Fare un libro nel Quattrocento. Problemi tecnici e questioni metodologiche 8884209390, 9788884209399

La raccolta dei saggi intende guidare il lettore a una prima scoperta dell'incunabolo, il libro del XV secolo; e si

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Italian Pages 238/241 [241] Year 2015

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Fare un libro nel Quattrocento. Problemi tecnici e questioni metodologiche
 8884209390, 9788884209399

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«Libri e Biblioteche» 36

«Libri e Biblioteche» Collana dell’Istituto storico del libro antico (ISLA)

Direttore Cesare Scalon Comitato scientifico Edoardo Barbieri Paolo Chiesa Mino Gabriele Claudio Griggio Neil Harris Ugo Rozzo

Hellinga, Lotte Fare un libro nel Quattrocento : problemi tecnici e questioni metodologiche / Lotte Hellinga ; a cura di Elena Gatti ; postfazione di Edoardo Barbieri. – Udine : Forum, 2015. (Libri e biblioteche ; 55) ISBN 978-88-8420-939-9 1. Incunaboli - Raccolte di saggi I. Gatti, Elena II. Barbieri, Edoardo 002 (WebDewey 2016) – IL LIBRO Scheda catalografica a cura del Sistema bibliotecario dell’Università degli studi di Udine

LOTTE HELLINGA

Fare un libro nel Quattrocento Problemi tecnici e questioni metodologiche

a cura di ELENA GATTI Postfazione di EDOARDO BARBIERI

FORUM Udine 2015

La presente pubblicazione è stata realizzata grazie al contributo finanziario dell’Università Cattolica, nella linea D.3.1 2015 sulla base di una valutazione dei risultati della ricerca in essa espressa. La pubblicazione rientra inoltre nell’ambito del progetto “Il libro a stampa a Milano e nella Lombardia del XV secolo” finanziato da Regione Lombardia nell’ambito di progetti di ricerca applicata per la valorizzazione del patrimonio culturale lombardo Università Cattolica del Sacro Cuore

Il volume presenta le traduzioni dei seguenti saggi di Lotte Hellinga apparsi originariamente in lingua inglese: The Codex in the Fifteenth Century: manuscript and print (1993); Poggio’s Facetiae in print (1987); Press and Text in the First Decades of Printing (1997); Compositors and Editors: Preparing Texts for Printing in the Fifteenth Century (2000); The Journey of a Text: from Scribe to Printer to Discoverer (2004); Peter Schoeffer and His Organization: a Bibliographical Investigation of the Ways an Early Printer Worked (1997); Editing Texts in the First Fifteen Years of Printing (1990) Traduzione italiana Elena Gatti L’editore rimane a disposizione degli aventi diritto per le fonti iconografiche non identificate In copertina San Girolamo al suo tavolo di lavoro. Iniziale istoriata. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, Mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. © Würzburg, Universitätsbibliothek (I.t.f.9.), c. [a]1r Stampa Poligrafiche San Marco, Cormons (Go) © Istituto storico del libro antico (ISLA) © FORUM Editrice Universitaria Udinese srl Via Palladio, 8 – 33100 Udine Tel. 0432 26001 / Fax 0432 296756 www.forumeditrice.it Udine 2015 ISBN 978-88-8420-939-9

SOMMARIO

Preface di Lotte Hellinga

p.

7

Introduzione di Elena Gatti

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Abbreviazioni bibliografiche

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I. Il libro del Quattrocento fra riproduzione manoscritta e stampa tipografica

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II. La disseminazione di un testo a stampa: il caso delle Facetiae di Poggio Bracciolini APPENDICE 1. Edizioni incunabole delle Facetiae registrate in ordine cronologico APPENDICE 2. Varianti e lezioni divergenti APPENDICE 3. L’errore avvenuto nella tipografia di Georg Lauer durante la stampa della sua seconda edizione delle Facetiae

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III. Torchi e testi nel primo decennio della stampa

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IV. Compositori ed editori. Allestire un testo per la stampa nel XV secolo

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V. Il viaggio di un testo: dal copista, al tipografo, all’esploratore

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VI. Il modello di Peter Schoeffer: indagine bibliografica sul sistema di lavoro di un prototipografo APPENDICE 4. Il record di ISTC APPENDICE 5. Rubriche e decorazioni nelle edizioni di Peter Schoeffer dal 1467 al 1479

6

SOMMARIO

Illustrazioni

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175

VII. L’edizione dei testi nel primo quindicennio della stampa

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193

Postfazione di Edoardo Barbieri

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Indice dei nomi

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Indice delle figure e delle illustrazioni

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PREFACE

Bringing incunabula studies to Italy is as taking owls to Athens, carrying coals to Newcastle. In Italy there is no shortage of beautiful catalogues of incunabula, and important and original studies of early printed books, as its great and long-standing traditions of “filologia” have found applications in the disciplines associated with the study of books, their printers, and book-production. Aside from its own traditions, Italian scholars have also been open to the approaches to the subject developed elsewhere, in the last half-century notably to the French “Histoire du livre” and to the Anglosaxon school of material or analytical bibliography. Contact with scholars from these countries and equipped with experience in these fields has been strongly encouraged by those Italian scholars in a position to do so. I may here single out Professor Luigi Balsamo to whom I owe a great debt of gratitude for all his encouragement and friendship given to me over many years. Professor Barbieri may have detected traces of both the French and the Anglo-America traditions in my work. I feel much honoured by his initiative to publish a selection of my studies on incunabula in Italian translation, for it is an honour indeed to be given a part in this great tradition. I wish therefore to express my gratitude to him, and also give my sincere thanks to Drssa Elena Gatti for all her care for the accuracy of the translation, and for her gift of so pleasantly making sure that I remained involved in the process. London, December 2015

Lotte Hellinga

INTRODUZIONE

Tutti coloro che si occupano della stampa delle origini desidererebbero che i contributi scritti da Lotte Hellinga fossero facilmente accessibili in lingua italiana. Ragione per cui, quando Edoardo Barbieri mi propose di allestire una raccolta italiana degli scritti della Hellinga, fui da un lato molto contenta, ovviamente, ma dall’altro assai preoccupata. Doversi confrontare – mi si passi il termine – con un autentico “mostro sacro” della disciplina non è cosa di poco conto. Fin da subito è stato chiaro che non si sarebbe trattato solo di un piccolo omaggio a una studiosa di vaglia, quanto, piuttosto, di offrire (sostanzialmente per la prima volta) al lettore italiano una silloge dei suoi saggi più pregnanti, da intendere come una sorta di mappa (termine caro all’autrice) per navigare più facilmente nel mare magnum dei suoi scritti, raccogliendo e filtrando così alcuni fra i temi nodali della lunga carriera della studiosa. Il libro, quindi, nella sua originale specificità, si inserisce nella fitta rete dei contributi pubblicati nel corso degli anni da Lotte Hellinga, in particolare con la imprescindibile raccolta Texts in transit. Manuscripts to proof and print in the Fifteenth century. Nella scelta dei pezzi da tradurre – ragionata e progettata letteralmente a tavolino con l’autrice, che con entusiasmo e tanta generosità ha messo mano al proprio lavoro per verificarlo e aggiornarlo al meglio, e che con altrettanta generosità ha seguito passo passo la mia traduzione – si sono privilegiati i saggi più vicini all’ambito italiano. Quanto al lavoro di traduzione in senso stretto, oltre ad affrontare gli inevitabili scogli linguistici cercando di non tradire mai la volontà dell’autrice, mi pare di poter dire che abbia significato, in larga parte, restituire il più nitidamente possibile la complessità del pensiero della Hellinga, nonché l’originalissima prospettiva con cui ella, evitando pericolose distorsioni dovute alla distanza di noi contemporanei, ha saputo smontare, analizzare e ricomporre i tanti tasselli delle questioni via via affrontate. La raccolta che qui si presenta, s’è detto, intende solo accompagnare idealmente il lettore alla conoscenza dell’opera, quella sì davvero vasta, di Lotte

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ELENA GATTI

Hellinga. Proprio per questo, quindi, occorre in qualche modo fare il punto sul contributo che viene offerto al mondo degli studi incunabolistici. Tre mi paiono, in buona sostanza, gli apporti più rilevanti che la raccolta ha da offrire. Prima di tutto, rifacendosi alle questioni metodologiche evocate già dal titolo, il lavoro ha inteso consegnare al lettore italiano una precisa metodologia di ricerca basata sull’analisi rigorosa dei dati che la Hellinga, spesso, preferisce chiamare indizi, e sulle successive deduzioni (muovendosi fra il metodo di Sherlock Holmes, cui fanno pensare le vicende dei due compositori del De civiate Dei sublacense, e quello pionieristico di Henry Bradshaw). L’elemento, però, che arricchisce e in un certo senso distingue il modus operandi della Hellinga è la capacità di porre in dialogo fra loro i dati, collocandoli in un nuovo e ben preciso orizzonte di senso, anche se (apparentemente) sparsi e dissonanti fra loro. Parla chiaro a riguardo l’attacco del sesto saggio, tutto dedicato al sistema di lavoro nell’officina di Peter Schoeffer il vecchio, e che vale davvero la pena di citare: Questo saggio si propone di illustrare come, collazionando frammenti sparsi di informazioni, possa affiorare l’immagine di un’officina tipografica del passato […] Il percorso di ricerca per costruire questa immagine non è differente dalla mappatura di un territorio inesplorato. La navigazione attraverso questo territorio è essenzialmente un viaggio di scoperta, dove prima bisogna usare le mappe già esistenti e poi, sulla base di quelle mappe, tracciare il proprio itinerario.

Detto ex post: nel corso del nostro primo incontro londinese per pianificare il lavoro, Lotte Hellinga mi chiese di tradurre per primo proprio questo saggio, ben sapendo che non avrebbe aperto l’edizione italiana. Probabilmente, oltre a iniziare a sperimentarmi come traduttrice, voleva che io acquisissi fin da subito le coordinate del (suo) metodo… Un altro obiettivo cui l’edizione ha mirato, pensando soprattutto al pubblico meno esperto, è stato quello di spiegare e rendere concrete le dinamiche della produzione materiale delle edizioni in cuna. Agevolato infatti dalla traduzione – che ha tentato di superare le considerevoli distanze linguistiche fra italiano e inglese che caratterizzano la descrizione degli aspetti più tecnici del lavoro tipografico – il lettore ha l’opportunità di osservare, quasi al microscopio, i più comuni procedimenti di produzione adottati nell’Europa occidentale durante i primi anni dell’attività tipografica. Grazie infatti all’esplorazione di larga parte degli aspetti del ciclo vitale del libro, per dirla con Luigi Balsamo, la Hellinga affronta (e risolve) una serie di complesse questioni tecniche e il relativo impatto sull’organizzazione interna delle officine e sulla produzione. Ancorandosi sempre e saldamente al dato

INTRODUZIONE

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storico – cioè a un libro o a un’edizione – l’autrice ricostruisce, dunque, in sequenza logica i passaggi che fanno di un testo (a questa altezza) manoscritto un testo stampato: l’allestimento dell’exemplar, il conteggio tipografico sull’originale, l’impaginazione e l’organizzazione del testo, la composizione delle forme e così via. Discende soprattutto da questo percorso di indagine l’attenzione che la studiosa ha infine dedicato ai testi di cui gli incunaboli sono latori: spostando, cioè, il focus dal contenitore al suo contenuto, l’autrice ha analizzato le modalità di trasmissione di quei testi e soprattutto gli inevitabili cambiamenti a cui il nuovo medium li ha costretti, uno su tutti quello legato all’intervento (certamente anche linguistico) dei compositori, che non a caso hanno, in questa raccolta, un saggio interamente loro dedicato. La silloge italiana quindi, proponendosi a un pubblico vasto ed eterogeneo, (ri)accende i riflettori su un altro decisivo côté degli studi della Hellinga, quello più strettamente filologico, nella speranza che i saggi presentati in traduzione possano avvantaggiare il lavoro di studiosi e non, e solleticare la curiosità di qualche nuovo giovane “adepto”. Concludo ringraziando innanzitutto l’autrice: la sua disponibilità si è tradotta in una collaborazione stretta e sempre cordiale, che ha reso questo complesso lavoro un’esperienza bella e altamente formativa. Il mio più sincero grazie va poi a Edoardo Barbieri per l’attenzione e la cura che ha dedicato a ogni singolo passaggio della traduzione, nonché per i tanti consigli elargiti in itinere. Ringrazio l’amico Luca Rivali, che con la consueta generosità ha letto il lavoro, discutendone poi assieme a me i passi più spinosi. Grazie a Luisa Avellini, lettrice sempre arguta e solerte, per cui questa raccolta rappresenta un tuffo nel passato. Un doveroso ringraziamento, infine, va all’Università Cattolica di Milano, che ha reso possibile questa pubblicazione e all’editore Forum di Udine, la cui fattiva collaborazione ha semplificato di molto le fasi conclusive del lavoro. Elena Gatti

ABBREVIAZIONI BIBLIOGRAFICHE

BMC Bod. Inc. CIBN Goff

GW Hain

ILC ISTC SBN IT VD16

Catalogue of books printed in the XVth century now in the British Museum, London, Trustees of the British Museum, 1949-. A. COATES - K. JENSEN - C. DONDI et al., A Catalogue of Books Printed in the Fifteenth Century now in the Bodleian Library, 6 voll., Oxford, University Press, 2005. Catalogue des incunables. Bibliothèque Nationale, Paris, Bibliothèque Nationale, 1981-2011. F. R. GOFF, Incunabula in American Libraries. A third census, New York, Bibliographical Society of America 1964 (ristampa: New York, Kraus, 1973); Supplement to the Third Census, New York, Bibliographical Society of America, 1972. Gesamtkatalog der Wiegendrucke, I-VII, Leipzig, Hiersemann, 1925-1938; VIII-, Stuttgart, Hiersemann, 1978-. L. F. HAIN, Repertorium bibliographicum, in quo libri omnes ab arte typographica inventa usque ad annum MD. typis expressi ordine alphabetico vel simpliciter enumerantur vel adcuratius recensentur, 4 voll., Stuttgart-Paris, Cotta-Renouard, 1826-1838 (= Milano, Görlich, 1948 e 1966). Incunabula printed in the Low countries. A census, ed. by G. VAN THIENEN - J. GOLDFINCH, Nieuwkoop, De Graaf, 1999. Incunabula Short Title Catalogue (http://www.bl.uk/catalogues/istc). Catalogo del Servizio Bibliotecario Nazionale (http://sbn.it/opacsbn/ opac/iccu). Verzeichnis der im deutschen Sprachbereich erschienenen Drucke des 16. Jahrunderts, Stuttgart, Hiersemann, 1983-.

I. IL LIBRO DEL QUATTROCENTO FRA RIPRODUZIONE MANOSCRITTA E STAMPA TIPOGRAFICA

Agli inizi degli anni Settanta del XV secolo, Werner Rolewinck, un monaco certosino attivo a Colonia, compilò la sua grande cronaca universale, il Fasciculus temporum1. Sul finire dell’opera dette conto di alcuni fatti accaduti nel decennio 1454-1464, e dunque a lui ben noti perché contemporanei: registrò un terremoto disastroso a Napoli, il passaggio di una cometa, un paio di miracoli e – fenomeno comune in quegli anni – osservò un rapido incremento di invenzioni, raffinate come non mai. Egli scrisse, fra l’altro: Et impressores librorum multiplicantur in terra2. Con queste parole, e cioè che i tipografi crescevano di numero e riempivano la terra, Rolewinck parafrasava il primo capitolo della Genesi, lasciando intendere che l’introduzione della stampa, e più in concreto il lavoro degli stampatori, rappresentava un’invenzione non meno divina della creazione dell’Uomo, un’invenzione che poteva avere a che fare con l’Albero della Conoscenza e forse con la Cacciata dal Paradiso Terrestre. Johannes Trithemius, quasi contemporaneo del Rolewinck, lo descrisse come un uomo molto colto, dotato di grande erudizione e di intelligenza acuta, tanto che nei

WERNER ROLEWINCK, Fasciculus temporum, Köln, Arnold ther Hoernen, 1474, Fol. (ISTC ir00254000). Questa edizione dell’opera del Rolewinck (apparsa quasi in contemporanea ma in una differente versione, sempre a Colonia, per i tipi di Nicolaus Götz, ISTC ir00253000) è la prima a menzionare l’invenzione della stampa in questa forma, ripetuta poi più tardi in altre cronache. Almeno sei sono gli esemplari sopravvissuti dell’edizione del ther Hoernen che comprendono questa significativa aggiunta: «ortum sue artis habentes in maguncia». La disseminazione in edizioni posteriori dell’informazione contenuta in questa variante è stata studiata da L. HELLINGA - M. LANE FORD, Deletion or addition: a controversial variant in Werner Rolewinck’s Fasciculus temporum (Köln, 1474), in Essays in honor of William B. Todd, ed. by D. OLIPHANT, Austin, University of Texas, 1991, pp. 61-79. 2 WERNER ROLEWINCK, Fasciculus temporum, Köln, Arnold ther Hoernen, 1474, Fol. (ISTC ir00254000), c. h8r. 1

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

suoi toni si può forse cogliere una sottile ironia3. I primi stampatori, comunque, dovevano avere bene impressa l’immagine dell’Albero della Conoscenza. Questo mitico albero fu forse alla base del significato simbolico di molte marche tipografiche, che si presentavano infatti sotto forma di ramo tagliato da cui pendevano le insegne identificative della tipografia4. L’interpretazione, se è corretta, rivela una consapevolezza chiara di concetti quali la divulgazione della conoscenza, la disseminazione dei testi e il ruolo che la nuova arte della stampa andava giocando all’interno di questo naturale processo. Nell’esaminare la grande quantità di libri del XV secolo che la storia ha conservato fino ai nostri giorni, non bisogna però sottovalutare il punto di vista dei contemporanei. Gli approcci moderni al problema tendono a proporre modelli che orientano preventivamente la nostra percezione. È la semplice constatazione del fatto che il materiale con cui si ha a che fare quando si studiano libri – e non solo del Quattrocento – è vario, complesso, e allo studioso moderno può apparire disorganizzato. Registrare e catalogare il materiale rappresenta un modo per conferirgli un’organizzazione, certo, ma non è l’ausilio più adeguato al fine di comprendere, diciamo a tutto tondo, l’impatto della stampa o del libro nella sua epoca. Lo sforzo per capire la funzione del libro, il suo valore come forma di comunicazione e come parte integrante del tessuto «Werner Rolevinck de laer […] vir in divinis scripturis studiosissimus: et valde eruditus et ingenio subtilis: vita et conversatione devotus» (JOHANN TRITHEIM, Catalogus illustrium virorum, [Mainz, Peter von Friedberg, dopo il 14 VIII 1495], 4°, ISTC it00433000, c. K5r). 4 Sulla questione si veda G. D. PAINTER, Michael Wenssler’s devices and their predecessors, with special references to Fust and Schoeffer’s, «Gutenberg-Jahrbuch», 1959, pp. 211-219. Più di recente Cornelia Schneider ha fornito una nuova validissima interpretazione della marca tipografica usata soprattutto da Peter Schoeffer, come in Peter Schöffer: Bücher für Europa, Mainz, Gutenberg-Museum, 2003. Nel XVI secolo si individuano ulteriori sviluppi del simbolo dell’albero nelle marche tipografiche, ad esempio quelle che rappresentano un ulivo con rami cadenti, largamente usate dagli Estiennes. Il motto «Non altum sapere, sed time» che accompagna questa immagine nelle sue varianti deriva dalle lettere di san Paolo (Romani, 11,20), dove a proposito dei rami d’ulivo si dice che se la radice è santa, lo sono anche i rami. Nel suo contributo alla Hanes Lecture, Fred Schreiber – The Hanes Collection of Estienne Publications. From Book Collecting to Scholarly Resource, Chapel Hill, University of North Carolina, 1984 – dopo aver identificato le lettere di san Paolo come fonte del motto, ha rivelato un altro aspetto legato al simbolismo dell’albero: il cognome Estienne si può esprimere facendo ricorso al simbolo dei rami d’ulivo, che a sua volta si riferisce al sostantivo stephanos (corona, in particolare di ramoscelli di ulivo). Questa interpretazione non riguarda, ovviamente, la marca di Fust-Schoeffer e relativi discendenti. Il riferimento alle lettere di san Paolo pone certamente una solida base interpretativa per tutte quelle marche che presentano rami di alberi; a sua volta, l’ulivo degli Estienne può rappresentare genericamente l’Albero della Conoscenza (così come ritengono alcuni moderni bibliografi). Proprio come l’ulivo di san Paolo. 3

I. IL LIBRO DEL QUATTROCENTO FRA RIPRODUZIONE MANOSCRITTA E STAMPA TIPOGRAFICA

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sociale è un fenomeno assolutamente moderno. Si tratta di aspetti verso cui siamo tutti sensibili, se non altro perché viviamo in un’epoca segnata dalla rivoluzione digitale, che influenza sia la comunicazione sia una società in mutamento costante. Non stupisce, quindi, che i più evoluti e recenti fra questi modelli interpretativi si presentino sotto forma di circuito della comunicazione. È ciò che ha proposto Robert Darnton in risposta all’approccio allo studio del libro fornito dalla scuola francese delle Annales. Nel 1993 Thomas R. Adams e Nicolas Barker hanno ripensato il modello di Darnton, basandosi su una concezione del libro più ampia rispetto a quella dello studioso americano, notoriamente circoscritta alla produzione del libro francese del XVIII secolo5. In questa sede non è necessario addentrarsi in un dibattito su questi modelli; basta tenere presente che esistono solo per facilitare la nostra percezione, per aiutarci a trovare una chiave di lettura su ciò che il passato ha ancora da dirci. Il circuito della comunicazione – senza dubbio un modello utile per comprendere la funzione del libro in un certo periodo storico, dalla sua progettazione alla sua distribuzione – costituisce un aspetto importante di ciò che in modo approssimativo definiamo ‘la storia del libro’. Il materiale con cui si lavora evidentemente determina il tipo di modello interpretativo. Quanto a me, ad esempio, presto forse maggiore attenzione a fenomeni quali la crescita rapida del libro e la sua diffusione, visto che mi occupo soprattutto di materiale del XV secolo. Molti aspetti della funzione comunicativa della stampa quattrocentesca devono essere dedotti, laddove, invece, quegli stessi aspetti sono ben più facilmente leggibili per materiali di epoca posteriore. Come incunabolista, quindi, non posso esimermi dal dire che, in prospettiva, lo studio dello sviluppo del testo a stampa, con le relative implicazioni socio-intellettuali, non dovrebbe rinunciare del tutto alla sua antica somiglianza con le scienze naturali. In questo senso gli incunabolisti godono di un precedente molto significativo, perché quel gran pioniere degli studi incunabo-

5 R. DARNTON, What is the history of the books? in Books and society in history. Papers of the Association of College and Research Libraries rare books and manuscripts preconference, 24-28 June, 1980, Boston, Massachusetts, ed. by K. E. CARPENTER, New York, London, Bowker, 1983, pp. 3-26, disponibile anche in traduzione italiana in ID., Che cos’è la storia del libro?, in Il bacio di Lamourette, traduzione di L. Aldomoreschi, Milano Adelphi, 1994, pp. 65-114, e poi anche in ID., Il futuro del libro, pp. 207-239. Sulla rielaborazione del concetto di circuito comunicativo proposto da Darnton, si veda invece T. R. ADAMS - N. BARKER, A new model for the study of the book, in A potencie of life: books in society. The Clark lectures 1986-1987, ed. by N. BARKER, London, The British Library, 1993, pp. 5-43 (traduzione italiana in Tamquam explorator: percorsi orizzonti e modelli per lo studio dei libri, a cura di M. C. MISITI, Manziana, Vecchiarelli, 2005, pp. 53-92).

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

listici che fu Henry Bradshaw, negli anni Sessanta del XIX secolo, usò l’espressione “metodo delle scienze naturali” quando trovò un sistema per classificare i caratteri e i tipografi6. Ma l’affinità con le scienze naturali va ben oltre la sola tassonomia dei caratteri e riguarda da vicino anche altri periodi della produzione del libro. Nella trasmissione dei testi, nella loro sopravvivenza dentro i libri, possiamo riconoscere un vero e proprio processo di selezione in atto, enunciabile in termini evoluzionistici, che per vari motivi induce a individuare un fattore di condizionamento nel contesto esterno. Quando si affrontano questioni di definizione e di contesto, soprattutto se si ha a che fare con grandi quantità di materiale, le discipline scientifiche offrono dei vantaggi. L’analogia con le scienze moderne rende forse consapevoli del fatto che i libri e le altre fonti documentarie con cui lavoriamo appartengono a un mondo vivo, che ha un ciclo vitale di impressionante lunghezza se paragonato a quello umano, ma è comunque naturalmente limitato. Di solito un testo ha una durata molto superiore a quella del supporto che lo veicola. Riproporlo, sceglierlo affinché sia latore, in una certa epoca, di un nuovo messaggio, implica sempre che venga presentato in una diversa struttura materiale, la cui natura, come noto, è determinata dal periodo storico. Nel XV secolo, ad esempio, avrebbe assunto la forma del codice, prodotto o attraverso una variegata serie di processi inscrivibili dentro la gloriosa tradizione degli amanuensi, oppure mediante la nuova arte di moltiplicare i libri con la stampa. Esistono ancora molte idee sbagliate sulla relazione fra codice manoscritto e codice a stampa nel XV secolo, allorché ebbe luogo la transizione della forma di produzione di un libro. Ritengo, soprattutto, che per valutare come essi li intesero sia cruciale tentare di guardare ai libri con gli occhi dei contemporanei di allora. Il passo – molto citato (ad esempio nell’introduzione al BMC I, p. xii) e molto discusso – in cui Henry Bradshaw parla del metodo delle scienze naturali fu pubblicato, in origine, come: Nota D. Printing at Zwolle, in A classified index of the Fifeenth century books in the collection of the late M. J. De Meyer which were sold at Ghent in November 1869, London, Macmillan, 1870 (Memoranda, 2), pp. 15-20, poi ristampato in Collected papers of Henry Bradshaw, ed. by F. JENKINSON, Cambridge, University Press, 1889. Per un più recente status quaestionis (su cui c’è divergenza di vedute) si rinvia a T. G. TANSELLE, Bibliography and science, «Studies in Bibliography», 27, 1974, pp. 55-89; P. NEEDHAM, The Bradshaw method. Henry Bradshaw’s contribution to bibliography, Chapel Hill, Hanes Foundation-Rare Book Collection. University Library. The University of North Carolina, 1988; L. HELLINGA, Analytical bibliography and the study of early printed books: with a case study of the Mainz Catholicon, «Gutenberg Jahrbuch», 1989, pp. 47-96. Per una riflessione in italiano sul metodo di Bradshaw si veda invece E. BARBIERI, Haebler contro Haebler. Appunti per una storia dell’incunabolistica novecentesca, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, Diritto allo studio, 2008, pp. 15-23. 6

I. IL LIBRO DEL QUATTROCENTO FRA RIPRODUZIONE MANOSCRITTA E STAMPA TIPOGRAFICA

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Con poche ma significative eccezioni, non appena fecero la loro comparsa sul mercato, i “codici” a stampa furono salutati con stupore, orgoglio ed entusiasmo. Tuttavia, per la maggioranza delle persone, questi libri erano prima di tutto codices, cioè vettori di un testo, che fossero a stampa o meno. Il fatto sorprendente è che si potevano acquistare “a buon prezzo”, come William Caxton non si stancò mai di sottolineare. Stupisce, insomma, che uomini come Caxton e i suoi lettori potessero permetterseli senza alcun problema. Strutturalmente non ci sono differenze fra il codice manoscritto e quello a stampa. La differenza materiale, per il lettore, stava solo nella tipografia. Le esigenze tecniche delle stamperie apportarono una semplificazione immediata nelle forme, e nel corso dei primi cinquanta anni della stampa si assistette a un processo inesorabile di semplificazione degli usi grafici. Tale semplificazione consistette in una selezione dei segni di scrittura indispensabili per la comunicazione e, al contrario, nel rigetto delle infinite varianti di forma e funzione create dalla scrittura manuale. Le grafie possono essere ambigue: il significato di una lettera maiuscola espressa attraverso forme manoscritte, ad esempio, può presentare innumerevoli piccole differenze. In tipografia, invece, queste differenze sono impossibili. La scrittura a stampa, infatti, una volta fissata, impone una scelta univoca: impone, ad esempio, di decidere se un certo carattere debba essere maiuscolo o minuscolo, e non qualcosa di intermedio7. L’osservazione, spesso riproposta, secondo cui nei primi anni della stampa il libro imitava il manoscritto, impedisce di cogliere un fenomeno ben più interessante, cioè il processo di selezione delle forme grafiche funzionali. Fu la perdita di tratti sottili e individualmente connotati che allontanò dal testo a stampa alcuni raffinati bibliofili – dal libraio fiorentino Vespasiano da Bisticci al borgognone Raphael de Mercatellis, abate dell’abbazia dei ss. Pietro e Bavone di Gand – che infatti preferirono il manoscritto. È opinione altrettanto comune che nel XV secolo i lettori non facessero differenze fra testo manoscritto e testo stampato. Anche questo è vero, ma solo

7 Esempi di impiego di caratteri a metà strada fra maiuscole e minuscole sono discussi in L. HELLINGA, Caxton in focus: the beginning of printing in England, London, The British Library, 1982, pp. 55-62. Gli esempi sopra citati mostrano come tali consuetudini venissero male interpretate dai compositori e alla fine rigettate. La relazione che intercorre fra la mano del copista e i caratteri greci costituisce un’altra tappa di avvicinamento all’equilibrio tra forme grafiche semplici e disegni diversi della stessa lettera, un tema di cui si è occupato Nicolas Barker in Aldus Manutius and the development of Greek script and type in the 15th century, New York, Fordham University Press, 1992, passim. Barker aveva notato un numero considerevole di caratteri doppi in parecchie casse degli anni Novanta del secolo ma, a dispetto delle apparenze, quei tipi costituivano una semplificazione alle numerose varianti grafiche riscontrabili nelle mani dei copisti.

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fino a un certo punto. Esistono infatti cataloghi e inventari coevi che elencano, mescolate senza distinzione, entrambe le tipologie di libro; in queste liste il codice, manoscritto o impresso che fosse, è inteso principalmente come mezzo per trasmettere un testo e come fonte di informazione. Non è che nel XV secolo i lettori non vedessero la differenza fra manoscritto e libro a stampa: non appena poi entrò in gioco il fattore prezzo, i lettori divennero piuttosto abili a distinguerli… I libri a stampa erano di solito più economici dei manoscritti, anche quando questi ultimi erano molto semplici. Sia negli inventari post mortem sia nei pochi elenchi noti per questo periodo di libri da vendersi pubblicamente, viene fatta un’attenta distinzione fra manoscritti e stampati, così come fra libri rilegati e non8. Durante il primo decennio della stampa, dalla metà degli anni Cinquanta fino alla fine del secolo, il libro stampato assunse rapidamente le funzioni del manoscritto. Naturalmente per un certo periodo di tempo i due modi di produzione coesistettero. Tuttavia, verso le metà degli anni Ottanta, la produzione di manoscritti iniziò rapidamente a declinare. Entro la fine del secolo il manoscritto recava un messaggio davvero singolare: «Sono un prodotto unico» recitava, «non sono un comune libro, ma sono stato creato in un modo che non è riproducibile tramite la stampa». Appartengono a questa tendenza i bellissimi codici miniati allestiti fra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI, veri e propri gioielli, famosi per essere veicoli di arte pittorica più che di testi9. Questi capolavori, dal punto di vista testuale, rappresentano uno stadio finale della tradizione, poiché la loro bellezza ha impedito che fungessero da modello per altre copie manoscritte o da exemplar, che venissero cioè ricopiati da amanuensi o finissero nelle mani di un compositore. In questo saggio mi interessa soprattutto analizzare la funzione del libro a stampa nella trasmissione e nella disseminazione dei testi. La trasmissione è un processo che si verifica nel momento in cui un testo – manoscritto o a stampa Basti in proposito un solo esempio. Nella (presumibile) asta pubblica svoltasi a Machlen nel 1489 – asta in cui vennero messi in vendita i 69 libri appartenuti al canonico Jean de Platea – 6 voci sono descritte come a stampa (impressus), 59 come manoscritte (scriptus) e solo 5 non sono descritte affatto. Nelle prime 16 voci viene annotata la presenza delle legature: sette libri ce l’hanno su assi di legno (in asseribus), uno è descritto come ligatus sine asseribus e per quattro viene semplicemente usata l’espressione ligatus. Il materiale per la legatura di 24 libri è definito in pergameno mentre in papiro quello di altri 34. Riguardo il materiale documentario relativo a questa vendita si veda L. HELLINGA, Four book auctions of the fifteenth century, in The medieval book: Glosses from friends & colleagues of Christopher de Hamel, ed. by J. H. MARROW - R. A. LINENTHAL - W. NOEL, Houten, Hes & De Graaf, 2010, pp. 261-269. 9 Il testo originale legge «birds of paradise», che in inglese indica la strelizia, fiore che ricorda la forma di un uccello in volo, che per la bellezza e il carattere decorativo e imponente è simbolo di nobiltà e maestosità. [n.d.t.] 8

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– viene riprodotto o mediante copiatura a mano o mediante composizione tipografica e stampa. Di solito si parla, invece, di diffusione nel senso di distribuzione di un certo prodotto (manoscritto o a stampa), ma essa può anche essere intesa, in un’accezione più generale, come il percorso compiuto da un testo per raggiungere nuovi mercati, conquistando cioè, in aree geografiche più vaste, un numero maggiore di lettori e, se possibile, nuove categorie di essi. Lungo queste pagine spero ci sarà occasione di osservare insieme alcuni aspetti della disseminazione intesa in questo suo più largo significato. Potrebbe sembrare che la trasmissione dei testi sia un cruccio moderno, ma in realtà il legame fra trasmissione e creazione di un testo è noto da tempi remoti. Un esempio antico di questa relazione è offerto da una celebre coperta in avorio del IX secolo, in cui è raffigurato san Gregorio Magno che scrive il suo testo mentre, in contemporanea, tre amanuensi lo riproducono mediante copiatura10. Si tratta di una rappresentazione quasi simbolica della disseminazione, laddove, parallelamente, la trasmissione è stata spesso rappresentata attraverso l’iconografia dello scriba intento a copiare da una o più fonti. Una differente forma di trasmissione è rappresentata dal topos del maestro che legge un libro a voce alta ai suoi scolari, i quali, a loro volta, prendono forse appunti riguardo a quel testo. Si tratta comunque di alunni che è improbabile che abbiano maneggiato molti libri, almeno fino a quando questi non divennero oggetti comuni (ill. I). L’autore al lavoro costituisce una immagine iconografica molto presente lungo tutto il Medioevo, e possiede in uguale misura una funzione simbolica e illustrativa. Di solito l’autore scrive il suo libro, un codice apparentemente già completo e perfino rilegato, una forma di anticipazione iconografica che frequentemente sorprende quegli studiosi che tendono a prenderla alla lettera. Talvolta, comunque, qualche pittore si allontanò da questa forma convenzionale. Uno di essi fu Tommaso da Modena il quale nel 1352 eseguì per il convento dei Domenicani di S. Nicolò di Treviso una serie di affreschi che ritraevano confratelli famosi, seduti ciascuno al proprio scrittoio con uno o due libri davanti, intenti a leggere o a scrivere. Tommaso li rappresentò con un notevole grado di espressività personale e di differenziazione, che accentuò ricorrendo forse all’escamotage di ritrarre uno di loro – il predicatore del XII secolo Giovanni da Schio – mentre si accingeva alla scrittura11. Il domenicano ispeziona la penna e ha davanti a sé, sul proprio scrittoio, un foglio di pergamena – che mostra chiaC. DE HAMEL, A history of illuminated manuscript, Oxford, Phaidon, 1986. Su Tommaso da Modena (circa 1325-1379) si veda L. COLETTI, Tomaso da Modena, a cura di C. ROSSO COLETTI, prefazione di S. Bettini, Venezia, Pozza, 1963. La sequenza dei 40 affreschi raffiguranti i Domenicani è stata interamente riprodotta da J. J. BERTHIER, Le chapitre de San Nicolò de Trevise: peintures de Tommaso da Modena, Rome, Manuce, 1912. 10

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ramente le linee di divisione in quattro pagine – recante poche parole (Ave Maria), in attesa che la penna dello scrittore prosegua il suo lavoro (fig. 1). La divisione di questa pergamena è normale, come normale è il sistema di imposizione delle pagine nel processo di stampa (è possibile infatti che questo sistema fosse già conosciuto nella produzione di manoscritti). Esattamente come avvenne più tardi per i libri a stampa, i fogli di pergamena, una volta scritti, dovevano essere ripiegati e assemblati per formare un fascicolo – ottenuto probabilmente da più di un foglio – da cucire, al termine delle operazioni, con altri fascicoli simili per formare poi un codice. Tutto ciò significava che il libro da assemblare andava ideato e pianificato in anticipo, per segnare sul foglio la corretta combinazione delle pagine. Pochi sono i manoscritti giunti fino a noi che testimoniano un tale sistema di “imposizione”, e pertanto non è possibile affermare in che misura questo metodo fosse applicato. Può essersi trattato di una modalità di produzione che conviveva con altre, tanto quanto il sistema della pecia fu una forma di produzione da applicare in determinate circostanze12. Si ritiene che Tommaso, prima di trasferirsi a Treviso, sia stato un miniatore di libri inserito nel commercio librario bolognese. E in qualità di testimone delle attività dei copisti la sua testimonianza non dovrebbe essere accantonata con troppa disinvoltura. Quando furono inventati i caratteri mobili, e con essi la possibilità di produrre copie multiple partendo da un testo “scritto in metallo”, come dicevano Un esempio di foglio con parte del Wapene Martijn di Jacob van Maerlant scritto in plano si trova in W. HELLINGA, Copy and print in Netherland: an Atlas of historical bibliography, with introductory essays by V. H. De La Fontaine - G. W. Ovink, Amsterdam, North-Holland Publishing Company, 1962, pp. 136-137, figg. 1 e 2. La data di questo foglio di pergamena – su cui le pagine vennero combinate erroneamente e che deve quindi essere stato eliminato e usato come materiale di scarto per la legatura – è stata variamente assegnata alla prima e alla seconda metà del XV secolo. Esempi di simili procedure, databili senza dubbio a prima dell’invenzione della stampa, si discutono in G. POLLARD, Notes on the size of the sheet, «The Library», s. IV, 22, 1941, pp. 105-137. Per un dibattito più recente si rinvia a J. VEZIN, Manuscrits imposés, in Mise en page et mise en texte du livre manuscrit, dir. H.-J. MARTIN - J. VEZIN, Paris, Éditions du Cercle de la Librairie-Promodis, 1990, pp. 423425. Il lavoro classico sul sistema della pecia resta quello di J. DESTREZ, La pecia dans le manuscrits universitaires du XIIIe et du XIVe siecle, Paris, J. Vautrain, 1935. Importanti novità al lavoro di Destrez sono presentate in G. POLLARD, The pecia system in the Medieval Univesities, in Medieval Scribes, Manuscripts and Libraries: Essays Presented to N.R. Ker, ed. by M. B. PARKES - A. G. WATSON, London, Scolar Press, 1978, pp. 145-161. Per un eccellente e aggiornato resoconto si veda C. DE HAMEL, A history, pp. 126-129, ma anche N. WEICHSELBAUMER, Das Peciensystem. Zur Buchherstellung an der mittelalterlichen Universität, «Jahresbericht der Erlanger Buchwissenschaft», 1, 2010, pp. 39-45 e ID., «Quod Exemplaria vera habeant et correcta». Concerning the distribution and purpose of the pecia system, in Specialist Markets in the Early Modern Book World, hrsg. von R. KIRWAN - S. MULLINS, Leiden-Boston, Brill, 2015 (Library of the Written Word 40). 12

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1. Esempio di scrittura su foglio intero diviso in quattro pagine: Tommaso da Modena, affresco nella chiesa di san Nicolò, Treviso (1352). Giovanni da Schio si prepara a scrivere. Riproduzione tratta da J. J. Berthier, Le chapitre de San Nicolo de Trevise, p. 153.

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nel XV secolo, non fu necessario introdurre alcuna innovazione nella struttura del codex, la cui esistenza, con valore di documento, superava già i mille anni. Né si verificò alcun cambiamento sostanziale in termini di produzione. Ma quello che fino ad allora era forse stato un metodo occasionale di produzione – la scrittura su un intero foglio non ancora piegato – con l’avvento della stampa divenne il solo modo possibile. Partendo da caratteri in metallo, non si poteva infatti realizzare la stampa di un libro (o di qualunque altro documento) senza l’uso di un torchio. E farvi ricorso significava che i fogli di carta o di pergamena dovevano essere posizionati sotto di esso e poi, in un secondo momento, piegati. Tutto ciò, a sua volta, richiedeva che l’imposizione della pagine fosse decisa in anticipo, nello stesso identico modo in cui erano state divise le pagine in attesa di scrittura nell’affresco raffigurante il copista di Treviso. Recentemente ci sono stati progressi nella comprensione dei primi passi compiuti dalla stampa manuale. La platina era piccola (aveva le dimensioni di una pagina nel formato in-folio) e si poteva stampare solo una pagina in-folio (vale a dire un mezzo foglio) per volta. Ma negli anni Settanta del secolo le tipografie italiane svilupparono un torchio dotato di un carro mobile, che permise di stampare su ciascun lato, e con due pressioni del torchio, un intero foglio di due pagine nel formato in-folio o di quattro nel formato in-quarto13. Questo miglioramento tecnico ebbe notevoli conseguenze nella produzione dei testi: due o più pagine di uno stesso testo, di solito non consecutive, dovevano passare sotto il torchio nel medesimo momento per imprimere fogli che solo successivamente sarebbero stati piegati e assemblati per formare i fascicoli. La quantità di caratteri disponibili era insufficiente perché i compositori potessero comporre abbastanza pagine per completare un fascicolo. Le pagine, pertanto, venivano composte non secondo l’ordine di lettura, ma di stampa. Nel XV secolo, ma anche più avanti, questa era una pratica comune per i libri stampati con il torchio a due colpi. L’esempio più famoso – e certamente il più documentato, da che Charlton Hinmann si occupò per la prima volta di esso – è il First Folio di Shakespeare. Negli esemplari di tipografia arrivati fino a noi, si può osservare che le righe venivano contate e segnate in anticipo, e poi, quando la composizione procedeva, esse venivano segnate nuovamente per dare conto di come, in realtà, il testo fosse effettivamente distribuito14. Molte volte era difficile far corrisponde-

Si veda qui il saggio Torchi e testi nel primo decennio della stampa, pp. 73-100. Una versione leggermente ampliata è disponibile in L. HELLINGA, Texts in transit: manuscript to proof and print in the fifteenth century, Leiden-Boston, Brill, 2014 (Library of the Written Word, 38), pp. 8-36. 14 Un’ampia riflessione sul problema in ivi, pp. 37-101. 13

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re la porzione di testo stampato con quello preventivamente segnato sull’originale e nei primi libri le “saldature” sono spesso visibili all’occhio attento. Invece i compositori erano piuttosto abili e non serviva che avessero tanta esperienza per fare ricorso a tutti i mezzi utili a dissimulare un problema: alterazioni grafiche, gestione degli spazi, delle contrazioni o delle espansioni delle parole, e perfino sottili interventi nel testo, rappresentavano soluzioni abitualmente adottate per far quadrare la composizione delle pagine. Dunque è soprattutto una questione di abilità del compositore se oggi riusciamo a individuare o meno i problemi che egli può avere incontrato nell’aggiustamento dell’originale. Facili o difficili da percepire, i problemi relativi all’adattamento dell’originale incidevano notevolmente sulla composizione del testo. È quindi fondamentale stabilire l’ordine della sua composizione se si intende accertare la trasmissione di quel testo una volta stampato. Generalmente risulta complesso dimostrare in quale ordine vennero composti e stampati i libri prodotti nello straordinario ventennio che precedette lo sviluppo del torchio a due colpi. Anche quando si stampava una pagina alla volta, poteva essere conveniente uscire dalla sequenza testuale logica per completare il lato di un foglio e scegliere quindi di non lavorare secondo l’ordine del testo. Per i più antichi libri stampati è quindi impossibile prevedere l’ordine di composizione. A oggi, comunque, lo stato delle ricerche consente di concludere che i testi fossero spesso composti seriatim (cioè secondo la sequenza testuale), e che ogni foglio passasse sotto il torchio almeno quattro volte (e anche di più, se si trattava di una stampa a colori, una, cioè, per ciascuna pagina nel formato in-folio). L’ordine di composizione del primo libro mai stampato, la Bibbia delle 42 linee di Gutenberg, è stato illustrato da Paul Needham in uno studio, già avviato da Richard Schwab, basato sull’analisi dell’inchiostro15. L’ipotesi di un processo sequenziale, con la ripartizione del lavoro fra compositori e torchi si deve all’incunabolista tedesco Paul Schwenke, che la formulò all’inizio del secolo scorso. Le analisi sull’inchiostro condotte da Needham hanno confermato e reso più nitida la suddivisione della copia di tipografia della Bibbia supposta da Schwenke, e hanno quindi rafforzato l’idea di una produzione spezzettata in sezioni di testo più piccole. Collegare bene fra loro queste sezioni talvolta causò dei problemi in tipografia, ancora oggi visibili: all’interno di ogni troncone di testo, ad esempio, i compositori lavoravano (per la stragrande maggioranza del tempo) secondo l’ordine delle pagine16. P. NEEDHAM, Division of copy in the Gutenberg Bible: three glosses on the ink evidence, «Papers of the Bibliographical Society of America», 79, 1985, pp. 411-426. 16 Grazie a una serie di analisi sull’inchiostro condotte utilizzando la tecnologia Proton Milliprobe, il professor Schwab e i suoi collaboratori furono in grado di fornire indizi su parecchie sezioni di testo della Bibbia di Gutenberg, che suggeriscono uno schema di

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Sono riuscita a dimostrare un’analoga procedura per un libro stampato in Italia. Si tratta del De civitate Dei di sant’Agostino, impresso nel 1467 presso il monastero benedettino di S. Scolastica a Subiaco con il torchio impiantato da Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz, che lasciarono probabilmente la cittadina laziale una volta stampata l’opera del santo17. La maggioranza dei testi di storia della stampa indicano Subiaco come un luogo “vicino a Roma”. Per esperienza personale posso assicurare che “vicino a Roma” è ben oltre Tivoli, dopo un tragitto in pullman di due ore in un paesaggio via via sempre più bello, e dopo una robusta scarpinata su per la montagna. Una volta giunti a destinazione, comunque, la ricompensa alla fatica è molto grande, non solo per l’indimenticabile serenità che un antico monastero infonde, ma anche perché ci si trova fianco a fianco con uno dei libri realizzati attraverso questo procedimento di stampa così intrigante, e con il manoscritto usato come exemplar dai compositori. Il manoscritto – un codice modestamente decorato, forse di una ventina di anni più vecchio del prodotto tipografico – è zeppo di correzioni e di note vergate per prepararlo alla versione a stampa. Fu letto, evidentemente, con spirito critico e con grande attenzione per migliorarne il testo, ma anche i compositori dovettero maneggiare quel manoscritto con rispetto, benché siano chiaramente visibili i segni e le annotazioni fatte prima di comporre il testo, così come si vedono altrettanto chiaramente i segni e le note che essi apposero via via che il lavoro procedeva e quando terminavano ciascuna pagina. In due sezioni del libro si riscontrano sequenze di note che sembrano essere state vergate da due diversi compositori. Si tratta di un caso unico nella storia della stampa: molte delle sezioni sono contrassegnate con lettere e figure che corrispondono alle pagine del libro stampato, come si inferisce analizzando altri (e più tardi) originali di tipografia. Ma in alcune sezioni di questo manoscritto, un certo numero di pagine presenta annotazioni aggiuntive, che indicano, in forma abbreviata, un giorno della settimana seguito dalle lettere a.p. oppure p.p. – ante prandium o post prandium (cioè prima di pranzo o dopo pranzo). È davvero una cosa rara riuscire a mettere in relazione il lavoro di un compositore con il tempo reale. I tempi effettivi di lavoro costituiscono l’aspetto che più ci sfugge all’interno del processo di produzione dei primi

ro alternato, o quanto meno uno schema che, all’interno dei fascicoli, si discostava dall’ordine di lettura. Sulle analisi del gruppo di studio guidato da Richard Schwab si veda anche The Proton Milliprobe Ink Analysis of the Harvard B42, «Papers of the Bibliographical Society of America», 81, 1987, pp. 403-432. 17 AGOSTINO (SANTO), De civitate Dei, [Subiaco, Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz], 12 VI 1467, Fol. ISTC ia01230000. Una riflessione più approfondita riguardo l’exemplar del De civitate Dei di Subiaco in L. HELLINGA, Texts in Transit, pp. 156-167.

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libri a stampa, almeno fino a quando gli archivi dei tipografi o la loro corrispondenza non iniziarono a consegnarci informazioni a riguardo. In questo caso, comunque, non sembra che il tempo costituisse per i due compositori una questione importante o un elemento di pressione. Lavoravano a intervalli lunghi e regolari, come ad esempio nel fascicolo [g], dove si fecero note corrispondenti a nove delle venti pagine di cui esso era composto nel seguente ordine: Mercoledì prima di pranzo Sabato prima di pranzo Martedì prima di pranzo Lunedì dopo pranzo Martedì dopo pranzo Martedì dopo pranzo Lunedì dopo pranzo Lunedì dopo pranzo Martedì dopo pranzo

Partendo dalla relazione fra il conteggio delle pagine dell’originale e quelle del testo composto per la stampa, si può dedurre che i compositori procedettero seguendo un ordine testuale, pagina per pagina. Bisogna dunque concludere che un compositore lavorò al fascicolo [g] almeno per cinque settimane, e forse anche di più, ma per non più di due mezze giornate alla settimana. Si trattava di un monaco, istruito dai ben più esperti tipografi Sweynheym e Pannartz cui la stamperia deve il nome? Qualcuno comunque, a un certo punto del loro apprendistato, deve aver detto ai due tipografi tedeschi di non vincolare la quantità di lavoro realizzata né all’orologio del proprio stomaco né a nessun altro orario, ma solo al libro che stavano stampando. Qualcun’altro, se non addirittura lo stesso compositore, doveva essere in grado, dopo un intervallo, di riprendere il lavoro esattamente nel punto corretto del testo dell’exemplar e di continuare la composizione avendo contezza perfetta della posizione che la pagina avrebbe occupato nel fascicolo. Tutto ciò era indispensabile per la corretta collocazione della pagina all’interno del foglio tipografico, anche quando si stampava una pagina alla volta. Ecco cosa significavano quei segni, che erano necessari sia in un primo momento per isolare piccole porzioni di testo stampate poi seriatim una pagina per volta, sia successivamente, quando si sarebbe stampato nello stesso momento un’intera forma tipografica alla volta. Quei segni, anzi, erano se possibile ancor più necessari quando si stampava una pagina per volta, perché questa procedura lasciava meno spazio per autocorreggersi prima che fosse troppo tardi. E così qualcuno, nel monastero di Subiaco, deve aver preso da parte gli aspiranti compositori per spiegare loro che non

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importava quando componevano le loro pagine, ma che invece era essenziale che registrassero cosa avevano fatto. In un altro punto del manoscritto sublacense si trovano delle note che designano le pagine all’interno del fascicolo, prassi che conosciamo per exemplaria leggermente posteriori. A supporto di questa osservazione è emersa una prova davvero rilevante, le cui implicazioni vanno ben oltre la mera spiegazione delle note riscontrate nel manoscritto di sant’Agostino. Questa testimonianza è contenuta in una lettera indirizzata all’abate di Gottweig (vicino a Melk), conservata presso l’Abbazia di Melk. La lettera fu scritta nel 1471 da un monaco benedettino di nome Benedict Zwink di Ettal, che per molti anni visse nell’abbazia del Sacro Speco – un poco più in alto sulla montagna dove è posto il monastero di Santa Scolastica – dove era conosciuto come Benedetto di Baviera. Zwink scrisse la lettera in relazione al progetto di ampliare le congregazioni benedettine di Bursfeld e Melk fino a includere anche quelle che osservavano le consuetudini di Subiaco e Montecassino. L’uniformità della liturgia era un obiettivo importante all’interno di questo progetto, e bisognava quindi accordarsi riguardo agli uffici divini. «Poiché potrebbe risultare difficile per tutti i monasteri collazionare e modificare i breviari» scriveva Benedetto «sarà più semplice produrne 100 o 200 copie a stampa, nello stesso modo in cui abbiamo prodotto anche 200 copie del De civitate Dei di sant’Agostino nella forma di scrittura che compare nelle pagine che ti allego. Nel monastero del Sacro Speco siamo in grado di trarre il maggior vantaggio possibile dall’uso di questa tecnica, visto che abbiamo le attrezzature e gli uomini [che sanno come impiegarle]. Se potessimo divenire parte di questa unità religiosa [la congregazione estesa], tutti i libri, indipendentemente dal numero, potrebbero essere stampati e distribuiti a ciascun monastero, e tutti i monasteri, a loro volta, si unirebbero alla congregazione grazie al materiale disponibile sul posto e all’aiuto di cinque confratelli che potrebbero apprendere questa tecnica…»18. Non c’è prova che questi breviari

Il testo originale di Benedetto, che ho semplificato e parafrasato, è il seguente: «Item si ordinate in divino officio subito mente non possunt concordari, paulatim componant unam formam breviarii, quae videlicet regula se conformet cum Rubrica Romana et ex post, si non omnia monasteria sint in puncto ad comparandum breviaria, tunc facile centum vel ducenta volumina possunt scribi in quacumque littera in torcularibus, sicut et nos scripsimus ducenta volumina sancti Augustini De civitate Dei, in ista forma scripture, quam mittam. Et artem perfectam in instrumentis et personis habemus in monasterio sacri Specus. Eius in casu posito, quo se talis unio religionis dilataret usque ad nos, per quinque fratres, qui istam artem addiscerent, omnes libros, quotquot essent, per omnia monasteria sibi invicem coniuncta possent scribi et dilatari», Melk, ms 91, citato da B. FRANK, Tipografia monastica sublacense: per una confederazione benedettina, «Il Sacro Speco», 71, 1971, pp. 69-72. Ringrazio di cuore Piero Scapecchi (già Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze) che è 18

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siano mai stati stampati; e non si conosce nemmeno l’esistenza di altri carteggi in grado di dimostrare che il proposito di Benedetto si trasformò in qualcosa di più di un semplice suggerimento. In mancanza di qualunque materiale a stampa superstite, bisogna supporre che le incombenze quotidiane del monastero (che ben potrebbero spiegare la quantità di giorni omessi nelle postille dei compositori) sovrastarono il meno cogente dovere di rendere un servizio al potere unificante e missionario della stampa: le attrezzature tipografiche di Subiaco, quindi, caddero in disuso. La lettera di Benedetto Zwink dimostra, se non altro, una precoce percezione del potere della stampa come mezzo di comunicazione e di unione di persone fisicamente lontane. Gli indizi che suggeriscono la presenza di apprendisti tipografi all’interno dei confini del monastero lasciano pensare, se combinati con la lettera di Benedetto, che l’insediamento di una tipografia a Subiaco fosse legato ai progetti di riforma monastica più che a quanto venne effettivamente prodotto o che è giunto fino a noi. Solo molto raramente è possibile comparare un libro stampato con un manoscritto che è servito da exemplar di tipografia. A oggi per il XV secolo sono stati riconosciuti una quarantina di manoscritti che ebbero quella funzione19. Talvolta i segni sull’originale sono impercettibili, ed è quindi lecito aspettarsi che altro si scoprirà a riguardo, visto che cresce costantemente l’interesse a delineare queste relazioni fra i documenti del XV secolo. I pochi casi analizzati hanno molto contribuito alla nostra comprensione delle procedure che sottendono alla trasmissione dei testi, sia da un supporto all’altro – ad esempio dal codice manoscritto al libro a stampa – sia da un libro stampato a un altro libro stampato. Un testo a stampa doveva subire lo stesso trattamento di un manoscritto – conteggio dell’originale e conseguente apposizione dei segni da parte del compositore – a meno che il tipografo non decidesse di realizzare una replica esatta del suo exemplar a stampa usando lo stesso carattere o un carattere dello stesso corpo, e producendo una ristampa pagina per pagina o addirittura linea per linea. Anche se questa procedura era piuttosto comune nel Quattrocento, il numero di libri prodotti attraverso di essa è inferiore rispetto a quello dei volumi realizzati con la ben più laboriosa tecnica del calcolo preventivo e del conteggio dell’originale. Spesso si è detto che, una volta stampato un testo, la sua tradizione successiva consisterebbe semplicemente in una delle successive edizioni, a loro volta

to a farmi avere una copia della rivista «Il Sacro Speco», un periodico introvabile. La lettera, naturalmente, è interessante, anche perché contiene informazioni relative alla tiratura dell’edizione e al fatto che alcune carte furono inviate come specimen dei caratteri. 19 Supra, nota 14.

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ristampe del proprio predecessore20. Questa logica è lontana dal vero. Vorrei analizzare nel dettaglio un esempio che riguarda sia la trasmissione di un testo da un’edizione a un’altra, sia la sua disseminazione in larghissima parte del mondo dei lettori. Si tratta di un libro che ha fatto la sua comparsa a stampa poco dopo il sant’Agostino di Subiaco, e di cui sono note una trentina di edizioni superstiti in cuna: mi riferisco alla collezione delle Facetiae – una serie di aneddoti, storielle, motti arguti e favolette – raccolte da un autore quasi contemporaneo, Poggio Bracciolini21. Da una prima occhiata allo stemma codicum dell’opera (fig. 4) si capisce subito che non ci si trova affatto davanti a una tradizione lineare. Ma poiché sappiamo qualcosa in più sulla storia del testo nell’epoca in cui cominciò a essere stampato, diventa mano mano più chiara anche la relazione fra le varie edizioni. Una delle chicche di questo testo è che l’autore stesso fornisce informazioni generose circa la sua genesi. La fama di Poggio Bracciolini come umanista si fonda sulle sue scoperte – avvenute nella prima metà del XV secolo in Svizzera e in Francia – di antichi manoscritti di importanti testi classici. Egli viaggiò molto in qualità di segretario apostolico, e grazie a questo suo ruolo creò una rete di amici e di contatti influenti, ma si fece anche molti nemici. Negli anni Trenta, Poggio iniziò a registrare fatti e aneddoti, molti alquanto scabrosi, che andavano via via delineandosi nell’entourage della segreteria apostolica, in quella che egli definiva il bugiale o l’Officina Mendicatorum, cioè la fabbrica delle bugie. A Poggio interessava il latino non solo in quanto lingua dell’antichità classica, ma anche in quanto lingua viva. La sua esperienza di segretario apostolico e i suoi tanti viaggi lo avevano convinto che era necessario Una prima riflessione in questo senso è stata fatta da E. J. KENNEY, The classical text: aspects of editing in the age of the printed book, Berkeley, University of California Press, 1974. Kenney classifica il processo di trasmissione a stampa in “non lineare” (o monogeno) ed “espanso”: «With remarkably few exceptions the descent of any text through the printed editions is in a single line, and each editor is found to base his work on that of his (usually though not invariably) immediate predecessor. For each author the base text, the lectio recepta – the text tout court – is the printed text; this is now the uniquely stable point of reference» (ivi, p. 18). Il concetto di testo stampato come punto di riferimento stabile ha dato grande popolarità a E. L. EINSENSTEIN, The printing press as an agent of change: communications and cultural transformations in early-modern Europe, Cambridge, Cambridge University Press, 1979 (trad. it.: La rivoluzione inavvertita: la stampa come fattore di mutamento, Bologna, Il Mulino, 1986). Questa visione lineare del problema è però stata superata da studi più recenti, per cui si rinvia all’introduzione di Lotte Hellinga al suo Texts in transit, pp. 3-4. 21 La riflessione che segue si fonda su uno studio delle edizioni delle Facetiae del Bracciolini stampate prima del 1482. Si veda qui il saggio La disseminazione di un testo a stampa: il caso delle Facetiae di Poggio Bracciolini, pp. 39-72. 20

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usare il latino come lingua franca sia nel parlato sia nello scritto, prescindendo dalla pedanteria delle regole inventate dai grammatici. La sua raccolta di aneddoti fu un tentativo consapevole di servirsi del latino con la spontaneità normalmente associata all’uso della lingua vernacola, tanto nella comunicazione orale quanto in quella scritta. E con questa scelta letteraria Poggio portò alla perfezione entrambi gli aspetti della comunicazione linguistica. Il suo uso disinvolto del latino lo portò in conflitto con i grammatici, e uno di loro, Lorenzo Valla, lo insultò facendo commenti sprezzanti sulle sue qualità di latinista. Poggio rispose nel 1452 con una Invectiva in Laurentium Vallam dove, sull’onda della retorica dell’indignazione esclamò: «Le mie Facetiae sono circolate in tutta Italia, Francia, Spagna, Germania, Inghilterra, sono state lette da chi capisce il latino e approvate da tutti gli uomini di lettere». La data del 1452 certifica, ovviamente, che il testo di Poggio circolato in Europa era manoscritto e non a stampa. Con l’arrivo dell’arte tipografica, comunque, le rimostranze di Poggio trovarono una cassa di risonanza ancora più viva, come dimostra l’ampio spettro dei luoghi di stampa riscontrabili nello stemma. La popolarità del testo calò un poco negli anni Ottanta del secolo, allorché fece la sua comparsa la traduzione italiana, che vanificava quindi del tutto l’intento di Poggio. La versione latina, comunque, si stampò ancora parecchie volte e la sua tradizione a stampa vide il proprio apogeo nella raccolta delle opere del Bracciolini pubblicata a Basilea nel 1538, che costituisce il testo-base per i moderni filologi22. Furono certamente impresse più edizioni di quante ne siano sopravvissute; infatti quasi tutte le edizioni oggi note del testo sono estremamente rare: si tratta di piccoli inquarto, molti nemmeno stampati particolarmente bene. Nel XVI secolo, poi, il testo fu incluso nell’Index librorum prohibitorum per la sua irriverenza nei confronti del clero. Tutti fattori, insomma, che non ne hanno favorito la sopravvivenza. Anche se il libro è raro ed è conservato in pochissime copie – o addirittura in esemplare unico – in biblioteche sparse qua e là in Occidente, occorre tenere ben presente che le trenta edizioni a oggi censite significano che nell’ultimo trentennio del Quattrocento il testo divenne disponibile in almeno qualche migliaio di copie. Si esamini ora più da vicino lo stemma. Le relazioni che intercorrono fra queste edizioni sono basate su un’indagine testuale di cui non posso dare con-

POGGIO BRACCIOLINI, Opera, collatione emendatorum exemplarium recognita, quorum elenchum versa haec pagina enumerabit…, Basel, Heinrich Petri, agosto 1538 (SBN IT/ICCU/ BVEE/014199; VD16 P3858).

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to dettagliatamente in questa sede23. Il risultato finale, comunque, dimostra che all’incirca nel medesimo periodo – fra 1470 e 1471 – erano state stampate quattro edizioni, di cui tre sine data: quella impressa a Venezia da Christoph Valdarfer e le due prodotte a Roma da Georg Lauer. Tutte sono strettamente connesse fra loro e per una serie di ragioni piuttosto complesse, da tralasciare al momento, potrei stabilire il loro ordine di apparizione. L’edizione veneziana, un libro molto bello, deve essere stata stampata a partire da un exemplar manoscritto, e una copia di essa servì come exemplar per la prima edizione romana. Le varianti di testo sono pochissime e minime, ma sufficienti a distinguere i suoi discendenti da quelli che derivano direttamente dall’edizione di Valdarfer. Uno dei discendenti della princeps romana – la seconda edizione stampata da Georg Lauer, chiamata nello stemma Roma B – fu progettata per essere una ristampa diretta di quella prima edizione (Roma A). Quando era già stato stampato più o meno un quarto di Roma B, in tipografia venne commesso un errore di imposizione, che causò il salto di una pagina di testo. L’errore fu presto scoperto ed emendato astutamente inserendo il testo mancante un po’ più avanti, con una notevole – ma pur sempre minore – perdita di coerenza complessiva. Erano aneddoti dopo tutto, cosa importava? Questa variazione, comunque, ha fatto sì che tutti i discendenti di Roma B siano riconoscibili all’istante, come se fossero portatori di una voglia ereditaria. Appurato, allora, che tutte le edizioni discendono da quella veneziana, possiamo distinguere tre rami nella tradizione a stampa. Un ramo, il più bello della famiglia, discende dalle altrettanto belle ristampe di Friedrich Creussner a Norimberga, mentre una serie di discendenti più tardi derivano dalla versione contenuta negli opera omnia di Bracciolini del 1538. Dal punto di vista testuale, questo ramo è rimasto molto contiguo alla princeps veneziana. Il secondo ramo – leggermente corrotto a causa della sua derivazione dalla seconda edizione romana – fu oggetto di frequenti ristampe a Roma e sviluppò una linea di discendenti francesi, che consiste in un’edizione parigina ristampata due volte a Lione. Questa edizione venne riproposta anche a Milano dallo stesso Christoph Valdarfer che aveva impresso a Venezia la princeps dell’opera, e che prese poi a modello non la bella edizione da lui prodotta, bensì la versioSi veda nota 21, p. 28. Le ultime edizioni che ho esaminato possono essere classificate sulla base dei medesimi criteri testuali. In aggiunta alle 23 edizioni elencate nel saggio sopra citato, tutte stampate ante 1482 circa, ho esaminato altre dieci edizioni impresse prima del 1501, come in L. HELLINGA, Texts in transit, pp. 183-188. L’edizione (non esaminata da me) Venezia, Tommaso de Blavi (o Antonio da Strada), 10 IV 1487, 4° (ISTC ip00867000) completa la lista delle edizioni delle Facetiae oggetto di studio. Quanto invece all’edizione Paris, Michel Le Noir, 4° (ISTC ip00870000), è da assegnare al 1514 circa, in accordo con CIBN, p. 441. 23

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ne leggermente imperfetta. Un manoscritto oggi conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana (ma prodotto in Germania), deve essere disceso da questo ramo della famiglia romana, poiché propone lo stesso errore nella sequenza di presentazione degli aneddoti che era accaduto in tipografia. È degno di nota il fatto che tutti i discendenti di Roma B, un libro molto modesto, siano di aspetto altrettanto semplice, nettamente più in basso nella scala sociale rispetto ai discendenti diretti di Venezia. L’alta concentrazione di edizioni a Roma dimostra come il libro godesse di grande popolarità soprattutto laddove il testo trovò la sua origine, ovvero la sede apostolica. Il fatto che Bracciolini riveli che queste storie irriverenti venissero raccontate nelle anticamere papali – come d’altra parte anche il tono spontaneo da gossip che le caratterizza – avrà fatto colpo, in particolare, sui lettori ecclesiastici, per lo meno fino a quando il testo non si ritorse contro loro stessi. Le Facetiae devono essere state uno di quei libri che qualcuno portò con sé ritornando da un viaggio a Roma. Tutto lascia intendere che i tipografi romani non operassero all’interno di una rete commerciale consolidata, che distribuiva libri ovunque ci fossero lettori, come invece facevano i tipografi veneziani e molti altri nei più importanti centri di commercio. A Roma i tipografi si muovevano su sentieri battuti, per dirla così. Lavoravano per i visitatori che giungevano in città attratti dal suo essere il centro spirituale del mondo occidentale. Una copia della prima edizione romana, ad esempio, potrebbe aver viaggiato dentro la bisaccia di un prete verso Wrocław, in Polonia, dove nel 1475 servì da exemplar per Caspar Elyan24. A partire da questa edizione il testo fu ristampato da qualche parte in un centro religioso polacco (il luogo esatto di questa tipografia è ancora oggetto di discussione, ma probabilmente era situato nella Polonia centrale). Anche l’edizione di Lubecca rappresenta ancora oggi un problema25: appartiene a questo ramo, ma deve essere stata stampata a partire da un esemplare incompleto e disordinato. Comunque sia, possiamo constatare che i discendenti della prima edizione romana si muovono in un ben preciso orizzonte, che insiste sull’Europa centrale o orientale. Resta ancora qualcos’altro da osservare sulla disseminazione del testo illustrata in questo stemma, e cioè che esistono sei edizioni piuttosto indipendenti dalla famiglia principale. Esse rappresentano versioni più brevi e probabilmente anteriori del testo. Ricordiamo come Poggio stesso avesse insistito sulla vasta circolazione della sua opera in molti paesi. È risaputo che la sua raccolta di aneddoti fosse cresciuta di molto negli anni, fino ad annoverarne 273. Ma il testo circolava già in forma manoscritta prima di raggiungere questo numero di 24 25

POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Wrocław, Caspar Elyan, 1475 circa], 4° (ISTC ip00856700). POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Lübeck, Lucas Brandis, 1476 circa], Fol. (ISTC ip00860000).

