Una cultura della realtà. Roberto Rossellini documentarista 8843066129, 9788843066124

Con una metodologia critica che si colloca tra ricerca storica, cultural e postcolonial studies, Luca Caminati propone u

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Italian Pages 148 [143] Year 2012

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Una cultura della realtà. Roberto Rossellini documentarista
 8843066129, 9788843066124

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Luca Caminati

Una cultura della realtà. Rossellini documentarista

To Masha, the forward-thinking kind of gal

CENTRO SPERIMENTALE DI CINEMATOGRAFIA

Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografìa Presidente Francesco Albero ni

Direttore generale Marcello Poti

Consiglio di amministrazione Francesco Albero ni Giuseppe Avati Giancarlo Giannini Giorgio Tino Dario Edoardo Viga nò

Collegio dei revisori dei conti Natale Monsurrò (presidente) Andrea Mazzetti Marco Mugnai

Comitato scientifico Francesco Albero ni Pino Fari notti Marco Mùller Andrea Piersanti Rubino Rubini Sergio Sciarelli

Divisione Editoria Direttore Gabriele Antinolfi

Editing e Redazione Laura Gaiardoni

Ufficio Coordinamento, Amministrazione e Attività Promozionali della Divisione Editoria Mario Militello (Responsabile) Charmane Spencer (Segreteria organizzativa)

Progetto grafico e impaginazione Alberto Guerri, Maria Romana Nuzzo

@ 2011 Fondazione Centro Sperimentale di Cinematografia, Roma http://www.fondazionecsc.it in collaborazione con Carocci Editore, Roma http://www.carocci.it ISBN

Prima edizione: dicembre 2011

In copertina:

Il volume è illustrato prevalentemente con fotogrammi tratti da pellicole conservate presso la Cineteca Nazionale. Le altre immagini, foto di scena, foto di set, foto di viaggio e una selezione di fotografie della famiglia Rossellini, provengono dal Fondo Rossellini, custodito presso la Fototeca della Cineteca Nazionale. I fotogrammi di titoli provengono dai seguenti archivi: La Fondazione è disponibile a riconoscere ai legittimi detentori il copyright relativo alle fotografie delle quali non è stato possibile reperire gli aventi diritto.

Sommario 7

13

Ringraziamenti

Prefazione

Laboratori rosselliniani e cinema del pensiero di Marco Bertozzi 19

La produzione documentaria alla fine degli anni '30

Il “documentario narrativo" La maniera di Rossellini 27

I primi esperimenti di documentario narrativo

«Fantasia sottomarina» «Il ruscello di Ripasottile» «La vispa Teresa» «Il tacchino prepotente» Il documentario romanzato 35

«India Matri Bhumi»: la forma documentaria incontra l'alterità

La nuova libertà Il perturbante postcoloniale Rossellini a Parigi Passaggio in India «India Matri Bhumi» 45

I documentari televisivi sull'india

«L'India vista da Rossellini» «J'ai fait un beau voyage» 59

I documentari d'occasione

«Torino nei cent'anni» «Torino tra due secoli» «“Idea di un'isola"» «Intervista a Salvatore Allende» «Rice University» «A Question of People» «Concerto per Michelangelo» «Le Centre Georges Pompidou» 71

Postfazione

Rossellini documentarista? di Adriano Aprà 107

Filmografia

di Adriano Aprà 107

Bibliografia

A

Rossellini in India

Ringraziamenti

Questo lavoro è nato grazie all’incoraggiamento, all’entusiasmo e al­ l’amicizia di Francesco Casetti, da poco professare alla Yale University, che unitamente a Dario Edoardo Viganò e Gabriele Antinolfi, si è fatto promotore del progetto presso il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Al Centro Sperimentale ha subito trovato l'incondizionato appog­ gio di Mario Militello, responsabile del coordinamento per la Divisione Editoria, dove ha preso l’attuale forma di libro grazie agli occhi attenti dell’editor Laura GaiardonL È stata Laura a suggerire il titolo Una cultura della realtà, che coglie in pieno lo spirito del volume Per la ricca parte ico­ nografica e l’elegante impaginazione del testo ringrazio Alberto Guerri (reparto grafico). La gran parte della ricerca e della scrittura di questo volume è avvenuta a Roma, grazie alla borsa di studio Paul Mellon/NEH (National Endowment for the Humanities) della American Academy per l’anno accademico 2009/2010. Il soggiorno in Accademia mi ha permesso di condurre la ri­ cerca su fonti spesso rare o sconosciute, e ho potuto godere dell’apporto anedottico di molti studiosi e testimoni. In particolare, ho avuto la fortuna di accedere all’archivio privato di Adriano Aprà, che mi ha generosamente messo a disposizione materiale inedito o parzialmente edito e che si è gen­ tilmente prestato a scrivere un suo intervento per questo volume. Per l’aspetto bibliografico ho avuto l’incondizionato aiuto di Laura CeccareHi, della Biblioteca “Luigi Chiarini" del Centro, e di Anna Maria Licciardello, dello staff di Enrico Magrelli, Conservatore della Cineteca Nazionale. È grazie ad Antonella Félicioni (archivio fotografico della Cineteca Nazio­ nale) che ho potuto consultare le immagini appartenenti al Fondo Ros­ sellini. A Roma mi è stata di grandissimo aiuto la collega e amica Ivélise Perniola, che mi ha immediatamente messo a disposizione il suo archivio privato e mi ha permesso, attraverso le nostre conversazioni, di trovare la giusta via per continuare questo studio. Ivefise è stata anche lettrice at­ tenta del primo capitolo. Marco Bertozzi si è gentilmente prestato a leg­ gere il manoscritto, e i suoi commenti sono stati essenzialL Sua è la bella prefazione a questo volume, di cui gli sarò sempre grato. Ringrazio Giuzzo

Barbaro, figlio di Umberto, attraverso i cui aneddoti siamo riusciti a rico­ struire pezzi mancanti della storia del cinema italiano. Alfredo Baldi mi ha generosamente aperto le porte del suo ufficio privato per permettermi di consultare materiale inedito. H giovane novantenne Vittorio Carpignano, studente al Centro nel biennio 1938-1939, ha permesso di rico­ struire alcuni momenti iniziali della carriera di Rossellini. Viva Paci si è generosamente prestata a leggere una versione primitiva del testo. Vero­ nica Pravadelli e Paolo Bertetto hanno offerto il loro aiuto e la loro ami­ cizia durante il mio soggiorno romano. E, last but not least, Renzo Rossellini, che in un terso giorno di febbraio mi ha concesso un incontro nei suoi uffici romani, non sapendo che non sarebbe più riuscito a libe­ rarsi di me. A Renzo e alla sua amicizia questo volume deve tantissimo in termini sia accademici che personali. Un grazie sentito va alla Concordia University di Montreal, e alla Faculty of Fine Arts che mi ha generosamente garantito i fondi necessari per fi­ nire il lavoro. Un grazie particolare ai miei colleghi della Mei Hoppenheim School of Cinema, che mi hanno accolto fin da subito con grande simpatia e calore. E grazie a loro e ai nostri entusiasti studenti se la mia ricerca scientifica trova sempre nuovi stimoli. La lettrice più attenta di questo libro, e che ne ha seguito lo sviluppo dal suo incipit, è stata, come sempre, Masha Salazkina, che con le sue uniche qualità “transnazionali” ha potuto liberare Rossellini dalla palude italiana, e inquadrarne l’opera in una più corretta dimensione europea e interna­ zionale. A lei, e ai rosselliniani di ieri e di oggi, dedico questo lavoro.

6 I

Laboratori rosselliniani e cinema del pensiero di Marco Bertozzi

Il libro di Luca Caminati traccia un percorso emblematico per la rifles­ sione sul cinema del reale. Almeno per tre motivi. Il primo, naturalmente, sta nell’immersione dell’autore nel Rossellini documentarista. Caminati corre pienamente i rischi del confronto con un cinema più volte definito, in toto e semplificando molto, “documentario”. All’ambiguità del termine in sé si aggiunge l’incertezza teorica di una critica che vedeva nel neo­ realismo un movimento ontologicamente documentario: come se fra il mondo e la sua messa in forma filmica non esistessero scarti, aporie, de­ ragliamenti. Ecco, la riflessione sul rapporto fra “realtà” e “finzione” in Rossellini ci obbliga invece ad affinare gli sguardi: ad attraversamenti lenti, nell’osservazione minuziosa di alcune derive dell’idea documenta­ ria, fra cinema antropologico e divulgazione televisiva, documentario di creazione e film saggio, cortometraggio ludico-espressivo e documenta­ rio scientifico. Il motto rosselliniano «per pensare bisogna sapere»1 illu­ mina un cinema con aspirazioni saggistiche, un cinema per esprimersi, un cinema che “sbanda” nell’ascolto/incontro con il mondo. Un campo aperto, irrorato da idee libere da preconcetti - uno, fra tutti, il documen­ tario come “genere” - in cui emerge il laboratorio di uno sperimentatore capace di ibridare diversi campi cinematografici. Per questo il bel libro di Caminati ha una ricaduta importante sul docu­ mentario contemporaneo. Osservando la molteplicità degli approcci rosselliniani, ci impone una riflessione sulle forme cinematografiche del presente e spinge a confondere gli sguardi fra “osservazione documenta­ ria” e “finzione realistica”. Trasferte scopiche garantite dall’accoglienza dell’epifanico: nella capacità, per il cinema di Rossellini, di aprirsi all’accadimento, all’imprevisto, all’intrusione del fato. Atti di accoglienza per una ricostruzione del mondo baciata dal pensiero figurale ma lontana dagli agonismi intellettuali della cultura istituzionale. Un insegnamento per l’oggi, l’idea che lo sguardo documentario non garantisca certezze ma solo ricchezza, e deragliamento, di punti di vista. Proprio osservando i suoi documentari su popoli e culture - penso, ad esempio, a India Matti Bhumi (1957-1959) o a “Idea di un’isola” (1967), sulla Sicilia e i siciliani

