-frasale di ascendenza stoica (Belardi-Cipriano 1990, pp. 106 ss.). Complesso anche lo status del vocativo, che viene in questo passo evocato come una sorta di indice del tema flessionale. È un caso che non viene mai espressamente catalogato da Varrone tra gli obliqui (Belardi-Cipriano 1990, p. 136) e non risulta nemmeno considerato come retto: si tratta di un caso a tutti gli effetti, e in quanto tale compreso nella lista di viii 16 (piuttosto ‘travagliata’ dal punto di vista testuale, cfr. in particolare Calboli 1987), ma non appartiene esplicitamente a nessuna delle due suddette sottocategorie. Il fatto che in alcuni loci varroniani (viii 4243, viii 68-69, il presente passo e ix 91-93), il vocativo appaia come il caso discriminante lascia tuttavia supporre che questo fosse sentito come analogo al nominativo, «una sorta di caso paradigmatico, non un caso obliquo come genitivo, dativo, accusativo …» (Calboli 2001, p. 50). Particolarmente controversa (vd. Calboli 1972, 1987 e 2001; Belardi-Cipriano 1990, pp. 104 ss.; Belardi 1974 e 1976) è proprio l’interpretazione dell’ordine dei casi nel De lingua Latina: essi appaiono ora elencati secondo un ordinamento ‘tradizionale’ (ad es. ling. x 22; x 62), ossia nominativo, genitivo, dativo, accusativo, vocativo e (talvolta) ablativo (ordinamento uguale a quello della Techne di Dionisio Trace e che si ritrova nei grammatici latini tardi), ora in un assetto completamente diverso (in x 44, x 54 e x 82) ed esemplificato attraverso la flessione del teonimo Hercules in viii 16 (nominativo, vocativo, accusativo, ablativo, dativo, genitivo). L’ordine secondo cui Varrone cita i casi in viii 16, che è del tutto inedito nel panorama latino, è analogo, tra

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l’altro, a quello usato in alcune testimonianze innologiche sanscrite (Ronzitti 2014, pp. 207-236). casu: il termine latino casus, nella sua accezione tecnico-grammaticale, compare per la prima volta proprio nel De lingua Latina. La prima occorrenza in assoluto è in v 4, dove l’osservazione dei casi diversi dal nominativo è criterio auspicato per l’identificazione della corretta etimologia di una parola (in quo genere verborum aut casu erit illustrius unde videri possit origo, inde repetam. Ita fieri oportere apparet, quod recto casu quem dicimus inpos, obscurius est esse a potentia qua‹m› cum dicimus inpot[ent]em). Con casus, Varrone ‘traduce’ il greco πτῶσις (un calco morfo-semantico secondo Nicolas 1996, p. 115), rifacendosi opportunamente al significato etimologico di ‘caduta’ sottostante il termine grammaticale greco. Quest’ultimo, coniato da Aristotele (interpr. 16a 33, poet. 1457a 21, rhet. 1364b 36) è di controversa interpretazione, dal momento che nell’uso aristotelico si riferisce indifferentemente a tutte le modificazioni cui sono soggetti i nomi e i verbi: non è quindi un termine dal significato univoco (Belardi 1985, p. 121). Fu il pensiero stoico, in particolare con Zenone e Crisippo (autore di un Περὶ τῶν πέντε πτώσεων, cfr. Diog. Laert. vii 192 = SVF ii fr. 2) a fissare la teoria della flessione nominale e a delimitare al nome il campo di applicazione della πτῶσις, restringendo la nozione alle variazioni morfologiche di tipo casuale, inaugurando così la tradizione grammaticale giunta fino all’epoca moderna (seppur con notevoli oscillazioni nell’ordinamento dei casi, cfr. Belardi 1974). Ma è l’origine stessa del termine casus a non essere chiara. Da sempre è stato connesso etimologicamente al verbo πίπτω (‘cadere’) dal quale gli deriva il significato di ‘caduta’: tale ricostruzione, secondo Viparelli 1993, p. 405, «non solo ha generato teorie, tanto ingegnose quanto fragili, sulla metafora nozionale che ha dato vita al concetto di “caso”, ma ha anche probabilmente oscurato, fin dai tempi antichi, l’originario significato del termine». C’è chi ha sostenuto (Sittig 1931) che l’origine del termine sia da riferire invece a πίπτω nel senso di ‘accadere’, e da lì collegata al gioco degli astragali: come πτῶσις era chiamata non solo la caduta dei dadi, ma anche il risultato del lancio, così – sfruttando la metafora – si definì il possibile modo di capitare, di disporsi delle parole nella frase e la disposizione stessa. All’immagine della caduta dello stilo fa riferimento invece la testimonianza sopra citata di Ammonio (in Aristot. interpr. 42, 30 ss. Busse = Chrys. SVF ii fr. 164), secondo la quale la scelta di questa denominazione

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sembra far riferimento allo stilo usato per scrivere che, cadendo, può trovarsi in posizione perpendicolare rispetto al suolo (cioè in posizione diritta: ὀρθὴ πτῶσις = casus rectus), oppure in posizione inclinata (πτώσεις πλάγιαι = casus obliqui). esset enim deridiculum, si similes inter se parentes sint, de filiis iudicare: l’argomentazione è la stessa di viii 42 (esset enim ut si quis, Menaechmos geminos cum videat, dicat non posse iudicare similesne sint, nisi qui ex his sint nati considerarit num discrepent inter se), con il medesimo riferimento alla commedia plautina dei Menaechmi che si ritrova anche in x 38 (cfr. Taylor 1977, pp. 317-318). Si tratta infatti della metafora della generazione dei figli applicata al processo morfologico flessivo che conduce dal nominativo ai casi obliqui. errant, quod non ab eo‹rum› obliquis casibus fit, ut recti simili facie ostendantur, sed propter eos facilius perspici similitudo potest: Varrone fa una distinzione molto importante. Il confronto dei casi obliqui non è un escamotage per dimostrare la somiglianza dei nominativi, ma una ‘prova empirica’, una conferma di questa. Alla base del ragionamento è l’intuizione che lo stesso nominativo è in realtà formato su un tema morfologico più astratto, il quale si ritrova poi alla base degli altri casi nel corso della flessione. Il criterio che prima veniva tacciato di ambiguità o scorrettezza metodologica, diventa all’opposto garanzia di veridicità: il rapporto che lega nominativo e caso obliquo da criterio probante assurgerà nel x libro a criterio scientifico, tanto da potervi costruire proporzioni matematiche che descrivono in termini formali il processo flessivo (cfr. Taylor 1977, pp. 321-323). ut lucerna in tenebris allata … quae sunt, quoius ‹mo›di[s] sint: l’immagine della lucerna ricorre nel famoso passo di v 9 (quodsi summum gradum non attigero, tamen secundum praeteribo, quod non solum ad Aristophanis lucernam, sed etiam ad Cleant‹h›is lucubravi), in cui evoca i due punti di riferimento per Varrone nello studio dell’etimologia, la scuola alessandrina (Aristofane) e quella stoica (Cleante). In questa similitudine, invece, la lucerna rischiara le tenebre e rende visibili i reali contorni delle cose, non alterati. Luce vs tenebre, apparenza vs realtà delle cose: si tratta di elementi topici dell’argumentatio filosofica (cfr. il mito platonico della caverna in

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rep. vii 514a-517a), presenti anche a livello di filosofia popolare (cfr. alcuni motivi proverbiali in Otto 1890, pp. 221-222).

44. quid similius videtur quam in his est extrema littera CRUX P HRYX ?: le x finali delle due parole sembrano uguali, ma, in realtà, derivano da due sequenze morfologiche astratte diverse. Se da una parte è [cruc+s], dall’altra è [Phryg+s]: l’osservazione è notevole dal punto di vista linguistico, perché presuppone la distinzione tra una forma superficiale e una struttura morfologica soggiacente (cfr. Oniga 2014, p. 70), che non coincide con la forma fonetica di superficie, come in crux e Phryx (cfr. Cic. orat. 160 per l’ortografia di Phryges). Per quanto riguarda la lettera x, Varrone fornisce qui una importante testimonianza di fonologia sincronica che trova conferma in un frammento del De antiquitate litterarum (Serg. GL iv 520, 18 ss. = fr. 43 G.-S.): Varro dicit … X et Z. Non enim sunt necessariae: nam duplices sunt, quia ex ali‹i›s litteris fieri possunt. 45. in maiore parte orationis non sit similitudo … dupliciter stulte dicunt: si risponde al ‘sillogismo’ anomalista di viii 38 si est in oratione, aut in omnibus eius partibus est aut in aliqua [esse parum et]: in omnibus non est, in aliqua esse parum est, ut album esse ‹A›ethiopa[m] non satis est quod habet candidos dentes: non est ergo analogia. La visione estremizzante della parte anomalista porta a negare l’esistenza dell’analogia sulla base della constatazione che essa non si riscontra nella totalità, ma solo nella maggior parte dei fenomeni linguistici. A questa obiezione, Varrone risponde sottolineandone la pretestuosità (come già in altre occasioni): «è come se loro si mettessero a negare che abbiamo i calzari solo perché non li abbiamo nella maggior parte del corpo» conclude, con il consueto aggancio ai Realien. Il proverbiale modo di dire ‘doppiamente stupido, ingiusto, sbagliato, etc.’ si ritrova spesso anche nell’argomentare ciceroniano (cfr. ad es. inv. ii 21 e Tusc. iii 36). Anche in questo caso, comunque, la sostanza dell’argomentazione varroniana ha una sua profondità che ricorda le riflessioni di de Saussure sul concetto di ‘langue’, che non richiede di essere verificata nella totalità del materiale linguistico concretamente osservabile (la ‘parole’). Per la valenza tecnica del termine similitudo, insieme condizione e realizzazione dell’analogia, cfr. Marini 2009, p. 206.

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46. quod dicunt nos dissimilitudinem … in vestitu … in supellectile … sic orationem: i paralleli con l’arredamento e l’abbigliamento ricorrono spesso, come si è potuto vedere (cfr. §§ 9 e 20), nei libri viii e ix, e sono motivati dal forte legame che Varrone coglie nei meccanismi spontanei preposti al linguaggio, come alla vita quotidiana. I due criteri qui discussi sono la varietas e la similitudo, come già in viii 32: quod ‹si› esse[n]t analogia petenda supellectili, omnis lectos haberemus domi ad unam formam et aut cum fulcro aut sine eo, nec cum ad triclinarem gradum … quare aut negandum nobis disparia esse iucunda aut, quoniam necesse est confiteri, dicendum verborum dissimilitudine‹m›, quae sit in consuetudine[m], non esse vitandam. Per l’anomalista, dunque, è da preferirsi la varietas o dissimilitudo, che sembra decisamente guidare i gusti dell’uomo in ogni cosa, quindi anche nei comportamenti linguistici. La varietas come motivo di iucunditas o delectatio è particolarmente sentita nella prassi retorica, cfr. i precetti di Rhet. Her. iii 22 conservat vocem continui clamoris remissio: et auditorem quidem varietas maxime delectat, cum sermone animum retinet aut exsuscitat clamore. L’infinitiva, attesa dopo l’ennesimo incipit con la formula quod dicunt (quod aiunt era l’inizio del § 45), manca del verbo: l’aggiunta di sequi (collocato dopo nos; diversamente in B era collocato prima del pronome, secondo quanto annotato da Pier Vettori nella sua collazione) rappresenta la scelta testuale più seguita dall’edizione dell’Augustinus in poi, fino al Mueller e allo Spengel. Quest’ultimo, tuttavia, rimise in discussione il passo nella seconda edizione, lasciando nel testo i segni di lacuna e proponendo in apparato un assetto più complesso della frase: nos dissimilitudinem ‹quaerere, non similitudinem› anche sulla base del confronto con il paragrafo successivo. Gli editori Goetz-Schoell, prudenti come di consueto nel testo, propongono nelle Adnotationes (p. 285) di integrare così il passo: nos dissimilitudinem ‹potius gratam acceptamque habere quam similitudinem›. 47. ad quae dico … similitudines quoque sequi saepe: la dispositio delle supellectiles rappresenta la dispositio verborum. Varrone usa questo esempio per dimostrare che anche nel parlare seguiamo ‘inconsciamente’ una serie di similitudines, che potremmo tradurre in gergo linguistico con ‘regole’, o meglio ‘regole ricorsive’ che il parlante mette automaticamente in atto, grazie alla competenza linguistica che possiede.