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aneddoti. Fu la versione finale, quella con 273 aneddoti, a essere stampata da Valdarfer a Venezia, e a essere poi ristampata così tante volte. La versione ormai superata – per intenderci, quella che André Belfort impresse a Ferrara nel 1470 – conteneva solo 175 aneddoti, e presenta molte varianti di testo26. Anton Koberger a Norimberga fece un po’ meglio, avendo avuto come exemplar, un anno più tardi, un manoscritto contenente 218 aneddoti27; Giovanni da Westfalia, a Lovanio, usò un manoscritto in una versione completamente diversa, poiché i 251 aneddoti avevano un titolo che divergeva da quello di tutti gli altri ed erano presentati in un ordine differente28. Anche a Roma – dove dal 1470 in avanti circolarono tantissime copie della versione a stampa – Ulrich Han (o i suoi eredi) produsse una versione con solo 206 aneddoti contenuti in un’edizione sine data che si ritiene sia passata sotto i torchi intorno al 1480, per il cui allestimento deve essere stato usato un manoscritto. Queste quattro versioni indipendenti (e forse anteriori) sono accomunate dal non essere state oggetto di ristampa, con la sola eccezione di quella di Giovanni da Westfalia. Il motivo per cui non vennero ristampate è che probabilmente i tipografi – e i loro clienti – sapevano che non proponevano la sequenza completa delle Facetiae, disponibile a stampa altrove. In questi quattro testimoni, allora, si può vedere un riflesso della vasta diffusione manoscritta del testo in differenti versioni, ma si individua anche un processo di selezione in atto. Con la stampa, infatti, si moltiplicò solo la forma più estesa del testo attraverso una serie di edizioni, in relazione fra loro ma in nessun modo imparentate in linea diretta. L’eccezione – la versione proposta a stampa da Giovanni da Westfalia – è molto illuminante in questo senso. Egli stesso ristampò il suo libro, forse intorno al 1477, in una forma inalterata solo pochi anni dopo averlo pubblicato per la prima volta29. In questa forma, il libro fu riproposto nella vicina Anversa da Mathias van der Goes nel 148630. Ma l’anno seguente il van der Goes, forse insoddisfatto dopo aver visto altre versioni a stampa con la sequenza completa degli aneddoti, pubblicò un’altra edizione contenente tutti i 273 aneddoti, edizione che deve aver avuto come modello una delle edizioni del Creussner. POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, Ferrara, [André Belfort], 5 VIII 1471, 8° (ISTC ip00855500). POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Nürnberg, Anton Koberger, 1472?], Fol. (ISTC ip00856000). 28 POGGIO BRACCIOLINI Facetiae, Leuven, Johannes de Westfalia, 9 I 1475, Fol. (ISTC ip00856500). 29 POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Leuven, Johannes de Westfalia, 1477-1480 circa], 4° (ISTC ip00861700). 30 POGGIO BRACCIOLINI Facetiae, Antwerpen, Mathias van der Goes, 1486, 4° (ISTC ip00865900). 26

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Il fatto appena descritto ha tutta l’aria di attestare il ripudio della versione brevior31. Per concludere, è impossibile rendere giustizia di un altro aspetto della disseminazione del testo di Poggio: gli esemplari delle edizioni rappresentate nello stemma si diffusero infatti in un’area ben più vasta di quella che i luoghi di stampa consentono di immaginare. Abbiamo già detto che il germe della sua proliferazione, nell’Europa orientale, è stata un’edizione stampata a Roma. All’altro capo del mondo occidentale dell’epoca, entrambe le edizioni impresse a Lovanio sono conservate in esemplare unico in una collezione inglese (entrambe le copie recano tracce di un coevo possessore inglese)32. Ovviamente il tasso di sopravvivenza delle copie a stampa è tale per cui l’effettiva disseminazione del testo attraverso gli esemplari di edizioni passate sotto i torchi deve essere lasciato in gran parte all’immaginazione. I manoscritti giocano un ruolo importante nella trasmissione delle Facetiae di Poggio Bracciolini ma, per la natura stessa di questo testo, manca un elemento importante, spesso riscontrato nelle tradizione testuale quattrocentesca. Le storielle irriverenti di Poggio non erano un libro serio: a nessuno infatti interessavano le minutiae del testo. Anche se si accantonarono le versioni abbreviate in favore di quelle più lunghe, non c’è traccia alcuna di collazione o confronti di altro genere con le fonti. La collazione – cioè il confronto critico, sistematico e completo di tutti i testimoni o di una parte di essi – fu un processo continuo, che tende a essere sottovalutato da quei filologi testuali che approdano al XV secolo dopo essersi occupati di testi di altri periodi. Il fatto che la stampa generasse molti più testi, ampiamente disponibili in un gran numero di esemplari, ebbe una ricaduta significativa: il materiale su cui esercitare una collazione divenne assai più numeroso. I manoscritti, quindi, guadagnarono in considerazione in quanto fonti dove cercare un’autorità più antica, basi per la collazione o, semplicemente, in quanto alternative migliori rispetto alle successive versioni a stampa. Nella produzione delle prime officine tipografiche si individua ben presto la tensione verso la perfezione dei testi, ma questo processo non si realizzò pienamente almeno fino a che le tipografie non ebbero rifornito il mondo, e per svariati decenni, di un’ampia varietà di libri. Sono molto grata ai miei colleghi Ursula Baurmeister (Bibliothèque nationale de France, Parigi), Elly Cockx-Indestege (Koninklijke Bibliotheek, Bruxelles) e Helmar Härtell (Herzog-August Bibliothek, Wolfenbüttel) per avermi gentilmente fornito i microfilms e le fotocopie delle due edizioni di Anversa. 32 La copia conservata presso la Cambridge University Library (quella stampata nel 1475) reca la segnatura antica «Ant. Cope […?]» e note di possesso più tarde. La copia che si trova alla Bodleian Library di Oxford (1477-1480 circa) presenta una coeva rilegatura oxoniense, del tipo solitamente noto con il nome di legatura «Rood and Hunt». 31

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Verso la fine del secolo i manoscritti erano ricercati per nuovi scopi, cioè in quanto fonti indipendenti dalla tradizione vulgata. Ben conosciamo l’impulso dato a questa tendenza, agli inizi del XVI secolo, allorché studiosi del calibro di Erasmo da Rotterdam si allontanarono dalle tradizioni testuali stabilite per ritornare ai manoscritti più antichi, che offrivano testimoni meno corrotti per allestire il testo della Bibbia e dei Padri della Chiesa. La grande disponibilità di testi a stampa incoraggiò questo approccio critico, ma ci vollero più di cinquanta anni per ottenere un tale risultato. Quando parliamo di filologia testuale di questo livello, siamo al top della scala intellettuale. Una volta individuato il principio, comunque, possiamo constatarne la presenza ben prima dell’epoca di Erasmo, ma in un modo meno spettacolare. I tipografi producevano un testo in centinaia di esemplari. Si preoccupavano, ovviamente, che quel testo fosse completo, che rimanesse attuale per un tempo ragionevole e che gli errori non venissero moltiplicati centinaia di volte se era possibile evitarlo. Mettendo a confronto edizioni e fonti, gli stampatori – come i loro clienti, d’altra parte – crearono strumenti per accedere a una conoscenza sempre maggiore, che consentì di esprimere nuove valutazioni critiche fondate su una quantità di esemplari mai vista prima. Ovvio il paragone con i moderni sviluppi nel campo della comunicazione. Entro la fine del secolo XV si era dunque prodotta nella diffusione dei libri una vera e propria rivoluzione. Qualche sintomo di questo cambiamento si era colto anche prima dell’avvento della stampa, ma si trattava ancora di segnali molto flebili. Il citato libro di Christopher de Hammel sui manoscritti miniati, ad esempio, contiene un capitolo dedicato ai libri d’ore, che molto eloquentemente egli intitola “Libri per tutti”. Questi libricini di preghiera erano destinati alla devozione privata del singolo, ma nessun altra tipologia di libro venne mai posseduta individualmente in misura così ampia, nemmeno nell’ambito dei libri d’ore medievali, i “per tutti”. Generalmente i manoscritti appartenevano a istituzioni ed erano adibiti a un uso comune piuttosto che individuale, con la ben nota eccezione delle biblioteche nobiliari o reali, che però godevano di uno status quasi istituzionale. I primi libri a essere stampati – Bibbie di grandi dimensioni, testi di diritto canonico o testi patristici come quelli prodotti a Magonza – vennero impressi tutti pensando a un mercato ben preciso, quello dei monasteri e delle altre istituzioni religiose. Questa congiuntura cambiò molto velocemente. I libri iniziarono a essere posseduti da persone che non ne avevano mai avuto uno prima di allora, mentre adesso invece potevano permetterseli, e così iniziarono a usarli. Un libro posseduto personalmente poteva essere trattato come un membro della propria famiglia: lo si poteva tenere con cura o criticare, poteva rappresentare qualcuno con cui crescere, qualcuno da consultare continuamente, qualcuno da trattare male per poi fare nuovamente

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zia. Fortunatamente queste relazioni hanno lasciato molte tracce visibili, quali, ad esempio, note di tutti i tipi, che esprimono interesse o noia, il volto del proprio insegnante o la ragazza dei propri sogni. Per rappresentare il caso di un libro inteso come oggetto che appartiene a una singola persona, non credo ci sia esempio migliore del piccolo volume acquistato dalla British Library qualche anno fa. Quel libro fu stampato a Colonia da Arnold ther Hoernen fra il 1471 e il 1472, ed è uno dei primi esempi noti di un’opera impressa in un formato così piccolo – è un 16° – a nord delle Alpi33. Durante tutto il Medioevo, e anche quando passò sotto i torchi, si ritenne che il suo testo, il Soliloquium, fosse stato scritto da sant’Agostino. Il libro offre un contrasto molto eloquente con il sant’Agostino stampato a Subiaco nel 1467, di cui prima si è detto. Alla Biblioteca Vaticana c’è una copia del sant’Agostino di Subiaco che contiene una severa nota in cui si avverte che appartenne ai Canonici Regolari Lateranensi di Roma, che serviva per un uso comunitario e che nessuno doveva osare sottrarlo per il proprio uso personale34. Il Soliloquium stampato solo cinque anni dopo a Colonia – quello, cioè, di ther Hoernen – non potrebbe offrire contrasto maggiore quanto a presentazione e uso di un testo patristico: il suo piccolo formato in 16° gli permette di stare nascosto fra le mani, come un Enchiridion, o di venire trasportato in una manica, per essere letto in solitudine, non appena disponibile un attimo di quiete in cui nulla interferisca con il proprio dialogo interiore (fig. 2). Visto che ho aperto il saggio ricorrendo a un’immagine che illustrava la diffusione della conoscenza, chiuderò con un’altra immagine che esprime la questione in termini più leggeri. Nell’epoca del codice manoscritto l’insegnamento era di solito rappresentato attraverso la figura del maestro che legge ad alta voce un libro. Gli allievi, invece, potevano considerarsi fortunati se ne avevano uno davanti. In contrapposizione a questa immagine, una silografia contenuta in un libro stampato a Firenze nel 1492 mostra una classe piena di alunni che, con disinvoltura, come fosse una cosa normale, tengono in mano i

AGOSTINO (SANTO), Soliloquia (Incipit: Agnoscam te… ), [Köln, Arnold Ther Hoernen, fra l’8 II 1471 e il 4 III 1472], 16° (ISTC ia01324900). Margaret Lane Ford ha analizzato i caratteri ponendoli in relazione con altre edizioni del ther Hoernen e ha così stabilito una datazione: An unrecorded small-format incunable, «The Library», s. VI, 11, 1989, pp. 139-142. 34 La nota recita: «Ad usum Canonicorum Regularium eiusdem patris Augustini Congregationis Lateranensis in Urbe Roma commorantium. Ubicumque habitaverunt: Ad nullum sic locum pertinet: sed ad personas tantum. Quare nullus sibi usurpare praesumat private usufructu quod ad commune commodum est dedicatum» (Biblioteca Apostolica Vaticana, Stamp. Ross. 493).

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libri35. In pratica, ignorano la presenza del loro maestro e si concentrano sui propri libri, ormai beni personali e privati (fig. 3). Il messaggio è chiaro: se compri questo libro, non hai più bisogno di frequentare le lezioni. Furono persone anonime, come gli scolari della silografia, i principali destinatari della stampa, che proseguì il proprio cammino offrendo un 2. Uno degli esempi più antichi di libri in formato molto piccolo, stampati per essere letti in un momento di solitudine e numero di libri ogni volta quiete: Agostino (santo), Soliloquia (Incipit: Agnoscam te…), maggiore, libri grandi ma an[Köln, Arnold Ther Hoernen, fra l’8 II 1471 e il 4 III 1472], 16° che in formati sempre più pic(ISTC ia01324900). © London, The British Library (IA.3136). coli. La grande differenza con la produzione dei manoscritti è che questi ultimi si allestivano per un destinatario ben preciso o un mercato definito. I manoscritti prodotti confidando nella semplice speranza di venderli sono rari e in ogni caso rappresentano una propaggine tardiva dell’attività degli stationarii. I tipografi impararono alla svelta a lavorare per un mercato vasto e meno definito, e comunque non per il singolo, e nemmeno per una sola particolare tipologia di lettore o di istituzione. Oggi possiamo valutare gli effetti della formidabile e fantasiosa intrapresa di tipografi davvero grandi quali Anton Koberger a Norimberga, Aldo Manuzio (e altri stampatori meno noti ma ugualmente prolifici) a Venezia poiché il loro lavoro si conserva in molte collezioni librarie niente affatto rare ma, anzi, in un numero cospicuo di esemplari. Il tasso di sopravvivenza dei loro prodotti è prova concreta del loro successo di editori nella vendita di libri attraverso canali commerciali sviluppati proprio a partire da quegli anni, libri che finivano nelle mani di acquirenti sconosciuti o perfino di istituzioni. Per un editore che avesse davvero scoperto come sfruttare appieno le potenzialità del nuovo mezzo, era bene che il mercato non fosse troppo definito: se il prodotto funzionava, lo si sarebbe venduto senza proble-

35 CRISTOFORO LANDINO [ma BARTOLOMEO MINIATORE], Formulario di epistole, [Firenze, Bartolommeo de’ Libri, 1490 circa], 4° (ISTC il00040000). Sul Formulario, da assegnare a Bartolomeo Miniatore, si veda M. C. ACOCELLA, Il Formulario di epistole missive e responsive di Bartolomeo Miniatore: un secolo di fortuna editoriale, «La Bibliofilia», 113, 2011, pp. 257-292.

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3. Maestro con i suoi allievi dopo l’invenzione della stampa. Cristoforo Landino [ma Bartolomeo Miniatore], Formulario di epistole, Firenze, Antonio di Bartolommeo Miscomini, 1492, 4° (ISTC il00041000). © London, The British Library (IA. 27203), c. a1r (incisione silografica).

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mi. Mezzo secolo di stampa aveva insegnato ai tipografi come salvaguardare la qualità del prodotto facendo il miglior uso possibile dell’esperienza accumulata nei secoli, prima nella confezione dei manoscritti e poi nell’allestimento dei testi a stampa. Possiamo definire tutto ciò come l’invenzione dell’editoria. Barker e Adams, nelle loro riflessioni sul circuito comunicativo, hanno sottolineato che il testo è la ragione per cui esiste il ciclo del libro; la sua trasmissione dipende dalla propria capacità di generare nuovi cicli. Ritengo che analizzando da vicino le dinamiche della trasmissione nel XV secolo, possiamo forse capire meglio fino a che punto la qualità stessa di un testo e la sua presentazione incisero sulla fortuna della sua trasmissione. Entrambe – qualità e presentazione – dovettero piegarsi alle aspettative di un più ampio contesto. Non si tratta certo di un fenomeno circoscritto al Quattrocento, è vero, ma conoscere le origini di queste dinamiche può chiarirci maggiormente le idee allorché si affronti lo studio della produzione libraria di epoche successive.

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA: IL CASO DELLE FACETIAE DI POGGIO BRACCIOLINI

La rapida diffusione della versione a stampa delle Facetiae, a partire dal 1470, dimostra la grande varietà di percorsi attraverso cui il testo fu trasmesso – dal manoscritto alla stampa e viceversa – a seconda del sistema di distribuzione, dei manoscritti prima e delle versioni stampate poi. Le 31 edizioni in cuna note del testo di Bracciolini – elencate e disposte in ordine cronologico nell’APPENDICE 1 – stanno alla base dell’indagine su questo processo di trasmissione. Alcune varianti testuali – registrate invece nell’APPENDICE 2 – trovano la propria rappresentazione grafica nello stemma codicum, che mostra come esse siano state trasmesse in linea tutt’altro che retta (si veda fig. 4). Lo stemma indica anche i canali di trasmissione attraverso cui le Facetiae si diffusero in una vasta area dell’Europa occidentale fino alla Polonia centrale. Cinque edizioni presentano una derivazione diretta da differenti fonti manoscritte. Fortunatamente la princeps stampata a Venezia da Christoph Valdarfer nel 1470 circa (d’ora in poi Venezia-Valdarfer)1, comprende quella che si ritiene la versione finale del testo, con la serie completa delle 273 facetiae, poi divenuta di gran lunga la più importante. Almeno 25 edizioni derivano dalla princeps veneziana e riflettono, con le loro complesse interdipendenze, il legame esistente fra tipografie e sistemi di distribuzione. Le varianti testuali – che portano in luce, nella stragrande maggioranza dei casi, correzioni e inevitabilmente qualche nuovo errore – rivelano la provenienza di ciascuna edizione. Nonostante la notevole coerenza testuale di questo cospicuo gruppo di edizioni, esistono alcune piccole varianti che permettono di distinguere tre rami principali di trasmissione, almeno fino a quando si raggiunse il punto fermo della raccolta delle opere del Bracciolini, stampata a Basilea nel 1538 e com-

POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Venezia, Christoph Valdarfer, 1470 circa], 4° (ISTC ip00854300).

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4. Lo stemma codicum – riprodotto così come compare in Texts in transit, p. 183 – riassume la complessa ramificazione della diffusione delle Facetiae nella versione a stampa. Da notare la linea di trasmissione diretta che unisce l’editio princeps veneziana con l’edizione canonica del testo, contenuta negli opera omnia di Poggio stampati a Basilea nel 1538 (SBN IT/ICCU/BVEE/014199).

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA

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prendente le Facetiae2. Fino a non molto tempo fa è stata questa la versione di riferimento per il testo del Bracciolini3. Lo stemma mostra che esistono divisioni, nella tradizione del testo, che seguono precise direttrici geografiche: Italia, Francia, Europa orientale, territori tedeschi, e Paesi Bassi. Solo la pensola iberica sembra aver prudentemente evitato di pubblicare le Facetiae, mentre l’Inghilterra dipese (come sempre) dall’importazione. William Caxton tradusse comunque 14 delle Facetiae di Poggio: prima di lui le avevano tradotte, e successivamente diffuse, Heinrich Steinhöwel e Julien Macho, che le proposero assieme ai loro volgarizzamenti – rispettivamente in tedesco e in francese – delle favole di Esopo. Caxton aggiunse la traduzione di altre 4 facetiae a quelle che aveva trovato nella versione del Macho, versione che il tipografo inglese, prendendo Poggio a modello, ampliò con due racconti scritti di proprio pugno4. Per stabilire l’ordine di precedenza delle tre edizioni in cima allo stemma POGGIO BRACCIOLINI, Opera, collatione emendatorum exemplarium recognita, quorum elenchum versa haec pagina enumerabit…. Basel, Heinrich Petri, agosto 1538, (SBN IT/ICCU/ BVEE/014199; VD16 P3858). La più antica edizione a stampa degli opera di Poggio – impressa a Strasburgo nel 1513 da Johann Schott per Johann Knobloch (SBN IT/ICCU/CERE/050728) – non comprendeva le Facetiae. Sono grata a John Hodgson per averlo verificato nella copia conservata presso la John Rylands University Library di Manchester. 3 Due le edizioni critiche recenti della versione latina delle Facetiae: POGGIO BRACCIOLINI, Facezie, con un saggio di Eugenio Garin; introduzione, traduzione e note di Marcello Ciccuto, Milano, BUR 1994; POGGIO BRACCIOLINI, Facezie, introduzione, traduzione e note di Stefano Pittaluga, Milano, Garzanti, 1995, ripubblicato in Le Pogge. Facèties Confabulationes: édition bilingue, texte latin, note philologique et notes de Stefano Pittaluga. Traduction française et introduction de Étienne Wolff, Paris, Les belles lettres, 2005 (Bibliothèque italienne). Per questo lavoro ho seguito l’edizione Pittaluga del 2005. Marcello Ciccuto elenca «le più importanti» edizioni antiche delle Facetiae, includendo le 22 impresse prima del 1501, senza però citare le fonti, e ritiene che la veneziana del Valdarfer (1470) sia la più antica (POGGIO BRACCIOLINI, Facezie, con un saggio di E. Garin; introduzione, traduzione e note di M. Ciccuto, pp. 52-55). Pittaluga fissa a 34 il numero delle edizioni incunabole, senza citare alcuna fonte. Nella sua Note philologique (Le Pogge. Facèties, pp. XLVII-XCIII), pur con qualche riserva, considera la prima delle due edizioni prodotte a Roma da Georg Lauer come la princeps delle Facetiae (indicata nel presente lavoro come Roma A). In questo saggio dimostro che la princeps è invece l’edizione impressa dal Valdarfer, poi ristampata dal Lauer. 4 AESOPUS, Vita, [in inglese] trad. di William Caxton, Westminster, William Caxton, 26 III 1484, Fol. (ISTC ia00117500). Oggi sono in grado di fornire un elenco più completo del contenuto di questa edizione: la traduzione di Caxton comprende (in ordine di presentazione): le facetiae n. 1, 6, 43, 2, 31-34, 36, 79, con in aggiunta le traduzioni della 78, 164, 202 e 87. Sulla traduzione del tipografo inglese, si veda R. H. WILSON, The Poggiana in Caxton’s Esope, «Philological Quarterly», 30, 1951, pp. 348-352, e il mio saggio From Paggio to Caxton. Early Translations of Some of Poggio’s Latin Facetiae, in Texts in transit, pp. 254-277. 2

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– quella impressa a Venezia da Cristoph Valdarfer e le due stampate a Roma da Georg Lauer – si è reso necessario dipanare una matassa alquanto intricata. I caratteri tipografici dei due stampatori indicano che le edizioni furono prodotte in un arco temporale ristretto, ma la datazione fondata sull’analisi dei tipi è solo parzialmente di aiuto. L’edizione di Valdarfer è stata stampata in R110 (Type 1), una polizza che il tipografo usò nel 1470 e nel 14715. Più o meno alla stessa altezza cronologica, Georg Lauer stampava con un romano alto 128 millimetri sulle venti linee (Type 1), usato solo nel 1470 e riscontrato in entrambe le edizioni delle Facetiae6. Se dunque la prima edizione del Lauer precedesse quella del Valdarfer, l’edizione veneziana potrebbe essere datata 1470-1471; se però quella di Valdarfer fosse anteriore all’edizione di Lauer, tutte e due sarebbero da assegnare al 1470 circa. Tradizionalmente Georg Lauer è stato considerato il tipografo della princeps delle Facetiae (con preferenza variabile tra una delle due edizioni), forse perché la sua officina era ubicata a Roma, cioè vicino al luogo in cui l’opera aveva avuto la sua origine7. Anche una collazione preliminare dei rispettivi testi indica che le due edizioni del Lauer sono strettamente legate a quella del Valdarfer, e che le tre edizioni costituiscono, per forza di cose, una successione di ristampe. L’ordine di apparizione delle due edizioni del Lauer si chiarisce da solo: una (d’ora in poi Roma A) ha una consistenza bibliologica di 110 carte, suddivise in fascicoli irregolari, e include – in un fascicolo a sé – un indice alfabetico dei contenuti8; l’altra (d’ora in poi Roma B) è composta da 100 carte, ha una fascicolatura regolare (dieci fascicoli di dieci carte ciascuno), e presenta l’indice alfabetico, così come l’incipit del testo, nel primo fascicolo9. Quello appena esposto è un classico argomento a supporto della precedenza di Roma A su Roma B, precedenza poi confermata da un’irregolarità che si verificò in Roma B (un incidente occorso in tipografia aveva

BMC V, p. 182. BMC IV, p. 35. 7 Si veda nota 5. 8 La formula collazionale di Roma A – ISTC ip00854600 (= GW M3458310) – legge: [a8 b-c10 d8 e-h10 i8 k10 l-m8]. 9 La formula collazionale di Roma B – ISTC ip00855000 (= GW M34582) – legge: [a-k10]. Nelle tre più antiche edizioni l’indice alfabetico presenta le stesse voci, con i rinvii alle carte espressi in numeri romani (ogni numero si riferisce contemporaneamente al recto e al verso della carta). I rinvii alle carte vennero adattati con cura in ciascuna delle tre edizioni successive (Valdarfer, Roma A e Roma B). Nelle due edizioni impresse a Norimberga da Friedrich Creussner rispettivamente nel 1475 (ISTC ip00858000) e prima del 1479 (ISTC ip00863000) – si tratta di due ristampe dall’edizione di Valdarfer – l’indice dei contenuti fu incrementato: all’interno di ciascuna lettera dell’alfabeto, infatti, le facetiae vennero elencate in ordine di apparizione (con alcuni errori). Altre ristampe omisero invece l’indice.

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causato la corruzione del testo, circostanza che ha segnato tutti i discendenti di Roma B e che non è stato riscontrato in Roma A). Una successiva collazione di Venezia-Valdarfer con Roma A dimostra che le due edizioni, da un punto di vista testuale, sono strettamente connesse. Le differenze si trovano soprattutto nella punteggiatura e nell’uso delle maiuscole. Valdarfer stampò la sua edizione in un formato in-folio grande, con 29-30 linee di testo per pagina, mentre Roma A di Georg Lauer è un in-quarto più piccolo (impresso su carta Cancelleresca) con 23 linee di testo per pagina10. Eppure, ampie sezioni dei due libri presentano, di tanto in tanto, lo stesso finale di riga. In altre parole i due libri, dopo aver corrisposto riga per riga per un certo numero di pagine, a un certo punto divergono: un po’ come facevano i compositori, insomma, che generalmente – quando la struttura dei fascicoli lo consentiva – si discostavano dai vincoli imposti dal conteggio preventivo dell’exemplar11. Una corrispondenza così stretta non può essere dovuta a semplice coincidenza: un’edizione fu evidentemente stampata partendo dall’altra. Non è stato comunque altrettanto ovvio stabilire quale delle due abbia fatto da exemplar. Per verificarlo, mi sono servita di una serie di fotocopie di ciascun libro. Simulando cosa avrebbe potuto accadere nelle due tipografie – quella di Valdarfer e quella di Lauer – ho segnato su ogni gruppo di fotocopie la fine delle pagine dell’altro libro; un gruppo, necessariamente, avrebbe dovuto restituire l’idea di ciò che accadde davvero o a Roma o a Venezia. È presumibile che per preparare e dividere l’originale si conteggiarono e si segnarono le righe del testo, visto che questo è il solo metodo di preparazione dell’originale verificato per i primi anni della stampa. Come è accaduto sistematicamente nei casi dei primi exemplar finora studiati, un certo numero di fine-pagina – all’interno di un fascicolo, nel libro finito – concorda con quelli previsti, contrassegnati sull’originale alla fine delle righe. Per converso, invece, un certo numero di fine-pagina e di fine riga non corrisponde a quelli stimati sull’originale, a seconda dei vincoli (o della libertà) presentati dall’ordine di composizione delle pagine all’interno di un fascicolo. Ho messo a punto il sistema delle fotocopie come segue: 1) ho preso una fotocopia di Roma A in quanto exemplar (presunto) di Valdarfer;

In questo saggio si adotta la definizione di Cancelleresca per indicare la pezzatura della carta che corrisponde alla Reçuta (Rizzuta) nella Lapide di Bologna [n.d.t.]. Si veda comunque qui p. 73. 11 Sulla questione si rinvia qui a Compositori ed editori. Allestire un testo per la stampa nel XV secolo, pp. 101-116. 10

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2) ho conteggiato e suddiviso il fascicolo [b]8 di Venezia-Valdarfer sulle riproduzioni della stessa parte di testo in Roma A; 3) ho contrassegnato la fine delle pagine del testo veneziano; 4) ho contato le righe di testo che differenziano Roma A da Venezia-Valdarfer. Il numero delle righe di testo verificate in Roma A varia da 28 a 32 per ciascuna pagina del libro veneziano; sulle 16 pagine del fascicolo considerato, 6 terminano come era stato previsto durante il conteggio dell’originale, mentre 10 se ne discostano. Il procedimento contrario – ipotizzando, cioè, che Venezia-Valdarfer sia stata l’exemplar di Roma A – ha mostrato uno schema diverso. Ho preso il fascicolo [c]10 dell’edizione romana perché presenta pagine in gran parte di uguale lunghezza, con solo due titoli al termine delle pagine. Per 16 pagine sulle 20 di cui si compone il fascicolo dell’edizione romana, Venezia-Valdarfer prevedeva 23 linee di testo, per le altre 4 pagine di Roma A Venezia-Valdarfer prevedeva, invece, 24 linee. Le pagine terminavano in 12 punti ben precisi, come era stato calcolato preventivamente. Si tratta di uno schema piuttosto regolare – simile a quello presente nella copia manoscritta – e benché non sia una prova incontrovertibile, è tuttavia sufficiente per stabilire che VeneziaValdarfer fu usata come exemplar da Georg Lauer, e che l’edizione lagunare è l’editio princeps del testo di Bracciolini. Lauer trasformò un libro che Valdafer aveva proposto in dimensioni consistenti in una pubblicazione complessivamente più modesta. Un’ulteriore successiva collazione dei due libri ha evidenziato alcune varianti fra le due edizioni, offrendo così una serie indipendente di argomentazioni che sono servite a due scopi. In primo luogo, le varianti in questione costituiscono una pezza d’appoggio a supporto dell’ipotesi che l’edizione Venezia-Valdarfer preceda Roma A. In secondo luogo, quelle varianti si sono rivelate utili per distinguere i discendenti di ciascuna delle edizioni: quelli che derivano da Roma A e quelli che invece derivano da Venezia-Valdarfer. Le varianti in sé non sono di particolare rilievo: in un caso, Roma A ha corretto la versione lagunare, omettendo una parola ridondante introdotta da Venezia-Valdarfer a causa di un salto du même au même12; in un altro caso, Roma A recava un errato ordine delle parole, in modo tale da privare di senso una frase che, invece, nella versione veneziana descriveva vivacemente i gesti di una donna che, mentre stava annegando in un pozzo, si ostinava a rimproverare il marito perché aveva i pidocchi13. Presenta lo stesso errore Roma B, che ha aggiunto però al testo un proprio Si veda APPENDICE 2, Facetia 159, p. 67. Si veda APPENDICE 2, Facetia 59, p. 67. Si riscontrano varianti anche nell’intestazione della Facetia 18 e 168 (si veda in merito APPENDICE 2, Varianti e lezioni divergenti, p. 61).

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tratto distintivo a causa di un errore tecnico, divenuto quindi una caratteristica di tutte le edizioni da essa derivate, direttamente o indirettamente14. Ricostruendo il trattamento materiale del testo all’interno della tipografia – in particolare il conteggio delle linee nell’exemplar da preparare per la composizione – è possibile stabilire una linea di discendenza diretta: VeneziaValdarfer > Roma A > Roma B. Se confrontiamo le due edizioni stampate da Georg Lauer è evidente che, fin dal principio, l’intenzione del tipografo fu quella di ridurre, nella ristampa, la dimensione del libro pur usando la stessa polizza (R128). Il numero delle carte – distribuito lungo una sequenza regolare di 10 fascicoli composti da 10 carte ciascuno – fu ridotto da 110 a 100. Si può ipotizzare che una struttura così regolare si debba all’accurata preparazione dell’exemplar, avvenuta contrassegnando una copia della prima edizione del Lauer: si calcolò che a 25 righe di Roma A dovesse corrispondere una pagina con 23 linee di testo in Roma B. Questo risultato fu raggiunto soprattutto grazie a una composizione (tipograficamente) più serrata. Inoltre i titoli di alcune Facetiae vennero abbreviati per evitare di andare a capo, divenendo così più concisi. E dunque il titolo della terza Facetia, così come si presentava in Venezia-Valdarfer e in Roma A – Bonacii Guasconi qui tam tarde e lecto surgebat – in Roma B divenne De Bonacii pigrantis disputatione15. Da un errore occorso nell’officina del Lauer mentre si produceva la ristampa derivò, invece, un segno destinato a incidere anche maggiormente sulla trasmissione del testo: fu scambiata la stampa di due pagine, [c]7 verso e [c]8 recto (o pagina 14 e 15 nel fascicolo [c]). Si trattava di un errore piuttosto comune nelle prime tipografie, che venne mascherato stampigliando due righe pesantemente abbreviate su carta [c]7 recto per completare l’aneddoto con la sua battuta finale. L’alterazione dell’ordine delle facetiae non ebbe conseguenze apparenti, ma il testo, così come si presentava ora in Venezia-Valdarfer e in Roma A, risultava corrotto. Per ulteriori dettagli si rinvia all’APPENDICE 3. Si trattò di un errore piccolo e di un rimedio goffo, non c’è dubbio, ma la ricaduta di un episodio di questo genere sulla trasmissione del testo sarà profonda, visto che la combinazione dei due elementi – errore e conseguente correzione – diverrà un tratto distintivo di tutte le edizioni a stampa (e anche di

Si veda APPENDICE 3. Per ulteriori esempi in questo senso si rinvia all’APPENDICE 2. Étienne Wolff ha osservato che i titoli assegnati alle facetiae non furono probabilmente forniti da Poggio, ma aggiunti più tardi da qualche copista (Le Pogge. Facèties, pp. XXIII-XXIV). In ogni caso quei titoli si rivelano utilissimi al fine di stabilire la derivazione delle edizioni a stampa. 14 15

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una copia manoscritta) che derivano da Roma B16. Sarà pertanto ovvio che tutti i discendenti di Roma B – almeno tredici – hanno anche Venezia-Valdarfer e Roma A fra gli antenati. Ma fra i libri stampati prima del 1501, solo sei discendono direttamente da Venezia-Valdarfer bypassando Roma A e Roma B, e solo tre discendono direttamente da Roma A. La versione leggermente corrotta di Roma B – a causa del suo errore di tipografia di lieve entità – è quindi la più ampiamente disseminata fra le prime edizioni a stampa17. Con tutti questi elementi è possibile disegnare lo stemma codicum, che rappresenta visivamente l’origine di 31 edizioni, tutte in cuna. L’APPENDICE 2 elenca le varianti significative di testo su cui si fonda lo stemma. Una collazione esaustiva dei tre libri più antichi, oltre alle varianti elencate nell’appendice, ne porterà alla luce, con tutta probabilità, anche altre. È comunque importante tenere ben presente che queste tre edizioni, e la gran parte di quelle che da esse derivano, hanno molto in comune, ad esempio il fatto che contengono 273 facetiae, con una prefazione e un epilogo. Si tratta – come è ormai comunemente accettato – della forma del testo corrispondente alla fase ultima del suo graduale sviluppo. Nello studio approfondito della vita e delle opere di Poggio, il suo biografo Ernst Walser – sostenuto, in tempi recenti, da Étienne Wolff – aveva identificato tre fasi redazionali delle Facetiae18. Attorno al 1438 Bracciolini prestò a un amico una raccolta di motti scherzosi. Sia Walser che Wolff citano due lettere di Poggio in quanto fonti che documentano l’esistenza di un manoscritto, andato perduto per la sbadataggine dell’amico, contenente questa più antica versione del testo. Entro il 1444 – epoca in cui il numero delle facetiae aveva raggiunto quota 178 – Poggio aveva riassemblato la raccolta. A questo secondo stato del testo Poggio aveva aggiunto una Prefatio e una Conclusio, dove spiegava il significato della parola bugiale e le circostanze che avevano dato origine alle Facetiae. I manoscritti a cui fu via via aggiunto un numero maggiore di facetiae testimoniano i successivi sviluppi del testo19. La terza e ultima fase redazionale, in essere già dal 1452, comprendeva 273 facetiae. Una volta raggiunto questo numero di aneddoti, Poggio riorganizzò la raccolta: questa versione corrisponde a quella canonica, anche se

Biblioteca Apostolica Vaticana, Ms Pal. lat. 1361, ff. 119-189. Si veda lo stemma codicum, fig. 4. 18 E. WALSER, Poggius Florentinus: Leben und Werke, Leipzig-Berlin, Teubner, 1914. Stefano Pittaluga nel 2005 ha elencato dieci manoscritti che rappresentano le varie fasi di sviluppo del testo e che stanno alla base della sua edizione critica, Le Pogge. Facèties, pp. XLVIII-LII. 19 Pittaluga, a riguardo, cita il seguente manoscritto: Biblioteca Apostolica Vaticana, Ms Vat. Lat. 939, ff. 229r-271r, come in Le Pogge. Facèties, p. L. 16 17

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5a-b. POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Roma, Georg Lauer, 1470 circa]: errore presente nella seconda edizione romana (Roma B) occorso mentre era in produzione la ristampa dalla precedente Roma A. 5a: Roma A, c. [d]2 recto. © London, The British Library (IA. 174477). 5b: Roma B, c. [c]7 recto. © Glasgow, by Permission of University of Glasgow Library, Special Collections. Le due righe in fondo, molto abbreviate, sono stampigliate sulla pagina.

dai carteggi dell’umanista fiorentino emerge che le Facetiae rimasero in realtà un work in progress20. Complessivamente è nota una cinquantina di manoscritti delle Facetiae, che rappresentano differenti stadi di sviluppo del testo21. La data più tarda indicata nell’opera è marzo 1452/1453 e quindi l’ultimo assetto conferito da Poggio al proprio lavoro deve necessariamente essere collocato nell’arco di tempo che intercorre fra questa data e la morte dell’umanista, nel 1459. Walser, Wolff e Pittaluga sostengono che la versione contenuta nella stragrande maggioranza delle edizioni a stampa corrisponda all’ultima volontà dell’autore22. È verosimile, invece, che le edizioni a stampa contenenti un numero minore di facetiae rappresentino una versione precedente del testo, come ad esempio quella finita di stampare il 5 agosto 1471 da André Belfort a Ferrara23. Questa edizione presenta 175 facetiae, un numero molto vicino alle 177 contenute nella versione manoscritta del 1442. Forse l’edizione ferrarese ebbe come exemplar un manoscritto leggermente corrotto, recante la prima versione del testo. Essa presenta inoltre molte lectiones singulares rispetto alla versione contenuta in Venezia-Valdarfer, in Roma A e in Roma B. Dunque, Ferrara rimase isolata nella tradizione a stampa del testo. Ivi, p. LVI. Ivi, p. XLVII. 22 Il manoscritto conservato presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, segnato Pal. lat. 1361, ff. 119-189, deriva da Roma B, come sostiene Stefano Pittaluga discutendo le varianti: «il se révèle donc possible, mais non certain, que Pal1 [i.e. Pal. lat. 1361] dépende directement ou indirectement de princ. [i.e. Roma A], ou, du moins, qu’ils dérivent d’un antigraphe commun», Le Pogge. Facèties, p. LXI. Personalmente ritengo che la relazione sia diretta, poiché il manoscritto è stato copiato da Roma B, e deriva quindi alla lontana da Roma A. Pittaluga sottolinea la coerenza testuale delle edizioni che derivano da Roma A: «Nombreux enfin sont les cas où le groupe princ. Pal1 vulg. [i.e. Basel, 1538] s’accorde pour les erreurs ou les variantes, contre le reste de la tradition», ivi, p. LXI. 23 POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, Ferrara, [André Belfort], 5 VIII 1471, 8° (ISTC ip00855500). 20

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Analogamente l’edizione stampata nel 1472 circa da Anton Koberger a Norimberga – versione che comprende 218 facetiae – risulta indipendente da tutte e quattro quelle sopra analizzate, impresse nel biennio precedente24. Nonostante un legame diretto sia fuori discussione, vale comunque la pena di sottolineare come alcune lezioni di Norimberga siano più contigue a quelle di Ferrara che a quelle contenute nel gruppo Venezia-Roma (si veda APPENDICE 2). Esistono altri due testimoni a stampa derivanti da fonti manoscritte indipendenti. Il più antico dei due fu impresso a Lovanio da Giovanni da Westfalia e reca la data 147525. In seguito il tipografo ristampò questa versione servendosi di uno stato di poco successivo dello stesso carattere, che egli usò fra il 1477 e il 148326. Nella ristampa il colophon legge: Impressus Tempore Ducis Maximiliani in sua terra brabantina, una formula – adottata per esprimere una data vicina al 1477, anno del matrimonio di Massimiliano d’Asburgo con Maria di Borgogna – più suggestiva rispetto al solo 1483, epoca in cui la presenza del sovrano nei Paesi Bassi non era più una novità. Nella raccolta stampata dal da Westfalia compaiono 251 facetiae disposte in un ordine completamente diverso rispetto a quanto finora osservato27. Le lezioni divergono considerevolmente dal gruppo Venezia-Roma. Oltre alla ristampa di Giovanni da Westfalia, il testo del Bracciolini fu ristampato molti anni dopo ad Anversa, nel 1486, da Mathias van der Goes28. Infine, una versione del tutto indipendente dal punto di vista testuale fu impressa a Roma. Questa versione – di solito assegnata a Ulrich Han, ma da attribuire, invece, ai suoi eredi e da assestare intorno al 148029 – contiene 206 facetiae disposte in un modo diverso rispetto a quello che compare in tutte le altre versioni a stampa, e presenta molte lezioni indipendenti. Benché sia noto che almeno cinque edizioni romane, tutte appartenenti alla tradizione Venezia-Roma, l’abbiano preceduto, questo libro è ovviamente indipendente da esse.

POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Nürberg, Anton Koberger, 1472?], Fol. (ISTC ip00856000). 25 POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, Leuven, Johannes de Westfalia, 9 I 1475, Fol. (ISTC ip0856500). 26 POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Leuven, Johannes de Westfalia, 1477-1480 circa], 4° (ISTC ip00861700). Si tratta del carattere Type1B**, come in W. HELLINGA - L. HELLINGA, The fifteenth century printing types of the Low Countries, II, Amsterdam, Hertzberger & Co, 1966, p. 434. 27 L’ordine dei motti nell’edizione del da Westfalia è precisato in Bod-Inc P - 413 (seconda edizione). 28 POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, Antwerpen, Mathias van der Goes, 1486, 4° (ISTC ip00865900). 29 POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, Roma, [1480 circa], 4°, (ISTC ip00859000). 24

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Le varianti che si trovano nelle versioni indipendenti rispetto alla tradizione di Venezia-Valdarfer/Roma A-B, Ferrara, Norimberga-Koberger, Lovanio 1 e le sue due ristampe, e di Roma-Han indicano che gli sviluppi verso la versione probabilmente definitiva dell’opera, con tutte e 273 le facetiae, non furono sempre migliorativi. Un esempio utile per dimostarlo ce lo offre l’attacco della Facetia 11, che in Venezia-Valdarfer e in Roma A e B (e nei relativi discendenti) legge in maniera pressoché costante Bellum oppidum est in nostris appennini montibus. Il sostantivo improprio bellum ha sostituito ciò che in origine doveva essere un toponimo. Nella versione di Ferrara si legge Gollum, Koberger propone […]Elum e Roma-Han stampa Zenum. Nel gruppo Venezia-Roma solo Roma-Rot (ISTC ip00855700) assume una posizione critica nei confronti della parola Bellum e, molto semplicemente, inizia la frase con […]ppidum. Nei manoscritti che ho compulsato, mi sono imbattuta in Gellum (Vat. lat. 939 e Vat. lat. 1785), Collum (BL, Sloane 327), Vellum (BL, Arundel 277), Geluus (Bodl. lat. misc. e. 77) e Belum (Bodl. Canon, misc. 3). Ci sono altre due edizioni che potrebbero apparire indipendenti a giudicare dal numero di facetiae che contengono: si tratta di Roma-Rot (con 276 facetiae) e di Lubecca (ISTC ip00860000, con 245 facetiae). L’edizione stampata da Adam Rot, nel 1471 circa, sopravvive (per quanto noto) in un unico esemplare conservato presso la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco. A una prima occhiata l’edizione sembra essere indipendente, non solo perché mancano sette facetiae, ma anche perché l’ordine in cui esse compaiono è alquanto diverso da quello proposto nelle versioni di Venezia-Valdarfer e di Roma. Il confronto fra le varianti, però, mostra che dal punto di vista testuale l’edizione di Adam Rot appartiene al gruppo di Roma B. Una più approfondita collazione con Roma B indica che l’esemplare di Monaco ha delle lacune dopo le carte 4 e 8, e che le facetiae compaiono nel libro, così come esso è stato rilegato, nel seguente ordine: 1-10, 18-38, 130-174, 39-129, 175-273. La sola parte di testo mancante è quella che contiene le facetiae 11-17, mentre la restante parte è stata rilegata nell’ordine sbagliato. Roma-Rot diverge da Roma B in soli tre punti poco significativi del testo: 1) la lezione Oppidum nella Facetia 11 sopra citata; 2) la Facetia 228 ha perso il proprio titolo; 3) nella Facetia 59 (quella in cui si racconta della donna che, mentre affoga, si ostina a rimproverare il marito per i pidocchi) la prima parola sul verso della carta è praticamente illegibile in Roma-Rot. Oggi in questo punto si legge nequibat corretto a penna, ma la lezione originale era acquibat. Troviamo questa lezione in Roma-Gensberg (ISTC ip00856400), a cui manca il titolo della Facetia 228, ma alla Facetia 11 presenta la lezione Bellum oppidum. L’edizione di Johann Gensberg, quindi, deve per forza avere una parentela collaterale con Roma-Rot: in altre parole, entrambe devono essere discese da un libro appartenente alla famiglia di Roma B che non è

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vissuto, e che possedeva le caratteristiche elencate sopra ai numeri 2 e 3. La perdita del titolo della Facetia 228 è comune anche a due libri più tardi, appartenenti alla tradizione di Roma B, stampati da Johann Schurener (ISTC ip00861600) e da Eucharius Silber (ISTCip00865400) e che, per forza di cose, vanno ritenuti discendenti dallo stesso libro non sopravvissuto. Roma-Rot e Roma-Gensberg, inoltre, si devono escludere dagli antenati di Schurener e di Silber perché entrambi recano la lezione corretta nequibat alla Facetia 59. Non è possibile fornire una risposta soddisfacente riguardo agli antenati dell’edizione impressa a Lubecca, nel 1476 circa, da Lucas Brandis30, anche se può essere di conforto avere la percezione chiara che qualcosa, qui, di nuovo, è stato omesso. Il testo di Lubecca comprende 245 facetiae e ha una fascicolazione irregolare31. Il contenuto è altrettanto irregolare. Il suo inizio è chiaro: le facetiae 1-114 seguono la sequenza di Venezia-Valdarfer e Roma A; a carta [d]5 verso c’è però un passaggio brusco: troviamo infatti la Facetia 269, seguita dalla 270, dalla 271 e dalla 272, che ci conducono alla fine del fascicolo [d]6. Il testo prosegue poi a carta [e]1 recto con le facetiae 144-268, seguite immediatamente dalla 273. La tavola stampata alla fine del libro, che presenta le facetiae in ordine di apparizione, conferma questa sequenza. Dunque, mancano le facetiae 115-143. Le lezioni a testo appartengono tutte alla versione di VeneziaValdarfer e Roma A. L’analisi di queste lezioni ha fatto emergere una differenza molto piccola fra Venezia-Valdarfer e Roma A; quando questa piccola differenza compare (ad esempio nei titoli della Facetia 18, 168, 251 e nel testo della Facetia 59 e 159), Lubecca segue tre volte Roma A (59, 159, 168) e due volte Venezia-Valdarfer (18, 251), mentre la variante nel titolo della Facetia 18 è inutile ai fini dello stemma. Sia Venezia-Valdarfer che Roma A hanno commesso, in questo punto del testo, errori palesi (causam ed eam al posto della lezione corretta spolii causa, emendata nella maggior parte delle edizioni successive). Quanto alla variante nel titolo della Facetia 251 (de sacerdote / presbitero) non esiste una spiegazione chiara. Lubecca presenta parecchie correzioni indipendenti di minore importanza, ad esempio il titolo della Facetia 51 Responsio redolphi ad bernabouem (laddove Venezia-Valdarfer e Roma A leggono ad B.). Dal punto di vista testuale, quindi, Lubecca sembra essere discesa da Roma A con

POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Lübeck, Lucas Brandis, 1476 circa], Fol. (ISTC ip00860000). 31 La formula collazionale – [a10 b10-b9 c8 d6; e-f10 g10+1 h8] – fu registrata da George Chawner esaminando l’esemplare conservato presso la biblioteca del King’s College di Oxford (A list of the incunabula in the library of King’s College, Cambridge, ed. by G. CHAWNER, Cambridge, University Press, 1908, n. 34). Felix de Marez Oyens mi ha comunicato che la copia della Pierpont Morgan Library (Goff P-860) ha la stessa formula collazionale. 30

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poche correzioni indipendenti, anche se sussiste un argomento forte contro questa ipotesi: le facetiae mancanti (115-143) costituiscono esattamente il contenuto del fascicolo [e] di Venezia-Valdarfer. Non c’è tuttavia una spiegazione che giustifichi l’inserimento (dopo le facetiae 1-114) delle facetiae 269-272, che non corrispondono a una porzione rilevante di testo né in Venezia-Valdarfer, né in Roma A, né in nessuna delle altre edizioni che ho esaminato. È meglio, quindi, decidere di assegnare Lubecca alla tradizione di Roma A, cui forse è legata da un “anello” oggi mancante e da un esemplare assemblato malamente, che ha disturbato l’ordine degli aforismi. Due altre edizioni stampate nell’Europa orientale sono strettamente legate a Lubecca e appartengono al ramo dello stemma che fa capo a Roma A. Una copia della prima edizione romana potrebbe aver viaggiato nella bisaccia di un prete diretto a Wrocław, nell’odierna Polonia, dove servì come exemplar per Caspar Elyan più o meno nel 147532. Partendo da questa edizione, il testo fu ristampato circa un anno più tardi in un centro religioso polacco. La localizzazione di questa tipografia non è sicura, ma sono state avanzate ipotesi molto fondate in favore del Tipografo dei Sermones di papa Leone Magno (ISTC il00133500), che probabilmente fu attivo a Chelmno, nella Polonia centrale33. Questi furono i soli discendenti diretti di Roma A che, come abbiamo avuto modo di vedere, era essa stessa una ristampa da Venezia-Valdarfer. La princeps veneziana ebbe invece un numero maggiore di discendenti, che furono probabilmente il risultato di una distribuzione migliore e più ampia rispetto a quella di cui godette la prima edizione romana. La più antica delle ristampe (dopo Roma A) fu un bel libro prodotto nel 1475 a Norimberga da Friedrich Creussner34, che scelse di non prendere come exemplar il libro precedentemente stampato dal concittadino Anton Koberger, contenente solo 218 facetiae35. Il Creussner si limitò ad aggiungere solo un titolo – aderì infatti strettamente al suo exemplar veneziano – e sono proprio i discendenti da questa aggiunta che dimostrano la loro derivazione dal Creussner e non da VeneziaValdarfer. Fra i discendenti della versione del Creussner c’è la sua seconda edi-

POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Wrocław, Caspar Elyan, 1475 circa], 4° (ISTC ip00856700). 33 Sul luogo di attività del Tipografo dei Sermones di san Leone Magno, si veda E. SZANDOROWSKA, A Dutch printing-office in fifteenth century Poland, «Quaerendo», 2, 1972, pp. 162-172. 34 POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Nürnberg], Friedrich Creussner, 1475, Fol. (ISTC ip00858000). 35 POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Nürnberg, Anton Koberger, 1472?], Fol. (ISTC ip00856000). 32

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

zione delle Facetiae (1479 circa)36, che mostra qualche correzione indipendente e un titolo riassuntivo del contenuto (Ne emuli carpant opus propter eloquentie tenuitatem) aggiunto alla prefazione. Ha riproposto questo stesso titolo l’edizione stampata a Spira, nel 1483 circa, dai fratelli Hist (ISTC ip00865800), che a sua volta fu seguita da quella di Johann Siber a Lione (sine data; ISTC ip00865850), di Nikolaus Kessler a Basilea (1488; ISTC ip00869000) e di Konrad Kachelofen a Lipsia (1491; ISTC ip00869500). Infine la raccolta delle opere di Poggio stampata a Basilea nel 1538, poiché possiede un mix con tutte queste peculiarità, dimostra di appartenere a questa linea di discendenza37. L’edizione di Basilea del 1538 servì come base per le piccole ma ben fatte edizioni di Isidore Liseux, pubblicate a Parigi nel 1878-1879 e tradotte in francese e in inglese38. Quello del Liseux è stato il testo di riferimento moderno per la gran parte dei brani tratti dall’opera di Poggio e delle relative citazioni, almeno fino a che Stefano Pittaluga ha prodotto, nel 1995, una versione del testo latino fondata sulle lezioni presenti in dieci manoscritti scelti39. Si deve quindi a una consistente dose di fortuna il fatto che l’edizione stampata a Venezia abbia avuto un impatto sulla tradizione del testo che è durato fino a tempi molto recenti. Abbiamo già visto come la linea di discendenza dalla versione leggermente corrotta di Roma B iniziò a svilupparsi nella stessa città capitolina, in parallelo con la pubblicazione delle versioni derivate da Venezia-Valdarfer e Roma A. Successivamente, questa linea di trasmissione fu portata avanti dai tipografi veneziani e, col tempo, da Michel le Noir a Parigi. Ma molto prima, nel 1475 circa, la stamperia parigina Au Soufflet Vert (vale a dire Louis Symonel & C.) aveva ristampato l’opera da Roma B, introducendo parecchi miglioramenti nel testo: le facetiae vennero infatti numerate, fu corretta la punteggiatura e venne inserito il titolo della Facetia 72, che mancava in tutte le precedenti edizioni40. Questa edizione ebbe due ristampe lionesi: la prima uscita nel 1478 circa (con alcuni errori di distrazione, poi emendati in maniera indipendente nella seconda ristampa; ISTC ip00862000) e la seconda nel 1480 circa (ISTC ip00864300). La terza volta che l’opera del Bracciolini venne pubblicata a Lione non si trat36 POGGIO BRACCIOLINI Facetiae, [Nürnberg, Friedrich Creussner, 1479 circa], Fol. (ISTC ip00863000). 37 POGGIO BRACCIOLINI, Opera, collatione emendatorum exemplarium recognita, quorum elenchum versa haec pagina enumerabit…. Basel, Heinrich Petri, agosto1538 (SBN IT/ICCU/BVEE/014199; VD16 P3858). 38 POGGIO BRACCIOLINI, Les facéties de Pogge Florentin, traduites en français, avec le texte en regard, 2 voll., Paris, Isidore Liseux, 1878-1879. 39 Si veda nota 18, p. 46. 40 POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, Paris, [Au Soufflet Vert (Louis Symonel et Socii), 1475 circa], 4° (ISTC ip00857000).

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA

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tò di una ristampa da una delle due precedenti edizioni cittadine, ma di una ristampa dalla tradizione che discende dalla princeps del Valdarfer. Questa terza edizione lionese (stampata da Johann Siber; ISTC ip00865850) presenta qualche lezione indipendente – ad esempio i titoli delle facetiae 13, 48, 72 – ma, per il resto, dal punto di vista testuale è assolutamente contigua all’edizione stampata a Spira un paio di anni prima. La terza lionese ha migliorato la presentazione dell’opera usando, per il titolo di ciascuna facetia, un’intestazione in carattere di corpo più grande rispetto al testo. Questa caratteristica si riscontra anche nelle edizioni stampate a Basilea dal Kessler e a Lipsia da Konrad Kachelofen, che però non presentano le lezioni indipendenti di Siber. E tuttavia, la linea di trasmissione Creussner II, Spira-Hist, Lione-Siber, Basilea-Kessler, Lipsia-Kachelofen forma un gruppo molto coerente al proprio interno. Roma B fu ristampata anche a Milano. Christoph Valdarfer, che impresse a Venezia l’editio princeps, non prese come exemplar la sua bellisima prima edizione, ma la versione leggermente imperfetta. Numerò gli aforismi e inserì i titoli, ma in un caso (quello della Facetia 72) non adottò il titolo inserito da Parigi-Soufflet Vert. Un manoscritto esemplato in tedesco, e ora conservato presso la Biblioteca Vaticana, deve essere disceso da questo ramo della famiglia romana, perché contiene l’errore che era capitato nella stamperia del Lauer (ordine di presentazione delle facetiae). Bisogna notare che tutti i discendenti di Roma B – un libro molto modesto – hanno una foggia dimessa, essendo nettamente inferiori, quanto all’aspetto tipografico, rispetto ai primi discendenti diretti di Venezia-Valdarfer stampati dal Creussner. La serie delle successive edizioni romane derivate da Roma B venne poi ristampata a Venezia e, svariate volte, a Parigi da Michel le Noir. Nessuna delle quattro versioni indipendenti – Ferarra, Norimberga-Koberger, Lovanio I e Roma-Han, così come le due versioni mutile Roma-Rot e Lubecca – è mai stata ristampata, con l’eccezione di Lovanio I riproposta da Giovanni da Westfalia. Il motivo per cui le quattro più antiche versioni del testo non generarono discendenti va forse ricercato nel fatto che esse non proponevano la serie completa degli aneddoti, disponibile, invece, in altre edizioni. E ciò non dovette sfuggire né ai tipografi né ai loro clienti. Nei quattro testimoni indipendenti si può leggere un riflesso della vasta disseminazione del testo manoscritto in una grande varietà di prime versioni, ma si evidenzia anche un processo di selezione in atto: solo la forma più completa del testo proliferò sotto i torchi, in una linea di discendenza correlata ma per nulla diretta. Ai tipografi interessava rendere giustizia agli autori, e ci tenevano quindi a non proporre testi che potessero essere giudicati incompleti. L’eccezione a questo stato di cose – la versione pubblicata due volte a Lovanio da Giovanni da Westfalia – offre un interessante esempio a riguardo. Dopo che il da Westfalia fece una ristampa inalterata del

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

proprio libro a pochi anni dall’apparizione della sua prima edizione delle Facetiae, nel 1486 Mathias van der Goes, nella vicina Anversa, ristampò quel libro nella stessa forma41. Ma il tipografo olandese, evidentemente insoddisfatto del proprio lavoro dopo aver visto altre versioni a stampa con la sequenza completa degli aneddoti, pubblicò un anno dopo un’altra edizione che conteneva tutte e 273 le facetiae (ISTC ip00868000), prendendo come exemplar la prima edizione del Creussner. Anche se non viene affrontato esplicitamente, van der Goes ripudiò (in quanto brevior) la sua prima edizione appena stampata. La completezza testuale costituiva un interesse primario, ma i tipografi avevano modi diversi per mostrarlo. Esistevano infatti grandi differenze nel modo di proporre al pubblico il formato di stampa più comune, vale a dire l’inquarto: si poteva aggiungere, ad esempio, l’occhietto, un titolo supplementare alla prefazione (a guisa di epigrafe), oppure si potevano numerare le facetiae (come avevano fatto per primi Louis Symonel e i suoi soci a Parigi) e si potevano pure differenziare i titoli attraverso un segno di paragrafo (come nelle edizioni stampate da Eucharius Silber a Roma nel 1480 e 1482 e da Ottino de Luna, a Venezia, nel 1500). A partire dalla metà degli anni Ottanta del Quattrocento, parecchi tipografi – a Lione, Basilea e Lipsia – adottarono un secondo carattere in corpo più grande per stampare i titoli delle facetiae. Vennero lasciati appositi spazi vuoti affinché l’inizio di ciascun racconto fosse contrassegnato da un’iniziale, che un rubricatore avrebbe poi completato in un secondo momento. Caddero invece in disuso le tavole dei contenuti, sia che fossero organizzate in ordine alfabetico che in ordine di apparizione. Le tipografie con personale più esperto rimpiazzarono i titoli delle facetiae che erano stati omessi. Eppure, nonostante i suoi tanti modi di presentazione, il corpo del testo rimase eccezionalmente invariato nel passaggio da una tipografia all’altra. Certo, ci furono delle modifiche, quali la correzione di errori palesi, e perfino l’inserimento di congetture ope ingenii per migliorare il significato del testo, ma tutto sommato si tratta di pochi e sparuti interventi. Nel corso della trasmissione del testo in forma manoscritta si dovettero introdurre alcuni errori che scompaginarono la struttura delle frasi, così che, per rimediare, in tipografia i compositori o i curatori adottarono ognuno soluzioni proprie. Un esempio chiaro in questo senso ce lo fornisce l’attacco della Facetia 38, dove, nel corso della tradizione manoscritta, si inserì forse una glossa nella prima frase del testo, oscurandone così la struttura originale. Il passo riacquistò un senso e una struttura accettabile solo gradualmente, grazie a una migliore punteggiatura (si veda APPENDICE 2). A quanto pare, un occhio editorialmente esperto aveva esaminaPOGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, Antwerpen, Mathias van der Goes, 1486, 4° (ISTC ip00865900).

41

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA

55

to a fondo il testo solo in poche tipografie (ad esempio Au Soufflet Vert a Parigi, Lucas Brandis a Lubecca, Creussner a Norimberga e Silber a Lione), che in questo modo finirono per identificare i propri interventi. Ma in prevalenza il testo passò indenne – attraverso i suoi tortuosi processi di trasmissione – nelle edizioni i cui comuni antenati divennero sempre più lontani nel tempo. La popolarità raggiunta dalle Facetiae, negli anni Settanta e Ottanta, è fuori discussione, anche se qualcuno non concorda su questo punto. Nel XV secolo si stamparono edizioni dell’opera dalle rive del Tevere fino alle coste del mar Baltico. Esistono, però, pochissime prove riguardo il fatto che il testo fosse percepito come vivo e strettamente legato alla realtà contemporanea. Nei confronti di un testo di questo genere infatti, in cui le storielle venivano dette e ridette a mo’ di aneddoti di attualità, senza pretese letterarie, ci si sarebbe aspettato un maggior coinvolgimento nel racconto, testimoniato, negli anni, da adattamenti o aggiornamenti linguistici, tanto nelle versioni manoscritte che in quelle a stampa. In effetti questo tipo di cambiamenti si riscontra nella piccola silloge di facetiae tradotta da Heinrich Steinhöwel e aggiunta alla sua traduzione delle favole di Esopo e Flavio Aviano42. Basandosi su questa edizione, Julien Macho tradusse in francese la medesima selezione di facetiae43. A partire dalla traduzione francese, William Caxton eseguì poi quella in inglese44. I traduttori delle facetiae ampliarono le storie rendendo spesso esplicito ciò che Poggio aveva lasciato sottinteso, e quindi ebbero bisogno di un numero maggiore di parole. Il loro modo di raccontare in volgare, però, aveva un tono radicalmente diverso da quello stile asciutto e sofisticato con cui Bracciolini esprimeva il suo humor, spesso osceno. Il testo originale delle Facetiae era stato chiaramente scritto con un tono di leggerezza, «ad levationes anime et ad ingenii exercitium», come Poggio stesso ebbe a precisare. Nonostante ciò, i tipografi non si sentirono forse liberi – o non furono in grado di farlo – di giocare con la lingua o con la materia delle facetiae in latino, come invece avevano fatto i traduttori. A partire dalla seconda metà del XV secolo, Poggio era conosciuto in qualità di studioso rinomato e di segretario apostolico, come molte delle edizioni non trascurano di rammentare. Nelle sue mani (come accadde più tardi, ad esempio, nei Colloquia di Erasmo), il latino poteva essere usato anche per descrivere la quotidianità in chiave umoristica, come se fosse una lingua parlata: ecco cosa Poggio Bracciolini è riuscito a dimostrare. Ma la genialità e la disin-

GW 351-363 GW 368-372. 44 AESOPUS, Vita [in inglese], trad. di William Caxton, Westminster, William Caxton, 26 III 1484, Fol. (ISTC ia00117500). Sulle fonti di Caxton si veda M. DAVIES, A tale of two Aesops, «The Library», VII, 3, 2006, pp. 257-288: L. HELLINGA, From Poggio to Caxton, pp. 254-277. 42

43

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

voltura linguistica del grande umanista sfuggì ai tipografi. Essi preservarono le sue parole con una deferenza che non era nelle intenzioni dell’autore e che cozza con gli insulti che qualcuno gli rivolse45. A dispetto della popolarità dell’opera, la trasmissione testuale, nelle sequenza delle edizioni a stampa del XV secolo, non giovò alla causa di Poggio. Nonostante, infatti, le operazioni di correzione e “ricucitura” del testo – di solito utilissime per stabilire lo stemma codicum – la lingua non venne trattata con la duttilità che caratterizza una lingua viva e di conseguenza il testo originale rimase in larga parte inalterato, nella forma in cui era apparso a stampa per la prima volta.

45

Il riferimento è alle accuse ingiuriose che Lorenzo Valla rivolse al Bracciolini.

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA

57

APPENDICE 1 Edizioni incunabole delle Facetiae registrate in ordine cronologico – Si rinvia ad ISTC per il censimento degli esemplari e per ulteriori riferimenti bibliografici. – Si adotta la forma dei nomi di persona proposta da IGI. Sigla della edizione e data

Tipografo, formato, riferimenti bibliografici

Numero di Facetiae 273

1.

VeneziaValdarfer 1470 circa

[Christoph Valdarfer], 4° ISTC ip00854300

2.

Roma A 1470 circa

[Georg Lauer], 4° ISTC ip00854600

273

3.

Roma B 1470 circa

[Georg Lauer], 4° ISTC ip00855000

273

4.

Ferrara 5 VIII 1471

[André Belfort], 8° ISTC ip00855500

5.

Roma-Rot 1471 circa

[Adam Rot], 4° ISTC ip00855700

267 su 273?

6.

NorimbergaKoberger 1472 circa

[Anton Koberger], Fol. ISTC ip00856000

218

7.

Roma-Gensberg 1473-4 circa

[Johann Gensberg], 8° ISTC ip00856400

273

Presentazione e note ð Tabula alfabetica ð Intestazione dei capitoli ð Da fonte ms ð Tabula alfabetica ð Intestazione dei capitoli ð Segue Venezia-Valdarfer ð Tabula alfabetica ð Intestazione dei capitoli ð Segue Roma A ð Senza Tabula alfabetica ð Senza intestazione dei capitoli ð Da fonte ms ð Senza Tabula alfabetica ð Intestazione dei capitoli ð Segue Roma B ð Esemplare mutilo ð Senza Tabula alfabetica ð Senza intestazione dei capitoli ð Da fonte ms ð Senza Tabula alfabetica ð Intestazione dei capitoli ð Segue Roma-Rot

58

FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

8.

Lovanio I 9 I 1475

[Johann de Westfalia], Fol. ISTC ip00856500

251

9.

Creussner I 1475

Friedrich Creussner, Fol. ISTC ip00858000

273

10.

Wrocław 1475 circa

[Caspar Elyan], 4° ISTC ip00856700

273

11.

Parigi-Au Soufflet Vert 1475 circa

[Au Soufflet Vert], 4° ISTC ip00857000

273

12.

Lubecca 1476 circa

[Lucas Brandis], Fol. ISTC ip00860000

245

[Tipografo dei Sermones di Leone Magno], 4° ISTC ip00860200 14. Milano IChristoph Valdarfer per Valdarfer Pietro Antonio Casti10 II1477 glione, 4° e 8° ISTC ip00861000 15. Roma-Schurener Johann Schurener de 1477 Boppard, 4° ISTC ip00861600 I due fogli interni del fascicolo [f] sono stampati con il carattere G83 di Johann Bulle, ma il testo è continuo

13.

Chelmno (?) 1476-77 circa

273

273

273

ð Tabula ordine di apparizione ð Intestazione dei capitoli ð Da fonte ms ð Senza Tabula alfabetica ð Intestazione dei capitoli ð Segue Venezia-Valdarfer ð Senza Tabula alfabetica ð Intestazione dei capitoli ð Segue Roma A ð Tabula ordine di apparizione ð Intestazione dei capitoli ð Segue Roma A ð Tabula ordine di apparizione ð Intestazione dei capitoli ð Contigua a Roma A ð Mancano 28 facetiae (115-143) ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli ð Segue Roma A ð Senza Tabula ð Intestazione numerata capp. ð Segue Roma B ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli ð Segue Roma B (cfr. Facetia 59, sotto)

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA

16.