- l’inizio giornalistico, fortemente descrittivo, viene via via abbandonato a favore di un tempo dell’attesa e dell’introspezione, in cui la dimensione socio-antropologica perde i suoi connotati “scientifici” - Gianni Celati di­ rebbe “amministrativi” - per irrorare il film di sguardi perduti sulla vita quotidiana dell’uomo in quanto tale. È quel «paziente lavoro di rammendo della specie umana»2 che Rossellini amava ricordare. E che solo il tempo dell’attesa riusciva a saturare. Un altro importante aspetto del libro di Caminati riguarda il “racconto” dell’esperienza realistica antecedente il neorealismo. Come per Michelan­ gelo Antonioni, l’esempio di Rossellini è probante e costituisce un preci­ pitato dell’avanguardia documentaria al neorealismo. Una emergenza necessaria, che accomuna tutto il miglior cinema italiano del periodo: uno sguardo che non è solo questione di occhi, ma che pervade, congiuntamente, etica ed estetica. Un attacco all’ammissibilità del realismo di regime che, ben prima del crollo di Mussolini e della disfatta bellica, trova isti­ tuzioni e intellettuali fascisti opporsi all’invisibilità del “paese reale” per incontrare ambienti dal vero e attori sociali, professioni nascoste e lingue regionali, tragedie locali e drammi nazionali. Uno sguardo intriso di at­ tenzione agli aspetti della realtà fenomenica che parte dal documentario e, in Rossellini, informa la serie di opere “ibride” della trilogia della guerra, La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942), L’uomo dalla croce (1943). Si tratta di film di finzione girati in piena guerra ma privi di facili tenta­ zioni retoriche o direttamente propagandistiche, permeati piuttosto da un evidente stile documentaristico. Caminati, inserendosi in un percorso sto­ rico-critico recentemente suffragato anche da altre ricerche, evidenzia il fiume carsico di esperienze capaci di instaurare quel nuovo modo di guar­ dare il mondo. Esperienze che, ben prima del neorealismo, correggono, in maniera quasi dimessa, il compito di glorificazione chiesto loro dalla re­ torica del regime. H terzo motivo d’interesse del libro di Caminati riguarda l’espansione cri­ tica verso opere normalmente dimenticate dai tradizionali studi di storia del cinema. La scarsa considerazione critica dei documentari - a parte rari casi, in cui la rilevanza dell’oggetto indagato sembra obbligare, di per sé, la necessità della riflessione - conduce la non-fiction a una assurda pe­ nombra storiografica (non essere nemmeno inserita nelle filmografie degli autori). Indegni di una specifica analisi filmica. Una serie di partiti presi - l’associazione del documentario all’idea di breve durata; il ritenerlo pa­ lestra di formazione per ambire poi al “vero” film, quello narrativo; l’in­ tenderlo poco più di una mera osservazione del mondo e molto meno di una sua messa in forma originale - riduce questo cinema, soprattutto negli studi italiani, a un ruolo ancellare del “cinema che conta”. Eppure le cose sono andate diversamente e senza autori come Dziga Vertov o Vittorio De Seta, Joris Ivens o Frederick Wiseman, Raymond Depardon o Artavazd Pelesjan la storia del cinema sarebbe stata un’altra storia. Caminati, in sintonia con la recentissima nouvelle vague storiografica, allarga dunque le maglie del visibile per consegnarci una importante revisione del per­ corso rosselliniano. Un allargamento che, congiuntamente, sta coinvol8 I

gendo altri autori: cito, ad esempio, le opere documentarie di Pier Paolo Pasolini, sino a pochi anni fa ritenute minori, quei meravigliosi film in forma di appunti “ridotti” a semplici sopralluoghi per opere narrative a ve­ nire. Alfine, il libro di Caminati illustra un percorso esemplare per un cinema del pensiero. L’idea di una realtà non esplicabile si confronta con scarti dalla visione documentaria, ritenuta, di volta in volta, ammissibile. Un li­ vello di sorveglianza tenero - che rifiuta la dittatura della sceneggiatura chiusa - in cui l’ammissione dell’inatteso illumina una poetica senza scampo. Una ricerca costante, di un autore dalla vocazione multimediale, attratto da un visibile mai domo.

1. Roberto Rossellini, IsIam. Impariamo a conoscere il mondo mussulmano, Don­ zelli, Roma, 2007, p. 4. 2. Ivi, p. 3.

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A

Acciaio

La produzione documentaria alla fine degli anni ’30

L’importanza del dibattito sulla natura del rea­ lismo nell’arte e nella cultura di massa del re­ gime fascista, più in particolare sul ruolo dei film e della narrativa (fiction e non-fiction) nella formazione della cultura del Ventennio, recentemente intrapreso da alcuni critici nor­ damericani - tra cui spicca il lavoro di Ruth Ben-Ghiat, Fascist Modernities - costringe gli studiosi a rivalutare il ruolo del documentario nello sviluppo della modernità italiana1. Do­ cumentari e cinegiornali giocarono un ruolo chiave nel processo di modernizzazione por­ tato avanti dal regime, sia come documenta­ zione del successo delle iniziative governative (l’immagine del duce come guida in ogni campo del processo è uno dei segni iconici di quest’epoca) sia come parte integrante di una spinta verso un più diretto contatto con la realtà2. L’idea che il realismo (il “neorealismo’’) fu un’opzione solo postbellica sembra ormai un ipotesi svalutata della cui genesi sono responsabili molti critici cinematografici ed esponenti culturali del dopoguerra (quelli che per primi scrissero la storia del cinema italiano). Essi s’impegnarono a fondo a dif­ ferenziare il “nuovo” cinema (e loro stessi) da ogni prodotto culturale con­ taminato dall’ideologia dell’era fascista3. E infatti per quel che riguarda il neorealismo, invece di guardare indietro al cinema di quegli anni, tutti gli intellettuali guardarono sul piano geografico fuori dall’Italia e sul piano cronologico a un periodo antecedente, allo scopo di localizzare in un mitico altrove il milieu culturale del nuovo cinema del dopoguerra4. Inoltre gli storici del cinema hanno associato la produzione documenta­ ristica prebellica con i cinegiornali deH’Istituto Nazionale luce, conosciuti per le loro implicazioni didattiche e propagandistiche, senza prendere in considerazione la ricca produzione di altri tipi di film non-fiction5. A un livello ideologico-culturale più complesso, quest’omissione può riflettere 11

il pregiudizio culturale, stabilito dal criticismo crociano, contro il docu­ mentario come prodotto “non artistico”. E una volta attribuito al neorea­ lismo lo status di cinema modernista (sia in senso storico, come cinema del pre-boom, sia in senso estetico, come fa Gilles Deleuze quando pro­ prio nel neorealismo identifica la frattura tra cinema-movimento e il mo­ derno cinema-tempo 6), quest’omissione può rispecchiare una particolare lettura “liberal” del neorealismo come cinema d’arte, non contaminato da forme basse come il documentario. L’insistenza dei primi storici del ci­ nema italiano (come Umberto Barbaro nelle sue recensioni, o Carlo Liz­ zani nella sua Storia del cinema italiano) sulle fonti letterarie e pittoriche indigene riflette proprio quest’ansia verso il métissage e l’ibridazione ar­ tistica7. La mia ricerca mostra infatti come negli anni ’20 e ’30 ci fosse in realtà una vitale cultura cinematografica italiana che generò un interessante sebbene piccolo - corpus di documentari, e un dibattito culturale molto vivace sulla questione del realismo nelle arti e nel cinema in particolare. Sebbene il dibattito sorto intorno al documentario scompaia con il fiorire del neorealismo dopo il 1945, esso era stato in realtà molto animato dal 1935 circa sino alla fine della guerra. Molti degli autori di «Cinema» (cul­ turalmente gravitante intorno all’istituto luce sotto la direzione di Vitto­ rio Mussolini, figlio del duce) e di «Bianco e Nero» (pubblicata dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma a partire dal gennaio 1937) - le due più influenti riviste di cinema dell’epoca - discutono l’impatto avuto dai registi documentaristi John Grierson, Alberto Cavalcanti, Joris Ivens, Robert Flaherty e dal fotografo Walter Evans sul cinema italiano, eviden­ ziando l’importanza di questo genere per lo sviluppo del cinema contem­ poraneo. Tra le varie discussioni sul documentario come genere, quel che più spicca è il dibattito sul “documentario narrativo” (come Cavalcanti definisce questo tipo di film alla Flaherty che mescola fiction e non-fiction)8. Le serie discussioni critiche generate dal cinema documentario pos­ sono fornire un grande contributo alla storia - sempre in evoluzione del cinema documentaristico italiano e alla altrettanto complessa rela­ zione tra fiction e “modi” del documentario 9. Senza dimenticare un fatto molto pratico: è infatti del 1926 (Regio Decreto Legge n. 1000) la legisla­ zione che impone ai teatri di mostrare cinegiornali e documentari prima di ogni proiezione di un lungometraggio10. Non è dunque un caso che la fine degli anni ’30 veda fiorire nuove compagnie di produzione (come per esempio la Dolomite Film per cui lavoreranno sia Roberto Rossellini che Luciano Emmer, tra gli altri). La volontà propagandistica mussoliniana trova pronti mercanti della prima e dell’ultima ora. Vittorio Carpignano, allievo del Centro Sperimentale nel biennio 1938-1939, ricorda come «si facessero film in fretta e furia, tanto da venderli ai distributori» e ottenere così i fondi pubblici11. Ma prima di addentrarci nella storia della pratica documentaristica e della sua ricezione in Italia, dobbiamo confrontare la sua assenza dalla maggior parte delle storiografie del neorealismo e il con­ testo storico di questa importante omissione. In breve, per dirla con Adriano Aprà, è stato proprio il “realismo” neorealista a far fuori «le ri­