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48. virilia inter se similia, item muliebria inter se sequi debemus: a differenza del caso (eccezionale) dei due nomi Perpenna e Alfena, citati al § 41 come esempio di discrepanza tra genere grammaticale e genere fisico, qui l’indicazione ha carattere generale e normativo. Potremmo addirittura sovrapporla ad una osservazione di Delbrück 1893, p. 90 sul genere: quando il genere non convoglia significati derivati (significati marcati), i maschi sono designati da sostantivi maschili e le femmine da sostantivi femminili. In linea di massima, quando sul piano referenziale c’è opposizione di sesso e sul piano linguistico opposizione di genere, il genere segue il sesso. In un passaggio dell’viii libro (§ 46) Varrone usa infatti il termine sexus al posto di genus: Haec [i. e. partes appellandi] singulatim triplicia esse debent quod ad sexum, multitudinem, casum. Cfr. infra § 55.

49. PERSEDIT PERSTITIT sic † PERCUBUIT : si tratta di un ennesimo exemplum quadrimembre (con la bipartizione ut … sic, cfr. § 38). La spiegazione successiva duo posteriora ex prioribus lascia supporre che accanto a percubuit dovesse esserci, infatti, un altro verbo. Quello che resta della sequenza è una sorta di panoramica delle tipologie di perfetto in latino (ad alternanza vocalica radicale, a raddoppiamento, in -vi; manca solo il perfetto sigmatico) in cui si rintraccia ancora un esempio di quelle che la linguistica moderna definisce ‘parole possibili ma non esistenti’ (vd. supra § 38). Infatti, il perfetto percubuit, come le forme persedit e perstitit, non viola alcuna regola che presiede alla formazione delle parole, ma non rientra – a differenza di quelle – nel corpus linguistico, almeno all’altezza cronologica in cui scrive Varrone (l’unica occorrenza del verbo percubo, per di più al perfetto, è nella prima delle due Elegiae in Maecenatem di età tardo-augustea: fudit Aloidas postquam dominator Olympi, / dicitur in nitidum percubuisse diem (vv. 8788). Suggestiva la congettura periacuit avanzata da Canal per ristabilire la forma verbale ‘gemella’ a percubuit: «periacuit sarebbe verbo fuor d’uso; non lontano nella scrittura da percubuit, sicché potesse essere trascurato; e volgerebbesi inoltre sulla stessa idea dello stare, che è comune agli altri tre verbi, sicché più spicchi l’anomalia dell’essere i due primi in uso, e gli altri no» (p. 563).

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50. quod sit ab ROMULO ROMA et non ROMULA neque ut ab OVE OVILIA sic a BOVE BOVILIA : Varrone attesta come non esistente il derivato bovile, analogamente a quanto già espresso in viii 54 (a bove bovile non dicitur). Il veto varroniano arriva fino a Carisio, che segnala (p. 133, 16 ss. B.): bovile vetat dici Varro ad Ciceronem VIII et ipse semper bubile dicit. In realtà, questo aggettivo sostantivato ha tre occorrenze in età post-varroniana: Phaedr. ii 8, 4; Hyg. fab. 30, 7 e Veg. mulom. iv 1, 3 (vd. ThlL ii 2151, 22-33). Nella competenza linguistica di Varrone, bovilis è una tipica parola ‘possibile ma non esistente’, che ha cominciato la sua esistenza in epoca successiva. La derivazione nominale costituisce infatti una delle maggiori risorse di arricchimento del lessico: le parole solo potenziali in un dato periodo cronologico, possono divenire esistenti in un periodo successivo.

51. quod vocabula litterarum latinarum non declinentur in casus: cfr. § 38.

52. quinque habeant figuras, habere quinque casus … in voce quae singulos habeant casus, in rebus pluri[mi]s: questa osservazione è molto importante, perché presuppone la distinzione tra ‘caso morfologico’ e ‘caso astratto’. Con Oniga 2014, pp. 59-60 si può definire il caso astratto come una proprietà necessaria di un particolare costituente sintattico; il caso morfologico, invece, è la realizzazione concreta del caso astratto. Se prendiamo ad es. l’indeclinabile frugi, questo ha un unico caso morfologico ma sei casi astratti, mentre se si guarda il paradigma flessivo di un tema in -a della prima declinazione, rosa, ae …, troviamo sei casi astratti e quattro morfologici. Varrone esprime tale concetto con una certa oscillazione terminologica: da un lato figura e vox esprimono la realizzazione concreta (caso morfologico), dall’altro res indica il caso astratto. Ma nella sostanza l’autore esprime perfettamente il fatto che, nel caso delle lettere dell’alfabeto (qui esemplificate con A ed E), un singolo caso morfologico può esprimere tutti i casi astratti, come nell’esempio il nominativo-accusativo e il dativo. ut sit hoc A, huic A, esse hoc E, [huiusce E] huic E: è un accenno di quanto verrà dimostrato ampiamente nel libro x, ovvero la possibilità di schematizzare la regolarità della morfologia flessiva attraverso il modello

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della proporzione matematica. Dietro l’utilizzo di quelli che Taylor 1977 ha definito «mathematical models of inflection» c’è la visione della flessione linguistica come un processo governato da regole precise, analoghe a quelle della matematica. D’altronde, il termine greco ἀναλογία significa appunto ‘proporzione matematica’, a partire dalla teorizzazione euclidea (cfr. Introduzione § 3.1). Sull’origine del termine è Varrone stesso a fare chiarezza in x 37: ex eodem genere quae res inter se aliqua parte dissimiles rationem habent aliquam, si ad eas duas alterae duae res collatae sunt, quae rationem habeant eundem, quod ea verba bina habent eundem λόγον, dicitur utrumque separatim ἀνάλογον, simul collata quattuor ἀναλογ‹ί›α. 53. quod dicunt esse quaedam verba quae habeant declinatus, ut quorum par reperiri quod non possit: il passo è probabilmente incompleto. Davanti alla relativa quorum par reperiri, subito dopo caput, il testo sembrerebbe presupporre un altro termine dalle caratteristiche notevoli, degne di nota (quorum fa infatti pensare a un plurale): questo doveva essere con ogni probabilità nihilum, discusso qualche riga più sotto. Reitzenstein 1901, pp. 54-55, n. 3 propone l’integrazione capitis, nihil nihili (accolta nel testo da Kent ad loc.), mentre Traglia 1974 ad loc. integra semplicemente nihilum. Altrettanto singolare è il fatto che il tràdito caput venga esclusivamente nominato, ma non esaminato in modo più ampio, contrariamente a quanto avviene per il problematico nihilum, attorno al quale si articolano gli interi §§ 53-54. Non è poi chiaro il motivo che spinge Varrone a considerare caput un nome irregolare o anomalo. Probabilmente la spiegazione sta nell’uscita in -t di questo sostantivo, un unicum nella morfologia latina. E l’interesse per l’esigua classe di nomi latini in -t si ritrova in un frammento superstite dell’xi libro del De lingua Latina (fr. 23 G.-S. = GL i 131, 7) in cui si fa riferimento al rarissimo sostantivo git (termine botanico per ‘nigella’) che, secondo Varrone, veniva considerato a torto un indeclinabile (Varro ad Ciceronem XI per omnes casus id nomen ire debere conmeminit; vulgo autem hoc ‘gitti’ dicunt). In un’altra testimonianza (Lact. opif. 5, 6 = fr. 33 G.-S.) è invece conservata l’etimologia varroniana di caput: datum illi [sc. voci ‘caput’] hoc nomen est, ut quidem Varro ad Ciceronem scribit, quod hinc capiant initium sensus ac nervi. Caput è un termine la cui origine non è ancora univocamente stabilita e di difficile interpretazione, probabilmente risultante da una radice *ghebh-, ‘cima’, da cui l’originaria CAPUT ,

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forma in dentale sonora -d, *cap-ud (Perotti 1989, p. 342). quare in hoc tollunt esse analogias: tollunt rappresenta un’inedita variatio rispetto al consueto negant con cui Varrone è solito introdurre la verifica di una nuova argomentazione anomalista. Nonostante il senso sia chiaro, la costruzione con l’infinitiva è tuttavia problematica (gli editori Goetz e Schoell inseriscono l’ennesima crux; accettano il testo tràdito L. Spengel, Mueller, Canal, Kent), soprattutto se confrontata con l’uso in contesti analoghi di tollo ai §§ 62 e 112 di questo stesso libro.

54. sed NIHILUM vocabulum recto casu apparet in hoc: per sanare il testo tràdito sed initium vocabulum, gli editori Goetz e Schoell prediligono l’emendazione del Lachmann nihilum, sostantivo neutro, rispetto alla congettura dello Scioppio in nihil seguita da L. Spengel, Mueller e Canal. Uno sguardo alle occorrenze del termine in età varroniana sembra dar ragione a questa scelta. Nelle poche attestazioni di nihilum rintracciabili ad es. nella prosa ciceroniana, il termine sembra assumere le caratteristiche di un indeclinabile in costrutti perifrastici con le preposizioni in e ad, come ad nihilum venire (ad es. Cic. div. ii 37; orat. 233; fam. ii 12, 1). A partire da questa cristallizzazione semantica del termine – potenzialmente una prova dell’irregolarità del linguaggio – Varrone tenta di dimostrare la regolarità flessiva del sostantivo, indicando le attestazioni al casus rectus (in Ennio cit. infra) e in un caso obliquo (in Plauto cit. infra), con l’obiettivo di ricondurre anche questa presunta ‘eccezione’ al principio dell’analogia. quae dedit ipsa capit neque dispendi facit hilum: si tratta di una testimonianza enniana, proveniente dagli Annales (fr. 14 V 2 = 6-7 Skutch) che sono di gran lunga l’opera più citata nel De lingua Latina (in tutto 36 citazioni, vd. analisi in Piras 2015, p. 60). Questo stesso frammento ricorre anche in v 60 (recte igitur … Ennius ‘terram corpus quae dederit ipsa capere neque dispendi facere hilum’ ), un passo dai contenuti filosofici di matrice empedoclea (Deschamps 1986, p. 54) in cui la citazione enniana è a sostegno della tesi varroniana sul processo vita-morte, rispettivamente spiegati attraverso l’unione e separazione di anima e corpo (animae et corporis discessus quod natis is exi‹t›us, inde exitium, ut cum in unum ineunt, initia). Lehmann 2002, pp. 119-141 osserva come nella scelta di passi enniani,

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Varrone prediliga quelli di contenuto filosofico-teologico (all’insegna di «un pythagorisme teinté d’orphisme et mêlé aux idées d’Empédocle», p. 141) vicino alle simpatie pitagoriche di Varrone. video enim te ni[c]hili pendere prae Philolacho omnis homines: il passo appartiene a Plaut. Most. 245. Il testo di F presenta la lezione Philolacho, diversamente dai manoscritti plautini che danno Philolache (dal momento che il nome è Phılo± la ± c± he-s). Si tratta della costruzione nihili pendere/ facere/putare con nihili genitivo di stima o prezzo. quod est ex NE et HILI : quare dictus est NI [C ]HILI qui non HILI erat: al termine di questa breve panoramica, Varrone traccia le sue lucide conclusioni su nihil-nihilum, che effettivamente deriva da ne+hilum, come testimonia il passo enniano. Il sostantivo neutro hilum ‘un puntino, un nonnulla’ (vd. la connessione etimologica tracciata in v 113 filum, quod minimum est hilum: id enim minimum est in vestimento) finì coll’unirsi indissolubilmente alla particella negativa, dando luogo al sostantivo neutro nihilum; dallo stesso nesso ebbe origine il pronome e avverbio nihil (analisi in Fruyt 2008).