Lovanio I 1477 circa I

[Johannes de Westfalia], 4° ISTC ip00861700

251

17.

Lione I 1478 circa

[Nikolaus Philippi e Markus Reinhart], 4° ISTC ip00862000

273

18.

Creussner II prima del 1479

[Friedrich Creussner], Fol. ISTC ip00863000

273

19.

Roma-Han 1480 circa

[Erede dei tipi di Ulrich Han], 4° ISTC ip00859000;

206

20.

Lione II 1480 circa

[Nikolaus Philippi e Markus Reinhart] 4° ISTC ip00864300

273

21.

Roma-Silber 1480-1482

[Eucharius Silber], 4° ISTC ip00864500

273

22.

Milano II 19 X1481

Leonhard Pachel e Ulrich Scinzenzeler, 4° ISTC ip00865000

273

23.

Spira 1483 circa

[Johann e Konrad Hist], 4° (assegnata anche a Giorgio da Spira) ISTC ip00865800

273

59

ð Tabula ordine a di apparizione ð Intestazione dei capitoli ð Segue Lovanio I ð Tabula ordine di apparizione ð Intestazione numerata capp. ð Segue Parigi-Au Soufflet Vert ð Tabula alfabetica ð Intestazione dei capitoli ð Segue Creussner I ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli ð Da fonte ms ð Tabula ordine di apparizione ð Intestazione dei capitoli con errori, numerati fino a 282 ð Segue Lione I ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli con segni di paragrafo ð Segue Roma-Schurener ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli numerata ð Segue Milano I-Valdarfer ð Occhietto ð Tabula ordine di apparizione ð Intestazione dei capitoli ð Segue Creussner II

60

FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

24.

Lione III 1485-87 circa

[Johann Siber], 4° ISTC ip00865850

273

25.

Anversa I 1486

[Mathias van der Goes], 4° ISTC ip00865900

251

26.

Veneziade Strata 10 IV 1487

[Antonio de Strata, de Cremona], 4° ISTC ip00867000

273

27.

Anversa II 3 VIII 1487

Mathias van der Goes, 4° ISTC ip00868000.

273

28.

Basilea 14 III 1488

N[icolaus] K[essler], 4° ISTC ip00869000

273

29.

Lipsia 1491

Konrad Kachelofen, 4° ISTC ip00869500

273

30.

Parigi-le Noir 15 X 1498

[Michel le Noir], 4° ISTC ip00871000

273

31.

Veneziade Luna 1 XII 1500

Ottino di Luna, 4° ISTC ip00872000

273

ð Occhietto ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli ð Segue Creussner II o Spira ð Tabula ordine di apparizione ð Intestazione dei capitoli ð Segue Lovanio I o II ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli ð Segue Roma-Schurener ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli ð Segue NorimbergaCreussner I ð Occhietto ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli ð Segue Spira ð Occhietto ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli ð Segue Basileia ð Occhietto ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli ð Segue Venezia-De Strata ð Occhietto ð Senza Tabula ð Intestazione dei capitoli ð Segue Parigi-Le-Noir

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA

61

APPENDICE 2* Varianti e lezioni divergenti46 1. Composizione e presentazione del testo Numero delle Facetiae – 273: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 3. Roma B, 5. Roma-Rot (?), 7. Roma-Gensberg, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 13. Chelmno(?), 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 18. Creussner II, 20. Lione II, 21, Roma-Silber, 22. Milano II, 23. Spira, 24, Lione III, 26. Venezia-de Strata, 27. Anversa II, 28. BasileaKessler, 29. Lipsia, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. – 175: 4. Ferrara. – 206: 19. Roma-Han. – 218: 6. Koberger. – 245: 12. Lubecca. – 251: 8, 16. Lovanio I e II, 25. Anversa I, 1486. – 267: 5. Roma-Rot (copia mutila; il totale è forse 273). Intestazione dei capitoli – Presente in: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. RomaGensberg, 8. Lovanio I, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 15. Roma-Schurener, 16. Lovanio II, 18. Creussner II, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 23. Spira, 24. Lione III. 25. Anversa I, 26. Venezia-de Strata, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. – Presente e numerata in: 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 14. Milano I, 17. Lione I, 20. Lione II, 22. Milano II. – Non presente in: 4. Ferrara, 6. Koberger, 19. Roma-Han. Tabula – Elenco in ordine alfabetico dei soggetti con rinvio alle relative carte: 1. VeneziaValdarfer, 2. Roma A, 3. Roma B, 9. Creussner I, 18. Creussner II. * I numeri arabi che precedono la sigla delle edizioni si riferiscono alla tabella (contenente l’elenco, in ordine cronologico, delle edizioni incunabole) presentata nell’APPENDICE 1. 46 Il confronto dei contenuti e la collazione dei testi delle copie non presenti alla British Library si basa su microfilms forniti dalle seguenti biblioteche: Glasgow, University Library (n. 3); München, Bayerische Staatsbibliothek (n. 5); Yale University Library (n. 7); Stockholm, König Library (n. 10); Edinburgh National Library of Scotland (n. 13); Berlin, Staatsbibliothek (n. 24); Bruxelles, Bibliothéque Royal (n. 25); Wölfenbuttel, Herzog August Bibliothek (n. 27). I numeri 9 e 26 sono disponibili on line consultando il sito della Bayerische Staatsbibliothek di Monaco (www.digitale-sammlungen.de). Gli esemplari della Bodleian Library (n. 16, 19, 22), della Cambridge University Library (n. 8), di Cambridge, King’s College (n. 12) li ho esaminati di persona. Sono profondamente grata ai colleghi di tutte queste biblioteche per la collaborazione che mi hanno dimostrato.

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

– Elenco delle Facetiae in ordine di apparizione: 8. Lovanio I, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 12. Lubecca, 16. Lovanio II, 17. Lione I, 20. Lione II, 23. Spira, 25. Anversa I. – Non presente in: 4. Ferrara, 5. Roma-Rot, 6. Koberger, 7. Roma-Gensberg, 10. Wrocław, 13. Chelmno (?), 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 19. Roma-Han, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 24. Lione III, 26. Venezia-de Strata, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. L’elenco proposto di seguito, contenente le caratteristiche specifiche di ciascuna edizione e le relative lezioni divergenti, è stato stilato per stabilire le relazioni che intercorrono fra le edizioni a stampa. Le edizioni derivate da copie manoscritte – che corrispondono, nell’elenco cronologico proposto in APPENDICE 1, ai numeri 4, 6, 8, 16 (ristampa da 8), 19, e 25 (ristampa da 8 o da 16) – sono state generalmente escluse. Titolo dell’opera stampato (la gran parte delle abbreviazioni e delle contrazioni è stata sciolta): – Occhietto separato: Facecie Pog(g)ij: 23. Spira, 24. Lione III, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. Pogij florentini oratoris clarissimi facetiarum: 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. – Incipit: Pogii Florentini oratoris clarissimi facetiarum liber incipit feliciter: 3. Roma B, [ms. vat. Pal. Lat. 1361], 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. … incipit: 14. Milano I, 22. Milano II. Incipit liber Faceciarum Poggij Florentini Secretary Apostolici: 10. Wrocław, 13. Chelmno (?). Poggij Florentini Oratoris eloquentissimi. ac secretarij apostolici facetiarum liber incipit feliciter: 6. Koberger I, 9. Creussner I. … faceciarum incipit feliciter. Prefatio. Ne emuli carpant opus propter eloquentie tenuitatem: 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. Facetie iocundissime Pogii poete laureati civis Florentini secretarii apostolici in cetu pro animi recreatione recitande ornatissime composite incipiunt: 19. Roma-Han. Poggii Florentini Oratoris clarissimi confabulacionum seu faceciarum liber faceciarum incipit feliciter: 12. Lubecca. Pogii Florentini oratoris clarissimi: in facetiarum librum prologus Incipit feliciter: 8. Lovanio I, 16. Lovanio II, 25. Anversa I, 27. Anversa II. Ordine degli aneddoti nelle edizioni con 273 facetiae: – 51-52-53-54-55: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno(?), 18.Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. – 51, 54-55, 52-53: 3. Roma B, [ms Vat.Pal. Lat. 1361], 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 11. Parigi-Soufflet Vert, 14. Milano I, 15. Roma-Schurener,17. Lione I, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Veneziade Luna.

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA

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– 196-197-198 … 251-252: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. – 196, 198 … 251, 197, 252: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 20. Lione II, 21. RomaSilber, 22. Milano II, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna – 1-115, 269-272, 144-268, 273: 12. Lubecca. 2. Lezioni divergenti: titoli delle Facetiae

Facetia 1: Fabula prima cuiusdam caietani pauperis naucleri: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno( ?), 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. ] De Caietano paupere nauclero: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 25. Anversa I, 22. Milano II, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. Facetia 3: Bonacii Guasconi qui tam tarde e lecto surgebat: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler,29. Lipsia. ] De Bonacii pigritantis disputatione: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 8. Lovanio I, 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 16. Lovanio II, 25. Anversa I, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. ] De Donacii pigritantis disputatione: 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 17. Lione I, 20. Lione II. Facetia 11: De sacerdote qui ignorabat solemnitatem palmarum: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. ] De sacerdote solemnitatem palmarum ignorante: 3. Roma B, 7. Roma-Gensberg, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. ] De sacerdote rusticano quadragesimam ignorante: 8, 16. Lovanio I e II, 25. Anversa I. Facetia 13: Dictum coci Illustrissimo duci mediolanensi habitum: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 18. Creussner II, 23. Spira, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. ] Dictum coci duci mediolanensi habitum: 3. Roma B, 7. Roma Gensberg, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 17, 20. Lione I and II, 21. Roma Silber, 22. Milano II, 24. Lione III, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. Facetia 18: Querimonia spolii causam ad facinum canem facta: 1. Venezia-Valdarfer, 9. Creussner I, 10. Wrocław. 12. Lubecca. ] … spolii eam …: 2. Roma A.

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] … spolii causa …: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 8. Lovanio I, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 13. Chelmno (?), 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 16. Lovanio II, 17. Lione I, 18. Creussner II, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 23. Spira, 24. Lione III, 25. Anversa I, 26. Venezia-de Strata, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna.

Facetia 30: Confabulatio N.A.: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 13. Chelmno ( ?), 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. BasileaKessler, 29. Lipsia. ] Confabulatio: 12. Lubecca. ] Confabulatio Nicolai anagnini: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. ] Confabulatio Nicolai sanaguini: 17. Lione I. ] anaguini: 20. Lione II. ] senza titolo: 10. Wrocław, 13. Chelmno (?). Facetia 35: Pulchra facetia histrionis ad Bonifacium papam: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. ] Facetia histrionis ad Bonifacium papam: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. Facetia 48: De mendico fratre qui tempore belli Bernardo pacem nominavit: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 13. Chelmno (?), 18. Creussner II, 23. Spira. ] De mendico qui …: 14. Milano I, 22. Milano II. ] De medico fratre qui …: 12. Lubecca, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. ] De medico qui …: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. Facetia 52: Alia responsio ad G: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 13. Chelmno ( ?), 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. ] Alia responsio Redolphi ad G: 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 17. Lione I, 20. Lione II (numerato ‘liiij’) ] senza titolo: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 14. Milano I, 15. RomaSchurener, 21. Roma-Silber, 22. Milano I1. ] le righe finali abbreviate della Facetia 51 sono diventate il titolo della 52: Redolphus ait se ideo urbem non egredi: sic tu ingrediaris: 26. Venezia-de Strata, 31. Venezia-de Luna. ] … ne tu ingrediaris: 30. Parigi-le Noir.

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA

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Facetia 54, titolo supplito: Sentencia Redolphi contra illum qui eum vulnerauit: 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 17. Lione I, 20. Lione II. ] Responsio Redolphi pro uulnere sagitte: 14. Milano I, 22. Milano II. Facetia 72: senza titolo: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 15. RomaSchurener, 18. Creussner II, 21. Roma-Silber, 23. Spira, 26. Venezia-de Strata, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. titolo supplito: ] Pulcrum dictum defendens ludentes ad taxillos: 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 17. Lione I, 20. Lione II. ] De eo qui lusit ad tasillos: 14. Milano, I, 22. Milano II. ] De eo qui lusit ad taxillos: 24. Lione III. ] De lusore propter lusum in carcerem truso: Basilea-1538. Facetia 144: senza titolo: 12. Lubecca. Facetia 168: Mirandum conspiciendum: 1.Venezia-Valdarfer, 9. Creussner I, 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. ] Mirandum inspiciendum: 2. Roma A, 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 10. Wrocław, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. Facetia 196: Facetissimum Angelotti Cinbisarionem C graecum: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner . ] … Angelotti. C. in bisarionem. C. grecum: 10. Wrocław. ] Facetum … : 13. Chelmno (?). ] … angelotti in barisionem graecum: 12. Lubecca. ] Facetissimum Angelotti dictum (d)e cardinali greco barbato: 18. Creussner II. 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia, Basilea-1538. ] Facetum Angelott. Cibisarionem C: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 15. Roma-Schurener, 21. Roma-Silber, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. ] Facetum Angelott.C. bisarionem. c.: 26. Venezia-de Strata. ] … in bisarionem C: 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 17. Lione I, 20. Lione II, 14. Milano I, 22. Milano II. Facetia 198: Facetum cuiusdam iudicis in aduocatum qui allegauit clementinam & nouellam: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III (…clementiam …), 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. ] Facetum iudicis in aduocatum: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31.Venezia-de Luna.

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

Facetia 201: De adolescentula segregata a viro: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 13. Chelmno (?), 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. Facetia 202: De duorum contentione pro eodem insigne armorum: 1. Venezia-Valdafer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 13. Chelmno (?). ] … insigni …, 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. BasileaKessler, 29. Lipsia. Facetia 201 e 202: senza titolo: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 11. ParigiAu Soufflet Vert, 14. Milano I (supplisce un titolo per la 202), 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 22. Milano II (segue Milano I), 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. Facetia 228: Sapiens dictum cardinalis Auionensis ad regem franci(a)e: 1. VeneziaValdarfer, 2. Roma A, 3. Roma B, 9. Creussner I, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?),14. Milano I, 17. Lione I, 18. Creussner II, 20. Lione II, 22. Milano II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. ] senza titolo: 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 15. Roma-Schurener, 21. Roma-Silber, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. Facetia 251: De sacerdote Epiphania an uir esset uel f(o)emina ignorante: 1. VeneziaValdarfer, 9.Creussner I, 13. Chelmno (?), 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. ] … Epiphaniam: 10. Wrocław, 12. Lubecca. ] De presbitero … epiphaniam: 2. Roma A, 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 14. Milano I, 15. Roma-Schurener (nel foglio stampato da Johann Bulle), 17. Lione I, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. 3. Lezioni divergenti del testo

Facetia 11: (B)Ellum oppidum est in nostris appennini montibus: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 3. Roma B, 7. Roma-Gensberg, 8. Lovanio I, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 14. Milano I, 15. Roma-Schurener,16. Lovanio II, 17. Lione I, 18. Creussner II, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 23. Spira, 24. Lione III, 26. Venezia-de Strata, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. ] (G)ollum: 4. Ferrara ] ( )Elum: 6. Koberger. ] (z)ENUM: 19. Roma-Han. Facetia 38: Oppidum est in montibus nostris: in quo multi ex variis locis ad diem festum convenerant. erat enim celebritas sancti Stephani religiosus quidam erat

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA

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rus de more sermonem ad populum: cum hora esset …: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 3. Roma B, 5. Roma Rot, 7. Roma-Gensberg, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 15. Roma-Schurener, 21. Roma-Silber, 23. Spira, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. ] … erat autem celebritas: 17. Lione I, 20. Lione II. ] … sancti stephani. R/religiosus quidam: 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 12. Lubecca, 17. Lione I, 18. Creussner II, 20. Lione II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. BasileaKessler, 29. Lipsia. ] … ex variis locis ad diem festum conuenerant. (erat enim celebritas sancti stephani) religiosus quidam: 14. Milano I, 22. Milano II. ] … ex uariis locis ad diem festum Erat enim celebritas sancti stephani conuenerant: Religiosus quidam: 4. Ferrara, 6. Koberger, 8, 16. Lovanio I, II. ]… ad diem festum conueniunt. Erat enim celebritas sancti stephani. Religiosus quidam erat de more habiturus sermonem …: 19. Roma-Han.

Facetia 51 (fine): …egressum suum varie excusantem. non bene inquit neque prudenter respondisti. Vade redi dic Bernabovi Redolfus ait se ideo urbem non egredi ne tu ingredi queas: 1. Venezia-Valdarfer, 2. Roma A, 9. Creussner I, 10. Wrocław, 12. Lubecca, 13. Chelmno ( ?), 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. BasileaKessler, 29. Lipsia. ] … egressum suum excusantem. non bene inquit respondisti. vade dic Ber.Redolfus ait ideo urbem non egredi: ne tu ingrediaris.: 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. RomaGensberg, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 20. Lione II, 21. Roma-Silber, 22. Milano II, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. ] uade dic Ber.: 26. Venezia-de Strata, 31. Venezia-de Luna (il titolo che segue la facetia legge: Redolphus ait se ideo urbem non egredi: sic tu ingrediaris.). Facetia 59: … etiam dum suffocaretur quod loqui nequibat: digitis exprimebat. Nam manibus super caput erectis atque ungulis utriusque pollicis coniunctis: saltem quod potuit gestu viro pediculos obijciebat: 1. Venezia-Valdarfer, 9. Creussner I, 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia. ] etiam dum suffocaretur quod loqui nequibat: nam manibus digitis exprimebat. super caput erectis atque ungulis utriusque pollicis coniunctis […]: 2. Roma A, 3. Roma B, 10. Wrocław, 13. Chelmno ( ?), 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 22. Milano II, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. ] et dum suffocaretur … supra caput … gestu pediculos viro: 4. Ferrara, 6. Koberger. ] … supra caput … vnguibus vtriusque … saltem quoad …: 8. Lovanio I, 19. RomaHan, 16. Lovanio II. ] … acquibat: 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg. ] … nequibat / iam manibus: 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 17. Lione I, 20. Lione II. ] … digitisque … coniunctim …: 12. Lubecca. ] … manibus & digitis …: 21. Roma-Silber. Facetia 159: … coquus/cocus baronti … qui per iniuriam uxorem vapulavit: 1. VeneziaValdarfer, 9. Creussner I, 18. Creussner II, 23. Spira, 24. Lione III, 27. Anversa II, 28. Basilea-Kessler, 29. Lipsia.

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

] … coquus/cocus Baronti … qui per iniuriam vapulavit: 2. Roma A, 3. Roma B, 5. Roma-Rot, 7. Roma-Gensberg, 10. Wrocław, 11. Parigi-Au Soufflet Vert, 12. Lubecca, 13. Chelmno (?), 14. Milano I, 15. Roma-Schurener, 17. Lione I, 20. Lione II, 21. RomaSilber, 22. Milano II, 26. Venezia-de Strata, 30. Parigi-le Noir, 31. Venezia-de Luna. ] … coquus aronti … qui per iniuriam vapulavit: 4. Ferrara, 6. Koberger, 19. Roma Han.

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA

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APPENDICE 3 L’errore avvenuto nella tipografia di Georg Lauer durante la stampa della sua seconda edizione delle Facetiae La seconda edizione delle Facetiae impressa dal Lauer (ISTC ip00855000 ) – Roma B – ha una struttura di dieci fascicoli di dieci carte ciascuno, ed è stata stampata su mezzi fogli. Come si è detto, il suo exemplar fu una copia della prima edizione romana dello stesso Lauer (Roma A), in cui vennero preparate e segnate le future pagine e i fascicoli e in cui furono ridotte le righe di testo per ciascuna pagina: dalle 25 righe di Roma A si passò alle 23 di Roma B. Anche se la struttura è piuttosto regolare – ogni fascicolo è costituito da cinque mezzi fogli – è utile illustrare quella del fascicolo [c], dove si verificò l’errore. Mezzi fogli [c]1 coerente con[c]10

[c]2 coerente con [c]9

[c]3 coerente con [c]8

[c]4 coerente con [c]7

[c]5 coerente con [c]6

Pagine coerenti [c]1r = pagina 1 > [c]10v = pagina 20 (pagg. esterne, mezzo foglio 1) [c]1v = pagina 2 > [c]10r = pagina 19 (pagg. interne, mezzo foglio 1) [c]2r = pagina 3 > [c]9v = pagina 18 (pagg. esterne, mezzo foglio 2) [c]2v = pagina 4 > [c]9r = pagina 17 (pagg. interne, mezzo foglio 2) [c]3r = pagina 5 > [c]8v = pagina 16 (pagg. esterne, mezzo foglio 3) [c]3v = pagina 6 > [c]8r = pagina 15 (pagg. interne, mezzo foglio 3) [c]4r = pagina 7 > [c]7v = pagina 14 (pagg. esterne, mezzo foglio 4) [c]4v = pagina 8 > [c]7r = pagina 13 (pagg. interne, mezzo foglio 4) [c]5r = pagina 9 > [c]6v = pagina 12 (pagg. esterne, mezzo foglio 5) [c]5v = pagina 10 > [c]6r = pagina 11 (pagg. interne, mezzo foglio 5)

In fondo a pagina [c]7 recto di Roma B, al posto della fine della Facetia 51 (Responsio Redolphi ad B), troviamo due righe stampigliate sotto lo specchio di stampa. Queste due righe si trovano in tutti gli esemplari finora esaminati: quello della Bodleian Library, della Hunterian Library a Glasgow, della Pierpont Morgan Library e anche nella copia descritta nel catalogo 131 dell’editore Hans Peter Kraus, copia ora custodita

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

presso la Yale University Library47. Le due righe stampigliate completano l’aneddoto, ma in una versione molto abbreviata e scorciata rispetto a quella di Venezia-Valdarfer e Roma A. Le versioni, dunque, leggono: Roma A: … egressum suu uarie ex- || cusantem. non bene inquit ne! prudenter re- || spondisti. Vade redi dic Bernaboui Redolfus || ait se ideo urbe no egredi ne tu igredi queas: || (seguito dal titolo della Facetia 52 – Alia responsio ad. G. – e dalle prime due righe del testo). Roma B: … egressum suu || (testo stampigliato:) excusante n bn iqt rndisti. uade dic Ber. Re- || dolfus ait ideo urbe no egredi: ne tu igrediaris. || In tutte le copie di Roma B la parola se è manoscritta fra excusante e n (si veda fig. 5b). In Roma B, quindi, la battuta conclusiva dell’aneddoto viene ridotta da tre righe e un quarto a due. Alla pagina seguente [c]7 verso, pagina 14 nel fascicolo [c], non troviamo, come le sarebbe spettato, la Facetia 52 – che compare, invece, nell’exemplar a stampa (Roma A) e in Venezia-Valdarfer – ma la Facetia 54 (senza titolo), seguita dalla 55 correttamente intitolata Fabula Mancini. La Facetia 55 continua a pagina 15 (c. [c]8 recto), dove è seguita dalla Facetia 52 (Alia Responsio Redolphi ad G.) e dalla 53. Il corretto ordine del testo fu ripristinato all’inizio di carta [c]8 verso, pagina 16 nel fascicolo. I titoli di queste facetiae, nella loro corretta sequenza, sono: 51. Responsio Redolphi ad Bernabovem. 52. Alia responsio [Redolphi] ad .G. 53. De eodem quomodo a Florentinis pro proditore depictus est. 54. De quodam qui Redolphum sagittando vulneravit. 55. Fabula Mancini. Riassumendo: in Roma B l’ordine del testo delle pagine 13-15 – o se si preferisce delle carte [c]7 recto, 7 verso, 8 recto e 8 verso – è facetiae 51, 54, 55, 52, 53, che si può schematicamente rappresentare come a-c-b, laddove Roma A possiede a-b-c. Di solito un errore di tipografia offre l’opportunità di esaminare più da vicino i metodi di produzione, e l’errore del Lauer non fa eccezione. Nel 1470, durante il suo primo anno di attività come tipografo, il Lauer aveva prodotto: un’edizione datata 29 ottobre 1470 in formato in-folio (si tratta delle Homiliae di san Giovanni Crisostomo, ISTC ij00286000), due edizioni non datate altrettanto consistenti, da assegnare allo stesso anno (si tratta dei Sermones di san Giovanni Crisostomo, ISTC ij00300000 e delle Quaestiones di san Tommaso, ISTC it00182000), una bolla papale – di sole quattro carte – emanata nell’aprile del 1470 (ISTC ip 00157500). È quindi fuori di dubbio che, in quegli anni, Lauer possedeva un torchio in grado di stampare una pagina nel formato in-folio (o due pagine nel formato in-quarto) in una volta, prima di accostarsi, nel 1472, a quella meravigliosa invenzione che fu il torchio a due colpi48. Entrambe le edizioni delle Facetiae fanno parte dei primi prodotti del Lauer. Tutti gli in-quarto che appartengono a questa fase iniziale sono stati stampati su mezzi fogli (cioè con torchio 47 Monumenta xylographica et typographica: the cradle of printing. Part 2, New York, H. P. Kraus, 1971 (Catalogue, 131), n. 12. 48 Per una trattazione completa riguardo l’innovazione tecnica del torchio a due colpi si veda qui il saggio Torchi e testi nel primo decennio della stampa, pp. 73-100.

II. LA DISSEMINAZIONE DI UN TESTO A STAMPA

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a un colpo). Il fatto che già nel 1470 il tipografo possedesse un torchio in grado di alloggiare un in-folio grande non esclude la possibilità che ne possedesse anche uno molto piccolo, su cui stampava, una alla volta, le pagine nel formato in-quarto. Tutto ciò induce a domandarsi se sia possibile stabilire il processo con cui furono stampate le sue prime edizioni in-quarto: due pagine combinate in una forma di stampa – e quindi non seriatim – stampate sul torchio grande oppure una pagina per volta, sul torchio piccolo, seguendo la sequenza del testo, combinando le pagine su mezzi fogli mano mano che la composizione e la stampa procedevano. La variazione nell’ordine delle Facetiae nel fascicolo [c] di Roma B ci consente di seguire per un po’ le mosse del tipografo, e perfino di individuare con esattezza alcuni passaggi all’interno della tipografia. Per capire cosa accadde è fondamentale tenere presente che il contenuto di pagina 14 e 15, nel fascicolo [c], forma un testo continuo. La Facetia 55 inizia a pagina 14 e continua senza interruzioni a pagina 15. L’appartenenza di queste due pagine rispettivamente al mezzo foglio 4 e 3 è già di per sé una spia che la stampa non avvenne pagina per pagina, completando le pagine coerenti dei mezzi fogli non appena la prima metà veniva composta e stampata (come si evince, ad esempio, dal metodo usato dal primo tipografo di Oxford)49. È altrettanto fondamentale avere chiaro che la stampa di pagina 13 – con le righe stampigliate fuori dallo specchio di stampa – deve avere preceduto quella di pagina 15, dove fu stampato il testo mancante delle Facetiae 52 e 53. Se il tipografo stava componendo per forme, avrebbe potuto tranquillamente scambiare le due pagine, ma in questo caso la composizione e la stampa di pagina 13 non avrebbero preceduto la composizione e la stampa delle pagine 14 e 15, che sarebbero appartenute a forme completate precedentemente. Tutto questo si può spiegare più chiaramente anche in un altro modo: il libro fu prodotto con il metodo più antico (torchio a un colpo), cioè componendo e stampando seriatim il recto e il verso della prima metà di un foglio, e ammucchiando via via i mezzi fogli finiti. Arrivati alla parte di testo che completava la prima metà dei fogli, si procedeva con la composizione e la stampa del testo destinato all’altra metà. Non deve sorprendere il fatto che con questo metodo si commettessero degli errori: inconvenienti come quello di cui stiamo parlando – l’inversione, cioè, delle pagine – non sono rari nei primi anni della stampa, e per lo più lasciano come traccia lo scarto dei fogli errati. Se un tipografo si fosse intestardito a presentare un testo corretto, ricreando accuratamente quello del suo exemplar, avrebbe infatti scartato l’intera tiratura dei fogli difettosi e avrebbe iniziato tutto da capo. Georg Lauer, invece, decise di non sprecare energie e carta, materiale sempre prezioso, ma di aggirare il problema. Il che ci consente di ricostruire cosa accadde. Il compositore e il tipografo procedettero secondo l’ordine del testo da pagina 1 a pagina 12, e il mezzo foglio 5 venne terminato regolarmente. Poi, dopo aver composto pagina 13 e dopo aver correttamente combinato la sua stampa con pagina 8 sul mezzo foglio 4, fu commesso l’errore: la prima pagina del mezzo foglio 4 (cioè pagina 7) fu composta e combinata non con la pagina seguente, così come era stata conteggiata sul testo (cioè la 14), bensì con quella che avrebbe dovuto essere stampata dopo (cioè la 15). La tiratura fu completata prima che ci si accor-

49

Ivi, pp. 81-82.

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

gesse dell’errore. Una volta che questo venne individuato, il proto non scartò il mezzo foglio 4 (che ora conteneva le pagine 7, 8, 13 e 15), ma improvvisò un lavoro di “riparazione”. Egli terminò a pagina 13 la Facetia 51 – che era stata bruscamente interrotta a metà della frase – stampigliando su due righe il testo mancante (fortemente abbreviato) e decise di completare la Facetia 55 nella pagina seguente, dove c’era abbastanza spazio per collocare le Facetiae 52 e 53, che erano state omesse. Resta comunque aperto il problema se l’errore sia derivato dal salto di una pagina per cattiva lettura dei segni sull’exemplar, o sia piuttosto legato all’aver attinto dalla pila sbagliata di mezzi fogli, quelli, cioè, già stampati che attendevano di essere completati sotto i torchi. Avendo astutamente contenuto il danno, il tipografo dovette convincersi che non c’era stata nessuna perdita consistente di testo – si perse solo un titolo (quello della Facetia 54) – e dopo il suo intervento si riprese a stampare secondo l’ordine dell’exemplar. Il risultato fu che le due spiritose conversazioni di Redolphus, appartenenti alla sequenza delle quattro storielle omonime (Facetiae 51-54) furono separate, con conseguenze lievi sull’assemblaggio – tutt’altro che coerente – degli aneddoti. In questo modo il tipografo confinò il disordine del testo a due sole pagine, consegnando comunque ai lettori un testo completo (anche se un tantino disordinato). Nell’indice alfabetico di Roma B si tenne conto del cambiamento di ordine delle Facetiae 51-55. Cosa accadde davvero è solo congetturabile, ma, con buona dose di certezza, possiamo ritenere che l’incidente indichi nella procedura di stampa seriatim, pagina per pagina su un torchio a un solo colpo, il metodo di produzione adottato. Poco tempo dopo Georg Lauer si dotò di un torchio a due colpi con cui stampò edizioni in-quarto, componendo per forme. Egli è il primo tipografo sulla cui produzione è accertabile questa novità tecnica50.

50

Ivi, p. 88.

III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA*

Introduzione** Questo saggio ha avuto un lungo periodo di gestazione, e il professor Luigi Balsamo è stato al corrente della sua esistenza e dei suoi progressi fin dalle battute iniziali, poiché visitai Bologna proprio quando lo studio era ancora nella sua prima fase di elaborazione. Balsamo, venuto infatti a sapere del mio soggiorno in città durante una conversazione, mi invitò a dimostrare quanto andavo elaborando su alcuni incunaboli in-quarto posseduti – mi pare – dalla Biblioteca Universitaria. Ricordo, quindi, che, attorniata da alcuni amici, illustrai il mio trucco di registrare la posizione delle filigrane riscontrate in libri stampati su mezzi fogli, spiegando nel contempo cosa significasse – ai fini della comprensione dello sviluppo della trasmissione testuale – la distinzione fra i due metodi di produzione (stampa con torchio a un colpo versus stampa con torchio a due colpi). Si trattò di un’occasione del tutto informale, che richiamo alla memoria con particolare piacere fra i tanti bei ricordi che ho di visite a Bologna. È stato quindi giusto fare di questo studio l’oggetto del mio contributo alla Festschrift presentata nel 1997 a Luigi Balsamo1. Fino ad allora il saggio rimase invariato, ma quando mi accinsi ad allestirne una ristampa notai, con mia sorpresa, quanto poco fosse * Una versione parzialmente rivista e ampliata di questo saggio è ora disponibile in L. HELLINGA, Texts in transit, pp. 8-36. ** Secondo la scelta operata dall’autrice – e successivamente da Paul Needham – in questo saggio si adotta la definizione di Cancelleresca per indicare la pezzatura della carta che corrisponde alla Reçuta (Rizzuta) nella Lapide di Bologna, riprodotta in C. M. BRIQUET, Les filigranes: dictionnaire historique des marques du papier des leur apparition vers 1282 jusqu’en 1600, I: A-Ch, Genève, A. Jullien, 1907, p. 3. 1 L. HELLINGA, Press and texts in the first decades of printing, in Libri, tipografi, biblioteche. Ricerche storiche dedicate a Luigi Balsamo, a cura dell’Istituto di Biblioteconomia e Paleografia, Università degli Studi di Parma, 2 v., I, Firenze, Olschki, 1997, pp. 1-23.

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

cambiato, da quegli anni, il numero delle più antiche edizioni in-quarto registrate in ISTC. Il professore, dunque, sarebbe stupito di posare gli occhi su quella che si può considerare una versione finita del mio lavoro. Finita, tuttavia, essa non è, e non può essere reputata tale. Questo saggio, ancora oggi in suo onore, va inteso semmai come un’occasione per fare il punto sui risultati ottenuti fino a oggi. L’indagine che qui si propone – relativa ad alcune aree geografiche in cui fu attiva la stampa fin dai suoi primordi e intrapresa per delineare lo sviluppo nei metodi di produzione dei libri – ha avuto inizio, per pura coincidenza, nel 1980, proprio quando fu avviata un’altra impresa che avrebbe dimostrato come le indagini pionieristiche non possano che avere un valore approssimativo. Infatti, il secondo progetto (il data base di ISTC), mano mano che cresceva, rivelava impietosamente la proporzione ogni volta minore di materiale da poter esaminare per condurre questo studio, in relazione alla mole di esemplari superstiti conservati in tutto il mondo. Si tratta di un’esperienza con cui hanno dovuto familiarizzare i ricercatori in molti campi del sapere – e in misura anche molto maggiore rispetto a chi si occupa della stampa del XV secolo. L’informatica ha introdotto nella ricerca non solo un metodo nuovo, ma anche una nuova disciplina. Le basi di dati consentono l’accesso a una quantità di informazioni assai maggiore rispetto a prima dell’era della nuova tecnologia. Piaccia o non piaccia, chi fa ricerca è obbligato a vivere in un mondo più vasto o a viaggiare, mappa alla mano, in un panorama ben più esteso. La mappa viene fornita al ricercatore dai dati contenuti nella propria base di dati, che trasmette fiducia e sicurezza ma, come accade a tanti viaggiatori, egli si dovrà rassegnare all’idea di non riuscire a visitare molti luoghi e di non poter guardare sotto ogni pietra, pur conoscendo perfettamente la dislocazione di quelle pietre e di quei luoghi. Il metodo sta dunque nel grado di selezione e nella correttezza dell’impostazione: si tratta di capire cosa si può realisticamente ottenere, nel contesto delle risorse e del tempo disponibili. Per chi fa ricerca, quindi, queste dinamiche conseguenti agli sviluppi che l’informatica ha introdotto possono offrire una lezione di modestia e di umiltà, ma non devono trasmettere un senso di sconfitta. La sensazione di insuccesso – anche se si aggira il fantasma dell’apprenti sorcier, vittima delle proprie capacità inventive, sopraffatto com’è dalle mole di informazioni immesse nelle basi di dati – minaccia sempre di avere il sopravvento, perché il ricercatore è pienamente consapevole di ciò che non può raggiungere. Tuttavia nella mente di chi impara cose nuove c’è anche un certo ottimismo, visto che apprende. Il mio intento altro non è se non quello di considerare cosa abbiamo imparato nel corso di questo lungo studio. È bene definire subito alcune altre limitazioni relative al valore assoluto dei

III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

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risultati di questo lavoro. Cercherò infatti di ricostruire i primi passi dell’introduzione del torchio a due colpi, avvenuta una decina di anni dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili. Come si dirà più avanti, il miglior sistema per farlo è analizzare i modi di produzione delle edizioni in-quarto. Esaminando la distribuzione delle filigrane nei fascicoli, di solito non è complicato stabilire se un’edizione in-quarto fu stampata su mezzi fogli o su fogli interi. In quest’ultimo caso, è sicuro che lo stampatore disponeva di un torchio in grado di alloggiare almeno una forma corrispondente alle dimensioni di un foglio intero del formato di carta più piccola e più comune (nota come Cancelleresca), o di uno dei formati di carta più grandi (Mediana, Reale o Imperiale)2. Senza ricorrere a un’ulteriore imposizione, questo tipo di torchio consentiva al tipografo di stampare, con due colpi, due pagine in formato infolio, quattro in formato in-quarto oppure otto nel formato in ottavo. Si trattava certamente di un significativo risparmio di tempo. Vedremo, tuttavia, come il vantaggio di questo procedimento fosse controbilanciato da una maggiore difficoltà nell’imposizione di forme con più di due pagine. Per un certo periodo, la pratica di stampa su mezzi fogli proseguì in parallelo con quella su fogli interi. Questa simultaneità non dipese sempre dal fatto che i torchi più avanzati si usavano solo per stampare testi di grande formato: la stampa su fogli interi costituì certamente un primo esempio di progresso tecnologico, che imponeva però agli operatori maggiori abilità professionali.

I torchi Il fatto che inizialmente gli in-quarto venissero stampati su fogli tagliati a metà e poi, più tardi, su fogli interi, dimostra che ci fu uno sviluppo nei metodi di stampa. L’illustrazione più antica di torchi per la stampa data fra la fine del XV secolo e gli inizi del XVI, e indica che non dovettero presentarsi grandi cambiaSui formati della carta usati dai tipografi nel XV secolo si veda P. NEEDHAM, ISTC as a tool for analytical bibliography, in Bibliography and the study of 15th-century civilisation. Papers presented at a Colloquium at the British Library, 26-28 September 1984, organised in conjunction with the Warburg Institute of the University of London, ed. by L. HELLINGA - J. E. GOLDFINCH, London, The British Library, 1987, pp. 41-47; ID., Res papirea: size and formats of the late Medieval books, in Rationalisierung der Buchherstellung in Mittelalter und in der frühen Neuzeit. Ergebnisse eines buchgeschlichtlichen Seminars der Herzog August Bibliothek, Wolfenbüttel, 12-14 November 1990, hrsg. von P. RUCK - M. BOGHARDT; mit Beitragen von U. Baurmeister [et al.], Marburg an der Lahn, Institut für Historische Hilfswissenschaft, 1994, pp. 125-127. 2

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

menti fra i primi torchi manuali in legno e quelli risalenti probabilmente ai primi anni del XVII secolo. Le più antiche descrizioni dettagliate di torchi, su cui si basano quelle trasmesse dai manuali moderni, risalgono alla seconda metà del XVI secolo. Tutte menzionano la presenza di un carro mobile assemblato con una pietra sopra alla quale è collocata la forma, su cui a sua volta, mediante una cerniera, viene ribaltato un timpano, cui è fissato un foglio bianco protetto da una fraschetta. La dimensione della platina era limitata e poteva coprire solo metà del timpano in un tiro di torchio. Il quale, pertanto, doveva essere azionato due volte facendo scivolare il carro in avanti per stampare il foglio intero. Ecco perché questo tipo di torchio si definisce a due colpi3. Il torchio a due colpi, comunque, non fu quello usato da Gutenberg (che stampò la sua Bibbia una pagina alla volta) né fu quello cui fecero ricorso, dopo di lui, molti altri prototipografi che adottarono il medesimo metodo di stampa. I loro torchi, che permettevano unicamente di posizionare sotto il torchio mezzo foglio per volta, non trovano riscontro in nessuna illustrazione contemporanea né in una documentazione abbastanza specifica da consentire qualcosa più di una speculazione sul relativo funzionamento. Partendo da un dato certo – la limitazione al mezzo foglio – possiamo dedurre che il timpano (se ne usavano uno) corrispondeva alla dimensione della platina, ed era uguale alla dimensione di una pagina nel formato in-folio. Questo significa che nel formato in-quarto, o in formati inferiori, i fogli divisi a metà venivano impressi con un torchio a un colpo. Non sarebbe quindi stato necessario ricorrere a un carro come quello accertato nei torchi più recenti. Inoltre, questi torchi a un colpo erano probabilmente fissati al pavimento o al soffitto (come le presse da olio e da vino). Un conciso e utile studio sui primi torchi in P. GASKELL, A new introduction to bibliography, Oxford, Clarendon Press,1972, pp. 118-141. Si è preso come esempio di stampa a due colpi il colophon di un incunabolo ebraico: JACOB BEN ASHER, Tur Orah Hayyim, Mantova, Abraham Conat, 6 VI 1476, Fol. (ISTC ij00000350). Si veda in merito M. POLLAK, The daily performance of a printing press in 1476. Evidence from a Hebrew incunable, «Gutenberg-Jahrbuch», 1974, pp. 66-76. Una riflessione riguardo le conseguenze nell’accelerazione del metodo di produzione, così come una breve descrizione dell’innovazione tecnica in L. HOFFMANN, Druckleistungen in der Inkunabeloffizin, in Zur Arbeit mit dem Gesamtkatalog der Wiegendrucke. Vorträge der Internationalen Fachtagung. vom 26. bis 30. November 1979 in Berlin, «Beiträge aus der Deutschen Staatsbibliothek», 9, 1989, pp. 123-124. Sulla questione del colophon nell’opera di Jacob ben Asher impresso con un torchio a due colpi si veda anche A. K. OFFENBERG, A choice of corals. Facets of fifteenth-century Hebrew printing, Nieuwkoop, De Graaf, 1992, p. 34. I risultati di questo mio studio mostrano che per un torchio a due colpi non sarebbe stato impossibile operare a Mantova nel 1476. Il carattere eccezionale del torchio potrebbe ben spiegare, a questa data, la menzione in un colophon di tale particolarità. 3

III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

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In ogni caso comunque, stando alla realtà della pratica di un’officina tipografica, è chiaro che i torchi a un colpo e quelli a due colpi potevano essere usati in parallelo. L’invenzione del torchio a due colpi, intesa come miglioramento rispetto al torchio originale, non comportò l’eliminazione immediata dalle officine tipografiche dei torchi a un colpo. Anche dove vennero introdotti i torchi del nuovo tipo, quelli vecchi continuarono a essere usati in parallelo se così consigliavano ragioni economiche e di convenienza. E dunque, trovare edizioni in 4° stampate su mezzi fogli in una certa tipografia, non significa che in essa non si impiegassero anche torchi a due colpi, come ci sarà modo di vedere. I dati del mio campione, quindi, non vanno considerati come assoluti. Ad esempio non permetterebbero mai a un bibliografo di stabilire una data di stampa sulla base del fatto che si possa riconoscere con certezza se l’impressione sia avvenuta su mezzi fogli o su fogli interi, anche se sussistono elementi di probabilità. E ancora: se un tipografo ha stampato costantemente su fogli interi, ci sono motivi per supporre che alcune edizioni dubitativamente attribuite a lui siano invece, più verosimilmente, i prodotti di un’altra officina, visto che sono state stampate su mezzi fogli4. Nonostante le incertezze, emerge un modello sufficientemente affidabile per capire che dalle tipografie di Roma e di Napoli, agli inizi degli anni Settanta del secolo, si propagò un’innovazione tecnica – e come conseguenza di essa un cambio nei modi di produzione – che raggiunse poi le aree più periferiche della stampa nell’Europa nord-occidentale.

La produzione dei testi nelle officine tipografiche Fine di questo studio non è documentare l’evoluzione tecnica in sé stessa, quanto, piuttosto, la possibilità di acquisire una migliore comprensione dei modi di produzione dei testi nelle officine tipografiche. Quando si usava il torchio a due colpi, le procedure in tipografia prevedevano che lo stampatore eseguisse calcoli precisi e annotasse di conseguenza l’exemplar di tipografia, a partire dal quale i compositori avrebbero composto le pagine secondo l’ordine di imposizione e poi le avrebbero mandate in stampa (sistema conosciuto come composizione per forme), invece di comporle in ordine di lettura (o seriatim, pagina per pagina). La composizione per forme venne adottata sistematicamente fino agli inizi del XVII secolo. Anche usando il torchio a un colpo (così come nella produzione dei mano-

4

Si veda, ad esempio, il caso di Johann Schurener a Roma, BMC IV, p. 59.

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

scritti) si ricorreva a calcoli preliminari, finalizzati a ottenere una ben precisa distribuzione del testo da pubblicare in forma di libro, con una struttura interna, quindi, del tutto indipendente dal testo originale o da quello trasmesso dall’exemplar di tipografia. A un tipografo che volesse produrre un’edizione in-folio stampando una pagina per volta con un torchio a un colpo si presentavano diverse opzioni, ad esempio poteva decidere anche di produrre il testo seriatim. Esistono casi di tipografi che allestirono edizioni in 4° su un mezzo foglio stampando una pagina per volta. Si trattava, comunque, di un metodo molto primitivo (riscontrato in alcuni fra gli in 4° più antichi di Ulrich Han e Georg Lauer a Roma, nei primi libri impressi da Ulrich Zell a Colonia e nel primo libro stampato a Oxford nel 1478). Di solito, tuttavia, gli in 4° su mezzo foglio venivano composti due pagine alla volta, come se fossero piccoli in-folio, poiché risultava molto più semplice che comporre una forma completa per un in 4°. Non bisogna comunque credere che si prediligesse sempre l’opzione più facile. Ursula Baurmeister ha portato alla luce il caso di un tipografo che scelse una composizione più complicata di quelle abitualmente in uso alla sua epoca. Clemente da Padova stampò infatti a Venezia, nel 1471, un piccolo libro in 8° composto quattro pagine per volta, mentre, a quell’altezza cronologica, sarebbe stato più comune un 8° ottenuto da un foglio intero piegato in quattro, adottando il sistema di composizione delle due pagine per volta. Clemente, all’epoca, stava allestendo un grande e (tipograficamente) impegnativo volume, gli Opera medicinalia del Mesue, e quindi sarebbe legittimo domandarsi se disponesse di caratteri sufficienti per comporre seriatim il libro più piccolo5. In linea di massima comunque, indipendentemente dal formato del libro, usando il torchio a due colpi la pratica di calcolare in anticipo le pagine nei fascicoli era diventata inevitabile e tale si mantenne almeno fino al secolo seguente, quando i tipografi poterono contare su più ampie forniture di caratteri che permettevano loro di comporre, e tenere composte, un grande numero di pagine alla volta in attesa di essere stampate per formare un fascicolo. La riflessione sulla produzione dei testi non riguarda naturalmente solo i libri stampati in 4°; quest’ultimo, però, è il formato in cui la distinzione fra foglio tagliato e foglio intero – e quindi fra l’uso del torchio a un colpo e a due colpi – risulta verificabile con sicurezza nella stragrande maggioranza dei casi. Per gli in-folio, invece, è molto difficile stabilirlo con sicurezza, a meno che non sia sopravvissuta la copia di tipografia – che ci può informare sulle procedure U. BAURMEISTER, Clement de Padoue, enlumineur et premier imprimeur italien?, «Bulletin du bibliophile», 1990-1991, pp. 19-28.

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III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

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seguite – oppure che qualcosa sia andato palesemente storto in officina6. Di solito, comunque, le cose procedevano secondo i piani. Quanto ai formati più piccoli, va detto che presentano di per sé stessi delle complicazioni. Questo studio si prefigge di stabilire se una verifica a campione delle edizioni in-quarto possa essere utile per identificare quei “marcatori” (come li chiamerebbero i genetisti), cioè quegli indizi che suggeriscono la presenza contemporanea, in una certa officina tipografica, di torchi a un colpo e a due colpi, circostanza che può insegnarci molto anche sui relativi modi di produzione. Questo “marcatore”, in quanto tale, richiede un surplus di prudenza, visto che segnala le procedure in cui ci si può imbattere studiando la produzione di un testo, in una certa officina tipografica. Se dunque ciò che vogliamo analizzare è la produzione di testi, l’informazione fornita dal “marcatore” è fondamentale, e rappresenta un contributo di conoscenza insostituibile per la bibliografia analitica (o bibliografia testuale), che ha infatti come tema nodale i modi di produzione dei testi. Inoltre, bisogna tener presente che individuare il momento di passaggio dal torchio a un colpo a quello a due colpi in un’officina tipografica – analizzandone la totalità della produzione – significa ricostruire la storia di quell’officina e dei suoi progressi tecnici. Dai paragrafi precedenti risulterà chiaro come io condivida in pieno l’idea che si possono distinguere vari modi per produrre ciò che genericamente chiamiamo un’edizione in-quarto (la si può stampare una pagina, due pagine, o quattro pagine per volta), e analogamente le edizioni in-folio (stampate sia una pagina per volta che due pagine per volta). Il medesimo principio è applicabile alle edizioni in 8° (e ai formati minori), rispetto alle quali sappiamo che si potevano stampare due, quattro o otto pagine alla volta (e forse perfino una pagina alla volta)7. Dubito, comunque, dal punto di vista della bibliografia descrittiva, che questa distinzione debba far parte dell’identificazione bibliografica di un libro,

L’analisi degli esemplari di tipografia sopravvissuti è in grado di dimostrare inequivocabilmente se i testi furono composti seriatim, come nel caso dei libri stampati da Sweynheym e Pannartz, da Jacques Le Rouge a Venezia, da Ketelaer e De Leempt a Utrecht, e dal primo stampatore di Oxford. Talvolta è possibile stabilire quale lato del foglio fu stampato per primo, se il recto o il verso, esaminando l’impronta lasciata sulla carta dal carattere. Questo ordine determinerà se il foglio fu stampato intero o pagina per pagina. Può essere di aiuto, per dirimere la questione, l’uso di una luce concentrata e obliqua. Va detto, però, che l’indagine è possibile solo quando lo stato di conservazione del libro ha permesso a queste tracce di sopravvivere, quando, ad esempio, non è stato pressato dai legatori, o quando la carta non è stata lavata. L’interpretazione di questi segni, tuttavia, resta problematica sotto tutti i punti di vista e raramente può essere ripetuta in più di una copia. 7 Si veda nuovamente P. NEEDHAM, ISTC as a tool, pp. 44-45. 6

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

così come invece ne fa parte ciò che è comunemente noto come “formato”. Esso si basa su un semplice principio: ad esempio un in-quarto è un libro in cui un foglio intero (o un suo equivalente) origina otto pagine, e ciò dipende dal numero delle volte in cui il foglio è stato piegato e poi tagliato. La specifica informazione sulla divisione dei fogli prima della stampa ha senso solo se contestualizzata nella produzione del testo o nella descrizione bibliografica di tutta la produzione di una tipografia. E poi è un aspetto – quello della divisione dei fogli prima della stampa – che per la comprensione del sistema di produzione dei testi non è né più né meno significativo del fatto che un’edizione in-folio sia stampata una pagina per volta (è una informazione che mal si collocherebbe in una descrizione bibliografica standard). La tendenza attuale nei cataloghi delle case d’asta – dove, in un modo talvolta stravagante, la stampa su mezzo foglio è registrata assieme alla dimensione originale del foglio tipografico – potrebbe dare l’impressione che questi dati siano da includere in quanto standard utili per catalogare fondi (che, per definizione, sono arbitrari). Detto ciò, devo aggiungere che questa moda ha permesso di confermare molte delle mie scoperte e, in una certa misura, di estendere il campione8.

Circoscrivere il problema Il fenomeno della stampa di edizioni in-quarto su mezzi fogli aveva attirato l’attenzione di svariati bibliografi, ognuno dei quali lavorava in maniera indipendente su ben precise e distinte zone geografiche di stampa. Non è un caso se tutti erano interessati sia a questioni inerenti la trasmissione testuale, sia alla storia di singole officine tipografiche. Con due lavori sulle prototipografie parigine, usciti rispettivamente nel 1973 e nel 1976, e poi ristampati nella raccolta dei suoi studi La lettre et le texte, Jeanne Veyrin-Forrer fu la prima a pubblicare le proprie conclusioni sull’argomento9. Mi sono servita dei seguenti cataloghi di case d’asta: Christie, New York, 22 October 1987 (Doheny sale); Sotheby, London, 16 November 1989 (Abrams sale); Sotheby, New york, 12 December 1991 (Schoyen sale); Sotheby, London, 1 July 1994 (Donaueschingen sale. In questo catalogo la registrazione dei fogli tagliati a metà termina al lotto 38); Christie, London, 2 November 1994; Christie, London, 29 November 1995. Ho usato anche il catalogo degli incunaboli della Bibliotheca Philosophica Hermetica: Christ, Plato, Hermes Trismegistus: the dawn of printing. Catalogue of the incunabula in the Bibliotheca Philosophica Hermetica, compiled by M. LANE FORD, 2 v., Amsterdam, In de Pelikaan,1990. 9 J. VEYRIN-FORRER, Aux origines de l’imprimerie française. L’atelier de la Sorbonne et ses mécènes (1470-1473), e EAD., Le deuxième atelier typographique de Paris: Cesaris et Stol, 8

III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

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Basandosi su un’analisi vasta del materiale, la studiosa ha dimostrato che le quattro più antiche tipografie attive a Parigi (Friburger, Gering e Krantz, Pierre Cesar, Le Soufflet Vert e Pasquier & Jean Bonhomme) conobbero un processo di transizione nei metodi di produzione delle edizioni in-quarto, un formato prodotto in quantità cospicua. La Veyrin-Forrer ha descritto il passaggio – occorso fra il 1477 e il 1478 – dalla stampa di due pagine per volta su mezzo foglio (come se si trattasse di piccoli in-folio) alla imposizione delle quattro pagine su foglio intero (cioè in un’unica forma). Poiché il materiale analizzato dalla studiosa era piuttosto ampio e basato su esemplari disseminati in molte collezioni, questi risultati possono considerarsi definitivi. Le scoperte della Veyrin-Forrer sono risultate sorprendentemente simili alle mie allorché, più o meno negli stessi anni, studiavo il lavoro di un tipografo olandese, Gheraert Leeu, attivo prima a Gouda (fra il 1477 e il 1484), e poi ad Anversa (dal 1484 fino alla sua morte, avvenuta nel 1492). Ho esaminato esemplari di tutte le sue edizioni prodotte in questo periodo e sono giunta alla conclusione che gli in-quarto stampati negli anni 1477, 1478 e 1479 furono impressi su mezzi fogli mentre, a partire da un certo momento lungo l’anno 1480, le sue edizioni in-quarto vennero impresse su fogli interi. In questo caso la transizione coincise con un rinnovamento generale del materiale tipografico. In occasione delle celebrazioni del quinto centenario della stampa nei Paesi Bassi, quando gli incunaboli neerlandesi godettero di un’attenzione particolare, mio marito Wytze Hellinga dimostrò che le prime tipografie attive nel sud dei Paesi Bassi usarono mezzi fogli a partire dal 147310. L’indagine, benché basata sull’esame di molte copie, non abbracciò la produzione relativa ad anni posteriori, e di conseguenza non poté determinare il momento esatto della transizione verso l’uso di fogli interi. Infine, allorché Paul Needham ed io iniziammo a lavorare sulla prototipografia in Inghilterra, riscontrammo che nei primi libri in-quarto stampati da Caxton furono impiegati mezzi fogli, scoperta che poteva essere estesa anche alle più antiche tipografie di Oxford e Saint Albans. In Inghilterra la transizione dal mezzo foglio al foglio intero avvenne a Oxford nel 1479, e nel 1480 circa nella tipografia di Caxton, mentre gli Exempla sacrae Scripturae stampati a Saint Albans nel 1481 furono impressi ancora su mezzi fogli. All’epoca esaminammo la maggioranza degli esemplari superstiti delle edizioni stampate in Inghilterra in quel torno di anni, e non credo che i dati allora ottenuti varieranno significativamente in futuro. entrambi in La lettre et le texte. Trente années de recherches sur l’histoire du livre, Paris, Ecole Normale Supérieure de jeunes filles, 1987, pp. 161-187 e pp. 189-212. 10 W. HELLINGA, Impressum Alosti. Jn Flandria, 1473-1973, «Quaerendo», 3, 1973, pp. 70-72.

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

La tecnica iniziale e la sua successiva trasformazione vennero dunque accertati in modo indipendente, con un alto grado di affidabilità e per tre distinte aree di stampa nell’Europa nord-occidentale: a Parigi, in due officine dei Paesi Bassi e in altre due dell’Inghilterra. Il lasso di tempo necessario per la transizione – 1477-1478 (per Parigi), 1479-1480 (per Oxford e Westminster), e 1480 (per Gouda) – fu considerevolmente ristretto, cosa che induce a ritenere che questa innovazione si estese rapidamente e che dovette essere considerata dai tipografi un importante miglioramento, per cui valeva certamente la pena di investire in nuovo “hardware”. In un certo senso la combinazione delle nostre scoperte ha offerto una prima (e un po’ semplificata) impressione, e cioè che tutti i libri esaminati vennero impressi su fogli di carta Cancelleresca – il formato standard per gli inquarto nelle officine tipografiche su cui ci siamo concentrati – tagliati a metà.

Il campione A questo punto si è posta la questione se considerare i tardi anni Settanta del secolo come data assoluta cui far risalire il passaggio fra i due tipi di torchio. La fase successiva, quindi, è stata quella di prendere come campione edizioni in-quarto provenienti da centri di stampa che avessero avuto un impatto più significativo di Gouda, Westminster o della stessa Parigi. Ho esaminato allora i prodotti delle prime tipografie di Roma e Subiaco, Venezia, Napoli, Milano, Firenze, Bologna. Quanto all’area a nord delle Alpi, ho aggiunto ai luoghi di cui già possediamo informazioni anche Magonza, Strasburgo, Colonia e alcuni libri stampati a Lovanio pochi anni dopo. Il mio campione iniziale, come avevo fatto nel 1980, furono gli esemplari in-quarto conservati alla British Library provenienti dalle tipografie di queste città. Benché una collezione di libri sia di per sé un campione arbitrario, la collezione di incunaboli della British Library, con quasi 11.000 edizioni possedute, rappresenta, in termini generali, circa il 40% di tutte le edizioni superstiti del XV secolo, stimate fra 28.000 e 28.500, di cui 26.102 sono oggi censite in ISTC. Anche se le edizioni in-quarto sopravvivono in numero minore e in copie più disperse rispetto a quelle in-folio, il database di ISTC – con 14.555 edizioni in-quarto di cui 5.400 localizzate in British Library – indica che la collezione è più che adeguata come base per la campionatura. La ricognizione, benché ampia, non ha individuato libri in-quarto stampati su mezzi fogli dopo la metà degli anni Ottanta e per quanto riguarda le città italiane già a partire dal 1480. ISTC contiene (a oggi) 2.583 records di in-quarto stampati prima del 1480, di cui 1.142 sono rappresentati alla British Library.

III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

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All’epoca in cui cominciai il mio studio, cioè nel 1980, la British Library sembrava un buon punto di partenza, forse il migliore possibile: oggi si può confermare ancora più in dettaglio fino a che punto questo campione sia rappresentativo. Anche se nella collezione alcune aree della stampa sono meglio rappresentate di altre, l’esame iniziale degli esemplari ha comunque fornito un’immagine complessiva che non è variata di molto, anche analizzando incunaboli di altre collezioni per ampliare il campo di ricerca. Oltre a definire i limiti del campione, ISTC ha aggiunto un importante elemento per lo sviluppo del lavoro: la proposta di attribuzione cronologica per le edizioni sine data. BMC si era astenuto dal fornirla perché, all’epoca, gli incunabolisti ritenevano che per giungere a conclusioni credibili sarebbe stato necessario disporre di molte più informazioni esterne alle edizioni di quante ne servissero per allestire un catalogo di una collezione, anche se vasta. ISTC invece, quasi un secolo dopo, si fonda su cento anni di ricerca e di catalogazioni precedenti condotte da bibliografi e specialisti di prim’ordine. Le date contenute nello short title inglese degli incunaboli, pur passibili di eventuali modifiche, forniscono quindi una base affidabile per organizzare i dati da un punto di vista cronologico.

Stabilire il modello Il criterio per stabilire lo schema della stampa su un mezzo foglio è molto semplice. Nel XV secolo, i fascicoli delle edizioni in-quarto consistevano solitamente di più fogli piegati e cuciti assieme: in-quarto di otto carte (ottenuti con due fogli), o in-quarto di dieci carte (ottenuti con due fogli e mezzo). Si ricorreva a fascicoli di due, quattro o sei carte solo quando era necessario completare una sequenza testuale in uno spazio che non corrispondeva allo schema prestabilito. In un foglio stampato intero e piegato due volte per formare un in-quarto di quattro carte (con i filoni, quindi, perpendicolari al lato lungo), non si può trovare più di una filigrana, suddivisa su due carte lungo il margine interno. In un in-quarto di otto carte, costruito con due fogli interi piegati e cuciti assieme, non più di quattro carte presentano parte di una filigrana ciascuna. Se dunque accade che un fascicolo di otto carte di un’edizione in-quarto contenga nessuna, due, sei o otto carte con filigrane, allora è sicuro che sia stato stampato su mezzi fogli. Questo è il caso più semplice, e per fortuna molti fra i primi in-quarto seguono questo schema lineare. Quando invece troviamo degli in-quarto con fascicoli di dieci carte, come spesso accade per i più antichi prodotti tipografici, la decisione non è più così semplice da prendere. In realtà, la pratica di costruire fascicoli di 10 carte,

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

adottata per produrre interi libri, proseguì per un certo lasso di tempo – si usavano due fogli interi con l’aggiunta di un mezzo foglio, che di solito (ma non sempre), era quello più interno nel fascicolo – sebbene possa far pensare unicamente alla stampa su mezzi fogli. Esistono anche in-quarto stampati su carta priva di filigrana. Fra le città esaminate, Milano in particolare presenta molti libri impressi su tale tipo di carta. In casi del genere è ovviamente impossibile trarre conclusioni sulla base della distribuzione delle filigrane. Lo schema regolare di due filigrane in due fogli che formano un in-quarto di otto carte, in un in-quarto stampato su mezzi fogli si presenterà a volte in maniera casuale. In genere si possono evitare conclusioni sbagliate ricorrendo al confronto con altri esemplari dello stesso libro, se non si può contare su un regolare schema di distribuzione delle filigrane negli altri fascicoli del testo. È possibile anche stabilire il modello di distribuzione del lato-modulo e del lato-feltro dei fogli (è la regola di Gregory dei codicologi applicata, in questo caso, alla carta). Esisitono comunque casi di formati misti, in cui si mescolano differenti pezzature di carta: la Bibbia di Franz Renner de Heilbron – stampata a Venezia nel 1480 in formato in-quarto e in ottavo su carta di due diverse pezzature – è un esempio ben noto11, a cui se ne possono aggiungere molti altri. Ancora più eloquente il caso dei Sermones di Giovanni Crisostomo, stampati a Roma da Georg Lauer nel 1470 circa12. I due esemplari della British Library, così come altri esemplari, presentano il formato in-folio combinato con il formato inquarto, ma i fogli nel formato in-folio in un esemplare corrispondono al formato in-quarto in un altro. Per comprendere come si potevano mescolare i formati può essere utile tenere presente la griglia che segue13: Dimensioni in mm del foglio intero

Dimensioni in Dimensioni in Dimensioni in mm nel formato mm nel formato mm nel formato in-folio in-quarto in-ottavo

Cancelleresca

310x450

310x225

225x155

155x112

Mediana

350x520

350x260

260x175

175x130

Reale

430x620

430x310

310x215

215x155

Imperiale

490x740

490x370

370x245

245x122

Biblia latina, Venezia, Franz Renner de Heilbron, 1480, 4° e 8° (ISTC ib00566000). GIOVANNI CRISOSTOMO (SANTO), Sermones morales XXV, [Roma, Georg Lauer, 1470 circa], Fol. e 4° (ISTC ij00300000). 13 Sulle dimensioni massime dei vari formati si veda nota 2, p. 75. 11 12

III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

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Ne consegue che un in-folio di carta Cancelleresca può essere facilmente combinato con un in-quarto di carta Reale stampato su mezzo foglio, come, ad esempio, nei citati Sermones di Giovanni Crisostomo o nella la Bibbia di Franz Renner de Heilbron. La dimensione delle carte dei Sermones – 284x199 mm stando al BMC, riferiti alla copia con segnatura di collocazione IB. 17445, la più grande fra le tre possedute dalla British Library – indica infatti che per realizzare quell’in-folio fu usata carta Cancelleresca accoppiata con carte in formato in-quarto di carta Reale su mezzo foglio. Una volta stabilito con ragionevole certezza che un dato numero di libri è stato stampato su mezzi fogli in base alla posizione delle filigrane, esiste un’altra caratteristica che li accomuna. Negli in-quarto impressi su mezzi fogli, le pagine vengono composte come se si trattasse di un in-folio molto piccolo – per dirla con le parole di Jeanne Veyrin-Forrer – e di solito presentano ampi margini superiori, visto che non c’era un limite specifico allo spazio consentito nella parte alta della pagina. Quando invece si componeva un foglio intero per ottenere quattro pagine in formato in-quarto, i margini superiori risultavano più ridotti perché le due pagine affrontate nella forma (ma non nel libro) dovevano condividere uno spazio limitato dalla dimensione della forma stessa. Quindi la superficie assegnata al testo si trovava a essere più in alto, nella pagina, rispetto a un inquarto impresso su mezzi fogli. Infine è rilevabile una differenza nella prassi di stampa su fogli interi degli in-quarto raccolti in otto. A sud delle Alpi, di solito (ma non sempre) i fogli venivano piegati in maniera diversa. Stando alle mie analisi, ho riscontrato che nelle città italiane i tipografi piegavano abitualmente i fogli gli uni dentro gli altri: prendevano un foglio, gliene sovrapponevano un altro, li piegavano insieme una volta e poi un’altra ancora, in modo da ottenere un fascicolo di otto carte in formato inquarto, secondo il seguente schema di imposizione:

Foglio 1 9

8

7

10

16

1

2

15

Foglio 2 11

6

5

12

14

3

4

13

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

Le verifiche condotte su tipografi operanti a nord delle Alpi hanno invece accertato un metodo diverso: si prendevano due fogli e si piegavano una volta separatamente, dopo di che si metteva un foglio piegato sopra l’altro e poi si ripiegavano nuovamente assieme. Questo procedimento genera il seguente schema di imposizione: Foglio 1 13

4

3

14

16

1

2

15

Foglio 2 9

8

7

10

12

5

6

11

Per i libri italiani in formato in-quarto stampati su fogli interi si può dunque formulare la seguente regola: se compare una filigrana alle carte 1 e 8 (pagine 1, 2, 15 e 16) non ci può essere una filigrana alle carte 4 e 5 (pagine 7, 8, 9 e 10) e viceversa. Allo stesso modo, se compare una filigrana alla carte 2 e 7 (pagine 3, 4, 13 e 14) non ci può essere una filigrana alle carte 3 e 6 (pagine 5, 6, 11 e 12) e viceversa. Per le edizioni in formato in-quarto stampate a nord delle Alpi, la regola deve essere così riformulata: se compare una filigrana alle carte 1 e 8 (pagine 1, 2, 15 e 16) non ci può essere una filigrana alle carte 2 e 7 (pagine 3, 4, 13 e 14) e viceversa. Se compare una filigrana alle carte 3 e 6 (pagine 5, 6, 11 e 12) non ci può essere una filigrana alle carte 4 e 5 (pagine 7, 8, 9 e 10) e viceversa. La tabella che segue è il sistema più efficace per rappresentare questa alternanza:

Modello italiano carte

1/8

x

oppure

0

oppure

2/7

x

0

0

x

3/6

0

x

x

0

4/5

0

x

0

x

ma non x-0-0-x, oppure 0-x-x-0

x

oppure

0

87

III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

Modello usato a nord delle Alpi carte

1/8

x

oppure

0

oppure

x

oppure

0

2/7

0

x

0

x

3/6

x

x

0

0

4/5

0

0

x

x

ma non 0-0-x-x, oppure x-x-0-0 x = presenza di filigrana 0 = filigrana assente

Ho rilevato alcune eccezioni – ma non molte – a questa regola, che però non è stata verificata su incunaboli spagnoli.