flessioni critiche e storiche e le esperienze pratiche» e ad «assorbir le pra­ tiche realiste» del documentario in Italia12. A dire il vero una retorica “realista” era già parte della discussione sul realismo nel cinema degli anni ’30, come ampiamente provato da Gian Piero Brunetta e Ben-Ghiat13. Riviste letterarie come «L’Universale», «La Libra» e «Occidente», e personalità del calibro di Berto Ricci, Ottone Rosai e Dino Garrone erano coinvolte in questo dibattito. E tra loro spiccava certamente Barbaro, il cui ruolo nel dispensare una poetica realista è già stato investigato in profondità da Brunetta. U ruolo del film di non-fiction nella tarda era fascista è evidenziato, pro­ prio nel primo numero di «Bianco e Nero», dalla traduzione di un’ampia selezione tratta da Movie Parade di Paul Rotha del 193614, e l’interesse del Centro Sperimentale per il “documentario narrativo” sembra essere un nesso mancante intenzionalmente trascurato nella storia del neorealismo. Questa connessione tra cinema “dal vero” e neorealismo può ora essere ri­ condotta a un momento precedente. Quando il termine “neo-realismo” venne applicato per la prima volta in Italia - prima della sua più tarda comparsa nelle riviste di cinema intorno al 1948 - fu nel contesto di un riferimento al documentario. Nella sua genealogia del termine, Stefania Parigi afferma che, dalla metà degli anni ’30, i critici italiani applicarono questa definizione a esperienze estetiche diverse, per esempio al docu­ mentario del gpo (General Post Office) capitanato da Grierson15. Era la stessa parola che Cavalcanti avrebbe suggerito a Grierson di utilizzare per il suo lavoro documentaristico16. H fatto che “neorealismo” sia un termine elastico degli anni ’30 è allora significativo di una generale tendenza fi­ losofica e sociale al ritorno a un più rigoroso impegno con la realtà. Il neorealismo storico (l’effettivo movimento cinematografico del dopo­ guerra) è il culmine di un lungo processo di ravvicinamento tra arte e re­ altà nella Weltanschauung italiana ed europea. Il “documentario narrativo"

Anche un’occhiata superficiale ai documentari prodotti durante la seconda decade del regime fascista (1933-1943 ca.), fatta eccezione per i cine­ giornali propagandistici LUCE, mostra come questo nuovo genere straniero presentasse stimolanti possibilità per i registi italiani. Su riviste e giornali del tempo, la grande popolarità delle indagini sociali di Grierson (The Drifters, 1929), i documentari narrativi di Flaherty (Nanook of the North [Nanuk Tesquimese, 1922], Moana [L’ultimo eden, 1926] e Man ofAran [L’uomo di Aran, 1934]), insieme con esperimenti simili di docu-fìction come Tabu (Tabù, 1931) di Friedrich Wilhelm Mumau, stimolò un gruppo di registi italiani attivi su simili linee di lavoro “ibride”. Mino Argentieri, nel suo L’occhio del regime, ricorda che Sandro Pallavicini negli Stati Uniti scopre The March of Time (nel 1934)17, il cinegiornale di Louis de Rochemont, in seguito produttore anche di semidocumentari dalle tinte narra­ tive noir, come per esempio Boomerang (Boomerang, l’arma che uccide, 1947) diretto da Elia Kazan. Questo “genere” era stato vagheggiato in Ita­ lia principalmente da chi disquisiva di un cinema che si liberasse dall’arI 13

Camicia nera

tìficiosità degli studios, dalle manipolazioni drammaturgiche, dalle con­ taminazioni letterarie e teatrali e dal divismo, avendo come paradigma i film di Flaherty e della cinematografia sovietica muta. Ma a caldeggiarlo erano stati anche i propugnatori di un cinema che fosse più stretto alla ideologia e alla “rivoluzione culturale" fasciste. Forse il primo caso italiano di fiction/non-fiction è Palio (1932), diretto da Alessandro Blasetti con Anchise Brizzi come direttore della fotografia (lo ritroveremo nello stesso ruolo in “Sciuscià" [Ragazzi], 1946, di Vittorio De Sica). Il film viene de­ scritto da Barbaro come «misto di documentario e di narrativo [...], nemico degli stacchi rapidi e del montaggio alla russa, [Blasetti] usa spesso car­ rèllo e panoramica teso com'è all’intenzione di dare consistenza narra­ tiva e fluidità ai suoi film»18. Un simile esperimento viene condotto Fanno successivo: è Camicia nera di Giovacchino Forzano, prodotto dal luce e di­ stribuito nel marzo del 1933. Girato parzialmente in Maremma con attori non professionisti, impressionò i recensori dell’epoca, tra cui “V. L." che scrive: «Antiletterario e antintellettuale, non curante dei dettagli, sprez­ zante di ogni sottigliezza tecnica, nemico giurato del decorativismo e del calligrafismo, totalmente devoto alla descrizione [...], fondamentalmente disinteressato alla fotografia e agli effetti di luce, il film ha un carattere naturalista e positivista, tutto sostanza e niente forma. Cosa si può dire, in una parola, è che è opera di ingegno [...]. La luce dominante del film è [...] l’oscurità. Tutte le inquadrature sono sommerse nell’ombra, in oscure e grigie zone d’ombre, così che c’è dunque un tono antielegante ma di genuina spontaneità. La fotografia è verista, senza eccessiva morbidezza, poco lavorata e assolutamente mancante di ogni pulitura finale»19. Per avere un vero spostamento di attenzione verso più interessanti forme di documentario bisogna però aspettare la figura cosmopolita di Caval­ canti. Questo intellettuale di origini italiane, nato in Brasile ed educato in Francia, si trasferì a Parigi alla fine degli anni ’20 e iniziò la carriera nel cinema come scenografo. Il suo primo lungometraggio è un documenta­ rio sperimentale, Rien que les heures (1930), una sorta di sinfonia citta-

Milizie della civiltà

dina che dipinge ventiquattro ore nella vita del Lumpenproletariat pari­ gino. Nel 1934 Cavalcanti si unì all’Empire Marketing Board di Grierson e poi alla Film Unit del GPO, divenendo una delle forze trainanti del mo­ vimento documentaristico britannico e lavorando ad alcuni dei capolavori gpo come Coalface (1935). Egli aveva inoltre regolari contatti con la scuola del Centro Sperimentale e collaborò con regolarità a «Bianco e Nero». Un articolo intitolato Documentari di propaganda, pubblicato nel 1938, co­ struisce una genealogia per il “documentario narrativo", da non confon­ dersi, nella tassonomia di Cavalcanti, con il “documentario puro" di Grierson. Il “documentario narrativo", soprannominato a volte “docu­ mentario poetico", ebbe i suoi precursori in Nanuk l’esquimese e L’ultimo eden, Grass: A Battle for Life (1925) e Chang: A Drama of the Wilderness (1927) di Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper e in La croisière noire (1927) di Léon Poirier. Il ruolo di Cavalcanti come intermediario tra Lon­ dra e Roma e come partecipante attivo alla vita del Centro è attestata da una breve nota non firmata apparsa su «Bianco e Nero» nel 1940: «Ab­ biamo visto privatamente alcuni documentari prodotti in Gran Bretagna da Alberto Cavalcanti. Cortimetraggi che sono costati poco, ma realizzati da persone di vivo entusiasmo e dotate di imo spiccato senso del cinema.

I 15

Acciaio

Quello che soprattutto ci ha interessato è stato il modo con cui è stato impiegato il sonoro: rumori, parole, musica. Invece, nei documentari ita­ liani che di rado si proiettano nei nostri cinema, non accade mai di me­ ravigliarsi per l’impiego del sonoro. Quasi sempre è una musichetta generica che commenta il susseguirsi delle immagini. Del resto, la mag­ gior parte dei documentari italiani è prodotta da individui il cui nome è taciuto sulle didascalie dei film»20. La posizione di Cavalcanti come modemizzatore della scena documenta­ ristica italiana non è stata ancora pienamente apprezzata. Sembra tutta­ via chiaro che fosse spesso in Italia e a Roma fino al 1942, quando non potè più entrare in Italia perché il suo passaporto brasiliano fu ritenuto so­ spetto21. La questione del suono sollevata dai redattori di «Bianco e Nero» punta in direzione di un suo “uso creativo" e in particolare della gestione di elementi diegetici e non diegetici. L’enfasi di Grierson su “suoni" e “pa­ role" impressionò i registi italiani probabilmente per il loro realismo22. In The British Documentary Film Movement, 1926-1946, Paul Swann indi­

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Milìzie della civiltà

vidua una questione chiave del rapporto Cavalcanti-Grierson. Mentre Grierson si dimise dal gpo nel giugno 1937, Cavalcanti vi rimase: è a que­ sto punto che Cavalcanti conduce la gpo Film Unit lontano dalle discus­ sioni teoriche su educazione pubblica e arte e verso film fortemente dipendenti dalle tecniche narrative deU’industria dei film commerciali... Lo story-documentary fece la sua prima apparizione quando Grierson era an­ cora al Post Office23. In questo stesso nuovo tono populista Harry Watt produsse The Saving of Bill Blewitt (1936). Questo film aveva dialoghi scritti, scenografie e, la cosa più significativa, era costruito intorno a una storia completamente immaginaria. Esso, tuttavia, era anche realizzato in gran parte in esterno e con attori non professionisti, persone reali che re­ citavano in eventi che avrebbero potuto molto probabilmente accadere nel corso della loro esistenza quotidiana. Come Swann non manca di in­ dicare, questo film «anticipa per alcuni aspetti le tecniche di produzione e l’estetica del neorealismo italiano»24. Bill Blewitt fu infatti un rifiuto della precedente tradizione griersoniana del didatticismo a favore di un approccio molto più umanistico, che intimoriva meno quanto a soggetti filmici e vicinanza allo spettatore. «Lo story-documentary, in contrasto con la tradizione griersoniana, conta in primo luogo sulla continuity di montaggio del convenzionale film in esterno. In questo tipo di produzione cinematografica, il peso del film era portato entro la narrazione e le per­ formance degli attori. Watt aveva imparato come gestire i non-attori nei film dal suo apprendistato sotto Robert Flaherty»25. La nuova direzione del gpo da parte di Cavalcanti si manifestò anche neH’insistenza su attori non profes­ sionisti impegnati a recitare una sceneggia­ tura25. L’influente figura di Cavalcanti nello svi­ luppo del “documentario narrativo’’, o storydocumentary, deve aver trovato un pubblico entusiasta tra gli studenti, gli insegnanti e i seguaci del Centro27. In un articolo su «Ci­ nema» del 1939, Barbaro ammonisce contro il mero didatticismo nel documentario, e promuove invece L’uomo di Aran come esempio di arte e documentazione28. In senso più generale, i registi e i critici cinematogra­ fici italiani aderirono all’interesse mondiale per il nuovo genere del documentario, come provato dall’insistita pubbli­ cazione degli interventi di Rotha su «Bianco e Nero» e dalla pubblicazione, nella sua interezza, della traduzione di Raymond Spottiswoode, A Gram­ mar of the Film, nel 193829. E i documentari del gpo trovano posto anche a Venezia: Night Mail (1936) di Basil Wright e Watt (prodotto da Grierson) viene presentato nel 1936. North Sea (1938) di Watt (prodotto da Caval­ canti) nel 193830. Ne sono un esempio tutti i documentari dell’epoca che facevano riferimento alle varie tendenze europee, come la sinfonia della città, o gli studi umanistici di eventi o località specifiche31. È il caso di Ac-

