Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano


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Indice
Premessa
1. Direzioni di senso
2. Alla ricerca di un metodo
3. Nella semplice essenzialità
4. Il metodo della ragione poetica
5. Coltivare sentimenti amorosi e positivi
6. Scrivere di formazione
7. La pratica dell’educare secondo la ragione poetica
Quarta di copertina
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Un metodo a-metodico. La pratica della ricerca in María Zambrano

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Teorie & Oggetti della Filosofia Collana diretta da Roberto Esposito 60

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Luigina Mortari

Un metodo a-metodico La pratica della ricerca in Marı´a Zambrano

Liguori Editore

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Indice

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Premessa Capitolo primo Direzioni di senso 1.1. Cercare la verita` della vita 11; 1.2. Per un sapere dell’anima 14.

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Capitolo secondo Alla ricerca di un metodo 2.1.L’essenza a-metodica del metodo 22; 2.2. Entrare nella realta` 25; 2.3. Essere fedele alle cose 31; 2.4. Pensare da un’assoluta semplicita` 35.

43

Capitolo terzo Nella semplice essenzialita` 3.1 Disfare 43; 3.2. Stare passivi 55.

71

Capitolo quarto Il metodo della ragione poetica 4.1. Stare col pensiero fra le cose 71; 4.2. Con stupore ammirato 76; 4.3. La parola incarnata 78; 4.4. Perdersi fra le cose per guadagnare il reale 80.

85

Capitolo quinto Coltivare sentimenti amorosi e positivi 5.1. Comprendere il sentire 88; 5.2. Saper accettare 92; 5.3. Sperare 102; 5.4. Avere fiducia 105; 5.5. Il sentire nutrimento del pensare 108; 5.6. La ragione del cuore 111.

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Indioe

Capitolo sesto Scrivere di formazione 6.1. Disfare i discorsi sistematici 115; 6.2. Dare parola all’esperienza 117.

129

Capitolo settimo La pratica dell’educare secondo la ragione poetica 7.1. Sentire la necessita` di pensare 131; 7.2. L’irrinunciabile del pensare 133; 7.3. Le direzioni di senso del pensare 138; 7.4. La passivita` del pensare 140; 7.5 Aver cura del sentire 142.

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Premessa

L’essere umano non nasce finito, terminato, compiuto, ma e` un nucleo vivente chiamato ad andare oltre il punto in cui viene a trovarsi; in quanto tale ha da farsi, ha da cercare la sua forma: “Tutto cio` che nasce e il non ancora nato e` promesso ad una forma. E` il significato primordiale nuziale della vita” (B: 12). La vita umana e` costitutivamente desiderio di realizzare una forma, ogni vita, persino la piu` attiva, ha bisogno di trascorrere chiusa in una forma, e solo al suo interno si rende attiva. L’informe e` ugualmente inattivo e sterile, senza possibilita` alcuna di agire. La vita, a mano a mano che sale nella scala della perfezione, sale anche nella scala della forma (SA: 71).

Il tempo della vita e` il tempo in cui il profilo unico e singolare di ciascun essere umano prende forma. Poiche´ la sostanza della vita e` il tempo, dare forma alla vita e` dare forma al tempo. Il tempo puo` essere, pero`, un trascorrere puro e semplice, che non fa altro che passare. Il tempo che si limita a passare scivola in un abisso, nell’abisso del manchevole di senso. Accade allora l’inabissarsi della vita in quel trascorrere che nulla lascia dietro di se´. C’e` un costitutivo perdersi quando l’essere umano si lascia accadere nel tempo, quando si limita a passare la vita. Esserci, non solo passare, richiede che al tempo si dedichi tempo per dare ad esso forma. C’e` bisogno di vivere il piu` interamente possibile il tempo della vita e questo accade dando ad esso forma. Dare forma al tempo significa finire di nascere. E` questo il proprium dell’umano: continuare a nascere, perche´ “vivere umanamente e` andare nascendo” (SPPC: 41). Ma non c’e` un unico modo del prender forma. C’e` un prender forma inconsapevole, che accade quando si soggiace inconsapevolmente alla messa in forma operata dall’ambiente; allora si diviene quello che l’ambiente impone si divenga, senza conseguire, attraverso un processo autonomo e originale, l’unita` della propria vita. Accade cosı` che ci si perda rispetto alla chiamata etica ed estetica di dare forma unica e singolare al proprio tempo; il vivere “che si recita ad ogni istante” (NM: 35) sempre corre il rischio di perdersi e questo accade quando viene a mancare il pensiero capace di vivificare il tempo.

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Premessa

Ma c’e` anche un modo di prender forma intenzionale, ossia guidato dall’intenzione di darsi una forma; e` quel prender forma che e` orientato dalla ricerca di se´. E` quel modo di essere al mondo in cui prevale la 1 domanda orteghiana “Che fare?” ; la domanda propria di una vita spesa alla ricerca della verita` dell’esperienza, alla ricerca di un sapere che aiuti a vivere. E` dalla necessita` di sapere cosa fare che ha origine l’affanno del conoscere. Perche´ la vita non puo` essere vissuta interamente senza un sapere che la informa, che offra un’ispirazione per dare senso al proprio tempo. La necessita` di questa ricerca di un sapere della vita non sempre appare chiara alla mente, e anche quando questo avviene e` facile poi che la passione per la ricerca venga meno in conseguenza di esperienze che hanno l’effetto di annichilire l’energia necessaria al lavoro etico ed estetico di modellare il proprio tempo. Perche´ quel camminare che e` la vita ha spesso un sapore amaro che pesa sul cuore. Rispetto a tale questione etica – intendendo per etica quella pratica di ricerca della verita` che invera la vita – il compito proprio di una cultura consiste nell’individuare quelle pratiche che consentano di far scaturire e poi coltivare nei giovani la passione per questa ricerca; la pratica sociale che risponde a questa necessita` e` definita educazione, pratica che e` all’origine della filosofia incarnata da Socrate. L’educazione e` qui concepita come pratica di persuasione ad aver 2 cura di se´, una cura di se´ intesa socraticamente come cura dell’anima , che si attualizza nell’andare alla ricerca della verita` dell’esistenza. Perche´ “questo e` per l’essere umano il bene maggiore: ragionare ogni giorno della virtu`” e investigare tutte quelle questioni che hanno a che fare con la ricerca dei modi di aver cura dell’anima, perche´ “una vita che non faccia 3 tali ricerche non e` degna di essere vissuta” . 4 La pratica dell’educare si pone la stessa domanda della vita quando si 1

Ortega y Gasset, Metafisica e ragione storica, Sugarco, Milano 1989, p. 121, cit. in Marı´a Zambrano, Note di un metodo, Filema, Napoli 2003 (ed. or. Notas de un me´todo, Mondadori Espan˜a, Madrid 1989), p. 143, nota 5. 2 Platone, Lachete, 185e. 3 Platone, Apologia di Socrate, 38a. 4 Conviene qui precisare perche´ al piu` attuale termine ‘formazione’ preferisco ‘educazione’. Formare e` nel suo significato ordinario dare una forma, mettere in forma, quel mettere in forma che e` guidato dal sapere anticipatamente la forma che si vuol realizzare. Ma quando la relazione educativa si declina come un dare forma previene l’altro dal darsi autonomamente la propria forma. Educare ha tutt’altro significato. Quando si lavora sull’etimologia della parola “educare” si tende a ricondurla al latino educeˇre, che significa: trarre fuori, trarre alla luce, invece sembra piu` corretto ricondurla ad educa¯re che significa:

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Premessa

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fa problema a se stessa, ossia quando si chiede “che fare?”. Il “che fare?” che e` all’origine della teoria dell’educazione e` quella domanda che guida il processo di individuazione di quei contesti di esperienza che vanno coltivati affinche´ l’essere umano trovi in essi il nutrimento simbolico necessario a porsi metodicamente la domanda del “che fare” e a questa domanda metodicamente cercare risposte. Data la natura dell’oggetto, la pratica educativa si profila come costitutivamente problematica, al punto da far dire a Socrate che nessuno possiede questo sapere. Convinzione questa testimoniata dal suo percorso di vita interamente impegnato nella ricerca di un metodo da cui fare scaturire tale sapere. E` per far fronte a tale problematicita` che nasce la ricerca pedagogica, ossia quel pensare che si vorrebbe rigorosamente dedito a cercare una risposta alla domanda: cosa fare perche´ gli esseri umani, quelli nuovi venuti al mondo per incominciare un percorso unico e singolare non smarriscano la ricerca essenziale, quella che mira ad individuare il senso dell’esistere? Difficile dare forma a questo sapere, o meglio cosı` come non esiste una risposta definitiva alla domanda esistenziale “che fare”, analogamente non puo` esistere un sapere definitivo sull’educazione che cerca il metodo per trovare a quella domanda una risposta. Il sapere dell’educazione, in ragione della natura del suo oggetto, e` destinato ad essere non finito, non terminato, un sapere che fatica a rischiarare la pratica educativa, un sapere fragile e incerto, cosı` come fragile e incerto e` il sapere della vita, una luce debole sempre sul punto di spegnersi. Eppure va cercato, essendo un sapere che sentiamo irrinunciabile. E tale e` quando, anziche´ ridursi a mera alfabetizzazione, assume tutto il peso della vita alla ricerca della sua forma. Il problema e` come cercare questo sapere sull’educazione, sapendo che deve profilarsi come sapere vivo dell’esperienza educativa, ossia capace di rischiarare il percorso difficile e insidioso della pratica educativa. allevare, alimentare, nutrire, curare, anche perche´ educatus – che indica la qualita` dell’essere educato – e` il participio passato di educa¯re. Educare inteso come coltivare e curare e` offerta di esperienze che possono consentire all’altro di cercare la propria forma, mai dovrebbe prefigurare forme gia` compiute. Educare e` per Socrate aver cura che l’altro abbia cura di se´, ossia aver cura che si metta alla ricerca della sua propria originale forma. La pratica dell’educare e`, dunque, nel suo significato originario fedele all’essenza ontologica dell’essere umano chiamato a trovare da se´ la sua originale forma dell’essere. Occorre tuttavia precisare che non si da` la possibilita` di realizzare nella sua pienezza il concetto di educazione, poiche´ sempre l’agire educativo implica processi di formazione. Nessuna azione umana puo` essere pura, ma sempre e` mescolata ad altro. Conviene, pero`, mantenere vive le idee pure, anche se si sanno non praticabili, perche´ necessarie a discriminare la qualita` dell’agire.

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Premessa

Quello di cui disponiamo e`, in molti casi, un sapere pedagogico inadeguato, perche´ per acquisire credibilita` si e` orientato a cercare strumenti discorsivi fra le scienze empiriche, facendosi guidare dall’illusione di costituirsi anch’esso come scienza sistematicamente fondata. Sotto l’influsso di una certa cultura positivistica si e` creduto, e in certi contesti della ricerca in ambito educativo ancora tale convinzione permane, che al farsi del discorso pedagogico sia necessario e sufficiente il dialogo con le scienze. Questa credenza non tiene conto della sproporzione tra il sapere della scienza e quella di cui ha bisogno l’esperienza umana per trovare la sua giusta forma. Non ogni tipo di esperienza si rassegna a recintarsi nei canoni del discorso scientifico, e tale e` l’esperienza educativa, di cui la scienza non riesce a cogliere aspetti essenziali. Cio` che la scienza non riesce ad afferrare “sono certi stati della vita umana, certe situazioni che l’uomo vive e di fronte alle quali la forma enunciativa della scienza non ha forza, ne´ valore” (SA: 65); soprattutto quando fa dipendere il valore della conoscenza dal fondarsi su un’elaborazione quantitativa dei dati, come se solo la quantita` garantisse la verita`, quando invece l’educazione ha a che fare con questioni non trattabili quantitativamente, dal momento che la ricerca del senso della vita non puo` essere oggetto di un algoritmo. Oppure quando cerca un sapere dal valore universale, anche se l’unico accessibile e` un sapere esperienziale, ossia un sapere contestuale, legato alla contingenza e, quindi, sempre pronto a ridefinirsi, perche´ solo un sapere esperienziale, che mira a produrre non teorie generali ma localmente significative, ha una valenza trasformativa. Smarrita la consapevolezza della natura del suo oggetto irriducibile al discorso scientifico la pedagogia si e` costituita come sapere estraneo a tale oggetto e, dunque, come tale incapace di illuminare la pratica educativa. Per farsi sapere vivo la pedagogia dev’essere capace di comprendere l’esperienza educativa. A questo scopo ha da costituirsi come sapere esperienziale che prende forma a partire da un’interrogazione radicale dell’esperienza, della vita, attraverso l’affinamento del pensiero teoretico, inteso come pensiero radicalmente interrogante. Poiche´ la vita e` da sempre l’oggetto della filosofia, dove il pensiero teoretico ha avuto origine, allora c’e` necessita` che la pedagogia riallacci saldamente il dialogo con la filosofia. Ma quale filosofia? Quella che consente di ampliare la propria coscienza, che aiuta a rischiarare il problema dell’esistenza, in quanto conditio sine qua non alla costituzione di un discorso pedagogico con senso. Una filosofia che sia mediatrice tra la vita e il pensiero, e che proprio in quanto tale risponde alla sua ragione d’essere, che e` quella di aiutare l’essere

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Premessa

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umano a vivere con senso la sua vita. Ad essere necessaria e` quella filosofia che va alla ricerca della verita`, non per un esercizio intellettualistico, ma per illuminare la vita. Una filosofia che non tradisce il suo originario mandato di stare alla ricerca dell’arte di vivere (τχνη το β ου). Nella concezione del filosofare come pratica di pensiero che va in cerca della ε δαιμον α, ossia di quei modi di abitare il proprio tempo che con5 sentono il pieno fiorire dell’umano , la filosofia non viene meno al principio di perseguire la correttezza delle argomentazioni, ma situa il senso di questa ricerca non nella produzione di discorsi formalmente corretti, ma nella individuazione delle direzioni di senso dell’esistere. Perche´ la filosofia rimane fedele a se stessa quando si mostra nella forma di una continua ricerca di ‘un cammino di vita’. Molta filosofia, pero`, non risponde alla chiamata della ricerca di senso, e` quella filosofia autoreferenziale, che si costituisce come discorso che riflette sui discorsi senza mantenere una relazione diretta col mondo. Sa costruire raffinate strutture concettuali, ma poi e` incapace – contrariamente proprio a quanto ci si attende della riflessione filosofica – di illuminare le vicende umane. La pedagogia ha bisogno, invece, di dialogare con una filosofia le cui radici sprofondano nella vita, di un pensiero che aderisce ai suoi bisogni, una filosofia che si profili come sapere esperienziale, come un sapere che radicalmente interroga l’esperienza, perche´ e` lo stare col pensiero la` dove l’esperienza accade, facendo di essa l’oggetto ossessivo delle sue riflessioni, la condizione necessaria – quand’anche non sufficiente – per dare forma ad un sapere vivo che quella esperienza sappia rischiarare. Perche´ la pedagogia si costituisca come sapere irrinunciabile deve dialogare con quei saperi che hanno deciso di confrontarsi con le questioni inaggirabili della vita, senza nulla scartare o semplificare, costituendosi cosı` essi stessi come saperi irrinunciabili. Questa filosofia non e` quella dei grandi sistemi, di quelle “forme trionfanti” che sembrano distratte rispetto alle questioni esistenziali della vita quotidiana (SA: 55). La pedagogia potra` trovare un pensiero vitale e necessario in forme di pensiero meno sistematiche, in certi casi piu` vicine alla poesia e con essa alla vita. La forma in cui si manifesta il sapere dell’esperienza non puo` essere un discorso formalistico, che pretende di enunciare regole oggettivamente valide, ma e` un sapere per cosı` dire frammentario, che mette in fila – una fila che pero` manca di qualsiasi ordine predato – semi di pensiero che aspettano di essere coltivati. Questi 5

Martha Nussbaum, Terapia del desiderio, Vita e Pensiero, Milano 1998 (ed. or. The Therapy of Desire, Princeton University Press, Princeton 1996), p. 22.