Dimensioni della carta e del torchio Per concludere: prima di tornare a questioni specifiche, resta da proporre un’ultima considerazione di carattere generale. Come si è detto all’inizio, gli in-quarto prodotti a nord delle Alpi – quelli, per intenderci, che hanno dato l’avvio a questa riflessione – presentano uno schema di produzione lineare. Stampati di solito su carta della pezzatura più piccola, la Cancelleresca, generano questa semplice corrispondenza: due pagine in formato in-quarto equivalgono a una pagina nel formato in-folio stampata sulla metà di un foglio intero di carta Cancelleresca. Non serve molta immaginazione per visualizzare la dimensione della platina, visto che le sue misure stanno entro i limiti di un mezzo foglio di Cancelleresca (meno di 31x22,5 cm). Anche se molti dei primi libri stampati a Magonza, Strasburgo e Norimberga furono impressi su carta di maggiori dimensioni, raramente essa venne usata per gli in-quarto. Diverso il caso delle città italiane. Specialmente nei primi anni della stampa, gli in-quarto vennero infatti impressi su carta di grande pezzatura più che su Cancelleresca, usando, cioè, gli stessi stock di carta impiegati per la maggioranza delle edizioni in-folio. Dal punto di vista della produzione del testo con il torchio a un colpo, il sistema italiano non fa naturalmente variare l’equazione: due pagine in-quarto su carta Reale equivalgono a una pagina nel formato in-folio. Bibliograficamente il formato è il medesimo, ma le dimensioni cambiano, così come, di conseguenza, cambia la dimensione del torchio: per l’in-folio su carta Reale la platina misurerebbe più o meno 43x31 cm, per l’in-folio su carta Imperiale 49x37 cm circa.

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

Questo potrebbe complicare la questione, poiché nulla impediva a un tipografo di stampare un in-quarto su carta Cancelleresca su foglio intero, facendo uso del suo torchio più grande. Il fatto che esistesse tale possibilità è di per sé indicativo. Georg Lauer, ad esempio, nel 1476 stampò su carta Reale un’edizione delle Novellae super Sexto Decretalium di Giovanni d’Andrea, il cui specchio di stampa, secondo BMC, è di 319x174 mm14. Nello stesso anno pubblicò su carta Cancelleresca un’edizione in-quarto del Vergerio, il De ingenius moribus, che ha uno specchio di stampa di 129x90 mm15. Le filigrane indicano che quest’ultima opera è stata stampata su foglio intero. Un torchio in grado di alloggiare quattro pagine di 129x90 mm può accogliere anche due pagine con uno specchio di stampa di 319x174 mm ciascuna. È dunque ragionevole ipotizzare che l’opera del d’Andrea, nonostante le sue considerevoli dimensioni, fu composta due pagine per volta e stampata con un torchio a due colpi. Non tutto, però, è sempre così lineare. Le Elegiae di Tibullo, finite di stampare da Lauer il 18 luglio 1475 – si tratta di un in-quarto su carta Cancelleresca, con uno specchio di stampa di 132x90 mm – furono impresse su mezzi fogli16. L’opera di Tibullo dovette essere stampata mentre erano sotto i torchi le massiccie Decisiones Rotae Romanae, le cui parti recano come date di completamento dal 21 agosto al 20 novembre 147517. È presumibile, allora, che il torchio – o i torchi – più grande sia stato impegnato esclusivamente per portare a termine la stampa delle Decisiones.

Gli esiti della ricerca La più antica edizione in-quarto su fogli interi che io abbia identificato fu impressa a Roma da Georg Lauer e riporta come data febbraio 1472. È il Confessionale di sant’Antonino, GW 2087, un in-quarto di 132 carte, e poiché l’edizione sopravvive in almeno 25 copie – alcune delle quali esaminate di persona – non sussistono ambiguità riguardo a questa conclusione18. Il libro fu stampaGIOVANNI D’ANDREA, Novella super VI Decretalium, Roma, Georg Lauer, 17 VII 1476, Fol. (ISTC ia00630800). 15 PIETRO PAOLO VERGERIO, De ingenuis moribus ac liberalibus studiis, [Roma], Georg Lauer, [1476 circa], 4° (ISTC iv00132000). 16 TIBULLUS ALBIUS, Elegiae, sive Carmina, Roma, [Georg Lauer] per Giovanni Tibullo Amidani, 18 VII 1475, 4° (ISTC it00368000). Copia esaminata: Oxford, Bodleian Library, Auct. 0.8.11. 17 Decisiones Rotae Romanae, Roma, Georg Lauer, 1475, Fol. (ISTC id00107200). 18 ANTONINO DA FIRENZE (SANTO), Confessionale Defecerunt scrutantes scrutinio, Roma, Georg Lauer, II 1472, 4° (ISTC ia00789000).

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III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

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to su carta Reale. A partire dal 1470, Lauer cominciò a stampare i suoi inquarto su mezzi fogli, usando sia carta Reale che carta Cancelleresca. Un errore di tipografia nella seconda edizione delle Facetiae di Poggio Bracciolini indica che, inizialmente, Lauer stampava una pagina alla volta19. Probabilmente sempre nel 1472 egli stampò un altro in-quarto su un foglio intero di carta Reale, il De significatione verborum di Festo20. Non ci sono edizioni in-quarto censite per gli anni 1473 e 1474. Abbiamo già visto come nel 1475 almeno un libro – le Elegiae di Tibullo – fu stampato su mezzi fogli di carta Cancelleresca. A partire dal 1476, comunque, la sua pratica abituale sembra essere divenuta quella di stampare i suoi in-quarto su fogli interi. Poiché tutto ebbe inizio a Roma, è logico concentrasi, in primo luogo, sui tipografi che operarono in quella città. Come si vedrà dai dati proposti di seguito, ho tentato di estendere il campione includendo anche l’analisi esemplari di altre collezioni. Purtroppo ci sono ancora delle lacune, in particolare sulla prima fase dell’attività di Sixtus Riessinger. Nella Tabella I sono stati omessi quegli stampatori romani nella cui produzione non risultano edizioni in-quarto. Ci sono altri tipografi attivi prima del 1474 che lavorarono con mezzi fogli. Il primo che seguì sistematicamente le orme del Lauer fu Johann Gensberg il quale, dopo aver iniziato nel 1474 con un in-quarto su carta Reale stampato su mezzi fogli, a partire dal 1475 produsse in poco tempo un considerevole numero di edizioni in-quarto su carta Cancelleresca, tutte impresse su fogli interi. Ulrich Han, che dal 1468 in avanti aveva fatto regolarmente uso di fogli divisi a metà, compì la transizione al foglio intero non molto tempo dopo, nel 1475. Forse suo fratello Wolf Han – che stampava libri dal 1475 con una polizza di caratteri procuratagli da Ulrich – era stato equipaggiato di un vecchio torchio a un colpo visto che (con una sola piccola eccezione) stampava su mezzi fogli in un’epoca in cui, a Roma, questa pratica iniziava a divenire obsoleta. Anche Arnold Pannartz continuò a lavorare con il vecchio metodo nel 1474 e 1475. Ci furono comunque nuove imprese che inaugurarono la propria produzione stampando gli in-quarto su fogli interi: è il caso, ad esempio, di Johann Reinhard (che nel 1475 e 1476 usava carta Reale e Cancelleresca), di Johann Schurener (a partire dal 1475) e infine di Bartholomeus Guldinbeck, che dette avvio a una produzione stabile sempre nel 1475. È stato difficile distinguere i

POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [Roma, Georg Lauer, 1470 circa], 4° (ISTC ip00855000). Sulla questione si veda: LOTTE HELLINGA, The dissemination of a text in print. Early editions of Poggio Bracciolini’s Facetiae, in Trasmissione dei testi a stampa nel periodo moderno, a cura di G. CRAPULLI, II, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1987, pp. 85-106, e ora qui pp. 69-72. 20 SEXTUS POMPEIUS FESTUS, De verborum significatione, [Roma, Georg Lauer, 1471-1472], 4° (ISTC if00142000). 19

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

manufatti di quest’ultimo da quelli di Wendelinus de Wila: uno degli aspetti dirimenti della questione, finora poco considerato, è che il de Wila stampava su mezzi fogli, mentre Guldinbeck su fogli interi. A partire da questi anni, allora, la stampa delle edizioni in-quarto su fogli interi a Roma sembra divenuta la norma. E proprio l’in-quarto divenne caratteristico, nelle decadi a seguire, delle edizioni romane (si veda Tabella I). Questa tendenza trova conferma in parecchie altre città. Napoli e Venezia furono le prime a recepire il modello romano. A Napoli gli in-quarto su fogli interi più antichi che io conosca datano al 1474: si tratta di edizioni licenziate da Arnaldo da Bruxelles, che costituirono per il tipografo l’inizio di una produzione solida e continuativa. A Venezia, nello stesso anno, Gabriele di Pietro stampava in-quarto su fogli interi, seguito, un anno più tardi, da Filippo di Pietro. Benché non si sappia con certezza quale relazione esistesse fra Gabriele e Filippo, il fatto che entrambi usassero i medesimi caratteri tipografici induce a ipotizzare una qualche parentela, e dunque non sorprende che i due di Pietro avessero condiviso anche certi procedimenti tecnici. Gabriele usò contemporaneamente entrambi i metodi, mentre Filippo stampò con maggior frequenza su fogli interi. Altri stampatori veneziani si convertirono solo gradualmente al nuovo metodo. Perfino un innovatore come Erhard Ratdolt stampò su mezzi fogli nel 1476, 1477 e 1478. Nicolas Jenson – le cui famose edizioni in-quarto licenziate nel triennio 1470-1473 furono stampate tutte su mezzi fogli – non produsse in-quarto fra il 1474 e il 1478, ma nel 1479 lavorava già su fogli interi. Quanto a Jacques Le Rouge, invece, le sue tecniche di stampa si possono documentare in maniera indipendente rispetto a quelle di altri tipografi. L’8 marzo 1476 egli completò l’edizione in-folio della Historia Florentina di Poggio Bracciolini stampata pagina per pagina, come si deduce collazionando l’edizione stampata con il manoscritto originale di tipografia21. Considerando i libri impressi a Napoli fra il 1474 e il 1480 che ho potuto esaminare, si ha l’impressione che nella città partenopea la stampa su fogli interi divenisse la norma a partire dalla metà degli anni Settanta del secolo. È comunque difficile esaminare una quantità adeguata di esemplari – sono tutti molto dispersi – e dunque non mi sento di affermare con certezza che la data proposta resterà invariata: solo l’analisi di un numero maggiore di edizioni consentirebbe eventualmente di anticipare l’uso sistematico della stampa su foglio intero22. I tipografi napoletani che intrapresero la loro attività a partire dal 1476 21 POGGIO BRACCIOLINI, Historia Florentina [in italiano], Venezia, Jacque Le Rouge, 8 III 1476, Fol. (ISTC ip00873000). 22 Sono grata alla Biblioteca Nazionale di Napoli per la collaborazione ricevuta in

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paiono tutti aver già recepito la nuova tecnica. È interessante, dunque, notare come Napoli sembri strettamente collegata alle tecniche di stampa romane. Anche Bologna fa parte di quel gruppo di città in cui il nuovo metodo fu adottato in tempi brevi. Nel 1475 sia Baldassarre Azzoguidi che Ugo Ruggeri stampavano edizioni in-quarto su fogli interi di carta Cancelleresca. Le edizioni azzoguidiane del Confessionale di sant’Antonino e dei Sermones di Giovanni Crisostomo rappresentano infatti un passo avanti rispetto al procedimento di stampa tradizionale23. Nel 1474 e 1475 Ugo Ruggeri aveva stampato parecchi libri su mezzi fogli, ma le edizioni di Girolamo Manfredi del 1475 e del 1476 furono impresse su fogli interi24. I sonetti del Burchiello presentano invece due fascicoli su mezzi fogli, mentre il resto del libro risulta stampato su fogli interi25. I tipografi bolognesi minori – ad esempio il Tipografo dello Svetonio, Johann Schriber de Annunciata e Johann Walbeck – lavoravano tutti su mezzi fogli, ma Domenico de Lapi stampò nel 1477 il De conservatione sanitatis di Benedetto Reguardati (Benedetto da Norcia) su fogli interi, mentre il Galeotto Marzio del 1476 e il Vocabularius del 1479 vennero impressi su mezzi fogli26. La ricognizione degli in-quarto stampati a Firenze sembra indicare, nel suo complesso, che i tipografi non ebbero particolare fretta di aggiornare i metodi di stampa convenzionali. Per l’edizione dei Trionfi del Petrarca, attribuita a Johann Petri e dubitativamente datata 1473, furono usati mezzi fogli27. La stamperia di san Jacopo a Ripoli iniziò la sua attività alla fine del 1476 e impiegò mezzi fogli per tutte le edizioni in-quarto stampate nell’anno seguente. A partire dal 1478 compaiono edizioni su fogli interi, prova evidente che l’attrez-

ne di una mia visita, senz’altro troppo breve, durante la quale ho esaminato alcune delle prime edizioni in-quarto napoletane. 23 ANTONINO DA FIRENZE (SANTO), Confessionale, Bologna, [Baldassarre Azzoguidi], 1475, 4° (ISTC ia00783000); JOHANNES CHRYSOSTOMUS, Sermones morales XXV, Bologna: [Baldassarre Azzoguidi], 12 V 1475, 4° (ISTC ij00301000). Durante il mio soggiorno a Bologna ho potuto contare sulla collaborazione di colleghi e amici, che mi hanno generosamente aiutata a reperire le edizioni in-quarto nella Biblioteca Universitaria e in quella dell’Archiginnasio. 24 GIROLAMO MANFREDI, Judicium anni 1475, [Bologna, Ugo Ruggeri, non prima del 14 II 1475], 4° (ISTC im00193300); GIROLAMO MANFREDI, Judicium anni 1476, [Bologna, Ugo Ruggeri, prima del marzo 1476], 4° (ISTC im00193500). 25 BURCHIELLO, Sonetti, Bologna, [Ugo Ruggeri], 3 X 1475, 4° (ISTC ib01287000). 26 BENEDETTO DA NORCIA, De conservatione sanitatis, Bologna, Domenico de Lapi, per Sigismondo de’ Libri, 1477, 4° (ISTC ib00314000); GALEOTTO MARZIO, Refutatio obiectorum in librum De homine a Georgio Merula, Bologna, Dominico de Lapis, 1476, 4° (ISTC ig00044000); Vocabularius [italiano e tedesco] Introito e porta, Bologna, Domenico de Lapi, IV 1479, 4° (ISTC iv00321300). 27 FRANCESCO PETRARCA, Trionfi, [Firenze, Johann Petri], 22 II [1473], 4° (ISTC ip00393300).

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

zatura tipografica venne rinnovata28. Niccolò di Lorenzo, i cui primi prodotti, benché sine data, si possono assestare probabilmente alla fine del 1474 o agli inizi del 147529, stampò i suoi in-quarto su mezzi fogli di carta Reale e Cancelleresca sino al 1481. Fino agli anni Ottanta la stampa su fogli interi non divenne pratica comune a Firenze. La stampa a Milano offre il medesimo panorama. La caratteristica distintiva dei prodotti meneghini, però, è di essere spesso realizzati su carta senza filigrana, fatto che riduce significativamente il numero di esemplari su cui condurre un’indagine attendibile. I dati che emergono consentono tuttavia di collocare le prime stampe su fogli interi nel 1480, presso l’officina di Pachel e Scinzenzeler (si veda l’edizione delle Meditationes dello pseudo-Bonaventura, GW 4787)30, a meno che non si consideri come primo esempio il loro – più dubitativo – Eusebio del 1479 (GW 7414)31. Dopo il 1480 la stampa su fogli interi divenne la norma anche a Milano. Nelle Tabelle II e III proposte a fine saggio verranno mostrati i risultati dell’indagine in modo più sintetico rispetto al caso di Roma (è stato omesso il numero di esemplari esaminati)32. La ricognizione degli in-quarto veneziani e fiorentini si è limitata agli esemplari della British Library. L’esame condotto sugli esemplari e i due percorsi di indagine proposti (verifica dei metodi di stampa a nord e a sud delle Alpi) hanno mostrato che tipografi diversi in città diverse potevano accogliere nei modi più vari le novità legate alla stampa su fogli interi, destinate a migliorare la tecnica del loro lavoro. Esiste comunque una notevole difformità fra una città e l’altra: la maggioranza dei tipografi a Roma, Napoli, Venezia e Bologna avevano familiarizzato con il torchio a due colpi, la conseguente stampa su foglio intero e la composizione per forme circa cinque anni prima rispetto ai colleghi e concorrenti milanesi. Melissa Conway – sulla base della sua dettagliata analisi dei manufatti usciti da questa tipografia, per cui si veda The Diario of the printing press of San Jacopo da Ripoli, 1476-1484. Commentary and transcription, Firenze, Olschki, 1999 – mi ha gentilmente confermato che a san Jacopo di Ripoli il passaggio alla stampa su fogli interi ebbe luogo nel corso del 1478. 29 BMC VI, p. 625. Si veda inoltre C. F. BÜHLER, The first edition of Ficino’s De Christiana Religione. A problem in bibliographival description, «Studies in Bibliography», 18, 1965, pp. 248-252. 30 PSEUDO BONAVENTURA, Meditationes vitae Christi [in italiano], Milano, Leonhard Pachel e Ulrich Scinzenzeler, II 1480, 4° (ISTC ib00916000). 31 EUSEBIO CORRADO, Responsio adversus fratrem quendam eremitam, Milano, Leonhard Pachel e Ulrich Scinzenzeler, per Giovanni Crivelli, 18 VII 1479, 4° (ISTC ic00848000). 32 A parte l’aiuto ricevuto a Napoli e a Bologna, per cui ho già espresso il mio ringraziamento, il mio studio ha incluso anche esemplari della Bodleian Library di Oxford, della Cambridge University Library, della Bibliothèque National de France – dove Ursula Baurmeister mi ha fornito gentilmente ulteriori informazioni – e della Beinecke Library. 28

III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

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Firenze occupa una posizione intermedia in questa classifica. La concorrenza locale potrebbe aver spinto i tipografi – soprattutto quelli più giovani – ad adottare il metodo di stampa più rapido, benché più complicato. Allargando il confronto a qualche altra città a nord delle Alpi, oltre a quelle che sono state precedentemente oggetto di studio, si conferma la tendenza sopra evidenziata: in questa area geografica, a oggi non c’è traccia di stampa su foglio intero prima che la tecnica risulti stabilmente usata in Italia. Talvolta il nuovo metodo fu adottato lentamente, in altri casi perfino con riluttanza. Peter Schoeffer a Magonza è noto per le sue imponenti edizioni in-folio, ma nel corso degli anni stampò anche trentacinque edizioni circa nel formato in-quarto, su carta di varie pezzature. Anche se i torchi magontini erano abbastanza grandi per i fogli di carta Imperiale (come, ad esempio, i fogli su cui fu stampato l’Introductorium in Epistolare di san Girolamo con la data del 1470)33, tutti gli in-quarto con data certa vennero impressi su fogli tagliati a metà almeno fino al 1480, sia che fossero su carta Cancelleresca che su carta di dimensioni maggiori. Nel caso specifico di Schoeffer, la prima edizione datata impressa su fogli interi è l’Herbarius del 148434. La tipografia che operava a Eltville, strettamente legata agli stampatori magontini, produsse i suoi in-quarto su mezzi fogli. Gli stampatori di Magonza offrono una chiara dimostrazione di come metodi semplici di imposizione possano essere preferiti a sistemi di lavoro e di produzione più veloci ma anche più complessi e, soprattutto, meno familiari. Salvo il caso di Peter Schoeffer, la prassi per gli altri tipografi non fu quella di usare fogli interi per le edizioni in-quarto, almeno fino a quando Meydenbach e Von Friedberg non disposero di un’adeguata attrezzatura per farlo, negli anni Novanta del secolo. A Strasburgo non comparvero in-quarto su fogli interi fino a quando Knoblochtzer, nel 1481, usò il nuovo metodo, in parallelo però a quello, consueto, dei mezzi fogli. Inizialmente non si stamparono molti in-quarto, e anche quei pochi furono tutti impressi su mezzi fogli. Nei tardi anni Ottanta tipografi come Schott, Flach e Grüninger stamparono molti libri in-quarto tutti su fogli interi. Gli stampatori di Colonia furono ugualmente lenti ad adottare la stampa su foglio intero, anche se la città si era specializzata fin dal 1466 nella stampa in formato in-quarto. I grandi tipografi di edizioni in-quarto – Ulrich Zell, Arnold ther Hoernen e Heinrich Quentell – non usarono fogli interi nelle loro edizioni fino al 1487. Nel frattempo nuovi tipografi – probabilmente con uno spirito più moderno e con una formazione professionale acquisita altrove – disponevano 33 34

GIROLAMO (SANTO), Epistolae, Mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, Fol. (ISTC ih00165000). Herbarius latinus, Mainz, Peter Schoeffer, [14]84, 4° (ISTC ih00062000).

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

di attrezzature capaci di stampare gli in-quarto su foglio intero: si tratta di Conrad Winters e di Johann Guldenschaff nel 1479 e di Bartholomaeus de Unkel nel 1482. Come nel caso di Magonza, anche per Colonia si può osservare che i tipografi più consolidati preferirono per molto tempo mantenere i procedimenti tradizionali di stampa. Infine, estendendo l’analisi agli operatori di Lovanio, emerge un caso piuttosto sorprendente e cioè un esempio precoce di stampa su foglio intero da parte di Giovanni da Westfalia. Si tratta di un’edizione non datata del De ingenuis moribus di Pier Paolo Vergerio, da collocare fra il 1476 e il 147735. È noto l’inusuale sistema di segnatura (per fogli) usata dal de Westfalia e il tipo di imposizione adottata per questo libro è forse spiegabile con i contatti che il tipografo deve avere avuto con le officine di Padova e Venezia, di cui conservò i procedimenti di stampa. La scelta dei testi presentati nell’edizione del Vergerio, stampati già molte volte in Italia prima del 1476, irrobustisce l’ipotesi.

Conclusione Fin qui il presente studio ha rivelato l’esistenza di uno schema un po’ più complesso di quanto non si fosse inizialmente pensato. Un’innovazione tecnica – l’invenzione del torchio a due colpi – fu la condizione necessaria per lo sviluppo di nuove procedure di lavoro nelle officine tipografiche. L’originale doveva essere preparato in anticipo per dividere il testo in unità più piccole, che dovevano adattarsi alle pagine da mandare in stampa simultaneamente. La sistemazione dell’originale divenne un requisito costante in fase di composizione. Si tratta di un processo diverso da quello – che richiedeva ugualmente calcoli in anticipo – che portava a ottenere grandi unità di testo in cui spesso venivano suddivise le sezioni dei libri. Le edizioni in-quarto stampate su fogli interi indicano, senza alcuna incertezza, che l’innovazione tecnica era stata acquisita. Pochi dubbi sussistono sul fatto che l’innovazione fu introdotta a Roma; nessun dubbio, invece, che solo dopo essersi diffusa in altre città italiane raggiunse alcuni centri impressôri nel nord Europa alla fine degli anni Settanta e agli inizi degli anni Ottanta del secolo. La diffusione della nuova tecnica segue dunque una traiettoria opposta a quella dell’introduzione della stampa in Italia da parte di tanti tipografi tedeschi, ma è possibile che per espandersi essa sia dipesa dagli stessi contatti staPIETRO PAOLO VERGERIO, De ingenuis moribus ac liberalibus studiis, [Lovanio]: Johann de Westfalia, [1477-78 circa], 4° (ISTC iv00131000), datato in W. HELLINGA - L. HELLINGA The fifteenth-century printing types, II, p. 435; BMC IX, 138. 35

III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

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biliti a suo tempo da quei tipografi. La diffusione dell’innovazione fu rapida e dimostra l’esistenza di connessioni ampie e frequenti fra i tipografi. Dal 1480 la maggioranza (ma non la totalità) dei tipografi nelle città italiane stampava formati in-quarto – e probabilmente anche in-folio – su fogli interi e con torchi a due colpi, come se non avesse mai conosciuto un procedimento diverso. La mia analisi si è limitata solo a poche città. Abbastanza, tuttavia, per ipotizzare che un proseguimento della ricerca metterebbe opportunamente in luce collegamenti diretti fra gli stampatori, come d’altra parte mostra il citato colophon impresso da Abraham Conat a Mantova nel 1476. Il modello di diffusione si ripeté, pochi anni dopo, nell’Europa settentrionale, come attestano le Tabelle II e III. In realtà esse offrono un panorama semplificato – non danno infatti conto di tutte le variabili che potevano verificarsi in ciascuna città e in ciascuna officina – ma rendono comunque l’idea della diffusione dell’innovazione. I dettagli e le eccezioni, tuttavia, sono importanti. Probabilmente il risultato più significativo di questo studio consiste nell’aver illustrato come in molti casi i due metodi di stampa delle edizioni in-quarto potessero coesistere fianco a fianco. Nella pratica di tipografia, lo svantaggio di lavorare con il sistema di imposizione degli in-quarto su fogli interi – un sistema di certo più complesso e spesso poco familiare – doveva necessariamente essere compensato da una produzione più veloce. Quanto alle edizioni in-folio, poi, il torchio a due colpi – potendo alloggiare due pagine per volta – offriva un vantaggio evidente rispetto alla stampa pagina per pagina. Se, da un lato, la stampa degli in-folio su fogli interi implicava la preparazione anticipata dell’originale, dall’altro prevedeva un modello di imposizione molto semplice, che, ad esempio per un fascicolo di otto carte, richiedeva solo che fosse corretta la combinazione delle pagine 1-16, 2-15 e così via. Lo stesso schema di imposizione era comodamente applicabile anche alle edizioni in formato in-quarto stampate su mezzi fogli. La preparazione del testo per la composizione – uno stadio del processo produttivo che di solito ci sfugge – divenne quindi un fattore molto rilevante per stabilire l’investimento economico necessario, il formato più conveniente e, infine, i sistemi per comporre un certo testo (nel caso di edizioni in-quarto occorreva decidere se stampare su foglio intero oppure su mezzo foglio). Si è visto come durante la fase di transizione fra un metodo di stampa e l’altro molti tipografi, almeno per un certo periodo, ebbero la possibilità di scegliere. Questa fase di passaggio, seguendo una direttrice geografica che procedette da sud verso nord, durò complessivamente almeno un quindicennio.

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

TABELLA I Roma, in 4° 1468 1469 1470 1471 1472 1473 1474 ante 1480 Sweynheym & Pannartz – – – ISTC: 6; BL: 5; altri: 1 Ulrich Han ISTC: 46; BL: 19; – – – – – – altri: 9 Sixtus Riessinger ISTC: 2; BL: 0 Giovanni Filippo de Lignamine – – ISTC: 17; BL: 9; altri: 1 Georg Lauer R, ISTC: 21; BL:9; – – 1/2 R altri: 3 tip. delle Quaestiones Mercuriales – – ISTC: 23; BL: 6; altri: 1 Windelino de Wila – ISTC: 4+?; BL: 1; altri:1 Johann Gensberg 1/2 R, ISTC: 28; BL: 19; C altri: 2 Arnoldus de Villa ISTC: 1; BL: 1 Johann Reinhard ISTC: 8; BL: 3 Georgius Sachsel e Bartholomaeus C Golsch ISTC: 5; BL: 2 Johann Schurener ISTC: 35; BL: 23

1475 1476 1477 1478 1479

– C, C

C

1/2

C, C

1/2

C

C

C – R

C

R, C

C

1/2

C

C

C

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III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

Bartholomaues Guldinbeck ISTC: 80; BL: 28 Wolf Han ISTC: 7; BL: 6 in casa di Francesco Cinquini ISTC: 1; BL: 1 tipografo del Flemming ISTC: 1; BL: 1 Johann Bulle ISTC: 24; BL: 8

C

C

C

R, C



1/2

C

C

C

C

C C

Legenda • Nella colonna di sinistra, dopo il nome del tipografo, compare rispettivamente: il numero di edizioni in-quarto registrate in ISTC, il numero di edizioni presenti alla British Library, il numero di edizioni esaminate altrove. • Un semplice trattino sotto ciascun anno indica che il tipografo ha stampato unicamente in-quarto su mezzi fogli. • C = foglio intero di carta Cancelleresca; 1/2C = mezzo foglio di carta Cancelleresca. • R = foglio intero di carta Reale; 1/2R = mezzo foglio di carta Reale.

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

TABELLA II Napoli, in 4° ante 1470 1471 1472 1473 1474 1475 1476 1477 1478 1479 1480 Sixtus Riessinger – Arnaldo da Bruxelles – C C C C tip. del Silvaticus – Berthold Rihing ? ? C tip. del Dante – tip. del Philalites – Mattia Moravo (non risultano ed. in 4°) Jodocus Hohenstein C C H. Alding & P. C Barmentlo tip. del Carpanis C Venezia, in 4° ante 1470 1471 1472 1473 1474 1475 1476 1477 1478 1479 1480 Giovanni & Vindelino – – – da Spira Nicolas Jenson – – – – C Christoph Valdarfer – tip. del Basilius – Adam de Ambergau – Franz Renenr de – ? C Heilbron 1/2 Gabriele di Pietro C, – C – R C Florentinus de _ Argentina Christophorus – C Arnoldus Bartholomeus – – – Cremonensis tip. dell’Ausonius – tip. del Duns Scotus – Jacque Le Rouge – – Filippo di Pietro C C C – J. de Colonia & R, – – 1/2 C – J. Manthen C

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III. TORCHI E TESTI NEL PRIMO DECENNIO DELLA STAMPA

E. Ratdolt & R. Maler Tommaso de Blavi Adam de Rotweil Bologna, in 4° ante 1480 Baldassarre Azzoguidi



Niccolò di Lorenzo Milano, in 4° ante 1480 tip. del Castaldi Filippo da Lavagnia Antonio Zarotto Christoph Valdarfer Johan Bonus Domenico da Vespolate Dionigi Paravicino Arcangelo Ungardo tip. del Mombritius L. Pachel & U. Scinzenzeler



C 1470 1471 1472 1473 1474 1475 1476 1477 1478 1479 –



C, C 1/2 C, C n. v. 1/2



Ugo Ruggeri tip. del Barbazza tip. dello Svetonio Johan Schriber de Annunciata Johan Walbeck Domenico de Lapi Firenze, in 4° ante 1480 Johan Petri San Jacopo a Ripoli

C, C C

1/2



C – –



– 1/2 C C C, 1470 1471 1472 1473 1474 1475 1476 1477 1478 1479 1/2

– C, C C – – – – – – 1470 1471 1472 1473 1474 1475 1476 1477 1478 1479 –



– – – –

– – –

1/2

– – –



– – –

– – – ? ?





– – – – –

C, C

1/2

Legenda • Un semplice trattino (–) sotto ciascun anno indica che il tipografo ha stampato unicamente in-quarto su mezzi fogli. • C = foglio intero di carta Cancelleresca; 1/2C = mezzo foglio di carta Cancelleresca. • R = foglio intero di carta Reale; 1/2R = mezzo foglio di carta Reale. • n.v. = non verificato.



– –





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1467 1468 1469 1470 1471 1472 1473 1474 1475 1476 1477 1478 1479 1480

Legenda • Un semplice trattino (–) sotto ciascun anno indica che il tipografo ha stampato su mezzi fogli in quell’anno. • Una crocetta (+) sotto ciascun anno indica che il tipografo ha stampato su fogli interi in quell’anno.

Roma Napoli Venezia Bologna Firenze Milano Magonza Eltville Strasburgo Colonia Parigi Alost / Lovanio Gouda Westminster Oxford

Subiaco

1465 1466 –

TABELLA III

100 FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

IV. COMPOSITORI ED EDITORI. ALLESTIRE UN TESTO PER LA STAMPA NEL XV SECOLO

L’uscita di una pubblicazione celebrativa, in concomitanza di un centenario, è generalmente un invito a gettare uno sguardo retrospettivo su un secolo di conoscenze acquisite in un determinato campo. In questa occasione il Gutenberg Gesellschaft ha infatti celebrato il centenario della propria nascita (1900) e nel contempo l’anniversario (supposto) della nascita di Johann Gutenberg nel 14001. Qualora, invece, si voglia circoscrivere l’indagine ad ambiti più ristretti – ad esempio le copie di tipografia, in particolare quelle usate per la pubblicazione di incunaboli – non devono servire scusanti, soprattutto se quell’indagine riflette alcuni dei principali sviluppi nello studio dei primi quattro decenni della stampa. Presentare in apertura del saggio un riepilogo delle conoscenze acquisite in questo pur limitato ambito, può favorire una loro applicazione più ampia2. Inizialmente il fatto che un manoscritto (o anche, più raramente, un libro stampato) presentasse dei segni apposti in tipografia era considerata una notizia del tutto secondaria. Mano mano si comprese invece che questi documenti erano testimoni preziosi di una fase della produzione del libro che solitamente sfugge alla nostra conoscenza. Ci sarà modo di vedere come l’interesse verso questo aspetto crebbe agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso e come, in un certo numero di casi, l’analisi della copia di tipografia abbia consentito di delineare un quadro dettagliato dei metodi di produzione adottati dalle tipografie. Nella mia recente pubblicazione Texts in transit: manuscript to proof and print in the fifteenth century ho elencato e fatto il punto sui 40 casi a oggi noti di copie di tipografia usate nel XV secolo3. Il saggio che qui si propone è forse La Gutenberg Gesellschaft ha stampato il «Gutenberg Jahrbuch» del 2000 come una pubblicazione celebrativa, proponendo al suo interno saggi che fanno il punto sui progressi compiuti in questo campo di indagine e sui relativi metodi. 2 Si veda in merito L. HELLINGA, Texts in transit. 3 La lista di casi proposti in ivi, pp. 67-101 sostituisce e aggiorna quella precedente di M. 1

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

l’occasione opportuna per valutare se la conoscenza via via più concreta di questo tipo di documenti possa trovare più larga applicazione. Prima tuttavia di concentrarsi sui risultati finali, è meglio ricapitolare brevemente le fasi attraverso cui si sono acquisite queste informazioni. Anteriormente al 1900, casi di originali usati in tipografia per la produzione dei primi libri a stampa erano noti a malapena, o comunque godevano di menzioni stringatissime nei cataloghi di manoscritti4. L’eccezione più notevole è la copia di tipografia relativa alle due versioni del Liber chronicarum di Hartmann Schedel, identificata come tale e studiata da una prospettiva storico-artistica da Hans Stegmann nel 18955. In pieno XX secolo, Giovanni Mercati descrisse un manoscritto autografo dei Rudimenta Grammatices di Niccolò Perotti6, e annotò che presentava i segni tipici di un originale di tipografia, senza però metterlo in relazione con la princeps dell’opera. Nel 1932 Gavin Bone, in un fondamentale articolo, descrisse due casi di manoscritti usati da Wynkyn de Worde per la stampa di testi inglesi; egli si concentrò prima su questioni relative alla proprietà dell’esemplare e alle varianti testuali fra manoscritto e testo stampato, e successivamente pose in relazione i segni tracciati sul manoscritto con le procedure di stampa usate nella tipografia.7 Complessivamente, fino al 1950 furo-

LANE FORD, Author’s Autograph and Printer’s Copy: Werner Rolewinck’s Paradisus Conscientiae, in Incunabula. Studies in Fifteenth-century Printed Books Presented to Lotte Hellinga, a cura di M. DAVIES, London, British Library, 1999, pp. 119-128. 4 G. VALENTINELLI, Bibliotheca manuscripta ad Sancti Marci Venetiarum, IV, Venezia, 1871, pp. 5-6, da cui si evince che i manoscritti Z 228 (1671) e lat. VI 60 (2591) sono originali di stampa dell’Adversus calumniatorem Platonis, Roma, Sweynheym & Pannartz, 1469 (ISTC ib00518000) composto dal cardinale Bessarione, « … ut in editione romana (a. 1469): immo ex hoc ipso codice, manu auctoris emendato, in ea impressione librum quartum (fol. 97180) repraesentatum fuisse, typographorum maculae et signa quaedam aperte declarant». Leone Allodi compilò nel 1877 un catalogo manoscritto dei codici dell’abbazia di santa Scolastica a Subiaco, in cui annotò che il manoscritto Sublacense XLII era stato usato come copia di tipografia per il De civitate Dei di sant’Agostino stampato nel 1467 (ISTC ia01230000). Il catalogo di Allodi è citato in C. FROVA - M. MIGLIO, Editio princeps del De civitate Dei di Sant’Agostino (Hain 2046), in Scrittura, biblioteche e stampa a Roma nel Quattrocento: aspetti e problemi, Atti del seminario (1-2 giugno 1979), a cura di C. BIANCA et al., Città del Vaticano, Scuola vaticana di paleografia, diplomatica e archivistica, 1980, pp. 245-273. 5 H. STEGMANN, Die Handzeichnungen der Manuskripte der Schedelschen Weltkronik, «Mitteilungen aus dem Germanischen Nationalmuseum», 1985, pp. 115-120. 6 G. MERCATI, Per la cronologia della vita e degli scritti di Niccolò Perotti, arcivescovo di Siponto. Ricerche, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1925. 7 G. BONE, Extant manuscripts printed from by W. de Worde, with notes on the owner Roger Thorney, «The Library», 12, s. IV, 1932, pp. 284-306.

IV. COMPOSITORI ED EDITORI. ALLESTIRE UN TESTO PER LA STAMPA NEL XV SECOLO

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no studiati in dettaglio solo quattro casi di originali usati in tipografia8, A questo computo così modesto si aggiunsero altri dieci casi (di cui quattro trasmettevano testi in inglese) prima del 1970, e da allora al 2015 ne sono emersi almeno altri ventidue9. Il punto di partenza delle indagini fu, in fase iniziale, l’interesse per l’autore, per il testo in sé stesso oppure per il manoscritto in quanto fonte testuale. Non è che gli incunabolisti ignorassero il significato delle fonti – cioè degli exemplaria alla base dei libri stampati – ma, per come erano organizzate le loro ricerche e le biblioteche in cui la maggior parte di essi lavorava, era fisiologico che avessero scarse possibilità di imbattersi in manoscritti in qualche modo riconducibili a una certa tipografia. L’esperienza ha insegnato che di solito serve un grande sforzo per connettere il testo stampato al suo exemplar. E infatti, solo dopo aver intrapreso indagini mirate e specifiche, è venuta alla luce una serie di casi riconducibili a ben precise officine tipografiche: Sweynheym & Pannartz a Subiaco e Roma, Ketelaer & De Leempt a Utrecht, Bellaert ad Harlem e Aldo Manuzio a Venezia (relativamente alle stampe in caratteri greci). I lavori (in ordine cronologico) di Wytze Hellinga, Massimo Miglio e i suoi collaboratori, Martin Sicherl e il mio si caratterizzano per l’interesse rivolto alle tipografie sopra citate e anche per i testi che esse produssero. Stanno comunque emergendo altri casi, frutto certamente di una felice coincidenza di interessi, ma è solo la maggior conoscenza dei segni usati in tipografia che ha aumentato le possibilità di riconoscerli e di individuare quindi gli originali. Fin dal 1908, nella sua introduzione al primo volume del Catalogue of books printed in XVth century now in the British Museum (BMC I), Alfred W. Pollard aveva fatto il punto con chiarezza sulle conoscenze degli incunabolisti rispetto gli originali di tipografia. Nel fissare i principi che avrebbero poi informato le descrizioni del catalogo, Pollard assegnò un ruolo prioritario all’identificazione dell’exemplar su cui lo stampatore aveva lavorato10. Dalla sua riflessione risulta evidente come egli pensasse, in particolare, alla ripartizione del lavoro fra tor-

L. HELLINGA, Texts in transit, p. 75 n. 12, p. 87 n. 28, p. 89 n. 31, p. 90 n. 32. Ivi, pp. 67-101. 10 Alfred W. Pollard espose il nocciolo della questione nel 1908: «L’importanza di considerare l’exemplar su cui probabilmente il tipografo ha lavorato nasce dalle difficoltà che si può dimostrare siano state incontrate nel calcolo della quantità di testo manoscritto che avrebbe potuto riempire un dato numero di pagine di stampa […]. Ogni pagina era composta singolarmente e fu solo nel corso degli anni Settanta del Quattrocento che si sviluppò una tecnica adatta a stampare due pagine per volta», ID., BMC I, p. XII, di cui Giancarlo Petrella aveva fatto qualche anno fa una traduzione italiana in E. BARBIERI, Guida al libro antico. Conoscere e descrivere il libro tipografico, premessa di Luigi Balsamo, Firenze, Le Monnier, 2006, pp. 241-263: 246. 8

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chi e compositori che lavoravano per essi. Il catalogo – cioè il BMC – applicò questo principio all’area della descrizione, fornendo indicazioni chiare sugli stacchi riscontrabili nei libri, indizi evidenti che il lavoro fu diviso in una serie di tronconi. La divisione del lavoro consentiva ai compositori di procedere in parallelo ai torchi, invece di seguire un ordine progressivo, che avrebbe imposto di stampare l’opera dall’inizio alla fine, un foglio dopo l’altro. Pollard mise in relazione questo modo di operare con le dimensioni dei torchi più antichi – che non potevano ancora stampare fogli interi in una sola volta – e cercò di identificare singole tipografie attraverso la posizione dei piccoli fori causati dalle puntine che fissavano il foglio al timpano, di solito riscontrabili nei margini esterni delle carte. Egli, però, non pose la questione di come l’originale potesse essere preparato e diviso per rendere possibile la successiva distribuzione del lavoro11. Questa idea del lavoro ripartito fra composizione e stampa era invece stata già elaborata da Gottfried Zedler in relazione al Catholicon di Magonza (ISTC ib00020000)12. Qualche tempo dopo, Paul Schwenke lavorò sul caso più celebre di questo tipo di suddivisone, quello, cioè, riscontrato nella Bibbia di Gutenberg13, giungendo a conclusioni che, nel tempo, furono poi confermate pressoché in toto, grazie a indagini più dettagliate sulla carta e sull’inchiostro usati dal tipografo tedesco14. Konrad Haebler estese la conoscenza circa la suddivisione del lavoro nelle officine tipografiche. Basandosi infatti sul numero irregolare di linee per pagina – un dato già osservato e incluso nelle descrizioni del BMC per alcuni incunaboli italiani – egli riuscì a stabilire l’ordine di composizione all’interno di un fascicolo15. In particolare Haebler dedusse che l’ordine di composizione e di A questo proposito si veda L. HELLINGA, Press and texts, pp. 1-23, qui tradotto alle pp. 73-100. 12 G. ZEDLER, Das Mainzer Catholicon, Mainz, Verlag der Gutenberg-Gesellaschaft, 1905 (Veröffentlichungen der Gutenberg-Gesellschaft, 4), pp. 2-6. 13 Johannes Gutenbergs zweiundvierzigzeilige Bibel. Ergänzungsband zur Faksimile-Ausgabe, hrsg. VON P. SCHWENKE [- A. SCHWENKE], Leipzig, Insel, 1923. 14 P. NEEDHAM, The paper supply of the Gutenberg Bible, «The Papers of the Bibliographical Society of America», 79 (1985), pp. 303-374; ID., Division of copy in the Gutenberg Bible. Three glosses on the ink evidence, «The Papers of the Bibliographical Society of America», 79 (1985), pp. 411-426. 15 K. HAEBLER, Handbuch der Inkunabelkunde, Leipzig, Hiersemann, 1925, pp. 72-79, disponibile anche nella traduzione italiana di Alessandro Ledda, Konrad Haebler e l’incunabolistica come disciplina storica, introduzione e traduzioni di A. Ledda, Milano, CUSL, 2008, pp. 70-79. Nelle pagine citate Haebler fa riferimento alle descrizioni del BMC relative alle seguenti edizioni: ARISTOTELE, Ethica ad Nicomachum, Roma, Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz, 11 I 1473, Fol. (BMC IV, 17; ISTC ia00983500); MARCO MAROLDO, Oratio 11

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stampa procedeva dal foglio esterno del fascicolo verso i fogli interni, secondo una sequenza che si discostava rispetto all’ordine di lettura del testo. A tale tipo di composizione verrà dato il nome, successivamente, di “composizione per forme”16. Haebler considerò questo metodo come peculiare dell’area italiana, in opposizione ai sistemi di composizione usati per gli incunaboli tedeschi, mentre oggi sappiamo che la distinzione non è così netta17. La composizione per forme è necessariamente connessa alla stampa sul più moderno torchio a due colpi, capace di stampare l’intero lato di un foglio in una sola volta: si trattava di un progresso tecnico attestato per la prima volta a Roma e a Venezia agli inizi degli anni Settanta, che iniziò a diffondersi nei territori di lingua tedesca solo verso la fine di quel decennio. In ogni caso, l’uso del più rudimentale torchio a un colpo non implicava necessariamente una composizione e una stampa seriatim – cioè secondo l’ordine corrispondente alla sequenza di lettura del testo – e talvolta si può dimostrare che i fogli venivano completati stampando semplicemente tutte le pagine necessarie18. Sembra dunque più corretto spiegare i casi analizzati da Haebler (edizioni italiane della fine degli anni Settanta) come prodotti stampati su fogli interi con torchi a due colpi, mentre gli esempi del grande incunabolista relativi a stampe romane degli anni Settanta necessitano ancora di ulteriori indagini. Se non c’è bisogno di chiarire come i segni apposti su un originale di tipografia possano essere interpretati solo in relazione alle procedure dell’officina che li ha realizzati, non c’è nemmeno bisogno di ricordare che l’osservazione fatta da Donald F. McKenzie nel 1969 – «tutte le officine tipografiche erano simili nella loro diversità» – è ancora valida come non mai19. Quanto poi alla relazione fra originale e testo stampato, restano comunque da fare alcune riflesde Epiphania, [Roma, Johann Gensberg, 1474 circa], 4° (BMC IV, 59; ISTC im00277000); ANTONINO DA FIRENZE (SANTO), Summa theologica (Pars II), Venezia, Johann de Colonia e Johann Manthen, 1477, Fol. (BMC V, 177; ISTC ia00868000); CICERO, MARCUS TULLIUS, Orationes, Venezia, Nicolò Girardengo, de Novis, 10 III 1480 Fol. (BMC V, 272; ISTC ic00545000). 16 La composizione per forme venne studiata per la prima volta da W. H. BOND, Casting off copy by Elizabethan printers. A theory, «Papers of the Bibliographical Society of America», 42, 1948, pp. 281-291 e da C. HINMAN, The Printing and Proof-Reading of the First Folio of Shakespeare, 2 voll., Oxford, Clarendon Press, 1963. 17 Sulla questione – e in particolare sulle Orationes di Cicerone stampate a Venezia fra il 1471 e il 1480 – si veda L. HELLINGA, Texts in transit, pp. 228-253. 18 Ivi, pp. 37-66; qui si veda il saggio Torchi e testi nel primo decennio della stampa, pp. 73-100. 19 D. F. MCKENZIE, Printers of the mind. Some notes on bibliographical theories and printing-houses practices, «Studies in Bibliography», 22, 1969, p. 60 (trad. it. Stampatori della mente e altri saggi; con un saggio introduttivo di M. Suarez, Milano, Sylvestre Bonnard, 2003, p. 97).

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sioni di carattere generale, che vanno ad aggiungersi a ciò che già sappiamo in materia. Un consiglio per i futuri studiosi: è importante tenere presente che un documento usato come exemplar in tipografia di solito veniva impiegato in più fasi successive della produzione, ognuna delle quali lasciava le proprie tracce. Per comprendere queste fasi, è indispensabile porre l’attenzione sulle procedure adottate in officina: ad esempio occorre capire se il libro fu stampato su fogli interi o su mezzi fogli, se il testo venne suddiviso in distinti tronconi più o meno ampi, oppure se altri fattori concorsero a influenzare la preparazione dell’originale di un dato libro. In ogni caso, qualunque fosse il sistema prescelto, il tipografo cominciava la preparazione dell’originale valutando la lunghezza del testo da stampare e, a seguire, pianificando la struttura dei fascicoli del libro. In presenza di un’opera di grande consistenza si potevano determinare fin da subito le porzioni di testo, poi distribuite fra compositori e torchi. Il passo successivo implicava un compito più rischioso poiché si trattava di calcolare, con ragionevole grado di precisione, il numero di pagine totali (o di quelle contenute in ciascun troncone del lavoro). Questa procedura si definisce casting-off (cioè conteggio dell’originale). C’erano diversi modi per contrassegnare la lunghezza delle pagine: talvolta si ricorreva a una linea sottile, altre volte si usava invece una combinazione quasi invisibile di puntini20. La lunghezza di ciascuna pagina si decideva contando le linee: non ci sono prove che per la preparazione dei primi testi a stampa siano mai state usate tecniche più sofisticate, come ad esempio il conteggio delle parole o dei caratteri. Il computo delle linee lasciava occasionalmente tracce minuscole, quali trattini fra le righe (ad esempio ogni due righe); altrove il calcolo delle linee doveva essere dedotto dalla regolarità con cui si presentava il numero di righe nella successione delle pagine. Alle illustrazioni silografiche si assegnava un numero di righe proporzionato alla dimensione (o si assegnava un’intera colonna, come nel caso del De Historie van Jason, stampato da Jacob Bellaert)21. Il Liber chronicarum – un complicatissimo mix di testo e illustrazione – fu un caso del tutto eccezionale, perché per fornire ai compositori il modello di composizione da seguire ne furono ricopiate tutte le pagine22. Talvolta, ma forse non sempre, contare le pagine equivaleva a decidere quale fosse il modo migliore per distribuirle in fascicoli caratterizzati dallo stesso

Si vedano le relative illustrazioni in L. HELLINGA, Texts in transit, pp. 61-66. La questione, recentemente riesaminata in ivi, pp. 337-347, si basa su un’analisi più elaborata e approfondita, come in EAD., Methode en praktijk bij het zetten van boeken in de vijftiende eeuw. Tesi di dottorato, Amsterdam, 1974, p. 89. 22 A. WILSON, The making of the Nuremberg Chronicle, assisted by J. LANCASTER WILSON, Amsterdam, Nico Israel, 1976. 20

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numero di carte – solitamente otto o dieci – numero che, con tutta probabilità, sarebbe diminuito nei fascicoli finali. Un computo di tale genere poteva tradursi in una serie di ulteriori segni, ad esempio la scrittura (in cifre arabe ben visibili) dei numeri delle pagine di un fascicolo combinata con il simbolo che indicava la fine della porzione di testo relativa a una data pagina. È curioso notare che alle segnature in numeri romani dei libri a stampa, di solito (ma non sistematicamente) corrispondono, nella copia di tipografia, i numeri di pagina – se presenti – espressi in cifre arabe. A volte il verso delle pagine si contrassegnava mediante un tratto a uncino, che derivava probabilmente dall’abbreviazione latina per contra. Una volta terminata la preparazione dell’exemplar, il documento passava nelle mani dei compositori per individuare eventuali errori commessi nei calcoli – situazione non infrequente – e per sanarli. Saltare un’illustrazione durante il conteggio dell’originale poteva lasciare segni indelebili nel libro stampato, come pagine tipograficamente molto serrate, oppure, al contrario, poteva generare una pagina in più, che veniva trasformata in una pagina bianca contenente un avviso del tipo «Hic nihil deficit». I compositori, a questo punto, iniziavano la composizione del testo – l’ordine dipendeva dal metodo di stampa adottato (torchio a uno o due colpi) – procedendo quindi o secondo l’ordine di lettura (cioè seriatim) oppure completando le pagine secondo la sequenza prescritta dalla composizione per forme (ad esempio pp. 1-16, pp. 2-15 e così via). Se componevano seriatim, era sufficiente che facessero un segno nel testo in corrispondenza della fine della pagina, per iniziare il lavoro successivo nel punto corretto. Quando andava in stampa l’ultima pagina composta, era comodo sapere dove doveva iniziare quella seguente, senza bisogno di ulteriori controlli. In caso di composizione seriatim la paginazione poteva essere segnata contestualmente anziché in anticipo, come sembra essere accaduto per la gran parte del De civitate Dei di sant’Agostino, composto e stampato a Subiaco, con la nota eccezione dei fascicoli composti dai due compositori (si trattava di apprendisti?) che segnarono le pagine loro affidate facendo riferimento ai giorni della settimana lavorati e all’orario dei pasti23. Lavorando invece per forme (cioè non secondo la sequenza di lettura del testo), il compositore aveva il più gravoso compito di procedere rispettando gli speciali vincoli imposti dal conteggio dell’originale. Vincoli che lo condizionavano fortemente, ad esempio quando la pagina seguente a quella su cui doveva lavorare era già stata composta. In questi casi, il conteggio dell’originale aveva prima di tutto la funzione di mostrare il punto esatto in cui una pagina doveva cominciare (quando quella precedente non era stata ancora composta). Una volta composta la pagina, il segno rendeva 23

L. HELLINGA, Texts in transit, pp. 162-164, qui pp. 24-25.

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obbligatorio terminare quella precedente esattamente in quel punto. Se però la pagina seguente non era stata ancora composta (come accadeva di solito nel caso delle due pagine centrali di un fascicolo, ma anche con altre pagine), il compositore era libero di discostarsi dai calcoli fatti sull’originale e spesso lo faceva. Tali spostamenti generavano nuovi segni da parte dei compositori, che si aggiungevano a quelli apposti per segnalare eventuali errori nel calcolo. Non bisogna comunque lasciarsi ingannare pensando che i compositori si sentissero in obbligo di dar conto ai posteri del proprio lavoro e delle proprie decisioni. La maggioranza dei loro interventi sul testo non ha lasciato traccia alcuna. Il che crea parecchi problemi ai moderni filologi. Solo avendo per le mani proprio l’originale usato dai compositori potremmo dedurre che tutte le varianti testuali nella versione a stampa (tranne quelle segnate sull’exemplar) derivano da un loro intervento. Si potrebbe però eccepire che la variante di testo sia stata introdotta da un correttore, ma la miglior conoscenza del metodo e dell’ordine di composizione – unita all’analisi di specifici casi di studio – ci ha permesso di ritenere questa possibilità come la meno probabile. Si comprende facilmente che la necessità di risolvere problemi di spazio in libri composti per forme implica un’inevitabile proliferazione di varianti testuali. Come aveva già rilevato Haebler, la variazione del numero di linee per pagina fu uno degli escamotage usati per adattarsi allo spazio disponibile; un altro accorgimento, quando c’era carenza di spazio per il testo, era il ricorso a un maggior numero di abbreviazioni e contrazioni, inclusa l’omissione di parole. Va detto, però, che è vero pure il contrario e cioè che anche troppo spazio libero creava dei problemi: in questi casi si poteva allargare il testo aumentando lo spazio fra le parole o aggiungendone di nuove. In questo senso, un esempio illuminante (e facile da ricordare) ce lo fornisce il primo libro stampato a Oxford, l’Expositio in symbolum apostolorum di Rufino di Aquileia24, dove le parole […] quod dixit. Mortalis autem cum ceciderit non resurget

contenute nell’originale, vengono dilatate, nella versione a stampa, in …quod ut dixit pacientissimus Iob. Mortalis autem homo cum ceciderit in infirmiate sue mortis non resurget in eternum25.

Si tratta di un esempio estremo ma utile a dimostrare come nel XV secolo (e anche dopo) i compositori non fossero semplici operai meccanici di un’era 24 RUFINO DI AQUILEIA, Expositio in symbolum apostolorum, Oxford, [stampatore dell’Expositio in symbolum apostolorum], 7 XII ‘1468’ [1478], 4° (ISTC ir00352000). 25 Si veda in proposito L. HELLINGA, Texts in transit, pp. 218-227.

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già industriale, bensì copisti veri e propri, che operavano in un contesto di nuove tecnologie. È opinione comune che il lavoro dei copisti medievali consistesse nel restituire un testo nella miglior forma possibile. Ebbene, la responsabilità dei compositori nei riguardi del testo era la stessa: trasmetterlo in forma adeguata ai potenziali lettori, un pubblico più largo e meno specializzato rispetto a quello che si accostava ai manoscritti. E in questo sta la differenza fondamentale fra il lavoro dei copisti e quello dei compositori. Perseguire un buon testo significava però misurarsi con una serie di importanti questioni, quali la normalizzazione linguistica, la correzione degli errori più evidenti, la fluidità e la leggibilità, l’allestimento di un’impaginazione chiara, e infine la garanzia di poter accedere al meglio al testo stesso. La conseguenza di tutto ciò, quindi, fu una certa libertà di inserire qualunque cambiamento si reputasse adatto allo scopo, o perfino di riempire eventuali spazi visivamente vuoti, come si è visto per il testo patristico impresso a Oxford. La libertà di cui godevano i compositori nel maneggiare il testo – per compensare le limitazioni tecniche derivate dalla composizione con i caratteri mobili – si può meglio dimostrare (anzi, provare) se consideriamo l’esiguo numero di originali di tipografia conservati risalenti ai primi decenni della stampa. Pochi di essi sono giunti fino a noi, perché il fatto di essere stati manipolati e usati in un’officina tipografica ha contribuito a renderli più deperibili; se poi l’exemplar era un testo a stampa, le possibilità di sopravvivenza diminuiscono drasticamente (se ne conoscono infatti pochissimi)26. L’analisi di ciò che accadeva a un testo quando una versione stampata fungeva da exemplar per un’edizione successiva arricchisce comunque, e di molto, i dati che oggi conosciamo. Ad esempio, la ricomposizione di un testo effettuata seguendo un modello a stampa (pagina per pagina, o carta per carta) può offrire, tanto quanto un originale manoscritto di tipografia, uno sguardo molto diretto sui metodi di lavoro di un’officina tipografica. Tutto ciò diventa ancora più chiaro quando la ricomposizione si limita a poche pagine, ad esempio quando una precedente composizione deve essere sostituita a causa di un errore di imposizione delle pagine. Questo era il tipico modo con cui si riparavano gli incidenti occorsi in tipografia, come quelli che si verificarono, ad esempio, nell’officina di William Caxton: lì capitarono alcuni imprevisti, noti e ben documentati perché si sono conservate le composizioni originali o i frammenti composti, che oggi consentono di ricostruire l’accaduto27. Fortunatamente per

Ivi, p. 67 n. 1, p. 70 n. 6, p. 72 n. 8, p. 93 n. 34. Il riferimento è agli incidenti di tipografia avvenuti durante la stampa delle seguenti edizioni: BONAVENTURA (SANTO), Meditationes vitae Christi [in inglese], [Westminster],

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ciascuno dei casi occorsi nella tipografia di Caxton, la nuova composizione tipografica fu eseguita da un compositore diverso da quello che compose le pagine originali, circostanza che permette di verificare come ci furono comunque cambiamenti consistenti (tanto ortografici che lessicali), dovuti alle preferenze del secondo compositore, anche se l’intenzione fu solo quella di offrire una riproduzione esatta delle pagine da sostituire28. Questi pochi esempi, a loro volta, aiutano a comprendere che i compositori potevano introdurre in un testo caratteristiche linguistiche particolari. Come ci sarà modo di vedere, un ulteriore step, nei metodi di lavoro delle officine, fu quello di lasciare che i compositori modernizzassero o adattassero un testo senza nessun’altra interferenza redazionale. La comprensione del ruolo dei compositori – aumentata e radicalmente mutata – ha privato i filologi testuali di comode certezze. Non basta più, infatti, per scartare la possibilità di una derivazione diretta, che esistano varianti di testo non attribuibili a un editore noto. Al contrario, per ciò che concerne i primi anni della stampa (che ovviamente non terminano di colpo nell’anno 1500), non c’è alcuna motivazione per ascrivere all’intervento di un unico curatore le varianti che compaiono in un testo a stampa. Piuttosto, occorre affrontare, caso per caso, il problema di chi abbia realizzato la singola variante che abbiamo di fronte. Anche dopo aver lasciato le mani del curatore, la presentazione di un testo, la sua ortografia, il suo lessico, le sue particolarità linguistiche e perfino il suo contenuto sono tutti suscettibili di modifiche da parte del compositore durante il ciclo di produzione. In realtà compositore e

liam Caxton, [1489-1490], Fol. (ISTC ib00903000); Myrrour of the world, [Westminster], William Caxton, [1489-1490], Fol. (ISTC im00884000); GUILLAUME DE DIGULLEVILLE, Le pèlerinage de l’âme [in inglese], Westminster, William Caxton, 6 VI 1483, Fol. (ISTC ig00640000); CHRISTINE DE PISAN, Faits d’armes et de chevalerie [in inglese], [Westminster], William Caxton, 14 VII 1489, Fol., (ISTC ic00472000); Blanchardyn and Eglantine [Westminster, William Caxton, 1490], Fol. (ISTC ib00690400). Si veda anche BMC XI, 141, 171, 173, 177. 28 Le varianti testuali contenute ne Le pèlerinage de l’âme e nei Faits d’armes et de chevalerie sono state discusse da Curt F. Bühler nel suo Early books and manuscripts. Forty years of research, New York, The Grolier Club & the Pierpont Morgan library, 1973, pp. 154-161, dove i Dits des philosophes (ISTC id00272000), Le morte d’Arthur di Thomas Melory (ISTC im00103000), e The book of fame di Geoffrey Chaucer (ISTC ic00430500) sono citati come esempi di analoghi incidenti di tipografia. Le varianti fra le due composizioni delle Meditationes vitae Christi sono illustrate in L. HELLINGA, Texts in transit, pp. 376-377. Per le varianti del Myrrour of the worlde si veda EAD., Compositor’s practice: resetting of texts in Caxton’s printing house, in The Medieval book and a modern collector. Essays in honour of Toshiyuki Takamiya, ed. by T. MASUDA - R. A. LINENTHAL - J. SCAHILL, Woodbridge, UK, Rochester, NY, D.S. Brewer - Tokyo, Yushodo Press Ltd., 2004, pp. 295-312.

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allestitore del manoscritto di tipografia possono essere la stessa persona, come nel caso del Rufino stampato a Oxford, e probabilmente anche in quello della Bibbia di Colonia in basso tedesco, una delle vicende indagate negli ultimi due decenni. In uno studio dettagliato del processo di produzione della Bibbia di Colonia in antico sassone oppure in basso tedesco, Severin Corsten ha dimostrato che la versione in basso tedesco fu una traccia costante durante la produzione di quella in antico sassone, la quale, rispettando la struttura dei fascicoli e le illustrazioni proposti nell’edizione in basso tedesco, dimostra di averla tenuta come modello quasi esatto29. Fu durante la fase di composizione che avvenne il passaggio da una forma linguistica a un’altra del dialetto tedesco, come ha illustrato Corsten. Egli sostenne che questo passaggio si sarebbe spiegato più chiaramente se «il traduttore» (o «l’adattatore») e il compositore fossero stati la stessa persona. Lo studioso tedesco trovò conferma alla sua ipotesi basandosi su un dato di fatto: ogni volta in cui occorreva decidere se includere o meno determinate parti del testo, il lavoro veniva interrotto, causando irregolarità nella struttura del fascicolo. E poiché dirimere così delicate questioni esegetiche era cosa che avrebbe oltrepassato le normali competenze di un traduttore o di un compositore, prende corpo l’ipotesi che il responsabile dell’organizzazione del testo fosse il compositore, rendendo meno convincente una spiegazione alternativa di carattere più meccanico – mano mano che i fogli della versione in sassone uscivano dai torchi, venivano annotati e poi consegnati al compositore del testo in Basso Tedesco. Se le cose stessero così, bisognerebbe supporre l’esistenza di un documento intermedio (i fogli annotati), andato perso una volta compiuta la propria funzione. Per la Bibbia di Colonia, però, non ci sono sufficienti pezze d’appoggio per congetturare l’esistenza di questo documento intermedio, mentre in altri casi è inevitabile supporla. William Caxton è un esempio di tipografo ed editore che, più di tanti altri suoi colleghi, lasciò memoria del proprio lavoro come traduttore ed editor di testi destinati alla stampa, pensati cioè per un pubblico ben più vasto di quello che poteva essere raggiunto da qualsiasi versione manoscritta del medesimo testo. Di solito i documenti che testimoniano il suo lavoro “preliminare” di traduttore ed editore non sono sopravvissuti. C’è però un caso – quello de Le morte d’Arthur di Thomas Malory – in cui l’unica versione manoscritta nota del testo è da mettere in connessione proprio con l’officina tipografica di Caxton, non solo perché conserva tracce dei suoi caratteri tipografici (si tratta di una contrastampa), ma anche perché presenta un frammento di un’indulgenza S. CORSTEN, The illustrated Cologne Bibles of c. 1478. Corrections and addictions, in Incunabula. Studies in fifteenth-century printed books, pp. 79-88.

