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Italian Pages 372 [371] Year 2013
Claudio Marazzini (Torino, 1949) è professore ordinario di Storia della lingua italiana nell’Università del Piemonte Orientale. È socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino e accademico della Crusca. Ha pubblicato volumi e saggi presso importanti case editrici. Tra i suoi libri più noti: La lingua italiana. Profilo storico, giunto alla terza edizione (il Mulino, 2002), la Breve storia della lingua italiana (il Mulino 2004, ora tradotta in tedesco: Stauffenburg, 2011), Da Dante alla lingua selvaggia (ottava ristampa: Carocci, 2010), L’ordine delle parole. Storia di vocabolari italiani (il Mulino, 2009). Tra i lavori più recenti, l’ed. critica del manoscritto torinese della Relazione di Manzoni Dell’unità della lingua (Società Dante Alighieri – Imago, 2011, in collaborazione con L. Maconi), e la Storia linguistica di Torino (Carocci, 2012).
ISSN 1722-1951
€ 22,00
Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
EDIZIONI MERCURIO
Unità e dintorni
Stefano Prandi L’“unità” a cui fa riferimento il titolo di questo libro è quella politica dell’Italia, raggiunta nel 1861, ma al tempo stesso è quella della lingua, di cui si dibatteva vivacemente proprio mentre si realizzava il sogno dell’unificazione territoriale. L’Ottocento, il secolo qui preso in esame, fu decisivo per la storia linguistica della nazione. Tra gli argomenti di maggior rilievo in questo volume: il classicismo di Vincenzo Monti nel confronto con Angelo Mai e Galeani Napione, la linguistica di Manzoni e le correzioni ai Promessi sposi, il toscanismo di De Amicis, il problema della lingua, dei dialetti e delle minoranze etniche, la funzione della poesia popolare, il nesso tra le discussioni linguistiche e la questione della capitale nel passaggio da Torino a Firenze e Roma, l’editoria piemontese, la storia della grammatica e della scuola, la lingua dello Statuto Albertino. Il legame tra discussioni linguistiche e storia politico-civile d’Italia è assai evidente, e si collega alle celebrazioni appena concluse per i 150 anni dell’Unità, a cui quest’opera vuol essere un omaggio.
Claudio Marazzini
Scritture al crocevia
Claudio Marazzini Studi Umanistici
Unità e dintorni Questioni linguistiche
nel secolo che fece l’Italia
Edizioni Mercurio
Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Piemonte Orientale «Amedeo Avogadro» Collana Studi Umanistici Nuova serie 28
Claudio Marazzini
Unità e dintorni Questioni linguistiche
nel secolo che fece l’Italia
Edizioni Mercurio
Indice
Premessa
1. Denina nella storia della linguistica
2. “Splendore e maestà della nostra italica favella”: Angelo Mai e la lingua
3. Galeani Napione di fronte alla “Proposta” di Monti: le “fatali conseguenze della divisione dell’Italia”
4. Per lo studio dell’educazione linguistica nella scuola italiana prima dell’Unità
9
15 39 53 75
5. I classici della “Biblioteca popolare” Pomba: costo dei libri e censura nell’attività di un editore dell’Ottocento 105 6. Francese e italiano nello Statuto albertino
125
7. L’unità politica e territoriale italiana nella riflessione linguistica 143
8. Le osservazioni linguistiche nel primo censimento del Regno d’Italia 171
9. Firenze capitale: questioni linguistiche
10. ‘Questione romana’ e ‘questione della lingua’
11. La linguistica di Manzoni
12. Manzoni e Rosmini nella questione della lingua
187
209
223 237
13. Il gran ‘polverone’ attorno alla Relazione manzoniana del 1868 265
14. Una correzione manzoniana illustrata: il gioco del rimbalzello 279
15. De Amicis, Firenze e la questione della lingua
285
16. La “Storia della grammatica italiana” di Ciro Trabalza 305
17. Dibattiti ideologici e questione della lingua. Le raccolte di canti popolari dell’Ottocento 327
18. Per la retrodatazione di “astrofilo” Indice dei nomi
349
355
Premessa
Questo libro raccoglie una serie di saggi che si riferiscono a un medesimo periodo storico, l’Ottocento. Fa eccezione all’omogeneità cronologica il solo Per lo studio dell’educazione linguistica nella scuola italiana prima dell’Unità, che nei primi paragrafi tratta questioni relative ai secc. XVI-XVIII, per poi concentrarsi in maniera decisa sull’Ottocento, allineandosi così agli altri interventi. La pubblicazione di questi lavori, avvenuta dal 1978 in poi, si distribuisce in un lasso di tempo piuttosto ampio, che coincide con tutto il mio percorso di studi. Inoltre un’altra caratteristica li accomuna: sono usciti (o, i più recenti, sono in uscita) su riviste, periodici, miscellanee, dunque sono dispersi e irrelati, mai ripresi in un libro organico. Riunirli qui, significa mettere in evidenza la loro correlazione, la quale mi pare si configuri come un percorso ordinato attraverso alcuni importanti temi linguistici, a partire dai primissimi anni del secolo XIX, quando Denina pubblicò la Clef des langues, ancora strettamente legata alle ricerche settecentesche sul linguaggio, ma già aperta a concrete considerazioni dialettologiche, classificatorie e descrittive, per finire con De Amicis e Trabalza, i cui contributi qui esaminati (L’idioma gentile e la Storia della grammatica italiana) si collocano nei primissimi anni del Novecento. L’ordinamento è cronologico, in riferimento alla materia trattata: fino al quinto capitolo, si parla della prima metà dell’Ottocento, dal sesto in poi il tema dell’Unità nazionale entra con prepotenza. Fa eccezione l’ultimo saggio, dedicato alla retrodatazione di “astrofilo”, che avrebbe dovuto stare con la prima parte, essendo questione anteriore all’Unità, ma che è posto in coda per il suo carattere circoscritto, quasi si trattasse di una piccola appendice. Tra gli argomenti che hanno maggior spicco nel libro, citerò in particolare il classicismo progressista di Vincenzo Monti nel confronto con le idee di Angelo Mai e Galeani Napione, la linguistica di Manzoni, il problema della lingua, dei dialetti e delle
1. Denina nella storia della linguistica
La riscoperta di Denina linguista risale agli anni ’80. Mi avventurerò in una breve rassegna retrospettiva, in cui farò riferimento a miei lavori. A mia scusante, posso dire che è un modo per ritornare all’epoca in cui ero un giovane studioso all’inizio di carriera, dedito con passione alla riscoperta di Denina linguista. Il ricordo di quel periodo suscita in me qualche nostalgia, soprattutto perché mi offre l’occasione per ricordare alcuni amici che non ci sono più, come Luigi Rosiello e Maria Brigitte Schlieben-Lange. Il momento iniziale della riscoperta di Denina glottologo fu un mio intervento sulla rivista “Historiographia linguistica” del 1983, poi riproposto nel 1986 in un volume interamente dedicato a The history of linguistics in Italy. Prima degli anni ’80, pochissimi studiosi erano al corrente del fatto che Denina si fosse interessato di linguistica, benché il suo nome ricorresse, pur con breve menzione, in un’opera fondamentale come Grundriss der romanischen Philologie di Gröber. Tra quei pochi che ricordavano gli studi linguistici di Denina, quasi nessuno riteneva l’argomento degno di speciale interesse o meritevole di essere esaminato in maniera approfondita. Luigi Negri, nella prima metà del Novecento, ne aveva parlato in modo fortemente negativo, anche se con una certa ampiezza, in base ai luoghi comuni correnti in un’epoca in cui era obbligatorio deridere la linguistica prescientifica in ossequio
Cfr. C. Marazzini, Carlo Denina linguiste: aux sources du comparatisme, “Historiographia linguistica” 10 (1983), 1/2, pp. 77-96, poi in P. Ramat, H.-J. Niederehe e K. Koerner (a cura di), The history of linguistics in Italy, Amsterdam-Philadelphia, Benjamins, 1986, pp. 175-94. Cfr. G. Gröber, Grundriss der romanischen Philologie, Band I, Strassburg, Trübner, 1904-1906, p. 65.
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
alla condanna pronunciata più di un secolo prima da Guglielmo Schlegel. Gli unici studiosi italiani che avessero rivolto un’attenzione benevola (ma invero molto limitata) all’opera di Denina linguista erano stati il filologo Alfredo Stussi e il dialettologo Manlio Cortelazzo. Gli studi degli anni ’80 cambiarono le cose, anche perché il clima era ormai diverso, grazie al rinnovato interesse internazionale per la storia della linguistica, esplorata finalmente anche nelle aree contrassegnate dalla dicitura hic sunt leones, nei territori incogniti prima giudicati infidi, sul terreno della cosiddetta linguistica empirica del Settecento e del Seicento. Era in atto una vera e propria rivoluzione di metodo, si guardava con maturità nuova al passato delle scienze del linguaggio; si imponeva una trasformazione affascinante, della quale non abbiamo qui il tempo di fare la storia. Uno degli effetti di questo rivolgimento, in rapporto al Denina, fu la curiosità per la sua opera manifestata dai glottologi italiani. Nel 1990 fui invitato a presentare Denina linguista al convegno della Società Italiana di Glottologia, la prestigiosa associazione ufficiale, appunto, della glottologia italiana. Dietro quell’invito, c’era l’interesse manifestato dal compianto Luigi Rosiello, un pioniere negli studi sulla storia della linguistica, uno dei pochi in Italia che avesse lasciato il segno in questo campo, con la giustamente famosa Linguistica illuminista del 1967. Il convegno della Società di Glottologia, in cui doveva trovar posto anche Denina, era dedicato al Comparativismo linguistico, che in questo modo si allargava a quello che cominciai a chiamare il “paleocomparativismo”,
Cfr. L. Negri, Un accademico piemontese del ’700: Carlo Denina (Sulla scorta di documenti inediti), in Memorie dell’Accademia delle Scienze di Torino, 1933, serie II, tomo 67°, pp. 1-157. Stussi citava Denina in una relazione su Lingua e regioni, presentata in forma orale nel 1979, ma pubblicata solo nel 1982: cfr. A. Stussi, Studi e documenti di storia della lingua e dei dialetti italiani, Bologna, Il Mulino, 1982, p. 50. Cfr. M. Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia (fino al 1800), Tübinghen, G. Narr, 1980, pp. 119-120.
1. Denina nella storia della linguistica
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con un’etichetta che ora gode di una certa fortuna. Nel frattempo avevo avuto modo di collocare Denina in posizione rilevante nei capitoli centrali del mio volume Storia e coscienza della lingua in Italia uscito nel 1989, e inoltre, nel 1985, avevo allestito una piccola raccolta di testi del Denina, ricavata dagli scritti berlinesi del 1783-1804. Vi avevano trovato posto non solo alcuni Mémoires presentati all’Accademia di Berlino, non solo la prefazione alla Clef des langues, ma anche quegli interventi a favore della francesizzazione del Piemonte napoleonico i quali valsero all’autore l’ostilità di quasi tutti i compatrioti piemontesi, e anche le dure parole di condanna del Negri, negli anni ’30, in epoca in cui il patriottismo assumeva già colorazione diversa, nazionalista. Dopo il convegno di Bologna, la fortuna di Denina tra gli studiosi di linguistica era ormai un fatto acquisito. Posso citare ancora il suo inserimento nel grande progetto di Brigitte Schlieben-Lange dedicato alla ricezione degli Idéologues, nel primo volume dedicato all’Europäische Sprachwissenschaft um 1800 , e soprattutto l’inserimento di Denina nel III volume della Storia della linguistica curata da Lepschy per il Mulino, la quale cito con particolare piacere, perché non è dovuta alla mia penna, e tuttavia Denina vi figura in una posizione di spicco, in due sezioni diverse, quella di Paola Benincà dedicata alla Linguistica e dialettologia italiana (dove è posto tra i precursori, subito prima di Fernow e dei preascoliani), e quella di Anna Morpurgo Davies dedicata alla Linguistica dell’Ottocento (proprio nel volume sull’Ottocento: il volume sul Settecento, per contro, non fa menzione di Denina). Quest’ultima sezione, grazie alla sua qualità altissima, ha meritato di diventare un volume autonomo, già passato tra gli strumenti insostituibili, uscito con lo stesso titolo, sempre per i tipi del Mulino, nel 1996. In questo splendido volume si parla diverse volte di Denina, collocandolo finalmente nel contesto che gli spetta, accanto a Hervás,
Cfr. ad esempio A. Morpurgo Davies, La linguistica dell’Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1996, p. 86. Europäische Sprachwissenschaft um 1800, a cura di B. Schlieben-Lange at alii, Münster, Nodus Publikationen, 1989, pp. 271-80.
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
Adelung, al geografo Balbi, dandogli atto della sua concretezza, della sua attenzione ai fatti, del suo sforzo descrittivo nel tentativo di staccarsi dalle etimologie fantasiose e arbitrarie, della sua vicinanza al metodo illustrato da Turgot nell’Encyclopédie. Denina collocato nell’Ottocento, dunque, pur se tra i precursori. In realtà la scansione tematica dei tre tomi della Clef des langues è caratteristica dell’approccio erudito ancora legato al Settecento. Basta scorrere gli argomenti del primo tomo della Clef, che tratta l’origine delle lingue e delle “lettere elementari”, cioè di una serie di fenomeni fonetici che avvengono nelle varie lingue, ma che non vengono raggruppati dall’autore sotto le lingue specifiche, ma sotto le varie “lettere” o combinazioni di lettere. Il discorso sui dittonghi si snoda su esempi che vanno dal greco antico al francese e al tedesco, passando per il latino. Si parla poi delle quattro lingue-madri europee, il greco, lo slavo, il germanico o celtico (questi due considerati assimilabili) e il latino. A parte l’identità tra celtico, teutonico e tedesco, per la quale Denina si rifaceva a Leibniz e a Wachter, questa è la parte dell’opera in cui emerge con efficacia il “paleocomparativismo”, ricollegabile alla teoria scitica. Quella teoria fu per me, allora, una sorprendente scoperta, attraverso la guida del noto libro di Daniel Droixhe su La linguistique et l’appel de l’histoire. La teoria prefigurava, almeno nelle linee generali, il quadro del comparativismo primo-ottocentesco e appariva come una sorta di anticipazione della linguistica indoeuropea, perché presupponeva che le quattro lingue madri d’Europa, greco, slavo, germanico-celtico e latino, avessero una comune origine, fossero arrivate nell’Europa centro-occidentale grazie alla migrazione di un unico popolo, la cui sede originaria non risultava molto diversa da quella che più tardi fu attribuita
Cfr. Morpurgo Davies, La linguistica dell’Ottocento cit., in particolare alle pp. 41, 54, 86. D. Droixhe, La linguistique et l’appel de l’histoire (1600-1800). Rationalisme et révolutions positivistes, Genève-Paris, Droz, 1978. La conoscenza del libro si trasformò poi in amicizia con l’autore.
1. Denina nella storia della linguistica
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agli Indoeuropei10. In nome di questa teoria, fra l’altro, Denina contestava uno dei luoghi comuni nazionalistici della linguistica del Settecento, cioè il primato della lingua celtica. Il discorso, si noti, non restava su di un piano generale, ma scendeva a raffronti lessicali, alla ricerca di classi di nomi comuni alle quattro lingue madri, collocati entro aree semantiche specifiche: gli elementi naturali, il tempo, i nomi degli Dei, le parti del corpo umano, i quadrupedi e i volatili, gli animali acquatici e i rettili, i nomi relativi alla vita sociale, alle qualità fisiche e morali. C’è da aggiungere che Denina concludeva tutto ciò con un riferimento al sanscrito, lingua la quale entrava a corroborare l’ampio quadro comparativo. In realtà il sanscrito entrava davvero in extremis: il raffronto veniva proposto in una nota aggiunta alla fine, nella quale veniva menzionato il carmelitano austriaco Paolino da San Bartolomeo, il quale, nelle sue opere sull’India, pubblicate in Italia, aveva fornito cataloghi di parole che confermavano la parentela tra il sanscrito e le lingue latina e germanica. Per contro, Denina non conosceva affatto, nemmeno per semplice menzione, le opere di William Jones e l’Accademia di Calcutta, delle quali, nel Settecento, era pur giunta in Italia un’eco davvero molto molto flebile11. Denina,
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Cfr. C. Denina, La clef des langues ou observations sur l’origine et la formation des principales langues qu’on parle et qu’on écrit en Europe, t. I, Berlino, Mettra - Umlang - Quien, 1804, pp. 108-9. Cfr. C. Marazzini, Storia e coscienza della lingua in Italia dall’Umanesimo al Rinascimento, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989, pp. 170-78. Solo di recente sono riuscito a consultare una raccolta (purtroppo scompleta) delle oggi rarissime Notizie letterarie di Cesena, citate da Leopardi nello Zibaldone. Si parla delle Asiatic researches nei fascicoli 10, 36 e 47 del 1791. Credo sia uno dei rari casi in cui in Italia si prestò attenzione ai lavori di W. Jones, ed è significativo che Leopardi, anni dopo, pur non accedendo alle fonti primarie, fosse attirato proprio da queste notizie, per quanto largamente riassuntive dei testi originali, di cui tuttavia davano almeno un’idea chiara. Sulla nazionalità di Paolino da S. Bartolomeo mi ha intrattenuto in una sua amabile e dottissima lettera il prof. Zarko Muljačić, dandomi notizia fra l’altro che l’Accademia di scienze e belle arti croata ha celebrato il 250° anniversario della nascita
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
dunque, cita il sanscrito quasi solo in una modesta paginetta, la p. 378 delle Additions et corrections al primo tomo della Clef, ma non c’è dubbio che il riferimento, per quanto limitato, completi il quadro del paleocomparativismo in maniera intelligente e critica, anticipando esiti successivi. Insomma, nel paleocomparativismo prescientifico ci sono alcune nozioni ‘moderne’: 1. la sicurezza della parentela tra greco, latino, germanico, slavo; 2. la sicurezza nell’ipotizzare l’esistenza di un popolo il quale avrebbe dato origine a queste lingue con le sue migrazioni; 3. la sicurezza che la storia linguistica poteva fornire il metodo ricostruttivo per scoprire fatti avvenuti in un passato altrimenti non documentabile, per cui la linguistica si proponeva come una nuova storia per andare oltre la storia, là dove la storia non poteva arrivare per mancanza di documenti. Quest’ultima idea non era di per sé nuova, poiché la si ritrova già in Leibniz, il quale aveva affermato che “le lingue svolgono per noi la funzione di antichi monumenti” (come si legge nella versione data da Stefano Gensini della Brevis designatio del 171012, un testo che “passò sotto gli occhi di tutti i maggiori dotti europei, da Muratori a Hervás y Panduro a Volney, e fortemente condizionò lo svolgimento comparatistico degli studi di lingua”13). Mi sembra particolarmente importante che una simile tesi fosse accolta da uno studioso come Denina, che prima di diventare linguista aveva acquistato grande fama proprio come storico. Del resto è una tesi che lega la linguistica sei-settecentesca a quella ottocentesca, il paleocomparativismo al comparatismo ‘scientifico’, tanto è vero che la si ritrova identica nel saggio De l’étymologie en général di August Wilhelm Schlegel, il quale parla dell’“etimologia storica” come di una guida attraverso il labirinto delle antiche migrazioni dei popoli, tanto da essere l’unico mezzo che ci resta
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del Wesdin (o Vesdin), poi Paolino da S. Bartolomeo, che nacque nella Niederösterreich, ma era figlio di madre e padre profughi croati. S. Gensini, in G. W. Leibniz, Dal segno alle lingue. Profilo, testi e materiali, Casale Monferrato, Marietti Università, 1990, p. 228. Sono le parole di Gensini, op. cit., p. 227.
1. Denina nella storia della linguistica
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per comprendere come furono abitate successivamente le diverse parti del globo terrestre, e quale è stata la storia primitiva del genere umano14. Insomma, pur messa da parte la ricostruzione della “lingua primitiva”, la funzione dell’etimologia restava quella di antecedente della storia, così come la ritroviamo ad esempio nel nostro Cattaneo, tanto per citare un autore italiano, il quale, nel saggio Sul principio istòrico delle lingue europee del 1841 (in realtà 1842), affermava che si andava formando una “nuova scienza delle lingue, la quale, come le scienze dei tempi e dei luoghi e dei monumenti, sarà nuovo lume all’istoria”15. Sicuramente Denina è sulla stessa linea, e in questo caso c’è concordia tra paleocomparativismo e nuovo comparatismo, anche se non mancano differenze, perché Denina, come la generazione dei linguisti del Settecento, come gli Idéologues dell’inizio dell’Ottocento, è ancora ben disposto a dar ascolto alla teoria della formazione della lingua primitiva dai monosillabi e dalle interiezioni, con le quali il linguaggio umano si sarebbe composto in maniera via via più complessa, nel suo cammino dall’elementarità e dalla materialità fino alle vette all’astrattezza, conquistate a poco a poco. A questa tesi si contrapponeva la netta formula espressa da Schlegel: “Les langues ne se forment pas le cours du temps; au contraire, elles se déforment”16. Tutto il senso della storia linguistica veniva in questo modo rovesciato. Al posto dell’imperfezione originaria, della barbarie primitiva, in cui aveva riposto fiducia la cultura occidentale dal Rinascimento fino all’Illuminismo, costruendoci sopra teorie estetiche classicistiche come quella di Bembo, o teorie filosofiche come quella di Condillac, veniva collocata ora una nuova visione storica, fondata su quella che potremmo chiamare la “perfezione originaria”. Se la perfezione linguistica stava nel passato, come pretendevano gli Schlegel, la storia delle lingue era
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A. G. Schlegel, Oeuvres écrites en français, publiées par E. Böcking, Tome II, Leipzig, Librairie de Weidmann, 1846, p. 112. C. Cattaneo, Milano e l’Europa. Scritti 1839-1846, Torino, Einaudi 1972, p. 161. Schlegel, op. cit., p. 130.
1. Denina nella storia della linguistica
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fondamentale nell’esperienza di uno storico, la lettura di Muratori, che era stato anche etimologista, e aveva inserito la storia linguistica tra le materie delle Antiquitates. Su Denina influiva inoltre positivamente l’esperienza di letterato precocemente disponibile ad allargare il quadro alle letterature straniere, al comparativismo, diremmo oggi19. Il comparativismo letterario, dunque, indicò in parte la strada al comparativismo linguistico, o almeno gli fece da supporto, se è vero che Denina giunse a un pieno ed efficace comparativismo letterario proprio in Prussia, con l’edizione berlinese del 1784 delle Vicende della letteratura20. Una delle caratteristiche più rilevanti del paleocomparativismo linguistico, come abbiamo detto, stava nel pur breve confronto con il sanscrito. Proprio questo confronto con la lingua dell’India permette di verificare le differenze rispetto al comparativismo che si sarebbe sviluppato di lì a poco. Il riferimento al sanscrito, pur presente, non si accompagnava infatti a una reale conoscenza di questa lingua o a uno sforzo per impossessarsene. Qui la differenza rispetto ai comparatisti ottocenteschi si fa marcata. Il sanscrito non era ancora lievito che potesse trasformare la natura della ricerca linguistica. C’è da chiedersi inoltre in che modo Denina concepisse l’analisi fonetica della catena etimologica, se la traducesse in qualche cosa di simile a una ‘grammatica storica’. I suoni (e le lettere che li rappresentavano), come ho già detto, venivano assunti a oggetto di indagine, categorie per collocarvi i fenomeni riscontrati in varie lingue, fenomeni in realtà spesso
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Sul comparativismo letterario di Denina si veda la valida e ampia sintesi di F. Sinopoli, Storiografia e comparazione. Le origini della storia comparata della letteratura in Europa tra Settecento e Ottocento, Roma, Bulzoni Editore, 1996, pp. 135-387. Il respiro di questa edizione era ben maggiore di quello delle precedenti edizioni italiane del 1760 e 1762 e di quella inglese del 1763. Cfr. C. Marazzini, Storia linguistica e storia letteraria nel secondo Settecento. Le “Vicende della letteratura” di Carlo Denina, in L’arte dell’interpretare. Studi critici offerti a Giovanni Getto, Cuneo, L’Arciere, 1984, pp. 459-469.
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
eterogenei. Il principio a cui l’autore si ispirava era il seguente: certi suoni potevano trasformarsi in certi altri per una loro ‘simpatia naturale’. Questa impostazione ci riporta verso il Settecento. Non a caso, la si ritrova identica in una delle fonti principali di Denina, cioè nel Traité de la formation méchanique des langues di Charles de Brosses, secondo il quale “les lettres s’attirent les unes les autres, non pas au hazard, mais dans un certain ordre dicté par la nature & par une opération insensible, née de l’organisation même”21. Che cosa è questa organisation? È una disposizione organica dell’apparato fonatorio umano, come in de Brosses, o è un effetto del ‘genio’ della lingua, determinato dal clima o dalla storia dei popoli? Anche Denina arriva a parlare, per spiegare i mutamenti fonetici, per dare conto delle loro cause, di una “disposition organique”22, dovuta a una causa fisica, oppure dovuta a un’abitudine contratta per cause fisiche o anche per caso. Si tratta di una “disposition naturelle”23 che si trova ad agire in popoli che ricevono una lingua da un altro popolo, lingua straniera che va necessariamente adattata; ma la disposition naturelle capace di produrre mutamento può agire anche all’interno di una sola lingua, in individui di uno stesso popolo, o addirittura all’interno di una stesso gruppo familiare. L’interesse delle etimologie sta nella catena delle trasformazioni fonetiche, non nella ricerca della lingua primitiva. E così Denina arriva all’affermazione, in parte ispirata ai principi etimologici enunciati da Turgot, secondo la quale si deve studiare il rapporto tra lingue la cui parentela sia certa, perché in questo modo la catena etimologica risulta affidabile. Non si doveva studiare insomma l’evoluzione dei suoni in generale, ma si doveva scoprire come, dove, quando, in che lingua
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Cfr. Ch.de Brosses, Traité de la formation méchanique des langues, tome II, Paris, Saillant - Vincent - Desaint, 1765, p. 161 (corsivo nostro). C. Denina, La clef des langues cit., t. III, Berlin, Mettra-Umlang-Quien, 1804, p. VII. Ibid., p. V.
1. Denina nella storia della linguistica
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si era verificata una determinata trasformazione24. Questo ottimo principio è espresso con sorprendente certezza alla fine della Clef des langues, anche se, di fatto, era riuscito difficile all’autore applicarlo con coerenza. Il lettore moderno ha l’impressione che a volte la prassi si discosti dalla regola enunciata (o conquistata) alla fine dell’opera. I contemporanei, però, si accorsero di questa concretezza. L’idéologue Jean Denis Lanjuinais, nel 1816, lodò Denina proprio perché aveva raccolto etimologie “prochaines”, etimologie vicine, tra lingue imparentate, secondo una catena storica rispettosa dei passaggi reali25. L’affermazione di Denina, relativa alla necessità di una forte precisazione del quadro storico di riferimento per spiegare le trasformazioni linguistiche, pur non realizzata davvero nell’opera, era forse, almeno in parte, una presa di coscienza finale, dopo tanto arrovellarsi sui problemi etimologici. Questa presa di coscienza ci porta verso l’Ottocento, anche se la massa dei dati su cui lavorava lo studioso era messa assieme ed era trattata in maniera tale che il comparativismo scientifico non avrebbe mai potuto riconoscersi in essa. Inoltre riusciva difficile a Denina, come ovvio, procedere alla stesura del suo impegnativo trattato avvalendosi di informazioni omogenee sulle varie lingue che prendeva in esame, per le quali in realtà dipendeva fin troppo dagli autori che aveva consultato, cioè dai vari etimologisti scelti come base per i vari idiomi, in particolare Wachter per il tedesco, Whiter per l’inglese, Covarrubias per lo spagnolo. Inevitabilmente, c’erano lingue su cui aveva più informazioni, e lingue sulle quali
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Nel Discours supplémentaire sur les principaux ouvrages étymologiques des langues modernes, posto in apertura al III e ultimo tomo della Clef des langues, Denina rimprovererà agli etimologisti, da Vossius e Skinner, fino a Wachter, allo svedese Ihre e (ovviamente) a Court de Gébelin, di non aver precisato “dans quel idiome, dans quelle classe de mots, à quelle époque, dans quelles circonstances ces changements ont eu lieu”: cfr. Ibid., p. V. J. D. Lanjuinais, Discours préliminaire in Court de Gébelin, Histoire naturelle de la parole, ou grammaire universelle à l’usage des jeunes gens, Paris, Plancher - Eymery - Delaunay, 1816, p. XXXVII n.
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
era meno fornito di esempi e di campionature interessanti; ma il suo sforzo si indirizzava a delineare un grande quadro, pur non sistematico e non completo. Si limitava alle lingue d’Europa, era fiero di aver optato per questa limitazione di campo, che lo diversificava da un Court de Gébelin, ma allo stesso tempo le sue letture lo portavano ancora a discutere della lingua primitiva e del valore dei radicali primitivi, come del resto aveva fatto Cesarotti nel Saggio sulla filosofia delle lingue, la cui collocazione cronologica non è molto distante26. Altra analogia rispetto a Cesarotti è la scarsa sensibilità per la grammaire générale. Lo scopo dello studio linguistico resta pratico, per Denina: vuole dare la possibilità di imparare più facilmente molte lingue; ma lo scopo viene ritenuto raggiungibile non attraverso la scoperta di caratteri universali comuni, come nella grammaire générale, ma attraverso le regole di trasformazione specifiche di ciascuna lingua. Denina però, a differenza di Cesarotti, dopo il passaggio a Berlino lavorò in un ambiente europeo dove la ‘biblioteca linguistica’ a disposizione era più vasta e dove, soprattutto, la lontananza dall’Italia faceva passare in seconda linea la ‘questione della lingua’. Anche Denina, prima di andare in Prussia, aveva scritto pagine notevoli sulla ‘questione della lingua’, difendendo una moderata teoria di ispirazione ‘cortigiana’ ostile al toscanismo cruscante. Il
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Denina, infatti, concluse il suo lavoro linguistico nel 1804, con la Clef des langues, dopo aver dato alle stampe molte memorie negli atti dell’Accademia di Berlino, a partire dal 1783. Cesarotti diede l’edizione definitiva del Saggio sulla filosofia delle lingue nel 1800, ma la prima edizione di quest’opera, con il titolo di Saggio sopra la lingua italiana, risale al 1785. Resta, ovviamente, la diversità profonda della vocazione dei due studiosi, i quali sono senz’altro i migliori linguisti italiani della seconda metà del sec. XVIII. Vi sono alcune analogie, la più notevole delle quali è la comune diffidenza per le teorie di Court de Gébelin, e la singolare simpatia per le tesi esposte nel Mécanisme des langues di de Brosses, che diedero alimento a una parte sostanziale del II capitolo del cesarottiano Saggio sulla filosofia delle lingue, un capitolo che si tende a far passare in secondo piano nelle letture troppo ‘modernizzanti’ di questo grande libro, che va letto anche con l’occhio severo dello storico.
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contatto con l’Accademia di Berlino, però, era un’altra cosa27. Lì le tradizioni linguistiche erano troppo forti per non produrre effetti. Ci fu anche qualche rifiuto, come nella memoria Sur le caractère des langues, dove viene confutato il saggio di Rivarol sul primato della lingua francese, premiato proprio dall’Accademia di Prussia nel 1784, quando Denina era già membro di quell’istituzione. Ma non ci furono solo reazioni di questo genere. Più spesso si trattò di un arricchimento che completava la formazione avviata in Italia: allo zoccolo di conoscenze costituito da Leibniz, da Muratori, dalla tradizione del dibattito linguistico italiano e francese del Cinque-Seicento (compresi Ménage, Huet, Bembo, Varchi, Celso Cittadini, Castelvetro), si aggiungevano ora Aldrete, Skinner, Ihre, Whiter, Court de Gébelin28. Si noti che durante il suo viaggio verso la Prussia, nel 1782, Denina aveva avuto modo di conoscere i lavori di Adelung sulla lingua tedesca29. I riferimenti di Denina nel suo percorso comparativo, dunque, sono molti, anzi troppi, se si giudica con la mentalità che sarà propria dei maestri del comparatismo scientifico. Uno dei principali impegni di studiosi come Wilhelm Schlegel sarà appunto quello di sgombrare il campo dalla
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Vedo che è di questo stesso parere G. Hassler, Von der Bibliopea (1776) zur Clef des langues (1804): Carlo Denina in der italienischen und deutschen Sprachdiskussion, in Gelehrsamkeit in Deutschland und Italien im 18. Jahrhundert. Letterati, erudizione e società scientifiche negli spazi italiani e tedeschi del ’700, a cura di G. Cusatelli, M. Lieber, H. Thoma, E. Tortarolo, Tübingen, Max Niemeyer Verlag, 1999, pp. 160-177. Cfr. in particolare i nomi che ricorrono nel Discours supplémentaire sur les principaux ouvrages étymologiques des langues modernes, che apre il III tomo della Clef des langues (pp. III-XXXI), oltre all’indice dei nomi alla fine del III tomo dell’opera. Cfr. Denina, Lettere brandeburghesi cit., p. 47. Molti anni più tardi, Adelung sarà citato anche nella Clef des langues, pur con giudizi critici su diverse sue opinioni, relativamente all’origine delle parole italiane dall’ablativo latino, e all’origine germanica delle forme analitiche dei verbi nel passato prossimo: cfr. Id, Clef des langues cit., t. II, pp. 8 e 18. Si noti che il Mithridates, l’opera maggiore di Adelung, uscì a partire dal 1806, e quindi è successiva alla Clef des langues.
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tradizione, tagliando di netto il rapporto con la bibliografia anteriore, insistendo il più possibile sulla sua inadeguatezza, in modo da rifondare la propria scienza con un’assoluta verginità. Denina, ovviamente, non si proponeva un obiettivo del genere. Il secondo volume della Clef des langues restringe il campo di ricerca sostanzialmente alle lingue europee, e tra le lingue europee dedica largo spazio, come c’era da attendersi, a quelle romanze. Questa parte dell’opera è meno affascinante, se si giudica rispetto ai grandi problemi cari alla linguistica del Settecento. Il tema della lingua primitiva, qui, si allontana, così come si allontana la questione delle radici portatrici di un significato originario. Nello stesso tempo, però, questa parte permette all’autore di mostrare appieno il proprio spirito concreto di studioso delle etimologie collocabili nella catena della storia, tra lingue di sicura parentela. A Denina arrivava, come ovvio, una teoria del sostrato abbastanza chiara, secondo la formulazione classica negli studi italiani, dal Rinascimento in poi: “Loin de Rome les peuples qui étoient forcés d’apprendre et de parler la langue de leurs maîtres, répétoient les mots et les phrases comme elles avoient frappé leurs oreilles, et comme leurs organes étoient disposés à les articuler”30. Non si dimentichi che ancora per Ascoli i mutamenti fonetici erano legati a “ragioni organiche”, determinate in qualche misura anche da fattori di razza31. La parte più debole del procedimento di Denina non sta nella teoria, ma nell’analisi. Ad esempio, ristretto il campo di ricerca alle lingue italiana, francese, spagnola, portoghese, egli intraprende un tentativo di analisi fonetica, ma sono proprio queste le pagine in cui si misura la differenza rispetto a quella che sarà la nuova scienza. Qui l’analisi non separa la trattazione di vocali e consonanti; non c’è mai il senso della distinzione di esito tra vocali brevi e lunghe latine; l’analisi non è sistematica, ma occasionale. Manca un ‘metodo’, insomma, cioè manca ‘il’ metodo,
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Denina, Clef des langues cit., t. II, p. 3. Cfr. G. I. Ascoli, Scritti sulla questione della lingua, a cura di C. Grassi, Torino, Einaudi, 1975, p. 7, dove ricorre l’espressione “ragioni organiche” a proposito della lunghezza o brevità delle vocali latine.
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che sarà poi quello della scuola storica, diffuso in Italia a partire dalla metà del secolo XIX. Nella Clef, invece, ci sono già basi etimologiche che affondano le loro radici in una tradizione antica e non certo di scarsa consistenza32. Chiara è l’idea ‘compensativa’ della trasformazione linguistica, secondo la quale le preposizioni e gli articoli tratti dai pronomi dimostrativi latini hanno assunto la funzione di rimpiazzo dei casi. Interessante è anche una dichiarazione di dissenso da Adelung, a proposito della formazione dei tempi composti. Per Adelung essi sarebbero il risultato di un influsso delle lingue del nord. Denina contesta questa tesi citando passi di autori latini (ad esempio, in Plauto: “satis iam dictum habeo”33). Chiara è anche l’idea della derivazione del futuro italiano dall’infinito più habeo; del resto è una nozione di grammatica storica che si ritrova già nel ’50034. Ma veniamo al punto in cui Denina introduce il discorso sui dialetti italiani, dopo aver svolto un discorso generale sulla definizione di ‘dialetto’35. Il modo di accostarsi al dialetto può ben essere una misura del metodo e delle trasformazioni avvenute nell’indagine tra Settecento e Ottocento. Si può dire che in Italia la nuova linguistica scientifica, con il
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Si veda ad esempio la discussione a proposito della tesi di Adelung secondo la quale gli esiti italiani derivano dall’ablativo latino. Denina ritiene che Adelung abbia torto, ma non sa contrapporre una teoria sistematica, e finisce per affermare che le parole italiane si sono formate indifferentemente da tutti i casi, anche se tra le varie possibilità contempla quella che si siano formate dall’accusativo sopprimendo -m finale: cfr. Denina, Clef des langues cit., t. II, p. 9. Cfr. Ibid., p. 18 La tratta il Castelvetro: cfr. Marazzini, Storia e coscienza cit., p. 36 n. Egli prende l’avvio da una serie di accenni al mondo antico, in particolare alle lingue della Grecia, secondo una tradizione consolidata della ‘teoria cortigiana’. Intendo dire che Denina, come tutti coloro che hanno simpatia per una teoria antitoscana, di matrice ‘cortigiana’, nel dibattito sulla ‘questione della lingua’, prende in considerazione il più illustre caso offerto dalla storia di lingua sovraregionale, per la coesistenza di varietà tutte legittimate: cioè, appunto, il caso del greco, a cui si riferiva già il Trissino nel Cinquecento.
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Biondelli e con l’Ascoli, nacque proprio studiando i dialetti. Non ci fu vero studio scientifico dell’italiano finché non vi fu studio dei dialetti. Parlo di ‘studio’, non di generica attenzione alla loro esistenza. Se si tratta solo di attenzione, certo essa è più antica. Da Dante in poi vi fu la coscienza delle diversità nelle parlate italiane. In Fontanini, in Muratori, in Maffei, cioè nei maestri italiani della filologia, c’è la coscienza che il dialetto può fornire documenti, cioè dati, elementi di prova e di indagine paragonabili a quelli che provengono da antichi documenti scritti, anche se tramandati attraverso una catena di oralità, la quale però affonda le radici in un remoto passato. Il riconoscimento dell’interesse e dell’importanza del dialetto, tuttavia, finisce per essere occasionale, o meglio, finisce per essere un elemento evocato, suggerito o dichiarato, piuttosto che utilizzato realmente, perché manca una descrizione dei dialetti, e perché manca una loro classificazione. Lo stesso Cattaneo, nel saggio prima citato sul Principio istorico delle lingue europee si limitava a un invito a raccogliere “tutte queste rugginose reliquie”, come le chiamava36. Siamo, mi pare, a un punto nodale. Le classificazioni si affermano solo nell’Ottocento. Prima di Biondelli e di Ascoli, si può far riferimento a Denina e Fernow, in considerazione del fatto che in Hervás l’interesse per i dialetti italiani è quasi assente, e inoltre compare la vecchia concezione che essi siano un ‘toscano corrotto’37. Denina è il primo
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Cattaneo, Milano e l’Europa cit., p. 201. Nel Catalogo delle lingue conosciute di Hervás vi è a questo proposito un curioso aneddoto: dice di essere arrivato a Bologna e di essersi stupito per la grande presenza di Svizzeri in città, salvo poi scoprire che quelli non erano Svizzeri, ma “Bolognesi [i quali] parlavano un dialetto assai corrotto del Toscano, e che perciò io il credea Svizzero” (L. Hervás, Catalogo delle lingue conosciute e notizia della loro affinità, e diversità, Cesena, Per G. Biasini all’insegna di Pallade, 1785, p. 191; cito dalla ristampa anastatica della Societad general Española de Libreria, Alcobendas (Madrid) 1986, p. 285). Ci sarebbe anche da ricordare il catalogo dei dialetti italiani dato dal geografo Adriano Balbi, che è di qualche interesse, anche se viene in genere trascurato. Merita rammentare che Biondelli, nella prefazione al suo Saggio sui dialetti gallo-italici, se la prendeva
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studi che si basa sul dibattito nella ‘questione della lingua’. Chi scriveva stando in Italia, era meno distaccato, meno oggettivo e meno ‘scientifico’. Il profilo di storia dell’italiano che sta nella Clef, dunque, non fa difetto. Semmai la trattazione entra in crisi là dove tenta di verificare in che cosa gli altri dialetti divergano dal fiorentino, cioè nell’analisi fonetica e grammaticale. Si accorge che il fiorentino ha una vicinanza al latino maggiore degli altri dialetti italiani, ma gli vengono poi a mancare strumenti di controllo sistematici ed emerge ancora il problema del corpus dei dati. Questo corpus è disomogeneo, così come è disomogenea la conoscenza che egli ha dei dialetti italiani. Non è un caso, ad esempio, che siano più ricche le pagine relative al piemontese, le quali hanno attirato l’attenzione di studiosi come Stussi e Cortelazzo, i quali non hanno mancato di indicare luci e ombre, cioè intuizioni geniali, come ad esempio la distribuzione dell’Italia tra una Romania orientale (Toscana, Romagna e le tre isole) e una Romania occidentale, dalle Alpi ai Pirenei e alla Navarra40, accanto a veri e propri spazi vuoti, come “l’attenzione pressoché nulla riservata all’Italia meridionale e lo sfuocato cenno alla Sicilia […]”41. Del resto non era facile trovare un settentrionale per il quale il Meridione d’Italia fosse qualche cosa di familiare. Persino la Sardegna, che pure era governata dai Savoia, non sembra essere conosciuta linguisticamente da Denina. Mancavano, evidentemente, informazioni. Che io sappia, tra le prime osservazioni concrete del sardo sono quelle fornite da Cattaneo nel saggio Della Sardegna antica e moderna del 1841: e vi si ritrova lo stesso errore che Manlio Cortelazzo ha rimproverato a Denina, cioè l’avvicinamento eccessivo tra il sardo e il siciliano42. Così non potremo rimproverare a Denina, per il Piemonte, la regione di cui egli ha esperienza diretta, la mancata distinzione tra provenzale e franco-provenzale, che sarà di Ascoli. Abbiamo visto prima che Denina sa benissimo
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Cfr. Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia cit., p. 119. Stussi, Studi e documenti cit., p. 50. Cfr. Cortelazzo, I dialetti cit., p. 119 e Cattaneo, Milano e l’Europa cit., p. 107.
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che una parte dei dialetti alpini, e tra questi proprio quelli che stanno nelle valli alle spalle della sua nativa Revello, sono simili alle parlate francesi del Delfinato e della Provenza. Tuttavia, pur con tutto questo, l’unità ‘piemontese’ viene presupposta, e dunque ogni esito linguistico viene accettato come ‘piemontese’, appunto. L’area piemontese diventa luogo di varianti, come quando nota che la “capra” è in piemontese la crava, con metatesi, ma in Alto Piemonte, ai confini con il Delfinato, è la ciabra. L’esito è giustamente registrato, e la formulazione della ‘legge’ viene tentata in questa forma: “Dans le haut Piémont qui touche au Dauphiné on change constamment la ca en cia, tandis que le François le change en ch”. Ecco dunque la serie chèvre francese, crava piemontese, e infine ciabra, caratteristico, come egli dice, “des montagnards des deux côtés des Alpes”43. L’analisi era resa più difficile dal fatto che alcuni caratteri di quello che sarebbe stato chiamato poi “franco-provenzale” continuavano nelle valli piemontesi occitane (è il caso della c+a > ć), come avrebbe notato poi Ascoli44. Ancora Bernardino Biondelli, nel 1853, procedeva nello stesso modo classificando i due tipi di piemontese, detti da lui il piemontese vero e proprio, e l’alpigiano, i quali venivano messi a confronto con i tipi italiano e francese, per cui si veniva ad avere cavret piemontese contro ciabrì “alpigiano”, l’italiano capretto e il francese chevreau. I dialetti alpigiani venivano appunto definiti come quelli “che più si accostano alle forme occitaniche”45. La trattazione risultava certo più chiara, perché esposta con più sistematicità, con schemi costanti nei confronti lessicali, e con un andamento meno discorsivo e meno estemporaneo, ma il contenuto concettuale non era poi troppo diverso.
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Denina, Clef des langues cit., t. II, p. 60. Cfr. Ascoli, L’Italia dialettale, in “Archivio glottologico italiano” VIII (1882-85), p. 101. La differenza stava nella trasformazione della A latina dopo C palatale, che in franco-provenzale aveva esito in “vocale sottile” e ed i, in provenzale si manteneva. B. Biondelli, Saggio sui dialetti gallo-italici, Milano, Presso G. Bernardoni, 1856, p. 478.
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storia della parlata piemontese, e si affermava che il dialetto stesso aveva già subìto in passato delle ondate altalenanti di italianizzazione o francesizzazione, a seconda dei momenti50. Insomma, le analisi linguistiche precise e concrete non mancano nei lavori di Denina, per il dialetto come per le lingue, così come non manca il respiro dell’interpretazione del fatto linguistico come segno della evoluzione politico-sociale51. Uno dei limiti di quest’analisi, è, come abbiamo detto, la disomogeneità del corpus di dati. Denina non tenta di allestirne un corpus suo, unico, basandosi, come si usava fare, su di un medesimo testo appositamente tradotto da informatori locali nelle varie lingue. È noto che il Mithridates di Gesner, nel Cinquecento, aveva utilizzato una serie di traduzioni del Padre nostro. Caterina II di Russia aveva fatto tradurre un campione di trecento parole in duecento lingue, Salviati aveva utilizzato la traduzione in dodici dialetti italiani di una novella di Boccaccio. Il Padre nostro fu ancora utilizzato da Hervás, e anche da Adelung e Buxtorf52. Adriano Balbi, nel suo Atlas Ethnographique del 1826, avrebbe usato un catalogo ristretto di parole, cioè elementi, parti del corpo umano, e i numeri (il corpus lessicale era ristretto, ma il catalogo delle lingue era davvero imponente). All’inizio dell’Ottocento, però, a due o tre anni di distanza dalla pubblicazione della Clef des langues di Denina, il nuovo testo utilizzato largamente per gli studi linguistici sarebbe stato la Parabola del figliol prodigo, a
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Denina si soffermava sull’alternanza tra forme come frel e fradel, soeri e sore(l)la, vardé e guardé, sincanta e sinquanta, cioè tra i tipi maggiormente italianizzati o più simili all’italiano, e quelli che se ne discostavano (cfr. Ibid., p. 75). Per restare a spunti analitici di interesse, potrei citare, fra l’altro, uscendo dal campo del dialetto, le osservazioni sull’uso dei diminutivi latini nelle lingue francese e italiana, auricula al posto di auris, augello al posto di avis, o l’identificazione dei francesismi antichi in -aggio nella lingua italiana, cfr. Denina, Clef des langues cit., t. II, p. 79 e p. 84. F. Foresti, Le versioni ottocentesche del Vangelo di S. Matteo nei dialetti italiani e la tradizione delle raccolte di testi dialettali, Bologna, Clueb, 1980, in particolare alle pp. 7-9.
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cui, nell’area italiana, si dedicarono Giovenale Vegezzi Ruscalla e Bernardino Biondelli. Denina è fuori da questa linea. Così, ancora, si può dire che non c’è in lui alcuna preoccupazione per la trascrizione fonetica del materiale dialettale. Anche l’emergere di questa preoccupazione non fu un fatto di poco conto. Non credo sia stata scritta una storia della fonetica e dell’alfabeto fonetico, ma chi la scriverà dovrà registrare gli sforzi di Biondelli, il quale, nella Introduzione al Saggio sui dialetti gallo-italici si preoccupò, e credo fosse il primo, di esporre il sistema convenzionale al quale aveva deciso di attenersi per rappresentare i suoni diversi da quelli italiani53. Denina aveva ben avuto sotto gli occhi un sistema di trascrizione più antico e ambizioso, quello di de Brosses, una tecnica di trascrizione che aveva la pretesa di prescindere completamente dall’alfabeto occidentale latino, adottando segni convenzionali astratti, “geometrici”. Ma l’obiettivo dell’alfabeto fonetico di de Brosses non era solamente la descrizione, ma l’etimologia, perché, secondo l’autore, da queste trascrizioni emergevano direttamente le radici primitive, altrimenti occultate dalla varietà delle grafie delle varie lingue. Come si vede, la tecnica di trascrizione fonetica settecentesca e quella ottocentesca nascevano su basi assai diverse, e comunque Denina rimase estraneo a entrambe, così come rimase estraneo alla ricerca di antichi documenti dei dialetti, che aiutassero nello studio della loro grammatica e delle loro trasformazioni. Questa è invece la linea che fu seguita da Biondelli, il quale affiancò per quanto possibile testi antichi a materiali del dialetto vivo raccolti sul campo. Questa fu anche la linea vincente della scuola storica, che fece della filologia dialettale un campo di ricerca specializzato e raffinatissimo, come dimostrano le annate dell’“Archivio Glottologico Italiano”. Ciò vale per i dialetti, ma anche per la lingua. Basti pensare che nella decina dei più antichi documenti della lingua italiana, ben sette furono fatti conoscere e studiati tra la seconda metà dell’Ottocento
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e l’inizio del Novecento54. Lo scarto tra Denina e la nuova scienza sta dunque negli strumenti della filologia, nella conoscenza della fonetica, nella grammatica storica. Questa, credo, fu la frontiera tra Settecento e Ottocento. La Clef des langues, con il suo ambizioso impianto, si caratterizza per lo sforzo eclettico e per le grandi intuizioni. È giusto dunque essere severi, guardare senza indulgenza ai risultati a cui giunse Denina; ma, specialmente oggi, dopo lo sforzo di revisione storiografica a cui accennavo all’inizio, non credo si possa ignorare, nel complesso della sua opera, la parte glottologica, che non è una parentesi, né un diversivo. Anzi, questo, nel campo della glottologia, fu il massimo risultato a cui giunse un italiano, sul terreno di quello che ormai possiamo definire con cognizione di causa il ‘paleocomparativismo’, pur al di qua del confine con il comparativismo scientifico moderno.
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Cfr. C. Marazzini, in L. A. Muratori, Dell’origine della lingua italiana. Dissertazione XXXII sopra le Antichità Italiane, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1988, p. 19 n.
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rispetto alla prevalente ed esclusiva attenzione alla cultura classica. Inutile ricordare che gli scritti più rilevanti di Mai, come le prefazioni alle edizioni, non sono in italiano, senza che per altro questo significhi un rifiuto del volgare: la scelta era anzi nell’ordine della più assoluta normalità, anche dopo le discussioni settecentesche sul ruolo del latino, lingua che nessuno avrebbe pensato di combattere nel terreno dell’antiquaria, dell’erudizione, della filologia, e che, nelle prefazioni ai classici, si è mantenuta talora fino al nostro secolo. Un prefatore di classici, per di più uscito dalla ratio studiorum gesuitica, non poteva sottovalutare i vantaggi del latino, non ultimo la circolazione internazionale, che certo l’italiano non avrebbe avuto. Si potrebbe dunque sostenere che il rapporto tra Mai e l’italiano non presenta particolare interesse e non costituisce motivo di indagine; certo il suo nome non figura nemmeno nella più piccola nota erudita dei tradizionali manuali di storia della lingua italiana. Tuttavia già Gervasoni (l’editore dell’Epistolario) aveva insistito su due momenti in cui il filologo, di solito unicamente immerso in studi classici, si era avvicinato a problematiche relative alla lingua volgare: ciò era accaduto prima di tutto a causa dei rapporti con Monti, che l’avevano fatto entrare in contatto con la questione della lingua, la quale si dibatteva a Milano, con grande vivacità, all’inizio dell’Ottocento; in secondo luogo Gervasoni insisteva sul valore emblematico della prosa di tono medio riscontrabile nell’Epistolario, in cui riconosceva una nobiltà stilistica aliena da affettazioni puristiche, da sciatterie giornalistiche e da barbarismi. Quanto alla collaborazione del giovane filologo dell’Ambrosiana con la Proposta, essa è attestata dalle dichiarazioni dello
Cfr. B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1978 (V ed.), p. 521. Cfr. Gervasoni, A. Mai e i suoi rapporti con V. Monti, P. Giordani e G. Leopardi, in “Bergomum” XXVI (1952), pp. 172-183; Id., A. Mai e la letteratura italiana, in “Bergomum”, XXVIII (1954), n. 4, p. 231; Id., Introduzione all’Epistolario cit., p. XXI.
2. “Splendore e maestà della nostra italica favella”: Angelo Mai e la lingua
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stesso Monti, il quale nominava Mai in diverse lettere. Anche il brano che ho citato in apertura, a prescindere dalle espressioni di circostanza, fornisce informazioni sul coinvolgimento di Mai, non solo come spettatore, nelle polemiche del momento; lo conduceva verso questo nuovo interesse l’ambiente culturale frequentato, a partire da un mecenate illustre quale il marchese Trivulzio, proprio colui al quale la Proposta è dedicata; si noti che il primo volume della Proposta, di cui abbiamo visto or ora nelle mani di Mai una copia donatagli dallo stesso Trivulzio, comprende, dopo la dedica e il trattato di Perticari sugli Scrittori del Trecento, un’appendice che dovette attirare non poco la sua attenzione di cultore di studi classici, perché vi leggeva una dedica di Monti a Bartolomeo Borghesi, uno studioso quasi coetaneo di Mai e con lui in rapporto. Anche Bartolomeo Borghesi era stato coinvolto da Monti nella polemica contro l’abate Cesari, e il suo parere (espresso in occasione di incontri privati, e ora, nella Proposta, reso di pubblico dominio) veniva evocato non soltanto in quanto “sommo Archeologo”, ma anche quale conoscitore, oltre che del mondo classico, di “quella parte della morta favella che nel vocabolario [della Crusca] ci viene venduta per viva e piena di gioventù”. Il passo che ho citato in apertura mostra un Mai che, pur con tutte le cautele del caso, e pur con tutta l’umiltà di circostanza, non si sente da meno di Bartolomeo Borghesi, intanto perché, come dichiara (destino comune a quasi tutti i letterati non toscani), non ha mancato di trascorrere un po’ del proprio tempo impegnandosi nello spogliare e forse nel postillare il vocabolario della Crusca (“ho fatto altresì qualche lettura del Dizionario della Crusca...”). L’idea di una collaborazione all’iniziativa di Monti non doveva in
Cfr. Gervasoni, Mai e i suoi rapporti... cit., p. 177. Cfr. anche la lettera a G. Grassi del 1819 in Monti, Epistolario a cura di A. Bertoldi, vol. V, Le Monnier, 1930, p. 170: “Fra gli ammiratori del tuo Parallelo e della Grecità del Frullone, e della sua erudizione orientale [questi erano i contributi di Grassi e di Peyron alla Proposta] principalmente, ti nomino innanzi a tutti Mai e Giordani, tornato a noi da Piacenza”. Cito dall’ed. della Proposta di Milano, Fontana, 1828, vol. I, parte I, p. 229.
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fondo dispiacergli, come non dispiacque al Peyron. Quanto poi alla natura effettiva di questa collaborazione, sulla quale si arrovellava Gervasoni, imbarazzato dal fatto che Mai viene citato solo una volta nella Proposta, e di sfuggita, credo basti la chiarissima testimonianza della lettera del 4 novembre 1818 nella quale Mai scrive a Monti per rispondere a una sua richiesta di informazioni relativa ad alcune ricerche sull’uso della voce ieraite (parola che designa una sorta di pietra preziosa). Chi abbia la pazienza di confrontare le informazioni fornite da Mai in questa lettera (la n. 207 dell’Epistolario) con la voce Ieratte della Proposta (vol. II, parte I), potrà verificare in concreto quale rapporto si instaurò tra Monti e Mai. Proprio sulla base dei controlli effettuati da Mai all’Ambrosiana, Monti può dimostrare come la voce Ieratte del vocabolario della Crusca sia uno sproposito al posto di Ieraite: è da allora, sia detto per inciso, che la voce ieratte è stata espunta dai vocabolari italiani. La collaborazione di Mai aiuta insomma a smascherare uno dei tanti abbagli della Crusca, dei quali Monti andava in caccia in quel momento. Quanto alla coscienza di Mai, nel corso di questa e di altre collaborazioni, credo che egli sapesse perfettamente a quale uso dovevano servire le informazioni che gli venivano richieste. Nell’aprile dell’anno successivo (il 1819), all’uscita del II volume della Proposta, donatogli ancora dal marchese Trivulzio, si complimentava con Monti per il suo “sale attico”, usando tra l’altro l’espressione da cui ho ricavato il titolo del mio intervento, che allude a una concezione della lingua ispirata al più serio classicismo, all’insegna della continuità tra l’antico e il moderno: Dal Sig. Marchese Trivulzio ho avuto il pregiatissimo dono del secondo volume della di Lei Proposta, ed ho letto con la maggiore ammirazione e con isquisito piacere i bellissimi articoli dell’opera sparsi del più fine sale attico e scritti con tutto lo splendore e maestà della nostra italica favella, di cui Ella, illustrissimo Sig. Cavaliere, è sovrano Maestro.
Mai, Epistolario cit., lettera n. 235 del 9 aprile 1819, p. 307.
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Sta di fatto che l’attività di Mai scrivente, per quello che più essa conta, non è in italiano, e, data la prospettiva che ho assunto, sono costretto ad avvicinarmi al personaggio attraverso le lettere o gli altri scritti minori che, più o meno accidentalmente, sono in lingua moderna, cosicché verrebbe da pensare che la mia ricerca di Mai ‘volgare’ faccia perdere di vista la sua attività principale di filologo. Per fugare questo timore, e per ricollegare gli scritti italiani di Mai non solo alla filologia, ma anche all’ideologia sottesa alla Proposta di Monti (cioè ad un desiderio di svecchiamento culturale della nostra lingua che non ne limitasse la nobiltà e l’eleganza), occorre richiamare un giudizio di Giordani, il quale, volendo citare dei facitori di buona prosa, univa una serie di cultori di discipline diverse, artistiche, critiche e scientifiche: citava Canova, Volta, Oriani, Cicognara, Scarpa (uno scultore, due scienziati, un critico d’arte, un medico). Tra questi, in buona compagnia, collocava il filologo Mai, affermando che le polemiche linguistiche tra cruscanti e anticruscanti erano superate dall’attività di coloro che scrivevano di ‘cose’, al riparo dai rischi della pura e rarefatta letteratura, realizzando un corretto rapporto tra ‘concetti’ e ‘parole’10. Anche l’Epistolario, a ben vedere, non è soltanto un monumento di prosa media e familiare, anzi, questo aspetto è forse meno importante rispetto all’emergere della tematica filologica, la quale documenta la circolazione di lessico specifico in una condizione di impiego relativamente libera, quale è la comunicazione privata tra studiosi. Penso alle lettere in cui si parla del lavoro condotto all’Ambrosiana, si discute di codici, di interventi, di edizioni. In queste lettere la terminologia tecnica non ha mai uno spazio eccessivo, ed è comunque quella di derivazione umanistica, di ascendenza cinquecentesca, secentesca o settecentesca. La filologia che aveva corso in Italia all’inizio dell’Ottocento non aveva la
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Cfr. P. Giordani, Monti e la Crusca, in Id., Opere, a cura di A. Gussalli, vol. X, Milano, 1857, p. 377. Il brano è riportato da M. Vitale nell’antologia di testi annessa al volume La questione della lingua, Nuova edizione, Palermo, Palumbo, 1978, p. 721.
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pretesa di rifondarsi come scienza mediante la coniazione di neologismi, e piuttosto riciclava lessico tradizionale. Termini comuni come variante, emendare il testo, collazionare e collazionato, che ritroviamo nelle lettere di Mai, oggi non attirerebbero in alcun modo la nostra attenzione. Eppure queste parole, apparentemente normalissime, all’inizio dell’Ottocento non avevano ancora trovato una opportuna codificazione nella lessicografia italiana, soggetta alla dittatura della Crusca, e molte accezioni specifiche della filologia sarebbero entrate nei dizionari solo più tardi, talora incontrando resistenze. Bisogna attendere il vocabolario di Tommaseo, cioè gli anni dell’unità d’Italia, perché l’accezione filologica del concetto di ‘variante’ venga registrata con un esempio d’uso, tratto dalle lettere dell’abate Cesari, pubblicate a metà dell’Ottocento (184546). Il vocabolario della società Tramater, anteriore al Tommaseo, caratterizzato da una notevole disponibilità alle parole nuove e scientifiche, aveva, sì, nell’ultimo volume uscito nel 1840, la definizione di ‘variante’, ma non portava esempi d’uso, né poteva cavarli dalle lettere di Mai, che allora erano inedite, nelle mani dei rispettivi destinatari. Il vocabolario Tramater dichiarava di ricavare la sua articolata e precisa definizione dall’Elenco di alcune parole oggidì frequentemente in uso le quali non sono ne’ vocabolari italiani, compilato da Bernardoni e pubblicato nel 181213. Nello stesso 1840, anno dell’ultimo volume del Tramater, la definizione di ‘variante’, ma ancora senza esempi d’uso, entrava nell’ultimo tomo del vocabolario di Manuzzi. Nel caso di Mai, che usa un termine come ‘variante’ fin dal 1811, non siamo di fronte alla coniazione di neologismi, ma all’uso di parole connesse allo scambio culturale legato all’attività filologica (viene a mente lo scambio assiduo tra gli “operaj dell’intelligenza”, per dirla con il Proemio di Ascoli); siamo di fronte a uno studioso che per comunicare con i suoi amici e colleghi usa parole che rivendicano il diritto di appartenere al tesoro del lessico italiano nella specificità del loro significato, così come si è andato definendo nell’uso degli uomini di cultura e di scienza. Analogo è il caso di collazionare, che assumeva il senso tecnico filologico, pur tra le rimostranze dei puristi, i quali lo condannavano come latinismo. La condanna di una parola ai nostri occhi legittima (e legittima, evidentemente,
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agli occhi di Mai) si trasmetteva dal Lissoni, al Fanfani e fino al Tommaseo, che così commentava: “È voce ammessa; ma potendo usare in sua vece Riscontrare, Confrontare ecc., sarebbe meglio” (Dizionario di Tommaseo s.v.). Eppure il senso di questa parola si era specializzato a partire dal Seicento e dal Settecento, e si era rafforzato nell’Ottocento (oltre a Mai, si può citare l’uso fattone da Foscolo)11. Nelle lettere di Mai si parla dunque di varianti, di emendazioni, di carte bombicine, di caratteri unciali, di carta ogliata, di codice pergameno (al posto del più moderno ‘pergamenaceo’), di codici rescrittti o di palimpsesti (anche Peyron preferisce questa forma), e si fa uso di terminologia coniata sulle lingue classiche, soprattutto sul latino, in continuità e in sintonia con la tradizione dei secoli precedenti. Non so che cosa avrebbe potuto pensare su questo tema Pietro Giordani, il quale si dichiarava contrario alla terminologia scientifica greco-latina in nome di una in vero un po’ astratta democratizzazione della cultura12, ma sta di fatto che la principale fonte di arricchimento della lingua della filologia era il latino, e il latinismo finiva per avere una carica eversiva in senso anticruscante e antitoscano, come si legge in queste righe di Leopardi, tratte dalle Annotazioni filologiche alla canzone dedicata proprio ad Angelo Mai13: Queste ed altre molte parole, e molte significazioni di parole, e molte forme di favellare adoperate in queste canzoni, furono tratte non dal Vocabolario della Crusca, ma da quell’altro Vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani, prosatori o poeti ( per non uscir d’autorità), dal padre Dante fino agli stessi compilatori del Vocabolario della Crusca, incessantemente e liberamente derivarono tutto quello che parve loro convenevole, e che fece ai loro bisogni o comodi; non curandosi che quanto essi pigliavano dal latino fosse stato usato da’ più vecchi di loro.
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Cfr. GDLI s.v. Cfr. Vitale, op. cit., p. 408. Riprendo il passo da Migliorini, op. cit., pp. 655-656.
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I tecnicismi di base latina erano dunque una delle strade attraverso le quali ci si poteva trovare schierati dalla parte della Proposta di Monti, dove, fin dalla lettera dedicatoria al marchese Trivulzio, si insisteva sul ruolo delle scienze e delle arti nell’elaborazione della lingua, e si postulava che la lingua della scienza dovesse essere “creata dal senno unico dei sapienti”, cioè dallo scambio e dal commercio dei dotti, senza bisogno di altre autorità; appunto quello scambio di cui le lettere di Mai ai suoi amici e colleghi sono un documento. Si potrebbe insomma sostenere che anche il tecnicismo poteva servire a eludere l’accademismo di una tradizione culturale iperletteraria, e lo confermano due curiosi scritti italiani di Mai, i discorsi pubblicati a Roma nel 1824 (a non molta distanza, quindi, dal periodo milanese), uno intitolato Meriti di Pio VII e del clero verso la letteratura, l’altro Sui vicendevoli uffici della religione e delle arti. Sono interventi d’occasione, perfettamente inquadrabili nella letteratura celebrativa e panegiristica, di solito disponibile alle più vuote esercitazioni formali: e anche Mai non può sottrarsi a un gioco scoperto di retorica oratoria, dall’esordio ricercato, alla prevedibile dispositio, alla conclusione costruita su citazioni latine. Eppure basta scorrere questi testi per accorgersi che, in gran parte, sfuggono alle regole dell’oratoria tradizionale, e si trasformano in qualche cosa di diverso, diventano cataloghi tra il museale e il burocratico, esposizioni fitte di nomi di studiosi, eruditi, antiquari, artisti. L’habitus filologico porta Mai a cercare cose concrete e reali, nomi e fatti, a mutare l’orazione in una sorta di repertorio di consultazione. La scelta lessicale mostra un insolito gusto del tecnicismo, che raramente si può riscontrare con tanta frequenza all’interno del genere oratorio. Si tratta sovente di tecnicismi relativi ad attività artistiche o al collezionismo. Ecco la glittica e la plastica (voci che cominciavano a circolare dalla fine del ’700), ecco la calcografia camerale, entrata solo nel 1827 nel Nuovo dizionario di G. Zanobetti come “luogo in cui si fanno le stampe” nella città di Roma, ecco 1’urna egizia basaltica (l’aggettivo “basaltico” non è ancora registrato dal Tramater). Ecco ancora un tecnicismo medico-scientifico come lo stabilimento di vaccinazione, un doppio francesismo: vaccination, parola dell’inizio del secolo, si era diffusa nel periodo napoleonico. Era stata condannata, non
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solo la parola, ma anche la vaccinazione di per se stessa, dai più fanatici clericali pontifici14. Ecco termini come erosa moneta, del linguaggio finanziario (usato fin dal ’700 da Muratori e da Beccaria a indicare una fusione di moneta povera), debito publico (la preferenza va alla grafia latineggiante), commercio libero, prestanti manifatture, protomoteca capitolina (“il qual nome si dà specialmente alla galleria che vedesi nel palazzo dei conservatori di Roma”, come annoterà più tardi il Tramater); e, poco più in là, ecco l’incausto, un latinismo che designa una tecnica artistica rimessa in voga dal neoclassicismo. Insomma, pur nell’orizzonte ideologico papalino della Restaurazione (ma alla maniera di Consalvi, non dei reazionari: infatti era stato Consalvi a far chiamare Mai a Roma), pur, dicevo, nell’orizzonte ideologico obbligato in cui si muove l’oratoria celebrativa, mi pare che la presenza di lessico tecnico rompa le strutture retoriche, riconducendo il discorso alla concretezza, seppur prevalentemente antiquaria e museale. Grazie a questa concretezza, Mai può dare spazio persino al citato stabilimento di vaccinazione, a proposito del quale mi torna in mente ciò che di lui scriveva Lady Morgan nella sua ampia descrizione dell’Italia, dopo che era andata a trovarlo all’ Ambrosiana, guidata e presentata dall’amico Ludovico di Breme. L’aveva trovato tra i suoi codici squadernati su di un gran tavolo, e si era dato da fare per spiegare nozioni eruditissime a lei del tutto incompetente. Mentre Mai non s’accorgeva di sprecare le sue lezioni, la distratta Lady pensava che nel mondo esistevano le macchine a vapore e la vaccinazione contro il vaiolo, e Mai se ne stava “plongé dans l’antiquité”15, come un fantasma del passato, seppure con il nobile
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Cfr. S. J. Woolf, al paragrafo La Restaurazione in Italia, in AA. VV., Storia d’Italia, vol. III, Torino, Einaudi, 1973, p. 258. Cito dalla traduzione francese de L’Italie di Lady Morgan, Paris, Dufart, 1821, vol. 1, pp. 197-98 (ne esiste una ristampa anastatica, Elibron Classics, Chestnut Hill - USA, Adamant Media corporation, 2006). Il ritratto di Mai delineato da Lady Morgan è citato nella ricca bibliografia sul Mai inserita da P. Treves in Lo studio dell’antichità nell’Ottocento, MilanoNapoli, Ricciardi, 1962, pp. 360-363.
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scopo di fugare gli errori del passato. Anche per Mai, infine, era venuto il momento di parlare di ‘vaccinazione’, pur se l’ambiente romano era più arretrato di quello lombardo. La “Biblioteca italiana” non andava insinuando che Mai, a Roma, non trovava né le “agevolezze” né i “Mecenati” che aveva avuto al tempo dell’Ambrosiana?16. La Milano di Monti, la Milano della battaglia tra classici e romantici, aveva avuto tanta vitalità da coinvolgere anche chi, come il Mai, era abile nel defilarsi. Non si era trovato forse vicino a un’iniziativa come la Proposta, e anche era stato oggetto delle polemiche di Borsieri, all’insegna del più squisito anticlassicismo? Basta ricordare i versi satirici nelle Avventure letterarie di un giorno (del 1816), rivolti a mordere la “Biblioteca italiana” che aveva celebrato troppo le sue scoperte17: Puro scrittor d’articoli fai giganti i mezzani, e grandi i piccoli, e s’io chieggo: Tal fallo emenderai? Tu mi torni a ripetere, Mai, Mai.
Poche righe dopo questa polemica in versi, Borsieri apriva un’altra polemica, questa volta linguistica (destino di Mai, di essere sempre coinvolto nelle polemiche linguistiche degli altri!) sulla vitalità dei dialetti e sull’educazione popolare, sulla necessità di portare i dialetti al livello della lingua comune. Un programma magari un po’ fumoso, ma che serviva comunque a identificare nel classicista e filologo un istintivo nemico. Polemiche del genere, per quanto potessero essere sgradite, servivano a mantenere a
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Cfr. la “Biblioteca italiana”, VI (1821), tomo XXI, p. 31. Cfr. anche S. Timpanaro, La filologia di Giacomo Leopardi, Firenze, Le Monnier, 1955, p. 47. P. Borsieri, Avventure letterarie di un giorno, in E. Bellorini, Discussioni e polemiche sul Romanticismo (1816-1826), vol. 1, Bari, Laterza, 1943, p. 104. Esistono anche l’ed. a cura di G. Alessandrini, Roma, Ed. dell’Ateneo, 1967 e quella a cura di W. Spaggiari, Modena, Mucchi, 1986. Sul sospetto dei romantici verso gli studi classici, cfr. Timpanaro, op. cit., p. 18.
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contatto con il più moderno dibattito culturale anche chi, come Angelo Mai, avrebbe preferito probabilmente estraniarsene. A Roma le polemiche sarebbero state molto diverse, come quella con il Lanci; infatti proprio nel periodo romano vi è la prova di una involuzione, di un atteggiamento contraddittorio rispetto all’esperienza milanese, che incrina un poco il quadro fin qui delineato. Alludo alle parole con cui Mai commentò la pubblicazione del più importante inedito italiano a cui pose mano, le Vite di Vespasiano da Bisticci, nel I volume dello Spicilegium Romanum. Nella presentazione (latina) dell’inedito egli ricorreva ad argomenti non più degni di un pur marginale collaboratore della Proposta, ma adatti piuttosto ad un accademico della Crusca: ed effettivamente Mai era diventato socio corrispondente di tale accademia18. Dando alla luce le Vite, si dimostrava attento all’aspetto linguistico dell’opera, caratterizzato da una notevole popolarità toscana, e la celebrava con queste parole19: [Vespasiano da Bisticci] utpote civis florentinus, et suae patriae venustate naturaliter imbutus, lectioni etiam scriptionique bonorum auctorum artis suae gratia assuetus, vocabulis ubique puris utitur, phrasique pariter ad rectam Etruriae consuetudinem semper exacta. Itaque et hunc glossographi inter probatos nostrae linguae auctores, ut puto, reponent.
Infatti circa trent’anni dopo Alberto Guglielmotti, l’autore del noto Vocabolario marino e militare, celebrava la memoria di Mai alla Crusca proprio invitando gli accademici a “vantaggiarsi” di
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Cfr. A. Guglielmotti, in “Atti dell’Accademia della Crusca”, Firenze, Cellini, 1875-76, p. 186. In Ibid., p. 194, ci sono documenti interessanti relativi alla storia della pubblicazione delle Vite, a cui G. Capponi e F. Del Furia erano giunti mediante un manoscritto della Laurenziana, quando furono avvertiti da B. Borghesi che Mai aveva in corso di pubblicazione il più ampio codice Vaticano. A. Mai, in Spicilegium Romanum, tomo I, Roma, Typis Collegii urbani, 1839, p. XIII. L’opera fu divulgata solo più tardi, nel 1843: cfr. Guglielmotti, op. cit., p. 191.
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quel nuovo testo di lingua20. Ma forse in questo caso non bisogna tanto sottolineare la mancata coerenza con le opinioni espresse al tempo della Proposta di Monti, quanto ricordare l’abitudine contratta negli studi latini, terreno in cui le pubblicazioni di Mai fornirono occasioni di accrescimento lessicale (“Eius itaque mentio plurima est in novis vocabulis huic Lexico insertis” riconosceva Furlanetto nella prefazione alla III ed. del vocabolario di Forcellini)21. Di qui derivava un’idea di lingua intesa come corpus chiuso, sulla base di una serie di autori approvati, che poteva essere esteso grazie all’apporto di testi inediti: uno sbocco questo, opposto alla concezione di Monti e della Proposta, cioè opposto al classicismo ‘progressivo’ milanese. O forse, più semplicemente, per spiegare le parole di Mai, è sufficiente evocare una debolezza di filologo, che vuole valorizzare a ogni costo il proprio inedito, e, senza troppe preoccupazioni tecniche, ripete per l’italiano quanto è abituato a fare nel campo delle lettere latine. In entrambi i casi, comunque, sembra che si offuschi l’immagine milanese di Mai, e che subentri quella romana, la quale, nel ricordo di noi tutti, si associa quasi inavvertitamente al ritratto un po’ gesuitico del Monsignore “gentilissimo” e “compiacentissimo” che troviamo nell’Epistolario di Giacomo Leopardi.
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Cfr. Guglielmotti, op. cit., p. 186. Sull’apporto di Mai alla lessico grafia latina, cfr. M. Raoss, Angelo Mai e la lessicografia, in “Bergomum” XXVIII (1954), n. 4, pp. 85-117.
3. Galeani Napione di fronte alla “Proposta” di Monti: le “fatali conseguenze della divisione dell’Italia”
Siamo troppo abituati, per una certa vischiosità propria delle categorie cronologiche (ad esempio la scansione della storia per secoli), a considerare Galeani Napione soprattutto come un personaggio del Settecento, e a interpretare le sue posizioni linguistiche in relazione alle idee dell’Illuminismo, o alle vicende politiche che corrispondono al periodo di pubblicazione di Dell’uso e dei pregi della lingua italiana. È noto che la prima edizione di questo trattato uscì nel 1791, alle soglie dell’invasione francese della Savoia, poco prima che lo stato piemontese fosse investito dal vento della rivoluzione. Proiettata su questo sfondo, la difesa dell’italianità a cui Napione dedicò i propri sforzi può essere giudicata in maniera restrittiva. Vi si può vedere (non illegittimamente) l’espressione di una resistenza contro le forze di progresso emergenti tra la fine del secolo e l’età napoleonica. Basta ricordare i nomi di coloro che si trovarono a polemizzare contro Napione, o gli furono avversari; tra essi si annoverano alcuni rappresentanti illustri della cultura illuministica italiana, personaggi come Denina e Cesarotti, quanto a dire il meglio nel settore degli studi linguistici alla fine del secolo XVIII. Queste prese di posizione non possono essere ignorate o sottovalutate. Eppure sta di fatto che le tesi di Napione non sono riducibili solo alla loro natura conservatrice, al loro esasperato ed eccessivo antifrancesismo. Napione,
Cfr. G. L. Beccaria, Italiano al bivio: lingua e cultura in Piemonte tra Sette e Ottocento, in Piemonte e letteratura 1789-1870, Atti del convegno di S. Salvatore Monferrato (ottobre 1981), tomo I, Regione Piemonte, s.d., p. 25 e ss.
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opponendosi alla cultura d’oltralpe, rimanendo ostinatamente attaccato al suo ideale patriottico, al sogno di un Piemonte baluardo dell’Italia contro la Francia, coltivando cioè la sua aspirazione nazionale fondata sul valore coesivo e ideale della lingua, si proiettò nel futuro anche meglio di altri studiosi dotati di maggior spessore culturale e di più spiccata originalità. Le sue tesi, legate al dibattito sulla cultura illuministica francese, condizionate dai timori che quella cultura suscitava negli ambienti conservatori piemontesi, colgono tuttavia in maniera quasi profetica alcuni sentimenti destinati a svilupparsi più tardi. Esse anticipano i tempi. Non penso soltanto alla fortuna, testimoniata dalle ristampe, goduta da Dell’uso e dei pregi della lingua italiana all’inizio del nuovo secolo (anche questo è un indizio dei gusti del pubblico); mi riferisco soprattutto alla grande attualità che presto assunsero, all’inizio dell’Ottocento, i sentimenti di difesa nazionale espressi nel trattato in maniera vigorosa, e persino in forma più illuminata rispetto ai successivi rappresentanti del Purismo, i Botta, gli Angeloni, i Cesari. Al principio del sec. XIX, infatti, si andava diffondendo una diversa reazione antifrancese, ben più ottusa, di fronte alla quale il riflesso dello spirito dei Lumi, ancor presente nel trattato di Napione, sembrava risplendere come faro nell’oscurità. Napione, anche se si opponeva all’invadenza della cultura d’oltralpe, si dimostrava pur sempre un lettore dei philosophes, dai quali cercava di cavare qualche cosa, sperando ad esempio che anche la lingua italiana conseguisse alcuni vantaggi propri del francese: in primo luogo ne aveva auspicato un uso più generale e familiare, senza le pastoie della tradizione cruscante; in secondo luogo, aveva cercato di sollecitare una ‘politica della lingua’, come si direbbe oggi, cioè una scelta a favore dell’italiano nelle
Sul Purismo primo-ottocentesco, cfr. M. Vitale, La questione della lingua, Nuova edizione, Palermo, Palumbo, 1978, pp. 374-386, e T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1972 (III ed.), pp. 279-281. Sul Purismo in Piemonte all’inizio dell’Ottocento, cfr. C. Marazzini, Piemonte e Italia. Storia di un confronto linguistico, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1984, pp. 147-148.
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questi giovani e il moderato sostenitore di una confederazione italica, raccolta sotto l’egemonia di un Piemonte niente affatto costituzionale, ben diverso quindi da come lo sognavano le nuove generazioni. Tuttavia, nonostante ciò, l’eredità di Napione affiora sovente: è senz’altro viva in Cesare Balbo, che fu il più vicino al vecchio maestro. La si intravede in Carlo Vidua, che dichiarava apertamente la sua ammirazione per Dell’uso e dei pregi della lingua italiana. è probabile che il concetto di ‘primato italico’, che si forma nella cultura piemontese dell’inizio dell’Ottocento, in Vidua e in Gioberti, debba qualche cosa al trattato di Napione. La sua influenza va anche oltre, se si pensa che persino il nuovo grande vocabolario dell’Italia ottocentesca, il Tommaseo-Bellini, che si stampò in Torino neo-capitale del Regno, portava come epigrafe una frase celebre di Dell’uso e dei pregi della lingua italiana: “La Lingua è uno de’ più forti vincoli che stringa alla Patria”. Nel 1861, il concetto di ‘patria’ avrà certamente avuto un significato molto diverso da quello attribuitole dal trattatista settecentesco, ma, pur con questo limite, il contenuto politico del libro di Napione sulla lingua italiana era talmente marcato da essere riconoscibile come una sorta di carattere dominante, abbastanza eccezionale nel quadro delle dispute letterarie del nostro paese, dove ci si è accapigliati più volentieri per questioni retoriche che per motivi civili e nazionali. Al di là del conservatorismo reale ed oggettivo, che fu indubbiamente caratteristico dell’autore, la sua opera può essere dunque letta come “un’anticipazione di atteggiamenti che si svilupperanno nei primi decenni dell’Ottocento”. Quanto si è detto fin qui dovrebbe aver confermato che è giusto stabilire un legame tra il nuovo secolo e la riflessione linguistica di Napione e che va superata l’idea di un Napione esclusivamente ‘settecentesco’. Tuttavia, anche chi
Il giudizio è espresso in una lettera di Vidua a Luigi Provana, alla data del 26 settembre 1806: cfr. Marazzini, op. cit., p. 151. Cfr. Ibid., p. 157. M. Puppo, Discussioni linguistiche del Settecento, Torino, UTET, 1966 (II ed. riveduta), p. 83. Puppo ha messo molto bene in luce il carattere eminentemente ‘politico’ del trattato di Napione, e ha collegato le sue posizioni a quelle di Gioberti (cfr. Ibid., p. 90).
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accettasse queste premesse, potrebbe aver l’impressione che gli elementi caratteristici della parte più nuova del trattato Dell’uso e dei pregi della lingua italiana, nel clima dell’inizio dell’Ottocento, vivessero ed agissero, per così dire, per proprio conto, come se la funzione dell’autore si fosse comunque esaurita, anche se il suo libro interessava nuovi lettori. Quel libro, in sostanza, sollecitava sentimenti estranei a chi lo aveva scritto. Tale impressione è accentuata dal fatto che nessuno fino ad oggi ha esaminato il contributo di Napione al dibattito sulla questione della lingua nel secolo XIX: non si è fatto caso che egli ebbe modo di esprimere il suo pensiero anche di fronte alla Proposta di correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca di Vincenzo Monti: egli, insomma intervenne anche in occasione del dibattito più rilevante sui temi linguistici svoltosi nella prima metà dell’Ottocento. Scopo del mio intervento è la riproposta di uno scritto linguistico di Napione uscito nel 1820, dunque molto più tardi del trattato Dell’uso e dei pregi della lingua italiana, e legato al dibattito sulla Proposta di Monti. Come noto, la Proposta, questa grande iniziativa della cultura lombarda, coinvolse anche una parte della cultura piemontese: vi parteciparono Giuseppe Grassi e Amedeo Peyron, rispettivamente con un parallelo tra il vocabolario della Crusca e quello inglese di Johnson, e con un saggio Dell’erudizione orientale del Frullone. Inoltre dalla Proposta prese spunto Ludovico di Breme per intervenire sul “Conciliatore” con una serie di quattro importanti articoli linguistici, i quali mostrano il collegamento tra la cultura dei romantici piemontesi-lombardi e certe novità d’oltralpe, l’idéologie di Destutt de Tracy e la linguistica di Federico e Guglielmo Schlegel. Napione,
Cfr. C. Marazzini, La linguistica di Ludovico di Breme, in Ludovico di Breme e il programma dei romantici italiani, Atti del convegno di studio (Torino, ottobre 1983), Torino, Centro Studi Piemontesi, 1984, pp. 155168. E Id., Conoscenze e riflessioni di linguistica storica in Italia nei primi vent’anni dell’Ottocento, in Prospettive e storia della linguistica. Lingua linguaggio comunicazione sociale, a cura di L. Formigari e F. Lo Piparo, Roma, Editori Riuniti, 1988, pp. 408-411. Questi saggi sono stati successivamente ripresi in Id., Storia e coscienza della lingua in Italia dall’Umanesimo al Romanticismo, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989.