ciaio (1933) di Walther Ruttmann, ispirato da un testo di Luigi Pirandello (e da questi sconfessato), Il canale degli angeli (1934) di Francesco Pasinetti, Il ventre della città (1933) di Francesco Di Cocco, Cantieri del­ l’Adriatico (1932) di Barbaro e II pianto delle zitelle (1939) di Giacomo Pozzi Bellini. Non è dunque difficile immaginare che Cavalcanti trovò nel Centro un terreno fertile. L’intervento su «Cinema» di Pietro Francisci, do­ cumentarista autore di Armonie di primavera (1940) e Sosta d’eroi (1941), e direttore artistico sotto Sandro Pallavicini alla incom (Industrie Corti Me­ traggi), polemicamente intitolato Del “puro" e del “romanzato" nel docu­ mentario, e aspramente critico della nuova classificazione, testimonia del vivo interesse e partecipazione di critici e autori32.

Cornacchia

La maniera di Rossellini

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Anche se la via italiana verso il “documentario narrativo" non raggiunse i risultati di altri paesi né in termini di qualità né in termini di quantità, il modo fu certamente visto come un possibile campo di espressione, esplo­ rato da alcuni registi già nei primi anni ’30. Piuttosto che parlare di veri documentari narrativi, possiamo dire che troviamo delle istanze narrative in molti dei documentari dell’epoca. Ne sono un esempio due brevi docu­ mentari sullo stesso soggetto: Co macchio (1940-1942) di Fernando Cerchio e Gente di Chioggia (1940) di Basilio Franchina da un soggetto di Giovanni Confisso. La gente e la vita del delta del Pò - di li a pochi anni ri­ presi prima da Michelangelo Antonioni nel suo Gente del Po (1943-1947), e poi da Ros­ sellini nell’ultimo episodio di Paisà (1946) vengono descritti focalizzando l’interesse dello spettatore su microstorie (un pesca­ tore, un bambino, una famiglia ecc.) all’in­ terno di un arco narrativo relativamente tradizionale, accompagnato da musica dal sapore modernista e immagini a tratti anche leziose, in cui si investigano i diversi aspetti dell’attività della pesca. Interessante in que­ sto senso l’incipit di Gente di Chioggia. Mentre la prima scena ci mostra una barca di pescatori al largo in preda a una tempesta (visivamente vicino a The Drifters), subito dopo una triste colonna sonora accompagna la pano­ ramica di una donna con i bambini in ovvia attesa al porto. Piuttosto al­ lora che l’oggettivismo griersoniano, qui diventa più evidente come modello North Sea, dove il documentarista segue e modella con parti scritte la vita di un gruppo di pescatori scozzesi33.1 due film, di soggetto simile, mostrano la grande differenza di approccio tra il gpo di Grierson e di Ca­ valcanti, e l’ovvio effetto di quest’ultimo sugli italiani. Un altro interes­ sante esempio è il melodrammatico T.o. [Treno Ospedale] 34 (1941) di Carpignano. Il film, di 12 minuti, segue un gruppo di soldati di ritorno dal fronte russo dentro il loro vagone ospedale. Ma la narrazione è tutta co-

Gente di Chioggia

struita attorno ad alcune vignette strappalacrime: il soldato che apre la let­ terina inviata dal figlio (contiene una foto del bimbo con impresso «per il mio papà»), l’altro che segretamente ritaglia immagini di dive da attaccare alla parete (potrebbe anche essere una forma di autopubblicità dell’indu­ stria cinematografica), la radio che dà voce a uno dei figli dei soldati fe­ riti. fi film è ovviamente “scritto”: infatti non sembra affatto girato su un treno ma in studio, con fondali a riproporre il movimento attraverso i pa­ norami europei. Sempre di Carpignano è da segnalare Noi mondine (1941), film di 10 minuti dall’assetto narrativo tradizionale, ma narrato in prima persona da una “mondina”. La voce femminile, rara all’epoca, invoca com­ passione per il duro lavoro delle risaie, e per certe immagini ricorda ov­ viamente tutta la produzione seguente sul tema, da Riso amaro (1949) di Giuseppe De Santis a La risaia (1955) di Raffaello Matarazzo. Un precur­ sore del genere narrativo potrebbe essere il film di Francisci Neve sull Ap­ pennino (1935). Il film è un lungo infomercial per la stazione sciistica del Terminillo: ma il tutto è mostrato attraverso il colpo di fulmine di due va­ canzieri. Francisci girerà anche nel Sosta d’eroi sulle navi ospedale. Il film è costruito intomo a una serie di sketch che coinvolgono, neanche a dirlo, mamme, lettere, messaggi radio ecc.

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II “documentario narrativo" più vicino alla sua definizione europea, e anche quello che incontrò maggior successo di critica e pubblico, è Uomini sul fondo (1941) di Francesco De Robertis. Prodotto dal Centro Cinematografico del Ministero della Marina Militare Italiana, utilizza solo attori non professionisti per raccontare la storia del salvataggio di un sot­ tomarino militare presso la costa di La Spezia. Se da un lato esso fu in­ teso come vetrina per la Marina allo scopo di impressionare, con il suo equipaggiamento tecnologico d’avanguardia, il pubblico italiano all’inizio della guerra, il film si trasforma molto rapidamente in un’avvincente sto­ ria di valori umani. Rossellini è stato presente sul set del film, secondo Tag Gallagher, almeno per qualche giorno34, e certo vi sono molte affinità tra questo film e quelli realisti del dopoguerra35. La combinazione di momenti altamente drammatici (le navi troveranno il sottomarino nella nebbia?) si alternano a lunghe riprese dove la sofferenza dei marinai per la mancanza di ossigeno e la pressione nel sottomarino affondato è ritratta con insi­ stenza. I marinai sono al tempo stesso anonimi (hanno tutti gli stessi abiti e la stessa espressione) e identificati da alcune qualità specifiche: l’ac­ cento, la foto della madre, il cibo nascosto nei pantaloni. La struttura nar­ rativa, sebbene non cosi episodica ed “ellittica” (per usare la terminologia

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Roma città aperta

di André Bazin in relazione al neorealismo nel suo Un’estetica della re­ altà36) come in Roma città aperta (1945) di Rossellini e Ladri di biciclette (1948) di De Sica, si presta certamente a deviazioni che non hanno una primaria motivazione narrativa. È interessante il fatto che mentre il film ha una chiara impostazione teleologica (le navi salveranno i nostri eroi?), i molti “a parte" arricchiscono l’umanità della storia, aumentando il va­ lore documentario del film. Un episodio di questo tipo è la scena nella quale la madre di uno dei marinai intrappolati nel sottomarino è ritratta mentre conversa con un ufficiale della Marina. La donna afferma che il suo sesto senso le dice che suo figlio è morto e che la Marina le sta nascondendo in­ formazioni. Questa scena esemplifica il modus operandi di De Robertis. Da una parte l’ostentazione del grande pro­ gresso tecnologico della Marina e la sua assoluta dedizione ai marinai nelle cir­ costanze più difficili, daH’altra l’inserimento di mi tono melodrammatico e quasi comico (l’effettiva conversazione tra madre e figlio). Analogamente, in Roma città aperta vediamo Don Pietro recitare un ruolo insieme comico e drammatico (come nella ricerca dei ri­ belli in casa di Pina, che si conclude con Don Pietro che sferra una padellata sulla testa di un vecchio). Come già notato da Franco Venturini nel suo articolo del 1950, Uomini sul fondo scomparve dalla storia ufficiale del neorealismo, per essere sostituito, come abbiamo visto, da ben più illustri predecessori letterari37. Compren­ dere la teoria che sottende la pratica della produzione cinematografica non-fiction in Italia nei tardi anni ’30 è inoltre vitale per capire il feno­ meno delle origini confuse e composite del neorealismo nel dopoguerra. Ogni storia del cinema italiano mancherebbe certamente di un pezzo molto importante del puzzle senza l’animata scena del documentario ita­ liano dei tardi anni ’30. È questa dunque l’atmosfera culturale che accoglie il giovane Rossellini, cineasta autodidatta e sperimentatore di forme nuove di narrazione. Ri­ sulta insomma chiaro come il cinema documentario di Rossellini non nasca da una intuizione privata ma da una complessa rete di motivi sto­ rici, commerciali e artistici. Ma a questo milieu, Rossellini aggiunge fin da subito un soggetto inaspettato: il mondo animale.