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stampato da Caxton che servì per rappezzare la rottura di una carta30. Lo stesso tipografo, al termine di un lungo prologo, spiegò che aveva suddiviso il testo in libri e capitoli, ma il manoscritto non mostra alcuna traccia a riguardo, né presenta i segni tipici di un originale di tipografia. La spiegazione più verosimile, quindi, è che il libro fu copiato: o da Caxton stesso, che introdusse correzioni e miglioramenti testuali mano mano che procedeva – fornendo, nel contempo, una struttura che rendesse un testo così impegnativo di più facile consultazione per il lettore – oppure da qualcun altro prima che il tipografo iniziasse i suoi interventi. In quest’ultimo caso è assai probabile che fosse il copista a introdurre le proprie preferenze linguistiche e forse anche le proprie correzioni, suggerite via via dal contesto. Caxton, allora, avrebbe indicato la divisione in capitoli nella copia manoscritta, così come potrebbe avervi inserito ulteriori correzioni rispetto a quelle apportate dal copista. Il documento finale sarebbe poi passato nelle mani dei compositori, sottoposto al conteggio delle pagine – come qualunque originale di tipografia – e preparato per divenire un testo a stampa. A loro volta i compositori avrebbero introdotto le loro preferenze linguistiche. In altre parole: si frappongono influenze plurime, in diverse fasi della produzione, provenienti da individui differenti, e ciascuno di questi passaggi lascia, in successione, la propria traccia sul testo31. Tutto ciò può essere spiazzante per i filologi testuali. Le morte d’Arthur del Malory è un’opera centrale per gli studi sulla letteratura tardo medievale inglese, che ha suscitato un dibattito molto ampio32. E nonostante le consistenti varianti di testo, il problema della derivazione diretta dell’edizione di Caxton dal citato manoscritto di Malory ha rappresentato un momento fecondo di scambio fra filologi e storici del libro. Un personaggio quasi contemporaneo di Caxton, Gheraert Leeu, offre un altro esempio che consente di ipotizzare l’esistenza di un documento intermedio oggi perduto, in cui ci sarebbe prova di correzioni testuali. La questione –

THOMAS MALORY, Le morte d’Arthur, Westminster, William Caxton, 31 VII 1485, Fol. (ISTC im00103000). Il manoscritto in questione, originariamente custodito presso il Winchester College, si conserva ora presso la British Library (BL Add. Ms 59678). Per una riflessione recente riguardo l’intricato problema della trasmissione di questo testo si veda L. HELLINGA, Texts in transit, pp. 410-429. 31 Ingrid Tieken-Boon Van Ostade ha enucleato i vari elementi linguistici che non sono conformi all’usus linguae di Caxton, come in EAD., The Two Versions of Malory’s Morte Darthur. Multiple Negation and the Editing of the Text, Woodbridge, D. S. Brewer, 1995 (Arthurian Studies, 35). 32 Sulla questione si veda A companion to Malory, ed. by E. ARCHIBALD - A. S. G. EDWARDS, Cambridge, Brewer, 1996 (Arthurian Studies, 37); I. T.-B. VAN OSTADE, The Two Versions of Malory’s Morte Darthur. 30

IV. COMPOSITORI ED EDITORI. ALLESTIRE UN TESTO PER LA STAMPA NEL XV SECOLO

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di cui si discute ampiamente nel saggio Il viaggio di un testo: dal copista, al tipografo, all’esploratore contenuto in questa raccolta – nasce confrontando due fonti, ben distinte dal punto di vista geografico ma strettamente connesse fra loro33. Una è da porre in relazione con le città di Bologna e Padova, l’altra con un testo stampato a Gouda, in Olanda34. Per puro accidente, invece, accade talvolta che il documento intermedio sopravviva. Un esempio straordinario, e un caso in sé stesso, è quello rappresentato dalla prima composizione delle Epistolae di san Girolamo, stampato a Magonza da Peter Schoeffer nel 147035. Ampie porzioni di testo furono composte due volte, circostanza che diede luogo a due emissioni recanti la stessa data di pubblicazione. Tutti gli esemplari appartenenti alla prima emissione di questo libro recano correzioni manoscritte, che vennero incluse nella seconda emissione. Le correzioni manoscritte, virtualmente identiche in tutti le copie e apportate di sicuro in tipografia, hanno avuto come scopo principale quello di migliorare la correttezza del testo di ciascun esemplare dell’edizione già tirata, ma vennero usate anche come copia preparatoria per allestire le pagine (302 in tutto) da ricomporre e ristampare. Un gruppo di questi fogli annotati deve essere servito come exemplar, anche se non richiedeva nessun tipo di conteggio di linee e caratteri perché era esattamente una ristampa pagina per pagina. Tutto ciò che conosciamo su questa ricomposizione indica che ci si aspettava che il lavoro proseguisse con un’accuratezza assoluta. Eppure c’erano delle varianti: ortografiche, nell’uso delle maiuscole e della punteggiatura. Nel caso delle Epistolae di san Girolamo si può essere certi che queste varianti furono introdotte durante il processo di composizione tipografica. L’ultimo esempio proposto è meno eccezionale degli altri da un certo punto di vista, ma bene illustra la difficoltà di decidere – alla luce dell’esperienza acquisita negli ultimi anni – se un documento possa rappresentare un testimone intermedio, o meglio, illustra la difficoltà di determinare quale ruolo il documento abbia giocato nella trasmissione del testo. Si tratta di un esemplare appartenente a un’edizione a stampa, che fu annotato, con tutta evidenza, collazionando varie fonti. Il punto è questo: la collazione fu fatta per allestire una nuova edizione? E in tal caso è possibile associa-

Si veda qui alle pp. 117-143. Si tratta rispettivamente del manoscritto con segnatura Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, Ms Lat. X 73 (3445), e di MARCO POLO, De conditionibus et consuetudinibus orientalium regionum, [Gouda, Gheraert Leeu, fra il 1483 e l’11 VI 1484], 4° (ISTC ip00902000). 35 GIROLAMO (SANTO), Epistolae, Mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, Fol. (ISTC ih00165000). In BMC I, 27 l’ordine delle due composizioni tipografiche è stato invertito. 33

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FARE UN LIBRO NEL QUATTROCENTO

re questa edizione con una tipografia? Il libro, che non reca i segni tipici del conteggio dell’originale, è un esemplare dei Sententiarum Libri IV di Pietro Lombardo stampato da Heinrich Eggestein. L’interesse sta nel fatto che questa edizione – stampata fra il 1469 e il 1470 (e comunque non dopo il 1471) – è stata oggetto di continui dubbi36, che hanno riguardato sia la princeps, sia l’edizione successiva, impressa dallo stampatore di Strasburgo noto come il “tipografo dell’Henricus Ariminensis” (da identificare, con buona dose di certezza, con lo stesso Heinrich Eggestein)37. Alfred W. Pollard annotò in BMC I che un’edizione derivava ovviamente dall’altra, ma non stabilì quale fosse la prima38. Un dato che complica ulteriormente la situazione è che nella copia dell’edizione stampata da Henricus Ariminensis (o Enrico da Rimini), conservata presso la Fischer Library di Toronto, il rubricatore annotò la data “1468”, un anno prima rispetto al più antico prodotto noto assegnabile a questa officina tipografica. In tempi recenti, indagini condotte sulla carta e su altri aspetti delle due edizioni hanno permesso di concludere che la più antica – e pure di svariati anni – è quella di Eggestein39. Nell’esemplare della Anthony d’Offay Collection che ho esaminato, chi fece la collazione (o chi appose le note a margine) vergò le proprie correzioni con una mano molto chiara. Rilevò errori di lettura della fonte originale o forse forme corrotte, già presenti in fonti anteriori e imputabili, a loro volta, a errori di lettura; talvolta ha indicato che l’ordine dei blocchi di testo doveva essere cambiato e ha raccomandato di eliminare alcune glosse incorporate al testo, ad esempio [f]1r. A sorpresa, il collazionatore ha anche

36 PIETRO LOMBARDO, Sententiarum libri IV, [Strassbourg, Heinrich Eggestein, prima del 1471], Fol. (ISTC ip00479000). Ho studiato la copia appartenente alla Anthony d’Offay Collection di Londra e sono molto grata per l’occasione che mi è stata offerta di esaminarla. Sull’edizione si veda anche: K. OHLY, Georg Reysers Wirken in Strassburg und Würzburg: zum Problem des Druckers des Henricus Ariminensis, «Gutenberg Jahrbuch», 1956, pp. 121-140. 37 PIETRO LOMBARDO, Sententiarum libri IV, [Strassbourg, tipografo dell’Henricus Ariminensis, 1476 circa], Fol. (ISTC ip00479100). 38 In BMC I, 76 Pollard vergò infatti la seguente nota a margine: «composto sulla base di Eggestein IC. 710 o viceversa». 39 Katalog der Inkunabeln der Stadtbücherei Reutlingen, bearbeitet von Peter Amelung, Reutlingen, Druckerei Harwalik KG, 1976, n. 77; P. NEEDHAM, Johann Gutenberg and the Catholicon press, «Papers of the Bibliographical Society of America», 76, 1982, pp. 395-565. Si veda inoltre il contributo di Paul Needham in The Estelle Doheney Collection, Part I, New York, Christie’s, 22 October 1987, lot 19. P. AMELUNG, Das Registrum bei Eggestein und anderen oberrheinischen Frühdruckern, «Gutenberg Jahrbuch», 1985, pp. 123-124. J.L. KAHN, Mentelin et l’imprimerie à Strasbourg jusqu’en 1475, «Bulletin du bibliophile», 1990, pp. 345-370.

IV. COmPOSItOrI ed edItOrI. AlleStIre uN teStO Per lA StAmPA Nel XV SeCOlO

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ampliato una frase [Giovanni 6, 56-57] che nell’edizione di Heinrich eggestein – il quale di sicuro metteva a testo una correzione realizzata in forma abbreviata, inclusa nel suo antigrafo – fu stampata come manducat car. m. & b. s. m. in. m. m. &. e. in eo

in manducat carnem meam. & bibit sanguinem meum in me manet & ego in eo40.

Inoltre, il nostro collazionatore stese di tanto in tanto qualche nota aggiuntiva per spiegare meglio il proprio metodo di lavoro. Alla fine del Libro II, ad esempio, scrisse «emendatus» e in alcuni passi dette perfino origine a una discussione – richiamando con la dicitura «alij» altre possibili differenti letture – mentre in un punto del testo fece uso dell’insolita espressione «destina textus» nel senso di «in appoggio al testo», forse da intendere come consenso delle fonti a una certa lezione41. Il confronto fra questa edizione (dell’eggestein) e quella stampata da enrico da rimini mostra come la maggior parte delle correzioni, anche se non tutte, furono poi incluse da quest’ultimo nella sua versione a stampa dei Sententiarum Libri IV. Poiché l’interdipendenza delle due edizioni è palese, come d’altra parte aveva già evidenziato Pollard, la questione sembra semplice e invoglia a considerare l’esemplare annotato (quello di Heinrich eggestein) come uno step preparatorio alla seconda edizione (quella di enrico da rimini), migliorata attraverso un’importante revisione testuale. Il passo successivo sarebbe stata una copia del testo a stampa che comprendesse le correzioni suggerite dal collazionatore; quel testo sarebbe stato poi esaminato dall’editore finale e, da ultimo, contrassegnato per i compositori. Questo secondo documento non è sopravvissuto, o forse non è stato ancora identificato. In ogni caso, non si può escludere del tutto la possibilità che l’accurata (e superstite) collazione fosse a beneficio di un teologo anziché del tipografo. Il libro presenta anche molte note interlineari di mani diverse, redatte ovviamente da possessori più tardi. esistono altri due esemplari dell’edizione di eggestein che contengono molte note, come at-

[BB]4r, ll. 31-33. In uno stadio precedente della trasmissione del testo, deve essere andata perduta una frase e tale perdita è stata sanata in un secondo momento, forse con una nota marginale o interlineare che indicava ciascuna parola mancante attraverso la sua lettera iniziale. 41 [f]4v, col. b: «Notula ista non destina textus existit. autem a quibusdam loco in ordine isto intricari solet».

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testano le relative descrizioni bibliografiche42. d’altra parte, il fatto che la maggioranza delle varianti testuali registrate dal collazionatore sia stata inclusa in un’edizione andata poi a stampa (in quella che ragionevolmente si pensa che fosse la stessa tipografia), potrebbe suggerire una concatenazione plausibile dei fatti. A oggi la questione resta aperta, ma non deve essere abbandonata: si tratta infatti di una vicenda molto significativa, la cui soluzione può contribuire a fare chiarezza tanto sugli annosi e complessi problemi della relazione fra due officine tipografiche di Strasburgo (a meno che non si tratti, come accennavo, della stessa), quanto sui problemi inerenti alla produzione e alla datazione di due libri da esse prodotti. Al di là di tutto, comunque, quest’ultimo esempio dimostra come ci siano molti più fattori da tenere in considerazione rispetto a quelli di cui si sono occupati in passato i filologi e gli storici del libro. la nostra consapevolezza e la nostra comprensione via via più solide dei procedimenti seguiti nelle officine tipografiche – e delle loro variabili – così come il grado di coinvolgimento dei tipografi nella produzione di testi coerenti con i loro modelli manoscritti, stanno aprendo la strada per far luce, in futuro, su casi ancora incerti.

uno è a Princeton, New Jersey, Scheide library (l’informazione mi è stata gentilmente fornita da Paul Needham), l’altro si trova a friburgo, universitätsbibliothek, Sack 2788.

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V. IL VIAGGIO DI UN TESTO: DAL COPISTA AL TIPOGRAFO, ALL’ESPLORATORE

la traversata dell’oceano Atlantico compiuta da Cristoforo Colombo è un viaggio lineare se paragonato alle peregrinazioni di un testo che egli bramava ancora prima di averlo per le mani. Si tratta della versione latina dei viaggi di marco Polo – comprendenti l’esplorazione degli allora ignoti Asia e Giappone – un testo che aveva vagato lungo tutto il mondo conosciuto per finire a Siviglia, nelle mani di Cristoforo Colombo, sotto forma di un libro. Il suo complesso percorso si snoda fra Venezia, Padova, Gouda in Olanda, londra, Bristol e tocca brevemente la tetra costa di terranova. In questo saggio mi propongo di tracciare proprio questo percorso. Nel 1956, presso l’Archivio General del reino di Simancas (in Spagna), venne alla luce una lettera indirizzata nell’inverno 1497-1498 al “Almirante mayor”: a quell’epoca non poteva trattarsi che di Cristoforo Colombo. la missiva è molto interessante: stando al suo contenuto, Colombo cercava informazioni riguardo alla traversata nord-atlantica fatta da Giovanni Caboto (aveva poi raggiunto il Cathai?) partendo da Bristol. la lettera di risposta fu scritta da un certo John day, un inglese che si trovava in Andalusia. egli fornì, in spagnolo, molti dettagli nautici e schizzò una mappa del punto di approdo di Caboto e della sua esplorazione – compiuta nell’estate del 1497 – di quella che oggi noi sappiamo essere la costa meridionale di terranova1. I mercanti inglesi, così co1 Ampie citazioni del testo originale spagnolo si trovano in L. A. VIGNERAS, New light on the 1497 Cabot voyage to America, «the Hispanic American Historical review», 36, 1956, pp. 503-509. lo stesso autore ne ha pubblicato una traduzione inglese in Id., The Cape Breton landfall: 1494 or 1497. Note on a letter from John Day, «the Canadian Historical review», 38, 1957, pp. 219-228. una traduzione più precisa la fornisce S. E. MORISON, The European discovery of America, I: The Northern voyages A. D. 500-1600, New York, Oxford university Press, 1971, pp. 206-209. morison (che riconobbe nella traduzione il lavoro congiunto di James m. Byrne e mauricio Obregón) osservò che «Having visited england about the time John Cabot returned from his first voyage, day was a natural person from whom Columbus could seek information about a voyage which might impinge on his privileges and on the Spanish part of the New World», ivi, p. 206.

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me il loro re enrico VII, erano molto interessati alla scoperta del nuovo mondo, essendo in competizione con gli interessi spagnoli nei Caraibi. Non sorprende, quindi, che un mercante inglese fosse così ben informato sull’argomento. Quello che però ci preme, in questa sede, è il paragrafo di apertura, in cui John day informa l’ammiraglio che, in risposta alla sua domanda, gli sta inviando anche un libro dei Viaggi di marco Polo. Il libro che Colombo ricevette dal day è identificabile con la copia dei Viaggi che ancora oggi si trova presso la Biblioteca Colombina di Siviglia. Si tratta della sola versione latina dei viaggi di marco Polo stampata prima del 1497, e l’esemplare della Colombina comprende note marginali vergate dallo stesso Colombo. fu pubblicato nel 1483-1484 a Gouda, in Olanda, dal tipografo Gheraert leeu (fig. 6). marco Polo viaggiò nell’ultimo quindicennio del XIII secolo. la tradizione della sua storia abbraccia sette secoli, fu tradotta in molte lingue e ci è giunta per via manoscritta e a stampa attraverso una lunga e complessa catena di trasmissione2. Questo studio si focalizza su un singolo segmento di essa: il passaggio da un manoscritto della versione latina di francesco Pipino alla sua prima edizione a stampa, quando il testo incontrò una diffusione ancora maggiore di quella che aveva avuto fino ad allora. Questa parte del viaggio prende avvio da un manoscritto della versione di Pipino esemplato a Bologna nel 1465 (fig. 7). le relazioni commerciali intessute dal tipografo che stampò quel manoscritto fanno da sfondo allo spostamento di un testo dal Veneto – e precisamente da Padova, dove il manoscritto fu lasciato in eredità ai Canonici regolari Agostiniani, come si dirà meglio fra poco – a una piccola cittadina olandese, ma spiegano anche la successiva distribuzione del libro in molte direzioni, Inghilterra compresa. lungo tutta la sua lunga vita, la storia di marco Polo ha dato luogo a dubbi e obiezioni riguardo alle meraviglie dell’Asia centrale e del lontano Oriente di cui raccontava, suscitando perfino il dubbio se si dovesse dar credito a ciò che il giovane mercante veneziano aveva raccontato sulla corte di Kublai Khan, di cui affermava essere divenuto il protetto. dopo il ritorno dai suoi viaggi e durante la prigionia di guerra a Genova, maro Polo dettò le sue vicende a rustichello da Pisa, un autore di romanzi di carattere popolare, che le scrisse poi

MARCO POLO, Il Milione, prima edizione integrale a cura di L. F. BENEDETTO, firenze, Olschki, 1928. Nella parte introduttiva – ivi, pp. I-CCXXI – il curatore include una lista di fonti manoscritte. una lista aggiornata – per un totale di 143 manoscritti – fu pubblicata da Arthur Christopher moule e Paul Pelliot, Marco Polo: the description of the world, translated and annotated by Arthur Christopher moule and Paul Pelliot, london, routledge, 1938. Gli autori elencano 61 manoscritti della versione di Pipino, compresi 8 che sono una traduzione dal latino alle lingue volgari. 2

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6. marco Polo, De conditionibus et consuetudinibus orientalium regionum [Gouda, Gheraert leeu, fra il 1483 e l’11 VI 1484], 4° (IStC ip00902000). © Sevilla, Biblioteca Capitular y Colombina (103-2), c. a1r. esemplare annotato da Cristoforo Colombo.

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7. manoscritto del marco Polo commissionato da Giovanni marcanova e copiato a Bologna nel 1465, De consuetudinibus et condicionibus orientalium regionum. © Venezia, Biblioteca Nazionale marciana, ms lat. X, 73 (3445), fol. 1r.

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nell’imperfetto francese d’Italia (o franco-italiano). Il primo esempio di trasmissione del testo di marco Polo, quindi, avvenne oralmente, alla fine del XIII secolo, tra due lingue romanze. la fonte iniziale per la trasmissione del testo al manoscritto resta sconosciuta. la tradizione seguente ha molti rami, accomunati però da una perdurante ambiguità riguardo al genere di testo: si tratta di un resoconto reale, che fornisce informazioni su civiltà fino ad allora sconosciute e una descrizione attendibile delle rotte che l’autore aveva percorso, o non è piuttosto un avventuroso – e a tratti picaresco – racconto di viaggio narrato da un giovane eroe presuntuoso? I termini “avventura” e “romanzo” tendevano a dominare nei tanti rifacimenti del racconto in volgare. Quando, agli inizi del XIV secolo, mentre marco era ancora vivo, apparve la traduzione latina di una versione in dialetto veneziano allestita dal frate domenicano francesco Pipino, quel racconto venne strutturato con cura, abbreviato e adattato per divenire un resoconto reale. Il frate domenicano divise il materiale in tre libri, costituiti da molti e brevi capitoli elencati all’inizio di ciascun libro. Il materiale venne così reso fruibile sotto forma di informazione pratica. Anche se era diventato un testo dotto, destinato a essere letto da lettori colti, le molte versioni divergenti mostrano come, attraverso i secoli, la trasmissione della traduzione latina fu instabile quasi quanto quella delle versioni in volgare. Il latino funzionò, in questo caso, come una lingua viva, usata correntemente come mezzo di comunicazione dell’epoca quando si raccontava una storia, che anche nel riadattamento di Pipino restava piena di fatti avventurosi al limite del credibile. Il dato interessante, nella trasmissione del testo, è la presenza di un processo evolutivo che introduce “mutazioni” quando si deve adattare a nuovi contesti; nella filologia testuale queste mutazioni prendono il nome di varianti. Nonostante la variabilità di alcune forme base, all’interno di questo processo il testo – e di conseguenza la storia – conserva la sua identità. Il punto di partenza del mio studio è stata un’osservazione proposta da Consuelo dutschke, poi gentilmente comunicatami. la dutschke si è occupata dei manoscritti e delle prime edizioni a stampa della traduzione di francesco Pipino, note sotto l’accurato titolo latino di De consuetudinibus et condicionibus orientalium regionum3. la storia dei viaggi di marco Polo e del suo soggiorno

C. W. DUTSCHKE, Francesco Pipino and the manuscripts of Marco Polo’s Travels. [tesi di dottorato, university of California, los Angeles, 1993]. Sono molto grata alla dottoressa dutschke per gli scambi di opinione intercorsi fra noi e per avermi generosamente fornito la riproduzione di alcune parti della sua tesi. Il testo della versione latina di Pipino – basata su un antico manoscritto oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (ma proveniente da Olomóc e Vienna) – completo di apparato critico con alcune delle lezioni 3

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alla corte di Kublai Khan fu più diffusa, negli anni, in questa versione, suddivisa in molte famiglie che rivelano rapporti e dipendenze varie. Poiché si era accorta di una variante insolita nella prima parola dell’edizione stampata dal leeu (fidelissimi anziche fidelis inserita nella frase Librum prudentis honorabilis & fidelissimi viri…), la dutschke verificò le lezioni trasmesse dai sette manoscritti della traduzione di Pipino di cui disponeva, e trovò che solo uno di essi concordava con la lezione proposta dal leeu. Quel manoscritto si trova ora alla biblioteca Nazionale marciana di Venezia – lat. X. 73 (3445). la riflessione di Consuelo dutchke tenta dunque di stabilire quali fonti leeu possa avere usato per stampare la sua edizione. Vale la pena di notare anche che altri due manoscritti, contenenti parecchie di queste lezioni, sono a loro volta dipendenti dall’edizione impressa dal leeu. Si tratta di un manoscritto composto per raphael de mercatellis, che venne certamente esemplato sull’edizione del leeu4. de mercatellis – importante prelato di Gent e figlio naturale di filippo il Buono, duca di Borgogna – fu un bibliofilo che commissionò la copia manoscritta di alcuni libri a stampa, i cui testi sono infatti contenuti in grandi e preziosi codici manoscritti. la dottoressa dutschke ritiene poi che anche il manoscritto Q.II.12, oggi conservato all’escorial, sia stato copiato da un libro a stampa. torniamo invece al manoscritto della marciana: fu realizzato nel 1465 per Giovanni marcanova, un medico nato a Padova e lì educato, che insegnò e praticò medicina a Bologna fino al 1467, anno della sua morte. egli raccolse una corposa biblioteca di circa 500 volumi, che lasciò in eredità agli Agostiniani di san Giovanni di Verdara a Padova5. Il manoscritto contenente il marco Polo fa parte di una miscellanea, e consta di 76 carte. È scritto su carta, in una corsiva regolare vergata da un copista di professione, che nel colophon si identifica come “B”. Benché il manoscritto sia di modesta fattura, comincia con un’elaborata iniziale colorata in blu, rosa e giallo, e presenta lo stemma del marcanova disegnato a colori in bas de page. le iniziali più piccole, inoltre,

attestate nell’edizione a stampa del leeu si trova in J. V. PRÁŠEK, Milion, Dle jediného rokopisu spolu s př íslušnym základem Latinským, Prague, Nákl. České akademie císaře frantiśka Iozefa, 1902. 4 Gent, universiteitsbibliotheek, mS 13. Si veda in merito A. DEROLEZ, The library of Raphael de Marcatellis, Abbot of St Bavon’s, Ghent, 1437-1508, Gent, e. Story-Scientia, 1979. Il testo del marco Polo fa parte di una raccolta che comprende anche le Auctoritates Aristotelis, le descrizioni dei viaggi di Joahn de Hese, marco Polo e ludolph von Sudheim (copiate, le ultime due, dalle edizioni impresse dal leeu). 5 L. SIGHINOLFI, La Biblioteca di Giovanni Marcanova, in Collectanea variae doctrinae Leoni S. Olschki sexagenario obtulerunt, [a cura di L. BERTALOT et al.], münchen, rosenthal, 1921, pp. 187-222.

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furono decorate in rosso chiaro e blu. A carta 76 verso uno dei canonici di Padova scrisse: « Hunc librum donavit eximius artium et medicine doctor magister Ioannes marchanova de venetijs Congregationi Canonicorum regularium Sancti Augustini. Ita ut tamen sit ad usum dictorum canonicorum in monasterio Sancti Ioannis in viridario Padue commorantium. Quare omnes pro eo pie orent. mCCCClXVII»6. dopo la soppressione del monastero, nel 1782, per ordine del Senato veneziano, i libri del marcanova vennero suddivisi (nel 1784) fra l’università di Padova e la Biblioteca marciana, che ricevette i rari a stampa e i manoscritti. Come ha concluso la dutschke, il manoscritto del marcanova con il marco Polo si trovava sicuramente a Padova fra il 1467 e la fine del XVIII secolo. In che modo, allora, si può provare la possibile relazione testuale fra due documenti geograficamente così lontani, e cioè il manoscritto a Padova e il libro stampato a Gouda nel 1483-1484, circa sedici o diciassette anni dopo che il manoscritto giunse in possesso dei canonici? Come in effetti era improbabile che fosse, l’assenza di qualunque segno sul manoscritto – il conteggio preventivo delle linee, delle pagine o dei fascicoli, o qualunque altro segno che sappiamo essere una sicura traccia lasciata durante l’allestimento di un libro a stampa – conferma che esso non si trovò mai nella tipografia di Gheraert leeu né passò mai sotto gli occhi di un compositore. Ci sono tuttavia una serie di particolari circostanze, nella vicenda professionale del leeu, che possono forse spiegare come la sua edizione sia diventata la improbabile discendente del manoscritto del marcanova. la carriera tipografica del leeu iniziò nel 1477 a Gouda, città nell’Olanda occidentale, con la stampa di libri nel volgare locale, cioè in neerlandese7. I più corposi fra questi libri sono le due edizioni della Legenda aurea (1478 e 1480), ma continua e prolifica fu anche la sua produzione di opere di minor dimensione8. Nel 1480 ampliò la propria gamma iniziando seriamente a stampare in latino, anche se l’unico font di cui disponeva era strettamente contiguo con il carattere usato normalmente per i testi in neerlandese, più adeguato, quindi, al volgare. Il passaggio al latino, comunque, rappresenta il primo segno che leeu guardava a un mercato più ampio di quello locale. le copie sopravvissute delle le abbreviazioni sono state sciolte. Sull’attività a Gouda di Gheraert leeu e sull’acquisto dei caratteri a Venezia, si veda W. HELLINGA - L. HELLINGA, The fifteenth century printing types, I, pp. 36-38. Per un censimento delle sue edizioni si veda IlC, pp. 493-495 (Gouda, 1477-1484); pp. 455-460 (Antwerpen, 1484-1493). 8 JACOPO DA VARAGINE, Legenda aurea sanctorum, sive Lombardica historia, [in neerlandese], Gouda, Gerard leeu, 1478, fol. (IStC ij00139000); Gouda, Gerard leeu, 1480, fol. (IStC ij00140000). 6

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sue prime edizioni in latino mostrano un’ampia gamma di primi possessori anche oltre i Paesi Bassi, soprattutto nelle zone del sud-est (Westfalia, renania, alcuni perfino in francia e, del tutto a sorpresa, in Inghilterra). Non c’è dubbio che a partire dal 1480 Gheraert leeu allacciò relazioni commerciali con i librai inglesi. Vedremo come questo sarà rilevante per la copia della sua edizione del marco Polo, poi arrivata in possesso di Colombo9. dopo il settembre 1482 c’è un gap nella produzione del leeu. Quando il tipografo ricomparve, sul finire del 1483, l’aspetto dei suoi libri era cambiato: il carattere precedentemente adottato per i testi volgari cade in disuso. Al suo posto leeu, per stampare in latino (ma all’occasione anche in volgare), aveva a disposizione due polizze di caratteri di fattura veneziana, che rispondevano in tutto e per tutto al gusto degli ambienti intellettuali, ben oltre Gouda10. Poco tempo dopo, nel 1484, leeu spostò i propri affari ad Anversa, quasi ad anticipare le grandi tipografie che sarebbero state impiantate in questo centro commerciale sino alla fine del XVI secolo. Presso l’Archivio cittadino di Anversa ci sono alcuni documenti che dimostrano come leeu continuasse a tenere contatti con Bruges, lovanio e le fiere di Bergen op Zoom, e come spedisse via nave, passando per Amsterdam, libri destinati a lubecca11. l’acquisizione di due

9 Almeno una dozzina di esemplari appartenenti a edizioni in latino stampate da Gheraert leeu a Gouda sopravvivono in collezioni inglesi, con segni di antichi possessori locali. uno o due libri impressi a Gouda sono compresi nella lista di libri importati dallo stationarius di Oxford thomas Hunt, nel 1483. Si veda a questo proposito P. NEEDHAM, Continental printed books sold in Oxford, c.1480-3. Two trade records, in Incunabula. Studies in fifteenthcentury printed books presented to Lotte Hellinga, ed. by M. DAVIES, london, British library, 1999, pp. 255 n. 29 e 258 n. 49. Negli ultimi anni di attività ad Anversa leeu pubblicò parecchi libri in inglese; fra i più famosi ci sono una ristampa della traduzione inglese di William Caxton de L’histoire de Jason composta da raoul lefèvre (IStC il00112100) e una ristampa delle Chronicles of England (IStC ic00481000). 10 Sul carattere del leeu (type 3: 64G e type 5: 82G) si veda W. HELLINGA - L. HELLINGA, The fifteenth century printing types, I, pp. 37-38, II plates 148-151, dove si discutono le connessioni con rinaldo da Novimagio. riguardo quest’ultimo si veda anche BmC, V, pp. XIX, 252-258. In occasione di una lecture in via di aggiornamento e ancora da pubblicare, Christian Coppens, ricollegandosi al Dictionnaire de géographie di Pierre deschamps – Dictionnaire de geographie ancienne et moderne a l’usage du libraire et de l’amateur de livres. Supplement au Brunet, Manuel du libraire et de l’amateur de livres par un bibliophile, Paris, firmin didot, 1870 (= København, rosenkilde et Bagger, 1968) – ha sottolineato che “de Novimagio” può forse riferirsi anche alla città di Speyer (Spira). Questo potrebbe connettere rinaldo alla famiglia di Giovanni e Vindelino da Spira, i primi tipografi attivi a Venezia, più che alla città di Nimega. 11 Per gli affari alla fiera di Bergen op Zoom, si veda C. J. f. SLOOTMANS, De Bergen op Zoomsche jaarmarkten en de bezoekers uit Zuid-Nederland, «St. Geertruydtsbronnen», 11, 1934 e ivi, 12, 1935, passim. Si veda inoltre Antwerpen, Stadsarchief, Certificatieboek 1488-

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polizze veneziane di grande qualità calza perfettamente con questo modello di sviluppo, partito per rifornire un mercato locale e approdato all’ambizione di intercettare i gusti di un pubblico internazionale che leggeva il latino. le due polizze sono in gotica rotonda, un carattere sviluppato dai primi tipografi veneziani e reso da questi familiare, attraverso esportazioni di libri su larga scala, a tutto il mondo intellettuale – ai lettori di opere teologiche, giuridiche, scientifiche ed erudite in genere – in voluto contrasto con i nuovi caratteri romani adottati nei testi letterari, compresi i classici. leeu si procurò le polizze da rinaldo de Novimagio, che operava a Venezia come tipografo, ma anche come punzonista e fonditore di caratteri. rinaldo, dal canto suo, aveva usato il più grande dei due caratteri del leeu (venduto successivamente a matteo Cerdoni, a Padova), ma anche un altro carattere, molto simile al più piccolo fra quelli acquistati dal leeu. Quest’ultimo, per poter stampare nella propria lingua, adattò leggermente la polizza in corpo più grande, includendo, ad esempio, anche la ‘w’, lettera indispensabile per la lingua olandese ma adottata anche nelle opere in latino al posto della combinazione ‘vu’ (si pensi, ad esempio, alla parola vulgari nella prima frase dell’edizione del marco Polo). l’arresto nella produzione del leeu fra l’autunno del 1482 e la fine del 1483 – produzione che, invece, era sempre stata continuativa – fa pensare a un’assenza del tipografo da Gouda, al termine della quale compaiono per la prima volte le due polizze veneziane. C’è un’ulteriore indizio che lega l’assenza del leeu al viaggio a Venezia, anche se non sono note fonti documentarie a supporto. fra le prime pubblicazioni realizzate con i nuovi caratteri ci sono tre storie, raccontate da altrettanti famosi viaggiatori: marco Polo, ludolph von Sudheim e Jean de mandeville, una combinazione soprannominata da Henry Bradshaw “la tripletta di Gouda”12. Si inizia con il testo del marco Polo – pensato come prima opera del trittico, poiché reca uno spazio di ben dieci righe

1494, dove è registrata: 1) fol. 16v una transazione commerciale fatta da «gherardus leeu, printer ende boucvercoper» riguardante due casse e un cesto di libri; 2) carta 45v una transazione del leeu, in partnership con un certo Willem Conincxloe e Ghijsbrecht Gherbrants, che aveva caricato due casse di libri destinate ad Amsterdam e lubecca. 12 IlC, p. 277 n. 1508, p. 280 n. 1524. Henry Bradshaw denominò i tre libri “la tripletta di Gouda” in una nota vergata in occasione di una veloce visita al trinity College di dublino, alla fine del 1869, allorché esaminò superficialmente un volume che comprendeva parecchie edizioni del leeu (H. BRADSHAW, Notebook XVII, Cambridge university library, Add mS 4561, fol. 62v). l’attribuzione di queste edizioni, tutte prive dei dati tipografico-editoriali, ha fatto sorgere molte teorie, poi risolte dal Bradshaw. Sulla questione si veda The arrangement of the types of Gheraert Leeu by Holtrop and Bradshaw, in Henry Bradshaw’s correspondence on incunabula with J. W. Holtrop and M. F. A. G. Campbell, ed. by W. HELLINGA - L. HELLINGA, 2: Commentary, Amsterdam, menno Hertzberger, 1978, pp. 479-491.

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fAre uN lIBrO Nel QuAttrOCeNtO

lasciato appositamente per un’iniziale – seguito dall’Iter ad Terram Sanctam di ludolph von Sudheim (una guida pratica a tutti gli effetti) e si conclude con l’Itinerarium del mandeville, da prendere notoriamente con le molle. la tripletta si chiude con un colophon che è un gioco di parole: «[…] Quod opus vbi inceptum simul et completum sit ipsa elementa seu singularum seorsum caracteres literarum. quibus impressum vides venetica monstrant manifeste», che si può tradurre come «dove questo lavoro fu iniziato e completato: le singole lettere che vedi con cui fu stampato mostrano chiaramente che sono veneziane» e meno letteralmente «Se esamini i caratteri, ti accorgi che questo è un libro veneziano». Questo piccolo e veritero indovinello, anche se non afferma che il libro sia stato stampato a Venezia, suona comunque come un’elegante millanteria, che arriva alla fine di un grazioso set di testi in-quarto, adatto a un mercato di lettori eruditi. la fonte di leeu per il testo del mandeville è sconosciuta; quanto a ludolph von Sudheim e al suo Iter ad Terram Sanctam il tipografo usò come exemplar un libro stampato a Strasburgo fra il 1475 e il 1480 da Heinrich eggestein13. Per quanto riguarda marco Polo, la prima questione da considerare è se la collazione fra il manoscritto di Padova e l’edizione del leeu permetta di ipotizzare una derivazione diretta: insomma, il manoscritto del marcanova, nonostante fosse posseduto dal monastero di Padova, è l’antigrafo dell’edizione di leeu? l’evidenza testuale lo dimostra? Se sì, dovremmo ipotizzare che leeu abbia copiato il manoscritto mentre era in viaggio alla volta di Venezia – e quindi nelle immediate vicinanze di Padova – oppure che quel manoscritto fu copiato per lui da qualcuno. un confronto fra il testo a stampa (d’ora in poi l) e il manoscritto del marcanova (d’ora in poi m) conferma che sono senza dubbio strettamente legati. Non si riscontrano differenze significative fra i due, quali un diverso ordine dei capitoli e omissioni/aggiunte di parti del testo. Strutturalmente le due fonti coincidono alla perfezione: i tre libri sono suddivisi in capitoli numerati, ognuno con un titolo, e ciascun libro è preceduto da un indice dei capitoli. tutte le lezioni controllate da Consuelo dutschke sui sette manoscritti della traduzione di Pipino che aveva a disposizione sono presenti nelle intestazioni dei capitoli e negli incipit ed explicit dei libri. Per inciso: le scoperte della studiosa americana sono state pienamente confermate da un confronto più ampio di alcune sezioni del testo.

entrambe le edizioni dell’eggestein impresse a Strasburgo sono sine data: LUDOLPHUS SUDHEIM, Iter ad Terram Sanctam, [Strassburg, Heinrich eggestein, 1475-1480 circa], fol. (IStC il00362000); LUDOLPHUS VON SUDHEIM, Iter ad Terram Sanctam, [Strassburg, Heinrich eggestein, 1475-1480 circa], fol. (IStC il00363000).

13

VON

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la collazione fra m e venti pagine di l scelte a caso, mostra sei varianti che tenderebbero a indicare una derivazione diretta. lungo tutto il testo collazionato, comunque, si presentano numerose piccole varianti (in particolare nell’ordine delle parole e nell’ortografia dei nomi) e alcune differenze imputabili a un’errata lettura della mano di m, a volte piuttosto frettolosa, o forse della mano del (presunto) copista intermedio, che potrebbe essere stato ancora più frettoloso. Ci sono poi delle differenze nell’uso della punteggiatura e delle maiuscole, e ci sono anche varianti sostanziali, forse correzioni, generalmente da interpretare nel contesto. Bisogna dunque focalizzarsi sulle sei varianti che indicano una derivazione diretta, per altro non confutata dalle tante varianti minori. esse, infatti, suggeriscono cosa può essere accaduto a un testo in transizione, un testo prima copiato da un copista in un manoscritto, e poi dai compositori in una tipografia. le sei varianti che suggeriscono una derivazione diretta sono le seguenti: 1. Prologo una macchia al verso della prima carta del manoscritto, dovuta ai colori (che sono filtrati attraverso la carta) usati per decorare l’iniziale al recto. Qualche parola del testo è diventata difficile da leggere e si ha l’impressione che il copista abbia improvvisato per colmare la lacuna: m: 1v

defferant

L: a1v, ll.9/10 de||ferat

[…spu?…] dno

ad obcecatas infidelium naciones

fauente diuino auxilio

ad obcecatas ifideliu nacones

2. Libro III, cap. 16 Una parola contenuta in M mi risulta illegibile, e a quanto pare lo fu anche per il copista della copia intermedia. Venne semplicemente omessa, ma con inversione dell’ordine: M: 59v, l. 14

et B modicu

[…hmn ? …]

rursu incipit

L: h5r, l. 22

et post modicu

rursu humor luere

incipit

Nei quattro esempi forniti di seguito il copista, indeciso fra due lezioni di una parola, ne offre due congetturate fra cui scegliere, indicate da seu oppure vel. le glosse furono incluse nel testo a stampa. entrambe le lezioni sono accettabili nel contesto.

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fAre uN lIBrO Nel QuAttrOCeNtO

3. Libro III, cap. 3 la parola anarrantibus era di difficile lettura (fig. 8a-b): m: 56r, l. 16/17

magnus Kaan Cublay audiens

anarrantibus

l: h2r, l. 3

[m]Agn9 kaa Cublay audiens

a marcatoribus seu nar || ratib9

4. Libro I, cap. 58 Huerit è la forma contratta di habuerit, riscontrata nell’edizione del testo latino fornita da Prášek. l’indicativo presente risulta più appropriato nel contesto, e habet è una correzione: m: 56v, l. 9/10

Illud at idolum ! plures manus

huerit

amplioris putant

ee virtutis

l: h3r, ll. 9/10

Illud at ydolum qd’ plures man9

habet v£ habVit

aplioris

ee vtutis

credit

Il cambio dell’ordine della parola che compare in questo esempio – così come la variante putant/creditur – si incontra molte altre volte. È interessante notare che la versione di Prášek, in questo punto, riporta putantur. C’è dunque un lieve spostamento di significato: si passa dal personale putant all’impersonale creditur (o putantur), cosa che in epoche posteriori sarebbe certamente stata valutata come una variante sostanziale. Questo spostamento è forse dovuto alla ripetizione della storia, che via via assume un tono leggermente più formale. Varianti di questo genere – che nel XV secolo non sarebbero state considerate come un cambiamento del contenuto del testo – sono presenti anche altrove, ad esempio que vocant/qui vocitur: m: 20v, l. 13

tartari >

dno

colunt unu

que vocant

nacygay

l: c5r, l. 27

[t]Artari >

deo

colunt vnu

qui votur

Nacgoy

5. Libro II, cap. 63 Nella descrizione della città di Synguy si fa menzione di ponti in pietra, alti quanto una galea, talvolta anche come due galee, sotto i quali era possibile passare con facilità. Il racconto del contesto inizia, in l, a carta g4r, riga 28: «In hac ciuitate sut potes lapidei ccvi milia tate altitudinis ! sb’ vnoquoque i po#» e continua:

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8a. manoscritto del marco Polo commissionato da Giovanni marcanova e copiato a Bologna nel 1465, De consuetudinibus et condicionibus orientalium regionum. © Venezia, Biblioteca Nazionale marciana, ms lat. X, 73 (3445), c. 56r, ll. 16-17. 8b. MARCO POLO, De conditionibus et consuetudinibus orientalium regionum, [Gouda, Gheraert leeu, fra il 1483 e l’11 VI 1484], 4° (IStC ip00902000). © Sevilla, Biblioteca Capitular y Colombina (10-3-2), c. h2r. esemplare annotato da Cristoforo Colombo.

m: 50r

galea libere transire

l: g4r, l 29/30

galea libe= || re transire

ualeat

posset vel valeat

at$ sub multis pontiuZ pdictoru

silr

at$ sb multis simul pociu pdcorum ||

due possit

transire galee

possint due

trasire galee

la glossa, qui, può derivare non tanto da una difficoltà di lettura, quanto piuttosto dall’intenzione di proporre una scelta, suggerendo il più logico posset al posto di valeat, che in questo punto è meno plausibile. la forma abbreviata silr, che senza dubbio va letta come similiter, divenne simul nella versione a stampa, cambiando così di significato. 6. Libro III, cap. 3 l’ultimo esempio che propongo (a dimostrazione che il manoscritto del marcanova fu l’antigrafo dell’edizione a stampa), è rappresentato da un caso di salto du même au même – da castrum a castrum – fatto dal copista che ricopiò m, o probabilmente dal compositore che aveva davanti un exemplar copiato da m: m: 56r l: h2r, ll. 12/13

na n urbem aliqua l castrum Na nez vrbe aliqua vel castru

de//bellare ualuert scm

modico plio deuitert

n unu castm

solu

Plio|| modico deuicert

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fAre uN lIBrO Nel QuAttrOCeNtO

le parole debellare voluerit neque castrum andarono dunque perdute e l’abbreviazione s(e)c(undu)m venne erroneamente interpretata come solum, il che conferisce comunque un significato plausibile alla frase abbreviata. Perfino i sei esempi sopra citati – scelti ad hoc perché suggeriscono l’assai probabile derivazione di l da m – mostrano che se il passaggio dal manoscritto all’edizione a stampa ebbe luogo, questo processo non avvenne comunque in linea retta. un altro gruppo di esempi illustra infatti una varietà di deviazioni. libro III, cap. 9, De ydolatria et incredulitate virorum: conta 18 linee in l (h3a, ll. 2-19, fol. 57r in m) e riferisce alcune dicerie sul Giappone, qui chiamato l’isola di Cyampagu o Zimpagu nel manoscritto (fig. 9). Parafrasando la descrizione: «In questa isola ci sono molte statue di divinità con la testa di bue, alcune con la testa di maiale, o con quella di una capra, di un cane o di altri animali. Ci sono anche statue di divinità con quattro volti su una sola testa, o con tre teste – una sul collo e due sulle spalle – o con molte mani: quattro dieci o addirittura cento mani. Si crede che quelle con cento mani siano più potenti. Se si domandasse agli abitanti il motivo di questa credenza, essi risponderebbero semplicemente che è ciò che i loro padri credevano. Quando gli abitanti di Cyampagu catturano uno straniero, lo rilasciano dietro pagamento di un riscatto. Se però non riescono a ottenere un giusto prezzo per la sua liberazione, lo uccidono, lo cuociono e lo mangiano, e al banchetto invitano familiari e amici, che sono felici di elogiare la carne, sostenendo che quella umana è migliore di tutte le altre carni». lo schema che segue registra tutte le varianti che si incontrano nella piccola porzione di testo contenente questa descrizione: 7. Titolo m:

de Idolatria et

crudelitate

uiroru

l:

de ydolatria et

icredulitate

viro#

zimpagu

Incredulitas – come compare in l – nel contesto sembra essere meno appropriata della lezione di m – crudelitas – in questa storia in effetti crudele, che nulla ha a che vedere con l’incredulità, anche se incredulità religiosa, una delle traduzioni fornite nel dizionario latino di lewis e Short, si potrebbe accettare. Sembra più probabile, comunque, che si tratti di una cattiva lettura o di una svista durante la copiatura. Il nome Zimpagu/Cyampagu viene omesso nel titolo di l, ma ricorre nuovamente nella prima frase del capitolo.

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9. descrizione dell’isola di Cyampagu nel libro III, capitolo 7 del manoscritto commissionato da Giovanni marcanova, De consuetudinibus et condicionibus orientalium regionum. © Venezia, Biblioteca Nazionale marciana, ms lat. X, 73 (3445), fol. 57r.

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fAre uN lIBrO Nel QuAttrOCeNtO

8. L, h3r, ll. 5, 8 m:

canis

et

alioru animalium diuersorum

l: l. 5

canis

Aut

alio# aimaliu diuerso#

l, l. 8/9: Queda aut hnt qtu or manus m:

alia x. alia

centu

l:

alia dece alia

vero

alia ult centu

centu

aut è un piccolo miglioramento del più neutrale et; l’inserimento di vero rende più fluida la lettura. l’omissione di alia ultra centum – più di un centinaio di mani su un corpo – sembra da imputare a grande ingenuità. la variante nella riga successiva, putant/creditur è già stata trattata (si veda ad esempio n. 4). 9. L, h3r, l. 12 m:

m

l:

nisi

! !

sic

ab eoru patrib9 creditu

sit

ab eoru patrib9 creditu

sic/sit è un errore di lettura: così credevano i loro padri è il significato espresso da sic. 10. L, h3r, l. 13 m:

hnt. Volunt

l:

hnt volut

l non indica qui l’inizio di una nuova frase, espressa in m attraverso il punto e la V maiuscola. 11. L, h3r, l. 15/16 m:

illum dimittunt rcepta

pecunia

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l:

illu dimittut recepta

133

pecunia

l preferisce qui un ablativo assoluto – dopo aver ricevuto il denaro – mentre m riporta l’accusativo, lasciando recepta in una posizione grammaticalmente incerta. 12. L, h3r, ll. 17/18 m:

ad

huius

?uiuiuz

inuitant cosanguineos et amicos

l:

ad

huiusmodi

Couiuiu ||

inuitant cosanguineos et amicos

la parola huius contenuta in m crea problemi: la festa di chi? della vittima? la questione viene risolta attraverso l’uso di huiusmodi – cioè una festa di questa sorta – che conferisce contemporaneamente una prospettiva ironica al termine convivium. l’aggiunta di carnibus chiarisce il senso macabro: 13. L, h3r, ll. 19/20 m:

humanas carnes cetis

l:

huanas carnes cetris

ee meliores

carnib9

ee meli ||ores

le varianti individuate in questa parte di testo, dunque, includono: – correzioni secondo il contesto: putant/creditur e habet in aggiuta ad habuerit (esempio 4); l’omissione di alia ultra centum (esempio 8); huius/huiusmodi (esempio 12); l’aggiunta di carnibus (esempio 13); – miglioramento della sintassi attraverso la correzione di un errore: pecuniam/ pecunia (esempio 11); – miglioramento della fluidità del testo: aggiunta di vero (esempio 8); – due errori di lettura: crudelitate/incredulitate (esempio 7); sic/sit (esempio 9); – perdita di punteggiatura con conseguente danno alla struttura sintattica (esempio 10). I risultati della collazione delle parti di testo che ho portato come esempio (cioè le dicerie sul Giappone e certe sue strane usanze) confermano che la maggior parte di queste varianti si dovrebbe intendere come una emendatio ope ingenii dettata dal contesto. Ho registrato un totale di circa 30 varianti in aggiunta a quelle già citate. I cambiamenti probabilmente intenzionali ammontano a 20, compresi sei casi di omissioni di parole dove m pare inutilmente

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fAre uN lIBrO Nel QuAttrOCeNtO

complicato. di seguito si forniscono altri esempi di miglioramenti e di perdite testuali. 14. Libro II, cap. 40 m: 42v, ll. 30/31

vadit ad eoru cubilia

l: f4r, ll. 18/19

vadit ad eo# cubilia

et cauerna

v leones ursi seu animalia huius habitant et comedit bestias magnas et parvas vbi leones ursi seu animalia huiusmo||di habitant et ?medit bestias magnas et /ruas

15. Libro I, cap. 4 Kublai Khan progetta di scrivere al Papa per domandargli se la religione cristiana sia superiore alle altre – gli dei dei tartari sono diavoli? la lettera doveva essere tradotta, ma da quale lingua? Il contesto è il seguente: … fecit rex scribi lras ad romanu pontifice […] quas illis tradidit defere das e la lingua in cui la missiva fu scritta è definita come: m: 4r

i lingua tVco#

l: a4r, l. 24

in lingua tartaro#

lingua tartara sembra definizione corretta in questo contesto, ma la tradizione testuale dominante parla di lingua turca. l sembra quindi aver emendato in maniera indipendente. 16. Libro II, cap. 6 m 28r

Cublay at

l d5v, ll. 9/10

Cublay at

ad ciuitate sua cambalu rex victor

ad ciuitate sua cabalu

cu gauo

e reuersus e re ||uersus

Il motivo della gioia del Khan è spiegato in l. Questo esempio dimostra che talvolta, nella narrazione, si inserirono alcune attente riflessioni e che il testo venne corretto laddove lo si ritenne necessario. Si tratta di interventi che si verificano solo di rado (in questo caso specifico si tratta di un passaggio che può aver attratto particolarmente l’attenzione). Nel libro II si dibatte sulla delicata questione dei rapporti fra religioni. una delle conseguenze della vittoria di Kublai Khan sullo zio Nayam fu che i cristiani che erano stati al servizio di Nayam vennero assoldati nell’esercito di Kublai, che

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contava già molti ebrei e saraceni. Questi, dal canto loro, punzecchiavano i cristiani facendogli rilevare che Gesù Cristo, nonostante venerassero quotidianamente la sua croce, non li aveva aiutati e che era stato ordinato a ebrei e saraceni – e nella versione di m anche a tutti gli altri componenti dell’esercito – di non infastidire i cristiani. In l questo passaggio inizia senza significative deviazioni da m, ma prosegue poi con le varianti sostanziali dominus noster/deus vester (assegnata, quest’ultima, a Kublai), come nel caso dello scambio il nostro Signore o la sua Croce con la Croce del vostro Signore o il vostro Dio. Per questo complesso resoconto del discorso diretto di Kublai è meglio fare riferimento a una sezione più ampia del testo. 17. Libro II, cap. 6 m e l: [Kublai] … sic ait Si de9 vester & ei9 crux noluit Naya ferre psidiu nolite erubescere qm de9 bonus i iusticie et iniquitati non debet pro cinari Naya dn i sui >ditor extitit et i iusticie rebellis et m 28r

dni nri

l d5v, ll. 4/5 dei vri

sua malicia

implorabit

in sua malicia iplo=||rabat auxilia

deus

at

nr

deus

aut

vester

Il testo prosegue senza grandi variazioni: m e l: qui bon9 e noluit ei9 fauere crimi bus m

// ! iudeis

et sarraceis et ceteris omib9 ?mando

vt nullus > hac re

dnz nrz vel cruce eius blasfemae Bresumat

l

>pter qd’ iudeis

omnibz et sarracenis mado

Vt || nullus > hac re

dni crucem vel deu vest# blasphemare p=||sumat

un caso analogo si presenta nel libro I, dove – in l – Nacygoy è correttamente definito una divinità dei tartari, non un signore. 18. Libro I, cap. 58 m: 20v

tartari

> dno

colunt unu que

vocant

nacygay

l c5r, l. 27

[t]Artari

> deo

colunt vnu qui

votur

Nacygoy

le omissioni accidentali sono rare. l’omissione di due parole – come in l

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c5 recto, riga 29-30 da confrontare con m 20 verso – deve essere stata accidentale, ed ha causato la perdita di significato della frase nel testo a stampa, dove essa compare alla fine dell’ultima riga della penultima pagina. l’omissione, quindi, si può forse spiegare come un errore occorso durante l’allestimento della copia di tipografia, e cioè della copia intermedia. Sono state omesse le parole «reverentur. Quilibet» all’interno di una frase che recita «hunc falsum dominum maxime reverentur. Quilibet tartarus…». I fraintendimenti palesi sono altrettanto rari, al punto che spesso è molto difficile distinguerli dalle correzioni al testo. le varianti proposte di seguito possono essere dovute a fraintendimenti, ma è ipotizzabile anche che la forma originale abbia portato a un’alternativa somigliante. dato il contesto, la parola voluntati è più facilmente comprensibile di voti et consilio: 19. Libro III, cap. 3 m 56r

unus alterus

uoti et ?silio

acqesce contemnebat/

l h2r, ll. 10/11

vn9 || alterus

volutati

acquiescere ?tempnebat

Naturalmente esistono anche varianti che sono errori evidenti in l. Nel capitolo De regno samara la raccolta di linfa dagli alberi è descritta come segue: 20. Libro III, cap. 16 m 59r

deinde ad

pedem

arboris aquam effundunt

l h5r, ll. 20/21

dein ad

pe-||des

arboris aqua effundut

Si tratta di un passo minore, in cui l è chiaramente errato. In questo capitolo, l presenta pochissimi segni di punteggiatura in confronto a m, fenomeno che è riscontrabile anche in altri punti della versione a stampa (forse la fretta o la mancanza di attenzione del copista hanno avuto ripercussioni sul testo stampato). Il gruppo più sorprendente di errori si verifica proprio all’inizio del testo, compresa la resa – palesemente sbagliata – del nome del traduttore come frater franciscus pepur]. de bononia. la foma pepur] viene presentata con una curiosa linea verticale squadrata posta a fine parola, che si può interpretare solo come una forma di abbreviazione. Poiché il manoscritto legge molto chiaramente Pipinus, la strana forma del nome deve essere stata un vezzo del copista intermedio. Vezzo che, a mo’ di indizio, serve anche per riconoscere le copie tratte dall’edizione del leeu, dal manoscritto del mercatellis a Ghent e dal

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scritto oggi all’escorial14. Il corposo gruppo di varianti a inizio testo contrasta con i lunghi passi in cui non ho trovato varianti sostanziali ma, invece, molta meno punteggiatura rispetto al manoscritto (ad esempio nel libro III, cap. 16). resta l’impressione che l’inizio del testo sia eccezionalmente difettoso. dopo questo inizio così zoppicante sembra che il copista si sia, per così dire, calmato, attenendosi poi strettamente a m. 21. Prologo dopo le prime righe Libru prudentis honorabil’ || ac fidelissimi viri dn i marci || pauli de venecij’s il testo prosegue così: regioz

ab eo i uulgari

m

de conditionibus orientalium

L

de codici=|| onib9 orientaliu

ab eo in wl || gari

M

Compellor ego fr franciscus

pipinus de bononia

L

Co || pellor ego frater franciscus ||

pepur]

de bononia

fideliter

editum et ?sXptu editu et coscriptu

ordinis

fratrum pdicatoruz



frm pdi=||catoru



Stante il gruppo di ben quattro varianti presenti nella frase di apertura del testo a stampa, si potrebbe anche decidere, a giusta ragione, di ignorare il problema della relazione testuale fra M e L. Anche la variante scoperta da Consuelo Dutschke – variante che L e M hanno in comune contro altre fonti, cioè fidelissimi contro fidelis – è un’acquisizione ormai assodata ma da sola non basta a provare la derivazione diretta. E infatti nessun dato di M o di L, preso singolarmente, costituisce una prova assoluta. Analizzandoli però insieme, questi dati quadrano con il possibile corso degli eventi. Dunque: i contatti di Leeu con Venezia, attivati in loco per acquistare i caratteri, sono un dato incontrovertibile. È molto probabile che ci sia proprio andato di persona, visto il gap di quindici mesi nella sua produzione e vista la scelta di pubblicare tre testi sul tema del viaggio che iniziano proprio con un famoso racconto veneziano (quello di Marco Polo), e terminano con un colophon a indovinello, che irrobustisce l’ipotesi di un soggiorno nella città lagunare. Pochi i tratti distintivi del manoscritto riconoscibili nelle porzioni di testo che ho collazionato (si vedano gli esempi 1-6). Se si ammette la derivazione 14

Si veda p. 122.

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diretta di l da m, la svista di pepur] riguardo il nome del traduttore, nella prima frase, è una prova chiara che ci deve essere stata una fase intermedia, così come sono una prova chiare le glosse, assenti in m ma incluse nella versione a stampa. Basandosi sui dati censiti, la constatazione che le varianti si presentano in gruppi ci avvicina a una situazione concreta, quella cioè in cui un copista – forse con poco tempo a disposizione – stava allestendo una copia di un manoscritto, momentaneamente a sua disposizione, destinato a un unico scopo: servire come base per trasferire a stampa il testo. Nel processo di copia, il racconto sarebbe stato nuovamente ripetuto – il copista veniva guidato soprattutto dal testo scritto che aveva davanti, ma subiva saltuariamente anche l’influenza del dettato interiore, benché il latino non dovette essere la sua prima lingua. Questa voce, non sempre attenta, aveva comunque una sua nozione di fluidità e a volte poteva forse deviare la mano del copista dal testo che aveva letto con gli occhi; ad esempio la struttura delle frasi e l’ordine delle parole potevano essere influenzate dalle abitudini del copista. durante la fase finale della creazione del testo, e cioè in tipografia, si ripeteva l’interazione fra exemplar e “creatore” della versione copiata, in questo caso il compositore. una prova chiara di questo processo si riscontra in quei casi in cui l’interferenza testuale è imputabile solo alla tipografia, ad esempio quando si identifica l’exemplar grazie ai segni apportati appunto in tipografia, oppure nei casi di ristampe. forse i tanti cambiamenti nell’ordine delle parole sono indicativi di un copista e/o di un compositore la cui lingua madre era diversa da quella di chi aveva allestito l’originale che si stava copiando. Chi parla una lingua germanica, ad esempio, pone nella frase un senso di enfasi e di bilanciamento fra le parole che è diverso da quello di chi parla una lingua romanza. tutto ciò si riflette nel rispettivo uso del latino, anche se quest’ultima era una lingua comune a entrambi. Se ora osserviamo – tramite collazione – un copista e (in una fase successiva) un compositore al lavoro, riusciamo a capire come durante la lettura e la copiatura si generino lacune ed errori, ma anche correzioni occasionali. Ad esempio, alcune correzioni aggiuntive, apportate per rendere il testo ancora più chiaro (si vedano gli esempi 7, 11-18), sono forse state inserite mentre si rileggeva il testo copiato a Padova e lo si preparava per la stampa. e durante le ultime fasi di lavorazione, prima che il testo passasse sotto il torchio, è stato forse un compositore ad apportare nuovi ulteriori cambiamenti, come si è visto prima. Quanto poi all’intenzionalità dei cambiamenti testuali, viene in mente ciò che il curatore di un altro testo stampato da Gheraert leeu aveva spiegato al tipografo. Nel 1490 leeu pubblicò infatti ad Anversa un’edizione della Historia septem sapientium Romae – un testo che aveva già stampato a Gouda – ma questa volta in una versione diversa, tratta da una fonte manoscritta intitolata

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Historia calumniae Novercalis15. Poiché questa fonte aveva tutta l’aria di essere antica e quindi autorevole, un anonimo curatore preparò il testo per la stampa con revisioni caute, come lui stesso spiegò nel prologo rivolto al tipografo: Cum autem nominum quorundam ratio temporibus satis respondere visa non esset et textus orationis nimium fluxus minimeque coherens videretur non indignum iudicavi quo tibi morem gererem id postulanti paululum mutatis verbis obmissisque nominibus ne legentem offendant re ipsa integra servata hanc narrationem efferre, ne quid inventori laudis aut inventioni veritatis detractum esse videatur […]

«Giudicherai tu se il testo è diventato migliore grazie all’inserimento di questi cambiamenti, mi Girarde» conclude il curatore, dopo aver spiegato di avere variato l’ordine delle parole laddove necessario e di averne omesso altre per non infastidire il lettore e per raccontare la storia in maniera più efficace, senza però sminuire i meriti dell’autore o la morale della storia. Il curatore aveva fatto tutto questo nella speranza che il testo divenisse più coerente di prima. Sembra assomigliare molto a quello che era accaduto al testo di marco Polo, in transizione dal marcanova alla versione a stampa del leeu. Per inciso, possiamo notare che l’Historia septem sapientium Romae, come marco Polo che dettava il suo racconto, è un testo connesso con le storie trasmesse oralmente, in una cornice piuttosto simile a quella delle Mille e una notte. Questa considerazione mi porta ad affrontare un altro problema: c’è un motivo per cui un libro di successo come la “tripletta di Gouda” non è stato ristampato? la sua popolarità è misurabile dal numero degli esemplari superstiti: IStC registra a oggi una cinquantina di copie. Per ora è stata esaminata solo una piccola parte di quelle che recano le note di antichi possessori, ma parecchi esemplari indicano che il testo di leeu fu venduto ampiamente, circostanza che rispecchia i contatti commerciali che il tipografo olandese aveva messo in atto. Non sorprende che ci siano antichi possessori censiti nei Paesi Bassi, a rooklooster (vicino a Bruxelles)16 e presso il convento dei Certosini a lovanio17. Stando al catalogo collettivo delle biblioteche dei Paesi Bassi e della renania compilato agli inizi del XVI secolo e noto come Registrum di rooklooster18, copie della tripletta di Gouda furono in possesso anche dei PremontraSETTE SAVI DI ROMA, Historia septem sapientium Romae [Versione con il titolo:] Historia calumnie novercalis, Antwerpen, Gerard leeu, 6 XI 1490, 4° (IStC is00448600). 16 Ora a Bruxelles, Biliothèque royale, A.1792.1 17 Bruxelles, Biliothèque royale, A.2112. 18 Il manoscritto conosciuto come Registrum di Rooklooster – si tratta di un catalogo che comprende una finding list dei libri posseduti dai conventi dei Paesi Bassi – è conservato a 15

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tensi di Averbode e dei Canonici regolari di saint martin di lovanio. Ancora più a est, una copia risulta posseduta dai Cistercensi a Himmerod nell’eiffel19. «Nicolas Perichot, fourrier de la reine da Navarre» risulta proprietario di una tripletta di Gouda nel 153720. Il «Petit Augustins» a Parigi vergò la propria nota di possesso su tre libri nel XVII secolo, ma questa nota lascia intendere un precedente e più antico possessore in francia21. Sono state poi censite tre copie con antichi possessori in Inghilterra: una oggi al trinity College di dublino (che reca una nota di thomas Kokker di Worksop, Northamptonshire)22, un’altra alla Bodleian library di Oxford (posseduta fra il XV e il XVI secolo da un certo Christopher Copston non altrimenti identificato)23, e una terza conservata alla British library (che reca una nota di richard Wyttam, datata 1583, e che più tardi divenne parte della Old royal library)24. la lettera emersa all’Archivio General del reino a Simancas aggiunge un’altra provenienza inglese del XV secolo a quelle già note: prima di passarlo a Cristoforo Colombo, infatti, fu il mercante che operava sotto lo pseudonimo di John day (vero nome: Hugh Say) a possedere il libro. la lettera del day a Co-

Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Cod. Vindob. s.n. 12694. Il titolo dell’edizione del marco Polo è elencato alla carta 241r: «marcus Venetus || de condicionibus et consuetudinibus regionum» seguito dalle prime parole del testo e la sigla ‘e’ per “everbode” e ‘z’ per Vallis Sancti martini (St. maartensdaal) a lovanio. Il registro – introdotto e curato da frans Hendrickx, che ha fornito anche un’ampia bibliografia su questa fonte – è ora consultabile anche on-line all’indirizzo: http://rrkl.cartusiana.org/?q=node/7. 19 Paris, Biliothèque Nationale de france, rés. O2, CIBN P-554. 20 Catalogues régionaux des incunables des bibliothèques publiques de France, VI: D. HILLARD, Bibliothèque Mazarine, Paris, aux Amateurs de livres; [Bordeaux], Société des bibliophiles de Guyenne, 1987, n. 1677. 21 «ex Bibliotheca fratrum Augustiniensium reformatorum conventus reginae margaritae»: questa la nota vergata su un esemplare della tripletta di Gouda conservato presso la biblioteca della Sorbona, per cui si veda Catalogues régionaux des incunables des bibliothèques publiques de France, XII: Y. FERNILLOT, Bibliothèque de la Sorbonne, Bibliothèque VictorCousin, Bibliothèque de l’École nationale des chartes, Bibliothèque de l’Institut national de recherche pédagogique, Bibliothèque de l’Institut national des langues et civilisations orientales, Bibliothèque de l’Imprimerie nationale, [Parigi], Klincksieck, 1995, n 494. Con il nome di «Petit Augustins» sono conosciuti i membri degli Agostiniani Scalzi di francia, i quali formavano una congregazione di rigida osservanza, staccata dall’Ordine (i Grand Augustins). Gli Agostiniani Scalzi avevano la propria sede (il Petit Augustins appunto) in una casa edificata per volere della regina margherita di Valois (1553-1615, prima moglie di enrico IV di francia) e dalla stessa donata loro nel 1608. [n.d.t.]. 22 T. K. ABBOTT, Catalogue of fifteenth-century books in the Library of Trinity College, Dublin, and in Marsh’s Library, Dublin, Hildesheim-New York, Olms, 1977, n. 440. 23 Bod-Inc. P-428. 24 london, the British library, IA. 47354; BmC IX, p. 37.

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lombo rispondeva a una richiesta di informazioni rivoltagli dal genovese riguardo le esplorazioni di Giovanni Caboto (conosciuto in Inghilterra come John Cabot). John day era in grado di fornire un resoconto attendibile perché si trovava a Bristol quando Caboto, nel 1497, fece ritorno nella città inglese dalla sua traversata dell’Atlantico. l’ammiraglio aveva anche chiesto due libri. uno il day non riuscì a trovarlo, ma l’altro era il marco Polo, che il mercante si era portato dall’Inghilterra e che allegò alla lettera di risposta, come tenne a precisare in apertura di missiva: «el otro de marco Paulo … lo enbio». Nella traduzione inglese pubblicata da S. e. morison il passo recita: I do not find the book Invincio Fortunati; I thought I had brought it with my effects, and am greatly annoyed that I canot [sic] find it, because I sought very much to serve you. the other [book] by marco Polo, and the copy of the tierra which has been found I send you25.

Al termine della lettera John day chiedeva educatamente che il libro gli venisse restituito: «Quando Sua eccellenza ha finito di leggerlo, per favore lo riconsegni o ordini che sia dato a mycer Jorge». Colombo non fece la cortesia, visto che la copia dell’edizione del leeu che gli era stata spedita si trova oggi presso la Biblioteca Colombina di Siviglia, la grande biblioteca raccolta da fernando, il figlio di Colombo, in cui furono incorporati i libri ricevuti in eredità dal padre. don fernando registrò la propria collezione in un Registrum, che consisteva in descrizioni molto accurate di ciascun volume comprendenti anche note riguardo luogo e prezzo di acquisto dei libri26. Il marco Polo è identificabile senza dubbio a causa dell’errore pepur] ripetuto nel Registrum, «in latinum traductum per franciscum de pepurijs». la voce non ha una nota di acquisto, a conferma che il volume fu ereditato. l’esemplare della Colombina reca centinaia di note a margine (o di postillae), parzialmente di mano di Cristoforo Colombo27. Queste postille sono sem«Non ho trovato l’Invincio Fortunati; penso di averlo portato via con i miei effetti personali, e mi dispiace molto di non riuscire a trovarlo, perché ho cercato di servirvi bene. l’altro [il marco Polo] e la copia della tierra [della mappa] che invece ho trovato, ve li mando»: S. E. MORISON, I: The Northern voyages, 1971, p. 206. 26 A. M. HUNTINGTON, Catalogue of the library of Ferdinand Columbus. Reproduced in facsimile from the unique manuscript in the Colombine Library of Seville, New York, e. Bierstadt, 1905, n. 2741. 27 le postillae presenti in questo esemplare sono state trascritte in Raccolta di documenti e studi pubblicati dalla R. Commissione Colombiana pel quarto centenario dalla scoperta dell’America, 1.2: Scritti di Cristoforo Colombo, pubblicati ed illustrati da Cesare de lollis, roma, auspice il ministero della pubblica istruzione, 1894, pp. 446-470. Nella stessa serie si trova anche la riproduzione facsimilare di quelle postillae, come in ivi, 1.3: Autografi di Cristoforo 25

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pre state oggetto di discussione: i marginalia furono vergati prima del 1492? Si tratta forse di tracce di lettura lasciate da Colombo, che si preparava a un eventuale incontro al cospetto del re ferdinando e della regina Isabella, in cerca di sostegno economico per il suo viaggio? la scoperta della lettera di John day accantona definitivamente questa suggestiva fantasia, poiché la missiva si riferisce a eventi che ebbero luogo nel 1497. Colombo certamente era a conoscenza della descrizione del Cathay e di Cipango fatta da marco Polo. le sue postille, comunque, furono vergate probabilmente dopo il suo primo – o addirittura il secondo – viaggio, quando tentò di far corrispondere le proprie osservazioni sulla costa caraibica con quelle proposte da marco Polo28. le note dell’esploratore sono pragmatiche: illustrano i prodotti della regione e i pericoli che correvano i navigatori (i pirati). Almeno altri due lettori muniti di penna – compreso suo figlio fernando – maneggiarono il libro in epoche successive. dalla sopravvivenza della tripletta del leeu in così tante copie possiamo inferire che questo delizioso libriccino godette di un ininterrotto gradimento e che il tipografo fu bravo a gestirne il marketing. l’assenza di una ristampa, quindi, contraddice un dogma della storia del commercio librario, e cioè che le ristampe sono in sé stesse indicatori di successo. Siamo davanti a un paradosso, non c’è dubbio. una spiegazione parziale va forse cercata nel fatto che il testo Colombo, con prefazione e trascrizione diplomatica di C. de lollis, roma, auspice il ministero della pubblica istruzione, 1892, serie d, tav. lXXXXIIIJ-C, cc. 94-100. molto ben documentato a riguardo il testo di J. B. THACHER, Christopher Columbus: his life, his work, his remains, together with an essay on Peter Martyr of Anghera and Bartolome de las Casas, the first historians of America, 3 voll., New York, G. P. Putnam’s sons, the Knickerbocker press, 1903-1904. Nel terzo volume thacher riproduce ampi specimina della scrittura di Colombo. una descrizione corretta dell’esemplare dell’edizione del leeu conservato alla Colombina si trova in ID., Christopher Columbus, 2, 1903, p. 461, n. 2. Per la riproduzione delle postillae thacher ha fatto riferimento alle trascrizioni di Cesare de lollis. la copia del marco Polo appartenuta a Colombo è riprodotta in facsimile anche in MARCO POLO, El libro de Marco Polo anotado por Cristóbal Colón; El libro de Marco Polo versión de Rodrigo de Santaella, edición, introducción y notas de J. GIL, madrid, Alianza universidad, 1987, pp. 11-168. Non ho potuto consultare questo libro perché non sono riuscita a trovarlo nel regno unito. Juan Gil ha tradotto (senza mostrarle) le note nella sua traduzione in spagnolo del testo di Pipino, come in ivi, pp. VII-XXIII. 28 J. LARNER, Marco Polo and the discovery of the world, New Haven-london, Yale university Press, 1999, pp. 155-159. È inesatta la proposta del larner di fissare l’edizione del leeu come “Anversa, fra il 1485 e il 1490”. Per una riflessione più generale sulla vicenda di Colombo e la biblioteca Colombina anche io ho fatto ampio ricorso a M. P. MCDONALD, The Print Collection of Ferdinand Columbus (1488-1539): a renaissance collector in Seville, london, the British museum Press, 2004, in particolare al capitolo The life and work of Ferdinand Columbus, che fornisce un resoconto biografico della vita di Cristoforo basato su una grande quantità di pubblicazioni spagnole.