55. negant, cum omnis natura sit aut mas aut femina aut neutrum: il problema del genere, già affrontato al § 41, viene qui approfondito sulla base delle critiche anomaliste riportate per esteso. Perché esistono termini ‘declinabili’ in tutti e tre i generi (come albus-alba-album), altri in due (Metellus-Metella) e alcuni in uno solo (tragoedus)? La contro-argomentazione analogista, che si sviluppa fino al § 63 ed è impostata sulle due nozioni correlate di natura e usus (Lomanto 1998), è piuttosto caotica nell’accavallarsi di esempi di vario genere ed efficacia, ma è chiara nella sua sostanza. Essa ha come base teorica la discrezionalità e quindi l’arbitrarietà dei fenomeni linguistici connessi alla categoria del genere grammaticale (vd. nota al § 41), che non implica, tuttavia, la mancanza di regolarità nei processi morfologici. deorum liberos et servorum … ut Iovis filium et filiam, †Iovem Iovem et Iovam: il testo è sicuramente lacunoso. L’argomentazione si concentra sui nomi di persona, che vengono qui divisi in due sottocategorie,

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quelli ‘declinabili’ al maschile e femminile, come Terentius e Terentia, e quelli il cui uso non lo prevede, ovvero i nomi degli schiavi e degli dei (e ovviamente dei loro figli). Tuttavia, l’esempio riguardante i nomi dei figli degli schiavi (per cui A. Spengel ad loc. ipotizza «de servo dici magis expectes velut Ionis filium et filiam») manca totalmente, e anche quello sui nomi (inesistenti) dei figli di Giove è solo congetturalmente ricostruibile (vd. apparato critico).

56. propter domesticos usus … appellatur mas COLUMBUS , femina COLUMBA : a riprova di quanto detto al § 55, è il caso di columbus che, da ‘parola possibile ma non esistente’, è diventata esistente in una fase successiva della lingua (nunc …). Natura dei referenti e usus sono i due discrimina fondamentali. In ossequio all’usus (recente, nato in seguito all’affermarsi dei columbaria nelle villae romane, cfr. rust. iii 7, 3) accanto all’epiceno columba, compare il maschile columbus che, come segnala Varrone stesso, nasce in ambiente ‘domestico’ e come tale rimarrà al livello stilistico della Umgangssprache (ThlL iii 1733, 8 ss.). Nella lingua letteraria continuerà a prevalere nettamente l’epiceno columba (cfr. in Properzio ii 15, 27 ss. exemplo iunctae tibi sint in amore columbae, / masculus et totum femina coniugium), mentre columbus (dopo l’unica occorrenza plautina in Rud. 887) entra a far parte del vocabolario amoroso di Catullo (29, 8 e 68, 125) ed è usato in tono scherzoso in Hor. epist. i 10, 5 (cetera paene gemelli / fraternis animis … adnuimus pariter, vetuli notique columbi).

57. singularibus ac secretis vocabulis appellati sunt: i tre generi sono infatti definiti con mas, femina e neutrum.

58. ergo dicitur ut SURDUS VIR , SURDA MULIER , sic SURDUM THEATRUM : la categoria degli aggettivi non viene distinta da Varrone (come da tutti i grammatici antichi) quale classe lessicale autonoma, ma è considerata una sottocategoria del nome, perché ne condivide le caratteristiche morfologiche, assumendo forme diverse secondo il genere e il numero. Varrone osserva in maniera sistematica nell’ambito della teoria delle partes orationis le proprietà dei nomi, dei verbi e degli elementi che ad essi è possibile aggiun-

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gere, ovvero aggettivi e avverbi. In viii 12, nomi e verbi vengono definiti vocabula et verba priora, mentre con vocabula et verba posteriora vengono indicati aggettivi e avverbi che ai primi possono unirsi: c’è quindi consapevolezza nel Reatino del rapporto di subordinazione sintattica che interessa da una parte aggettivi e nomi, dall’altra avverbi e verbi (Iovino 2011, p. 10). In questi esempi, l’‘aggettivo’ è utilizzato soprattutto come una specie di ‘marcatore di genere’ per il nome, ma con delle implicazioni semantiche, in virtù delle quali, se da una parte si può dire surdum theatrum, dall’altra non è accettabile *surdum cubiculum (cfr. Ax 1996, p. 110 = 2000, p. 168). L’inconcinnitas del periodo contra nemo dicit … ad auditum («post “auditum” forsitan interciderit “comparatum”» osserva A. Spengel ad loc.) viene efficacemente sanata con il nesso causale quod proposto da Canal che accogliamo a testo (laddove lo Scioppio proponeva quod sit e Mueller quod id). Gli editori Goetz e Schoell, che in questo passo non segnalano alcuna difficoltà, evidenziano invece una corruttela nella riga successiva, dove la maggior parte degli editori accoglie giustamente l’espunzione di habent proposta da Mueller; per la stessa pericope, si distinguono le proposte testuali di Canal (ubi habitent al posto di habent) e di Fay 1914, p. 264 non habent quod.

59. mas et femina habent inter se natura quandam societatem, neutra cum his ‹nullam›: questa differenziazione ‘secondo natura’ si basa evidentemente sulla distinzione primaria tra esseri animati (genere femminile e maschile) e oggetti inanimati (genere neutro), come ci conferma una testimonianza di Cledonio (GL v 41, 24 = fr. 9 G.-S.), secondo la quale dicit Varro nullam rem animalem neutro genere declinari. Si tratta di un criterio di distinzione che è stato effettivamente il discrimen principale nell’assegnazione del genere grammaticale nella lingua latina (Meillet 1921, pp. 199-229). I linguisti oggi confermano che la distinzione dei tre generi si fonda in realtà su due tratti di classificazione binari: [± animato] e [± maschile]; Varrone sembra essere stato il primo ad averne avuto coscienza. in servis gentilicia natura non subest in usu, in nostri‹s› nominibus … necessaria: si apre qui una lunga serie di esempi dedicati all’onomastica, disciplina che ha un posto di rilievo nei molteplici interessi antiquari di Varrone. Tra le presenze di tale materiale nel De lingua Latina e le testi-

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monianze frammentarie delle opere perdute si può ricostruire un quadro complessivo in cui godono di particolare attenzione da parte del Reatino: i nomi di divinità (in v 58 -74 e nei frammenti superstiti della sezione de dis dei libri xiv-xvi delle Antiquitates rerum divinarum, frr. 87 ss. Card.), i praenomina (frr. 323-348 Fun.), i cognomina e agnomina (frr. 349-368 Fun. e rust. ii 1,10), i nomi di sacerdoti (v 83-86). In relazione agli interessi geografici ed etnografici dell’autore sono da leggersi poi le etimologie di nomi di popolazioni, territori e fiumi inseriti nel v libro del De lingua Latina e alcune testimonianze superstiti del De gente populi Romani (frr. 186-7 Fun.), assieme ad altre, sempre frammentarie, tratte con ogni probabilità dalle Antiquitates rerum humanarum e dal De ora maritima (vd. le pp. 345-353 dell’edizione Funaioli). Il particolare interesse rivolto all’antroponimia è spiegabile anche con la fortuna di cui godevano al momento della stesura del De lingua Latina lavori come il De cognominibus di Cornelio Epicado, liberto di Silla (Svet. gramm. 12) e forse citato dallo stesso Varrone in vii 39 (nam et in Cornelii commentario erat ab Libycis Lucas).

60. instituta ad usum singularia, quibus discernerentur nomina gentilicia: in queste righe è contenuto un accenno alla genesi del sistema trinominale romano. Il passaggio dalla denominazione a due elementi, prevalente dalle origini sino ai primi tempi della Repubblica, a quella tripartita, avvenne a partire dal IV secolo e comportò appunto la consuetudine dei tria nomina per gli uomini liberi (praenomen, nomen, cognomen). Varrone coglie correttamente l’esigenza pratica (evitare le omonimie: discernendi causa) da cui nasceva questo usus. L’auctoritas del Reatino in questo ambito viene testimoniata da un’opera tardo-antica, il Liber de praenominibus (= fr. 323 Fun.), un compendio in sette capitoli di argomento onomastico, che prende le mosse proprio dalla teoria varroniana sull’originaria simplicitas dei nomi tradizionali romani: Varro simplicia in Italia nomina fuisse ait, existimationisque suae argumentum refert quod Romulus et Remus et Faustulus neque praenomen ullum neque cognomen habuerint. I praenomina Postumus e Manius sono una testimonianza particolarmente interessante perché presentano una doppia valenza, ossia si ritrovano dopo il periodo repubblicano anche come cognomina (Kajanto 19822, pp. 40-41). Postumus, Lucius e Manius appartengono alla categoria dei nomi caratterizzati dalle circostanze alla nascita, categoria molto studiata da Var-

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rone, che talvolta li collega a etimologie molto fantasiose, come per Proculus, quia patribus senibus quasi procul progressis aetate nati sunt (fr. 363 Fun. = Paul. Fest. p. 117, 6) o Agrippa, ut aegre partus (fr. 349 Fun. = Plin. nat. vii 45).

61. MANIAM … LUCIAM VOLAMINIAM : Mania era la madre dei Lari, detta anche Larunda (cfr. Macr. i 7, 34 ss. Maniae deae matri Larum e Arnob. nat. iii 41 Varro similiter haesitans nunc esse illos Manes et ideo Maniam matrem esse cognominatam Larum); più oscura l’origine del nome Lucia Volaminia che Varrone leggeva nel Carmen Saliare (fr. 6 Sarullo). Quest’ultima figura era forse connessa alla coppia formata da Volumnus e Volumna citata da Aug. civ. iv 21 (= Varr. div. xiv fr. 119 Card.) tra le divinità invocate negli indigitamenta; altri ipotizzano che il nome costituisca un’antichissima forma di teonimo italico afferente alla medesima sfera cultuale di Lucina (vd. ampia discussione in Sarullo 2014, pp. 228-234).

62. quae voluntaria, non debeant similiter declinari: al termine di questa digressione sui nomi di persona, Varrone trae l’ennesima conferma alla sua teoria sulla declinatio. Le eccezioni presenti nella classe dei nomi propri sono l’espressione della voluntas umana, non della fallacia della ratio analogista, che invece subentra sistematicamente quando la forma entra nell’uso (quare quocumque progressa est natura cum usu vocabuli, similiter proportione propagata est analogia).