1. Sulla questione del realismo in ambito fascista, oltre al citato seminale vo­ lume di Ben-G hi at, Fascist Modernities. Italy, 1922-1945, University of Califor­ nia Press, Berkeley, 2001, si veda anche il primo capitolo del volume di Nicoletta Misler, La via italiana al realismo. La politica culturale artistica del P.c.1. dal 1944 I 21

al 1956, Mazzetta, Milano, 1963, in cui si possono trovare le indicazioni di al­ cuni interessanti saggi di Mario Mafai, Renato Guttuso, e altri sulla questione realista. Interessante, anche se limitato al mondo dell'arte, il saggio di Curzio Maltese, Vicende e problemi del realismo in Italia, «La Biennale di Venezia», 4647, dicembre 1962. Si veda anche il mio Alberto Cavalcanti e il “documentario narrativo": il ruolo della tradizione documentaristica nella formazione del ci­ nemaneorealista, «Bianco e Nero» n.s., 567, maggio-agosto 2010, versione an­ teriore del presente capitolo. 2. Come recentemente ha fatto notare Francesco Casetti, il cinema rappresenta il vero occhio del xx secolo, non semplicemente come mezzo di rappresenta­ zione, ma - aspetto più importante - nella maniera di influenzare il modo in cui le arti guardano alla realtà. Sulla relazione tra cinema e modernità, fuori da una possibile lunghissima bibliografia, suggerisco Francesco Casetti, L'occhio del Novecento. Cinema esperienza modernità, Bompiani, Milano, 2005; Tom Gunning, The Cinema of Attraction. Early Film, Its Spectator and the AvantGarde, «Wide Angle», 3-4, autunno 1986, pp. 63-70; Miriam Hansen, America, Paris, the Alps: Kracauer (and Benjamin) on Cinema and Modernity, in Leo Char­ ney, Vanessa R. Schwartz (a cura di), Cinema and the Invention of Modern Life, University of California Press, Berkeley, 1995, pp. 362-402. 3. Si veda Ennio Di Nolfo, Intimations of Neorealism in the Fascist Ventennio, in Jacqueline Reich, Piero Garofalo (a cura di), Re-Viewing Fascism. Italian Cinema 1922-1943, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis, 2002, p. 83. 4. Sui molti dementi di continuità politica e ideologica tra periodo pre e post bellico, gli storici hanno scritto ampiamente negli ultimi tempi. Lo studio più ap­ profondito e perspicace resta probabilmente ancora quello di Claudio Pavone, Una Guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino, 1991. Sulla questione della mancata epurazione della classe in­ tellettuale e dirigente nel paese si veda Lamberto Mercuri, L'epurazione in Italia, L'Arciere, Cuneo, 1988, e Hans Woller, I conti con il fascismo. L'epurazione in Italia 1943-1948, Il Mulino, Bologna, 2008. Per quanto riguarda gli studi sul ci­ nema, Alan O'Leary ha brillantemente riassunto le questioni in gioco: «L'asser­ zione di una definitiva rottura tra il cinema dell'epoca fascista e quello che seguì la guerra è stata regolarmente messa in dubbio a partire dagli anni Set­ tanta. La percezione di una rigida divisione tende tuttavia a riaffermarsi. Si po­ trebbe suggerire che il breve spazio assegnato al Neorealismo nella Storia del cinema italiano, voi. vii (1945-1948), diretta da Lino Miccichè, separa inevita­ bilmente il momento neorealista da quello che lo precede. Più generalmente, molti mantengono con tenacia queste radici ideologiche nell'insistere che il ci­ nema della nascente democrazia e repubblica è eticamente ed esteticamente di­ stinto da quello prodotto da o sotto il Fascismo. Al contrario, l'affidare al Neorealismo la posizione di cuore del cinema italiano ha l'effetto paradossale di sostenere che qualunque cosa di qualità, compreso ciò che venne prima, sia derivata per moto centrifugo da esso». Alan O'Leary, After Brunetta: Italian Ci­ nema Studies in Italy, 2000 to 2007, «Italian Studies», 2, autunno 2008, p. 284. Questa continuità è riaffermata in modo convincente dallo scrupoloso studio di Mariagrazia Fanchi ed Elena Mosconi sul pubblico italiano, nel quale si sostiene l'esistenza di un continuum “spettatoriale", nei termini di esperienza visuale, 22 I

tra il pubblico prima della guerra e quello del dopoguerra. Cfr. Mariagrazia Fanchi, Elena Mosconi (a cura di), Spettatori. Forme di consumo e pubblici del ci­ nema in Italia 1930-1960, Edizioni di Bianco Et Nero-Marsilio, Roma-Venezia, 2002, p. 9. 5. Sull'Istituto luce e la propaganda fascista si veda Mino Argentieri, L'occhio del regime, Bulzoni, Roma, 2003 (i ed. L'occhio del regime. Informazione e pro­ paganda nel cinema del fascismo, Vallecchi, Firenze, 1979). 6. Cfr. Gilles Deleuze, Oltre l'immagine-movimento, in Id., Cinema 2. L'immagine-tempo, Ubulibri, Milano, 1989. 7. Nel recensire Montevergine (1939) di Carlo Campogalliani, Barbaro scrive: «Il filone aureo della tradizione cinematografica italiana, non per fattori esterni ma per complesse determinanti storiche, è rappresentato dal racconto popolare di intrigo intrecciato e condotto con un realismo di carattere prevalentemente vi­ sivo; tendenza legata alla tradizione della narrativa e del teatro meridionale dell'800, i cui più alti campioni sono naturalmente Verga e Di Giacomo, ma la cui origine potrebbe farsi risalire fino alla pittura del Seicento, istaurata nel­ l'Italia Meridionale dal genio fulmineo di Caravaggio e dai suoi grandi seguaci Velasquez Preti e Battistello e volgarizzata, attraverso ai Ribera e alle presciate di Luca Giordano, fino agli Aniello Falcone, Micco Spadaro, e magari Dui lino. De Nittis e Toma». Umberto Barbaro, La w/ Esposizione di Venezia, «Bianco e Nero», 9, settembre 1939, pp. 6-7. 8. Cfr. Alberto Cavalcanti, Documentari di propaganda, «Bianco e Nero», 10, ot­ tobre 1938, pp. 3-7. 9. Sul nesso fiction/non-fiction si vedano le bibliografie in Gary Don Rhodes, John Parris Springer (a cura di), Docufictions. Essays on the Intersection of Do­ cumentary and Fictional Filmmaking, McFarland Et Co., London, 2006, e in Ale­ xandra Juhasz, Jesse Lerner (a cura di), FIs for Phony. Fake Documentary and Truth’s Undoing, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2006. 10. Riassume bene questo momento storico Steven Ricci, Cinema and Fascism: Italian Him and Society, 1922-1943, University of California Press, Berkeley, 2008, p. 60, citando da 11 cinematografo e il teatro nella legislazione fascista, Co­ lombo, Roma, 1936. 11. Da un'intervista con Vittorio Carpignano, Roma, maggio 2010. 12. Adriano Apra, Primi approcci al documentario italiano, in A proposito del film documentario, Annali i, Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e De­ mocratico, Roma, 1998, p. 40. 13. Cfr. Gian Piero Brunetta, // cinema italiano di regime. Da “La canzone del­ l'amore''a “Ossessione", Laterza, Bari-Roma, 2009, p. 353, e Ben-Ghiat, Fascist Modernities. Italy, 1922-1945, cit., p. 47. 14. Cfr. Paul Rotha, Movie Parade, «Bianco e Nero», 1, gennaio 1937, pp. 107110 (traduzione della prefazione di Movie Parade, The Studio Ld., London, 1936). 15. Cfr. Stefania Parigi, Le carte d'identità del Neorealismo, in Bruno Torri (a cura di), Nuovo Cinema (1965-2005). Scritti in onore di Lino Miccichè, Marsilio, Venezia, 2005, pp. 82-83. 16. Così Elizabeth Sussex riporta le parole di Cavalcanti: «L'unica differenza fon­ damentale era che io sostenevo che documentario fosse una denominazione sciocca [...]. Ebbi una conversazione molto seria con Grierson nei primi, rosei

giorni a proposito dell'etichetta documentario poiché io ritenevo che andasse chiamata, in modo abbastanza divertente (è solo una coincidenza, ma ha fatto fortuna in Italia), Neorealismo. La risposta argomentata di Grierson - e me lo ri­ cordo davvero bene - fu giusto ridere e dire: “Tu sei un personaggio davvero in­ nocente. Devo accordarmi con il Governo, e la parola documentario li impressiona come qualcosa di serio"». Elizabeth Sussex, Cavalcanti in England, «Sight and Sound», 4, autunno 1975, poi in Ian Aitken (a cura di), The Documentary Film Movement: an Anthology, Edinburgh University Press, Edinburgh, 1998, p. 188. 17. Cfr. Argentieri, L'occhio del regime, cit., p. 198. 18. Umberto Barbaro, Neorealismo e realismo //. Cinema e teatro, a cura di Gian Piero Brunetta, Editori Riuniti, Roma, 1976, p. 474. 19. V. L, Camicia nera, «Scenario», 3, marzo 1933, poi in Eiaine Mancini, Strug­ gles of the Italian Film Industry during Fascism, 1930-1935, umi Research Press, Ann Arbor, Michigan, 1985. 20. An., Note, «Bianco e Nero», 2, febbraio 1940, p. 67. 21. Cfr. Ian Aitken, Alberto Cavalcanti. Realism, Surrealism and National Ci­ nema, Flick Books, Trowbridge (Wiltshire), 2000. 22. Aprà nota giustamente che è proprio «l’assenza di commento [...] il segnale di un'ambizione d'autore». Aprà, Primi approcci al documentario italiano, cit., p. 44. In una conversazione con chi scrive, Carpignano ricordava il senso di op­ pressione provato ascoltando lo “speakeraggio" dei cinegiornali luce. 23. Cfr. Paul Swann, The British Documentary Film Movement, 1926-1946, Cam­ bridge University Press, Cambridge, 1989, pp. 85-86. 24. Ivi, p. 86 (mia traduzione). 25. Ivi, p. 88 (mia traduzione). 26. «Cavalcanti una volta contattò via cablogramma David MacDonald, un re­ gista “commerciale" che era stato portato alla direzione di Men of the Lightship (1940), per dirgli di rigirare l’intero metraggio “per nulla convincente" in cui aveva impiegato attori professionisti, mentre quello che aveva girato con per­ sone reali era “splendido"». Ivi, p. 163 (mia traduzione). 27. La lista di studenti iscritti o affiliati al Centro Sperimentale nel 1940 è piut­ tosto interessante: Michelangelo Antonioni, Giuseppe De Santis, Stefano Vanzina (Steno), Gabriel Garcia Màrquez, Pasqualino De Santis, Gianni Di Venanzo, Pietro Germi, Dino De Laurentiis, Pietro Ingrao, Francesco Pasinetti. Tra gli in­ segnanti: Barbaro, Blasetti e Pietro Sharoff. 28. «L'uomo di Aron, per citare uno dei migliori documentari che si conoscano, non vale tanto per l’illustrazione delle condizioni di vita che ci offre di un certo conglomerato umano, o per la conoscenza che ci comunica della struttura geo­ logica di una certa isola; ma per il valore artistico di questa, diciamo pure, do­ cumentazione. Come converrà chi ricordi, in esso, la scena del bambino che si avvicina allo strapiombo sul mare della cui profondità ci fa indirettamente av­ vertiti il grido del gabbiano, o le scene straordinarie della faticosa raccolta di un po' di terra per le future povere culture. Tali che la visione dell'isola e dei suoi abitanti merita per noi la qualifica non di trattato ma di lirica». Umberto Bar­ baro, Piccola storia del film documentario in Italia, «Quadrivio», 45,7 settembre 1936, p. 366. 29. Cfr. Raymond Spottiswoode, Una grammatica del film, numero speciale di 24 I