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Napione ritornerà in seguito, attenuandone la portata, in sostanza ridimensionandone il significato: siamo cioè di fronte, come sempre, alla bivalenza delle sue posizioni linguistiche12. Nella lettera al Rosini, pur riconoscendo il vantaggio degli abitanti di Lazio e Toscana nell’uso della lingua parlata13, Napione si preoccupava di difendere alcuni principi fondamentali che erano alla base del suo trattato del 1791. Negava ad esempio che la lingua italiana parlata fosse assente fuor di Roma e della Toscana, e ribadiva l’importanza della lingua scritta, rivendicando il diritto dei non-toscani ad essere presi in considerazione quali legittimi comproprietari di una ricchezza nazionale, un bene che Napione riteneva di tutti, non dei soli toscani14. Trascinato dalla passione per la lingua, che reputava “oggetto assai più rilevante, di quello che da molti si creda”15, Napione finiva dunque per palesare al Rosini il suo disaccordo. Pur se non mostrava di nutrire simpatia per Monti (che aveva usato un linguaggio troppo polemico, e non aveva risparmiato il sarcasmo nei confronti dell’Accademia della Crusca), era facile comprendere che Napione stava, per così dire, a metà strada tra la cultura milanese e quella toscana. Pur assegnando uno spazio alla lingua parlata (la quale Monti non teneva invece in nessun conto), non se la sentiva certo di avallare le pretese dei fiorentinisti. In fondo, egli restava pur sempre un uomo del confine occidentale, cioè un uomo del settentrione, anche se amava l’italiano e gli attribuiva la funzione civile e politica di cui abbiamo avuto modo di parlare. Rosini, pronto ad approfittare d’ogni occasione per condurre
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Vedi il testo di Napione riportato qui in Appendice. Cfr. Napione, in Rosini, Risposta cit., pp. 6-7: “Non vi ha Italiano assennato, che non sia convinto e persuaso, che in Toscana, ed in Roma eziandio, si parli meglio di continuo, e speditamente la lingua comune d’Italia, quella stessa che si parla da’ Predicatori sui pulpiti, da’ Maestri nelle Scuole, e bene o male da’ Curiali nel Foro in tutte le provincie d’Italia”. Menzionando piemontesi esemplari per le loro capacità creative nel campo della lingua, Napione non mancava di evocare Alfieri e Baretti. Napione, in Rosini, Risposta cit.., p. 9.
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la sua battaglia contro la lingua ‘comune’, scrisse in pochi giorni una risposta e la diede subito alle stampe, unendovi la lettera a Napione, che l’aveva provocata16. La disputa passò così dal piano privato a quello pubblico. Napione era stato cooptato per far parte della “fastidiosa controversia”, in cui pure aveva dichiarato di non voler entrare. È necessario a questo punto sintetizzare brevemente il contenuto della risposta di Rosini. Essa, in parte, riprende scontati topoi del partito toscano, gli stessi fin dal tempo di Salviati: vengono avanzate le solite pretese di “principato nella Lingua Italiana” per gli “eredi di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, del Compagni, del Villani, del Cavalca, del Passavanti [...]”17. Rosini aggiungeva (malignamente) che Alfieri “studiava [...] la lingua sui libri; e veniva a parlarla con noi”18. Inoltre, contraddicendo (non del tutto a torto) le convinzioni di Napione, metteva in dubbio che l’italiano parlato esistesse davvero fuor di Toscana, e negava che esso fosse usato decentemente nelle scuole, nei tribunali, dai predicatori nelle chiese. Rosini ricordava le famose “bestemmie di Lombardia” menzionate da Machiavelli nel Dialogo sulla lingua; citava Carlo Dati, per contrastare una delle tesi più care agli italianisti fin dal tempo di Trissino, secondo la quale la situazione italiana era paragonabile a quella dell’antica Grecia, per l’esistenza di una varietà di dialetti su cui si poteva basare la lingua comune, come una sorta di coinè19. Il discorso di Rosini trovava il suo punto di forza nel tema che ormai stava emergendo nelle dispute linguistiche del nuovo secolo: quello della lingua parlata. Innegabilmente, i sostenitori del toscano vivo mettevano il dito sulla piaga. Meglio dei classicisti, essi erano in grado di valutare la situazione reale, estremamente negativa. Pur senza possedere particolare acume sociologico, erano meglio disposti a tener conto
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Cfr. nota 11. Cfr. Rosini, Risposta cit., p. 12 (anche in Id., Prose e versi, Milano, Silvestri, 1826, pp. 227-40). Cfr. Ibid., p. 16. Questo paragone veniva contestato per l’eccessiva differenza esistente tra i vari dialetti italiani.
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delle condizioni popolari, non limitandosi a discorrere solo della lingua dei libri. Proprio riferendosi alla lingua parlata, anche un osservatore non certo profondo come il Rosini riusciva a dire cose interessanti. Così replicava a Napione: Ella soggiunge che anco in Lombardia si parla la lingua comune: ed io le rispondo che si parla di rado, e il più delle volte non bene: che si parla, come parlavasi Latino una volta nel Foro e nelle Università: che anco per parlarla in tal modo hanno coloro che la parlano bisogno di studiarla sui libri: che mescolandola sempre col vernacolo provinciale quando parlano coi servi e col popolo, contraggono delle abitudini viziose; e che l’eccezioni, che potrebbero farsi di pochi, che puramente favellino, sono un nulla in paragone della moltitudine, che non solo non parla, ma pur molte volte non intende il volgar nobile e castigato20.
Rosini ironizzava persino su certe “eleganze Bolognesi” che si erano sentite dalla Cattedra di San Pietro, durante il pontificato del cesenate Giannangelo Braschi (se interpreto bene, perché Rosini denuncia il peccato ma non il peccatore, e omette il nome del papa). Per finire, ribadendo il fatto che in Toscana “il linguaggio stesso dei Rustici si trova più nei libri, che nelle campagne”21, Rosini introduceva un argomento che presto sarebbe stato di grande importanza, tanto da dar luogo ad una moda, determinando una ‘filologia del parlato’, una caccia di parole e frasi contadinesche raccolte per campagne e per monti, alla maniera, tanto per intenderci, di un libro come Moralità e poesia del vivente linguaggio toscano di G. Giuliani, concepito secondo quella nuova forma di ‘purismo campestre’ che molto deve a Tommaseo, un purismo che, trattato con la debita ironia, ebbe poi tanta parte nella costruzione del pastiche espressionistico di uno scrittore come Faldella, teste
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Cfr. Ibid., p. 20 (in Prose e versi cit., p. 236). Cfr. Ibid., p. 22 (Prose e versi, p. 238). La formulazione di Rosini, si riferisce alla sostanziale coincidenza esistente a suo giudizio tra il toscano popolare e la lingua letteraria.
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il suo Zibaldone22. Ma torniamo alla disputa attorno alla Proposta. Di fronte a una così netta presa di posizione, essendo stato coinvolto pubblicamente, a Napione non restò che riprendere la penna per esporre le proprie tesi in forma più ampia e meditata. Il nuovo scritto fu inviato a Rosini nel 1819, e fu dato alle stampe dal quest’ultimo nel 1820. Il testo (che riproduco qui in Appendice), è di speciale interesse: rappresenta (se non vado errato) l’ultima presa di posizione del vecchio trattatista sui temi linguistici. Questa seconda lettera di Napione al Rosini, rispetto alla prima, mostra di essere stata concepita per la stampa. Ci troviamo di fronte ad un saggio più impegnativo, più cauto, a paragone della lettera del 1818. Si prenda il caso della frase che abbiamo avuto modo di citare più sopra, in cui Napione faceva riferimento alle “fatali conseguenze della divisione dell’Italia”. Ora l’autore sfuma decisamente il contenuto politico dell’impegnativa affermazione, correggendone (quasi smentendone, direi) la carica di ideale anticipazione del Risorgimento: Napione dichiara di aver pensato non a un’unione politica, ma a una “divisione degli animi”. Sembra molto preoccupato di un’eventuale interpretazione diversa. Quanto alla sua posizione rispetto alla Crusca, prende le distanze (come già nella prima lettera) da ogni atteggiamento sarcastico e derisorio, dichiarando di non approvare l’aggressività di cui Monti aveva fatto uso. D’altra parte ribadisce di non poter accettare la dittatura toscana sulla lingua, specialmente sulla lingua scritta, lingua nella quale contano grandemente i modelli del Cinquecento, tra i quali hanno spazio notevole anche gli autori non toscani. Pur rimanendo vicino a posizioni di ispirazione classicistica, Napione tuttavia è disposto a concedere non poco al toscanismo dell’uso vivente: ammette che i Toscani ed i Romani parlano molto meglio l’italiano, e che anche la lingua parlata ha una notevole importanza. Vi sono, nella lettera di Napione, alcuni
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Nello Zibaldone di Faldella (ed. a cura di C. Marazzini, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1980) uno dei testi spogliati con più cura è appunto il citato libro di Giuliani.
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elementi che distinguono nettamente le sue posizioni dal classicismo tradizionale: ad esempio, come già nel suo trattato, egli mostra una particolare simpatia per il ruolo del dialetto. Sollecitato dalle obiezioni di Rosini, propone di distinguere tra dialetto e vernacolo. Il secondo termine, benché non registrato dalla Crusca (vi è certo un intento polemico in questa constatazione), serve a distinguere le parlate regionali italiane da quelle che si possono definire come vere e proprie varietà della lingua nazionale: queste ultime sono il toscano (o fiorentino: Napione ribadisce l’identità delle due designazioni), il senese, il romano e il “comune”. Tale casistica era certamente frutto di posizioni radicalmente diverse da quelle della Crusca e di Rosini. Non solo Napione riconosceva la piena dignità di queste quattro varietà dell’italiano, ma inoltre spezzava una lancia a favore dei ‘vernacoli’, i quali tutti “partecipano de’ benigni influssi del cielo d’Italia”; tutti, si badi, anche i più distanti dalla matrice comune, ad esempio il piemontese, che, a giudizio di Napione, ha una sua dignità nell’uso ‘illustre’, quando viene adoperato nella predicazione di alto livello. La teoria qui esposta, relativa alla differenza tra ‘dialetto’ e ‘vernacolo’, è applicata, provocatoriamente, anche alla lingua toscana, nella quale Napione riconosce l’esistenza di un nucleo popolare, locale, irrilevante per l’utile di tutti gli italiani (il parlato di Mercato Vecchio, i riboboli, il linguaggio della commedia o della poesia burlesca). Come si vede, nella prospettiva di Napione, pur se egli si dimostra pronto a mediare tra le posizioni classicistiche e quelle cruscanti, le pretese fiorentine vanno respinte. Quanto al resto, si riconoscono nella lettera al Rosini altri elementi di rilievo, già presenti nel trattato del 1791, sui quali egli torna con determinazione, perché rappresentano la sostanza del suo pensiero: così la partecipazione di tutti gli italiani all’elaborazione della lingua comune, e così il richiamo al modello francese. La Francia gli sembra esemplare perché in quella nazione, pur in presenza di dialetti popolari, fortemente radicati nelle campagne, la lingua comune è stata coltivata a partire dalla Corte, dalle strutture dello Stato, dalle “gentili brigate”. Come in Dell’uso e dei pregi della lingua italiana, insomma, Napione pensa al benefico effetto di una scelta a favore dell’italiano compiuta dalla classe dirigente, che avrebbe la capacità di influenzare l’intera nazione. Napione
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non dimentica il suo Piemonte, benché si tratti di una delle regioni meno italianizzate. Anche qui, ai confini d’Italia, è talora possibile prendere “affetto alla lingua”, e incontrare buoni parlatori: a questo proposito menziona il suo antico maestro di grammatica, che “parlava la lingua Italiana speditamente, e colla pronuncia Romana”. Il vecchio Napione, insomma, si lascia trasportare dai ricordi, e ci fornisce una testimonianza sulla situazione linguistica del Piemonte ancien régime, dove era eccezionale incontrare un parlante che sapesse cavarsela nell’uso di un italiano spedito, adatto alla conversazione ed al dialogo.
Appendice Riproduco qui il testo della risposta di Napione a Rosini, datata 27 marzo 1819, riprendendolo da G. Rosini, Nuove lettere sulla lingua italiana, Pisa, Presso Niccolò Capurro co’ caratteri di F. Didot, 1820, pp. 67-88. Questo testo fu corredato da Rosini di una serie di note, generalmente di contenuto polemico, in aggiunta a quelle già poste dal Napione medesimo. Abolisco tali note. Riporto invece integralmente le note di Napione. Conservo la grafia e l’uso delle maiuscole della stampa originale, salvo per l’adeguamento all’uso moderno degli accenti acuti su perché, poiché ecc. NAPIONE A ROSINI Torino, 27 Marzo 1819. Ricevo la cortesissima sua de’... né so perché Ella non mi parli più dell’edizione sua del Guicciardini23, ma neppure di altre cose,
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L’edizione di Guicciardini fu pubblicata da Rosini nel 1819-1820; su di essa cfr. B. Gamba, Serie dei testi di lingua, Venezia, Co’ tipi del Gondoliere, 1839 (IV ed.), p. 174. Qui il Rosini avverte appunto che il lavoro è stato portato a termine e accenna ai criteri di fedeltà filologica a cui si è attenuto.
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di cui le ho scritto in quella mia Lettera. Si diffonde bensì soltanto nel fare parecchie osservazioni intorno ad alcuni punti da me toccati rispetto alla Lingua nostra, nel render conto che fo di quanto ho scritto, tanti anni or son passati, nell’Elogio del Bandello. Per amor del Cielo, lasciamo una volta queste controversie municipali. Scriviamo buoni libri: gloriamoci di essere Italiani, e procuriamo di far amare la nostra Lingua dal Piemonte infino alla Sicilia. Non è la divisione degli Stati, che si opponga a questo nobilissimo fine; ma bensì la divisione degli animi. La Grecia antica era al pari divisa, di quello che sia la moderna Italia, e da questa divisione, come ho accennato nella Dissertazion mia intorno alla Patria di Colombo, moltissimi vantaggi ne derivarono. I due più famosi Filosofi Greci non sortirono i natali in contrade assai distanti? Platone in Atene; Aristotile in Macedonia ai confini della Tracia, come noi Piemontesi a quelli della Francia. Ho lettere di Toscana, da cui vedo che non tutti i Toscani approvano questa esclusiva magistratura, che si vorrebbe esercitare in fatto di lingua, e ravvisano in questo un soggetto perpetuo di scandoli, e di risse letterarie. Né il Tassoni nei tempi andati, né il Sig. Cav. Monti a’ giorni nostri, né altro Scrittore più avverso alla Crusca non ha mai parlato nel modo, che ne parla il Toscano Galluzzi in un luogo della sua Storia del Gran Ducato da me riferito nel mio Libro dell’Uso e dei Pregi della Lingua Italiana. Questi ragionando della Crusca, giunse a dire che quel supremo Tribunale della parola, che si vantava di avere colle sue censure avvilito il Gran Torquato, tiranneggiò in appresso la Letteratura occupando gli spiriti in vane e ridicole speculazioni, ed esercitandoli in prose gonfie di risonanti vocaboli, e vuote affatto di sentimenti e d’idee; e dopo diverse altre gentilezze su questo fare, conchiude: che la Crusca tenendo la Lingua ristretta in que’ limiti, in cui l’aveano lasciata gli Autori Classici, avea per quattro volte pubblicato il suo Vocabolario, gramaticalmente tessuto, senza aver potuto sostener la Lingua, la quale (dice il Galluzzi) ha dovuto finalmente adottare lo stile ed i vocaboli degli Oltramontani (Storia del Gran-Ducato Lib. IV, Tom. VI, pag. 454. Firenze 1781). Io non sono stato mai, né sarò dell’avviso di questo Scrittore24; rifletto soltanto, che troppo fatali sono queste controversie,
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Qui Rosini annota un giudizio malevolo contro il Galluzzi, che tralascio.
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poiché non solamente si agitano tra Toscani e non Toscani, ma tra Toscani medesimi, e si giunge a tali eccessi... Io, sebben sia di avviso, che porre si debba studio grande ne’ più lodati nostri Scrittori del Secolo XIV e XVI, non potrò tuttavia mai persuadermi, che si debba in così ristretti confini tenere la Lingua, chiamandola, come alcuni fanno, la Lingua dei libri. Opinione era questa del Bembo, del Castelvetro, e vi propendea pure assai il fu dottissimo Abate di Caluso, come apparirebbe ad evidenza da un suo Scritto inedito che per gentilezza sua a lui piacque d’indirizzarmi25. Crederò sempre bensì, che allo studio de’ Libri congiunger si debba la pratica e l’uso della Lingua vivente, come vedo essere suo parere, e come il fu già del Caro, del Firenzuola, e di tanti altri più recenti assennati Autori. Ma questa Lingua, tuttoché meglio, e di continuo e famigliarmente si parli soltanto in Toscana ed in Roma, non si può dire che non sia vivente anche in tutte le altre Contrade del bel Paese dove il sì suona; vale a dire in tutta Italia. Nel Piemonte stesso, dove, diceva il Denina, per una volta che si senta parlar Italiano in conversazione, si sente le cento parlar Francese, e dove in casa, in vece dei versi del Petrarca, del Tasso, e dell’Ariosto, sentiva recitare Boileau, Racine e la Fontaine, io posso assicurarla, che ho pigliato affetto alla Lingua nostra, non già leggendo libri, ma per via della viva voce di un semplice Maestro di Gramatica, che sebben Piemontese, attesa la lunga dimora da lui fatta in Roma, parlava la lingua Italiana speditamente, e colla pronuncia Romana. Concederò di buon grado, che i Dialetti, o sia Vernacoli, che si parlano usualmente nella maggior parte d’Italia, non sono Dialetti da paragonarsi agli antichi Dialetti della Grecia; ma vi sono veri Dialetti anche in Italia; e gli stessi Vernacoli sono derivazioni della Lingua madre d’Italia, hanno indole e natura
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Questo trattatello di Valperga di Caluso, intitolato Della lingua italiana. Qual facoltà se ne richieda a scriver libri, fu pubblicato da C. Calcaterra nelle dispense universitarie dell’a. a. 1945-46, Ideologismo e italianità nella trasformazione linguistica della seconda metà del Settecento. Ricerche nuove, Bologna 1946, pp. 149-71. Lo scritto del Caluso è preceduto da un Abbozzo di lettera introduttiva, lettera rivolta appunto al Conte Napione. Sul ms., ora introvabile, cfr. Beccaria, art. cit., p. 40, n. 22.
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Italiana26; ed allo stesso modo che un Piemontese, sebben più lontano dagli abitatori delle ultime spiaggie del Regno delle Due Sicilie, che non dal Paese degli Svizzeri e dalla Francia, con tutto ciò partecipa più della natura degli altri Italiani rimoti, che non dei molto più vicini Oltramontani, così ha, senza paragone nessuno, maggiore attitudine degli stranieri a parlare e scrivere la Lingua Italiana, che non coloro che nati sono al di là delle Alpi; ed i più rozzi e sgarbati Vernacoli (voce che manca alla Crusca) sono sostanzialmente Italiani. Non voglio però sostenere, che questi Vernacoli chiamar si possano Dialetti, se ne togliamo forse il Veneziano, che taluno disse esser troppo poco per una Lingua, troppo per un Dialetto. I veri Dialetti d’Italia sono il Toscano, o Fiorentino che dir si voglia, il Sanese, il Romano, ed il Comune. Poche e dilicate assai sono le differenze, che passano tra questi Dialetti e la Lingua comune e nobile: pochissima perciò la differenza tra il Machiavelli ed il Guicciardini in fatto di Lingua da una parte, ed il Davila, lodatissimo da Carlo Dati, ed il Bentivoglio dall’altra; che all’incontro moltissima tra tutti questi ed il Davanzati, che adoperar volle, non il Dialetto, ma il Vernacolo Fiorentino, e che traviò tanti27, segnatamente non Toscani, che vollero imitarlo, o ne raccolsero con amore, ed oserei
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Questo giudizio di Napione segna una presa di distanza dalle posizioni dei Classicisti e di Monti. [Nota di Napione] La Setta di codesti amatori degli arcaismi Toscani, ancorché non nati in Toscana, è antica in Italia, e dagli stessi Toscani biasimata, com’è noto abbastanza per que’ versi del Berni, in cui loda fa cetamente Aristotile, perché non affetta il favellar Toscano. Nel secolo stesso XVII, in cui universalmente in Lombardia nelle cose di Lingua non si guardava molto per lo sottile, non vi mancarono Scrittori così fatti. Il celebre Poeta Fulvio Testi in una Lettera sua recentemente venuta in luce diretta al Conte Ottavio Tiene (Opere scelte del Conte D. Fulvio Testi, Tomo II, p. 3) deride lo stile di Ottavio Magnanini Ferrarese, di cendo così: “Desidererei sapere... se è Ferrarese o Fiorentino, e se veste alla usanza, o porta la beretta a tagliere, e le calze alla Martingalla, come faceva Messer Bellincione; e sopra il tutto s’egli ebbe amicizia di Farinata degli Uberti, e degli altri vecchioni di quella età, e se intervenne alla fazione di Monteaperti, quando i Ghibellini ruppero i Guelfi, favellando egli nella Lingua di quel buon secolo del Trecento”.
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dire, superstiziosa diligenza, le frasi ed i vocaboli, quali furono il Rosasco, il Cesari, ed il vantato Storico recente dell’America28. Le critiche, che vennero fatte a quest’ultimo, e gli sbagli che si pretende che abbia egli pigliati, non versano intorno a voci della Lingua nobile e comune d’Italia, ma bensì rispetto a voci e modi pretti Fiorentini, che sarebbe lo stesso come se un Lombardo parlar volesse Veneziano. E qui è cosa notabile, che gli imitatori non Toscani di sì fatta Lingua costretti sono a scrivere, non già la Lingua delle gentili e colte persone di Firenze, ma bensì ad usare anche ragionando di cose di Stato e di Lettere il linguaggio dei trecconi di Mercato Vecchio massimamente nelle contese Letterarie di Lingua, dilettandosi di dire villania in quello idioma agli avversarj loro. Lasciò scritto il Tasso, se ben mi ricordo, che i Toscani sanno meglio ungere e pungere, ma questo non toglie che i non Toscani, colla sola Lingua comune, in ispecie dove si parlasse, come si parlava una volta, più frequentemente, non possano anche riuscir festivi e piacevoli. Così fece il Mauro ne’ tempi passati al pari del Berni; e tutta quasi l’Italia concede tal lode alle Prose del nostro Baretti; né so se siasi scritta cosa più piacevole e gustosa a questi ultimi tempi della Prefazione di lui alle Opere del Segretario Fiorentino stampate in Londra. Del rimanente concorro con Lei, e col suo dotto corrispondente, nel dire, che si cominciò con disprezzare la Crusca, e si terminò con disprezzare la Lingua. Ma lasciando stare, che di questa colpa, oltre il Gigli ed il Galluzzi, sono rei anche altri Toscani, vi diedero forse occasione gli stessi Compilatori del Vocabolario. E di questa colpa non ne furono già macchiati soltanto Bastiano De-Rossi ed i Socj suoi nemici del Gran Torquato, ma quegli stessi, che attesero alla edizione del Vocabolario dell’anno 1691. Sebbene la lingua adoperata dal Padre della Sacra Eloquenza, il Segneri, sia la Lingua comune d’Italia, e sebbene a questo famoso Oratore, non Toscano, ma Romano o sia di Nettuno, sieno tenuti
28
È Carlo Botta, purista, autore della Storia della guerra dell’independenza degli Stati Uniti d’America, uscita a Parigi nel 1809. Su di essa cfr. Gamba, op. cit., p. 679. Come si vede, Napione prende qui una posizione piuttosto critica nei confronti del purismo di Botta.
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i Toscani della protezione impartita dal Gran Duca Cosimo III al Vocabolario, come ce ne assicura Agostino Coltellini (Prefaz. alla traduzione del Testamento di S. Gregario Nazianzeno stampata nell’anno 1676), tuttavia gli Accademici colla predilezion loro per gli Arcaismi, e per le Fiorentinerie, col soverchio rigore, e col poco conto in cui si tennero da essi i non Toscani, disgustarono gli altri Italiani loro contemporanei. Quanta difficoltà per ammettere nel ruolo degli Autori citati il Tasso! Quanta ingiustizia nel non ammettervi il Pallavicino! mentre non si ebbe ribrezzo (perché antico) di annoverarvi F. Jacopone da Todi. In una Lettera scritta nell’anno dopo, cioè nel 1692, ed inserita tra le Memorabili del Bulifon (Tom. III, p. 56) dicesi che i Fiorentini secondo le opportunità ci scambiarono le carte in mano29. Vollero in prima che
29
[Nota di Napione] II Conte Magalotti, in un suo Capitolo Dantesco, avendo adoperato alcune voci Dantesche, il valentissimo Poeta Fio rentino Vincenzo da Filicaja, dopo di aver lodato a cielo quel Componi mento, aggiunge però, rispetto a tali voci: “Che volete Voi fare di questi rancidumi, che sonano sì male all’orecchio in un componimento sì nobile? Se Voi li faceste dire a Dante mi darebbero manco noja; ma facendogli dire a Voi medesimo, che sebben parlate da Dante, siete quattro secoli fuor del Secolo di Dante, non mi ci posso accomodare” (Lettere Familiari del Conte Lorenzo Magalotti, Firenze, 1769, Tom. II, p. 51). Il Ma galotti non solo levò via quelle voci seguendo il savio consiglio del Fili caja, ma in quella sensatissima sua Lettera al Canonico Bassetti (p. 66 e ss.) intorno alla compilazione del Vocabolario della Crusca, che merita tutta intera di venir ponderata, sono notabili le seguenti parole: “Io veg go... che tutto l’arricchimento maggiore, che si pensa dare a quest’opera è il rifrustar manoscritti antichi e aggiunger nuove voci; e l’Abate Stroz zi mi scrive, che aveva dissotterrato molti scartafacci intarlati della sua Libreria, e datigli a spogliare. Ora io non vorrei, che ci trafelassimo a cavar fuori, e a spiegar voci, che in questo Secolo non accaderà che un uomo l’oda nominare una sola volta in vita sua, e trascurassimo d’insegna re ad usar sicuramente, e accortamente quelle, che occorrono in ogni discorso, e che male usurpate rendono chi le dice ridicolo. Infin adesso... ho parlato con la ragione,... adesso le scopro, che ho parlato per bocca di tutte quelle nazioni d’Europa che ho praticato, che son molte, e tutte domandando in questa nuova edizione del Vocabolario questo lume, e questo ajuto. La Vostra, dicono, è una tirannia inaudita: Voi mettete in
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non altrove si dovesse andar ad imparare la Lingua fuorché dal popolo di Firenze, quindi, che la buona Lingua avesse per poco a trattarsi come morta sin dal 1400, e che sebbene dessero allora a vedere non essere tutto oro quello del Buon Secolo, né tutto argento quello degli altri appresso (p. 67); tuttavia conchiude quello Scrittore, che l’Opera del Vocabolario avea bisogno di maggiore ajuto e di accrescimento, e che avrebbe voluto sapere, se ci fan lecito di seguire i buoni Scrittori Italiani, quantunque non Fioren tini, e se ci danno licenza di uscire dalla pesta onde ci aggirano i loro Gramatici. E venendo a più prossimi tempi l’Algarotti (da Lei allegato) in una Lettera in data di Pisa a’ 2 di Marzo 1764, che fu probabilmente l’ultima che scrisse, e pubblicata tra le inedite dopo la sua morte (Cremona 1784, pag. 385), in cui spiega apertamente i suoi sentimenti in fatto di Lingua al venerato suo Maestro Francesco Maria Zanotti, non ebbe timore di asserire, che converrebbe migliorar qua e là le definizioni nel Vocabolario, che converrebbe aggiungervi moltissime voci raccolte fuori di Toscana da buoni Autori, e che si dovrebbe arricchire esso Vocabolario di molte voci e maniere, che sono dell’uso. Biasima poi i Fiorentini per non voler, in fatto di Lingua, pigliar ajuto o con siglio da’ forestieri, e perché si piccano di un rigorismo, che è pur troppo d’impedimento agli avanzamenti, ed alla estensione della Lingua, e termina con dire, che il celebre suo Maestro, benché egualmente buono Scrittore in prosa ed in verso, non isperasse di essere del bel numero degli Accademici, perché non era gran dilettante dei vecchi Codici né di antichi riboboli, e per essergli scappato detto in istampa, che volea piuttosto parer buono Italiano, scrivendo in Italiano, che parer cattivo Fiorentino volendo scrivere in Fiorentino. Come un vanto dell’Accademia della Crusca si asserisce aver questa preservata la Toscana dalla infezione dell’immondo Seicento. Ma il Segneri, promotore come si è detto del Vocabolario, non era Toscano; come Toscani non furono il Davila, il Bentivoglio,
quel Vocabolario voci antiche, voci rancide, voci disusate, voci che son ridicole a voi medesimi e poi, non distinguendole dalle buone, ci date mescolata la Crusca, o piuttosto le reste e la paglia istessa con la farina, ec.” (id. ibid., p. 69).
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il Capriata, che il nostro Denina chiamava il Guicciardini del Secolo XVII, i due Storici famosi del Concilio di Trento Sarpi e Pallavicini, il Chiabrera padre della Lirica Pindarica ed Anacreontica, il Tassoni celebre ad onta dei lombardismi, e della sua nimicizia colla Crusca. Vi si potrebbe forse aggiungere Daniello Bartoli, ed altri non Toscani lodati Scrittori, i quali fiorirono od in principio, o verso il fine di quel tanto da’ puristi vituperato Seicento. Lo stesso Botero, sebben quasi contemporaneo del Marini, e morto già innoltrato quello sciagurato Secolo, non è infetto di Seicentismi, ed è copioso e facile Scrittore. Altronde, in fatto di Poesia, non si può dire che la Toscana andasse del tutto esente dalla infezione. Chi direbbe che Carlo Dati (non che altri) non solo erudito Scrittore, ma giudicioso, colto, e di gusto sano e purgato in prosa, con tutto ciò, dettando versi, si lasciasse trasportar dalla corrente? Eppure ne bastino in prova due suoi ampollosi Sonetti, pieni di concetti e di arguzie, inseriti nelle dotte Postille alle sue Vite de’ Pittori Antichi, intorno alla morte di Zeusi il primo, ed il secondo sopra quella di Apelle (Postille pag. 39 e pag. 142. Napoli 1730). Ma ritornando al Vocabolario, Opera umana perfetta non vi fu mai, e ad altro non servono i sarcasmi, e le derisioni che ad inasprir gli animi. In questo Secolo pertanto, che si vanta (non saprei però se con troppa ragione) di Filosofia, si dovrebbono lasciar questi modi agli oscuri Gramatici, e procurare di unire per quanto si appartiene alla Lingua, tutte le Città Italiane da Torino insino a Palermo. Un errore è corso, non so se di penna o di stampa nella Lettera mia da Lei pubblicata in fronte alle Vite ed Elogj d’illustri Italiani, che sebben minutissimo ha totalmente mutato il sentimento mio30. Io ho scritto, o volli scrivere ci tengano in conto, loro Signori Toscani, rispetto alla Lingua, come gli antichi Ateniesi gli abitanti della Beozia, e si stampò ci tengono; e fu riguardato come una querela, anzi un rimprovero, ciò che non fu altro se non se un atto di giustizia, che si chiede dagli Scrittori Italiani ma non
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Questo il passo, così come era stato stampato: “Ci tengono in conto loro signori Toscani rispetto alla lingua come gli antichi Ateniesi gli abitanti di Beozia, che vantarono però un Pindaro, un Plutarco” (Rosini, Risposta... cit., p. 7).
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Toscani, a loro Signori Toscani, di esser riputati Italiani, non oltramontani, come Greci e non barbari erano riputati i Beozj, che vantarono però, come dissi, un Pindaro ed un Plutarco, e come Latini Scrittori furono Virgilio, e Livio, e quest’ultimo ad onta della Patavinità sua. Ella è troppo ragionevole per volerci negar questa giustizia, e se da Lei intendere e gustar si potessero i Vernacoli tutti d’Italia (che così per maggior precisione li chiamerò e non Dialetti) si convincerebbe, che tutti, al pari del Siciliano da Lei inteso, ed anche i più rozzi hanno (in bocca massimamente di chi non affetta leziosaggine Oltramontana) genio e sapore Italiano, e partecipano de’ benigni influssi del cielo d’Italia. Se Ella ravvisò nel Siciliano Meli un Poeta, che imitò le grazie di Anacreonte, noi abbiamo in Piemonte un Sacro Oratore, in Dialetto nostro che emula il Crisostomo (le Théologien Sineo prêche encore à présent à Turin en Piémontais avec autant de noblesse qu’on le pourroit faire dans une Langue quelconque. Millin, Voyage en Savoye, en Piémont, etc., Tom. I, pag. 336. Paris 1816). Sono sicuro che se a Lei accadesse di udirlo, non chiamerebbe come si fece da taluno, immondo stelo il Dialetto su cui parecchi Piemontesi Scrittori innestarono il Linguaggio comune d’Italia: ad ogni modo poi non vorrà Ella negare che i Lombardi ed anche noi Piemontesi, congiungendo la lettura e lo studio degli ottimi Libri Italiani colla pratica di chi parla bene la Lingua, possiamo giungere (se non a parlare speditamente) a scrivere nella Lingua comune d’Italia con lode, ed a poterla chiamar pur nostra. Se l’Ariosto fosse nato Tedesco, ed avesse studiato soltanto la Lingua sui libri, né avrebbe scritto il Furioso, né sarebbe caduto in pensiero al celebratissimo Galilei tuttoché Fiorentino di perfezionare il suo stile, studiando nel Poema di Lui la propria Lingua. Certamente è un danno gravissimo, non solo per quanto riguarda le cose di Lettere, ma eziandio quelle di Stato, che nelle Corti, e nelle gentili brigate non si usi di parlare famigliarmente la lingua nobile e colta d’Italia, come già nel Secolo XVI, e come si fa a’ giorni nostri in Francia, dove nella maggior parte delle Provincie sebbene il popolo, segnatamente nelle campagne, parli Dialetti più lontani dal buon Francese, di quello che sieno la maggior parte degli Italiani Vernacoli dalla buona Lingua, non solamente qui Dialetti non si parlano dalle gentili e colte persone, ma da taluni perfino s’ignorano. Questo inconveniente però non toglie, che se non germoglia la Lingua sulle labbra di tutti gli Italiani, non vi possa fiorire e fruttificare, come l’esperienza ad evidenza lo dimostra.
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Ad ogni modo, tuttoché io lusingar non mi possa, che riesca ad alcuno, dopo sì lunga guerra, di terminarla con amichevol accordo; e sebbene io non abbia la presunzione di poter tantas componere lites massimamente essendomi reso sospetto ad entrambe le parti in guisa, che nel mentre che dal Cesarotti sono stato accusato come superstizioso e rigorista; all’opposto di soverchia rilassatezza vengo tacciato dal Vannetti e dal P. Cesari31: tuttavia tentar voglio se mi venisse fatto di spiegarmi in modo che io potessi soddisfar Lei: che in tal caso sperar potrei d’incontrar il genio e l’approvazione di tutte le colte e ragionevoli persone di cui la Toscana abbonda. Non occorre adunque con Lei disputar del nome della Lingua, che Ella, come adoperata dagli Italiani tutti scrivendo e ragionando, concede di buon grado che chiamar si possa Italiana. Questa Lingua io concederò pur di buon grado, che meglio e più speditamente la parlino i Toscani, che non le persone, ancorché dotte e colte, della rimanente Italia, e che moltissimo a questi ultimi giovar possa l’usar famigliarmente co’ Toscani, o con chi in Toscana abbia lungamente praticato. Ma Ella concederà a me che i Toscani, del pari che gli Italiani tutti di qualunque contrada, debbano studiarne la Gramatica, e rivolgere giorno e notte le carte de’ Classici Scrittori non solo usciti dalla Toscana, ma da qualunque Provincia, e di qualunque Secolo, che con eleganza e disinvoltura l’adoperarono. Si conceda da’ Toscani ai Lombardi, ed agli altri Italiani di essere riguardati come tali, e per conseguente di poter participare alla gloria di Scrittori Italiani, né si mettano in un fascio co’ Tedeschi, Svezzesi, od Inglesi, che abbiano studiata la Lingua soltanto sopra i Libri. Si ammetta l’esistenza di una Lingua nobile, e colta, comune a tutta Italia, cioè di quella Lingua, che parlavasi dalle gentili persone comunemente in tutta Italia nel Secolo XVI, e chiamavasi Cortigiana, e che parlasi ancora dagli Italiani tutti di Provincie diverse, al giorno d’oggi ragionando tra di loro. Si faccia lega e causa comune in fatto di Lingua tra i Toscani e i
31
II Cesari, maestro riconosciuto del Purismo italiano, è troppo noto per ché ci si soffermi su di lui. Quanto a Clementino Vannetti (1754-1795), segretario perpetuo dell’Accademia degli Agiati di Rovereto dal 1776, cfr. Vitale, op. cit., pp. 283-285 e 332-333.
4. Per lo studio dell’educazione linguistica nella scuola italiana prima dell’Unità
1. I linguisti, gli storici e la scuola Siamo ormai abituati a collegare la storia della scuola ai problemi della storia linguistica: basti pensare a quanto ci ha insegnato a questo proposito De Mauro, o a quanto dobbiamo ai saggi di Marino Raicich. Raicich ha potuto segnalare l’esistenza di non poche lacune relative alla storia della scuola dall’Unità in poi,
Cfr. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, III ed., Bari, Laterza, 1972; M. Raicich, Scuola, cultura e politica da De Sanctis a Gentile, Pisa, Nistri-Lischi, 1981. Sui problemi linguistici nella scuola italiana dopo l’Unità, cfr. L. Còveri, Dialetto e scuola nell’Italia unita, in “Rivista Italiana di Dialettologia” 1 (1981-82), pp. 77-97; P. Bianchi, I ‘Promessi sposi’ nella cultura meridionale: dal purismo alla scuola storica, in “Filologia e critica” 3 (1983), pp. 321-363, e M. Cortelazzo, Dall’Abate Cesari a Tullio De Mauro. Il dialetto nei libri per le scuole venete, in Guida ai dialetti veneti, a cura di M. Cortelazzo, vol. V., Padova, CLEUP, 1983, pp. 85-122. Rinvio a questi saggi per la bibliografia specifica. Per il periodo anteriore, citerò ancora due libri che, pur non riguardando il problema dell’educazione linguistica elementare, sono interessanti per i metodi e i dati che raccolgono; si tratta di due opere della serie “Biblioteca del Cinquecento”, del Centro studi “Europa delle corti”: La “ratio studiorum”. Modelli culturali e pratiche educative dei Gesuiti in Italia tra Cinque e Seicento, a cura di G. P. Brizzi, Roma, Bulzoni, 1981; e G. P. Brizzi, A. D’Alessandro, A. Del Fante, Università, principe, gesuiti. La politica farnesiana dell’istruzione a Parma e Piacenza (1545-1622), Roma, Bulzoni, 1980. Un’ottima rapida sintesi della materia che ci interessa, vista naturalmente in prospettiva storica e storico-culturale, si ha in G. Ricuperati, Università e scuola in Italia, in Letteratura italiana, vol. I. Torino, Einaudi, 1982, pp. 983-1007.
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cioè riguardanti un periodo per il quale possediamo programmi, circolari ministeriali, inchieste, dati statistici. Ma se si può dire che gli studi sugli ultimi centocinquant’anni sono insufficienti, bisogna ammettere che le cose vanno certamente peggio quando si retrocede oltre la soglia dell’Unità. Basta scorrere libri come quello della Bertoni Jovine o di Santoni Rugiu, e dare un’occhiata alle loro indicazioni bibliografiche, per verificare come gli studiosi si sono in genere orientati sul periodo dal Settecento inoltrato in poi, più spesso a partire dalla Restaurazione. Se dal tema della scuola in generale ci spostiamo a quello specifico della didattica dell’italiano, i problemi aumentano. Anche nei casi in cui conosciamo progetti e indirizzi di riforma, o atti compiuti dalle amministrazioni, ci è pur sempre difficile renderci conto della maniera con cui concretamente avveniva l’insegnamento. Per sapere effettivamente quello che accadeva nelle aule, ci manca il supporto di dati minuti ma fondamentali: non sempre abbiamo sottomano i libri scolastici, ad esempio; men che meno possediamo gli elaborati degli allievi. Non è facile accedere a queste fonti. I manuali di scuola, comuni al loro tempo, sono diventati rari; hanno subito la sorte medesima dei libri popolari, consumati dall’uso degli utenti e spesso non ritenuti degni delle attenzioni di collezionisti e di biblioteche. Ci mancano dunque i documenti e gli strumenti effettivi del lavoro degli scolari. Non sempre, del resto, si è sentito lo svantaggio di questa situazione, e non sempre si è per conseguenza perseguito l’obiettivo di allargare la base documentaria di cui si disponeva. Raicich ha parlato di una preferenza manifestata dagli studiosi per “una successione di parabole ideologiche, di pontificati delle varie scuole pedagogiche, di -ismi che si combattono”, riferendosi a un’aderenza al piano più generale delle opinioni a scapito dei fatti, fino al punto che è venuta a mancare talora “l’attenzione alla realtà istituzionale complessiva
Cfr. Raicich, op. cit., p. 68 e ss. D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari, Laterza, 1965; A. Santoni Rugiu, Il professore nella scuola italiana. Dal 1700 alle soglie del 2000 (III ed. accresciuta), Firenze, La Nuova Italia, 1981.
4. Per lo studio dell’educazione linguistica nella scuola italiana prima dell’Unità
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Nelle pagine che seguono la problematica dell’educazione linguistica nella scuola sarà ripercorsa senza pretesa di completezza, nel tentativo di far emergere, pur nella inevitabile frammentarietà dei dati, alcuni nodi problematici relativi alla didattica dell’italiano, ai suoi obiettivi e alle sue tecniche, nelle diverse epoche, cercando nel contempo di saldare questa didattica, così come fu messa in atto dai maestri, al dibattito linguistico e all’operato di istituzioni e di governi.
2. L’italiano nella didattica del latino Istituzionalmente, la scuola del Medioevo e del Rinascimento (fatta eccezione forse per certe forme di insegnamento popolare, peraltro non troppo note nella prassi effettiva, e fatta eccezione per l’insegnamento pratico in ambiente mercantile, e per l’Ars dictandi e la Rettorica in volgare, di cui esistono ben noti esempi, che però probabilmente riportano a un ambito extrascolastico di cultura laica12) è il luogo in cui si studia il latino. L’umanesimo rafforzò ulteriormente questa tendenza13. Il volgare si affaccia nei programmi statali di riforma soltanto a partire dal Settecento. In questo senso il concetto di “educazione linguistica” va applicato, nella fase iniziale, allo spazio clandestino che la lingua volgare ed eventualmente il dialetto occupavano nella scuola, uno spazio ufficialmente inesistente, in realtà necessario a fini pratici, corrispondente a quella che si potrebbe definire una didattica dell’italiano nascosta nella didattica del latino. Questo spazio poteva trovare la sua collocazione prima di tutto nello scambio comunicativo orale tra allievi e insegnante. Le spiegazioni impartire sugli autori latini ben difficilmente avrebbero
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Cfr. G. Manacorda, Storia della scuola in Italia, vol. I, parte II., MilanoPalermo-Napoli, Sandron, 1913, p. 270. Cfr. E. Garin, L’educazione in Europa (1400-1600). Problemi e programmi, Bari, Laterza,1957, p. 114 e ss. (II ed. 1966).
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potuto essere svolte fin dall’inizio in una lingua sconosciuta o mal nota. È vero che la scuola prendeva le mosse dalla grammatica di Donato, e che si imparava a leggere e scrivere direttamente in latino (situazione, questa, destinata a durare, come vedremo, fino all’inizio dell’Ottocento), ma d’altra parte è impensabile che maestri ed allievi potessero affrontare lo studio di nozioni grammaticali, di autori e di lessico senza l’ausilio di una lingua comune di scambio diversa da quella dei classici. Si può obiettare che in Europa, almeno fino alla metà del Cinquecento, esistette anche l’uso scolastico di parlare (non solo di scrivere) in latino14. Vives consiglia alla regina Caterina, per educare Maria Tudor (la quale aveva allora otto anni) di darle compagne che parlassero in latino. La tradizione ci attesta l’esistenza di spie tra gli allievi, pronte a denunciare gli incauti che avessero usato il volgare nella scuola, ma già Muret affermava che era meglio riservare al latino il solo uso scritto, soprattutto per evitare i rischi di barbarizzare in maniera indecorosa15. I casi citati, di uso del latino parlato come lingua scolastica, non riferibili a classi di studi superiori, ma proprio agli inizi dell’iter studentesco e a bambini in tenera età, riportano ad ambienti di alto livello, a situazioni non ordinarie e, a quanto pare, fuori dall’Italia. Nella maggioranza dei casi era probabilmente molto difficile essere tanto rigorosi. Il problema sta dunque nel ritrovare le tracce di un uso del volgare esistente in luoghi e spazi difficilmente definibili a priori, ma ipotizzabili: il commento, la spiegazione degli autori, la loro traduzione, l’illustrazione di nozioni grammaticali. Gran parte di questi momenti didattici si dovevano svolgere in italiano parlato, irricuperabile oggi proprio per la sua esclusiva dimensione orale. Ma alcuni riflessi di questo parlato si riconoscono tuttavia in certi particolari, magari minuti e accessori, in certi elementi dei libri scolastici allora in uso: penso, ad esempio, alla tradizione delle ‘glosse’, poste a spiegare,
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Cfr. L. Massebieau, Les colloques scolaires du seizième siècle et leurs auteurs (1480-1570), Paris, Bonhoure, 1878, pp. 44-45. Cfr. Ibid., p. 61.
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mediante l’equivalente volgare, i termini di non immediata comprensione. Mi riferisco a glosse del tipo di quelle studiate da Vitale-Brovarone, nelle quali una terminologia che in parte risente di una matrice dialettale si affianca al latino di Ovidio16. In forme analoghe a quelle della glossa, la terminologia volgare era entrata da tempo nelle grammatiche umanistiche, come notava già Trabalza17. In molti manuali, soprattutto in quelli più diffusi nell’ltalia settentrionale (ad esempio nei Rudimenta di Perotti, o nell’Isagogicus liber di Colla Gaggio Montano), si trovano abbondanti liste di verbi in cui la forma volgare affianca la latina, come in un elementare vocabolario bilingue. Si tratta di forme volgari che non sono ricavate da spogli degli scrittori del Trecento, secondo la tradizionale linea di diffusione del toscano letterario: in queste grammatiche sono anzi tollerate molto largamente forme semidialettali e di coinè18. L’interesse di spie linguistiche che in certi esiti paiono richiamare per analogia la tradizione del linguaggio cancelleresco settentrionale, sta nel fatto che esse riportano alle condizioni di una lingua non formalizzata al livello letterario, ma distinta tuttavia anche dall’orizzonte della quotidianità o della dialettalità; si potrebbe pensare a una sorta di ‘parlar finito’ ante litteram, nel quale un italiano ‘comune’ (in questo caso non coltivato assolutamente di per sé stesso e in nome dei suoi propri valori) era usato per trattare argomenti di cultura e di istruzione, quali la grammatica e i testi degli auctores. La penetrazione del volgare doveva essere particolarmente rilevante nel corso dell’esercizio scolastico di traduzione dal latino, come si ricava da un libretto di Francesco Filelfo , espressamente diretto alla scuola, che contiene una serie di lettere latine con la loro
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Cfr. A. Vitale-Brovarone, Glosse volgari a Ovidio. Testimonianze d’uso linguistico in Piemonte nel Quattrocento, in “Studi piemontesi” 1976, f. 2, pp. 81-94. Cfr. C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, ristampa anastatica, Bologna, Forni, 1963 [ed originale: 1908], p. 53. Cfr. Marazzini, Piemonte e Italia cit., p. 60 e ss.
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traduzione volgare a fronte19. L’editore avvertiva che gli allievi, usando questo strumento, avrebbero raccolto i fiori della lingua antica e anche i fiori dell’italiana20. Tale modo di esprimersi mi pare faccia riferimento a un desiderio effettivo degli utenti e a una situazione di fatto. Non siamo certamente ancora all’introduzione nella scuola della grammatica italiana, fenomeno che avrà luogo molto più tardi. Bisogna tener presente che le grammatiche della prima metà del Cinquecento alla maniera di Fortunio e di Bembo, diffuse tra coloro che coltivavano la letteratura, non erano libri scolastici e non erano concepite per andare nelle mani dei ragazzi, i quali, del resto, come è evidente, nella scuola non avrebbero letto certamente autori volgari21. Tuttavia l’esistenza ormai canonica di grammatiche italiane, nella seconda metà del Cinquecento, finì per avere qualche effetto anche sui manuali, nella loro dimensione più umile e usuale, quando nozioni di italiano arrivarono a far capolino proprio all’interno delle canoniche ‘otto parti del corso’. La verifica da parte mia di questo interessante fenomeno riconduce all’orizzonte regionale. In un manualetto torinese, il De octo partibus orationis del maestro Cesare Vitale di Mondovì, un libro uscito nel 1573 e destinato “ad puerorum faciliorem progressum”, le voci e nozioni volgari, limitate soprattutto alle declinazioni dei verbi, vengono introdotte con la giustificazione che ciò serve affinché “pueri latinas dictiones, suis vocibus vernaculi, atque e converso reddere assuescant”22. Può darsi che tale innovazione si collegasse alla svolta data da Emanuele Filiberto all’uso del volgare, ormai adottato al posto
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Ne ho visto la stampa torinese: F. Filelfo, Epistole vulgare [sic] e latine nuovamente stampate a Turin e diligentemente correcte, Taurini, Per magistrum Nicolaum de Benedictis, 1516 (l’ed. milanese è del 1504). Cfr. Marazzini, Piemonte e Italia cit., p. 67. Si rammenti che, in pieno Settecento, ancora Alfieri, nella Vita, racconta come leggesse clandestinamente gli autori italiani a scuola, dove non avevano alcuna cittadinanza, e come un Ariosto gli fosse confiscato dall’assistente dell’Accademia di Torino (Epoca II, 1759). Cfr. Marazzini, Piemonte e Italia cit., p. 67.
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del latino nell’ambito giudiziario e amministrativo: saremmo in questo caso di fronte ad un precocissimo riflesso scolastico della ‘politica linguistica’. Anche nei libri per la scuola del Quattro e Cinquecento, dunque, è possibile rintracciare la presenza del volgare sotto una crosta latina apparentemente infrangibile. Il latino è anzi talora l’occasione per esperimenti di notevole interesse, in cui trovano posto coraggiose discese al piano basso-quotidiano. Il ben noto Promptuarium di Vopisco23, ad esempio, nasce anch’esso da un interesse per lo studio del latino, più che per il volgare, e in un orizzonte che non è troppo lontano da quello della scuola, anche se non certamente ai suoi livelli più bassi: l’esperimento si collega al precedente dello Scoppa, cioè all’autore di una grammatica latina umanistica24. Altrettanto importante è l’interscambio sovraregionale che gli strumenti scolastici potevano sollecitare direttamente e indirettamente; si pensi infatti che tali edizioni venivano riprese da tipografi locali nelle diverse città della pianura padana. Essi riproducevano o anche modificavano i termini volgari sparsi in mezzo alle nozioni latine, non sempre andando verso l’accentuazione della dialettalità, anzi sovente attenuandola25. Mi sembra
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Su Vopisco, cfr. O. Olivieri, Alle origini dei vocabolari italiani, in “Cultura neolatina” 3 (1943), pp. 268-275, e G. Gasca Queirazza, Il Promptuarium di Michele Vopisco, in Vita e cultura a Mondovì nell’età del vescovo Michele Ghisleri (S. Pio V), Torino, Deputazione Subalpina di storia patria, 1967, pp. 185-195. Gasca Queirazza ha anche curato un’anastatica del Promptuarium presso la Bottega di Erasmo (Torino, 1972). Cfr. Trabalza, op. cit., p. 41 n.; M. Vopisco, Promptuarium, Mondovì, In Ducali Typografia apud L. Torrentinum, 1564, pp. 7-8, si dichiara allievo di Scoppa, del quale cosi parla: “ego [...] florentissimae Neapolitanae urbis civis atque alumnus, Promptuarium tamen meum subalpino sermone contexuerim: animumque ita fluctuantem, vulgaris quorundam in Scoppae Spicileglum querimonia, maternam illius tanquam verrucosam interpretationem fastidientium, reddebat suspensiorem [...]”. Cfr. Marazzini, Piemonte e Italia cit., p. 63.
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legittimo pensare che le grammatiche umanistiche contenenti equivalenti lessicali volgari, i libri di traduzioni come quello di Filelfo, e, nei casi in cui esistettero, le grammatiche latine con nozioni di grammatica italiana (nell’insieme tutto ciò costituisce un corpus non indifferente), proprio per la loro presenza nel comune armamentario degli studenti, dovessero assumere una funzione reale di divulgazione linguistica, assecondando la stabilizzazione di forme di koinè. Analoghi o identici equivalenti volgari cadevano sotto gli occhi degli utenti di zone diverse, e la grammatica latina, in aggiunta alle funzioni sue proprie, assumeva il carattere di un piccolo embrionale dizionario, in un’epoca in cui il dizionario italiano ancora non esisteva, o comunque non si rivolgeva alla scuola26. Ho fatto riferimento a opere stampate, diffuse e circolanti nella pianura padana, ma certo sarebbe interessante estendere la ricerca ad aree diverse, dove potrebbero emergere altre tessere di questo mosaico. Per il Lazio, penso al glossario latino-sabino, secondo tutte le apparenze opera di un maestro di scuola che eser-
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Un problema diverso è posto dalla grammatica latina in italiano che compare nel Cinquecento, come quella scritta da Priscianese, Della lingua latina, e Id., Dei primi principi della lingua latina, overo il Priscianello; quest’ultimo, snello riassunto del precedente, secondo l’autore poteva “servire a piccioli fanciulletti in luogo del Donato; anzi è a loro necessario [...]” (F. Priscianese, Dei primi principi della lingua latina, o vero il Priscianello; nuovamente con somma diligenza dall’istesso autore riformato, Venezia, Valgrisi, 1550, p. 3). Ma tale libro rimase un esperimento, e non fu generalmente adottato nelle scuole, in cui la tradizione didattica continuò a poggiare sui manuali vecchia maniera, in un quadro immutato per secoli. Sul Priscianese cfr. L. Vignali, Una grammatica latina del Cinquecento e il volgare: studi su Francesco Priscianese, in “Lingua nostra” XLI, 1980, fasc. 2-3, 4. La grammatica latina in italiano, a quanto pare, era adottata invece dagli Scolopi nel XVII sec. (cfr. G. P. Brizzi, Strategie educative e istituzioni scolastiche della controriforma, in Letteratura italiana, vol. I. Torino, Einaudi, 1982, p. 916 n.).
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citava anche la funzione di notaio27. Un abbinamento di attività di questo genere confermerebbe un fenomeno noto sulla base di attestazioni più antiche, ad esempio un atto genovese del 1221 nel quale si parla di un ragazzo collocato presso un notaio che a tempo perso fa il maestro: “ad standum tecum [con il notaio] et tibi serviendum et ad disciplinam tuam audiendum et scolares tuos prout melius sciverit”28. Gli scolari, appresa la tecnica della scrittura, si trasformavano direttamente in scrivani al servizio del notaio-maestro. Questo insegnamento libero partiva (come ogni altro del tempo) dall’alfabeto, dalla lettura del salterio e dal Donato. Lo sbocco poteva essere la professione di scrivano pubblico o impiegato29.
3. Alfabetizzazione, scuole popolari e lingua italiana Il discorso si apre dunque su quella che si può definire la scuola ‘non ufficiale’. Infatti nella società cinquecentesca (come già nei tempi precedenti) non esisteva solamente l’insegnamento impartito da professionisti o semi-professionisti, così come non erano solo i notai e gli scrivani a dover usare la scrittura30. Studi recenti hanno insistito sul ruolo importante di altri luoghi non istituzionalmente delegati (almeno nella nostra ottica) alla funzione dell’insegnamento. Oltre alla scuola privata occasionale, tenuta da insegnanti che svolgevano di solito altre professioni, bisogna tener conto della bottega e della famiglia, secondo il binomio di cui Petrucci ha dimostrato la rilevanza31. Questa scuola non ufficiale, domestica, essenzialmente empirica, finalizzata a scopi molto specifici, così come era specifica e circoscritta la
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Cfr. U. Vignuzzi, Il “Glossario latino-sabino” di Ser Iacopo Ursello da Roccantica. Perugia, Le edizioni Università per stranieri, 1984, pp. 12-13. Cito da Manacorda, op. cit., I, parte I, p. 140. Cfr. Ibid., I, pp. 148-49. Cfr. Brizzi, Strategie cit., p. 902. Cfr. Petrucci, Scrittura cit., p. 192.
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stessa aspirazione alla scrittura nei ceti medio-bassi cinquecenteschi, non seguiva metodi e modelli canonici identificabili con facilità32. Ancora Petrucci ha parlato di alfabetismo “funzionale”33, e ha fatto riferimento a un vero e proprio “caos didattico”34, a una rete di relazioni di cui è praticamente impossibile ricostruire l’immagine complessiva, ma di cui si dedurrebbe che già nel Cinquecento la conoscenza della scrittura, almeno nei grandi centri urbani come Roma (e forse soprattutto in quella città), fosse una necessità per coloro che svolgevano un lavoro di qualche rilevanza sociale ed economica35. Gli osti, i commercianti, gli artigiani di cui Petrucci ha studiato le talora vacillanti e scorrette sottoscrizioni, si muovevano in un orizzonte in cui una qualche forma di scolarità doveva pur esserci stata, anche se non sappiamo ben dire quale. Così la presenza tra i “fanciulli a scuola” nella Firenze di fine Quattrocento di numerosi figli di coramai, speziali, conciatori, rigattieri, linaioli, beccai e setaioli, ha rafforzato la tesi che “l’accesso all’istruzione elementare fosse una realtà saldamente ancorata alle esigenze dei gruppi mercantili e manifatturieri36. Ai canali extraufficiali ci riportano analogamente quelle interessantissime opericciuole che promettevano al lettore cinquecentesco efficaci metodi autodidattici, senza richiedere (non so con quanta efficacia) alcun tipo di scuola37. Esse stanno appunto a dimostrare
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A questa scuola domestica si riferisce l’uso di lettere dell’alfabeto fatte di pasta dolce o di frutta, che venivano consumate dal fanciullo come premio dopo la lettura. Tale uso, riferito da M. Palmieri, era diffuso tra i mercanti fiorentini (cfr. P. Lucchi, La Santacroce, il Salterio e il Babbuino. Libri per imparare a leggere nel primo secolo della stampa, in “Quaderni storici” 38 (1978), p. 627). Questi mercanti, anche secondo Manacorda, op. cit., vol. I, parte II, p. 271, usufruivano probabilmente di scuole private in cui aveva spazio il volgare. Petrucci, Scrivere a Roma cit., p. 241. Petrucci, Scrittura cit., p. 193; Id., Scrivere a Roma cit., p. 242. Cfr. Petrucci, Scrittura cit., p. 184. Cfr. Brizzi, Strategie cit., p. 899. Cfr. Petrucci, Scrittura cit., p. 192; e Lucchi, art. cit., p. 613. Ad esempio, il Libro maistrevole del 1524 (di cui l’unico esemplare conservato è a Parigi) promette di insegnare a scrivere in due mesi.
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che esisteva, almeno in alcuni ceti e nell’ambiente urbano, un diffuso desiderio di alfabetizzazione, quello stesso desiderio a cui alla fine del Cinquecento sarebbero venute incontro le scuole popolari fondate a Roma da Giuseppe Calasanzio (poi dette dei padri Scolopi), che si collocano su di una linea completamente diversa dalla didattica esclusivamente basata sul latino propria delle scuole gesuitiche38. Sappiamo che i loro intenti erano ordinati in una precisa gerarchia, un vero quadro generale di obiettivi didattici. Alla base di queste scuole, che potremmo definire di indirizzo ‘tecnico’39, vi era il principio della gratuità dell’insegnamento, e la distinzione tra gli allievi che erano destinati agli studi e quelli che erano destinati a un’arte. Questi ultimi non imparavano il latino; veniva loro impartito invece un insegnamento tutto pratico e volgare, senza contare che il latino, nelle scuole degli Scolopi, veniva insegnato comunque su grammatiche scritte in italiano40. Ancora si noti (cosa per noi curiosa) che la scuola di Calasanzio prevedeva una netta distinzione tra il leggere e lo scrivere, operazioni che venivano insegnate separatamente. Ben tre classi erano destinate all’apprendimento della compitazione e della lettura su libri a stampa, di carattere religioso ed edificante41. Per quanto questo orizzonte di letture (che precedeva la quarta classe, in cui finalmente si cominciava a scrivere) potesse essere limitato, sta di fatto che l’istituzione religiosa costituì per molto tempo un punto di riferimento fondamentale, non solo a Roma. Le scuole degli Scolopi di Calasanzio erano destinate ad avere nel tempo una vasta diffusione, visto che dopo mezzo secolo esse erano già in circa trenta città italiane42; ma anche altri organismi religiosi o parareligiosi, talora locali, si occuparono di intervenire in forme analoghe, magari con programmi didattici meno interessanti. Penso
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Cfr. Brizzi, Strategie cit., p. 912; Garin, L’educazione in Europa cit., p. 215. Cfr. Brizzi, Strategie cit., pp. 916-17. Cfr. Brizzi, Strategie cit., p. 916 n.; Petrucci, Scrivere a Roma cit., p. 242. Cfr. Petrucci, Scrittura cit., p. 196, e Id., Scrivere a Roma cit., p. 243. Cfr. Brizzi, Strategie cit., p. 917.
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alle Scuole Pie aperte a Bologna all’inizio del Seicento, anch’esse di indirizzo pratico, create allo scopo di ammaestrare i non abbienti con l’insegnamento dell’abbaco e dei rudimenti di grammatica italiana e latina, intercalando lezioni e preghiere43. Istituzioni del genere dovettero esistere in molti luoghi, soprattutto nel clima post-tridentino; negli archivi di alcuni di questi istituti si conservano forse documenti che potrebbero dirci in che modo si svolgeva effettivamente la scuola del Cinque e Seicento. In attesa di questi documenti, informazioni più precise sull’insegnamento si ricavano dai non molti libri scolastici superstiti. L’allievo cinquecentesco aveva il suo impatto con il mondo della parola scritta attraverso uno strumento molto antico, la “tabula” o “charta” dell’alfabeto, appesa al muro al posto dell’ancora inesistente lavagna. Vi erano persino editori la cui attività specializzata consisteva nella fabbricazione di “tavole da fanciulli” e “carte da putti”. L’insegnamento della lingua procedeva attraverso la monotona ripetizione dell’alfabeto, imparato a memoria su queste tavole, delle quali la sola conservata (stampata nel 1529 a Vicenza dal Trissino) non ha nulla a che fare con il mondo della scuola. Le vere tavole sono perse, a quanto pare, nonostante fossero diffuse in molti esemplari: sembra che ogni allievo ne portasse una attaccata alla cintura, protetta da una cornice, in modo da averla sempre a portata di mano44. Il contenuto di queste tole, o tolette, o crocesanta, o santacroce (il nome variava a seconda delle zone) non doveva essere diverso dagli alfabeti posti a capo dei più elementari libri di lettura che andavano nelle mani del bambino cinquecentesco. L’Abecedarium seu Psalterium di cui parla la
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Cfr. R. Fantini, L’istruzione popolare a Bologna fino al 1861, Bologna, Zanichelli, 1971, p. 3 e ss.; e Brizzi, Strategie cit., p. 917. Cfr. Lucchi, art.cit., p. 623. Una illustrazione della Letteratura italiana Einaudi, vol. II, Torino 1983 (tav. 21) mostra un venditore ambulante di libri con una gerla da cui pendono alcune tavole da putti. Cfr. ora B. Buono, I rudimenti per imparare l’italiano nel Cinquecento: il Salterio, il Babuino e l’Interrogatorio della Dottrina Cristiana, in “Verba. Anuario Galego de Filoloxía”, vol. 35 (2008), pp. 425-37.
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Formiggini Santamaria, proveniente dalla biblioteca estense, reca appunto nelle due prime righe l’alfabeto; subito dopo segue il Pater noster in latino45. Quest’ordine è assai significativo: immediatamente dopo aver acquisito mnemonicamente l’alfabeto si imparava a compitare, e ci si esercitava proprio su Salterii contenenti preghiere latine. Sono strumenti di cui conosciamo diversi esemplari a stampa, non nuovi rispetto a quelli manoscritti usati in precedenza. I libri citati ci riportano a un orizzonte diverso dai trattati veri e propri di scrittura, studiati dai paleografi, opere molto più raffinate, rivolte ad un pubblico di allievi che aspirava ad entrare professionalmente nel mondo degli utenti della penna, non paragonabili nemmeno lontanamente ai libercoli delle prime scuole46. In essi, tuttavia, è possibile rintracciare alcuni suggerimenti e metodi relativi all’insegnamento della scrittura, suggerimenti non so se reali e sperimentati o teorici ed ipotetici, come quello, nel trattato di Tagliente, secondo il quale per imparare a guidare
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Cfr. E. Formiggini Santamaria, L’istruzione pubblica nel ducato estense (1772-1860), Genova, A. F. Formiggini, 1912, pp. 9-10; Lucchi, art. cit., p. 605, parla di un salterio miniato fatto per il figlio di Ludovico il Moro, che anch’esso contiene la tavola dell’alfabeto con le più comuni preghiere latine. Egli accenna anche a esemplari a stampa analoghi, pubblicati a Milano. Lo stesso Lucchi (p. 609) dà notizie del Babuino stampato a Perugia nel 1521, anch’esso fatto quasi allo stesso modo; conteneva infatti una tavola dell’alfabeto, a cui seguivano gruppi di lettere collocati in colonna, a partire da accoppiamenti binari, tipo ab, eb, ib, ob, ub , fino a gruppi di cinque lettere, come grabs, grebs, gribs, grobs, grubs. Questi gruppi, così come vax, vex, vix, vox, vux, mostrano che non ci si riferiva alla fonetica dell’italiano, ma a quella del latino; infatti, nel Babuino, seguivano appunto le solite preghiere latine su cui ci si esercitava a compitare. Non molto diverso è in certe sezioni anche il Dictionario del Verini (1532), uno dei più antichi lessici italiani, ma differente da quelli nati per l’impiego letterario: cfr. C. Marazzini, L’ordine delle parole. Storia di vocabolari italiani, Bologna, Il Mulino, 2009, pp. 68-72. Su questi trattati cfr. E. Casamassima, Trattati di scrittura del Cinquecento italiano, Milano, Il Polifilo, 1966.
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la penna si dovevano seguire delle tracce incise in una tavoletta di legno recante l’alfabeto: il principiante avrebbe passato lo stilo nella scanalatura seguendo il contorno della lettera, per poi ripetere l’operazione sulla carta, dapprima operando su di un foglio a linee orizzontali, e poi su di una pagina bianca, senza aiuti di sorta47.
4. La scuola delle riforme Lo studio dell’‘educazione linguistica’ nella scuola pone dunque problemi, almeno fino a quando non possiamo aver tra le mani veri programmi didattici, come quelli che cominciano a esistere dal Settecento in poi, anche se, è evidente, questi documenti non rispondono a tutte le nostre domande, perché non sono sempre di facile e diretta interpretazione. Le riforme e i regolamenti, infatti, non sono quasi mai un fedele corrispettivo della verità; in genere non descrivono situazioni, ma danno l’indicazione di obiettivi ancora da raggiungere; più che a questi obiettivi, bisogna dunque prestare attenzione agli strumenti nuovi messi nelle mani degli insegnanti. Il Regolamento della scuola sabauda del 1729, ad esempio, che ancora non dice nulla dell’insegnamento dell’italiano, ci mostra tuttavia indirettamente in che modo la lingua comune entrasse nel curriculum degli studi, pur menando esistenza clandestina occultata nella didattica della lingua morta. Era in quel momento d’attualità l’adozione di un nuovo manuale di latino, tradotto da quello di Lancelot. Di quest’opera si stava preparando un’edizione torinese in lingua italiana. Ancor prima che questa grammatica fosse in uso (fu pubblicata nel 1731), già i Regolamenti raccomandavano di sorvegliare la correttezza dell’italiano usato nelle traduzioni dal latino; la prefazione anonima della grammatica,
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Una riproduzione anastatica del trattato di Tagliente è in Three classics of Italian calligraphy, An unabridged reissue of the writing books of Arrighi, Tagliente, Palatino, with an introduction by Oscar Ogg, NewYork, Dover publications, 1953.
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intervenendo direttamente nella ‘questione della lingua’, avrebbe precisato in maniera chiarissima il modello toscano arcaicizzante che ogni insegnante aveva il dovere di diffondere. Attraverso la ‘via del latino’ entrava nella scuola di grammatica un’eco della questione della lingua48. Anche se l’interesse sostanziale rimaneva quello per la lingua morta (l’unica coltivata sul serio in una scuola orientata verso un assoluto classicismo), l’impiego di strumenti ausiliari redatti finalmente in italiano costringeva i professori a porsi problemi nuovi e a sorvegliare in se stessi e nei propri allievi anche quel linguaggio la cui qualità, fino ad allora, non li aveva toccati professionalmente; la questione della lingua, da problema letterario, assumeva rilevanza didattica. Ho parlato del Piemonte, e ho citato manuali scolastici piemontesi, ma è evidente che sarebbe di grande interesse seguire le tracce della questione della lingua nei libri analoghi stampati in altri stati italiani. Anche altrove si ebbero progetti di intervento simili. Le riforme scolastiche del Settecento sono anzi un’occasione per verificare la realizzazione di veri e propri programmi di politica linguistica, nei quali si esercita l’impegno di intellettuali portatori di idee di rinnovamento che quasi sempre toccano proprio la questione dell’insegnamento della lingua. Per restare al caso della scuola sabauda, l’introduzione dell’italiano (1733) nelle classi di grammatica, umanità e retorica (per un solo giorno di lezione alla settimana, il sabato) è legata all’attivismo di un allievo di Muratori, il modenese Girolamo Tagliazucchi. Un’innovazione apparentemente così modesta costava al Tagliazucchi un duro scontro con i sostenitori del latino e trovava un corrispettivo nello stabilimento di una cattedra universitaria di “eloquenza italiana” (1734), poi nella stesura di molti libri di testo, vocabolari, grammatiche, grammatichette e antologie. L’insegnamento
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Cfr. Nuovo metodo per apprender agevolmente la lingua latina, tratto dal francese nell’italico idioma e per utilità de’ novelli scolari aggiuntivi nel principio gli elementi tolti dal compendio della medesima opera [...] all’uso delle regie scuole di tutti gli stati di sua maestà il re di Sardegna, vol. I, 1738 [I ed. 1731]. Torino, A spese della Società, p. V.
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dell’italiano segnava così un decisivo progresso, sia per lo spazio da esso occupato nel cursus di studi, spazio sempre meglio riconosciuto e definito dalle autorità, sia per l’importanza dei nuovi strumenti disponibili. Anche se il latino manteneva un ruolo primario, l’italiano era ormai visto come una propedeutica necessaria. Arrivavano finalmente sui banchi (cosa non di poco conto) gli autori toscani; un’antologia di prose, allestita da Tagliazucchi nello spirito della riforma che egli stesso aveva guidato, si rivolgeva ai modelli della tradizione classica italiana: Boccaccio, Della Casa, gli oratori del Cinquecento già antologizzati da Sansovino e da Carlo Dati. Effettivamente nel corso del Settecento l’usus scritto dell’italiano in Piemonte, nelle classi sociali scolarizzate, arrivò a una stabilizzazione molto maggiore che nel secolo precedente, con una progressiva diminuzione di quelle vistose libertà grafiche e lessicali prima abbondantemente tollerate. L’introduzione dell’insegnamento dell’italiano nelle scuole di latinità non dovette essere estranea a questa normalizzazione, anche perché esso crebbe di importanza in maniera costante. Fu presto esteso alle classi di grammatica inferiore (per le quali venne preparata una grammatichetta nel 1742); le Costituzioni del 1772, infine, stabilirono l’istituzione di una “settima”, destinata a precedere le sei classi già esistenti, la quale doveva insegnare in maniera specifica l’italiano49. Nello stato sabaudo, nel corso del Settecento, dunque, il progresso istituzionale nell’insegnamento della lingua fu costante e regolare, anche se non dobbiamo dimenticare che stiamo sempre parlando di una scuola di élite, riservata agli studenti di latinità, totalmente estranea a una dimensione popolare o di massa. Che cosa accadesse fuori di questa scuola, non è facile saperlo. Probabilmente si perpetuavano situazioni simili a quelle cinquecentesche, e gli eventuali rudimenti di lingua e di scrittura potevano essere acquisiti mediante canali diversi, dal parroco di campagna
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Bisogna ricordare che l’insegnamento scolastico procedeva con un conto a ritroso delle classi, dalla maggiore alla minore, a partire dalla VI.
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al familiare disponibile a trasmettere il suo sapere nella scuola ‘domestica’. Da chi poteva avere imparato a scrivere nel suo italiano nemmeno troppo scorretto il fabbro di cui Bice Garavelli Mortara ha pubblicato le memorie?50 Molte scritture popolari pongono problemi del genere. Ma, a parte il protrarsi nel settore ‘popolare’ del “caos didattico” di cui abbiamo già parlato più sopra, interessa soprattutto mettere in luce il ruolo nuovo dello stato settecentesco, in quanto ordinatore degli studi, secondo linee di sviluppo che si legano sovente alla riflessione e all’iniziativa di intellettuali al servizio del potere pubblico. Nel corso del secolo, come è noto, questo tipo di intervento fu favorito da una assunzione nuova di responsabilità da parte dei governi, in seguito alla cacciata dei Gesuiti. Gli interventi non riguardarono soltanto la strutturazione generale dei sistemi scolastici, ma anche gli elementi specifici che ci interessano: i metodi, gli strumenti, i manuali, i modelli linguistici proposti, il tempo materiale di lezione dedicato alla lingua italiana e il ruolo ad essa attribuito. Rispetto a questi interventi, il Piemonte si mosse in anticipo, ma riforme analoghe si ebbero anche altrove: a Modena, in seguito alle nuove Costituzioni del 1772, si deliberò ad esempio di stampare un Piccolo libretto di prose italiane51. Tale libretto derivava da una precisa indicazione data allora agli insegnanti delle prime scuole: “italiani saranno [...] tutti i libri coi quali insegneranno i maestri, giacché nei primi anni allo studio solo della lingua italiana […] ammaestrerassi la gioventù”52. Questo studio precedeva, come in Piemonte, le classi della “grammatica inferiore”, in cui ci si accostava al latino, senza però che l’italiano fosse del tutto trascurato.
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Cfr. B. Mortara Garavelli, Scrittura popolare: un quaderno di memorie del XVII secolo, in “Rivista Italiana di Dialettologia” (RID), 3/4 (197980), pp. 149-180. Cfr. Formiggini Santamaria, L’istruzione pubblica nel ducato estense cit., p. 12. Cito da Ibid., p. 12.
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Negli anni successivi alla cacciata dei Gesuiti si ebbero riforme scolastiche, oltre che a Torino e Modena, anche a Pavia, Parma, Napoli53. In genere tali progetti incisero dapprima a un livello alto, e solo in un secondo tempo, e scarsamente, al livello dell’istruzione primaria, dove si registrarono i maggiori fallimenti54. Ma più che ai risultati pratici, dobbiamo guardare in questo caso alla novità fondamentale che si registra in queste occasioni, cioè un tentativo degli intellettuali di affrontare la questione dell’educazione popolare, non soltanto in quanto problema di natura generale, umanitario e filosofico, ma proprio nella sua specificità. Gli intellettuali si propongono cioè di ordinare metodi e percorsi di studi, tentano di dare risposta a questioni pratiche, collegano il dibattito sull’italiano e sui rapporti italiano-latino al tema dell’insegnamento rivolto a nuove classi sociali. Troviamo motivi di quel genere in molti autori: Genovesi e i suoi allievi e seguaci, Francesco Grassi, Galeani Napione, Pier Domenico Soresi (quest’ultimo, autore di un saggio Dell’educazione del minuto popolo, uscito nel 1775, in cui si parla proprio della necessità di insegnare a tutti l’italiano mediante nuove tecniche didattiche). Il problema dell’educazione del “minuto popolo” si legava, nelle vedute di questi intellettuali, all’ammodernamento delle tecniche e della vita economica, perché la lingua era considerata il canale necessario attraverso il quale doveva passare l’aggiornamento specifico dei vari settori produttivi. La scuola popolare di italiano, dunque, era concepita (seppure talora confusamente) come alternativa alla scuola di letteratura e di retorica. Genovesi, ad esempio, che si era occupato di riforma in maniera specifica, stilando nel 1767 un “piano”, proponeva l’istruzione elementare pubblica gratuita, e nel contempo cattedre ambulanti di agricoltura che facessero ogni anno il giro del Regno, avendo come uditorio contadini e piccoli proprietari; nel contempo auspicava
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Cfr. B. Peroni, La politica scolastica dei principi riformatori in Italia, “Nuova rivista storica” 3 (1928), p. 270 e ss. Così a Napoli, per le scuole di abbaco risalenti al 1768: cfr. Ibid., p. 7.
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“catechismi” per divulgare le scienze tra il largo pubblico. È noto che Genovesi influenzò le vedute di pensatori come Filangeri e Cuoco, oltre che di intellettuali minori direttamente impegnati sul fronte dell’organizzazione scolastica, come in Sicilia l’abate De Cosmi. Attraverso l’operato di questi intellettuali, sempre più spesso attenti ai problemi dell’istruzione, si andava diffondendo un’idea nuova della funzione della lingua55. Si diffondeva anche la critica alla tradizione culturale italiana, caratterizzata da un eccesso di letterarietà. Ne discendeva una polemica contro la “lingua arcana” dei dotti, per usare l’espressione di Genovesi56, alla quale si attribuiva almeno in parte la responsabilità della mancata circolazione della cultura. La scarsa diffusione del sapere, nel giudizio di Genovesi, finiva per corrispondere alla “rozzezza” del popolo, estraneo alla lingua e confinato nel dialetto57. L’interesse si spostava, oltre che al popolo basso, al ceto “mezzano”58, per il quale occorreva una scuola specifica, in cui fosse ridotto lo spazio delle lingue morte, come suggeriva anche il piemontese Francesco Grassi pensando agli studenti destinati alle attività artigianali, tessili, conciarie e al commercio, costretti a “boccheggiar vocaboli Latini, e Greci nelle scuole”59. Cesarotti, da parte sua,
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Cfr. A. Pennisi, Filosofia del linguaggio e filosofia civile nel pensiero di A. Genovesi, in “Le forme e la storia”, 3 (1980), pp. 370-71. Sul De Cosmi, cfr. F. Lo Piparo, La nazione, la campagna, la scienza e la lingua. Note sulla politica linguistica nella Sicilia del secondo Settecento, in Teorie e pratiche linguistiche nell’Italia del Settecento, a cura di L. Formigari, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 311 e ss.; si pensi al Cuoco, che stese a Milano un Progetto di decreto per l’organizzazione della pubblica istruzione, su cui cfr. S. Bucci, La scuola italiana nell’età napoleonica. Il sistema educativo e scolastico francese nel Regno d’Italia, Roma, Bulzoni, 1976, p. 204 e ss. Cito da Pennisi, Filosofia del linguaggio cit., p. 350. Cfr. Ibid., pp. 350 e 367. Cfr. Ibid., p. 367. F. Grassi, Sopra le lingue ed i dialetti. Dissertazione accademica, in Ozi letterari, vol. II, Torino, Stamperia Reale, 1787, p. 298.
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avrebbe denunciato il “latinismo universale”60. L’aspirazione alla praticità e al progresso si traduceva dunque nella proposta di uno spazio maggiore per il volgare. Non sempre, tuttavia, le posizioni di questi intellettuali incisero con rapidità ed efficacia sulle tecniche dell’insegnamento. Non tutti ebbero, come in Sicilia il già citato De Cosmi, o Isidoro Bianchi61, responsabilità dirette nell’organizzazione della scuola; qualcuno vi arrivò troppo tardi, come Galeani Napione, quando il quadro stava ormai mutando. In altri casi proprio le posizioni troppo anticipatrici e progressiste portarono a un allontanamento dai risultati pratici: a Napoli, ad esempio, il progetto di Genovesi del 1767 non fu preso in considerazione62. Il quadro reale in cui le aspirazioni riformatrici sarebbero state applicate concretamente ai metodi ed ai contenuti, trasformandosi in tecnica pratica di insegnamento, doveva essere quello delle scuole e del metodo “normale”, il cui modello, venuto dall’Austria, si sarebbe imposto come una svolta decisiva tra la fine del Settecento e la Restaurazione.
5. Italiano e dialetto nel rinnovamento delle tecniche didattiche Gli anni del rinnovamento dei metodi didattici furono anche quelli in cui si sviluppò una concezione nuova del rapporto tra lingua e dialetto. Diversi studiosi hanno sottolineato un fatto
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Cfr. Del Negro, Alfabetizzazione, apparato educativo e questione linguistica in Lombardia e nel Veneto cit., p. 254 (vedi nota 10). Su cui cfr. L. Formigari, Linguaggio e pedagogia civile in Italia tra edificazione borghese e restaurazione, in Italia linguistica: idee, storia, strutture, a cura di F. Albano Leoni et alii, Bologna, Il Mulino, 1983, p. 31. Cfr. Peroni, La politica scolastica dei principi riformatori in Italia cit., p. 270.
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che desta a prima vista una certa sorpresa63: l’invito a usare il dialetto come punto di partenza della didattica dell’italiano ebbe uno dei primi sostenitori nel maestro riconosciuto del purismo primo-ottocentesco, l’abate Cesari. Nel cap. XIX della sua Dissertazione (scritta nel 1808-1809, pubblicata a Verona nel 181064) era spiegato un metodo abbastanza preciso per passare dal noto (il dialetto) all’ignoto (il toscano); il dialetto era considerato la “scorta” del fanciullo, il quale, su questo fondamento, poteva addentrarsi nella lingua come un “forestiere” che sia guidato in “un paese a lui nuovo” da “uno pratico dei luoghi”. Il passo di Cesari mostra uno sbocco pratico del purismo che ebbe fortuna, anche perché la Dissertazione fu uno dei testi più letti della prima metà dell’Ottocento, e certo l’indicazione fu accolta con favore anche dagli insegnanti. Si pensi che il nome di Cesari era considerato con generale riverenza, e che il suo insegnamento era garanzia di legittimità linguistica. Lo si vede con chiarezza quando si leggono certi libri di testo dell’epoca. Michele Ponza, autore tra il 1820 e i1 1830 di una serie di manuali per le scuole comunali di Torino, nella Lettera ad un maestro del 1823 citava proprio Cesari come fonte del suo metodo, basato sul raffronto col dialetto e su di una speciale attenzione alle particolari difficoltà che un allievo piemontese incontrava nell’accostarsi all’italiano. La sua pedagogia derivava in realtà anche da altri modelli come la Metodica di G. Peitl tradotta in italiano da Cherubini nel 1821, quello stesso Cherubini che nel 1822, nell’Istradamento al comporre, suggeriva anch’egli il confronto con i “principali dialetti che parlansi nel Regno lombardo-veneto”65. Attorno agli anni ’20, dunque, cominciavano a
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Cfr. M. Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia, Tübingen, Narr, 1980, p. 104; Id., Dall’Abate Cesari a Tullio De Mauro cit., pp. 89-90; Còveri, Dialetto e scuola nell’Italia unita cit., p. 81. Si dispone ora dell’ed. a cura di A. Piva: Antonio Cesari, Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana, Roma-Padova, Antenore, 2002. Cito da M. Berengo, Intellettuali e librai nella Milano della Restaurazione, Torino, Einaudi, 1980, p. 348 n.