63. singulare est quod natura unum significat … aut quod coniuncta quodammodo ad unum usu[m]: in risposta a quanto detto in viii 48, vengono trattati alcuni problemi riguardanti il numero. Gli argomenti addotti sono la riprova di quanto fosse sofisticata l’indagine grammaticale di Varrone. Egli si trova infatti a definire dei concetti mai prima formalizzati in lingua latina, e raramente in lingua greca: Platone nel Sofista (237d) affronta in modo cursorio il problema dei tre numeri (singolare, plurale e duale) che sono riconosciuti come discrimina grammaticali (frr. 36-38 Matthaios) da Aristarco (anche se ἀριθμός non era usato ancora nell’accezione tecnico-grammaticale) e parzialmente dalla riflessione stoica, in par-

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ticolare crisippea. A Crisippo, Diogene Laerzio vii 192 attribuiva infatti un Περὶ τῶν ἑνικῶν καὶ πληθυντικῶν ἐκφορῶν; l’utilizzo dei termini ἑνικόν e πληθυντικόν da parte del caposcuola stoico sembra confermato anche da P.Herc. 307 (= SVF ii 298a); vd. Matthaios 1999, pp. 278-284. Oltre alla capacità di astrazione linguistica qui dimostrata, anche la scelta lessicale è pionieristica. La nozione di numero grammaticale viene resa con i termini multitudo (viii 46) e numerus, il singolare con singularis, -e, il plurale è multitudo, che si specializza in senso grammaticale (Collart 1954 p. 163, n. 1). Varrone definisce cosa si intende per singulare, quello che indica cioè un’unità naturale (quod natura unum significat), ma – aggiunge – non sempre numero ‘naturale’ e numero grammaticale coincidono: è il caso dei cosiddetti pluralia tantum, citati dall’accusa anomalista nel libro precedente (cfr. Taylor 1996, p. 165: «Pluralia tantum are among Varro’s favorite linguistic phenomena»). Uno di questi è bigae, -arum, il cui numero grammaticale è plurale, ma rappresenta una entità unica, la biga, cocchio da guerra biposto trainato da due cavalli: entità unica ma pur sempre composta da una pluralità di elementi che la costituiscono (aut quod coniuncta quodammodo ad unum usu[m]). E la prova empirica viene fornita dall’aggettivo numerale unus, a, um che può accompagnare il nome bigae: ‹ut› dicimus una Musa, sic dicimus unae bigae. In conclusione, viene riconosciuto il valore referenziale di questo tipo di nomi, designanti insiemi di elementi che possono essere considerati nella loro globalità come un tutto organico, un blocco unitario (Garcea-Lomanto 2011, p. 151).

64. multitudinis vocabula sunt unum infinitum … alterum finitum: la nozione di plurale viene ulteriormente distinta in ‘indeterminato’ (come Musae) e ‘determinato’ (duae, tres, quattuor). Tale nozione è molto vicina a quella moderna di ‘quantificatori’ del numero grammaticale (cfr. Simone 1990, pp. 315 ss.; Oniga 2007, p. 101), che si dividono appunto in ‘indefiniti’ (ad es. in it. qualche e in lat. omnis: cfr. Giusti-Iovino-Oniga 2015) e ‘definiti’ (i numerali appunto). Per quanto riguarda l’esempio di bigae, Varrone osserva correttamente che per esprimerne il plurale, non si ricorre alla consueta numerazione cardinale (unus, duo, tres …) ma a quella distributiva (binae bigae, trinae bigae …) essendo riferito ad un’unità composta da più elementi.

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65. est tertium quoque genus singulare ut in multitudine, UTER : viene rintracciata la nozione di ‘collettivo’ nell’aggettivo interrogativo uter, definito singulare ut in multitudine. Uter è singolare, ma si riferisce a due unità (‘quale dei due?’). Dopo in quo multitudinis, gli editori Goetz e Schoell inseriscono una crux a causa dell’incertezza del testo tràdito (vd. apparato critico): il correttivo più idoneo sembra essere, con Canal, la forma plurale utri che ricorre anche nell’esempio che segue subito dopo (utri poetae). Più difficile da accettare, anche che se più aderente al testo di F, la proposta di A. Spengel utrei, con grafia arcaica ei in luogo di i.

66. quae sub mensuram ac pondera potius quam sub numerum: la discussione condotta in questi paragrafi (66-67), riguarda una particolare categoria di nomi, che la linguistica moderna chiama ‘nomi-massa’ (o ‘compatti’, cfr. Simone 1990, p. 318), vocaboli cioè che indicano masse indistinte di materiale, come quelli indicanti materie prime. Gli esempi scelti, vinum, garum (salsa di pesce), argentum e plumbum sono usati al singolare anche se si riferiscono ad un quantitativo maggiore di un’unità. Secondo Varrone, si dice infatti multum plumbum e multum argentum (con il termine preceduto dal quantificatore non numerale multum) e non si usa il plurale plumba e argenta. 67. si genera in se habe‹n›t plura … : alcuni nomi-massa prevedono l’uso di un plurale che esprime il concetto di ‘vari tipi di’. È il caso di vina, plurale di vinum che, in ossequio all’uso, serviva a indicare collettivamente le varie tipologie di vino: si genera in se habe‹n›t plura et ea in usum venerunt, a genere multo, sic vina et unguenta, dicta (per vina cfr. anche Cic. Verr. i 91). Diversamente oleum è, come conferma il ThlL ix 2, 545, 73-74, singulare tantum, testibus compluribus inde a Varrone ling. ix 66, 67. Di «durissima structura» parla Krumbiegel 1892, p. 10 in riferimento alla sequenza alii generis ~ regionibus aliis per l’ellissi della copula nella frase. †quae ipsa dicuntur nunc melius unguent[i]a: opportunamente gli editori Goetz-Schoell indicano un problema testuale evidente nell’attacco ‘mutilo’ di questo periodo. Nelle Adnotationes finali dell’edizione tedesca

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(p. 286) segnalano la suggestiva ipotesi di Canal (quae ipsa ‹ad›ducuntur nunc mo‹l›lius unguenta quorum) cui affiancano un’ancora più audace proposta testuale da loro approntata (quasi una riscrittura), tesa al recupero della contrapposizione passato/presente nel passo (item … nunc): ‹item› que‹m› in Persia (corrotto in ipsa) dicunt or‹tum Graeci nostrique excoluerunt› nunc melius ‹usum› unguenti[a] … 68. BALNEAE , non BALNEA , contra quod privati dicant UNUM BALNEUM , quod PLURA BALNEA ‹non› dicant: ancora una risposta alle obiezioni che erano state mosse in viii 48 sui singularia e pluralia tantum: sed et singularia solum sunt multa, ut cicer, siser (nemo enim dicit cicera, sisera) et multitudinis sunt, ut salinae (non enim ab his singulari specie dicitur salina) et balnea‹e›: neque ab eo quod dicunt balneum habet multitudinis consuetudo. In linea di massima (l’uso è infatti oscillante) per indicare i bagni pubblici si usava il femminile plurale balneae o balineae, mentre la stanza da bagno di un privato si indicava con il neutro balneum, (cfr. ThlL ii 1704, 38 ss.). Varrone esclude l’uso di balnea, -orum come plurale di balneum (ma in età augustea e post-augustea verrà accettato nell’uso soprattutto in poesia, cfr. ThlL ii 1705, 48 ss.). Come specifica ancora giustamente Varrone, il termine balneum era desunto dal greco βαλανεῖον (vd. l’intervento testuale di G.-S. ad loc.) e si alternava con l’arcaico lavatrina/latrina (cfr. v 118) che da Plauto in poi (Curc. 580) assume l’accezione più ‘triviale’ (ThlL vii 2, 1037, 6 ss.). 69. sic SCALAS , quod ab scandendo dicuntur: scala (*skand-s-la-) è effettivamente un derivato da scandere ed è sostantivo usato più frequentemente al plurale (Ernout-Meillet 19594, s.v. scando). Il motivo è per Varrone di natura pratica, perché è immmediatamente perspicua la pluralità di elementi (gradini) che la compongono. Più ad ‘un fatto di costume’ è legata invece la genesi di aquae cal(i)dae (stazione termale): dal momento che le sorgenti di acqua termale erano molto diffuse e frequentate in tutto il territorio, era logico che venissero chiamate multitudinis potius quam singulari vocabulo (cfr. ThlL Onom. ii 1, 81, 1 ss.).

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71. sed ne in his vocabulis quae declinantur, si transeunt e recto casu in rectum casum: fino a questo punto la discussione si era concentrata su fenomeni inerenti alla flessione nominale. Nei successivi paragrafi, l’analisi si sposta sul campo della derivazione, partendo dal caso semplice degli aggettivi denominativi formati per mezzo del suffisso -ia-nus (vd. Leumann 1977, p. 325). L’operazione della derivazione, che cambia le caratteristiche del tema di una parola già esistente, formando il tema di una parola nuova per mezzo di altri affissi, viene interpretata da Varrone come un transire e recto casu in rectum casum. Negli esempi che seguono, il suffisso -ia-nus viene riconosciuto come comune alla denominazione (cognomina) dei gladiatori (Kajanto 19822, pp. 109-110), ma correttamente viene altresì osservato che il processo di derivazione non avviene necessariamente per tutti i nomi: viene cioè osservato da Varrone che la suffissazione ha delle restrizioni che dipendono dalla base (animadvertant, unde oriuntur, nomina dissimilia). Similmente, nel caso dell’opposizione tra Scipionini e Scipionarii, viene intuito che diversi suffissi (-ı-nus e -a-rius: vd. Kajanto 19822, p. 110 e pp. 113-114) possono essere tra loro in concorrenza, e che la formazione di un derivato per mezzo di uno dei due può bloccare la formazione dell’altro. Sul fenomeno, definito ‘blocking’ dalla linguistica moderna vd. § 38. cognomina neque in usum etiam perducta, natant quaedam: è piuttosto raro l’uso di natare nell’accezione metaforica di ‘oscillare’, ‘essere incerto’ (cfr. OLD ii 1274 s.v. 5b). Il verbo compare nel De lingua Latina ancora in x 16 (in consuetudine vehementer natat) in riferimento ai fenomeni linguistici e in viii 74 (neque oportebat consuetudinem natare) dove natare è congettura del Canal unanimemente accettata, al posto del tràdito notare (Antonibon 1899, p. 130).

72. dicatur STULTUS STULTIOR STULTISSIMUS , non dici LUSCUS LUSCIOR LUSCISSIMUS : la restrizione che possiamo rintracciare nelle parole di Varrone è sicuramente di ordine semantico. A differenza di uno stultus, che può esserlo più o meno in relazione ad altri, il cieco (luscus) non può esserlo più o meno (quod natura nemo lusco magis sit luscus). Per quanto riguarda i gradi dell’aggettivo, in viii 17, egli definisce in termini di incrementum la formazione tramite suffisso del comparativo e del superlativo: propter ea verba quae

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erant proinde ac cognomina, ut prudens, candidus, strenuus, quod in his praeterea sunt discrimina propter incrementum, quod maius aut minus in his esse potest, accessit declinationum genus, ut a candido candidius candidissimum sic a longo, divite, id genus aliis ut fieret (ovviamente cognomen è inteso in questo passo nell’accezione grammaticale vicina a quella di adiectivum, ossia quasi nomini adiunctum, cfr. ThlL iii 1494, 1-2). L’interesse per la formazione del comparativo si manifesta ancora in viii 75, dove Varrone analizza il fenomeno del ‘suppletivismo’ che si verifica per alcuni aggettivi, come bonus e malus che non hanno al comparativo e al superlativo le forme *bonius, *malius, e *bonissimus *malissimus, ma presentano forme irregolari con cambiamento di tema: melior, peior e optimus, pessimus. 73. cur ‹non› dicamus MANE MANIUS MANISSIME … magis quam *** mane: la piena comprensione del testo è guastata da una lacuna (individuata da L. Spengel che ipotizza un saut du même au même, vd. apparato critico). Siamo nello snodo principale della contro-argomentazione di Varrone alle accuse anomaliste sull’irregolarità nella formazione dei comparativi e superlativi degli avverbi. Al fatto che mane sia privo di comparativo e superlativo suffissale si accennava già in viii 76; qui si osserva invece la complessità semantica della forma perifrastica magis mane ‘di prima mattina’ che non indica un incrementum quantitativo ma una priorità temporale. Il passo viene recepito (e forse frainteso) dai grammatici tardi, cfr. ad es. Serv. gramm. GL iv 439, 16 ss. sunt alia adverbia, quae per se non conparantur, egent autem conparatione, ut est mane: nemo enim dicit manius, nemo manissime. Verum tamen hanc, quam per inflexionem non habemus, possumus facere per adiectionem illarum particularum, ut magis et maxime, ut puta sit positivus mane, conparativus magis mane, superlativus maxime mane.