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Premessa

semi di pensiero mancano di un ordine perche´ non pretendono di indicare un cammino sicuro – si cadrebbe allora in un errore analogo a quello dei discorsi sistematici –, ma si offrono come strumenti da ripensare a partire dalla propria esperienza. Il sapere da cercare non e`, dunque, quello architettonicamente strutturato in argomentazioni stringenti, ma quello che ha l’aspetto di un pensiero frammentato, disordinato; di un disordine, pero`, vitale, perche´ mette in movimento il pensiero dell’altro/a. Un esempio luminoso di questo pensiero filosofico non sistematico, ma germinale, che non pretende di decidere dove sta il vero, ma della verita` con passione tiene costantemente aperta la ricerca, lo si trova nella filosofia di Marı´a Zambrano, pensatrice spagnola testimone di un filosofare massimamente attento alla vita. Il suo pensiero, dunque, assumo a tema d’indagine per cercare qualcosa che rischiari i problemi che incontra chi si trova oggi ad affrontare, teoreticamente o empiricamente, il tema dell’educazione. Nel suo pensiero andro` cercando quei nodi di riflessione su cui occorre fermarsi a pensare per reincorniciare la direzione della ricerca pedagogica. Tre sono i nodi su cui si costruisce il presente discorso. Innanzitutto Zambrano suggerisce una essenziale direzione di senso dell’educare che consiste nell’andare alla ricerca della verita`, che e` poi cercare un sapere dell’anima. Sentiamo qui risuonare l’antica proposta di Socrate, ma Zambrano, che si fa interprete profonda di questa primaria direzione di senso dell’esistenza, supera l’intellettualismo socratico attraverso la sua originale attenzione alla sfera del sentire. Ma ancor piu` fondativo e` il suo discorso sul metodo. Per andare in cerca di un sapere dell’anima occorre un metodo, ed e` proprio la riflessione sul metodo che costituisce l’architrave epistemologica del suo pensiero. E` quella del metodo una questione essenziale che riprende da Cartesio e da Husserl, ma che ridefinisce alla luce della sapienza mistica. Nel discorso che Zambrano va tessendo attorno al concetto di metodo si possono rintracciare quelle che definisco pratiche di autoformazione, che valgono sia sul piano della ricerca personale, prefigurandosi quindi come pratiche ontogenetiche, sia sul piano della ricerca rigorosa che mira ad un sapere, e in questo senso si possono definire pratiche epistemiche. nota di metodo Nel mio percorso di lettura dei testi di Zambrano il discorso si aprira`, di tanto in tanto, sulle riflessioni di altre pensatrici, Hannah Arendt soprattutto, ma anche Edith Stein e Simone Weil. Questo aprire finestre di dialogo accadeva continuamente nella mente mentre ero presa dalla

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Premessa

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lettura delle opere della filosofa spagnola e questo aprire finestre accadra` anche nella fase della scrittura perche´ il riferirsi ad altro aiuta, per analogia e per differenza, a cogliere l’originalita` di Zambrano. Del resto ad accomunare queste pensatrici c’e`, al di la` dei differenti e originali profili di ciascuna, un tratto comune che rende il loro pensiero significativo per una ricerca pedagogica che vuol essere attenta all’esperienza vivente: il loro portare il pensiero sempre la` dove la mente sente esserci questioni vitali per l’anima. Altri riferimenti, seppur operati in modo sintetico, saranno alcuni dei pensatori che Zambrano ha assunto come interlocutori privilegiati, in particolare Seneca, Agostino, Scheler, Husserl, Heidegger, Unamuno, Ortega y Gasset, perche´ stare sul sentiero dei suoi riferimenti significa trovare indizi per tessere l’ordine del suo discorso. Rispetto ai pensatori che ha frequentato non c’e` dubbio che Zambrano abbia sviluppato prospettive originali, ed e` la sua originalita` che va colta, ma penso che la sua unicita` e differenza piu` intensamente possa delinearsi se il suo pensiero viene messo in relazione con le fonti delle sue riflessioni. Come afferma Bateson, il pensiero ha bisogno di scoprire differenze per far emergere il profilo dei fenomeni. Sento che un buon metodo di lavoro per cogliere l’originale differenza del pensiero di Zambrano e` quella di leggerla tenendo aperto il dialogo con quei nuclei di pensiero con cui lei si e` costantemente confrontata. Il tessere questi riferimenti trova autorizzazione nel fatto che, come Zambrano afferma, “siamo sempre figli di qualcuno, eredi e discendenti” (S: 1), e per questa ragione il pensiero di un singolo/a pensatore/rice risalta nella sua essenza originale contestualizzandolo nella tradizione in cui e` germinato. Leggere Zambrano non e` facile, perche´ il suo pensiero non ha un andamento sistematico, ossia non segue il modo tradizionale che ha la filosofia di individuare temi e poi svilupparli analiticamente secondo un ordine sequenziale, che tiene ogni tema distinto dall’altro. Il suo e` un modo impressionistico di procedere, punteggiato di ragioni seminali che tali restano, nel senso che le questioni cui lei tiene vengono accennate e non concettualmente sistematizzate, ed e` in questa forma seminale che tali questioni ricompaiono ripetutamente nel discorso senza alcuna pretesa di sistematizzazione argomentativa. E` un modo non finito, non terminato – cosı` come e` la ragione umana – di coltivare il pensiero, ed e` proprio in quanto tale che la filosofia di Zambrano interroga il lettore, provocando in lui/lei un cambiamento di posizione: da semplice lettore-spettatore a partecipante attivo nella costruzione di un ordine del pensiero, perche´ da

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Premessa

questo pensiero seminale l’altro si sente interpellato a pensare a partire da se´. Non c’e` forse migliore modo di filosofare di quello che chiama l’altro a tessere il suo proprio ordine del discorso. Per stare nel dialogo con Zambrano mi e` sembrato essenziale prestare attenzione ai concetti che risultano avere operato profondamente nel suo pensiero: la verita`, il sentire, il tempo, l’epoche¯, il posto ontologico dell’essere umano, il pensare poetico, concetti che sono parte della tradizione filosofica, ma che lei ha riletto in modo profondamente originale. Zambrano insegna che delle tradizioni di pensiero con cui la nostra mente dialoga si deve saper cogliere quei nuclei di idee seminali che piu` ci interpellano, e poi su questi intensamente meditare per reinterpretarli alla luce della nostra esperienza. E` questo il metodo che dovrebbe seguire anche il filosofo dell’educazione: delle filosofie cogliere quegli aspetti del discorso che consentono di mettere a fuoco il quid dell’educare e di questo contornare i suoi aspetti problematici, per poi prospettare possibili piste di azione. L’intenzione di mantenermi quanto piu` possibile prossima al linguaggio di Zambrano ha richiesto frequenti riferimenti diretti ai suoi scritti; per evitare un appesantimento di note a pie´ di pagina ho scelto, solo per i suoi testi, la notazione nel corpo del testo con l’utilizzo della siglatura delle opere.

Il pensare, proprio perche´ e` sempre pensare con altri, e` anche sempre di altri. Quando, dunque, il pensare prende forma si dovrebbe ringraziare molte e molti. Impossibile, pero`, ricostruire la fitta trama di scambi in cui le nostre idee hanno preso forma, ma devo un particolare ringraziamento ad Annarosa Buttarelli per il tempo dell’ascolto e del dialogo di cui mi ha fatto dono.

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Premessa

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Opere di Marı´a Zambrano citate per sigla A

L’aurora, Marietti, Genova 2000 (tit. or. De la aurora, Ediciones Turner, Madrid 1986).

B

I beati, Feltrinelli, Milano 1992 (tit. or Los bienaventurados, Ediciones Siruela, Madrid 1990).

CB

Chiari del bosco, Bruno Mondadori, Milano 2004 (ed. or. Claros del bosque, Editorial Seix Barral, Barcelona 1977).

CGL

La confessione come genere letterario, Bruno Mondadori, Milano 1997 (ed. or. La Confesio´n: Ge´nero literario, Fundatio´n Marı´a Zambrano, 1943 – Ediciones Siruela, Madrid 1995).

DD

Delirio e destino, Raffaello Cortina, Milano 2000 (ed. or. Delirio y destino, Mondadori, Madrid 1989).

FP

(1998), Filosofia e poesia, Pendragon, Bologna (ed. or. Filosofı´a y poesı´a, Fondo de Cultura Economica, Mexico D.F. 1996).

MFTFV Il metodo in filosofia o le tre forme di visione, in “aut aut”, 1997, 279, pp. 70-78 (Del me´todo en filosofia o de las tres formas de visio´n, in “Rı´o Piedras. Revista de la Facultad de Humanidades”, San Juan de Puerto Rico, 1972). NM

Note di un metodo, Filema, Napoli 2003 (ed. or. Notas de un me´todo, Mondadori Espana, Madrid 1989).

PD

Persona e democrazia, Bruno Mondadori, Milano 2000 (ed. or. Persona y democrazia. La historia sacrificial, Fundatio´n Marı´a Zambrano, 1958 – Ediciones Siruela, Madrid 1996).

PR

Le parole del ritorno, Citta` Aperta, Troina 2003 (ed. or. Las palabras del regresso, Fundatio´n Marı´a Zambrano, 1995).

S

Seneca, Bruno Mondadori, Milano 1998 (ed. or. El pensamiento vivo de Se´neca, Fundatio´n Marı´a Zambrano, 1944 – Ediciones Siruela, Madrid 1994).

SA

Verso un sapere dell’anima, Cortina, Milano 1996 (ed. or. Hacia un saber sobre el alma, Losada, Buenos Aires 1950).

SP

Per una storia della pieta`, in “aut aut”, 1997, 279, pp. 63-69 (ed. or. Para una historia de la pietad, “Lyceum”, La Habana 1949, 17).

SPPC

Spagna. Pensiero, poesia e una citta`, Citta` Aperta edizioni, Troina 2004.

ST

I sogni e il tempo. Edizioni Pendragon, Bologna 2004 (ed. or. Los suen˜os y el tempo, Siruela, Madrid, 1992).

UD

L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, Roma 2001 (ed. or. El hombre y lo divino, FCE, Me´xico 1973 – Siruela, Madrid 1992).

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1 Direzioni di senso

1.1. Cercare la verita` della vita Zambrano paragona la vita ad un fiume. Il fiume e` acqua che scorre. Ma perche´ ci sia un fiume e` necessario che ci sia un letto in cui l’acqua si raccoglie. Altrimenti si avrebbe un pantano, perche´ “la potenza si esaurisce in assenza di argini” (SA: 12). Come l’acqua anche il tempo della vita scorre. E con il tempo che passa, passa anche la nostra vita. Ma perche´ essa non sia semplice dispersione del tempo, perche´ l’angoscia di passare si trasformi “nella gioia di essere in cammino” (SA: 13) e` necessario che ci sia un percorso, una direzione di senso orientata verso qualcosa che illumina i nostri passi nel tempo: Ogni vita, persino la piu` attiva, ha bisogno di trascorrere chiusa in una forma, e solo al suo interno si rende attiva. L’informe e` ugualmente inattivo e sterile, senza possibilita` alcuna di agire. La vita, a mano a mano che sale nella scala della perfezione, sale anche nella scala della forma (SA: 71).

La vita ha necessita` di una forma. Per Zambrano questo qualcosa e` la verita`, per verita` intendendo quella figura della realta` che consente di dare un ordine alla vita, ossia di collocare nel loro posto giusto le direzioni possibili dell’essere. Cercare la verita` e` cercare una luce, quella luce lontana che si manifesta come “un chiarore che ricade sulle circostanze immediate e le mette in ordine, da` loro un senso” (PD: 33). E` questa la “verita` vivente”, quella che ha una potenza trasformatrice sul tempo della vita. La vita ha bisogno di trasparenza e solo la verita` e` in grado di fornirla; quando manca di verita` procede incerta e confusa. C’e` una necessita` della verita` intesa questa come un orizzonte in cui sentiamo essere raccolti gli istanti della vita. La verita` e` l’alimento della vita, quello che la tiene in alto:

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Un metodo a-metodioo

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Aggrappandoci alla verita`, alla nostra, legandoci alla sua scoperta per averla accolta dentro di noi, fissandola nel nostro essere verita`, sentiamo che il nostro tempo non passa, o almeno non invano (SA: 12).

Cercare la verita`: sarebbe questa la direzione di senso capace di inverare il nostro tempo. Perche´ cercare la verita` da` ordine ai nostri passi e permette di muoversi verso una direzione precisa. “La verita` trasforma la vita” (CGL: 31). Una vita che si consegna alla ricerca della verita` e` una vita trasformata, convertita. Il problema di una vita confusa e perplessa, quella di chi si sente smarrito nell’oceano della vita, e` di non avere una verita`. Quella verita` che ha la forma della visione. Avere una visione e` vedere la forma possibile della propria vita. E` la visione “che apre le porte dell’anima e che innamora” (SA: 76). Offrendo una forma di vita la visione da` senso all’esistenza ed e` da questo orizzonte di senso che scaturisce l’azione autentica. C’e` necessita` della verita` come orizzonte cui guardare per trovare misure di senso che inverino gli istanti della nostra vita. La verita` e` l’alimento della vita, quella che la tiene in alto. La verita` accende la vita, perche´ porta il pensiero al centro dell’essere e fa sentire questo centro. Ma quale forma ha questa verita`? Occorre fare chiarezza sul concetto di verita`, perche´ verita` e` una parola troppo carica di significati per assumerla senza interrogarla e soprattutto senza capire quale significato Zambrano assegna a questo termine. Non puo` avere la forma enunciativa di un discorso compiuto, con una struttura definitiva. Sarebbe allora come la verita` platonica che, trovata nel cielo limpido ed immobile, il filosofo pretende valga anche nella caverna oscura e soggetta al passare del tempo; ma a questa verita`, che s’impone da un altrove, l’esperienza reagisce rifiutandola, cosı` come gli abitanti della caverna rifiutarono il filosofo che si faceva portatore di un sapere elaborato altrove. Perche´ tutto quello che ha una forma definita non puo` illuminare la vita che e` alla ricerca di una forma. La verita` e` tale, cioe` e` parola viva, quando una volta accolta nell’anima in essa puo` modificarsi: nascere e rinascere continuamente a nuove forme. Ed e` in questo suo continuo rimodellarsi nell’anima impegnata a pensare l’esperienza che la verita`, in cerca della sua forma, aiuta la vita a trovare la sua forma. Perche´ la verita` e` tale quando nel suo prender forma muove l’anima, l’accende, la mette in tensione, cosı` che si possa sentire il centro del proprio essere. Non e` questo il caso delle verita` scientifiche, verita` chiuse dentro discorsi troppo sistematici. Non e` neppure la verita` di certa filosofia, quella

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Direzioni di senso

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che si pretende generata da un pensiero puro. A contrassegnare molta filosofia e` stata la ricerca di un sapere universale e da tale ricerca ha escluso l’amore, i sentimenti. Platone ci aveva insegnato che e` l’amore a mettere ordine nella vita e a condurre alla verita` (CGL: 32), ma certa filosofia ha scartato tutto il sentire e separandosi da esso si e` separata dalla vita producendo un sapere astratto. Questa verita` generale e anaffettiva non innamora la vita, la lascia indifferente o anche “insofferente”. Non che la verita` non debba essere generale, sempre una verita` per essere tale e` trascendente rispetto alla vita: “ciascuna verita` e` la trascendenza della vita, il suo farsi strada” (CGL: 33). Ma per essere viva deve nascere dalla vita stessa. Cosa che non accade alla verita` prodotta dalla cultura moderna, dove i saperi hanno rescisso il rapporto con la vita, con le sue passioni e le sue tenebre. E queste rimangono impenetrabili alla luce di una ragione che ha interrotto la relazione col sentire originario. La verita` offerta da un pensiero come quello moderno che pretende, anche quando e` filosofia, di strutturarsi nella forma di una scienza esatta, non innamora la vita, non riesce a trasformarla. La vita non si lascia com-prendere da questo tipo di pensiero, lo sente estraneo e, quindi, lo rifugge. E cosı` la vita rimane abbandonata dalla verita` e svilita. Le verita` date, quelle sistematizzate entro discorsi logicamente strutturati, esigono non un’adesione ma una sottomissione che ha la forma dell’imposizione violenta e come tale non fa respirare la vita, ma produce l’effetto di annichilirla. La verita` e` tale quando seduce la vita, quando la fa innamorare. Nessuno puo` “darci” questa verita`, intesa come prodotto preconfezionato. La verita` che fa respirare la vita e la trasforma e` qualcosa che va cercata. Cercata, come insegna il pensiero della differenza femminile, a partire da se´, da un investimento soggettivo nel pensare. Se la vita non viene impregnata della ricerca della verita` allora rimarra` senza respiro. Date queste premesse si profila allora come questione inaggirabile il capire “Come fare in modo che vita e verita` s’intendano, la vita lasciando spazio per la verita` e la verita` entrando nella vita?” (CGL: 39). Per rispondere a questa domanda occorre capire in che cosa consiste per Zambrano la verita`, quella vitale. La filosofa chiarisce che la verita` da cercare e` il “sapere dell’anima”, qualcosa che sentiamo indispensabile perche´ e` quella verita` che alla vita apre un percorso (SA: 19).