«Bianco e Nero», 6, giugno 1938 (ed. or. A Grammar of the Him. An Analysis of Him Technique, Faber and Faber, London, 1935). Una nota di colore: il capitolo intitolato Origin of the Documentary Movement in the Class Struggle è tradotto in italiano omettendo il riferimento alla lotta di classe, e nel testo, in luogo della sigla urss, si impiega il vocabolo Russia. 30. Cfr. Giulio Cesare Castello, Claudio Bertieri (a cura di), Venezia 1932-1939. Filmografia critica, Edizioni di Bianco e Nero, Roma, 1959, p. 120. 31. Per un'analisi di questi filoni rimando senz'altro all'esaustivo capitolo Un re­ gime in luce dal volume di Marco Bertozzi, Storia del documentario italiano. Immagini e culture dell'altro cinema, Marsilio, Venezia, 2008. 32. Cfr. Pietro Francisci, Del “puro'' e del “romanzato'' nel documentario, «Ci­ nema», 159,10 febbraio 1943. 33. È interessante che Brunetta scriva: « Uomini sul fondo ricalca nella sua strut­ tura iniziale - forse senza saperlo - i documentari inglesi del gpo realizzati negli anni '30 sotto la direzione di John Grierson (tipo North Sea by H. Watt)». Bru­ netta, Il cinema italiano di regime, cit., p. 137. Credo che grazie al ruolo di Ca­ valcanti si possa limare quel forse. 34. Cfr. Tag Gallagher, The Adventures of Roberto Rossellini. His Life and Films, Da Capo Press, New York, 1998, p. 67. 35. E bisogna anche ricordare die il direttore della fotografia del film, Ivo Pe­ rini, fu a seguito nel team degli autori sia di Riso amaro sia di Europa '51 (1952) di Rossellini. 36. Cfr. André Bazin, Che cosa è il cinema?, a cura d (Adriano Apra, Garzanti, Mi­ lano, 1973 (ed. or. Qu'est-ce que le cinéma?, 4 voli., Éditions du Cerf, Paris, 19581962). 37. Cfr. Franco Venturini, Origini del neorealismo, «Bianco e Nero», 2, febbraio 1950.

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Fantasia sottomarina

I primi esperimenti di documentario narrativo

Sugli inizi del cinema di Roberto Rossellini nella Roma fascista si è scritto ampiamente e in maniera esaustiva soprattutto grazie alle biografie degli ul­ timi anni Gianni Rondolino e Tag Gallagher, tra gli altri, hanno ricostruito puntigliosamente gli esordi non proprio nobili di un giovane un po’ scape­ strato che sembra avvicinarsi all’industria cinematografica quasi per caso. In pochi però notano che la camera di Rossellini inizia e finisce con il cinema documentario. Dall’ultimo, degiaco e realista, film documentario sul museo Beaubourg di Parigi, ai primissimi esperimenti con il cinema della natura, Rossellini mostra un continuo interesse per questo genere, percepito come una via didattica di investigazione della realtà parallela al lavoro di finzione Se è vero, come scrive Adriano Aprà, che il documentario italiano ha sofferto la pesante eredità documentaristica del neorealismo, lo stesso non si può dire per Rossellini, che abbandona il provincialismo della scena romana fin da subito. Con Viaggio in Italia (1954) comincia l’avventura modernista dd cinema, almeno secondo André Bazin, che allinea il film di Rossdlini al primo lungometraggio di Agnès Varda, La Pointe-Courte (1955), nella loro «semplicità avanguardistica»1, ma anche Tavventura dd regista fuori dal ci­ nema italiano, che comincia con la scoperta graduale deU’alterità. E proprio la compraisione dell'altro, i conflitti provocati da questa dialettica psicolo­ gica e ideologica sono al centro dd suo cinema a venire. Affrontati sia in ter­ mini comici, come il soldato afroamericano ubriaco di Paisà (1946) o i fraticèlli di un altro mondo nd Francesco giullare di Dio (1950), sia nei drammi dd rapporto di coppia di Stromboli (1950) o Europa ’51 (1952). Il lungo viaggio di Rossdlini alla scoperta dell’altro trova nd documentario un alleato importante. Soprattutto nd momento in cui il regista decide di dedi­ carsi interamente al cinema come caméra-stylo, e, insieme ai suoi amici pa­ rigini, l'etno-antropologo Jean Rouch e il suo giovane assistente Francois Truffaut per primi, di portare la macchina da presa in giro per il mondo. «Fantasia sottomarina>

La carriera documentaristica di Rossellini comincia a Ladispoli, nella villa di famiglia, dove il regista fa costruire un acquario in cui inventa una fa­ I 27

vola di pesci innamorati. Fantasia sottomarina, prodotto dalla incom (In­ dustrie Corti Metraggi), esce sugli schermi romani in anteprima il 12 aprile 1940, ma è senz’altro da attribuirsi agli anni precedenti: del ’38, secondo Gallagher e Rondolino (e di sicuro non sono valide le tesi di un film ante­ riore dato che la incom di Sandro Pallavicini fii fondata proprio nel 1938). La compagnia di Pallavicini era non solo interessata a svecchiare il docu­ mentario tradizionale luce, con la sua pesante e didattica voce narrante, ma anche a promuovere i nuovi documentari narrativi. Mentre per lo spetta­ tore contemporaneo Fantasia sottomarina sembra in effetti eccessivamente “parlato”, la critica dell’epoca ne aveva percepito una storia fetta di «og­ getti, animali, paesaggi»2. Situazione a dire il vero paradossale se si pensa che Iìncom era stata voluta da Luigi Freddi nd 1938 proprio perché non soddisfatto «dello spirito non totalmente allineato dd Luce»3. Fantasia sottomarina inizia a pieno ritmo con l’orchestrazione di Edoardo Mi cucci; la musica non è particolarmente originale, più un pastiche di motìvettì tra il dassico e il pop. I titoli di testa scorrono sull'inquadratura fissa di un fondale marino (in realtà sappiamo che si tratta deU’acquario costruito sul tetto della casa della compiacente Zia Forzù). «C’era una volta, cosi cominciano tutte le fiabe, e cosi possiamo cominciare anche noi...», racconta lo speaker Guido Notali con voce allenata nell'italiano standard dell’epoca, ma senza l'enfasi fascista così comune nd cinegior­ nali. Il tono è infatti qudlo familiare, e amichevole, di chi si rivolge a un gruppo di bambini. Le prime inquadrature di pescetti che si muovono qua e là sono accompagnate da sviolinate con tocchi ad archetto ampio. Com­ pare poi «un saraghetto giovane e vivace» che va a fere la sua passeg­ giata per incontrare la sua bella. Ma appare uno scorfano e la musica si fa più rapida. Poi compare «un'insidia gastronomica», è l'esca di un pe­ scatore. Il saraghetto «sventa l’insidia con un colpo di coda», soprattutto per salvare i suoi compagni meno scaltri. L’accompagnamento musicale si fa cupo: appare un polpo (ed entra in inquadratura dall’alto, probabil­ mente lanciato dentro la vasca senza troppi complimenti). Comincia la danza macabra e il sarago è agguantato da un tentacolo. Si libera, ma in­ vece di allontanarsi provoca il polpo: «vuole avere l’ultima parola», ci dice la voce narrante. Il sarago si allea con ima murena, che attacca il polpo. Qui comincia una cruenta battaglia, la musica si fa più rapida e concitata, ma il combattimento è reale. Ne risulta un momento voyeuristico abba­ stanza forte, che l’effetto favolistico generale non basta ad attenuare. Bi­ sogna organizzare i rinforzi: il montaggio già molto vdoce si fa ora incalzante, il sarago usa le antenne ddl’aragosta per mandare il suo mes­ saggio. Accorre una seconda murena «che si getta a pesce» contro il polpo. È solo con l’assalto di gruppo che il polpo molla la presa e cerca di scap­ pare, «poi esausto non vede un roccione, vi picchia la testa e cade esau­ sto». Finita la battaglia si ritoma sul saraghetto, ora «triste perché è solo». E il suo dolore è ancora più cocente alla vista di due seppie che amoreg­ giano. Ma ecco che ritrova la sua innamorata. I violini riprendono il loro andamento romantico e lo speaker può affettuosamente dichiarare che anche questa «come tutte le fiabe si conclude serenamente». 28 I