74. ab ANU ANICULA ANICILLA … sic non dicatur a PISCINA PISCINULA PISCINILLA : dopo aver parlato del genus augendi, Varrone passa alla trattazione del genus minuendi (così definito in viii 52). Vengono distinti tre gradi di magnitudo anche per i diminutivi, ut cista cistula cistella, anche se in viii 79 si afferma che in molti casi questi ‘paradigmi’ restano incompleti (in hoc genere vocabulorum quoniam multa desunt). La stessa constatazione è espressa in questo passo e motivata con il mancato riscontro nell’uso

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comune (ubi magnitudo animadvertenda sit in unoquoque gradu eaque sit in usu com‹m›ni); sui diminutivi latini cfr. Zucchelli 1969 e Fruyt 1989. La categoria dei cosiddetti ‘suffissi valutativi’ è molto discussa in linguistica e si colloca al confine tra flessione e derivazione (Grandi 2001): tali suffissi possono aggiungersi a nomi, aggettivi e verbi senza modificare né la categoria né i tratti della base, ma aggiungendo solo una sfumatura semantica (Oniga 2014, p. 158; vd. anche Leumann 1977, pp. 305-311). Il lessico usato da Varrone per esemplificare queste categorie è evidentemente di sapore plautino: anus, cadus, cistula, cistella costituiscono un piccolo estratto di famosi Realien che erano alla base dell’intreccio comico.

75. negant habere rectos ut in hoc FRUGIS FRUGI FRUGEM : è la risposta al § 49 dell’ottavo libro, in cui si mettevano in evidenza le lacune di produttività della morfologia flessiva (alia casus habent et rectos et obliquos, alia rectos solum, alia modo obliquos habent: utrosque ut Iuno, Iunonis, rectos modo ut Iupiter, Maspiter, obliquos solum ut Iovis, Iovem: non ergo in his est analogia). Secondo Varrone, i paradigmi difettivi di Diespiter e Maspiter o di frugis, sono l’espressione di lacune accidentali della lingua: le forme Diespitri, Diespitrem e frux di per sé non violano alcuna regola della flessione, anche se non sono usate quando scrive il Reatino (cfr. Oniga 1988, p. 15). I casi obliqui di Diespiter, ad esempio, si attestano effettivamente in età successiva: cfr. ThlL Onom. iii 2, 149, 75 ss. L’antichità dell’appellativo Diespiter è riconosciuta in v 66 dove viene analizzato come composto di dies e pater (hoc idem magis ostendit antiquius Iovis nomen: nam olim Diovis et Di‹e›spiter dictus, id est dies pater). Di segno opposto il caso di frugis, frugi, frugem che mancherebbe del casus rectus secondo gli anomalisti. In realtà, il nominativo frux esiste – conferma Varrone – anche se rarissimo: si legge solo in Ennio Ann. 314 e 423 Sk. nell’accezione di ‘uomo onesto’ (= homo frugi, vd. Skutsch 1985, p. 494.); cfr. ThlL vi 1, 1455, 21 ss. Per la forma del nominativo singolare haec frugis cfr. anche Prisc. GL iii 145, 10.

76. sic secundum naturam nominandi est casus COLS, secundum consuetudinem COLIS: nella casistica dei nomi privi di casus rectus rientra anche colis, per il quale Varrone sembra indicare *cols come nominativo secundum naturam, mentre nell’uso si ha colis (che è forma popolare rispetto a caulis,

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cfr. Adams 2013, pp. 84-85). Similmente, per Varrone il nominativo di ovis avrebbe potuto essere *ovs, diventato ovis per ragioni di eufonia. L’origine di queste forme, in apparenza bizzarre, andrà ricercata da un lato nella teoria varroniana secondo la quale il nominativo dovrebbe essere più breve del genitivo (cfr. Introduzione, p. 60), dall’altro nella coscienza linguistica per cui, ad un accusativo in -em e ad un ablativo in -e, doveva corrispondere un nominativo con un tema consonantico, e non un nominativo in -is, che è tipico dei temi vocalici con accusativo in -im e ablativo in -i. Cfr. anche § 79, dove similmente viene notata l’irregolarità dei nominativi strues e Hercules.

77. nihil enim ideo quo minus siet ratio, percellere poterit hoc crimen: se anche queste lacune nella flessione fossero effettive – dice Varrone – non è comuque giustificabile la messa in discussione della regolarità (ratio) dei processi morfologici e pertanto dell’analogia. Anche se è l’uso a decidere quali parole vivranno o meno, l’azione di fattori esterni tocca solo in maniera secondaria la struttura interna della grammatica, che ha le sue leggi autonome (Oniga 1988, p. 16): si tratta di una «rule-governed creativity», per usare la nota espressione chomskiana. Si noti la forza espressiva del verbo percello che afferisce al lessico bellico, nella sententia con cui si chiude una parte dell’argomentazione analogista. Degno di nota anche l’arcaismo siet (modellato sull’ottativo greco εἴη) in luogo del si et che si legge in F, preferito in quanto lectio difficilior da Mueller alla forma sit. Cicerone stesso, come nota Mueller stesso a sostegno della sua proposta, considerava ambivalenti le forme sint e sient (cfr. orat. 157 sient plenum est, sint imminutum; licet utare utroque).

78. nam ut signa quae non habent caput … nihil[h]o minus in reliquis membris eorum esse possunt analogiae: l’exemplum della statua acefala è di particolare efficacia iconica. Esso rappresenta il paradigma flessivo di una parola (= statua), che nonostante la mancanza di uno dei casi (ad es. il nominativo = caput), non viene comunque meno alla regolarità flessiva nei restanti casi (nihil[h]o minus in reliquis membris eorum esse possunt analogiae). L’esempio viene riproposto e specificato al § 79, dove si ricorre ad un caso topico della statuaria ellenistica, quello di Alessandro Magno. La proportio del corpo umano è un fondamento della teoria vitruviana

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esposta nella praefatio al libro iii del De architectura (iii 1, 1 proportio est ratae partis membrorum in omni opere totiusque commodulatio, ex qua ratio efficitur symmetriarum), dove viene istituito un confronto tra il sistema modulare proprio dell’architettura e quello del corpo umano (Gros 1997, p. lviii). La ricerca tesa ad individuare un sistema di corrispondenze modulari nel corpo umano risale a Policleto che, partendo dalle indagini teoriche condotte nel suo scritto sul Canone, ne offre poi applicazione pratica con la statua del Doriforo. È giunta a noi, grazie alla testimonianza di Plinio il Vecchio (nat. xxxiv 56) la celebre (e discussa, cfr. Ferri 1940) definizione di signa quadrata data da Varrone alle opere scultoree di Policleto, formula con cui il Reatino faceva riferimento alla quadratio, ovvero al sistema di simmetrie e di corrispondenze tra i diversi piani della figura scolpita: una definizione che facilmente si può accostare agli interessi geometrico-matematici emersi in questo libro del De lingua Latina e in particolare agli schemi proporzionali. apud poetas invenimus … ut in hoc apud N‹a›evium in Clastidio: della fabula praetexta intitolata Clastidium rimangono solo due frammenti (frr. praet. 1 e 2 R3.) trasmessi da Varrone proprio nel De lingua Latina. Il primo è nel settimo libro (vii 107) ed è testimonianza su una singola parola (vitulantes collegata al nome proprio Vitula, dea della gioia e della vittoria), il secondo, qui citato, è un verso intero. Si tratta del senario giambico Vita insepulta laetus in patriam redux. L’uno e l’altro sono probabilmente da riferirsi al ritorno a Roma dell’esercito vincitore e al trionfo di Marcello: i soldati sarebbero ‘giubilanti’ e Marcello felice di essere ritornato sano e salvo in patria (Marmorale 19502, p. 202). Da Aulo Gellio (xvii 21, 44-45) sappiamo che Varrone, nel suo De poetis, si occupava diffusamente di Nevio e della sua vita, tanto che i frammenti varroniani relativi all’opera neviana sono inferiori a quelli riguardanti la sua biografia (Lehmann 2002, pp. 91117). Ne consegue l’importanza di questo ‘esempio dotto’, di cui però non è immediata la correlazione con quanto detto sopra. Probabilmente, quello di redux vuole essere un esempio ‘illustre’ di come si può risalire ai casi mancanti di alcune parole (sic in vocabulis casuum possunt item fieri ac reponi quod aberit): si tratta infatti di un nominativo che, se si eccettuano il frammento neviano e questa citazione varroniana, effettivamente è assente nel latino classico e ha una certa diffusione solo nel latino tardo.

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79. HAEC STRUES , HIC HERCULES , HIC HOMO : come già nel § 76, Varrone nota l’irregolarità di alcuni nominativi della terza declinazione, proponendo le forme alternative *strus, *Hercul, *homon basate evidentemente sull’analogia con sostantivi come sus, animal, nomen. Si noti poi che Hercules nella flessione (in particolare al genitivo, dativo, accusativo) presenta una notevole oscillazione tra forme concorrenti della seconda (ad es. viii 26), terza e quinta declinazione (ad. es. Catullo 55, 13). sic et † Alexandri membrorum: le difficoltà interpretative del passo sono evidenziate dalla crux posta da Goetz e Schoell. Molte sono le soluzioni avanzate dagli editori moderni per ristabilire il testo tràdito. Citando le più importanti, si distinguono per il minimo impatto sul testo le proposte di L. Spengel (sic et ad Alexandri membrorum simulacrum caput quod respondeat item sit?) e A. Spengel che legge sic et Alexandri membrorum simulacro caput quod respondeat item sit? (con la variazione di simulacrum in simulacro). Decisamente brillante l’ipotesi di Canal che prevede la sostituzione di sit et con licet e di item sit con id non sit (licet ad Alexandri membrorum simulacrum caput quod respondeat id non sit): una soluzione che indubbiamente ha il pregio di rendere più scorrevole nella concessiva finale il passo che pure mantiene una certa inconcinnitas (il senso è probabilmente: «le parti del corpo saranno sempre proporzionate tra loro, nonostante quella non sia la testa conforme ad una statua che riproduce le membra di Alessandro»). Sulla statuaria cfr. nota al § 78.