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di ispirazione manzoniana avrebbe rafforzato questo giudizio negativo, a cui non era estranea l’ideologia unitaria risorgimentale, che vedeva un pericolo nei particolarismi68. Il problema del dialetto, nella scuola della Restaurazione, era un segno del tentativo più generale di collegare la didattica della lingua alle condizioni concrete e alla realtà del parlato. Su questo fronte, la battaglia contro il latino non era meno importante, e a quell’epoca non si era ancora conclusa. La scuola con cui si confrontavano gli insegnanti come Ponza, quanto a metodi, si trovava sovente molto indietro. Le riforme tentate in precedenza non erano riuscite a sradicare metodi molto antichi, non troppo diversi da quelli in uso nel Cinquecento. Ponza, ad esempio, polemizza contro l’abuso di latino nella didattica elementare, riprendendo sul terreno pratico quello che era stato uno dei temi frequentati dai teorici del Settecento (si vedano a questo proposito gli interventi di P. Zambaldi, 1740, di G. Bressani, 1746, e di A. Bandiera, 177569). Chiarissimo su questo punto è anche Giuseppe Anselmi
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Si tenga presente, del resto, che una notevole diffidenza per il dialetto aveva dimostrato anche Genovesi (cfr. Pennisi, Filosofia del linguaggio cit., pp. 374-75), anche se in ciò non era stato seguito necessariamente da coloro che si ispiravano al suo insegnamento. De Cosmi, ad esempio, già alla fine del Settecento, non solo aveva tentato di sganciare l’insegnamento dell’italiano da quello del latino, ma anche aveva provato ad utilizzare la base dialettale degli allievi. La rivalutazione del dialetto in questo caso passava attraverso la coscienza che esso partecipava dei principi generali del discorso. Entravano in gioco alcuni elementi di filosofia del linguaggio. De Cosmi pensava insomma che le osservazioni linguistiche potessero essere applicate prima al dialetto materno, poi alla lingua italiana, e che le nozioni acquisite sarebbero servite anche per imparare il latino (cfr. Lo Piparo, La nazione, la campagna, la scienza e la lingua cit., p. 323). Non diversamente Ponza, più tardi, citando Condillac, avrebbe affermato che il dialetto, in quanto organizzato e strutturato (visto che si poteva scriverne una grammatica), aveva una sua dignità culturale, valida appunto come propedeutica alla lingua (cfr. Marazzini, Piemonte e Italia cit., p. 188 n.). Di questi interventi parla Del Negro, Alfabetizzazione, apparato educativo e questione linguistica in Lombardia e nel Veneto cit., p. 256.
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maestro a Casale e poi a Torino, autore di un saggetto intitolato Idea d’una correzione al sistema di pubblica istruzione, scritto nel 1814-15, dedicato, non a caso, a Galeani Napione. Anselmi e Ponza ci descrivono in maniera concorde il metodo seguito tradizionalmente almeno fino agli anni ’20 dell’Ottocento (non credo solo in Piemonte) per insegnare la lettura, il quale consisteva nel passare dall’alfabeto al catechismo, e subito dopo alle preghiere latine. Questi testi venivano ripetuti a memoria, senza esercizio effettivo della capacità dell’allievo, e senza preoccuparsi della comprensione letterale delle parole. Posto di fronte a una pagina mai vista prima, l’alunno avrebbe finito per non capire nulla o quasi, e avrebbe sillabato stentatamente. “Se ad un allievo anche ottimo di IV all’uso nostro [la IV era la seconda classe della scuola di latinità] – scriveva l’Anselmi70 – io detto una sentenza non dirò di sublime poesia, ma di nitida prosa, e veramente toscana, io scommetterei, che egli non saprà neppur leggerla, non che capirla a fondo, e sentirla. E perché? Il gran perché si è che d’italiano s’è veduto nulla, o pochissimo”. Anche la scuola della prima metà dell’Ottocento, la famigerata scuola della Restaurazione, maltrattata dalle polemiche dei romantici di metà secolo, si impegnò con gli strumenti che aveva a disposizione per costruire le basi di una educazione linguistica concepita secondo principi di maggiore funzionalità. La vitalità di uomini provenienti dal ‘mestiere’ di maestro, che si aggiornavano e prendevano coscienza di idee e di metodi, che diventavano autori di manuali, era nuova rispetto al passato, quando la voce dell’insegnante, in quanto specialista della sua professione, era stata del tutto assente. La loro opera, naturalmente, va vista in un contesto più ampio, dato che in diversi stati della penisola vi furono interventi di riforma i quali interessarono direttamente l’insegnamento dell’italiano, stimolando l’iniziativa dei docenti più intraprendenti. Si può dire che in questo periodo la scuola cominciò ad assumere persino materialmente l’aspetto
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G. Anselmi, Omaggio a S. E. D. Prospero Balbo, Torino, Stamperia Reale, 1818, p. 47.
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la riforma anche in Lombardia; tra essi vi erano (oltre ai regolamenti e ai metodi) l’Abbeccedario, gli Elementi della pronunzia e dell’ortografia italiana73. Diversi manuali di Soave, destinati a una grande fortuna anche al di là dei confini della Lombardia, avevano per oggetto la didattica dell’italiano (e non si dimentichino i suoi interessi nel settore della linguistica, su cui cfr. Formigari, 1983, 40-41, interessi che certo ebbero modo di entrare in gioco). Dalla riforma austriaca nasceva dunque l’idea di una scuola “comunale” con il compito preciso di insegnare a leggere e scrivere. La scuola comunale sarebbe stata istituita a Napoli (1792-’93: esperienza precoce, ma di breve durata), nel Regno Italico (1812), nel Lombardo-Veneto (1818), in Piemonte (1822), a Parma (1831), a Modena (1839). L’applicazione della riforma negli stati che ne furono pionieri non ebbe forse grandi conseguenze pratiche, anche per la mancanza della norma dell’obbligo di frequenza, tuttavia è altrettanto vero che dove questi interventi cessarono subito o non ci furono, la situazione fu ancora peggiore. Penso al Regno delle Due Sicilie, oltre che allo stato Pontificio, dove la scuola non fu concepita come terreno di intervento dello Stato74. Quando nel 1824 i cardinali della Congregazione agli studi si preoccuparono di controllare più direttamente l’insegnamento, emanando poi anche un regolamento delle elementari (1825), non resero nemmeno obbligatorio lo studio dell’italiano, limitandosi a far riferimento ai rudimenti da insegnarsi assieme ai primi elementi della grammatica latina; l’obbligo di imparare l’italiano era stabilito finalmente nel 1829, ma, caso unico in Italia, veniva scelta la grammatica del Pallavicino, cioè un testo che risaliva al Seicento, proprio quando negli altri stati era ormai universale l’adozione dei manuali di Soave75.
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Cfr. Bucci, La scuola italiana nell’età napoleonica cit., pp. 92-97; Del Negro, Alfabetizzazione, apparato educativo e questione linguistica in Lombardia e nel Veneto cit., p. 264. Cfr. E. De Fort, Storia della scuola elementare in Italia, vol. I, Milano, Feltrinelli, 1979, pp. 16-17; e Bucci, La scuola italiana nell’età napoleonica, p. 37 e ss. Cfr. E. Formiggini Santamaria, L’istruzione popolare nello stato pontificio, Bologna-Modena, A. F. Formiggini, 1909, p. 61.
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Attorno al 1840 Troya, che assumeva responsabilità sempre maggiori nella scuola sabauda, pubblicava infatti nuovi libri scolastici adatti al pubblico infantile, con figure e con caratteri tipografici differenziati: in essi compariva, accanto al normale carattere di stampa (realizzato in dimensioni più grandi), il corsivo, simile a quello della scrittura manuale; comparivano disegni che alleggerivano il peso della pagina. Queste innovazioni meriterebbero di essere studiate anche in relazione all’impiego delle nuove tecniche tipografiche78. Queste tecniche, naturalmente, non erano proprie soltanto dei libri di Troya; erano anche alla base di altri strumenti, ad esempio dei lessici sistematici per ragazzi, nei quali le tavole figurate, ormai a basso costo, venivano usate per favorire la conoscenza delle parole, secondo l’organizzazione dei vocabolari metodici, come nel Metodo pratico per l’insegnamento della lingua italiana di Fecia79. La svolta tecnica era fondamentale per lo sviluppo di un’editoria specializzata rivolta ai ragazzi (prima inesistente o, per meglio dire, non distinguibile a prima vista da quella degli adulti), la quale si realizzava ora parallelamente allo sviluppo delle correnti filosofico-pedagogiche dell’Ottocento80.
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Se ne possono vedere alcune immagini in Cardinali, Antonetto, Primosich, Vincenzo Troya cit., p. 56 e ss. Cfr. C. Marello, Lessico ed educazione popolare. Dizionari metodici italiani dell’ ’800, Roma, Armando, 1980, p. 123 e ss. Per il seguito di questo discorso, è ora prezioso il riferimento al libro di G. Polimeni, La similitudine perfetta. La prosa di Manzoni nella scuola italiana dell’Ottocento, Milano, Franco Angeli, 2011.
5. I classici della “Biblioteca popolare” Pomba: costo dei libri e censura nell’attività di un editore dell’Ottocento
La raccolta di opere che va sotto il nome di “Biblioteca popolare”, secondo Firpo, a cui dobbiamo il quadro più approfondito dell’intera attività del tipografo piemontese, è stata l’impresa “che forse più di ogni altra” ha contribuito a identificare il Pomba “con la figura ideale dell’editore moderno, coraggioso nel tentar nuove vie, tutto rivolto ai più larghi ceti dei lettori non danarosi ma assetati di cultura”. Dallo stesso Firpo apprendiamo che il programma della collana fu divulgato con un Annunzio tipografico del 1° novembre 1828: prevedeva la pubblicazione di opere classiche italiane, oltre che latine e greche tradotte, ma non opere straniere, perché “questa Biblioteca debb’essere tutta d’indole italiana, acciocché colla scorta di perfetti modelli vieppiù si desti nella gioventù il desiderio di studiare la nostra bella lingua”. Una simile affermazione, così esplicitamente posta nel programma, quasi come dichiarazione di fede puristica, è una spia del clima particolare che si era venuto a creare a Torino dopo la Restaurazione, quando l’interesse per la lingua italiana, chiusa la parentesi francese del periodo napoleonico, aveva finito per accentuarsi, facendo ritornare d’attualità il trattato settecentesco Dell’uso e dei pregi della lingua italiana di Galeani Napione, che proprio allora trovò i lettori più entusiasti. Nel 1817 era uscito il Dizionario militare di Giuseppe Grassi, in seguito stampato da Pomba in edizione ampliata. Lo stesso Grassi
L. Firpo, Vita di Giuseppe Pomba da Torino libraio tipografo editore, Torino, Utet, 1975, p. 57.
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continuò la sua attività di lessicografo, dando alle stampe i Sinonimi nel 1821, e arrivò ad abbozzare un dizionario etimologico e una storia della lingua italiana. L’italiano era stato introdotto alla Restaurazione nell’Accademia militare di Torino, come provano molte opericciuole scolastiche stampate negli anni Venti, pur se da torchi diversi da quelli del Pomba. Sono anche gli anni in cui si svolse l’attività di Michele Ponza, che allestì una notevole quantità di opere, tra le quali grammatiche, manuali, guide al comporre, libri pratici appositamente concepiti per gli studenti torinesi. L’attivissimo maestro Ponza aveva fondato un periodico intitolato “L’Annotatore degli errori di lingua” (1829-31), poi ribattezzato “L’Annotatore piemontese”. Sulle pagine di questo giornale condusse un’infaticabile campagna per il miglioramento della lingua utilizzata a Torino, censurando errori riscontrati nelle insegne pubbliche, nei fogli periodici, nei libri pubblicati di fresco, mettendo alla berlina imperfezioni vere o presunte, e anche il lessico quotidiano dialettalizzante. Si può pensare che una collana di classici in lingua italiana nata proprio in quegli anni e in questo contesto, appunto quella ideata dal Pomba, risentisse del clima che ho descritto, o meglio, intendesse cogliere, anche dal punto di vista economico e commerciale, i risultati di questo nuovo gusto e della nuova disponibilità che coinvolgeva per la prima volta ceti piccolo borghesi. Il progetto prevedeva infatti che si distribuissero con cadenza settimanale cento volumi di formato tascabile, di duecento pagine di testo, al prezzo di 50 centesimi la copia, cioè, secondo Firpo, “un decimo e forse meno di quello di un comune libro di cultura”. Firpo, svolgendo il suo discorso sul Pomba, fa riferimento alla storia generale delle edizioni economiche, da Manuzio in poi. Sono certo argomentazioni pertinenti, ma andrebbero forse meglio precisate, calandole in un contesto locale che solo ora, dopo molti studi sulla storia linguistica regionale del Piemonte, ci
Quest’ultima, rimasta inedita, è stata pubblicata di recente: cfr. G. Grassi, Storia della lingua italiana, edizione critica, introduzione e commento a cura di L. Maconi, Firenze, Accademia della Crusca, 2010.
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appaiono più chiare e definite. Naturalmente il modello per una simile editoria veniva dall’estero, prima di tutto dalla vivacissima Lombardia, dove nel 1814 il Silvestri aveva pubblicato la sua “Biblioteca scelta di opere italiane antiche e moderne”, e il Bettoni aveva avviato la “Biblioteca portatile” (1825) e la “Libreria economica” (1828). Insomma, i tempi erano maturi anche in Piemonte per un significativo allargamento del mercato. Possiamo concordare con l’affermazione di Firpo secondo la quale “Pomba non inventò le edizioni popolari a prezzo contenuto, ma ebbe il merito di introdurle in Piemonte, magro terreno in apparenza, e di dare loro un taglio, una misura, perfettamente rispondenti alle aspettative di un vasto pubblico”. Anche la distribuzione a mezzo posta, con le tariffe agevolate appositamente richieste e ottenute dal Governo, innovazione applicata dall’editore piemontese celebrata da tutti i suoi biografi e dagli studiosi di storia dell’editoria, fu uno degli strumenti di cui seppe fare ottimo uso. Lo svolgimento della collana intitolata “Biblioteca popolare” non è certo ignoto: è stato anch’esso descritto dal Firpo nello studio citato, seppure sinteticamente, e sono perfettamente condivisibili le considerazioni di uno studioso che ben si intendeva sia di classici sia di editoria. Nel 1828 la collana era stata inaugurata con un libro religioso, Della imitazione di Cristo, nella versione del padre Cesari, il maestro del Purismo, con una premessa editoriale in cui si negava l’attribuzione a Tommaso di Kempis. Verosimilmente la pubblicazione di un libro religioso di quel genere era, come suppone Firpo (e come in effetti il tono della prefazione sembra confermare), un modo per mettersi al sicuro sotto lo schermo di un’opera devota celebre, che comunque fu un successo, essendo venduta in oltre 4.000 esemplari, stando alle dichiarazioni di Pomba stesso nella seconda edizione. Questa Imitazione di Cristo non faceva che riprendere un’altra edizione torinese, uscita nel 1824 presso
Firpo, op. cit., p. 60. Il passo è riportato da E. Bottasso, Le edizioni Pomba. 1792-1849, Torino, Biblioteca Civica, 1969, p. 98.
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la tipografia Alliana, curata da un intellettuale locale, il sacerdote Antonmaria Robiola, letterato e grammatico, oggi sicuramente (forse meritatamente) ignoto ai più, ma di cui è interessante menzionare l’attività di lessicografo: infatti qualche anno dopo curò un grande dizionario, il maggiore uscito dai torchi torinesi prima del Tommaseo (non i torchi del Pomba, però, ma quelli del Fodratti). Quel dizionario era in sostanza una ripresa della Crusca, ma arricchita mediante giunte di taglio enciclopedico e voci nuove di lessici recenti quali il Manuzzi e il Tramater. Nel 1830 il Pomba utilizzò per la “Biblioteca popolare” l’adattamento del Robiola di un’edizione della Commedia dantesca annotata dal settecentesco gesuita senese Pompeo Venturi, e poi un’edizione, anche questa passata per la revisione del Robiola, delle Rime del Petrarca. Si noti che il Robiola fu professore nella Regia Accademia militare, l’istituzione della quale abbiamo parlato in precedenza, quando ne abbiamo rilevato la funzione utile per la diffusione della lingua italiana, nel clima nuovo creatosi dopo la parentesi francese. Ma proseguiamo ora nella ricognizione del primo anno della “Biblioteca popolare”. All’Imitazione di Cristo seguirono, nello stesso 1828, due volumi delle Lettere di Baretti, nella selezione di Bartolomeo Gamba che risaliva al 1824, e una Gerusalemme liberata in tre volumi. Pomba dichiarò di aver stampato 5.000 esemplari di ciascuna di queste opere, che furono dunque un successo commerciale. Nel 1829 diede poi alle stampe (e non era la prima volta che lo faceva), una novità milanese di primo piano, niente meno che la ventisettana dei Promessi sposi. Non era la prima volta, perché l’opera era già uscita dei torchi del Pomba fin dal 1827, quasi contemporaneamente all’edizione milanese, con il consenso dell’autore e dell’editore Redaelli. In occasione di questa “quarta edizione torinese” in quattro volumetti, il romanzo manzoniano
Si veda A. Robiola (a cura di), Dizionario universale della lingua italiana compilato sopra quello della Crusca accresciuto dal Manuzzi e quello della Società Letteraria di Napoli con la giunta di seimila e più tra voci, nuovi significati e frasi, 7 voll., Torino, Fodratti, 1835-46. L’informazione è data da Bottasso, op. cit., p. 100.
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fu collocato appunto nella “Biblioteca popolare”, nella “Classe seconda, letteratura – romanzi”. La prefazione offre una notizia curiosa: dimostra come fosse di pubblico dominio l’informazione secondo la quale Manzoni stava riscrivendo l’opera. Pomba accennava infatti alla voce corrente secondo la quale il Manzoni stava correggendo il romanzo, ma rassicurava i lettori, garantendo di aver appurato che nessun editore pensava per ora di stampare la nuova versione, e dunque quella vecchia era perfettamente d’attualità, per nulla obsoleta. Vi fu anche un tentativo di allargare la “Biblioteca popolare” in direzione diversa, aprendo, nel 1829, la seconda serie di “Scienze e arti”, inaugurandola con la filosofia di Melchiorre Gioia; ma, a quanto pare, fu un sostanziale fallimento, forse dovuto al fatto che il libro venne sequestrato nel 1830, per cui l’opera del Gioia non andò oltre il quinto tomo. Non si dimentichi che le condizioni della censura erano molto dure, in un paese come il Piemonte che, per dirla con le parole di un altro editore, il Barbèra (a quel tempo poco più che ragazzo, ma ugualmente buon testimone), “allora era governato dai Gesuiti e dalla Polizia”; condizioni simili rendevano
Alla revisione manzoniana dei Promessi sposi il Pomba fa cenno anche in seguito, nella presentazione editoriale del Trattato del governo della famiglia del Pandolfini, uscito nella “Biblioteca popolare” nel 1829 (cfr. Bottasso, op. cit., p. 106). Anche questa notizia è data da Firpo, op. cit., pp. 66 e 127. Sono le parole di G. Barbèra, Memorie di un editore pubblicate dai figli, Firenze, G. Barbèra, 1883, p. 10, relative al periodo tra il 1830 e il 1835 ca. Nel libro ricorrono diversi riferimenti al rigore della censura piemontese, che rendeva impossibile la lettura delle opere di Rousseau, di Voltaire e della Sand (cfr. Ibid., p. 46). Il mercato dei libri proibiti era vivace a Torino. Lo stesso Barbèra ricorda che, quando partì per Firenze (l’incarico presso il Fumagalli, che fu poi la via mediante la quale il Barbèra poté accostarsi al Vieusseux e al Le Monnier, era stato procurato proprio dall’editore Giuseppe Pomba, che evidentemente aveva fiducia nelle possibilità del giovane Barbèra), poté vendere a buon prezzo la propria biblioteca: “presi tutti i miei libri, che erano buoni e ghiotti, perché quasi tutti proibiti dalla severa censura di Torino, e li vendetti a un librajo che in tutto mi diede 150 lire” (Ibid., p. 35).
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certamente molto difficile la vita di un editore che avesse sviluppato un elementare gusto per scelte appena non convenzionali. Alla notazione del Barbèra si può affiancare quella del Predari, collaboratore del Pomba in quanto direttore della Nuova enciclopedia popolare, che scrive ricordando quei tempi: Io arrivava in un paese [il Piemonte] dove la predominanza gesuitica in tutti gli ordini della società e perfino nella milizia e nella magistratura era a malapena tenuta in freno dai ritegni del re gelosissimo di qualunque predominio altrui in casa sua; pinzocherismo e corruzione erano i due malanni che più viziavano la vita domestiva e sociale di quei tempi. La stampa in balìa della doppia Censura civile ed ecclesiastica, rendeva impossibile, non dirò la libera manifestazione del pensiero, ma perfino l’esposizione di qualunque anche più ortodossa dottrina, se questa non si conformava alle individuali opinioni dei censori ecclesiastici; [...].10
Gustosissime sono le notizie che dà il Predari sulla rivalità tra i vari censori religiosi piemontesi (rosminiani contro giobertiani e vivecersa), e anche sulla loro ignoranza della lingua italiana: il censore ecclesiastico dell’Enciclopedia Pomba era un tal sacerdote e professore Sciolla. Egli, ci dice con fine ironia il Predari, era costretto “a parlar in piemontese l’italiano per necessità”11. Anche Pomba non evitò i danni del regime poliziesco piemontese. Nel dicembre 1836, quindi un po’ più tardi rispetto al periodo di cui stiamo parlando, fu sequestrata a Genova una partita di 26 esemplari dell’Assedio di Firenze del Guerrazzi, e fu appurato che il destinatario della spedizione era appunto il Pomba di Torino. Il Pomba stesso fu tratto in arresto e inviato senza processo per un mese nella cittadella di Alessandria, con il consenso di re Carlo Alberto. La mancanza di processo, paradossalmente, va interpretata come uno speciale riguardo nei suoi confronti, messo in atto
10 11
F. Predari, I primi vagiti della libertà italiana in Piemonte, Milano, Vallardi, 1861, p. 19. Ibid., p. 24.
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casa editrice e alle scelte che caratterizzarono meglio la politica editoriale di Giuseppe Pomba: penso alla genesi del Dizionario di Tommaseo, cioè alla genesi del grande vocabolario da lui voluto e in parte progettato, che ora conosciamo nel dettaglio. Sappiamo che nell’ideazione l’editore si preoccupò di indicare la necessità dell’aggiornamento delle voci scientifiche, e probabilmente cercò di introdurle anche scavalcando gli interessi più limitati propri del Tommaseo, che dirigeva l’opera. Nell’aspirazione a stampare testi di scienza nella “Biblioteca popolare”, dunque, potremmo riconoscere l’ambizione e il gusto di un imprenditore moderno e sensibile al mutare dei tempi, anche se in questo caso alle prese con le difficoltà di un mercato non propriamente maturo e per nulla favorevole a questo genere di esperimento, tanto che decretava il successo clamoroso di libri come l’Imitazione di Cristo e il fallimento del Gioia, del Milizia e dell’astronomia del Cagnoli. Nonostante ciò, la “Biblioteca popolare” proseguiva, e proseguiva bene. Nel 1829, troviamo, nella Classe III, dedicata alla Storia, la Guerra di Fiandra del Bentivoglio, le Rivoluzioni d’Italia, cioè il libro più celebre di Denina, uno dei pochi che non destasse qualche fastidio a Torino; nella Classe IV, troviamo il Governo della famiglia del Pandolfini a cura di “C. B.” (che suppongo sia Carlo Botta), la traduzione dell’Iliade già menzionata, le Tragedie e le Scelte poesie liriche del Monti, l’Ariosto in sei volumi nel 1830, con la fiera dichiarazione dell’editore di aver stampato per la prima volta questo libro in Piemonte. Forse la dichiarazione era inesatta, se riferita agli annali della tipografia piemontese cinquecentesca: ma era sostanzialmente vera, dunque assolutamente onesta, se riferita ai tempi recenti. Troviamo inoltre, proseguendo nella Classe IV, l’impegnativa edizione in quindici volumi delle Opere drammatiche del Metastasio, dove, nel tomo XIII, annunciava che avrebbe distribuito senza ricarico di prezzo la Frusta letteraria di Baretti stampata da un editore milanese, collegandola quindi alla propria collana con un’operazione che oggi si potrebbe definire di partenariato commerciale. Credo che l’editore milanese fosse il Sonzogno, il quale aveva dato alle stampe il Baretti appunto nel 1829 in una veste grafica popolare analoga a quella del Pomba. Ancora, nel 1832, la “Biblioteca popolare” proseguiva con la Guerra dell’independenza degli Stati uniti d’America del
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Botta, che dal 1809 aveva avuto diverse ristampe, da ultimo anche a Milano, ma che poteva essere orgogliosamente annunciata come “prima edizione torinese”, così come del resto l’Ossian tradotto da Cesarotti, che fu dato alle stampe nello stesso anno. La “Biblioteca popolare” è stata molto celebrata, specialmente dai cultori di cose piemontesi, e diversi volumi della collezione risultano effettivamente nuovi per l’editoria di Torino, dunque il merito dell’impresa appare innegabile, e tuttavia, nel bilancio complessivo, specialmente se si raffrontano i risultati con quelli della Lombardia, è impossibile non misurare una notevole arretratezza della cultura piemontese. Questo è il vero sfondo del successo del Pomba. Questa arretratezza regionale, su cui non mi pare gli studiosi abbiano molto insistito, fa sì che l’attività dell’editore spicchi ancor più nella sua apparente vitalità. Si vede bene che Pomba se ne avvantaggiava: le sue scelte editoriali erano in fondo abbastanza facili e prevedibili, al traino di quelle già compiute da altri a Milano negli anni precedenti. Anche gli autori moderni che entrano nel catalogo sono quelli di Milano (Monti, Manzoni), mentre persino i piemontesi, come il Baretti, arrivano a volte proprio attraverso edizioni milanesi: così la Frusta letteraria del Sonzogno, con l’operazione che ho definito di ‘partenariato’. I collaboratori piemontesi sono ancora pochi e modesti, quasi mediatori culturali di secondo piano, non esclusivamente legati al Pomba, come quel prete Robiola che cura il Dante e il Petrarca, peraltro opere per nulla originali, visto che si tratta di versioni già messe in commercio, perché il Dante era quello settecentesco di Pompeo Venturi, e il Petrarca era quello, pur senz’altro pregevole, realizzato nel 181920 a Padova dal celebre collezionista e filologo Antonio Marsand. Dunque tutte queste opere sono nate altrove, e altrove ripescate per essere inserite nella torinese “Biblioteca popolare”, la quale si presenta visibilmente come una raccolta eterogenea, priva di un chiaro indirizzo, frutto di contaminazione tra antico e moderno, con una considerevole confusione di generi, dal libro religioso a quello storico, al romanzo moderno, alla divulgazione della scienza, e tutto all’insegna di una moda piuttosto superficiale, che senza dubbio a volte metteva a segno buoni colpi, più con logica di profitto e con intuizione commerciale che con un progetto. In definitiva, tentava di far leva sulla celebrità di alcuni autori sicuri, antichi o moderni
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Come si sarà notato, parlando della “Biblioteca popolare” ho fatto riferimento sempre e solo alle scelte del Pomba, mentre ho trascurato di parlare del livello filologico dei testi, del loro allestimento attraverso collaboratori esperti. La storia della collana si identifica insomma più con la storia di un editore che con le vicende della filologia. Questo è un dato caratteristico che emerge come conseguenza di quanto dicevo poco fa: Pomba lega, sotto la veste grafica della sua collana popolare, una serie di soggetti eterogenei, moltiplica pretestuosamente le categorie o “Classi”, come usa chiamarle, avvia proseguimenti con il nome di “Serie”, visibilmente solo con l’intento di mantenersi agganciato al pubblico degli associati, il suo pubblico, che solo di rado, nel caso dei libri scientifici e pratici, non ha risposto come previsto all’appello. Di questi associati, alla fine del 1829, nel XIII tomo del Metastasio, aveva anche promesso di stampare un elenco dettagliato, e per questo aveva sollecitato i nominativi di coloro che si erano associati presso i Regi Uffici della Posta (ciò che farebbe pensare che la posta non servisse solo come canale di trasporto verso il nuovo pubblico, ma proprio come canale commerciale, anticipando un’invenzione che potevamo credere modernissima, come gli Shops di recente inventati per rinnovare l’immagine delle Poste Italiane S.p.A.). Nel complesso, le tirature furono altissime15. Si parla (e sembrano cifre incredibili) di un milione di volumi in due anni, come confermerebbero i dati di Brofferio, che lavorava su appunti del Pomba, e come conferma Davide Bertolotti nella Descrizione di Torino del 1840 (Torino, Pomba, 1840), libro che in sostanza è una guida della città, con interessanti tabelle simili a quelle degli almanacchi, con i pesi e le misure in uso, gli orari e costi delle diligenze e le indicazioni di tutte le destinazioni raggiungibili mediante le varie messaggerie e velociferi; un libro, insomma, con le bellezze artistiche e le descrizioni storiche, ma anche ricco di numeri e dati, tra i quali si trovano le cifre della produzione libraria e le indicazioni degli editori attivi nella città.
15
I dati sono forniti da Firpo, op. cit., p. 64.
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Un’apposita tabella (p. 354) elenca le Opere stampate a maggior numero di copie in Torino dal 1830 al 1840, in riferimento a undici editori. Al Pomba venivano ascritte le 10.000 copie dei 100 fascicoli della “Biblioteca popolare”, per un totale di un milione di uscite, contro i 108.000 volumi complessivi dei “Classici latini”, con un risultato che si poteva confrontare con i massimi successi dell’editoria torinese di quegli anni, cioè la Vita di Napoleone figurata edita dal Fontana, e il “Teatro universale” del Magnaghi. Il “Teatro universale”, fra l’altro, era proprio una delle collane popolari che facevano concorrenza alla “Biblioteca” del Pomba. Probabilmente il “milione di volumi” è un concetto inesatto, troppo ottimistico, perché va in realtà riferito alle uscite (dispense o fascicoli) che compongono i volumi e le opere, ma si tratta in ogni modo di un successo solido e sicuro. Curiosamente, il Bertolotti si premurava di commentare i dati segnalando che molte delle opere in elenco, proprio le più vendute, erano “cose per molti lati meschine” (p. 355), ma che molte volte il successo commerciale arrideva proprio alle opere meno importanti, e la statistica aveva senso solo dal punto di vista “commerciale”: egli rivelava in questo modo un’attenzione al mercato che precorreva il gusto moderno, ma si preoccupava di segnalare che tra le cose più importanti uscite a Torino in quegli anni, ovviamente con scarsissimo smercio, c’erano libri di scienza di prim’ordine: e non si può certo dare torto a quest’indicazione, validissima, perché segnalava la Théorie de la lune del Plana, magnifica opera di scienza scritta in francese, e la Fisica de’ corpi ponderabili di Amedeo Avogadro, libri che ancora oggi vengono celebrati come fondamentali, tutti impressi dalla Stamperia Reale. Mi sia concesso ricordare questo giudizio del Bertolotti, in un libro edito dal Pomba medesimo, intanto a riprova che, pur facendo i conti e concludendo buoni affari, si sapeva pur giudicare sulle cose davvero importanti, e in secondo luogo per consolarci, oggi che ci troviamo a vivere, in maniera ancora più drammatica e senza la medesima chiarezza di idee, il conflitto tra i libri di successo e i libri di qualità. Il problema, tuttavia, esisteva già nella prima metà dell’Ottocento, se diamo retta a queste interessanti affermazioni del Bertolotti. Firpo, che è dovizioso di osservazioni sulle due prime serie della “Biblioteca popolare”, e che ci accompagna con ricchezza
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di particolari fino al 1832, non si è invece interessato della prosecuzione della collana a metà del secolo. A me sembra che i volumi allora proposti, anche se non appartengono alla serie ‘eroica’ degli esordi e alla sua fortunata ascesa, mostrino una produzione più matura e completa. Anche gli annali del Pomba del Bottasso non ci aiutano più, perché si fermano al 1849. Invece intendo riferirmi brevemente a edizioni che risalgono al periodo 18511854, ricorrendo, in mancanza di un catalogo organico, alle preziose indicazioni pubblicitarie e promozionali che si rintracciano sulla quarta di copertina di diversi volumi del Pomba, dove sono elencati i libri di quella che si chiamò “Nuova biblioteca popolare ossia Raccolta di opere classiche antiche e moderne di ogni letteratura”. Gli elenchi di titoli posti sulle copertine a scopo promozionale permettono di verificare la consistenza della collezione. Sono utili anche le note editoriali non di rado anteposte ai volumi, le quali, secondo una tradizione già presente nella prima serie della collana, ci fanno sentire direttamente la voce dell’editore, il quale dà ragione in prima persona delle scelte compiute: come ho già detto, la presenza dell’editore, non inteso nel senso filologico, ma nel senso tipografico-commerciale, è vivissima nella “Biblioteca popolare”. La “Nuova biblioteca popolare”, di formato più grande, si caratterizza per un numero ancora più elevato di “Classi”. Ne avevamo incontrate quattro nella prima “Biblioteca”, con denominazioni oscillanti anche in brevissimo lasso di tempo, tanto da far pensare ad adattamenti di comodo introdotti di volta in volta per giustificare il contenuto del singolo libro e la sua presenza nell’eterogenea collana, e qui le riepiloghiamo: la “Classe prima – Religione”, in cui entrarono due opere, la citata Imitazione di Cristo che aprì la collana, e il volgarizzamento del Trattato della coscienza di San Bernardo, nel 1830; la Classe seconda “Letteratura”16; la Classe
16
Vi entrarono anche il teatro, i tragici greci tradotti, e i “romanzi”, come si legge sulla copertina del Manzoni del 1829; cfr. le schede di Bottasso, op. cit., pp. 103 e 105.
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terza “Storia”, poi diventata “Storia – Biografia”, che comprese anche gli “Storici greci tradotti”; la Classe quarta di “Scienza ed arti”, che riprendeva il soggetto della fallita “Serie seconda” in cui era entrato il Gioia prima del sequestro, che comprendeva la “Scultura, pittura ed architettura” (così sulla copertina del Milizia), e anche le “Scienze: astronomia”, come si legge sulla copertina del Cagnoli. La “Nuova biblioteca”, invece, arrivò a contare dodici “Classi”, che non sono in grado di definire tutte, perché di alcune non si riesce a ricavare il nome. Nel caso di alcune Classi, non sono stato capace di individuare eventuali libri pubblicati, ammesso che davvero tutte le Classi avessero poi effettiva realizzazione. Le Classi certe, comunque, sono “Storia” (la seconda), “Biografia” (la terza), “Politica” (la quarta), “Novelle e romanzi” (la quinta), “Teatro” (la sesta), “Poligrafia” (l’undicesima), “Storia letteraria” (la dodicesima ) in cui trovò posto il Corniani-Ugoni aggiornato da Francesco Predari, che aveva diretto dal 1844 l’Enciclopedia popolare di Pomba. Alcune Classi nascevano dunque dalla suddivisione delle sotto-categorie già introdotte nella prima “Biblioteca popolare” (è il caso della “Biografia”, che a suo tempo era stata parte della Classe “Storia”). Nel complesso, anche quest’ampia nuova categorizzazione sembra elaborata per lasciare mano libera all’editore, che, con maglie così larghe, poteva pubblicare in sostanza tutto ciò che voleva. Anzi, in questa “Nuova Biblioteca” cadde (lo dimostra già il titolo “opere classiche antiche e moderne di ogni letteratura”) l’unico vincolo che era stato esplicitamente posto nella prima: quello delle opere straniere. Infatti uscirono La guerra dei trent’anni di Schiller, Klopstock, la Storia d’Inghilterra del Macaulay, tutto Shakespeare tradotto da Carlo Rusconi, le opere di Byron. Come ho detto, questa “Nuova Biblioteca” pare molto più vivace e interessante della prima, pur se gli studiosi della storia della casa editrice Pomba non le hanno dedicato la medesima attenzione, anche per il fatto che il grande padre Pomba, cioè Giuseppe, non era più solo in questo periodo al timone della sua azienda: il governo era passato a Luigi Pomba, che gli era cugino, e divenne genero e anche figliastro. Firpo ha scritto di lui che era “un signore di modi squisiti, di superiore cultura, d’una dolcezza affabile che attirava la simpatia, ma non possedeva del suocero né l’inventiva ribollente né la durezza pertinace del
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realizzatore”17. Non so se il giudizio sia calzante, anche se vi vedo il rispecchiamento di un uomo come Firpo, che certo per carattere si doveva sentire più vicino a Giuseppe che a Luigi, alla durezza pertinace piuttosto che ai modi squisiti. Di fatto, però, Firpo ci avverte che certe scelte fondamentali della casa editrice, come la realizzazione del Dizionario di Tommaseo, ebbero come protagonista ancora Giuseppe, anche se non era solo sul ponte di comando, e anzi dal 1858 non ebbe manco più un seggio nel Consiglio di amministrazione della casa editrice che nel frattempo, dal dicembre 1854, aveva cambiato nome, acquisendo nuovi soci e diventando la Unione Tipografico-Editrice, da “Cugini Pomba” che era prima. Però, come ho detto, la “Nuova Biblioteca popolare” si colloca tra il 1851 e il 1854, quindi ancora in un periodo in cui la presenza di Giuseppe doveva pesare, pur a fianco del più colto Luigi. I libri che uscirono tra il 1851 e il 1854 nella “Nuova biblioteca popolare” sono dunque più notevoli dei precedenti, e forse ciò non si deve tanto all’influsso di Luigi o a una crescita culturale di Giuseppe Pomba, quanto al mutare delle condizioni politiche in Piemonte, per il venir meno, finalmente, dell’opprimente censura che aveva limitato e sacrificato la cultura fino alla Costituzione del 1848. Confesso che è un’impressione che ho avuto subito, fin da quando ho scorso per la prima volta sulle copertine (in mancanza di un repertorio più completo) la lista dei titoli pubblicati e progettati, e mi ha fatto piacere trovarne conferma nella nota editoriale anteposta al volume che apre la “Nuova Biblioteca”, cioè La vita di Alfieri, proposta nell’edizione dello scrittore e uomo politico Achille Mauri, scelta proprio perché apparteneva alla categoria di quelle opere “che non erano un tempo permesse, cioè quando esisteva la Censura, siccome è questa, che non fu mai pubblicata nella patria dell’autore” (così la nota editoriale). In effetti, la Vita non era mai stata pubblicata in Piemonte, evidentemente perché troppo esplicita nei giudizi verso le autorità piemontesi e severa nel parlare della città. Lo Statuto albertino del marzo 1848, al-
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Firpo, op. cit., p. 161.
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l’articolo 28, aveva finalmente stabilito la libertà di stampa, cioè l’abolizione della censura preventiva, quella che aveva impedito la pubblicazione della Vita di Alfieri e di molte altre opere in Piemonte, tanto che ora il catalogo poteva apparire profondamente rinnovato e assai più varia e vivace l’attività della casa editrice nella “Nuova Biblioteca popolare”. Per la verità, anche la stampa di quella Vita di Alfieri non poteva essere definita una novità, perché l’edizione del Mauri era stata proposta nel 1848 da ben due editori di Milano, Serafino Majocchi, e Borroni-Scotti. Uscì anche un’edizione delle opere del Pellico, nel 1852, con Le mie prigioni e gli articoli del “Conciliatore”. Ma Pomba riuscì finalmente ad andare oltre: opere notevoli si ebbero nella sezione politica, opere in cui finalmente si puntava sulla cura filologica, opere appositamente progettate, non solo attinte al catalogo di altri editori. Così La congiura dei baroni di Domenico Porzio (1852), annunciata come “prototipa per l’esattezza della correzione e per essere a cura dei medesimi [i curatori Giordani, Ambrosoli e Scarabelli] ricondotta alla sua vera lezione”, e soprattutto, a cura dello stesso Scarabelli, le Istorie fiorentine di Scipione Ammirato (1853), presentate con una nota critica del curatore che dava conto del modo con cui aveva proceduto a sistemare il testo; e ancora le Lettere politiche del Bentivoglio, così annunciate18: Per cura del professore Scarabelli prepariamo alla Biblioteca popolare questi due volumi di Lettere politiche del Cardinale Guido Bentivoglio, inedite affatto, e d’importanza grande alla Storia, essendo in esse espressi assai fatti che mancano alle Relazioni che di lui si hanno alla stampa. È noto che del Cardinale esiste una edizione di lettere di quasi niun conto, date più per saggio di lingua e di stile che d’altro. Queste di che orniamo ed arricchiamo la Biblioteca non hanno a far nulla con quelle, e servono mirabilmente alla lingua ed alla politica.
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Il passo che segue si legge nella quarta di copertina del volume di Riccardo Moll, Storia d’Italia dal 1814 al 1851 in continuazione del Sommario di C. Balbo, Torino, Pomba, 1852. Tale volume non fa parte della “Nuova biblioteca popolare”, ma reca l’indicazione dei primi titoli.
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La Biblioteca si arricchì anche di un Principe di Machiavelli, opera che – si noti – non era stata mai stampata a Torino prima del 1848. Cadute le censure preventive, più d’uno tra i tipografi di Torino si era gettato su quel ghiotto boccone. In particolare Federico Crivellari, con molto tempismo, lo fece uscire nel 1849 come primo titolo della “Piccola biblioteca democratica”; Crivellari era un editore minore, che alla ricerca nel catalogo on line ICCU risulta aver stampato in tutto 32 titoli tra il 1849 e il 1850, molti di argomento politico; venne poi la torinese Tipografia economica nel 1852 (una casa editrice attiva fino ai primi anni del Novecento), che unì il Principe ai Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, stesso anno del Pomba, e anche identico l’abbinamento Principe - Discorsi, a cui però Pomba aggiunse i giudizi di Foscolo e di Cuoco sul Machiavelli. Aveva scelto di riprodurre l’edizione data a Firenze dal Le Monnier, curata dall’erudito e filologo Filippo Luigi Polidori, un liberale marchigiano con frequentazioni toscane (Vieusseux e Capponi), che nel 1863 pubblicò gli statuti di Siena e nel 1864 il Tristano della biblioteca Mediceo-Laurenziana, dunque filologo degno di questo nome. Ancora più interessante mi pare la proposta (nel 1854) delle opere di Campanella, curate in due volumi dal giovanissimo D’Ancona, presentato dal Pomba con l’elogio che segue: “il sig. Alessandro D’Ancona prese a svolgerle [le questioni critiche relative a Campanella] in un lungo suo Discorso, […] e con quanto ingegno, dottrina e critica egli le abbia trattate, malgrado la giovanissima sua età di 18 anni, non sta a noi il dire, che potremmo venir tacciati di parzialità”. I Pomba annunciavano in questa stessa nota editoriale di avere in programma un’edizione anch’essa in due volumi delle opere di Giordano Bruno, ma non mi risulta (se non vado errato) che questo progetto di abbinare i due dioscuri dell’opposizione al clericalismo romano abbia avuto seguito. D’Ancona, per il suo Campanella, si era appoggiato in parte alle edizioni già disponibili, pur sapendo che non erano affatto perfette. Il primo dei due volumi conteneva l’ampio saggio introduttivo del D’Ancona, di ben 320 pagine, seguito da una serie di documenti, dal giudizio di Herder sui versi di Campanella (Herder ne era stato il traduttore tedesco), e dalle poesie filosofiche, riprese con molte correzioni dall’edizione che ne aveva dato Gaspare Orelli in un libro uscito a Lugano nel 1834
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con il commento di Tobia Adami. D’Ancona si serviva di questa edizione, pur criticandola per i suoi rilevanti difetti filologici. Il secondo volume conteneva gli aforismi politici curati da Iacopo Ferrari sulla base di due manoscritti parigini, e annotati dal D’Ancona, che dichiarava anche di aver riscontrato il testo con quello latino e con un codice della Laurenziana. Seguivano i Discorsi politici ai principi d’Italia, ricavati dal D’Ancona dal solo codice Magliabechiano VIII, 6, tralasciando due codici parigini, di cui dava tuttavia notizia pur senza averli visti. Il secondo volume proseguiva con il trattato Della monarchia di Spagna anch’esso dal solo codice magliabechiano, confrontato con il testo latino, tralasciando i manoscritti francesi di cui dava notizia riprendendone la menzione dal Marsand. Venivano poi la Città del sole e Sopra l’aumento delle entrate del Regno di Napoli che il marchese Luigi Dragonetti aveva ricavato da un codice della Casanatense di Roma. Luigi Firpo, nella voce Campanella del Dizionario Biografico degli Italiani, poteva ancora ricordare che il testo originale italiano della Monarchia di Spagna era stato pubblicato una sola volta, proprio nell’edizione Pomba del 1854 curata dal D’Ancona. Nel 1852 i Ricordi di Guicciardini entravano in un volumetto di trattati politici assieme al Savonarola, a Lorenzino de’ Medici e a Bartolomeo Cavalcanti, ad arricchire la quarta serie dedicata a questa materia. Posso citare inoltre due opere di successo entrate nella “Nuova biblioteca popolare”, sebbene tra loro assolutamente diverse (a riprova dell’eterogeneità anche di questa nuova collana del Pomba) come L’Italia avanti la conquista de’ Romani del Micali e Dei delitti e delle pene del Beccaria, nella versione che ritraduceva in italiano la traduzione francese (modificata non poco rispetto all’originale), la quale aveva avuto grande successo, più dell’originale medesimo, e aveva fatto conoscere in Europa questo capolavoro dell’illuminismo italiano. Filologia a parte, per quanto benvenuta, non dobbiamo dimenticare l’aspetto commerciale, frutto dell’accortezza dell’imprenditore. Il costo basso della “Nuova biblioteca popolare” era pur sempre motivo di vanto e veniva esibito come elemento di forza. La “Biblioteca” veniva indicata come “al massimo buon prezzo”, e tale prezzo imbattibile veniva specificato in centesimi 25 per ogni 80 pagine a Torino, con un lieve sovrapprezzo di 5 centesimi
5. I classici della “Biblioteca popolare” Pomba
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se l’acquisto era fatto in provincia, e con un sovrapprezzo di 10 centesimi nel resto d’Italia19, sovrapprezzo che sembra modesto, ma che ammonta a circa il 50% del costo del libro, il che non è poco, e anzi dà un’idea di quanto la divisione dell’Italia pesasse sulla circolazione delle merci e quindi sullo sviluppo dell’industria nazionale. In questa nuova serie della “Biblioteca popolare”, le note editoriali firmate dai “cugini Pomba” non mancano di far riferimento più volte al costo ridotto dei libri, che evidentemente stava loro molto a cuore. L’argomento era stato infatti avanzato fin dal primo volume, la Vita di Alfieri del 1851, che nell’edizione milanese – come scrivevano i cugini Pomba – “elegante e bella, costa lire sei, e non è quindi accessibile a’ lettori meno facoltosi; mentre invece la nostra, non affatto inelegante e corretta, viene a riuscire ad un prezzo tanto tenue che mai fu”; si ritrova l’argomento economico nella presentazione della Storia d’Italia del Botta, annunciata “in una edizione popolare per un prezzo tenuissimo, tanto che mai editore nessuno a tale il restrinse, bella però sufficientemente ed esattamente corretta”. Nella Vita di Sisto V del Leti, poi, stampata nel 1852, questo intento di apostolato culturale tra le classi meno abbienti si precisa ancora meglio, perché i cugini Pomba denunciano la “vergogna per gli’Italiani, che tanti tesori della loro letteratura, quale per un verso e quale per l’altro, vadano dispersi e quasi smarriti”, a differenza di quanto accade ai francesi, che curano la memoria dei loro Rabelais, Amyot, Ronsard e Montaigne. In questo caso, però, il discorso non va a parare nel solito topos del costo, ma torna invece il vincolo esplicitamente denunciato fin dalla presentazione della Vita di Alfieri, perché “a questa incuria e trasandatezza”, cioè all’oblio di alcuni nostri classici, “c’indussero o le proibizioni di Roma, o quelle che a particolari governi dettavano le misure politiche a questi confacenti”: ancora una volta, dunque, il tema della libertà e della censura, a cui Pomba si dimostrava sensibile, perché probabilmente la sua attività di editore negli anni Trenta dell’Ottocento ne era stata pesantemente
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Così nella citata quarta di copertina della Storia d’Italia del Moll.
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condizionata, più di quanto comunemente si creda: ed è per questo che non mi pare giusto giudicare la “Biblioteca popolare” senza confrontarla con la “Nuova biblioteca popolare”.
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La poca italianità è sempre difetto grave in una legge italiana, scusabile, in parte, se si pensa che in Piemonte, massime nelle classi colte, era usato più il francese che l’italiano, che le discussioni dei Consigli di Conferenza nei quali fu formulato lo Statuto, avvenivano in francese e che, verosimilmente, lo Statuto stesso fu scritto in quella lingua, e dopo tradotto in italiano.
Questa ricostruzione autorevole delle caratteristiche linguistiche dello Statuto e delle modalità nella sua composizione ha fatto testo, anche perché nessuno meglio di Zanichelli conosceva i verbali dei Consigli di Conferenza, l’organo presieduto dal Re Carlo Alberto nel quale si era decisa la necessità dello Statuto e dove esso aveva preso forma. Proprio allo Zanichelli va il merito della prima pubblicazione ampia (anche se non completa e non integrale) dei verbali di quel Consiglio, dopo che il barone Manno ne aveva fatto conoscere una parte. Zanichelli aveva dunque tutte le carte in regola e una magnifica competenza per parlare dello Statuto tenendo conto delle fasi segrete della sua elaborazione. Anche per questa ragione, la sua diffidenza nei confronti della qualità linguistica dello Statuto medesimo è stata condivisa da tutti coloro che si sono occupati dell’argomento, fino agli interventi a noi più vicini, che ripetono costantemente la medesima tesi, o persino la accentuano. Luigi Ciaurro, capo-gabinetto del Ministro per le riforme istituzionali e prefatore di un volume importante sullo Statuto Albertino, citava un passo del giurista Luigi Rossi (1867-1941, che fu ministro delle Colonie e della Giustizia negli anni ’20 del Novecento), tratto da una miscellanea in onore di Santi Romano, nel quale lo Statuto medesimo era definito “inorganico, ineguale, mal tradotto”, tanto da non poterlo dire “un’opera di arte o di scienza”, “scritto spesso in una lingua più allobroga che
Ibid., p. 145. Cfr. D. Zanichelli (a cura di), Lo Statuto di Carlo Alberto secondo i processi verbali del Consiglio di Conferenza dal 3 febbraio al 4 marzo 1848, Roma, Dante Alighieri, 1898.
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Cercherò di svolgere la tesi contraria, al fine di dimostrare che l’idea secondo la quale lo Statuto del 1848 sarebbe nato integralmente in francese è fondata su di un pregiudizio sviluppato nel clima del montante nazionalismo linguistico di fine secolo, unito al disprezzo per la lingua burocratica e cancelleresca, accentuato dall’antifrancesismo che si sviluppò con continuità dalla fine dell’Ottocento al fascismo, raggiungendo il culmine con la dichiarazione di guerra alla Francia, e di cui altri segni ben noti a chi pratica la storia linguistica sono le battaglie per la limitazione dell’uso del francese e della toponomastica locale nelle valli piemontesi e nella Valle d’Aosta, iniziate da Vegezzi Ruscalla nel 186110. La tesi della scarsa italianità dello Statuto fa inoltre parte di una generale svalutazione dello Statuto medesimo che raggiunse il culmine appunto durante il ventennio fascista, e gli argomenti linguistici portarono acqua a questo mulino11. La mia relazione scavalcherà queste interpretazioni, cercando di dimostrare che esse sono datate e politicamente interessate, e proporrà un’immagine più complessa e articolata dell’elaborazione linguistica dello Statuto, che è stata descritta in maniera (involontariamente) riduttiva da studiosi poco attenti alle reali condizioni linguistiche e culturali del Piemonte sabaudo, tanto ignari delle sue tradizioni fino a stupirsi, in perfetta buona fede, come accade al pur ben documentato Ciaurro (il cui saggio rappresenta un contributo tra i migliori esistenti), per il fatto che al sorgere dell’Italia costituzionale si situano le riunioni di un organo collegiale [quello che appunto diede il via libera alla Statuto] che si svolgevano in francese e che venivano verbalizzate in tale lingua, quando invece le riunioni del Consiglio municipale di Torino già in quell’epoca si svolgevano e si verbalizzavano in lingua italiana12.
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Cfr. P. Addeo, Lingua e Statuto, in “Lingua nostra” II (1940), p. 133. Per questa svalutazione nel periodo fascista, cfr. Ciaurro, Introduzione cit., p. 43, nota 61 (senza però che lo studioso la colleghi ai temi linguistici). Ibid., p. 58.
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Tuttavia il confronto tra Consiglio di Conferenza e Consiglio municipale non è determinante, se si pensa che le verbalizzazioni degli ordinati del Comune di Torino, cioè appunto i verbali del consiglio comunale della città, sono in italiano fin dal XVI secolo, fin dal 16 dicembre 1562, un po’ in ritardo rispetto agli editti di Emanuele Filiberto, perché i Francesi erano usciti da Torino solo il 12 dicembre di quell’anno. Si può dire, dunque, che la lingua di corte da molto tempo era diversa dalla lingua amministrativa. Il medesimo studioso assume come prova di “ambiguità linguistica” il fatto che lo Statuto albertino fosse pubblicato, il 5 marzo 1848, in francese a Chambéry e in italiano a Torino, cioè in due lingue diverse in due luoghi diversi. Anche in questo caso, non si tiene conto delle reali condizioni degli stati sabaudi e delle norme giuridiche allora vigenti. Nella doppia pubblicazione non c’è alcuna ambiguità, ma semplicemente l’ossequio a una regola stabilita dagli editti cinquecenteschi di Emanuele Filiberto, in base ai quali le norme e le leggi dovevano essere date in italiano di qua dai monti, e in francese di là dai monti. Si noti che il bilinguismo dello stato sabaudo, assolutamente stabile per secoli, venne confermato, seppure con significativa attenuazione, anche nello stesso Statuto albertino, come vedremo tra poco. Cito questi due fatti per mostrare come il velo costituito dal sentimento nazionalistico abbia impedito di vedere e interpretare correttamente fatti che di per sé si presentavano con assoluta chiarezza, se letti in chiave di bilinguismo perfettamente funzionante e legale. Del resto lo stesso Ciaurro, pur dopo avere accolto la versione tradizionale della scarsa italianità, aveva avuto qualche sentore degli eccessi dell’interpretazione nazionalistica, pur senza scrollarsene il fardello di dosso: gli sembravano infatti “ingenerosi” certi giudizi risentiti risalenti agli anni ’20 del Novecento, come quello di Paolo Negri sul “francese povero e disagiato, informato alla rigidezza burocratica” e quello di Racioppi e Brunelli sull’“aridità della prosa burocratica dei verbali”13. Credo che in
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Cfr. le citazioni di P. Negri, Genesi ed elementi fondamentali dello Statuto Carlo albertino, in “Il Risorgimento Italiano”, fasc. I-II, 1924, p. 782 e di Racioppi e Brunelli, op. cit., p. 17, riportate da Ciaurro, Introduzione cit., p. 58.
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questo caso avesse pienamente ragione e cogliesse il punto che a noi conviene sviluppare. La prova in virtù della quale nego che lo Statuto sia stato scritto prima in francese, poi sistematicamente tradotto in italiano con operazione successiva e posticcia, sta nei verbali del Consiglio di Conferenza, l’organo presieduto da Carlo Alberto e composto dei suoi ministri, allargato a una serie di autorevoli personalità nella fatidica e lunghissima seduta del 7 febbraio da cui uscì il Proclama che annunciava lo Statuto. È ben vero che i verbali sono in francese, ottimamente scritti da un verbalizzatore preciso, abilissimo nel dare conto delle discussioni, nella persona del Radicati, il quale operava così bene da far pensare ad appunti stenografici14. La perfetta leggibilità di questi verbali sta a testimoniarlo, ed è vero che il testo risulta in francese. Tuttavia questa compattezza del francese si incrina proprio quando la seduta del 7 febbraio si fa via via più concitata, dopo che ormai la necessità dello Statuto è accettata da tutti i presenti, con le debite diverse opposte sfumature da parte dei più conservatori e da parte dei più liberali (la verbalizzazione tende a livellare gli interventi, ma non al punto che le differenze non restino visibili), quando si cominciano a indicare i contenuti delle nuove norme costituzionali.
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Non so se sia provato l’uso di stenografia a corte, e la mia è dunque una semplice ipotesi tutta da verificare. La stenografia non era comunque ignota allora in Italia e a Torino. Il sistema del Taylor era stato tradotto anche in lingua italiana: cfr. E. Amanti, Sistema universale e completo di stenografia o sia maniera di scrivere in compendio applicabile a tutti gli idiomi inventato da S. Taylor adattato alla lingua italiana, Parigi, Dien per conto di E. Amanti, 1809. E, per Torino, cfr. F. Delpino, Sistema di stenografia italiana ovvero esposizione dell’arte che rende la scrittura celere, Torino, Reycend, 1819 (commentato da S. Pellico, Prose, Firenze, Le Monnier, 1851, pp. 487-90). Il Delpino, genovese, aveva allora una scuola di stenografia a Torino. Nel 1848 la camera dei Pari di Sicilia si preoccupava (seduta del 12 ottobre 1848) di cercare uno stenografo dall’estero: cfr. Atti autentici del parlamento generale di Sicilia, Palermo, Dalla Stamperia del Parlamento, ottobre 1848, p. 105.
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Si dovrebbe forse prima di tutto spiegare perché fu assunto il termine di Statuto, non quello di Costituzione. Sono state date diverse risposte da vari studiosi. Basterà far notare che, nell’elenco delle denominazioni delle leggi fondamentali emanate a partire dalla Costituzione della Repubblica Cispadana del 1797, si trova quasi sempre il termine Costituzione usato da stati ordinati in repubblica, pur con le eccezioni del meridione d’Italia, Sicilia e Napoli. Il termine Statuto, per contro, non ebbe questo carattere prevalentemente repubblicano, tanto è vero che lo si trova a partire dagli Statuti costituzionali dell’età napoleonica fino allo statuto di Leopoldo II di Toscana15. Carlo Alberto, emanando lo Statuto, voleva soprattutto salvaguardare appieno l’istituto monarchico. Fino al 7 febbraio, nel Consiglio di Conferenza tutti parlano di
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Cfr. la rassegna di da G. Urtoller, Lo statuto fondamentale del Regno d’Italia annotato, parte I, Cesena, Libreria Gargano, 1881, pp. XVILXVI; l’elenco di Ciaurro, Introduzione a Lo Statuto Albertino cit., p. 16 nota 3; e anche il sito http://www.dircost.unito.it/cs/paesi/italia.shtml. Ciaurro, op. cit., pp. 44-45 mostra come il termine Statuto non sia neutrale, e come Costituzione potesse assumere “un sapore giacobino, se non addirittura un’accezione quasi rivoluzionaria” (Ibid., p. 45). Interessante il suggerimento del DELI (M. Cortelazzo – P. Zolli, Dizionario etimologico della lingua italiana, II ed. in vol. unico a cura di M. Cortelazzo e M. A. Cortelazzo, Bologna. Zanichelli, 1999, p. 1609), che s.v. “statuto” cita un passo da un Dizionario politico, nuovamente compilato ad uso della gioventù italiana, Torino, Pomba, 1849, nel quale si afferma che la parola Costituzione fu scansata per evitare confusione con la tradizione giuridica locale, nella quale il termine aveva un significato diverso, indicando il codice civile e penale, mentre autori classici come Machiavelli e Cavalcanti avevano usato “statuto” per indicare la “legge fondamentale”. Il dizionario dei sinonimi di Tommaseo introduce la differenza tra statuto e costituzione nella II ed., Milano, Crespi, 1833, nelle giunte, a pp. 597-98: i due termini vengono distinti nettamente, perché lo statuto è un “complesso di leggi municipali”, mentre lo costituzione raccoglie le “massime e consuetudini politiche stabilite dai rappresentanti della nazione”. Nell’ed. quarta milanese, Milano, Rejna, 1859, vol. I, p. 465, la definizione è modificata, e accoglie ormai statuto come equivalente di costituzione a tutti gli effetti.
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dal 2 marzo le cose cambiano decisamente, perché il verbale avverte che “Le Ministre de l’Intérieur passe ensuite à la lecture du Statut traduit en langue italienne”20. E infatti di lì in poi vengono esaminati solo articoli in italiano, non più in francese. Credo che proprio questa frase del verbale abbia tratto in inganno alcuni degli studiosi che per primi hanno formulato la tesi della priorità del testo francese. Tuttavia l’interpretazione deve essere diversa, perché abbiamo visto che articoli in italiano erano arrivati alla discussione anche prima del 2 marzo, misti a quelli in francese, cioè fin dal 7 febbraio, come è dimostrato dai due passi citati qui sopra. Se ne deduce che il 2 marzo si decise che l’originale era solo il testo italiano, ma non si può dire che prima di tale data il testo fosse solo e tutto in francese, perché i verbali smentiscono una simile radicale supposizione, che non poggia su alcuna prova, anzi cozza con i dati in nostro possesso. Dal 2 marzo in poi gli articoli in italiano vengono proposti e modificati profondamente nel corso della discussione: mi pare evidente che fu necessario ritradurre in francese quelli che eventualmente erano nati in francese e poi erano stati una prima volta tradotti in italiano, ma in italiano erano stati radicalmente modificati nel Consiglio. Basti l’esempio dell’art. 71, dove “Niuno può essere distolto dal proprio foro” viene corretto su suggerimento del ministro degli Esteri San Marzano e con l’approvazione del Re in “Niuno può essere distolto dai suoi giudici naturali”21. Oppure si pensi, nella seduta del 4 marzo, in cui viene licenziato il testo definitivo, all’art. 19 (da questa seduta i riferimenti sono ormai ai numeri degli articoli propri del testo definitivo), nel quale la dicitura originale viene profondamente corretta con elencazione dei beni, “Reali Palazzi, Ville e Giardini e dipendenze, nonché di tutti indistintamente i beni spettanti alla Corona”22, dove pri-
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Ibid., p. 123. Ibid., p. 125. Ibid., p. 129, poi diventato nella versione definitiva dello Statuto: “Reali palazzi, ville, e giardini e dipendenze, non che di tutti indistintamente i mobili spettanti alla Corona” (Ibid., p. 298).
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ma c’era solo un riferimento ai beni mobili, anzi, in francese, ai “biens meubles”23. È singolare che il testo francese ufficiale e definitivo dello Statuto manoscritto (non il testo del verbale, ma il testo dello Statuto vero e proprio), porti una precisazione, inserita in carattere diverso e in lingua italiana: accanto a “maisons et domaines ruraux” viene aggiunto un “ville”24. Ville è in questo caso una parola italiana, il plurale di “villa”, non certo il francese “ville” per “città”, che qui non avrebbe senso alcuno25. Se viene inserita questa giunta, e se questa giunta fa riferimento al termine usato nella versione italiana, è perché la versione italiana ha acquistato un’innegabile priorità, un primato ai fini dell’interpretazione. “Ville”, a mio parere, è la chiave interpretativa per una designazione che in lingua francese non è meglio precisabile, perché manca la parola perfettamente equivalente a “ville” italiano, e resta l’incertezza di che cosa si debba esatta-
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Ibid., p. 129. Ibid., p. 142. Inoltre in francese avrebbe la –s del plurale. Qui la parola è sicuramente italiana. Nel testo originale dello Statuto, che vedo nell’edizione facsimile pubblicata nel 1992 in edizione celebrativa dalla Fondazione San Paolo per la venuta a Torino del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, la parole ville è aggiunta su (pare) abrasione sulla destra del rigo, con carattere e penna diversa, identica a quella usata per le titolazioni del testo francese, che si distaccano dal corsivo inclinato adoperato per gli articoli di legge. Le edizioni a stampa danno questa parola aggiunta o mediante un corsivo tra parentesi (così Negri-Simoni, Lo Statuto Albertino cit., p. 142), oppure mediante un corsivo senza parentesi, di seguito nel testo (così Herausgegeben von Horst Dippel editor in chief, Constitutions of the World from the late 18th Century to the Middle of the 19th Century, Verfassungen der Welt vom späten 18. Jahrhundert bis Mitte des 19. Jahrhunderts, Constitutionals Documents of Italy 1787-1850, Berlin – New York, W. De Gruyter, 2010, p. 252, che vedo però nella versione on line che raggiungo mediante http://books.google. it, con visualizzazione parziale, ma completa relativamente al testo dello Statuto albertino, posto su due colonne con il testo francese e quello italiano). Nessuna delle due soluzioni mi pare ottimale: la parola andrebbe tolta dal testo e posta in nota o apparato con le opportune spiegazioni.
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mente intendere per “maisons e domaines ruraux”, cioè non solo case coloniche e possedimenti agricoli, ma anche nobili case padronali. Fra l’altro l’equivalenza trova conferma nella voce corrispondente del dizionario italiano-francese dell’Alberti di Villanova (proprio in quello italiano-francese, perché nel volume francese-italiano tale equivalenza non si trova). La descrizione fantasiosa di un testo preparato in francese e tradotto in italiano in due fasi ben distinte e nettamente separate dovrebbe a questo punto risultare priva di fondamento, sulla base delle prove fornite. Non intendo dire che il francese non abbia avuto parte nella preparazione dello Statuto: questa tesi sarebbe insostenibile e antistorica. Ma la tesi contraria, fino a oggi prevalente e assunta senza discussioni, è sicuramente falsa. Fino all’ultimo, quando il testo italiano prende finalmente il sopravvento, i verbali mostrano il Consiglio come un luogo di scambio plurilingue, secondo una modalità che forse oggi ci è difficile immaginare, ma che allora doveva essere effettiva e normale. Non vi è dubbio che la corte e la nobiltà, e lo stesso Carlo Alberto, avessero una totale propensione per il francese, che è attestata anche dalla produzione di scritti di alcuni dei membri del Consiglio, ad esempio Des Ambrois de Nevache ministro dei lavori pubblici (le cui memorie in francese furono pubblicate postume, nel 1901, da un editore italiano che, certo per volontà degli eredi del Des Ambrois, si mutò in francese, perché la città di edizione da Bologna divenne “Bologne” e l’editore da Nicola Zanichelli divenne “Nicolas”). Ma nel gruppo degli ideatori dello Statuto, i sostenitori dell’italiano c’erano di sicuro, altrimenti non si spiegherebbe l’inserimento chiaro e indiscutibile dell’articolo 62 dello Statuto, che nella forma definitiva recita: La lingua italiana è la lingua officiale delle Camere26.
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Cito il testo dello Statuto da Ibid., p. 305. Non si troverà più una indicazione del genere nella Costituzione repubblicana.
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Pur con l’aggiunta immediata, in ossequio all’antico bilinguismo, ma attenuandone (si noti) i privilegi tradizionali: È però facoltativo di servirsi della francese ai membri che appartengono ai paesi, in cui questa è in uso, od in risposta ai medesimi27.
Nei verbali non resta traccia della discussione su questo articolo 62, che pure si spiega bene alla luce della premessa che richiama “i vincoli d’indissolubile affetto che stringono all’itala Nostra Corona” il popolo del Regno. Non solo è notevole che la corona sia “itala”, ma anche che il verbo con costrutto di sapore un po’ arcaico “stringere a” nel senso di “legare con vincolo di comune destino” richiami il titolo del primo paragrafo del primo capitolo del celebre trattato Dell’uso e dei pregi della lingua italiana di Galeani Napione, dove si diceva appunto che “La lingua è uno dei più forti vincoli che stringa alla Patria”. Questo riguarda la scelta dell’italianità, che nell’articolo è esplicita, ma che presto non bastò più, tanto che, dalla metà del secolo, questo articolo 62, inviso ad alcuni, provocò diverse discussioni e alla fine cadde in disuso, pur senza essere abolito. È noto comunque che Cavour se ne avvaleva, perché era solito rispondere in francese ai deputati savoiardi. Questo è tuttavia diverso argomento: non più la lingua dello Statuto, ma la lingua del Parlamento subalpino, oggetto, nel 1940, di un intervento di Piero Addeo su “Lingua nostra”, dal titolo Lingua e Statuto, dove lo studioso tocca anche, accidentalmente, la questione della lingua vera e propria dello Statuto, adeguandosi alla tesi ormai vulgata della redazione interamente in francese, senza tralasciare la solita solfa delle “frasi e locuzioni che […] risentono dell’esotica favella”28. In realtà sarebbe ben difficile dimostrare concretamente questo influsso dell’esotica favella, perché semmai lo Statuto risente di una certa elevatezza lessicale non necessariamente puristica, in parole come l’“avvenimento del
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Ivi. Addeo, art. cit, p. 132.
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Re al trono” (arcaico ma toscanissimo) o l’isquittinio per “scrutinio dei voti” (qui con la i- prostetica; anche se la forma toscana era piuttosto squittino: ma un linguista autorevole come Giovanni Romani aveva dato per sinonimi scrutinio e squittinio, contestando la voce di Crusca che dichiarava l’equivalenza con comizi29), o risponsabile allotropo di responsabile (ma l’Alberti di Villanova, Dizionario universale, tomo V, s.v., 1804, registrava proprio e solamente la forma in ri-)30. Tornando all’articolo 62 dello Statuto, che autorizzava l’uso del francese, l’Addeo riteneva che fosse frutto di “un soverchio ossequio costituzionale ad una minoranza alloglotta”, dettato da una “soverchiante influenza politica, esercitata allora da Parigi”31. Non si dimentichi che scriveva nel 1940, e si consideri come lo Statuto albertino mostrasse per questo verso un’encomiabile intenzione protettiva nei confronti della minoranza linguistica più nota del Piemonte, l’unica di cui si avesse chiara coscienza negli stati sabaudi (non si pensava allora ai Walser o agli Occitani). La formulazione generica dell’art. 62, senza riferimento ai territori di qua o di là delle Alpi, valeva in senso estensivo: il francese, non a caso, era anche la lingua di cultura in alta valle di Susa e nella comunità religiosa valdese, che quasi contemporaneamente allo Statuto aveva ricevuto legittimazione e riconoscimento. Non sappiamo a chi si debba questo o quell’articolo dello Statuto, anche se appare chiaro che si lavorò molto alla stesura al di fuori del Consiglio, preparando le bozze che vennero poi portate in sede collegiale per la messa a punto e l’approvazione. Resta solo un’indicazione di massima sul ruolo determinante di alcuni ministri. Tra questi sarebbe stato molto attivo il Des Ambrois, francofono e filofrancese, che al massimo, quanto a curiosità linguistiche, arrivava a interessarsi del dialetto (lesse persino il Biondelli e trascrisse un antico documento piemontese, la Sentenza di
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Cfr. G. Romani, Dizionario generale de’ sinonimi italiani, vol. I, Milano, Silvestri, 1825, p. 357, s.v. “Comizio, Scrutinio, Squittinio”. Cfr. artt. 19, 63 e 67 dello Statuto. Addeo, art. cit, p. 132.
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Rivalta, forse ancor prima di Bollati-Manno32), ed era soprattutto appassionato di tradizioni montane della sua Valle di Susa. Nelle memorie in francese che ci ha lasciato (si tratta pur sempre di un testimone oculare protagonista di quegli eventi) attribuisce a se stesso una parte preponderante nel lavoro di stesura dello Statuto, e assegna una funzione di speciale rilievo al Borelli e al marchese Cesare Alfieri di Sostegno, segretario per l’istruzione33. Non tutti gli uomini impegnati in quelle riunioni erano così strettamente legati all’esperienza locale piemontese o alle valli alpine come il citato Des Ambrois, che tuttavia non va scambiato con un provinciale inesperto, se si pensa alle sue competenze nel campo ferroviario e al progetto di traforo del Fréjus dalla Valle di Susa alla Francia. Il ministro Borelli, ad esempio, nativo del cuneese, personaggio di primo piano nella concessione dello Statuto e nella trasformazione dello stato in regime costituzionale, si era formato come uomo di legge negli anni napoleonici, dunque con perfetta conoscenza del francese, ma aveva intrapreso la carriera di magistrato in Toscana: era stato procuratore imperiale a Montepulciano e Arezzo nel 1808, nel 1811 era procuratore generale a Firenze, nel 1813 a Siena34. A suo modo, aveva avuto tutto il tempo per una buona sciacquatura di panni in Arno. Potrei ricordare ancora che l’estraneità del Piemonte alla lingua italiana, sensibile in molti settori, era forse assai minore nel campo della lingua giuridica, anche grazie alla scelta filoitaliana nel diritto e dell’amministrazione compiuta assai per tempo da Emanuele Filiberto. Ma senza arretrare tanto nei secoli, va almeno ricordato che nel 1843 erano state pubblicate delle Giunte torinesi al vocabolario della Crusca del Somis di Chavrie. Non ha forse interesse speciale il fatto che il Somis si fosse dedicato alla raccolta di voci mancanti nella
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L. Des Ambrois de Nevache, Notes et souvenirs inédits, Bologne, Nicolas Zanichelli, 1901, pp. 367-70. Cfr. Ibid., p. 17. Cfr. G. Locorotondo, voce Borelli, Giacinto in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 12, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970, pp. 536-41.
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Crusca veronese del Cesari, ma è curioso che egli, di professione magistrato, avesse concepito l’idea di un dizionario giuridico italiano, di cui gli editori delle postume Giunte parlano facendo riferimento al Dizionario militare dell’amico Grassi. Il Dizionario militare del Grassi fu realizzato, al dizionario giuridico del Somis non si arrivò: ci resta però la notizia che nel 1820 aveva fondato “una società di eletti giovani che convenivano in sua casa per attendere, sotto la sua direzione, alla compilazione di un Vocabolario Legale Italiano, la cui mancanza era da lungo tempo vivamente sentita”35, e in coda al citato volume delle Giunte torinesi si trova un’appendice di circa sessanta pagine intitolata Scelta di voci e modi di dire forensi tratti da buoni autori italiani. Ho riscontrato le voci forensi del Somis con quelle dello Statuto, e devo dire che l’unica coincidenza significativa è la parola interinazione, che però lo Statuto abolisce espressamente all’art. 82: “omesse tuttavia le interinazioni […] che sono fin d’ora abolite”36. Interinazioni o no, questa è un’altra prova dell’interesse piemontese per il linguaggio giuridico italiano, in una terra che non era solo francese e infranciosata, e in cui si sapevano scrivere le leggi. Ho citato i casi, che mi sembrano decisivi, in cui i verbali del Consiglio di Conferenza lasciano trasparire la discussione su articoli redatti in italiano, o rivelano l’oscillazione della lingua. A questo punto, considerata l’importanza di tale prova ai fini della mia tesi, è necessario avere la garanzia della massima affidabilità filologica dei testi utilizzati. Nel corso del lavoro, mi sono reso conto che la situazione delle edizioni a stampa dei verbali lascia non poco a desiderare. Oggi sappiamo quante dovevano essere le copie dei verbali di ogni seduta, e possiamo considerare quante sono andate perdute e quante sono sopravvissute. In sostanza, abbiamo tre testimoni dei verbali di quelle fatidiche sedute del
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A. Franchi, in G. Somis di Chavrie, Giunte torinesi al Vocabolario della Crusca, Torino, G. Pomba e Compagni, 1843, p. XII. Spagnolo, in stampa (Atti convegno SLI 2011), nota che il termine dopo il 1848 cadde in disuso: cosa certamente vera, e legata al fatto che lo Statuto aboliva questo istituto giuridico.
6. Francese e italiano nello Statuto albertino
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1848: l’esemplare destinato al Re (oggi in AST), l’esemplare del ministero degli Esteri (oggi a Roma, Archivio ministero degli Esteri37), e una copia privata della famiglia Cibrario. Solo i primi due verbali sono “ufficiali”, ma nessuno dei due è la stesura originale, la quale non è pervenuta. Anche l’esemplare del Re, che ho consultato in AST, porta la dicitura “pour copie conforme”, che pure dà qualche garanzia. La storia della tradizione di questi testi, così come la vicenda della sparizione di molti testimoni, che probabilmente non è casuale, meriterebbe un lungo discorso e permetterebbe di formulare qualche ipotesi curiosa, così come sarebbe interessante dare conto delle vicende editoriali, che mostrano una certa cura filologica nella prima fase, molto minore nei tempi recenti. Di fatto, però, una cosa posso affermare con certezza: il brusco passaggio dal francese all’italiano, l’inserimento di articoli e parole non francesi, dimostrazione del contesto plurilingue in cui avvenne la stesura, non è solo testimoniato dalle buone edizioni di Domenico Zanichelli38 e Adolfo Colombo (poi ripresa da Giorgio
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Cfr. I. Ricci, Prefazione, in Ciaurro, Lo statuto albertino cit., p. 11. Cfr. D. Zanichelli, Lo Statuto cit.; A. Colombo, Dalle riforme allo Statuto di Carlo Alberto. Documenti editi ed inediti, Casale, Tipografia Cooperativa, 1924; G. Falco, Lo Statuto cit.; l’edizione di Zanichelli fu condotta sui mss. della biblioteca Reale di Torino, cioè sui verbali del Re, in seguito trasportati a Roma e ritornati a Torino nel 1972 : cfr. l’ottima e preziosa Prefazione di I. Massabò Ricci, I verbali del Consiglio di Conferenza. Note archivistiche sulla loro origine e conservazione, in Ciaurro, Lo Statuto Albertino cit., pp. 9-13 ; Colombo utilizzò la copia del verbale non ufficiale dell’archivio dela famiglia Cibrario; Falco riprese il testo di Colombo, verificandolo (pur senza precisare i punti bisognosi o soggetti a verifica) con l’esemplare del ministero degli Esteri, un tempo a Torino, poi trasportato a Roma. Le edizioni successive di Negri – Simoni non si sono nemmeno preoccupate di dichiarare da quale dei diversi testi e testimoni abbiano attinto, anche se la loro fonte appare la linea Colombo – Falco, non quella di Zanichelli. In AST ho consultato l’esemplare che fu visto da Zanichelli nella Biblioteca Reale, imprecisati anni prima del 1898 (cfr. Zanichelli, Lo Statuto cit., p. III), e che ora è stato riportato da Roma a Torino.
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Falco), condotte su testimoni diversi, ma anche dal manoscritto del verbale nella copia conforme del Re, nel quale, anzi, l’italiano è evidenziato ancor meglio dagli a capo e dalle virgolette. Almeno in un caso (il mio esame è stato solo un sondaggio per campioni sul verbale del 7 febbraio) vi è persino una parola che le edizioni correnti danno in francese, e che risulta invece in italiano: “On a parlé, dit-il [sta parlando il Des Ambrois] d’une Consulte” 39 nelle versioni a stampa; invece nella copia reale di AST: “une Consulta”40, ottimo esempio di parlar misto, con variazione di codice nel continuum, come si direbbe oggi.
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Negri – Simoni, Lo Statuto Albertino cit., p. 74; identico in Falco, Lo statuto Albertino cit., p. 202. Rendo con il corsivo il sottolineato nel ms.
7. L’unità politica e territoriale italiana nella riflessione linguistica
L’unità italiana è tema politico, ma le pagine in cui la questione della lingua trapassa esplicitamente nella politica non sono molte prima dell’Ottocento. È ben vero che il discorso potrebbe essere rovesciato alla luce di quanto ci ha insegnato Gramsci, a cui dobbiamo la celebre e fortunata intuizione secondo la quale la questione dell’egemonia, immanente nel dibattito linguistico, è comunque sempre di natura politica. Tuttavia qui non seguiremo Gramsci nella sua ricerca del senso profondo di quel dibattito, ma cercheremo di verificare in che modo sia stato posto, prima, durante e dopo il Risorgimento, il problema dell’Unità italiana in connessione con la storia e la teoria linguistica, cercando di stabilire se esso sia stato valutato come determinante, o viceversa come marginale e accessorio. Molte delle pagine che ripercorreremo, alcune assai note, altre (mi auguro) quasi sconosciute, richiedono che si resista alla tentazione di interpretarle con spirito risorgimentale o patriottico. Penso alla condanna dei principi italiani nel primo libro del De vulgari eloquentia di Dante, là dove parla del “regale solium” di Sicilia, o alle Prose della volgar lingua, in cui ricorre quel sorprendente passo in cui il Magnifico (Giuliano de’ Medici) si getta nel discorso di Federico Fregoso sui Barbari invasori, “traponendosi”, come si legge nelle Prose, cioè forzando il turno, come direbbero oggi i linguisti, e così volge il passato in attualità, condannando l’asservimento dell’Italia agli stranieri: un discorso che non galleggia tutto nell’astrattezza retorica e non si nutre soltanto di umanesimo e di avversione per i barbari, non si alimenta solo di memorie petrarchesche, visto che vengono menzionate realisticamente le due potenze, Francia e Spagna, che si dividevano allora l’Italia, indifesa per colpa di principi degeneri, tralignanti come quei signori d’Italia per i quali Dante suonava trombe, campane e trombette di vilipendio. Richiamo politico quasi stupefacente, mi verrebbe da dire (quello di Bembo, intendo, non certo quello di
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Dante), in un trattato che non ha certo i caratteri e le finalità del Principe di Machiavelli, né il piglio aggressivo del De vulgari eloquentia. Il cenno, visto che resta tale, breve e isolato, è ben collocato nel dialogo tra un Medici e Federico Fregoso, religioso ma anche uomo di guerra, condottiero militare e fratello di Doge. Il sentimento patriottico che aleggia come fantasma dietro questi scatti di dignità italiana, inseriti e più o meno isolati in trattazioni linguistiche, è però assolutamente primordiale, preunitario: non lo si può dire nemmeno ‘federale’ in senso proprio, perché tutt’al più si fonda sull’auspicio di una generica alleanza antistraniera. Quando ricorre in un Galeani Napione (ma con lui siamo già nel Settecento), solo allora l’alleanza federale si fa più precisa nei suoi contorni politici, che sorprendentemente anticipano la funzione che in effetti il Piemonte ebbe poi per davvero. Dopo aver celebrato la scelta italiana di Emanuele Filiberto, Napione affermava che “non si può essere buoni Piemontesi se non siam pure a un tempo buoni Italiani”, frase celebre, ma sicuramente ancora piuttosto enigmatica, se ci si chiede che cosa volesse mai dire allora essere “italiani”, concetto a cui pure corrispondeva una realtà, come ha ribadito il recente libro di Francesco Bruni su Italia. Vita e avventura di un’idea (Bologna, Il Mulino, 2010). Tuttavia resta difficile cogliere appieno questa italianità, come si verifica ripercorrendo il saggio di Giulio Bollati su L’italiano nel volume di apertura della Storia d’Italia Einaudi. Di certo in Napione un significato più moderno comincia a farsi sentire: lo si apprezza meglio se si tiene conto del riferimento, che ricorre in una nota, dunque assolutamente esplicito (eppure è sfuggito, se non erro, a tutti i lettori), all’economista Gian Rinaldo Carli, autore di un celebre saggio Della Patria degli Italiani, comparso sul “Caffè” nel 1765. Quell’intervento, per il suo patriottismo, aveva suscitato la reazione perplessa di Pietro Verri, il quale
G. Galeani Napione di Cocconato, Dell’uso e dei pregi della lingua italiana, vol. I, Torino, Presso i librai Gaetano Balbino e Francesco Prato in Doragrossa, 1791, p. 292.