Fantasia sottomarina

È stato proprio Vittorio Carpignano, in un colloquio con chi scrive, a far notare la grande rivoluzione incom in termini di suono, e in parti­ colare l’uso della voce narrante 0 addirittura, come nel suo T.o. [Treno Ospedale] 34 (1941) la totale assenza del commento, lasciando invece la storia alle voci dei protagonisti. Lo stesso si può vedere nel suo suc­ cessivo Noi mondine, sempre del 1941, in cui la voce narrante è quella di una mondina (o presunta tale) che parla con toni dialettali in prima persona del duro lavoro nei campi. La sensibilità incom dei vari Dome­ nico Paolella, Palla vicini, Pietro Francis ci, si vede anche nel cortome­ traggio di Corrado D’Errico Milizie delle civiltà (1941), film assolutamente celebrativo del regime, dedicato alla costruzione della Terza Roma, il quartiere EUR, in cui pur nel delirio di carrelli riefenstahliani il regista riesce a infilare un toccante momento di realismo dando voce ai vari dialetti degli operai del cantiere. La scelta di Notali per il film di Rossellini è da considerarsi una strategia doppiamente interes­ sante. Da una parte questa è la voce ufficiale dei cinegiornali luce prima e de La Settimana Incom poi. Dagli anni '20, e poi per tutto il venten­ nio del regime, è questa voce cadenzata ma senza alcun riconoscibile accento dialettale a rappresentare sul serio la voce del padrone: affa-

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Fantasia sottomarina

bile, paterna, ma allo stesso tempo stentorea e sicura di sé. Notari è il golden standard dell’italiano fascista. Di sicuro Fantasia sottomarina rientra in pieno nel filone che si è creato con i nuovi documentari di ispirazione anglosassone (tra Robert J. Flaherty e il gpo [General Post Office] di Alberto Cavalcanti). Ma altre chiare matrici sono visibili. Una storia di pesci antropomorfizzati non può non ricordare i film “biologici" di Jean Painlevé, di cui forse Rossellini aveva avuto occasione di vedere qualcosa. I film di Painlevé erano infatti spesso alla Mostra Inter­ nazionale d’Arte Cinematografica di Venezia: nel ’35 il suo capolavoro L’hippocampe (1934), il film sui cavallucci marini che gli donò la prima grande popolarità, poi nel 1936 Voyage dans le del e nel 1938 Baibe-bleue*. Come Painlevé, Rossellini aveva una naturale passione per le innovazioni tecnologiche in campo cinematografico (tutti ricordano l’invenzione per Era notte a Roma, 1960, del pancinor, un sistema di zoom telecomandato che permetteva al regista di zoomare senza guardare in macchina). La so­ miglianza tra le antropomorfizzazioni di Painlevé e quelle di Rossellini, sia in Fantasia sottomarina che nei successivi II ruscello di Ripasottile - rea­ lizzato probabilmente nel 1940, uscito in sala nel maggio 1941s e recente­ mente ritrovato dalla Cineteca di Bologna - e La vispa Teresa (sempre del ’40), è notevole. Rimane comunque interessante notare come lo stigma cro­ ciano di non-arte per quel che riguarda Painlevé resista in Italia ben oltre il dopoguerra. Glauco Viazzi non solo nega ogni valore artistico ai suoi film, ma fi accusa di vero e proprio fallimento anche nel puro ambito della ricerca scientifica6. Data l’atmosfera, non sorprende che nessuno, forse ne­ anche Rossellini, fosse interessato a genealogie pericolose, e senz’altro poco nobili. Di sicuro non troviamo traccia di Painlevé nei suoi scritti, né il re­ gista francese viene menzionato nelle numerose biografie rosselliniane. Piuttosto che giocare troppo sulle ipotesi storiche, si possono notare delle differenze importanti: Painlevé era un regista subacqueo, e le riprese erano tutte realizzate in mare aperto con macchine da presa appositamente pre­ parate e adattate. Il motore artistico in Painlevé è la forte curiosità biolo­ gica nel materiale filmato, un’ossessione certosina per i dettagli bizzarri del

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regno animale e una fascinazione mesmerica di fronte alla pura bellezza dei corpi acquatici in movimento. In Rossellini questa gioia dell’investiga­ zione è invece solo il primo passo verso la costruzione della storia, le con­ catenazioni della narrazione e, non ultima, l’allegoria favolistica. Un altro grande precursore di cinema del regno animale, anch’egli mai accostato a Rossellini, è Roberto Omegna, figura interessantissima del panorama italiano d’inizio secolo e ancora poco studiata. Nato a Torino nel 1876, cugino di Guido Gozzano, fonda prima il cinema Edison a To­ rino e poi la casa di produzione Ambrosio. Nel 1926 si unisce al luce dove continua la sua produzione di film scientifici: il suo Uno sguardo al fondo marino (1936) è premiato alla Mostra di Venezia. Sul ruolo sen­ z’altro poco ortodosso di Omegna, ancora anni dopo la sua morte nel 1948, si dibatteva sul valore della sua opera. Se Fernando Cerchio (grande innovatore “realista" del cinema italiano) elogia nel 1940 II pioniere Ome­ gna7, nel 1948 «Cinema» nuova serie ne pubblica L’ultima interviste?, sot­ tolineandone però l’estrosità piuttosto che lo spirito innovatore di filmmaker, la stranezza di una bizzarra carriera piuttosto che il realismo magico dei suoi film. Con la incom nasce, come si è detto, il cortometraggio piuttosto che il do­ cumentario. Sotto la direzione di Pallavicini e del suo assistente Paolella, I’incom prende una strada nuova e interessante: negli anni che vanno dal ’38 fino al ’43, si fa carico di svecchiare il documentario italiano, in dire­ zione di una forma più aperta dal punto di vista ideologico, e introduce la narrativa di fiction alla Flaherty e Cavalcanti. Insomma, il documenta­ rio narrativo, che conta anche i primi lavori di Rossellini, rientra dal punto di vista ideologico in quél filone di “realismo fascista" identificato da Ruth Ben-Ghiat nel suo Fascist Modernities di cui abbiamo parlato nel primo capitolo di questo volume9. Ma torniamo al film, Fantasia sottomarina. È una metafora politica, come dice Renzo RosseUini jr., in cui il polpo è il fascismo e il saraghetto e gli altri pesci che vengono in suo soccorso sono l’opposizione antifascista? 0 è solo una metafora sulla prepotenza? 0 forse l’qpposto, un’allegoria sui tentacoli del comuniSmo? 0 una storièlla d’amore con sfondo gangsteresco, un’americanata “animalesca" dove ai bassifondi di New York si so­ stituiscono i fondati marini dell’acquario di Ladispoli? Un’influenza forte su questo e altri corti biologici successivi è senz’altro Pallore già domi­ nante modello disneyano di antropomorfizzazione animata. In un certo senso Rossellini rinegozia il valore del cartoon americano sostituendo il segno stilizzato e quindi reso innocuo da Walt Disney con la cosa vera (gli animali in carne e ossa). Qui la realtà dei corpi animati aggiunge un certo elemento perturbante alla storia. Che dovrebbe essere solo una favola, ma diventa un dramma di animali veri. Non c’è un the making of di questi film, un breve “dietro le quinte" come succede nei dvd oggi giorno, ma esi­ stono aneddoti che, anche se inevitabilmente si concentrano sui fatti folklorici (la zia Forzù, proprietaria della villa, il “domatore" di uccellini, protagonista umano di Ripasottìle ecc.), mostrano interesse verso aspetti del mondo animale rinchiuso, diciamo così, nella prigione degli uomini. I 31

Se questo aspetto in Fantasia sottomarina e in Ripasottile si rivela al pub­ blico solo grazie alle note di produzione, ne La vispa Teresa diventa pa­ lese. Rossellini è solo parzialmente interessato al mondo animale, quanto piuttosto alle zone di incontro tra animale e umano. Ciò si vedrà bene molti anni dopo, nel biennio 1957-1958, durante il suo viaggio in India, in cui l’elemento di discontinuità animale-umano diventa il catalizzatore della poetica “biologica” di Rossellini. Se Disney è interessato ad antropomorfizzare, Rossellini “animalizza” la vita dell’uomo portando alla luce le zone e il modo del contatto. In Fantasia e in Ripasottile questo aspetto rimane solo al livello di produzione, con il trasporto del mare nell’acqua­ rio sul terrazzo e gli effetti speciali dentro l’istituto Ittiogenico, ma si fa più chiaro con La vispa Teresa (la presenza fisica dell’essere umano come invasore) e ne LI tacchino prepotente (1940), che ha come set l’aia di una fattoria. Non sorprende allora la grande passione di Rossellini per la pesca e per le immersioni. Tra i vari aneddoti su questo c’è l’incontro nel 1929 con tre biologi giapponesi che lavoravano nella baia di Napoli10 e che Rossellini segue per un certo periodo nelle loro immersioni. «Il ruscello di Ripasottile»