80. item de ficis platanis et plerisque arboribus, de quibus alii extremum VS, alii EI faciunt: si tratta di alcuni nomi di alberi che nell’uso oscillavano tra la seconda e la quarta declinazione (Ernout 19533, p. 25; André 1985, p. 104). In particolare, il caso del sostantivo femminile ficus (solo sporadicamente maschile, cfr. ThlL vi 1, 650, 56 ss.) era particolarmente dibattuto nell’antichità: qui assegnato da Varrone alla seconda declinazione (con la grafia arcaica del nominativo plurale -ei = - ı-: nam debent dici E et I, fici ut nummi), diversamente attribuito alla quarta da una testimonianza di Carisio (p. 122, 15 ss. B.) che cita come fonte lo stesso Varrone, anche se l’espressione portata a supporto è in realtà ciceroniana (de orat. ii 278): haec ficus et hae fici et has ficos facit. Genetivus enim singularis huius fici, non huius ficus est … sed Varro ‘de ficu se suspendit’ dicendo

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dedit multis licentiam ut hae et has ficus dicerent, quod usurpare maluimus propter cacemphaton. 81. quod Lucilius scribit ‘DECU ‹S ›IS , sive DECUSIBUS est’: l’emendazione del tràdito decuis in decusis risale all’edizione critica dei frammenti luciliani del Lachmann (p. 121), dopo che il Mueller per primo aveva ipotizzato nella sua edizione la correzione decussi. Qualche dubbio sulla resa ortografica, con o senza la geminazione della s (decusis/decussis), viene avanzato nell’edizione di Marx (vol. ii, p. 365), che colloca il passo tra gli incertae sedis fragmenta (vv. 1153-1154). Verosimilmente la grafia arcaica, senza raddoppiamento della consonante, è la più probabile. La prima forma (decusis) è dativo-ablativo plurale della seconda declinazione, in concorrenza con quella della terza decusibus. La forma corretta è, secondo Varrone, la seconda, che dà ragione dell’etimologia ab decem assibus, avanzata nel quinto libro (§ 170). In questa sede, viene presentata tutta la sequenza di nomi di monete e messa in evidenzia la natura ‘compositiva’ di questi nomi, formati da un primo elemento numerale che esplicita appunto il valore del pezzo e un secondo elemento derivato da as. Per i nomi dei multipli e sottomultipli di as è possibile pensare, secondo Collart 1954, 179 n. 10, ad un’origine etrusca. adsignificat: per il valore tecnico di adsignificare (calco dell’aristotelico προσσημαίνειν) nel De lingua Latina (le altre occorrenze sono in vi 36 e 40; vii 80; viii 3, 11 e 20) si rinvia a Garcea-Lomanto 2003. et HOC DUPONDIUM : il nome della moneta da due assi (dupondius) rispecchia un’indicazione ‘ponderale’, diversamente da quella aritmetica che si riscontra in tutte le altre forme della monetazione (Nadjo 1989, p. 194). L’origine di questo composto, nel quale il primo termine du-/di- demarca la duplicazione, e il secondo si ricollega a pendo, pondus, pondo, è così spiegata in v 169: dupondius ab duobus ponderibus, quod unum pondus assipondium dicebatur; id ideo quod as erat libra pondo[s]. Per Varrone si tratta di una forma oscillante tra genere maschile e neutro (ThlL v 1, 2285, 7 ss.), paragonabile a gladium e gladius (su cui cfr. v 116 e viii 45). Il termine assume ben presto anche una sfumatura ironica, identificando in generale una somma irrisoria (cfr. Petron. lviii 14) e, in senso traslato, HIC DUPONDIUS

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una cosa di poco valore, come sembra confermare un verso di Lucilio (1318 Marx): vasa quoque omnino redimit non sollo, dupundi (cfr. Poccetti 2003, pp. 77-83). 82. numeri qui ‹a›es non significant, usque a QUATTUOR ad CENTUM , triplicis habent formas: a differenza di unus (cfr. viii 63) duo e tres (x 83) che si declinano, i numeri dal quattro al cento, come dice lo stesso Varrone, sono indeclinabili, ma hanno comunque la distinzione nei tre generi maschile, femminile e neutro, demarcati come di consueto dal corrispondente aggettivo dimostrativo: hi quattuor, hae quattuor, haec quattuor. MILLE ,

quartum assumit singulare neutrum, quod dicitur HOC MILLE Varrone specifica che in questo utilizzo con genitivo partitivo, mille è un sostantivo neutro (viene invece definito sine casibus al § 88; per la centralità dell’auctoritas varroniana cfr. ThlL viii 972, 41-43) e che al plurale viene sostituito da milia (cfr. Gell. i 16, 9 ‘Mille’ enim non pro eo ponitur, quod Graece χίλιοι dicitur, sed quod χιλιάς, et sicuti una χιλιάς et duae χιλιάδες, ita ‘unum mille’ et ‘duo milia’ certa atque directa ratione dicitur). DENARIUM :

cum AS sit simplex, DUPONDIUS fictus: la differenza tra parola semplice e parola composta viene marcata dalla contrapposizione simplex/fictus. Probabilmente per denotare la creatività peculiare del genus compositicium, Varrone ricorre ancora una volta al verbo fingo, dall’uso oscillante nel De lingua Latina e riferito ora all’ambito della creazione lessicale in generale, ora più specificatamente a quello della derivazione e della flessione (Oniga 1988, pp. 11 ss. e Vaahtera 1998, p. 35).

83. pro assibus nonnunquam aes dicebant antiqui: la confusione tra as e aes, che indica la materia di cui l’as è fatto, è costante anche in Varrone, che fa derivare as da aes (cfr. v 169 as ab aere); si tratta di un’etimologia suggestiva ma foneticamente improbabile anche in virtù dell’origine probabilmente etrusca del termine (cfr. Nadjo 1989, pp. 189-190). ‘hoc [ab] aere aeneaque libra’ et ‘mille ‹a›eris legasse’: si tratta di due antiche formule giuridiche (Cenderelli 1973, p. 144), la prima riguardante

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gli atti di vendita (cfr. v 163 e vii 105), la seconda quelli testamentari, che dimostrano l’uso arcaico di aes nell’accezione generica di ‘moneta’.

85. nam sic loquontur

HOC MILLE DENARIUM ,

non

HOC MILLE DENARI -

‹ORUM›: la distinzione tra indefinito e definito, come tra asses e tresses, spinge

Varrone a pensare che anche il particolare genitivo in -ium nelle specificazioni numeriche sia usato esclusivamente ubi additur certus numerus in miliariis. In realtà, com’è noto, la desinenza antica del genitivo plurale dei temi in -o era propriamente -*om › -um e tale particolarità sopravvive in formule sacrali, giuridiche (un piccolo elenco è fornito qui di seguito dallo stesso Varrone: iudicium triumvirum, decemvirum, centumvirum), tecniche e in particolare nei nomi indicanti pesi e misure (sulle scelte stilistiche inerenti ai doppioni -um e -orum si deve citare almeno la preziosa testimonianza di Cicerone, or. 155 ss.; vd. Traina-Bernardi Perini 1998 6, pp. 160-161). Quanto al denarius, moneta d’argento, Varrone propone in v 173 una derivazione etimologica (molto fortunata nell’antichità, vd. Maltby 1991, p. 182 e Marangoni 2007, p. 36 s.v.) che lo collega ad aes: denarius, quod denos aeris valebat («perché valeva l’equivalente di dieci assi di bronzo»).

86. numeri antiqui habent analogias: il parallelo tra disciplina linguistica e matematica, come già visto (cfr. Introduzione §§ 1.3 e 3.1), investe tutta l’esposizione del De lingua Latina e culmina nella diffusa applicazione dei modelli matematici proporzionali nel x libro. Non è possibile risalire alla fonte di questa lunga digressione ‘aritmologica’ che non ha paralleli nell’viii libro. La centralità dell’elemento numerico (si pensi alle strutture tripartite e quadripartite frequentissime dell’argomentazione varroniana) che delinea quasi una mistica del numero (Collart 1954, p. 37), spinge da una parte a valorizzare gli interessi matematici del Reatino (che come ci è noto dall’Index di Girolamo compose un De principiis numerorum) e dall’altra l’influenza del pitagorismo. Questo era con ogni probabilità un elemento fortemenete caratterizzante i Logistorici, in particolare il Tubero de origine humana in cui si computavano le fasi e la durata della gravidanza sempre su base pitagorica (vd. fr. 3 Riese = Censor. die nat. 9, 1-3 con discussione in Lehmann 1985) e l’Atticus de numeris (cfr. Ferrero 1955, pp.

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319-324 e Bolisani 1937, 48-51), le Menippeae e il primo libro delle Hebdomades che, come testimonia Aulo Gellio (iii 10), era interamente dedicato alle proprietà del numero sette (virtutes potestatesque multas variasque dicit). L’interesse per l’aritmologia (che «alla fine del II secolo e nel corso del I secolo era diventata una sorta di moda», Piras 1998, p. 49) poteva essere giunto a Varrone anche per il tramite di Posidonio (vd. discussione in Schmekel 1892) e di Antioco di Ascalona (vd. Introduzione, p. 20 n. 34). regula[e] est numerus novenarius, quod, ab uno ad novem cum pervenimus, rursus redimus ad unum et novem: il nove è numero perfetto perché costituisce la decade (da 1 a 9) ed è il quadrato di 3, il numero perfetto in se stesso. Seguendo (ancora una volta) uno schema prima bipartito e poi tripartito, Varrone espone la natura novenaria della numerazione (Traglia 1976, pp. 180-181). Essa prevede due serie, una minore (da 1 a 900) e una maggiore (da 1.000 a 900.000). All’interno di queste due serie, si distinguono tre gradus: all’interno della prima il gradus singularis che va da 1 a 9; il gradus denarius da 10 a 90 e il gradus centenarius da 100 a 900. Gli stessi tre gradi, se considerati per la serie maggiore, raccolgono i numeri da 1.000 a 9.000 (singularis), da 10.000 a 90.000 (denarius); da 100.000 a 900.000 (centenarius). La suggestione del passo varroniano è sicuramente presente in Marziano Capella ii 103 quos per novenariam regulam minuensque per monadas decadibus subrogatas in tertium numerum perita restrinxit; tuttavia, mentre in Varrone il termine regula identifica il ‘criterio’ con cui procede la numerazione, in Marziano la regula novenaria è la ‘prova del nove’ vera e propria (vd. Lenaz 1975, p. 65), tecnica ben nota ai matematici antichi per cui se si divide un numero per nove, il resto deve essere uguale alla somma delle sue cifre, ridotta a una sola cifra. Il termine regula in questa particolare accezione («rule» traduce Kent; «regola» Traglia) non compare altrove nel De lingua Latina: in v 135 è presente nella sua accezione tecnica di ‘règolo’ (una lista di legno dritta usata tracciare linee diritte); più vicino al passo in questione l’uso in rust. i 19, 2 quo sequendum nobis in singulis fundis, dum sumus novicii, triplici regula, superioris domini instituto et vicinorum et experientia quadam. Oltre al lessico innovativo e alla complessa formulazione delle serie numeriche, l’inizio del § 86 è reso meno leggibile da alcuni problemi testuali non pienamente risolti dagli interventi degli editori. In primo luogo va rilevata la triplice ripetizione dell’aggettivo novenarius, a, um in tutto il paragrafo, nella prima occorrenza