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Un metodo a-metodioo

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1.2. Per un sapere dell’anima La vita e` cammino e in questo cammino privo di mappe avvertiamo la necessita` di un sapere dell’anima, ossia quel sapere che offre una visione, una figura della realta` in cui l’esistenza prenda il suo senso. Il sapere dell’anima e` quello che serve alla vita, il sapere sperimentale della vita. Trovare il sapere dell’anima e` trovare la misura del proprio esistere: la direzione e il ritmo del proprio camminare nel tempo. Imprimere al cammino della vita un ritmo significa possedere la potenza indefinita di un comportamento proprio. E` questa la sola sovranita` che ci e` concessa, una sovranita` potente perche´ generatrice di liberta`, ma fragile perche´ il ritmo del proprio camminare non e` cosa decisa una volta per tutte, ma continuamente va orchestrato. E` cosa intensamente problematica affrontare il compito di dare una forma al tempo della vita. La cosa piu` tremenda del tempo e` trovarsi ad affrontarlo da soli. Il sapere dell’anima e` quello che ci consente di stare in comunita`, quello che ci fa incontrare gli altri, che non sono solo i nostri simili, ma tutti gli altri enti che abitano il reale. E` quel sapere che ci fa trovare un ordine di connessione con le altre persone cosı` che si possa andare insieme nel tempo, “perche´ si tratta di camminare uniti, camminare con” (DD: 124). Trovare nella vita il ritmo della condivisione con altri e` essenziale per Zambrano, che accoglie la lezione di Ortega y Gasset secondo cui “vivere e` convivere” (DD: 16); nelle sue riflessioni l’ontologia che nomina la mancanza d’essere che segna la condizione umana si traduce in un’etica della condivisione. Vivere da soli significa vivere a meta`, ossia morire pur rimanendo vivi. E cio` si verifica non solo quando ci si trova a sopportare malattie che interrompono il ritmo ordinario, ma anche quando viene a mancare la relazione con altri, quando il prossimo non c’e`. Siamo soliti avere l’immagine della nostra persona come di uno spazio recintato dai confini della nostra pelle. Ma questa visione atomistica non corrisponde all’essenza della condizione umana, che e` fondamentalmente relazionale, nel senso che noi siamo la forma emergente delle relazioni che strutturano il nostro spazio vitale. “L’altro e` la compagnia di cui ogni essere necessita” (NM: 72) poiche´ nessuno puo` esistere da solo. Come scrive il poeta Antonio Machado “un cuore solitario non e` un cuore”. Nella solitudine si possono vedere cose chiarissime, ma nessuna di queste e` verita`. Per pronunciare parole, che e` tuttuno col costruire lo spazio in cui manifestare la propria essenza, si ha bisogno dell’altro. Ne´ si puo` avere percezione del proprio corpo se non c’e` un altro con cui essere in relazione. Essere consapevoli che vivere e` convivere significa “sapere e sentire che la nostra

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Direzioni di senso

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vita, seppure nella sua traiettoria personale, e` aperta a quella degli altri” (PD: 14) ed e` proprio in quanto esseri plurali e non mai soli che non si finisce mai di esistere. Quando questa consapevolezza viene meno allora si rischia la follia. La stessa azione politica e` nella sua essenza condivisione, perche´ fare politica significa stare insieme con gli altri: quelli piu` grandi da cui s’impara, i pari con cui si ha da costruire una visione condivisa della vita, quelli che abitano altri ambienti e seguono altri ritmi. Prima di fare progetti, prima di scrivere dichiarazioni d’intenti, prima di pianificare interventi rivoluzionari volti a distruggere mondi divenuti inabitabili o edificare mondi nuovi, occorre imparare la pratica della condivisione in cui tessere insieme ritmi comuni di esistenza. La politica per Zambrano e` innanzitutto “ansia di convivenza profonda” (DD: 47), significa essere liberi da qualsiasi ansia di realizzare utopie o di ispirare l’azione ad ideali universali. Il cammino della vita non e` un percorso che ognuno fa da solo, ma sempre con altri. Senza l’altro il cammino non e` un reale movimento. Il sapere sperimentale della vita che si va cercando e` dunque da concepire come quello che guida ad uscire alla ricerca dell’altro e con lui/lei condividere la ricerca della verita`. La verita`, non quella delle argomentazioni astratte ma quella che trasforma la vita, non e` mai soggettiva, ma e` sempre qualcosa di conquistato insieme. E` in quanto tale che diventa l’orizzonte al chiarore del quale dare forma al tempo della vita. E`, quindi, irrinunciabile il sapere dell’anima quando si profila capace di far trovare la misura per dare ritmo e direzione alla propria esperienza nel mondo con altri. Per essere tale non puo` che scaturire dal pensiero vitale, quello che sta affondato nella vita e di essa porta il peso. Il sapere vitale e` tessuto di “idee incarnate” (SA: 58), che prendono forma per opera di un pensare che sta la` dove la vita accade, perche´ solo in quanto si mantiene in contatto con la vita nella sua essenza e` capace di trasformarla. La nostra epoca non riserva attenzione a coltivare tale sapere. Dispone di una massa crescente di conoscenze scientifiche e di tecniche, che sempre meglio rispondono al bisogno di edificare un mondo propriamente umano in cui abitare, ma queste non rispondono al bisogno di trascendenza. Ne´ questo bisogno e` soddisfatto dalla filosofia, che in molti casi produce sistemi lontani dalla vita ed esibisce un pensiero razionalistico ed astratto. Per trovare un’attenzione ai bisogni dell’anima occorre andare col pensiero alla paideia socratica. Nell’Apologia Socrate parla dell’educazione come di quel processo di ricerca mosso dall’intenzione di provocare

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Un metodo a-metodioo

nell’altro la disposizione ad aver cura di se´, ossia ad aver cura dell’anima, della virtu` e della saggezza, perche´ sono queste le cose piu` importanti o meglio le cose irrinunciabili per autenticare la vita umana, quelle che 1 consentono di “diventare il piu` buono e il piu` saggio possibile” . Zambrano mette al centro del suo pensare il concetto socratico dell’anima e la ricerca di saggezza nel momento in cui interpreta la condizione umana come avente necessita` di un sapere dell’anima. Ma nel suo percorso reinterpreta il significato di questo sapere producendo una svolta radicale rispetto all’intellettualismo socratico. Svolta determinata dalla sua attenzione alla sfera del sentire. Per Zambrano, infatti, il sapere dell’anima e` l’“ordine della nostra interiorita`”. Aver cura dell’anima non e` solo soddisfare quell’ansia per il razionale che si traduce nella formula del “conosci te stesso”, ma e` anche aver cura della sfera emozionale dell’esistere. Perche´ vivere e` innanzitutto sentire: “L’esperienza e` a partire da un essere, questo che e` l’uomo, questo che sono, che vado essendo io in virtu` di cio` che vedo e patisco e non di cio` che ragiono e penso” (B: 30). Trovare l’ordine del cuore e` trovare l’ordine delle cose. L’ordine del cuore e` quello in cui sappiamo mettere al posto giusto l’essenziale, l’irrinunciabile. Trovare l’irrinunciabile e` come trovare il centro, quel centro senza il quale la vita scorre disordinata e confusa. La proprieta` del centro e` quella di attrarre, di raccogliere cio` che tenderebbe a rimanere senza un ordine. La sua consistenza e` simile a quella dell’energia, della luce, perche´ come la luce e` l’essenza germinante della vita. Per Zambrano la luce e` un a priori piu` del tempo e dello spazio; noi siamo chiamati a nascere dalla luce ed e` sempre una luce che si va cercando, quella che illumina il nostro cammino. E` vero che l’esserci consuma tempo e accade in uno spazio, ma innanzitutto i movimenti dell’essere si producono perche´ c’e` una luce che tocca l’essere e lo chiama. E` la luce che ci tiene al centro dell’essere aiutandoci ad individuare l’ordine del cuore. La sua proposta di coltivare un sapere dell’anima come ordine del cuore ha il sapore di una svolta radicale perche´ prende forma all’interno di una cultura che non solo ha accantonato il tema di un pensiero sapienziale che illumini il percorso della vita, ma coltivando ipertroficamente la dimensione razionalistica della filosofia platonica si e` occupata prevalentemente dell’aspetto intellettuale dell’essere umano, del suo pensiero, un pensiero depurato da ogni emozione e da ogni passione. 1

Platone, Apologia di Socrate, 29d-e e 36b.

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Direzioni di senso

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E` accaduto che nel tempo la filosofia ha semplificato, con l’effetto di immiserirlo, il suo campo di riflessione: non solo ha espulso la natura diventata oggetto esclusivo delle scienze naturali, ma dell’essere umano, rimasto senza legami vitali col mondo circostante della vita, ha tolto di mezzo il corpo, divenuto oggetto della biologia e della medicina, e insieme anche le passioni, di cui ha cominciato ad occuparsene la “psicologia scientifica” (SA: 14), mentre l’anima e` diventata concetto esoterico, da relegare nell’ambito dei discorsi religiosi. Una tale filosofia, che ha per oggetto una condizione umana ridotta ai minimi termini, non puo` certo rispondere al suo compito di indicare un cammino di vita. Ne´, del resto, pare interessarsi a tale compito, al punto da sembrare di avere perduto memoria di questa sua intenzione originaria di costituirsi come un pensare per la vita. Questa smemoratezza della propria ragione d’essere e` ancora piu` evidente nell’affermazione delle filosofie seconde, quelle che, interrotto il rapporto con le cose, si occupano del linguaggio. Alla fenomenologia va riconosciuto il merito di aver aperto la via per un superamento del razionalismo verso un’attenzione alla condizione umana nella sua interezza. Scrive Edith Stein: “Il nostro animo e` per natura pieno di sentimenti, tanto che l’uno soppianta l’altro e tiene il nostro cuore in continuo movimento, spesso in tumulto ed inquietudi2 ne” . Heidegger, in Essere e tempo, parla della situazione emotiva come 3 modo costitutivo dell’esserci insieme alla comprensione . La tonalita` emotiva viene detta costituire un esistenziale fondamentale, perche´ il sentire che impregna l’esser-ci, “l’equanimita` serena e il malumore inibente del 4 prendersi cura quotidiano” , anche se passano inosservati allo sguardo riflessivo della mente, sono ontologicamente significativi, dal momento che e` attraverso il sentire che l’esserci si situa nel mondo. Nell’effettivita` dell’esserci la situazione emotiva e` fondamentale in quanto e` il sentirsi che conduce l’essere umano davanti a se stesso. Prima di ogni altro atto cognitivo l’essere umano si sente, esperimenta cioe` l’“autosentimento 5 situazionale” , perche´ il nostro esserci “e` sempre consegnato al sentimento 6 della propria situazione” . 2

Edith Stein, La mistica della croce, Citta` Nuova, Roma 1991 (antologia a cura di Waltraud Herbstrith) (ed. or. In der Kraft des Kreuzes, Herder, Freiburg im Breisgau 1980), p. 47. 3 Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976 (ed. or. Sein und Zeit, Niemeyer, Tu¨bingen 1927), p. 172. 4 Ibid. 5 Ivi, p. 173. 6 Ibid.

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Un metodo a-metodioo

Questo sentirsi ha possibilita` rivelatrici rispetto alle quali il conoscere, inteso nella sua forma intellettualistica depurata dall’apporto delle emozioni, e` inadeguato, anche quando raggiunge le vette della speculazione teoretica. Invece, c’e` la tendenza della nostra cultura a disconoscere il valore del sentire e a rivolgere l’attenzione solo alla parte razionale dell’anima, parte alla quale viene erroneamente attribuito una sorta di primato, poiche´ ritenuta capace di padroneggiare le emozioni. Ma questa celebrazione del razionale fa cadere nell’errore di screditare l’evidenza della situazione emotiva, falsificandola come fenomeno irrazionale. Disconoscendo il sentire come “un modo di essere originario in cui l’esserci e` 7 gia` aperto a se stesso prima di ogni conoscere e volere” ci priviamo di un modo fondamentale per pervenire ad un sapere che sia vitale. Irrinunciabile per la vita. Zambrano mostra di apprezzare Heidegger, che definı` il filosofo piu` importante del nostro secolo (B: 53), ma nel suo discorso sul sapere dell’anima come ordine del cuore il riferimento va ad un altro fenomenologo: Max Scheler, al quale riconosce il merito di aver portato all’attenzione di una cultura impregnata di razionalismo il concetto di “ordine del cuore”. Di Scheler riporta la seguente affermazione: cio` che l’espressione simbolica cuore designa non e` (come ve lo immaginate voi, filistei da un lato e romantici dall’altro) la sede di stati confusi, di impeti oscuri e indeterminati o di forze intense che spingono l’uomo da una parte e dall’altra (cit. in SA: 16)8. 7

Ivi, p. 174. Si puo` ipotizzare che l’attenzione risevata a Scheler, filosofo ammirato da Ortega y Gasset maestro della Zambrano, sia motivata, oltre che da sintonie tematiche, anche da una consonanza dello stile di pensare che la filosofa spagnola puo` aver trovato in quel modo originale del filosofo tedesco di intendere la fenomenologia; infatti, l’incollocabilita` indisciplinata del pensiero di Zambrano (Rosella Prezzo, Metafore della lettura, pp. 35-44, in Chiara Zamboni (a cura di), Marı´a Zambrano, in fedelta` alla parola vivente, Alinea Editrice, Firenze 2002, p. 35), il suo privilegiare la parola poetica e il ragionamento metaforico che si concretizza in un linguaggio a tratti visionario, e` legittimo ipotizzare avesse trovato un valido ispiratore in Scheler. Nelle opere del filosofo e` evidente una certa passionalita` del discorso che contrasta con l’aspirazione alla nitida chiarezza della fenomenologia husserliana. Nei suoi testi la tendenza all’ordine sistematico del discorso e` continuamente inquinata dall’inclinazione per le ombre e le oscurita` della vita vissuta (Laura Boella, Il paesaggio interiore e le sue profondita`, pp. 11-45, in Max Scheler, Il valore della vita emotiva, Guerini, Milano 1999 – ed. or. Die Idole der Selbsterkenntnis, in Id., Gesammelte Werke, Bd. III: Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsa¨tze, hrsg. von Maria Scheler, Francke, Bern-Mu¨nchen 1955, pp. 213-292 –, p. 12). Analogo a questo e` lo stile di Zambrano, alla quale si possono applicare le stesse parole che lei riserva a Seneca, definendolo “un pensatore non sistematico, non eccessivamente logico”, che non si attiene alle regole, ne´ si 8

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Direzioni di senso

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Con l’espressione ordo amoris Scheler intende un ordine del sentire che costituisce il nucleo vitale dell’etica di un soggetto, in quanto tale ordine performerebbe il modo di guardare il mondo e di vivere in esso. La forza performativa dell’ordine del cuore sarebbe come quella esercitata dalla formula di cristallizzazione che decide la struttura di un cristallo. Ciascuno di noi inevitabilmente sviluppa un modo di sentire, che si porta appresso come il mollusco la sua conchiglia. Il sentire in cui siamo immersi e` come un contenitore nel quale il nostro essere resta incapsulato, e il modo di percepire il mondo dipende dalle finestre che si dischiudono in questo contenitore. Il problema cui deve far fronte l’essere umano e` che questo sentire puo` avere ma anche mancare un ordine. Rispetto al rischio di un disordine 9 del sentire , quello che ci fa mancare la percezione del valore esatto delle cose e conseguentemente anche delle azioni da tenere rispetto ad esse, il soggetto dovrebbe decidersi continuamente per la ricerca dell’ordine del cuore, quello che ci dice dove sta il valore delle cose e dunque la giustezza del nostro agire. Ma se in Scheler l’ordine del cuore ha una base oggettiva indipendente dal soggetto, profilandosi come qualcosa che non puo` essere posto o prodotto, ma che solo puo` essere riconosciuto, per Zambrano – che sempre rilegge in modo originale le teorie cui dedica attenzione – esso e` una tensione dell’anima orientata a cercare quella visione della vita che invera il tempo dell’esperienza. L’ordine del cuore costituisce l’orientamento dell’anima, e l’anima dovrebbe essere considerata il nucleo dell’essere umano inteso come essere spirituale, molto di piu` di quanto dovrebbe 10 essere considerata la capacita` di conoscere e di volere . Per questa ragione Zambrano suggerisce di intraprendere, e a sua volta percorre, la strada suggerita da Scheler di prestare “attenzione alle realta` profonde dell’anima” illuminandole con lo sguardo della ragione (SA: 18). Ma inoltrarsi nelle profondita` della vita dell’anima, per disegnarne una conoscenza sufficientemente chiara, e` cosa ardua. Di fronte a questa materia sfuggente o si corre il rischio di assimilarla dentro un’eccessiva architettura concettuale oppure di scivolare in un linguaggio dai contorni fumosi:

preoccupa della costruzione di un sistema, e si fa beffe del principio vigente del rigore (S: 8). 9 Max Scheler, Grama´tica de los sentimientos, Crı´tica, Barcelona 2003 (ed. or. Grammatik der Gefu¨hle, Deutscher Taschenbuch, Mu¨nchen 2000), p. 68. 10 Ivi, p. 65.