7. L’unità politica e territoriale italiana nella riflessione linguistica
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aveva manifestato al Carli il dubbio che così si incrinasse il cosmopolitismo della rivista. Non solo il forestiere introdotto dal Carli nella bottega del caffè milanese rifiutava di farsi classificare come “forestiere” in Italia, in quella che giudicava la propria “nazione”, nonostante le divisioni territoriali; non solo invocava un’idea comune di patria, paragonando il sistema italiano al complesso sistema astronomico costituito da Sole e Pianeti nel loro ruotare in sistema unitario, ancorché ciascun elemento differenziato nelle proprie rivoluzioni e nei propri assi. Carli faceva riferimento alla lingua, ma tale riferimento è rimasto invisibile, perché non lo si legge nella versione dell’articolo comparsa sul “Caffè”, più breve di quella poi stampata in volume (non so se perché censurata o perché ancora incompleta). Nella versione più ampia nel volume delle Opere, il tema della lingua ha forte rilievo. La storia d’Italia viene divisa in sei epoche. L’idea di “epoche” fa pensare a Vico, i loro nomi ricordano talora Machiavelli. Le sei epoche sono: l’epoca dei leoni, corrispondente alla fase di Roma antica, l’epoca dei conigli, cioè l’età delle invasioni barbariche, l’epoca dei lupi, la rinascita dei Comuni italiani, l’epoca dei cani, con le feroci lotte intestine del Medioevo comunale al tempo di Dante, l’epoca delle volpi, con spagnoli e francesi che si contendevano l’Italia (il periodo a cui faceva riferimento Bembo), per finire con i tempi moderni, i tempi del Carli, cioè il Settecento, definito l’epoca delle scimmie, secondo
Cfr. la nota a piè di pagina apposta da Galeani Napione, Dell’uso cit., vol. I, p. 292. Napione citava l’intervento di G. R. Carli da Opere, vol. IX, Milano, Nell’Imperial Monistero di S. Ambrogio Maggiore, 1785, dove sta alle pp. 369-95, in versione ampia. Ora lo si legge nella forma più breve in “Il Caffè”, a cura di G. Francioni e S. Romagnoli, vol. II (II ed.), Torino, Bollati Boringhieri, 1998, pp. 421-27. Non vi fa cenno nemmeno F. Bruni, Italia. Vita e avventure di un’idea, Bologna, Il Mulino, 2010, il quale dedica al Carli una giusta attenzione (pp. 459-62), discutendo il contenuto del testo (come del resto tutti gli studiosi) secondo la versione pubblicata sul “Caffè”, non secondo quella in volume, a cui invece aveva fatto esplicito riferimento il Galeani Napione.
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l’autore, un’epoca che vedeva gli italiani asserviti nella politica, nella moda, nel costume e nella lingua: Sin il linguaggio è attaccato da questo contagio di scimmiottismo; mentre nelle pulite conversazioni vergognosa cosa è il dir, per esempio, tende o cortine invece di ridaux [sic]; canterano invece di burrò, guazzetto invece di ragù; braciolette invece di cotelette; e prende grazia al contrario, se, frammezzo un serio discorso, s’illardellano le decenti parole, perché francesi, di culdesac, di culote [sic], di culbuté ec.
Questo passo, che non dovette dispiacere al Napione per la sua carica di antifrancesismo, manca, come ho detto, nella versione pubblicata nel “Caffè”, e questo ha fatto sì che l’intervento del Carli, noto agli storici della politica come una delle pagine dell’età dei Lumi più adattabili a un’interpretazione prerisorgimentale, non sia entrato nella saggistica relativa alla questione della lingua. L’epoca delle scimmie ricorda un’analoga espressione di Foscolo, che parlava degli “scimmiotti di forestieri”, e il Carli sembra anticipare, ma senza simpatia per lo stile e il linguaggio dei Trecentisti, certi sentimenti puristici che si diffonderanno poi nell’ambiente giacobino, ben riconoscibili in un Angeloni o un Ranza, antifrancesi, filorivoluzionari e puristi allo stesso tempo. Penso all’appello dell’Angeloni “agli Italiani” anteposto al suo libro Dell’Italia pubblicato a Parigi nel 1818: [...] voi, Uomini d’Italia, che quantunque separati per più maniere di governi, meritissimamente pur vi tenete, e tener dovetevi per cittadini d’una stessa patria, siccome quelli che, oltre ad una maravigliosa conformità d’indole d’ingegno e di costumi, avete in comunità una medesima religione, una medesima lingua, una medesima storia politica, scientifica, e letteraria, ed un paese il
Carli, Della Patria degli Italiani, in Opere cit., p. 388. Cfr. il passo di una lettera di Foscolo a Biagioli, del 1827, citato da M. Vitale, La questione della lingua, Nuova edizione, Palermo, Palumbo, 1978, p. 387.
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quale è così ben segregato da tutti gli altri, e pe’ mari che l’accerchiano e per gli altissimi monti che fascianlo, che sole le isole son meglio di quello dalla terra ferma dipartite.
L’idea dell’Italia-isola è indubbiamente curiosa, per quanto possa essere letta come sviluppo di uno spunto petrarchesco (“il bel paese / ch’Appennin parte, e ’l mar circonda et l’Alpe”). Attorno al 1820 è possibile trovare molti saggi linguistici in cui l’avversione esterofoba si congiunge alla ricostruzione patriottica della storia linguistica, riproponendo, adattato alle circostanze moderne, l’antico lamento umanistico nei confronti della barbarie, nato con il lamento di Petrarca sulla tedesca rabbia, sul bavarico inganno, sul furor de lassù (cioè delle genti settentrionali): ne troviamo esempio anche nella Storia della lingua italiana del lessicografo Giuseppe Grassi, recentemente edita e finalmente ricuperata alla conoscenza reale ai fini dei nostri studi, la cui stesura risale agli stessi anni. Questo filone linguistico-patriottico andava crescendo come marea montante, soffocava ormai le voci discordi ed eretiche, come quella di Carlo Denina. Non mi riferisco in questo caso alla sua celebre proposta di adottare definitivamente il francese in Piemonte, ma alla tesi espressa nel 1785 in una memoria berlinese (quindi prima degli anni napoleonici, e dunque non sospetta di acquiescenza verso i vincitori, come può invece apparire il più noto saggio del 1803, Dell’uso
L. Angeloni, Dell’Italia, uscente il settembre del 1818. Ragionamenti IV dedicati all’Italica Nazione, vol. I, Parigi, Appresso l’Autore, nella stradetta rimpetto al teatro francese, n.4, 1818, pp. i-ij. Angeloni aggiungeva in nota che le tre lingue della storia d’Italia erano state il greco, il latino, l’italiano, cioè le più belle e dolci parlate dagli uomini. Dietro questa descrizione dell’Italia si sente ovviamente l’eco del petrarchesco “bel paese / ch’Appenin parte, e ’l mar circonda et l’Alpe” (RVF 146, vv. 13-14), un’ “affettuosa geografia”, per dirla con Bruni, Italia cit., p. 142. Cfr. G. Grassi, Storia della lingua italiana, Edizione critica, introduzione e commento a cura di L. Maconi, Firenze, Accademia della Crusca, 2010. Cfr., per i riferimenti petrarcheschi, Bruni, op. cit., p. 139.
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della lingua francese), secondo la quale la policentrica natura della geopolitica italiana avrebbe reso conveniente che il centro della comunicazione nazionale fosse collocato in Lombardia; ma una tesi anche più radicale si legge nei suoi Pensieri diversi, in appendice all’edizione berlinese del Discorso sulle vicende della letteratura: Il nostro paese deve avere una lingua comune almeno con tutta la Lombardia, la Romagna, e la Marca d’Ancona. Ma non credo, che ci sia la stessa ragione naturale per averla comune con le nazioni, che sono al di là dell’Appennino. Per ragioni di sito, e di clima non dobbiamo avere maggior disposizione a parlare la lingua de’ Toscani, de’ Romani, de’ Napoletani, che quella che si parla in Provenza, nel Delfinato10.
Viene in mente l’avvertimento di Wartburg, secondo il quale il destino linguistico unitario della penisola non fu un dato di fatto scontato e ineluttabile fin dall’inizio11. Covava già, insomma, quello che Mazzini, nel 1848, definiva il “concettuccio dell’Italia del Nord”, ai suoi occhi odioso perché federalista, anti-italiano e nutrito di aristocrazia torinese12. E che dire di Cesare Balbo, che,
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Lo si legge in C. Denina, Storia delle lingua e polemiche linguistiche. Dai saggi berlinesi 1783-1804, a cura di C. Marazzini, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1985, pp. 65-102. Cfr. C. Denina, Storia delle lingua e polemiche linguistiche cit., p. 13 (la memoria in questione è Sur le caractère des langues et particulièrement des modernes). Cfr. anche C. Marazzini, Storia e coscienza della lingua in Italia dall’Umanesimo al Romanticismo, Torino, Rosenberg & Sellier, 1989, p. 148. C. Denina, Discorso sopra le vicende della letteratura, vol. II, Berlino, Appresso Christiano Sigismondo Spener, 1785, p. 230 (nel “Pensiero” n. 9, intitolato Le Lingue, pp. 226-231). Denina, del resto, scrisse una Storia dell’Italia occidentale (in sostanza una storia del Piemonte, della Lombardia e di Genova), oltre che alla più celebre Storia d’Italia. Cfr. W. von Warburg, La posizione della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1940, p. 8. Cfr. G. Mazzini, Opere, a cura di L. Salvatorelli, vol. II, Milano, Rizzoli, 1939, pp. 417-418.
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mentre meditava di continuare l’interrotta Storia della lingua italiana del Grassi, esordiva scrivendo che “la divisione d’Italia in più Stati” non gli pareva “così grave danno come credono taluni, ma che anzi ella trae seco certamente molti vantaggi, principalmente letterari”13? Eppure ammetteva che l’unità di schiatta, di lingua, di religione costituiva pure un diritto per rimanere uniti e talora per riunirsi in nazione, se si era divisi14, e anche ammetteva che la mancanza di unità italiana aveva come conseguenza, se non altro, un “danno letterario” (così lo definiva), e cioè che “non v’essendo capitale comune, neppur non v’ha una sedia comune indisputata della lingua”, e da qui derivavano infatti le discussioni protrattesi nei secoli15. Tuttavia Balbo poteva pensare, nonostante prendesse atto di questo innegabile “danno letterario”, che dell’unità si poteva fare tranquillamente a meno: Mi resta a confessarvi, che quando non fosse sogno, quando anche fosse fattibile questa riunione d’Italia desiderata da tanti,
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C. Balbo, nel saggio Della lingua, in Pensieri ed esempi, opera postuma con l’aggiunta dei dialoghi di un maestro di scuola pure inediti, II ed., Firenze, Felice Le Monnier, 1856, p. 226. Va notato che Francesco Predari, I primi vagiti della libertà italiana in Piemonte, Milano, Vallardi, 1861, si premura di circoscrivere questa affermazione di Balbo (che colloca nel 1834) al periodo anteriore al 1846, anno dopo il quale Balbo avrebbe mutato risolutamente parere, tanto da opporsi a quello che chiamava “delitto di nazionalità italiana”. Lo stesso Predari, op. cit., p. 53, parla di una fase in cui Balbo aveva in sostanza messo in atto i consigli di francesizzazione elargiti da un intellettuale filofrancese come Denina (anche se qui Denina non è mai nominato), e per questo si era trovato in urto con l’amico Carlo Vidua, che invece dubbi sulla necessità di italianizzarsi non li ebbe mai. Id., nel saggio Della legittimità, nei Pensieri ed esempi cit., p. 87. Id., ancora nel saggio Della lingua, in Pensieri ed esempi cit., p. 226. Analogo concetto era svolto già nella Vita di Dante dello stesso Balbo (cfr. C. Balbo, Vita di Dante Alighieri. Nuova edizione con correzioni e giunte inedite lasciate dall’Autore, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1857, p. 263-264).
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e da me stesso già, ora, considerata ogni cosa, non la desidererei nemmen più16.
Balbo, infatti, non era “unitario”. Nelle Speranze d’Italia aveva scritto: “Le confederazioni sono l’ordinamento più conforme alla natura e alla storia d’Italia”17. Il federalismo non è tutto di Cattaneo, ovviamente, e non sempre il federalismo stesso si accompagna all’antitoscanismo che animava quel lombardo, pronto a cogliere in fallo per eccesso di toscanismo Fede e bellezza di Tommaseo. Le diverse potenzialità del federalismo rispetto alla questione linguistica si colgono bene nel pensiero di Gioberti, nel primo libro del Primato, nel capitolo Dell’unione italiana. Qui, ovviamente, per “unione” non si intende un principio politico unitario, ma una federazione nazionale, e Gioberti svolge una tesi che mostra sano realismo, quando afferma non esistere un’“unità nel popolo italiano”: V’ha bensì un’ Italia e una stirpe italiana congiunta di sangue, di religione, di lingua scritta ed illustre; ma divisa di governi, di leggi, di istituti, di favella popolare, di costumi, di affetti, di consuetudini18.
Un popolo italiano in quanto tale, dunque, non esiste: è popolo “in potenza”, ma non “effettivo”. La sua esistenza, in futuro, avrebbe potuto essere reale per effetto dell’unità, ma per ora tale condizione doveva ancora crearsi. Per contrasto, viene da pensare alla cieca fiducia di Mazzini in un legame di lingua presupposto astrattamente come patrimonio comune degli italiani19, secondo
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Id., nel terzo dei Dialoghi del maestro di scuola, in Pensieri ed esempi cit., p. 441. Id., Le speranze d’Italia, p. 36. V. Gioberti, Del primato morale e civile degli italiani, Introduzione e note di G. Balsamo Crivelli, Vol. I, Torino, Unione Tipografico-Editrice Torinese, 1920, pp. 92-93. “La patria non è un tratto di territorio; la patria è una comunione fraterna d’uomini liberi parlanti la stessa favella e credenti in una fede sociale,
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un pregiudizio che, come ha notato Ghinassi, era diffuso tra gli uomini i cultura del Risorgimento, appunto a cominciare da Mazzini20; sicuramente Gioberti non era in questa schiera di ottimisti, e tuttavia ammetteva che la lingua era effettivamente legame e collante di italianità, ma attribuiva tale straordinaria e rilevante funzione alla lingua letteraria, alla lingua scritta, in questo caso da lui distinta con assoluta lucidità dalla “favella popolare”, la quale invece collocava sotto il segno della divisione e della pluralità. Più avanti, nello stesso Primato, il riferimento al nesso tra politica e lingua congiunge Firenze e Roma nell’immagine policentrica ma concorde dei due “fuochi” dell’ellisse italiana (curiosamente, si noti, la metafora del fuoco dell’ellisse era stata introdotta anche dal Carli nello scritto Della patria degli Italiani che abbiamo prima citato21): Firenze e Roma erano le due metropoli d’Italia “dove la lingua illustre, usata scrivendo da tutta la nazione, corre viva e spontanea sulle bocche del popolo”22, ed erano dunque le due città che occorreva conciliare, perché la loro contrapposizione
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che intendono a promuovere un’opera religiosa di miglioramento morale, a edificare su quel tratto di territorio un tempio a dio e all’eterno vero” (G. Mazzini, op. cit., p. 396 [nell’articolo Patria e libertà, 1848]). Già giovanissimo, Mazzini si rifaceva all’idea di lingua italiana che ricavava dal De vulgari eloquentia di Dante, per affermare il proprio antipurismo, e anche il proprio antitoscanismo: “Egli [Dante] s’erge luminosamente al di sopra di quella torma di grammatici, che fanno intisichire la lingua per volerla costringere nelle fasce della sua infanzia; dimostra la vera favella italiana non esser Tosca, Lombarda, o d’altra Provincia; ma una sola e di tutta la terra Ch’Appennnin parte, e ’l mar circonda e l’Alpe” (Ibid., p. 74). Non è un caso che nella maturità, delineando un progetto di educazione popolare, Mazzini citasse tutta una serie di argomenti utili, disegno, geometria, algebra, meccanica, chimica, geografia, ma non menzionasse mai l’insegnamento della lingua tra gli argomenti utili al popolo. Cfr. G. Ghinassi, Due lezioni di storia della lingua italiana, a cura e con una premessa di P. Bongrani, Firenze, Cesati, 2007, p. 33. Cfr. la versione dell’articolo del Carli pubblicata nel “Caffè” (vedi qui sopra alla nota 2), p. 427. Gioberti, op. cit., III, p. 55.
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poteva “ostare per qualche rispetto all’unità italiana”23. Il Primato contiene insomma una teoria storico-politico-linguistica originale di forte peso nel contesto di un libro di tale portata, che ebbe influenza grandissima. Posso citare a questo proposito il parere autorevole di Dionisotti, secondo il quale, nel ventennio centrale del secolo XIX, tra il 1840 e il 1860, “l’opera di Gioberti ebbe un peso maggiore in Italia che non quella di altri, Manzoni e Leopardi inclusi”24. Per Gioberti, la lingua italiana, se si badava alla sua origine, era frutto di corruzione e declino, esattamente come avevano pensato i seguaci rinascimentali della ‘teoria della catastrofe’, ma allo stesso tempo era anche (qui la novità) il frutto della cristianizzazione, perché nella sua formazione aveva avuto parte il clero, fattore caro a Gioberti, cattolico e prete; l’italiano era dunque pelasgico e cristiano ad un tempo, e qui Gioberti abbracciava le fumosissime tesi allora di moda sulle Origini remote, per sostenere che l’italiano portava in sé la memoria di antichissime favelle e rappresentava una sorta di rinascita dell’antico, e che le tracce preromane erano presenti persino nei dialetti. La teoria di Gioberti è dunque una sorta di ricorso storico, termine tecnico che usa in maniera cosciente, proprio citando il nome di Vico, e subito osservando che questa teoria dei ricorsi non piaceva “ai moderni progressisti [...] quasiché la ripetizione escludesse il miglioramento successivo”25: riferimento che mi sembra vada a colpire i razionalisti laici italiani ammiratori degli Idéologues francesi, tra i quali si era collocato Ludovico di Breme al tempo del “Conciliatore” e il Compagnoni traduttore di Destutt de Tracy26. Dunque non soltanto la questione dell’Unità nazionale si collega alla questione della lingua attraverso la via maestra dei dibattiti suscitati da
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Ibid., III, p. 173. C. Dionisotti, Pro e contro Gioberti, in Atti del convegno Piemonte e letteratura 1789-1870, San Salvatore Monferrato 15-17 ottobre 1981, tomo I, a cura di G. Ioli, Regione Piemonte - Assessorato alla Cultura, s.d., p. 278. Gioberti, Primato cit., III, p. 53. Cfr. Marazzini, Storia e coscienza cit., pp. 204-214.
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Manzoni e proseguiti fino al confronto con Ascoli. C’è anche altro. In questo clima Cesare Balbo prese lo spunto dal fallito tentativo di storia della lingua italiana di Giuseppe Grassi (fallito solo perché disgraziatamente inconcluso) per delineare una propria idea di storia linguistica, la quale traeva ispirazione da una critica alle premesse di Gioberti. Infatti la ricerca nell’italiano delle reliquie di antiche lingue italiche pareva a Balbo, questa volta non a torto, come “erudizione recondita, archeologia più che vera storia”, mentre le origini certe della lingua italiana andavano cercate a suo parere solo dopo la caduta dell’Impero Romano27. Mi sembra in sostanza che gli autori citati prima (Gioberti, Balbo, Manzoni stesso) siano ormai invogliati o costretti a legare l’idea di lingua a quella di popolo, ciò che non era mai stato necessario e nemmeno raccomandabile nell’aristocratica cittadella delle lettere italiane, dove anzi il connubio con la lingua del popolo era reputato rischioso e nocivo, come aveva insegnato Bembo. Per contro, la teoria linguistica, via via che ci si avvicina alla fase in cui la parola “unità” cambia di senso nel clima risorgimentale, si fa socialmente costruttiva, politicamente propositiva, assimilando sempre maggiori istanze educative. In essa si manifestano sentimenti di attesa del cambiamento. Un fermento nuovo si fa strada nei trattatisti, anche nei minori, come quel veronese devoto al Tommaseo, quel Pier-Vincenzo Pasquini che pretendeva di essere stato plagiato dal Manzoni quando aveva indicato i mezzi per diffondere la lingua toscana in Italia. Questo Pasquini, nella prefazione del suo libro sull’unificazione linguistica (nuovo, nel 1869, dopo il precedente intervento del 1863), dichiarava l’attesa messianica degli effetti dell’unificazione: “Quale dovrebb’essere l’opera naturale dell’unità politica? Quella appunto di togliere le differenze del favellare”28; e concludeva: “Unifichiamo la lingua, acciocché l’Italia sia d’un cuore e d’un labbro”29.
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Cfr. C. Balbo, Della lingua, in Pensieri ed esempi cit., p. 31. P.-V. Pasquini, Dell’unificazione della lingua in Italia. Libri tre, Firenze, Successori Le Monnier, 1869, p. XIII. Ibid., p. XVII.
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In questo quadro, la funzione da attribuire a Roma divenne fondamentale. La teoria dei due fuochi dell’ellisse di Gioberti non bastava più. È noto che Ascoli contrapponeva speranzoso Roma neocapitale alla Firenze di Manzoni: Roma, per la sua originaria attiguità dialettale con quella regione a cui la parola italiana va debitrice di ogni suo splendore, e per esservi continuato, mercé la Santa Sede, un moto energico, in molta e quasi inavvertita parte e come suo malgrado italiano; Roma, nella favella spontanea di quanti suoi figli non rimangano affatto rozzi, ci porge l’imagine o i contorni di una lingua nazionale, e meritava, anche per questo capo, ridiventare principe dell’Italia intiera30.
Roma “principe” dell’Italia intera, scrive Ascoli, usando un arcaismo, perché qui “principe” significa appunto “città capitale”, come nell’italiano del Borghini e del Della Casa. E noteremo anche la riserva rispetto alla funzione italiana del papato, che risulta italiano “suo malgrado”. Prevedendo una futura parte di Roma capitale nella storia linguistica italiana, in cauda un po’ di venenum anticlericale, Ascoli metteva il dito sulla piaga, perché in realtà anche Manzoni era esattamente dello stesso parere, seppure in maniera sofferta e senza potersi esprimere apertamente, poiché si era reso ben conto che “una capitale ha, per la natura delle cose, una grande influenza sulla lingua della nazione”, come si legge nel famoso poscritto della lettera al Giorgini31, e come si era sentito ripetere anche nelle discussioni attorno alla Relazione manzoniana del 1868, in particolare da quel Luigi Gelmetti, già autore del libro Roma e l’avvenire della lingua italiana, dimenticato
30
31
G. I. Ascoli, Proemio all’“Archivio Glottologico Italiano”, in Id., Scritti sulla questione della lingua, a cura di C. Grassi, Torino, Einaudi, 1975, p. 18. Manzoni intimo, a cura di M. Scherillo, vol. II, Milano, Hoepli, 1923, p. 197; ora in A. Manzoni, Tulle le lettere, tomo III, a cura di C. Arieti, Milano, Adelphi, 1986, pp. 253-54.
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È davvero notevole una simile matura coscienza della svolta assunta dal dibattito sulla lingua, e ciò quattro anni prima della Relazione di Manzoni. Altri entrarono nel dibattito sulla funzione linguistica di Roma capitale con tono più cauto, sia per difendere il privilegio storico di Firenze, sia perché politicamente pessimisti, poco convinti che Roma potesse diventare italiana in breve tempo. Posso citare tra costoro quel tal professore Pier Vincenzo Pasquini, autore di un verboso saggio Dell’unificazione del lingua in Italia, uscito nel 1869: in un paragrafo dell’ultimo capitolo sosteneva che la lingua italiana non si era sviluppata a Roma perché l’elemento cattolico aveva soffocato l’elemento nazionale (una tesi che si trova già espressa nel Settecento dal Denina), e il latino “lingua sacra, liturgica, jeratica” aveva finito per prevalere sull’italiano per colpa della Chiesa e del suo governo temporale35. Il Pasquini, ovviamente, non amava l’immagine giobertiana dei due fuochi dell’ellisse, e restava fermo alla centralità di Firenze. Altrettanto cauto era il friulano Pacifico Valussi, ora acquisito alla “questione della lingua” grazie a Dionisotti36. Il Valussi concludeva il suo saggio sui Caratteri della civiltà novella in Italia dedicato a Niccolò Tommaseo (siamo nel 1868) con una “poscritta” (al femminile) sulla lingua piena di sacro fuoco nazionale e di profondo desiderio di rinnovamento civile, negando espressamente che la lingua potesse essere monopolio di una sola città, perché una “città non è una Nazione; e per questo non può formare una lingua nazionale”37. Curiosamente, Valussi osservava che c’era un luogo nuovo in cui si stava creando un italiano unitario, e questo luogo non era una località, ma l’esercito:
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36
37
Pasquini, Dell’unificazione del lingua in Italia cit., p. 415. E ancora, nella stessa pagina: “Se Roma fosse stata repubblica libera, senza papa e senza preti fino da antico, la sede incontrastata della lingua sarebbe Roma”. Cfr. C. Dionisotti, La lingua dell’Unità, in “Rivista storica italiana”, CIII, 2, (1991), pp. 455-482, ora in Ricordi della scuola italiana, Edizioni di Storia e letteratura, Roma 1998, pp. 291-319. P. Valussi, Caratteri della civiltà novella in Italia, Udine, Paolo Gambierasi editore, 1868, p. 279.
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[l’esercito] si forma una lingua nuova da sé, quel nuovo italiano, che è un prodotto spontaneo delle condizioni nuove dell’Italia, le quali misero i suoi figli in una vasta società nazionale ordinata, che si tramuta di regione in regione. Chi ha creato questo linguaggio comune dell’esercito? Il bisogno di pensare, di agire e di parlare e d’intendersi. In questo linguaggio gli idiotismi particolari si temperano e si armonizzano in quella lingua italiana comune che esisteva prima, e che se non avesse esistito [sic], invano noi cercheremmo ora la Nazione italiana. È vero però che il pieno concetto della nazionalità italiana, come di qualunque altra nazionalità, l’ebbe prima la parte più colta del popolo italiano, e non si viene a poco a poco generalizzando che a norma che la coltura si diffonde nel popolo. Per questo l’esercito, come fu ed è scuola di nazionalità col solo suo esistere, è anche scuola di lingua italiana, anzi strumento della formazione del nuovo italiano38.
Ma non solo nell’esercito Valussi vedeva delinearsi la nuova lingua nazionale: “Il Parlamento nazionale – scriveva – vi mostra come, senza mutare del tutto le pronuncie e le cadenze, i parlanti si accostano in qualcosa che tutti intendono”39. Con notevole acume, menzionava altri centri di elaborazione linguistica: i consigli provinciali e comunali, i tribunali con procedura orale, le società popolari, le scuole, le riunioni politiche, e per di più si diceva convinto che “colla vita politica e col nazionale rinnovamento la lingua verrà a subire nell’uso generale non poche modificazioni”40: Nell’Italia sia sta adesso facendo una grande innovazione politica […]. Essa non solo muta gli ordini interni e rimescola cose e persone e classi sociali; ma viene a costituire in uno molti Stati, diversi non solo per politico reggimento, ma per tradizioni e costumi e per abitudini degli abitanti. Né si tratta soltanto di un’unione politica ed amministrativa, ma d’una unificazione d’interessi e di commerci là dove non esistevano; d’un avvicinamento
38 39 40
Ibid., pp. 287-288. Ibid., p. 288. Ibid., p. 296.
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di popolazioni affatto insolito nella penisola. Adunque si deve attendere un grande cangiamento anche nella lingua e nella letteratura nostra; cangiamento, il quale non apparirà forse molto distinto, se non nella prossima generazione, ma che si va fin da questo momento preparando. Tale mutamento si prepara nella pubblica amministrazione che accentra ed unifica gli ordinamenti e tramuta le persone da paese a paese; si prepara nell’esercito e nel naviglio pubblico, dove gli abitanti di tutte le parti della penisola, che ne parlano i diversi dialetti, si trovano insieme raccolti e sovente si tramutano da luogo a luogo; si prepara nell’insegnamento pubblico, il quale si va innovando ed estendendo e rendendo partecipe ad un maggior numero di persone; si prepara nelle assemblee nazionali, provinciali e comunali, nelle radunanze pubbliche di qualunque sorta, adesso in molti luoghi frequenti quanto erano per l’addietro rarissime; si prepara nell’industria e nel commercio che fanno convenire persone, le quali prima non si vedevano mai, e tramutare nell’una o nell’altra regione o per qualche tempo o stabilmente; si prepara colla stampa per così dire fotografica di tutti i pubblici discorsi, col giornalismo che si fa leggere da tutte le classi di persone, coi libri di lettura popolare; si prepara insomma con tutto quel complesso di atti che tendono ad unificare la nazione e con quelli che sollevano alla vita pubblica un gran numero di persone, le quali fino ad ora vi rimanevano quasi estranee41.
Come si vede, il discorso conduceva tutti questi trattatisti, non solo l’acuto Valussi, verso il nesso tra politica, organizzazione civile e lingua, e la funzione dello stato unitario diventava coscientemente percepibile come unione territoriale effettiva, non più come condivisione di un vago ideale comune di matrice classica e letteraria. Se ne trovano altre tracce in diversi interventi sulla questione della lingua, non tutti noti e non tutti schedati dagli specialisti: posso citare Ferdinando Ranalli, Terenzio Mamiani, lo stesso Gioberti. Ranalli, per esempio, nel volume su La letteratura nazionale, del 1861, esortava a studiare la storia della lingua italiana, seppure in connessione con la letteratura e con la retorica: “il sapere come
41
Ibid., pp. 299-300.
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desco. È vero che quella frase è entrata anche nei libri delle scuole elementari, come nota Galasso, e che una notizia troppo divulgata ha sempre il difetto di essere ripetuta senza l’unica accortezza metodologica che distingue il professionismo dal dilettantismo. Ebbene, se si ricorre alle fonti, se si legge l’intero contesto della frase scegliendo tra le varie formulazioni quella che si caratterizza per la maggiore ampiezza, si ha la sorpresa di scoprire che anche Metternich si è interessato al problema della lingua italiana. Leggiamo dunque questo passo, traducendolo dal francese della lettera confidenziale del 1847 al diplomatico ungherese Apponyi a Parigi. Metternich vuole spiegare alcune questioni della politica del momento, tra le quali la situazione dell’Italia, i suoi rapporti con il Piemonte e con la Francia. Afferma espressamente che l’Impero Austriaco non ha il carattere di uno stato italiano, perché è composto di molte parti, e se in esso una nazionalità deve prevalere, questa è la tedesca, che è il prototipo della famiglia regnante, e che rappresenta “il vero elemento civilizzatore di questa vasta riunione di popoli” (e aggiunge a questa affermazione un punto esclamativo). Poi continua (trad. nostra): La parola “Italia” è una denominazione geografica, una qualificazione che si riferisce alla lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono a imprimerle, e che è piena di pericoli per l’esistenza stessa degli stati di cui si compone la penisola47.
Quindi il Metternich era cosciente del possibile valore attribuito da alcuni alla lingua in quanto segno di identità nazionale italiana, e nella stessa pagina osservava che il Regno Lombardo-veneto
47
Metternich, Mémoires, documents et écrits divers publiés par son fils le Prince Richard de Metternich, Deuxième partie: l’Ere de la paix (181648), Tome VII, Paris, Plon & C., 1883, p. 393: “Le mot «Italie» est une dénomination géographique, une qualification qui convient à la langue, mais qui n’a pas la valeur politique que les efforts des idéologues révolutionnaires tendent à lui imprimer, et qui est pleine de dangers pour l’existence même des Etats dont se compose la Péninsule”.
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dell’Italia settentrionale, nato dal congresso di Vienna, non avrebbe mai potuto chiamarsi “Regno d’Italia” se non a rischio di significare una minaccia permanente per gli altri stati della Penisola. Quello che forse gli sfuggiva era tuttavia la forza di un concetto attinente alla lingua e alla cultura, la forza di quella che definiva non a torto una “qualificazione che si riferisce alla lingua” (“la qualification qui convient à la langue”). Essa aveva ben più vigore di quello che quel pur raffinato politico immaginasse. Ma veniamo alla terza fase, quella post-risorgimentale, a unificazione avvenuta, negli anni in cui la storia della lingua italiana prese forma in manuali autonomi e ‘moderni’, e chiediamoci quale spazio occupasse il problema dell’Unità nella ricostruzione della storia linguistica nazionale, se esso fosse centrale, se costituisse uno snodo di rilievo o un accidente secondario. Possiamo avere la sorpresa, se sorpresa è, di scoprire che tale spazio era tornato a essere assai ridotto, a volte nullo, come del resto era stato per secoli. Nei Momenti di Schiaffini, ad esempio, l’unità non esiste nemmeno come problema, anche se l’assenza può essere giustificata per il carattere non sistematico di quel libro, che procede per capitoli staccati, per quadri. Nell’indice del Profilo di Devoto, cioè in un libro che ambisce a ben altra sistematicità, e anzi fa di essa l’asse portante della ricostruzione storica, l’unità politica nazionale non appare affatto come una tappa vistosa, né nella partizione dei capitoli, né nell’avvicendarsi dei tre sistemi fonologici dell’italiano, che hanno la funzione di struttura interna, celata nella forma apparente del libro come una sorta di alternativa alla partizione cronologica immediatamente esibita e dunque meglio percepibile consultando l’indice. Nel Profilo di Devoto, il momento storico dell’unificazione cade senza molto rilievo nel capitolo ottavo, intitolato L’età classica, che comprende il periodo da Cesarotti fino ad Ascoli, Tommaseo, Cattaneo, De Sanctis e si chiude con un cenno a Leopardi. Tuttavia il più vistoso riferimento al legame politico tra storia della lingua e vicende nazionali è collocato da Devoto altrove, cioè alla fine del capitolo settimo, dedicato a quello che chiama Il nuovo bilinguismo, dove si descrive il percorso da Vico al Settecento, attraverso Gozzi, Parini, Goldoni, Baretti e Alfieri, per terminare con il raffronto tra francese e italiano. Il discorso sul Nuovo bilinguismo si conclude con il nuovo sentimento della lingua maturato
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rivela quello che sarebbe accaduto dopo, con l’ascesa del popolo a protagonista della storia linguistica, una storia a cui prima la massa non aveva mai partecipato in maniera così attiva, e la conseguenza di questa ascesa doveva essere appunto un indebolimento del sistema trasmesso dalla tradizione, quindi un allentamento delle sue norme, perché il peso delle masse era anche il segno del manifestarsi delle “forze che dovranno attaccarle dall’interno”, non più dall’esterno come invece era accaduto nel Settecento, con il conflitto tra l’italiano e il francese. Come al solito, Devoto coglieva i movimenti profondi della storia linguistica, le linee di forza, il sistema. Quando ho descritto il cambiamento della trattazione, che passa dalla teoria nazionale di Napione al ruolo delle masse popolari (usando concetti dell’urbanesimo e della demografia), tutti abbiamo certo pensato alla svolta segnata dieci anni più tardi dalla Storia di De Mauro. Sono convinto che la demografia di Devoto prefiguri alcuni elementi tipici dello spirito nuovo che informa la Storia linguistica dell’Italia unita, con la differenza, però, che quella di De Mauro è appunto una storia dell’Italia unita, e dunque all’Unità attribuisce per forza di cose una posizione di primo piano, come punto di inizio di un ciclo nuovo51.
51
In altra occasione, celebrando il cinquantenario della Storia di De Mauro, ho rilevato il legame che effettivamente unisce Devoto e De Mauro, più di quanto non unisca De Mauro a Migliorini. Non a caso, tra le reazioni alla Storia di De Mauro espresse subito dopo la prima edizione del 1963 campeggia proprio quella di Giacomo Devoto, soprattutto per le poche righe che volle aggiungere al Profilo, nelle Note bibliografiche e critiche. Ne trasse quella che io leggo come una sorta di ansia, un desiderio di integrare al più presto i nuovi dati nel proprio quadro storico, ribadendo – si noti – che quelle linee di ricerca erano già prefigurate, anche se non svolte, nelle indicazioni del suo Profilo. Devoto avvertiva dunque il lettore che il libro di De Mauro era ispirato “a principî che questo Profilo suggerisce anche se non sviluppa”. Devoto aveva trovato in De Mauro qualche cosa che gli sembrava accompagnare da vicino il proprio ideale di storia linguistica, da contrapporre a quello degli studiosi ‘ufficiali’ della disciplina accademica: “Ma sono lieto soprattutto – scriveva Devoto a proposito di De Mauro – di avere a fianco qualcuno
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Dunque Devoto assegnava un funzione non troppo rilevante all’unificazione politica nazionale, prendendone atto come di un evento comunque dissolto in un processo molto più ampio, come più ampie erano le forze in gioco nella storia della lingua. Del resto, se si riprende in mano il libretto del 1962 con cui si celebrarono i Cento anni della lingua italiana, scritto da Devoto, Migliorini e
che, di fronte all’interpretazione restrittiva, prevalente oggi [1964] presso i cattedratici di storia della lingua italiana, riaffermi il concetto che ‘storia linguistica’ non è né filologia italiana né braccio minore della letteratura italiana, ma, sia pure da un angolo visuale tutto suo, s t o r i a”. Sono parole polemiche così fortemente partecipate (anche così discutibili, se si pensa che pur esisteva la Storia di Migliorini), che De Mauro, nella prefazione all’edizione del 1970, non mancò di riprendere, sfruttandole a proprio favore, seppure in elegante forma di litote, in una opportuna deminutio, unendole a un ringraziamento in cui il nome di Devoto si affianca a quelli di Denis Mack Smith e di Alberto Caracciolo. Del resto De Mauro fu il primo ad affermare con garbo, ma in maniera perentoria, che gli storici della storia politica non avrebbero più potuto prescindere dalla storia linguistica nel ricostruire i periodi di cui avrebbero professato di interessarsi; cosa, diciamo subito, che non sempre hanno fatto, ma qualche volta sì, seppure con molte cautele: basti pensare a esempi in cui ciò è accaduto, in forma più o meno notevole: la Storia Einaudi, la Storia d’Italia diretta da Giuseppe Galasso, e da ultimo la Storia dell’Europa e del Mediterraneo di Alessandro Barbero. Storia sì, dunque, anche a parere di Devoto: la storia linguistica è storia, una volta che supera la dicotomia tra “storia interna” e “storia esterna” che la fa abortire ancor prima di nascere. È storia, seppure con la sua angolatura particolare; ma quale storia? in che modo ritmata? Non sembra essere la medesima scandita dalle tappe ufficiali, 1861, 1870, che non contano molto nel Profilo, come abbiamo detto; ma sembra essere la storia delle masse, oltre che dei ceti dirigenti e della loro cultura; sembra essere anzi, ancor meglio, storia di “forze”, come aveva scritto Devoto nel passo che abbiamo prima citato, e si rammenti che il termine “forze” è una parola-chiave per intendere il suo modo di pensare la storia, una parola a cui anche altre volte fece ricorso, ad esempio in un libro meno noto di altri, Gioco di forze, appunto, che contiene molte riflessioni autobiografiche e un bilancio dei propri studi che utilizza il titolo crociano, Per una critica di me stesso.
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Schiaffini, si vede bene che l’Unità in quanto tale quasi non entra nei saggi dei tre studiosi, intenti piuttosto a misurare il cammino della lingua in un secolo attraverso l’operato degli scrittori. Particolarmente evidente è il procedimento nel saggio di Devoto, che divide i “cento anni” in “cinque ventenni”, che sono L’età manzoniana, L’età carducciana, L’età dannunziana, tre grandi scrittori, poi la tappa L’età fascista, e infine L’età attuale, in cui entrano “la classicità crociana e l’avvento di gerghi e dialetti nella lingua letteraria”. Solo Migliorini si staccava da questa impostazione letteraria e apriva il suo saggio (si noti che siamo nel 1961, cioè prima della Storia di De Mauro), con un riferimento ad analfabeti e italofoni nel 1861, e con l’aneddoto del crocchio degli ufficiali piemontesi e toscani, in cui piemontesi parlano in dialetto e vengono redarguiti da un capitano degli Zuavi francesi52. Non è un caso che il saggio di Migliorini si staccasse dagli altri due. Completamente diversa è infatti l’impostazione della sua Storia del 1960, nella quale assegna all’Unità una posizione di evidente rilievo, subito riconoscibile nell’impianto generale, rispecchiato in maniera cristallina dall’indice del libro. Due caratteristiche della Storia di Migliorini colpiscono il lettore: l’articolazione per secoli, e il brusco arresto del libro alla prima guerra mondiale, un punto finale che non corrisponde a nessun evento storico o politico che abbia effettive conseguenze linguistiche. Infatti la data assunta – si noti - non è la conclusione della Grande guerra, con l’assetto territoriale definitivo dell’Italia, o lo svolgimento della guerra stessa, con le masse popolari concentrate al fronte in promiscuità linguistica demaurianamente foriera di unità. Il punto conclusivo è l’inizio del conflitto, il 1915. La giustificazione non sta dunque nella funzione della mobilitazione di massa, secondo una valutazione del conflitto mondiale simile a quella che si trova in opere che pongono in primo piano
52
Cfr. G. Devoto, Bruno Migliorini, Alfredo Schiaffini, Cento anni di lingua italiana (1861-1961), Milano, All’insegna del pesce d’oro, 1962. Il passo di Migliorini a cui ho fatto riferimento è a p. 23.
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il significato sociolinguistico degli eventi politico-militari, appunto alla maniera della Storia linguistica dell’Italia unita di De Mauro. La scelta del 1915 è giustificata in modo diverso: basta guardare il titolo del capitolo, che fa riferimento a “mezzo secolo di unità nazionale”, adottando un taglio cronologico che si è reso necessario proprio per la dissimmetria del capitolo dedicato all’Ottocento rispetto a quelli sui secoli precedenti, perché il capitolo sull’Ottocento non comprende il secolo intero, ma si arresta all’unità, che assume per questo funzione strutturale. Per effetto di questa scelta, il capitolo conclusivo ha un passo diverso dagli altri, con il ricorso alla misura del “cinquantennio”. C’è chi ha visto in questo impianto un eccessivo determinismo, che percorrerebbe tutta l’opera, fin dalle parti iniziali. Ghinassi ne ha parlato in riferimento all’Italia linguistica prima di Dante, contrapponendo il pensiero di Walther von Wartburg che abbiamo citato all’inizio, secondo il quale il passato remoto dello spazio linguistico italiano si presentava in maniera tale da far dedurre che “nessun altro paese romanzo è stato meno predestinato a diventare un’unità linguistica”53; Migliorini, per contro, avrebbe attribuito al concetto di “unità italiana” una funzione-guida, usandola come una sorta di polo magnetico per la bussola che orientava il suo libro, facendone il segno di un destino necessario 54. Ecco dunque le due possibilità che si aprono di fronte alle due diverse concezioni della storia linguistica, entro le quali si possono collocare agevolmente altri libri che in seguito hanno affrontato il problema. Marcello Durante, ad esempio, in Dal latino all’italiano moderno, un “saggio di storia linguistica e culturale”, come dice il sottotitolo, non ha reso visibile l’Unità nella struttura dei capitoli, e le ha dedicato un paragrafo, Unificazione politica e nuove
53
54
Cito da G. Ghinassi, Introduzione a Bruno Migliorini, Storia della lingua italiana, vol. I, Firenze, Sansoni, 1988, p. XXIX (ristampa in vol. unico: Milano, Bompiani, 1994). Per il passo a cui si fa qui riferimento, cfr. W. von Wartburg, La posizione della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1940, p. 8. Ghinassi, Introduzione cit. p. XXX.
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l’Unità politica italiana è stata assunta con perfetta fusione tra le due categorie controverse che, sfidando Devoto, ho ancora contrapposto, evocando storia esterna e storia interna, non so citare nulla di meglio di Dionisotti, nella celeberrima recensione alla Storia di Migliorini. Dionisotti non è uno storico della lingua in senso stretto, ma quella recensione è tra le prose saggistiche più celebri nel campo della nostra disciplina; viene da un interlocutore che vorremmo sempre poter trovare tra i colleghi che studiano la tradizione letteraria italiana. Dionisotti ha sempre parlato dell’Italia unita come di un evento eccezionale e imprevedibile, dunque non si è mai contaminato del peccato di finalismo storico, che forse ha sfiorato Migliorini stesso. Il termine che Dionisotti usa più di una volta per indicare l’unificazione italiana è “miracolo”, nel senso di evento inatteso e imprevedibile; le conseguenze di questo miracolo non furono marginali, né operanti solo sulla “storia esterna”: È inutile illudersi che fra Sette e Ottocento si sia potuto operare il miracolo di una Italia unita e bene o male europea, aperta cioè su un piano di libera concorrenza e di potenziale parità alla moderna cultura europea, non sul piano umanistico e tanto meno su quello del Primato giobertiano, senza che una tradizione linguistica e letteraria antica e rigida come quella italiana andasse in pezzi59.
Tale giudizio in qualche modo si può collegare alla tesi di Devoto sull’attacco interno subito dalla lingua nella fase di emersione delle masse popolari, anche se la prospettiva è diversa, perché qui non si guarda al popolo, alle masse che diventano protagoniste della storia, bensì all’élite: È sì la vecchia lingua italiana, ma tutta snervata e franta, messa così in frantumi a servizio di uomini che volendo e facendo un’Italia diversa da quel che l’Italia era stata, non potevano logicamente
59
C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1971, p. 118 (I ed. 1967).
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parlare più il linguaggio di quell’Italia, e neppure intenderlo, né d’altra parte avevano educazione, agio o abilità sufficiente per elaborare un linguaggio nuovo60.
Si è riacceso da un po’ di tempo il dibattito sull’italiano antico e nuovo, sulla vera o presunta continuità tra passato e presente della nostra lingua. Le opinioni non sono sempre concordi, ma qui, forse, nel linguaggio “franto” e nello scacco di quegli uomini che avevano fatto l’Italia nuova ma non ne poterono rifare la lingua, sta il punto di incontro tra le nostre diverse tesi, e magari la chiave del nostro futuro.
60
Ivi.
8. Le osservazioni linguistiche nel primo censimento del Regno d’Italia
È a tutti noto che i dati del primo censimento del regno d’Italia sono stati utilizzati da Tullio De Mauro per calcolare il numero degli italofoni al momento dell’Unità. Tale computo, come sappiamo, si basa sulle risultanze della scolarizzazione, dalla quale, con l’aggiunta degli italofoni ‘naturali’ di alcune regioni, può essere desunto il numero totale dei cittadini allora in grado di sostenere una conversazione nella lingua nazionale, staccandosi dal dialetto. Più di recente, Arrigo Castellani ha riesaminato la questione, prendendo in esame i risultati del censimento, tra gli altri anche quelli relativi agli alloglotti. I linguisti, dunque, hanno tenuto conto dei dati del censimento in varie occasioni, servendosene in
Cfr. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, III ed., Bari, Laterza, 1972, pp. 36-45. Ringrazio il dott. Benedetto Leone, dell’Istituto Nazionale di Statistica di Roma, con il quale, durante il Salone del Libro di Torino del maggio 1995, ho conversato a lungo sui temi trattati in quest’articolo; al sig. Antonio Carrozza, della Biblioteca Istat di Roma, va il mio sincero grazie per la gentilezza e la prontezza con cui mi ha aiutato a reperire il materiale dei censimenti. Al censimento del 1861 ha dedicato alcune note un geografo con forti interessi linguistici, nel quadro di un ampio esame comparativo dei vari censimenti delle lingue nell’Europa: cfr. G. Barbina, La geografia delle lingue. Lingue, etnie e nazioni nel mondo contemporaneo, Firenze, La Nuova Italia Scientifica, 1993. Proprio le brevi osservazioni di Barbina hanno dato lo spunto a questo mio lavoro. Colgo l’occasione per ricordare con rimpianto la sua bella figura di studioso, che ebbi modo di conoscere durante il periodo del mio insegnamento a Udine, dove Barbina era allora il mio preside di Facoltà. Cfr. A. Castellani, Quanti erano gl’italofoni nel 1861?, in “Studi linguistici italiani” 8 (1982), pp. 3-26.
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maniera strumentale, ma – che io sappia – non hanno descritto in maniera specifica il contenuto delle pagine del censimento in cui i dati stessi venivano presentati al pubblico e commentati. Il mio riesame, invece, si propone di valutare questo materiale per stabilire il suo significato storico, culturale e civile, nel quadro della storia delle idee linguistiche. A mio parere si tratta di un paragrafo ingiustamente trascurato, utile per comprendere, attraverso l’operato della Direzione statistica, il sentimento proprio del ceto dirigente e della burocrazia, in linea con le direttive politiche degli uomini che avevano guidato il Risorgimento verso il suo sbocco nello Stato unitario. Il primo censimento generale della popolazione del Regno porta la data 31 dicembre 1861, e intende ‘fotografare’ la situazione dell’Italia unita alla fine del primo anno della sua esistenza. I tre volumi contenenti i dati raccolti uscirono tra il 1864 e il 1866. La capitale, intanto, veniva portata da Torino a Firenze, e ovviamente si trasferiva a Firenze anche la Direzione generale della statistica, Divisione del Ministero dell’agricoltura industria e commercio, la quale aveva tra i suoi compiti la stampa del primo censimento. Gli anni in cui si pubblicarono i risultati furono decisivi per l’organizzazione degli studi statistici nel nostro paese. Si era partiti in maniera approssimativa. Il censimento del 1861 era stato preparato in soli tre mesi. Nel 1862 il marchese Gioacchino Napoleone Pepoli, su cui ha scritto alcune righe graffianti anche Riccardo Bacchelli nel Mulino del Po, aveva assunto il Ministero dell’agricoltura, occupandosi poco e male – a quanto pare – del settore statistico. Negli anni immediatamente seguenti, invece, era stato organizzato presso il Ministero un ufficio centrale per la statistica ben organizzato ed efficiente, con una
Cfr. C. Marazzini, La lingua italiana. Profilo storico, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 362-63. Cfr. R. Bacchelli, Il Mulino del Po, Milano, Mondadori, 1963, II, pp. 627-29 (I ed. 1938-40). Cfr. R. Fracassi, Dal censimento dell’Unità ai censimenti del Centenario. 1861-1961, [Roma], Istituto Centrale di Statistica, 1961, p. 45.
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decina di impiegati sotto la direzione dell’abile funzionario Pietro Maestri. Parallelamente era stata formata una Giunta consultiva di statistica, con nove membri, tra i quali Antonio Scialoja, padre del giurista Vittorio. Come si è detto, gli studi del settore si stavano sviluppando in tutt’Europa, e il gruppo italiano non rimase indietro rispetto agli altri paesi. Nel 1867, ad esempio, la neocapitale Firenze ospitava l’importante VI Congresso internazionale di statistica. Poco prima di quel congresso, la Direzione della statistica ripubblicò in forma sintetica i dati del primo censimento, curando di far comparire nella riedizione le introduzioni, i commenti e i prospetti riassuntivi dell’editio maior. Nelle intenzioni dei curatori, tale sintesi statistica doveva essere il primo passo per una maggior divulgazione dei dati, di cui gli amministratori e i politici avrebbero dovuto imparare a far uso in un crescente processo di modernizzazione, che, ovviamente, doveva prendere l’avvio proprio dall’esame della realtà nazionale, con la concretezza e il realismo che i riscontri numerici potevano favorire. I funzionari della Direzione della statistica generale del Regno, come vedremo meglio, erano ben coscienti di questa funzione di ‘scoperta’ affidata al loro lavoro. Per restringerci al problema della lingua, diciamo subito che i volumi del censimento gli dedicano un paragrafo di otto pagine a stampa, forse non così esteso da soddisfare tutte le nostre aspettative (siamo ormai sensibilissimi al ruolo sociale della nostra disciplina), ma non certo insignificante nell’equilibrio complessivo dell’impresa, e – come si è già detto – non privo di interesse per
Cfr. Fracassi, op. cit. p. 47. Cfr. Calendario generale del Regno d’Italia, Torino, Stamperia dell’Unione Tipografico-editrice, 1864. Cfr. Fracassi, op. cit., e D. Marucco, L’amministrazione della statistica italiana dall’unità al fascismo, Torino, Pluriverso, 1992. Cfr. L. Bodio, Sui documenti statistici del Regno d’Italia. Cenni bibliografici presentati al VI Congresso internazionale di statistica, Firenze, Barbèra, 1867, pp. 5-6.
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era stato dedicato un lavoro pionieristico di Biondelli del 1844, il Prospetto topografico-statistico delle colonie straniere in Italia, poi ripubblicato in volume13. Il Vegezzi-Ruscalla, si noti, era stato tra i collaboratori di Biondelli per la raccolta delle versioni della parabola del figliol prodigo, utilizzata come testo-campione per confrontare i vari dialetti italiani14. Il saggio di Vegezzi-Ruscalla sulla colonia piemontese di Guardia di Calabria è del 186215; del 1864 è quello sulle colonie serbo-dalmate di Larino; al 1866 risale il suo discorso per il “ricevimento” nel collegio di Lettere dell’Università di Torino, in sostanza un elogio dell’etnologia applicata alle conoscenze linguistiche, dove, proprio nel finale, elenca vari gruppi di alloglotti e varie isole linguistiche. Negli anni precedenti, fra l’altro, il Vegezzi-Ruscalla era stato deputato nel parlamento di Torino, ciò che certo lo aveva portato, pur sedendo egli nei banchi dell’opposizione, a seguire da vicino l’attività governativa e la politica culturale del nuovo stato. I sentimenti politico-patriottici non sono indifferenti per cogliere appieno gli atteggiamenti di coloro che allora si occupavano di lingue e dialetti. Mi pare significativo, ad esempio, che il censimento dedichi un’attenzione speciale agli alloglotti, certo non senza relazione con gli studi che abbiamo appena citato. Segni di queste preoccupazioni linguistico-patriottiche, del resto, si colgono anche altrove. Nel 1859, ad esempio, nella prefazione al Dizionario piemontese-italiano, Vittorio di Sant’Albino, presentando il suo vocabolario dialettale, ne giustificava la realizzazione nel nuovo clima dell’Unità italiana sostenendo che il dialetto poteva essere una via d’accesso alla lingua nazionale. Tale principio non sarebbe stato estraneo, più avanti, allo stesso Manzoni, e sarebbe stato
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Cfr. B. Biondelli, Studii linguistici, Milano, Con i tipi di G. Bernardoni, 1856, pp. 43-75. Cfr. P. Benincà, Linguistica e dialettologia italiana, in Storia della linguistica, a cura di Giulio C. Lepschy, vol. III, Bologna, Il Mulino, 1994, p. 578. Cfr. G. Vegezzi-Ruscalla, Colonia piemontese in Calabria, in “Rivista contemporanea”, 31 (1862), pp. 161-92.
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accolto anche da Ascoli, ma in maniera ben altrimenti complessa e dialettica16. Il Sant’Albino, volendo spiegare ai lettori la legittimità dell’interesse per il dialetto, citava la tesi dello Schleicher relativa all’importanza della lingua materna: “Assai bene osservava lo Schleicher, che l’uomo non pensa che in un solo idioma, e questo lo riceve dalla famiglia in cui nasce, dalle persone fra cui vive, da quell’atmosfera, direi quasi, in cui vegeta e cresce”17. Vittorio di Sant’Albino, probabilmente, aveva solo una conoscenza indiretta del linguista tedesco, al quale le riviste letterarie del tempo, ad esempio “Il Crepuscolo” di Milano diretto da Carlo Tenca, dedicavano un’attenzione non infrequente18. Amore e timore del dialetto, dicevamo. Non è un caso che lo stesso Vegezzi-Ruscalla cogliesse l’occasione dell’uscita del dizionario del Sant’Albino per “far voto” che i dialetti si avviassero all’estinzione, così che la nazione si componesse finalmente nell’unità19. La linguistica, dunque, entrava negli studi dialettali suscitando interessi nuovi, ma allo stesso tempo alcuni ricercatori ‘preascoliani’ si accostavano alle parlate locali con cautela, temendo di trovarsi a difendere un’eredità del passato contraria alla prospettiva dello stato unitario, nel quale i particolarismi dovevano essere superati. La contraddizione tra la scoperta delle differenze portatrici di significato etnologico nella loro specifica identità linguistica da una parte, e dall’altra l’aspirazione all’omogeneità nazionale, si coglie molto bene proprio negli scritti del Vegezzi-Ruscalla, dove sovente affiora il problema politico connesso al riconoscimento delle minoranze. Lo studioso andava scoprendo e descrivendo le isole alloglotte, ma rimaneva aggrappato a un’idea romantica di nazione, in cui non poteva essere incrinato il nesso indissolubile con la lingua. Vegezzi-Ruscalla aveva distinto il concetto di nazione da quello di patria e stato.
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Cfr. De Mauro, Idee e ricerche cit., p. 59. V. di Sant’Albino Sant’Albino, Gran dizionario piemontese-italiano, Torino, Dalla società l’Unione Tipografico-Editrice, 1859, p. IX. Cfr. Santamaria, Bernardino Biondelli cit., pp. 215 e 233. Cfr. G. Vegezzi-Ruscalla, Di un nuovo dizionario piemontese-italiano, in “Rivista contemporanea”, 23 (1860), p. 135.
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La “patria” andava intesa solo come unità territoriale, lo “stato” come forma governativa20; ma per avere la “nazione” occorreva l’unità della lingua. Ne discendeva un ovvio programma di politica culturale repressiva nei confronti delle minoranze, giudicate l’anello debole nella costruzione della nuova Italia. Quasi subito questa politica si manifestò nella Valle d’Aosta, che pure, nella sua storia, non aveva mai mostrato la mancanza di patriottismo filosabaudo21. L’idea astratta di ‘nazione’, dunque, sembrava cancellare persino le testimonianze indubitabili della storia. Il nesso tra lingua e nazione era tra quelli più attuali in quel momento, ed era oggetto di discussione tra gli studiosi interessati all’etnologia e alla linguistica, due discipline che assumevano proprio allora un nuovo status nelle università del Regno. Si comprenderà bene, a questo punto, come fosse delicato dedicare al tema linguistico una sezione nel primo censimento nazionale. Come ho già detto, le edizioni dei dati relativi al censimento del 1861 furono due, una maior e una minor, quest’ultima in un solo volume, contro i tre della precedente. Prima di procedere oltre, quindi, dovremo stabilire a quale delle due fare riferimento, dopo aver accennato alle differenze che intercorrono tra esse, pur limitandoci alla sezione specificamente dedicata al tema che ci interessa. Quella che nell’ed. 1867 è la sezione intitolata Popolazione per lingue e dialetti, nell’ed. 1866 si chiama semplicemente Lingue e dialetti22. Nonostante la differenza del titolo, il testo è sostanzialmente il medesimo, sottoposto qua e là, nell’ed. 1867, a una revisione editoriale che tocca due soli elementi di rilievo. L’ed. 1867 abolisce una lunghissima nota, la prima della sezione, che nell’ed. originale scorre per ben tre pagine a stampa. L’eliminazione di
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Cfr. G. Vegezzi-Ruscalla, Che cosa è nazione. Ragionamento, Torino, Tipografia Fratelli Steffenone, 1854. Cfr. C. Marazzini, Il Piemonte e la Valle d’Aosta, in L’italiano nelle Regioni. Lingua nazionale e identità regionali, a cura di F. Bruni, Torino, Utet, 1992, pp. 34-36. Cfr. rispettivamente Statistica del Regno d’Italia. Popolazione cit., pp. XXXV - XLII e Statistica d’Italia. Popolazione cit., pp. 128-136.
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nel primo Manzoni26, fiduciosamente accolta anche da intellettuali dell’Italia unita, come Carducci o lo scrittore Faldella, il quale ne trovava conferma nel filologo Fanfani27. Questa “domesticità” dei dialetti, generalmente ammessa, era stata in grado di garantire un’indolore sovrapposizione della “lingua comune” italiana28. Qui, ovviamente, l’estensore del testo riecheggiava un programma di politica culturale del governo, condiviso da quasi tutti gli intellettuali del paese. Si pensi alla Relazione manzoniana del 1868 (stesa non molto tempo dopo la stampa del censimento, dunque), che provocò tante reazioni, e alle iniziative del manzoniano ministro dell’Istruzione Broglio, in carica dal 27 ottobre 1867 al 13 maggio 186929. Lo stesso censimento accenna al fatto che la diversità dei dialetti delle “nostre plebi” era tra gli argomenti su cui facevano leva gli “avversari dell’unità italiana”, e quindi i nostalgici degli stati preunitari, i nemici del sistema, insomma. Le implicazioni politiche del tema linguistico, comunque, non impedirono ai funzionari della Direzione statistica di guardare con occhio critico ai dati che si trovavano a pubblicare, denunciandone onestamente i limiti e le manchevolezze. I dati sarebbero stati ‘addomesticati’, per così dire, in omaggio agli entusiasmi patriottici: “Le notazioni del censimento furono fatte in mezzo a quell’entusiasmo che, affermando l’unità nazionale, affermava tutti gli elementi che la compongono, tra i quali principalissimo è il comune linguaggio delle leggi e delle scritture. E però ognun vede come quest’occasione era tutt’altro che propizia a raccogliere, dalle dichiarazioni individuali, notizie intorno ai differenti
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Cfr. ad esempio la Postilla 83a in A. Manzoni, Postille al Vocabolario della Crusca nell’edizione veronese, a cura di D. Isella, Milano/Napoli, Ricciardi, 1964, p. 14: “Tanta è la fratellanza di questi volgari!”. Cfr. G. Faldella, Zibaldone, a cura di C. Marazzini, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1980, p. XIV. Cfr. Statistica d’Italia. Popolazione, cit., p. 128. Cfr. Il gran ‘polverone’ attorno alla Relazione manzoniana del 1868, in questo stesso volume, e F. Monterosso in A. Manzoni, Scritti linguistici, a cura di F. Monterosso, Milano, Edizioni Paoline, 1972, p. 176.
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caso di ‘autocoscienza’ della propria limitatezza da parte di una comunità alloglotta: i Walser delle colonie tedesche del Monterosa chiamavano il proprio idioma “lingua delle femmine”. La notizia è attinta al saggio dello Shott del 1842 sulle comunità tedescofone del Monterosa, un libro citato anche da Ascoli, il quale aveva osservato: “Nei comuni monterosani istessi, come risulta dalle autorevoli conclusioni dello Shott, l’elemento romanzo s’immischia dappertutto al dialetto originario, che ormai s’appella linguaggiodelle-femine; e da anno in anno il terreno va insensibilmente ma indubbiamente mancando all’idioma germanico”34. Mi pare che ci sia, nel censimento, un uso “politico” di una considerazione puramente scientifica, qui assunta in un contesto non neutrale, o, se non altro, utilizzata nel quadro di quella bivalenza a cui abbiamo già fatto cenno, che vede svilupparsi l’attenzione per i fenomeni (si pensi al dispiacimento con cui si denuncia la scarsa affidabilità dei dati sugli alloglotti), e allo stesso tempo la loro condanna dei fenomeni stessi in nome dell’ideale unitario. Ritengo che questa contraddizione renda difficile il procedere sereno nell’esposizione dei dati delle inchieste. Mi pare anche, tuttavia, che, una volta preso atto di tutto ciò, non si debba giudicare semplicisticamente, attribuendo le cautele e le riserve dettate dal sentimento patriottico solamente all’autoritarismo e al centralismo dominanti nello stato appena costituito. La contraddizione tra il gusto della scoperta etnografica e i timori di stampo patriottico nasce piuttosto da una tensione ideale della classe politica, nel suo misurarsi con le nuove frontiere della scienza. Nel momento in cui la linguistica e l’etnologia proponevano una considerazione sistematica di elementi prima quasi inosservati, e nel momento in cui la nascente organizzazione scientifico-universitaria cominciava a dedicare la propria attenzione a tali fenomeni, esercitandovi le nuove tecniche di classificazione, lo Stato, caratterizzato, ovviamente, nella
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G. I. Ascoli, Studj critici, Vol. I, estratto dagli “Studj orientali e linguistici”, fasc. III, Milano, Presso gli Editori del Politecnico, 1861, ristampa anastatica di Bologna, Forni, 1980, pp. 45-46.
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sua fase costitutiva, dopo il Risorgimento, da una forte avversità per i particolarismi e da un sentimento nazionale tipico della cultura ottocentesca, cercava di trovare una legittima collocazione ai dati relativi alle condizioni popolari; così, bene o male, veniva al pettine anche il problema linguistico, in cui ora si riconoscevano implicazioni sociali più complicate di quelle che erano pur saltate all’occhio dei letterati i quali avevano discusso e ancora discutevano sulla “questione della lingua”. Il censimento offriva dunque i dati numerici relativi alla consistenza di alcuni gruppi di alloglotti, indicando i comuni da essi abitati. Prima di tutto venivano contati gli occitani della provincia di Torino (allora comprendente i circondari di Aosta, Pinerolo e Susa), per un totale di 119.369 unità. Si avvertiva il lettore che la lingua francese era in uso nella Valle d’Aosta, presso i Valdesi, in una parte della Valle di Susa, in alcune valli pinerolesi, e veniva fornito un elenco dettagliato dei comuni interessati. Non ci si deve stupire che il censimento unisse in un’unica categoria i provenzali e i franco-provenzali. La distinzione tra questi due gruppi, infatti, fu proposta da Ascoli negli Schizzi franco-provenzali pubblicati nell’“Archivio Glottologico Italiano” del 187835; essa, quindi, non poteva essere nota all’estensore, come non era nota al Biondelli36. Seguivano i dati sulle isole tedesche del Monterosa, nelle province di Novara e Torino (allora non esisteva ancora la provincia di Vercelli, istituita nel 1927), in Valle d’Aosta, Val Sesia e Ossola. Il numero totale dei “burgundi”37 risultava di 3649 unità (solo un cenno, senza dati numerici, era dedicato ai comuni di lingua tedesca del Vicentino e del Veronese, e ai tedescofoni ancora soggetti all’Impero austriaco38). Si dava quindi notizia della colonia
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Cfr. C. Tagliavini, Le origini delle lingue neolatine, VI edizione, Bologna, Pàtron, 1972, pp. 352 e 424; e T. Telmon, Le minoranze linguistiche in Italia, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1992, p. 117. Cfr. Biondelli, Studii linguistici cit., p. 56-57. Così venivano definiti i Walser, seguendo Biondelli, Studii linguistici cit., p. 47-48. Cfr. Statistica d’Italia. Popolazione cit., p. 129.
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dalmata di Larino, fatta conoscere (salvo per qualche accenno di poco precedente dedicatole da Ascoli e da Comparetti, e per un opuscolo pubblicato a Zara nel 1856 da tal professor Giovanni De Rubertis) da Vegezzi-Ruscalla39. Si trattava quindi di una scoperta recente, successiva al censimento, tanto è vero che di questa colonia non venivano forniti dati numerici, pure desumibili dal lavoro del Vegezzi-Ruscalla stesso, oltre che da una stima (assai diversa, però) dell’Ascoli40. Veniva poi il computo degli albanesi (55.453 unità) e dei Greci di Calabria e Terra d’Otranto (20.268 unità), un accenno senza indicazioni numeriche agli zingari di Molise, Abruzzi e Terra di Bari, infine l’indicazione precisa dei 7.036 catalani di Alghero41. Il censimento proseguiva con il computo dei cittadini stranieri residenti stabilmente nel Regno (per turismo, studio, o altri motivi), per un totale di quasi 30.000 persone: un gruppo, questo, eterogeneo rispetto alle classi precedenti, ma che tuttavia veniva accorpato ad esse per individuare il dato finale che più stava a cuore all’estensore della ricerca, cioè il numero totale di coloro che parlavano una lingua non-italiana. Ovviamente la somma numerica di tutte le categorie sopra elencate non forniva in realtà un dato utilizzabile a questo scopo, per l’eterogeneità delle condizioni proprie dei vari gruppi, prima ancora che per gli eventuali difetti nella conduzione delle inchieste. Il censimento, invece, a questo punto sottraeva dal numero totale degli abitanti dell’Italia 134.435 francofoni (di cui circa 120.000 erano, come abbiamo visto, quelli abitanti nel Piemonte), 8.143 tedescofoni, 87.331 “d’altre lingue” (soprattutto greci, albanesi, catalani), per concludere che gli italofoni erano nel numero di 21.541.879, “una delle maggiori agglomerazioni di popolo che sieno in Europa
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Cfr. G. Vegezzi-Ruscalla, Le colonie serbo-dalmate del circondario di Larino provincia di Molise. Studio etnografico, Torino, Tipografia degli eredi Botta, 1864. Cfr. Ibid., p. 16. Biondelli, Studii linguistici cit., p. 66, li aveva stimati nel numero di “circa 8.000” .
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Biondelli e quella del censimento stanno dunque nella semplificazione dei nomi dei gruppi meridionali, oltre che nella mancata menzione della famiglie Carnica e Veneta, territori, del resto, annessi all’Italia solo dopo il censimento del 1861, con la terza Guerra d’indipendenza e la I guerra mondiale. Un elemento assai importante che rivela l’ossequio alla classificazione di Biondelli sta comunque nella separazione tra i dialetti gallo-italici e il ligure, del resto accolta anche da Nigra e dal Diez, e contestata da Ascoli, il quale ritenne di annoverare il ligure tra i dialetti gallo-italici, anziché considerarlo una fase di passaggio tra le parlate italiane e il sardo-corso47. Anche questa classificazione del censimento, per forza di cose assai dipendente da quella di Biondelli, mostra dunque che siamo di fronte a una testimonianza della linguistica ‘preascoliana’, o meglio, a un riflesso di questa linguistica, accolta con fiducia dai funzionari della Direzione della statistica del Regno per far da struttura all’esposizione dei dati. Stabilite le famiglie dei dialetti, l’estensore della nota prendeva atto che il gruppo più forte per numero di parlanti era quello italo-celtico, caratterizzato da “origini e attinenze straniere”48. Concludeva, non a torto, che il gruppo tosco-romano era tuttavia superiore non solo perché di qui traeva alimento “la vita comune della nazione”, ma perché esso andava meglio d’accordo sia con il gruppo veneto, sia con quello meridionale. Era evocata, insomma, la ‘medietà’ del toscano. A questo punto, l’estensore della nota si avviava alla conclusione, la quale non poteva non ritornare al delicatissimo tema su cui si era soffermato in apertura, cioè l’intima comunione tra i dialetti d’Italia, e quindi la facilità del passaggio all’italiano, grazie a quanto di comune già c’era nella nazione49:
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Bologna, Il Mulino, 1982, p. 51. E Biondelli, Studii linguistici cit., pp. XLV-XLIX. Cfr. G. I. Ascoli, Del posto che spetta al ligure nel sistema dei dialetti italiani, in “Archivio glottologico italiano” 2 (1876), pp. 111-160. Statistica d’Italia. Popolazione cit., p. 135. Ibid., p. 135.
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Quello che importa alle indagini statistiche e politiche è questo, che al presente v’ha un’intima conformità fra tutti i dialetti d’Italia, sicché non riesce impossibile né difficile per le menti anche volgari il trapasso dalla lingua domestica e locale di qual vuoi più remoto angolo d’Italia alla lingua scritta, intesa e parlata da tutta la classe colta della Nazione 50; ciò che, del resto è già provato dal fatto che da più secoli la lingua scritta è la lingua delle leggi, degli affari e delle scuole senza neppur escludere le scuole popolari e religiose.
Ancora una volta, proprio in chiusura del saggio, l’estensore si trovava a sfiorare il punto dolente, il rapporto tra i dialetti e la lingua comune, e cercava nuovamente di risolvere questo rapporto nella maniera meno drammatica e conflittuale.
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Emendo il testo, che, per un refuso, porta dalla Nazione anziché della Nazione (nell’ed. 1866, p. XLII: della Nazione).
9. Firenze capitale: questioni linguistiche
Prenderò le mosse dalla constatazione di un’assenza: nelle indagini svolte per scrivere questo studio, spogliando i giornali torinesi del 1864, ho dovuto prendere atto della mancanza dell’argomento linguistico nella pur vivacissima discussione svoltasi in città a proposito del trasferimento della capitale. Eppure si noti che quel dibattito si protrasse a lungo, a partire dalla notizia improvvisamente divulgata della Convenzione di settembre e della clausola connessa, per la quale si doveva attuare il “trasferimento e lo stabilimento della capitale a Firenze”. Lo annunciava il 18 settembre la “Gazzetta del popolo” di Torino, facendo seguire un commento fortemente critico contro quella “mistificazione”. Il dibattito assunse presto un tono drammatico, dopo gli incidenti che costarono oltre cinquanta morti e cento feriti, nelle sparatorie del 21 e 22 settembre a Torino, quando la folla si radunò al grido di “Capitale Torino o Roma!”. Qualcuno aggiunse “Abbasso Firenze!”, anche se la “Gazzetta del popolo” attribuiva tale grido ai provocatori messi in campo dal ministro dell’interno, il toscano Peruzzi. Le accese
Secondo F. Cognasso, Storia di Torino, Milano, Martello, 1961, pp. 56667, un breve annuncio della notizia era stato dato dal giornale l’Opinione già il 17 settembre, e poi il 18 dalla Stampa. Ho visto direttamente la notizia riportata sulla Gazzetta del popolo del 18 settembre 1864, posta sulla prima pagina del giornale. Ho consultato l’esemplare conservato nella Biblioteca del Museo del Risorgimento di Torino. Ringrazio la dott.ssa Francesca Rocci, Coordinatrice della Biblioteca e degli Archivi Storici, per l’aiuto che mi ha prestato e per la gentilezza con cui ha favorito il mio lavoro. Cfr. la “Gazzetta del popolo” del 28 settembre 1864, a p. 4, che respinge l’accusa che i manifestanti avessero levato quel grido, e lo attribuisce invece ai “provocatori” di Peruzzi-Spaventa. Ciò fa pensare che il grido si fosse comunque udito, anche se sicuramente isolato.
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discussioni continuarono nei mesi successivi, durante il dibattito parlamentare, prima alla Camera e poi al Senato, per dare seguito alla Convenzione. Eppure anche qui, nelle decine di verbosi interventi, con mia sorpresa, non ho trovato l’argomento linguistico. Il mio spoglio vale ovviamente come un sondaggio, senza pretesa di completezza, ma posso perlomeno garantire che l’argomento linguistico non pare proprio inserirsi tra quelli comunemente presi in considerazione. Le questioni che ritornano frequenti sono altre: il tradimento compiuto ai danni della città sabauda, l’ingerenza francese, la scelta di Roma già a suo tempo formalizzata, da molti ritenuta irreversibile, unica alternativa al mantenimento della capitale a Torino. A favore dello spostamento della capitale, viene spesso ripetuto l’argomento militare e geografico: molti insistono sulla marginalità della città sabauda, sulla sua posizione eccentrica, mal difendibile in caso di attacco (argomento messo in campo dai generali riuniti in gran fretta da Minghetti già il 18 settembre), l’elogio della centralità (geografica, non linguistica, di badi) di Firenze, la sua maggior vicinanza a Roma, e infine la necessità di uscire da quello che allora veniva definito, con neologismo ancora oggi registrato nei dizionari italiani (il Gradit lo data al 1860), il piemontesimo, termine con cui non si alludeva a un fatto linguistico, ma alla politica piemontese, incapace di aprirsi all’Italia staccandosi dalle tradizioni della corte di Torino. Il neologismo dilagava. Non lo troviamo solo negli scritti di Cattaneo e di Mazzini, ma anche nei titoli dei giornali e nei discorsi dei parlamentari. Per
Cfr. F. Sclopis di Salerano, Diario segreto (1859-1878), a cura di P. Pietro Pirri S. I., Torino, Deputazione subalpina di storia patria, 1959, p. 364, dove è riportata la testimonianza del generale de Sonnaz, e si osserva che Minghetti aveva affermato essere già avvenuta in precedenza tale riunione (cfr. p. 362). Cfr. anche Cognasso, op. cit., p. 567. Cfr. la “Gazzetta del popolo” del 18 novembre 1864 a p. 3, dove un articolo è appunto intitolato “Il piemontesismo”. Per le attestazioni di piemontesismo da Cattaneo a Gramsci, e di piemontismo in De Sanctis, cfr. il Grande Dizionario della lingua italiana diretto da S. Battaglia, vol. XIII, p. 402. Il termine ricorre anche nel discorso parlamentare di Domenico Berti (cfr. la “Gazzetta del popolo” del 14 novembre 1864).
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reagire al piemontesismo (o, per De Sanctis, piemontismo), non solo per compiacere alla politica di Napoleone III, Minghetti e i suoi negoziatori avevano probabilmente accettato la clausola che poi fece cadere il loro ministero. Per necessità di attenuare il piemontesismo, il re Vittorio Emanuele II (rimasto “secondo”, com’è noto, anche una volta divenuto primo re d’Italia), accettò, alla fine, quella clausola, alla quale all’inizio si era opposto. Occorreva cancellare l’impressione negativa suscitata da certe espressioni ‘forti’ che circolavano, come quel detto di Cesare Balbo, noto anche a Manzoni, un detto che non ci sarebbe stato tramandato senza la penna mordace di Tommaseo, che pure ha trascritto con la tecnica della reticenza: “L’Italia è il Piemonte, e il resto è m...”. Inutile, perciò, cercare nel pur necessario trasferimento della capitale un entusiasmo che certamente non ci fu. Mazziniani e garibaldini, radicali agitati, bottegai torinesi e albergatori, speculatori e impresari, impiegati ministeriali con le loro famiglie, operai minacciati dalla disoccupazione, patrioti pieni di buoni sentimenti, piemontesi irriducibilmente attaccati alla loro città tradita: tutti costoro costituivano il fronte eterogeneo degli avversari di Firenze. E anche da Firenze arrivavano lettere di solidarietà ai giornali torinesi. Negli stessi giornali serpeggiava invece irritazione per la scarsa solidarietà dei giornali milanesi, perché a Milano l’opinione prevalente era che la capitale dovesse essere certamente spostata. Molte altre città italiane avevano dovuto fare la stessa rinuncia: lo rilevò in Senato, con il garbo del politico esperto, Paolo Emilio Imbriani, padre dello scrittore Vittorio, relatore di maggioranza della legge di trasferimento. Del resto tensioni tra queste e altre città rinascono
Cfr. la reazione del re descritta da D. Mack Smith, Vittorio Emanuele II, Bari, Laterza, 1972, p. 205 e da G. E. De Paoli, Vittorio Emanuele II. Il re, l’uomo, l’epoca, Milano, Mursia, 1992, p. 257. Cfr. N. Tommaseo, G. Borri, R. Bonghi, Colloqui col Manzoni,seguiti da memorie manzoniane di D. Fabris, con introduzione e note di G. Titta Rosa, Milano, Ceschina, 1954, p. 118. Atti del Senato, 6 dicembre 1864, discorso conclusivo di Imbriani, in Discussioni della camera dei Senatori, 1863-64, Roma, Cotta e Compagni, 1873, p. 2198.
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a volte persino oggi, a un secolo e mezzo di distanza. Si discusse allora che cosa scegliere, in mancanza o in attesa di Roma. Furono avanzate altre candidature, e la più credibile (sostenuta anche dalla maggioranza dei ministri), a quanto sembra, fu quella di Napoli, vera grande capitale sotto i Borboni, la maggior metropoli italiana: ma si oppose il re Vittorio Emanuele, rendendosi lucidamente conto che da Firenze sarebbe stato possibile venir via senza guai, nel caso in cui si fosse riaperta la strada di Roma, da Napoli certamente no. Dunque, la scelta di Firenze non era affatto il tradimento degli ideali risorgimentali, come pensarono molti, nell’agitazione determinata da una notizia comunicata male e giunta all’improvviso (mancò allora la necessaria saggezza nella gestione di quella che oggi si chiama la “comunicazione sociale”). Però, di fatto, il trasferimento, che ebbe per Torino le conseguenze rovinose ben descritte da Valerio Castronovo, e che gettò la
Cfr. S. Bertoldi, Il re che fece l’Italia. Vita di Vittorio Emanuele II di Savoia, Milano, Rizzoli, 2002, pp. 253-54, e Mack Smith, op. cit., p. 206. Cfr. V. Castronovo, Da ex capitale a città dell’industria, in Storia illustrata di Torino, a cura di V. Castronovo, vol. V, Torino nell’Italia unita, Torino, Sellino editore, 1993, p. 1202, dove si legge: “Di fatto la partenza della corte, del Parlamento e del Governo avevano inferto un durissimo colpo alla città: insieme alle massime istituzioni dello Stato, se ne andarono gli uffici pubblici, la zecca e numerose banche, come pure alcune delle principali società d’affari; anche parte delle officine statali di forniture militari e ferroviarie vennero smobilitate. E tutto ciò provocò, inevitabilmente, conseguenze sconvolgenti in ogni sfera della vita cittadina: dalle botteghe commerciali, ai laboratori artigianali, ai cantieri edili. Nel breve volgere di tre-quattro anni Torino si ridusse da 220.000 a 190.000 abitanti; e il regresso, se pur meno brusco e consistente, sarebbe continuato nel decennio successivo. Da capitale del Regno al culmine del suo prestigio, la città era così sprofondata lungo la china di una decadenza che sembrava irreversibile”. Si veda anche G. Talamo, Stampa e vita politica dal 1848 al 1864, in Storia di Torino, VI, La città nel Risorgimento (1798-1864), a cura di V. Levra, Torino, Einaudi, 2000, p. 583, dove è citato un passo di Castronovo sulla stanchezza e sul progressivo isolamento del giornalismo piemontese nel decennio postunitario, che ho potuto toccare con mano anche nel corso della mia ricerca.
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città in una decadenza apparentemente irreversibile, non poteva certo essere presentato in maniera trionfalistica. Basta rileggere il primo discorso di Vittorio Emanuele II in Palazzo Vecchio, nell’aula dei Cinquecento, il 18 novembre 1865, discorso in cui non sono mai espressi nomi di città: non è mai nominata Firenze, non è mai nominata Torino, mai Roma. Vengono usate sempre perifrasi. Torino diventa la “città generosa, che seppe custodire i destini d’Italia nella rinascente sua fortuna”. Firenze viene indicata come “questa nobile sede di illustri memorie”10. Non è così strano, insomma, che l’argomento linguistico non entrasse nelle discussioni del 1864, e nessuno mai dicesse esplicitamente che a Firenze la lingua d’Italia era viva e vera, che il passaggio da quella città avrebbe potuto finalmente italianizzare la classe dirigente. Ovviamente non era quello il momento di evocare (se mai qualcuno se ne fosse ricordato) un primato linguistico a cui secoli prima avevano guardato con interesse non necessariamente ingenuo uomini come Lorenzo il Magnifico e Cosimo de’ Medici, oltre a letterati come il Salviati11. Tuttavia persino l’argomento culturale era diventato ora un tabù, dopo che la gente di Torino aveva cominciato a usare espressioni come questa: “Për quatt’quadrass ch’a l’han, a fan un bourdel da furca”. In italiano suonerebbe: “per quattro quadracci che hanno, fanno un gran chiasso”. Si noti che la frase, in dialetto piemontese, è riportata da una fonte attendibile: l’aveva udita personalmente un torinese trapiantato da tempo a Firenze, l’editore
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Cfr. G. Massai, La vita e il regno di Vittorio Emanuele II di Savoia primo Re d’Italia, Milano, Treves, 1901, pp. 459-60; Vittorio Emanuele II Re d’Italia, Discorsi al parlamento nazionale, Roma, Tipografia del Senato, 1878, pp. 53-56. Cfr. N. Maraschio, Lionardo Salviati e l’orazione in lode della fiorentina lingua e de’ fiorentini autori (1564/1575), in Studi di storia della lingua italiana offerti a Ghino Ghinassi, a cura di P. Bongrani, A. Dardi, M. Fanfani, R. Tesi, Firenze, Le Lettere, in particolare alle pp. 192-93; C. Marazzini, Il ‘dominio’ fiorentino della lingua, in Id., Da Dante alla lingua selvaggia, Sette secoli di dibattiti sull’italiano, Roma, Carocci, 1999, pp. 88-90.