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riferito a regula, nella seconda a numerus, infine a natura. Come suggeriscono in apparato Goetz-Schoell, la prima iunctura con l’aggettivo, non novenaria regula, potrebbe essersi originata per errore dall’anticipazione del successivo natura novenaria: natura sarebbe stata forse abbreviata in ñ e dunque erroneamente sciolta in non. Per riportare leggibilità al passo, lo Scioppio per primo espunse solo il non. Tuttavia la presenza di novenaria, aggettivo affiancato a una regula, è fortemente sospetta perché perturba il parallelismo nella sequenza logica duo actus, tres gradus, sex decuriae, che prevede solo la presenza di un numerale e un nome per ciascun sintagma: da qui la proposta di L. Spengel, che elimina in blocco non novenaria. Sempre lo Scioppio, in conseguenza alla correzione della prima iunctura, modifica il tràdito regulae est numerus novenarius («pertinente alla regola è il numero novenario», costruzione però sintatticamente possibile, vd. Servio GL iv 416, 15, nonché rintracciabile anche in un frammento di Staberio Erote, vd. Introduzione, pp. 54-55) in regula est numerus novenarius che si ritrova nelle edizioni successive e che ha il vantaggio di preservare il parallelismo con le sequenze esplicative successive: regula est … actus primus est … gradus singularis est. sic ab octonaria, et deosum versus ad singularia perveniunt: questo ‘corollario’ sui numeri di natura ottonaria è sospetto, tanto che Mette 1952, p. 119 propone di espungere tutta la frase ritenendola una glossa inter polata. 87. Actus primus est ab uno ‹ad› nongenta: questa sistemazione numerica ha sicuramente influenzato Marziano Capella in vii 745 primus igitur versus est a monade usque ad enneadem, secundus a decade usque ad nonaginta, tertius vero ab hecatontade usque ad nongentos, quartus, qui et ultimus, a mille usque ad novem milia, licet nonnulli Graeci etiam myria adiecisse videantur. Nella pericope varroniana merita attenzione l’utilizzo di actus, qui nel senso di ‘serie numerica’: il termine è desunto per i commentatori dal lessico teatrale (cfr. Kent e Traglia ad loc.), ma nel De lingua Latina appare ancora in contesto numerico, come unità di misura degli spazi agricoli (ling. v 34; cfr. ThlL i 450, 20-40).

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88. praeponemus HI MILLE, HORUM MILLE: è Mueller il primo a individuare in fine di paragrafo una lacuna; visto il brusco cambio di argomento suppone che tra la sequenza numerica e l’attacco del § 89 qualcosa sia caduto nel testo. L. Spengel, nella seconda edizione, ipotizza l’integrazione sic hi deciens, horum deciens includendo nell’esemplificazione anche l’avverbio numerale decie(n)s (= decie(n)s centena milia) precedentemente introdotto nell’argomentazione. 89. quoniam in eo est nomen co‹m›mune, quam vocant ὁμωνυμίαν: questa citazione congiunta dei due fenomeni linguistici dell’omonimia (§ 89) e sinonimia (§ 90) è in assoluto la prima in ambito latino. Com’è noto, il termine ‘omonimia’ viene definito assieme a quello di ‘sinonimia’ nella famosa apertura delle Categorie aristoteliche (cat. 1, 1). Si tratta di una distinzione operata in ambito dialettico: per ὁμώνυμα si intendono «quelle cose per le quali soltanto il nome è comune ( ὧν ὄνομα μόνον κοινόν), mentre è diversa la definizione dell’essenza corrispondente a quel nome (ὁ δὲ κατὰ τοὔνομα λόγος τῆς οὐσίας ἕτερος)»; si dicono invece συνώνυμα «quelle cose per le quali comune è il nome ed anche la definizione corrispondente dell’essenza a quel nome è la stessa (λέγεται ὧν τό τε ὄνομα κοινὸν καὶ ὁ κατὰ τοὔνομα λόγος τῆς οὐσίας ὁ αὐτός)»; cfr. Gusmani 1993, p. 113. La trattazione dei problemi relativi all’omonimia e alla sinonimia attraversa l’ambito dialettico-filosofico (vd. Aristotele supra), quello retorico (in ambito latino, ad es., Quintiliano considera l’omonimia come un caso di amphibolia in vii 9, 1 e la sinonimia una figura di parola in viii 3, 16), infine quello grammaticale: come osserva Matthaios 1999, pp. 244-249, già l’esegesi aristarchea dimostrava la presenza di una riflessione su questi ‘Semantische Arten (εἴδη) des Nomens’. Cfr. l’ampia discussione in Desbordes 1988. analogia non prohibet: i fenomeni di mancata corrispondenza tra nomi e cose, insiti nelle problematiche definizioni di omonimia e sinonimia, avevano sicuramente rilievo all’interno del dibattito tra anomalisti e analogisti, come lascia pensare questa inserzione nell’argumentatio varroniana che però non ha paralleli nel libro precedente. Per la presenza dell’omonimia nel dibattito grammaticale stoico cfr. Sluiter 1990, pp. 125-128.

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itaque dicimus HIC A RGUS … HOC A RGOS : come accennato sopra, la iunctura varroniana nomen commune è la prima traduzione latina del termine greco ὁμωνυμία. L’esemplificazione scelta da Varrone è prettamente tecnica, lontana dalle implicazioni ontologiche della definizione aristotelica, e si concentra su un caso concreto di ambiguità lessicale. Il primo è un caso di omonimia che viene dal greco, perché Ἄργος è sia nome di uomo che nome di città: in latino, per esprimere gli stessi referenti, si dice hic Argus in riferimento all’uomo, mentre si indica la città usando la forma alla greca hoc Argos o alla latina hi Argi (cfr. Probo, gramm. GL iv 8, 17-18 duo in numero plurali masculina, in numero singulari neutra, hi Argi, hoc Argos). L’esempio è notevole anche per il fatto che l’ambiguità tra ‘significante’ e ‘referente’ (Argo è nome di persona e di città) si intreccia con quella del bilinguismo (graecanice e latine). Il problema dell’antroponimia greco-latina verrà trattato in modo più diffuso in x 70-71, dove è inserito in una classificazione riguardante l’origine delle parole (x 69): il vernaculum ac domi natum (è il genus delle parole di origine indigena), l’adventicium (quello delle parole staniere) e infine il nothum ex peregrino hic natum (è il genere ibrido, che si riferisce alle parole indigene ma di origine straniera). Il genere ibrido (appunto verba graecanica) dà luogo a diversi tipi flessionali, alcuni dei quali sono antichi come Bacchide-s e Chryside-s, altri più moderni come Chrysides e Bacchides, e infine altri molto recenti come Chrysidas e Bacchidas (sull’onomastica bilingue a Roma cfr. Vallat 2003).





Meto: l’esempio di Meto/meto si basa sulla dimostrazione che [meto]n e [meto]v sono due basi morfologiche diverse (eadem vox nomen et verbum significabit): pertanto, specifica Varrone, il nome di persona Meto (ispirato al grande astronomo e matematico ateniese del V secolo a.C.) si declinerà regolarmente come un nome e il verbo meto si coniugherà altrettanto regolarmente come un verbo. 90. quas συνωνυμίας appellant, ut … ALC ‹A ›EUS et ALC ‹A ›EO , sic GERYON , GERYONUS , GERYONES : come nel caso dell’omonimia la mancata corrispondenza tra una vox e più significati non compromette la ratio analogica, così la presenza di più vocabula per esprimere uno stesso referente non inficia la regolarità e rientra nelle eccezioni pretestuosamente avanzate dagli anomalisti. L’interpretazione del concetto greco avanzata da Varrone

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è piuttosto ristretta: invece della consueta accezione (vd. e.g. synonymia multis vocibus idem testatur in Carisio, p. 395, 18 B.) la definizione qui presentata rispecchia da vicino il valore etimologico del termine συνωνυμία (ovvero il ‘condividere lo stesso nome’), perché gli esempi scelti a supporto non sono propriamente delle serie sinonimiche, ma piuttosto delle semplici ‘varianti’ di uno stesso nome (Desbordes 1988, p. 93).

91. haec nomina M ELICERTES et P HILOMEDES similia neget esse: il passo è una risposta a quanto esposto in viii 68, dove gli anomalisti polemizzavano contro la validità dell’analogia sulla base della constatazione che parole apparentemente simili come Philomedes e Melicertes presentano una flessione dei casi diversa, contravvennendo così alla ratio analogica. Sulla questione, ampiamente dibattuta nel corso del ix libro, cfr. in particolare i §§ 40-44. et LUPUS : dal solo nominativo singolare – sottintende Varrone – non riusciamo a individuare la diversità esistente tra lupus (tema in -o) e lepus (tema in -s) che all’apparenza sembrano essere forme analoghe, ma nella flessione dimostrano una dissimilitudo (ab similibus dissimilia in viii 34 col medesimo esempio). C’è coscienza del fatto che, al di là del nominativo, è necessario risalire alla forma di base della flessione, che è il tema (cfr. Oniga 2014, pp. 44-45). LEPUS

92. de hoc etsi supra responsum est, cum dixi de lana: cfr. § 39. La particella concessiva etsi compare raramente nell’usus scribendi di Varrone: solo tre occorrenze nel De lingua Latina (v 57, viii 82, ix 92) e nessuna nel De re rustica (cfr. Reiter 1882, p. 64-65). non solum a facie dici, sed etiam ab aliqua coniuncta vi et potestate: la similitudo tra due oggetti si può stabilire solo dopo aver considerato non solo l’apparenza (facies), ma anche una certa corrispondenza con la sostanza (vi et potestate), che spesso sfugge (quae et oculis et auribus latere soleant). Mentre facies appare ancora nel De lingua Latina in questa particolare accezione (ix 43 e x 4), il nesso vis et potestas occorre unicamente in questo passo e la vaghezza della formulazione (ab aliqua coniuncta …) fa

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pensare non ad un tecnicismo ma ad una formula d’uso comune (cfr. rust. i 9, 2) adattata poi a concetti astratti dell’ambito grammaticale. Confrontata con l’usus contemporaneo, tuttavia, la scelta dei termini vis e potestas in riferimento ai verba è significativa: con vis vocabuli in Cic. inv. ii 52 si indica il ‘significato’ della parola; mentre potestas verborum in Rhet. Her. iv 31, 42 si riferisce analogamente al ‘valore o significato di una parola’. Com’è noto, vis e potestas riassumono in parte lo spettro semantico del corrispondente greco δύναμις nelle sue svariate accezioni (Ernout 1957, p. 126; Schad 2007, pp. 310 e 422). In particolare, il termine greco appare nell’accezione linguistica in Plat. HipMa. 285d in riferimento al ‘valore fonico’ delle lettere (περί τε γραμμάτων δυνάμεως) ed è in questa accezione che si trasferirà nel vocabolo latino potestas nella trattatistica grammaticale tarda; ma in un altro passo platonico (Crat. 394b) δύναμις si riferisce al ‘valore o significato’ di una parola (ἡ τοῦ ὀνόματος δύναμις), decisamente più vicino al brano varroniano in questione dove i due termini coordinati danno luogo a una sorta di endiadi. 93. non sumimus tantum a figura, sed etiam aliu‹n›de: il termine figura con la sua doppia valenza (cfr. § 40) rispecchia perfettamente il duplice piano argomentativo di questo passo, che confronta il criterio che deve essere alla base del confronto tra parole con quello che guida tante valutazioni operate nella vita quotidiana: la scelta degli schiavi, l’identificazione della razza di animali e della qualità della frutta, tutti ambiti che riconducono ovviamente all’altra grande opera varroniana, il De re rustica.

94. pronomen assumitur: come illustrato a margine del § 41, nel De lingua Latina, il pronome (esclusivamente dimostrativo) viene riconosciuto come veicolo di informazioni morfologiche delle parole, in aggiunta ai morfemi di caso. Nei casi di ambiguità, dice Varrone, quando cioè il solo nominativo di una parola non è sufficiente a fornire univocamente l’indicazione di genere o numero, si deve ricorrere a qualche elemento che lo determini ‘estrinsecamente’. Nel caso dei sostantivi, l’elemento extrinsecus sarà il dimostrativo hic haec hoc, che svolge una funzione simile all’articolo in lingue come l’italiano.