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latino competeva con la versione a stampa in volgare, anche se il latino usato dal leeu presenta, in alcuni tratti, la stessa disinvoltura con cui la lingua volgare trasmetteva i testi. l’edizione latina del leeu non rappresenta la prima apparizione a stampa del testo di marco Polo. Nel 1477 fu pubblicata da fridrich Creussner, a Norimberga, una versione tedesca in un in-folio piccolo29. Questa edizione cominciava con un’elegante silografia a tutta pagina che ritraeva il giovane eroe veneziano. Quattro anni più tardi, nel 1481, il testo fu impresso da Anton Sorg ad Augusta e collocato dopo il Die Historie von Herzog Leopold und seinem Sohn Wilhelm, un libro di avventure illustrato da molte incisioni30. Con questa seconda edizione – sempre precedente quella del leeu, stampata infatti nel 1484-1485 – il testo (in volgare) fu certamente collocato entro il genere romanzesco-avventuroso, benché con un taglio storico. In questo solco si inserisce l’altra edizione in cuna nota, stampata nel 1496 a Venezia – in dialetto veneziano – e ristampata a Brescia nel 150031. le edizioni volgari sono rappresentate da un minor numero di copie superstiti, come è usuale per questo tipo di pubblicazioni, ma il fatto che ebbero delle ristampe (probabilmente più di quante ne censiscano i records bibliografici) costituisce un segno certo del loro successo. l’edizione latina del leeu, priva di illustrazioni e con un tono così erudito, fu inizialmente accolta con favore e conservata con cura da molti lettori, ma nel tempo non si rivelò il veicolo più adatto per trasmettere questa storia. Anche se la traduzione di Pipino fu ampiamente disseminata nei manoscritti per almeno 200 anni, entro la fine del XV secolo il libro fu ormai apprezzato come un racconto di avventure, un volume piacevole da leggere nella propria lingua. fu solo verso la metà del XVI secolo, quando si consolidò l’interesse per i suoi contenuti legati ai grandi viaggi di scoperta, che si percepì ampiamente l’esigenza di un approccio erudito al testo di marco Polo. fino a quel momento solo Cristoforo Colombo aveva confrontato le proprie osservazioni con quelle del veneziano e aveva usato il testo del leeu per questo scopo, lasciando tracce evidenti della sua attenta lettura.

MARCO POLO, Buch des edlen Ritters und Landfahrers Marco Polo [in tedesco], Nürberg, friedrich Creussner, 1477, fol. (IStC ip00901000). 30 LEOPOLDO, DUCA D’AUSTRIA, Historie von Herzog Leopold und seinem Sohn Wilhelm von Oesterreich [Con:] Marco Polo: Das Buch des edlen Ritters und Landfahrers Marco Polo, Augsburg, Anton Sorg, 1481, fol. (IStC il00184000). 31 MARCO POLO, Delle maravigliose cose del mondo, Venezia, Giovanni Battista Sessa, 13 VI 1496, 8° (IStC ip00903000), e Brescia, Battista farfengo, 1500, 8° (IStC ip00904000). 29

VI. IL MODELLO DI PETER SCHOEFFER: INDAGINE BIBLIOGRAFICA SUL SISTEMA DI LAVORO DI UN PROTOTIPOGRAFO

Introduzione Questo saggio si propone di illustrare come, collazionando frammenti sparsi di informazioni, possa affiorare l’immagine di un’officina tipografica del passato, in questo caso quella di Peter Schoeffer a magonza. Il percorso di ricerca per costruire questa immagine non è differente dalla mappatura di un territorio inesplorato. la navigazione attraverso questo territorio è essenzialmente un viaggio di scoperta, dove prima bisogna usare le mappe già esistenti e poi, sulla base di quelle mappe, tracciare il proprio itinerario. Benché spostamenti e viaggi frequenti siano stati parte integrante della mia indagine, le scoperte vere e proprie sono circoscritte ai terminali dei computer e alle sale di lettura delle biblioteche. l’emozione, quindi, non sta nei velieri, nelle slitte o nei muli, nei cammelli o negli elefanti, o in altri mezzi di trasporto connessi con l’avventura, bensì in veicoli che recano informazioni: i cataloghi e le banche dati bibliografiche. tutte le basi di dati – e quelle bibliografiche non fanno eccezione – richiedono una grande struttura organizzativa, investimento di tempo e denaro, tecnologia sufficientemente aggiornata e, soprattutto, la volontà di lavorare in squadra per crearle e mantenerle in funzione. dal 1980 ho dedicato larga parte del mio tempo a organizzare e pianificare qualcosa di simile, inizialmente su scala abbastanza ridotta, per il database internazionale dei libri stampati nel XV secolo conosciuto come IStC (Incunabula Short Title Catalogue), che ha sede presso la British library ma offre, per questa tipologia di materiale, una copertura mondiale. In tempi più recenti mi sono dedicata a un progetto su scala molto più vasta, vale a dire un database di tutte le edizioni prodotte dalle tipografie europee dell’epoca della stampa manuale – cioè dall’invenzione della stampa al 1830 circa – cui il Consortium of european research libraries (Cerl) sta lavorando fin dal 1992.

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Il lavoro del Cerl è condiviso da parecchi colleghi di diverse biblioteche europee, che ci hanno dedicato molto del loro tempo e che sono assai impegnati in questo progetto. Siamo tutti piuttosto attenti agli aspetti che riguardano i formati catalografici, le questioni tecnologiche e gli accordi formali, prerequisito indispensabile per una collaborazione fattiva. ma soprattutto abbiamo in comune un’idea – forse non esattamente la stessa – sulla possibile utilità di questa nuova forma di accesso al patrimonio a stampa europeo e su quali prospettive essa sia in grado di aprire ai bibliotecari e agli studiosi. Anche se è probabile che il nuovo strumento – cioè il grande catalogo digitale del Cerl – risponda a domande diverse, in generale ci si aspetta che una descrizione bibliografica possa indicare delle linee di ricerca, indipendentemente dalla natura della ricerca stessa, in quanto è in grado di indicare fin dove ci si può spingere, quali siano i dati meritevoli di essere registrati ma, analogamente, anche cosa sia irraggiungibile. Quando la notizia bibliografica acquisisce un certo grado di completezza, l’enfasi sulle sue possibilità di applicazione può anche cominciare a spostarsi. Bibliografi e storici del libro, infatti, iniziano a costruire un record con i dati che riguardano la produzione del libro: elencano le edizioni e le loro peculiarità, ma da questi dati si spostano poi all’analisi dei singoli esemplari e di cosa essi rivelino a proposito della distribuzione iniziale del libro, del suo commercio, dei suoi primi possessori e dell’uso che essi ne fecero. Perché anche quando si lavora a un progetto così ambizioso – che mira a registrare la produzione libraria europea fino alla metà del XIX secolo – si può riflettere su come lo sforzo messo in campo nei secoli per costruire una notizia bibliografica abbia portato a concentrarsi soprattutto sulla storia della produzione libraria, a discapito di un attento esame della spinta intellettuale che sta alla base del commercio del libro e della interazione che si stabilisce fra commercio e produzione. Prova tangibile della produzione libraria sono gli esemplari conservati nelle varie collezioni e dalla loro catalogazione provengono i dati che poi confluiscono nelle bibliografie. Sappiamo però che un record ottenuto in questo modo non dà conto della totalità dell’edizione, poiché è impossibile fare affidamento sulla sopravvivenza di tutti gli esemplari. Si può star certi, però, che i punti tracciati sulla mappa – cioè le registrazioni che abbiamo fatto – costituiscono una fondata rappresentazione della storia della produzione di quel libro. diversa la situazione per la storia del commercio librario, in particolare per l’epoca dei paleotipi. In termini di metodo e di lavoro concreto, è molto più complesso raccogliere i dati necessari. le testimonianze dirette sono poche e fra loro distanti. Circoscrivendo ad esempio il periodo incunabolistico, risulta immediatamente visibile una distinzione fra i tipografi attivi a sud delle Alpi, in Italia e nelle penisola iberica – che lavoravano con contratti scritti – e quelli

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attivi nella metà settentrionale dell’europa – che invece operavano attraverso contratti verbali, anche se poi ricorrevano ai tribunali in caso di necessità. esistono, quindi, molte meno informazioni di prima mano sul commercio librario nell’europa settentrionale di quante ce ne siano per l’Italia e la Spagna. le testimonianze indirette, comunque, sono cresciute costantemente, a un punto tale da produrre un’immagine della disseminazione e dei contatti e perfino delle rotte commerciali attraverso cui le merci, e anche le tecnologie, viaggiavano attraverso l’europa. Questa impressione di movimento e interazione cozza con gli effetti della rigida griglia basata sui moderni confini nazionali che i sistemi bibliografici hanno dovuto imporre per riuscire a governare l’enorme quantità di materiale. le prove di questi movimenti si inferiscono anche dalle descrizioni bibliografiche dettagliate, poiché esse riflettono gli esemplari e le loro specifiche storie. l’esame di molti esemplari è il solo modo di raccogliere questi dati e la possibilità di compiere tali rilevazioni è un fenomeno piuttosto recente. ecco, dunque, il metodo di analisi alla base del presente saggio e – per tornare alla mia metafora del viaggio e della scoperta – userò la notizia bibliografica per mappare questo percorso, che si snoda attraverso un panorama fatto di bei libri. Peter Schoeffer Il punto di partenza è il record bibliografico relativo all’edizione delle lettere di san Gerolamo, impressa da Peter Schoeffer di Gernsheim, nei pressi di magonza, nel 1470 (si veda APPENDICE 4). È forse utile contestualizzare questa informazione bibliografica. Peter Schoeffer è il terzo componente del trio magontino che ebbe la paternità di quella grande invenzione che fu la stampa a caratteri mobili1. Johan Gutenberg ne fu l’inventore vero e proprio. Nel 1455, in società con Johann fust e Peter Schoeffer, egli completò la stampa della monumentale Bibbia che è indissolubilmente legata al suo nome. dopo la stampa della Bibbia, la società si sciolse; fust e Schoeffer, a partire dal 1457, continuarono a produrre indipendentemente grandi edizioni del Salterio, del Rationale Divinorum Officiorum di durand, un’altra della Bibbia, e altre importanti edizioni, laddove, invece, è in dubbio, e perfino oggetto di discussione, se Gutenberg dopo la Bibbia abbia stampato qualcos’altro di significativo. A differenza di quanto accadde a Gutenberg nei 1 A oggi, la migliore biografia di Peter Schoeffer resta ancora quella di H. LEHMANN-HAUPT, Peter Schoeffer of Gernsheim and Mainz, with a list of his surviving books and broadsides, rochester (N.Y.), Hart, 1950, cui va aggiunto almeno ID., Peter Schöffer aus Gernsheim und Mainz, hrsg. von M. ESTERMANN, Wiesbaden, reichert, 2002.

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suoi ultimi anni di attività, l’impresa di fust e Schoeffer rimase in piedi, e riuscì a impiantare un business solido, che si interruppe solamente per un paio di anni, durante l’epoca della terribile guerra civile a magonza, nel 1463 e 1464. dal 1465, quando Peter Schoeffer era ormai divenuto il genero di fust, i due ripresero la produzione. la partnership era ovviamente solida e all’apparenza di successo. Nel 1467 fust morì di peste mentre si trovava a Parigi e nel giro di un anno, agli inizi del 1468, Gutenberg morì a magonza, probabilmente di vecchiaia. Peter Schoeffer, il più giovane fra questi tre pionieri, visse molto a lungo, impegnandosi attivamente per portare avanti a magonza una produzione regolare di edizioni importanti e di grande formato. Vedremo come egli continuò a esplorare i modi più redditizi per occuparsi di libri. Le lettere di Girolamo uno dei libri più voluminosi che egli stampò è l’edizione delle lettere di san Girolamo, terminata il 7 settembre 14702. Questa opera è stata il punto di partenza e resta il cuore della mia ricerca, ma progredendo nella comprensione dell’allestimento di questo libro, è emersa via via l’esigenza di guardare anche ad altre edizioni prodotte da Peter Schoeffer, o in qualche modo legate a lui, per collocare il Girolamo in un contesto adeguato. la descrizione completa dell’edizione serve dunque per portare il caso singolo fuori dal suo isolamento. Anche se l’edizione magontina delle lettere di san Girolamo appartiene ai primordi della stampa, non è affatto la princeps di quest’opera, visto che è stata preceduta da quattro edizioni uscite nell’arco di un solo triennio. tre di esse furono impresse in rapida successione, a partire dal 1468, dai primi stampatori attivi a roma – Sixtus riessinger e poi Konrad Sweynheym in società con Arnold Pannartz – circostanza che indica come ci fosse una grande richiesta di questo testo3. le lettere di san Girolamo, giustamente famoso per la sua traduzione latina della Bibbia nota come Vulgata, sono importanti perché forniscono GIROLAMO (SANTO), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). 3 GIROLAMO (SANTO), Epistolae, rome, Konrad Sweynheym e Arnold Pannartz, 13 XII 1468, fol. (IStC ih00161000); GIROLAMO (SANTO), Epistolae, roma, Konrad Sweynheym e Arnold Pannartz, [non dopo il 30 VIII] 1470, fol. (IStC ih00164000); GIROLAMO (SANTO), Epistolae, [roma, Sixtus riessinger, 1470 circa], fol., (IStC ih00160800). Sulla proposta di datazione dell’edizione del riessinger – da intendersi 1470 circa e non dopo il 1470 – si veda: P. NEEDHAM, Sixtus Riessinger’s Edition of Epistolae Hieronymi (GW 12420): circa (not after) 1470, in Incunabula: Printing, Trading, Collecting, Cataloguing, Atti del convegno internazionale (milano, 10-12 settembre 2013), a cura di A. LEDDA, «la Bibliofilia», 116, 2014, pp. 17-43. 2

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una guida su molte questioni morali corredata da un’efficace interpretazione dei Vangeli sotto forma di vivaci disquisizioni e di controversie con i contemporanei dell’autore. fino all’epoca della riforma san Gerolamo rimase, insieme a sant’Agostino, il più influente fra i Padri della Chiesa. le tre edizioni romane proponevano circa 130 lettere organizzate per temi, una soluzione veramente comoda per chi cercasse una guida su questioni ben precise. le lettere vennero ristampate molte volte con questa struttura, fino a quando erasmo non allestì una versione più moderna, agli inizi del XVI secolo, avvalendosi di fonti mai utilizzate prima per stabilire una più corretta versione del testo. un’analoga organizzazione per temi fu adottata per l’edizione di una raccolta molto più limitata di lettere di san Gerolamo, pubblicata da Johann mentelin a Strasburgo forse nel 1469. edizione che, dal punto di vista testuale, era del tutto indipendente da quelle romane4. Questa raccolta di lettere impressa dal mentelin non venne mai ristampata. Né venne mai ristampata l’edizione di magonza del 1470, che fu assai ambiziosa da tanti punti di vista. Con più di 200 lettere, infatti, essa è di gran lunga la più consistente di tutte queste raccolte, visto che include molte più epistole delle altre (Peter Schoeffer, in un avviso, annunciò con orgoglio che i testi erano stati raccolti da molte biblioteche di monasteri, chiese e cattedrali). Casualmente sappiamo chi fu il responsabile dei contenuti testuali dell’edizione magontina. Il curatore fu un monaco benedettino, Adriano de Brielis, che trascorse quasi tutta la sua vita nell’abbazia di San Jacobsberg, vicino a magonza. È probabile che l’edizione di Girolamo fosse il lavoro della sua vita e si vedrà come sia altrettanto probabile che egli si sia prodigato per offrire ai lettori del suo tempo un’adeguata e vivace presentazione del testo di Girolamo. Si può raffigurare Adriano de Brielis immaginandolo nel ruolo quasi sacro di curatore dei testi di Girolamo, in un processo simile a quello vissuto dal santo stesso, che aveva ricevuto da dio l’ispirazione per tradurre la Bibbia. Nessuno meglio di erasmo ci guida verso questa immagine, poiché nella descrizione che ci ha consegnato del monaco, egli fa proprio riferimento alla tradizionale iconografia del santo mentre lavora al suo scrittoio, iconografia che ritroviamo nelle iniziali dipinte presenti in alcuni esemplari dell’edizione di magonza (ill. II). e il grande umanista, editore egli stesso della Bibbia, si identifica senza alcun dubbio in quel ruolo. ma come si giunga a quell’immagine del de Brielis è tutta un’altra questione, che si basa su un mosaico fatto di piccolissimi tasselli. e per trovare il bandolo della matassa bisogna tornare al record bibliografico dell’edizione. GIROLAMO (SANTO), Epistolae, [Strasburgo, Johann mentelin, non dopo il 1469], fol., (IStC ih00162000). 4

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Analisi bibliografica dell’edizione di san Girolamo stampata da Schoeffer Il record di IStC è da molti punti di vista un modello minimale di descrizione – ad esempio non fornisce informazioni dirette sulle dimensioni del libro, che si compone di 408 carte impresse su carta imperiale (quindi di grande pezzatura) o su pergamena, e si trova spesso rilegato in due volumi.5 ma ciò che il record indica, già a una prima occhiata, è che di questa edizione sono sopravvissuti moltissimi esemplari. A oggi ne sono stati censiti 89 (si veda APPENDICE 4). I bibliografi si erano accorti da subito che all’interno dell’edizione si distinguono due emissioni6, il che significa che alcune parti dell’opera furono composte due volte, mentre altre parti avevano in comune la medesima composizione tipografica. Si può rappresentare questa situazione come quella di due gemelli siamesi, nati nello stesso momento e recanti la stessa data nei rispettivi (ma distinti) colophones: 7 settembre 1470. la portata di questo gemellaggio non è stata ulteriormente indagata dai bibliografi. Quindi, la prima questione che ho dovuto affrontare quando mi venne chiesto di studiare questo libro fu di stabilire quali parti di esso vennero composte più di una volta e in che modo quelle parti fossero distribuite negli esemplari superstiti. una serie di circostanze eccezionali mi hanno consentito di intraprendere un percorso di ricerca finanziato da privati. Questo lavoro è stato in parte condiviso con eberhard König, docente di storia dell’arte presso la freie universität di Berlino. I finanziamenti ci hanno permesso di viaggiare e di assemblare documentazione fotografica e così insieme siamo riusciti a esaminare o studiare – attraverso visite alle biblioteche o attraverso riproduzioni fotografiche – quasi tutti gli esemplari del Girolamo magontino censiti nel record di IStC (a oggi 84 su 89). Io ho iniziato dalla British library, che possiede due copie dell’edizione magontina, ciascuna delle quali rappresenta una delle due emissioni già identificate dai bibliografi (l’inizio e la fine dell’opera differiscono infatti perché uno

5 tutte le copie conosciute del Girolamo, quando si trovano in legature coeve, sono rilegate in un unico volume. fanno eccezione due esemplari: quello già posseduto dall’abbazia benedettina di Bursfelde – uno dei cui volumi si trova presso la marburg university library e l’altro presso l’Akademie Bibliothek di Padeborn – e l’esemplare doheny, venduto all’asta (Christie’s New York, 22 ottobre 1987, lotto 9) e ora in una collezione privata. Se invece furono i collezionisti a rilegare l’opera nel XVIII o nel XIX secolo, allora essa si trova invariabilmente divisa in due volumi e il secondo inizia con la Distinctio sexta. 6 Hain 8553 e 8554; BmC I, pp. 26-27; Goff H-165. BmC e Goff hanno invertito l’ordine delle due emissioni suggerito da Hain (le mie ricerche mostrano che era corretto quello di Hain).

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dei due mostra un testo ricomposto). Ho collazionato le due copie, entrambe rilegate in due volumi, e sono riuscita a dimostrare che, nel primo volume, 30 pagine su un totale di 396 (o di 198 carte) sono attestate in due diverse composizioni tipografiche. Nel secondo volume, l’attestazione della doppia composizione tipografica è ancora più considerevole: ben 256 pagine su un totale di 420 sono infatti state ricomposte in una successione consecutiva a partire dalla metà fino alla fine del libro. Il passo successivo fu mettere a confronto questi risultati con esemplari di altre collezioni, per stabilire se le due copie della British library rappresentassero ciascuna delle emissioni. In generale non lo si presumerebbe poiché la bibliografia analitica insegna che, una volta usciti dal torchio, i fogli vengono raggruppati in modo casuale per andare a costituire gli esemplari dell’edizione cui appartengono. tutto il metodo della bibliografia testuale – così come fu sviluppato studiando i testi inglesi del periodo di elisabetta I e di Giacomo I e poi successivamente applicato a molte altre aree della stampa – si basa su questo presupposto: le copie sono assemblate casualmente, e quindi le differenze fra gli esemplari stampati si distribuiscono altrettanto casualmente. In questo caso le cose si sono rivelate diverse. I microfilms degli esemplari della British library sono stati il testo base per la collazione con esemplari conservati in molte altre biblioteche, a oggi 48. Successivamente ho semplificato l’operazione controllando solo le varianti di cui avevo preso nota, che sono circa 1.500 in tutto. la mia scoperta è stata che tutte le 48 copie esaminate concordavano con la distinzione accertata nei primi due esemplari che avevo analizzato (quelli della British library). Bisogna dunque concludere che l’officina tipografica tenne di proposito separati i fogli così da generare due vere emissioni. la successiva domanda logica dovrebbe essere la seguente: esiste una differenza significativa fra le due emissioni? Primo: esse recano la stessa data nel colophon, che però presenta una piccola differenza di formulazione. un’emissione – che chiamo a e che ho buone ragioni per pensare sia anteriore all’altra – loda la persona che iniziò il lavoro (iniciare è il termine usato), mentre l’altra versione parla di principiari, cioè di dirigere, di assumere il controllo. A tale differenza corrisponde una diversa prefazione, che nella prima versione è dedicata a tutti gli appartenenti agli ordini sacri, nella seconda semplicemente a tutti i cristiani. Quindi potremmo forse ipotizzare un patronage separato, che si riflette nelle due emissioni: un certo numero di copie per ciascuno dei due finanziatori. le due emissioni sopravvivono in una quantità praticamente uguale di esemplari, e possiedono entrambe un numero simile di copie impresse su pergamena, rispettivamente sei e otto.

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fin qui, dunque, il risultato dell’indagine è un perfezionamento della notizia bibliografica – anche di IStC – e una migliore comprensione di un ben organizzato sistema produttivo.

La produzione del testo dal punto di vista del contenuto, le connessioni testuali fra le due emissioni sono strettissime. Nulla suggerisce l’esistenza di una tradizione testuale differente, basata, ad esempio, su un’altra fonte usata per la seconda composizione. una delle versioni è per forza di cose una ricomposizione pagina per pagina dell’altra, con un tale grado di somiglianza che occorre cercare molto attentamente per trovare tutte quelle piccole differenze che tradiscono che la pagina, in realtà, è stata ricomposta. tutto ciò è alquanto insolito, trattandosi di incunaboli. Normalmente, quando un testo viene ricomposto, si incontrano differenze nelle abbreviazioni, nella fine delle righe, nell’ortografia, variazioni nell’uso di caratteri o legature, che portano a stabilire, senza particolare difficoltà, che il testo è stato appunto composto più di una volta. tali differenze sono del tutto riconducibili al modello di variabilità e di libertà in cui operavano i compositori (e gli amanuensi) dell’epoca. Nel Girolamo, invece, è come se qualcuno avesse ricevuto istruzioni precise di attenersi strettamente alla composizione della pagina stabilita in origine. È comunque interessante notare che certi particolari vennero reputati irrilevanti: ad esempio la forma variabile delle maiuscole, l’uso delle minuscole, di cui nella cassa dei caratteri esisteva più di un tipo, le contrazioni occasionali. l’impressione generale, comunque, è di stretta fedeltà a un testo, quasi di un suo facsimile. Non è troppo azzardato, allora, immaginare che dietro tutto questo ci siano le (oggi) invisibili fatiche di un’accurata correzione delle bozze relative alla prima composizione tipografica. una volta ottenuta una versione del testo che soddisfacesse un curatore o un correttore esigente, il risultato finale non doveva essere guastato da una certa dose di libertà nella sua ricomposizione. la conclusione di questa parte della ricerca è pertanto la seguente: le due emissioni furono pensate per contenere il medesimo testo, senza differenze, ma forse destinato a un diverso patron. le composizioni dei fogli, con parti preliminari e colophon distinti, vennero tenute intenzionalmente separate. Poiché è possibile dimostrare come una parte considerevole del contenuto dell’emissione a sia stata stampata per prima, ma per certe altre parti, invece, sia uscita per prima la b, si può dedurre che composizione e ricomposizione furono un processo quasi simultaneo, e che la data riportata alla fine di entrambe le emissioni, 7 settembre 1470, sia verosimile per tutte e due. È probabile che la

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ne di comporre due volte certe parti del testo fu presa per favorire la produzione di una grande tiratura in un tempo più breve. In questo modo si poteva spalmare il lavoro su più di un torchio, anche se ciò avrebbe portato a un maggiore impegno da parte dei compositori. È interessante rilevare che la data di completamento del lavoro era stata prevista, in un annuncio pubblicitario, per il 29 settembre, alla vigilia cioè della festa di san Girolamo, celebrata il 30 di quel mese7. la data del colophon è il 7 settembre, tre settimane prima: il sistema di lavoro doveva aver velocizzato considerevolmente la conclusione della stampa. Vennero comunque mantenuti alti standard di uniformità fra le due emissioni. Per quale motivo questi standard furono così rigidi? la risposta a questa domanda si trova in una ricerca piuttosto elaborata, che implica l’esame di un numero cospicuo di copie. Gli esiti della ricerca indicano che in tipografia era presente un curatore alquanto pignolo, forse lo stesso Adriano, e che questo curatore, perfino dopo che i fogli erano stati stampati, non rinunciò a un meticoloso controllo per ottenere un testo perfetto. Sebbene non ci fu, come ovvio, alcuna intenzione di stampare versioni radicalmente diverse di certe parti del testo, si volle comunque perfezionarne l’accuratezza dopo aver deciso di ricomporre alcuni passi. la collazione degli esemplari ha portato a una visione ancora più chiara del sistema di stampa.

La correzione del testo durante la sua produzione Complessivamente, sono state esaminate nel dettaglio oltre la metà delle 89 copie conosciute dell’edizione. In tutti gli esemplari appartenenti alla composizione ora identificata come emissione a, le parti del testo composte due volte presentano molte minuscole correzioni manoscritte. Nell’emissione b tutte queste correzioni sono state incluse nel testo stampato. lo stesso tipo di correzioni manoscritte si trovano nelle parti del testo dove esistono, per quanto noto, due versioni di un avviso pubblicitario relativo all’edizione del Girolamo di Schoeffer. una annuncia l’opera con la data «in proximo festo michaelis», i.e. 29 settembre 1470 (GW 1297) ed ancora esistente a: monaco, Bayerische Staatsbibliothek; New York, Pierpont morgan library; londra, the British library (I.B. 153; BmC I, 26); San Pietroburgo, National library of russia. l’altra un tempo si trovava presso la Staatsbibliothek di lubecca e venne descritta da Isak Collijn nel suo Kataloge der Inkunabeln der schwedischen offentlichen bibliotheken, II: Katalog der Inkunabeln der Kgl. Universitäts-Bibliothek zu Uppsala, uppsala, Almquist & Wiksell; leipzig, rudolf Haupt, 1907, pp. 285333. Quella descritta sembra essere una versione precedente, con il periodo di pubblicazione espresso come anno vertente. 7

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le due emissioni hanno in comune l’uguale composizione tipografica. Inoltre alcune correzioni manoscritte compaiono nella seconda composizione ma non nella prima, perché evidentemente vennero scoperti nuovi errori nella seconda durante la ricomposizione. e infine ci sono alcuni casi, ma non moltissimi, di varianti generate da correzioni avvenute durante la stampa delle due emissioni. le correzioni sono così numerose che si ha la netta impressione di una premura costante per migliorare l’accuratezza e la qualità del testo durante il suo processo di produzione. ma il particolare più notevole è l’uniformità delle tante correzioni manoscritte riscontrate in tutti gli esemplari che ho esaminato. Questo dimostra che si trattò di un’operazione sistematica condotta all’interno della tipografia, e che le dimensioni di questa operazione – con diverse migliaia di correzioni manoscritte in ciascuna copia del libro – trovano a fatica un equivalente. elencherò brevemente la tipologia delle correzioni (si vedano alcuni esempi alle figg. 10a-b e 11a-b): – correzioni di lettura errata dell’archetipo, ad esempio un cambio di significato: noluit per voluit; – inserimento di parole omesse; – correzione di nomi; – inserimento di punteggiatura; – cambio nell’uso delle maiuscole. Ho preso nota sistematicamente di circa 1.500 correzioni manoscritte di questo tipo, un numero che può essere considerato un campione rappresentativo, dettato comunque, in larga parte, dal tempo che avevo a disposizione ogni giorno per lavorare in biblioteche distanti fra loro. la mia collazione copre circa tre quarti del totale delle correzioni esistenti per ciascun esemplare. So di non essere stata esaustiva nella collazione di qualche parte delle sezioni di testo esaminate. Su questa base, calcolo comunque che il numero di correzioni manoscritte per ciascuna copia del san Girolamo si aggiri fra le 2.000 e le 2.500. Solo negli esemplari sopravvissuti troviamo quindi fra le 180.000 e le 225.000 piccole correzioni, tutte apportate in tipografia. In generale dunque le correzioni dovrebbero essere considerate come un monumento alla pazienza del tipografo per la presenza in officina di un curatore così esigente, o, invece, siamo di fronte a un caso in cui gli intenti e il perfezionismo di curatore e tipografo coincisero in maniera eccezionale? Non ho una risposta a questa domanda, ma parto dalla constatazione che, anche se esistono esempi importanti di correzioni in corso di stampa in altri libri pubblicati da Peter Schoeffer, non è nota una operazione di così ampia portata. la fase di correzione, in questo caso largamente manuale, è un intervento che di solito rimane invisibile. Qualunque tipografo avrebbe cercato di

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10a-b. Correzione avvenuta in tipografia, come si evince osservando entrambi gli esemplari posseduti dalla British library (e tutti gli altri esaminati).

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11a-b. Correzione apportata nel testo della prima composizione tipografica, poi incorporata nella seconda. © london, the British library (C. 11.e.13/14 e IC.150).

re a termine una correzione perfetta delle bozze prima della tiratura vera e propria e possiamo essere certi che questo procedimento esistesse già agli albori della stampa. In questo senso, può fornire un utile esempio qualche correzione nelle bozze di uno dei primi libri che siano mai stati stampati, il Rationale del durand del 14598. Comprendere la correzione del testo effettuata in questa fase finale della produzione rende il problema assai più chiaro e aiuta a capire in cosa consistesse la correzione delle bozze e quali fossero i criteri editoriali adottati, cosa fosse reputato importante e cosa, invece, dovesse essere migliorato9.

G. DURAND, Rationale divinorum officiorum, [mainz], Johann fust e Peter Schoeffer, 6 X 1459, fol. (IStC id00403000; GW 9101). Sulla correzione delle bozze del Rationale si veda: L. HELLINGA, Proof-reading in 1459. The Munich copy of Guillelmus Durand, Rationale, in Ars Impressoria: Entstehung und Entwicklung des Buchdrucks. Eine internationale Festgabe für Severin Corsten zum 65. Geburtstag, hrsg. von H. LIMBURG - H. LOHSE - W. SCHMITZ, münchen, K. G. Saur, 1986, pp. 183-202; EAD., Editing texts in the first fifteen years of printing, in New directions in textual studies, ed. by D. OLIPHANT - R. BRADFORD, Austin (texas), Harry ransom humanities research center 1990, pp. 126-149, qui tradotto alle pp. 193-212. 9 Per una prima riflessione su questa indagine si vedano qui in particolare le pp. 201-204. 8

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In ogni caso, per come era organizzato il lavoro all’interno dell’officina tipografica di Schoeffer, la correzione manoscritta sistematica e ben organizzata di quelle migliaia di fogli non era la fase finale della produzione del testo.

Rubricare, decorare, miniare gli esemplari lo step successivo nell’indagine dell’edizione delle lettere di san Gerolamo è rappresentato dal lavoro che ho condiviso con eberhard König. Per meglio comprenderlo devo fare un passo indietro. Nel 1979 le nostre conoscenze riguardo alla primitiva distribuzione della Bibbia delle 42 linee di Gutenberg hanno avuto un sensibile miglioramento grazie alla pubblicazione di uno studio di tutti gli esemplari superstiti, incluso quelli ai quali non si poteva associare nessun nome di un antico possessore. eberhard König ha studiato le decorazioni, elementi di grande importanza in quasi tutti gli esemplari dell’edizione. In molti casi, sulla base di valutazioni stilistiche, König riuscì a indicare dove il decoratore avesse lavorato, arrivando alla conclusione che un piccolo numero di esemplari fu colorato da un artista certamente attivo a magonza, che altre copie vennero decorate in centri quali erfurt e lipsia – ma anche in altre località sparse – e infine che due esemplari furono decorati addirittura nella lontana londra, non molto dopo la fine della stampa10. Il lavoro di König, consentendo per la prima volta di comprendere la vasta distribuzione del primo libro mai stampato, ha rappresentato una novità assoluta negli studi gutenberghiani. Non esistono prove dirette riguardo alla grande diffusione della Bibbia, ma la sua larga disseminazione geografica in un lasso di tempo ridotto suggerisce l’esistenza, finora mai colta pienamente, di connessioni e di scambi commerciali già nell’epoca dei paleotipi. l’opera di Gutenberg occupa senz’altro un posto del tutto eccezionale nella storia del libro, ma dall’approccio adottato da König deriva comunque una possibile applicazione 10 E. KÖNIG, Die Illuminierung der Gutenbergbibel, in Johannes Gutenbergs zweiundvierzigzeilige Bibel: Faksimile-Ausgabe nach dem Exemplar der Staatsbibliothek Preussischer Kulturbesitz Berlin, Kommentarband, hrsg. von W. SCHMIDT - F. A. SCHMIDT-KÜNSEMÜLLER, münchen, Idion, 1979, pp. 71-115. ID., A leaf from a Gutenberg Bible illuminated in England, «the British library Journal», 9, 1983, pp. 32-50; ID., New perspectives on the history of Mainz printing. A fresh look at illuminated imprints, in Printing the written word: The social history of books circa 1450-1520, ed. by S. L. HINDMAN, Ithaca and london, Cornell university Press, 1991, pp. 143-173; ID., Zur Situation der Gutenberg-Forschung. Ein Supplement, münster, Verlag Bibliotheca rara, 1995 (supplemento alla ristampa come pubblicazione separata del Kommentarband del 1979).

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metodologica: la possibilità, cioè, di esaminare tutti gli esemplari di un’edizione per comprendere cosa sia accaduto a un libro subito dopo che ha lasciato il torchio o non appena ha incontrato il suo primo acquirente. uno dei risultati del suo studio fu di mostrare come, almeno per una parte della tiratura, il lavoro di decorazione fu eseguito non lontano dall’officina tipografica di produzione, e anzi probabilmente in connessione con essa. Questa conclusione ha ricevuto conferma anche dallo studio condotto su Schoeffer, che ha infatti dimostrato che esistono casi in cui lo stampatore-editore ha introdotto un passaggio finale nel processo di produzione, a libro ormai stampato, vale a dire l’organizzazione della finitura manuale del libro prima che esso andasse ai suoi primi possessori. Il focus di questa parte dello studio è centrato, allora, su tale precisa fase dell’esistenza dei libri: o mentre sono ancora sotto il controllo dello stampatore – prima di passare nelle mani dei loro primi compratori – oppure, in alternativa, anche subito dopo aver raggiunto il loro primo proprietario. König ha proseguito la sua indagine sulla Bibbia di Gutenberg con lo studio di un artista in particolare – di cui aveva identificato la mano in alcune Bibbie di Gutenberg e in altri testi più tardi, stampati a magonza – che aveva chiamato il maestro di fust11. Questi fu un miniatore che produsse opere di straordinaria qualità, attestate anche in edizioni stampate da fust e Schoeffer a partire dal 1459, in alcuni esemplari del Rationale del durand, e fino al 1467 in almeno un esemplare del tommaso d’Aquino stampato in quello stesso anno. Si pensa che lasciasse magonza nel 1467, più o meno all’epoca della morte di Johann fust, dopo di che è attestato a Heidelberg. Il suo lavoro si riconosce da peculiari aspetti stilistici, da tratti ben precisi e dall’alta qualità, realizzata in maniera uniforme. Si può apprezzare un esempio del suo stile in alcune copie del Rationale del durand del 1459. Il libro è infatti attestato sia con iniziali stampate in due colori, sia con iniziali dipinte. tutto ciò consente di sottolineare un altro aspetto, per altro già rilevato da König, che cioè esemplari appartenenti alla medesima edizione mostrano un notevole grado di uniformità esecutiva. Perfino nel lavoro di un tale artista si può immaginare, allora, un modello che possiamo definire di produzione, o, per essere più precisi, si può immaginare un modello-guida, a cui egli apportò delle variazioni. Quando eberhard König ed io iniziammo le indagini sul san Girolamo di magonza, ci proponevamo di esaminare tutti gli esemplari noti dell’edizione.

E. KÖNIG, Für Johannes Fust, in Ars impressoria: Entstehung und Entwicklung des Buchdruck. Eine internationale Festgabe für Severin Corsten zum 65. Geburtstag, hrsg. von H. LOHSE - H. LIMBURG - W. SCHMITZ, münchen, Saur, 1986, pp. 285-313.

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12. Iniziale istoriata e decorata. Girolamo (santo), Epistolae, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © deutsches Buch- und Schriftmuseum der deutschen Nationalbibliothek leipzig, Klemm-Sammlung (II 1, 3 d), c. [b]1r.

13. Iniziale istoriata e decorata, con motivi vegetali dipinti. Girolamo (santo), Epistolae, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © london, the British library (C. 11.e.13), c. [b]1r.

Inizialmente König si sarebbe dovuto occupare degli aspetti storico-artistici e io delle fasi di correzione del testo. Sulla base delle nostre analisi abbiamo potuto trarre parecchie conclusioni. degli 84 esemplari che abbiamo esaminato in modo autoptico, 5 vennero lasciati in bianco, il che significa che nessun decoratore o rubricatore era intervenuto per completarli. Bisogna spiegare, a questo punto, che nei primi libri a stampa era prassi comune, dopo la stampa in bianco e nero, intervenire con rifiniture manuali. Questo serviva per aggiungere una serie di elementi in rosso, che accentuavano la struttura del testo, quali, ad esempio, segni di paragrafo, linee verticali che attraversano le maiuscole, piccole iniziali. Senza questi elementi il libro non si poteva considerare davvero finito. tale genere di lavoro veniva eseguito dal rubricatore e si ritiene che di solito fosse commissionato dall’acquirente o dal libraio-venditore, ma non dall’officina tipografica. Invece 46 copie presentano pitture o altri tipi di decorazione che non furono sicuramente eseguite a magonza. una quota abbastanza alta di esse era francese – che Schoeffer intrattenesse relazioni commerciali con Parigi è fatto ben noto (ill. III). Altri esemplari furono chiaramente decorati in Olanda, uno perfino in Inghilterra e parecchi a est di magonza, nella zona sud-orientale di influenza linguistica germanica o nel territorio della Slesia, ora polacca. un esemplare attualmente conservato presso la royal library di Copenhagen proveniva da Strägnäs, in Svezia. Nessuna copia fu decorata in Italia e quindi dobbiamo supporre che le tre precedenti edizioni delle lettere di san Gerolamo

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14. Iniziale decorata ma non istoriata. Girolamo (santo), Epistolae, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Wiesbaden landesbibliothek (Inc. 195), c. [b]1r.

stampate a roma da Sixtus riessinger e da Sweynheym & Pannartz siano state sufficienti, all’epoca, a soddisfare la domanda del mercato italiano. Quanto alle rimanenti copie, ne identifichiamo 33 ascrivibili allo stile decorativo elaborato a magonza, di cui 7 presentano bordi dipinti e iniziali miniate (ill. IV) e 26 hanno iniziali decorate realizzate con gusto e fantasia, benché mostrino un notevole grado di uniformità (ill. V, VI, VII). tutti gli esemplari dipinti e decorati possiedono anche rubriche eseguite da un numero molto limitato di mani, ovviamente incaricate dallo stampatore (ill. VIII). Ci sono poi copie con iniziali dipinte molto simili fra loro nello stile e iniziali miniate eseguite con il medesimo tratto (figg. 12, 13, 14, ill. IX, X, XII). e infine una manciata di copie – alla library of Congress di Washington, a riga e in collezioni private – si distinguono per lo splendore delle loro pitture e decorazioni (fig. 15a, b, c, ill. XII a, b, c). due ragioni ci hanno permesso di legare con sicurezza tutto questo lavoro

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15a, b, c. Iniziali dipinte. dettagli dell’esemplare di riga. © latvian Academy of Science library (Cat. 98).

alla città di magonza. una è una piccola ma sicura informazione diretta. In due esemplari con iniziali decorate (quello custodito presso la Niedersächsische Staats- und universitätsbibliothek di Gottinga, e quello oggi in collezione privata, la cosiddetta copia doheney) l’artista incluse un motivo che non si può interpretare se non come un’allusione alla marca tipografica di Peter Schoeffer (fig. 16a, b). In tutte e due le copie questo motivo compare arbitrariamente da qualche parte nel mezzo del secondo volume, e la sola spiegazione possibile è che l’artista stesse cercando di introdurre una variante nell’interminabile lavoro di decorazione a penna delle iniziali. Inoltre nella copia doheney i motivi delle decorazioni sono combinati con una pittura di livello molto alto, il che dimostra come esistesse un collegamento diretto fra il decoratore, il pittore e Peter Schoeffer (lo stampatore), mentre tutte le altre decorazioni, benché presenti in modo massiccio, non si possono considerare probanti in questo senso poiché sono di inferiore livello artistico. Spia di ciò è la loro assoluta uniformità esecutiva, come mostrano ad esempio i dettagli delle iniziali lombarde, le iniziali più grandi (che indicano le dodici Distinctiones in cui il libro è suddiviso) e perfino i segni di paragrafo. Non c’è dubbio che quelle decorazioni furono realizzate secondo standard predeterminati, e proprio l’uniformità potrebbe essere usata come elemento decisivo per assegnare il lavoro a magonza. Questi interventi decorativi di basso livello sono risultati meno importanti per lo storico dell’arte che per me (avevo capito che, nel loro insieme, erano rivelatori della politica del tipografo). Partendo da questo dato, era infatti possibile concludere che lo stampatore aveva deciso di vendere circa la metà dell’edizione in mercati lontani, dove gli acquirenti avrebbero potuto desiderare di finire il libro secondo standard e gusti propri: avrebbero potuto desiderare, ad esempio, di trasformarlo in un libro “alla francese”, o in un libro più consono alla moda dell’europa Orientale o dei Paesi Bassi. Va detto che lo stile del ca-

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16a. Iniziale contenente la marca tipografica di Peter Schoeffer, Girolamo (santo), Epistolae, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Collezione privata, c. [m]10r.

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16b. Girolamo (santo), Epistolae, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Göttingen, Niedersächsische Staats und universitätsbibliothek (gr., fol., Patr. lat. 118/17 Inc.), c. e1r.

rattere tipografico che Schoeffer aveva disegnato, all’inizio degli anni sessanta del Quattrocento, ben si prestava a tali adattamenti. Si potrebbe anche parlare di uno stile tipografico neutro, dal punto di vista geografico. l’editore decise poi che l’altra metà dell’edizione venisse rubricata con uno stile standard, secondo un modello di produzione locale. una volta che gli esemplari fossero stati, per così dire, sottoposti a questo trattamento, era possibile offrire differenti livelli di esecuzione della fase finale del libro, ad esempio il completamento delle iniziali di maggior dimensione (con bordi dipinti, con lettere dipinte o miniate, oppure, in casi eccezionali, con figure fantastiche, nel solco della popolare tradizione di inserire nei grandi libri religiosi elementi decorativi volutamente distraenti).

L’organizzazione della rubricatura, della decorazione e della miniatura in altri libri di Peter Schoeffer Quello che è diventato evidente, considerando la ricchezza delle decorazioni e delle pitture di questi massicci volumi, è che il livello di organizzazione e gestione degli operatori coinvolti rappresenta in sé stesso una impresa di assoluto rilievo. Partendo dall’esame delle 33 copie dell’edizione di san Gerolamo completate manualmente a magonza, è stato possibile – sia nei livelli di esecuzione artistica più bassi sia in quelli più alti – identificare il lavoro di determinati artisti e forse anche l’influenza di un modello (un manoscritto con un layout e uno stile particolari). Il modo ovvio per mettere alla prova questa idea era di esaminare altri libri stampati da Schoeffer. Ho proseguito da sola questa parte della ricerca, cioè senza König ma con l’immenso aiuto di altri colleghi, grazie agli sforzi dei quali ho compiuto considerevoli progressi, e sebbene il mio stu-

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dio non sia esaustivo come quello condotto per le lettere di san Gerolamo, ho esaminato in totale quasi 400 esemplari di libri impressi da Peter Schoeffer. Ancora una volta è il record bibliografico a segnare i confini della ricerca. Ciò che ho esaminato non è esaustivo, è solo un campione rappresentativo, che prevedo certamente di ampliare. Si tratta di 27 edizioni in-folio stampate da Peter Schoeffer fra il 1467 e il 1479. Alla fine degli anni 17. tommaso d’Aquino, Summa Theologiae. Settanta del Quattrocento Schoeffer coPars secunda prima pars, mainz, Peter Schoefminciò a usare nuovamente i mezzi tipofer, 8 XI 1471 (IStC it00203000). © Würzburg, universitätsbibliothek (Inc. f. 42), c. [a]1r. grafici per gestire il layout e la presentazione del testo. Gradualmente abbandonò la finitura manuale introducendo caratteri di nuovo disegno, e poco dopo il 1480 smise del tutto di stampare per trasformarsi in rivenditore di libri impressi da altri. divenne quindi un libraio all’ingrosso, che importava e distribuiva libri su vasta scala. Sembra quindi ragionevole porre gli ultimi anni Settanta del Quattrocento come limite cronologico di questo studio (si veda APPENDICE 5). Sugli oltre 400 esemplari che ho esaminato, 205 (cioè poco più della metà) non furono completati a mano a magonza. È una proporzione che più o meno coincide con quella della preparazione delle copie dell’edizione di san Girolamo non decorate a magonza. Solo per fornire qualche altro dato numerico: delle 200 copie connesse con magonza, 46 presentano bordi dipinti, iniziali dipinte o miniate, e 125 contengono decorazioni con arabeschi. le altre 29 copie hanno delle rubriche che attribuisco con sicurezza a magonza perché si possono riconoscere e identificare sistematicamente singole mani e ben precisi tratti, così come elementi stilistici generali. Sulla base di questa ricognizione, si può anche stabilire che dopo la partenza del maestro di fust nel 1467, non compaiono bordi né iniziali dipinte prima del 1470; l’uso di questo tipo di decorazione proseguì tuttavia per l’intera decade 1470-1480, anche se con minor frequenza verso la fine del decennio (è ovvio che a magonza erano ancora presenti degli artisti). Alcuni esempi possono illustrare questa evoluzione, iniziando da un livello modesto. Nel primo libro stampato durante questo decennio, compaiono solo decorazioni disegnate a penna. le uniche eccezioni sono un libro decorato dal maestro di fust, e un tommaso d’Aquino stampato nel 1467, in cui oggi si può riconoscere una mano ormai familiare (fig. 17, ill. XIV).

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18. Gregorio IX (papa), Decretales, mainz, Peter Schoeffer, 23 XI 1473, fol. (IStC ig00447000). © Collezione privata.

19. Giustiniano, Codex, mainz, Peter Schoeffer, 26 I 1475, fol. (IStC ij00574000). © 2015, Biblioteca Apostolica Vaticana (Barb. AAA IV 19), c. s5r.

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20. Giustiniano, Codex, mainz, Peter Schoeffer, 26 I 1475, fol. (IStC ij00574000). © london, the British library (C. 11.e.5), c. s5r.

ma a partire dal 1470 la ricchezza delle decorazioni va progressivamente aumentando e le iniziali decorate a penna vennero prodotte a centinaia, ad esempio nelle copie appartenenti all’edizione della Bibbia del 1472 dove la mano, riscontrata anche in molti esemplari del san Girolamo, si fa più libera e sicura. I testi fino ad allora decorati solo a penna acquisiscono anche iniziali miniate, come il Bonifacio del 1473 conservato al Buchmuseum di lipsia. l’apice del lavoro di questi decoratori si incontra senza dubbio nei grandi libri di legge pubblicati fra il 1472 e il 1475, cioè il Codex di Graziano, quello di Gregorio e quello di Giustiniano uscito nel 1475. le copie dei codici di Gregorio e di Giustiniano mostrano una notevole coerenza, come si può vedere confrontando gli esemplari della Bibliothèque Nationale, della Biblioteca Apostolica Vaticana e della British library. l’esempio più affascinante è quello della piccola dama vestita di verde: essa compare nel Gregorius del 1473 – un tempo conservato a Perryville (missouri) – ma anche negli esemplari del Justinianus del 1475 conservati alla Vaticana e alla British library (figg. 18, 19, 20, ill. XV, XVI, XVII). l’osservazione di König sul maestro di fust – e cioè che l’omogeneità dell’esecuzione suggeriva che egli lavorasse sulla base di un modello – era dunque applicabile anche alla produzione degli ultimi artisti attestati a magonza. e infatti, pur nei limiti imposti dallo stile dell’officina, dalle capacità nonché dalle abitudini individuali degli artisti che abbiamo iniziato a distinguere, si individua uno stile ben preciso adottato per testi particolari, ad esempio le iniziali bicolori nel Bonifacio VIII, ma anche l’uniformità esecutiva (quanto alle deco-

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razioni) in molti esemplari delle successive edizioni delle Constitutiones clementinae, o del Codex iuris civilis di Giustiniano e di altre parti del Codex. Il dato più importante, comunque, è che tutto ciò fu progettato e capillarmente organizzato dal tipografo Peter Schoeffer, lo stesso uomo che in società con Johann fust aveva stampato libri con iniziali a due colori e con vaste sezioni del testo impresse a inchiostro rosso, per l’epoca una impresa eccezionale dal punto di vista tipografico. A partire dal 1465 l’impressione in rosso si ridusse di molto, e le iniziali stampate sia in uno che in due colori scomparvero completamente. Peter Schoeffer abbandonò gli artifici della tecnica in favore di quelli organizzativi, affidandosi a una linea di produzione di decoratori e stampatori. Si potrebbe parlare di una parentesi nella storia della stampa12. La legatura Continuiamo ad accompagnare Peter Schoeffer avanzando di un passo nell’allestimento di libri finiti e cioè nella legatura. Ha goduto di ampio credito l’idea che i libri si vendessero ed esportassero in fogli sciolti, ma nel 1971 Vera Sack mise in luce il fatto che esistevano eccezioni a questa regola. In quello stesso anno la studiosa pubblicò infatti un articolo in cui dava conto di 94 legature tutte provenienti dallo stesso laboratorio, localizzato in modo dimostrabile a magonza13. Vera Sack è riuscita anche a documentare un collegamento fra quelle legature e Peter Schoeffer, poiché molte di esse riguardavano libri stampati da lui e riciclavano materiale di scarto proveniente dalla sua tipografia. Questo rilegatore deve essere stato attivo dalla fine degli anni Sessanta del XV secolo fino ai primi anni del XVI. Bisogna sottolineare che nella sua produzione la percentuale di libri rilegati stampati da Schoeffer diminuisce durante gli anni Settanta, fino a sparire quasi completamente negli anni Ottanta, quando, invece, le sue legature sono attestate in libri impressi a Venezia, Basilea, Strasburgo e in altri centri tipografici. È una parabola esattamente parallela a quella della produzione editoriale di Schoeffer, che si interruppe infatti dopo il 1480.

un’ampia riflessione riguardo ai temi di questo paragrafo e di quello seguente si trova in L. HELLINGA, Peter Schoeffer and the book-trade in Mainz. Evidence for the Organization, in Bookbindings & other bibliophily. Essays in honour of Anthony Hobson, ed. by D. E. RHODES, Verona, Valdonega, 1994, pp. 131-183. 13 V. SACK, Über Verlegereinbände und Buchhandel Peter Schöffers, «Börsenblatt für den deutschen Buchhandel-frankfurter Ausgabe», 27, 1971, pp. 2775-2794, poi riproposta in «Archiv für Geschichte des Buchwesens», 13, 1972-1973, coll. 249-288.

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VI. Il mOdellO dI Peter SCHOeffer

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Il nostro legatore lavorò spesso su esemplari di edizioni stampate altrove ma di testi che Peter Schoeffer aveva precedentemente pubblicato, come ad esempio gli enormi volumi di diritto canonico o i testi di patristica (Girolamo e Agostino). la Sack ha dedotto, allora, che questi esemplari facevano parte di uno stock di testi appartenenti a una libreria specializzata e che Peter Schoeffer si fosse trasformato da tipografo a importatore su larga scala di libri stampati, che poi rivendeva già legati. l’esame di una serie di edizioni di Schoeffer disperse in altre collezioni ha consentito di aggiungere alla lista della Sack una ventina di nuove voci, il cui ordinamento cronologico ha rimarcato la progressiva trasformazione di Schoeffer da tipografo-editore a libraio. Per questa parte della ricerca è risultato più complesso sviluppare un metodo fondato, come al solito, sulla notizia bibliografica, poiché essa non include, o non include ancora, un riferimento alle legature. Né posso proporre, in questo saggio, tutti i dati relativi alle 120 – o poco più – legature esaminate. In questa sede allora basti dire che ci sono 25 volumi impressi a magonza che furono rilegati dal legatore di cui stiamo parlando, contro 103 stampati in altri luoghi – principalmente Basilea, Venezia, Strasburgo e Spira – in cui sono ricorrenti i nomi di alcuni tipografi, in particolare Peter drach, michael Wenssler, Vindelino da Spira e Nicolas Jenson. l’attività del legatore raggiunge il picco negli anni Settanta e la produzione di quel periodo include molti libri già stampati da Schoeffer in anni precedenti: Gregorio, Bonifacio, Giustiniano, durand e perfino lo stesso Girolamo. molti di questi libri magontini, e anche una parte di quelli non magontini (in particolare quelli impressi prima del 1480), presentano poi decorazioni con arabeschi o decorazioni dipinte che certamente provengono da magonza. Infine: i dati raccolti ci avvertono che altri libri prodotti dai suddetti editori e le cui legature attuali non rimandano più a magonza – perché sostituite alle originali in epoca successiva – possono ugualmente conservare elementi decorativi nello stile magontino. Scovarli è questione di fortuna. Ad esempio, c’è un Boccaccio impresso nel 1472, a Venezia, da Vindelino da Spira, ora conservato a Jena, e un esemplare del De civitate Dei di sant’Agostino stampato da Giovanni e Vindelino da Spira nel 1470, localizzato a Glasgow: sospetto che entrambi siano stati decorati a magonza14. Questa breve sintesi e la messa a fuoco dell’organizzazione editoriale di GIOVANNI BOCCACCIO, Genealogie Deorum, Venezia, Vindelino da Spira, 1472, fol. (IStC ib00749000), Jena uB, legato con JOHANN BRUNNER, Grammatica Rhythmica, (IStC ib01223000), stampato da Peter Schoeffer a magonza, fra il 1470 e il 1473. AGOSTINO (SANTO), De Civitate Dei, Venezia, Giovanni e Vindelino da Spira, 1470, fol. (IStC ia01233000), Glasgow ul, Hunterian library, By.1.3. 14

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21. Girolamo (santo), Epistolae, [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470 (IStC ih00165000). © Strasbourg, Coll. Bibliothèque Nationale et universitaire (K.1.968. Photogr.), colophon (c. V11v).

VI. Il mOdellO dI Peter SCHOeffer

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Schoeffer ci possono portare a un quadro più completo della struttura che egli dette alla propria impresa commerciale. In società con Johann fust Schoeffer produsse libri meravigliosi, che si distinguevano per l’uso di iniziali a due colori (rosso e blu), il che rappresentava il conseguimento di un alto livello tecnico ancora ai primordi della stampa. Questa tecnologia altamente qualificata venne messa da parte dopo il 1462 per organizzare il lavoro di decoratori, rubricatori e pittori e coordinarlo con quello del torchio. una certa quota di libri stampati venivano infatti finiti a mano. Abbiamo analizzato il caso straordinario delle epistole di san Gerolamo, la cui correzione definitiva del testo costituì anche un’operazione manuale condotta su tutte le copie dell’edizione. Intorno al 1470 Schoeffer iniziò ad acquistare libri stampati da tipografi che lavoravano in luoghi piuttosto distanti, ma anche esemplari di testi che precedentemente avevano fatto parte del suo catalogo di stampatore, così come titoli che non aveva mai pubblicato. tutti questi libri venivano venduti rilegati da un legatore di magonza che operava in società con lui. È chiaro allora che Schoeffer iniziò sempre più ad agire come uno stationarius, un rivenditore, specializzato in particolari settori, ma in grado di maneggiare senza problemi anche altri materiali. l’accrescersi del suo prestigio, legato probabilmente alla nuova attività, lo portò a sacrificare il controllo diretto sulla qualità dei testi avvalendosi di curatori e correttori, visto che le sue priorità erano divenute altre. Quando, dopo il 1480, negli affari di Schoeffer diventa dominante il lavoro di rivenditore, possiamo cogliere, dalla nostra moderna prospettiva, elementi che riconosciamo essere propri di un’organizzazione multinazionale, incluso il principio di assemblaggio a distanza. dal punto di vista storico è più corretto considerare queste dinamiche come un desiderio di espandere la distribuzione di libri realizzati a costo di tanto lavoro e di grandi investimenti. Nella prima decade della stampa si riteneva vantaggioso produrre il più alto numero possibile di esemplari così impegnativi e di renderli appetibili per un mercato più ampio. Offrire flessibilità nello stile di finitura delle copie (nella rubricatura, nella decorazione, nella miniatura e nelle legature) rappresentò una strategia commerciale conveniente sia per i clienti che per i rivenditori. Per un certo periodo di tempo fu redditizio conferire a libri prodotti meccanicamente caratteristiche che li rendessero unici: ecco perché lo studio dei singoli esemplari si rivela così proficuo per delineare il quadro dei primordi della stampa. dopo un’altra decina di anni però, verso la fine degli anni Settanta del secolo, la domanda di finiture personalizzate per i libri deve essere diminuita. Per questo motivo, quindi, si può osservare come Peter Schoeffer, nell’arco di una vita, abbia prima cercato di espandersi sul mercato, stampando grandi tirature e conferendo agli esemplari finiture che li rendessero unici, e abbia in

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un secondo momento abbandonato questa attività mettendosi a vendere libri stampati da altri, che poi collocava nel vasto mercato in cui già si era mosso come tipografo. ma torniamo ancora una volta al san Girolamo, prodotto con così tanto sforzo. una ventina di anni dopo la sua pubblicazione, Schoeffer vendette un Girolamo impresso a Basilea. Questa vendita ci conduce verso la conclusione finale del ragionamento: qualunque fosse il genere di libro con cui Schoeffer aveva commerciato, sia che fossero libri stampati da lui sia che fossero stampati da altri, lo scopo della sua vita fu di avere a che fare con questi libri. Penso spesso a lui come al vero inventore dell’editoria in senso proprio (fig. 21).

VI. Il mOdellO dI Peter SCHOeffer

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APPENDICE 4 Il record di ISTC Author

Hieronymus

Title

epistolae. ed: Adrianus de Brielis

Imprint

mainz: Peter Schoeffer, 7 Sept. 1470

Format



ISTC No.

ih00165000

References

Goff H165; H 8553* (a), 8554* (b); Pell ms 5979 (5967) (a), 5980 (5968) (b); CIBN H-98 (a), H-99 (b); Zehnacker 1159 (b); Polain(B) 1947 (b); IGI VI 4736-A (a); IBP 2783 (b), 2784 (a); IBPort 983; CCIr H-24; Sajó-Soltész 1678 (b); Idl 2298 (b); SI 1921; Kiselev 310, 311 (b), 312 (a); dokoupil 593 (a); Coll(u) 707 (a); madsen 1967 (a), 1968, 1969 (b); Nentwig 211 (a); deckert 361 (a); Sack(freiburg) 1833 (a); Borm 1339; Hubay(Augsburg) 1042 (a); Hubay(Würzburg) 1096 (b); Voull(B) 1521,5 (b); Voull(trier) 884 (a); Schmitt I 1521,5 (b); Schmitt II 1521 (b); Günt(l) 1852 (a), 1853 (b); leuze(Isny) 35 (a); Pad-Ink 341 (b); Kind(Göttingen) 2243, 2244; mitchell(Aberdeen) 1 (a); rhodes(Oxford Colleges) 914 (a); Bod-inc H-086 (a & b); Sheppard 47 (b); Pr 91 (a), 92 (b); BmC I 26 (a & b); BSB-Ink H-246 (a); GW 12424; GW 12425 expand references

Reproductions

electronic facsimile: Bayerische Staatsbibliothek, münchen Click here to visit the website electronic facsimile: Bayerische Staatsbibliothek, München (proofsheet) Click here to visit the website Microfiche: Primary Source Microfilm (an imprint of Cengage Learning), 1992. Incunabula: the Printing Revolution in Europe 1455-1500. Unit 1 Printing in Mainz to 1480, MA 69 & MA 70

Notes

Collation of vol.2 Bodleian copy issue b differs from BMC (Sheppard). There is substantial resetting in the second issue (See BMC). In issue (a) the introduction begins: OMnibus ecclesiastici ordinis deuotis zelatoribus veritatis. In issue (b): OMnes christiane religionis homines

Locations British Isles

London, British Library (C.11.e.13,4 = IC.147, IC.150, IC.150 is issue a, on vellum and C.11.e.13,14 issue b); Aberdeen UL (a); Cambridge, Trinity College (b); Chatsworth (a); Glasgow UL (Hunterian, b); Oxford Bodley (2, a & b); Oxford, New College (a)

Belgium

Antwerpen, MPM (issue a)

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France

Paris BN (4: a, 3 b (2 vellum)); Paris Arsenal (4: 3 a (1 vellum), b); Paris musée des lettres et manuscrits (coll. privée) (a, vellum, formerly doheny, Camarillo); Cambrai Bm (b); metz Bm; SaintOmer Bm (a; in mainz binding Kyriss 160); Strasbourg BNu (b); Versailles Bm (b)

Germany

Aschaffenburg HB (2: a & b, a on vellum); Augsburg SStB (a); Berlin SB (2: b on vellum, fragment of a); Braunschweig StB (a, II, vellum); dresden SluB (a); freiburg i.Br. uB (a); Giessen uB (2, a & 1 proofsheet); Göttingen SuB (2: a & b); Isny NikolaiK (a); Karlsruhe BlB (a, vellum); Kiel uB (a); leipzig dB/Buchm (a, imperfect); leipzig uB (2: a & b, a on vellum); lindau StB (a, II); Mainz GM/StB (b, Ink.a179b); Marburg UB (b, II, wanting first and last leaves, formerly Bursfeld); München BSB (2, complete copy (a) and 1 proofsheet on vell); Paderborn EAB (b, I); Pommersfelden SchönbornB (a); Reutlingen StB (b, in Mainz binding Kyriss 160); Schweinfurt Otto-SchäferB (1 leaf only); Stuttgart WLB (a, in Mainz binding Kyriss 160); Trier StB (a, in Mainz binding Kyriss 160); Wiesbaden HLB (b); Wolfenbüttel HAB (a, in Mainz binding Kyriss 160); Würzburg UB (b)

Italy

Brescia C (a); Vaticano BAV (Stamp.Ross.942-943)

Spain/Portugal

Coimbra BU (a)

Netherlands

Utrecht UB 307 (a, imperfect)

Austria

Bregenz, VorarlbergLB; Klosterneuburg, Chorherren (imperfect, ff.1-198 only; a); Kremsmünster, Benediktiner (fragment, f.1 only, misprint?); Salzburg, UB; Wien, ÖNB (Ink 11.A.20 = GW 12425, issue b, imperfect: wanting 3 leaves, several leaves initials cut away); Zwettl, Zisterzienser (a; Inc.I/3)

USA

Bryn Mawr PA, Bryn Mawr College, Goodhart Medieval Library (b); Chicago IL, The Newberry Library (b); New York NY, Pierpont Morgan Library (b, vell); San Francisco CA, California State Library, Sutro Branch (a, vol II); San Marino CA, The Huntington Library (b, vell); Washington DC, Library of Congress, Rare Book Division (2b, 1 vell); Williamstown MA, Williams College, Chapin Library (a)

Other Europe

Alba Iulia Batthyaneum (a); Basel UB (b); Bern UB (a, imperfect); Beromünster Stift (a, in Mainz binding Kyriss 160 and price ‘cost x gl’); Brno UKn (b, imperfect); Budapest Univ (b, imperfect); Copenhagen RL (3: a, 2 b of which 1 imperfect); Kraków J (a); Mogiła C (b); Moscow SL (3: a, 2 b (1 vellum)); Poznań Racz (b); Prague NL (b); Riga Akad (b); St Petersburg NL (2, b); Stockholm Swedish anonymous institution (imperfect); Uppsala UB (a); Warszawa N (b); Warszawa Sem (b); Wrocław Kap; Wrocław U (2, a)

VI. Il mOdellO dI Peter SCHOeffer

Doubtful

171

Perryville mO, St mary’s Seminary ((b); sold Christie’s (NY) 14 dec. 2001: whereabouts unknown); emilio Valton, mexico City copy (b): whereabouts unknown; Soubise-la Vallière copy (vellum, mixed), sold Christie’s (london) 7 June 2000 lot 105; sold again reiss & Sohn 10 may 2011 lot 1991.

172

fAre uN lIBrO Nel QuAttrOCeNtO

APPENDICE 5 Rubriche e decorazioni nelle edizioni di Peter Schoeffer dal 1467 al 1479 Anno

edizioni

rubriche di magonza

decorazioni a penna

decorazioni dipinte

1467

tommaso d’Aquino (IStC it00209000) Clemente V (IStC ic00711000) Giustiniano (IStC ij00506000) tommaso d’Aquino (IStC it00168000) Bonifacio VIII (IStC ib00978000) Girolamo (IStC ih00165000) mammotrectus (G. marchesini, ISCtim00232000) Valerio massimo (IStC iv00023000) ClementeV (IStC ic00713000) tommaso d’Aquino (IStC it002030009) Bibbia latina (IStC ib00536000) Graziano (IStC ig00362000) Giustiniano (IStC ij00508000) Bonifacio VIII (IStC ib00981000) Agostino (IStC ia01240000)

 

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decorazio- totale ni non di magonza 11 26

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1477 1478

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Gregorio IX (IStC ig00447000) Henricus de Herpf (IStC ih00039000) Giustiniano (IStC ij00574000) Bernardo di Chiaravalle (IStC ib00436000) Bonifacio VIII (IStC ib00985000) Giustiniano (IStC ij00512000) Clemente V (IStC ic00721000) Decisiones Rotae Romanae (IStC ic00721000) Giustiniano (IStC ij00589000) Paolo di Santa maria (IStC ip00205000) Bartolomeo Caimi (IStC ib00157000) Gregorio IX (IStC ig00451000)

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3

ILLUSTRAZIONI

I. un maestro con i suoi allievi prima dell’invenzione della stampa. raccolta di testi per la scuola secondaria esemplata nel XIV secolo. © london, the British library, ms Burney 275, fol. 176v.

II. San Girolamo al suo tavolo di lavoro. Iniziale istoriata. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Würzburg, universitätsbibliothek (I.t.f.9.), c. [a]1r.

III. esemplare decorato in stile francese. Shoeffer donò questo esemplare all’Abbazia di San Vittore a Parigi.Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © París, Bibliothéque de l’Arsenal (Gr. fol. H13), c. [a]1r.