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Un metodo a-metodioo

La farfalla in alcuni casi muore, in altri vola via. Raramente si e` verificato quel miracolo di agilita` della mente che le permette di trattare adeguatamente l’anima, di costruire una rete fatta apposta per catturare la realta` sfuggente della psiche (SA: 18).

Quel “delicato sapere intorno all’anima” (SA: 18) che avvertiamo essere indispensabile per fare della nostra vita un tempo vero, chiede una ragione diversa da quella razionalistica e dialettica che prevale nella nostra cultura. A dominare e` una ragione modellata su quella platonica, che concepisce la verita` strutturata in idee generali ed astratte. La ragione che rischiara la vita e`, invece, quella che rinuncia agli esercizi dialettici e rifiuta di perseguire l’idealita`, per legare il pensiero a qualcosa di concreto. La ragione attaccata al concreto, alla vita singolare di ciascuno, che rinuncia all’astrazione per stare sprofondata nella vita, nelle sue zone piu` complesse, quelle intraducibili entro discorsi sistematici, e` la “ragione materna” (S: 34). La ragione materna e` una ragione generativa che, in analogia al logos della physis che costituirebbe l’origine seminale di tutti gli enti, da` vita alle visioni di senso che inverano la nostra esperienza. E` una ragione “divinamente materialistica”, perche´ anziche´ praticare l’epistemologia dell’ascensione alpinistica, propria della ragione dialettica che cerca la verita` in un altrove immateriale rispetto al mondo ordinario della vita, si piega sulle cose concrete e materiali, sulla complessita` della vita. Ed e` da questo materialismo che scaturisce il sapere dell’anima, che e` saggezza meticolosa e sottile sulla vita. Ma lo scaturire della saggezza dell’anima non ha nulla di spontaneistico; si costruisce, invece, con meticolosita`, con metodo. La questione decisiva consiste, dunque, nell’individuare la qualita` del metodo, quello adeguato a cercare il sapere vitale e vivificante, che e` per l’anima di ognuno cosa irrinunciabile. Da cercare e` quel metodo che si faccia carico di questa vita, di tutte le sue zone per poterle rischiarare in modo sufficientemente adeguato.

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2 Alla ricerca di un metodo

Il sapere dell’anima e` quello che si profila come guida per il cammino della vita. La vita e` cammino, δς, perche´ per dare forma al proprio essere occorre un cammino. Per trovare la direzione di questo cammino, e non smarrirsi nella dispersione vanificante, occorre un metodo: μθ-οδος, cioe` il sapere del camminare. La vita sempre e` vissuta, e` il tempo puro ed ingenuo dello stare senza riflessione. L’esperienza e` la vita saputa, compresa: e` il tempo patito e agito. L’esperienza e` presa di coscienza. E` come se l’esperienza fosse vita di secondo grado. “Ma la vera esperienza non puo` darsi senza l’intervento di una sorta di metodo” (NM: 35). E` attraverso il metodo che il tempo prende corpo e forma. Perche´ il metodo mostra la qualita` che deve avere la verita`, quella necessaria a respirare la vita. Quindi, cercare un metodo e` questione essenziale non solo per la ricerca della conoscenza, ma per la vita intera. E` una necessita` esistenziale oltre che epistemologica. Al tema del metodo Zambrano dedica, oltre a molte riflessioni sparse, un testo specifico, Note sul metodo, rivelandosi cosı` una “pensatrice di 1 metodo” . “Metodo e` la parola magica per Cartesio e ancora per Husserl” scrive Zambrano (SA: 187), ma metodo e` parola magica, o meglio essenziale, anche per lei. Riferendosi specificatamente al metodo cartesiano, sottolinea il suo essere stato sottoposto ad una interpretazione semplicistica e schematica; viene, infatti, convertito in una ‘forma mentis’ accompagnata da un atteggiamento di sfiducia verso i dati resi accessibili ai sensi. Seguendo il metodo cartesiano, che chiede di operare continue scissioni – non solo fra se´ e il mondo, ma anche dentro di se´ separando la parte razionale da quella emotiva – si arriva a quell’immiserimento della vita dello spirito conseguente al fatto che “ci si fida solo di cio` che si presenta come evidente, che ben presto diventera` l’ovvio, il banale, dando luogo ad una ermetizzazione crescente della vita spontanea del soggetto”

1

Rosella Prezzo, Metafore della lettura, cit., p. 38.

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Un metodo a-metodioo

(NM: 41). Il metodo razionalizzato della scienza moderna cerca la chiarezza, ma puo` raggiungerla solo a patto di evitare i luoghi opachi, le zone tenebrose. Ma tutta la vita e` fatta di opacita`, di lati oscuri, di zone stagnanti dove il pensiero inevitabilmente s’impantana. Evitare queste zone, connesse alla nostra esperienza sensoriale ed emotiva, al nostro essere emotivamente ingarbugliati con noi stessi e con gli altri, facilita sı` il lavoro del pensiero che si compiace di poter ridurre i suoi oggetti in espressioni matematiche, ma ha come conseguenza di lasciare senza luce le zone piu` intense e problematiche della vita. “Una chiarezza che respinge le tenebre senza penetrare in esse, senza disfarle in penombra, senza aprire squarci di luce” (NM: 42) non aiuta a vivere la vita. Ne e` di aiuto un metodo che si presenta come qualcosa di sicuro e di certo, perche´ in quanto tale impedirebbe di fare esperienza. Non e` dunque questo il metodo che si va cercando.

2.1.L’essenza a-metodica del metodo non puo` essere un metodo a priori I testi che si occupano di epistemologia della ricerca molto spazio dedicano alla codificazione del metodo. Ma per Zambrano non esiste un metodo come cosa oggettivamente disponibile, in quanto codificato entro procedure predefinibili; il metodo e` qualcosa che occorre tracciare, “non c’e` metodo in principio per il sapere della vita. Perche´ la vita e` irripetibile, le sue situazioni sono uniche e di esse si puo` parlare solo per analogia ...” (NM: 111). Il metodo e` qualcosa che nasce dalla vita e con questa continuamente si commisura, in quanto tale e` destinato a rinascere continuamente, perche´ continuamente dalla vita si generano nuove forme di esperienza. Invece, il bisogno di certezze proprio dell’essere umano, fa correre il rischio di cadere in un metodo a priori, che e` quello che va a “ricadere sulla vita stessa e sul nascere dell’esperienza, come un difetto originario, privandola cosı` della sua indispensabile innocenza” (NM: 35). Un metodo a priori chiede agli oggetti di adeguarsi ad esso, ma, proprio per questa sua imposizione, al metodo e` destinato sfuggire qualcosa di essenziale 2 dell’oggetto . Il metodo a priori e` un metodo che chiude la stessa possibilita` di fare esperienza, perche´ predetermina anticipatamente contravve2

Roberta De Monticelli, (a cura di) (2000), La persona: apparenza e realta`, Cortina, Milano 2000, p. XVI.

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Alla rioeroa di un metodo

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nendo all’essenza dell’esperienza umana che e` costitutivamente apertura. E` un metodo astratto e, quindi, incapace di vivificare il tempo della vita. C’e`, invece, necessita` di un metodo che nasca dalla vita e che ai fatti della vita resti legato. “Si potrebbe dire che l’esperienza e` ‘a priori’ ed il metodo e` ‘a posteriori’” (NM: 35). Ma anche questa e` una semplificazione, che si limita a invertire la direzione della relazione sequenziale fra metodo ed esperienza, cioe` ribalta quella semplificazione che stabilisce la precedenza del metodo sull’esperienza nel suo opposto. Per questo Zambrano precisa che dare la precedenza all’esperienza sul metodo “vale soltanto come un’indicazione, giacche´ la vera esperienza non puo` darsi senza l’intervento di una sorta di metodo” (NM: 35). Zambrano istituisce, quindi, una codipendenza evolutiva fra metodo ed esperienza, nel senso che la vera esperienza non si da` senza un metodo e un metodo e` tale se prende forma nel bel mezzo dell’esperienza; l’uno non puo` esserci senza l’altra e viceversa. Perche´ il tempo vissuto diventi esperienza occorre un metodo e il metodo si fa nel bel mezzo del tempo della vita. “Il metodo si da` fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtu` di cio` arriva ad acquistare corpo e forma, figura” (NM: 35). Il metodo da cercare e` quello che viene dall’esperienza facendo esperienza. In questo legame con l’esperienza ritrovo una forte assonanza col pensiero di un’altra grande filosofa: Hannah Arendt, che fa continuamente appello ad un pensiero che rimanga legato ai fatti della vita come il cerchio al proprio punto focale, in quanto condizione necessaria perche´ la 3 realta` non resti impenetrabile alla luce del pensiero . Per guadagnare intelligenza sul reale e` necessario un pensiero contestuale, che non e` un pensiero smarrito nel particolare, ma un pensiero che cerca semi di sapere capaci di un valore rischiarante che va oltre il campo fenomenico a partire dal quale si sono costituiti, senza per questo smarrire il suo necessario attaccamento all’evento. E` un pensiero che rimane affondato nell’evento, nell’esperienza puntuale cosı` com’e` vissuta. Un pensiero che “salva le circostanze” e le illumina (B: 62-63). “Salvare i fenomeni” e` un’espressione che troviamo anche in Simone Weil. Queste filosofe sono tutte attente alle circostanze concrete nella loro singolarita` essenziale. Da pensare e` sempre il fatto concreto singolare, pensare ad ogni evento nel suo pulsare originale prima di assimilarlo in un concetto generalizzante che smarrisce dell’evento il suo quid. Il metodo e` innanzitutto apertura, passaggio ad altro, al non cono3

Hannah Arendt, Tra passato e futuro, Garzanti, Milano 1999 (ed. or. Between Past and Future: Six Exercises in Political Thought, The Viking Press, New York 1961), p. 29.

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Un metodo a-metodioo

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sciuto e, quindi, a cio` che non puo` essere anticipato prima che il cammino abbia inizio. per trovare il metodo non ci sono regole E` proprio in quanto il metodo si profila come apertura che per trovarlo non ci sono regole predefinite cui affidarsi. Non ci sono piste gia` tracciate, ma solo stretti sentieri da trovare cammin facendo: Un metodo e` un cammino da percorrersi una o piu` volte (...) E` un luogo di arrivo piu` che di partenza (NM: 37).

Proprio perche´ e` un cammino, o meglio un camminare accompagnato dal pensare il cammino che si sta tracciando, dunque non un semplice camminare ma un camminare pensando sui propri passi, occorre sapere smarrirsi nell’esperienza, naufragare nel territorio che si attraversa lasciando che il pensiero si innamori delle cose che incontra. Occorre saper perdersi nel tempo, cosa che implica “una certa dose di avventura e persino un perdersi nell’esperienza, un’erranza del soggetto nel quale questa si va formando. Un perdersi che sara` liberta`” (NM: 35). Per rendere questo concetto Zambrano usa la metafora del naufragio (NM: 38). Di fronte all’opacita` del nostro essere, di fronte alla consapevolezza che il senso del nostro essere ci sfugge, ci siamo dentro e non lo vediamo, scatterebbe la tentazione di attivare quel pensare che e` un afferrare la realta` dentro la maglia dei concetti chiari e perspicui. Invece abitare autenticamente il tempo che ci e` dato significa lasciarsi naufragare. Il naufrago e` colui che arriva su una terra sconosciuta privo di tutto, non avendo nulla con se´, e` senza gli strumenti abituali; per vivere deve costruire quegli strumenti che il posto suggerisce essere utili per la vita. La postura del ricercatore e` come quella del naufrago, nel senso che egli e` chiamato ad entrare nella realta` nuova in cui si avventura senza gli strumenti ordinari e poi mettersi ad ascoltare le cose per capire come vogliono essere conosciute. Naufragare col pensiero significa arrivare alla terra del pensiero senza portarsi appresso nulla, significa morire ai propri pensieri. In questo senso l’essenza del metodo, quello necessario a cercare il sapere esperienziale che rischiari il cammino – sia esso quello della vita o quello piu` circoscritto della ricerca di conoscenza –, e` quella di essere a-metodico. La qualita` a-metodica dice l’essenza di un metodo che si profila nella forma di una continua morfogenesi di differenti approcci alla realta`, senza che nessuna delle forme che via via assume venga a cristallizzarsi. E` a-metodico non solo perche´ non fornisce regole, ma anche perche´ il

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processo generativo da cui scaturisce non segue procedure formali predefinite. Diversamente da quello positivistico non si viene strutturando attraverso un processo lineare e sequenziale, ma “salta fuori” imprevisto, germinato da un istante di lucidita`, una lucidita` differente da quella guadagnata attraverso percorsi logicamente strutturati, una lucidita` oltre la coscienza e che questa inonda.

2.2. Entrare nella realta` Dopo averci fornito elementi per capire cosa il metodo non e`, Zambrano enuncia il principio positivo del metodo: conoscere significa entrare nella realta` (SA: 99), inoltrarsi nel fitto bosco della vita lasciandosi guidare dall’anelito che spinge ad andare incontro alle cose. Dalla realta` noi siamo circondati, ma fino a quando non la cerchiamo, noi siamo da essa separati. Solo gli altri esseri viventi vivono sprofondati in essa, stanno nell’aperto; noi l’accesso alla realta` dobbiamo guadagnarlo. Il metodo che consente di entrare nella realta` e` quello che rende possibile “un modo pieno di vedere le circostanze” (B: 63). Entrare nella realta` e` essenziale per pervenire ad una verita` capace di rischiarare la vita, metterla in ordine. Una tale verita` non puo` essere il prodotto di un pensiero che ha rescisso il suo rapporto con le cose della vita, non puo` essere il frutto di un pensiero puro che spogliato del corpo cerca l’idea massimamente astratta, ne´ di un pensiero che disdegna il suo essere attratto dalle cose e cerca la verita` ripiegandosi in se stesso. La vita non puo` sopportare la ragione quando questa non s’e` degnata di far conto su di essa, quando non e` discesa fino a essa e non ha saputo neppure innamorarla per farla ascendere (CGL: 37).

Mancare di un contatto vivente con le cose significa privare la mente del necessario nutrimento della realta`. E` solo il contatto immediato con le cose che feconda l’intuizione e che fornisce alla mente i criteri adeguati per la valutazione dell’esperienza. L’atteggiamento cognitivo proprio di una ragione fecondante e` quello in cui ci si pone in relazione con la realta` come se si fosse un ospite “che approfitta di ogni porta aperta sulle cose 4 per comprenderle e guardarle” nel loro offrirsi immediato alla coscienza . 4

Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Armando, Roma 1997 (ed. or. Zur Idee des Menschen (1913), in Gesammelte Werke, Bd. III, Francke, Bern 1972; Versuche einer Philosophie des Lebens (1913), in ivi; Die Stellung des Menschen im Kosmos (1928), in ivi, Bd. IX, 1975), p. 101.