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dibattito del 1864-65 sulla nuova capitale del Regno. Viene subito a mente l’annotazione di Manzoni, nel poscritto di una lettera al Giorgini, del 5 ottobre 1862, giustamente celebre dopo l’inserimento nella Storia della lingua italiana di Bruno Migliorini17. Manzoni, com’è noto, scrivendo in un foglio separato allegato alla lettera, destinato alla più assoluta riservatezza, dichiarava di essersi ben guardato dal toccare un argomento che gli avrebbe levato gran parte del “coraggio”, cioè la possibilità che la capitale fosse collocata in luogo diverso da Firenze. “Ma una capitale – scriveva Manzoni – ha, per la natura delle cose, una grande influenza sulla lingua della nazione. Sarebbe, credo, un caso unico che il capo della nazione fosse in un luogo e la sua lingua in un altro”18. E aggiungeva: “Fino il piemontese, e in così poco tempo, s’è infiltrato un pochino negli scritti e nei discorsi”19. Manzoni sapeva che quel “pochino” non aveva alcuna possibilità di diventare la totalità, come scrisse esplicitamente anni dopo il Giorgini nella prefazione al Novo vocabolario20. Ma sapeva anche, per averlo appreso in una conversazione con il Tommaseo, che un intellettuale piemontese come Domenico Berti (che non a caso intervenne in parlamento parlando contro il trasferimento della capitale) dichiarava che “dal Piemonte dovendo venire all’Italia lo spirito e la dignità della nazione, doveva anche venirne la lingua”21. Manzoni, a quanto riferisce Tommaseo, rimase “attonito” a questa notizia22.
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Cfr. B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 19785, pp. 684-85. Il passo si legge in M. Scherillo, Manzoni intimo, II, Milano, Hoepli, 1923, p. 197; ora in A. Manzoni, Tulle le lettere, tomo III, a cura di C. Arieti, Milano, Adelphi, 1986, pp. 253-54. Ivi. Così annotava Giorgini, Prefazione al Novo vocabolario della lingua italiana, vol. I, Firenze, Cellini, 1870, p. V: “e si può, per esempio, scommettere che se la capitale fosse rimasta a Torino, il dialetto Piemontese non sarebbe mai divenuto per questo lingua comune degli Italiani”. Tommaseo, in Tommaseo, Borri, Bonghi, Colloqui col Manzoni cit., p. 118. Ivi.
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Vacca [Vacca era il nuovo ministro di Grazia e giustizia nel governo La Marmora appena nominato] mi raccontò che, discorrendo tempo fa con Alessandro Manzoni sul sito dove porre la capitale d’Italia, quegli aveva indicato Firenze, perché là era la vera Italia, il centro della buona lingua! Salvo il rispetto dovuto al grande poeta e romanziere, dirò: che goffaggine27! La principale preoccupazione per fare un’Italia debb’essere l’esercito; e si fa centro del regno il paese meno armigero, più imbelle di tutta l’Italia!28
Si noti: la forza militare in alternativa alla lingua, come forza coesiva della nazione. Lo Sclopis non contrappone al fiorentinismo un diverso ideale linguistico, magari alla maniera di Galeani Napione, ma anzi introduce l’esercito nella questione della lingua, cosa che prima non era mai accaduta! Tale reazione viene, devo ammetterlo, da un conservatore, da un avversario dell’italianizzazione che aveva caratterizzato la recente politica sabauda29, da un nemico della politica di Cavour, da chi pensava fosse stato sbagliato cedere la Savoia, proclamare Roma capitale e promuovere l’annessione di Napoli30. Ma non era certo l’unico ad essere attanagliato da tanti dubbi, che sono pur sempre segno di come potesse essere ancora incerto il sentimento di comune italianità anche tra alcuni di quei piemontesi i quali, volenti o nolenti, avevano collaborato a realizzare l’Italia. Si noti che fu proprio lo Sclopis a commemorare Manzoni nel 1873 all’Accademia delle Scienze di Torino, e non si dimentichi che il senatore Manzoni, qualunque opinione gli attribuissero, venne a Torino nel 1861 a votare per Roma capitale, e nel 1864 ritornò per votare il trasferimento a
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Per il significato del termine goffaggine, cfr. il piem. gofada “sciocchezza” , “corbelleria” (vedi V. di Sant’Albino, Gran dizionario piemontese-italiano, Torino, Dalla società l’Unione Tipografico-editrice, 1859, pp. 649-50). Sclopis di Salerano, Diario segreto cit., p. 376. Cfr. Ibid., p. 362. Cfr. Ibid., p. 368: Sclopis riferisce questi tre argomenti come espostigli da Menabrea, ma si vede bene che concorda con l’interlocutore.
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Firenze, trasferimento che ovviamente non gli dispiacque, e l’atto fu persino inteso da alcuni come una forma di “ostilità milanese contro il Piemonte”31. A Firenze, come si sarebbe detto qualche anno fa, esplosero contraddizioni latenti. Per rendersene conto, basta scorrere quegli stessi giornali torinesi che, come la “Gazzetta del popolo”, avevano avversato con tutte le forze il trasferimento della capitale. Non solo si nota quella crisi del giornalismo piemontese di cui hanno parlato Castronovo e Talamo: i giornali che prima dedicavano il massimo spazio alle vicende politiche e parlamentari di Torino si trovavano ora lontani dal luogo in cui si decideva la politica e regredivano visibilmente a una dimensione provinciale. I servizi da Firenze, poi, mostrano la realtà del difficile incontro con la città toscana, su cui la nuova responsabilità era caduta improvvisa. La massa dei trasferiti-coatti da Torino non era contenta affatto. In quel 1865, a Firenze, dunque, la parola piemontese assunse un significato nuovo, non quello di “proveniente dal Piemonte”, ma
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P. Pirri, nell’Introduzione a Sclopis, op. cit., p. 35. E Cognasso, op. cit., p. 560: “Per l’approvazione dell’ordine del giorno proclamante Roma capitale d’Italia venne a Torino Alessandro Manzoni, come era venuto nel febbraio per l’inaugurazione del Primo Parlamento Italiano e la proclamazione del Regno d’Italia. Il Manzoni venne superando le insistenze di quanti avrebbero voluto che se ne astenesse, ma egli sapeva quanta importanza avrebbe avuto per l’Italia la proclamazione di Roma capitale”. Quanto all’atteggiamento di Manzoni verso il problema della capitale, si legga anche questo passo dalle memorie della figlia, Vittoria Giorgini-Manzoni: “Nel giugno del ’64 , papà venne a Pisa da noi, e fu quella la sua ultima gita in Toscana. Nel dicembre ritornò per l’ultima volta a Torino con Bista, volendo dare il suo voto per il trasferimento della Capitale a Firenze, che egli considerava come una tappa verso la meta. Papà aveva sperato che sarebbe stato possibile di andare a Roma d’accordo con l’opinione cattolica, ma l’idea di Roma Capitale d’Italia fu sempre, dal 1860 in poi, appena il Cavour l’ebbe affacciata a mezza bocca, la sua ardente aspirazione” (Manzoni intimo, a cura di M. Scherillo, vol. I, Vittoria e Matilde Manzoni. Memorie di Vittoria Giorgini Manzoni, Milano, Hoepli, 1923, p. 142).
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può far riferimento a una testimonianza portata da Bruno Migliorini, in un capitolo linguistico nel volume Firenze cento anni fa, al quale aveva collaborato anche il citato Camerani. Migliorini ricordava che il filologo Pietro Fanfani si lamentava perché Firenze “dopo il trasporto è, per la più parte della gente nuova, poco di meglio che una tana di fiere [...]: è degna del riso la lingua che vi si parla, o non è certo degna di scambiarsi co’ dialetti dell’altre parti d’Italia”37. Devo dire, fra l’altro, che questo capitolo linguistico su Firenze capitale, in cui Migliorini, come di consueto, mostra le sue imbattibili doti di storico, contiene tutto quanto ci si potrebbe aspettare oggi dalla mia relazione, tanto che mi basterà riassumere gli argomenti di quel maestro fiorentino (d’adozione se non di nascita) per adempiere al mio compito38. Migliorini ricorda infatti che in quegli anni si sviluppò il lavoro dell’Accademia della Crusca per la quinta edizione del vocabolario, il cui primo volume era uscito nel 1863 con una dedica a Vittorio Emanuele II re d’Italia, mentre il secondo volume uscì nel 1866. Nel 1859 Tommaseo si era trasferito da Torino a Firenze, anticipando il movimento della capitale, e lavorava per il grande dizionario finanziato dal Pomba, quel dizionario fiorentino-torinese che sarebbe stato il maggiore per molti anni; il primo volume fu recensito da Carducci per la “Nazione” di Firenze. Tra il 1859 e il 1865 era uscita la II edizione del dizionario della Crusca rivisto dal Manuzzi, la cui prima edizione era apparsa nel 1833-40 con dedica a Carlo Alberto (ma la seconda portò una dedica più modesta, al padre Cesari capofila dei Puristi). Nel 1865 fu riedito con miglioramenti il vocabolario del Fanfani, uscito nel 1863. E, ancora, Migliorini ricorda le varie riviste legate al nome di Pietro Fanfani, L’Etruria, Il Piovano Arlotto, Il Borghini (la cui prima serie uscì appunto tra il 1863 e il 1865), L’Unità della lingua (tra il 1869 e il 1873). Ricorda il piemontese padre Giuliani, che viveva a
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P. Fanfani, Licenza, ne “Il Borghini” III (1865), p. 764. Il passo si legge in Migliorini, Linguisti e linguaioli, in Firenze cent’anni fa cit., p. 112. Si veda Migliorini, Linguisti e linguaioli cit., pp. 109-123, da cui traggo gli argomenti che riassumo brevemente nelle righe che seguono.
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Firenze, e i cui libri diffusero l’immagine del toscano parlato nelle zone rurali e isolate, facendo giungere la voce e le conversazioni di quei contadini a uno scrittore piemontese come Giovanni Faldella, che da Giuliani e da Giusti trasse la maggior parte dei propri spogli linguistici. E, ancora, seguendo Migliorini, troviamo una figura di ligure-piemontese che non avremmo potuto comunque dimenticare in questa rassegna: dal 1867 De Amicis era stato chiamato a Firenze come redattore dell’Italia militare, e frequentava il salotto Peruzzi, radice prima dell’Idioma gentile: anche in questo caso, gli anni di Firenze capitale sono stati decisivi per la formazione di un letterato che influenzò fortemente i giovani e gli insegnanti, diffondendo il culto del fiorentino parlato, seppure in forme non sempre davvero coerenti con gli ideali manzoniani a cui pretendeva di ispirarsi39. Alcuni bozzetti di De Amicis raccolti nella Pagine sparse restituiscono perfettamente l’entusiasmo di chi a Firenze incontrò per la prima volta l’italiano come lingua viva. Penso prima di tutto a La mia padrona di casa, ritratto della donna presso la quale De Amicis stava a pigione, “la quale mi insegnò in sei mesi più lingua italiana di quanto io n’abbia imparata in dieci anni da tutti i miei professori di letteratura, nati, come diceva l’Alfieri, là dove l’Italia boreal diventa”40. Esemplare è anche il bozzetto Quello che si può imparare a Firenze, costruito come un percorso di conversione: il racconto inizia con la presuntuosa certezza che i fiorentini parlino una lingua affettata, che incorrano in errori di grammatica, che scrivano male, che al più sia possibile imparare da loro un po’ di pronuncia, ma non la lingua. Le voci della città subito smentiscono questi presupposti: i monelli di strada conversano con incredibile proprietà, la conversazione dei salotti serve a mettere in ridicolo le affettazioni letterarie, le forme innaturali. Si arriva così alla correzione degli scritti, con
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Cfr. C. Marazzini, De Amicis, Firenze e la questione della lingua, in questo stesso volume, pp. 285-303. E. De Amicis, Pagine sparse, Sesto San Giovanni, Casa Editrice Madella, 1915, p. 7 (I ed.: Milano, Tipografia Editrice Lombarda, 1874; II ed. ampliata: ivi, 1876).
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una procedura che ricorda la revisione manzoniana dei Promessi sposi. Ma a Firenze arrivavano anche appartenenti alle classi sociali più basse, per nulla ansiosi di imparare il toscano. Esemplare è il ritratto dell’attendente sardo assegnato a De Amicis durante il suo servizio fiorentino di giornalista militare. Questo soldato è un contadino ventenne analfabeta, il quale, come dice lo scrittore, avrebbe potuto ottenere il brevetto d’invenzione del suo pittoresco italiano misto di dialetto sardo e di lombardo: il Ritratto di un’ordinanza41 non indulge al sentimentalismo che affligge di solito lo scrittore, ma apre uno squarcio sul popolo più basso proveniente dalla società contadina arcaica, sull’aspirazione all’italiano popolare, quando il soldato, divenuto stentato alfabeta grazie alle scuole reggimentali frequentate a Firenze, copia le dediche dei libri sostituendo ai nomi originali i nomi dei propri parenti, convinto di
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Oltre che nelle Pagine sparse, fu pubblicato in La vita militare. Bozzetti, con il titolo Un’ordinanza originale. A proposito del rapporto di questo soldato con Firenze, si legga il seguente passo: “ – Come ti piace Firenze? – gli domandai, poiché era arrivato il giorno innanzi a Firenze. – Non c’è male, – mi rispose. Per uno che non aveva visto che Cagliari e qualche piccola città dell’Italia settentrionale, la risposta mi parve un po’ severa. – Ti piace più Firenze o Bergamo? – Sono arrivato ieri; non potrei ancora giudicare”. E sul suo italiano: “È difficile dare un’idea della lingua che parlava quel curioso soggetto: era un misto di sardo, di lombardo e d’italiano, tutte frasi tronche, parole mozze e contratte, verbi all’infinito buttati là a caso e lasciati in aria, che facevan l’effetto del discorso di un delirante. Un giorno mi venne a cercare un amico all’ora del desinare, ed entrando in casa, gli domandò: – A che punto è del desinare il tuo padrone? – Trema – gli rispose il soldato. L’amico rimase colla bocca aperta. Quel trema voleva dire termina”. Dopo aver frequentato per cinque o sei mesi le scuole reggimentali, il soldato aveva imparato a scrivere stentatamente: “Si era comprato un quadernino, sul quale copiava, da tutti i libri che gli venivano alle mani, le dediche degli autori ai parenti, badando sempre a sostituire ai nomi di questi, il nome di suo padre, di sua madre e de’ suoi fratelli, ai quali si immaginava di dare in tal modo uno splendido attestato di affetto e di gratitudine”. Cito dall’edizione de La vita militare, Milano, Treves, 1895, rispettivamente pp. 307-8 e p. 312.
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compiere così un eccezionale atto di deferenza verso la propria famiglia. Le scuole reggimentali frequentate da questo soldato durante il soggiorno fiorentino mi paiono un riferimento particolarmente interessante: l’esercito si fece promotore della diffusione dell’italiano (non sarà stata una risciacquatura di panni in Arno, in questo caso, ma almeno un corso di sopravvivenza linguistica). Tale funzione dell’esercito ci era già nota grazie a Tullio De Mauro, il quale aveva dedicato un cenno appunto a questo tipo di scuole, pur non menzionando l’aneddoto raccontato da De Amicis. Secondo il condivisibile giudizio dello studioso, l’attività delle scuole reggimentali non deve passare sotto silenzio42. Anche questo avvenne a Firenze in quegli anni, quando la lingua entrava piano piano nella politica e negli ideali sociali della nazione, con la Relazione di Manzoni del 1868 e con il ben noto seguito di polemiche, originate proprio dalla posizione negativa della sottocommissione fiorentina, presieduta dal Lambruschini, composta da Gino Capponi, Giuseppe Bertoldi, Achille Mauri, Niccolò Tommaseo. La presa di distanza dei fiorentini dalle posizioni manzoniane, com’è noto, fu per il vecchio Maestro “una specie di fulmine a ciel sereno”, che lo spinse alla dimissioni dalla presidenza generale della Commissione voluta dal Broglio, peraltro respinte dal ministro. Si arrivò così all’Appendice alla Relazione, all’istituzione da parte del Broglio della giunta per il dizionario, il quale cominciò a uscire tra l’estate e l’autunno del 1870, presso la tipografia Cellini e C. alla Galileiana, la stessa del Vocabolario della Crusca43. Il vocabolario Giorgini-Broglio provocò l’intervento di
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Cfr. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1972, p. 106. Si veda il resoconto accurato degli eventi, dalla manzoniana Relazione del 1868 in poi, in Monterosso, op. cit., pp. 175-82; sul Vocabolario Giorgini-Broglio, è necessario ricorrere alla bella presentazione del rimpianto G. Ghinassi, Alessandro Manzoni e il “Novo Vocabolario della lingua italiana”, presentazione alla ristampa anastatica dell’edizione 1870-1897 del Novo vocabolario della lingua italiana, Firenze, Le Lettere, 1979, pp. 5-33.
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Ascoli, che per la sua polemica prese lo spunto dal titolo “nòvo”, con monottongamento alla toscana. La stampa dell’opera si protrasse a lungo, un po’ stancamente, mentre uscivano altrove opere di successo ispirate all’uso toscano, come il Novo dizionario di Petrocchi (anche questo “novo” fin dal titolo, come il GiorginiBroglio). Firenze, capitale dei vocabolari assieme a Torino, fu comunque al centro di un’attività lessicografica intensa. Da Firenze venne lo stimolo per una letteratura linguistica d’intrattenimento attenta al parlato, come mai era accaduto in Italia. Ce n’è abbastanza per sottoscrivere senza ombra di dubbio il breve ma netto giudizio inserito da Migliorini nel capitolo XII e ultimo della sua Storia della lingua italiana, dove si legge: “Gli anni di Firenze capitale (1865-1870) sono una breve, ma importante tappa”44. Importante per la lessicografia, per la letteratura divulgativa sulla lingua, cioè per il sentimento linguistico che andava crescendo nell’Italia unita, per la nuova sensibilità alle esigenze del parlato, che proprio dall’esperienza fiorentina e nazionale traevano lo spunto. Citavo prima la ricca aneddotica sulle incomprensioni con i “piemontesi” calati a Firenze, descritta assai bene dall’editore torinese-fiorentino Barbèra. Così si legge nel suo diario postumo: Il Governo italiano con 1° del mese di giugno [1865] trasporta la sua sede a Firenze. Allora sì che col grosso dell’esercito degli impiegati si accende vie più la guerra già incominciata con pochi e ora ravvivata dalle grida dei molti contro Firenze e i Fiorentini, contro gli usi e le case di questi, contro tutto quello che trovano [i piemontesi] nelle vie che percorrono, contro i passeggi, i caffè, le trattorie, i teatri45.
Tanto che il Barbèra, infastidito dalla tensione tra i cittadini e i forestieri, aveva scritto una lettera aperta alla “Nazione” nella quale aveva denunciato l’incomprensione provocata dall’affezione
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Cfr. B. Migliorini, Storia della lingua italiana cit, p. 669. Barbèra, op. cit., p. 300.
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ostinata dei piemontesi per il loro dialetto, usato anche a Firenze per parlare ai fiorentini medesimi, e spesso per lamentarsi: Questi [i fiorentini] odono; non so se comprendono sempre il senso vero del vostro dialetto, certo dal non comprender bene nascono equivoci ed inconvenienti [...]. Un solo rimedio, a senso mio, sarebbe efficace [...]46
Quale rimedio? Parlare italiano, ovviamente; tanto che subito faceva seguire un consiglio, rivolto ai suoi compatrioti “piemontesi”: in privato, colloquî intimi e lingua intima. In pubblico, onorare questa gran lingua italiana, parlando italiano.47
Il Barbèra si era anche augurato che dai tanti dialetti non nascesse affatto una lingua italiana nuova, una lingua che possiamo avvicinare a quella immaginata dal biellese ministro delle finanze Quintino Sella, il quale aveva in proposito idee insolite (le aveva esposte in una discussione accesa con il Manzoni, come riferisce Giorgini proprio nell’incipit della prefazione al Novo vocabolario48). Al Barbèra rispose l’irrequieto Carducci, notoriamente antimanzoniano, avverso al trasferimento della capitale. “Fa onore – scriveva sarcastico il Carducci – al suo buon gusto” la speranza che non nasca una lingua nuova, “ma credo che non possa essere dalla Provvidenza ascoltata. Oh sì, questa nuova lingua sorgerà di certo; e come la vecchia lingua faceva ritratto dell’Italia del popolo piccola e meschina, così la nuova sarà degnissimo tecmirio dei beduini del gran regno d’Italia”49. Il raro cultismo tecmirio per
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Ibid., pp. 304-5. Ibid., p. 305. Si legge questo documento anche in Monterosso, op. cit., p. 401 e ss. Riprendo la citazione da Barbèra, op.cit, p. 562; la si legge (con non poche differenze) in G. Carducci, Opere (Edizione Nazionale), vol. XXVI, Ceneri e faville. Serie prima (1848-1868), Bologna, Zanichelli, 1938, pp. 327-28. Ne trascrivo il testo integrale, per comodità del lettore: “Lettera a G. Barbèra. / Bologna, 31 luglio ’65. / Ho letto con piacere la sua bella
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pubblicamente in quest’occasione, se per caso non fosse stato notato prima d’ora. Era quella la prima volta in cui la voce “capitale”, nell’accezione politica, entrava nel Vocabolario della Crusca, dove non era mai stata registrata. Vi entrò con la seguente definizione: “la città principale di uno stato, ove ha sede il Governo”. Tra gli esempi che si sarebbero potuti scegliere, gli Accademici misero al primo posto il passo d’una lettera di Tasso a Botero, ancor oggi accreditato come prima attestazione (si vedano ad esempio il Deli e il Gradit), in cui il poeta dichiara di essersi ispirato al magnifico parco presso la capitale sabauda per descrivere il giardino del palazzo d’Armida. Il nome della città di Torino, inoltre, a scanso di equivoci, era aggiunto nel testo, in corsivo ed entro parentesi: garbato omaggio lessicografico fiorentino al lungamente bistrattato autore della Gerusalemme liberata e alla Capitale piemontese. Però la lettera citata, ahimè, è quasi sicuramente falsa, e dunque fasulla è anche questa presunta prima attestazione di “città capitale”, che pur si ritrova nei vocabolari citati. E se i moderni non si sono liberati dell’errore, tanto meno gli Accademici potevano accorgersi del falso, perché esso fu smascherato solo nel 187950.
50
Cfr. F. Cognasso, Vita e cultura in Piemonte dal Medioevo ai giorni nostri, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1983 (ristampa anastatica dell’edizione 1969), p. 124: “Scomparsa ormai è la fola che il Tasso abbia nell’incantato giardino d’Armida ripreso il Parco di Emanuele Filiberto. Già nel 1576 era scritta quell’ottava del canto XVI della Gerusalemme, due anni prima che il poeta arrivasse a Torino e del resto il Parco poteva presentarsi ammirabile solo dopo i lavori di Carlo Emanuele. Poco aveva potuto fare il padre. La lettera poi che il Tasso ne avrebbe scritto a Giovanni Botero è una mistificazione perpetrata a danno di Ippolito Pindemonte da Michele Malacarne di Saluzzo, professore di medicina all’Università di Padova alla fine del secolo XVIII che ha sulla coscienza non poche mistificazioni dovute forse soltanto a sciocca vanità municipalistica”. Devo l’indicazione del brano di Cognasso, che mi era sfuggito, allo storico Claudio Rosso, mio collega nell’Università del Piemonte Orientale. L’amico Claudio Rosso è stato così gentile da leggere in anteprima il testo di questo mio intervento, segnalandomi la questione. Il falso era stato denunciato per la prima volta da G. Campori nella “Nuova
9. Firenze capitale: questioni linguistiche
207
Resta però la loro buona intenzione, cioè l’omaggio tributato, in una voce lessicografica del più fiorentino di tutti i vocabolari, alla città che, per l’Italia, era stata costretta a rinunciare al suo antico titolo di capitale51.
51
Antologia”, vol. XLVIII (1879), p. 488, e poi da A. Vesme, Torquato Tasso e il Piemonte, in Miscellanea di storia patria edita per cura della Regia Deputazione di Storia Patria, tomo XVII, Torino, Bocca, 1889, pp. 102.108. Il Vesme faceva riferimento anche al fatto che “capitale” in senso di ‘metropoli’ non aveva attestazioni cinquecentesche, ma prendeva l’avvio nel Seicento con Magalotti. In realtà il termine è attestato già in Tasso (cfr. DELI s. v. e GDLI s. v.). Significativa mi pare la scelta dello storico di Torino, Cognasso, op. cit., p. 567, di concludere la sua opera proprio sulla vicenda del trasferimento di capitale, mettendo quasi a sigillo del libro la seguente frase finale: “E così finì la storia della regal Torino”.
10. ‘Questione romana’ e ‘questione della lingua’
Il 5 ottobre 1862, nel poscritto di una lettera al Giorgini, Alessandro Manzoni vergava una confessione del tutto confidenziale, rivelando un dubbio segreto che rischiava di mettere in crisi la sapiente costruzione del ‘sistema’ linguistico che era venuto elaborando e che di lì a pochi anni avrebbe avuto dimensione pubblica con la Relazione commissionata dal ministro Broglio. Sono poche righe ben conosciute, anche per lo spazio che ha dato loro il Migliorini nella sua Storia della lingua italiana, ma converrà riportarle qui ad apertura del nostro discorso: Mi sono anche ben guardato d’addurre un motivo che mi leverebbe una gran parte di coraggio, [...] la gran probabilità che la capitale sia per essere altrove che a Firenze. Prima d’ora, se questa non era riconosciuta unanimemente e costantemente per la sede della lingua, non c’era però alcuna altra città che, in questo, le potesse contendere il dominio; e chi avesse riconosciuto che la lingua s’ha a prendere da una città, era costretto a nominar Firenze. Ma una capitale ha, per la natura delle cose, una grande influenza sulla lingua della nazione. Sarebbe, credo, un caso unico che il capo della nazione fosse in un luogo e la sua lingua in un altro.
L’incrinatura che si apriva nella nitida costruzione teorica riguardava proprio l’applicabilità al caso italiano dei modelli da cui aveva preso le mosse, Roma imperiale e Parigi, le due città che
Manzoni intimo, a cura di M. Scherillo, vol. II, Milano, Hoepli, 1923, p. 197; ora in A. Manzoni, Tulle le lettere, tomo III, a cura di C. Arieti, Milano, Adelphi, 1986, pp. 253-54.
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
erano riuscite a imporre allo stesso tempo l’egemonia linguistica e quella politico-culturale. Anzi, proprio l’imbarazzante dualismo tra Roma e Firenze era un sintomo (di cui il Manzoni non tenne conto) della inapplicabilità di una normativa rigida in un paese policentrico. Negli interventi posteriori dello scrittore lombardo, il dubbio segreto non affiorerà mai; l’autore ‘si guarderà bene dall’addurlo’, come dice nella nota del 1862. Gli avversari della soluzione fiorentina (ma anche alcuni seguaci più o meno fedeli) arriveranno invece a discutere il punctum dolens, anche se non ne sfrutteranno appieno le implicazioni polemiche. Solo nella prefazione al Nòvo vocabolario il ‘partito manzoniano’, in quel caso rappresentato dalla penna del Giorgini, arriverà a dare una collocazione soddisfacente all’antitesi tra capitale linguistica e capitale politica che aveva angustiato il Maestro. Possiamo così delimitare l’arco cronologico in cui la ‘questione di Roma’ entra nel dibattito sulla ‘questione della lingua’: gli anni tra il ’60 ed il ’70, a cui si può aggiungere un riferimento contenuto nel Proemio dell’Ascoli (1873). Sono gli anni cruciali dell’Aspromonte, di Mentana e di Porta Pia, in cui i risvolti politici delle discussioni sulla capitale suscitano difficoltà e dibattiti ben più gravi e rilevanti di queste piccole tracce che noi andiamo cercando. Tuttavia l’aspetto su cui ci vogliamo soffermare merita un po’ di attenzione, vuoi per il collegamento che offre tra la discussione politica e la questione della lingua su di una base concreta e immediata, vuoi perché si tratta di un settore fino ad ora trascurato,vuoi perché la ‘parte di Roma’ nella fusione della lingua comune in un amalgama ideale, mediazione di elementi contraddittori ed eterogenei, non è un fatto estemporaneo, ma si inserisce in una tradizione di vecchia data, che
Soprattutto trascurato dagli storici della ‘questione della lingua’. L’idea di questo lavoro mi venne da un’indicazione di Ettore Passerin d’Entrèves, che aveva allora in corso uno studio sulla ‘questione romana’ e ne propose il collegamento con il coevo dibattito linguistico. Di questo spunto gli resto riconoscente, a distanza di tanti anni, ricordando il colloquio che ebbi allora con lui, e la sua benevolenza di Maestro nei confronti di uno studioso giovane e sconosciuto, quale io ero allora.
10. ‘Questione romana’ e ‘questione della lingua’
211
si può far risalire fino alle idee del Calmeta confutate dal Bembo nel primo libro delle Prose della volgar lingua. Volendo giungere ai tempi nostri, un frutto del filone può essere magari indicato nelle pagine di De Mauro sul prestigio della varietà regionale romana di italiano, a suo giudizio caratterizzata da una spiccata tendenza, appunto, a farsi ‘illustre’, cioè a eliminare “tutti gli elementi più nettamente municipali e, anzi, regionali”, ed anche, per opposizione, nelle numerose polemiche di stampo puristico o filotoscano sull’italo-romanesco della televisione e del cinema. Le coordinate citate ci servono a localizzare il problema nella sua dimensione diacronica. Sceglieremo però un arco cronologico molto più breve. La nostra ottica sarà puntualizzante, volta a valutare esclusivamente i riflessi linguistici del dibattito su Roma capitale negli anni che precedono Porta Pia, ricercandone le tracce in libri, opuscoli e interventi che sono stati in parte coperti dall’oblio del tempo, tanto che occasionalmente la lettura di essi si presenta come vera e propria riesumazione. Prima di entrare nel dettagliato esame dei testi poco noti cui si faceva cenno, sarà bene fare riferimento al più importante precedente ottocentesco sull’argomento, uno scritto fondamentale per la sua diffusione e per la sua influenza nella formazione della generazione del Risorgimento. Il problema di cui ci occupiamo era stato oggetto di trattazione nel Primato di Gioberti, in quelle parti in cui si discute della favella italiana, dell’eccellenza del toscano e dei rapporti tra Firenze e Roma. Coerentemente con la sua concezione federalistica, il Gioberti credeva nell’esistenza di un vero e proprio ‘asse Roma-
Cfr. P. Bembo, Prose e rime a cura di C. Dionisotti, Torino, Utet, 1966, pp. 106-9. Il Calmeta, com’è noto, collocava nella corte papale romana la sede ideale del volgare illustre. Si aggiunga che Benedetto di Falco si augurava nel 1535 la formazione di una “romana signoria” che garantisse una lingua comune all’Italia. T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 19723, p. 176. Cfr. ad esempio F. Fochi, Lingua in rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1966, pp. 310-15.
10. ‘Questione romana’ e ‘questione della lingua’
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All’argomento toccato di sfuggita da Gioberti è dedicato interamente un libro pubblicato nel 1864 dal milanese (di adozione, perché nato a Verona nel 1829) Luigi Gelmetti, un’opera che documenta le tendenze e le aspirazioni del momento fin dal titolo, che è un auspicio e un programma: Roma e l’avvenire della lingua italiana. Lavoro filologico-politico-letterario10. Si tratta di qualche cosa di più di una asettica e disimpegnata trattazione accademica; l’obiettivo è pratico, come avverte l’autore nella prefazione 11: Alcuno dirà che ad altro momento io poteva indugiare questa pubblicazione, che, in ultimo costrutto, non è che filologica, benché non si regga che sopra considerazioni politiche e storiche. Rispondo che non poteva farsi ora, a mio giudizio, più opportunamente. Poiché se Roma e Roma capitale è quistione di vita e di morte per l’Italia, la conseguenza dell’armi ed armi senza indugio, concordia, fratellanza di tutti nel grande scopo viene da sé.
Si tratta di un invito all’azione, dunque, nel momento in cui il ventilato trasferimento della capitale a Firenze poteva far pensare a una rinuncia alla città papale garantita dall’autorità dei Francesi. Ci troviamo quindi subito immersi nell’attualità, a cui il libro del Gelmetti fa riferimento senza equivoci. Vediamone ora il contenuto teorico. Le premesse sono quelle comuni al Manzoni e al Bonghi delle Lettere critiche: la necessaria popolarità della lingua, la mancata popolarità della nostra letteratura, il primato del toscano valido contro i dialetti e contro il monopolio dei letterati; ma viene subito avanzata qualche riserva sulla funzione di Firenze, che “da tre secoli, per lo meno, non è il centro massimo della civiltà italiana”12; argomento, come tutti sanno, che tornerà nell’Ascoli del Proemio.
10
11 12
Il nome del Gelmetti è oggi pressoché dimenticato (lo citava appena nella sua storia della Questione della lingua il Vitale). Egli dedicò praticamente la propria vita ad affrontare problemi linguistici e a dibattere la soluzione manzoniana. L. Gelmetti, Roma e l’avvenire della lingua italiana, Milano, Libreria Sonzogno, 1864, p. VIII. Ibid., p. 57.
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
Se la Toscana non ha avuto una posizione preminente nella storia più recente, ciò non giustifica, per il Gelmetti, una squalificazione totale del suo ruolo e l’accettazione di un’ottica analoga a di quella del Cattaneo, caratterizzata dall’assoluta disponibilità alle innovazioni e ai contributi regionali. Il libro si muove anzi in continua confutazione di qualunque prospettiva federalistica, in particolare di quella neoguelfa del Gioberti (rivelatasi del resto utopistica, ma verso la quale l’autore dimostra una scarsa pietas). Il primato di Roma e la sua funzione linguistica unificante vengono visti in un’ottica che anticipa davvero quella che sarà l’impostazione burocratica accentratrice del nuovo regno. Su questa funzione linguistica, ipotizzata per estrapolazione dai fatti della politica e dell’amministrazione, vorremmo un poco soffermarci, facendo grazia al lettore della gran quantità di luoghi comuni consueti nella pubblicistica del tempo (la storia del passato e contemporanea, la centralità geografica, la funzione universale, ecc.), che in vasto catalogo il Gelmetti raccoglie per giustificare la necessità della capitale. Tralasceremo anche il fatto, curioso in quanto rivela una ‘politicizzazione’ neoghibellina di un problema di storia linguistica, che il trasferimento dello “scettro” della lingua da Firenze a Roma ripari, a giudizio dell’autore, una deviazione della storia, perché il trapasso sarebbe avvenuto già da sé in modo naturale se l’aspirazione “ecumenica” dei papi non avesse forzatamente imposto un ritardatario uso del latino ai ceti colti della città (argomento palesemente infondato, questo, ma che vedremo ritornare altrove). L’“avvenire di Roma” si presenta come un giusto risarcimento e inaugura una nuova epoca storica. Gran parte del libro è dedicata a dimostrare che il passaggio dalle prospettive manzoniane della lettera al Carena a queste qui esposte è privo di contraddizioni, dal momento che, come già aveva detto Gioberti, “l’italica lingua non è viva e popolana” se non in entrambe le città. Ma il tentativo di avvicinamento al ‘partito toscano’ trova un limite invalicabile in una affermazione recisa come la seguente13:
13
Ibid., p. 121.
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215
E questo [cioè il guardare a Roma] si dovrebbe fare quand’anche a Roma si parlasse il più incolto e il più selvaggio dei dialetti italiani. Perché o a Roma si parla un dialetto che nei suoi caratteri essenziali possa considerarsi identico alla lingua che si vuole scrivere; e allora questo sarà il perno su cui si aggireranno le evoluzioni della lingua medesima; o non c’è così fatto, e allora che cosa sia per succedere non so, ma l’Italia che colà faccia capo, portandovi vita e pensiero, una lingua una e popolarmente viva non può mancare di conseguirne.
È un argomento che il Gelmetti toccherà nuovamente nel 1868 in un intervento moderatamente polemico sulla Relazione manzoniana, dove ribadirà che “senza dubbio la lingua d’Italia né vorrà né potrà mai far getto della ricchezza che già possiede; perciò resterà sempre fiorentina in gran parte; ma se una città di lingua buona e bella [Roma] diventerà centro della nazione; se in quella città concorreranno i migliori ingegni; se là si detteranno le leggi; là saranno le maggiori solennità nazionali; chi potrebbe dubitare se di là dopo qualche tempo uscirà bella e compiuta, e sufficiente alle chiese, ai parlamenti, ai teatri, anche la lingua? La quale dopo avere per tanti secoli attestata l’esistenza di una nazione italiana, come potrebbe mancare dopo che la nazione si sarà veramente costituita?”14. Più che di argomenti filologici, si è ricchi di buone aspirazioni e di speranze. La soluzione della ‘questione’ non riguarda comunque l’egemonia di cui parlerà Gramsci, ma più semplicemente l’identità nazionale da affermare nei confronti dell’Europa15, e si connette con
14 15
L. Gelmetti, La quistione della lingua italiana dopo la relazione di Alessandro Manzoni, Milano 1868, p. 85. Lo dimostrano le molte pagine in cui è svolto il discorso antifrancese (non si dimentichi che sono proprio i francesi a farsi garanti in quel momento della sicurezza del papato) e sulle possibilità di una guerra esterna (è alle porte la III guerra d’indipendenza). Cfr. ibid., p. 103: “l’Italia [...] ha bisogno di grande potenza; e questa non si ottiene se non con una colleganza perfettamente unitaria [...] Si confederassero pure tutti gli stati autonomi onde si componesse l’Italia [...]: ma ognuno sa quanto l’azione comune proceda lenta nelle confederazioni, anche allora che c’è la maggior fretta di picchiar presto e forte”.
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
i problemi di fondazione dello stato, con la necessità di coesione, secondo le esigenze di cui si faranno interpreti gli amministratori del Regno negli anni successivi. Con maggiore cautela affronta l’argomento Pier Vincenzo Pasquini nelle pagine conclusive del suo ampio trattato Dell’unificazione della lingua in Italia, uscito nel 1869, in particolare nel capitolo La lingua italiana in Roma capitale. La questione politica “che brucia”, com’egli dice “ed è pericolosa a trattare “ (lo scontro di Mentana è di due anni prima), e che era posta in primo piano dal Gelmetti, viene lasciata da parte, mentre vengono proposte all’attenzione del lettore le seguenti quattro domande (p. 414): 1° Roma ha lingua italiana? 2° O gliela darebbero i dialetti, fondendosi tutti colà? 3° Come si modificherà l’idioma romano, per elevarsi a lingua nazionale? 4° Il mutamento della lingua toscana in romana sarà rapido o lento?
La risposta ai primi due punti è, da parte del manzoniano moderato Pasquini, negativa. Roma non ha il primato della lingua (anche se vi si parla, come a Firenze, una lingua viva e naturale); vi sarebbe potuta sorgere “se l’elemento cattolico non avesse soffocato l’elemento nazionale, se il latino, lingua sacra, liturgica, jeratica, non fosse prevalso all’italiano, se la capitale del cristianesimo avesse permesso a Roma di adempiere alle condizioni di natural capitale d’Italia [...] Se Roma fosse stata repubblica libera, senza papa e senza preti fino da antico, la sede incontrastata della lingua sarebbe Roma”16. Torna l’argomento neoghibellino che abbiamo già incontrato in precedenza, a indicare il livello di politicizzazione delle discussioni in quegli anni cruciali. Si pensi che poche pagine più indietro, discutendo gli argomenti di un ano-
16
P. V. Pasquini, Dell’unificazione della lingua in Italia, Firenze, Le Monnier, 1869, p. 415 (il libro è l’ampliamento di un trattato più breve uscito nel 1863 a Milano).
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nimo oppositore, il quale tra l’altro toccava con molta acutezza alcuni punti che saranno affrontati dall’Ascoli (marginalità culturale della Toscana moderna; sviluppo diverso del toscano se Firenze avesse continuato a essere il centro della civiltà italiana; impossibilità di sostituire i dialetti con imposizioni normative; vitalità positiva dei dialetti e assenza di una loro conflittualità rispetto alla lingua italiana scritta e colta), il Pasquini era giunto ad accusare il suo interlocutore di disfattismo antipatriottico: “a lui non garba troppo, al vedere, l’assoluta unità d’Italia, e io sono unitario per la pelle! Ecco perch’ei propugna una lingua individuale, ideale, autonomica. Così pure alcuni aulici che infeudano la lingua negli scrittori, sono ciecamente devoti all’autorità assoluta: ve n’ha taluno, [...] che lamentando i presenti costumi e i cattivi ordinamenti dello Stato, asserisce non solo questi mali, ma persino il guasto della lingua dipendere dalle leggi fatte in dispregio di quella potestà, che è il fondamento della cristiana repubblica [...]”17. Come si vede, in ogni partito, gli argomenti linguistici venivano discussi con forte passione: ulteriore conferma della loro grande vitalità in quegli anni. Già Tommaseo aveva notato (il Pasquini stesso riporta qui il passo) che “ogni questione letteraria da ultimo riesce a una questione civile; e la questione dell’ aulico e del curiale batte all’altra delle regioni, e là non si ferma”. Quanto alle domande 3 e 4 del questionario, il Pasquini, data la sua fiducia di stampo manzoniano nell’omogeneità del linguaggio, è incerto nella risposta. Se “è indubitabile che Roma capitale politica d’Italia, diverrà capitale linguistica, in qualunque siasi maniera ciò sia per avvenire”18, egli esclude però di poter prevedere a quali cambiamenti l’idioma romano andrà soggetto; il processo, in ogni modo, “richiederà lungo tempo, per quanto grande ed attiva possa essere l’efficacia e la potenza unificativa della capitale politica: perché nessun cambiamento improvviso succede mai nelle lingue”19. In
17 18 19
Ibid., p. 411 (il corsivo è nel testo). Ibid., p. 418. Ibid., p. 419 (il corsivo è nel testo).
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
conclusione: la lingua attuale è il toscano, che deve farsi di uso generale, come vuole il Manzoni; la lingua del futuro sarà sempre il toscano, ma romanizzato in qualche misura. Ci siamo soffermati sulle opere del Gelmetti e del Pasquini perché nelle loro trattazioni la questione della ‘parte di Roma’ viene affrontata in modo sistematico e con una certa ampiezza, ma si tenga presente che molti avevano maturato il convincimento di una fatale influenza della capitale sui destini linguistici del Paese. Lo si vede in occasione della risposta alla Relazione manzoniana del 1868, in cui l’argomento emerge negli interventi di Luigi Settembrini e di Giuseppe Brambilla. Il Settembrini, seguace di una concezione liberistica che anticipa l’Ascoli, ammette l’egemonia linguistica soltanto quando si accompagna all’egemonia culturale20. Roma serve a conseguire la vitalità culturale tipica di uno stato moderno: “[...] i diversi popoli d’Italia come anderanno sempre più ravvicinandosi, mescolandosi, conoscendosi ed amandosi tra loro, così anderanno da sé rifacendo e ricomponendo la lingua viva, alla quale darà la sua impronta quel popolo che sarà capo e guidatore degli altri. E qui [Settembrini, si noti, immagina di dire queste cose ai suoi studenti dell’Università di Napoli] esce in mezzo un giovine e dice: Ecco perché 1’Italia ha bisogno di Roma, e l’avrà”21. Il Brambilla, letterato e storico comasco, fedele all’impostazione trissiniana e perticariana del ‘volgare illustre’ risultato della “meschianza dei dialetti”, pensa che la lingua si
20
21
Cfr. C. Marazzini, Il ‘gran polverone ‘ attorno alla Relazione manzoniana del 1868, in “Archivio Glottologico Italiano” LXI (1976), fase. 1-2, pp. 127-29 (qui alle pp. 265-78); e Id., La lingua come strumento sociale: il dibattito linguistico in Italia da Manzoni al neocapitalismo, Torino, Marietti, 1977, pp. 62-65. La lettera aperta di Settembrini al Broglio fu pubblicata da vari giornali, tra cui L’Universo illustrato, n. 32 del 10 maggio 1868, pp. 534-36, e poi, con il titolo Della lingua d’Italia. All’on. Ministro della Pubblica Istruzione Deputato E. Broglio, 22 marzo 1868, entrò in un volume postumo: L. Settembrini, Scritti vari di letteratura, politica, arte, riveduti da F. Fiorentino, vol. I, Napoli, Morano, 1879, pp. 367-75. La citazione è da p. 375 del volume.
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muoverà “quando essa [Roma], divenuta capitale d’Italia, produrrà con qualche milione di cervelli e di bocche lo stesso effetto [...] per cui le due forze generatrici dell’attrazione planetaria eternano il loro moto, la vita e la bellezza dell’universo. Senza questo moto il popolo italiano, col suo vocabolario fiorentino sotto le ascelle, rimarrebbe in perpetuo un balbuziente scolaro di tutte le altre nazioni”22. Uscendo dai limiti cronologici che ci siamo prefissati possiamo fare riferimento all’ affermazione dell’Ascoli nel Proemio, secondo la quale “Roma, per la sua originaria attiguità dialettale con quella regione a cui la parola italiana va debitrice di ogni suo splendore, e per esservi continuato, mercé la Santa Sede, un moto energico, in molta e quasi inavvertita parte e come suo malgrado italiano; Roma, nella favella spontanea di quanti suoi figli non rimangono affatto rozzi, ci porge l’imagine e i contorni di una lingua nazionale, e meritava, anche per questo capo, ridiventare principe dell’Italia intiera”; il confronto con gli interventi precedenti mostra soprattutto una cautela scientifica nuova che non lascia travolgere gli argomenti della storia linguistica dalla passione politica: la funzione del papato viene valutata positivamente, non più additata con spirito giacobino quale causa di ritardo nello sviluppo della lingua. Abbiamo indugiato sulle testimonianze, spesso citando con abbondanza testi poco noti e di non facile reperimento per documentare il largo interesse suscitato dal problema. Nelle sfumature diverse degli interventi si possono intanto definire alcune costanti, prima fra tutte la certezza nella necessaria e positiva influenza della capitale e la speranza di avere in essa un centro culturale di livello europeo. La soluzione ‘romana’ della questione della lingua diventa una scommessa patriottica a favore dei grandi destini della nazione appena fondata. Davanti al fascino di queste argomentazioni il partito manzoniano ortodosso non poteva certo continuare a trincerarsi dietro il
22
Cfr. Marazzini, Il ‘gran polverone’… ora alle pp. 265-78 di questo stesso volume, in cui le idee del Brambilla vengono esaminate nei particolari.
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
silenzio. Un comportamento del genere diventava insostenibile; occorreva trovare una risposta che precludesse ai manzoniani la via della dissidenza seguita dal Pasquini, il rivolgersi a Roma per il futuro, se non per il presente della lingua. Fu il Giorgini, nella prefazione al Nòvo vocabolario (1870) a prendere una posizione netta, dichiarando esplicitamente che al ‘caso’ italiano l’esempio di Parigi e di Roma imperiale non poteva adattarsi completamente, nella misura in cui la separazione tra centro irradiatore della cultura e centro del potere politico aveva segnato in modo indelebile il destino della nazione; la sfasatura geografica e diacronica tra questi due centri aveva ormai condizionato definitivamente la nostra storia, creando delle premesse irreversibili. L’unità politica e la vitalità di una capitale, dice il Giorgini (immaginando di rivolgersi a Quintino Sella, quale ideale interlocutore antimanzoniano, seguace di una teoria di ascendenza trissiniana) sono indubbiamente elementi che favoriscono l’unificazione e possono stabilire una egemonia linguistica. Ma fatti ormai acquisiti fanno sì che il fenomeno sia necessariamente più limitato di quanto ci si sarebbe aspettati23: Se poi tu intendi dire che questa unità renderà la scelta più facile; che la lingua parlata nella città, dove avrà sede il governo, o, se vuoi, il miscuglio che si farà dentro le sue mura, la lingua insomma della capitale, più o meno alterata, prenderà vantaggio su tutte l’altre, e a lungo andare doventerà la lingua comune della nazione (quanto è possibile avere una lingua comune tra persone, che avendone molte per nascita, devono acquistare quest’una per isforzo d’elezione e di studio), allora dirai cosa, che non ti sarà in tutto contradetta dal Manzoni, né da altri. E se qualcosa ci fosse
23
G. B. Giorgini, Lettera a Quintino Sella, in Nòvo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze, vol. I, Firenze, Cellini, 1897, pp. III-V (la prefazione del Giorgini, uscita col primo fascicolo del vocabolario nel 1873, ma con la data del 1870, era già comparsa in anteprima su “La Rivista europea” a. I, 1870, vol. III, fasc. 2°, pp. 263-307, con il titolo La lingua italiana e il suo novo vocabolario. Lettera a Quintino Sella; il passo citato è alle pp. 266-67).
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da osservare, l’osservazione dovrebbe cadere sopra un concetto accessorio; la virtù, cioè, che i dialetti avranno di alterare la lingua della capitale; i quali, se la capitale resterà Firenze, è probabile che ci verranno non per vendere ma per comprare; e se sarà portata altrove, prima che il dialetto della capitale arrivi a regnar solo, avrà, mi pare, un grande osso da rodere; tutto il Toscano, che è già in fatto divenuto lingua comune, e che non solo i Toscani, ma tutti gl’Italiani, dico quelli che hanno ricevuto una educazione, ci porteranno da qualunque parte vengano, anzi ci troveranno già stabilito, tra le persone culte s’intende; e si può, per esempio, scommettere che se la capitale fosse rimasta a Torino, il dialetto Piemontese non sarebbe mai divenuto per questo la lingua comune degli Italiani. Perché le lingue vanno fuori del luogo di dove sono native, e girano il mondo, per opera principalmente degli scrittori; se le capitali hanno dato le lingue, gli è che hanno dato anche gli scrittori, o meglio, hanno dato agli scrittori la lingua; gli è, che in quelle capitali si raccolse il fiore della nazione; gli è, che i grandi scrittori, vivendo nelle capitali, ne impararon la lingua, e volendo piacere alla parte più eletta del pubblico, per cui scrivevano, l’adoperarono, e la messero in carta. Questo non è il caso dell’Italia, che ebbe gli scrittori prima della capitale; dove per conseguenza la cultura letteraria operò sola, e produsse effetti che non sarebbero facilmente, né presto, distrutti dai soli influssi della capitale, se questa si piantasse altrove che nel luogo stesso dove la nostra letteratura non solo nacque, ma toccò nascendo quella cima, oltre la quale, continuando il cammino, non è più che da scendere.
Esula dai limiti del nostro lavoro seguire nella storia successiva il reale apporto della capitale alla formazione dell’italiano parlato. L’argomento è stato studiato, ed è stato messo luce non solo l’arricchimento dovuto all’accettazione nazionale di termini dialettali romaneschi, ma soprattutto la funzione di mediazione rispetto a certo lessico meridionale, che per questa via è diventato di uso comune24. La vitalità dell’italiano regionale parlato a Roma, dimostrata, come nota il De Mauro, proprio dalla sua capacità di
24
Cfr. De Mauro, op. cit., pp. 175-86.
11. La linguistica di Manzoni
Gli anni in cui Manzoni matura le sue convinzioni e riflette sul linguaggio corrispondono, in apparenza e nell’opinione comune, ad un ‘grande buco’ negli studi linguistici italiani. Il Saggio sulla filosofia delle lingue di Cesarotti, edizione definitiva nel 1800, pare l’ultimo contributo originale prima dello scatenarsi di dispute sulla questione della lingua caratterizzate da una assorbente finalità polemica, o da una radicalizzazione estrema delle tesi, le quali, anche nei casi migliori (la Proposta di Monti, poniamo) sembrano svolgersi in un’ottica estranea o marginale rispetto alle idee circolanti in Francia e in Germania. Tra tanto occuparsi della questione della lingua, la linguistica sembra sparire, per rinascere sotto la veste di “comparativismo” alla fine degli anni ’30 dell’Ottocento sulle pagine del “Politecnico”, negli articoli di Cattaneo e di Biondelli. Anche allora, la linguistica comparata non aveva pacifico corso, ma veniva sovente respinta come contraria alla Bibbia, come nemica della ricostruzione documentata del passato, e infine come ‘antimediterranea’. A questo proposito, si può ripetere, con Benedetto Croce, il nome dello storico napoletano Cataldo Jannelli; ma non è solo la cultura meridionale a battere queste vie: a Milano, nella Milano stessa del “Politecnico”, un altro storico, Angelo Mazzoldi, se la prendeva con Federico Schlegel e con il ruolo di culla della civiltà da questi assegnato all’India.
Cfr. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, vol. I, Bari, Laterza, 1964, p. 53 (e C. Marazzini, Conoscenze e riflessioni di linguistica storica in Italia nei primi vent’anni dell’Ottocento, in Prospettive di storia della linguistica. Lingua Linguaggio Comunicazione sociale, a cura di L. Formigari e F. Lo Piparo, Prefazione di T. De Mauro, Roma, Editori Riuniti, 1988, pp. 405-421). La critica agli Schlegel, di per sé, avrebbe potuto essere un fatto molto positivo, senonché il punto di vista adottato era totalmente retrogrado e ascientifico: la civiltà,
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L’ostilità per le idee degli Schlegel, le quali sembravano allontanare il motore della storia dal Mediterraneo a vantaggio dell’Oriente, è un fatto generale nell’Italia della prima metà dell’Ottocento, ed è già evidente in queste parole di Carlo Troya, lo storico a cui si rifecero più tardi un po’ tutti, da Jannelli a Gioberti a Balbo (la sua opera – si noti – era anche nella biblioteca di Manzoni): “Ecco il vasto argomento, che preoccupa le menti de’ moderni scrittori – scriveva Troya scandalizzato – L’India vuol essere, l’India! E non altra Storia certa e filosofica v’ha se non quella che precede a’ tempi storici, e che priva di documenti d’ogni sorta si fonda o sopra le mere possibilità [...] o sopra il confronto massimamente dei linguaggi” . Questo da parte dei detrattori. Ma anche quando si parlava bene della linguistica, i fraintendimenti potevano essere analoghi: Cesare Balbo, nel 1855, celebrava i successi della “scienza della lingua o filologia comparata”, la quale a suo parere aveva dimostrato la “certezza d’una sola lingua originaria” data da Dio agli uomini già perfetta. Quest’uso assai disinvolto (come notava Benedetto Croce) di certe affermazioni degli Schlegel, mostra alcune delle difficoltà incontrate dalla linguistica comparativa nella fase in cui entrava in contatto con la cultura italiana. Il comparativismo, che poteva facilmente collegarsi al materialismo evoluzionistico, al darwismo (anche se di per sé, vista la matrice degli Schlegel, esso non era certo risolutamente
a parere di Mazzoldi, non veniva dall’India, ma dall’Italia, erede della scomparsa Atlantide. Il comparativismo rifletteva sulle concordanze tra italiano e sanscrito come di fronte a un dato utile per ricostruire la storia dei popoli? A Mazzoldi pareva più naturale che le parole fossero migrate in India dall’Italia al tempo della distruzione di Atlantide. Si noti, per inciso, che Mazzoldi paragonava le parole orientali con l’italiano, perché a suo giudizio l’italiano era stato la lingua di Atlantide, ed era quindi più antico del latino stesso. Cfr. A. Mazzoldi, Delle origini italiche, Milano, Guglielmini e Redaelli, 1840. C. Troya, Storia d’Italia del Medio-evo, vol. I, parte IV, Napoli, Dalla Stamperia Reale, 1843, p. 21. C. Balbo, Meditazioni storiche, Firenze, Le Monnier, 1855, p. 99. Cfr. Croce, op. cit., p. 56.
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e inevitabilmente laico), non incontrava troppo favore in diversi settori della cultura di ispirazione cattolica. Secondo Cantù (delle cui confuse ma preziose testimonianze mi servirò più volte) una delle ragioni per le quali Manzoni non poteva sopportare Cattaneo, stava nelle sue idee sull’origine delle lingue. Non a caso per Manzoni, sempre secondo la testimonianza di Cantù, la questione della lingua era “la più importante, dopo quella della religione”. Cantù ci dice anche che egli non solo fu ostile a Cesari e al sistema delle idee linguistiche di Gioberti, ma anche “poco arrise” alle scoperte della nuova filologia dialettale, come dire gli studi di Biondelli e di Ascoli. Senza dubbio la linguistica manzoniana era basata su di una piena fiducia nelle pagine della Bibbia sulla genesi del linguaggio, Torre di Babele inclusa, come al tempo di Dante. La fiducia nella spiegazione biblica è dichiarata esplicitamente nel Sentir messa e nella seconda stesura del trattato Della lingua italiana.
D. Santamaria, Bernardino Biondelli e la linguistica preascoliana, Roma, Cadmo editore, 1981, p. 200, si dimostra scettico nei confronti della tesi che l’adesione alla fede cattolica fosse di ostacolo al progresso della linguistica, e cita alcuni linguisti cattolici, come Cantù, Castiglioni e Biondelli. I “laici”, naturalmente, erano i Cattaneo e gli Ascoli. Cfr. C. Cantù, Alessandro Manzoni. Reminiscenze, Milano, Treves, 1885 (II ed.), vol. II, p. 54. Cfr. Ibid., vol. I, p. 245. Cfr. Ibid., vol. II, pp. 203 (“Rideva delle idee di lui [Gioberti] sulla lingua”) e vol. I, p. 282. Cfr. A. Manzoni, “Sentir messa”. Libro della lingua d’Italia contemporaneo dei Promessi sposi. Inedito, Introduzione e appendici critiche di D. Bulferetti, Milano, Bottega di Poesia, 1923, pp. 144-145; e Id., Scritti linguistici e letterari, tomo I, Della lingua italiana, a cura di L. Poma e A. Stella, Milano, Mondadori, 1974, p. 247. Guarderò non tanto agli scritti manzoniani sulla lingua che contarono di più al loro tempo e che circolarono, ma a quell’enorme iceberg sommerso che precedette l’uscita allo scoperto del manzonismo fiorentineggiante. Più ancora del Sentir messa, è fondamentale la serie di cinque diverse redazioni del libro Detta lingua italiana, ora riordinato e leggibile nelle mille pagine dell’edizione critica curata da Poma e Stella. Ben a ragione Francesco Bruni,
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
Nel Sentir messa, la Bibbia viene usata come argomento decisivo contro l’empirismo e il sensismo. Nelle ultime stesure del trattato Della lingua italiana, invece, la spiegazione religiosa non viene avanzata. Rimane tra le righe, beninteso, perché Manzoni non aveva smesso di crederci, ma semplicemente voleva combattere gli avversari sul terreno della logica, evitando lo scontro muro contro muro di fede e ragione. La constatazione di una componente religiosa e biblica alla base delle concezioni linguistiche di Manzoni, tuttavia, non basta per liquidare sbrigativamente il suo pensiero. La Bibbia poteva servire ad alcuni per opporsi in toto alla linguistica; ma ad altri poteva servire per fondare una linguistica innatista e spiritualista. Lo scontro tra fautori dell’origine divina del linguaggio e tra fautori dell’origine umana e meccanica era ancora vivace all’inizio dell’Ottocento, non solo in Italia. In precedenza, la tradizione biblica era stata non di rado ricuperata nell’ambito degli studi; era servita da punto di riferimento persino tra gli Illuministi: la voce Langue dell’Encyclopédie, scritta da uno studioso del calibro di Beauzée, aveva sostanzialmente accolto, appena razionalizzandola, la vicenda della torre di Babele. Alla confusione babelica delle lingue avevano fatto riferimento alcuni pionieri della linguistica, studiosi di merito e valore altissimo, quali Paolino da San Bartolomeo e Hervás y Panduro, due tra i principali anticipatori del comparativismo, l’uno e l’altro provenienti dalle fila dei missionari
Per la linguistica generale di Alessandro Manzoni, in Italia linguistica: idee, storia, strutture, Bologna, II Mulino, 1983, pp. 73-118, ha invitato gli studiosi a prendere in mano questo libro, la cui stesura durò più di vent’anni e non portò (come si sa) all’uscita a stampa. Un riesame può evitare lo strano meccanismo per cui “troppo spesso la pubblicazione dell’edizione critica di un’opera produce l’effetto involontario di chiudere, anziché aprire o riaprire il dibattito [...]” (Bruni, op. cit., p. 73). Se di linguistica manzoniana si può parlare, come contributo a una storia delle idee linguistiche in Italia, proprio di qui si deve partire. Rinvio allo scritto di Bruni anche per la sua ricca bibliografia, oltre che per il fatto che si tratta del miglior intervento sulla linguistica manzoniana.
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cattolici. Prendere la Bibbia alla lettera non era scelta che potesse mettere fuori gioco, tra Sette e Ottocento, un linguista acuto e capace ostile al materialismo. Manzoni lo sapeva benissimo. Aveva tra le mani gli scritti di Bonald, oltre a quelli relativi alla polemica tra Garat e Saint-Martin. Innatismo e spiritualismo funzionavano da ottimi anticorpi contro i veri nemici da battere, l’empirismo e il sensismo di Locke e di Condillac. Qui sta un punto centrale: gran parte della riflessione teorica manzoniana, nei testi che rimasero inediti durante la sua vita, gravita attorno alla confutazione di quei maestri del pensiero linguistico settecentesco, tanto da dare l’impressione di una sua arretratezza rispetto ai temi di attualità nel Romanticismo. Vedremo che questi obiettivi settecenteschi, sorprendentemente, non erano ancora affatto obsoleti. Per intanto, possiamo ricordare i libri su cui Manzoni studiava i problemi di lingua; i titoli sono elencati da Cantù: “gli procurammo De Brosses, Court de Gébelin, Saint Martin, Charma, Humboldt, Herder, Hamann, Nodier, Geiger...”10; la lista, purtroppo, si interrompe con i puntini di sospensione, sì che non sappiamo se sia completa. La curiosità resta, è evidente, per ciò che concerne gli Schlegel, la cui impostazione anti-settecentesca del problema dell’origine del linguaggio avrebbe dovuto interessare Manzoni nella sua ricerca di argomenti di polemica antisensista. Ma su questo argomento torneremo tra poco. Per ora prendiamo atto che il suo punto di partenza era comunque la confutazione della filosofia linguistica di Condillac e Locke. Qui stava il nodo centrale: a Manzoni premeva negare la possibilità di una invenzione umana del linguaggio a partire dalla condizione ferina di una umanità primitiva. A suo parere non poteva essere esistita un’umanità primordiale priva di linguaggio; non si doveva essere verificato il passaggio alla scoperta della lingua per via empirica e meccanica, attraverso il procedimento che, sulla base delle premesse di Condillac, era stato spiegato nei particolari dal Presidente de Brosses, nel Traité de la formation méchanique des
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Cantù, op. cit., vol. I, p. 245.
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langues (1765), opera ben conosciuta ed apprezzata da autori come Denina e Cesarotti11, e che, abbiamo visto, era tra quelle studiate da Manzoni. Le teorie dell’onomatopea e dell’interiezione (quelle che ancora Max Müller avrebbe discusso12) erano, a giudizio di Manzoni, contraddittorie dal punto di vista della stessa logica empirica, perché implicavano la nascita delle idee a partire dalle sensazioni, e lo sviluppo della socialità a partire dalla condizione di asocialità. Implicavano cioè l’idea di una trasformazione sostanziale dell’essere, nella sua natura costitutiva. Ammettere tale trasformazione voleva dire accettare una concezione materialistica ed evolutiva del linguaggio la quale non solo era stata caratteristica di gran parte della cultura del Settecento, ma in ultimo era stata fatta propria da un gruppo di intellettuali con cui Manzoni aveva grande familiarità, cioè gli Idéologues parigini. Essi, a cavallo tra Sette e Ottocento, avevano ripreso la tematica della grammaire générale e quella dello sviluppo progressivo del linguaggio, portando le due teorie ad una congiunzione. Questi principi, e le basi filosofico-linguistiche che li sostenevano, dovevano essere cosa nota al Manzoni anche prima di compiere nuove e specifiche letture. È persine inutile ricordare che il milieu degli Idéologues era stato quello in cui si era mosso durante il suo soggiorno parigino, prima della conversione. Coloro che aveva incontrato a Parigi, Cabanis, Maine de Biran, Garat, Destutt de Tracy, avevano svolto e ripreso le teorie sensiste sul linguaggio. Oggi gli studiosi francesi stanno scoprendo che questi stessi Idéologues ebbero anche un peso nell’evoluzione della linguistica storica, e che tematiche storiche sono presenti in Lanjuinais e Volney13. Un fascicolo della
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Sui quali cfr. almeno, rispettivamente, C. Denina, Storia delle lingue e polemiche linguistiche, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1985, e M. Puppo, Discussioni linguistiche del Settecento, Torino, Utet, 1957, pp. 59 e 318 n. Cfr. M. Müller, Letture sopra la scienza del linguaggio, trad. italiana di G. Nerucci, Milano, Daelli, 1864, p. 363 e ss. Cfr. J. D. Lanjuinais, Discours préliminaire sur la personne et les écrits de Court de Gébelin sur l’origine et les progrès de la Grammaire générale, in Court de Gébelin, Histoire naturelle de la parole, Paris, Plan-
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rivista francese HEL ci ricorda un fatto che era ben noto a Manzoni, cioè che la questione relativa all’origine del linguaggio fu dibattuta tra Garat e Saint-Martin, e che nella disputa si scontrò l’ideologia sensista contro lo spiritualismo innatista14. La formazione giovanile francese più che italiana di Manzoni gli forniva tutti gli elementi per fondare la sua riflessione sul linguaggio quasi esclusivamente su di una polemica antisensista. Non solo. La sua collocazione nella Milano del “Conciliatore”, nel periodo successivo al soggiorno parigino, non era meno favorevole a rafforzare tale opinione, visto che il sensismo e il razionalismo degli Idéologues avevano influenzato proprio diversi ambienti milanesi a cui Manzoni non era estraneo, e non mi riferisco solo al padre Soave. Ho avuto modo di dimostrare altrove che la lunga recensione alla Proposta di Monti pubblicata da Ludovico di Breme sul “Conciliatore” mostra una grande familiarità con la lin guistica degli Idéologues, la quale, tra l’altro, era divulgata proprio a Milano dalle traduzioni di Destutt de Tracy fatte da Giuseppe Compagnoni15. Ludovico di Breme, nel III articolo di recensione alla Proposta di Monti, aveva inserito una “storia naturale della favella” la quale discendeva direttamente dall’Histoire naturelle de la parole di Court de Gébelin, ripubblicata a Parigi nel 1816 dall’idéologue Jean Denis Lanjuinais, che l’aveva fatta precedere da una prefazione in cui elencava molti autori della linguistica contemporanea, Schlegel e Denina compresi. Nel suo articolo sul “Conciliatore”, Breme, a sua volta, forse mettendosi sulla scia di
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cher-Eymery-Delaunay, 1816, pp. I-LVII; e cfr. la nota seguente. Cfr. il fascicolo della rivista Histoire Epistémologie Langage dedicato agli Idéologues (Les Idéologues et les sciences du langage), 1982, IV, fasc. 1. Tra gli articoli compresi in questo fascicolo, mi riferisco in particolare all’introduzione di C. Désirat e T. Hordé, ed a La question de l’histoire des langues et du comparatisme di S. Auroux - C. Désirat - T. Hordé, oltre a Un adversaire des Idéologues aux Ecoles normales: la controverse Garat/Saint-Martin di N. Jacques-Chaquin. Cfr. C. Marazzini, La linguistica di Ludovico di Breme, in Ludovico di Breme e il programma dei romantici italiani, Atti del convegno di studio (Torino, ottobre 1983), Torino, Centro Studi Piemontesi, pp. 155-168.
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abbozzi, di minute, di rifacimenti in cui Manzoni si impegnò ostinatamente, come ci dà conto l’edizione critica di Poma e Stella18. Non si tratta di un ritardo di Manzoni, in quanto attardato pensatore legato al Settecento. Solo la scarsa conoscenza della cultura degli Idéologues, delle sue basi e dei suoi risvolti italiani potrebbe suggerire un simile giudizio riduttivo, nel momento in cui la linguistica non aveva ancora una piena autonomia disciplinare nel quadro dell’epistemologia corrente, ma si presentava come parte integrante della filosofia. Gli Idéologues facevano reggere proprio su considerazioni linguistiche tutto il loro sistema. Fino ad allora, non era nemmeno chiaro (e non solo in Italia) che dalla grammatica filosofica si stava staccando una branca di studi caratterizzati da interessi storico-comparativi. Il già citato Lanjuinais, nel 1816, mescolava gli esponenti dell’una e dell’altra corrente, collocandoli in un’unica categoria che gli pareva omogenea. Certo vi erano ormai altri punti di riferimento che, pur sottovalutati in Italia, potevano attrarre l’attenzione di un anti-sensista. La posizione degli Schlegel si sarebbe adattata benissimo a una premessa di natura religiosa, a una “rivelazione” divina del linguaggio, in cui Manzoni credeva19. A.W. Schlegel lo aveva dichiarato apertamente, ma aveva anche detto che questo problema esulava dalle competenze della scienza, era un mistero praticamente insolubile, e quindi non poteva essere oggetto di dibattito20. Scienza e fede si separavano. A parte ciò, negli scritti degli Schlegel era formulata una teoria fondata sulla perfezione originale del linguaggio, che ribaltava il cammino della storia in cui credevano
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Ad un certo punto, nella terza redazione, databile attorno al 1840, tali argomenti presero l’autonomia di un vero e proprio capitolo, con il titolo di Esame della dottrina del Locke e del Condillac sull’origine del linguaggio (cfr. Manzoni, Della lingua italiana cit., p. 317 e ss). Cfr. tra l’altro Cantù, op. cit., vol. I, p. 318, dove si dice che Rosmini non credeva che il linguaggio fosse frutto di rivelazione divina, e mi pare si ricavi che invece Manzoni ne era convinto. Cfr. A.W. Schlegel, De l’étymologie en général, in Œuvres écrites en français, Tome II, Leipzig, Librairie de Weidmann, 1846, p. 130.
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gli Idéologues: secondo gli Schlegel le lingue si muovevano dalla perfezione originaria alla progressiva degradazione moderna, là dove gli Idéologues, francesi e italiani, vedevano un progresso continuo rispetto al passato, e la perfezione nel futuro. Se alle origini, non nel futuro, stava la perfezione, evidentemente in queste origini non c’era spazio per la barbarie di una lingua semibestiale creata dagli uomini attraverso grugniti e balbettamenti, secondo la ricostruzione di Condillac. Su questo punto Schlegel si pronunciava con sicurezza. Manzoni, tra la Parigi degli Idéologues e la Milano del Breme, rimase stranamente estraneo a questa problematica, anche se nella città di Cattaneo era impossibile che non avesse avuto notizia della scoperta del sanscrito. Cantù, anzi, cita alcune osservazioni di Manzoni sull’etimologia, nelle quali entra anche la lingua dell’India21. Nella riflessione di Manzoni, dunque, non assumono rilievo, in un modo o nell’altro, per via sensista o per via spiritualista, le tendenze storicistiche che dovevano essere centrali nella linguistica dell’Ottocento22. Fin dall’inizio gli fu chiaro invece un principio che applicò radicalmente: “Noi cerchiamo – scriveva nella quarta redazione di Della lingua italiana – ciò che fa esser le lingue, non ciò che possa averle fatte nascere”; e continuava dicendo che il mutare delle lingue, la formazione di nuovi linguaggi, erano problemi in sostanza estranei alla questione fondamentale relativa alla lingua “in atto”23. Lo stesso radicalismo sincronico
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C. Cantù, op. cit., vol. I, p. 281. Sulla conoscenza degli Schlegel tra gli italiani, per gli aspetti specificamente letterari, cfr. M. Puppo, La “scoperta” del Romanticismo tedesco, in Studi sul Romanticismo, Firenze, Olschki, 1969, pp. 129-130 e 135. Puppo nota che A. Ridolfi, nel Prospetto della letteratura tedesca, celebrava F. Schlegel come filologo per la sua conoscenza delle lingue dell’Europa e dell’Asia. U. Palmieri, Sulla linguistica di A. Manzoni, in “Aevum”, 34, 1961, p. 120, dice che Manzoni fu “sordo” agli interessi dello studio diacronico della lingua; secondo Palmieri l’impostazione di Manzoni era scarsamente aggiornata. A nostro giudizio, come abbiamo detto, il problema è diverso. A. Manzoni, Della lingua italiana cit., p. 462.
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si ritrova ribadito molti anni più tardi, nella famosa frase pronunciata quasi in punto di morte: “l’Ascoli ci può insegnare a tutti come le lingue si formano, ma vorrei che egli considerasse che cosa è una lingua”24. In tutta la ricca humus di pensiero che abbiamo ritrovato nella riflessione linguistica manzoniana, nulla abbiamo fin qui che serva a spiegare quel carattere così nuovo e originale nella sua formulazione, ossia la forza operativa del suo progetto di intervento sul piano sociale. Né il sensismo, né la grammatica generale e filosofica settecentesca spiegano il tratto più caratteristico della linguistica di Manzoni, che sta proprio nella capacità di elaborare un progetto da imporre incisivamente alla comunità nazionale. In questo sta il valore politico affidato alla lingua, che da Manzoni è sentito con più forza che da tutti i suoi contemporanei, al di fuori di ogni condizionamento letterario e umanistico, cioè in maniera ben diversa dal misogallismo di un Alfieri, un Napione, un Vidua. Né i nazionalisti italianeggianti, né i puristi a cavallo tra Sette e Ottocento avevano saputo essere cosi pragmatici. Di un simile approccio al problema linguistico si può, forse, indicare almeno un precedente notevole, che ancora una volta ci riporta alla Francia. Proprio in questo paese, alla fine del Settecento, si era verificato un caso interessante di progetto linguistico-educativo inteso a diffondere in maniera omogenea la conoscenza della lingua nazionale, al fine di scalzare dialetti e parlate alloglotte. Il punto culminante di tale progetto era stato il famoso Rapporto di Grégoire sulla necessità e sui mezzi per abolire i dialetti, e rendere l’uso della lingua francese universale: obiettivo esposto con parole molto simili a quelle che saranno usate dal ministro Broglio quando affiderà al Manzoni la presidenza della famosa commissione. Per restare al
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B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1978 (V ed.), p. 688, riprendendo le parole di F. D’Ovidio, Le correzioni ai Promessi sposi e la questione della lingua, IV ed., Napoli, Pierro, 1895, pp. 119-20. Da queste posizioni discende quella tendenza alla sincronia che ha permesso a Bruni, op. cit., alcuni sorprendenti accostamenti di Manzoni a Saussure.
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frequentò l’abbé Grégoire, come prima aveva frequentato gli Idéologues seguaci di Condillac. Tramite tra Grégoire e Manzoni era stato, credo, il prete giansenista Eustachio Dégola, colui che aveva guidato Enrichetta Blondel nella conversione. Questo sacerdote era amico e seguace di Grégoire, il quale a sua volta era un punto di riferimento del giansenismo francese. Manzoni, lo racconta Cantù, viveva allora isolato, incontrando soprattutto con frequenza Fauriel e, appunto, Grégoire26. Un tramite tra Manzoni ed il giacobismo linguistico, dunque, esiste. Ciò potrebbe aiutarci a comprendere come mai la più compiuta espressione pubblica delle idee linguistiche dello scrittore lombardo sia stata da lui affidata, nel 1868, ad una Relazione rivolta a un ministro, così come a un Rapporto diretto alla Convenzione Nazionale si era affidato Grégoire. La Relazione poteva arrivare là dove non riusciva il trattato, a cui pure Manzoni aveva dedicato tanti sforzi senza concludere nulla di definitivo, e trovandosi anzi, dopo oltre vent’anni di stesure, di rifacimenti, di varianti, di ripensamenti, a un punto morto. Dopo la metà del secolo stava ormai prendendo forza sotto i suoi occhi una nuova linguistica, vieppiù materialistica e positiva, ma disciolta dal legame con Condillac. La raffinata confutazione del sensismo condotta nelle cinque stesure del trattato Della lingua italiana era ormai perfettamente inutile. Restava aperta la via dell’intervento politico-sociale, a cui si poteva applicare un’altra eredità del pensiero francese, la forza incisiva della “linguistica giacobina”27.
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Cfr. C. Cantù, op. cit., vol. I, pp. 62-63 e 69 e ss. A p. 71 si dice che Manzoni lo frequentava: “Con lui viveva frequentissimo il Manzoni, col Fauriel e con pochi altri”. Grégoire morì nel 1831. è stata ora pubblicata l’edizione critica del manoscritto originale della Relazione del 1868: cfr. A. Manzoni, Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, edizione critica del ms. Varia 30 della Biblioteca Reale di Torino, a cura di C. Marazzini e L. Maconi, Castelguelfo di Bologna, Società Dante Alighieri-Imago s.r.l., 2011.
12. Manzoni e Rosmini nella questione della lingua
Si deve resistere alla tentazione di fare di Rosmini un linguista. La lingua non fu il tema centrale dei suoi interessi di filosofo, teologo, psicologo, pedagogista e uomo di cultura. Sta di fatto, però, che il tema della lingua fu presente in molte occasioni alla sua riflessione, spesso in maniera non secondaria. Non sempre i risultati della sua ricerca in questo campo possono essere circoscritti nell’area limitata di quella che si usa chiamare la “questione della lingua”. L’esito maggiore della speculazione di Rosmini, come cercheremo di dimostrare, sta piuttosto nelle osservazioni sul linguaggio della filosofia e della teologia, nella ricerca della chiarezza logico-linguistica, nella ricerca delle cause dell’oscurità comunicativa. In diverse occasioni, tuttavia, egli si trovò ad intersecare o affrontare per davvero il tema della “questione della lingua”, a volte di propria iniziativa, specialmente in gioventù, a volte trascinato da altri, come gli accadde quando fu sollecitato dalle discussioni con Alessandro Manzoni. Attraverso l’epistolario possiamo individuare gli interlocutori con i quali si trovò via via a discorrere della “questione della lingua”. Ognuno di essi occupa tendenzialmente una fase ben individuabile, distinta e precisa, nell’evoluzione della sua sensibilità critica nei confronti dei temi filologici e letterari, nel senso che le questioni affrontate con i vari corrispondenti si caratterizzano per l’attenzione dedicata ad argomenti diversi, di volta in volta avvertiti come attuali, i quali nel corso del tempo crescono di qualità, e permettono, per così dire, di delineare la storia della progressiva miglior competenza di Rosmini anche in questo particolare settore del sapere. Si va dunque dalla giovanile revisione del Vocabolario della Crusca, progettata ancora con mentalità puristica, alla reazione di fronte alla Proposta di Monti, al confronto con la teoria del toscano dell’uso vivente. L’epistolario è un punto di riferimento insostituibile. I primi interlocutori, in ordine di tempo,
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
con cui intrattenne uno scambio di idee sui temi di lingua furono gli amici Luigi Sonn e Simone Tevini di Trento, ai quali Rosmini rivolgeva lettere che invitavano al lavoro, esortavano allo spoglio dei classici, al fine di completare la revisione del Vocabolario della Crusca ideata dal Rosmini medesimo. Possiamo seguire abbastanza bene le vicende di quel progetto, poi abortito, anche se attualmente non risultano reperibili le schede allora allestite, le quali pare fossero in buon numero, circa ottocento. La revisione era ancora in corso nel 1815, anche se in quel periodo il lavoro cominciava a entrare in crisi. Le osservazioni alla Crusca, comunque, furono
Così C. Caviglione, Bibliografia delle opere di Antonio Rosmini disposte in ordine cronologico, Torino, Paravia, 1925, p. 3. Per la revisione della Crusca di Cesari intrapresa da Rosmini, cfr. Epistolario Rosmini, I, pp. 9-10 (con l’abbreviazione Epistolario Rosmini, seguita all’indicazione del volume e della pagina, citerò qui e in seguito l’Epistolario completo di Antonio Rosmini-Serbati, Casale Monferrato, Giovanni Pane, 1887-1894, voll. 13), lettera a Luigi Sonn a Trento, datata Rovereto, 3 marzo 1814: “dicovi che fra le molte mie zacchere, che ora ho per le mani, ho anche questa, che sono dietro con molto impegno a far delle giunte o osservazioni al nuovo Vocabolario della Crusca”; nella lettera chiede all’amico di collaborare inviando schede, e parla degli errori che ha riscontrato nella Crusca del Cesari, una serie di “granchi”. Il lavoro di revisione del Vocabolario consiste nel “razzolare e frugare ne’ classici” (p. 10), perché la lingua è tutta lì. Ovviamente Rosmini era ancora prigioniero di una concezione rigidamente puristica della lingua. Torna sul tema in un’altra lettera al Sonn, in data 14 luglio 1814 (cfr. Epistolario Rosmini, I, pp. 12-16), dopo che, evidentemente, il Sonn ha sollevato problemi sulla collaborazione. Vi è poi la lettera a Francesco Fontana, a Firenze, con la quale Rosmini prende informazioni accurate sull’Accademia della Crusca e sul suo giudizio sul Cesari (cfr. Epistolario Rosmini, I, pp. 24-26, agosto 1814). In questa lettera risulta che l’amico gli aveva proposto di mandare le osservazioni all’Accademia stessa. Nell’agosto 1814, Rosmini scriveva al presidente della Crusca Pietro Ferroni, proprio a proposito della famose giunte (cfr. Epistolario Rosmini, I, p. 27). Il 19 settembre scriveva ancora al Ferroni per dirgli che “con un assiduo lavoro di sei mesi ho fatto buona raccolta di giunte e ho messo in iscrittura e l’ordine da tenersi nel compilare il nuovo vocabolario e le cose che fanno mestieri al perfezionamento” (p. 30).
12. Manzoni e Rosmini nella questione della lingua
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fatte conoscere dal giovanissimo Rosmini all’accademia stessa di Firenze, nella persona del suo presidente, a cui aveva scritto, dopo una presentazione dell’amico Francesco Fontana. L’interesse massimo per lo spoglio degli autori di lingua, secondo il gusto puristico, si colloca attorno al 1814. In quell’epoca, fra l’altro, Rosmini, il Sonn e il Tevini (questi due erano gli amici più fortemente coinvolti nell’impresa) discutevano animatamente attorno alla denominazione della lingua, se dovesse essere detta toscana, fiorentina o italiana. Seguivano, ovviamente, la falsariga delle dispute cinquecentesche e si nutrivano di letture “classiche”. Rosmini conosceva l’Ercolano del Varchi, il Trissino, il Dialogo di Machiavelli, ma anche qualche saggio più moderno: citava il Saggio sulla filosofia delle lingue di Cesarotti. In quello stesso periodo era ancora ben vivo il legame con il Cesari, che aveva avuto modo di incontrare diverse volte di persona. Ma il purismo di Rosmini, benché egli fosse allora un giovane all’inizio della sua carriera, non era banale o di corto respiro. La sua curiosità per la lingua aveva già caratteri particolari. Certo, ammirava Cesari, forse più come scrittore che come filologo, ma ciò non gli
La revisione del Vocabolario era ancora in corso nel 1815, quando mandava al Sonn i Fioretti da spogliare (cfr. Epistolario Rosmini, I, p. 62). Troviamo ancora il tema del Vocabolario in una lettera al Sonn del 29 agosto 1815, in cui sprona l’amico a non smettere l’impresa. In Epistolario Rosmini, I, p. 102, 27 novembre 1815, al Sonn: “II lavoro del Vocabolario per ora langue, o dirò meglio posa [...] e si apparecchia a nuove e maggiori [fatiche]”. Il 20 gennaio 1816, a Don Pietro Orsi, accenna al Vocabolario, per il quale ha completato l’indice degli autori di cui occorre una nuova edizione (cfr. Epistolario Rosmini, I, p. 225). Cfr. la lettera al Tevini e al Sonn del novembre 1814 (Epistolario Rosmini, I, pp. 41-47). Da una lettera a Simone Tevini a Trento, il 25 settembre 1814, si apprende che il Sonn aveva sottoposto al Rosmini un saggio, in forma di lettera, Se la lingua nostra si dea chiamare o vulgare, o italiana, o toscana, o fiorentina (cfr. Epistolario Rosmini, I, p. 35). Nella stessa lettera si parla del prossimo arrivo del Cesari a Rovereto. Cfr. la lettera al Don Pietro Orsi del 28 settembre 1815 (Epistolario Rosmini, I, p. 80), in cui dice di considerare Cesari “il più elegante scrittore italiano che [...] viva”.