IV. esemplare decorato in stile magontino. I suoi primi possessori furono i Certosini di Coblenza. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Bibliothequé de Versailles (Inc. f 11 e Inc. f 12), c. [a]1r.

V. Prima pagina, con iniziali e motivi vegetali in stile magontino. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Strasbourg, Coll. Bibliothèque Nationale et universitaire (K.1.968. Photogr.), c. [a]1r.

VI. dettaglio della decorazione di un’iniziale dell’esemplare di Strasburgo. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Strasbourg, Coll. Bibliothèque Nationale et universitaire(K.1.968. Photogr.), c. I7r.

VII. esempio di decorazione con piccola iniziale contenente un motivo a grottesche. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Collezione privata.

VIII. Confronto con lo stile di rubricatura dell’esemplare di Strasburgo: si tratta infatti della stessa pagina, c. [b]1r, ma nell’esemplare conservato a Stoccarda. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Stuttgart, Wüttembergische landesbibliothek (Inc. 195.), c. [b]1r.

IX. Iniziale istoriata e decorata. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © deutsches Buch- und Schriftmuseum der deutschen Nationalbibliothek leipzig, Klemm-Sammlung (II 1, 3 d), c. [b]1r.

X. Iniziale istoriata e decorata, con motivi vegetali dipinti. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © london, the British library (C. 11.e.13), c. [b]1r.

XI. Iniziale decorata ma non istoriata. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Wiesbaden landesbibliothek (Inc. 195), c. [b]1r.

XIIa, b, c. Iniziali dipinte. dettagli dell’esemplare di riga. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © latvian Academy of Science library (Cat. 98).

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XIIIa. Iniziale contenente la marca tipografica di Peter Schoeffer. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Collezione privata, c. [m]10r. XIIIb. Girolamo (santo), Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). © Göttingen, Niedersächsische Staats und universitätsbibliothek (gr., fol., Patr. lat. 118/17 Inc.), c. e1r. XIV. tommaso d’Aquino, Summa Theologiae. Pars secunda prima pars, mainz, Peter Schoeffer, 8 XI 1471 (IStC it00203000). © universitätsbibliothek Würzburg (Inc. f. 42), c. [a]1r.

XV

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XV. Gregorio IX, Decretales, mainz, Peter Schoeffer, 23 XI 1473, fol. (IStC ig00447000). © Collezione privata. XVI. Giustiniano, Codex, mainz, Peter Schoeffer, 26 I 1475, fol. (IStC ij00574000). © 2015, Biblioteca Apostolica Vaticana (Barb. AAA IV 19), c. s5r. XVII. Giustiniano, Codex, mainz, Peter Schoeffer, 26 I 1475, fol. (IStC ij00574000).© london, the British library (C. 11.e.5), c. s5r.

XVIII. la Bibbia di Gutenberg (IStC ib00526000) – nell’esemplare posseduto dall’Harry ransom Humanities resarch Centre di Austin (B 42 I), c. [160]v – aperta in corrispondenza della fine del libro II dei re e dell’inizio del libro III. Sono chiaramente visibili: esempi di correzioni manoscritte, indicazioni per il lettore e, lungo il margine sinistro, lettere e numeri romani. Si notano anche – alle righe 9 e 34 della colonna ß – due dei sei flexa presenti nel testo: si tratta di un’alterazione manoscritta che ha trasformato alcuni apostrofi in un segno grafico somigliante al numero 7, ottenuto aggiungendo un breve tratto orizzontale alla parte superiore dell’apostrofo stesso. © Harry ransom Humanities resarch Centre. the university of texas at Austin.

VII. L’EDIZIONE DEI TESTI NEL PRIMO QUINDICENNIO DELLA STAMPA

l’incunabolista che dichiarasse il suo interesse per i testi e la loro trasmissione si troverebbe in una strana posizione: sono tutto sommato poche le opere stampate nel XV secolo che richiamano in qualche modo l’interesse di filologi o storici della letteratura. le ragioni di questa mancata attenzione non sono difficili da individuare. Gli anni sullo scorcio del secolo furono un’epoca ricca di invenzioni, di grande espansione e rinnovamento tecnologico ed economico, ma non conobbero un’equivalente creatività letteraria. la maggior parte dei testi prodotti a quell’altezza cronologica esercitano su di noi un’attrattiva modesta, o quanto meno non invogliano a condurre indagini sulle minutiae della loro littera. molti degli autori attivi in quegli anni sono ora completamente dimenticati: i professori universitari, ad esempio, abituati ad allestire testi per i propri corsi, sono scomparsi rapidamente dalla circolazione dopo la grande riforma scolastico-educativa del XVI secolo. Stessa sorte è toccata a quegli autori le cui opere – sermoni encomiastici o versi troppo di maniera per le nostre orecchie – traevano la loro ragione d’essere da eventi contemporanei e contingenti. Spesso si ricordano gli autori dell’epoca – quelli, in particolare, i cui scritti vennero diffusi dai primi torchi – non tanto per i testi in se stessi, quanto, piuttosto, per le circostanze che li collegarono ai tipografi. e quando questi legami sono stati oggetto di indagine, è risultato che gli stampatori, di solito, hanno svolto la parte dei protagonisti. Non si tratta probabilmente di una coincidenza quanto, invece, di una tendenza, che mostra la propensione degli incunabolisti a interessarsi più ai tipografi e alle dinamiche di lavoro nelle officine che ai testi. Guillaume fichet, ad esempio, rettore della Sorbona, è stato oggetto di studio in quanto fondatore della tipografia della Sorbona. Nel 1470, anno della sua fondazione, questa tipografia pubblicò la Rhetorica del fichet, un’opera che con le sue varianti e i suoi stati diversi lancia al moderno bibliografo una sfida

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tutta speciale1. Jeanne Veyrin-forrer arrivò alla conclusione che fichet, traboccante di idee, doveva andare e venire in continuazione dalla tipografia, facendo fermare i torchi per introdurre varianti al testo, aggiungendo prefatorie e dedicatorie indirizzate a capi di stato o altri personaggi di spicco, e comunque, in generale, interferendo pesantemente con il lavoro del tipografo. Non è tuttavia mia intenzione criticare la Veyrin-forrer quando affermo che il suo studio sugli in-quarto stampati su mezzi fogli fu un lavoro pionierisitco, mentre non lo è stato altrettanto quello sulle varianti testuali introdotte dal fichet. Il fatto è, semplicemente, che né lei né nessun altro è davvero interessato al testo della Rhetorica di Guillaume fichet2. un atteggiamento simile è rilevabile anche nei confronti del testo di uno dei grandi storici dell’epoca, Werner rolewinck, che collaborò con vari tipografi a Colonia per pubblicare la sua cronaca universale, il Fasciculus temporum, che richiedeva un’impaginazione molto complessa. la sequenza delle edizioni del Fasciculus ha suscitato l’interesse di parecchi bibliografi, di margaret Bingham Stilwell in particolare, che ha individuato nella successione delle edizioni la soluzione graduale di un complicato problema di impaginazione, a cui, nel tempo, pose rimedio – almeno così sembrerebbe – Johann Veldener, un tipografo oggi considerato come il più prolifico e innovatore fra quanti operarono alla sua epoca nella regione di Colonia3. Benché sia opinione comune che rolewinck non fosse soddisfatto dei primi risultati e che migliorò la qualità dell’edizione solo grazie alla propria perseveranza, il testo vero e proprio della sua opera ha ricevuto ben poca attenzione. e ciò spiega come sia passata quasi inosservata una variante testuale tanto decisiva come quella che compare nella seconda edizione del Fasciculus, stampata a Colonia da Arnold ther Hoernen nel 1474. mentre infatti la maggioranza degli esemplari dell’edizione, sotto l’anno 1450 legge: «Artifices mira celebritate subtiliores solito fiunt. et impressores librorum multiplicantur in terra», dando per scontato che la stampa fu inventata in quell’anno e che il numero di tipografi si moltiplicò sulla terra (osservazione che manca nella prima edizione del testo), esiste una variante di stampa, riscontrata solo in pochi esemplari, che aggiunge: «Ortum sue artis habentes in GUILLAUME FICHET, Rhetorica, [Paris, ulrich Gering, martin Crantz e michael friburger, luglio 1471], 4° (IStC if00147000). 2 J. VEYRIN-FORRER, Aux origines de l’imprimerie française, l’atelier de la Sorbonne et ses mécènes (1470-1473), in EAD., La lettre et le texte. Trente années de recherches sur l’histoire du livre, publié avec le concours du Centre National des lettres, Paris, ecole normale supérieure de jeunes filles, 1987, pp. 161-187. 3 WERNER ROLEWINCK, Fasciculus temporum, leuven, Johann Veldener, 29 XII [1475], fol. (IStC ir00256000). 1

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maguncia», vale a dire «poiché magonza è il luogo in cui è nata la sua tecnica». Si tratta di una variante occorsa durante la stampa, non c’è dubbio, ma si tratta di un’aggiunta o di un’omissione? Non si assiste qui, piuttosto, a una conversazione fra l’autore e alcuni esperti presenti in tipografia sul tema dell’invenzione della stampa, come in effetti ha tutta l’aria di essere accaduto? Qualunque risposta si voglia dare a questa domanda insolubile, resta il fatto che la variante è parte integrante nello sviluppo del testo dell’autore. eppure, il testo con le sue due varianti, anche se è un testimone della disputa sull’invenzione della stampa – una controversia su cui si sono esercitate molte generazioni – è stato trattato con indifferenza (fig. 22a, b)4. molti testi stampati nel XV secolo appartengono al grande patrimonio della letteratura europea: Omero, Virgilio, Ovidio, Orazio. In realtà tutti i grandi autori classici conobbero numerose edizioni a stampa in questa epoca, così come le opere in volgare di autori più moderni quali dante, Petrarca, Boccaccio e Chaucer. Non può essere una coincidenza che, tranne piccole eccezioni, le edizioni in cuna di opere così famose siano considerate dai filologi prive di interesse, testimoni poco affidabili nel processo di trasmissione testuale, perché soggette a disinvolte manipolazioni. la cattiva reputazione di cui esse godono fra i moderni filologi deriva da un curioso fraintendimento. Queste edizioni erano a stampa e quindi si presentavano in una veste familiare per tutti i filologi moderni, il cui lavoro si può dire abbia avuto inizio nei primi anni del Novecento. Proprio perché questi testi del XV secolo apparvero in una forma così moderna e familiare, la loro importanza in quanto testi – e in quanto testimoni preziosi per la filologia testuale e l’ecdotica – è stata valutata attraverso criteri moderni, anche in tempi recenti. Ovvio, allora, che queste opere ci deludano se giudicate con standard così anacronistici, ma non bisogna dimenticare che esse furono prodotte esattamente in un’epoca che inaugurò una disponibilità crescente di testi, circostanza che, a sua volta, portò a una ben più vasta conoscenza critica. È vero che solo raramente un testo del Quattrocento può fungere da testimone affidabile di tradizioni anteriori, ma vale comunque la pena di capire il fenomeno nella sua corretta dimensione, perché solo così è possibile mettere a fuoco più da vicino la cultura di un certa epoca. Questa costante sottovalutazione del testo e il conseguente disinteresse nei suoi confronti hanno favorito una visione riduttiva del fatto che, una volta impresso, esso acquisisce una forma standard fin dalla prima edizione e quindi una seconda o una successiva edizione si appoggeranno inevitabilmente alle WERNER ROLEWINCK, Fasciculus temporum, Köln, Arnold ther Hoernen, 1474, fol. (IStC ir00254000). uno degli esemplari della Koninklijke Bibliotheek dell’Aja – 170.B.12 – contiene la versione ampliata della sull’origine della stampa.

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22a. Variante occorsa in tipografia: Werner rolewinck, Fasciculus temporum, Köln, Arnold ther Hoernen, 1474, fol. (IStC ir00254000). © den Haag, Koninklijke Bibliotheek (170 B 33), c. gr, col. α, l. 7.

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22b. esemplare senza la variante: Werner rolewinck, Fasciculus temporum, Köln, Arnold ther Hoernen, 1474, fol. (IStC ir00254000). © den Haag, Koninklijke Bibliotheek (170 B 12), c. gr, col. α, l. 7.

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precedenti. Bisogna dunque concludere che l’introduzione della stampa portò a forme lineari di trasmissione dei testi, che comportarono la loro standardizzazione e stabilizzazione creando un textus vulgatus o receptus5. un esame più dettagliato di diversi passi di opere stampate nel XV secolo, così come un maggior sforzo per comprendere il metodo di lavoro e gli intenti dei primi tipografi ed editori, rivelano procedimenti in realtà molto più meticolosi e complessi. l’analisi di una serie di opere pubblicate in varie edizioni – in latino ma anche in volgare – mostra come la principale preoccupazione dei tipografi fosse quella di proporre un testo nella forma più completa possibile. esistono fonti – i tipografi si chiedevano – in grado di offrire il testo in una versione migliore? È in questa prospettiva puramente commerciale – la clientela avrà motivo di lamentarsi? – che si trova l’espressione più chiara di ciò che, a noi moderni, potrebbe apparire come un’attenzione particolare verso la volontà dell’autore. Visto però che l’interesse per l’originale non sembra rientrare fra gli obiettivi dei prototipografi, possiamo cadere facilmente nell’equivoco di interpretare questa sollecitudine come una forma di rispetto per l’integrità dell’opera dell’autore. l’altra vera preoccupazione dei tipografi, invece, era quella di presentare il testo come nuovo. ma nuovo non nel senso che si pretende sia stato scritto il giorno prima – anche se da Omero o Viriglio – oppure che rifletta il più accuratamente possibile le intenzioni dell’autore; nuovo va inteso nel senso di perfetto, che nei secoli non è stato corrotto dal passaggio da una copia a un’altra; nuovo perché possiede la freschezza di una novità, che riesce a fare colpo immediatamente sul lettore6. esiste però un’importante eccezione a questo tipo di procedura: il testo sacro dell’epoca per eccellenza, la Biblia latina, con la sua longeva influenza sulla liturgia, esula da questa logica. Nel caso specifico, si assiste infatti a un processo di stabilizzazione del testo, iniziato non appena fu stampata la princeps nel 1455, anche se ci sono stati alcuni tentativi di introdurre correzioni in edizioni del tardo Quattrocento. Questi tentativi costituiscono i primi, e ancora incerti, passi che avrebbero poi condotto alla moderna critica testuale. Paul Needham si accorse di correzioni e modifiche nell’esemplare della Bibbia delle 42 linee E. J. KENNEY, The classical text, pp. 18-19. Questa idea è stata fortemente sostenuta e diffusa da elisabeth eisenstein in The printing press (trad. it: La rivoluzione inavvertita). riguardo il miglioramento dei testi – e in particolare quello delle edizioni delle Orationes ciceroniane successive alla princeps, in cui furono aggiunte alcune parti mancanti – si vedano le mie riflessioni in Texts in transit, pp. 228-253. 6 Ho discusso la questione, corredando il ragionamento con alcuni esempi, nel mio articolo Manuscripts in the Hands of Printers, in Manuscripts in the Fifty Years after the Invention of Printing. Some Papers Read at a Colloquium at the Warburg Institute on 12-13 March 1982, ed. by J. B. TRAPP, london, the Warburg Institute, university of london, 1983, pp. 3-11. 5

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che servì come testo base per una successiva edizione pubblicata a Strasburgo7. A margine del lavoro di Needham, ho suggerito che un esame di queste correzioni dovrebbe tener conto dei movimenti di riforma monastica e delle possibili connessioni con il testo della Biblia latina8. Il modello che meglio documenta i metodi di edizione testuale in tali circostanze è costituito dalla Bibbia manoscritta di tommaso da Kempis – ora conservata a darmstadt – la quale, essendo stata compilata attraverso la collazione di fonti etereogenee, rispecchia alcuni degli intenti del movimento di spiritualità di Windesheim. la Bibbia delle 42 linee posseduta dall’Harry ransom Humanities Center di Austin in texas è ricca di annotazioni, correzioni e inserzioni9 (ill. XVIII). le note manoscritte dichiarano in modo esplicito che il testo venne allestito per una lettura quotidiana da svolgere nel refettorio del monastero. tutti i più importanti movimenti di riforma monastica furono particolarmente interessati all’uniformità della liturgia quotidiana all’interno della congregazione – la consonancie conformitas, come venne chiamata dai seguaci del movimento di Windesheim – e dunque anche all’uniformità della Vulgata, il testo-base per la liturgia. le note vergate sull’esemplare di Austin testimoniano questo processo di preparazione per la lettura comunitaria da svolgere nell’ambito degli usi di un certo ordine religioso, ma testimoniano anche l’interazione diretta con la cultura orale proprio nel momento in cui fece la sua prima apparizione il nuovo strumento della stampa. l’uniformità del testo della Biblia latina come base per una liturgia comune costituì, probabilmente, un impulso a fare della nuova invenzione della stampa uno strumento di successo. la prima Bibbia a stampa non dovette però soddisfare le esigenze di tutti gli ordini religiosi, come suggerisce la sua assenza dalle case di certe congregazioni. l’esemplare di Austin è un testimone raro – se non addirittura unico – che documenta il caso di una correzione destinata ad altri usi. Può tornare utile, mentre si esamina questa opera di correzione, aver presente la Bibbia di tommaso da Kempis e i manoscritti a essa collegati, che testimoniano una correzione del testo biblico derivata dagli usi e dalla spiritualità del movimento di Windesheim. Nelle tracce lasciate dai primi lettori della Bibbia di Austin – ad esempio le prime decorazioni delle iniziali, la scrittura delle note più informali – si

P. NEEDHAM, A Gutenberg Bible used as Printer’s Copy by Heinrich Eggestein, c. 1469, «transactions of the Cambridge Bibliographical Society», 9/I, 1986, pp. 36-75. 8 L. HELLINGA, Three notes on printer’s copy: Strassburg, Oxford, Subiaco, «transactions of the Cambridge Bibliographical Society», 9/II, 1987, pp. 192-204. 9 Questa Bibbia – Biblia latina, 42 linee, [mainz: tipografo della Bibbia delle 42 linee (Johann Gutenberg) e Johannes fust, 1455 circa], fol., (IStC ib00526000) – fu presentata per la prima volta ad Austin, nel 1989, durante la lecture annuale. 7

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riscontrano elementi che sembrano portare verso l’area di Colonia, laddove, invece, l’uso frequente dei flexa come segno di interpunzione potrebbe indicare un collegamento con la congregazione di Windesheim10. Per comprendere, dunque, appieno le prime vicende della copia di Austin e la sua vera funzione, non c’è dubbio che sia necessaria un’analisi aggiuntiva condotta da esperti di questi vari aspetti della cultura Quattrocentesca. la prima regola per i tipografi – la completezza del testo – implicava un processo di selezione senza sosta: versioni abbreviate o incomplete dei testi venivano rigettate, in favore di quelle che si ritenevano integrali. Accadeva anche che si stampassero, un tipografo all’insaputa dell'altro e pressoché simultaneamente, versioni indipendenti di un medesimo testo. In questi casi è interessante stabilire quale fra i testi sia il meglio piazzato nella gara per la sopravvivenza e la diffusione; di solito si tratta di quello impresso nella tipografia più autorevole o in quella che poteva contare su più ampi canali di distribuzione. fare ricorso alle leggi della selezione naturale è una tentazione costante, e certamente i fattori che determinano la sopravvivenza di un testo non sono meno complessi di quelli che detta la natura per le specie viventi. Non è mia intenzione dilungarmi in questi giudizi così generali. mi propongo, al contrario, di mettere a fuoco più da vicino alcuni aspetti che consentono 10 Con flexum si intende un segno di punteggiatura che indica una pausa. Graficamente simile al numero 7, si ottiene aggiungendo un breve tratto orizzontale alla parte superiore di un apostrofo [n.d.t.]. Per una descrizione delle particolarità dell’esemplare posseduto dall’Harry ransom Humanities Center si rinvia a W. B. TODD, The Gutenberg Bible. New Evidence of the Original Printing, the third Hanes lecture, Chapel Hill, NC, university of North Carolina Press, 1982. todd intese la presenza dei flexa come indizio di proprietà e uso del volume in seno a una comunità cistercense. A metà del XV secolo l’uso dei flexa era stato adottato da altri ordini monastici. Johan Peter Gumbert ha delineato brevemente la storia dell’uso di questo segno nella sua dissertazione Die Utrechter Kartauser und ihre Bücher; im frühen fünfzehnten Jahrhundert, leiden, Brill, 1974. I Cistercensi, così come fecero anche i Certosini, derivarono l’uso del flexum dai Benedettini di molesmes, e più tardi il loro esempio fu seguito dai copisti della congregazione di Windesheim, i quali se ne servirono per indicare la punteggiatura dei testi che dovevano essere letti ad alta voce (ringrazio per il riferimento Pieter f. J. Obbema). Bonaventura Kruitwagen, O.f.m. – molto esperto della scrittura usata dai canonici regolari della Congregazione dei fratelli della vita comune e anche di quella sviluppata a Windesheim – esaminò la funzione del flexum nel suo saggio De drie soorten van fratersschrift: fractura, rotunda, bastarda, in ID., Laat-middeleeuwsche paleografica, paleotypica, liturgica, kalendalia, grammaticalia, den Haag, martinus Nÿhoff, 1942, pp. 64, 70, 72. un’ulteriore riflessione riguardo il ruolo di questo segno di punteggiatura, così come lo usò tommaso da Kempis, si trova in L. M. J. DELAISSÉ, Le manuscrit autographe de Thomas à Kempis et “L’Imitation de Jésus Christ”: examen archeologique et edition diplomatique du Bruxellensis 5855-5861, II, Paris-Bruxelles, erasmé: Standaard Boekhandel, 1956, p. 165 (si vedano anche le relative illustrazioni).

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di cogliere, negli anni dei paleotipi, un momento della transizione del testo dalla sua versione manoscritta a quella stampata, al fine di acquisire una maggior conoscenza dei metodi e degli standard adottati nelle più antiche tipografie. Ciò che in questa sede mi preme evidenziare è soprattutto una questione di percezione e di come si indirizza la propria percezione al testo, più che un’analisi dei procedimenti tecnici usati nelle tipografie o di quel breve lasso di tempo in cui testo manoscritto e stampato interagiscono. Inizierò con un esempio che riguarda uno dei primi libri impressi a magonza, il Rationale Divinorum Officiorum di Guillaume durand, stampato nel 1459 da fust e Schoeffer, dopo che ebbero completato le loro prime edizioni dei salmi11. Il Durandus è uno di quei libri impressi a magonza che si conservano unicamente in esemplari stampati su pergamena. la sola eccezione è rappresentata dalla copia della Bayerische Staatsbibliothek di monaco, che è stampata quasi integralmente su carta. Pochi anni fa, allorché ebbi l’opportunità di esaminare questo esemplare, mi resi conto che non venne stampato su carta per caso: sedici pagine di quella copia contenevano infatti note e scarabocchi riconducibili ai segni apportati dai correttori di bozze (fig. 23). Poiché, però, tutto il libro presentava anche note manoscritte dei lettori, è chiaro che le bozze furono usate per confezionare un esemplare completo. Per saperne di più sulla natura delle correzioni e su come esse vennero eseguite, ho confrontato le foto della copia di monaco con i due esemplari del Rationale posseduti dalla British library. le correzioni, che in questo caso specifico entrano straordinariamente nel dettaglio, indicano cosa fosse davvero importante per chi stava producendo il libro. Ne ho trovate in tutto 150, che possono essere ripartite in due categorie. In primo luogo si segnalano banali errori tipografici – ad esempio caratteri capovolti, che necessitavano di correzione, o allineamento errato dei tipi – ma si trovano anche richieste di cambiare polizza, richieste di sostituzione di politipi con caratteri singoli o di variazione di abbreviature e contrazioni. Compaiono altresì indicazioni per ridurre gli spazi o, al contrario, per inserirne. Nel complesso si tratta di osservazioni meramente tecniche, non c’è dubbio, ma quel correttore dimostrò di avere un occhio attento anche per le minutiae del testo. egli propose infatti anche molte variazioni alla punteggiatura, ad esempio eliminando o inserendo punti; ebbe ben precise preferenze ortografiche; segnalò errori di lettura dell’exemplar, derivanti forse dalla sostituzione di una parola con un’altra (ad esempio vinum che diventa unum) oppure dal cambio dell’ordine delle parole, da imputare probabilmente a un’erronea interpretazione di una correzione nella copia di GUILLAUME DURAND Rationale divinorum officiorum, [mainz]: Johann fust e Peter Schoeffer, 6 X 1459, fol. (IStC id00403000).

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23. l’esempio più antico a oggi noto di correzioni vergate su una bozza di stampa. Si tratta del Rationale divinorum officiorum di Guillaume durand del 1459 (IStC id00403000). © Bayerische Staatsbibliothek münchen (2 Inc.c.a. 2, fol. xx), c. s7v.

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tipografia; talvolta vennero inserite nel testo parole apparentemente dimenticate. Alcune di queste correzioni imposero la ricomposizione delle linee tipografiche. Non mancò anche l’indicazione di errori ben più gravi: il correttore si accorse, ad esempio, che era andata perduta completamente una riga, slittata 25 linee al di sotto della sua originale collocazione. l’errore venne segnalato attraverso un sistema di crocette e righe che ancora oggi potrebbe essere compreso con facilità da un compositore moderno, come d’altra parte la maggioranza degli altri segni di correzione. Queste prime conclusioni riguardano soprattutto gli aspetti pratici del lavoro di tipografia. lo studioso moderno potrebbe restare molto sorpreso nel constatare che le bozze recavano un testo stampato perfettamente in due colori – rosso e blu – e che avevano un aspetto molto diverso da quello grezzo che, solitamente, si associa alle prove di stampa. riguardo alle correzioni del Rationale, esistono indizi che portano a ritenere che la lettura delle bozze e il processo di stampa avessero luogo pagina per pagina, in modo tale che ciascun foglio passasse almeno quattro volte sotto i torchi, e anche di più se la stampa era a colori. una correzione, in particolare, dimostra poi che una pagina dovette necessariamente essere composta dopo l’ultima correzione apportata in quella precedente (si tratta di un’affascinante istantanea, in tempo reale, della sequenza di stampa). ma in questa sede l’attenzione non è rivolta alle procedure di tipografia, quanto, piuttosto, allo zelo mostrato nelle officine per offrire una corretta presentazione del testo. da questo punto di vista si può giungere solo a una conclusione di carattere generale: la cura per la presentazione del testo giunse a un grado tale di acribia che divenne un’ossessione, motivata sia dalla preoccupazione di arrivare alla versione più corretta del testo (in relazione al suo exemplar) sia da tutto ciò che riguardava, specificamente, questioni tipografiche. Non sono in grado di dire fino a che punto tale impegno profuso per la qualità del testo incise sulla fortuna della sua trasmissione. Per quanto a me noto, non esiste uno studio dettagliato sul testo di Guillaume durand12. Sono giunta a una conclusione molto simile anche per le bozze di un altro libro di poco posteriore al Rationale e impresso a magonza dalla medesima officina. Si tratta dell’edizione delle Decretales di papa Bonifacio VIII, stampate da fust e Schoeffer nel 146513. Anche in questo caso abbiamo un’edizione che ci è giunta principalmente in copie pergamenacee, ma sopravvivono due

Per una riflessione più dettagliata sulle bozze del Rationale si veda L. HELLINGA, Proofreading in 1459: the Munich copy of Guillelmus Durand rationale, in Ars impressoria, pp. 183-202. 13 BONIFACIO VIII (PAPA), Liber sextus Decretalium, comm. Giovanni d’Andrea, mainz, Johann fust e Peter Schoeffer, 17 XII 1465, fol. (IStC ib00976000). 12

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esemplari stampati su carta, uno (che non ho esaminato) conservato presso la biblioteca pubblica di treviri, l’altro presso la John rylands university library a manchester14. esaminando l’esemplare di manchester mi sono imbattuta in quattro pagine che recavano correzioni di bozza. È difficile stabilire con certezza se le mani incontrate in questo esemplare siano le stesse che emendarono il Rationale del durand – a conti fatti direi di no – ma il metodo di correzione sembra essere del tutto simile. le Decretales recano un minor numero di correzioni (e quelle presenti sono di natura meno varia) ma, al pari del Rationale, costituiscono un esempio di ottima qualità di stampa, per nulla allo stato grezzo ma, anzi, all’apparenza definitivo: è come se le bozze fossero state una prova generale in vista della produzione finale del libro. trattandosi di un testo circondato dal relativo commento, le costituzioni pontificie di Bonifacio VIII presentano un’impaginazione più complessa di quella del durand. la correzione più rilevante che contengono è di natura puramente testuale ma, dal momento che quella correzione incise sullo spazio, ebbe conseguenze anche sul layout. due righe, tralasciate per errore, vennero infatti inserite nella prima colonna della glossa a carta 11 verso, operazione che fece slittare altre due righe in cima alla seconda colonna. le brevi linee del commento, parallele al testo, dovettero pertanto essere risistemate e suddivise in maniera diversa, con il risultato che le due righe finali della seconda colonna passarono nella pagina seguente (12 recto). lo spostamento si svolse correttamente, come si può verificare nell’edizione completa, ma – cosa piuttosto sorprendente – venne eseguito anche sulla carta 12 recto della bozza. In questo caso, come d’altra parte in quello del Rationale, è dimostrabile che la stampa delle bozze avvenne pagina per pagina, e che non si procedeva a comporre una pagina fino a che quella precedente non fosse completamente terminata. Come per il durand, anche per le Decretales risulta difficile non concentrarsi esclusivamente sulle implicazioni tecniche che tali procedimenti comportavano per l’officina tipografica ed è altrettanto difficile considerare l’accaduto soprattutto come un esempio della cura riposta nella produzione del testo. Capire bene in cosa consistesse l’impegno per ottenere un testo corretto può essere utile per approcciare anche una questione tanto spinosa quanto controversa: quella che riguarda la stampa del Catholicon di magonza15.

manchester, John rylands university library, 9001. la riproduzione di una delle sue carte si può trovare in L. HELLINGA, The Rylands incunabula: an international perspective, «Bulletin du Bibliophile», 1989, pp. 34-35, fig. 3. 15 GIOVANNI BALBI, Catholicon, [mainz, tipografo del Catholicon], 1460, ma registrato anche come [Johann Gutenberg?], 1460 e [fra il 1460 e il 1472 circa], fol. (IStC ib00020000). 14

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In questa sede preferisco non addentrarmi nella vicenda, limitandomi piuttosto a riassumerla a grandi linee. dunque: il Catholicon magontino è sopravvissuto in esemplari impressi su tre differenti tipi di carta e su pergamena, ma contenuto e composizione tipografica sono pressoché identici. Proprio l’identificazione dei tre diversi tipi di carta ha permesso di accertare l’esistenza di tre emissioni di questa corposa opera. la carta si distingue grazie a tre filigrane che identificano, a loro volta, tre distinte tipi di carta negli esemplari, con rarissimi casi di “contaminazione”. le filigrane presentano una testa di toro (che corrisponde a una risma di carta documentata nell’officina di Gutenberg già agli inizi degli anni Sessanta) e due motivi che faranno la loro comparsa più tardi, fra il 1469 e il 1470: si tratta rispettivamente della lettera G (che identifica la carta fabbricata dai fratelli Antonio e michele Galliziani in un mulino nei pressi di Basilea) e del motivo della torre abbinato alla corona accertati in un gruppo di esemplari del Catholicon16. le varianti – rare e poco divergenti – coincidono con le diverse forniture di carta su cui fu stampata l’opera. le copie impresse su carta recante filigrana con testa di toro hanno le stesse caratteristiche di quelle impresse su pergamena. la disputa sulle possibili interpretazioni delle poche varianti e del celebre – quanto enigmatico – colophon del Catholicon, ruota intorno a due questioni: il curioso fenomeno dell’uniformità quasi assoluta della composizione tipografica e l’identificazione di tre distinti tipi di carta derivano da un avanzamento tecnologico oppure da una migliore struttura organizzativa all’interno dell’officina? fra il 1980 e il 1982 si giunse a constatare che ci fu un sostanzioso gap temporale nella produzione dei tre tipi di carta riscontrati nell’edizione. Nel 1982 Paul Needham tentò di spiegare questa situazione ipotizzando che il libro fu stampato in tre momenti successivi – con un intervallo di tempo fra l’uno e l’altro (nel 1460, nel 1469 e nel 1473) facendo uso di un antenato dell’odierna impressione stereotipica (l’invenzione avrebbe consentito di riprodurre e di fissare la composizione tipografica in blocchi di due righe per volta, poi riassemblate per una successiva ristampa). l’invenzione finale di Gutenberg sarebbe consistita in tale procedura di stampa17. 16 Sulla questione si veda E. ZIESCHE - D. SCHNITGER, Elektronenradiographische Untersuchungen der Wasserzeichen des Mainzer Catholicon von 1460, «Archiv für Geschichte des Buchwesens», 21, 1980, 5/6, coll. 1303-1360, dove tutti gli stati delle filigrane si trovano riprodotti più accuratamente che su repertori quali Briquet (C. M. BRIQUET, Les filigranes) e Piccard (G. PICCARD, Die Wasserzeichenkartei Piccard im Hauptstaatsarchiv Stuttgart, Stuttgart, W. Kohlhammer, 1961-1997, 17 voll.) grazie all’impiego della tecnica della elettroradiografia. 17 Si veda P. NEEDHAM, Johann Gutenberg and the Catholicon press, «Papers of the Bibliographical Society of America», 76, 1982, pp.  395-456. maggiori dettagli sulla questione

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Più di recente ho proposto una nuova interpretazione delle prove che indicano l’esistenza del libro ante 1470, suggerendo, come ipotesi alternativa, che il Catholicon potrebbe essere stato interamente impresso nel 1468-1469 circa, in un’unica composizione tipografica di caratteri mobili, con il processo di stampa ripartito fra tre torchi o unità di produzione. Per evitare possibili incidenti legati al passaggio da un torchio all’altro, si misero preventivamente in sicurezza i caratteri (fissandoli in coppie di linee, colonne e pagine), seguendo una modalità inusuale rispetto alla comune pratica di stampa a caratteri mobili. Ho suggerito inoltre che il libro potrebbe essere stato il frutto di una società editoriale costituitasi all’indomani della morte di Gutenberg, all’inizio del 146818. Controversie a parte, siamo tutti concordi sul fatto che il Catholicon sia un libro eccezionale e che esistano molti indizi per ritenere che rappresenti il tentativo di produrre un grande numero di copie partendo da una composizione tipografica corretta con precisione davvero rara, indipendentemente dal modo in cui vennero “bloccati” i caratteri o dal lasso di tempo in cui il libro fu stampato. Qualunque ipotesi, poi, si preferisca riguardo alla produzione e alla datazione del libro, è indubbio che ci troviamo di fronte a un’ulteriore eccezione rispetto alla comune pratica di stampa, messa in atto volutamente per evitare la ricomposizione del testo. l’intento degli editori deve essere stato quello di sfruttare nel miglior modo possibile una composizione tipografica già corretta. È curioso come fino alla metà degli anni Ottanta del secolo, si possano citare alcuni esempi di doppia composizione tipografica di libri completi, o di consistenti parti di essi. In questi casi il lavoro di composizione sembra giocare solo un ruolo minore nel computo generale dei costi e dell’impegno profuso per stampare un libro; d’altra parte, a ogni ricomposizione tipografica si duplicava in automatico il lavoro di correzione delle bozze, così come il rischio di introdurre nuovi errori. Nei tardi anni Sessanta tipografi ed editori sapevano per (ampia) esperienza che moltiplicare gli errori era un fatto inevitabile, che avrebbe accompagnato per sempre la riproduzione meccanica dei testi. la grande cura posta per mettere al sicuro la correttezza testuale del Catholicon, una volta fissato nella forma tipografica, fu forse un tentativo di contrastare sono disponibili in W. J. PATRIDGE, The typesetting and printing of the Mainz Catholicon, «the Book Collector», 35, 1986, pp. 21-42; P. NEEDHAM, The typesetting and printing of the Mainz Catholicon. A reply to W. J. Patridge, «the Book Collector», 35, 1986, pp. 293-304. ulteriori osservazioni e dibattito in «Wolfenbütteler Notiziën zur Buchgeschichte», 13, 1988, che contiene gli atti delle giornate di studio tenute presso la Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel il 17 e 18 dicembre 1985. 18 L. HELLINGA, Analytical Bibliography and the Study of Early Printed Books. With a casestudy of the Mainz Catholicon, «Gutenberg Jahrbuch», 64, 1989, pp. 47-96.

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questo inconveniente, tentativo poi rivelatosi, grazie a una serie eccezionale di circostanze, un vero e proprio escamotage per introdurre nuove procedure di stampa. una delle conseguenze dell’interesse suscitato in tempi recenti dal Catholicon è che nessun libro è mai stato studiato con tale grado di dettaglio. martin Boghardt (della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel, 1936-1998) ha viaggiato tutto il mondo per esaminare la maggior parte dei 76 esemplari dell’edizione a oggi noti, concentrandosi soprattutto sulle carte sostituite riscontrabili in una cinquantina di questi esemplari19. Boghardt ha operato un’attenta distinzione fra sostituzioni causate da errori occorsi durante il processo di stampa e sostituzioni contenenti testo corretto, entrambe chiaramente riconoscibili poiché in una parte degli esemplari conservati sopravvive il cancellandum, mentre in altri sopravvive il cancellans. Si è dimostrato come, almeno in un punto, la ricomposizione di coppie di linee dovuta a correzione sia avvenuta in un momento posteriore a quello della produzione del foglio secondo la normale sequenza di stampa20. Accettando l’ipotesi di un processo di stampa ripartito su tre unità, si può infatti supporre che l’errore stampato nella prima unità sia stato individuato mentre si predisponeva la pagina per la seconda unità e poi che sia stato rimandato al compositore (all’opera solo nella prima unità di stampa) perché lo sanasse. Questo passaggio potrebbe essersi verificato in qualunque momento, anche dopo l’impressione della sequenza principale perché, una volta decisa la lunghezza della pagina, la sequenza di stampa poteva essere praticamente arbitraria. Il procedimento ora descritto costituisce una prova della costante preoccupazione del tipografo di ottenere un testo corretto. la comodità di lavorare attenendosi strettamente alla sequenza testuale è stata infatti sacrificata in favore delle esigenze legate alla fase finale della correzione, fase che – va detto – è una mera continuazione delle procedure di correzione verosimilmente adottate

M. BOGHARDT, Die bibliographische Erforschung der ersten Catholicon-Ausgabe(n), «Wolfenbütteler Notizen zur Buchgeschichte», 13, 1988, pp. 138-176. 20 Il riferimento è al foglio 88 ([k]4), riprodotto in ivi, p. 159. la questione dell’ordine di impressione fu sollevata da Paul Needham nel suo contributo agli atti del convegno di Wolfenbüttel, The Catholicon Press of Johann Gutenberg: A Hidden Chapter in the Invention of Printing, «Wolfenbütteler Notizen zur Buchgeschichte», 13, 1988, pp. 199-230, che includono questa sorprendente osservazione: «If we envision concurrent printing, whether of movable types or paired-line slugs, I find the sequence of correction here very difficult to comprehend [Se immaginiamo un procedimento di stampa simultaneo – con caratteri mobili o con gruppi di coppie di linee – trovo molta difficoltà a comprendere, qui, la sequenza della correzione]», p. 225. Il nocciolo della questione, naturalmente, più che nelle procedure di correzione, sta nel significato attribuito all’aggettivo simultaneo. 19

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prima dell’invenzione della stampa. la metà del foglio contenente l’errore doveva essere sostituita nella sezione già stampata presso la prima unità (su carta recante filigrana con testa di toro), e poteva formare parte di un foglio intero allorché la pagina, già composta e corretta, veniva consegnata ai torchi che usavano carta dei Galliziani e carta con filigrana della torre e della corona. l’ordine alfabetico in cui furono organizzati i lemmi nel testo aiutò a collocare i fogli cancellans isolati nel punto corretto del libro – e quindi i passaggi vennero eseguiti generalmente senza errori – ma Boghardt, in altra sede, ha evidenziato un caso in cui la procedura di sostituzione causò un doppio inserimento di un foglio in due parti di un unico esemplare21. la ricognizione delle copie superstiti effettuata dal bibliotecario tedesco mostra come la sostituzione di carte errate con carte contenenti correzioni testuali sia limitata a esemplari stampati in quella che unanimemente consideriamo la prima unità di produzione (che usava carta recante filigrana con testa di toro e pergamena). Negli esemplari impressi nella successiva unità (in cui si stampava su carta con filigrana della torre e della corona) riscontriamo solo un caso di carte sostituite e qui tenderei a ipotizzare che si emendò un errore di imposizione, di quelli in cui si poteva facilmente incorrere stampando pagina per pagina. le indagini di Boghardt rappresentano un contributo significativo per mostrare la notevole cura e fatica profusi per produrre un testo corretto. le carte sostituite che egli è riuscito a individuare sono una testimonianza chiara degli sforzi richiesti per emendare il testo, così come ne rappresentano una prova altrettanto chiara i segni che i correttori di bozze apposero al durand e alle costituzioni di Bonifacio VIII. Il Catholicon era un lessico principalmente di termini biblici, e quindi rappresentava un testo importante per l’epoca. ebbe una larga diffusione manoscritta e, sulla base di questa tradizione, è stato possibile stabilire il valore della versione proposta nell’edizione a stampa di magonza. Gerhardt Powitz (frankfurt am main) ha identificato vari rami della trasmissione del testo e ha stabilito la posizione del Catholicon magontino all’interno di questa tradizione22. lo studioso tedesco, inoltre, ha riconosciuto nell’edizione di magonza il capostipite della tradizione a stampa del testo a partire dal 1470 (tradizione che consta di 22 edizioni nel XV secolo). Il solo M. BOGHARDT, Notes and news, «Bulletin of the John rylands university library of manchester», 67, 1985, pp. 561-566, dove lo studioso tedesco spiega come il foglio 63.68 del secondo volume compaia erroneamente inserito nel primo volume dell’esemplare Spencer (su carta con filigrana di testa di toro) e compaia, viceversa, inserito correttamente nel secondo volume, in cui risulta stampato su carta dei Galliziani. l’errore è facilmente spiegabile se avvenuto durante un processo di correzione simile a quello sopra delineato. 22 G. POWITZ, Das Catholicon in Buch-und Textgeschichtlicher Sicht, «Wolfenbütteler Notizen zur Buchgeschichte», 13, 1988, pp. 125-137. 21

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testimone indipendente corrisponde a un’edizione anteriore a quella data: si tratta dell’edizione impressa ad Augsburg nel 1469, in cui piccole ma significative varianti testuali dimostrano che è latrice di un testo non derivante dal Catholicon di magonza23. Per concludere, bisogna segnalare che sono state condotte ulteriori ricerche riguardo la datazione del Catholicon. A Bonn, ad esempio, un team composto da fisici ha studiato sia l’inchiostro utilizzato per stampare alcuni esemplari del Catholicon, sia quello riscontrato in libri prodotti da altri stampatori fra il 1460 e il 1475. l’analisi dei dati, condotta con la tecnica della radiazione dei sincrotoni, non è pervenuta a una conclusione univoca, ma ha comunque stabilito che: 1) la data più antica – il 1460 – deve essere esclusa 2) non esistono differenze significative fra l’inchiostro usato nelle tre distinte emissioni del Catholicon, impresse con un inchiostro che, nell’ambito dello sviluppo degli inchiostri tipografici, appartiene a un periodo di transizione e risulta impiegato largamente fra il 1467 e il 1475 circa. Gli autori sottolineano che questi risultati non devono portare alla conclusione che le tre emissioni furono stampate dal medesimo tipografo, quanto, piuttosto, che i tre stati furono impressi in un lasso di tempo ristretto, come suggerisce con forza l’indagine condotta sugli inchiostri24. un altro esempio straordinario di correzioni apportate durante l’allestimento di un’opera molto complessa è quello offerto dall’edizione delle epistole di san Girolamo curata dal benedettino Adriano de Brielis, abate del monastero di Jakobsgerg, nei pressi di magonza. Quel libro fu stampato da Peter Schoeffer, sempre a magonza, con la data del 7 settembre 147025. Si trattò di un’operazione veramente complessa, poiché si dovette comporre due volte parti consistenti del testo. la seconda composizione tipografica incorporava le correzioni manuali realizzate nella prima, alle quali se ne assommarono di nuove, ugualmente manoscritte, e realizzate sulla seconda composizione, nonché su altre parti nelle quali il testo delle due emissioni era coincidente. l’ultima fase

23 GIOVANNI BALBI, Catholicon, Augsburg, Günther Zainer, 30 IV 1469, fol. (IStC ib00021000). 24 Il team – composto, fra gli altri, da Achim rosenberg, martin Boghardt, Heiko dittmann, dieter Heimermann, Anno Heine Hans mommsen – ha riportato i risultati del proprio studio in Röntgenfluoreszenzanalyse der Druckerschwärze des Mainzer Catholicon und anderer Frühdrucke mit Synchrotronstrahlung, «Gutenberg Jahrbuch», 1998, pp. 231-255. Ho riassunto e commentato questo articolo in The interpretation of measurements of pinholes and analysis of ink in incunabula, «the library», 2, 2000, s. VII, pp. 60-64. 25 GIROLAMO (SANTO), Epistolae, [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, fol. (IStC ih00165000). Si veda anche il saggio Il modello di Peter Schoeffer: indagine bibliografica sul sistema di lavoro di un prototipografo, qui proposto alle pp. 145-173.

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di correzione realizzata ancora in tipografia – una fase documentata dalle annotazioni manoscritte del san Gerolamo di magonza che si distendono lungo tutta l’edizione – ci permette di approfondire la stretta relazione che esisteva fra la tipografia e il correttore. Confesso che sono molto attaccata all’immagine di Adriano intento al lavoro di allestimento del testo per la stampa, impegnatissimo ad apportare le correzioni poi incluse nella seconda emissione del testo. Si può presumere una volontà quasi ossessiva da parte dell’anziano abate, il cui risultato finale fu l’inserimento manuale delle correzioni in tutti gli esemplari appartenenti alla prima emissione. Il suo perfezionismo non conosceva davvero limiti poiché nelle sezioni di testo composte una sola volta e recanti la medesima composizione tipografica compare lo stesso tipo di correzioni manoscritte introdotte in tutti gli esemplari di entrambe le emissioni. Questo modus operandi indica il livello di rigore e attenzione prestato in tipografia e, soprattutto, rivela come non si lesinò alcuno sforzo affinché il testo soddisfacesse pienamente il suo curatore. Ho tentato di valutare come queste correzioni abbiano influito sulla tradizione testuale considerando, in primo luogo, le quattro edizioni che, in uno spazio di tempo molto limitato, precedettero quella di magonza. ma si può davvero credere che Adriano, mentre il lavoro della sua vita prendeva forma sotto i torchi, rimanesse sorpreso dall’apparizione di altre edizioni, apprestandosi quindi, in tutta fretta, a emendare il proprio testo dagli errori più evidenti? troppo banale come teoria: il mio ristretto scandaglio sulle relazioni testuali tra le cinque edizioni a stampa non suggerisce infatti, in alcun modo, che le correzioni negli esemplari magontini derivino da precedenti edizioni a stampa. mi sono semplicemente limitata a dar conto della vasta tradizione manoscritta di questi testi. Azzardo, comunque, una supposizione, fondata sulla natura delle varianti: esse non derivano da una collazione tardiva, eseguita, cioè, con il testo già in stampa. mi pare invece più probabile che siamo di fronte all’intenzione del curatore di presentare il suo testo come nuovo, in accordo con le aspettative del suo tempo. Nel ruolo di curatore il de Brielis prese il posto dell’autore, san Girolamo, la cui immagine – così spesso visibile nel ritratto contenuto nelle iniziali dipinte, inserite nelle contemporanee edizioni del santo – campeggia nel libro. In questo solenne processo di transizione, il monaco benedettino ebbe la libertà di cambiare una parola, di migliorare la fluidità del discorso e di introdurre qualche piccola correzione. erano solo variazioni minime, che dovettero però saltare all’occhio del de Brielis, ora che il testo con cui aveva avuto a che fare per così tanti anni appariva sotto il nuovo aspetto di un libro stampato. Si tratta di un metodo di emendatio ope ingenii contrario a qualunque moderno principio di critica testuale, anche se, a dire il vero, gli autori contemporanei, bozza dopo bozza, sono abituati a vedere i propri testi

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con occhi nuovi e a ricrearli, se ne hanno la possibilità. la stessa situazione si presenta ai filologi che debbano dar conto del lavoro di autori inclini all’aggiornamento costante. devo dire che rispetto ai casi che qui ho analizzato – mi riferisco al Rationale, alle Decretali, al Catholicon e alle epistole di san Girolamo, tutti passati per le mani di tipografi, curatori e correttori – non c’è stato un interesse particolare per gli sviluppi dei relativi testi, così come essi appaiono una volta stampati. e non ho nascosto neanche gli sforzi fatti per resistere alla tentazione di indagare aspetti pertinenti al procedimento di stampa seguito per ottenere quei libri. ma anche se il mio primo approccio ad essi è stato di natura bibliografica, ritengo che il vero interesse di questo percorso di indagine stia nella relazione di curatore e tipografia con il testo da stampare, così come nella possibilità di analizzare un momento molto preciso di mutamento e transizione. Si tratta di passaggi di pura creatività, benché espressi semplicemente attraverso l’eliminazione di un punto o l’inserimento di una parola. Il gusto per il dettaglio – addirittura per la pignoleria – come dimostrano, in particolare, le correzioni manoscritte nel san Girolamo, non è inferiore a quello riscontrabile nella produzione a stampa di autori dalla creatività instancabile quali Byron e Pound. tutto ciò fa pensare – lontani dal moderno dibattito – che il lettore contemporaneo rischi di perdere gran parte del significato di quel momento di transizione qualora si chiedesse al curatore di un’opera di presentare un testo in un’unica forma, senza, cioè, documentare quella fase di creatività che caratterizza così fortemente la transizione dei testi. I metodi di indagine che si occupano di quei momenti pertengono alla bibliografia analitica, con un lieve cambio di focus però: gli studi testuali, infatti, sono andati oltre l’interesse per il testo in sé, in modo da offrire una comprensione a tutto tondo delle forme particolari di un testo in uno specifico ambito culturale. Ciò che forse merita più attenzione sono le varie forme che il testo ha via via assunto e i momenti di scelta creativa sottesi a tale varietà di forme; più che accertare il risultato finale, ciò che è interessante indagare è il modo in cui il processo di transizione da una forma all’altra incide sulla formazione del testo. Negli esempi che abbiamo proposto non vediamo tanto in azione la creatività dell’autore (da intendere, qui, come contrapposta alla nuova forma di diffusione del testo): con l’avvento della stampa, infatti, la forma non è più un mezzo individuale di espressione. Si osserva fin da subito una tensione fra creatività letteraria – quella dell’autore o, più precisamente, quella del curatore, che assume il ruolo dell’autore – e la sua presentazione alla collettività. l’officina tipografica fornisce i nuovi mezzi di produzione (caratterizzati dai relativi limiti) e gli esempi qui discussi dimostrano l’interesse delle tipografie – e dei curatori e correttori che in esse operavano – a produrre testi in grado di rispondere alle esigenze di un pubblico di lettori

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nuovo e imprevisto. Questa constatazione dovrebbe modificare la comune teoria secondo cui le prime tipografie sarebbero state, di solito, indifferenti alla qualità dei testi che stampavano. le edizioni brevemente esaminate non costituiscono un’eccezione a quanto ho osservato in apertura del saggio, e cioè che solo poche opere fra quelle stampate nel XV secolo hanno suscitato l’interesse dei filologi testuali o degli storici della letteratura. Anche nella moderna e corposa edizione degli scritti di san Girolamo, un autore la cui influenza spirituale è tutt’oggi viva, le prime edizioni a stampa godono solo di una stringata menzione. Il sintetico lavoro di scavo sulle prime edizioni dei testi citati in questo saggio non contribuirà, quindi, a tracciare la storia della trasmissione testuale dei relativi autori; semmai, può servire a porre in risalto un differente ma non meno importante ruolo che spetta al moderno curatore della edizione critica di testi. Questo ruolo consiste nel rendere chiaro il valore dell’opera in un certo contesto storico, indagando: 1) le circostanze di produzione del manufatto attraverso cui essa è stata trasmessa; 2) gli standard a cui il curatore e l’officina tipografica miravano; 3) le aspettative (individuate per deduzione) dei suoi lettori. la funzione del curatore si offusca con facilità quando l’attenzione si concentra solamente su contenuti testuali, per cui il libro (o il manoscritto) agisce in primo luogo come un testimone materiale, così come comprensibilmente accade ai testi che ancora oggi seducono il moderno lettore. dopo tutto, l’incunabolista che si interessi ai contenuti ha un vantaggio: nessuno, infatti, si aspetta che venga messo in scena il Rationale del durand, o che venga proposta un’edizione tascabile delle opere di Bonifacio VIII o, addirittura, del Catholicon.

POSTFAZIONE

Il fascino degli antichi libri a stampa può appuntarsi sulla loro bellezza, rarità o stranezza […] ma, al di là di ciò che hanno da dirci in questi ambiti e al di là del loro contenuto, i libri sono anche degli oggetti materiali, frutto di un complesso processo meccanico. Per questo, se si vuole scrivere la loro storia, dovremo indagarne l’aspetto fisico, così come si fa per ogni altro oggetto che ci giunge dal passato. lotte Hellinga*

dopo un primo, fugace incontro alla mensa della British library dove mi capitava di andare a pranzo con dennis rhodes, ho avuto la fortuna di conoscere lotte Hellinga molti anni fa, durante un lungo seminario bolognese distribuito nei giorni dal 6 al 9 ottobre 1992. Grazie ai buoni uffici di luigi Balsamo e di ezio raimondi, nonché all’impegno e alle capacità organizzative di luisa Avellini (ma anche alla traduzione in simultanea di margherita Spinazzola), si tenne infatti presso l’università di Bologna un corso seminariale di cinque sessioni organizzato dal laboratorio Bibliologico dell’AruB (Archivio umanistico rinascimentale Bolognese) e dall’Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli con il sostegno della Soprintendenza regionale per i beni librari: il tema era la ricerca incunabolistica e fa sorridere pensare che molte delle questioni che verranno qui evocate avevano trovato un primo spazio di discussione già allora1. Io, giovane alle prime armi, arrivavo in treno tutti i giorni da milano, viaggiando spesso con Aldo Coletto e Arnaldo Ganda, e ricordo quei giorni (pieni di * L. HELLINGA, Caxton in focus. The Beginning of Printing in England, london, the British library, 1982, p. 17 («the appeal of early printed books may lie in their beauty, their rarity or their curiosity […] But whatever their significance in these respects, and no matter what the contents, they are also material objects, the products of an intricate mechanical process. therefore, if we wish to write their history, we have to investigate their physical make-up, just as we do for other objects made in the past»). 1 Che io sappia, ben due dei non molti contributi di lotte Hellinga finora disponibili in italiano erano entrambi in qualche modo collegati all’iniziativa di cui s’è detto: Trasmissione

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scoperte, di prospettive, di “cose da imparare”) con entusiasmo. Poi le occasioni di incontro con lotte Hellinga (tra londra, lione, tours e l’Italia) si sono moltiplicate, fin quando, complice sempre il prof. Balsamo, non ci siamo ritrovati a condividere la responsabilità scientifica della più importante e antica rivista italiana di settore «la Bibliofilia», alla quale la Hellinga ha più volte collaborato2. *** lotte Querido (nata ad Amsterdam nel 1932, ha adottato in ambito accademico il cognome del marito al momento del matrimonio con il noto studioso Wytze Hellinga, 1908-1985)3 è una figura piena di arguta simpatia, una studiosa garbata e raffinata, una incunabolista autorevole che ha saputo però anche svolgere compiti organizzativi importanti sia per la British library, sia per il Consortium of european research libraries4. Bene inserita nel mondo delle biblioteche e della ricerca bibliografica e storica, ha sviluppato un’incessante interesse per il mondo della produzione a stampa quattrocentesca dedicando, mi pare, particolare attenzione a tre ambiti di studio: gli incunaboli neerlandesi, i primordi della stampa e i primi anni dell’attività tipografica un po’ in tutta europa, e infine la costituzione di repertori atti allo studio della produzione editoriale quattrocentesca, con una crescente sensibilità verso le innovazioni tecnologiche connesse (dalla carta, alle microforme, al digitale). Non che queldei testi a stampa nel Quattrocento, in Moderni ausili all’ecdotica, Atti del convegno internazionale di studi (Napoli, 27-31 ottobre 1990), a cura di V. PLACELLA - S. MARTELLI, Napoli, edizioni Scientifiche Italiane, 1994, pp. 325-344 e Descrizione dell’esemplare e storia del libro, «Schede umanistiche», n.s., 1994, II, pp. 5-13. 2 Il suo più recente intervento pubblicato in tale sede è il commosso ricordo proprio del professor Balsamo, pronunciato in apertura del convegno milanese “Incunabula. Printing, trading, Collecting, Cataloguing”, 10-12 settembre 2013 (A Few Words Before Beginning the Firts Session, «la Bibliofilia», 116, 2014, pp. 7-8). Si ricordi anche il saggio Press and Text in the First Decades of Printing, in Libri tipografi biblioteche. Ricerche storiche dedicate a Luigi Balsamo, I, firenze, Olschki, 1997, pp. 1-23. 3 H. DE LA FONTAINE VERWEY, Wytze Hellinga, «Quaerendo», 15, 1985, pp. 164-178. 4 un profilo della sua formazione e carriera è reperibile in J. GOLDFINCH, Your Future is in Books, in Incunabula. Studies in Fifteenth-Century Printed Books Presented to Lotte Hellinga, ed. by M. DAVIES, london, the British library, 1999, pp. 1-6; lì anche la lista delle sue pubblicazioni aggiornata alla fine del secolo scorso (a cura di m. DAVIES), pp. 629-638. Pubblicai una recensione del Festschrift in «Aevum», 75, 2001, pp. 889-891. Il curioso titolo del contributo di Goldfinch deriva dalla frase (un po’ profetica) che il nonno di lotte, emanuel Querido, editore in Amsterdam, le disse quand’era ancora bambina. una breve voce dedicata a lotte Hellinga è anche inserita in The Oxford Companion to the Book, ed. by M. F. SUAREZ - H. R. WOUDHUYSEN, 2 voll., Oxford, Oxford university press, 2010, II, p. 789.

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la dell’incunabolistica sia l’unica passione bibliografica di lotte Hellinga, però certo, rispetto anche ad altri studiosi novecenteschi di storia del libro, ciò che caratterizza i suoi lavori è una evidente concentrazione e la capacità di una prolungata attenzione su tale singolo aspetto. Se al tema degli studi incunabolistici intendo tornare tra poco, almeno una parola va spesa su altri due settori che mi paiono però ugualmente ben coltivati dalla Hellinga. Innanzitutto si vorrebbero ricordare le reiterate aperture sulle vicende del collezionismo e del commercio del libro – forse lotte preferirebbe si dicesse della sua “disseminazione” – che, oltre a rivolgere la propria attenzione ad alcune figure di collezionisti di libri nel corso dei secoli (in primo luogo il console Joseph Smith)5, o al ruolo degli stessi Paesi Bassi come centro del commercio librario (e basti pensare al XVIII secolo)6, l’hanno portata allo studio della diffusione e dell’affermazione della cultura del libro in Inghilterra tra XV e XVI secolo, coordinando assieme a J. B. trapp un importantissimo volume della storia del libro britannico dedicato a tale cruciale periodo7. l’altro ambito ben presente negli interessi della Hellinga è quello che riguarda la storia degli studi incunabolistici nel corso del XIX secolo, che se può essere ricondotta a una prima esperienza portata a termine con il marito Wytze – l’edizione commentata della corrispondenza intercorsa tra Bradshaw da un lato e Holtrop e Campbell dall’altro8 – ha trovato modo di esprimersi anche, per esempio, in un innovativo saggio dedicato ai rapporti fra robert Proctor e marie Pellechet9. Gli esordi di lotte Hellinga nel mondo degli stampati quattrocenteschi, avvenuti ancora ad Amsterdam, spesso in collaborazione con Wytze Hellinga, 5 Notes on the Incunabula of Consul Joseph Smith. An Exploration, in The Italian Book 14651800. Studies Presented to Dennis E. Rhodes on his 70th Birthday, ed. by D. V. REIDY, london, the British library, 1993, pp. 335-348 e Il console Joseph Smith collezionista a Venezia per il mercato inglese, «la Bibliofilia», 102, 2000, pp. 109-121. 6 Si veda The Bookshop of the World. The Role of the Low Countries in the Book-Trade 14731941, ed. by L. HELLINGA et al., ‘t Goy-Houten, Hes & de Graaf, 2001. 7 The Cambridge History of the Book in Britain, III, 1400-1557, ed. by L. HELLINGA - J. B. TRAPP, Cambridge, Cambridge university Press, 1999. di lotte Hellinga in particolare (oltre alla Introduction scritta a quattro mani con trapp, pp. 1-30) si veda il saggio Printing, pp. 65-108. 8 Pur collocandosi, infatti, nell’orbita degli studi incunabolistici neerlandesi, l’opera – anche proprio per il suo relazionarsi alla figura di Bradshaw – va considerata come un contributo essenziale allo studio delle origini moderne della disciplina: Henry Bradshaw’s Correspondence on Incunabula with J.W. Holtrop and M.F.A.G. Campbell, ed. by W. HELLINGA - L. HELLINGA, 2 voll., I, Amsterdam, Hertzberger, 1966 (= 1968) e II, ivi, van Gendt, 1978. 9 Quattre lettres de Marie Pellechet à Robert Proctor, «Bulletin du Bibliophile», 2004, I, pp. 91-147.

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tramite una minuta serie di interventi dedicati alla tipografia nei Paesi Bassi del XV secolo10, trovarono il loro pieno sviluppo con il suo passaggio nei primissimi anni Sessanta alla British library, dove per l’incunabolistica brillava ancora la stella di Victor Scholderer11. Pur inserita nel flusso intellettuale di chi in quel periodo collaborava al grande “arzanà” londinese, la Hellinga andò maturando fin da allora un suo specifico e particolare approccio al libro quattrocentesco che, messa un po’ da parte la questione dello studio dei caratteri impiegati (soprattutto per fini attribuzionistici) nelle edizioni del tempo, si spingeva – per usare una formula – verso lo studio di come quei caratteri erano stati adoperati. Provenendo da studi sostanzialmente filologici, la Hellinga ha posto al centro del proprio interesse il testo proposto dagli incunaboli, non con un fine strettamente ecdotico di restitutio textus (che resta prospettiva parallela ma eteronoma rispetto all’assunto), ma piuttosto per verificare i modi concreti con i quali i testi sono stati trasmessi12. Il tutto applicato sempre a casi reali che di volta in volta sollecitavano l’attenzione della studiosa in quanto collegati ai fili sottili ma robusti di alcuni suoi interessi di fondo che rimandano spesso all’esperienza dei prototipografi neerlandesi e ai loro rapporti con la nascita della tipografia inglese13. tali studi hanno poi trovato espressione in un’importante li si veda elencati nella bibliografia dell’autrice allestita da martin davies (qui n. 3, nonché a cura della stessa lotte, nella bibliografia degli scritti di Wytze: Hellinga Festschrift. Forty-three Studies in Bibliography Presented to Wytze Hellinga on the Occasion of his Retirement from the Chair of Neophilology in the University of Amsterdam at the End of the year 1978, ed. by A.R.A. CROISET VAN UCHELEN, Amsterdam, Nico Israel, 1980, pp. xvii-xxiv). Segnalo solo un intervento più recente dedicato alla “leggenda” di laurens Coster: L. HELLINGA-QUERIDO - C. DE WOLF, Laurens Janszoon Coster was zijn naam, Haarlem, Joh. enschede en Zonen, 1988. 11 Basti qui il rimando a due importanti volumi come V. SCHOLDERER, Fifty essays in Fifteenth-and-Sixteenth-century bibliography, ed. by D. E. RHODES, Amsterdam, Hertzberger, 1966 e Essays in honour of Victor Scholderer, ed. by D. E. RHODES, mainz, Pressler, 1970. 12 focalizzato in quest’ambito di ricerca è, per esempio, l’incontro di Wolfenbüttel tenutosi ancora alla fine degli anni Settanta: Buch und Text im 15. Jahrhundert. Arbeitsgespräch in der Herzog August Bibliothek Wolfenbüttel vom 1. bis 3. März 1978 = Book and Text in the Fifteenth Century. Proceedings of a Conference held in the Herzog August Bibliothek Wolfenbüttel, March 1-3, 1978, Vorträge hrsg. von l. HELLINGA - H. HÄRTELL, Hamburg, Hauswedell, 1981. 13 Piace qui ricordare in particolare uno studio che segnala la fitta rete di amicizia in cui il lavoro della Hellinga si pone (nei suoi studi parla spesso degli amici che in varie parti del mondo l’hanno aiutata in questa o quella ricerca): A. C. DE LA MARE - L. HELLINGA, The first book printed in Oxford: the expositio symboli of Rufinus, «transactions of the Cambridge Bibliographical Society», 7, 1978, II, pp. 184-244. Sulla grande paleografa de la mare, scomparsa nel 2001, si veda ora Palaeography, Manuscript Illumination and Humanism in Renaissance Italy: Studies in Memory of A. C. de la Mare, ed. by R. BLACK - J. KRAYE - L. NUVOLONI, london, the Warburg Institute, 2015. 10

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serie di interventi dedicati alle primissime realizzazioni dell’arte tipografica. Spesso in un dialogo serrato con altri studiosi, primo fra tutti Paul Needham, lotte Hellinga ha scandagliato ardui problemi di tecnica tipografica servendosi di un’attentissima analisi delle tracce (indizi) che i modi di realizzazione del libro hanno lasciato nel prodotto stesso: da qui i numerosi studi dedicati ad alcuni dei più problematici casi della protostampa, dal Catholicon al Missale speciale14, sino alla figura di Nicholas Jenson15. A tali interventi di tono prettamente tecnico, la studiosa ha però affiancato un gruppo di contributi di natura altrettanto scientifica, ma caratterizzati dal desiderio esplicito di indicare una metodologia di approccio e ricerca nell’ambito incunabolistico, tentando di ricondurre i casi particolari ad alcuni fenomeni più ampi, rappresentativi di particolari momenti della storia della stampa. Sempre, negli scritti della Hellinga, si unisce l’analisi tecnica condotta con metodo rigoroso a un sano esercizio dell’intelligenza, impegnata a interrogarsi sulle ragioni dei fenomeni via via investigati e a suggerirne, magari sottovoce, un’interpretazione: si supera così un certo “positivismo bibliografico” che vorrebbe che i nudi dati, senza adeguata interpretazione, fossero capaci di fare storia. È a tale ambito di studi di argomento incunabolistico che la Hellinga ha voluto attingere per costituire questa raccolta e alla sua presentazione (un po’ più sotto) rimando. Si vorrebbe qui infatti insistere ancora un momento sul contributo dato da lotte Hellinga a repertori e strumenti bibliografici. Nonostante il suo dottorato all’università di Amsterdam, la capacità di parlare in pubblico, di scrivere e di farsi capire in tante lingue diverse, l’attitudine maieutica, ed anche un Fellow of the British Academy dal 1990, la Hellinga non ha mai giocato a fare “il professore”, ma è stata, fino al pensionamento, un’attivissima bibliotecaria, orgogliosa della propria professione. In tale linea va interpretato anche il contributo essenziale offerto dalla Hellinga alla redazione della rivista «the library», alla Bibliographical Society di cui fu Vice-President nel 1996-2010, ma soprattutto alla nascita del Consortium of european research libraries (Cerl) con il suo Hand

14 Per un momento di sintesi di tale ampio lavoro di scavo sulla stampa delle origini si veda il bel saggio di L. HELLINGA, The Gutenberg Revolutions, in A Companion to the History of the Book, ed. by S. ELIOT - J. ROSE, malden (mass.), Blackwell, 2007, pp. 207-219 suddiviso nei seguenti paragrafi: The Technique: (1) Manufacturing Movable Type, The Technique: (2) The Printing Press, The Printing House, The Spread of Printing after the Invention, Fifteenthcentury Books, The Trade in Printed Books. In italiano si veda EAD., Gutenberg e i suoi primi successori, in Tamquam explorator. Percorsi orizzonti e modelli per lo studio dei libri, a cura di M. C. MISITI, manziana, Vecchiarelli, 2005, pp. 109-122. 15 Nicolas Jenson et les débuts de l’imprimerie â Mayence, «revue française d’histoire du livre», 118-121, 2003, pp. 25-53. 