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Un metodo a-metodioo

Stare col pensiero presso le cose e` mossa essenziale non solo per il conoscere, ma anche per l’essere. E` fatica vivere senza che in un giorno intero una goccia di piacere inondi l’anima; quando accade, e puo` accadere per piu` giorni, l’anima patisce e le viene a mancare il respiro. Stare fra le cose, tenere la mente in contatto con il mondo nella sua materialita`, la` dove c’e` la sorgente della vita, portare lo sguardo sull’esperienza che tiene fra gli altri nel mondo, aiuta a trovare quel filo di piacere necessario a respirare, quello che consente il movimento dell’esserci. Ma questa e` la direzione contraria a quella presa dalla filosofia. Il metodo concepito dalla tradizione filosofica poggia su un atto violento: trarsi fuori dal mondo nel quale per nascita veniamo a trovarci e spostare lo sguardo verso il mondo immateriale delle idee. Anziche´ di entrare nella realta` chiede di “entrare nella ragione” (SA: 89). Ad interessare non sono le cose concrete, la materia vivente, ma i prodotti interni della mente. Proprio in quanto chiede alla mente di distrarsi dal mondo circostante l’epistemologia classica si configura come negazione della condizione 5 umana, che non e` solo essere nel mondo ma essere del mondo . La decisione di strappare lo sguardo dal mondo concreto in cui per nascita veniamo a trovarci si fonda sul principio ontologico secondo cui l’apparire delle cose non e` il loro essere, vale a dire che le cose mancano di sostanza e di consistenza (NM: 105), proprio perche´ le cose passano noi cessiamo di attribuire loro il privilegio di essere, ed esse diventano niente. 6 Da qui lo svanire della percezione della sacralita` del tessuto della vita . Delle cose ridotte a niente si puo` fare cio` che si vuole, e innanzitutto si puo` pensare che possano essere sottoposte a un pensiero chiaro e distinto che annulla ogni forma di opacita`. Il pensiero della scienza, quello di Cartesio – che sviluppa il pensare senza porre in discussione la cornice ontologica della svalutazione del mondo sensibile operata a partire da Parmenide – ha trasformato il reale, da qualcosa di multiplo, di ambiguo, 5 Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino, Bologna 1987 (ed. or. The Life of the Mind, Harcourt Brace Jovanovich, New York 1978), p. 100. 6 Il pensiero antico coltivava la percezione della sacralita` delle cose. Anche oggi ad uno sguardo attento la natura continua a risvegliare la percezione di qualcosa di sacro, del suo essere ricettacolo del divino, perche´ “i caratteri del sacro sono i caratteri della realta` cosı` come la sentiamo spontaneamente” (NM: 107), ma tendiamo a negare questa percezione, e la neghiamo perche´ stiamo immersi nella visione desacralizzata della scienza, che ci rappresenta le cose come niente e che proprio in quanto niente possono essere manipolate. Legittimare, invece, la percezione del sacro significa ammettere che esiste nella cosa non solo un valore, che e` il valore dell’essere, ma qualcosa di irriducibile al pensiero, qualcosa che sta nel non disvelabile, nel mistero, e questo riconoscimento costringerebbe il pensare a riapprendere una umilta` che abbiamo pericolosamente smarrito.

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di opaco, destinato a trascendere le capacita` di comprensione della ragione umana per quella scintilla di divino che le cose si portano appresso, in un ammasso di materia manipolabile dal pensiero. Altro e`, invece, il realismo femminile, il suo amore per la realta`. Per Zambrano, infatti, il cui pensiero puo` essere definito spiritualmente materialistico, le cose del mondo sono enti sfavillanti di essere. La conoscenza vera, quella che sa illuminare la vita, non puo` non essere cercata se non stando in relazione con le cose. Fare dell’immediato, di cio` che viene alla presenza interpellandoci direttamente, il vero punto di partenza per la ricerca del sapere diventa, quindi, il principio primo della ragione mater7 na . In sintonia con l’amore per la realta` proprio di Zambrano, Arendt ci ricorda che “Nulla forse e` piu` sorprendente, in questo nostro mondo, della verita` pressoche´ infinita delle sue apparenze, del puro valore spettacolare 8 delle sue vedute, dei suoni, degli odori” . Ad essere problematico e` che proprio questo mondo, nella sua materialita` e molteplicita` di enti uguali e differenti allo stesso tempo, e` stato trascurato dalla filosofia, che ha creduto che la verita` debba essere cercata altrove rispetto al mondo degli enti concreti. Nella concezione platonica, a lungo persistente, il vero filosofo e` quello che prende commiato dal mondo dato ai sensi per accedere ad una realta` immateriale in cui contemplare le idee, e da queste idee, che non conoscono l’usura del tempo e il legame riduttivo con uno spazio definito, attingere a quei criteri a partire dai quali, e solo da quelli, disvelare la verita` del mondo ordinario. La condizione umana e`, invece, 9 quella per cui “noi siamo del mondo e non semplicemente in esso” , e dal momento in cui viviamo in un mondo che appare e` plausibile ritenere che cio` che ha da essere considerato rilevante come oggetto del pensare debbano essere le cose che appaiono, cioe` i fenomeni. Arendt critica radicalmente la filosofia platonica proprio per il suo essersi allontanata dalle cose, dal mondo dei sensi e degli uomini, pretendendo di cancellare il fatto che “il mondo delle apparenze precede qualsiasi regione il filosofo possa scegliere come propria vera dimora, 10 dimora nella quale tuttavia non e` nato” . Ogni cosa che esiste nel mondo c’e` per essere percepita da qualcuno, per essere vista, udita, toccata, gustata e odorata ed e` su questo percepire che va a saldarsi il lavoro del 7

Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 34. Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 100. 9 Ivi, p. 103. 10 Ivi, p. 104. 8

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Un metodo a-metodioo

pensare. Dal momento che noi viviamo in un mondo di cose che appaiono, ragionando in una cornice fenomenologica e` plausibile ritenere che proprio cio` che appare e` degno della massima attenzione. Ad accomunare Zambrano e Arendt e` quel realismo femminile che prende le distanze da tutte le operazioni che comportano una perdita del mondo e da` voce all’amore per le cose, al rispetto e alla considerazione per la molteplicita` degli enti. Ma differenti sono i percorsi seguiti per andare oltre i limiti di quel metodo che, con gesto violento, ha perso il mondo della vita, e mettere a fuoco questa differenza e` fondamentale per delineare con maggiore precisione l’originalita` di Zambrano: Arendt sceglie il metodo classico della filosofia, che consiste nell’analisi concettuale del problema; Zambrano sceglie la poesia e si affida ad un linguaggio che da` voce al sentire. Arendt ritiene che il problema da affrontare consista nel superare l’antico dualismo che la metafisica ha stabilito fra essere e apparire e con esso l’asimmetria assiologia che si porta appresso, ossia l’idea secondo la quale ad avere valore e` solo l’essere, cioe` quel fondo che starebbe nascosto sotto le apparenze. Per superare questa scissura su cui trova fondamento la svalutazione del mondo della vita si tratterebbe di lavorare sui concetti: conciliare essere e apparire arrivando ad affermare la coincidenza di essere e apparire e sulla base di questa rivoluzione ontologica smantellare l’assunzione che postula “la supremazia del fondo che non appare sulla 11 superficie che appare” , per affermare che il fenomeno ha valore ontologico perche´ e` cio` in cui l’essenza delle cose si rivela, e dunque va investito anche di valore epistemologico. Zambrano, invece, una volta riconosciuto che il problema e` rappresentato dal disamore per il mondo e dall’inganno di cercare una verita` astratta incapace di far innamorare la vita, lavora non a smantellare concetti e a ricostruire altre ontologie, ma a disegnare un differente modo di essere, che consiste nell’entrare nel mondo con uno sguardo innamorato delle cose. Zambrano suggerisce come fondativo del metodo di entrare nella realta` quell’orientamento d’essere che consiste nel lasciare che la mente si innamori delle cose sfavillanti di essere, perche´ solo dove c’e` una ragione capace di amore per le cose la` c’e` la possibilita` di una conoscenza vera. La tensione epistemica ha origine da un innamoramento per la realta` nella sua contingenza, perche´ solo quando e` innamorata la mente e` capace di stare completamente assorbita nel processo conoscitivo (A: 88). La ragione

11

Ivi, p. 105.

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vitale, perche´ attenta alla realta`, e` possibile solo se la mente si lascia prendere da uno sguardo innamorato delle cose: Riconoscere qualcosa come oggetto significa fermarsi di fronte a esso, rimanerne affascinati, catturati, dargli credito, in un certo modo innamorarsene. Non ci potrebbe essere realta` consolidata in oggetto, con quella specie di invulnerabilita` trasparente che hanno gli oggetti, se non ci fosse una sorta di amore verso la realta` (SA: 94).

Nessun oggetto di conoscenza potrebbe esistere senza che la mente sia capace di un certo innamoramento. In questa centralita` dell’amore come motore della conoscenza echeggia Agostino, il quale afferma che l’amore per qualcosa e` atto primario e fondativo della conoscenza, non solo perche´ l’interesse per una cosa precede l’attenzione che e` postura cognitiva essenziale a provocare la ricerca della conoscenza, ma anche nel senso che l’intensificazione della pienezza di significato dipende dall’intensificazione della disposizione 12 amorosa verso la cosa . Solo quando si attiva un amoroso sguardo si apre la possibilita` di trovare le parole con le quali le cose, gli altri, vorrebbero dirsi. Zambrano mutua da Agostino l’idea secondo la quale lasciare germinare nella mente un’amorosa disposizione verso le cose e` necessario per la ricerca della verita`, perche´ solo l’amore salva le cose dall’ipertrofia del soggetto conoscente. L’amore non distrugge mai l’oggetto, ma ad esso si accosta con discrezione e lo salvaguarda, a differenza del desiderio che, invece, mira a possedere l’oggetto fino ad annullarlo. Per Agostino “amore 13 non e` altro che inclinare verso una cosa, considerandola di per se stessa” e nella relazione d’amore la caratteristica della cosa e` quella di non essere posseduta. L’oggetto dell’amore differisce dall’oggetto del desiderio per essere qualcosa che il possesso non distrugge. Percio` l’amore e` capace di distruggere tutto fino a giungere ad esso, fino a cio` che mai potra` essere distrutto. Il desiderio si dirige invece verso qualcosa che a rigore non si puo` chiamare oggetto, perche´ non continua ad esistere dopo che e` stato raggiunto. Viene totalmente consumato: non ha trascendenza (CGL: 119-120). 12

Max Scheler, Amore e conoscenza, in L. Pesante, Scheler. Amore e conoscenza, Liviana, Padova 1967 (in Gesammelte Werke, vol. VI), pp. 71-72. 13 Agostino, De div quaest, 83, qu, 35 1, cit. in Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino, SE, Milano 1992 (ed. or. Liebesbegriff bei Augustin. Versuch einer philosophischen interpretation, Julius Sprinter, Berlin 1929), p. 23.

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Un metodo a-metodioo

E` l’amore per le cose che genera rispetto per esse e, insieme, quell’umilta` necessaria ad attivare le mosse giuste del pensare. E quando si pensa con rispetto e umilta` e` come se le cose si aprissero al nostro sguardo. Come nella filosofia cristiana solo gli occhi di quelli che amano vedono la 14 verita` , cosı` in Zambrano solo chi e` capace di amorosa partecipazione agli enti e` capace di entrare nella realta`, che e` la condizione per una conoscenza vera. Zambrano, dunque, riattiva la relazione tra amore e conoscenza inaugurata da Platone, ma allo stesso tempo la rivisita in modo originale, perche´ se in Platone l’amore era rivolto alle idee, enti immateriali, per Zambrano l’amore si dirige verso le cose, quelle concrete del mondo che 15 abitiamo . Ed e` dall’amore per le cose che si genera il metodo; e` l’amore che quando entra in gioco decide la direzione della conoscenza (CB: 17). Per Zambrano l’amore e` il sentire generativo della vita, che si da` nella forma di una “morbida accoglienza” (CB: 25), quella che rende la mente ricettiva rispetto alla realta` che viene alla presenza. Il metodo a-metodico, che prende forma al di fuori di logiche predefinite, viene a costituire un

14

Max Scheler, Amore e conoscenza, cit., p. 55. Si puo` ipotizzare che nella sua visione dell’amore come fonte della conoscenza abbia giocato un ruolo significativo il pensiero di Scheler, il quale al rapporto fra amore e conoscenza ha dedicato, oltre che riflessioni sparse, uno scritto specifico (Max Scheler, Amore e conoscenza, cit.). In tale scritto Scheler piu` volte porta l’attenzione sull’aspetto intellettualistico dell’amore platonico che, a differenza dell’amore cristiano che e` sempre rivolto a persone, ha per oggetto quelle cose immateriali che sono le idee. Scheler, per disarticolare il pregiudizio moderno sulle emozioni, prende in considerazione il pensiero di Pascal e di Spinoza, ma in particolare approfondisce la posizione di Agostino, che considera l’amore l’originario movente dell’atto conoscitivo, e occorre sottolineare che Agostino e` uno degli autori piu` studiati da Zambrano. All’inizio di tale scritto Scheler, dopo aver richiamato brevemente le due opposte concezioni della relazione fra amore e conoscenza – l’una secondo la quale non c’e` conoscenza se non c’e` amore e l’altra che concepisce l’amore come conseguente la conoscenza – assume una posizione critica nei confronti del pregiudizio, che egli considera tipicamente moderno, secondo il quale l’amore oscura la mente anziche´ acuire le capacita` conoscitive, da cui ne consegue che la ricerca della verita` richiederebbe “la piu` rigorosa repressione degli atti emozionali” (ivi, pp. 22-23). Per Scheler, invece, l’“emozione amorosa” e` all’origine dell’atto cognitivo. Quando la conoscenza e` accompagnata dall’emozione amorosa si esprime nell’affermazione del valore dell’oggetto, della cosa indagata o dell’essere altro cui la mente si rivolge. E` interessante che Scheler porti l’attenzione sulla possibilita` di concepire l’amore come forza creatrice, concezione questa diversa da quella platonica che concepisce l’amore componente di quel conoscere che e` essenzialmente reminiscenza (ivi, p. 45). Anche per Zambrano l’amore genera conoscenza, ed e` questa la prospettiva che lei sviluppa in modo originale, dando voce all’idea secondo la quale e` l’innamorarsi delle cose la condizione per accedere ad un sapere vitale. 15

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Alla rioeroa di un metodo

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centro della mente; ma quando nel processo generativo entra in gioco la disposizione amorosa verso gli enti allora diventa anche centro dell’essere.

2.3. Essere fedele alle cose Una volta guadagnato l’amore per il mondo, il principio metodico fondamentale da applicare consiste nell’“essere fedeli alle cose” (fieles a las cosas), cioe` prestare attenzione al modo, ma anche alle varie gradazioni, in cui le cose si rivelano e poi trovare quelle precise parole che fedelmente dicano il manifestarsi delle cose, parole fedeli perche´ e` come se ad esse le cose nominate dessero il loro assenso (B: 82). Se si assume che la casa dell’essere e` il linguaggio allora il conoscere fedele alla cosa e` quello che si attualizza in un linguaggio che della cosa nomina fedelmente la sua essenza, cioe` quel dire che adeguatamente dice la cosa “secondo il suo essere e persino secondo la sua musica, la sua tonalita` e il suo modo” (A: 137). Il principio di fedelta` alla realta` chiede di trovare “un’elementare lealta` verso le cose quali si presentano nel loro apparire, nel loro fainomenon” (B: 84). Concedere alle cose di disegnare nelle nostre parole i loro profili, limpidamente e fedelmente. Per guadagnare questo accesso al reale e` necessario rendere la mente trasparente, quella trasparenza “che permette l’oggettivita`” (CGL: 126). Il pensare fedele alla cosa e` come l’aria castigliana, che nella sua limpidezza attraversata da una luce morbida e acquosa consente alle cose di tratteggiare i loro profili nella sostanza trasparente e liquida della mente. Il modo di conoscere ispirato al principio di fedelta` e` quello che si adatta al profilo della cosa/dell’altro come il guanto si adatta alla mano, consentendo alla cosa/all’altro di apparire intensamente nel suo essere proprio. L’unicita` di ciascuna persona e` la fonte del suo valore ontologi16 co , allora proprio perche´ il pensare fedele e` mosso dal principio del rispetto per il valore unico e singolare dell’altro si rivela essere un pensare dalla tonalita` etica. Adattare il conoscere al profilo con cui gli enti si rivelano significa mettere l’oggetto della conoscenza al riparo dalla tendenza del soggetto a vincerlo sottoponendolo alle condizioni della ragione. Solo cosı`, rispetto al soggetto invadente della ragione cartesiana, e` possibile riscattare la realta`. Attivare il principio di fedelta` significa “lavorare cer-

16

Roberta De Monticelli, L’allegria della mente, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 37.