Muovendoci con rispetto cronologico, si assegna a TI ruscello di Ripasot­ tile il secondo posto tra i primi documentari biologici di Rossellini (esclu­ dendo da questo conteggio il mai completato Dajhe/Prélude à l’après-midi d’un faune). Per anni considerato perduto, ne è stata ritrovata una parte (m. 228 su m. 314) nella cabina e nella platea di una sala cinematografica abbandonata di Palmi, in Calabria. H film era stato separato in un centi­ naio di spezzoni ora molto danneggiati dall’umidità. Secondo Stefano Roncoroni, TI ruscello di Ripasottile è stato girato in esterni in un ruscel­ letto vicino a Palidoro, località situata nel retroterra di Ladispoli, e in in­ terni all’istituto Ittiogenico di Roma. La storia è questa: a monte del ruscello di Ripasottile sono nate delle trote, il documentario comincia ap­ punto con una scena delle uova che si aprono ed escono fuori dei pe­ sciolini, girata all’istituto Ittiogenico; la notizia si diffonde tra tutti gli animali del ruscello e anche tra quelli del bosco e della campagna circo­ stanti. La cornacchia lo dice ad altri uccellini che lo dicono alla tartaruga, alle anitre, alle lepri e così via fino a che lo vengono a sapere anche le tigri del ruscello, quei voraci pesci di acqua dolce che sono le trote, le quali co­ minciano a risalire il ruscello per andare a mangiare i piccoli nati. Senonché, pentiti di aver dato con la loro gioia quella ghiotta notizia alle trote, tutti gli animali dell’acqua, del bosco, della campagna si ribellano ed «organizzano una spedizione contro questi pescecani»11. «Tutti gli abi­ tanti dell’acqua, della terra e del cielo si coalizzano per impedire tale ec­ cidio. Un pescatore, che si è addormentato sulle rive del ruscello, viene destato dagli uccellini proprio in tempo, perché, tirando la rete, possa cat­ turare tutte le trote. La pace ritorna nella famiglia dei persico, con grande giubilo della natura circostante»12. Gallagher riporta che il film era nato con alcuni titoli provvisori: Anche i pesci parlano (troppo “fotoromanzo”), Ipesci a congresso (troppo dotto) ; 32 I

da notare inoltre che questa volta Rossellini lavora con la Excelsior-SACI (Società Anonima Cinematografica Italiana). Grazie al successo di Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini, a cui Rossellini aveva colla­ borato come sceneggiatore e aiuto regista, il produttore Franco Riganti (già patron dell’ACl [Anonima Cinematografica Italiana]), fonda a nome della sorella Elisabetta Riganti la casa di produzione Excelsior. U film segue nelle modalità il lavoro di Fantasia sottomarina, anche se è certa­ mente più complesso non tanto nella struttura narrativa (mantiene infatti il tono da favola disneyana), ma nei più complicati passaggi tecnici. Piut­ tosto che in un semplice acquario, il film è stato girato in esterni, e com­ pare anche un personaggio umano, il pescatore (ritroveremo gli umani ne La vispa Teresa). Con il sottotitolo Una favola cinematografica di Elisabetta Riganti e con il marchio Excelsior-SACI, il film è accompagnato da disegni di animali (un coniglio, un uccello sul ramo), da musiche di Gino Filippini (erronea­ mente identificato da Gallagher come “Ugo” Filippini, e tralasciato da Roncoroni, che accredita Umberto Mancini) e dalla fotografia di Rodolfo Lombardi. L’incipit ricorda quello di Fantasia sottomarina: «C’era una volta un ru­ scello...». Si comincia subito con un informatore: la rana, che racconta a una cornacchia i misteri di ciò che succede in fondo al ruscello. La coppia di persici ha deposto le uova, e la rana è felicissima di dame notizia. La mu­ sica si fa jazzata e qui abbiamo una serie di inquadrature di uccelli sugli alberi. Secondo i biografi Rossellini aveva assunto un artista di strada in piazza Vittorio a Roma, che lavorava con degli uccelli ammaestrati13 al rivo nei pressi diPalidoro, non lontano dalla villa di Ladispoli. Dorme il pe­ scatore, e la voce narrante ricorda che «gli uomini svegli sono pericolosi». Ma il vero problema sorge quando «la perfida trota» riesce a catturare una conversazione tra un uccellino e una tartaruga un po’ sorda. Le trote si precipitano, vincendo la corrente contraria. E questa la scena girata in una vasca dell’istituto Ittiogenico, con un interessante trucco. Nato nel 1895 nell’immobile di un antico saponificio, lo stabilimento romano era un cen­ tro specializzato in pescicoltura con un interessante percorso museale tra vasche e vetrine suH’allevamento dei pesci. Per girare la scena delle trote che in massa si precipitano verso il pranzo, Rossellini - secondo Ronco­ roni14 - creò una forte corrente nelle vasche, istigando le trote a “risalire”, come di loro natura, la corrente. Questi piccoli trucchi sono forse poca cosa di fronte agli effetti speciali attuali, eppure funzionano a meraviglia! La lepre diffonde l’allarme dell’attacco, e tutti accorrono, incluse la lumaca e la coccinella. Forse proprio a questa scena si riferisce Federico Fellini15 quando racconta di aver visto Rossellini, in studio (Fellini parla di Cinecittà, ma si trattava invece degli studi Excelsa), girare un film di insetti. Gli ul­ timi metri del film sono profondamente mutilati: capiamo che gli uccellini svegliano il pescatore sperando nel suo aiuto per mettere fine alla strage degli innocenti. Il film si interrompe bruscamente, ma come già per Fan­ tasia sottomarina, il buon fine sembra assicurato. Addirittura con l’inter­ vento, forse inconsapevole, di un essere umano. I 33

«La vispa Teresa» Il tono da favola per bambini de La vispa Teresa è immediatamente chiaro dai titoli di testa, scritti in bèlla calligrafia su una lavagna, accompagnati da disegni infantili: la fotografia di Mario Bava è identificata da una sti­ lizzata telecamera, la regia di Rossellini da un megafono. È questo il se­ condo cortometraggio per la Scalerà Film, realizzato proprio negli studi della casa di produzione sulla circonvallazione Appia. Si comincia su primi piani di insetti mentre la solita voce di commento quasi sussurra che «un praticello... è una folta foresta per i minuscoli insetti»16. Come nei corti precedenti, la pace dello status quo è rotta da un intervento esterno. In questo caso «è il rombo del passo spietato di un uomo». Si tratta di un commento in versi, letto a mo’ di poesia per bambini, e la scelta lingui­ stica vuole ovviamente prefigurare le rime della poesiola che porta lo stesso titolo. Il polpo prima, le trote poi, qui l’intervento umano: sembra che i film di Rossdlini vivano nel terrore dell’intrusione e dell’invasione di un mondo altrimenti edenico e perfetto. È chiaro che questi sono gli echi della guerra allora alle porte, e non è una sorpresa che la trilogia della guerra fascista - La nave bianca (1941), Un pilota ritorna (1942) e L’uomo dalla croce (1943) - riprenda di lì a poco proprio questo modello narrativo. Alla catastrofe subentra un’azione collettiva che ristabilisce l’ordine, almeno temporaneo. Nel 1940 Rossellini sta ovviamente sperimentando con forme narrative diverse, ma senz’altro tese al cinema della realtà. La semplicità narrativa di questi primi documentari, se da una parte riduce la possibile comples­ sità della trama e l’ipotesi di ogni enigma narrativo, dall’altra apre la porta al cinema dal vero, cioè all’analisi e alla contemplazione della natura. Si nota infatti, tra Fantasia sottomarina e La vispa Teresa, un diverso rap­ porto con l’antropomorfizzazione del regno animale, allora di moda, se si pensa alla favola disneyana allora (come ora) cosi popolare. Mentre Fan­ tasia usa gli animali come controfigure di personaggi in carne e ossa (o disegnati!), e l’antropomorfizzazione è al cuore della vicenda, qui vediamo una comunità di animali certo ancora alle prese con problemi umani (il ratto degli innocenti, o qualcosa del genere), ma a cui sembra data più li­ bertà d’azione Mentre in Fantasia sembra proprio che sia la voce nar­ rante a fare da padrona, qui, nonostante questa rimanga essenziale per l’avanzamento della trama, le inquadrature si fanno più mosse (frequenti le panoramiche che accompagnano gli animali nei loro movimenti natu­ rali) e si allungano oltre i pochi secondi di Fantasia. Come per esempio quando si scopre che «il nostro uomo è in questo caso una bambina che corre con uno strano aggeggio in mano». Ricomincia il gioco della comunicazione con le antenne: prima erano le aragoste, qui sono le chiocciole a tecnicizzarsi per avvertire del pericolo imminente. Il tema della comunicazione dei messaggi è naturalmente al cuore sia della trilogia della guerra fascista sia della trilogia della Resistenza (Roma città aperta, 1945, Paisà, Germania anno zero, 1948). Come la cattura del pri­ gioniero. Teresa ha infatti catturato nella sua rete una farfalletta, e un bruco si incarica di organizzare la resistenza. È il meno atletico del gruppo,

come Romoletto a capo della sua ghenga di monelli-partigianL L’inquadratura è una pa­ noramica da sinistra a destra e poi dal basso in alto di circa 50 secondi (la più lunga del firn), dove è evidente, oltre alla storiellina raccon­ tata dalla voce di commento, un vero interesse per il movimento deH’insetto, la sua lotta per arrivare a risalire una protuberanza del ter­ reno, la fatica di muoversi tra i sassi. La voce lascia campo a momenti di bella poesia: quando il coleottero entra in scena (l’inquadratura ravvicinata lo fa sembrare un piccolo rinoceronte) una nota bassa del pianoforte è l’unico commento offerto. Ma ecco la bambina Teresa vista dalla pro­ spettiva degli insetti: è un mostro altissimo e incomprensibile. È proprio il coleottero a diri­ gere l’attacco verso le scarpe della bambina, e gli insetti assumono formazioni di guerra. In un momento surreale le scarpe gigantesche della bambina sono viste dalla prospettiva degli insetti (come nel museo irreale di Ilya ed Emilia Kabakov). La farfalletta supplica di es­ sere liberata, la filastrocca dice «Deh, lasciami, anch’io sono figlia di Dio», mentre un coro di bambini ripete che Teresa lasciò la presa e quella «fuggì, fuggì, fuggì». Il film appare monco della parte finale, ma si è giusto in tempo per una serie di primi piani dei prota­ gonisti: lumaca, farfalla, bruco, coleottero hanno la loro passerella finale. La vispa Teresa è senz’altro il più surrea- g Usta dei primi film di Rossellini, e anche il più complesso sia per realiz- Js zazione che per ambizione artistica. L’uso del suono, pur essendo sempre g. doppiato, si muove con più scioltezza tra voce di commento e colonna > sonora grazie al riff sulla poesiola per bambini che ispira la storia. -1