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Press Book Database (divenuto ora The Heritage of the Printed Book database)16. È probabile che al principio degli interessi della Hellinga per la costruzione di veri e propri repertori bibliografici ci sia uno strumento, ovviamente cartaceo, realizzato ancora negli anni Sessanta sempre con Wytze Hellinga, vale a dire il repertorio dei caratteri impiegati nei Paesi Bassi nel Quattrocento, un’opera senz’altro pionieristica di grande interesse17. ma la Hellinga sta anche alla base dello strumento oggi più usato per lavorare nel mondo dei primi libri a stampa, cioè di IStC (Incunabula Short-Title Catalogue)18, che nella sua attuale versione digitale a libero accesso è uno strumento bibliografico mantenuto in linea e aggiornato dalla British library19. IStC è nato da un’idea di lotte che sin dal 1980 ha iniziato a sviluppare il progetto ispirandosi a quello che stava divenendo l’Eighteenth Century Short Title Catalogue of English books (eStC), uno dei primi esperimenti di banche dati bibliografiche in formato elettroniSulle attività del Cerl vedi ora I. VERSPRILLE - M. LEFFERTS - C. DONDI, The Consortium of European Research Libraries (CERL): twenty years of promoting Europe’s cultural heritage in print and manuscript, «Zeitschrift für Bibliothekskultur», 2, 2014, I, pp. 30-40, reperibile anche all’indirizzo http://www.0277.ch/ojs/index.php/cdrs_0277/article/view/50/135 17 W. HELLINGA - L. HELLINGA, The Fifteenth-Century Printing Types of the Low Countries, 2 vol., Amsterdam, Hertzberger, 1966. un interesse, quello per i caratteri tipografici, non spentosi nel tempo: si veda almeno C. ENSCHEDE, Typefoundries in the Netherlands, from the fifteenth to the nineteenth century. A history based mainly on material in the collection of Joh. Enschede en Zonen at Haarlem, An english translation with revisions and notes by H. Carter, with the assistance of N. Hoeflake, ed. by L. HELLINGA, Haarlem, Stichting museum enschede, 1978, versione aggiornata dell’edizione originale (in francese) uscita nel 1908. 18 Si potrebbe forse solo dissentire su un particolare, anche se non così secondario. la tradizione degli Short-Title del British museum, poi British library relativi alla produzione tipografica dei secoli XV e XVI di alcune diverse aree geografiche europee (Germania, francia, Italia, Paesi Bassi e Spagna) si incentrava sulla redazione di notizie bibliografiche che, con pragmaticità tutta inglese, dovevano “tendenzialmente” essere contenute nello spazio di una linea di testo. dopo quindi la forma del nome dell’autore e dell’intestazione (costituta secondo le regole della biblioteca) riportava parti significative del titolo e dati bibliografici abbreviando il più possibile, anche se non disdegnando una certa conservatività da trascrizione semifacsimilare. Questo era il significato dell’espressione short-title. IStC, invece, anche per poter essere indicizzato automaticamente, riporta tutti i dati, e anche i titoli, in un formato standardizzato, per cui la sua brevitas ha ragioni e metodo di realizzazione del tutto diversi da quella tradizionale. dal punto di vista storico, poi, le formule standardizzate di IStC derivano in realtà da Goff (e in parte poi da IGI) che fu il primo repertorio impiegato per la costituzione del database. Sullo short-title italiano di grande interesse l’intervento di S. PARKIN, Lo Short-title of Italian books… oggi: alcuni appunti, in Il libro italiano del XVI secolo. Conferme e novità in edIt16, Atti della giornata di studio (roma, 8 giugno 2006), a cura di R. M. SERVELLO, roma, ICCu, 2007, pp. 133-144. 19 dopo lotte Hellinga, martin davies e John Goldfinch, l’attuale responsabile è Karen limper-Herz. 16

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co20. divenuto un cd-rom dopo l’inserimento di illustrazioni (IIStC, ed. by m. davies, 1996 e II ed. 1998), lo IStC ha raggiunto l’attuale importanza da quando si è potuto trasformarlo in una risorsa digitale consultabile on line21. l’innovatività dello strumento (quando ancora la sua interfaccia grafica era decisamente insopportabile) non sfuggì a chi se ne stava occupando, né a uno scelto gruppo di specialisti appositamente convocati a londra nel 1984 per un convegno organizzato dalla British library assieme al Warburg Institute proprio per il lancio del nuovo repertorio22. In quell’occasione lotte Hellinga ebbe modo di presentare il work in progress, mostrando come si trattasse, benché perfettibile, di una banca dati che voleva rivolgersi non solo in modo autoreferenziale al mondo dei veri e propri incunabolisti, ma anche alla più larga fascia degli studiosi che avevano a che fare con la produzione a stampa quattrocentesca23. Nel frattempo nascevano progetti come il censimento cartaceo delle edizioni virgiliane del XV secolo che era un tentativo di mostrare – tramite un medium tradizionale – i risultati ottenibili dallo IStC ancora in fieri24. Con ciò lotte Hellinga non ha mancato di continuare a interrogarsi e a interrogare il mondo degli studi circa il rapporto tra la ricerca sul libro antico e l’uso degli strumenti informativi digitali25. Ora “english Short title Catalogue” [1473-?1800]: si veda D. MCKITTERICK, “Not in STC”: Opportunities and Challenges in the ESTC, «the library», 6, 2005, pp. 178-194. 21 All’origine IStC era un database gestito dal servizio BlAISe della British library, accessibile tramite sottoscrizione dal 1984. Grazie al progetto INCIPIt, capeggiato sempre dalla Hellinga e finanziato dalla Comunità europea, nei primi anni Novanta fu possibile inserirvi immagini tratte dalle edizioni: fu questa versione, dopo un debito sviluppo, a essere commercializzata su cd-rom come Illustrated ISTC. IStC divenne infine una risorsa a libero accesso on line intorno al 2004. Si veda L. HELLINGA - M. LEEMBRUGGEN, La base dati internazionale degli incunaboli (ISTC) alla British Library, «la Bibliofilia», 91, 1989, pp. 81-94. 22 Bibliography and the Study of 15th-Century Civilisation. Papers presented at Colloquium at the British Library, 26-28 September 1984, ed. by L. HELLINGA - J. GOLDFINCH, london, the British library, 1987. risulta che all’iniziativa non partecipò nessuno dall’Italia. 23 L. HELLINGA, Introduction, in Bibliography and the Study of 15th-Century Civilisation, pp. 1-5. 24 Vergil. A census of printed editions, 1469-1500, ed. by M. DAVIES - J. GOLDFINCH, introduction by r. C. Alston, foreword by l. Hellinga, london, the Bibliographical Society, 1992. Per comprendere la sottile verve dell’operazione, non si dimentichi che il più importante dei repertori incunabolistici, opera di ludwig f. t. Hain, mancava proprio della voce Vergilius a causa della scomparsa dell’autore: per questo l’introduzione al volume è tutta incentrata sulla figura di Walter A. Copinger, autore nel 1894 del repertorio Incunabula virgiliana (vedi la mia recensione in «Aevum», 68, 1994, pp. 462-468).  25 Basti il rimando a The scholar & the database. Papers presented on 4 November 1999 at the CERL conference hosted by the Royal Library, Brussels, ed. by L. HELLINGA, london, Consortium of european research libraries, 2001. 20

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una decina d’anni dopo la nascita di IStC, lotte Hellinga è alle prese con la realizzazione di un’altra importante opera “di servizio”, che nasceva in qualche modo come sviluppo di IStC (o perlomeno che solo l’esistenza di uno strumento come IStC aveva reso possibile realizzare). Si tratta del progetto Incunabula. The Printing Revolution in Europe 1455-1500, cioè di una vastissima serie di riproduzioni fotografiche complete di incunaboli provenienti da tutto il mondo, rese disponibili su microfiches. Il progetto, iniziato nel 1992 e proseguito sino ad anni vicinissimi, ha oggi proprio IStC come il più comodo “indice” per conoscere quali incunaboli furono riprodotti e in quale sezione sono stati inseriti (la suddivisione latamente tematica doveva favorire la commercializzazione anche di semplici tronconi del progetto a singole biblioteche interessate a particolari settori di studio). Naturalmente, l’adozione delle microforme, che nei primi anni Novanta poteva apparire vincente (e anche l’unica fattibile), nel tempo ha mostrato pure i suoi limiti (molte biblioteche non hanno nemmeno più a disposizione lettori adatti), ma costituisce una scelta ragionevole, se si pensa alla “volatilità” di molte riproduzioni digitali… Con ciò, temo però che una possibile (e auspicabile) riconversione in formato digitale di quel materiale sia assai improbabile, visto sia che le immagini erano protette da particolari diritti di proprietà, sia che tutta l’iniziativa doveva avere dei risvolti commerciali, mentre ora molte biblioteche propongono digitalizzazioni gratuite anche integrali dei loro incunaboli (spicca fra tutte la Bayerische Staatsbibliothek di monaco di Baviera). Il problema, però, è che mentre Incunabula rispondeva a un progetto culturale preciso – più volte illustrato dalla stessa Hellinga e governato da scelte e indirizzi stabiliti da un punto centrale pensante – molte digitalizzazioni poste on line sono invece realizzate un po’ a casaccio, anche da esemplari scompleti o duplicando le riproduzioni26. l’uscita della prima unità (Mainz to 1480) fu accompagnata dalla pubblicazione di un piccolo volume che illustrava il progetto, dove trova posto un interessante intervento della Hellinga, nel quale, prima di presentare la serie delle edizioni magontine riprodotte, la studiosa si sofferma a discutere la natura dell’intera iniziativa27. In particolare, preannunciando ciò che è ora spesso una nostra esperienza diretta, riflette sui vantaggi che la consultazione di riproduzioni inSarebbe però importante riuscire in qualche modo a recuperare almeno i contributi forniti in Incunabula dai diversi esperti convocati per l’impresa (tra i quali luigi Balsamo per l’Italia). Peraltro, molti dei link alle riproduzioni digitali di incunaboli oggi disponibili sono raggiungibili proprio tramite le schede di IStC e quelle del Gesamtkatalog der Wiegendrucke (GW) on line. 27 L. HELLINGA, Introduction, in Incunabula. The Printing Revolution in Europe 1455-1500. A Guide to the First Unit of the Microfiche Collection. Incunabula Unit 1: Mainz to 1480, editor-in-chief l. Hellinga, reading, research Publications, 1992, pp. 13-18. 26

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tegrali di un incunabolo consente, sia pur “su schermo”, e quindi con tutte le approssimazioni e le differenze rispetto alla consultazione in re. Ho avuto prova sicura dell’importanza di questo tipo di “esperienza bibliografica” negli anni scorsi, mentre procedevamo a una prima ricognizione del patrimonio incunabolistico (e cinquecentesco) recuperato presso la Biblioteca francescana della Custodia di terra Santa a Gerusalemme, quando, alla indisponibilità dei tradizionali repertori cartacei, si dovette supplire solo con strumenti (e riproduzioni digitali) disponibili on line28. Già al momento del suo arrivo a londra e delle prime collaborazioni con il mondo degli incunabolisti dell’allora British museum, lotte Hellinga ebbe modo di interfacciarsi con il catalogo degli incunaboli olandesi e belgi (su cui aveva già specifiche competenze), che stava per essere chiuso proprio agli inizi degli anni Sessanta29. In tempi più recenti – ma si tratta semplicemente della conclusione di un’esplorazione bibliografica assai più prolungata, se già nel 1976 ella aveva potuto iniziare a lavorare sul manoscritto allestito a tal fine da George d. Painter – la Hellinga si è impegnata al monumentale volume XI degli incunaboli della British library dedicato all’Inghilterra, volume che chiudeva, circa un secolo dopo gli inizi dell’opera intrapresa da Alfred W. Pollard30, la serie dedicata alle edizioni del Quattrocento dell’illustre istituzione londinese. BmC XI, cui ha dato tra l’altro un sostanziale contributo Paul Needham ancora tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli Ottanta, non solo adotta un metodo di descrizione delle edizioni (peraltro numericamente scarse e rarissime) del tutto innovativo31, non solo si preoccupa di fornire una documentazione fotografica di eccezionale qualità, ma trasforma la consueta introduzione storica in un amplissimo saggio che, partendo dall’opera di Caxton, si sofferma poi sui diversi tipografi, sul loro metodo di produzione (dall’allestimento

Si veda ora il catalogo di incunaboli e cinquecentine di tale biblioteca allestito da luca rivali, milano, edizioni terra Santa, in stampa. 29 BmC IX, 1962. 30 BmC XI, 2007. Sulla storia degli studi sulla produzione editoriale del XV secolo mi permetto di rimandare al mio Haebler contro Haebler. Appunti per una storia dell’incunabolistica novecentesca, milano, Istituto per il diritto allo Studio dell’università Cattolica, 2008. 31 Anzi, la Hellinga (BmC XI, p. 1) con grande onestà si preoccupa innanzitutto di riconoscere l’importanza dell’opera di Alfred W. Pollard, che, al di là degli elementi meramente identificativi dell’edizione impiegati nel suo catalogo da robert Proctor, seppe tradurre i principi di Bradshaw rendendoli un efficace modello descrittivo, non a caso poi adottato in tutti i volumi successivi di BmC (tranne appunto quelli relativi agli Hebraica e a England). l’importante premessa di Pollard a BmC I (pp. ix-xxviii) può essere letta in parziale traduzione italiana in appendice alla mia Guida al libro antico. Conoscere e descrivere il libro tipografico, firenze, le monnier università, 2006, pp. 241-263. 28

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dell’exemplar al tipoconteggio, dall’impaginazione all’organizzazione del testo, dalla composizione delle forme alla loro impressione, dalle correzioni in stampa agli interventi manoscritti ancora in tipografia), sulla organizzazione del mercato e le percentuali di sopravvivenza dei libri32. Scriveva luigi Balsamo, recensendo il BmC XI: È chiaro, a questo punto, che abbiamo tra le mani la “storia del libro tipografico inglese delle origini”, una monografia sulla storia della produzione incunabolistica inglese del XV secolo esplorata in tutti gli aspetti del suo ciclo vitale, esterni e interni, entro la quale è inserito il catalogo descrittivo delle edizioni sopravvissute e ora conservate nella British library. È questo il punto di arrivo di una metodologia di ricerca evolutasi durante un secolo sul piano non solo bibliografico ma pure su quello scientifico, in cui il catalogo ora offre la ricchissima base dati sulla quale si fonda una elaborazione critica storiografica e concettuale33.

Che infatti nell’esperienza di lotte Hellinga ci sia totale continuità fra l’analisi bibliologica e la catalogazione, fra la ricostruzione tecnologica e quella storica, lo testimonia uno splendido volume che è strettamente connesso con le ricerche sulla stampa inglese delle origini (pur collegandosi, a sua volta, con Caxton in focus del 1982): si tratta della bella monografia del 2010 interamente dedicata a William Caxton e agli sviluppi dell’editoria inglese delle origini34. Grazie anche a un abbondante e intelligente uso delle immagini (mai decorative, ma sempre illustrative di particolari di edizioni o documenti) l’autrice guida il lettore verso una conoscenza a tutto tondo di Caxton (compreso il suo “mito”), basata però sulla conoscenza diretta e approfondita della documentazione a lui relativa, non meno che delle sue edizioni e del suo lavoro tipografico. Infatti, come scrive altrove, per lotte Hellinga (e il suo riferimento è esplicitaNon a caso nel 2010 il volume ha meritato a lotte Hellinga il XV ILAB Breslauer Prize for Bibliography, il prestigioso riconoscimento assegnato dalla International League of Antiquarian Booksellers. Nel 1989, invece, la Hellinga aveva ottenuto il Gutenberg-Preis der Stadt mainz und der Gutenberg-Gesellschaft: si veda la pubblicazione commemorativa Gutenberg Preis der Stadt Mainz und der Gutenberg Gesellschaft verliehen an Lotte HellingaQuerido, London, am 24. Juni 1989, mainz, Gutenberg-Gesellschaft, 1990. 33 «la Bibliofilia», 109, 2007, pp. 191-196: 195. 34 L. HELLINGA, William Caxton and Early Printing in England, london, the British library, 2010 (in italiano se ne veda la recensione di Natale Vacalebre in «Bibliothecae.it», 2, 2014, pp. 257-259). ma si consideri anche E. G. DUFF, Printing in England in the Fifteenth Century. E. Gordon Duff’s Bibliography with Supplementary Descriptions, Chronologies and a Census of Copies by Lotte Hellinga, london, Bibliographical Society – British library, 2009: si tratta della riproposta, in anastatica, del classico lavoro del duff (1917), accompagnato da aggiornamenti proposti dalla Hellinga. 32

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mente rivolto all’opera di elizabeth eisenstein) ogni tentativo di generalizzazione corre il rischio della semplificazione eccessiva e dello schematismo: occorre invece analizzare nel dettaglio oggetti e fatti per cercare di comprendere i precisi meccanismi della loro trasformazione35. *** Scevre da ogni intento celebrativo, le parole che precedono spero abbiano però spiegato ad abundantiam le ragioni della scelta fatta, quella cioè di presentare al pubblico degli studiosi, dei bibliotecari e degli studenti italiani delle nostre discipline una selezione delle ricerche di lotte Hellinga dedicate al mondo degli incunaboli. Già una decina di anni fa in Spagna fu realizzata una iniziativa simile, che permise ai parlanti castigliani un più diretto confronto col contributo offerto dalla Hellinga allo studio delle edizioni quattrocentesche36. Scorrendo alcune delle recensioni a suo tempo comparse, si può cogliere in esse la percezione della rilevanza del contributo culturale offerto, visto che non venivano soltanto resi disponibili alcuni studi specialistici sulla produzione prototipografica, ma si proponeva uno strumento coerente atto a un reale avviamento al lavoro sul campo. Julián martín Abad, per esempio, ha sottolineato l’importanza dei due concetti di trasmissione del testo (che ha il suo primo aspetto nella riproduzione tipografica) distinto da quello di diffusione o disseminazione del testo, che è, invece, il cammino che il libro compie alla conquista di nuovi mercati37. Invece maria Cristina misiti ha messo in evidenza la continuità del magistero della Hellinga con l’insegnamento di Bradshaw e dei suoi dati posti l’uno accanto all’altro che parlano da sé («arrange your fact vigorously […] and let them speak for themselves, which they will always do»), aggiungendo però che si tratta, per la Hellinga, soprattutto di dati messi gli uni in relazione con gli altri, così da produrre la possibilità di un nuovo sguardo su di essi38.

L. HELLINGA, The Bookshop of the World: Books and their Makers as Agents of Cultural Exchange, in The Bookshop of the World, pp. 11-29: 27. 36 L. HELLINGA, Impresores, editores, correctores y cajistas. Siglo XV, traduzione e Nota previa di Pablo Andrés escapa, [Salamanca], Instituto de Historia del libro y de la lectura, 2006 (a pp. 217-232 una bibliografia della Hellinga aggiornata alla data di pubblicazione del volume). Presentando l’iniziativa al pubblico italiano («la Bibliofilia», 112, 2010, pp. 380-381) ebbi modo di auspicare che anche nel nostro paese venisse pubblicata un’antologia degli scritti della Hellinga: vedo ora compiersi quel vecchio desiderio. 37 «ecdotica», 3, 2006, pp. 221-227. 38 «Avisos. Noticias de la real Biblioteca», 47, octubre-diciembre 2006 (edizione disponibile on line all’indirizzo http://avisos.realbiblioteca.es/?p=article&aviso=55&art=914). maria Cristina misiti fa qui in particolare riferimento al saggio di L. HELLINGA, A Meditation 35

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Questa raccolta proposta da lotte Hellinga per la traduzione italiana si presenta in modo se possibile ancor più unitario, proponendo una continuità e una profondità di pensiero del tutto eccezionale, quasi si trattasse di una vera monografia, capace di guidare i lettori a una prima scoperta del libro del XV secolo svolta davvero a 360°. Il primo saggio funziona da avviamento all’intero volume, fornendo vari spunti che trovano parziale sviluppo nei saggi successivi. uno degli snodi centrali è individuato dalla studiosa nella questione di come il medium tipografico abbia modificato i modi della trasmissione testuale. Vari sono gli aspetti che possono essere in tal senso considerati: la tendenza a una progressiva normalizzazione delle forme grafiche, in quanto disegno del singolo grafema, non meno che di quelle ortografiche, con la spinta alla creazione di un sistema comune condiviso o la disponibilità di più copie – spesso destinate all’uso personale, specie per i formati più piccoli – delle singole opere. ma addirittura, fu certamente la nuova modalità di commercializzazione su una piazza non più predeterminata e locale, ma imprevedibile e “globale” a spingere i tipografi a interessarsi affinché i testi pubblicati fossero il più possibile completi e corretti, così da resistere al confronto con i prodotti della concorrenza, e possibilmente vincerla. lotte Hellinga, superata la semplice contrapposizione tra manoscritto e libro a stampa, sottolineata anzi la continuità tra le due forme di codex, quello realizzato con la scrittura manuale e quello con i caratteri metallici (ma insistendo così sulla tipicità del modello librario nel formato codice, che dopo un migliaio e mezzo di anni solo ora il libro elettronico può provare a contrastare), è in grado di giungere a individuare le reali, profonde mutazioni e contrapposizioni tra libro manoscritto e stampato, non con lo sguardo smaliziato ma estraneo dell’uomo d’oggi, ma con gli occhi di chi viveva totalmente immerso nella reale convivenza/concorrenza tra le due forme di trasmissione libraria. Allora, il “circuito della comunicazione” disegnato da robert darnton, perfezionato da Nicolas Barker e thomas r. Adams, riletto da luigi Balsamo, diviene un modello complesso che, calato nella realtà del XV secolo, si mostra in tutte le sue per nulla scontate caratteristiche. del tutto coerente a tale impostazione è allora il secondo affondo offerto dalla Hellinga con un saggio dedicato alla disseminazione di un testo ancora quattrocentesco in ambito incunabolistico. Ci si riferisce alle Facetiae di Poggio Bracciolini di cui viene indagato (e si trattò di uno studio pionieristico tanto nell’oggetto, quanto nel metodo) l’intero insieme delle edizioni del XV secolo (molte le italiane, da Venezia a roma, da ferrara a milano). Si dimostra che non è valida la comune opinione secondo la quale le edizioni a stampa si sucon the Variety in Scale and Context in the Modern Study of the Early Printed Heritage, «Papers of the Bibliographical Society of America», 92, 1998, pp. 401-426. 

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cedano l’una all’altra in maniera seriale e meccanica, perché in realtà le varie edizioni realizzate un po’ in tutta europa, se adeguatamente indagate, rivelano sempre diversi ragioni e modi della loro realizzazione e della loro diffusione, arrivando a costituire una sorta di stemma codicum che non serve (con moto ascendente) alla ricostruzione del testo, ma disegna piuttosto (con moto discendente) la sua disseminazione39. Il terzo contributo si incentra invece sul tema del passaggio dalla primitiva pressa gutenberghiana a un colpo al torchio “moderno” a due colpi. Spicca qui la valorizzazione di una testimonianza importante ma, per una serie di ragioni linguistiche facilmente comprensibili40, poco nota agli studiosi, quella del colophon dell’edizione di Jacob Ben Asher, Tur Orah Hayyim pubblicata nel 1476 a mantova da Abraham Ben Solomon Conat41. lotte Hellinga, sulla base di un contributo di michael Pollak42, spiega come quella sia la più antica testimonianza diretta circa l’uso di un torchio a doppio colpo. Il testo, semplificando un po’ le cose e in una traduzione di servizio, dovrebbe suonare più o meno così: «Abraham Conat… stampa per bene ogni giorno mille colonne di testo, una forma dopo l’altra… stampa quattro colonne su un lato del foglio grande e le altre quattro sull’altro lato, cosicché l’intero foglio è terminato con solo due operazioni in un giorno». Si tratta, dunque, di uno snodo tecnologico essenziale dei primi decenni della stampa. Quando infatti – siamo nei primi anni Settanta del XV secolo tra Napoli e roma, ma l’invenzione si spostò presto a Venezia, mentre milano restò per alcuni anni estranea all’innovazione – si sviluppò l’idea di munire il torchio, che prima doveva essere una semplice pressa a vite molto primitiva, di un carrello mobile, così da poter usare forme (e timpani) grandi come un intero foglio, anche se la platina non poteva essere più ampia della superficie di un mezzo foglio (e per questo doveva essere premuta

mi sia permesso rimandare a un mio recente contributo nel quale, in un contesto sia pur diverso, ho provato ad applicare gli stessi principi di analisi: Francesco Negri à Strasbourg et sa traduction du turcicarum rerum commentarius de Paolo Giovio (1537), «Histoire et civilization du livre», 11, 2015, pp. 29-51. 40 Ne esisteva in realtà da tempo una traduzione latina, ma piuttosto confusa e indecifrabile: si veda G. B. DE ROSSI, Annales Hebraeo-typographici sec. [sic!] XV, Parma, Stamperia reale [Giambattista Bodoni], 1795, p. 11. 41 Basti qui il rimando all’ampia descrizione fornita da BmC XIII, 18. Sulla stampa a mantova nel XV secolo si veda ora il bel catalogo La tipografia a Mantova nel Quattrocento, a cura di A. CANOVA - P. DI VIESTI, mantova, Publi-Paolini, 2014. 42 M. POLLAK, The Daily Performance of a Printing Press in 1476: Evidence from a Hebrew Incunable, «Gutenberg-Jahrbuch», 1974, pp. 66-75, ma si consideri anche la parziale contestazione di quel contributo fornita da A. ROSENTHAL, Some Remarks on “Daily Performance of a Printing Press in 1476”, ivi, 1979, pp. 39-50. 39

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due volte, ciascuna su una metà del timpano), certamente si modificò la successione del testo da stampare (successione lineare nell’un caso, secondo la serie delle pagine inserite nella forma nell’altro), ma non si semplificò la necessità di un’accurata previa ripartizione del testo sull’exemplar, anche se si modificò radicalmente la sua logica. di qui la necessità di rintracciare nei libri segni che indichino le differenti tecniche di composizione, sino a individuare casi emblematici di copie di tipografia che permettano una ricostruzione più articolata di tali processi, come la messa a fuoco persino del ritmo di lavorazione. Il quarto dei saggi presentati sceglie proprio di approfondire il tema del modo con cui veniva allestito l’exemplar, cioè di come un testo da stampare era preparato prima che il compositore vi si mettesse al lavoro. la identificazione di un numero ancora minimo (una quarantina) ma significativo di manoscritti preparati per la stampa ha permesso di rilevare non solo le tipologie di segni in essi presenti, ma di interpretarli. la messa poi a confronto tra l’exemplar e il prodotto tipografico finale rende addirittura possibile individuare lo scarto tra il testo “progettato” e quello “realizzato”, così da comprendere talvolta esattamente (e di poterle poi ricostruire) le tecniche vere e proprie di composizione tipografica del libro. Si evidenzia così anche la libertà di cui godeva il compositore, responsabile ultimo della distribuzione del testo entro le forme, e quindi della suddivisione in pagine e del loro montaggio nelle forme. Il caso di Cristoforo Colombo lettore della versione latina del Milione di marco Polo offre alla Hellinga lo spunto per un’indagine affascinante che, dalla richiesta dell’esploratore rivolta a un suo corrispondente inglese installato in Spagna, porta all’officina neerlandese che realizzò la stampa dell’opera, e da qui al manoscritto utilizzato, che a sua volta rimanda in Italia e precisamente a Padova e Venezia, da dove il tipografo riportò rispettivamente in patria sia una copia del manoscritto dell’opera sia una nuova serie di caratteri, e poi all’officina, dove il libro fu completato, e da ultimo finalmente tra le mani di Colombo, che avidamente lesse e annotò la copia inviatagli in prestito e mai restituita. dopo aver puntato l’attenzione sui testi e sul loro allestimento per la stampa, con il sesto saggio lotte Hellinga torna a interrogarsi sulle tecniche, i modi, l’organizzazione del lavoro in un’officina tipografica, scegliendo addirittura quella di Peter Schoeffer il Vecchio, uno dei tre soci dell’impresa gutenberghiana. I dati, dispersi e di natura assai diversa tra loro, devono essere fatti interagire perché da una somma di semplici informazioni di natura sostanzialmente bibliografica possa risultare piuttosto un ritratto del modo di lavoro di un’officina tipografica delle origini. Il caso, in particolare, dell’edizione delle lettere di san Girolamo realizzata nel 1470, in cui una consistente parte dei fogli venne stampata due volte, permette di indagare le dinamiche che portavano alla volontà di correggere, migliorare e “stabilire” il testo, fino alla sua presentazione

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e organizzazione; l’analisi poi delle rubriche e delle decorazioni inserite43, nonché l’innovativo rilevamento delle legature originali recuperabili in numerosi esemplari, permettono di valutare il coinvolgimento dello stesso Schoeffer nell’allestimento di volumi dell’edizione prêt-à-porter, pronti per l’uso, un’abitudine questa abbastanza rara per il tempo, ma che spinge a vedere in lui, a parere della Hellinga, quasi l’inventore del vero concetto di “editore”. l’ultimo dei saggi tenta quindi di fissare una definizione sicura di che cosa significasse esattamente pubblicare un testo nel XV secolo, specificando quali influenze tali operazioni avessero sulla forma che il testo veniva prendendo nella sua riproduzione tipografica. la dinamica tra innovazione (in quanto voluto suo miglioramento) e conservazione del testo, lo scarto e il superamento di versioni ridotte o incomplete, l’opera di correzione del dettato avvenuta in bozze, sono tutti movimenti che entrano variamente in gioco per ricostruire, più che alcune problematiche esclusivamente bibliografiche, l’intima relazione che intercorre tra il curatore (e più in generale tutte le operazioni connesse con il lavoro tipografico) e il testo da stampare. Si intende, quindi, che il percorso individuato dall’autrice è solido, innovativo, ricco di ricadute sulle discipline strettamente bibliografiche, non meno che sulla storia e la tradizione dei testi, o sulla storia della lettura e della ricezione. Oltre che alla storia del libro e alla bibliologia, questi saggi di lotte Hellinga potranno infatti forse giovare anche al mondo delle filologie italiana, mediolatina e umanistica che devono confrontarsi con le problematiche del libro a stampa dei primi due secoli dell’arte nera (e non solo). Stante che si nota ancora spesso negli studi di tali settori una totale ingenuità verso il medium tipografico, magari ammantata da scrupolose quanto miopi serie di rilevazioni sostanzialmente inutili o da sfilze di citazioni bibliografiche mal digerite, questi saggi possono giovare pure a chi ha fatto proprio il magistero di Conor fahy. Negli anni Ottanta del secolo scorso il professor Conor fahy fu infatti protagonista di una “trasfusione” in terra (e in lingua) italiana del meglio della analitical bibliography inglese, e basti qui citare la splendida raccolta dei suoi studi uscita per le edizioni Antenore di Giuseppe Billanovich, Saggi di bibliografia testuale

Sull’interesse di lotte Hellinga anche per l’aspetto illustrativo del mondo incunabolistico si veda almeno il suo saggio Illustration of Fifteenth-Century Books: A Bird’s Eye View of Changes and Techniques, «Bulletin du Bibliophile», 1991, pp. 43-61. Su tale tema si veda ora L. ARMSTRONG, La xilografia nel libro italiano del Quattrocento. Un percorso tra gli incunaboli del Seminario Vescovile di Padova, a cura di P. M. FARINA, milano, educatt, 2015 (versione riveduta del saggio già apparso in Gli incunaboli della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova. Catalogo e studi, a cura di P. GIOS - F. TONIOLO, Padova, Istituto per la storia ecclesiastica padovana, 2008, pp. 171-228). 43

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del 198644. Quel libro, il volume sul Furioso del ’32, i numerosi contributi apparsi soprattutto sulle pagine de «la Bibliofilia» (di cui fu anche vicedirettore, grazie all’amicizia fraterna con lugi Balsamo), l’assidua presenza nel mondo culturale della Penisola hanno contribuito in modo fondamentale al rinnovamento degli studi sulla filologia dei testi a stampa.45 eppure, complice forse il tono signorile di fahy, la sua proverbiale gentilezza, i modi pacati e sempre sussurrati, il suo insegnamento è stato talvolta mal compreso (e qui si può però registrare qualche caso di interventi diretti di fahy per correggere qualcuno dei suoi emuli italiani sulle misure della carta delle edizioni aldine oppure sui formati librari), più spesso edulcorato, riducendolo al tema delle varianti testuali in stampa: tema questo, dal punto di vista ecdotico, di un certo momento (specie se si tratta di autentiche “varianti d’autore”), ma che costituisce solo una piccola parte delle problematiche evocate da fahy.46 Bene, c’è da sperare che questi scritti di lotte Hellinga, dove poco si indulge alle varianti in stampa e si rimettono in discussione invece proprio i modi della trasmissione testuale attraverso la riproduzione tipografica, diano uno scossone anche alla nostrana “filologia dei testi a stampa” portandola ad affrontare anche questioni assai più gravi e sostanziali di qualche “i” capovolta (e a rileggere magari anche per davvero gli scritti di Conor fahy). *** Concludo. Questa pubblicazione è stata resa possibile innanzitutto dalla cordiale disponibilità dell’autrice, che, informata del progetto nel settembre 2013, ha accettato con entusiasmo di mettersi al lavoro per scegliere i testi da pubblicare, predisporli e aggiornarli, verificare la traduzione. In secondo luogo dal generoso impegno della curatrice, che si è assunta l’onere della traduzione, della redazione del volume e della predisposizione dei vari apparati. un grazie particolare anche a luisa lópez Vidriero, che ha permesso di recuperare il materiale iconografico già utilizzato nella raccolta di studi pubblicata in spagnolo nel 2006, di cui fu l’ideatrice, nonché ai detentori dei diritti sulle immagini. Con ciò occorre precisare che i testi qui presentati non solo sono stati Padova, Antenore, 1988. Sia qui sufficiente il rimando al gruppo di articoli In ricordo di Conor Fahy, «la Bibliofilia», 111, 2009, pp. 49-89 con tutti i rimandi bibliografici del caso. 46 Vista l’importanza che al momento della sua uscita poteva essere attribuita alla raccolta di saggi Filologia di testi a stampa, a cura di P. STOPPELLI, Bologna, Il mulino, 1987 (se ne veda la mia recensione, assieme ai Saggi di fahy, in «Aevum», 63, 1989, pp. 675-686), delude invece la nota allegata alla recente nuova edizione per la superficiale comprensione del reale legato di fahy (Cagliari, CueC, 2008). 44

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sempre tradotti direttamente dall’inglese, ma dipendono da una redazione diversa e più aggiornata di tali studi, per cui risulta impossibile indicare, di volta in volta, il luogo esatto della loro prima uscita. la pubblicazione è stata inoltre resa possibile da contributi dell’università Cattolica di milano (linea di finanziamento d.3.1 del 2015), e della regione lombardia nell’ambito di un Progetto di ricerca applicata per la valorizzazione del patrimonio culturale lombardo dal titolo “Il libro a stampa a milano e nella lombardia del XV secolo”. l’idea di questo volume rientra peraltro nell’ambito di una linea di ricerca sviluppata all’interno del CreleB, il Centro di ricerca europeo libro editoria Biblioteca dell’università Cattolica, cioè il PIL project, “Production of Incunabula in lombardy”. un ringraziamento non solo formale anche all’editore forum di udine, sempre attento e puntuale, e al direttore della collana “libri e biblioteche”, l’amico Cesare Scalon. Ovviamente, anche se si è lavorato assiduamente onde evitare possibili errori o incomprensioni, ogni traduzione è sempre un rischio, che però occorre avere il coraggio di correre. È assodato che ciò che non viene tradotto in italiano non entra mai nel comune circuito né della didattica universitaria, né della pratica professionale. Per cui ben vengano le traduzioni, se sono di opere meritevoli e servono a questo.47 Piuttosto si sottolineerà che queste brevi pagine vogliono costituire un semplice avviamento alla conoscenza dell’opera complessiva della Hellinga, e in particolare della mirabile selezione di suoi lavori (tutti aggiornati e coordinati tra loro) costituita da Texts in Transit. Manuscript to Proof and Print in the Fifteenth Century, leiden-Boston, Brill, 201448. Anzi, la indefessa studiosa in un caldo pomeriggio a leicester ha recentemente confidato che sta allestendo, sempre per Brill, una nuova raccolta dedicata ai suoi lavori sul collezionismo e il commercio librario: buona lettura49! Chicago, 27 agosto 2015

Edoardo Barbieri

Oltre ai saggi in appendice alla mia Guida al libro antico, mi è capitato in questi anni di promuovere e seguire altre traduzioni di argomento bibliografico: rimando almeno ai volumi J.-F. GILMONT, Dal manoscritto all’ipertesto. Introduzione alla storia del libro e della lettura, a cura di L. RIVALI, firenze, le monnier università, 2006 e A. LEDDA, Konrad Haebler e l’incunabolistica come disciplina storica, milano, CuSl, 2008, nonché ai numeri 2, 3, 5, 10, 14, 15, 17 e 20 della collana “minima bibliographica” on line (http://centridiricerca.unicatt. it/creleb_minima-bibliographica-servizi). 48 Se ne veda la bella recensione di david mcKitterick sul «times literary Supplement», 1 maggio 2015, p. 29. 47

un grazie finale ai primi lettori di queste pagine, martin davies (dei cui suggerimenti mi sono largamente avvalso), Giuseppe frasso, luca rivali e la curatrice del volume, elena Gatti.

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INDICE DEI NOMI*

Abbott thomas K. 140 n. Acocella maria Cristina 36 n. Adams thomas r. 15 e n., 38, 224 Adriano de Brielis 148 n., 149, 153, 209 e n., 210 Agostino (santo) 24 e n., 26, 28, 35 e n., 102 n., 107, 149, 165 e n. Aldomoreschi luca 15 n. Alighieri dante 195 Allodi leone 102 n. Alston robin C. 219 n. Amelung Peter 114 n. Amidani Giovanni tibullo 88 n. Antonino da firenze (santo) 88 e n., 91 e n., 105 n. Antonio da Strada 30 n. Archibald elisabeth 112 n. Aristotele 104 n. Armstrong lilian 227 n. Arnaldo da Bruxelles 90 Au Soufflet Vert 52 e n., 55, 81 Avellini luisa 11, 213 Azzoguidi Baldassarre 91 e n. Balbi Giovanni 204 n., 209 n. Balsamo luigi 7, 10, 73, 103 n., 213, 214 e n., 220 n., 222, 224, 228 Barbieri edoardo 7, 9, 11, 16 n., 103 n. Barker Nicholas 15 e n., 17 n., 38, 224 Bartolomeo miniatore 36 n. Baurmeister ursula 33 n., 75 n., 78 e n., 92 n. Belfort Andrè 32 e n., 47 e n. Bellaert Jacob 103, 106 Benedetto foscolo l. 118 n. Benedetto da Norcia 91 e n. Benedetto di Baviera 26 e n., 27 Bertalot ludwig 122 n. Berthier Joachim Joseph 19 n. Bessarione Giovanni 102 n. Bettini Sergio 19 n.

Bianca Concetta 102 n. Billanovich Giuseppe 227 Bingham Stilwell margaret 194 Black robert 216 n. Blavi tommaso de 30 n. Boccaccio Giovanni 165 e n., 195 Bodoni Giambattista 225 n. Boghardt martin 75 n., 207 e n., 208 e n., 209 n. Bonaventura (pseudo) 92 e n. Bonaventura (santo) 109 n. Bond William H. 105 n. Bone Gavin 102 e n. Bonhomme Pasquier e Jean 81 Bonifacio VIII (papa) 163, 165, 203 e n., 204, 208, 212 Bracciolini Poggio 28 e n., 29 e n., 30, 31 e n., 32 n., 33, 39 e n., 41 e n., 44, 46, 47 n., 48 e n., 50 n., 51 n., 52 e n., 54 n., 55, 56 n., 89 e n., 90 e n., 224 Bradford robert 155 n. Bradshaw Henry 10, 16 e n., 125 e n., 215 e n., 221 n., 223 Brandis lucas 31 n., 50 e n., 55 Briquet Charle moïse 73 n., 205 n. Brunner Joann 165 n. Bühler Curt f. 92 n., 110 n. Burchiello (domenico di Giovanni, detto il) 91 e n. Byrne James m. 117 n. Byron George Gordon (lord) 211 Caboto Giovanni 117, 140-141 Canova Andrea 225 n. Campbell marinus f. A. G. 215 Carpenter Kenneth e. 15 n. Carter Harry 218 n. Caxton William 17, 41 e n., 55 e n., 81, 109, 110 e n., 111, 112 e n., 124 n., 221-222 Cerdoni matteo 125 Cesar Pierre 81

* Non sono stati indicizzati i nomi nelle citazioni, nelle APPENDICI, nelle tabelle e nelle didascalie.

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Chaucer Geoffrey 110 n., 195 Chawner George 50 n. Christine de Pisan 110 n. Ciccuto marcello 41 n. Cicerone 105 n. Clemente da Padova 78 Cockx-Indestege elly 33 n. Coletti luigi 19 n. Coletto Aldo 213 Collijn Isak 153 n. Colombo Cristoforo 117-118, 124, 140-141, 142 e n., 143, 226 Colombo fernando 141-142 Conat Abraham Ben Solomon 76 n., 95, 225 Conincxloe Willem 125 n. Conradus eusebius v. Corrado eusebio Conway melissa 92 n. Copinger Walter A. 219 n. Coppens Christian 124 n. Copston Christopher 140 Corrado eusebio 92 e n. Corsten Severin 111 e n. Coster laurens 216 n. Crantz martin v. Gering ulrich & martin Crantz Crapulli Giovanni 89 n. Creussner friedrich 30, 32, 42 n., 51 e n., 52 n., 53-55, 143 e n. Crivelli Giovanni 92 n. Croiset van uchelen Arnold r. A. 216 n. darnton robert 15 e n., 224 davies martin 55 n., 102 n., 124 n., 214 n., 216 n., 218 n., 219 e n., 229 n. day John 117-118, 140-142 de Hamel Christopher 19 n., 20 n. de la fontaine Verwey H. 20 n., 214 n. de la mare Albinia 216 n. delaissé leon m. J. 200 n. de lollis Cesare 141 n., 142 n. derolez Albert 122 n. de rossi Giovanni B. 225 n. deschamps Pierre 124 n. destrez Jean 20 n. dittmann Heiko 209 n. di Viesti Pasquale 225 n. dondi Cristina 218 n. drach Peter 165 duff edward G. 222 n. durand Guillaume 147, 155 e n., 157, 165, 201 e n., 203-204, 208, 212 dutschke Consuelo 121 e n., 122-123, 126, 137 edwards Anthony S. G. 112 n. eggestein Heinrich 114 e n., 115, 126 e n.

eisenstein elizabeth l. 198 n., 223 eliot Simon 217 n. elisabetta I (regina d’Inghilterra) 151 elyan Caspar 31 e n., 51 e n. enrico IV (re di francia) 140 n. enrico VII (re d’Inghilterra) 118 enschede Charles 218 n. erasmo da rotterdam 34, 55, 149 escapa Pablo Andrés 223 n. esopo 41, 55 estermann monika 147 n. estiennes (famiglia) 14 n. fahy Conor 227, 228 e n. farfengo Battista 143 n. farina Paola m. 227 n. ferdinando d’Aragona 142 fernillot Yvonne 140 n. festo Sesto Pompeo 89 e n. fichet Guillaume 193, 194 e n. filippo di Pietro 90 filippo il Buono (duca di Borgogna) 122 flach martin 93 flavio Aviano 55 fontaine Verwey Herman de la 214 n. francesco Pipino 118 e n., 121 e n., 122, 126, 142 n., 143 frank Barbara 26 n. frasso Giuseppe 229 n. friburger michael 81, 194 n. friedberg Peter von 14 n., 93 frova Carla 102 n. fust Johann 14 n., 147-148, 155 n., 157, 164, 167, 199 n., 201 e n., 203 e n. Gabriele di Pietro 90 Galliziani Antonio e michele 205, 208 e n. Ganda Arnaldo 213 Garin eugenio 41 n. Gaskell Philip 76 n. Gatti elena 229 n. Gensberg Johann 49, 89, 105 n. Gering ulrich & martin Crantz 81, 194 n. Gherbrants Ghijsbrecht 125 n. Giacomo I (re d’Inghilterra) 151 Gil Juan 142 n. Gilmont Jean françois 229 n. Gios Pierantonio 227 n. Giovanni (apostolo, santo) 115 Giovanni Crisostomo (santo) 70, 84 e n., 85, 91 Giovanni da Schio 19 Giovanni da Spira e Vindelino 124 n., 165 e n. Giovanni da Westfalia v. Johann de Westfalia Giovanni d’Andrea 88 e n., 203 n.

INdICe deI NOmI

Girardengo Niccolò 105 n. Girolamo (santo) 93 e n., 113 e n., 148 e n., 149 e n., 150 e n., 152, 153 e n., 154, 157, 162163, 165, 168, 209 e n., 210-212, 226 Giustiniano (imperatore) 163-165, Goes mathias van der 32 e n., 48 e n., 54 e n. Goldfinch John e. 75 n., 214 n., 218 n. Götz Nicolaus 13 n. Graziano 163 Gregorio IX (papa) 163, 165 Gregorio magno (santo) 19 Grüninger Johann 89, 93 Guldinbeck Bartholomeus 89-90 Guillaume de digulleville 110 n. Guldenschaff Johann 94 Gumbert Johan P. 200 n. Gutenberg Johann 23 e n., 76, 101, 104, 147-148, 156, 157, 204 n., 205-206 Haebler Konrad 104 e n., 105, 108 Hain ludwig f. t. 219 n. Han ulrich 32, 48, 78, 89 Han Wolf 89 Härtell Helmar 33 n., 216 n. Heimermann dieter 209 n. Heine Anno 209 n. Hellinga lotte 9-11, 16 n., 17 n., 18 n., 20 n., 22 n., 24 n., 28 n., 30 n., 48 n., 75 n., 89 n., 94 n., 103 n., 104 n., 105 n., 106 n., 107 n., 108 n., 110 n., 112 n., 123 n., 124 n., 125 n., 164 n., 199 n., 203 n., 204 n., 206 n., 213 e n., 214 e n., 215 e n., 216 e n., 217 e n., 218 e n., 219 e n., 220 e n., 221 e n., 222 e n., 223 e n., 224-226, 227 e n., 228-229 Hellinga Wytze 20 n., 48 n., 81, 94 n., 103, 123 n., 124 n., 125 n., 214, 215 e n., 216 n., 218 e n. Hendrickx frans 140 n. Hillard denise 140 n. Hindman Sandra l. 156 n. Hinman Charlton 22, 105 n. Hist (famiglia) v. Hist Johann e Conrad Hist Johann e Conrad 52 Hodgson John 41 n. Hoeflake Netty 218 n. Hoernen Arnold ther 13 n., 35 e n., 93, 194, 195 n. Hoffmann leonhard 76 n. Holmes Sherlock 10 Holtrop Johannes W. 215 Hunt thomas 124 n. Huntington Archer m. 141 n. Isabella di Castiglia 142 Jacob ben Asher 76 n., 225 Jacopo da Varagine 123 n.,

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Jean de Platea 18 n. Jenkinson francis 16 n. Jenson Nicolas 90, 165, 217 Johan de Hese 122 n. Johann de Colonia 105 n., Johann de Westfalia 32 e n., 48 e n., 53, 94 e n. Kachelofen Konrad 52-53 Kahn Jean-luc 114 n. Kenney edwin J. 28 n., 198 n. Kessler Nikolaus 52-53 Ketelaer Nicolaas & Gerardus de leempt 79 n., 103 Kraye Jill 216 n. Kirwan richard 20 n. Kokker thomas 140 Knoblochtzer Heinrich 93 Knobloch Johann 41 n. Koberger Anton 32 e n., 36, 48 e n., 49, 51 e n. König eberhard 150, 156 e n., 157 e n., 158, 161, 163 Kruitwagen Bonaventura 200 n. Kublai Khan 118, 122, 134-135 landino Cristoforo 36 n. lane ford margaret 13 n., 35 n., 80 n., 102 n. lapi domenico 91 e n. lancaster Wilson Joyce 106 n. larner John 142 n. lauer Georg 30, 41 n., 42-45, 53, 78, 84 e n., 88 e n., 89 e n. ledda Alessandro 104 n., 148 n., 229 n. leembruggen marcella 219 n. lefèvre raoul 124 n. lefferts marian 218 n. lehmann-Haupt Helmut 147 n. le Noir michel 30 n., 52-53 leopoldo III d’Asburgo (duca d’Austria) 143 n. le rouge Jacques 79 n., 90 e n. leone magno (santo) 51 e n. leeu Gheraert 81, 112, 113 n., 118, 122 e n., 123 e n., 124 e n., 125 e n., 126, 136-137, 138 e n., 139, 141, 142 e n., 143 lewis Charlton t. 130 libri Bartolommeo de’ 36 n. libri Sigismondo de’ 91 n. limburg Hans 157 n. limper-Herz Karen 218 n. linenthal richard A. 18 n., 110 n. liseux Isidore 52 e n. lohse Hartwig 155 n., 157 n. lombardo Pietro 114 e n. lópez Vidriero luisa 228 luna Ottino de 54

234

fAre uN lIBrO Nel QuAttrOCeNtO

macho Julien 41, 55 maerlant Jacob van 20 n. maestro di fust 157, 162-163 malory Sir thomas 111, 112 e n. mandeville Jean de 125-126 manfredi Girolamo 91 e n. manthen Johann 105 n. manuzio Aldo 36, 103 marcanova Giovanni 122-123, 126, 129, 139 marco Polo 113 n., 117, 118 e n., 121, 122 e n., 123-126, 137, 139 e n., 141, 142 e n., 143 e n., 226 marez Oyens felix de 50 n. margherita di Valois 140 n. maria di Borgogna 48 maroldo marco 104 n. marrow James H. 18 n. martelli Sebastiano 214 n. martin Henri-Jean 20 n. martín Abad Julián 223 marzio Galeotto 91 e n. massimiliano I d’Asburgo 48 masuda takami 110 n. mcdonald mark P. 142 n. mcKenzie donald 105 e n. mcKitterick david 219 n., 229 n. mentelin Johann 149 e n. mercati Giovanni 102 e n. mesue il Vecchio 78 meydenbach Jacob 93 miglio massimo 102 n., 103 misiti maria Cristina 15 n., 217 n., 223 e n. mommsen Hans 209 n. morison Samuel eliot 117 n., 141 e n. moule Arthur C. 118 n. mullins Sophie 20 n. Nayam Khan 134 Needham Paul 16 n., 23 e n., 73 n., 75 n., 79 n., 81, 104 n., 114 n., 116 n., 124 n., 148 n., 198, 199 e n., 205 e n., 206 n., 207 n., 217, 221 Niccolò di lorenzo 92 Nuvoloni laura 216 n. Obbema Pieter f. J. 200 n. Obregón mauricio 117 n. Offenberg Adri K. 76 n. Ohly Kurt 114 n. Oliphant dave 13 n., 155 n. Omero 195, 198 Orazio 195 Ovidio 195 Ovink Geril W. 20 n.

Pachel leonhard 92 e n. Painter George d. 14 n., 221 Pannartz Arnold 24 e n., 25, 79, 89, 102 n., 103, 104 n., 148 e n., 159 Paolo (santo) 14 n. Parkes malcom B. 20 n. Parkin Stephen 218 n. Patridge Walter J. 206 n. Pellechet marie l. 215 Pelliot Paul 118 n. Perotti Niccolò 102 Petrarca francesco 91 e n., 195 Petrella Giancarlo 103 n. Petri Heinrich 29 n., 41 n., 52 n. Petri Johann 91 e n. Piccard Gerhart 205 n. Pittaluga Stefano 41 n., 46 n., 47 e n., 52 Placella Vincenzo 214 n. Pollak michael 76 n., 225 e n. Pollard Alfred W. 103 e n., 104, 114 e n., 115, 221 e n. Pollard Graham 20 n. Pound ezra loomis 211 Powitz Gerhardt 208 e n. Prášek Justin Váklav 122 n., 128 Proctor robert 215, 221 n. Quentell Heinrich 93 Querido emanuel 214 n. raimondi ezio 213 rapahel de mercatellis 17, 122, 136 ratdolt erhard 90 reguardati Benedetto v. Benedetto da Norcia reidy denis V. 215 n. reinhard Johann v. Grüninger Johann renner franz 84 e n., 85 rhodes dennis e. 164 n., 213, 216 n. riessinger Sixtus 89, 148 e n., 159 rinaldo da Novimagio 124 n., 125 rivali luca 11, 221 n., 229 n. rolewinck Werner 13 e n., 194 e n., 195 n. rose Jonathan 217 n. rosenberg Achim 209 n. rosenthal Avraham 225 n. rosso Coletti Clara 19 n. rot Adam 49 ruck Peter 75 n. rufino di Aquileia 108 e n., 111 ruggeri ugo 91 e n. rustichello da Pisa 118 Sack Vera 164 e n., Say Hugh v. day John

INdICe deI NOmI

Scahill John 110 n. Scalon Cesare 229 Scapecchi Piero 26 n. Schedel Hartmann 102 Schneider Cornelia 14 n. Schoeffer Peter il Vecchio 10, 14 n., 93 e n., 113 e n., 145, 147 e n., 148 e n., 149-150, 153 n., 154, 155 n., 156-158, 160-162, 164, 165 e n., 167, 168, 201 e n., 203 e n., 209 e n., 227 Schmidt Wieland 156 n. Schmidt-Künsemüller friedrich A. 156 n. Schmitz Wolfgang 157 n. Schnitger dierk 205 n. Scholderer Victor 216 e n. Short Charles 130 Schott Johann 41 n., 93 Schreiber fred 14 n. Schriber de Annunciata Johann 91 Schurener Johann 50, 77 n., 89 Schwab richard 23 e n., 24 n. Schwenke Anna 104 n. Schwenke Paul 23, 104 e n. Scinzenzeler ulrich 92 e n. Servello rosa m. 218 n. Sessa Giovanni Battista 143 n. Sette Savi di roma 138 n. Shakespeare William 22 Siber Johann 52-53 Sicherl martin 103 Sighinolfi lino 122 n. Silber eucharius 50, 54-55 Slootmans Corn J. f. 124 n. Smith Joseph 215 Sorg Anton 143 e n. Spinazzola margerita 213 Stegman Hans 102 e n. Steinhöwel Heinrich 41, 55 Stoppelli Pasquale 228 n. Suarez michael f. 105 n., 214 n. Sudheim ludolph von 122 n., 125, 126 e n. Symonel louis & C. 52 e n., 54 Sweynheym Konrad 24 e n., 25, 79 n., 102 n., 103, 104 n., 148 e n., 159 Szandorowska eliza 51 n. tanselle thomas G. 16 n., thacher John B. 141 n., 142 n. tibullo 88 e n., 89 tieken-Boon van Ostade Ingrid 112 n. tipografia di san Jacopo a ripoli 91, 92 n. tipografo dell’Expositio in symbolum apostolorum 108 n.

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tipografo dell’Henricus Ariminensis v. eggestein Heinrich tipografo dei Sermones 51 e n. tipografo del Catholicon 204 n. tipografo dello Svetonius 91 tipografo di Oxford v. tipografo dell’Expositio todd William B. 200 n. tommaso d’Aquino (santo) 70, 157, 162 tommaso da Kempis 199, 200 n. tommaso da modena 19 e n., 20 toniolo federica 227 n. trapp Joseph B. 198 n., 215 e n. tritheim Joahnn 13, 14 n. trithemius Johannes v. tritheim Johann tyrannius rufinus v. rufino di Aquileia unkel Bartholomaeus de 94 Vacalebre Natale 222 n. Valdarfer Christoph 30, 32, 39 e n., 41 n., 42 e n., 43, 53 Valentinelli Giuseppe 102 n. Valla lorenzo 29, 56 n. Veldener Johann 194 e n. Vergerio Pietro Paolo il Vecchio 88 e n., 94 e n. Versprille Ingeborg 218 n. Vespasiano da Bisticci 17 Veyrin-forrer Jeanne 80 e n., 81, 85, 194 e n., Vezin Jean 20 n. Vigneras louis A. 117 n. Vindelino da Spira 124, 165, 167 e n. Virgilio 195 Walbeck Johann 91 Walser ernst 46 e n., 47 Watson Andrew G. 20 n. Weichselbaumer Nikolaus 20 n. Wendelinus de Wila 90 Wenssler michael 165 Wilson Adrian 106 n. Wilson robert H. 41 n. Winters Conrad 94 Wolf Clemens de 216 n. Wolff Étienne 41 n., 45 n., 46-47 Worde Wynkyn de 102 Woudhuysen Henry r. 214 n. Wyttam richard 140 Zainer Günther 209 n. Zedler Gottfried 104 e n. Zell ulrich 78, 93 Ziesche eva 205 n. Zwink Benedict v. Benedetto di Baviera

INDICE DELLE FIGURE E DELLE ILLUSTRAZIONI

Figure 1. tommaso da modena che si prepara a scrivere (JOACHIM JOSEPH BERTHIER o.p., Le chapitre de San Nicolo de Trevise: peintures de Tommaso da Modena, rome, manuce, 1912, p. 153. 2. esempio di un libro in formato molto piccolo, destinato a essere letto in un momento di solitudine e quiete, AURELIUS AUGUSTINUS, Soliloquia (Incipit: Agnoscam te...), [Köln, Arnold ther Hoernen, fra l’8 II 1471 e il 4 III 1472], london, the British library (IA.3136). 3. CHRISTOPHORUS LANDINUS, [ma BARTOLOMEO MINIATORE], Formulario di epistole, firenze, Antonio di Bartolommeo miscomini, 1492, london, the British library (IA.27203), c. a1r. 4. Stemma codicum che riassume la diffusione delle Facetiae di Poggio Bracciolini in edizioni impresse prima degli opera omnia stampati a Basilea nel 1538. 5. a) POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [roma, Georg lauer, 1470 circa], london, British library (IA. 174477), c. [d]2r. b) POGGIO BRACCIOLINI, Facetiae, [roma, Georg lauer, 1470 circa], Glasgow, university library (Special Collections), c. [c]. 7r. 6. MARCO POLO, De conditionibus et consuetudinibus orientalium regionum, [Gouda, Gheraert leeu, fra il 1483 e l’11 VI 1484], Sevilla, Biblioteca Capitular y Colombina (10-3-2), c. a1r. 7. Venezia, Biblioteca Nazionale marciana, ms lat. X, 73 (3445), c. 1r. 8. a) Venezia, Biblioteca Nazionale marciana, ms lat. X, 73 (3445), c. 56r, ll. 16-17. b) MARCO POLO, De conditionibus et consuetudinibus orientalium regionum, [Gouda, Gheraert leeu, fra il 1483 e l’11 VI 1484], Sevilla, Biblioteca Capitular y Colombina (10-3-2), c. h2r. 9. Venezia, Biblioteca Nazionale marciana, ms lat. X, 73 (3445), c. 57r. 10. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. esempi di correzioni avvenute in tipografia e riscontrati su entrambi gli esemplari london, the British library (C.11.e.13/14; IC.150). 11. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. esempi di correzione apportate nel testo della prima composizione tipografica, poi incorporate nella seconda, london, the British library (C.11.e.13/14; IC.150). 12. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, deutsches Buch- und Schriftmuseum der deutschen Nationalbibliothek leipzig, (KlemmSammlung, II 1, 3 d), c. [b]1r.

INdICe delle fIGure e delle IlluStrAZIONI

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13. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. Iniziale istoriata e decorata. london, the British library (C.11.e.13), c. [b]1r. 14. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. Iniziale decorata ma non istoriata, Wiesbaden, landesbibliothek (Inc. 195), c. [b]1r. 15. a) b) c) HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. Iniziali dipinte. dettagli. riga, latvian Academy of Science library (Cat. 98). 16. a) HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. Iniziale contenente la marca tipografica di Peter Schoeffer (Collezione privata), c. [m]10r. b) HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, Niedersächsische Staats- und universitätsbibliothek Göttingen (gr., Patr. lat. 118/17 Inc.), c. e1r. 17. THOMAS AQUINAS, Summa Theologiae. Pars secunda prima pars, mainz, Peter Schoeffer, 8 XI 1471, Würzburg, universitätsbibliothek (Inc.f.42), c. [a]1r. 18. GREGORIUS IX, Decretales, mainz, Peter Schoeffer, 23 XI 1473 (Collezione privata). 19. JUSTINIANUS, Codex, mainz, Peter Schoeffer, 16 VI 1475, Biblioteca Apostolica Vaticana (Barb. AAA IV 19), c. s5r. 20. JUSTINIANUS, Codex, mainz, Peter Schoeffer, 16 VI 1475, london, the British library (C.11.e.5), c. s5r. 21. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, Strasbourg, Coll. Bibliothèque Nationale et universitaire (K.1.968. Photogr. BNu Strasbourg), c. V11v. 22. a) WERNER ROLEWINCK, Fasciculus temporum, Köln, Arnold ther Hoernen, 1474, den Haag, Koninklijke Bibliotheek (170 B 33), c. gr, col. a, l. 7. b) WERNER ROLEWINCK, Fasciculus temporum, Köln, Arnold ther Hoernen, 1474, den Haag, Koninklijke Bibliotheek (170 B 12), c. gr, col. a, l. 7. 23. GUILLAUME DURAND, Rationale divinorum officiorum, [mainz], Johann fust e Peter Schoeffer, 6 X 1459, Bayerische Staatsbibliothek münchen (2 Inc.c.a. 2, fol. xx), c. s7v. Illustrazioni I. londra, British library, ms Burney 275, fol. 176v. II. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, Würzburg, universitätsbibliothek (I.t.f.9), c. [a]1r. III. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, París, Bibliothéque de l’Arsenal (Gr. fol. H13, c), c. [a]1r. IV. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, Bibliothequé de Versailles (Inc. f 11 e Inc. f 12), c. [a]1r.

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fAre uN lIBrO Nel QuAttrOCeNtO

V. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, Strasbourg, Coll. Bibliothèque Nationale et universitaire (K.1.968. Photogr. BNu Strasbourg), c. [a]1r. VI. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. dettaglio della decorazione di una iniziale, Strasbourg, Coll. Bibliothèque Nationale et universitaire (K.1.968. Photogr. BNu Strasbourg), c. I7r. VII. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. esempio di decorazione con piccola iniziale contenente un motivo a grottesche (Collezione privata). VIII. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, Stuttgart, Wüttembergische landesbibliothek (Inc. 195),c. [b]1r. IX. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, deutsches Buch- und Schriftmuseum der deutschen Nationalbibliothek leipzig, (KlemmSammlung, II 1, 3 d), c. [b]1r. X. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. Iniziale istoriata e decorata. london, British library (C.11.e.13), c. [b]1r XI. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. Iniziale decorata ma non istoriata, Wiesbaden, landesbibliothek (Inc. 195), c. [b]1r XII. HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. Iniziali dipinte. dettagli. riga, latvian Academy of Science library (Cat. 98) XIII. a) HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470. Iniziale contenente la marca tipografica di Peter Schoeffer (Collezione privata), c. [m]10r. b) HIERONYMUS, Epistolae [a cura di] Adriano de Brielis, mainz, Peter Schoeffer, 7 IX 1470, Niedersächsische Staats- und universitätsbibliothek Göttingen (gr., Patr. lat. 118/17 Inc.), c. e1r. XIV. THOMAS AQUINAS, Summa Theologiae. Pars secunda prima pars, mainz, Peter Schoeffer, 8 XI 1471, Würzburg, universitätsbibliothek (Inc.f.42), c. [a]1r. XV. GREGORIUS IX, Decretales, mainz, Peter Schoeffer, 23 XI 1473 (Collezione privata). XVI. JUSTINIANUS, Codex, mainz, Peter Schoeffer, 16 VI 1475, Biblioteca Apostolica Vaticana (Barb. AAA IV 19), c. s5r. XVII. JUSTINIANUS, Codex, mainz, Peter Schoeffer, 16 VI 1475, london, the British library (C.11.e.5), c. s5r. XVIII. Biblia latina, 42 linee, [mainz: tipografo della Bibbia delle 42 linee (Johann Gutenberg) e Johannes fust, 1455 circa], Austin, Harry ransom Humanities resarch Centre (B 42 I), c. [160]v.

«libri e Biblioteche» 1.

UGO ROZZO, Linee per una storia dell’editoria religiosa in Italia (1465-1600) (1993).

2.

CRISTINA MORO, Gli incunaboli delle biblioteche ecclesiastiche di Udine (1998).

3.

UGO ROZZO, Biblioteche italiane del Cinquecento tra Riforma e Controriforma (1994).

4.

Libri e documenti d’Italia: dai Longobardi alla rinascita delle città (1996), a cura di Cesare Scalon.

5.

La censura libraria nell’Europa del secolo XVI (1997), a cura di ugo rozzo. (esaurito)

6.

UGO ROZZO, Lo studiolo nella silografia italiana (1479-1558) (1998). (esaurito)

7.

Bibliografia testuale o filologia dei testi a stampa? (1999), a cura di Neil Harris.

8.

Pier Paolo Vergerio il Giovane, un polemista attraverso l’Europa del Cinquecento (2000), a cura di ugo rozzo.

9.

Paolo Diacono. Uno scrittore fra tradizione longobarda e rinnovamento carolingio (2000), a cura di Paolo Chiesa.

10. La lettera e il torchio. Studi sulla produzione libraria tra XVI e XVIII secolo (2001), a cura di ugo rozzo. 11. PAOLO PELLEGRINI, Pierio Valeriano e la tipografia del Cinquecento (2002). (esaurito) 12. Paolino d’Aquileia e il contributo italiano all’Europa carolingia (2003), a cura di Paolo Chiesa. 13. Vincenzo Joppi 1824-1900 (2004), a cura di francesca tamburlini e romano Vecchiet. 14. ENZO BOTTASSO, «La filosofia del bibliotecario» e altri scritti (2004), a cura di Attilio mauro Caproni e ugo rozzo. 15. UGO ROZZO, La letteratura italiana negli ‘Indici’ del Cinquecento (2005). 16. Storia per parole e per immagini (2006), a cura di ugo rozzo e mino Gabriele. 17. CRISTINA MORO, La biblioteca di Antonio Bartolini. Erudizione e bibliofilia a Udine tra Settecento e Ottocento (2007). 18. GIANCARLO PETRELLA, Uomini, torchi e libri nel Rinascimento (2007). (esaurito) 19. UGO ROZZO, La strage ignorata. I fogli volanti a stampa nell’Italia dei secoli XV e XVI (2008). (esaurito) 20. ANTONIO CAPELLO, Prodromus iconicus sculptilium gemmarum Basilidiani amulectici atque talismani generis (2008), a cura di mino Gabriele. 21. LORENZO DI LENARDO, I Lorio: editori, librai, cartai, tipografi fra Udine e Venezia (14961629) (2009). 22. Alexander Wolf tra Piemonte e Friuli: archeologia, linguistica, storia e cultura nel secondo Ottocento (2009), a cura di lorenzo di lenardo.

23. GIANCARLO PETRELLA, Fra testo e immagine. Edizioni popolari del Rinascimento in una miscellanea ottocentesca (2009). 24. Bibliografia e identità nazionale: il caso trentino nel XVIII secolo (2009), a cura di luca rivali. 25. GIANCARLO PETRELLA, La Pronosticatio di Johannes Lichtenberger. Un testo profetico nell’Italia del Rinascimento (2010). 26. Viaggi di testi e di libri. Libri e lettori a Brescia tra Medioevo e età moderna (2011), a cura di Valentina Grohovaz. 27. La filologia di Michele Barbi e i canti popolari (2011), a cura di Augusto Guida. 28. MARCO PISPISA, La biblioteca dei conti de Brandis del Friuli (1500-1984) (2012). 29. Lettere come simboli. Aspetti ideologici della scrittura tra passato e presente (2012), a cura di Paola degni. 30. ORTENSIO LANDO, I funerali di Erasmo da Rotterdam. In Des. Erasmi Roterodami funus (2012), a cura di lorenzo di lenardo. 31. Alchimia ed emblemi. Il manoscritto desiderabilia super Aurum (XVII secolo) (2013), a cura di monica tommasini. 32. Caterina Percoto: tra «impegno di vita» e «ingegno d’arte» (2014), a cura di fabiana Savorgnan di Brazzà. 33. Giovanni Boccaccio: tradizione, interpretazione e fortuna. In ricordo di Vittore Branca (2014), a cura di Antonio ferracin e matteo Venier. 34. STEFANO TROVATO, Antieroe dai molti volti: Giuliano l’Apostata nel Medioevo bizantino (2014). 35. Libri, lettori, immagini. Libri e lettori a Brescia tra Medioevo ed Età moderna (2015), a cura di luca rivali. 36. LOTTE HELLINGA, Fare un libro nel Quattrocento. Problemi tecnici e questioni metodologiche (2015), a cura di elena Gatti.