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Un metodo a-metodioo

cando di seguire i contorni natali delle cose”17. E` questo lavorare su misura delle cose che la mente occidentale ha perso, perche´ costringe le cose ad un apparire che e` su misura dei nostri dispositivi epistemici. “L’uomo ha perduto da tempo incommensurabile la plasticita`” (NM: 47), quella dell’animale, che quando occorre sa prendere la forma della roccia su cui si adaggia e del ramo su cui si appoggia. Riconquistare questa plasticita` della mente che si adatta al profilo dell’altro e` questione di una “laboriosa educazione” (NM: 47), attraverso la quale si dovrebbe apprendere una precisa tecnica: saper girare intorno all’oggetto della conoscenza. Per dare forma ad un pensare fedele alla realta`, le cose bisogna come vederle da ogni lato, e cio` richiede di girare ad esse intorno. “Girare intorno a qualcosa e` un movimento sacro” (B: 84) perche´ e` quel modo dello sguardo che manifesta rispetto per le cose. Girare loro intorno significa fare di esse il centro del pensare, “poiche´ e` naturale che girando intorno a qualcosa si faccia di esso nel suo insieme un centro” (B: 63). Le cose diventano cosı` non semplici strumenti di affermazione delle retoriche linguistiche e delle tecniche epistemiche, ma quel centro cui il soggetto dedica il suo pensare. Il pensare che gira intorno e` quasi una forma di corteggiamento opposta all’esercizio del dominio, che invece caratterizza l’epistemologia della modernita`, che concepisce la scienza come esercizio di potere sulle cose. Nella concezione baconiana la natura doveva essere soggiogata e dominata. Nella epistemologia classica della conoscenza, fondamentalmente baconiana, il soggetto sta fermo e manipola l’oggetto. Nel girare intorno, invece, e` il soggetto che si muove avendo rispetto di lasciare la cosa, l’altro, al suo posto. Nella mossa cognitiva del girare intorno e` evidente la rivisitazione del metodo d’indagine enunciato da Ortega, il quale parla di un approssimarsi all’oggetto “per giri concentrici, di raggio ogni volta piu` corto ed intenso, trascorrendo, in spirale, da una pura esteriorita` di aspetto astratto, freddo 18 e indifferente, verso un centro di pregnante intimita`” , e dunque di un indagare che e` un girare attorno lentamente. Ma il filosofo intende questo girare intorno non come uno stare decentrati rispetto all’oggetto che in una certa misura spossessa il soggetto della sua centralita`, ma secondo una 19 metafora bellica, come un “assedio ideologico” . Il girare intorno di 17

Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 97. Ortega y Gasset, Che cos’e` filosofia?, Marietti, Genova 1994 (ed. or. Que´ es filosofı´a, Revista de Occidente en Alianza Editorial, Madrid 1991), p. 4. 19 Ivi, p. 5. 18

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Alla rioeroa di un metodo

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Zambrano e`, invece, un approssimarsi con delicatezza all’oggetto, dove si mantiene sempre un certa distanza da esso. Se quello di Ortega e` un girare intorno che gradualmente si sposta verso il centro fino a catturare l’oggetto, il girare intorno di Zambrano e` un muoversi sempre sulla circonferenza esterna, quella che pur consentendo la prossimita` all’oggetto mantiene sempre la distanza necessaria a salvaguardare la trascendenza dell’altro. Tenersi sulla circonferenza esterna evita l’incursione violenta verso il centro; e` una forma di corteggiamento di cui e` capace la mente innamorata delle cose. E del girare intorno ci sarebbe un numero sacro di giri da rispettare (B: 84), ossia quel numero finito che indica le volte necessarie e sufficienti dell’accostarsi alla cosa. Rispetto a quella indagine superficiale che si accontenta di accostarsi una sola volta all’oggetto d’indagine, il girare intorno richiede un ritornare sulla cosa, ma l’idea che di questo ritornare ci sia un numero sacro, ossia un numero finito di giri, salva dall’ossessione che si rischia di avere nel cercare. Salva dall’ossessione dei ritorni interpretativi, come se un incremento della quantita` delle azioni epistemiche si traducesse in un incremento della qualita`. Il numero sacro indica la giusta misura dell’agire e in esso si condenserebbe l’essenza del sapere dell’esperienza. Il principio di fedelta` alle cose richiede, dunque, un atteggiamento del pensiero che e` opposto a quello caratteristico della ‘cultura del sospetto’ di matrice cartesiana, caratterizzato dalla sua diffidenza radicale rispetto a cio` che si offre all’attenzione. E` opposto perche´ ha nei confronti del fenomeno che appare lo stesso atteggiamento che si ha nei confronti di cio` 20 che e` ‘donato’ o ‘offerto’ . Alla cultura del sospetto e della diffidenza, che mette in dubbio la capacita` delle cose di guidare la mente verso una conoscenza vera, il metodo di Zambrano sostituisce la cultura del rispetto amoroso delle cose percepite nel loro valore. Applicare il principio di fedelta` significa avere rispetto del modo originale, quello suo proprio, in cui l’altro viene alla presenza. Anziche´ imporre una griglia epistemica che costringe l’altro dentro i dispositivi della nostra mente, che lo incernierano dentro un apparire predefinito, tanto che alla fine del percorso epistemico la ragione non trova altro che se stessa, il principio di fedelta` chiede alla mente di farsi accogliente, ossia ricettiva della realta` dell’altro. Al metodo di Zambrano si adatta, dunque, come etica epistemologica 20

Per Zambrano un buon metodo e` quello che lascia che le cose si offrano allo sguardo; da parte sua Roberta De Monticelli rileva che pensare al fenomeno come a cio` che si dona e che si offre e` proprio della fenomenologia (L’allegria della mente, cit., p. 58).

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Un metodo a-metodioo

quella dell’accogliere la realta`, anziche´ del penetrare in essa. Il conoscere e` un movimento delicato, non violento; uno stare dove l’altro si vuole mostrare, anziche´ un penetrare in esso. Ed e` proprio qui nel principio di fedelta` e in questo atteggiamento di ammirazione nei confronti della realta` cosı` come ci si svela che rintraccio una forte analogia con i tratti specifici del metodo fenomenologico. Per questa ragione, nel discorso teso a ricostruire la sua concezione del metodo, continui saranno i riferimenti sia in direzione analogica che contrastiva con la fenomenologia. Puo` sembrare epistemologicamente illegittimo cercare analogie col metodo fenomenologico, dal momento che Zambrano critica radicalmente la fenomenologia considerandola la piu` estrema forma di positivismo (B: 9), a ragione del fatto che col suo eccesso di ricerca del rigore e delle argomentazioni chiare e distinte ha espulso le visioni dalla zona del pensiero. Tuttavia, oltre a non disconoscere la sua formazione filosofica di tipo fenomenologico 21 alla scuola di Ortega y Gasset , occorre tener conto del fatto che quando Zambrano parla del metodo indica in Cartesio e Husserl i due fondamentali cercatori di metodo. Subito, pero`, critica il metodo cartesiano e non penso sia casuale che, invece, non critichi Husserl. Anzi, in Verso un sapere dell’anima riporta una parte consistente delle Meditazioni cartesiane per sottolineare quel 22 principio epistemico dell’“iniziare dall’assoluta poverta` di conoscenze” che sara` centrale nel suo concetto di metodo. Occorre tener conto del fatto che Zambrano mostra di apprezzare Husserl, in quanto ritiene egli abbia fatto suo “uno dei compiti piu` nobili del pensiero”, ossia soffermarsi sui modi del pensiero “per trasformare la complessita` in un ordine chiaro” (SA: 183). La fenomenologia si fa guidare dall’amore per la chiarezza e per la trasparenza del pensiero, che e` la virtu` formale di ogni filosofia. Inoltre Zambrano parla di Husserl come di un “esemplare e geniale pensatore ... in cui si uniscono felicemente le virtu` di ogni scopritore di nuovi continenti: umilta` e audacia” (SA: 185). Virtu` che lei incarna, mettendo insieme un discorso che appare non avere alcuna pretesa di rivelare alcunche´, ma con l’audacia di spingersi oltre le zone confortevoli dei modi di pensare accreditati e di portare all’estremo, in questo caso, cio` che gia` e` audace nella fenomenologia, come il principio epistemico del conoscere a partire da un’assoluta poverta` di conoscenze.

21

Sergio Sevilla, La razo´n poe´tica: mirada, melodı´a y meta´fora. Marı´a Zambrano y la hermene´utica, pp. 87-108, in Teresa Rocha Barco (Ed.), Marı´a Zambrano: la razo´n poe´tica o la filosofı´a, Editorial Tecnos, Madrid 1997, p. 87 22 Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, Bompiani, Milano 1989 (ed. or. Cartesianische Meditationen und Pariser Vortra¨ge, Nijhoff, Den Haag 1950), p. 38.

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L’originalita` di Zambrano consiste, infatti, nell’interpretare radicalmente 23 l’audacia del metodo fenomenologia .

2.4. Pensare da un’assoluta semplicita` stare nella semplicita` essenziale Il metodo fenomenologico assume come principio dei principi quello della “fedelta` al fenomeno”. Applicare questo principio significa descrivere il fenomeno cosı` come esso appare. Presupposto fondamentale della fenomenologia e`, infatti, che ogni possibile oggetto della conoscenza “ha le sue maniere di presentarsi ad uno sguardo capace di rappresentarlo, di 24 vederlo, coglierlo nell’originale, prima di ogni pensiero predicativo” . L’atto cognitivo capace di affermare l’essenza in carne ed ossa e` la 25 “visione d’essenza” o “visione originalmente offerente” . Posto che “ogni visione originalmente offerente e` una sorgente legittima di conoscenza”, si assume che “tutto cio` che si da` originalmente nell’intuizione (per cosı` dire in carne e ossa) e` da assumere come esso si da`, ma anche soltanto nei 26 limiti in cui esso si da`” . Il fenomeno non e` qualcosa di incidentale, ma e` l’essere che viene alla presenza. E` a partire da questa presupposizione ontologica che la fenomenologia e` definita la scienza dei fenomeni, cioe` di “cio` che appare”. La fenomenologia si occupa, infatti, di ogni cosa che appare nella maniera propria del suo apparire, nel come del suo manifestarsi. Heidegger definisce la fenomenologia come “ποφα νεσθαι τ φαινμενα”, cioe` il “lasciar vedere da se stesso cio` che si manifesta, cosı` come si manifesta da se stesso”; la parola greca φαινμενον deriva dal verbo greco φα νεσαι che 23

Che la fenomenologia abbia avuto una parte importante nella forma presa dal pensiero di Zambrano e` attestato dai frequenti riferimenti che nei suoi testi si trovano ai tratti costitutivi del metodo fenomenologico. In I sogni e il tempo non solo discute sulla opportunita` o meno di applicare l’epoche¯ a quel fenomeno inusuale che sono i sogni, ma dimostra una competenza raffinata del metodo fenomenologico. Parla, infatti, del cercare una via di accesso al fenomeno che sia “il meno imperativa possibile, deve lasciar vedere, lasciar apparire”, principio metodico questo in cui echeggia il primo Heidegger. Inoltre precisa che la natura del metodo fenomenologico non consiste nello spiegare, ma nel decifrare (ST: 10) e proprio il descrivere e` tratto identificativo della fenomenologia. 24 Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, Einaudi, Torino 1965 ([1913] Ideen zu einer reiner Pha¨nomenologie und pha¨nomenologische Philosophie, (Husserliana III 1/2), Nijhoff, Den Haag 1976), p. 19. 25 Ivi, p. 19. 26 Ivi, pp. 50-51.

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Un metodo a-metodioo

27 significa manifestarsi; il φαινμενον e` cio` che “si manifesta in se stesso” . Consentire l’automanifestarsi dei fenomeni significa lasciare che i fenomeni si disvelino alla coscienza e poi descriverli cosı` come essi appaiono nella loro originaria datita`. Data l’assunzione secondo la quale ogni cosa ha il suo modo di apparire e, dunque, un suo modo di manifestarsi alla coscienza, l’essenza del metodo fenomenologico consiste nel cogliere questa maniera di apparire e nel trovare un modo di descriverla che a questo 28 suo apparire sia fedele . Pratica difficile, pero`, quella di rimanere fedeli alle cose. Difficile innanzitutto perche´ tendiamo a farci inquinare dalla sfiducia che abbiamo nel mondo, quella sfiducia nel modo che le cose hanno di far chiaro che ci impedisce di aderire alla generosa immediatezza della vita. E proprio perche´ non abbiamo fiducia tendiamo sempre a stare in un mondo anticipato, nel senso che sempre esperiamo il mondo, sia esterno che interno alla mente, attraverso filtri come sono le reti di categorie, i costrutti linguistici, le assunzioni derivate dal senso comune, gli interessi pratici, che rendono impossibile un accesso fedele alla datita` della cosa. Tale e` l’ingombro dei vissuti della mente che un evento o una persona e` impossibile “siano accolti da un’anima pulita e priva di incrostazioni. Di ombre, di ombre” (DD: 21). Ad essere problematico e` che quando si sta in un mondo anticipato l’altro scompare, perche´ viene assimilato nei nostri schemi. E venendo meno l’altro viene meno la stessa possibilita` di conoscere, di pensare, e dunque di essere. Non c’e` realta`, non c’e` essere quando si sta soli senza l’altro, senza il quale non potremmo parlare. Senza l’altro non si e` capaci di pensiero vero e neppure si sente il proprio corpo. Il pensare senza l’altro e` un pensare allucinato.

Quale pratica epistemica allora e` necessario cercare per trovare una conoscenza fedele al profilo delle cose, per andare alle cose stesse (Husserl), per entrare nella realta` e stare con le cose, con l’altro, “uscire con l’altro” (NM: 73)? 27

Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 55 e pp. 47-48. L’indirizzo piu` recente della fenomenologia francese ha accentuato questa attenzione al donarsi degli enti, accreditando la donazione come determinazione originaria e costitutiva di ogni fenomeno, cui corrisponderebbe come postura epistemica adeguata quella dell’accogliere. Interpretando l’imperativo fenomenologico nei termini di un “lasciare apparire l’apparenza” (Jean-Luc Marion, Dato che. Saggio per una fenomenologia della donazione SEI, Torino 2001, – ed. or. E´tant donne´, PUF, Paris 1997 –, p. 3), al soggetto conoscente e` richiesto di attivare quell’atteggiamento passivo che consiste nel “lasciare l’apparizione mostrarsi nella sua apparenza secondo il suo apparire” (ibid.). 28

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Alla rioeroa di un metodo

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Per realizzare l’accesso diretto all’essenza dei fenomeni Husserl suggerisce la mossa epistemica dell’epoche¯: fare epoche¯ significa sospendere la validita` delle conoscenze gia` definite e mettere in parentesi ogni assunzione delle scienze obiettive, ogni presa di posizione critica intorno alla 29 verita`, ogni idea di conoscenza obiettiva . Si fa epoche¯ per trovare il punto zero, cioe` il punto del cominciamento originario dell’attivita` cognitiva. E il cominciamento puro del conoscere si trova “mettendo fuori azione”, 30 “neutralizzando”, “mettendo in parentesi” ogni conoscenza alla mano , ogni criterio di validita` operante non solo quando ci si affida al senso comune, ma anche nell’esperire scientifico. Fare epoche¯ significa impegnarsi nella disciplina del disincrostare lo sguardo da tutti quei filtri che impediscono l’accesso alle cose nella loro datita` originaria. Svolgono la funzione di filtro cognitivo sia le validita` ingenue che quelle scientifiche, che prestrutturano il modo di incontrare le cose. L’epoche¯ fenomenologica “vieta anche l’attuazione di qualsiasi giudizio, 31 di qualsiasi presa di posizione predicativa” nei confronti della realta` . Per questa ragione l’epoche¯ e` definita il “principio senza presupposizioni”, non pero` nel senso positivistico di “neutralizzazione di tutti i pregiudizi che turbano la pura effettualita` dell’indagine, ne´ della costituzione di una 32 scienza libera da teorie” , ma nel senso della ricerca di un cominciamento assoluto del conoscere in funzione del quale anche le conoscenze che fino a quel momento sono risultate attendibili vengono messe in parentesi. Il fare epoche¯ dovrebbe consentire come un risvegliarsi al reale senza alcuna immagine ingombrante, neppure di se stessi. L’epoche¯ cosı` formulata ha l’aspetto di una pratica cognitiva difficile da 33 applicare , perche´ chiedendo di interrompere l’atteggiamento naturale costringe a stare in un paradosso, quello di considerare l’ovvio come problematico ed enigmatico. Lo stesso Husserl non ha fornito precise istruzioni sul modo di praticare l’epoche¯ e dichiara di non sapere “come ci si possa mettere nelle condizioni di compiere le operazioni metodiche che ad essa ineriscono e che devono ancora venire chiarite nella loro stessa 34 generalita`” . Tuttavia e` convinto che l’impegnarsi nella disciplina men29 Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee, Milano: Il Saggiatore, Milano 1968 (ed. or. Die Krisis der europa¨ischen Wissenschaften und die transzendentale Pha¨nomenologie, Den Haag: Nijhoff, 1954), p. 164 30 Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia, cit., p. 64. 31 Ivi, p. 66. 32 Ivi, p. 67. 33 Edmund Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., p. 206. 34 Ivi, p. 176.