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extrinsecus: avverbio molto ‘ciceroniano’ (ben 34 occorrenze) che ricorre una decina di volte nel De lingua Latina; nella maggior parte dei casi, viene usato da Varrone in riferimento ai discrimina esterni necessari per verificare l’analogia o l’assenza di analogia tra due forme. In tale accezione, avrà una certa fortuna presso la trattatistica grammaticale, cfr. ad es. Diomede GL i 338, 2-3 (in riferimento ai verbi impersonali): ut plenus sit sensus, extrinsecus necessario adduntur pronomina. In viii 14 l’avverbio è invece usato in riferimento alla derivazione nominale: nomina declinantur aut in earum rerum discrimina, quarum nomina sunt, ut ab Terentius Terenti‹a›, aut in earum extrinsecus, quarum ea nomina non sunt, ut ab equo equiso (i nomi cioè possono dare luogo a derivazioni ‘proprie’ come il tipo Terentius Terentia, ma anche a derivati che indicano una realtà esterna alla base e sono quelli del tipo ab equo equiso).

95. ita †declinatum arbitror ut †omnia: sono stati molteplici i tentativi di sanare il passo che sicuramente segna il passaggio tra la sezione dedicata alla morfologia nominale a quella verbale, ma che non appare chiaro nella sua formulazione. L’edizione teubneriana segnala con cruces i due punti più problematici. In primo luogo, fa difficoltà il tràdito declinatum, probabile corruttela di declaratum secondo L. Spengel, delibatum per Mueller, disputatum per A. Spengel. Goetz e Schoell propongono nella sezione delle Adnotationes (p. 288) la correzione deliquatum sulla base della pertinenza con l’immagine evocata subito dopo da ab his fontibus. Il verbo deliquo appare tuttavia in tutt’altro contesto solo in vii 106, in un passaggio peraltro compromesso a livello testuale. La seconda crux segnala invece la caduta o lo spostamento di qualche elemento nella seconda parte della frase che risulta incompleta: tra i tentativi di ristabilire la corretta sintassi, si segnala la proposta di A. Spengel con lo spostamento della preposizione ad dopo ut: ut ad omnia quae dicuntur contra respondendum ab his fontibus sumi possit. quod ad verborum temporalium rationem attinet: la morfologia verbale di Varrone si divide in quattro partes. La prima riguarda i tempora, la seconda le personae, la terza i genera (diatesi attiva/passiva, cfr. Quint. inst. i 4, 27; Ax 2011, pp. 140 ss.) e infine le divisiones (la distinzione tra aspetto verbale dell’azione incompiuta e quello dell’azione compiuta, vd. infra § 97). Solitamente, nel De lingua Latina, il verbo viene indicato con il so-

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stantivo verbum; tuttavia a partire dal libro viii questo viene designato in alcuni casi più precisamente con la iunctura verbum temporale (ad es. viii 13) o con formule come verborum genus quae tempora adsignificant (viii 20), nei passi in cui l’uso di verbum da solo può generare fraintendimenti con il significato più comune di ‘parola’.

96. LEGI LEGO LEGAM : questa enunciazione dei tre tempi elencati nell’ordine passato, presente e futuro (già anticipata in viii 20) risale a Platone, Soph. 262d Δηλοῖ γὰρ ἤδη που τότε περὶ τῶν ὄντων ἢ γιγνομένων ἢ γεγονότων ἢ

μελλόντων, καὶ οὐκ ὀνομάζει μόνον ἀλλά τι περαίνει, συμπλέκων τὰ ῥήματα τοῖς ὀνόμασι; cfr. anche Parm. 151e-152a.

idem verbum, quod sumptum est, per tempora traduci ‹infecti› potest … et eadem perfecti: la distinzione terminologica infectum/perfectum (letteralmente incompiuto/compiuto) è di conio varroniano. Senza dubbio, si può riconoscere a Varrone l’intuizione del valore primariamente morfologico dell’aspetto verbale in latino (Collart 1954, pp. 186-188; Serbat 1976 = 2001). Come è evidente dal passo citato, questa opposizione aspettuale ha per il Reatino soprattutto la funzione di strutturare il sistema della flessione verbale in una duplice serie di opposizioni temporali tripartite, secondo lo schema ‘passato/presente/futuro’. L’importanza di questa opposizione, sulla quale si basa la morfologia del verbo latino, trova riscontro nei numerosi riferimenti all’aspetto presenti nel nono e decimo libro (ix 32, 97, 99 e x 33, 48). Se la ‘traduzione’ latina dei due termini è varroniana, l’originaria distinzione greca (ἀτελής e τέλειος) è, com’è noto, frutto della riflessione grammaticale stoica (Collart 1954, p. 187; Pohlenz 1967, i, pp. 78 ss.). DIDICERO :

sulla base di questo passo, unitamente al § 99 e § 100, appare chiaro che Varrone riconosce nelle forme in -ero il futuro del perfectum, ossia quello che oggi chiamiamo ‘futuro anteriore’ o ‘futuro secondo’ del modo indicativo. Si tratta di una identificazione di notevole importanza, perché ignota ai grammatici posteriori a Varrone, che consideravano questa forma un congiuntivo futuro (Rosellini 2006). Già il doctus Palaemon (la testimonianza è di Consenzio GL v 375, 6-13) cui era ben nota la produzione varroniana, non riconosceva più il valore di fecero, che considerava a

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tutti gli effetti parte del sistema del congiuntivo: Coniunctivus modus currit per omnia tempora. Sed quaecumque sunt optativi verba, eadem et coniunctivi sunt, ut ait Palaemon; at quae coniunctivi, non eadem et optativi. Dicimus enim ‘cum fecero, cum legero’, non dicimus ‘utinam fecero, utinam legero’. Se con Serbat 1978, pp. 265-266 si passano in rassegna le testimonianze grammaticali successive, il futuro anteriore risulta sempre inserito come futuro del modo congiuntivo: così è nella morfologia verbale esposta in Probo (GL iv 160, 9 e iv 161, 34), Diomede (GL i 351 ss.), Donato (GL iv 360, 15361, 11) e Prisciano (GL iii 450, 12-456). Solo nell’Ottocento il futurum exactum, detto dai grammatici latini futurum coniunctivi, verrà ricollocato all’interno del modo indicativo e si riguadagnerà la consapevolezza che esso esprime, in linea di massima, l’anteriorità nel futuro (Rosellini 2009, p. 300). Sui modi verbali vd. infra § 101. ex quo licet scire verborum ratione‹m› constare: introdotta da licet con infinito (costrutto di gran lunga preferito sia nel De lingua Latina che nel De re rustica a quello con congiuntivo, cfr. Reiter 1882, p. 44), la conclusione cui giunge Varrone è che all’interno del sistema verbale, la ratio analogica è riscontrabile solo nelle forme che sono dello stesso tipo aspettuale. Per capirne appieno il significato è necessario un parallelo con x 47. Nel distinguere tra proporzioni discontinue e continue, Varrone osserva come nel sistema tritemporale dei verbi si possano istituire proporzioni continue di tre termini, come legebam, lego, legam: coniunctae sunt triplices in verborum tribus temporibus, ut legebam [ab] lego legam, quod quam rationem habet legebam ad lego hanc habet lego ad legam. In hoc fere omnes homines peccant, quod perperam in tribus temporibus haec verba dicunt, cum proportione volunt pronuntiare. È illegittimo, dunque, istituire un rapporto proporzionale tra una forma dell’infectum, come legebam, e una forma del perfectum, come legi, mentre sarà legittimo istituire una proporzione tra forme verbali aventi lo stesso aspetto, come legebam : lego = lego : legam.

97. item illos qui reprehendunt, quod dicamus AMOR AMABOR AMATUS SUM : la critica anomalista (che non trova riscontro nelle argomentazioni dell’viii libro) si basa sulla constatazione che in una stessa serie verbale (la diatesi passiva) coesistono forme composte e forme semplici. La contraddizione, risponde Varrone, non sussiste se si confrontano tra di loro solo

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le forme dallo stesso carattere aspettuale, come la serie amabar, amor, amabor da un lato, e amatus eram, amatus sum, amatus ero dall’altro. Le prime sono tutte semplici, le seconde tutte composte. Non solo, i tempi dell’ausiliare esse nelle forme composte corrispondono esattamente a quelli del verbo nelle forme semplici (imperfetto/presente/futuro).

98. item male dicunt FERIO FERIAM PERCUSSI , quod est ordo …: viene qui correttamente individuato il particolare status difettivo di ferio, verbo privo del tema del perfectum. Sappiamo da una testimonianza di Prisciano (GL ii 418, 27 - 419, 1 = fr. 37 G.-S.) che Varrone considerava difettivi del perfectum anche i verbi sisto, tollo, fero, aio, furo (quibusdam deest praeteritum perfectum et omnia quae ex nascuntur, ut ferio sisto tollo fero aio furo, quod Varro ponit). Il sostantivo ordo è qui usato nella sua accezione tecnico-grammaticale, con il significato di formarum series (ThlL ix 2, 955, 35-54), ossia ‘serie ordinata di forme’, ‘paradigma’. È stato osservato (Taylor 1978) come questo termine venga particolarmente sfruttato dal Reatino nelle schematizzazioni morfologiche e rappresentazioni del paradigma in forma tabellare del decimo libro. Ad esempio, in x 22, gli ordines transversi e derecti indicano rispettivamente i casi e i generi dei sostantivi che si intrecciano tra loro nello schema della flessione nominale (transversorum ordinum partes appellantur casus, derectorum genera, utrisque inter se implicatis forma[m]) e così è anche in x 43 (ordines numerici e grammaticali). Certamente nell’uso di ordo ha una certa rilevanza la relazione etimologica con ordior, che richiama l’idea dell’ordito, della trama di una tela. Nel decimo libro, infatti, la flessione viene schematizzata come un ‘intreccio’ di fattori: «a grammatical form is therefore strictly defined in terms of the intersection of a vertical column and a horizontal row within the set, and as a modern descriptive linguist we may approve of Varro’s analytical methods» (Taylor 1978, p. 72; cfr. anche Garcea 2008).

99. PUNGO PUNGAM PUPUGI , TUNDO TUNDAM TUTUDI : dalla testimonianza di Gellio (ii 25, 5) ricaviamo un elenco di forme del perfetto che dovevano essere trattate nella parte finale dell’ottavo libro per noi perduta: M. Varronis liber ad Ciceronem De lingua Latina octavus nullam esse observationem

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similium docet inque omnibus paene verbis consuetudinem dominari ostendit: sicuti cum dicimus, inquit, ‘lupus lupi’, ‘probus probi’ et ‘lepus leporis’; item ‘paro paravi’, ‘lavo lavi’, ‘pungo pupugi’, ‘tundo tutudi’ et ‘pingo pinxi’. Sono elencati rispettivamente il perfetto in -vi (paravi), il perfetto ad alternanza vocalica radicale (la-vi), il perfetto a raddoppiamento (pupugi, tutudi) e il perfetto sigmatico (pinxi).

100. de infectis SUM quod nunc dicitur olim dicebatur ESUM : in una audace ricostruzione ‘diacronica’, Varrone deduce dalle forme atematiche del verbo sum, una prima persona singolare dell’indicativo presente *esum. In effetti, la radice da cui si forma il sistema del presente del verbo è *es-/s-, con un’alternanza e/zero: dal grado e derivano le forme atematiche (es