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impediva di vedere quanti errori fossero disseminati nel Vocabolario corretto da quel purista. L’ammirazione non gli impediva di progettare – come abbiamo detto – un vocabolario della Crusca migliorato, che andasse al di là della revisione del Cesari, e che tenesse persino conto (come vedremo) di alcuni suggerimenti di Cesarotti, ricuperando dunque qualche spunto fornito da un irriducibile avversario del purismo. Pur se questo progetto giovanile non andò in porto, va ricordato un fatto curioso: era destino che molti anni dopo Rosmini fosse di nuovo coinvolto in un grande progetto lessicografico. Nel 1854 il Tommaseo, allora a Torino, cominciava a lavorare per l’allestimento di quel nuovo dizionario che poi diventò la più celebre realizzazione lessicografica del secolo. Tommaseo subito scrisse a Rosmini invitandolo a collaborare alla definizione delle voci concernenti la filosofia e la teologia. Rosmini diede un assenso di massima, ed effettivamente una lista di voci ‘filosofiche’ gli fu inviata da Tommaseo. Rosmini fece anche a tempo, prima di morire, a spedire a Torino, tra la fine del 1854 e l’inizio del 1855, un primo saggio di definizioni relative a parole inizianti con la lettera A. Tali definizioni furono realmente utilizzate per il dizionario, dove figurano, con qualche modifica o con aggiunte, e portano, entro parentesi, il rinvio al nome di Rosmini.
Cfr. N. Tommaseo-A. Rosmini, Carteggio edito e inedito, a cura di Virgilio Missori, Milano, Marzorati, 1967, vol. II, pp. 417-432. La lettera in cui Tommaseo propone a Rosmini la collaborazione è del 25 ottobre 1854. Il 2 novembre Rosmini rispose accettando di scrivere le definizioni, pur chiedendo di non comparire tra i collaboratori. In novembre Tommaseo inviava la prima lista di parole, tra le quali vi erano termini come accessorio, accidente, accidia ecc. Il 25 novembre Rosmini inviava le prime definizioni. Prendiamo ad esempio quella di accidente, che risulta così: “ciò che accade senza che apparisca ragione sufficiente; accidente di un ente, ciò che è in un ente, senza che nell’essenza di quell’ente si trovi la ragione sufficiente, per la quale ci sia” (op. cit, p. 421). Si confronti con la voce Accidente del Dizionario della lingua italiana di Tommaseo, che utilizza il suggerimento di Rosmini addirittura come prima definizione: “ACCIDENTE. [T.] S.m. [Rosm.] Ciò che accade senza che n’apparisca la cagione sufficiente. E però giunge più o meno imprevisto”.
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È davvero notevole che all’inizio della vita intellettuale del filosofo e alla fine di essa si collochino queste due esperienze lessicografiche, pur così diverse. Ma torniamo alle concezioni linguistiche giovanili di Rosmini. Dal 1819-20, tramontato il progetto del Vocabolario, le lettere che contengono riferimenti a temi di lingua sono dirette a Pier Alessandro Paravia (più tardi professore nell’ateneo di Torino). Al nome del Paravia si lega anche il più notevole scritto “pubblico” di taglio puristico che Rosmini abbia dato alle stampe, cioè la lettera Sulla lingua italiana pubblicata per la prima volta nel 1819, in risposta a uno scritto indirizzatogli dal Paravia, intitolato Le cause per le quali a’ nostri giorni da pochi direttamente si adopera la bellissima italiana favella. Il saggio Sulla lingua italiana di Rosmini, scritto, come ho detto, in forma di lettera al Paravia, contiene una serie di luoghi comuni caratteristici del purismo primo-ottocentesco, com’è inevitabile aspettarsi nell’intervento di un giovane che ha ricevuto un’educazione linguistico-letteraria in cui Cesari ha avuto largo spazio. Ecco dunque, tra questi luoghi comuni, i timori manifestati per il contatto tra l’italiano e il francese, il riferimento negativo al linguaggio “de’ pubblici ufficiali e della legislazione”, dove avviene l’“imbrattamento” della buona lingua. Ecco la condanna dell’“ignominia dello scrivere sudicio e forestiero”, e dello spirito perverso per cui alcuni gradiscono come linguisticamente “gustoso ciò che abbrugia per la salsuggine”. Anche lo stile di queste notazioni, caratterizzate da ricercati arcaismi e varianti letterarie (abbrugiare, salsuggine), mostra quale fosse l’ideale linguistico in cui Rosmini credeva in quel momento. Ne era ovvio corollario l’antipatia per il francese, con la conseguente denuncia del danno prodotto dallo “studio entrato in gran moda del francese idioma, il quale [...] dee avere arrecato alla nostra pura
Poi, più tardi, in volume: Lettera a Pier Alessandro Paravia sulla Lingua italiana, in A. Rosmini-Serbati, Prose ossia diversi opuscoli, Lugano, Veladini e C., 1834, pp. 53-88. Sul Paravia, cfr. M. Vitale, La questione della lingua. Nuova edizione, Palermo, Palumbo, 1978, p. 385. Rosmini, Lettera a P. A. Paravia cit., p. 56. Ivi.
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Rosmini, lettore di Perticari, dichiara di aver per le mani “un’opera grande sopra la lingua italiana”13, anche se per mancanza di tempo non riesce a lavorarvi, e quasi sta per rinunciarvi definitivamente. Quanto fosse colpito positivamente dal Perticari, le cui idee, del resto, come tutti sanno, ebbero grandissimo peso negli anni ’20 dell’Ottocento, è confermato dalla sua reazione, che mi pare piuttosto tiepida, di fronte al saggio giovanile di Tommaseo II Perticari confutato da Dante, nel quale si sosteneva l’utilità del fiorentino e degli altri dialetti toscani per integrare la lingua letteraria. Nel 1825, all’uscita di quel libro, Tommaseo ne aveva dato notizia al Rosmini, il quale aveva immediatamente dimostrato notevole interesse per gli studi dell’amico, ma poi nel carteggio non si trovano più discussioni sull’argomento, salvo un giudizio auto-svalutativo dello stesso Tommaseo14. Andiamo avanti negli anni, fino al 1830-31. Sullo sfondo del dialogo tra Rosmini e Tommaseo si profila ormai un’altra presenza, alla quale i due fanno spesso riferimento: Alessandro Manzoni, colui che più di tutti mise il problema della lingua al centro delle proprie riflessioni. Fin dal 1830 i due amici, Rosmini e Tommaseo, avevano mostrato curiosità per le teorie che Manzoni andava elaborando: “II lavoro [di Manzoni] sulla lingua – scriveva Rosmini al Tommaseo l’8 luglio – io non l’ho punto veduto. Credo bene che mi gioverebbe il vederlo; e mi darebbe piacer grandissimo,
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Epistolario Rosmini, I, p. 356. L’annunzio dell’uscita dell’opera era stato dato da Tommaseo al Rosmini in una lettera del 26.10.1825 (Tommaseo - Rosmini, Carteggio cit., lettera n.125, pp. 300-301). Rosmini, il 30 ottobre, aveva risposto: “Non conosco la Confutazione che mi accennate del Perticari, e desidererei molto di vederla” (op. cit, p. 305). Nel novembre, infine, Tommaseo scriveva al Rosmini: “La confutazione di Perticari è troppo arida e stretta, né può, non che piacere, essere intesa” (op. cit., p. 315). Sul Perticari confutato da Dante, cfr. Vitale, op. cit., p. 430. Ne esiste una riedizione moderna: N. Tommaseo, Il Perticari confutato da Dante, a cura di L. Tremonti, Roma, Salerno, 2009.
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essere la norma, il riconoscimento doveva derivare in parte, come voleva Manzoni, dalla tradizione e dall’analogia con la lingua scritta, ma anche dalla sua eleganza e dalla sua naturale qualità18.
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Riporto un ampio stralcio della lettera di Tommaseo del 19 giugno 1931 (Tommaseo-Rosmini, Carteggio cit., vol. II, p. 177): “L’obbiezione del Manzoni m’istruisce, ma non mi convince. Certo, il toscano è la lingua da prescegliere, perché fu sempre prescelta e anch’io dico ch’è più conforme alle analogie della lingue scritta... più nota. Aggiungo, però, ch’è più elegante e più propria. Questa è una ragione secondaria che, aggiunta a quell’altra, ha il suo peso. Io dovevo, è verissimo, svolgerle più a lungo ambedue e specialmente la prima; ma a ciò mi bisognava un discorso, vale a dire, un po’ di polemica, e di polemica io non mi volevo immischiare in un libro siffatto, direttamente, per le ragioni che v’ho detto altra volta. Il Manzoni, del resto, mi pare che dia troppo al fatto che nella sua opinione ha qui un pochino del fato. Il toscano è da scegliersi, perché è stato sempre adoperato? Io potrei negare primieramente la generalità della proposizione e osservare che l’incertezza appunto, la qual regna in molte parti dell’uso, viene dal non aver tutta Italia aderito con la conveniente docilità e fermezza all’unica norma del dire toscano. Ma, lasciando questo da un canto, dond’è, domand’io, che il toscano è stato prescelto nella maggior parte de’ casi e dalla maggior parte degli autori agli altri usi? È egli un caso cotesto? È egli una necessità? Io non lo credo. Io tengo che anco in queste piccole cose della lingua un po’ di Provvidenza c’entri e che, quand’anche questo dialetto non sia stato il prescelto perché migliore, si è ad ogni modo trovato e si può dimostrare che gli uomini, operando a caso, non potevano fare scelta migliore. Questo al Manzoni non piace: egli ha delle predilezioni per il suo milanese, e ci ho le mie predilezioni particolari anch’io; ma il fatto si è che guardando alle tre norme, sopra cui credo si debba giudicare la bellezza d’una lingua, dico l’etimologia più evidente, l’analogia filosofica e grammaticale, e l’armonia ritmica musicale ed onomatopeica, guardando a coteste tre norme, si trova che questo caso, il qual diede la palma al toscano, è un caso sapiente; che questa necessità di presceglierlo e di sempre meglio aderirvi, è una provvida e bella necessità. Se, dunque, dopo avere affermato che un dialetto fra tutti dev’essere la nostra norma, perché senz’essa non s’ha lingua né una, né ferma, né popolare, né intelligibile, io aggiungo che questa norma anco per altre ragioni merita d’esser seguita, ma fo uno sproposito, parmi”. Osservo che il ma dell’ultima frase citata mi pare da correggere in non.
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Il 28 giugno Rosmini rispose al Tommaseo mostrando di prendere atto degli argomenti dell’interlocutore: “Circa il principio della buona lingua mi arrendo in gran parte alle vostre ragioni”19. Ma proseguiva con un’affermazione che in realtà si distanziava dal toscanismo, sia da quello “estetico” di Tommaseo, sia da quello “razionale” di Manzoni, approdando invece a un giudizio limitativo sul toscano: Veggo che stabilendo il solo uso della lingua viva in Toscana, andiamo in qualche cosa d’impossibile, cioè che vi sono molti casi ne’ quali quell’uso è incerto o manca o è tale che lascia luogo ad una scelta o è troppo rimoto e inaudito dall’uso comune degli scrittori in Italia20.
Quindi si soffermava sul concetto di uso, intendendolo in maniera non rigidamente sincronica, ma, viceversa, come il frutto di un rapporto con la tradizione, tanto è vero che l’uso antico o in fase di obliterazione poteva, a suo giudizio, lasciare un’eredità nella memoria, o avere comunque un fascino, o persino poteva essere rivitalizzato e “restituito”, ad esempio sotto l’azione di un ricupero favorito dall’etimologia21. È la prima presa di posizione,
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Cfr. Tommaseo-Rosmini, Carteggio cit., vol. II, p. 179. Ivi. Riporto dalla lettera di Rosmini del 28 giugno al Tommaseo (Tommaseo-Rosmini, Carteggio cit., pp. 179-80) il passo che segue la citazione che abbiamo appena letto: “Dico solamente che questi sono casi d’eccezione e in questi soli, parmi, è lecito chiamare in soccorso degli altri criteri interni, come son quelli che insegnano a giudicare del bello delle lingue. L’etimologia e l’analogia, di cui voi parlate, mi sembrano regole ottime non tanto per conoscere la bellezza intrinseca della lingua, quanto per conoscere l’uso stesso, poiché l’etimologia, che rammenta un significato antico della parola, richiama un uso non dimenticato del tutto, ma di cui si conserva una traccia grata nella memoria de’ posteri, i quali trovano un singolar piacere nell’essere svegliati, per così dire, a ritener ancora in tempo un uso antico e fuggente, che sarebbe loro interamente mancato, se non fosse stato in buon punto rammentato e restituito.
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se non erro, esplicitamente diretta contro il toscanismo dell’uso vivente (qui non distinto dal fiorentinismo), ed è del resto anche la prima annotazione in cui, discutendo le idee di Tommaseo (di cui, come Manzoni, non condivide affatto il giudizio relativamente all’importanza del primato “estetico” ai fini della scelta del toscano tra le altre parlate), mostri di esaminare criticamente anche il principio di fondo elaborato da Manzoni, al quale lo scrittore si era risolutamente convertito subito dopo l’edizione ventisettana dei Promessi sposi. Un concetto di uso basato su di una concezione rigidamente sincronica risulta comunque inaccettabile per Rosmini. II dissenso fu confermato molto tempo dopo, quando Rosmini dovette tornare ad occuparsi della “questione della lingua”, sollecitato proprio da quel grande interlocutore, che del tema linguistico faceva continuo oggetto di conversazione con gli amici, cercando prima di tutto di convincere coloro che gli erano più vicini. La lettera alla quale ci riferiamo rappresenta davvero il punto nodale dello scambio di opinioni con Manzoni sul tema linguistico, per la ricchezza e la qualità dell’argomentazione. Siamo nel 1843. Rosmini ha esaminato il primo capitolo del trattato manzoniano Della lingua italiana, a lui sottoposto in una stesura di quella che i filologi di oggi chiamano la “quinta redazione” di
L’analogia, poi, non è che una legge dell’uso; e per questo piace, per questo è autorevole, giacché dell’uso piace non solo i singoli vocaboli, ma le leggi omai colle quali questi si reggono e governano. Tutto questo io dico non già perché nelle lingue io non ammetta un bello assoluto, ma perché io credo che se l’uso non sorregge questo bello, egli non può servire a nulla. Così, quantunque bella sia una voce o una frase di lingua francese, per questo solo sarà molesta agli orecchi e barbara nella nostra, perché è priva dell’uso. Ma entro la circonferenza dell’uso, come dicea, hanno luogo le regole del bello. E l’uso non l’intendo, per dirlo di nuovo, in un senso stretto e materiale, ma lo intendo colle sue leggi, colle sue reminiscenze e, quasi direi, colle impressioni che lascia negli animi, colle sue radici che lascia nelle memorie, anche allorquando egli va perendo e interamente vien meno”.
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quel travagliatissimo lavoro22. Il giudizio di Rosmini, svolto in forma di vero e proprio saggio argomentato e compiuto, seppur breve, sta in una lettera scritta da Stresa il 14 ottobre. L’importanza di questo documento è ben nota. Lo provano anche le numerose edizioni, fin dal 1879, su periodico, poi nell’epistolario di Manzoni, nelle Reminiscenze del Cantù, nelle Opere inedite o rare di Manzoni, e, ovviamente, nell’epistolario Manzoni-Rosmini23. Gli studiosi, ad esempio Angelo Stella e Maurizio Vitale, se ne sono serviti per stabilire la cronologia della composizione del I capitolo del trattato Della lingua italiana. Noi ci soffermeremo sui suoi contenuti concettuali. Benché costruita con sapientissima perizia e con garbo da amico, la lettera è una chiara e motivata presa di distanza dalla teoria fiorentina. Non viene contestato il contenuto del I capitolo del trattato, ricevuto in visione, ma viene respinto piuttosto l’esito finale della teoria che Manzoni stava elaborando per proporre il fiorentino vivente come lingua d’Italia. La lettera, dunque, dimostra un fatto che di per sé appare logico, prevedibile, anche indipendentemente dalle prove documentarie, che pur ci sono: cioè che l’argomento linguistico era stato già in precedenza oggetto delle conversazioni tra i due grandi. Il dissenso, però, non impedì al Manzoni di ricorrere al parere dell’amico stimatissimo, nel
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Cfr. A. Manzoni, Opere, vol. III, Scritti linguistici, a cura di M. Vitale, Torino, Utet, 1990, p. 339, dove si cita la lettera di Rosmini del 14 ottobre 1843; e A. Manzoni, Della lingua italiana (“Scritti linguistici e letterari”, V, I), a cura di L. Poma e A. Stella, Milano, Mondadori, 1974, p. 971, dove si legge fra l’altro che è “difficile accertare se il Rosmini abbia letto la stesura ultima o la precedente” del cap. I della quinta redazione. Cfr. Carteggio fra Alessandro Manzoni e Antonio Rosmini, raccolto e annotato da Giulio Bonola, Milano, Tipografia Editrice L. F. Cogliati, 1901, pp. 72-80 (lettera XXX). Di qui noi ricaveremo le nostre citazioni. La lettera era uscita nel periodico torinese “La Sapienza”, nel vol. I del 1879. È anche nell’VIII vol. dell’Epistolario Rosmini (1891), e in A. Manzoni, Opere inedite o rare pubblicate per cura di P. Brambilla da R. Bonghi e G. Sforza, vol. V, Milano, Rechiedei, 1898, pp. 359-370, parzialmente in Cantù, p. 319 e ss. del vol. cit. alla nota 51.
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momento in cui si sforzava di dare base filosofica alla trattazione della “questione della lingua”. Rosmini si premurava innanzitutto di stabilire i punti di comune consenso, che si riassumono nelle seguenti due tesi: 1) Rosmini concorda con la definizione, filosoficamente ineccepibile, data da Manzoni del concetto di lingua, intesa come il mezzo di comunicazione che deve offrire tutte le parole di cui una determinata società necessita, le quali devono essere comuni alla società medesima, e note a tutti; 2) Rosmini concorda con l’analisi di Manzoni della mancanza di uno strumento linguistico unitario in Italia; è giusto concludere, come ha fatto Manzoni, che gli italiani “non hanno in proprio la lingua”24, ove per lingua si intenda quel tutto omogeneo e vivo che nell’Italia non c’era all’inizio dell’Ottocento, e non c’era mai stato prima. Il dissenso di Rosmini rispetto alle tesi del Manzoni si manifestava però nel momento in cui, dall’analisi del concetto di lingua e dalla constatazione della situazione dell’Italia, si passava a indicare le soluzioni. Tali soluzioni, beninteso, non erano ancora proposte nel I capitolo del trattato sottoposto al Rosmini, ma Rosmini pensava di conoscerle sulla base delle conversazioni con l’autore. Rosmini, insomma, sapeva già dove Manzoni sarebbe andato a parare. Lo dice apertamente: E qui Don Alessandro già intende, come io mi proponga di esercitare la sua pazienza, ripetendo cioè alcune delle cose che Le dissi in voce sulla maggiore o minor facilità di spingere gl’Italiani all’acquisto di una lingua comune, e però italiana veramente25.
Il seguito della lettera svolge una critica serrata della teoria del fiorentino dell’uso vivo, una critica così ragionevole ch’è un peccato essa non sia di solito citata nel dibattito sulla questione della lingua nell’Ottocento. Il fiorentino, dice Rosmini, non può identificarsi
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Carteggio Manzoni-Rosmini cit., p. 73; Manzoni, Opere inedite cit., p. 364. Carteggio Manzoni-Rosmini cit., p. 75; Manzoni, Opere inedite cit., p. 366.
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nella lingua italiana o trasformarsi in essa, per diverse ragioni. Osservava dunque che per arrivare al fiorentino assunto a lingua italiana ci sarebbe voluto un buon lasso di tempo26. Intanto lo stesso fiorentino, come accade a tutte le lingue viventi, sarebbe mutato almeno in parte. L’obiettivo verso il quale Manzoni voleva indirizzare Lombardi e Veneti, insomma, non era stabile: sarebbe diventato qualche cosa d’altro nel corso della faticosa marcia di avvicinamento compiuta dai periferici per raggiungere il centro toscano: “noi Lombardi e Veneti – dice infatti Rosmini – [...] saremmo condannati a inseguirli sempre [i fiorentini] senza raggiungerli mai”27. La soluzione stava dunque, a suo parere, in un rovesciamento del punto di vista secondo il quale la lingua era esclusivamente proprietà fiorentina: la soluzione diventava raggiungibile se si considerava la lingua come un patrimonio a cui potevano mettere mano anche gli altri italiani. Per arrivare a ciò, i fiorentini dovevano essere disposti a “incontrare in sulla via gli altri italiani che camminano verso di loro”28; i fiorentini avrebbero dovuto dar “qualche peso alla loro autorità [cioè all’autorità degli altri italiani] nelle cose di lingua in cui convengono, e in cui converranno”29. Possiamo riconoscere qui la tesi di chi, pur ammettendo il sostanziale vantaggio dei fiorentini nella lingua parlata, e pur accettando il loro primato e il loro prestigio, non rinnegava tuttavia il ruolo delle altri regioni italiane, non rinnegava i diritti della lingua letteraria e grammaticale. Dietro queste
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Nel periodo antecedente all’Unità, quando si svolgeva questo dibattito, non era pensabile che una politica culturale operante attraverso la scuola e le scelte del governo accelerasse l’avvicinamento al toscano. Nel 1843, a diciotto anni dall’Unità, nessuno poteva prendere in considerazione la politica statale come elemento utile per conseguire l’unità linguistica nazionale dell’Italia intera. Diversa sarebbe stata invece la situazione al tempo della Relazione manzoniana del 1868. Carteggio Manzoni-Rosmini cit., pp. 75-76; Manzoni, Opere inedite cit., p. 366. Carteggio cit., p. 76 e Manzoni, Opere inedite cit., p. 367. Ivi.
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posizioni non stava certo il giovanile purismo, come sembrava insinuare Tommaseo, che tirava in ballo per Rosmini le “pratiche ricevute da’ seguaci del Cesari”30. Non stava nemmeno il ricordo della cosiddetta “lingua comune” di Perticari. Era in gioco, semmai, l’eredità di una linea illuminista che passa per il Saggio sulla filosofia delle lingue di Cesarotti, un libro che Rosmini, come abbiamo detto, aveva conosciuto assai presto, già negli anni in cui aderiva alle tesi del purismo31, un libro per il quale fin d’allora, nonostante ciò possa parere strano (visto che Cesarotti era la bestia nera dei puristi, e il suo Saggio era giudicato il cavallo di Troia del più turpe francesismo), Rosmini non aveva mai dimostrato antipatia. Anzi, sarà curioso ricordare qui, per inciso, che nel progetto giovanile del “Vocabolario della lingua, il quale più che sia possibile avvici a cosa perfetta”, conservato nell’Archivio di Stresa, si propone una struttura delle voci lessicografiche che risponda a un impianto sistematico, in cui entrino, dopo la definizione, l’etimologia, l’esempio, anche i sinonimi, e per i sinonimi e per il valore dell’etimologia si rinvia esplicitamente ad una passo del Saggio sulla filosofia delle lingue (parte III, III)32. Ma lasciamo
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Cfr. N. Tommaseo, G. Borri, R. Bonghi, Colloqui col Manzoni seguiti da memorie manzoniane di C. Fabris, con Introduzione e note di G. Titta Rosa, Milano, Ceschina, 1954, p. 94. Cfr. Epistolario Rosmini, I, pp. 41-47, nella lettera al Tevini e al Sonn del novembre 1814. Rosmini trascriveva il seguente passo del Saggio (III, III, 3) di Cesarotti (carta 6, e ultima del progetto di Vocabolario): “Sarebbe desiderabile che nella lingua italiana si facesse una raccolta di sinonimi, come la fece nella francese l’Abate Girard; ma a fine di renderla preziosa ed utile non solo ai letterati, ma insieme anche agli eruditi filosofi converrebbe aggiungere alle differenze dell’uso quelle del loro senso primitivo ed intrinseco, seguendo i vestigi dell’etimologia, e le loro trasmigrazioni successive, e rintracciando le ragioni che finalmente ne determinarono il significato ad un’idea più che all’altra; notizia ugualmente opportuna e a chi scrive a’ tempi nostri, e a chi vuoi giudicare fondatamente delle opere di quei che scrissero”. Aggiungeva Rosmini: “Raccomanda il medesimo in più luoghi le etimologie”. Colgo qui l’occasione per ringraziare
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il pur interessante progetto lessicografico giovanile, e torniamo al confronto di idee della maturità con le tesi del Manzoni, in cui Rosmini, non dimenticando – a mio parere – il concetto di lingua comune ricorrente nel Cesarotti, e da Cesarotti tenuto ben distinto da quello di dialetto dominante (cioè il fiorentino), richiamava il fatto che quanto c’era già di comune nella lingua italiana, da tutti accettato, prescindeva dagli elementi particolari della lingua di Firenze. Di questi elementi la stessa futura lingua fiorentina avrebbe dovuto anzi far a meno, se avesse voluto farsi davvero più italiana. Come si vede, la tesi di Rosmini appare piuttosto ostile al manzonismo linguistico, come si era stabilizzato già prima del 1843, a revisione linguistica dei Promessi sposi ormai conclusa e acquisita: dubbi di interpretazione, insomma, non ne dovevano esser rimasti troppi, per chi conoscesse Manzoni come lo conosceva Rosmini. Rosmini, inoltre, si premurava di aggiungere che gli stessi fiorentini, nella maggior parte dei casi, erano dell’opinione che gli elementi troppo caratteristici della lingua di Firenze fossero “difetti del loro dialetto”33. Quali erano dunque questi elementi del fiorentino inaccettabili nella lingua nazionale? Rosmini, nella lettera al Manzoni, ne indica tre. Al primo posto pone le caratteristiche locali di pronunzia, come la gorgia toscana, la quale del resto Manzoni non propose mai all’imitazione. La questione della pronuncia, dunque, non era quella che poteva dividerli irrimedia bilmente. Al secondo posto, Rosmini poneva gli idiotismi (quelli che Cesarotti aveva definito “i bassi idiotismi del toscanesimo”),
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padre Alfonso Ceschi, archivista del Centro Studi Rosminiani di Stresa, che, con grande tempestività, mi ha fatto gentilmente trasmettere copia del ms. del progetto di Vocabolario. Su tale progetto, cfr. anche Caviglione, Bibliografia delle opere di Antonio Rosmini, cit., p. 3, oltre a F. Paoli, Della vita di Antonio Rosmini-Serbati, Torino, Paravia, 1880, vol. I, p. 10; ma si vedano soprattutto le varie informazioni che si ricavano da molte lettere del I vol. di Epistolario Rosmini (cfr. la nota 2 di questo nostro lavoro). Carteggio Manzoni-Rosmini cit., p. 77; Manzoni, Opere inedite cit., p. 368.
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giudicando che essi fossero un elemento turbativo della “forma regolare e grammaticale” verso la quale per forza di cose doveva avviarsi la lingua nazionale, la quale non poteva essere costruita con le eccezioni alla norma grammaticale riconosciuta e stabilita. Sappiamo del resto che gli idiotismi fiorentini furono impiegati sempre con molta cautela dal Manzoni, a differenza che dai suoi imitatori. Al terzo posto, Rosmini introduceva il problema, credo ben più delicato, della lingua “colta e scientifica”34, la quale “non è parlata più dai dotti fiorentini che dagli altri dotti d’Italia, anzi dagli altri più, perché son più; e parmi evidente – concludeva Ro smini – che questa lingua non nasce più a Firenze che nelle altre provincie d’Italia, dove fioriscan più le scienze e le arti, e dove più di esse si scriva. Laonde non giungeranno gl’Italiani più facilmente a rendere a se stessi comune questa porzione di lingua colla comunicazione degli scritti, che coll’andare a Firenze, dove forse non la troverebbero, e non di rado ve la porterebbero?”35. La posizione è recisa, come si vede, e non scende a compromessi. Riecheggia anch’essa uno spirito cesarottiano, ma, vista la data in cui il pensiero viene spesso, visto il contesto storico, questa lingua che si propaga con la comunicazione scritta, che è patrimonio della comunità dei dotti, per la quale Rosmini parteggia con passione, ricorda l’agitarsi delle penne operose degli “operaj della intelligenza” a cui farà riferimento trent’anni dopo Graziadio Isaia Ascoli, il maggior avversario del manzonismo, in quello che resta il punto più alto della polemica contro l’ideale linguistico fiorentino. Il parere critico del 1843 sulle teorie linguistiche fiorentiniste derivava, abbiamo detto, da un approfondito scambio di opinioni che si doveva essere svolto in precedenza tra Manzoni e Rosmini. Che questo scambio non fosse stato facile e privo di nubi, lo apprendiamo dalla testimonianza del Borri, fratello di Teresa, moglie
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Ibid., p. 78 (e Manzoni, Opere inedite cit., p. 369). Ivi.
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del Manzoni36. Il ricordo del Borri si colloca nel gennaio del 1842, e ne è protagonista non tanto lo scrittore, quanto sua moglie la quale ha appena assistito, appunto, a un dibattito di Rosmini con il marito sul tema della “questione della lingua”: “[Rosmini] Mi era antipatico”, dice la signora Manzoni rivolta al marito, secondo quanto riporta la vivace testimonianza del Borri, “perché aveva l’aria di credersi un uomo più grande di te [...]”. “Lui tiene i campi della filosofia, – replicava Manzoni – ed io mi contento di coltivare la vignetta di Naboth37, m’accontento di parlare delle cose di lingua”. E la moglie, con una certa malignità: “Ma se non ti lasciava mai parlare!”. “Oh questo poi è vero – rispondeva Manzoni. – [...] Durai molta fatica a fargli capire i miei principi in fatto di lingua, perché mi ammazzava sempre la parola in bocca. Ma finalmente quando arrivò a sentirli, se ne mostrò capacitato”. Quanto se ne fosse capacitato, cioè assai poco, lo dimostra la lettera del 1843 di cui abbiamo prima discusso. Del resto, del ‘capacitarsi’ di Rosmini non si dimostrava troppo convinta, con giusta intuizione, la signora Manzoni-Borri, la quale protestava che Rosmini con “tutti quei suoi sillogismi e con tutti quei suoi distinguo mi aveva proprio annoiato”. E qui il Borri concludeva, a proposito dei distinguo di Rosmini, con l’aneddoto di quel prete che, interrogato dal suo vescovo se si potesse battezzare con il brodo, se la cavò dicendo: “Distinguo [...]: col brodo della vostra cucina no, col brodo dei nostri seminarj credo lo si possa”38.
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Cfr. Colloqui col Manzoni cit., p. 247 (da cui sono tratte le citazioni che seguono). Cfr., nella Vulgata, 3 Regum 21 (o, secondo la divisione moderna, 1 Re 21). Le discussioni sulla lingua tra Manzoni e Rosmini continuarono per lungo tempo, come si ricava dalle memorie di Margherita Provana di Collegno, nata a Milano nel 1811 dal marchese Lorenzo Trotti Bentivoglio, piemontese d’adozione per aver sposato Giacinto Provana. Questa dama trascorreva le vacanze sul Lago Maggiore, frequentando un cenacolo animato da Manzoni, Rosmini, Bonghi, Broglio. Le loro conversazioni, nella cornice splendida della sponda piemontese del lago, tra Stresa, Baveno e Lesa, e poi anche a Cassolo presso il Ticino, dove Manzoni andò ospite,
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Ai primi del novembre 1843, quando era giunta a destinazione la lettera di dissenso di Rosmini a proposito del saggio Della lingua italiana, Borri annotava che Manzoni era ancora speranzoso di convincerlo, anzi di “convertirlo”, per usare pari pari la sua espressione39. La convinzione di Manzoni derivava dal fatto che egli continuava a reputare Rosmini avesse male inteso i principi che gli erano stati esposti a voce, mentre mostrava di condividere quanto aveva letto nella parte del trattato effettivamente scritta.
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risuonano nel diario di Margherita vive come quando furono pronunciate. “Manzoni – scrive Margherita alla data del 27 settembre 1853 – oggi discute e spiega le sue teorie sulla lingua con una tale varietà di espressioni e d’esempi, con una tale abbondanza di argomenti da subissare tutta una accademia di dotti. Se ben capii, egli vuole che si cerchi di stabilire fra ogni nazione (e pel canto suo fra gli italiani) una lingua parlata comune, per cui una stessa cosa sia chiamata col medesimo vocabolo da un capo all’altro di Italia, perché tutti l’intendano ugualmente. Questa lingua dittatrice egli non dice che debba essere, né quella di tal autore, né di tal epoca, no, vuole che sia la lingua viva che crei il vocabolo a misura che ne nasce il bisogno, e che quel vocabolo sia adottato dappertutto. La sede della lingua, per la Francia, dovrebbe essere naturalmente a Parigi, che è il centro politico e d’ogni cosa, il luogo ove si concorre da ogni provincia per prendere esempio. […] In Italia, purtroppo, non esiste centro politico unico, ma per supplirvi (dice Manzoni) abbiamo una parte d’Italia ove da secoli si parla una lingua che per consenso generale è considerata come la vera e migliore, e questa è la Toscana. Accettiamo dunque questo vantaggio e decidiamo di adottare tutti quella stessa lingua. Si dirà: ma in Toscana vi sono pure varietà di modi di dire secondo le città. Ebbene, siccome la lingua da preferirsi è la più viva, è naturale che sia quella che vien parlata nella Capitale, dunque scegliamo Firenze” (Diario politico di Margherita Provana di Collegno 1852-1856, illustrato con note e documenti inediti a cura di A. Malvezzi, Milano, Hoepli, 1926, pp. 131-32). Il clima di quel cenacolo si ricava anche da R. Bonghi, Le Stresiane, annotate da G. Morando, Milano, Cogliati, 1897, e a Stresa riconducono anche le Lettere critiche di Bonghi, sottotitolate Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia (Milano, Colombo-Perelli, 1856; edizione moderna a cura di E. Villa, Milano, Marzorati, 1971). Cfr. Colloqui col Manzoni cit., p. 265.
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Manzoni commentava dicendo che Rosmini preferiva attenersi ad un “juste milieu nella lingua”, intendendo così il punto di incontro, di cui aveva scritto Rosmini, tra i fiorentini e gli altri Italiani, con la rinuncia alla pretesa del primato assoluto nella lingua. Come si vede, il resoconto di Borri è fedele al contenuto della lettera del 1843, ma sancisce il permanere del disaccordo, pur nella reciproca profonda stima, e pur nella sicurezza di Manzoni che una razionalizzazione del problema dovesse per forza rendere convincente la teoria fiorentinista. Abbiamo evocato, seguendo il filo di testimonianze, lettere, diari e memorie, una serie di discussioni delle quali possiamo senz’altro comprendere l’importanza. Esse ci mostrano quanto il tema dell’unità della lingua fosse attuale nei discorsi che si svolgevano in questo eletto cenacolo di amici, Manzoni, Rosmini, Tommaseo, Borri, Bonghi... La ricostruzione dei discorsi si basa, com’è evidente, su testimonianze spesso rielaborate in diari e memorie, oltre che negli epistolari. Un altro punto di riferimento a cui possiamo appigliarci, ma con cautela, per ricostruire quel dibattito, è un dialoghetto contenuto nel diario di Ruggero Bonghi, fatto conoscere da Francesco D’Ovidio nel 1896 in una memoria presentata all’Accademia di scienze morali e politiche di Napoli, poi entrata nel volume dei suoi Rimpianti40. È il 18 agosto del 1852 (il dialoghetto, nel diario, sta sotto tale data). Tra gli interlocutori ci sono Manzoni, Bonghi medesimo, Rosmini, il marchese Gustavo Benso di Cavour, il canonico Gatti, l’erudito padre Vincenzo De Vit41. Rosmini interviene parcamente e
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La memoria letta dal D’Ovidio alla R. Accademia di scienze morali e politiche di Napoli il 20 giugno 1896 fu poi inserita nel vol. XXVIII degli Atti dell’Accademia stessa, e infine pubblicata in F. D’Ovidio, Rimpianti, Milano-Palermo-Napoli, Sandron, 1903, pp. 60-73. Del Diario di Bonghi in cui ricorre il dialogo sulla lingua si era parlato nel 1896 anche all’Istituto Lombardo di Milano, ad opera del senatore Negri. Il dialogo del Bonghi si legge anche in Colloqui col Manzoni cit., pp. 324-331, oltre che in Bonghi, Stresiane cit., pp. 23-30. I nomi dei personaggi qui citati ricorrono spesso anche nel diario di Margherita Provana di Collegno citato alla nota 38.
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pacatamente, esprimendo tre concetti. Afferma prima di tutto che il maggior intoppo alla soluzione manzoniana al problema della lingua sta nella difficoltà di praticarla; Manzoni risponde che non c’è solo questa difficoltà, ma anche quella di trovare chi conosca tutta la lingua di Firenze, poiché nessuno conosce mai tutta la lingua della propria città, sia essa Firenze o Milano. Rosmini obietta poi che, anche una volta saputo il fiorentino, non è detto che si riuscirà a dire quel che si vuoi dire. Poco oltre, dopo varie battute del Manzoni e del Bonghi, Rosmini interviene nuovamente per dire che può accadere che si trovi, sì, la parola fiorentina adatta al concetto, ma che essa manchi di una sfumatura, una gradazione, una “tinta”. Preoccupazione per la “sfumatura”, sia detto per inciso, che ricorda il giudizio di Tommaseo, secondo il quale Rosmini, nelle scelte linguistiche, rimaneva tenacemente attaccato a “quell’amore di libera varietà” al quale stava stretta la camiciola fiorentina che Manzoni voleva a forza infilare a tutti42. Le battute di Rosmini che seguono non aggiungono nulla, salvo forse una domanda al Manzoni, che può essere definita tendenziosa: “E ci è Toscani, che scrivono come dice lei?” (cioè Toscani i quali, come vorrebbe Manzoni, scrivono come parlano, prescindendo dalla lingua letteraria). La risposta di Manzoni, ovviamente, è negativa: “Non la vogliono intendere”43. Anche da qui, dunque, emerge la sostanziale duratura diffidenza per l’assunzione tout court della lingua di Firenze come lingua d’Italia. Fa riflettere quel riferimento alla “difficoltà di praticarla”, alla difficoltà di mettere in pratica la soluzione fiorentina44. Nella lettera del 1843, si legge che il consiglio che Manzoni si accingeva a dare agli Italiani di “imparare interamente la lingua
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Cfr. Colloqui col Manzoni cit., p. 94. Il giudizio di Tommaseo, che mi pare accettabile, segue immediatamente quello che abbiamo precedentemente respinto, sull’influenza linguistica del padre Cesari su Rosmini maturo. Il passo in Bonghi, Stresiane cit., p. 26, e in D’Ovidio, Rimpianti cit., p. 68. La battuta, sulla bocca di Rosmini nel dialogo, si legge in Bonghi, Stresiane cit., p. 24, e in D’Ovidio, Rimpianti cit., p. 65.
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di Firenze” poteva giustificarsi perché appariva “il modo più facile a condurli [gli Italiani] al possesso di una vera lingua”; l’intera questione si riduceva appunto alla “maggior facilità della via per la quale gl’Italiani possano giungere finalmente ad avere una lingua italiana, cioè unica e comune a tutti gl’Italiani”45. Si può pensare che Rosmini mettesse in discussione proprio la illusoria facilità del sistema manzoniano, che non gli pareva affatto tale. Potremmo chiederci, con il D’Ovidio, quanto sia stenograficamente fedele il rendiconto della conversazione registrata dal Bonghi46, ma, a mio giudizio, dovremmo concordare con il D’Ovidio stesso che “d’una riproduzione suppergiù fedele si tratta”, senza la rielaborazione dei dialoghi filosofici delle Stresiane, che hanno un andamento diverso47. Coerenti con quanto abbiamo ricostruito sono anche gli scarni riferimenti alle idee linguistiche di Rosmini che si rintracciano nei Colloqui col Manzoni di Tommaseo. Rosmini avrebbe accusato amichevolmente Manzoni di aver messo in piedi una teoria troppo sistematica48. Il secondo ricordo di Tommaseo è un aneddoto che dice narrato dallo stesso Manzoni. “Certi usi in certe stagioni della lingua vengono meno, e altri sottentrano: a quali attenersi?”, avrebbe chiesto Rosmini49. Come si vede, questo argomento consuona con la lettera del 1843, nella quale aveva giudicato che la necessaria evoluzione diacronica del fiorentino lo rendesse inadatto a un’imitazione diretta da parte degli altri italiani. Manzoni rispondeva con un curioso raffronto, cavato dallo scenario del lago, teatro dei loro incontri stresiani: Di lì abbiamo il lago, e non ci va né pedoni né carrozze; qui la strada carreggiata, e ci si passeggia: a certe ore l’acqua si ritira
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Carteggio Manzoni-Rosmini cit., pp. 74-75 (i corsivi sono dell’originale). Cfr. D’Ovidio, Rimpianti cit., p. 64. Ivi. Cfr. Colloqui col Manzoni cit., p. 94. Manzoni, aggiunge Tommaseo, ribatteva: “Caro Rosmini, gliel’han data tante volte a Lei questa taccia”. Ibid., p. 98.
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e la terra rimane allo scoperto: si discuterà egli se quel tratto sia terra da camminarci o sia lago?50
Il Tommaseo, poco favorevole, ovviamente, alla soluzione man zoniana, subito commentava: “La risposta è socratica; ma non risolve le difficoltà nella mente neanco di chi abbia gran voglia di metter fine a cotesta lite uggiosa e malaugurata”. Nonostante la sua avversione alla tesi fiorentina, tuttavia, almeno un testo di Rosmini fu sottoposto alla “risciacquatura in Arno” cara al Manzoni. Fu il Catechismo disposto secondo l’ordine delle idee del 1838, che aveva avuto diverse riedizioni, nel 1839, nel ’49, e nel ’50 a Firenze. Si trattava, tra le opere di Rosmini, com’è evidente, di uno dei non molti testi di carattere didattico, con ambizioni di massima chiarezza. Proprio questa destinazione, probabilmente, lo fece scegliere per l’esperimento. La revisione linguistica del Catechismo è raccontata dal Cantù, il quale attribuisce al Rosmini stesso il desiderio di “impulizzire” quel testo alla toscana51. La stessa giustificazione viene data in una lettera di Manzoni al teologo Ranieri Sbragia di Pisa, a cui si rivolse nel 1853 per trovare un revisore. “[Rosmini] Vorrebbe – scriveva Manzoni allo Sbragia – [...] renderla conforme [la lingua del catechismo], per quanto è possibile in un lavoro già fatto, all’Uso vivente toscano. L’impresa, a volerla eseguire in queste parti, è o molto difficile, o molto incerta”52. E così proseguiva, suggerendo la via da percorre per la correzione, una via che ricorda quella seguita per i Promessi sposi:
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Ivi. Cfr. C. Cantù, Alessandro Manzoni. Reminiscenze, Milano, Treves, 1885 (II ed.), vol. I, p. 320. La revisione linguistica era destinata all’edizione del catechismo di Pisa, Nistri, 1854. Cito da A. Manzoni, Tutte le lettere, a cura di C. Arieti con un’aggiunta di lettere inedite o disperse a cura di D. Isella, Milano, Adelphi, 1986, voi. II, lettera 1058, pp. 670-72. La lettera è datata Lesa 12 ottobre 1853. Cantù, op. cit., pp. 320-21 indica, erroneamente, la data del 12 ottobre 1855.
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Non si tratta che di levare le parole, le frasi e l’inversioni che due fiorentini, i quali facessero quel dialogo tra di loro a viva voce, non userebbero; e di sostituire quelle che gli verrebbero in bocca. Fiorentini colti, s’intende, che parlerebbero bensì, ne’ casi in questione, con altri vocaboli e forme del dire, ma nello stesso stile del libro, cioè collo stile richiesto dal soggetto [...] So che ci sono di molti, i quali essendo, a forza di strane teorie in fatto di lingua, riusciti quasi a dimenticarsi che Firenze non consiste in Camaldoli e in Mercato vecchio, s’immaginano che chi vuole del fiorentino in un libro, non possa volerci altro che il linguaggio della Crezia dello Zannoni.
Ma la correzione non andò bene. Ci resta una lettera del 1854, nella quale Manzoni dimostra insoddisfazione per gli interventi sul Catechismo, nell’esemplare che ha ricevuto da pochi giorni. Le correzioni, evidentemente, non si erano limitate a introdurre il fiorentino vivo, ma erano intervenute sul tessuto della lingua letteraria. “Credevo d’avere espresso con la maggior chiarezza possibile che si trattava non di lingua letteraria, ma di lingua fiorentina; ma vedo che non è bastato”, si lamenta Manzoni53. Rosmini di fronte al Catechismo corretto, non mancò di lanciare al Manzoni una battuta che suona piuttosto ironica, la quale ci svela anche il nome del poco felice correttore: “Se Ella non me n’avvertisse nella cara sua, io da me non avrei saputo distinguere a qual lingua appartenessero le correzioni fatte al mio Catechismo dal signor Cesare Guasti, se alla letteraria o alla fiorentina. Tuttavia non avendo di meglio, io le ammetto volentieri, parendomi comparativamente buone [...]”54. Aggiungeva però di non accettare una delle correzioni introdotte, cioè credo nella santa Chiesa cattolica al posto di credo la santa Chiesa cattolica, perché “qui la lingua, se si trattasse di lingua,
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Carteggio Manzoni-Rosmini, cit., p. 161 (lettera al Rosmini da Milano, 10 febbraio 1854). La lettera si legge anche in Manzoni, Tutte le lettere, cit., vol. III, n. 1065, pp. 3-4. Epistolario Rosmini, XII, p. 383 (lettera al Manzoni s.d., ma del maggio 1854).
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guasterebbe la teologia: ma questo solo tra noi”55. E un problema, si noti, dibattuto anche in seguito, nel Novecento, come si vede ad esempio in un libro di Franco Fochi56. Non si creda che nello scetticismo con cui Rosmini continuava, nonostante tutto, a guardare alla soluzione fiorentina ci fosse qualche residuo del purismo giovanile. Rosmini era giunto per proprio conto non solo a superare quelle posizioni ormai anacronistiche, ma a elaborare concetti linguistici moderni di prim’ordine, che lo avrebbero portato a una visione personale dello studio della lingua. Nell’importante scritto Sulla lingua filosofica57, del 1831 (sono gli anni in cui, come abbiamo visto, l’epistolario mostra l’interesse per l’“eterno lavoro” di Manzoni, ma anche il primo dissenso dal fiorentinismo), si legge ad esempio un cristallino riconoscimento del carattere sociale della lingua: ...sulla lingua, come quella che è essenzialmente l’espressione della società, e non mai dell’individuo, se pure un individuo non vuoi parlare solo con se stesso, ha diritto la sola società, e solo essa conserva e modifica il valore de’ vocaboli, e perciò il valore di un vocabolo non sancito dall’uso, quem penes, come fu detto sempre, est arbitrium, et jus, et norma loquendi, è un valore nullo, come di moneta che non ha corso.58
La sua riflessione, però, in questo caso non è più circoscritta alla “questione della lingua” intesa alla maniera dei letterati. Il punto di partenza sta, verosimilmente, nella propensione verso quello che, discorrendo con Tommaseo nel 1830, aveva chiamato (in accordo con l’amico), l’“uso più ragionevole”, il quale a
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Ibid., pp. 383-84. Cfr. F. Fochi, E con il tuo spirito. Chiesa e lingua italiana a più di trent’anni dalla Riforma liturgica, Vicenza, Neri Pozza, 1997, p. 44. A. Rosmini, Lettera a Pietro Orsi a Rovereto sulla lingua filosofica, stampata nel dicembre 1831 (cfr. Caviglione, op. cit., p. 23), poi nelle Prose edite a Lugano nel 1834 (Velardini), pp. 247-271, da cui cito. Rosmini, Prose cit., p. 254.
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suo giudizio comprendeva l’“uso più generale”59. Ma ora il suo pensiero era positivamente rinnovato dalla speculazione filosofica, tanto è vero che il riconoscimento della socialità del codice linguistico gli serviva per polemizzare contro la propensione alla neologia dei filosofi tedeschi. La conclusione è radicale: Egli è dunque l’affettazione d’usar parole nuove, o di nuovo significato il più delle volte un’arte di coprire la propria ignoranza.60
Vi è poi un altro tema: la questione della chiarezza, parlando della quale, con curioso ammiccamento, non rinuncia tuttavia a far uso della sua giovanile preparazione linguaiola: Chiarezza adunque, chiarezza, da lungi i misteri filosofici, da lungi i detti da oracolo, e quel parlar in calmone, che i fiorentini sogliono anche dire furbesco.61
Quel parlar in calmone, si noti (che significa “parlare in gergo”), viene dritto dritto da una delle giunte dell’abate Cesari al Vocabolario della Crusca. Il problema linguistico, comunque, aveva ormai per Rosmini un significato diverso, legato alla logica, all’argomentazione, alla filosofia, alle necessità della scienza, alla pedagogia, alla psicologia. Non vi è dubbio che le sue osservazioni siano importanti. Le rintracciamo ad esempio nella Logica62, dove si dice che il linguaggio diventa improprio ed equivoco quando devia dall’uso comune, o quando è troppo figurato. Le figure devono essere ben riconoscibili, non ambigue, e vanno evitate nelle scienze e nelle discussioni che hanno per oggetto “la verità naturale e sensibile”. In quest’ultima idea mi pare ancora di avvertire l’eco del pensiero razionalista dell’Illuminismo. Qualche anno dopo aver composto
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Cfr. Tommaseo-Rosmini, Carteggio cit., vol. II, p. 132. Rosmini, Prose cit., p. 257 Ibid., p. 259. Se ne veda l’ed. 1984 del Centro Studi Rosminiani, alle pp. 190-91.
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la Logica, Rosmini iniziava il saggio sul Linguaggio teologico che avrebbe lasciato incompiuto alla morte, nel 1855. Esso contiene un’eccezionale trattazione del problema dell’oscurità e della chiarezza comunicativa63. Vi sono esposti i principi che uno scrittore cattolico deve seguire circa la maniera dell’esprimersi. Rosmini ha il coraggio e l’intelligenza di affermare che l’oscurità può dipendere dallo scrittore o dal parlatore, ma può derivare anche da difetti del lettore, per la sua imperizia, per la sua mancanza della scienza necessaria, o per la sua malignità. Oppure l’oscurità può derivare dalla materia, per la sua difficoltà intrinseca. Certo qui Rosmini non rinnega l’elogio della chiarezza, non rinnega la sua avversità ai neologismi. Fin dalle polemiche degli anni ’40 a Rosmini stesso era stata rivolta l’accusa di aver scritto in maniera oscura, di aver troppo innovato il linguaggio teologico rispetto alla tradizione. Probabilmente le pagine sul problema dell’oscurità, nel saggio sul Linguaggio teologico, tengono anche conto di questa esperienza. Ma, senza cedimenti, anche in questo libro, che si colloca all’estremo della sua riflessione linguistico-filosofica più matura, non mancava di ribadire il principio fondamentale della socialità del linguaggio, in questo caso estesa diacronicamente, fino a comprendere una tradizione terminologica tramandata da generazioni di studiosi: “...il linguaggio rigoroso e adeguato da adoperarsi nelle trattazioni di dottrine sottili od astratte, nelle teologiche soprattutto, non può essere inventato e perfezionato da un uomo solo, ma trovandosi ed emendandosi col tempo e collo studio di molti sapienti”64. In un contesto diverso, era in fondo proprio questo il dissenso con la teoria linguistica di Manzoni: la semplice sincronia non poteva bastare, perché la lingua non è solo parola detta; è anche parola scritta, elaborazione dei dotti, di coloro i quali agitano, ascolianamente, le penne operose.
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Cfr. A. Rosmini, Linguaggio teologico, a cura di Antonio Quacquarelli, Centro internazionale Studi Rosminiani, Città Nuova editrice, 1975 (la prima edizione uscì postuma, a puntate, sulla rivista “La Sapienza” nel 1880-81). Rosmini, Linguaggio teologico cit., p. 26.
13. Il gran ‘polverone’ attorno alla Relazione manzoniana del 1868
Quando pensiamo alla soluzione fiorentina della questione della lingua siamo abituati, giustamente, a valutarla in confronto ai vari interventi che l’hanno seguita e ridimensionata; l’interpretazione dello storico passa insomma attraverso la linea Manzoni-Ascoli-D’Ovidio, o attraverso la più radicale contrapposizione Manzoni-Ascoli. Senza dubbio queste formule riassumono il senso della questione; ma qui vorremmo tentare di esaminare, attraverso testi che per la maggior parte sono stati ignorati dagli studiosi e spesso mai riletti dopo la loro comparsa come scritti d’occasione, il dibattito svoltosi subito dopo l’intervento del Manzoni, ripercorrendolo nella sua immediatezza di cronaca, per riscoprire lo spessore della polemica. Limiteremo l’analisi alle risposte ‘a caldo’ che si situano nello stesso 1868, nei mesi successivi alla pubblicazione della Relazione, avvenuta in marzo. Il Vivaldi, che, sul finire dell’Ottocento, provò a ripercorrere nei particolari questo territorio, ci ha lasciato un benemerito catalogo dell’incredibile quantità di articoli e di conferenze con cui da tutt’Italia si rispondeva al Maestro milanese, ma non ha potuto sottrarsi al disordine inevitabile, magmatico, in cui si presentano tanti interventi sollecitati dalla tensione polemica e dalla radicale posizione assunta dal Manzoni: possediamo insomma un mero repertorio di opuscoli dispersi nelle biblioteche,
Quest’ultima è l’impostazione di C. Grassi, nell’Introduzione a I. Ascoli, Scritti sulla questione della lingua, Torino, Einaudi, 1968. Cfr. V. Vivaldi, Storia delle controversie intorno alla nostra lingua dal 1500 ai nostri giorni, vol. III, Catanzaro, Officina tipografica Giuseppe Caliò, 1898, p. 58 e ss.
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spesso di difficile reperimento, per la maggior parte nemmeno nominati nei manuali. Per muoversi in questa zona confusa occorrono quindi mappe che ce ne illustrino la geografia storica. Ritroveremo in sostanza una serie di posizioni riconducibili a momenti teorici noti, esterni al dibattito del 1868, ma qui coesistenti ed interagenti. La data che abbiamo scelto permette una verifica della funzionalità e del peso di posizioni che in linea di massima sono caratterizzate da una sfasatura diacronica verso due direzioni opposte: o sono retaggio delle discussioni della prima metà del secolo, o anticipazione del dibattito che seguirà. Rifacendoci a questa bipolarità degli interventi, distingueremo tra gli oppositori immediati del Manzoni una’ destra’ e una’ sinistra’, categorie di comodo per individuare l’arco delle reazioni, che vanno dal purismo oltranzista di un Giuliani o di un Fornari, fino al liberismo di un De Meis e al pre-ascolismo di un Settembrini: si va insomma da coloro che hanno una lingua da proporre, già ben precisa e ordinata, canonizzata dall’insegnamento scolastico, e che si sentano obiettivamente minacciati dalle innovazioni della Relazione, a coloro che accettano ogni posizione antiaccademica e antipuristica, o svincolano addirittura il problema della lingua da ogni modello possibile, fondandosi sul rapporto lingua-nazione-cultura, in cui il primo membro del trinomio è necessaria conseguenza dello sviluppo dei seguenti. Tra queste due posizioni estreme si situano tutte le sfumature intermedie e tutte le complicate contaminazioni, le mezze tinte
Cfr. G. Giuliani, Dell’unità della lingua e de’ mezzi di diffonderla, lettera a T. Mamiani in data 9 maggio 1868, in “Il Propugnatore”, I (1868), pp. 419-28; V. Fornari, A Francesco Zambrini, in “Il Propugnatore”, I (1868), pp. 7-19; A. C. De Meis, Dopo la laurea, vol. I, Bologna, Tip. di G. Monti, 1868, pp. 437-43; L. Settembrini, Della lingua d’Italia, lettera all’on. ministro della Pubblica istruzione Deputato E. Broglio, 22 marzo 1868, in Scritti vari di letteratura, politica ed arte riveduti da F. Fiorentino, vol. I, Napoli, Morano, 1879, pp. 367-75 (la si legge in giornali dell’epoca, come “L’Universo Illustrato” n. 32 del 10 maggio 1868, pp. 534-36).
13. Il gran ‘polverone’ attorno alla Relazione manzoniana del 1868
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e i ‘distinguo’ che ben potevano trovare alimento in un paese in cui le discussioni sulla lingua sono dato costante della tradizione culturale. Il gruppo dei puristi, quello che definiremo la ‘destra’ del nostro schieramento, arroccata su posizioni storicamente anacronistiche, ma ancora ricca di adepti al livello della cultura ufficiale e del mondo della scuola, si raccoglie attorno alla rivista bolognese “Il Propugnatore”, nata appunto nel 1868 sotto la direzione di Francesco Zambrini come organo della “Commissione per i testi di lingua”. Il programma del periodico, che si riallaccia al Cesari e al Puoti, è esposto nel primo numero: c’è anzitutto l’istanza antiromantica e antimanzoniana, che si concretizza nella recisa negazione “che ai bisogni della vita nuova d’Italia si convengano una lingua nuova e una letteratura di soli drammi e romanzi”, l’antipatia, cioè, per quella “letteratura europea” che infastidirà più tardi anche il Carducci, intento ad esorcizzare le pretese di popolarità anticlassica avanzate dal Bonghi, e c’è l’allarme per la decadenza dell’italiano, che si va imbastardendo, come già il latino ai tempi delle invasioni. Non a caso “Il Propugnatore”, rivista di ispirazione puristico-esterofoba, si apre con un articolo che commenta sfavorevolmente la Relazione manzoniana. Il timore che la soluzione fiorentina favorisse la mala pianta del francesismo è una costante delle prime reazioni al Manzoni, anche in partiti meno legati al ricordo del Cesari e del Puoti. Sarà appena il caso di rammentare che in uno scritto del 1869, polemizzando con l’Appendice manzoniana e riprendendo motivi già svolti in precedenza, Raffaello Lambruschini distinguerà tra “l’uso che imbastardisce la lingua, e l’uso che ne conserva intatta la propria natura”, dal momento che “oggidì in
Cfr. P. Fanfani, La lingua italiana e il governo italiano, in Lingua e nazione, Milano, Carrara, 1872, pp. 68-73. Cfr. G. Carducci, Confessioni e battaglie. Serie seconda, Bologna, Zanichelli, 1902, p. 513 (in Mosche cocchiere). Cfr. F. Zambrini ne “Il Propugnatore” I (1868), dispensa 1, pp. 3-6.
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Firenze le locande, i caffè, i negozj, le conversazioni, i giornali vomitano ogni giorno tanta lava di parole e di frasi antitaliane, che l’aria ne è ammorbata”. Il fiorentino è reputato il più guasto dei dialetti toscani perché ha accettato forestierismi, perché ha assorbito novità dai piemontesi affluiti con il trasferimento della capitale; la lingua sarà da cercare piuttosto fuori dalla cinta della città, nella campagna, che ha conservato le sue tradizioni e la sua antica moralità: difatti proprio dalla provincia, a sollucchero dei non toscani, il Giuliani trarrà liste di terminologia e preziosità lessicali. Dei tre articoli antimanzoniani del “Propugnatore”10, il più polemico verso il Maestro milanese è quello del Giuliani, che senza mezzi termini ribalta la formula della Relazione: non è l’uso il signore della lingua, ma è la lingua del Trecento a fornire “il Criterio a giudicare della buona lingua de’ parlanti”11; ed è interessante che questa sentenza venga dal dantista piemontese, che pure, come si diceva, registrò attentamente, anche nello stesso “Propugnatore”, lessico e conversazioni dei contadini toscani; il purista ascolta i parlanti quando consuonano con i libri: il Trecento è insomma la misura dell’uso, i morti controllano i vivi e l’uso costituisce terreno di caccia per agnizioni di sapore archeologico12.
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R. Lambruschini, Dell’unità della lingua. A proposito dell’ultimo scritto di A. Manzoni, in “Nuova Antologia”, vol. XII, novembre 1869, pp. 549-50 e 552. Sull’argomento cfr. anche C. Cocchetti, Dell’unità della lingua e della buona pronunzia, lettera a I. Cantù, estratto dall’ “Educatore italiano”, Milano, 1868.
Cfr. G. Giuliani, Delizie del parlar toscano, 2 voll., Firenze, Le Monnier, 1880.
Oltre a quelli già citati del Giuliani e del Fornari, cfr. G. Spezi, Sull’unità della lingua italiana, lettera a G. Giuliani in data 3 maggio 1868, in “Il Propugnatore”, I (1868), pp. 137-44. Giuliani, Dell’unità della lingua, cit., p. 422. Il Giuliani, dopo aver ascoltato parlare alcuni popolani toscani ed averne annotato lessico ed espressioni, scrive: “Per me, a dirvela come la sento, e se devo stimare sovrattutto la Favella dei Trecentisti, io non so ravvisarvi divario da quella che abbiamo intesa” (Delizie cit., vol. II, p. 48).
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D’altra parte il purista, nella polemica antimanzoniana, è colui che, pur apprezzando la scelta del toscano (anche il purista ama il toscano, pur dando la priorità a una fase diacronica anteriore), riesce a metterne in luce, quando lo si riduca all’uso vivo, il carattere affettato, regionale, particolaristico, perché meglio fa i conti con la tradizione e ne valuta l’importanza. Si veda quanto scrive un allievo del Puoti, Vito Fornari, per giustificare il suo rifiuto della soluzione fiorentina: “lo allora mi sento italiano davvero, quando non solamente comunico di pensieri e di affetti con quanti ci vivono oggi dalle Alpi al Capo di Lecce, ma rammento e cerco di rassomigliarmi agl’Italiani dell’età di Dante, e penso e scrivo e servo a’ nipoti, che immagino e desidero più savi e fortunati, ma non immemori né dissimili da noi”13. Quanto più il Manzoni fa terra bruciata della tradizione e ipotizza un momento zero dell’italiano, tanto più il purista si sente attratto da essa e mosso da un impegno morale e civile, perché lega alla lingua del passato i contenuti di una tradizione nazionale: “Alla dignità d’Italia, dunque, ed anco alla conservazione del suo vero essere nazionale, è necessario che l’uso presente del parlare sia possibilmente mantenuto conforme all’uso de’ primi secoli, e frenato in quel suo moto vertiginoso che in breve lo dissolverebbe”14. Mettere in discussione la validità della tradizione scritta significa dunque compiere il più grave atto antinazionale possibile. Il modello francese, che il Manzoni ha posto in primo piano, viene sentito come antagonista, come concorrente offensivo. Si consideri l’intervento del Fanfani15,
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Fornari, art. cit., p. 14. Ibid., pp. 14-15. Cfr. P. Fanfani, La lingua italiana c’è stata, c’è, e si muove. Prelezione, in “Atti della Società Scientifica e Letteraria di Faenza dell’anno 186768”, Faenza, Marcolini, 1868, poi in Id., Diporti filologici, Firenze, Carnesecchi, 1870, pp. 287-315. Si veda anche P. Fanfani, Bibliobiografia, Firenze-Roma, Tipografia Cenniniana, 1874, pp. 111-15, in cui ricorda gli eventi che portarono a quella pubblicazione, e trascrive una serie di lettere di sostenitori di idee antimanzoniane accorsi in suo sostegno, tra i quali Lambruschini, che svelava così il proprio comportamento piuttosto
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che è in sostanza teso a dimostrare il primato del nostro paese anche nel campo linguistico; la dimostrazione è condotta, oltre che attraverso gli abusati argomenti antifrancesi delle polemiche settecentesche (l’italiano è la lingua della poesia, mentre il francese è la “lingua dell’utile non del dolce; del bisognevole non della dovizia”16) anche attraverso il ribaltamento del giudizio del Bonghi sulla mancata popolarità della nostra letteratura: sono infatti i francesi, non gli italiani, ad essere esclusi dalla comprensione dei loro testi antichi; in Italia gli uomini del popolo, i contadini toscani, ma anche i non toscani appena istruiti nelle “prime scuole”, sono in grado di intendere i testi della tradizione. In sostanza proprio gli aspetti conservatori della lingua letteraria deprecati dai manzoniani sono per il Fanfani motivo di orgoglio e garanzia del primato nella continuità culturale. Il toscano vivo può servire al massimo, fatta salva l’autorità degli scrittori, a vivificare e rinsanguare la lingua, tranne che per il genere comico-bernesco, in cui l’elemento popolare può essere assunto tout-court, secondo una tradizione canonizzata. La posizione del Fanfani ci fa da tramite per passare al ‘gruppo fiorentino’, costituito dagli uomini che compongono la seconda sottocommissione nominata dal Broglio17. Già abbiamo fatto cenno alle preoccupazioni esterofobe che escludevano agli occhi del Lambruschini ogni possibilità di egemonia del fiorentino parlato. Ma la divergenza fondamentale tra la sottocommissione di Firenze e il Manzoni sta nel fatto che mentre il Maestro milanese immagina una ‘rifondazione’ dell’italiano, per il gruppo fiorentino quello che manca è solo una parte della lingua, quella inerente all’“uso giornaliero delle persone civili”.
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diplomatico, se non dissimulatore, nei confronti di Manzoni. Gli altri sostenitori del Fanfani da lui menzionati erano Oreste Raggi che scriveva da Modena, Jacopo Ferrazzi che scriveva da Bassano, e G. Vecchi (provveditore agli studi di Modena). Fanfani, Diporti cit., p. 300. Non a caso era stato proprio il Lambruschini a spingere il Fanfani a dare alle stampe il suo scritto antimanzoniano, pur esortandolo alla moderazione e alla cautela verso il Maestro (cfr. Vivaldi, op. cit., p. 60) .
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Corroborare quest’uso non vuol dire affatto tagliare i ponti con il passato: ecco perché nella Relazione del Lambruschini si insiste sui vocabolari che già ci sono, non solo quello del Fanfani, non solo i repertori del Giuliani, ma anche la Crusca ed il TommaseoBellini18. Questo, in fondo, era anche il parere del Tommaseo, che pure era stato tra i primi a sostenere i diritti della lingua dell’uso e che, fin dal Perticari confutato da Dante (1825), aveva identificato l’italiano nel toscano. Per il Tommaseo la lingua comune esiste; si tratta di completarla, di diffonderla, di risolvere problemi di istruzione, di favorire il soggiorno degli italiani in Toscana, ma senza eccessi; si tratta insomma di affrontare il problema più modesto e concreto delle “voci e locuzioni specificanti gli oggetti e le operazioni corporee, nelle quali i vari idiomi d’Italia sogliono più variare”19. Del resto si tenga conto che il Tommaseo, in un Discorso intorno all’unità della lingua letto alla Crusca nel 1868, autorizzava gli scrittori non toscani a ricorrere anche al loro dialetto, “segnatamente, ripeto, in quanto esso ha del comune con quella lingua che altri intitola toscana e altri italiana”20: una posizione più vicina alla fase toscano-milanese del Manzoni che non alla soluzione finale fiorentina. Col Tommaseo ci siamo portati nel centro dello schieramento, nel settore di coloro che condividono in parte l’impostazione manzoniana, anche se ne rifiutano le conseguenze più radicali. In questo movimento verso il centro, verso i sostenitori della lingua viva, abbiamo scavalcato un settore isolato, ma importante, nella misura in cui annovera alcuni tra i più accesi avversari della lingua parlata: la zona degli ‘aulici’, i seguaci dell’interpretazione di ascendenza perticariana e trissiniana
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Cfr. la “Nuova Antologia”, 1868, vol. VIII, pp. 99-108. N. Tommaseo, lettera al Lambruschini in “Nuova Antologia”, 1868, vol. VIII, p. 100 e ss. Il Tommaseo diede le dimissioni dalla commissione adducendo motivi di salute e impegni, e spiegò il suo punto di vista nella lettera citata, meno negativa verso la Relazione milanese di quanto non lo fosse la relazione fiorentina ufficiale. Cito da Vivaldi, op. cit., pp. 128 e ss.; il Tommaseo lesse il suo discorso il 13 settembre 1868.
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del ‘volgare illustre’. Contro costoro, nello stesso 1868, il Manzoni aveva ribadito l’estraneità del trattato dantesco a qualsiasi problematica riguardante la lingua italiana; le polemiche dei sostenitori della lingua aulica sono quindi necessariamente rivolte non solo contro la Relazione, ma anche contro lo sbrigativo giudizio dato dal Manzoni a proposito del De vulgari eloquentia21. Nel fronte antimanzoniano purismo e classicismo si coalizzano quali antagonisti della soluzione fiorentina: ad esempio Luciano Scarabelli, erudito e filologo piacentino che era stato amico del Giordani, identifica la lingua “cortigiana” con la lingua voluta dal Cesari, privata però dell’appellativo municipale di ‘toscana’ (“in Toscana abonderà di elementi, non dimora intera”22); Giuseppe Brambilla, letterato e storico comasco, si attiene invece più fedelmente all’impostazione del Perticari, e riconosce nell’italiano colto una risultante della “meschianza dei dialetti proprii delle varie stirpi, che popolarono anticamente l’Italia”, e che “gli scrittori d’ogni provincia italiana [....] arricchirono grandemente, con ardire temperato e libertà giudiziosa, di parole e guise del favellare tolte (omettendo il greco e il latino) dai loro patrii volgari, ove giacevano oscure”23. I sostenitori della lingua aulica sono certi che essa si acquista per “studio e arte”, e sono quindi necessariamente diffidenti verso chi, come il Manzoni, ammette una padronanza naturale della lingua, conferita per diritto di nascita. Ma interessa il risultato a cui sortisce in questi autori una teoria arretrata e, nel secondo Ottocento, ormai anacronistica. Se i puristi sono in grado
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Cfr. A. Manzoni, Lettera intorno al libro “De vulgari Eloquio” di Dante, ne “La Perseveranza” del 21 marzo 1868. L. Scarabelli, Opinione sulla proposta manzoniana per la lingua d’Italia, Bologna, A. Mareggiani, 1868, p. 8. G. Brambilla, Intorno ad una proposta di Alessandro Manzoni per l’unità della lingua, articolo scritto nel 1868, ma pubblicato solo nel 1876 nella Cronaca annuale del R. Liceo-Ginnasiale Giovanni Plana di Alessandria; questo articolo riprende del resto due interventi pubblicati dal Brambilla nel 1868, nell’“Illustrazione universale” e nella “Gazzetta di Como” (cfr. Vivaldi, op. cit., pp. 132 e ss.).
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di valutare meglio di tutti l’esigenza di una continuità rispetto alla tradizione e i pericoli di un’artificiale ‘rifondazione’ della lingua; gli ‘aulici’ sono quelli che meglio valutano il suo contenuto nazionale, che deve scaturire, come vedrà bene l’Ascoli, da rapporti e da scambi, non da imposizioni normative. I sostenitori dell’ideale cortigiano del ‘volgare illustre’, riportandosi al passato, individuano la necessità di un raggiungimento dell’unità nazionale in cui abbia l’egemonia chi detiene il primato culturale: “A ben considerare, or che le barriere son tolte, e s’instituiscono emissari agli stagni, si rifaranno le comunioni e gli scambi, e quella città, o provincia, o regione, provvederà meglio al bisogno nazionale, che saprà fornire maggiore coltura, migliori e più svariate industrie il popolo suo e saprà farsi centro di più felici intelligenze. La lingua così sarà servita da tutte le parti, donde penetrano le sue radici, e sarà lingua nazionale come d’origine”24; oppure il processo di avvicinamento tra gli ‘idiomi locali’ delle regioni italiane viene fatto passare attraverso l’influenza di un centro unificatore, “un centro politico, dove esercitare l’infinita meccanica delle nostre leve intellettuali per muovere e scuotere l’Italia”25; per questa via, né il fatto è stato fino ad ora sottolineato, la ‘questione romana’, a due anni da Porta Pia, trova un risvolto e una corrispondenza nella ‘questione della lingua’: “[la lingua si muoverà] quando essa [Roma], divenuta capitale d’Italia, produrrà con un qualche milione di cervelli e di bocche lo stesso effetto [ .... ] per cui le due forze generatrici dell’attrazione planetaria esternano il moto, la vita e la bellezza dell’universo. Senza questo moto il popolo italiano, col suo vocabolario fiorentino sotto le ascelle, rimarrebbe in perpetuo un balbuziente scolaro di tutte le altre nazioni”26. L’argomento è presente in un altro sostenitore della lingua illustre perticariana, il Nerucci, letterato pistoiese (“La rivoluzione italiana – egli scrive – non è ancora compiuta [ .... ]”), è presente a conclusione
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Scarabelli, op. cit., p. 13. Brambilla, op. cit., p. 11. Ivi.
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della lettera di Luigi Settembrini al Broglio27, e soprattutto è svolto dal veronese Luigi Gelmetti, che aveva dedicato alla ‘parte di Roma’ nella questione della lingua un suo scritto del 186428. Nel 1868, intervenendo in tono moderatamente polemico sulla Relazione manzoniana, il Gelmetti ribadisce che “senza dubbio la lingua d’Italia né vorrà né potrà mai far getto della ricchezza che già possiede; perciò resterà sempre fiorentina in gran parte; ma se una città di lingua buona e bella diventerà centro della nazione; se in quella città concorreranno i migliori ingegni; se là si detteranno le leggi; là saranno le maggiori solennità nazionali; chi potrebbe dubitare se di là dopo qualche tempo uscirà bella e compiuta, e sufficiente alle chiese, ai parlamenti, ai teatri, anche la lingua? La quale dopo avere per tanti secoli attestata l’esistenza di una nazione italiana, come potrebbe mancare dopo che la nazione si sarà veramente costituita?”29. Era questo l’argomento che anche si era affacciato alla mente del Manzoni, e che, come aveva scritto al Giorgini, aveva rischiato di levargli “una gran parte del coraggio”30. Con il Gelmetti ci siamo ormai portati nel settore in cui non si rimprovera al Manzoni la scelta di una lingua viva, ma la limitazione troppo rigorosa dei confini di essa. Su questo punto, come già a proposito del totale annullamento dell’autorità degli scrittori, nemmeno coloro che si dicono suoi seguaci lo sostengono completamente31. Generalmente si concorda nel ritenere
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Cfr. Settembrini, op. cit., pp. 367-75. Cfr. L. Gelmetti, Roma e l’avvenire della lingua italiana, Milano, Sonzogno, 1864. L. Gelmetti, La quistione della lingua italiana dopo la relazione di Alessandro Manzoni, Milano, 1868, p. 85. Manzoni intimo, a cura di M. Scherillo, vol. II, Milano, Hoepli, 1923, p. 197; ora in A. Manzoni, Tulle le lettere, tomo III, a cura di C. Arieti, Milano, Adelphi, 1986, pp. 253-54. Fatta eccezione per i fedelissimi G. Puccianti, Dell’unità della lingua in Italia. Pensieri, Pisa, 1868, ed E. Giuliani, L’idioma fiorentino e la lingua comune in Italia: considerazioni di Enrico Giuliani a proposito di uno scritto di Giuseppe Puccianti, Pisa, Tipografia Citi, 1868, per il quale cfr. Vivaldi, op. cit., p. 81.
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necessario l’apporto della Toscana tutta, al di là dei confini di Firenze32; nella direzione dell’ampliamento dell’area geografica in cui identificare la sede della lingua c’è chi si apre all’Umbria, alle Marche, a Roma33, chi affianca a Firenze, Ancona, Perugia, Spoleto34. Queste aperture via via più ampie ci portano verso l’ala sinistra del nostro schieramento, che vede, specularmente opposti ai puristi, i “lassisti”35, quelli che, nei casi migliori (Settembrini), arrivano a formulare argomenti che anticipano il Proemio dell’Ascoli. Cavallo di battaglia degli interventi di questo gruppo (Settembrini, De Meis, Imbriani) è l’accettazione ostentata del prestito dalle lingue europee. In questa polemica antipedantesca è in prima linea il De Meis, che, sotto l’apparente adesione alla teoria fiorentina, contrabbanda in realtà una concezione apertissima della lingua italiana, considerata partecipe di una rapida evoluzione in senso europeo e moderno, verso il tipo analitico del francese36. Agli argomenti del De Meis si riallaccia l’Imbriani, che scrive: “non apro i Vocabolari de’ gallicismi, se non per far tesoro delle parole, che vi son poste alla berlina”37. Ma, quello che più
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Tra coloro che parlano di ‘toscano’ e non di ‘fiorentino’, oltre al Tommaseo e al Lambruschini, si veda G. Tigri, intervenuto sulla “Perseveranza” del 24 marzo 1868 (cfr. l’accenno di B. Migliorini, Storia della lingua italiana, Firenze, 19785, p. 686). Cfr. anche Cocchetti, op. cit.; A. Buscaino-Campo, Sulla lingua d’ Italia, Trapani, 1868; A. Gotti e N. M. Fruscella, sui quali cfr. Vivaldi, op. cit., pp. 99 e 127. Cfr. Gelmetti, La quistione cit., p. 4l. Cfr. L. Ferrario, La quistione sulla lingua e sulla pronunzia mossa dal Ministro Broglio e la Proposta di Manzoni con le lettere relative, Milano, Rechiedei, 1868, sul quale cfr. Vivaldi, op. cit., pp. 130-32. La definizione è di Gelmetti, La quistione cit., p. 53. Cfr. A. C. De Meis, Dopo la laurea, vol. I, Bologna, Monti, 1868, pp. 437-43. V. Imbriani, Appunti critici, Napoli, Morano, 1878, p. 17. L’Imbriani intervenne contro la Relazione manzoniana con due dialoghetti pubblicati nel 1868 sul giornale “Patria” di Napoli, poi ristampati nei citati Appunti critici, pp. 3-58. L’opera è stata riproposta nel 2009 dall’Antenore di Roma a cura di G. Riso Alimena.
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conta, l’Imbriani, partendo da una concezione ancora legata alle teorie cortigiane e auliche della lingua che ‘è di tutti e non è di nessuno’, in un intervento di cui non si è fino ad ora tenuto conto, ricupera con chiarezza nuova le osservazioni del Bonghi sulla mancata popolarità della letteratura italiana, di cui identifica come caratteristica costante l’adesione al livello ‘sublime’: “Tutta la letteratura Italiana è sublime; vale a dire, che non abbiamo se non mezza letteratura; le manca la parte più individuale, più caratteristica. Gli scrittori nostri stanno per lo più in tono; un malevolo direbbe: su’ trampoli; non discendono quasi mai da una specie di piedistallo, di suggesto”38. La parte mancante della nostra letteratura (e il settore quotidiano e familiare) sono coperti dal dialetto, che sopperisce alla lingua togata, “insufficiente all’uso prosaico, al comico, al negativo”39; il dialetto esprime insomma in modo insostituibile “l’idea comica italiana” 40. Imporre il toscano implica il rischio del travestimento: “si falserebbe anche l’animo del Lombardo e del Siciliano, quando gli si volessero fare esprimere i propri affetti ed i propri pensieri in un linguaggio, che non è prodotto della sua mente [...]”41. Nell’àmbito del gruppo napoletano è però
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Imbriani, op. cit., p. 21. Ibid., p. 19. Ibid., p. 21. Si veda quanto scrive a p. 22 circa il ‘comico’: “[…] ne’ momenti, ne’ secoli in cui il pensiero d’Italia è stato troppo sublime, esso ha dovuto rincarire sulla idealità della lingua Italiana e ricorrere ad un’altra più sublime, men commista dagli elementi prosaici, cioè al latino; così pure, quando il pensiero comico ha eccessivamente prevalso in lei, nemmanco il dialetto è bastato a contenerlo ed esprimerlo. Fu necessario scendere più giù della realtà, fino alla caricatura; e ci avemmo il linguaggio maccheronico. Ed è cosa di non piccolo significato questa: che non abbiamo nessuna maccheronea Italiana; quell’impasto arbitrario di parole volgari e desinenze latine non ha mai avuto, come punto .di partenza, la lingua aulica, anzi sempre un dialetto (il mantovano nel gran Merlin Coccaio, il napolitano nel Capasso). Appunto quia doveva esagerare il comico, già espresso nel dialetto, perché la lingua illustre non aveva posto per esso”. Imbriani, op. cit., p. 57.
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non può fornire la lingua perché non è centro “della vita, del pensiero, della coltura italiana”; “non ci è né ministri, né re, né alcuna altra potenza della terra che possa farci accettare parole da chi non ci dà idee” (ivi). La lingua riflette le condizioni sociali, culturali e politiche della nazione, ed è impossibile imbrigliarla con vani tentativi normativi: “L’Italia è imbastita, non è cucita ancora [...] l’Italia è oggi un imbroglio, e la lingua è necessariamente un imbroglio. Ci vorrà mezzo secolo ancora per avere uno Stato forte, una nazione tutta un pezzo, una lingua comune a tutti gli ordini del popolo” (p. 372); in conclusione, “se volete una buona lingua, dovete fare prima una buona Italia” (p. 373). Le polemiche attorno alla Relazione offrono la sorpresa di opinioni avanzate come questa, soprattutto se si considerano, nel gran polverone degli interventi, i motivi che anticipano, seppure in forma confusa ed embrionale, quelli che saranno gli stimoli più vitali nei successivi sviluppi della questione. Ormai non è solo il Manzoni a porsi sul piano elevato di un dibattito sociale e civile, anche se la spinta al mutare di tono della discussione si deve proprio al suo intervento.
14. Una correzione manzoniana illustrata: il gioco del rimbalzello
Nel cap. VII dei Promessi sposi, il passo in cui Agnese si rivolge a Menico per mandarlo al convento di fra Cristoforo (Renzo infatti si è sottratto: è restio ad andare, avendo ordito la trama del matrimonio all’improvviso per forzare don Abbondio), risulta sottoposto a una notevole revisione nel passaggio dalla Ventisettana alla Quarantana. In particolare, il cambiamento tocca il “gioco del rimbalzello”, lì nominato, consistente nel far rimbalzare ripetutamente e con abilità un sasso piatto sull’acqua. Il discorso di Agnese al ragazzo, alla p. 123 della Quarantana, si accompagna a un’immagine: uno scorcio del lago, a destra una barchetta, in primo piano un ragazzino in camicia e scalzo, che sembrerebbe lo stesso Menico, chino, mentre lancia una pietra, dopo che ne ha gettate altre, perché sulla superficie dell’acqua si osservano i cerchi successivi che si formano in questo gioco. L’immagine reca la firma del Gonin, l’illustratore, anzi l’“ammirabile traduttore” del romanzo, come ebbe a dire Manzoni. La figura mi ha colpito per il suo carattere particolare: infatti non si tratta di semplice decorazione, destinata a seguire la trama o sottolineare il colore d’ambiente, come altre dell’opera, ma assume una funzione speciale: è posta vistosamente al servizio del testo, perché serve a chiarire un elemento lessicale che sicuramente non poteva essere di facile comprensione. Basta consultare il GDLI, vol. XVI, s.v., per verificare come il gioco del rimbalzello abbia come prima attestazione proprio questa manzoniana, alla quale seguì però una considerevole vitalità d’impiego in diversi scrittori otto-novecenteschi, Imbriani, Gozzano, D’Annunzio, Linati, Cicognani (fiorentino), Marinetti, e anche l’ingresso nei lessici, ad esempio nel Giorgini- Broglio (come ovvio, vista l’impostazione manzoniana di tale vocabolario) e nel Nòvo dizionario universale della lingua italiana di Policarpo Petrocchi, dove il termine è presente senza riferimento ad autori, nella fascia alta del testo, là dove si colloca la lingua dell’uso. Una
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menzione, conscia dell’impiego manzoniano, è anche nel saggio di Pitrè sui giochi popolari. Prima dell’attestazione manzoniana, il toscanismo rimbalzello non aveva mai fatto capolino nell’italiano scritto letterario. Dopo l’introduzione nei Promessi sposi, il termine ha avuto invece considerevole successo, tanto che lo si può considerare la denominazione ufficiale in italiano moderno, con tanto di voce in Wikipedia, dello sport conosciuto internazionalmente, perlomeno tra i pochi amatori, come stone skimming. Il termine rimbalzello, dunque, è uno di quelli la cui introduzione e circolazione in italiano si deve al Manzoni, mentre prima non era parola facile da reperire, ed era anche difficile da intendere. Lo prova il processo correttorio del romanzo, dal quale si ricava senza ombra di dubbio che Manzoni giunse a identificare questo tecnicismo del linguaggio infantile e ludico attraverso un progressivo sforzo di avvicinamento. Cominciamo con il Fermo e Lucia, dove il passo in cui si parla di questo gioco infantile compare così (cap. VII): “Appunto Menico: tu lo aspetterai [padre Cristoforo], come t’ho detto: ma non ti sviare, ve’ bada di non andare cogli altri ragazzi al lago a far saltellare i ciottolini nell’acqua, né a veder pescare, né a giuocare colle reti appese al muro ad asciugare, né…” “No no, medina mia: non sono poi un ragazzo.”