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Un metodo a-metodioo

tale richiesta da questa mossa epistemica costituisca per il ricercatore un passaggio obbligato, inaggirabile, perche´ e` solo il sapere sospendere l’atteggiamento naturale, per intraprendere il percorso epistemico a partire da una poverta` di conoscenze, che consente alla mente di aprirsi alla datita` originaria del fenomeno. E` difficile attualizzare il metodo fenomenologico, perche´ l’epoche¯ si rivela una pratica di tipo ascetico, in quanto dovrebbe consentire alla 35 mente di ”iniziare in assoluta poverta` di conoscenze” . Zambrano sembra rimanere colpita da questo principio, che commenta definendolo un 36 “cammino stretto, aspro e luminoso di rinuncia mentale” (SA: 188) , ed e` proprio questo cammino stretto quello percorso da Zambrano, la cui originalita` consiste nel radicalizzare l’audace “lezione di rinuncia, di ascetismo mentale” (SA: 187), che impone il voto di poverta` in materia di conoscenza, chiedendo che il metodo sia un non cercare, uno spossessare la mente al punto da rendersi vuota cosı` che l’essere della cosa trovi in essa dimora. Il metodo e`, per lei, il cammino stretto dello svuotarsi, dello spossessare l’io, del fare vuoto dentro di se´ per fare posto al mondo. Zambrano aveva definito Husserl come un pensatore audace, ma lei stessa mostra un’audacia se non pari maggiore al filosofo, perche´ la sua 35

Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane, cit., p. 38. Che la pratica dell’epoche¯ abbia un ruolo significativo nel pensiero di Zambrano e` testimoniato dai continui riferimenti a tale concetto che troviamo in Delirio e destino, dove mostra di intendere l’epoche¯ come strumento essenziale per vivere autenticamente. Vivere pienamente significa “vivere il momento” (DD: 111) lasciandosi cadere nella lacuna del presente. Affinche´ si verifichi questo entrare autenticamente nel tempo occorre saper mettere tra parentesi tutto cio` che impedisce l’adesione immediata al presente, e questa e` proprio la funzione che Zambrano assegna all’epoche¯. Gia` in Scheler si trova un’interpretazione analoga dell’epoche¯. Scheler, infatti, interpreta radicalmente la riduzione fenomenologica superando la sua funzione di strumento del lavoro logico-teoretico per concepirla come pratica spirituale. L’epoche, l’atto cognitivo del mettere tra parentesi i saperi dati, viene inteso da Scheler non come “un procedimento di pensiero, ma come una techne, ossia (con) un procedimento di azione interiore” per opera del quale le procedure cognitive e i relativi contenuti che sono all’opera nell’esercizio naturale vengono qui posti fuori gioco (Scheler, cit. in Laura Boella, Il paesaggio interiore e le sue profondita`, cit., p. 24). La riduzione fenomenologica viene ad essere un atto ascetico di esclusione di tutto quanto in noi impedisce l’accesso all’essenza delle cose; e` una via negativa, che agisce disincrostando il modo di andare incontro alle cose da ogni dispositivo interpretativo predato, cosı` che l’attivita` della mente prenda la forma di un abbandono al manifestarsi delle cose (Ivi, p. 25). Epochizzare significa sospendere tutto cio` che ti impedisce di vivere qui ed ora (DD: 109). In particolare va segnalato il suo dichiarare che la principale cosa avuta da lei in dono dalla filosofia, “quella che non avrebbe mai potuto ripagare, era che le aveva insegnato a rifiutare, a mantenersi in sospeso” (DD: 24), a staccarsi dall’inessenziale, cosı` da guadagnare un’“intima poverta`” e vivere adeguata ad essa. 36

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proposta consiste nel radicalizzare l’essenza ascetica del metodo fenomenologico, il suo cercare una purezza originaria come inizio del pensare, e per disegnare l’essenza del metodo si spinge al di fuori dei percorsi tradizionali di concepire la conoscenza. Infatti, per definire la pratica della ricerca della verita`, compie il gesto audace che consiste nell’attingere alla mistica. E la mistica insegna che l’anima deve diventare materia traspa37 rente, un “vaso vuoto” , diventare una lacuna d’essere che, proprio in quanto mancante di cio` con cui ordinariamente tende a riempirsi, lascia passare l’altro (SA: 22); ossia per trovare l’inizio primo del pensare occorre trovare “la poverta` di spirito, la purezza di cuore” (B: 13). Beati i poveri in spirito, ossia beati coloro che sanno disfarsi di certezze e stare costantemente in cammino. Allora accettando di impoverirsi dei concetti su quali si tende a fare affidamento e arrischiando il vuoto di certezze, la mente, per accogliere il reale nella sua datita` originaria, sara` libera di guadagnarsi quella trasparenza che sola permette l’oggettivita`. Questa ascesi, che e` “rinuncia, voto di poverta`”, non e` cinismo, non e` rinuncia alla ricerca della conoscenza chiara “perche´ crede e spera sempre di trovare la verita`” (SA: 188). Proprio perche´ attinge alla mistica, il voto di poverta` di Zambrano e` radicalmente altro da quello formulato da Husserl: di mezzo c’e` il suo amore per la realta` per le cose realissime del mondo, e dunque anche per le viscere dell’anima. Se la mente husserliana intende il partire da un’assoluta poverta` di conoscenze come il liberarsi da ogni elemento strutturante l’atteggiamento naturale, cosı` da venirsi a trovare a contatto solamente con i contenuti della coscienza, contenuti “disfatti in un nulla che non si oppone” alle acrobazie intellettualistiche del pensiero (SPPC: 33), liberi da ogni contaminazione sensibile e da ogni inquinamento prodotto dall’anima, per Zambrano, invece, il voto di poverta` costituisce la via per sbrogliare il pensiero da ogni ansia razionalistica cosı` da tenerlo sensibile alla cosa e incarnato nei tessuti dell’anima. Guadagnare la poverta` di spirito non significa conquistare quel luogo invulnerabile che consentirebbe di fondare una scienza rigorosa, incontrovertibile, ma semmai togliere di mezzo ogni desiderio abituale del pensiero e arrischiare “lo spodestamento quasi totale del proprio essere” (SPPC: 37), per lasciare che la mente possa finalmente impregnarsi dell’essere delle cose e lasciarsi toccare dall’indicibile dell’anima. 37

Edith Stein, La mistica della croce, Citta` Nuova, Roma 1991 (antologia a cura di Waltraud Herbstrith) (ed. or. In der Kraft des Kreuzes, Herder, Freiburg im Breisgau 1980), p. 29.

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Un metodo a-metodioo

Stare nel luogo dell’inizio puro, nella semplicita` essenziale, e` stare nella poverta` di spirito e nella purezza di cuore, ossia spossessarsi non solo delle conoscenze gia` acquisite, ma anche di ogni desiderio di produrre incrementi di sapere, compreso quello di attingere ad una scienza rigorosa. Essere capaci di avere nulla e nulla desiderare, cosı` che non ci siano resistenze ai movimenti dell’essere: solo cosı` si dischiude la possibilita` di attingere ad una verita` trasformativa, quella che non si limita ad essere contemplativa, ma penetra nei tessuti della mente provocando reali movimenti di trascendenza. Stare nella poverta`, quella che ci fa mancanti di tutto, e` di fatto non mancare di nulla, perche´ e` la condizione per respirare l’essere. entrare nella vita Il voto di poverta` e`, pero`, per Zambrano, non solo via della conoscenza per entrare nella realta`, ma principio orientativo dell’essere, perche´ stare nella poverta` semplice e` la condizione per entrare nella vita. Entrare nella vita non e` una questione epistemologica ma etica, intendendo per etica la ricerca di un modo felice di muoversi nel tempo. Questa e` la responsabilita` che ci troviamo addosso al momento della nascita. Per entrare nella vita non basta attraversare i giorni, e` necessario attivare un contatto con quanto ci circonda, aderire all’essere che fluisce all’intorno. Affinche´ questa comunione con l’altro si realizzi occorre acconsentire alla sete di trascendenza, ossia alla tensione all’ulteriore che noi in quanto esseri mancanti inevitabilmente sentiamo per necessita` di realta`. Ma lasciarsi muovere dalla sete di trascendenza per entrare in comunione con altro e condividere il tempo e` un compito difficile perche´ chiede di guadagnare un’intima semplicita`, ossia quella poverta` essenziale che si realizza quando ci si spoglia di tutti gli involucri di essere che impediscono di aderire ad altro. Stare in poverta` significa anche sottrarsi alla tendenza a definirsi, a fissare il proprio divenire in un’immagine circoscritta: tenersi liberi da ogni definizione, quelle che delimitano, che innalzano recinti al divenire del possibile, perche´ fintanto che si rimane attaccati a qualcosa non si entra nella vita. Quello che ci e` richiesto e` come di farci sottili, leggeri, trovare una consistenza trasparente del proprio esserci, perche´ solo sgravati del troppo pieno che tendiamo a portarci appresso possiamo condividere il tempo con altri, possiamo entrare in relazione con le cose, 38 possiamo sentire la vita . 38

Quello che Zambrano definisce “amore per la semplicita`” (DD: 48) e` principio essenziale anche per l’agire politico, perche´ se agire politicamente e` convivere con gli altri,

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Alla rioeroa di un metodo

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Entrare nella vita e` cosa necessaria, perche´ noi mancanti d’essere abbiamo necessita` della realta`, necessita` di realizzarci. E` da questa necessita` di essere, che si materializza in quell’anelito di muoversi felici nel tempo che ciascuno sente nella profondita` dell’anima, che scaturisce una sorta di misura che da` ordine all’agire. Questa “misura non generata” (SA: 92) e` concepita da Zambrano come un fondo incorruttibile che, per quanto pieno di errori possa essere il cammino della vita, ci terrebbe comunque sul sentiero della verita`39. L’importante e` imparare a stare in ascolto di questa misura dell’esserci. E la condizione affinche´ l’anima stia in ascolto di questa misura ontogenetica e` che sappia stare in poverta` di spirito e purezza di cuore, ossia con una mente spoglia di ogni orpello e un cuore capace di quel sentire positivo che solo predispone ad addentrarsi intensivamente nella vita. E` in questa prospettiva che l’epoche¯ diventa disciplina essenziale dell’esistenza. Fare epoche¯ significa sospendere tutto quello che non ci consente di vivere intensamente qui ed ora, di vivere interamente il presente. Vivere una vita vera significa aderire interamente al presente, e affinche´ questo modo di esserci possa prendere forma occorre saper mettere tra parentesi tutto quello che impedisce un’adesione immediata alle cose. Per calarsi nella lacuna del presente e` necessario fare epoche¯ dei molti rivestimenti del tempo, dei vissuti costruiti attorno all’anima, cosı` da guadagnare un’intima poverta`. Quella poverta` della vita della mente in cui c’e` posto solo per “l’ansia di verita` e giustizia” (DD: 24). L’epoche¯ radicale di Husserl viene, dunque, radicalmente reinterpretata da Zambrano come pratica del principio di poverta`, quella poverta` intima che viene dal togliere via tutto l’inessenziale, cosı` che nell’anima risuoni la “misura non generata”. Stare in poverta` significa Non pretendere che qualcosa ci copra di splendore, ne´ apparire in un determinato modo davanti a chicchessia, apprezzare solo il necessario senza dargli importanza” (DD: 23).

affinche´ la convienza si realizzi e` necessario essere animati dalla ricerca di un modo di vivere semplice. Si puo` per questo affermare che in Zambrano e` essenziale quella che si puo` definire un’etica della semplicita` (DD: 48). 39 Lo sguardo positivo che Zambrano nutre nei confronti della vita prende corpo in intuizioni, come questa che ipotizza una misura non generata ed incorruttibile, rispetto alle quali non e` operazionalizzabile alcuna procedura logica atta a saggiarne il grado di fondatezza; ad esse si puo` solo aderire o sospendere l’assenso sulla base di quell’atto cognitivo che ha la forma dell’intuizione primaria.

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Un metodo a-metodioo

Questo imperativo non solo ci chiede di stare solo la` dove e` in gioco l’irrinunciabile, ma anche senza attaccamento alcuno, perche´ anche l’irrinunciabile per noi, mancanti d’essere e dunque sempre distanti dalla verita`, e` qualcosa di sfuggente che sempre si ha da cercare. Il voto di fedelta`, prima che alla cosa, al phainomenon, sara` dunque fedele al principio di poverta`, da intendersi come aver cura solo dell’irrinunciabile e con giusta misura.

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3 Nella semplice essenzialita`

L’imperativo metodico e` dunque quello di rendere l’anima trasparente per pensare in poverta` di spirito e purezza di cuore. Questo imperativo richiede che si sviluppino due pratiche: disfare e stare passivi.

3.1 Disfare fare vuoto Per conoscere le cose occorre non entrare nella ragione, ma entrare nella realta`, aderire all’essere delle cose. Come insegnano i mistici, si tratta di rendere l’anima trasparente perche´ solo un’anima trasparente si dispone a ricevere l’essere delle cose. La conoscenza vera richiede alla mente di fare posto alla cosa nella sua datita` originaria, salvaguardandola da ogni assimilazione alle strutture performative dell’io. L’ospitalita` della cosa nel suo essere proprio si realizza nella misura in cui la mente si fa sostanza liquida e trasparente, quella che sola si lascia attraversare dalla luce. Farsi trasparente (CGL: 63) e` l’imperativo della ragione vitale. E per rendere l’anima trasparente, cosı` da fare posto alla realta`, occorre spogliarsi di se´, svuotarsi. Fare vuoto significa disattivare i dispositivi epistemici abituali: reti concettuali, cornici di teorie, grammatiche procedurali, ma anche i propri attaccamenti; significa mettere fuori circuito non solo i saperi alla mano, ma anche i desideri e le aspettative di cui e` impregnata la vita cognitiva. E` solo arrestando i nostri strumenti cognitivi abituali e disattivando gli interessi ordinari che e` possibile fare posto a cio` che altrimenti “non avrebbe per noi esistenza piena, se non fosse appunto per questo vuoto che produciamo annullandoci” (SA: 97). Quando stiamo dentro il gia` definito si finisce col restringere la ricerca della verita` in una luminosita` omogenea tale da ridurre gli esseri e le cose solo a cio` che di loro si richiede per determinarle. Il conoscere che sta recintato dentro saperi e logiche date, anziche´ accedere all’altro lo predetermina. Sottomettersi ad una prospettiva e` dunque tutt’uno col perdere la

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Un metodo a-metodioo

realta`1. Quello che si ha da fare, invece, e` rendere la mente materia trasparente e liquida, quella che si adegua al profilo delle cose e le lascia respirare nel loro essere piu` proprio. Una mente che sta in ascolto del reale puo` essere solo quella che fa silenzio dentro di se´. Questo rendere silenti i saperi gia` disponibili ha l’effetto di depotenziare il se´ epistemico; un lavorio faticoso ma essenziale per salvare gli enti, perche´ solo quando lo spazio dell’incontro con l’altro non e` occupato dal troppo pieno del se´ l’altro trova le condizioni per non essere assimilato nel medesimo e, quindi, per mostrarsi nella sua differenza. Lavorare su di se´ per fare vuoto e`, dunque, la mossa cognitiva essenziale per attuare il cominciamento puro del processo d’indagine. “Amare la verita` significa 2 tollerare il vuoto” . E` proprio facendo vuoto che si puo` trovare il puro inizio del pensiero. Il metodo per entrare nella realta` richiede uno sforzo negativo, perche´ chiede di disattivare i propri pensieri e rendere silenziosi gli abituali strumenti epistemici. Essere attenti all’altro significa tenersi liberi dalla presa dei dispositivi epistemici, concettuali e procedurali, abituali. Solo facendo vuoto l’altro trova lo spazio per disvelarsi e l’anima puo` accoglierlo. Senza questa pratica decostruttiva del fare vuoto l’oggetto non avrebbe esistenza piena, ne´ l’anima potrebbe innamorarsi di esso. Non c’e` possibilita` di conoscenza autentica senza spogliarsi o venire spogliati di tutto cio` che si ha indosso, senza rimanere senza baldacchino, e perfino senza tetto, senza sentire la vita intera come non la si e` potuta sentire allorche´ si nacque per la prima volta; senza protezione, senza appoggio, senza alcun punto di riferimento (CB: 48).