Giuseppe Pitrè lo cita nel suo elenco di Giuochi fanciulleschi siciliani raccolti e descritti con dieci pagine a fototipia, quattro a litografia ed una a stampa, Volume unico, Palermo, Luigi Pedone Lauriel editore, 1883, p. 371 (numero 256): “256. A cui nni mancia cchiù assai. / Si fa in due o più, i quali uno alla volta lanciano a mare, ne’ laghi, ne’ fiumi, per farli rimbalzar fuori, de’ sassolini lisci raccolti sulla spiaggia, o altri cocci piatti e arrotondati. Chi mancia cchiù assai, cioè chi riesce meglio e più volte a fare schizzare a fior d’acqua il suo sassolino, a farlo saltellare, e andar più lontano, vince. / VARIANTI E RISCONTRI / In Toscana Fare agli schizzetti, Fare al rimbalzello (l’ha anche il Manzoni ne’ Promessi Sposi); in Parma Zugar a piapèss (Malaspina, III, 281) [...]”. Devo l’indicazione di Pitrè al dott. Luigi Spagnolo, che ringrazio.
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Qui la scrittura mostra il vistoso carattere settentrionale, non solo nel dittongo improprio di giuocare, ma soprattutto nel regionalismo lombardo medina per ‘zia’, registrato come medin “voce antica” nel Vocabolario milanese-italiano del Cherubini ed. 1814, il cui uso è precisato nell’edizione ampliata del vocabolario (vol. IV del 1843), dove si aggiunge essere voce ancora viva nel contado, ma estinta in città. Lombardismo è anche la ridondanza “ve’ bada”, che si riconosce come tale non tanto di per sé, quanto alla luce della registrazione del Cherubini s.v. Ve’: “Bada ve’. Varda ben ve’. Guarti ve’”. Il gioco infantile qui indicato, però, non riceve nel Fermo e Lucia una denominazione milanese o settentrionale, anzi ha apparenza rigorosamente toscana, per quel diminutivo di ciottolo; e ciottolo è entrato in letteratura fin dal Boccaccio. La denominazione di un tal gioco apparteneva fra l’altro alla cultura lacustre, alla quale un frequentatore di laghi come Manzoni non poteva certo essere estraneo. Anche per questo dovette attirare ancora a lungo l’attenzione dello scrittore. Nella Ventisettana, il passo si presenta modificato così (cap. VII): “Appunto, Menico. E s’egli ti dirà che tu aspetti qualche tempo lì presso al convento, non ti sviare: bada di non andare con gli altri ragazzi al lago a far saltellare le piastrelle nell’acqua, né a veder pescare, né a giuocare colle reti appese al muro ad asciugare, né…” “Poh, zia; non sono poi un ragazzo.”
L’eliminazione di lombardismi è evidente, a partire dalla medina e dal ve’ bada; il poh ha attestazioni in Buommattei e Magalotti; ma stranamente anche un temine toscano come ciottoli viene epurato: al posto dei ciottoli troviamo le piastrelle, che traggono legittimità dall’essere di Crusca, presenti già nella I ed. del Vocabolario seppure non a lemma, bensì sotto la voce Leccare/Lecco, più chiaramente definite nella IV ed. come “quei Sassi, de’ quali servono i ragazzi per giucare [sic] in vece delle pallottole. Lat. *saxea lamella”, con una citazione di Michelangelo Buonarroti il Giovane nel quale si parla del fare “alle piastrelle lungo il greto del fiume”. Un esempio del genere poté forse invogliare Manzoni a correggere, ma l’acquisizione non risultò tuttavia definitiva, perché nella Quarantana il passo fu ancora profondamente modificato:
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tutti questi esempi il più interessante resta senz’altro il gioco del rimbalzello, unico che, assieme ai gangheri (ma in forma ben più ampia), si accompagni alla correzione testuale con l’introduzione ex novo di un toscanismo (solo formale è infatti la correzione di raviggiuoli > raveggioli). Il gioco del rimbalzello è anche oggetto di una carta dell’Atlante Linguistico Italiano (ALI), nel vol. VII, la n. 711. Per la verità, i dati presentati nell’ALI su questo soggetto sono piuttosto parziali, se non addirittura occasionali, perché le inchieste non riguardano tutti i punti, tuttavia ugualmente si ricavano alcune informazioni che possono completare il nostro quadro. Per prima cosa, risulta evidente la varietà dei nomi con cui nel settentrione d’Italia era ed è indicato il gioco: troviamo il tipo fa i pía pes in Lombardia e in Emilia, fa paserét a Olginate (Como), fa le skae a Sale Marasino (Brescia). Non ricorre mai, tuttavia, nemmeno in area toscana, la forma adottata da Manzoni, che pure sta nel titolo della carta dell’ALI, involontariamente ‘manzoniano’. Fare a rimbalzello, insomma, o giocare a rimbalzello, non sembra di uso popolare al tempo delle inchieste dell’atlante: o non è stato individuato, o esisteva in qualche posto in cui la domanda non è stata posta agli informatori, o gli informatori non erano informati, o i ricercatori non sono arrivati comunque all’individuazione. La forma di area Toscana la quale più assomiglia a quella scelta da Manzoni è fare rimbalzino (ma tale forma, secondo il Giorgini-Broglio, si riferisce a un gioco diverso: quello con cui si fanno rimbalzare delle monete contro un muro); anche questa forma non è troppo diffusa, per la verità: risulta solo al punto d’inchiesta 570, corrispondente a Grosseto, quindi a una notevole distanza da Firenze. Il problema resta insomma irrisolto: Manzoni dovette trarre l’informazione da qualche parlante toscano, verosimilmente fiorentino, ma in toscano il gioco del “rimbalzello” non pare molto comune. I dati dell’ALI non esplicitano questo dato per la città di Firenze. I casi possibili mi sembrano solo tre: Manzoni è andato più a fondo
Cfr. la scheda del folclorista Pitrè riportata in precedenza alla nota 1.
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dell’ALI con le proprie inchieste personali; oppure il nome è andato successivamente perduto presso il popolo, come può accadere ai giochi popolari; oppure ancora, egli ha scambiato un’informazione occasionale per un dato generale e acclarato. In ogni modo, come già abbiamo visto, Manzoni, con la propria autorevolezza, ha reso stabile rimbalzello nell’italiano standard dei vocabolari e dell’ufficialità, ALI compreso, per cui, se fossero veri gli ultimi due casi, si arriverebbe al paradosso di una conservazione di parola toscana altrimenti perduta o persino inesistente: inesistente, intendo, nel senso squisitamente tecnico di un gioco infantile, perché la scelta di Manzoni suggerisce che il gioco, così nominato, avrebbe dovuto essere chiamato da tutti, almeno a Firenze, se non nell’intera Toscana; forse, invece, il gioco manteneva una pluralità di nomi anche nella terra in cui la lingua avrebbe dovuto essere “una” e “naturale”. Più chiara, grazie alle inchieste dell’ALI, risulta la questione delle piastrelle, cioè la prima correzione introdotta da Manzoni nel passaggio dal Fermo e Lucia alla ventisettana. Già abbiamo potuto spiegarla come la scelta di un toscanismo ritenuto più preciso proprio in riferimento al gioco del rimbalzo, ma per sostenerlo abbiamo invocato solo fonti letterarie. La carta 711 dell’ALI mostra che il termine piastrelle per indicare pietre piatte è effettivamente registrato in area toscana, ma non a Firenze, dove invece è attestato murielle / smurielle. L’eliminazione di piastrelle nella quarantana, dunque, sembra coerente con il programma linguistico di revisione dei Promessi sposi, anche se poi la ricerca del nome preciso non solo della pietra piatta, ma del gioco vero e proprio, ha fatto deviare l’autore in una direzione diversa.
Secondo P. Fanfani, Vocabolario dell’uso toscano, Firenze, Barbèra, 1863, parte II, p. 610, le murelle o murielle servono per un gioco detto del sussi, in cui non c’entra l’acqua, ma si usa il rimbalzo contro un muro.
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II processo di unificazione linguistica italiana, nei secoli XIX e XX, avvenne sotto la spinta di complesse cause sociali; non si può certo affermare che i libri, le fonti scritte in genere, abbiano avuto una funzione determinante. La loro azione, piuttosto, agì in sottofondo, e interessò i ceti più colti. Fatta questa precisazione, bisogna tuttavia riconoscere che l’opera di uno scrittore come De Amicis ebbe efficacia nella diffusione di un modello di toscano moderno dotato di prestigio, capace di esercitare influenza, almeno per quanta poteva averne la pagina scritta. In questo senso, un libro come Cuore può essere avvicinato ai Promessi sposi e a Pinocchio. Dei tre libri citati, solo Pinocchio era stato scritto da un autore nato in Toscana. Per De Amicis, come a suo tempo per Manzoni, il toscano era invece il frutto “innaturale” di una conquista. L’adozione di esso derivava da una precisa scelta, la scelta di Firenze. Nelle Pagine sparse, pubblicate da De Amicis nel 1874, l’autore, riallacciandosi implicitamente a episodi ben noti della biografia di scrittori celebri quali Alfieri e Manzoni, narra appunto l’esperienza autobiografica del soggiorno a Firenze: la città è meta di un viaggio linguistico necessario per la conquista dello stile, compimento ideale degli studi. Al di là delle teorie e dei “sistemi” propri del dibattito sulla questione della lingua, gli scrittori, abituati a concepire l’italiano
Cfr. A. Castellani, Consuntivo della polemica Ascoli-Manzoni, in “Studi linguistici italiani”, XII (1986), fasc. 1, pp. 105-129, p. 121, che ha sottolineato la funzione di questa letteratura per l’infanzia. Cfr. E. De Amicis, Pagine sparse, Milano, nuova ed. accresciuta,Tipografia Editrice Lombarda, 1876, da cui cito.
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come essenzialmente libresco, difficilmente potevano evitare reazioni di meraviglia visitando una città in cui scoprivano un popolo illetterato in grado di dare dei punti ai letterati provenienti dalle altre regioni. A questi viaggiatori, abituati a usare il dialetto nella comunicazione quotidiana, pareva che a Firenze la strada, il mercato, i luoghi d’incontro di un’umanità estranea al mondo delle lettere, diventassero, paradossalmente, occasioni d’incontro en plein air con una reale letterarietà linguistica. Solo qui poteva capitare che il popolano, la rivendugliola, il monello, creature altrove immerse in un universo esclusivamente dialettale, privo di corrispondenza con la cultura “alta”, si rivelassero concittadini di Dante e di Boccaccio. La scoperta di Firenze, dunque, derivava prima di tutto da un’evocazione letteraria, a cui gli scrittori finivano di essere più sensibili di altri. In buona parte questa scoperta rifletteva aspirazioni tipiche della prima metà del secolo, quando si era diffuso il desiderio di una lingua viva che in qualche modo incarnasse i valori nazionali. Firenze era diventata a poco a poco la frequentata meta di un viaggio culturale-linguistico che rappresentava il più vivificante contatto con la tradizione italiana. Il viaggio a Firenze era diventato l’alternativa patriottica al viaggio a Parigi. Ben presto non era stata più una questione che interessasse esclusivamente i letterati. Testimonianze del tempo raccontano l’esperienza del soggiorno fiorentino, compiuta, ad esempio, da piemontesi di ceto medio-alto, non letterati di professione. Il primo impatto con l’italiano usato come una lingua viva era duro, ma ne derivava la fierezza di quanto si era riusciti ad imparare, e un grande entusiasmo. Mezzo secolo più tardi, al tempo di De Amicis, questo ideale di una lingua viva, domestica, ben pronunciata, si era esteso, arrivava già alla piccola borghesia, al ceto impiegatizio, agli insegnanti. De Amicis si rivolgeva a questo pubblico, per il quale divulgava un percorso che era stato seguito in passato da tanti aspiranti al possesso della lingua. La scoperta di
Cfr. C. Marazzini, Piemonte e Italia. Storia di un confronto linguistico, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1984, pp. 198-99.
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Firenze celebrata nelle Pagine sparse va vista in questo contesto. Il primo scritto della raccolta in cui si tocca il tema di Firenze è La mia padrona di casa. Questa è una vecchietta “fiorentina fin nel bianco degli occhi” (p. 1), che aveva ospitato De Amicis durante il suo soggiorno nella città, quando aveva lavorato per la rivista del Ministero della Guerra “L’Italia militare”. Anche per De Amicis, ligure di nascita, piemontese di adozione, dunque di formazione “periferica”, il periodo fiorentino, com’era prevedibile, coincide con la scoperta di una lingua italiana d’uso. Presto è costretto a gettare alle ortiche forme letterarie a cui era abituato e di cui si serviva nella conversazione, senza rendersi conto della loro inattualità. Il problema stava qui, più che nei dialettismi o nei francesismi, ed era questione difficile da risolvere attraverso la semplice consultazione di fonti scritte: esso era già stato al centro delle attenzioni di Manzoni fin dal tempo delle sue postille al vocabolario della Crusca. Come distinguere, se non si aveva esperienza diretta del fiorentino, tra forme morte e forme vive? Come fidarsi di fonti che tramandavano un patrimonio arcaico di cui solo una parte (ma quale?) sopravviveva sulla bocca dei parlanti? Anche una “povera donna” come quella avvicinata da De Amicis, dunque, poteva servire da vocabolario vivente: “Che cos’è questo benedetto toscano! Era una povera donna, non aveva istruzione [poi cultura nell’ed. 1877], sapeva appena leggere e scrivere; ma parlava da far rimanere a bocca aperta” (p. 2). La padrona di casa diventava consigliera, sostegno letterario, modello: “Le giuro che ammiro davvero la sua maniera di parlare, che vorrei parlare io come lei, che vorrei saper scrivere come lei parla. Che c’è da stupirsi? Non lo sa che i fiorentini parlano meglio degli italiani delle altre provincie? Non l’ha mai inteso dire? Mi piace sentir parlare l’italiano da lei come mi piacerebbe sentir parlare il francese da un parigino”.
Cfr. A. Manzoni, Postille al Vocabolario della Crusca nell’edizione veronese, a cura di D. Isella, Milano-Napoli, Ricciardi, 1964. De Amicis, Pagine sparse cit., p. 4.
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Le ultime parole del brano citato riconducono al modello urbano e centralistico, già caro a Manzoni: Firenze come Parigi. Tuttavia il trasporto populistico con cui De Amicis si protende verso il modello popolare, la romantica disponibilità a farsi allievo degli umili, si discosta, per eccesso, dalla razionalità con cui Manzoni aveva sostenuto i diritti del fiorentino. De Amicis segue una strada diversa da quella del Maestro. Tanto Manzoni era stato cauto nel soffermarsi sulla propria esperienza autobiografica, tanto De Amicis insiste su di essa. Racconta di essersi impegnato, come molti altri settentrionali, a raccogliere motti ed espressioni dell’uso fiorentino. L’apprendistato linguistico è cominciato. Non diverso è un altro scritto delle Pagine sparse, intitolato Quello che si può imparare a Firenze, in cui l’impegno teorico si fa più marcato. De Amicis descrive qui la tipologia attraverso la quale si svolge l’incontro con la lingua parlata a Firenze. Il percorso didattico comincia dalla strada: alcuni monelli stanno giocando; essi incantano il viaggiatore per la proprietà con cui indicano alcuni atti di un loro gioco. I monelli fiorentini possono essere raffrontati, per opposizione, con i figlioli della cugina piemontese de L’idioma gentile, i quali, benché studenti di classe agiata, risultano estremamente sfavoriti: adoperano un italiano compassionevole sostenuto da un impianto dialettale, in cui entra “ogni specie d’idiotismi e di modi di conio gallico”. Ma il contatto con la strada è solo un primo approccio occasionale; seguendo da vicino l’insegnamento di Manzoni, De Amicis sposta l’attenzione verso la varietà colta del fiorentino. È l’esperienza, ben più importante, del salotto borghese (dietro la descrizione del quale si nasconde il salotto di Emilia Peruzzi, frequentato dai manzoniani Bonghi e Giorgini, e poi da intellettuali come Spaventa, Villari, Tenca, Comparetti: come si vede, in realtà i toscani non erano la maggioranza. Qui la conversazione si svolge a un livello di garbata eleganza, e qui
Ho avuto occasione di riproporre questo testo: cfr. C. Marazzini, La lingua come strumento sociale, Torino, Marietti, 1977, pp. 83-90. E. De Amicis, L’idioma gentile, Milano, Treves, 1905, p. 45. Cfr. L. Gigli, De Amicis, Torino, UTET, 1962, p. 99
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si rivela ancor meglio l’impaccio del settentrionale che adopera termini inadeguati, fuor di registro, caratterizzati da un eccesso di “stile alto”, stridenti con il livello della “conversazione famigliare libera e vagabonda” : “Quanti sorrisi leggerissimi ho visti guizzare sulle labbra dei miei ascoltatori, mentre parlavo; sorrisi che allora mi facevano fremere, e che ora benedico, perché m’accorgo che furono i più utili insegnamenti che io abbia avuti in materia di lingua”10. Come al tempo della revisione manzoniana de I promessi sposi, cadono dal linguaggio di De Amicis, attraverso la diretta esperienza della parlata fiorentina colta, non solo dialettismi e francesismi, ma soprattutto “pedanterie” e frasi poetiche. Cade insomma l’eccesso di letterarietà. Questa letterarietà, è noto, era stato il primo obiettivo polemico dei manzoniani, apertamente combattuto a partire dalle Lettere critiche Perché la letteratura italiana non è popolare in Italia, pubblicate da Ruggero Bonghi sullo “Spettatore” nel 185511. Bonghi (che ho citato tra gli ospiti del salotto Peruzzi) aveva giustamente identificato la causa della scarsa popolarità dei libri italiani in un vizio di forma linguistica, nella loro iperletterarietà arcaicizzante. Nel percorso didattico descritto da De Amicis non poteva mancare l’esperienza della revisione testuale, in perfetta corrispondenza con quella che per il Maestro era stata la “risciacquatura di panni in Arno” a cui aveva sottoposto il romanzo. Ecco dunque De Amicis mettere “in mani fiorentine gli stamponi dei suoi poveri scritti”12. Vengono eliminate in primo luogo le forme arcaiche, i “rancidumi letterari”, le “piccole affettazioni, che sono nella lingua ciò che sul viso umano sono le smorfie, le rughe, i vezzi ridicoli [...]”13: inversioni di sapore boccacciano (“Cadde
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De Amicis, Pagine sparse cit., p. 232. Ivi. Poi in volume nel 1856. Cfr. l’ed. moderna: R. Bonghi, Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia, a cura di E. Villa, Milano, Marzorati, 1971. De Amicis, Pagine sparse cit., p. 233. Ibid., pp. 234-35.
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sul destro piede”), posposizioni del pronome (“Partiimi da casa”); si tratta di introdurre insomma “cambiamenti di una parola in un’altra di senso affine, trasposizioni, raddrizzamenti di frasi torte, tocchi e ritocchi da nulla; ma che facevan mutar faccia a un periodo e colore a un pensiero [...]”14. Da queste scelte dipende la realizzazione di un dettato “naturale”, ottenuto appunto grazie al soggiorno nella città dove, secondo la testimonianza di De Amicis, anche i settentrionali che non volevano ammettere il primato toscano finivano, volenti o nolenti, per ricavare grandi vantaggi pratici, poiché “imparavano a parlare ed a scrivere; la loro lingua si snodava; adoperavano, senza accorgersene, modi vivacissimi e frasi semplici e piene di garbo, per dir cose che esprimevano prima con perifrasi e giri di parole ridicoli; si abituavano a raccontare e a scherzare senza compasso e senza fatica; e infine canzonavano l’italiano stentato e mal connesso dei nuovi arrivati a Firenze, e trovavano insopportabili certe maniere di scrivere che avevano ammirate fino allora con pecoraggine scolaresca”15. La testimonianza è tanto più curiosa, per il fatto che si riferisce a un periodo che coincide con la breve stagione di Firenze capitale, quando la città ospitava gran quantità di funzionari, impiegati e burocrati provenienti dai ministeri di Torino. Per quanto questa problematica possa sollecitare il nostro interesse, sta di fatto che se De Amicis si fosse limitato a raccontare vivacemente l’iniziazione al toscano, il suo nome non sarebbe entrato nella storia dei dibattiti linguistici con il rilievo che invece merita grazie a L’idioma gentile. Con quest’opera la sua scelta del toscano vivo e la sua adesione al manzonismo si tradussero in precettistica di taglio divulgativo, graditissima al pubblico. Tale successo non può essere ignorato, al di là e prima ancora che si giudichi il valore intrinseco dell’opera. La copertina della copia che ho tra le mani reca la dicitura “Nono migliaio”, e (si noti) siamo nell’anno di uscita del libro, il 1905. Non c’è da stupirsi:
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Ibid., p. 236. Ibid., pp. 237-38.
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secondo una notizia comparsa su “L’Illustrazione italiana”, in tre giorni sarebbero state esaurite ben diecimila copie16. Anche a voler considerare questo dato viziato per eccesso, va tenuto presente che nel 1921 L’idioma gentile aveva raggiunto le ottantatremila copie17. Non si può dubitare che un libro del genere fosse in grado di coinvolgere nuovi ceti e nuovi utenti nella riflessione sulla lingua. Un’accoglienza particolarmente favorevole era riservata dalla scuola. Nel marzo del 1905 (il libro era uscito in gennaio) il ministro della Pubblica Istruzione Vittorio Emanuele Orlando, in una circolare, raccomandava con entusiasmo l’utilizzazione dell’opera, che gli sembrava condensare i caratteri della filologia, della storia letteraria e della stilistica18. Tale indicazione non sarà stata priva di utilità per favorire L’idioma gentile rispetto a concorrenti che, si badi, esistevano, e che furono presto surclassati. Nello stesso 1905, ad esempio, usciva presso il Giusti di Livorno la seconda edizione di Lingua e dialetti di Giuseppe Romanelli, un avviamento allo studio dell’italiano ad uso delle scuole secondarie, ma rivolto, non diversamente dal manuale di De Amicis, “ad ogni qualità di persone”. Anche il libro di Romanelli s’ispirava ad un manzonismo temperato, ma risultava molto meno leggibile de L’idioma gentile, più pedantesco, visibilmente scritto da un professore, non da un narratore. In questo senso, L’idioma gentile apriva la strada a una serie di libri, che oggi diremmo “giornalistici”, aventi per oggetto un’annacquata problematica linguistica. Allora come oggi, questi libri si distinguevano dalle opere specialistiche di più alto livello perché tendevano ad aggirare i problemi, o a rimpicciolirli divulgandoli. Si consideri la scelta del fiorentino propagandata da De Amicis. Egli spesso usa senza distinzione “fiorentino” e “toscano”. La differenza non era molta, se si considera il livello da cui prendeva le mosse il suo pubblico, appena uscito dal dialetto; ma una distinzione esisteva, visto che una parte
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Cfr. E. Tosto, Una polemica linguistica agli inizi del Novecento (Croce e De Amicis), in “Lingua nostra” XXVIII (1967), fasc. 3, p. 68. Cfr. Castellani, art. cit., p. 122 Cfr. Tosto, art. cit., p. 68.
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del dibattito linguistico attorno alla proposta manzoniana aveva avuto per oggetto proprio questo punto. La frattura tra la linea di pensiero di Manzoni e quella degli altri toscanisti era emersa con chiarezza a partire dalla Relazione del 1868, redatta da Manzoni, con Bonghi e Carcano, su incarico del ministro dell’Istruzione (si trattava di una proposta ufficiale, che le istituzioni dello Stato avrebbero dovuto recepire per migliorare la conoscenza della lingua nazionale tra gli italiani). Manzoni aveva proposto l’adozione del fiorentino, ma proprio da Firenze, dove operava un’altra sottocommissione, di cui facevano parte Lambruschini e Tommaseo, era giunta una sostanziale smentita. La divergenza tra i fiorentinisti e i toscanisti verteva prima di tutto sul ruolo da attribuire alla tradizione letteraria, che Manzoni accantonava a vantaggio di una scelta incondizionata dell’“uso”. Tommaseo era piuttosto per un equilibrio con l’autorità della tradizione. Ma c’erano divergenze anche nella scelta del livello d’uso a cui fare riferimento e sulla definizione dei limiti geografici della lingua modello. Intellettuali come Tommaseo, Lambruschini e Tigri guardavano alle zone rurali della Toscana; la loro scelta si orientava decisamente fuori della cerchia urbana di Firenze, per reagire a una supposta corruzione della parlata fiorentina, ritenuta troppo disponibile ad accogliere francesismi e settentrionalismi. Tale disponibilità pareva un segno della debolezza morale dell’area urbana, a cui si contrapponeva la purezza della campagna (Tommaseo e Tigri, si noti, si erano occu pati di cultura popolare, raccogliendo canti toscani tra i contadini). All’opposto, in Manzoni non vi era alcun compiacimento per il mondo rurale. La sua formazione era francese, il suo modello Parigi. Milanese e parigino ad un tempo, Manzoni aveva maturato la propria concezione della lingua guardando alla lingua d’oltralpe, regolata in base all’uso della sua capitale. Lo sforzo di Manzoni era consistito appunto nell’applicare all’Italia quel modello, nella sicurezza che solo un centro urbano sarebbe potuto diventare una moderna guida linguistica per l’intera nazione. Ma anche una volta accettato il discusso principio dell’egemonia urbana, rischiava di presentarsi un altro problema, che aveva angustiato Manzoni in privato (non vi aveva mai accennato in pubblico). In futuro, la capitale linguistica e la capitale politica avrebbero finito per non coincidere, visto che la capitale destina-
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ta a reggere le sorti dell’Italia doveva essere Roma, non Firenze. Il problema di Roma non poteva passare inosservato nel periodo del Risorgimento e nei primi anni dopo l’Unità. Gioberti, nel Primato, aveva parlato dei “due fuochi dell’ellisse italiana” (Roma e Firenze). Più tardi Ascoli non avrebbe nascosto la sua preferenza per Roma. Per Manzoni, invece, legato alla rigida coerenza del modello francese, un doppio centro era una contraddizione logica. Come si vede, la scelta del toscano non andava esente da problemi, ma essi non emergono affatto nelle pagine de L’idioma gentile; non vien fuori nemmeno la questione della capitale: e dire che De Amicis era stato tra i primi a entrare a Roma per la breccia di Porta Pia, e che l’intento patriottico era dichiarato fin dalle prime righe del libro, dove ci si rivolgeva al “giovinetto” (rappresentante ideale del pubblico) esortandolo ad amare la lingua del suo paese quale “immagine più viva e più fedele e quasi la natura medesima della nostra razza”, “vincolo più saldo della nostra unità di popolo”, “anima della patria”19. A badare ai fatti, alla reale situazione, questo era un programma, più che una constatazione della oggettiva situazione italiana. Il libro di De Amicis, insomma, non si presentava certo come problematico. Non pareva che l’autore fosse stato toccato dall’attacco alle teorie manzoniane condotto da Ascoli, né dall’incredulità ironica e tagliente di Carducci, né dall’opposizione di Settembrini. L’ambizione didattica esigeva assolute certezze; i dubbi sarebbero stati d’impaccio nella costituzione di una trascinante “religione della lingua”. De Amicis dunque, per attenuare gli ostacoli, si pose intenti conciliativi, a prezzo di vistose semplificazioni. Ne L’idioma gentile vi è ad esempio un elogio incondizionato del dizionario dei sinonimi di Tommaseo, elogio dal quale non trapela in alcun modo che Tommaseo era stato uno degli oppositori della teoria manzoniana. Ma l’eclettismo conciliativo di De Amicis va molto più in là. Vi è un intero capitolo dedicato alla lingua degli scrittori, nel quale sono additati a modello, indistintamente, tutti
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De Amicis, L’idioma gentile cit., p. 4.
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gli autori sui quali si erano accapigliati i disputanti della questione della lingua. De Amicis tenta di venire incontro al partito dei puristi, che aveva messo tante volte alla berlina in bozzetti come Un caro pedante (Pagine sparse), II professar Padalocchi (Fra scuola e casa), II professar Pataracchi (L’idioma gentile). Assecondava l’amore puristico per la letteratura antica, affermando ora che i trecentisti avevano avuto il merito di non far “distinzione fra lingua parlata e lingua scritta”: manzoniani ante litteram, avevano usato forme al loro tempo “d’uso comune, e quindi naturalissime a coloro che scrivevano”20. La tesi può essere giudicata tanto più interessante, se si pensa che effettivamente il purismo anticipava in qualche misura le esigenze romantiche e popolareggianti che furono proprie della soluzione manzoniana21. Ma il tentativo di conciliazione è ancora maggiore. Persino un autore come Boccaccio, guardato con un certo sospetto dal partito manzoniano22, viene inserito nel curriculum ideale del giovane lettore, che deve imparare almeno a “farsene il gusto”. Ed entrano i cinquecentisti Della Casa, Cellini, Firenzuola, in quanto rappresentanti di un volgare fiorentino spontaneo e quasi moderno. Ancor più sor prendentemente, nel curriculum entrano illuministi francesizzanti accanto a classicisti e puristi, come Giordani, Cesari, Monti, Carducci. Praticamente viene ricuperato per intero il patrimonio della prosa italiana, non solo quella fiorentina e fiorentineggiante, e alla fine viene raccomandata “con maggiore insistenza” la prosa de I promessi sposi, in quanto “tipo ideale della prosa moderna”23. Il grande modello, il modello preferito, viene appunto lasciato per ultimo, “per finir con lui”24. A questa tolleranza verso modelli alternativi, che smorza le più radicali (e innovative) implicazioni del pensiero di Manzoni, non
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Ibid., p. 325. Lo ha dimostrato C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 121. Cfr. ad es. quello che dice Bonghi, op. cit., p. 158. De Amicis, L’idioma gentile cit., p. 341. Ibid., p. 340.
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si deve attribuire tuttavia un significato troppo rilevante. Sarebbe eccessivo vedervi un apporto teorico originale, un superamento del manzonismo, anche se si può concordare con chi ha riconosciuto il carattere “moderato” delle scelte di De Amicis: lo studioso americano R. Hall, ad esempio, ha parlato di una “middle-of-theroad position”25. Ma questo carattere moderato ha una spiegazione più circoscritta che non quella di un avanzamento teorico. Intanto, un libro divulgativo come L’idioma gentile, era destinato a conquistare i favori di un largo pubblico, nel quale figuravano al primo posto gli insegnanti; ad essi (De Amicis lo sapeva benissimo) non potevano non stare a cuore i modelli della lingua scritta della tradizione letteraria, accolti del resto nei programmi scolastici ministeriali. Il carattere moderato della divulgazione di De Amicis, oltre che con l’eclettismo proprio di ogni divulgazione che voglia ottenere successo di pubblico e di cassetta, si spiega poi con la data del libro: siamo ormai nel Novecento, con alle spalle le discussioni sulla Relazione del 1868. De Amicis, anche se faceva finta di nulla, non ignorava quelle polemiche, e soprattutto doveva temere le resistenze del partito toscanista non rigidamente fiorentinista, di cui già ho parlato. Non solo: nella pur ridottissima bibliografia posta in fondo a L’idioma gentile, alla quale solitamente non si fa caso, figurano due titoli specialistici che ci dicono molto su quanto rimase tra le righe del trattato. Uno di questi titoli è L’Italia dialettale di Ascoli, che non ci aspetteremmo di veder citata, vista l’interessata dimenticanza del Proemio. L’altro titolo, di cui si dà un giudizio particolarmente lusinghiero, è La lingua dei Promessi sposi di Francesco D’Ovidio: D’Ovidio fu appunto lo studioso che tentò di conciliare la soluzione manzoniana con le osservazioni critiche rivoltele da Ascoli. I riferimenti indicati, soprattutto quello a D’Ovidio, mostrano su che basi si fondava l’eclettismo di De Amicis, il quale, evidentemente, aspirava ad attraversare indenne la questione della
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R. A. Hall. Jr., 19th-Century Italian: Manzonian or Deamicisian?, in “Historiographia linguistica” IX (1982), fase. 3, p. 422.
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lingua, riaffermando senza rischi e senza asprezze la sua fedeltà alla soluzione manzoniana, ma evitando nel contempo gli iceberg disseminati su di un percorso tradizionalmente periglioso. Tuttavia nemmeno a un così cauto navigatore toccò la fortuna di entrare in una materia come questa senza sostenere una polemica. Inaspettatamente, il colpo non gli venne dai rappresentanti delle posizioni antimanzoniane più note. Lo scontro imprevisto fu con il nascente idealismo, le cui idee linguistiche erano state esposte da Croce nell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale del 1902 (la II edizione riveduta era uscita nel 1904, un anno prima de L’idioma gentile). Benedetto Croce, in una recensione, condannò senza appello De Amicis, accusandolo di appartenere a una fase storica superata dalla nuova filosofia, visto che qualunque forma di lingua-modello, compresa quella toscana, contraddiceva la concezione del linguaggio come libera espressione e irripetibile creazione individuale. In seguito all’attacco di Croce, De Amicis, a cui pure non era mancato l’appoggio della maggioranza dei recensori (tra gli altri, non a caso, quello di un purista come Raffaello Fornaciari26), a partire dalla prefazione al libro nell’edizione 1906, sottoscrisse le osservazioni relative alla lingua come espressione della libertà individuale degli scrittori, ma mantenne fermo il concetto di lingua-modello27. Il dialogo tra Croce e De Amicis era in realtà impossibile. Non si confrontavano solo due forme di pensiero antitetiche, ma anche si scontravano uomini appartenenti a due diverse fasi della storia d’Italia. Ciò spiega, al di là della pura opposizione teorica e filosofica, l’ostilità di Croce verso la questione, il suo disinteresse per il toscano. Si trattava, in fondo, di un problema dell’età
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Cfr. M. Raicich, Scuola, cultura e politica da De Sanctis a Gentile, Pisa, Nistri-Lischi, 1981, p. 117. Cfr. A. Carrannante, Le discussioni sulla lingua italiana nella prima metà del Novecento, in “Belfagor”, XXXIII (1978), n. 6, p. 621 e seg., e Tosto, art. cit., p. 69 n.; B. Croce, Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, Bari, Laterza, 1954; E. De Amicis, Fra scuola e casa, Milano, Treves, 1892.
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romantica, già liquidato dal positivismo. Qualcuno potrebbe forse giudicare che lo spirito missionario di De Amicis avesse ancora spazi d’intervento nella situazione sociale italiana dell’inizio del secolo (si possono rivolgere più o meno fondatamente a Croce certe accuse che si rivolgono a volte anche ad Ascoli, di eccessivo “liberismo”: entrambi pensavano che la lingua non si imparasse studiandola di per sé, ma attraverso un iter culturale più vasto). In ogni modo l’eventuale utilità pedagogica delle proposte linguistiche di De Amicis non va sopravvalutata: anzi, recentemente se ne sono messi in luce tutti i limiti28. Stupisce persino che una concezione di “popolarità” ereditata dalla tradizione risorgimentale si trascinasse senza evoluzione fino a uno scrittore che parlava del socialismo scientifico e delle teorie di Marx (anche se poi finiva per metterle sullo stesso piano della Bibbia29). Le pagine lingui stiche di De Amicis mostrano bene questi limiti, come cercherò di dimostrare. Ne L’idioma gentile vengono denunciati fenomeni d’innegabile gravità sociale, ad esempio l’incapacità di certi parlanti a usare termini elementari assolutamente necessari: De Amicis cita il caso di parole come “seccatura” e “antipatico”, sostituite di necessità, sulla bocca di certi parlanti settentrionali, da equivalenti dialettali come gnola e ghignoso30. Analogamente cita gravi errori grammaticali, errate formazioni del plurale, errori nella coniugazione dei verbi (faressimo e diressimo). Già nelle Pagine sparse aveva riportato un saggio dell’italiano “che si parla generalmente nell’Italia set tentrionale”, ponendosi in maniera abbastanza chiara il problema del passaggio dal dialetto alla lingua31. De Amicis individuò anche
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Cfr. V. Coletti, L’idioma gentile di De Amicis, in Edmondo De Amicis. Atti del Convegno nazionale di studi, Imperia, 30 aprile-3 maggio 1981, a cura di F. Contorbia, Milano, Garzanti, 1985, pp. 501-502. Cfr. E. De Amicis, Sulla questione sociale, Conferenza tenuta la sera di giovedì 11 febbraio 1892 all’Associazione Universitaria Torinese, Torino, Tipografia L. Roux e C., 1892, p. 21. De Amicis, L’idioma gentile cit., p. 50. Cfr. Id., Pagine sparse, ed. cit., p. 171.
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meglio la gravità della situazione linguistica del tempo. Era lecito aspettarsi questa sensibilità da parte di uno scrittore attento all’istruzione elementare e alla “questione sociale”. Penso, nelle Pagine sparse, al Ritratto di un’ordinanza, il bozzetto che rappresenta il soldato sardo che “parlava con voce aspra e chioccia un italiano del quale avrebbe potuto domandare con tutti i diritti il brevetto d’invenzione”32. Questo soldato, avendo avuto l’opportunità di muoversi dall’isola natia, e avendo soggiornato nel Nord Italia e poi a Firenze, anziché “sciacquare i panni in Arno”, aveva finito per creolizzarsi, per acquisire una sorta di lingua franca (un “linguaggio itinerario”, avrebbe detto Foscolo), “un misto di sardo, di lombardo e d’italiano, tutte frasi tronche, parole mozze e contratte, verbi all’infinito buttati là a caso e lasciati in aria, che facevano l’effetto del discorso di un delirante”33. Questo soldato aveva potuto accostarsi alla lingua scritta in una scuola reggimentale (il ruolo di queste scuole è un capitolo ancora da esplorare nella storia dell’alfabetizzazione); “aveva imparato a leggere e scrivere stentatamente”, acquisendo la mania di scarabocchiare parole su tutti i fogli che gli venivano a tiro. Senza molta simpatia e (una volta tanto, guarda caso, senza alcuna disponibilità sentimentale), De Amicis tratteggia ironicamente una figura che gli pare una macchietta, ma in cui in realtà emergono molti elementi di portata generale: l’isolamento dell’analfabeta, la sua difficoltà di adattamento all’ambiente, l’aspirazione a raggiungere un livello migliore di conoscenza. Eppure, sorprendentemente, uno scrittore che dichiarava avanzate idee sociali, capace di osservare e descrivere un “tipo” come l’analfabeta sardo, un autore cosciente di alcune reali difficoltà linguistiche proprie degli italiani che arrivavano per la prima volta alla lingua, finiva per andare completamente fuori strada dedicando pagine e pagine de L’idioma gentile a problemi linguistici assolutamente irrilevanti, lamentando come gravissimi fenomeni di minimo peso, come la scarsa dimestichezza degli
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Ibid., p. 40. Ibid., pp. 44-45.
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utenti con parole del tipo di appinzo (l’acidore del vino infortito), pulica (lo spazietto nella pasta del vetro), reggifiasco, fiocine (la buccia degli acini), scrogiolare (il rumore della crostata sotto i denti), grillare (dell’olio sul fuoco). Lamentava insomma la mancata diffusione di un lessico toscano designante un orizzonte di oggetti quotidiani e di operazioni comuni, riferendosi a casi in cui sinonimi o perifrasi potevano perfettamente sopperire alla mancanza di precisi termini, senza che questo nuocesse in alcun modo alla reale diffusione della lingua. L’amore di una terminologia di fatto destinata a rimanere confinata sui deschi toscani e nelle cucine di Firenze lo portava a sviare la lezione manzoniana, trasformandola in una caccia a inutili parole ed espressioni rare. “Ricordo un articolo di De Amicis sulla ricchezza dei modi di dire del toscano – ha detto Giovanni Nencioni in un’intervista34 – Ma di questi modi di dire, io, che sono nato e cresciuto qui [a Firenze], spesso non intendo il significato. Sì, quei modi di dire erano una ricchezza, ma una ricchezza che divideva la Toscana dalle altre regioni, e perfino la Toscana stessa al suo interno”. Nella caccia alle parole dell’uso familiare e quotidiano, che solo apparentemente erano comuni e necessarie, ma di fatto erano cultismi alla rovescia, scovati grazie alla nuova mania del “popolanesimo” (per usare l’espressione di Ascoli), più che manife starsi l’ansia manzoniana per la lingua unitaria, si rinnovava una volontà di ricerca linguistica che era stata tipica della generazione di scrittori maturata negli anni attorno all’Unità. Era stata allora frequente una ricerca di lessico toscano condotta per via libresca, con spirito da collezionisti. È noto che lo stesso Manzoni aveva tentato inizialmente di accostarsi al toscano attraverso fonti scritte. Questo sforzo iniziale portava ad attribuire un ruolo esagerato alla funzione del lessico e degli strumenti lessicografici. Elogiando il vocabolario (la cui lettura pareva a De Amicis un “passatempo”
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Cfr. A. Todisco, Ma che lingua parliamo. Indagine sull’italiano d’oggi, Milano, Longanesi, 1984, p. 68.
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e a Croce, invece, per polemica, un “perditempo”35, De Amicis dimostrava di ereditare, prima che la mentalità del manzonismo ortodosso a cui voleva aderire, l’atteggiamento libresco proprio dei settentrionali alla ricerca della lingua. Penso ad esempio a uno scrittore come Faldella (piemontese, come piemontese adottivo era De Amicis), che per “imparare il mestiere” aveva composto uno Zibaldone linguistico di toscanismi antichi e moderni da tener sempre a portata di mano36. Ebbene, il vocabolario usato da Faldella per compilare il suo Zibaldone è il medesimo che De Amicis cita nelle Pagine sparse, quello di Pietro Fanfani. Il vocabolario di Fanfani, di cui – secondo Beccaria – una copia capitò ancora tra le mani di Cesare Pavese37, viene consigliato da De Amicis ai giovani settentrionali per rimediare alla loro naturale inferiorità linguistica; se ne suggerisce una lettura distesa, “come una storia, o un trattato, o un romanzo”38. Poco più avanti De Amicis citava Giusti, cioè l’autore che più era servito a coloro che, come Faldella, avevano cercato d’imparare un toscano disinvolto, in maniche di camicia, lontano dalla lingua classica e nobile della tradizione “alta”. Tra le righe (se non interpreto male) era forse menzionato proprio Faldella: “un tale che scelse l’epistolario di Giusti” per mettere in atto una procedura didattica che De Amicis consiglia anche ai propri lettori: scegliere alcuni libri toscani “da leggere ad alta voce [...] mezz’ora tutti i giorni”39. Questi metodi, evidentemente, derivavano da un’esperienza precedente al manzonismo maturo. Più tardi, ne L’idioma genti-
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Cfr. Tosto, art. cit., p. 70 n. Cfr. G. Faldella, Zibaldone, edizione a cura di C. Marazzini, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1980. Cfr. G. L. Beccaria, Il “volgare illustre» di Cesare Pavese, in Il mestiere di scrivere. Cesare Pavese trent’anni dopo, Atti del convegno di Santo Stefano Belbo (13 dicembre 1980), Santo Stefano Belbo, Centro Studi Cesare Pavese, 1982, p. 64; Id., Le forme della lontananza, Milano, Garzanti, 1989, p. 69. De Amicis, Pagine sparse cit., p. 132. Ibid., p. 198.
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le, avrebbe parlato più chiaramente di lingua viva, e il riferimento al vocabolario di Fanfani avrebbe ceduto il passo a quello del vocabolario di Petrocchi, ispirato a un moderato manzonismo. Ma le Pagine sparse, proprio per la loro precocità cronologica, per la loro collocazione nella fase iniziale dell’apprendistato linguistico, mostrano bene un entroterra libresco che in qualche modo finì per condizionare l’impostazione della didattica linguistica di De Amicis. Una parte del lessico consigliato ed esibito nelle Pagine sparse era esattamente il medesimo che ritroviamo archiviato nelle schedature di Faldella: parole come attacchino, cicalino, frucchino, ritocchino, desco molle, pelatina, vantaggiare, rimpolpettare (Faldella ha rimpolpettato), spippolare... Erano le parole che mandavano in sollucchero i letterati settentrionali, e che venivano ricavate attraverso una “corsa nel vocabolario” consigliata (seppur con più cautela) anche ne L’idioma gentile40. Del resto nelle Pagine sparse viene lungamente recensito un libro del piemontese Giambattista Giuliani, Moralità e poesia del vivente linguaggio toscano, un libro a cui oggi si accostano solo gli specialisti, ma che a suo tempo ebbe un certo successo41. Il padre Giuliani aveva raccolto in quest’opera conversazioni intrattenute con contadini toscani, incontrati durante una peregrinazione attraverso valli, borghi e montagne. Con loro aveva parlato di lavori agricoli, di coltivazioni, sovente di carestie, di fame, di disgrazie. Giuliani era convinto che quelle voci contadinesche fossero a un dipresso paragonabili per qualità a quelle di Dante e di Boccaccio, anzi voci di Dante e Boccaccio redivive. De Amicis, lettore di Giuliani, aveva così potuto raccogliere per via libresca, come da un dizionario, un campionario di espressioni pure toscane. Tra esse, in primo luogo, attirava la sua attenzione quello che definirei il “linguaggio del dolore”42: “le morì la carne addosso”, “era una vista che levava il pianto dal cuore”, “è un coltello che m’ha passata l’anima”, “il dolore l’è s’è fitto nell’ossa”, “ero
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De Amicis, L’idioma gentile cit., p. 127 e ss. Cfr. M. Vitale, La questione della lingua, Nuova edizione, Palermo, Palumbo, 1978, pp. 434-436 e 562-565. De Amicis, Pagine sparse cit., p. 208 e ss.
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un turbine di dolore”, e via di questo passo, attraverso un campionario di cui il libro di Giuliani offriva larga scelta. Proprio qui stava l’equivoco: nella ricerca della lingua viva per via libresca. La popolarità conquistata in questo modo era alla fine una falsa popolarità, fuorviante rispetto a efficaci obiettivi pratici, pericolosamente vicina al gusto lessicale del purismo di marca pedantesca. Il rischio diventava anche maggiore per un autore che volesse su quella base “farsi uno stile”. Un simile atteggiamento avrebbe potuto degenerare, sul piano pratico, in una lingua disponibile alla ricerca di lessico solo apparentemente popolare: esattamente ciò che accadde a Faldella, nel cui programma, all’origine, c’era una rivendicazione di popolarità, che a noi suona strana, e che sappiamo di fatto tradita dall’esito stilistico aristocratico. La scrittura di De Amicis narratore, giornalista e conferenziere, invece, non approfittò delle pericolose risorse pur propagandate ne L’idioma gentile; fu semplice e lineare, senza esibizione di toscanismo43. Senza questa linearità stilistica, non avrebbe potuto diventare, con i suoi libri di viaggio, un modello di rinnovata prosa giornalistica. Come ha notato Nencioni44, De Amicis fu proprio uno dei creatori di questa prosa, la quale, s’in tende, poteva dispiacere a qualcuno appunto per la sua semplicità. Ne fa fede un altro giornalista di gusti assolutamente diversi, il già citato Faldella, che in A Vienna (cioè, guarda caso, proprio in una prosa giornalistica di viaggio), mostrava di giudicare in maniera assai negativa quello stile. Esso gli pareva “levigato tutto superficie, senza rialzi e rinfranchi di sintassi, tutto indicativi presenti, senza soggiuntivi o gerundii”45; uno stile, insomma, distante da
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A parte alcuni ipercorrettismi, sui quali cfr. G. Pasquali, “Cuore” di De Amicis, in Pagine stravaganti, vol. II, Firenze, Sansoni, 1968, pp. 417418, del resto scusabilissimi, così come sono scusabili i residui piemontesismi e francesismi della sua scrittura. Nella citata intervista a Todisco, p. 66. G. Faldella, A Vienna. Gita con il lapis, a cura di M. Dillon Wanke, Genova, Costa & Nolan, 1983 p. 134 [la prima ed. di A Vienna risale al 1874; il passo citato è a p. 107].
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ogni ricercatezza, da ogni sforzo d’invenzione sintattica, oltre che, naturalmente, da ogni invenzione mistilingue. Faldella, con ironia, diceva che De Amicis si rivolgeva a “le damigelle del villaggio, i sergenti furieri, i sindaci, gli studenti, le damine del buontono”, ma era costretto ad aggiungere: “De Amicis è dei pochissimi scrittori italiani che sono entrati nel pubblico; e vi si è fatta una strada carreggiabile”46. Ironia a parte, questa era proprio la verità. Se ai palati più aristocratici, come quello di Carducci o di Faldella, la “prosa borghese” non piaceva, non sarebbero mancati estimatori disposti a tener in pregio proprio la medietà dello stile. Nel 1945, subito dopo la liberazione, nel primo numero de “II Ponte”, Piero Pancrazi pubblicava un articoletto che, come spiegava nella breve presentazione, era stato scritto molti anni prima per il “Corriere della sera”, ma era stato allora bloccato dalla censura fascista. Ci colpisce il fatto che si trattasse di un elogio dello stile di De Amicis. Secondo Pancrazi, la scelta della soluzione manzoniana era stata determinante, tra Otto e Novecento, per la formazione della “prosa borghese” italiana (nella quale erano entrati per altra via gli elementi regionali di Verga e dei veristi). Quella prosa media era “la prosa della nostra vita media, sarebbe stata la prosa del romanzo e della novella italiana”47, tanto più efficace perché scarsamente poetica, “sliricata”, come egli diceva, pensando per contrasto allo stile “alto” di D’Annunzio e alla prosa d’arte. Questa medietà, mal teorizzata, anzi vistosamente tradita ne L’idioma gentile, era stata tuttavia nella pratica la forza di De Amicis, il segreto del suo successo.
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Ibid., pp. 133-34. Cfr. P. Pancrazi, Un aneddoto letterario: De Amicis proibito, in “Il Ponte”, I (1945), fase. I, p. 44.
16. La “Storia della grammatica italiana” di Ciro Trabalza
Nel 1969 l’editore Einaudi pubblicò una Guida alla formazione di una biblioteca, con un lungo commento di Delio Cantimori. Non era un comune repertorio bibliografico, simile a tanti altri analoghi, ma il risultato di un’operazione più ambiziosa: la celebrazione di quello che potremmo maliziosamente chiamare un “mausoleo di famiglia”, cioè la piccola e raffinata biblioteca donata al comune di Dogliani nel 1963. Devo ricordare che Dogliani è il paese d’origine degli Einaudi, e la piccola biblioteca, di alto valore simbolico, progettata da Bruno Zevi nella parte architettonica, era stata dedicata da Giulio al ricordo del padre Luigi e inaugurata alla presenza dei presidenti della Repubblica e del Senato, autorità che (credo) mai si erano ritrovate assieme in quella cittadina, famosa soprattutto per una varietà tipica e molto apprezzata di vino dolcetto. La guida elencava tutti i libri ritenuti assolutamente necessari per il loro valore intrinseco, scelti con “un gioco serio e appassionante”, come scrisse Giulio Einaudi, un gioco che ricorda quel passatempo di società (forse qualcuno di noi lo ha sperimentato) che richiede a ciascuno di dichiarare quale libro salverebbe dal diluvio universale, salvo che qui la lista era notevolmente più lunga, ordinata per settori disciplinari. Si erano dedicati al gioco vari intellettuali amici della casa editrice, tra i quali, appunto, Cantimori. La Guida del 1969, compilata
Cfr. Guida alla formazione di una biblioteca pubblica e privata. Catalogo sistematico e discografia. Con un commento di Delio Cantimori, una lettera di Salvatore Accardo e una documentazione sull’esperienza di Dogliani, Torino, Einaudi, 1969. Ibid., p. XXV (Premessa dell’editore, firmata da Giulio Einaudi).
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
sulla base di quell’esperienza, voleva essere l’elenco dei libri di una moderna piccola e perfetta “biblioteca ideale”: il “catalogo di Dogliani”, lo chiamarono con familiare complicità Salvatore Accardo e Giulio Einaudi. Apriamo dunque il catalogo al capitolo “Linguistica”, che non inizia (si noti) con la Teoria del linguaggio, la quale sta al secondo posto, ma con la Storia della lingua italiana. Sotto questa rubrica sono collocati in tutto sedici titoli. L’elenco si apre con la Storia linguistica dell’Italia unita di De Mauro ed. 1963 (lo stesso anno e lo stesso mese dell’inaugurazione della Biblioteca di Dogliani, che avvenne il 29 settembre), e prosegue con tre opere di Devoto, ultima il Profilo ed. 1964, continua con cinque titoli di Migliorini, tra i quali ovviamente la Storia del 1961. Segue Pasquali, poi la Questione della lingua di Vitale ed. 1960 (non quella accresciuta che usiamo oggi), i due primi volumi della Grammatica storica di Rohlfs (perché il terzo era in preparazione), due titoli di Schiaffini, e infine, ultima in ossequio alle legge dell’ordine alfabetico, l’anastatica realizzata da Forni della Storia della grammatica italiana di Ciro Trabalza. Nell’elenco dei sedici libri riservati alla storia della lingua italiana, quello di Trabalza era il meno recente: la bibliografia non lo lasciava vedere, perché citava l’anastatica di Forni con la sua data, 1963, senza riferimento all’originale. Attualità di quegli anni! Il 1963 è la data dell’inaugurazione della biblioteca e dell’uscita della Storia di De Mauro, ma sappiamo bene quanto in realtà il libro fosse più antico, anche se Forni non indicò la data della prima stampa, il 1908, e anzi scrisse “1963” sul frontespizio, rinnovando così l’opera, quasi in una miracolosa operazione di cosmesi editoriale. Il libro di Trabalza era dunque l’unico in elenco la cui data di uscita fosse anteriore alla metà del secolo XX. Che cosa vuole dire questo? Non è altro, lo ammetto, che un modo più sofisticato di ribadire ciò che tutti sappiamo, e che sempre ci colpisce: la Storia della grammatica di Trabalza è un long-seller, come si usa dire,
Ivi. Cfr. Ibid., pp. 145-46.
16. La “Storia della grammatica italiana” di Ciro Trabalza
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dotato di eccezionale capacità di resistenza, perché anche oggi, a quasi cinquant’anni dalla biblioteca ideale di Dogliani (purtroppo ormai manomessa e scompaginata), la situazione non è diversa, e Trabalza continua a mantenere la sua posizione, occupando, isolato, il posto principale nel settore della storia della grammatica. Il primo nodo da sciogliere è dunque proprio quello della lunga durata del libro, che non è solo merito dell’autore, perché avrà qualche parte anche il demerito degli studiosi che sono venuti dopo e non si sono accollati l’aggiornamento di una simile impresa. Se non hanno avuto tale coraggio, tuttavia, ci sarà stata pure una ragione, dalla quale probabilmente potrebbero emergere altri meriti del vecchio Trabalza. Questo primo nodo si collega subito a un secondo: se si deve articolare un motivato giudizio che collochi il libro di Trabalza nel contesto in cui è nato, e metta in evidenza i problemi che l’autore ha dovuto affrontare, si è costretti a soffermarsi su pagine che in realtà i fruitori attuali della Storia della grammatica ignorano e saltano a piè pari, proprio perché sono le più caduche dell’opera e le meno significative ai fini di una lunga durata. Sono le pagine dedicate alle questioni metodologiche, le quali sicuramente ossessionarono l’autore, con le quali dovette confrontarsi in maniera non facile, e che quasi quasi suscitano un sorriso di commiserazione nel lettore moderno, che pure è ancora affascinato dalla incredibile quantità di dati riuniti da Trabalza. Tuttavia non esiste forse altro libro che per rivendicare il diritto alla propria esistenza sia costretto allo stesso modo, come questo, a condannare la propria materia ed esibire per essa profondo e totale disprezzo. La Storia della grammatica ebbe la ventura di venire alla luce, frutto del positivismo maturo, quando ormai si era compiuta la svolta dell’idealismo, e la grammatica, secondo i dettami del pensiero crociano, declassata a pseudoconcetto, era esclusa dal novero degli argomenti degni di essere chiamati scienza. Trabalza accettò pienamente questo declassamento, per quanto non ne traesse alcun vantaggio, e anzi fosse destinato a patirne le conseguenze. Per tutto il libro, a cominciare dall’introduzione e via via in molti interventi in corso d’opera, insistette sulla tesi che oggi può apparire singolare se non bislacca: che la sua storia della grammatica aveva il pregio, seguendo la storia di questa pseudodisciplina, di metterne il luce la crisi e il disfacimento, rilevandone i fondamenti fallaci,
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Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
salvo nei casi in cui i grammatici più illuminati si fossero accorti dell’identità di lingua ed espressione, dell’assoluta individualità dell’atto linguistico, dell’arbitrarietà delle regole, in sostanza del valore puramente estetico dell’atto linguistico: salvo dunque il caso in cui i grammatici fossero stati crociani ante litteram. E purtroppo pochi erano stati tali; non solo: anche la loro valutazione positiva non salvò Trabalza dai rimbrotti di alcuni idealisti più diffidenti, come Mario Rossi, che, sulla “Critica”, gli rimproverò di aver ecceduto nell’ “attribuire valore di accenni e precorrimenti notevoli della concezione idealistica del linguaggio a ogni più tenue lampeggiar del vero dinanzi al buon senso dei grammatici”. Critica che purtroppo resta valida anche da un punto di vista opposto, se si rovescia l’idea di “vero” cara agli idealisti. Per documentare questi eccessi di crocianesimo che non piacevano nemmeno a tutti i crociani, messi in sospetto come di fronte a una forma di opportunismo culturale per queste dichiarazioni di ortodossia, usate nel libro come una sorta di scudo o salvagente, posso far subito riferimento a un passo sulla ‘questione della lingua’. Dopo aver negato che le dispute sulla ‘questione della lingua’ fossero sorte solo dalla briga di stabilire il nome della nostra lingua, se italiana o toscana o altro, Trabalza scrive: “ogni volta che si parla di lingua e di linguaggio, quando non sia per narrarne le vicende come prodotto naturale, come erudizione, come storia, si tratta un problema di estetica […] la questione della lingua non è, insomma, un problema della linguistica come comunemente s’intende, ma di quella linguistica che s’identifica con l’estetica”. E, poco più
M. Rossi, Storia della grammatica italiana di Ciro Trabalza, in Carlo Vossler – Giuseppe Vidossich – Ciro Trabalza – Mario Rossi – Giovanni Gentile, Il concetto della grammatica. A proposito di una recente storia della grammatica. Discussioni, con prefazione di Benedetto Croce, Città di Castello, Lapi, 1912, p. 74. C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano, Hoepli, 1908 (ma cito dalla ristampa anastatica di Sala Bolognese, Forni, 1963), pp. 88-89. La frase assomiglia stranamente nell’incipit a quella celebre affermazione di Gramsci: “Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro,
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avanti, dopo aver presentato la riforma ortografica del Trissino, si sofferma a spiegare l’inutilità degli interventi sull’ortografia, la quale si rende regolare solo quando c’è una maggior uniformità spirituale, e in cui comunque le norme sono inutili, perché la forma di una parola non è mai identica a un’altra, perché ogni parola è “un fatto espressivo intimamente diverso dall’altro”. Si potrebbero spigolare molte dichiarazioni di fede crociana, distribuite nel libro, in situazioni e occasioni diverse: ad esempio per elogiare un autore come Tolomei, che è andato a un passo dal “riconoscere che il linguaggio è individua creazione spirituale”, anche se quel passo così breve non è stato poi compiuto. Oppure, a proposito dei trattati di punteggiatura, ne dichiara l’inutilità manifesta proprio in nome dell’estetica identificata con la linguistica generale, e qui introduce un imprevedibile quanto insolito riferimento alla punteggiatura di D’Annunzio, per difenderlo dall’accusa di non essersi conformato all’uso (del resto del D’Annunzio parla anche un’altra volta, paragonando la sua prosa a quella di Matteo Bartoli). Siamo nel 1908, e dunque colpisce questa evocazione di uno scrittore moderno e vivente, all’interno di un’opera erudita di storia della grammatica che di solito non indulge a queste digressioni, ma qualche volta concede ad esse un po’ di spazio. L’ “illogica e tirannica”10 pretesa di imporre regole astratte fornisce l’occasione per difendere l’originalità individuale, davanti alla quale non resta che prendere atto del fallimento della trattatistica di fronte alla vera scienza, che “non conosce leggi fonetiche, né grammaticali, né, particolarmente, ortografiche o di accentuazione e interpunzione”11. E ancora, un altro guizzo di crocianesimo, là
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la questione della lingua...”. Il richiamo è puramente formale, anzi speculare, perché il contenuto del passo di Gramsci è assolutamente opposto; ma certo Trabalza era tra le sue letture (cfr. nota 50). Ibid., p. 95. Ibid., p. 145. Cfr. Ibid., p. 341. Ibid., p. 279. Ibid., p. 280.
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dove parla di un’idea di Buommattei, secondo il quale è difficile dare regola alla lingua generale, più facile darla alla lingua “speciale” (quella di una determinata regione d’Italia), ancor più facile darla alla “particolare” (quella di una singola città). Insomma, la regolamentazione diventa via via più agevole, secondo Buommattei, man mano che si procede verso l’individualità. “Ma che grammatica sarebbe mai stata questa che avrebbe preteso regolare il linguaggio d’un uomo solo?”, commenta Trabalza, ricordando che il parlare individuale “non può essere più parlare effettivo se non è perpetuamente creato per libero atto spirituale”12. Insomma, le dichiarazioni di fede crociana non stanno solo nella prefazione, ma qua e là sono introdotte per commentare le tesi degli autori, per prendere atto delle loro presunte aporie e inadeguatezze, e contrassegnano almeno un capitolo nella sua totalità, quello su Vico, lo spazio del quale potrebbe apparire spropositato, visto che non scrisse mai una vera grammatica, ma sta lì per la sua funzione centrale nell’estetica dell’idealismo, contrapposto a quello che invece è la bestia nera dell’idealismo, cioè l’illuminismo razionalistico di matrice condillachiana. Certo, se il libro di Trabalza ha avuto una così lunga durata, ciò è stato per quanto si differenzia da queste prese di posizione e scelte di metodo, che si legano a una attualità contingente. Il lettore moderno non ci mette molto a saltare a piè pari queste pagine, salvo che non sia intento a un’operazione di rilettura della Storia all’interno del contesto culturale che l’ha prodotta. Questa sottrazione, disinvolta quanto necessaria e comprensibile, ci aiuta forse a compiere il primo passo verso quanto, per contro, nel libro di Trabalza dura fino a sfidare un secolo di studi. La parte più solida ci allontana però dal dibattito culturale che l’opera suscitò al suo apparire, dibattito che si può seguire attraverso i saggi raccolti in un volume che ripercorre appunto quelle discussioni, uscito nel 1912: Il concetto della grammatica. A proposito di una recente storia della grammatica, con interventi di Vossler, Vidossich, di Trabalza stesso, di Rossi e di Giovanni Gentile, e con un’ambita
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Ibid., p. 307.
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prefazione di Benedetto Croce, che del resto di Trabalza era amico, e non lo nascondeva, perché proprio nella prefazione ricordava di aver visto nascere la Storia della grammatica durante un soggiorno a Perugia. Curiosamente, proprio Croce si assunse il compito, in questa prefazione, di difendere la legittimità del libro, riconoscendovi “una storia della filosofia del linguaggio, quale si svolge attraverso i libri dei grammatici”13, una storia che si univa, “sia pure con qualche sacrificio della euritmia”, a “un largo ragguaglio di ciò che d’importante contengono moltissime grammatiche italiane, le quali – e qui Croce indovinava il destino di long seller del libro di Trabalza – forse attenderanno per secoli un altro coraggioso come lui che si metta a cercarle, a ordinarle e a leggerle”14. Perché, è sempre Croce ad affermarlo, si può fare persino una storia della grammatica che prescinda dall’estetica e dalla filosofia e che si tenga bene aderente ai vari libri di grammatica nella loro concretezza e materialità, cioè una storia “di quel che di propriamente grammaticale è nelle grammatiche”, al di là delle loro ambizioni filosofiche, e sarà “una storia poco allegra”, diceva Croce, ma “questo è un altro conto”15. Era proprio Croce, insomma, il demolitore della grammatica, a mostrare quale interesse potesse avere questa disciplina nel quadro dell’estetica e della filosofia. Un’altra difesa venne dal secondo esponente dell’idealismo italiano, Giovanni Gentile. Difesa, per modo di dire, in verità, perché Gentile prendeva in esame proprio le dichiarazioni di fede idealistica e di disprezzo delle norme grammaticali esibite da Trabalza, per esercitarvi una sottile ironia. Trabalza, scriveva Gentile, “fa insomma, anche lui, la canzonatura della grammatica. – Ma, con quanta convinzione? E stavo per dire: con quanta sincerità?”16.
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B. Croce, Prefazione in Vossler et alii, Il concetto della grammatica cit., p. XVI. Ivi. Ivi. G. Gentile, Per una storia della grammatica italiana, in Vossler et alii, Il concetto della grammatica cit., p. 117 (il saggio era uscito in precedenza in “La Cultura” XXIX, 1910, n.23).
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Gentile insinuava che in realtà Trabalza era fiducioso nella grammatica, e che per di più era un manzoniano della scuola del Morandi. Dunque un seguace della grammatica della lingua viva, dell’uso, ma pur sempre un seguace delle regole, un falso idealista. Il merito del libro, pertanto, non stava in queste dichiarazioni di fede. Gentile lo afferma senza esitazione: “la storia del Trabalza non è governata dalle idee, che egli dice di avervi applicate, e che sono state poi la pietra dello scandalo per i critici. E rilevarlo è opportuno, perché in realtà il valore di questa storia non dipende dalle idee che l’autore si propose di introdurvi”17. Dunque già Gentile dubitava della sostanza idealistica esibita così vistosamente nel libro, ma non esitava a riconoscere il merito dello scavo erudito, della raccolta dei materiali, del dissodamento di un terreno nuovo. In realtà Gentile cercava anche di erodere in parte la teoria crociana della grammatica, riconoscendole un valore maggiore, che riassumo sinteticamente in una citazione incredibilmente simile a certe tesi di Terracini: “può parere che la regola grammaticale sia un’arbitraria prescrizione che limiti la libertà dello spirito estetico; e come tale può esser vagheggiata ingenuamente dal grammatico; ma, in realtà, non è né può esser altro che l’intelligenza dei modi in cui si celebra la libera attività spirituale”18. Tornando a Trabalza, il merito della raccolta dei dati era la sola cosa che gli fosse riconosciuta nella severa recensione di Vossler, secondo il quale il materiale raccolto era “straordinariamente abbondante e vasto”, anche se la sterilità e (forse) la falsità del pensiero informatore la rendeva “un’opera complessa e faticosa, di difficile lettura e talora di difficile intelligenza”, in cui spesso “il più pregevole è nascosto in lunghe note piene zeppe di roba e in appendici”19. A parte l’asprezza, è un giudizio che contiene elementi veri, e che noi stessi dovremo forse confermare per quanto riguarda le ricchissime note e l’appendice con la grammatica
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Ibid., p. 116. Ibid., pp. 124-25. K. Vossler, Storia della grammatica italiana di Ciro Trabalza, in Vossler et alii, Per una storia della grammatica cit., p. 52.
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dell’Alberti: perché non dobbiamo dimenticare che fu proprio Trabalza a corredare la sua Storia di una simile primizia, la princeps dell’inedita Grammatichetta vaticana, sulla quale era allora viva la discussione per stabilire chi fosse l’anonimo autore. Trabalza, nel presentarla, si sforzava di dare il massimo spicco all’intervento di Luigi Morandi sulla “Nuova antologia” (agosto 1905), riconoscendo al “maestro ed amico senatore”20 il merito di aver parlato del manoscritto e di aver suggerito la pubblicazione integrale. Nell’omaggio ossequioso al Morandi (e del resto abbiamo visto che Gentile aveva liquidato le posizioni linguistiche del Trabalza classificandolo brutalmente tra i manzoniani morandiani) è compresa anche una troppo certa attribuzione della grammatichetta, o meglio una troppo certa negazione di attribuzione, perché la grammatica “fu molto probabilmente opera di Lorenzo il Magnifico, non certamente di Leon Battista Alberti, com’era stato supposto”21. L’attribuzione all’Alberti pare dunque respinta perentoriamente, sotto la bandiera dello studioso celebre a cui era dovuto ossequio, il Morandi, appunto, e ciò nelle parole premesse all’edizione, dopo che nel testo, al contrario, Trabalza aveva insistito sul fatto che comunque, fosse dell’Alberti o no, quella grammatica andava riconnessa “all’azione dell’Alberti stesso”22. Non si deve dimenticare che il Morandi era stato il primo protettore degli esordi di Trabalza nel campo degli studi sulla ‘questione della lingua’, perché una sua lettera era stata usata come presentazione del lavoro giovanile di Trabalza su Francesco Torti, l’antipurista ottocentesco di Bevagna, dunque conterraneo di Trabalza, che per questa ragione se ne era occupato in un saggio pubblicato nel 1896, appunto con i torchi di una tipografia di Bevagna, il che fa ragionevolmente pensare a una pubblicazione a spese del giovane autore. Non è strano dunque che la Storia della grammatica esibisse simile ossequio nei confronti di uno studioso autorevole, seguendolo
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Trabalza, Storia della grammatica cit., p. 531. Ivi. Ibid., p. 15.
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in attribuzioni che oggi giudichiamo sbagliate. Dunque Trabalza per ossequio e conformismo seguì il Morandi, come seguì il Croce, e come più tardi ancora calcò molto sul rapporto tra la propria grammatica e l’Italia nuova del fascismo. Non c’è dubbio che alla sua figura di studioso avrebbe giovato un pizzico di scetticismo in più, una minore adesione ai valori o alle persone che gli parevano dominanti, per cui a volte la sua produzione scientifica, che pure ha saputo sfidare il tempo, ci pare venata di una sorta di mentalità burocratica, quasi a farci ricordare che l’autore era un alto funzionario del ministero, di quei funzionari che producono cultura come oggi sanno fare raramente persino i professori universitari, funzionari di una razza e di una classe certamente estinta, ma pur sempre poco propensi ad assumere posizioni intellettuali minoritarie o impopolari. Se si vuole insistere il più possibile sulla sostanza ideologica delle dichiarazioni sull’attribuzione della Grammatica dell’Alberti, si può forse dare una spiegazione del genere. Altrimenti ci si può limitare a dire che la sicurezza esibita da Trabalza su questa materia, nella presentazione della Grammatichetta vaticana, scema un po’ il merito innegabile di essere stato il primo a pubblicarla, in un’edizione che non ha nessun demerito, anche se oggi ovviamente non si usa più, dopo quelle di Grayson e di Patota23. Eppure la negazione eccessivamente sicura della paternità albertiana non è la posizione definitiva di Trabalza, il quale ritornò sull’argomento in un saggio tra i suoi più belli, uscito nel 1912, poi raccolto nel volume del 1920 intitolato Dipanature critiche. Qui, in un elegante intervento su L’Alberti autore della prima grammatica italiana?, Trabalza tornava sulla questione, rinnovando le affermazioni ossequiose nei confronti del suo “illustre maestro Luigi
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Anzi, a leggere la Nota ai testi, in Leon Battista Alberti, “Grammatichetta” e altri scritti sul volgare, a cura di Giuseppe Patota, Roma, Salerno, 1996, p. 71, sembra che, almeno a volte, Trabalza abbia fatto non dico benissimo, ma persino meglio di Grayson, ad esempio a proposito dei segni diacritici per le distinzioni ortofoniche. Afferma Patota: “L’incertezza interpretativa del Trabalza è molto più comprensibile del silenzio del Grayson [...]”.
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Morandi”24, ma allo stesso tempo attribuendo il massimo rilievo a quello che era il vero scopo del suo articolo, cioè la valorizzazione, per la prima volta (e questa priorità era sottolineata dall’autore in piena coscienza), della testimonianza dell’Equicola nel Libro de natura de amore, là dove riporta l’epistola dell’Augurello (assente nel manoscritto della Biblioteca Nazionale universitaria di Torino) in cui si afferma che un uomo esperto in molte dottrine, e massimamente in architettura e pittura, aveva scritto una grammatica toscana e aveva tentato una riforma dell’alfabeto, anche se questo libro non era al momento rintracciabile, ma sicuramente esisteva, come confermavano “huomini da bene”. La testimonianza era passata inutilmente sotto gli occhi di fior di studiosi, come il Renier, il Luzio e il Flamini, e non era stata usata dal Sensi (il quale subito aveva attribuito la Grammatichetta all’Alberti); mai si era evidenziata la relazione con la Grammatichetta, ora proposta da Trabalza, al quale dunque va attribuito il merito di aver dato la prima edizione, e, pur dopo qualche esitazione dettata da eccesso di ossequio verso il Morandi, anche quello di aver interpretato correttamente il significato di un documento in cui riconosceva il duplice pregio dell’attenzione al toscano e della disponibilità verso la lingua viva. È vero che il Grayson, nella sua edizione, ha sminuito e limitato (anche se non escluso) il valore di questa testimonianza, ritenuta solo “una conferma dell’attività dell’Alberti nel campo della grammatica volgare”25; ma gli argomenti per limitare il peso della lettera
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C. Trabalza, Dipanature critiche, Bologna, L. Cappelli Editore, 1920, p. 58. C. Grayson, Introduzione a Leon Battista Alberti, La prima grammatica della lingua volgare. La Grammatichetta vaticana Cod. Vat. Reg. Lat. 1370, a cura di Cecil Grayson, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1964, p. XXV. Dopo il Grayson, la questione attributiva è passata in secondo piano, essendo in pratica risolta. Il riferimento all’Augurello non è stato più richiamato, né da Patota, né nell’edizione critica del manoscritto torinese del De natura de amore dell’Equicola (cfr. La redazione manoscritta del Libro de natura de amore di M. Equicola, a cura di Laura Ricci, Roma, Bulzoni, 1999).
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dell’Augurello non mi paiono totalmente condivisibili, e forse sull’interpretazione del Grayson pesò anche la preferenza per le prove “interne”, di carattere stilistico, grafico e linguistico, indubbiamente molto rilevanti. Abbiamo visto che all’apparire della Storia della grammatica si sviluppò un dibattito che aveva per oggetto non tanto la storia della grammatica in sé, ma la legittimità della grammatica e il suo valore o piuttosto disvalore. Secondo Croce, uno dei meriti di Trabalza era stato appunto quello di aver fornito l’occasione per un dibattito del genere26. Le osservazioni di merito sullo sviluppo della grammaticografia, quando ci furono, apparvero secondarie, posposte ai problemi metodologici. Più che giudicare quello che Trabalza aveva fatto, il quadro che aveva tracciato, si discusse se fosse lecito e utile tracciare quel quadro, se l’operazione rientrasse nell’estetica, nella filosofia, nella pratica. Qualcuno osservò che Trabalza aveva trascurato la scuola che delle grammatiche aveva fatto uso, qualcuno gli rimproverò per contro di aver fatto rientrare nel quadro anche le insignificanti grammatiche scolastiche. Vossler, ad esempio, osservò che il miglior modo di descrivere le grammatiche sarebbe stato quello che avesse tenuto conto del loro successo nella scuola, ma che Trabalza aveva volutamente trascurato tutto ciò, per privilegiare l’aspetto logico e filosofico27. Qualcun altro, come ci informa Trabalza (senza però indicare il nome del critico), affermò che questa era “una storia della grammatica senza la grammatica”28, altri ancora osservarono che una storia della grammatica avrebbe dovuto essere una storia delle regole grammaticali e non delle tendenze artistiche o delle idee filosofiche degli autori29. Ci fu chi accusò Trabalza di avere lasciato nel libro “grossi mucchi
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Croce, Prefazione a Vossler et alii, Il concetto della grammatica cit, p. VIII. Cfr. Vossler, Storia della grammatica, in Vossler et alii, Il concetto della grammatica cit., pp. 50-51. Cfr. Trabalza, Per la storia della grammatica italiana, in Vossler et alii, Il concetto della grammatica cit., p. 104. Cfr. Croce, Prefazione a Vossler et alii, Il concetto della grammatica cit., p. XV.
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di materiale erudito (ragguagli di schemi e categorie grammaticali, riassunti inutilmente lunghi di grammatiche ecc.)”30. Tutte queste critiche erano complicate dalla necessità di far quadrare i conti nel difficile rapporto tra l’ortodossia della filosofia idealistica e lo spoglio del materiale, con un peso dell’una sull’altro così forte da dare a chi rilegga al tempo nostro il senso concreto di una dittatura ideologica, di cui forse noi studiosi di oggi abbiamo visto qualche cosa di analogo solo negli anni del trionfo dello strutturalismo. Mi riferisco alla situazione in cui non si giudica il risultato, ma ci si attarda a stabilire se era legittimo affrontare un determinato campo di studio. Tocca generalmente agli epigoni, non ai maestri, portare alle estreme conseguenze le implicazioni dei metodi, quando siano presi troppo sul serio. Anche in questa occasione, quando i lettori coevi criticavano Trabalza perché aveva preteso di collocare lo storia della grammatica troppo vicino all’estetica, o perché aveva finto di non credere alle regole grammaticali, ma poi si era affidato involontariamente a un manzonismo latente, oppure aveva utilizzato senza saperlo i concetti della grammatica razionale, fu Benedetto Croce a osservare con grande buon senso che certe censure “altezzose e superficiali” provavano che si dimenticava l’ossequio dovuto a chi non risparmi fatiche per servire alla scienza, e per questa serietà di sforzi la serve anche quando talune o parecchie delle sue affermazioni siano dubbie o provvisorie o errate, e assai meglio di coloro che elevano palagi incantati e “padiglioni” di cartapesta, validi per l’“effetto” e vani per gli “effetti”31. Credo che Croce fosse ben conscio che il libro di Trabalza era destinato ad avere “effetti”, cioè era destinato a durare, o meglio, come concludeva Gentile, “bisogna riconoscere che Trabalza ha fatto opera poderosa, e nelle linee essenziali definitiva”32. A distanza da quel-
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Rossi, Storia della grammatica italiana di Ciro Trabalza, in Vossler et alii, Il concetto della grammatica cit., p. 74. Croce, Prefazione a Vossler et alii, Il concetto della grammatica cit., p. VIII. Gentile, Per una storia della grammatica italiana, in Vossler et alii, Il concetto della grammatica cit., p. 130.
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le discussioni, cadute le pregiudiziali metodologiche che rendevano allora così spinosa la discussione, che cosa possiamo dire di quelle critiche? Il ruolo assegnato alla scuola, ad esempio. Sarebbe curioso che proprio un uomo di scuola come Trabalza avesse trascurato la funzione della grammatica nella scuola. Credo piuttosto fosse attento a non scrivere una storia della scuola attraverso la grammatica, operazione possibile, ma che avrebbe escluso gran parte della tradizione grammaticale italiana, la quale è sostanzialmente estranea alla scuola anche quando assume forme di facilitazione didattica. Vorrei anzi mettere in evidenza come la sua Storia della grammatica si muova abilmente sul discrimine che separa a volte in maniera sottile la dimensione scolastica dalle intenzioni più profonde dei grammatici. Potrei citare il nesso perfettamente individuato tra la grammatica umanistica latina e la prima produzione grammaticale al servizio del volgare, l’attenzione alle prime grammatiche latine in lingua volgare (come quella del Priscianese), l’interesse per la scuola di italiano per stranieri a Siena, e poi anche l’attenzione all’insegnamento dell’italiano all’estero, ad esempio da parte del Biagioli e del Cerutti (in nota cita la biografia di questo curioso personaggio il quale ancora attende qualcuno che lo valorizzi quanto merita). Senza contare l’attenzione per le grammatiche scolastiche del Soave e del Puoti, e l’inevitabile apprezzamento per la critica alle grammatiche condotta dal giovane De Sanctis quando era insegnante a Napoli. È vero che Trabalza ribadiva che “le istituzioni scolastiche non sono […] l’oggetto diretto della nostra ricerca”33, ma in realtà la scuola non è assente, anche se gli sfuggì la collocazione scolastica del Corticelli (ad uso del seminario di Bologna) e anche se il suo il discorso si fa più sfumato e forse troppo ideologico quando l’autore avrebbe avuto la possibilità di fare i conti con la scuola dell’Italia unita, quella del cinquantennio a lui più vicino. Ma non mi sembra questa la critica che gli mossero i contemporanei.
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Trabalza, Storia cit., p. 271.
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Che la Storia di Trabalza non sia storia della grammatica ridotta alla pura dimensione tecnica, è un dato di fatto. Che essa rientri in gran parte nella storia della cultura, io lo vedo come un merito. Sicuramente il dato puramente grammaticale non è isolato, tanto è vero che questa storia della grammatica in realtà persegue un disegno più vasto, diventa un punto di osservazione sulla ‘questione della lingua’, per la quale Trabalza disponeva allora di uno strumento apprezzabile, quale era la sintesi di Vivaldi34. Inoltre Trabalza fu in grado di cogliere perfettamente i legami della grammatica con una disciplina che allora, a differenza di oggi, non godeva dell’universale favore: la retorica. Il nesso tra grammatica e retorica fu sfruttato abilmente. Mi limiterò a citare un esempio relativo all’attenzione per la sintassi. Trabalza prese atto di un fatto del resto chiaro, che le grammatiche italiane per molto tempo (almeno fino al Manni e al Corticelli) erano state assolutamente sorde ai problemi sintattici35, ma si accorse che la sintassi era trattata in un altro tipo di libro o manuale, diverso dalla grammatica in senso stretto, cioè il trattato di retorica. Con il tempo, i due strumenti erano andati via via distanziandosi, e non era più così evidente, nel Novecento, che la sintassi potesse essere terreno di studio di una disciplina diversa dalla grammatica vera e propria. Ma a Trabalza non sfuggì la relazione tra le due discipline, e di qui deriva la sua attenzione, che mi pare notevole, per la Retorica di Bartolomeo Cavalcanti, un libro da cui non è facile spremere il miglior succo, tanto e vero che Dionisotti ebbe a definirla “squallida e massiccia”36. Poi Trabalza andò a cercare la sintassi in particolari grammatiche dove si poteva trovare quella che oggi chiameremmo microsintassi, come le Particelle del Cinonio37. La retorica, ovviamente, non è utilizzata solo
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Cfr. V. Vivaldi, Le controversie intorno alla nostra lingua dal 1500 ai nostri giorni, 3 voll., Catanzaro, Tip. Caliò, 1894-98. Cfr. ad es. Trabalza, Storia della grammatica cit., p. 382. C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 1967, p. 247. Cfr. Trabalza, Storia della grammatica cit., p. 255 e p. 320. La prima segnalazione di questa attenzione del Trabalza per la sintassi nella Retorica del Cavalcanti mi è venuta dall’amico e collega Giorgio Graffi, che di
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per la sintassi, anche se definirei geniale questo passaggio. La relazione è individuata anche in altre fasi della storia della grammatica, come nell’opera del Liburnio38 e del Bembo39. Nulla di strano, in questo, trattandosi di un nesso che si impone per la sua particolare evidenza, ma merita apprezzamento la disponibilità dimostrata verso l’uso della retorica come strumento di interpretazione, non come categoria da liquidare in quanto pseudoscienza. Particolare, in questo senso, è l’interpretazione della grammatica di Bembo, dove Trabalza si accorse della caratteristica mancanza di tecnicismi crudi, la quale noi sappiamo essere tipica di questo autore, ma la interpretò a modo suo, riconoscendovi il segno di una distanza dallo schematismo e dal dogmatismo, e apprezzando il fatto che le Prose della volgar lingua preferiscano la constatazione dell’uso all’imposizione autoritaria della norma, privilegiando il si è detto così ed evitando il si deve dir così40. Trabalza apprezza Bembo anche per un altro espediente retorico, per quella che gli appare come un’ “esposizione solenne” della materia, tale da rendere piacevole l’aridità della nuda grammatica. In questo modo sfuggiva, forse, la forza di quella stabilizzazione normativa, imposta con mano che pare non aver nerbo, per parafrasare Ascoli, ma che invece è ferma e salda; forse lo stesso Trabalza rimase vittima della troppo sapiente costruzione retorica delle Prose. Un’altra relazione ben sfruttata da Trabalza è quella con la lessicografia. Viene colta, ad esempio, la natura anfibia delle Tre fontane del Liburnio, che gli appare un vocabolario più che una grammatica41. In questo caso il giudizio è limitativo, quasi a rilevare un
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sintassi e di storia della sintassi, com’è noto, è uno dei massimi esperti, e che unisce la competenza per la sincronia con l’interesse per la storia, cosa che non è da tutti. Sono lieto di poter utilizzare qui la sua indicazione, e di ricordare in questo modo gli anni del nostro sodalizio udinese. Cfr. Ibid., p. 74 n.. Cfr. Ibid., p. 79, e anche 77 per la funzione della “scelta”, della “disposizione” e del “numero”. Cfr. ivi. Cfr. Ibid., p. 84.
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difetto. Ma, poche pagine più in là, la natura eterogenea della grammatica antica viene interpretata con ben altro acume, in un passo esemplare che ancora oggi potrebbe fornire materia di indagine, quando osserva che il nesso tra le grammatiche e i vocabolari era anzi così stretto, “che non solo videro la luce insieme per opera d’un solo compilatore grammatiche e vocabolari; ma spesso nel corpo stesso o della grammatica o del vocabolario non si saprebbe discernere dove finisca l’uno e cominci l’altro […]”42. La chiave di lettura lessicografica delle antiche grammatiche, definite “zibaldoni tra lessicali e grammaticali”, fa sì che un abbozzo non banale di storia della lessicografia sia leggibile in filigrana nella Storia del Trabalza, con indicazioni preziose, forse non tutte riprese a dovere dagli studiosi di oggi (per primo chi scrive), come quando, sulla scorta di informazioni tratte dagli studi bembiani di Vittorio Cian, parlando ancora del Liburnio, e poi del Luna e dell’Alunno, Trabalza ricorda che la priorità sulle Tre fontane del Liburnio nella compilazione di liste lessicali andrebbe attribuita alla Collectio vocum Petrarchae et aliorum di Angelo Colocci43. E, a proposito di queste indicazioni raffinate di cui Trabalza abbonda, tralascio argomenti troppo facili, come il nesso tra Salviati e la Crusca, ma ricordo almeno l’accenno al vocabolario comparativo della lingua italiana e “barbara” progettato e non realizzato da Corbinelli44. Insomma, la Storia di Trabalza non isola la materia in modo riduttivo e asettico, non rifiuta le sfide che conducono lontano, su di un terreno allora più scivoloso di oggi, perché scarsamente dissodato. Trabalza si muove quasi sempre lavorando su materiale di prima mano. Benedetto Croce lo ha descritto come tenacemente impegnato a superare “le molteplici difficoltà che la vita di provincia frapponeva alla raccolta del materiale necessario”45; pur con qualche inevitabile svista, aggiungeremo noi, a
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Ibid., p. 106. Cfr. Ibid., p. 117. Cfr. Ibid., p. 235. Cfr. Croce, Prefazione a K. Vossler et alii, Il concetto della grammatica cit., p. VII.
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volte lasciata in eredità alla tradizione successiva: posso citare l’incidente esemplare dell’edizione-fantasma di Soave collocata alla data del 1770, errore che poi è diventato canonico, tanto che lo si trova ripetuto in molti studiosi, Migliorini compreso (il quale in nota citava appunto il Trabalza), errore che quasi certamente ha origine proprio qui46. Ma ovviamente sono piccoli nei, inevitabili in un libro di questa portata e di questa mole, che tocca argomenti svariati su di un arco cronologico così lungo. Quanto alla varietà degli argomenti, già abbiamo detto della capacità di cogliere i rapporti con la grammatica latina classica e umanistica, con la tradizione retorica, con la lessicografia. Aggiungo l’attenzione per le proposte di regolamentazione o innovazione grafica, per le questioni ortografiche, utilizzate nel caso specifico per istituire un collegamento anche con le anticipazioni della grammatica storica, come si vede nelle pagine dedicate al Fortunio47. Aggiungo l’attenzione per l’uso interpuntivo, non solo nei manuali, ma anche in certi autori: basti pensare alla nota dedicata ai segni usati da Petrarca48. E ancora aggiungo l’interesse per i trattati di pronuncia49. Ho accennato alla grammatica storica, alla quale guardava anche Gramsci, in una nota del Quaderno 29 in cui Trabalza è citato come fonte per studiare le interferenze tra grammatica storica e grammatica normativa50. Sono apprezzate da Trabalza le intuizioni di Castelvetro51, sul quale il giudizio è estremamente positivo, fino ad arrivare alla definizione esaltante di “grammatico più completo, per larghezza d’indagine e pel metodo, non solo di tutto il Cinquecento, ma di tutto il periodo anteriore alla moderna filologia”52. Si noti che, in questo caso, pesava il giudizio di De
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Cfr. Trabalza, Storia della grammatica cit., p. 407. Cfr. Ibid., p. 71. Cfr. Ibid., p. 45 n. Cfr. Ibid., p. 206, per il Rhoese. Cfr. A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, vol. III, Torino, Einaudi, 1975, p. 2348. Cfr. Trabalza, Storia della grammatica cit., p. 187. Ibid., p. 188.
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Sanctis, che aveva definito Castelvetro come “lambiccato e falso nelle sue sottigliezze”: Trabalza non ometteva questo giudizio, ma gli contrapponeva i risultati della saggistica più recente, il Vivaldi, il Cavazzuti e il Fusco53, assegnando a Castelvetro, a dispetto della condanna desanctisiana, uno spazio notevolissimo: le odierne riletture, nonché le frequenti riproposte editoriali di oggi, non gli hanno certo dato torto. Per contro, sostanzialmente e sorprendentemente limitativo era il giudizio espresso sull’Ercolano del Varchi, che pure si prestava a sfruttare le anticipazioni rispetto alla teoria manzoniana dell’uso fiorentino54. Potrei continuare rilevando la posizione di grande rilievo attribuita al Buommattei, ma voglio evitare che il discorso si frantumi rincorrendo i giudizi espressi su singoli grammatici, anche se spesso si tratta di giudizi che possono risultare ancora oggi in larga parte condivisibili, salvo le necessarie specifiche messe a punto, con l’eccezione, mi pare, di quello sull’età dei lumi e sui riflessi italiani del razionalismo e dell’illuminismo. Ma il discorso sui singoli autori può rientrare nell’esame della struttura e dell’impostazione generale della Storia di Trabalza, sulla sua articolazione, la quale, a mio giudizio, è solida a tal punto da essere annoverata tra i meriti principali del libro. In questa strutturazione, l’autore si muoveva solo o quasi, questa volta senza la guida del Vivaldi, o della storia letteraria, o dell’estetica. L’impianto cristallino del libro, secondo me, è proprio uno dei segreti della sua longevità. Non credo che sia facile contestarne la solidità. In rapida sintesi, i blocchi che lo compongono sono incentrati sulla grammatica umanistica fino alla Grammatichetta vaticana, su Bembo e Fortunio giustamente uniti nello stesso capitolo, su Castiglione e Trissino a loro volta appaiati, sui grammatici cinquecenteschi che seguirono la linea di Bembo o di Trissino, sui “toscani” fiorentini e senesi fino alla nascita di una grammatica toscana (Machiavelli, Tolomei, Gelli, Giambullari; più avanti, la scuola senese nel suo sviluppo, con una
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Cfr. Ibid., p. 168. Cfr. Ibid., p. 194.
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valutazione positiva del Cittadini), sul gruppo costituito da CaroCastelvetro-Varchi-Muzio (unito dalle reciproche polemiche), poi nuovamente sul gruppo toscano in cui entra il Salviati. Oltre alle polemiche attorno alla Crusca, che ritornano in due capitoli non adiacenti, ampio spazio è assegnato alla grammatica speculativa di Buommattei e al Cinonio. Segue un intero capitolo sul Vico, del quale già ho detto le ragioni. Quindi viene valutata appieno la grammatica di Corticelli, a cui segue il capitolo sulla grammatica ragionata, in cui l’apprezzamento non va ai fermenti razionalistici dell’Illuminismo nostrano, quanto al patriottismo di un Galeani Napione, che trova in Trabalza un grande estimatore. Il capitolo finale muove dalla critica alla grammatica condotta da De Sanctis e, attraverso il Purismo, arriva al Manzoni, con un cenno alla moderna grammatica storica. La posizione di grande rilievo assegnata al Manzoni quale critico della grammatica generale era appunto quella che insospettiva Giovanni Gentile, come abbiamo visto. Questo in estrema sintesi. Tuttavia, anche scorciando così il sapiente disegno del libro, si vede bene che le preferenze a favore della lingua viva, del toscano, dei precorrimenti della grammatica storica, del resto palesi e onestamente dichiarate, non inficiano il valore oggettivo di una struttura solidamente costruita e sostanzialmente valida. Inoltre in un quadro così vasto trovavano spazio anche le correnti anomale e marginali, le posizioni di minoranza, i viottoli secondari della grammaticografia. Citerei, a questo proposito, l’attenzione per l’Ateno Carlino studiato anni dopo da Maria Corti55, e l’interesse vivo per il dialetto, da parte di un autore che del resto si dedicò anche all’insegnamento della lingua proprio attraverso il dialetto, e anzi fu pioniere di questo indirizzo, con il manualetto Dal dialetto alla lingua. Nuova grammatica italiana, uscito nel 1917, ideato per le classi IV-V-VI della scuola elementare, frutto di un indirizzo impresso dal Monaci. La Storia della grammatica dedicava spazio al Varron milanes e al Prissian de
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Cfr. M. Corti, Metodi e fantasmi, Milano, Feltrinelli, 1969, pp. 217-49 (il saggio sul Carlino è del 1955).
16. La “Storia della grammatica italiana” di Ciro Trabalza
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Milan, al siciliano Mirello Mora che più tardi fu oggetto degli studi di Maurizio Vitale56. Inoltre Trabalza fu il primo che si accorse che la Dissertazione di Cesari parlava di una utilizzazione scolastica del dialetto quale via di accesso alla lingua. In seguito molti studiosi hanno ricordato questo particolare, a cominciare da Manlio Cortelazzo in quell’aureo volume su I dialetti e la dialettologia in Italia (fino al 1800), ma va dato atto a Trabalza di essere stato il primo a metterlo nel giusto rilievo57. Spero, per quanto la mia sintesi abbia necessariamente compresso e abborracciato troppi dati, di aver restituito il senso della ricchezza di questa Storia, tale da farci comprendere come mai essa non sia stata fino ad ora rifatta e superata, a un secolo dalla sua pubblicazione.
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Cfr. A. Mirello Mora, Discorsi della lingua volgare, a cura di Maurizio Vitale, Palermo, Centro Studi filologici e linguistici siciliani, 1986. Cfr. Trabalza, Storia della grammatica cit., pp. 446 e 495.
17. Dibattiti ideologici e questione della lingua. Le raccolte di canti popolari dell’Ottocento
Almeno una parte del dibattito ottocentesco sulla ‘questione della lingua’ si è svolta attraverso le raccolte di canti popolari e ha trovato in esse spunti e argomenti. Sono autori di raccolte alcuni interlocutori di Manzoni in occasione della Relazione del 1868, la quale segna il momento più acuto di un dibattito attorno all’imma gine culturale-nazionale che il giovane stato unitario voleva dare di sé, confrontandosi con le altre nazioni europee. Soprattutto la ‘questione della lingua’ emerge continuamente nelle prefazioni anteposte ai canti per giustificare e per spiegare gli scopi che si prefigge chi ha riunito i materiali, e ciò in relazione a testi toscani, ma anche a documenti provenienti da aree periferiche. La ‘questione della lingua’ e la discussione che attorno ad essa si sviluppa trovano quindi un collegamento con il lavoro svolto in quegli anni attorno alla cultura popolare, e ciò perché il problema della poesia popolare si presenta in Italia fuori della tradizione letteraria, inserito piuttosto nel dibattito linguistico-educativo. Per cogliere questo legame bisogna considerare la ‘questione della lingua’ in senso gramsciano, come questione dell’egemonia, che affiora quando in realtà c’è in discussione il rapporto fra chi detiene il potere della cultura e coloro i quali al controllo culturale sfuggono ancora. In questa prospettiva appare immediato il raccordo tra problemi linguistici o educativi e questioni patriotticonazionali. Infatti una raccolta di materiali popolari non è mai
È la conclusione di G. B. Bronzini, Unità d’Italia: lingua nazionale e poesia popolare, in “Cultura neolatina”, XXXI (1971), pp. 313-317.
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un’azione neutrale o disinteressata. Si tratta al contrario di un rapporto approssimativo e condizionato, dovuto alla natura specifica della cultura di tradizione orale rispetto alla tradizione scritta. La raccolta di materiali costituisce il tramite e la mediazione tra le due tradizioni, ma sempre, evidentemente, per iniziativa della cultura egemone. È la cultura più forte a riservarsi certi diritti: la selezione del materiale, ad esempio, e anche la definizione del concetto di ‘popolare’. Senza contare che all’esistenza di eventuali pregiudizi (non infrequenti nell’Ottocento) si accompagna il rischio di errore preterintenzionale, implicito in un rapporto che si presenta sempre come problematico, anche quando nasce e si sviluppa all’insegna di una tentata obiettività scientifica. Quando un raccoglitore ordina il materiale, le questioni accennate si traducono in scelte che definiscono la cultura popolare, perché essa è destinata a diventare, agli occhi della cultura egemone, quello che è
Cfr. gli argomenti di Santoli sulla relazione tra reperimento del materiale e intensità geografica della ricerca, da cui possono discendere giudizi errati sulla distribuzione (Nuove questioni di poesia popolare. A proposito di una raccolta di canti toscani, in “Pallante”, 1930, pp. 55-57). Alla complessa problematica della trascrizione delle raccolte del secolo scorso dedica alcuni cenni R. Leydi nell’introduzione a G. Ferraro, Canti popolari piemontesi e emiliani, edizione a cura di R. Leydi e di F. Castelli, Milano 1977, pp. 16-17, notando come i raccoglitori dell’epoca (e lo stesso Nigra) offrivano una lettura ‘poetica’ dei testi, eliminando in genere le ripetizioni di versi apparentemente inutili e giustificabili soltanto in base all’esecuzione musicale. L’omissione di queste ripetizioni è una destrutturazione del testo, in cui in realtà la musica ha una funzione formalizzante. Sulla ragione del disinteresse per le strutture musicali a vantaggio della leggibilità del testo torneremo più avanti. Basti aver dato qualche esempio del margine di arbitrarietà in cui è facile incorrere. Che dire poi del fatto che di interi settori tematici (ad esempio i canti militari di diserzione) non abbiamo notizie se non indirette (magari, dagli atti dei processi) essendo stati esclusi dalle raccolte? Che dire del problema, cui ancora fa cenno Leydi, che la distribuzione del materiale all’interno delle raccolte (canti, proverbi, filastrocche, ninne-nanne, scongiuri ecc.) finisce per separare attraverso categorie esterne quello che nella realtà popolare esiste in maniera organica?
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rappresentato dalla raccolta. La forma della raccolta diventa l’immagine che una cultura ha dell’altra, e condiziona il loro rapporto. Non senza ragione il primo motivato interesse per il mondo popolare è dato dalle inchieste napoleoniche nel Regno Italico. È vero che l’iniziativa non avrà risultati di rilievo e che saranno più tardi intellettuali che agiscono in proprio, non funzionari di una amministrazione, a dare l’avvio agli studi. Ma sta di fatto che precursore dei ricercatori autonomi è un potere politico; i suoi uomini operano come pionieri malgré eux, incontrando una resistenza dovuta a incomprensioni e a fraintendimenti da parte dei sindaci e parroci informatori, ultimo gradino del ceto intellettuale egemone, le cui risposte sono non di rado evasive, tendono a eludere le domande del questionario sottoposto. Salvo poche rimarchevoli eccezioni, l’autorità locale sente il popolo come qualche cosa di recondito, di pre-civile, di pagano; davanti all’arcaicità oscura, insignificante se non pericolosa, l’unica reazione è la reticenza. Ci si accorgerà del valore di una inchiesta del genere soltanto quando si dovranno fare i conti con le masse, nel nuovo stato italiano unitario. Nel 1894, l’anno della repressione dei fasci siciliani, Angelo De Gubernatis pubblicherà sulla “Rivista delle tradizioni popolari italiane” un documento dell’inchiesta del 1811, commentando con parole di elogio “il modo largo con cui i consiglieri del Beauharnais intendevano gli uffici e le funzioni del Governo, [che]
Cfr. A. Fabi, Documenti inediti romagnoli relativi all’inchiesta sulle co stumanze popolari nel Regno Italico (1811), in “Lares”, XVII (1951), pp. 1-16, e XVIII (1952), pp. 41-60; B. e P. Toschi, Documenti inediti sull’inchiesta napoleonica in provincia di Arezzo, in “Lares”, XX (1954), pp. 1-2, e XXI (1955), pp. 42-54. II comportamento degli informatori (che può essere ricondotto alle linee esposte, tranne la vistosa eccezione del sindaco di Bibbiena) viene giudicato ottuso e carente da quegli stessi amministratori che hanno commissionato l’inchiesta. Davanti alla ennesima risposta negativa e al fraintendimento del sindaco di Sansepolcro (che, interrogato sulle feste, risponde: “Non vi sono feste non religiose”) un funzionario della sottoprefettura di Arezzo postilla: “Bestia! si è domandato se si praticassero feste popolari” (cfr. Toschi, art. cit., p. 40).
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dovrebbe essere ammaestramento ai nuovi rettori della cosa pubblica”. L’applicabilità concreta delle nozioni folcloriche, secondo il principio di ben conoscere per ben comandare, si chiarisce come uno degli stimoli all’indagine demologica. Un raccoglitore veneto, il Righi, scriverà nel 1863 nella prefazione al suo Saggio di canti popolari veronesi che “non si possono saviamente governare le genti sotto un aspetto qualunque senza conoscerne con precisione l’intima natura” (p. XII). Il popolo è ancora sconosciuto. Ci sarà chi lo studierà per cogliere in esso le tracce delle vicende risorgi mentali, per valutarne o invocarne il coinvolgimento, chi userà il canto popolare per definire lo spessore della comune base nazional-popolare su cui si vorrebbe fondato il Regno, chi perseguirà particolarismi regionali, chi tenterà di restaurare la moralità, perduta dalle classi dirigenti, facendo ricorso alla cultura dei subalterni. Siamo ormai a un passo dalla interessata ‘ricostruzione’ del popolo attuata selezionando alcuni settori emblematici del repertorio, nei casi estremi falsificando. L’interesse linguistico si inserisce proprio nel tentativo di fondazione nazionale che si accompagna a questi studi. È prima di tutto il corollario dell’idea romantica di un popolo puro e incontaminato, portatore di valori perduti dalle classi dirigenti. Si pensi all’impostazione data da Tommaseo alla prefazione dei Canti toscani, alla polemica contro la cultura ‘accademica ‘, propria di un ceto colto che ha tralignato dai suoi valori originali, venendo meno a una grande tradizione nazionale che, fiorita nel Medioevo, i secoli seguenti hanno soffocato. I valori di moralità e purezza sopravvivono nelle aree isolate, dove il popolo conduce la sua vita incontaminata. Se ai due temi di fondo, l’antitesi cultura/natura e l’opposizione città/campagna, si unisce il ricupero della tradizione nazionale, della sua base letteraria toscana, il passaggio alla ‘questione della lingua’ è immediato: ci riferiamo a un’altra opera di Tommaseo, il giovanile pamphlet del
“Rivista delle tradizioni popolari italiane”, I (1894), fasc. 4, p. 174. Sull’applied folklore di De Gubernatis si è soffermato Cirese, Intellettuali, folklore e istinto di classe, Torino 1975, riportando l’articolo Le sommosse italiane e il folklore.
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periodo milanese II Perticari confutato da Dante (1825). In esso viene svolto un attacco contro l’italiano ‘cortigiano ‘, inteso come vanto e privilegio delle classi colte, alieno da contaminazioni volgari, cui si contrapponeva la “favella del vulgo”, con la mediazione di un argomento puristico usato in funzione filoplebea: “La corruzione della lingua incomincia sempre dalle classi più nobili della nazione”. Il dibattito sulla lingua, fin lì segnato dallo scontro tra classicisti e puristi, si anima per la prima volta di una effettiva, anche se nebulosa, aspirazione alla popolarità. Erano idee nell’aria in quegli anni, se la prima vera e propria raccolta nostrana di canti, pur minima, quella emiliana di Atanasio Basetti (1824), fatta con materiale proveniente dall’Appennino tra il ducato di Parma e la Toscana, poteva giustificare l’interesse per i prodotti umili del volgo rurale proprio ricorrendo a un argomento linguistico, alla pretesa purezza di linguaggio di quei contadini, emigranti stagionali in Toscana. L’area isolata scelta per l’indagine era considerata appunto immune dalla corruzione frutto dell’avanzare della cultura cittadina. Nella presentazione di Basetti sono dunque già presenti tre argomenti destinati a grande fortuna: la fiducia nel primato toscano, l’atteggiamento puristico, la polemica anticittadina. È qui la radice di un dissenso interno al romanticismo italiano, che si rivelerà al momento della proposta di Manzoni: dato per scontato il canone della popolarità, una soluzione alla ‘questione della lingua’ può essere filourbana o filorurale. Nel primo caso si accetta il modello francese, quello stesso modello che Tommaseo, in alcuni passi propriamente politici di Dell’Italia, aveva notato essere artificioso e non applicabile nel nostro paese,
Le citazioni sono rispettivamente da p. 5 e da p. 10 (nella riedizione moderna, N. Tommaseo, Il Perticari confutato da Dante, a cura di L. Tremonti, Roma, Salerno, 2009, le citazioni sono a p. 7 e a p. 14). Su Tommaseo folclorista si sono soffermati G. B. Bronzini, La poesia popolare nella critica del Tommaseo degli anni 1830-32, in “Lares”, 1974, e M. Puppo, Tommaseo e il mito del popolo, in “Nuova Antologia”, 1974; G. B. Bronzini, in Niccolò Tommaseo a Firenze, Atti del Convegno di studi (febbraio 1999), Firenze, Olschki, 2000, pp. 225-51.
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dove era impensabile una rivoluzione angustamente cittadina. La sua linea sarà imitata da altri raccoglitori toscani; da Giuseppe Tigri, ad esempio, il quale sosterrà che la funzione morale della poesia del popolo manca nelle città e nella pianura (esposte alle innovazioni), ed esiste solo nelle aree isolate. Nella città la lingua popolare non ha alcun pregio, perché “per la [...] intrusione (più facile che non su i monti) di vocaboli e modi de’ diversi stranieri dominatori, se ne scemò ognora più la purezza e la grazia, finché nell’ultimo secolo si ebbe per giunta la brutta mistura dei gallicismi, all’indole della lingua assai più dannosi delle spagnole gonfiezze” (Canti popolari toscani, 1856, p. X). Alla scelta popolare cittadina di livello medio, secondo il canone manzoniano, si risponde con la ‘toscanità ‘rurale’ opposta alla ‘fiorentinità’: in apparenza una maggiore apertura geografica e sociologica, in realtà una chiusura di tipo puristico, seppure di un purismo aggiornato ai nuovi miti romantici. Rispondendo al Manzoni nel 1869 dalle pagine della “Nuova Antologia”, Lambruschini rivendicava il diritto dell’area rurale toscana a costituire modello linguistico, non solo per estendere il campo lessicale (da cui altrimenti potevano restare esclusi i termini legati all’agricoltura), ma soprattutto per ragioni morali, dal momento che una larga parte del popolo cittadino era ai suoi occhi ormai corrotta. La distinzione è dunque da tracciare non tra popolo più o meno colto, ma tra “popolo sano e popolo portatore di un linguaggio spurio che è ormai sottentrato al toscano legittimo”. Proporre a modello il fiorentino vuoi dire fare spegnere del tutto “nelle città la vera lingua italiana che vi si parlava, e [che] ora si è ritirata nelle campagne remote”. Non dissimile il pensiero di Tigri, quando si dichiara convinto che il Manzoni dicendo ‘fiorentino ‘intendesse ‘buon toscano’. Il dibattito si svolge in parte, abbiamo detto, nelle raccolte di canti: assai istruttivo da questo punto di vista è un confronto tra l’edizione 1856 e l’edizione 1860 della
Cfr. E. Passerin d’Entrèves, Ideologie del Risorgimento, in AA. VV., Storia della letteratura italiana, vol. VII, Milano 1969, p. 322. Nel 2003 presso le Edizioni dell’Orso (Alessandria) è uscita un’anastatica dell’ed. 1920-21 di Dell’Italia, con postfazione di F. Bruni.
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raccolta del Tigri. Le preoccupazioni linguistiche, già vive nel 1856, si accentuano nel 1860, dando luogo a diverse modifiche: viene eliminato un poemetto rusticale considerato “rozzo”, tale quindi da far mal giudicare il linguaggio delle montagne (p. XV); nell’ed. 1869, poi, viene ritoccata la prefazione, adattata a una polemica antimanzoniana netta, anche se lasciata spesso tra le righe. Ribadito che il miglior linguaggio è quello delle colline e dei monti del pistoiese e del senese, Tigri afferma che in Toscana non esistono dialetti; il linguaggio è pregevole ovunque, ma “meglio quanto più ci allontaniamo dalle città” (p. XV). Questa frase prima mancava. Le polemiche interne alla cultura egemone per la scelta della miglior soluzione pratica ai suoi problemi di fondazione nazionale condizionano l’immagine che si vuole dare della cultura ‘altra’ e ‘diversa’ del popolo. Il pregiudizio linguistico spinge a privilegiare il repertorio lirico, il più selezionato e più vicino a un ideale di eleganza e di bon-ton lessicale, il più simile alla tradizione ‘sublime’ della classe egemone. Tigri giustifica così una selezione da cui escono come non popolari, oltre che poveri esteticamente e non additabili a modello di buona lingua, i canti narrativi, il repertorio dei cantastorie, i canti religiosi, le vite di santi. La scelta si riflette sulla definizione dello specifico popolare, che viene ricondotto a un asettico settore astorico (i temi amorosi e sentimentali), dopo che la leggenda, la deformazione della religione e la dimensione narrativa sono state espunte da uno schema rigidamente sovrapposto alla realtà. Per questa via Tigri scivola verso l’“idillio” di cui parlò Tenca e verso le “tenuità dolciastre” cui fa cenno Cirese.
Cfr. l’edizione 1869 della raccolta alla p. XXVI. Cfr. A. M. Cirese, La poesia popolare, Palermo 1962, p. 44. Se Tigri imita l’ideologia e le scelte di Tommaseo, un piemontese toscanizzato, il padre somasco Giambattista Giuliani, raccogliendo testimonianze orali di vita popolare, radicalizza le implicazioni puristiche proprie del romanticismo filotoscano. Il titolo stesso della sua opera più nota, nella forma assunta nel 1871, Moralità e poesia del vivente linguaggio toscano, rivela l’orizzonte in cui si muove. Attraverso la mediazione del Giuliani (e del Giusti) materiale lessicale popolare entra in circolo nella letteratura colta: si pensi al Faldella, che del Giuliani fu assiduo lettore.
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La linea che abbiamo messo in evidenza sottolinea certi limiti ideologici che la raccolta di Canti toscani di Tommaseo trasmette ai suoi imitatori10. Ad attenuare il peso di questa influenza negativa, si tenga presente che una più attenta considerazione dei canti corsi, greci e illirici avrebbe suggerito una diversa utilizzazione del repertorio. Qualche dubbio attraversò anche la mente di Tommaseo, stando alle annotazioni delle Scintille11. Lì si aprono prospettive nuove, ma subito riemerge il pregiudizio linguistico, perché si pro pone di raccogliere il materiale non lirico, leggende sacre e profane, testi di cantastorie, ma solo in sunto, dal momento che la lingua ha raramente grazie degne di attenzione: “Farebbe opera non inutile chi di siffatte leggende offrisse il sunto co’versi notabili: che in mezzo alla borra ce n’è”12. Non è soltanto lo scopo estetico, preva lente nella frase citata, ad avvicinare Tommaseo a nuovi settori della poesia popolare, ma l’urgenza educativa, il desiderio di raggiungere un nuovo pubblico13. La ricerca dei materiali si affianca così alla proposta di scuole popolari, alla polemica contro la letteratura per “la gente in cappello”, alla questione “della lingua e dello stile”, che anch’essa emerge subito, fatalmente collegata a questi problemi14. Troveremo argomenti analoghi nei romantici lombardi. Ma Tommaseo diventerà un modello non per queste pagine, quanto per la chiusura che c’è obiettivamente nei Canti toscani.
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In area toscana, prima della positivista raccolta di G. Giannini, solo un’opera di G. Nerucci, il Saggio di uno studio sopra i parlari vernacoli della Toscana, Milano, G. Fajini e C. editori, 1865, saprà sottrarsi all’ipoteca del riduttivismo lirico astorico. Si tratta di una via di mezzo tra la raccolta di canzoni popolari e la ricerca dialettologica. L’oggetto scelto, il vernacolo di Montale (Pistola), limita e precisa il campo di indagine, che risulta esteso fino ai testi narrativi e alla letteratura semipopolare e ai fogli volanti, in parte legati alle vicende risorgimentali. Cfr. N. Tommaseo, Scintille, Lanciano, Carabba, 1916, pp. 217-218. Ora si dispone di un’eccellente edizione delle Scintille a cura di F. Bruni, Fondazione P. Bembo/Guanda editore, 2008. Ivi. Cfr. Ibid., p. 121. Cfr. Ibid., p. 122.
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Una delle ragioni dell’attenzione ‘poetica’, rivolta alla sola lettura del canto popolare inteso quale ‘testo’ (regolarizzato rispetto agli accidenti della funzione melica), fenomeno così vivamente deplorato dai moderni etnomusicologi, sta dunque nell’ottica particolare con cui questi ricercatori scrutavano l’oggetto, valutandolo o nel semplice contenuto, morale e psicologico, o usandolo quale pezza d’appoggio per polemiche linguistiche. Si tratti della purezza del toscano o si tratti del fondo comune di italianità sepolto nei dialetti, ai folcloristi del tempo premeva salvare la dignità linguistica del materiale (valutata, è logico, secondo canoni che non sono i nostri), tanto più che essa costituiva una delle giustificazioni della ricerca. La funzione esemplare è attribuita alla poesia, non alla prosa. Ad esempio le raccolte di novelle da questo punto di vista non interessavano. Ad esse si arrivò tardi, in clima positivista (De Gubernatis, Comparetti) quando le questioni di lingua non destavano più interesse. Addirittura le raccolte di novelle toscane potevano essere usate non come ‘modello ‘linguistico, ma come esempio di negatività: è il caso della Novellaja fiorentina di Vittorio Imbriani (1877). Il raccoglitore, reduce da una polemica antimanzoniana svolta al tempo della Relazione15, evidenzia difetti, barbarismi, sgrammaticature. Si direbbe che provi gusto a usare la sua famosa trascrizione stenografica quale prova ineludibile della distanza che separa la lingua ‘aulica’ e ‘illustre’ dal linguaggio parlato dal popolo. Anche il rigore filologico diventa insomma un’arma contro i fautori della lingua popolare. Nella breve dedica premessa alla prima edizione del libro, avvertendo della propria fedeltà alle fonti orali, dichiara esplicitamente: “non crediate che veramente in Firenze non ci sia vernacolo e si pronunzino le parole nella forma aulica e senza smozzicatura alcuna, come c’è chi vorrebbe far credere”16. Le imperfezioni del
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Cfr. C. Marazzini, II ‘gran polverone ‘attorno alla Relazione manzoniana del 1868, in questo stesso volume. V. Imbriani, La novellaja fiorentina con la novellaja milanese, a cura di I. Sordi, Milano 1976, p. 5 (si tratta di una riproduzione dell’edizione 1877).
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linguaggio non spingono Imbriani a intervenire sui testi raccolti, come non si era peritato di fare un altro raccoglitore di novelle, Gherardo Nerucci; gioca qui la fedeltà agli ideali scientifici che saranno compendiati da Müller nella lettera a Pitrè del 1881: “un collettore, il quale ritocchi e abbellisca una novella, andrebbe frustato; un uomo poi che inventa una novella e la pubblica per genuina, andrebbe fucilato”17. La raccolta di canti di Tommaseo è presa a modello da tutti; salvo in pochi casi (uno è il Saggio di Nerucci) fa scuola, e non solo in area toscana. La segue Lionardo Vigo nella sua Raccolta di canti popolari siciliani del 1857, ripubblicata poi come Raccolta amplissima, ma non sostanzialmente modificata nell’impianto nonostante le aggiunte, nel 1870-74. L’imitazione si accompagna qui ad un gusto antiquario di stampo settecentesco e a una notevole disinvoltura filologica, che ci è nota attraverso le denunce di Capuana18. Più importante, dal nostro punto di vista, è la tendenza a inventare il popolo a propria immagine e somiglianza a scopo regionalistico, e a ricostruire, per la stessa ragione, una fantasiosa storia linguistica del dialetto siciliano, facendone un antenato del latino19. Queste premesse gettano sui canti raccolti una luce particolare, perché essi, in questo modo, diventano un arcaico documento emergente dalla notte dei tempi, conservato intatto, dal momento che il “popolo re” tramanda il suo patrimonio incontaminato dalle corruzioni. Contro questo disegno, finalizzato al recupero di valori regionalistici a prezzo di forzature storiche, polemizzava Costantino Nigra, non solo contestando le “screditate e viete teorie” del Vigo, ma soprattutto suggerendo temi alternativi
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“Archivio per lo studio delle Tradizioni Popolari”, I (1882), p. 7. Cfr. G. Cocchiara, Popolo e letteratura in Italia, Torino 1959, p. 245. Secondo Vigo, il siciliano è legittimo discendente del linguaggio dei Siculi, dominatori dell’Italia prima dei Greci e dei Romani; questo popolo, respinto nell’isola da popolazioni umbre, vi avrebbe mantenuta viva la propria lingua (divenuta per intanto fondo comune di tutte le lingue d’Italia, incluso il latino) facendola sopravvivere alle invasioni romana, araba e normanna.
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su cui indirizzare gli studi. Si trattava di affrontare in maniera sistematica il problema delle origini e dell’epoca di formazione della poesia popolare, di valutare il rapporto con la poesia colta (problema sentito vivamente da Nigra per l’area meridionale, in cui lo colpivano sfavorevolmente i metri e la misura endecasillabica dei versi), di tenere conto degli influssi provenzali e arabi20. Il suggerimento si basava già sulla differenziazione dell’area settentrionale da quella meridionale, l’una caratterizzata da una poesia oggettiva, storica, cavalleresca, l’altra più dotta, definibile per l’assenza del tipo epico-lirico, più che per le proprie caratteristiche specifiche. Anche negli ambienti culturali lombardi, attorno alla metà del secolo, ‘questione della lingua’ e canti popolari sono temi compre senti e complementari. Eppure le osservazioni brillanti di un Tenca e di un Correnti non vengono dall’esperienza acquisita nella ricerca sul campo; sono interventi che nascono come meditazione sul già fatto, e forse per questo sono rimasti marginali in quanto a efficacia diretta sugli studi di poesia popolare, la cui linea maestra passa direttamente dalla partecipazione affettiva di un Tommaseo alla puntigliosa e neutrale attenzione dei positivisti. Anche questo spiega la crisi (ideologica, non certo quantitativa) degli studi del settore nell’ultimo scorcio dell’Ottocento, destinata a concludersi con la svalutazione crociana. In Tenca e in Correnti vi è un’esigenza educativa non diversa da quella che muove il miglior Tommaseo (anche se espressa con più realismo); si vogliono raggiungere con un rinnovamento culturale nazionale settori ignorati e zone trascurate, mai apparse alla ribalta della storia. L’interesse per il mondo contadino porta in una direzione paragonabile a quella esplicitata in un testo come il Frammento sulla rivoluzione nazionale di Nievo, in cui il rapporto tra classe dirigente e masse contadine viene visto nella sua urgente e drammatica attualità. In sostanza è un invito a conoscere e a studiare la realtà delle plebi rurali e a inserirle nella
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La recensione di Nigra fu pubblicata sul settimanale “II Mondo letterario”, n. 4 del 25 gennaio 1858.
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vita civile, tirandole dalla parte del progresso: lo stesso problema prospettato da Correnti nel Nipote del Vesta Verde, proprio in relazione alla “cultura popolare” e alla “biblioteca del popolo”, tema che affiora anche in alcune raccolte di canti dell’epoca, quali quelle del Marcoaldi e del Righi. Tenca, recensendo i canti del Tigri e riconoscendone i gravi limiti, propone di fondare, attraverso questo genere di studi, una “storia delle contadinanze italiane”. Correnti vuole costruire un ideale programma di educazione popolare in cui usi, canti, leggende, tradizioni, servano come avvio e mediazione indolore per passare poi a una saggia e graduale acculturazione. Il mondo della città, attraverso una oculata politica industriale, non deve farsi scrupolo di scardinare la realtà rurale (qui la differenza rispetto a Tommaseo), pur conservandone la fondamentale ‘sanità’21 . L’importante è stringere con questa parte della nazione nuovi rapporti. Non a caso Correnti è l’autore del ‘manifesto’ della letteratura rusticale, che propone alla letteratura colta di ricongiungersi con la realtà contadina e popolare22. Questo stesso atteggiamento, cautamente innovatore, attento a non rinnegare il passato, lo guida nel suo intervento sui rapporti lingua-dialetto, pubblicato sul Vesta Verde nel 185823. È una polemica antipuristica e antiaccademica, ma anche antimanzoniana, perché diretta contro l’egemonia culturale francese implicita nel tentativo di cercare in Italia un equivalente di Parigi. Correnti sviluppa al contrario le conseguenze della teoria del “fondo comune di modi, di proverbj, d’immagini e di idiotismi, che ponno, anche a scegliere quegli soltanto che trovano già rispondenze ed addentellati nella lingua illustre, fare il più ricco e brioso e svariato idioma popolare che sia al mondo” (p. 237). L’obiettivo è “far sì che i dialetti, risguardati fin qui come corruzioni e cancrene della lingua nazionale, si mutino in serbatoj di nuova vita, in vene di succhio fecondatore, in esperimenti e indizj d’un’ottima forma
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Cfr. il dialogo di C. Correnti L’Agricoltura, il Commercio, l’Industria, in Scritti scelti in parte inediti o rari a cura di T. Massarani, vol. II, Roma, Forzani e C. tipografi del Senato editori, 1892. Cfr. la prefazione di I. De Luca al Novelliere campagnolo di Nievo, Torino, Einaudi, 1956, p. XX e ss. Ora in Scritti cit., vol. IV, 1894, p. 231 e ss.
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di letteratura popolare” (p. 239). Siamo al punto di congiunzione, come nel Saggio del Nerucci, tra le necessità politico-ideologiche e le nuove metodologie. Le ricerche dialettologiche, folcloriche e linguistiche, svolte in ogni regione, devono convergere al fine di far conoscere per permettere di intervenire. La posizione linguistica è simile a quella di un Faldella o di un Manzoni ‘lombardo’: “Quanti vocaboli e quanti modi che non avreste osato scrivere come troppo lombardi, vi verrà fatto di riscontrarli, salvo le differenze delle pronunzie, sulle bocche di tutti quasi i volghi d’Italia! Quanti altri, oscuri adesso e fuligginosi, potrebbero rinettarsi, chiarirsi e raffazzonarsi col ravvicinarli ai modi e ai vocaboli d’egual significato che corrono negli altri dialetti! Io non so idioma che più del nostro possa giovarsi delle immagini varie, calzanti, evidenti, trovate e fraseggiate dai nostri popoli” (pp. 240-241). I dialetti sono insomma “lingue minori, le quali vengono ora a metter capo nella lingua nazionale” (p. 244). Siamo lontani sia dal filotoscanismo rurale della linea Tommaseo, Tigri, Lambruschini, sia dalla soluzione d’urgenza del Manzoni, che punta all’acculturazione forzata, e vede nelle tradizioni regionali un avversario da battere. Dietro l’idea del Correnti c’è piuttosto una aggiornata teoria ‘cortigiana’; il suo intervento sui dialetti ne è un estremo e dignitoso sviluppo (non isolato: altri saranno nelle polemiche antimanzoniane i sostenitori della mescolanza dei dialetti, ad esempio Quintino Sella e Giuseppe Brambilla), in cui la novità è il trasferimento del mandato dai ceti colti, dai letterati, dalle corti, alle masse popolari: tocca al popolo svolgere quella funzione che in passato è stata riservata ad ambienti ristretti ed élites. L’ipotesi teorica viene allargata nella misura in cui si auspica l’estendersi dell’area dell’egemonia. Questa problematica ha una corrispondenza nella prefazione al Saggio di canti popolari veronesi (Verona, Tipografia Zanchi, 1863) del veneto Righi. Quasi tutte le informazioni su cui poggia la sua conoscenza del problema della lingua popolare vengono da un libro di Pier Vincenzo Pasquini24, un mediocre sostenitore di teorie manzoniane moderate, ma
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Dell’unificazione della lingua in Italia, Milano 1863 (l’opera fu ristampata i con aggiunte dal Le Monnier nel 1869).
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senz’altro trattatista ‘risorgimentale ‘, forse tra i più direttamente coscienti del rapporto tra la ‘questione della lingua’ e le esigenze dell’unificazione. Righi segue dunque la tematica di questo libro: la priorità del toscano, la funzione ormai marginale dei dialetti nello stato unitario; ma, proprio perché raccoglitore di materiali popolari periferici, non può non rifiutare il livellamento linguistico, cui risponde con un cauto rilancio della teoria ‘cortigiana’, cauto anche perché in quegli anni è sentito vivamente il rischio di apparire antiunitari. Ne derivano argomenti non dissimili da quelli del Correnti: si parla di ‘conciliazione’ tra la linea ‘cortigiana’ e quella ‘fiorentina’, ottenuta tramite l’innesto dei dialetti nella lingua toscana, da cui risulterà la “lingua comune parlata” (p. XIX), come già vi è la lingua comune scritta creata dai letterati: In onta al garrire sdegnoso dei grammatici e dei retori il popolo salverà dall’oblio i vezzi più cari dei suoi varii idiomi facendoli entrare nella lingua parlata comune, riescirà senza fallo in quanto fu con dubbio successo finora azzardato da parecchi scrittori fra i quali Alessandro Manzoni che tentò legittimare alcuni idiotismi del lombardo dialetto [...] Ma se ne verranno salvati i pregi più cari, pure l’insieme dei dialetti sparirà poco a poco in intero, e col loro disparire si cancelleranno puranco le originalità più spiccate delle nostre provincie, onde urge stabilirne in modo imperituro la ricordanza per valersene alli scopi accennati (pp. XIX-XX).
Gli scopi accennati sono quelli da cui prende le mosse l’attività di folclorista del Righi, convinto della necessità di studiare “il genio e i costumi” della nazione nelle aree periferiche, dove ancora si manifesta un’individualità che il livellamento della civiltà moderna fatalmente distrugge. L’argomento, tratto da Rousseau, porta a un sentimento archeologico delle tradizioni popolari. Il mondo contadino è colto quasi alla vigilia di una catastrofe, pur necessaria e positiva in quanto conseguenza della civiltà. Pensieri analoghi attraversavano forse la mente di Giuseppe Ferraro quando, nella prefazione ai Canti popolari del Basso Monferrato (1888), scriveva che i dialetti rappresentano lingue e civiltà diverse, destinate a tramontare: “poiché col progredire della lingua nazionale i dialetti scompajono, urge raccogliere le medaglie linguistiche prima che la ruggine le consumi” (p. IX). Le medaglie erano i canti, le novelle, i
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giochi, i proverbi, tutto un mondo che veniva visto in trasformazione a causa del premere dell’italiano sulla poesia dei cantastorie e di conseguenza sul popolo stesso. Ferraro annota i primi sintomi della nascita dell’italiano popolare e malinconicamente scrive: “Come gli Dei, la poesia popolare ed i dialetti se ne vanno; quindi urge tenerne conto” (p. XV). Analogamente Righi attende dall’unificazione politica un mutamento del quadro della cultura popolare, e ritiene che ciò sarà possibile perché anche dei canti “varie sono le appellazioni e le forme a norma delle differenti provincie, ma nel fondo di tutti si ravvisa quella consonanza medesima che pure in onta alla disparatissima loro fisionomia esiste anche nel fondo dei suoi molti dialetti” (p. XX). Su questa teoria del ‘fondo comune’ della cultura popolare italiana si era soffermato anche il Lombroso, occupandosi incidentalmente di canti e traendone conclusioni di buon auspicio per l’unità appena raggiunta25. Si tratta in fondo di un topos che condiziona gli interessi demologici risorgimentali. Ad andare più in là, con insolita chiarezza e con notevole pre scienza, era stato un raccoglitore isolato e pressoché sconosciuto, l’ovadese Domenico Buffa. Pioniere della raccolta di canti popolari in Piemonte, non arrivò mai a pubblicare i suoi studi, cortesemente respinti da Tommaseo, appena citati da Marcoaldi, poi utilizzati da Nigra per la stesura dei Canti popolari del Piemonte. In alcune pa gine appena abbozzate in margine al manoscritto Raccolta di can zoni popolari egli, come gli altri della sua generazione, si pone il problema del ‘fondo comune’, della comune italianità del popolo della penisola: Chi scrive in puro dialetto sono autori di tavolino; il popolo non canta né strambotti né canzoni in dialetto puro; in tutto esso
25
Cfr. l’articolo Tre mesi in Calabria, in “Rivista contemporanea”, XI (1863), vol. 35, pp. 399-435. La sua spiegazione del ‘fondo comune’ è diversa: lo attribuisce alla “storia naturale anatomica”, cioè a un condizionamento climatico-ambientale. Anch’egli conclude però che “questa analogia dei nostri canti è una nuova conferma dell’Unità Italiana, e tale che niuna vicenda politica potrà scancellare” (p. 416).
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tende ad italianizzarsi. Segno che in fondo anche coloro che non sanno che i mille dialetti che si parlano in Italia sono uniti da una sola lingua nazionale, pure tendono ad essa per un sentimento quasi ingenito.
Ma questo argomento non lo soddisfa che per un attimo: Questa ragione è falsa a quel che ora mi pare; non è un sentimento ingenito quasi tradizione di un’antica lingua spenta che li spinge ad italianizzare più che possono le parole, ma il vedere che nelle cose sociali le più rispettate e venerate come le cose civili (contratti, giudizii, sentenze ecc.) anzi queste specialmente sono trattate in italiano, il che ha fatto acquistare ad esso non so che di signorile sopra i dialetti. La provincia dell’alta Italia ove le poesie popolari italianizzano meno è il Piemonte: infatti nel basso popolo anche nelle città si può facilmente incontrare chi non capisca punto l’italiano, il più piano e semplice. Dicendo io in Torino alcune parole italiane ad un uomo del popolo, mi disse che non intendeva il parlar foresto. Questo accaderà difficilmente nel Genovesato e nella Lombardia. Perché la Lombardia abbia questo vantaggio sul Piemonte non saprei dirlo, ma ristringendomi al Genovesato, osserverò che tre ne sono le ragioni: l’una consiste nel dialetto stesso il quale si avvicina più assai del piemontese alla lingua madre, giacché oltre il non esser raro incontrarvi parole puramente italiane, v’è anche questo di caratteristico al dialetto, che tutte le parole di esso sono piane come l’italiano e non tronche come nel dialetto Piemontese. L’altra ragione consiste in ciò che un gran mezzo di propagazione comune essendo le istituzioni religiose, il Genovesato deve averne ritratto maggior vantaggio perché la religione vi è coltivata più assai che nel Piemonte in generale, dove non occorrerà mai di vedere una così costante e generale assiduità alla chiesa. Di più nel Genovesato se ne eccettuiamo la dottrina del dopopranzo delle domeniche, la quale suole farsi in dialetto, tutto il resto si fa sempre e per tutto in italiano; laddove in Piemonte ne’ piccoli paesi facilmente si trova che il dialetto nelle chiese è adoperato più che l’italiano. Io stesso ebbi a sentire in un paese sopra Cuneo un panegirico de’ SS. Crispino e Crispiniano, il quale oltre le grosse bestialità di cui era tutto tempestato, era anche anfibio, cioè né italiano né piemontese, attesoché l’oratore, secondo gli garbava meglio, recitava ora parecchi periodi d’italiano al modo suo, ora parecchi altri in puro dialetto. E v’è finalmente una terza ragione ed è che i Genovesi ne’ tempi passati
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per le guerre e pel commercio furono in continua relazione colla Toscana, il che non poteva fare che non lasciasse finalmente nel dialetto stesso un’impronta di Toscano. Mentre al contrario fino ab antico il Piemonte ne’ suoi interessi fu volto sempre a’ paesi dove si parla francese come è la Savoia. [...] Per la verità, essendo partiti dagli strambotti, trovo che le riflessioni ci hanno tirati assai lontani, ma con un salto gigantesco (ci costa poco) saremo di nuovo a bomba. Se adunque il popolo tenta nelle sue poesie di italianizzare più che può, proviene dacché il popolo ha rispetto per la poesia e si sforza perciò di nobilitarla il più che può; ora come farlo meglio che rivestendola di una lingua adoperata nelle cose più venerate?
E altrove annota: Osservo anche che l’idea che la lingua italiana sia la lingua di tutti è radicata anche nel popolo dei paesi dove si parlano i dialetti di essa più bastardi; perché il popolo infatti tenta nelle sue canzoni di introdurre sempre delle parole italiane, e tenta anzi di parlare italiano. Inoltre la donna da cui tolsi i seguenti strambotti, vedendo una sua figlia sorridere perché ella dettava ed io scriveva, le disse: sta’ queta, non foss’altro cogli strambotti s’impara a parlar bene; ella intendeva: a parlar la lingua vera, la lingua dotta, o italiana.
Abbiamo indugiato nel riportare i passi del Buffa perché sono praticamente sfuggiti all’attenzione degli studiosi del folklore e della storia linguistica italiana26. Per un uomo della metà dell’Ottocento arrivare a queste conclusioni significa precorrere i tempi. Si tratta tra l’altro di una testimonianza sull’italiano popolare
26
Furono pubblicati invero in una sede di non facile reperimento: cfr. E. Costa, Tommaseo, Nigra e la “raccolta di canzoni popolari” del Piemonte di Domenico Buffa, in “Archivio storico del Monferrato”, I (1960), nn. 1-2, pp. 107-29, da cui abbiamo tratto i passi citati (pp. 126129). Cfr. ora D. Buffa, Canti popolari, ed. a cura di A. Vitale Brovarone, Torino, Centro Studi Piemontesi, 1979.
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intorno al 1850 degna della massima attenzione, oggi che al canto ricorriamo anche come prova della penetrazione della lingua tra la gran massa dei parlanti27. Il fenomeno avrà il suo sviluppo all’inizio del Novecento, con la grande guerra e l’emigrazione; ma le brevi note di un Ferraro, di un Righi, e meglio di tutte questa di Buffa, ci avvertono che esso era in sostanza già avviato, e i grandi sconvolgimenti demografici non fecero che accelerarlo e condurlo ai suoi risultati definitivi. Nelle pagine che abbiamo lette, l’analisi del rapporto lingua-dialetto travalica finalmente, rispetto a un Tommaseo, ma anche rispetto a un Tenca e a un Correnti, gli angusti confini di bilancio o ipotesi sul dare e sull’avere, e viene visto nell’ottica corretta di un’azione svolgentesi attraverso modelli unificanti, dotati di prestigio agli occhi del parlante. È un risultato a cui arriva, non a caso, un raccoglitore di canti popolari, usando il materiale che ha sottomano28. Del resto il legame tra storia linguistica e storia della poesia popolare veniva intravisto anche da altri, dal Rubieri, ad esempio, pur se nella stesura definitiva della sua Storia sarebbe stato collocato in secondo piano. Ben diverso era il progetto iniziale, a quanto scrive nelle sue memorie: Dalla moltitudine ed importanza di poesie popolari italiane venute in luce negli ultimi tempi fummo tratti il Vieusseux ed io nell’idea di farne subbietto a una rassegna per l’Archivio Storico. Io qualche anno fa mi vi accinsi, ma mi vidi presto trasportato in campo larghissimo perché dovei convincermi che mal si può disgiungere il discorso della poesia popolare da quello della lingua,
27
28
Cfr. T. De Mauro, Per lo studio dell’italiano popolare unitario, in AA. VV., La lingua italiana oggi: un problema scolastico e sociale, a cura di L. Renzi e di M. Cortelazzo, Bologna 1977, pp. 147-64. Buffa ha lasciato tra i suoi inediti diverse notazioni di interesse lin guistico, tra cui il saggio Relazione tra la lingua italiana e i suoi dialetti (1841). Grazie alla cortesia del dott. Gian Domenico Buffa, discendente dello studioso, ho potuto accedere all’archivio della famiglia, ma il citato saggio risulta per ora smarrito.
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cioè dei dialetti e la parte materiale di essa dalla parte morale. Per tal modo l’articolo si convertì in libro sotto il titolo: Storia della lingua e poesia popolare d’Italia dalle sue più remote origini al presente stato29.
L’opera del Rubieri esce in un’epoca ormai caratterizzata da altre novità, dal fiorire degli studi positivistici. Canto popolare e problemi linguistici si troveranno collegati non più attraverso il dibattito ideologico intorno alla ‘questione’, sulla quale nell’ultimo ventennio dell’Ottocento la discussione si spegne, ma semmai attraverso gli apporti della linguistica scientifica, bene esemplificati dall’uso da parte di Nigra del concetto di ‘sostrato’ e dalla tecnica comparativa applicata all’area europea. Anche fuori del campo ristretto della raccolta dei materiali e anche nell’attenuamento ideologico proprio di questi nuovi metodi, lo studio del canto popolare si dimostra sempre operazione delicatissima; dal quadro rigoroso del Nigra, purtuttavia segnato dalla valutazione preferenziale del materiale suscettibile di un’interpretazione ‘storica’, si delinea l’immagine interessata di un popolo forte, a cui inevitabilmente è stato demandato il riscatto d’Italia. Se ne accorgeva già Rubieri, sensibilissimo alle peculiarità psicologiche regionali, che, ancor prima della pubblicazione dei Canti popolari del Piemonte, ma avendo già letto gli studi preparatori di Nigra, notava come “il popolo subalpino fu il solo che in Italia conservasse nel carattere proprio e della propria poesia quello spirito cavalieresco che era al tempo stesso auspicio, intento ed arra di redenzione politica”30.
29 30
II passo è citato dalla biografia del Rubieri scritta da A. Lumini (La vita e gli scritti di E. Rubieri, Firenze, Editrice C. Ademollo, 1883, p. 111). E. Rubieri, Storia della poesia popolare italiana, Firenze, Barbèra, 1877, p. 538. Se ne accorgeva anche Tommaseo, come ha fatto notare B. Terracini nell’articolo Rileggendo i “Canti popolari del Piemonte” (ora in I segni, la storia, a cura di G. L. Beccaria, Napoli 1976, p. 159). Tommaseo raccomandava al De Nino (cito da Terracini, I segni cit., p. 159): “Raccolga i Canti o storici proprio o accennanti pure indirettamente alla storia, ancora non compiuti e non belli, giacché di questi abbiamo in Italia scarsezza deplorevole, segno sinistro. Il signor Nigra, l’ambascia-
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L’osservazione era posta in un contestò dedicato a disegnare con malcelato rammarico la tavola delle assenze del canto popolare nazionale, privo (a parte, appunto, il Piemonte) di una poesia guerresca, privo di temi politici, caratterizzato anzi, a quanto notava a malincuore (incerto se attribuire il fatto al carattere psicologico della popolazione o al malgoverno), dall’“avversione alla vita militare” e dall’“apatia politica”31. Su questi problemi si soffermava nella conclusione dell’opera, affrontando la rifondazione della ‘popolarità’ nello stato unificato: non si trattava di soffocare le tradizionali locali, di eliminare i dialetti e di fondere in un unico crogiuolo le varie e multiformi manifestazioni di identità, quanto di ottenere una via di mezzo fra la tradizione contadina che “nulla discerne al di là de’ confini del proprio podere”, e la vivacità della poesia cittadina, che, pur essendo (si noti) “la peggiore e meno legittima parte di poesia popolare”32, è l’unica che in qualche modo si allarghi su di un orizzonte civile. Siamo al punctum dolens della trattazione di Rubieri, a leggerlo nel senso giusto: se il canto è un sintomo del pensiero e della mentalità popolare, come mai il Risorgimento si è compiuto in una totale assenza di poesia politica? La risposta è ovvia, anche se Rubieri evita di affrontarne direttamente le conseguenze. In fin dei conti, dice, nessuno può credere che la poesia popolare sia “una potenza o tanto meno un esercito” (p. 684); essa è un sintomo: se abbiamo avuto l’effetto senza il sintomo, ciò è da attribuire alla corruzione dei governi,
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tore, ne ha di Piemonte raccolti non pochi e notabili, perché, sebbene schiatta mista e paese soggetto ad influssi stranieri, il Piemonte dimostra anche in ciò di essere più nazione”. A Nigra stava a cuore naturalmente il problema delle origini, e per ‘canto storico ‘si può intendere una tipologia di cui Donna lombarda è l’esempio emblematico; ma altri sentimenti affiorano quando raccoglie canzoni palesemente legate a fatti di storia in qualche modo moralmente esemplari. Ad esempio, commentando il n.143 della raccolta, II barone di Leutrun, annota: “Ecco una canzone che fa onore al popolo che la canta e al prode soldato che la inspirò”. Cfr. i titoli dei capitoli VIII e IX della parte 3a della Storia. Per le due citazioni cfr. rispettivamente Rubieri, op. cit., p. 682 e p. 680.
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che del resto non hanno soffocato del tutto la “latente virtù”, rimasta viva nel popolo piemontese, manifestata nel canto epicolirico su temi tragici e storici. L’ottimismo era in quel momento d’obbligo, ma le preoccupazioni per il futuro si manifestano subito dopo, nelle pagine conclusive della Storia. L’argomento discusso, (l’urgenza di coltivare e di guidare in senso nazionale le tradizioni popolari) mostra quanto l’autore sentisse i limiti del proprio ottimismo di maniera. Non a caso l’opera di Rubieri sarebbe servita da spunto a Gramsci per tornare su questi problemi. Intanto anche la storia della tradizione lirica veniva riportata da D’Ancona nel suo saggio sulla Poesia popolare italiana (1878) a uno sviluppo omologabile, geograficamente e cronologicamente, a quello della poesia colta, suggerendone così l’integrazione nell’ambito dei valori culturali ufficiali. La nostra ricognizione, con la sua ottica particolare, ha inevi tabilmente prodotto deformazioni di prospettiva, giustificate dal tentativo di cogliere il ‘nodo’ che lega i problemi linguistici all’attività dei raccoglitori di canti. Un risultato negativo di questa ricostruzione, nella sua ottica particolare, sta nel fatto che il grande rinnovamento metodologico e l’importante lavoro della filologia dell’ultimo trentennio del secolo non trovano un’adeguata collocazione. La formazione dell’unità nazionale vede nei documenti esaminati alcune delle esigue tracce che testimoniano un tentativo, presto rientrato, di portare il Risorgimento al di là di un cambio di potere al vertice, offrendo al movimento politico le basi di informazione per progettare la nuova società e per coinvolgere le masse contadine. Le discussioni sulla lingua popolare e il dibattito sul dialetto si riducono in sostanza a questo. È una storia più di ideali e di illusioni che di concreti risultati, perché le indagini sul popolo, anziché essere utili per fondare una letteratura nuova destinata a larghe masse di utenti, falliscono in genere addirittura il loro scopo primario di descrivere obiettivamente una realtà culturale ‘altra’. La letteratura per il popolo non verrà comunque dai romantici filoplebei né dal realismo sociale lombardo, semmai da manzoniani seguaci di un moderato ma netto ideale di acculturazione. Le masse che sfuggiranno anche all’allargamento di pubblico dovuto al nuovo status antiaccademico della prosa italiana, istituzionalizzato dai Promessi sposi, resteranno fuori dalla storia
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culturale fino a tempi recentissimi, e costruiranno la loro nuova identità attraverso enormi e patiti sommovimenti, dalla grande guerra all’emigrazione: da queste occasioni storiche, non certo dall’intervento illuminato di amici del popolo o dai tentativi di pionieri bene intenzionati, nasceranno conquiste culturali, e anche le forme di un nuovo italiano popolare destinato a far tramontare le discussioni sulla lingua da consegnare ai nuovi italofoni.
18. Per la retrodatazione di “astrofilo”
Il termine astrofilo è stato oggetto, trent’anni fa, di una scheda di Romolo Mazzucco, pubblicata su “Lingua Nostra”, nella quale si segnalava la data della prima attestazione, il maggio 1900. In tale mese, infatti, uscì il primo fascicolo della rivista di divulgazione astronomica “L’astrofilo”, fondata dal capitano Isidoro Baroni (1863?-1930), che fu anche traduttore italiano de Le stelle di Flammarion. Il Mazzucco, fornendo questa interessante notizia, non diceva però che il merito dell’ingresso del termine nei dizionari va riconosciuto a Bruno Migliorini, che incluse astrofilo nell’appendice del 1942 all’ottava edizione del Panzini, con la definizione “Chi si diletta di astronomia”. Di lì la passò al Battisti-Alessio (I vol., 1950), al primo volume del Grande Dizionario “Battaglia” (febbraio 1961, senza esempi, con la definizione “dilettante d’astronomia”), e a Le parole nuove di Migliorini (Milano, Hoepli, 1963: ancora “chi si diletta di astronomia”), diventando così voce stabile in tutti i vocabolari italiani. È oggi di largo corso, adottata fra l’altro nella denominazione di molte importanti associazioni amatoriali, in primo luogo l’UAI, l’“Unione Astrofili Italiani”, che, presentando se stessa nel sito Web, si limita però (ne vedremo il motivo) a una definizione strettamente etimologica: “Da oltre trent’anni gli astrofili, cioè coloro che amano il cielo, siano essi professionisti che dilettanti, di qualsiasi età, professione e livello culturale, hanno nell’Unione Astrofili Italiani un
R. Mazzucco, Astrofilo, in “Lingua Nostra”, XLII (1981), pp. 125-26. Cfr. A. Panzini, Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni, ottava edizione, postuma, a cura di A. Schiaffini e B. Migliorini, con un’appendice di cinquemila voci e gli elenchi dei forestierismi banditi dalla R. Accademia d’Italia, Milano, Ulrico Hoepli, 1942, p. 768.
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chiaro punto di riferimento culturale, organizzativo, motivazionale. L’Unione Astrofili Italiani, con alcune migliaia di soci individuali e oltre 150 associazioni aderenti, è tra le più importanti associazioni astronomiche europee e del mondo”. Un’altra pagina Web, quella del “Circolo Astrofili Talmassons” (Talmassons è una località presso Udine), propone un ricco dizionario on line di termini astronomici, dove la voce astofilo, lunga e argomentata, fornisce il destro per contestare appassionatamente la definizione “astronomo dilettante”, comune nei vocabolari più recenti, quali il Gradit, lo Zingarelli 2012, il Dizionario della lingua italiana Devoto-Oli (edizione 2004-5, ma già nell’ed. 1995), definizione identica in tutti questi lessici. Il riferimento al ‘dilettantismo’ viene decisamente respinto, con una prassi di contestazione del dizionario che del resto non manca di precedenti: “Secondo vari dizionari, la definizione di astrofilo è quella sopra, estremamente riduttiva, che non esprime più i valori espressi dagli astrofili e, se vogliamo, estremamente offensiva”. Del resto già il Mazzucco aveva simpatizzato per una tesi del genere, osservando che la definizione fornita dal Lessico Universale Italiano, “astronomo dilettante”, era “impropria”, e che, se “astronomo” si addiceva a una professione, una qualifica accademica, un’investitura ufficiale nei ruoli della ricerca scientifica, non mancavano tuttavia astrofili con la stoffa di autentici ricercatori, per i quali accettava più volentieri la definizione di “dilettante d’astronomia”, che gli
In Ticino esiste l’“Unione Astrofili Svizzeri”, fondata nel 2004 (cfr. M. Razzano, Gli astrofili: chi sono, che cosa fanno, in “Nuovo Orione” dicembre 2004, n. 151, pp. 70-71). Invece il Sabatini-Coletti, ed. 2003, definisce: “Chi si diletta di astronomia” (riprende quindi la definizione di Migliorini, la quale mi pare meglio accetta alla sensibilità degli astrofili: cfr. nota 11). I compilatori invocano poi una giustapposizione tra astrofilo e astronomo, fondata non sul livello di competenza, ma sull’esercizio professionale, libero o alle dipendenze dello Stato. Non intervengo, ovviamente, per esprimere un giudizio di merito, né per per correggere, nella citazione, la sintassi “parlata” propria dell’originale, caratterizzato da una disinvoltura non insolita in molte comunicazioni della Rete.
18. Per la retrodatazione di “astrofilo”
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risultava risalire a De Amicis. Si può aggiungere che il termine astrofilo è adoperato ancora oggi nel titolo di diverse pubblicazioni, anche se talora manca nei lessici e glossari specialistici dedicati alla terminologia astronomica. Quanto alla datazione della voce “astrofilo” (questo è il problema a cui intendo dare il mio contributo), il Gradit recepisce il riferimento suggerito dal Mazzucco, indicando la data “1900”, così come il Sabatini‑Coletti, mentre il Devoto Oli, più prudentemente, propone un indeterminato “prima del 1900”. L’ultima edizione dello Zingarelli (lo Zingarelli 2012) data la voce, erroneamente, al 1950. Il termine non è presente nel DELI, mentre (già lo abbiamo detto) si trova nel Battisti-Alessio, con la datazione “XX sec.”, e nel LEI, con il rinvio all’articolo di Mazzucco. Le datazioni devono comunque essere tutte sensibilmente corrette: infatti si trova il termine in una traduzione dal francese di A. Quételet, Dell’astronomia popolare insegnata in diciotto lezioni nel volgar nostro recata, ed illustrata con note da L. Ghirelli, Roma, Dalla società tipografica, 1829, libro che fu ripubblicato nel 1835 nella milanese “Biblioteca scelta di opere francesi tradotte in lingua italiana” dell’editore Silvestri. La traduzione italiana era di Luigi Ghirelli, il quale volle aprire il libro con una presentazione ai lettori intitolata, appunto, “Il traduttore agli astrofili”, titolo in cui ricorre il termine che ci interessa. Inizialmente mi era accaduto di
Mazzucco, art. cit., p. 126. Cfr. ad esempio, fin dai titoli, il Manuale dell’astrofilo di W. Ferreri (pubblicato nella “Biblioteca di Nuovo Orione”), o I grandi astrofili. Una raccolta di biografie di personaggi che hanno fatto la storia dell’astronomia amatoriale di G. Vanin (anch’esso pubblicato nella “Biblioteca di Nuovo Orione”, Milano, Sirio, 2005). Vanin, nome molto noto tra gli astrofili italiani, è stato anche presidente dell’UAI dal 1995 al 2000. La voce astrofilo è invece assente in E. Ricci, Glossario di astronomia, Milano, Nuovo Orione-Sirio s.r.l., 2002. Nel libro il nome di battesimo è sempre abbreviato in “L.”, ma credo trattarsi di tal Luigi Ghirelli il cui nome compare in alcune pubblicazioni scientifiche della prima metà dell’Ottocento, come si ricava dalle schede ICCU che qui trascrivo: Sulla lettera del signor Luigi Ghirelli f. r. intorno
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imbattermi nell’edizione milanese, ma in seguito un noto astrofilo e studioso di storia dell’astronomia, Rodolfo Calanca, ha rintracciato e mi ha segnalato l’esistenza dell’edizione del 1829, la quale, allo stato attuale, ha la priorità cronologica. Quanto al significato attribuito al termine, non mi pare lontano da quello moderno, perché chiaro era l’intento divulgativo dell’autore francese, a cui si rifaceva il traduttore italiano, avvertendo che “niun sì ebete di ragione sievi, [...] che di sublime intendimento fornito sdegni libera spaziare sua immaginazione su le immense regioni del cielo; laonde, resa siffatta opera alla comune degli uomini, e questa volgendo io in nostra volgar favella, avrò, lo spero, un che di avvantaggio recato ai giovani studiosi, ed a coloro non meno che, privi del suffragio della memoria, caduco l’intelletto li torni, potendo mercé questa traduzione la tardità del loro ingegno coprire; che anzi in guisa potrà chiunque assaporare il bello, il sommo di una tanta dottrina, che sapiente avrà a dirsene [...] ed i più ignari in cosiffatte discipline pur giungere potranno di leggieri al possedimento di quelle astronomiche cognizioni almeno, che a mestieri vengono, affinché impostura non valga ad abusare di loro ignoranza”. Usando l’appellativo “astrofili” si rivolgeva dunque, a scopo divulgativo ed educativo, a un pubblico magari affascinato dalla materia, ma inesperto, eventualmente anche poco colto, “popolare” (quello stesso per il quale aveva scritto il Quételet), con l’intento di comunicare ai neofiti le cognizioni fondamentali dell’astronomia.
al litontritico rimedio per i calcoli orinarj riflessioni di Pietro Battaglini tolentinate farmacista in Roma, Roma, Presso la Societa Tipografica, 1828; Lettera di Luigi Ghirelli f.r. diretta all’eccellentissimo signore Giacomo dott. Folchi, Roma, Per la Societa Tipografica, 1828; A. J. L. Jourdan, Farmacopea universale ossia Prospetto delle farmacopee di Amsterdam, Anversa, Dublino, Edimburgo..., prima traduzione italiana dal francese con note ed aggiunte di Luigi Ghirelli, In Roma, Presso Benigno Scalabrini, 1829; Il neo-litontrittico memoria di Luigi Ghirelli, Seconda edizione, Roma, Per Mercuri e Robaglia, 1830. L. Ghirelli, Il traduttore agli astrofili, in A. Quételet, Dell’astronomia popolare insegnata in diciotto lezioni nel volgar nostro recata ed illustrata con note da L. Ghirelli, Milano, Silvestri, 1835, pp. 5-6.
18. Per la retrodatazione di “astrofilo”
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Va notato che Ghirelli usava la parola senza sentire la necessità di commentarla o giustificarla, quindi senza darle il peso di un neologismo. Si trattava di una parola colta, di matrice classica (greco filos, “amico di...”), composta in una forma che del resto si ritrova in altri cultismi italiani: si pensi alla settecentesca Accademia dei “Georgofili”, o, nell’Ottocento, a zoofilo, o, ancora, con diversa disposizione dell’elemento componente, al temine filonauta, oggi estinto, per indicare chi si dilettava della navigazione da diporto (è il titolo di un libro sull’argomento pubblicato dalla casa editrice Hoepli nel 1894). Prima di assumere il significato astronomico, la designazione di “Astrofilo” era stata usata persino come nome accademico arcadico, dal letterato pugliese Emmanuele Mola, che divenne nell’Arcadia romana “Astrofilo Idalio” (1793); e del resto “Astrofilo” esisteva come nome proprio fin dal Cinquecento (si rintraccia tal Baldassarre Astrofilo di S. Angelo in Vado10). Ovviamente come nome o soprannome accademico il termine alludeva all’amore per gli astri, ma in un senso letterario e poetico assolutamente estraneo all’osservazione scientifica, che emerge solo dalla traduzione del libro di Quételet in poi. Si può dunque notare che in questo come in altri casi la matrice colta e ipercolta differenzia l’italiano dalle altre lingue, perché l’equivalente francese è amateur d’astronomie, quello inglese amateur astronomer, o anche enthusiast for astronomy. Insomma, l’astrofilo italiano si fregia davvero di un nome coltissimo, altisonante e letterario. C’è infine il problema legato all’uso moderno. Si veda ad esempio la già citata pagina Web del “Circolo Astrofili Talmassons” (Talmassons è una località presso Udine), che propone un ricco “Dizionario on line” di termini astronomici: vi si trova ovviamente anche la voce astrofilo (http://www.castfvg.it/zzz/ids/
10
Lo menziona G. Colucci, Delle antichità picene, tomo IV, Fermo, Dai torchi dell’autore, 1789, p. 283. Cfr. anche Mazzucco, art. cit., p. 126, che cita l’inglese sir Filippo Sidney (1554-1586), autore della raccolta poetica Astrophel and Stella.
354
Unità e dintorni. Questioni linguistiche nel secolo che fece l’Italia
astrofilo.html11), ma viene contestata la definizione di “astronomo dilettante”, comunemente fornita da molti vocabolari recenti, quali il Gradit, lo Zingarelli, il Dizionario della lingua italiana DevotoOli. Un altro vocabolario, il Sabatini-Coletti, fin dall’ed. ed. 2003 definisce l’astrofilo, come “Chi si diletta di astronomia”, senza usare “dilettante”. Questa definizione, che risale al grande linguista Bruno Migliorini (la si trova nelle sue Parole nuove, Hoepli, Milano, 1963), è l’unica che risulta ben accetta alla sensibilità degli astrofili più fieri.
11
Ultima consultazione: 3.1.2012. Si legge nella voce che “astronomo dilettante” è offensivo perchè non esprime più i valori espressi dagli astrofili”, come già abbiamo visto in precedenza (cfr. nota 5).
Indice dei nomi
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Abel-Rémusat, Jean-Pierre, 31 n Accardo, Salvatore, 306 Adami, Tobia, 122 Addeo, Piero, 127 n, 128 n, 137-138 Adelung, Johann Christoph, 18, 27, 29, 36, 230 Albano Leoni, Federico, 78 n, 96 n Alberti, Leon Battista, 313, 314 n Alessandrini, Giorgio, 49 n Alessio, Giovanni, 349, 351 Alfieri di Sostegno, Cesare, 139 Alfieri, Vittorio, 59 n, 60, 82 n, 119, 120, 123, 162, 163, 195, 200, 233, 285 Algarotti, Francesco, 70 Alighieri, Dante, vedi: Dante Alighieri Amanti, Emilio, 130 n Ambrosoli, Francesco, 120 Ammirato, Scipione, 120 Amyot, Jacques, 123 Andrés, Giovanni, 43 Angeloni, Luigi, 54, 146-147 Anselmi, Giuseppe, 99-100 Antonetto, Luca, 98 n Apelle, 71 Apponyi, György, 161 Arieti, Cesare, 154 n, 193 n, 209 n, 259 n, 274 n Ariosto, Ludovico, 66, 72, 82 n, 112 Aristotele, 65 Arlìa, Costantino, 159 Ascoli, Graziadio Isaia, 28, 30, 31 n, 33, 34, 45, 153-155, 162, 174, 176,
181-183, 185, 194, 203, 210, 213, 217, 218, 219, 225, 233, 253, 265, 273, 275, 277, 285 n, 293, 295, 297, 299, 320 Asinari di San Marzano, Ermolao, 134 Augurello, Giovanni Aurelio, 315 Auroux, Sylvain, 229 n, 230 n Avogadro, Amedeo, 116 Bacchelli, Riccardo, 172 Balbi, Adriano, 18, 30-31n, 36 Balbo, Cesare, 55-56, 100, 120 n, 148, 149-150, 153, 189, 224 Balbo, Prospero, 100 n Balsamo Crivelli, Gustavo, 150 n, 212 n Bandello, Matteo, 65 Bandiera, Alessandro, 99 Barbèra, Gaspero, 109-110, 192, 203-204 Barbero, Alessandro, 165 n Barbina, Guido, 171 n, 180 Barbirolli, Luigi, 98 Baretti, Giuseppe, 59, 163 Baroni, Isidoro, 349 Bartoli, Daniello, 71 Bartoli, Matteo, 309 Bartoli-Langeli, Attilio, 78 n Basetti, Atanasio, 331 Battisti, Carlo, 349, 351 Beauharnais, Eugenio, viceré d’Italia, 329 Beauzée, Nicolas, 226
Indice dei nomi Sordi, Italo, 335 n Soresi, Pier Domenico, 94 Spaggiari, Walter, 49 n Spagnolo, Luigi, 125, 140 n, 280 n Spaventa, Silvio, 187 n, 288 Stampa, Stefano, 195 n Stella, Angelo, 225 n, 226 n, 231, 248 n Strozzi, abate, 69 n Stussi, Alfredo, 16, 33, 77, 184 n Tagliavini, Carlo, 182 n Tagliazucchi, Girolamo, 91-92 Tagliente, Giovanni Antonio, 90 Talamo, Giuseppe, 190 n, 197 Tasso, Torquato, 65, 66, 68-69, 206, 207 n Tassoni, Alessandro, 65, 71 Taylor, Samuel, 130 n Telmon, Tullio, 182 n Tenca, Carlo, 176, 288, 333, 337-338, 344 Tesi, Riccardo, 168 n, 191 n Testi, Fulvio, 67 Tevini, Simone, 238-239, 251 Thoma, Heinz, 27 n Tiene, conte Ottavio, 67 n Tigri, Giuseppe, 275 n, 292, 332-333, 338-339 Timpanaro, Sebastiano, 49 n Todisco, Alfredo, 299 n Tolomei, Claudio, 309, 323 Tomaselli, Alessandra, 168 n Tommaseo, Niccolò, 11, 45-46, 56, 61, 108, 112, 114 n, 119, 131 n, 150, 153, 156, 162, 189, 193, 199, 202, 217, 240, 242-247, 251, 256-259, 261, 262 n, 271, 275 n, 292-293, 330, 331, 333-334, 336-339, 341, 343 n, 344, 345 n Tommaso di Kempis, 107 Tortarolo, Edoardo, 27 n
367 Torti, Francesco, 313 Toschi, Paolo, 329 n Tosto, Eugenio, 291 n, 296 n Trabalza, Ciro, 9, 13, 81, 83 n, 305-325 Tremonti, Luisanna, 243 n Treves, Paolo, 48 n Trissino, Giovan Francesco, 29 n, 60, 88, 239, 309, 323 Trivulzio, marchese Gian Giacomo, 39, 41, 42, 47 Trotti Bentivoglio, Lorenzo, 154 n Trotti, Margherita, vedi: Provana di Collegno, Margherita Troya, Carlo, 224 Troya, Vincenzo, 98 n, 103-104 Tudor, Maria, 80 Turgot, Anne Robert Jacques, 18, 24 Ugolini, Filippo, 159, 160 n Ugolini, Francesco Alessandro, 194, 222 Ugoni, Camillo, 118 Ursello, Iacopo, 85 n Urtoller, Giovanni, 131 n Valperga di Caluso, Tommaso, 66 Valussi, Pacifico, 156-158 Vanin, Gabriele, 351 n Vannetti, Clementino, 73 Varchi, Benedetto, 27, 239, 323-324 Vecchi, Giovanni, 270 n Vecchio, Sebastiano, 234 n Vegezzi Ruscalla, Giovenale, 37, 128, 174- 177, 183 Venturi, Pompeo, 108, 113 Verini, Giombattista, 89 n Veròli, Pietro, 160 Vesdin, Johann Philipp, vedi: Paolino da San Bartolomeo Vespasiano da Bisticci, 50
Collana “Studi umanistici”
Diego Marconi (a cura di), Naturalismo e naturalizzazione Alessandro Vescovi, Dal focolare allo scrittoio. La short story tra vittorianesimo e modernismo Stefania Ferraris, Imparare la sintassi. Lo sviluppo della subordinazione nelle varietà di apprendimento di italiano L1 e L2 Stefano Prandi, Scritture al crocevia. Dialogo letterario nei secc. XV e XVI Alice Bellagamba, Paola Di Cori, Marco Pustianaz (a cura di), Generi di traverso Toni Cerutti (a cura di), Ruskin and the Twentieth Century: the modernity of Ruskinism Diego Marconi (a cura di), Knowledge and Meaning. Topics in Analytic Philosophy Gian Michele Tortolone, Corporeità e Temporalità Gisella Cantino Wataghin, Eleonora Destefanis (a cura di), Tra pianura e valichi alpini. Archeologia e storia di un territorio di transito Elena Ferrario, Virginia Pulcini (a cura di), La lessicografia bilingue tra presente e avvenire Simone Cinotto (a cura di), Colture e culture del riso: una prospettiva storica Iolanda Poma, Saggi su Theodor W. Adorno Monica Berretta, Temi e percorsi della linguistica. Scritti scelti Donatella Mazza (a cura di), L’intera lingua è postulato
Livio Bottani (a cura di), Memoria, cultura e differenza Roberto Carnero (a cura di), Letteratura di frontiera: il Piemonte Orientale Roberta Piastri, L’elegia della città Livio Bottani, Cultura e restanza Simone Cinotto, La civiltà del grasso Miriam Ravetto, Le ‘false relative’ in tedesco Nuova serie Claudio Marazzini e Giuseppe Zaccaria (a cura di), Per Giovanni Faldella Roberto Favario, Muratori in Francia operai e contadini in valle Livio Bottani (a cura di), Memoria, cultura e differenza II Maria Cristina Di Nino, La Dialettica della libertà nell’ermeneutica di Luigi Pareyson. Un dialogo con Hegel Marziano Guglielminetti, Struttura e sintassi del romanzo italiano del primo Novecento Giovanni Tesio, Oltre il confine. Percorsi e studi di letteratura piemontese Claudio Bonaldi, Hans Jonas e il mito. Tra orizzonte trascendentale di senso e apertura alla trascendenza José Manuel Martín Morán (a cura di), El yo y el otro, y la metamorfosis de la escritura en la literatura española Ugo Perone e Federico Vercellone (a cura di), Ontologia e libertà. Saggi in onore di Claudio Ciancio
Livio Bottani e Tommaso Scappini (a cura di), Il tragico e l’esperienza estetica Enrico Macchetti, Lev Šestòv. Schiavitù del sapere e tragedia della libertà José Manuel Martín Morán (a cura di), Autoridad, palabra y lectura en el Quijote Alessandro Giarda, Esperienze della sovranità. Il surrealismo di Georges Bataille e Antonin Artaud (a cura di Diego Scarca) Michele Mastroianni, Lungo i sentieri del tragico. La rielaborazione teatrale in Francia, dal Rinascimento al Barocco Giuseppe Zaccaria, Cesare Pavese, percorsi della scrittura e del mito. Con alcuni riscontri fenogliani Dario Corno, Boris Janner (a cura di), Come parlano i bambini a scuola. La varietà di parlato puerile della lingua italiana Eloisa Perone, Il bianco e il nero. Il teatro espressionista di Friedrich Koffka Cristina Iuli, Spell it Modern: American Literature and the Question of Modernity
Dario Corno, La tastiera e il calamaio. Come si scrive all’Università, studi e ricerche Giuseppe Zaccaria, Varie ed eventuali. Crocevia letterari dell’Ottocento Michele Mastroianni, L’officina poetica di Jean-Baptiste Chassignet Gisella Cantino Wataghin (a cura di), Finem Dare. Il confine, tra sacro, profano e immaginario. A margine della stele bilingue del Museo Leone di Vercelli Eleonora Destefanis e Chiara Lambert (a cura di), Per diversa temporum spatia. Scritti in onore di Gisella Cantino Wataghin Giovanni Tesio, Novecento in prosa. Da Pirandello a Busi Laurence Audéoud, Le lexique non conventionnel en Français Langue étrangère. Autour de corpus écrits Giulio Schiavoni, Echi dalla Mitteleuropa. Autori e percorsi, tra filosofia e letteratura Lazaire de Baïf, Tragedie de Sophoclés intitulee Electra (a cura di Filippo Fassina)
La collana è curata da un comitato scientifico composto da Gianenrico Paganini, Marcella Trambaioli e Giuseppe Zaccaria