Solo quando la parola abituale tace e il sentire proprio dello stare affaccendati nell’ordinario si dilegua, la mente vive quell’istante di luce nascente in cui l’impenetrabilita` dell’essere delle cose si scioglie consentendo il venire alla presenza della loro essenza. Solo una mente vuota assapora quell’istante di sovratemporalita` in cui puo` bere la luce delle cose sfavillanti d’essere. Zambrano parla del “dono del vuoto” (CB: 70), per indicare quell’insi1

Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, Adelphi, Milano 1985 (ed. or. Cahiers, I, Plon, Paris 1970), p. 161. 2 Ivi, p. 53.

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Nella semplioe essenzialità

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gnorirsi del volto del presente che si rende possibile solo quando la mente conosce una pausa del troppo pieno di se´, dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti. E` questa pausa a consentire di trovare il respiro della realta`; in questo sta l’essenza del dono del vuoto: rendere possibile alla mente di lasciarsi assorbire dalla vita. Che la mente si eserciti nella disciplina del fare vuoto e` cosa necessaria perche´ “ci sono presenze che non possono discendere laddove ne esistono altre” (FP: 111). E` evidente il contrasto con la concezione classica del metodo, che chiede di acquisire conoscenze, sempre di piu`, fino ad ingolfare la mente. Il metodo ascetico dello svuotarsi continuamente lavora a cercare la trasparenza dell’anima. Sempre si cerca una conoscenza chiara, e` questo un obiettivo irrinunciabile anche per Zambrano, il cui pensiero non a caso e` ossessivamente impregnato da richiami alla luce. Gia` piccola amava spingere lo sguardo nella “lontananza azzurrata”, per trattenersi a “bere la luce, come fosse il migliore dei cibi” (DD: 20). Da filosofa concepisce il conoscere come tessere fili luminosi, quel cercare una conoscenza chiara, trasparente perche´ in essa l’essenza della cosa possa rilucere in modo fedele. Ma questo e` possibile solo lavorando su di se´, sullo strumento del conoscere che e` la mente, lavorare a renderla leggera, trasparente. La necessita` di fare vuoto per far posto all’altro non e`, pero`, cosa di cui si acquista immediamente la consapevolezza, ma e` l’esito di una pratica della disciplina della riflessione sulla vita della mente, la quale se esperita radicalmente dovrebbe rendere coscienti del fatto che la mente non solo possiede conoscenze, ma e` anche da esse posseduta (NM: 38). E fintanto che la mente resta prigioniera dei suoi pensieri non puo` farsi materia trasparente. L’effetto primario della riflessione sul proprio dire per cercare la parola fedele alla cosa e` di scoprirsi “ostacolo, scorza, resistenza”; e` proprio quando si avverte di proiettare la propria ombra su qualcosa che si comprende la necessita` di fare vuoto, di “ritrarsi perche´ cio` che vi e` di piu` prezioso possa comparire” (CB: 99). Quello che intendo sottolineare e` che le pratiche cognitive che definiscono il metodo cosı` come e` concepito da Zambrano non sono regole che possono essere apprese astrattamente, non sono insegnabili, ma sono modi di essere che prendono forma attraverso la pratica, una pratica imbevuta di riflessione agita alla luce dell’epistemologia mistica, in cui la mente si pensa pensante e analizza i suoi vissuti in relazione al principio del rendersi trasparente. Quando si e` acquisita la disciplina del fare vuoto puo` anche accadere che il vuoto sorprenda la mente. Accade di fronte a domande impreviste

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Un metodo a-metodioo

che spiazzano ogni nostro sapere. Nulla e` meno efficace dello sforzo di uscire da questa situazione con la smania di riprendere possesso della mente. Invece bisogna accettare di stare in questo vuoto, stare passivi a vivere l’istante di vuoto che si accende nella mente. “Bisogna sostenersi in questo vuoto della mente” (NM: 114). Il valore del principio epistemico dello stare vuoti e` attestato dall’esperienza, quando si sa stare riflessiva3 mente attenti a cio` che accade . spossessarsi Fare vuoto significa attivare la pratica del disfare. Saper disfare e` essenziale per trovare quel sapere dell’anima che solo consente di rinascere al mondo. Si nasce non finiti non terminati, col compito di dare corpo e forma, di dare figura all’esistenza. Dare figura all’esistenza significa nascere. Non si nasce una sola volta e definitivamente, sempre si nasce, nel senso che continuamente si e` chiamati a ridare forma al proprio tempo. Come afferma Arendt, noi, pur essendo mortali, siamo innanzitutto esseri natali, nati cioe` per incominciare, per dare inizio a mondi nuovi. Anche per Zambrano nascere e` concetto essenziale, quello che consente di mettere ordine nel pensare che ha per oggetto la vita. “L’individuo, infatti, per essere tale, ha bisogno di rinascere, di essere di nuovo generato” (CGL: 38-39). Se per Zambrano nascere significa elaborare il significato del 4 proprio esistere , allora interpretare la vita alla luce del concetto di natalita` significa rifare continuamente il lavoro di costruzione del significato dell’esperienza. Per rinascere alla vita occorre incessantemente attivare quello sforzo negativo che consiste nel disfarsi di parti di se´, nello spogliarsi delle forme 3

Una studentessa impegnata in un laboratorio di pensiero ispirato al principio dell’attivare la pratica della presenza mentale, che consiste nell’educare la mente a prestare attenzione alla cognizione nel mentre del suo accadere, dopo essere stata piu` giorni impegnata a praticare questa forma di autoindagine, si chiede se per intensificare la presenza mentale sia proprio necessario attivare una logica di controllo: “Ma bisogna guidare i nostri pensieri? ... Se teniamo sotto controllo i nostri pensieri non li opprimiamo un po’? Sono forse privati della loro capacita` creativa dal momento in cui sono posti sotto controllo?” (dal suo diario di bordo). Questa riflessione e` indizio del prevalere nella nostra cultura di una concezione della cognizione efficace come di quel pensare che controlla i flussi di pensiero e allo stesso tempo attesta come un’esperienza di pensiero (qual e` quella del laboratorio riflessivo) ispirata ad una logica differente consenta il germinare della consapevolezza che esiste la possibilita` di una diversa interpretazione della cognizione come presenza distesa alla realta`. 4 Laura Boella, Cuori pensanti, Tre Lune, Mantova 1998, p. 76.

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piu` logore del proprio essere, di quegli involucri di esistenza che si accartocciano attorno all’anima. Perche´ solo dove qualcosa viene meno si 5 fa spazio a qualcosa di nuovo, ad un nuovo inizio . Disfare `e fare da parte l’io per lasciare essere la cosa. Farsi da parte significa spossessarsi. Lo spossessarsi, lo svuotarsi del troppo pieno del se´, rende la mente “un po’ assente”, ma e` proprio questa assenza del se´ la condizione per informarsi bene delle cose (DD: 29). La ricerca della conoscenza fedele della cosa richiede uno spossessamento radicale, un farsi da parte del se´. E` un guardare alle cose in cui si retrocede per vedere meglio. La scienza moderna per indicare la qualita` dell’atto cognitivo parla di penetrare le cose per soggiogarle alla potenza del pensiero; Zambrano indica, invece, come proprio del conoscere capace di accedere alle cose il movimento del retrocedere, di farsi da parte. E` il farsi da parte che consente all’altro di venire alla presenza. Avere un metodo e` lavorare alla sottrazione di se´, “spogliarsi di cio` che si ritiene piu` certo” (NM: 104). Questo farsi da parte del soggetto, lo “spogliarsi della sua affermazione per permettere a cio` che gli sta intorno di mostrarsi” (B: 63), e` allo stesso tempo la precondizione per entrare nella realta` ma anche una conseguenza dell’andare verso le cose, se per conoscere s’intende quel guardare che assume le cose non come semplici strumenti per l’esercizio dell’attivita` cognitiva, ma come il centro dell’essere cui occorre dedicare lo sguardo. Quando il pensare e` un dedicarsi alle cose che prende la forma di un guardare che ad esse gira intorno, accade che il soggetto del conoscere si trovi spiazzato rispetto alla percezione che tradizionalmente ha di se´, come di colui cui le cose stanno d’intorno e il pensiero per conoscerle deve penetrare in esse. Viene a trovarsi fuori luogo, decentrato, ossia non piu` in quel centro circondato dalle circostanze. E l’essere decentrato rispetto al centro delle cose e` la postura epistemica da cui puo` germinare la ragione vitale, la quale chiede che l’io si trovi semplicemente enunciato come un dato da cui si parte, per entrare in quella realta` che e` la sua vita, dentro di essa (B: 63). 5 Ad aiutare a comprendere il senso della disciplina dello spossessamento come mossa vitale perche´ necessaria a rinascere, all’Incipit vita nova, c’e` la metafora della serpe, quel suo gettare la pelle vecchia per cominciare un nuovo percorso. Accade, pero`, che la serpe in certi casi si trascini sulla terra tenendosi la sua pelle, “E quando qualcosa di analogo accade nell’essere che piu` si erge nella scala della vita – e che con la serpe tante analogie mantiene – sara` senza il piu` piccolo anelito che gli valga da stimolo, senza il soccorso di quello stimolo che proviene dalla pelle nuova” (B: 21). Senza spogliarsi del vecchio, senza svuotarsi del troppo pieno del se´ vissuto, non si trova quell’anelito necessario a realizzare l’essenza della vita umana, che consiste nel saper rinascere a vita nuova.

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Un metodo a-metodioo

Lo spossessarsi del soggetto e`, dunque, reso possibile anche dall’esercizio di quel pensare che e` un delicato dedicarsi a guardare con attenzione le cose da ogni lato facendone il centro del pensare ammirato. disfare per rinascere Lo spossessarsi, l’abbandonare ogni cosa di se´ per rendersi vuoti, ha tutta l’apparenza di un movimento contrario alla vita e contrario alla ricerca della conoscenza. Abbandonare i paesaggi familiari per arrischiare nuovi e inediti percorsi fa sentire di morire. E cosı` e` di fatto. Ma il morire ha un significato positivo perche´ consente di rinascere a vita nuova: “Solo da` vita cio` che schiude il morire” (CB: 25). Si vive veramente quando s’interpreta la vita come un nascere sempre di nuovo, e per nascere occorre lasciar morire quelle parti di se´ che fanno resistenza ad altro, anche la nostra coscienza quando viene a costituire un involucro che non lascia respirare la vita. Proprio il lasciar morire parti del se´ e` cosa necessaria per iniziare qualcosa di nuovo, per rinascere, perche´ l’impossibilita` di vivere e` tutt’uno, senza che noi ce ne rendiamo conto, con l’impossibilita` di morire. Disfare e` morire, ma la morte e` indispensabile al nascere, cosı` che la vita si compia nel suo trascendersi. Zambrano parla dell’“innegabile aiuto della morte alla nascita del pensare” (NM: 38). Il dio della conoscenza per Zambrano e` Dioniso, il dio della nascita sempre incompleta, interminabile (CB: 46), quello attento che la vita sempre muoia per ritornare. Solitamente s’immagina il lavoro del dar forma alla vita, costruendo di essa i suoi significati, secondo la metafora dell’edificio: aggiungere mattone su mattone per arrivare alla forma architettonica definitiva. Per Zambrano il lavoro dell’esistere, o per dirla con Cesare Pavese il mestiere di vivere, e` come il lavoro di Penelope, fare forme e poi disfarle per rinascere a forme nuove. Il nascere, dunque, non come atto compiuto ma come etica: l’etica del nascere disfacendo le nascite gia` compiute. La vita ha bisogno di un’etica che la guidi (CB: 48) e in questa etica il principio del morire e` fondamentale perche´ condizione necessaria al poter rinascere, dando voce all’imperativo “incipit vita nova”. Zambrano parla di un’“identificazione suprema, a stento concepibile” tra la vita e la morte, nel senso che la morte non e` fine ma principio, non e` un uscire dalla vita, ma “un addentrarsi in spazi piu` ampi” (CB: 48). In questa concettualizzazione del morire come pratica ontogenetica del rinascere si condensa il sapere profondo che Zambrano ha della vita nelle sue piu` intime e inaggirabili contraddizioni.

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Morire per rinascere e` movimento essenziale non solo sul piano ontogenetico, ma anche su quello epistemologico, perche´ e` la morte del se´ epistemico abituale “che fa nascere il pensiero e che a sua volta porta il soggetto all’autenticita`” (NM: 38). Stare nella mancanza e` essenziale al pensiero, perche´ come insegna Platone nel Simposio la conoscenza ha bisogno dell’amore e l’amore e` figlio di Penia, cioe` della mancanza, della poverta`, e di Poros, che fra i suoi significati ha anche quello di passaggio, 6 apertura . Ed e` proprio lo stare nella mancanza, nel senso di accettarla, 7 che ci rende possibile l’apertura ad altro . Spossessarsi del se´, lasciare morire parti del se´ vissuto, e` la condizione necessaria per rendere la mente aperta al manifestarsi donativo dell’essere dell’ente. Il trarsi fuori dal proprio se´ ci consegna “per intero alla visione” della cosa (B: 33). Per rinascere al reale si e` dunque chiamati non solo a disfare le nascite simboliche gia` vissute, ma anche a disfare il sapere gia` saputo per trovare il cominciamento puro del pensiero. A favorire il disfarsi delle forme simboliche cristallizzate e logore, in cui si tende a rimanere imbozzolati impedendoci di respirare una vita nuova, e` quel lavoro su di se´ la cui pratica e` esemplificata nelle Confessioni di Agostino. Leggere dentro se stessi per esporre la vita interiore alla luce della coscienza ha l’effetto di depotenziare certe cornici simboliche e di aprire gli spazi cognitivi ad altre visioni. Cio` accade, pero`, a condizione che questa torsione autoanalitica risponda non ad un mero bisogno di ripiegamento intimistico, ma al desiderio di trovare la verita`. L’autoanalisi ha senso quando e` trasformativa, e per questo deve avere implicazioni pratiche sull’esistenza. Ha implicazioni esistenziali quando lavora sulle visioni della vita, sulle credenze che dal profondo dell’anima operano in senso performativo sull’esperienza; ha implicazioni epistemiche quando assume come oggetto gli strumenti abituali del conoscere. Se il conoscere deve mirare ad attivare il movimento dell’entrare nella realta`, allora da disfare e` innanzitutto la logica abituale, quella che ci fa stare in un pensare astratto. Zambrano suggerisce di prendere le distanze dalla tendenza a far prevalere la mossa cognitiva della deduzione, cioe` l’affidarsi del pensiero ad un giudizio universale per giungere ad uno singolare, quell’andare dall’astratto al concreto in cui proprio la singolare unicita` di ogni ente e` destinata a perdersi. Si pensi al sillogismo che predica “tutti gli uomini sono mortali – Socrate e` uomo – dunque Socrate 6

Luisa Muraro, La maestra di Socrate, in Annarosa Buttarelli, Luisa Muraro e Liliana Rampello, Duemilaeuna, Pratiche Editrice, Milano 2000, pp. 145-156, in part. pp. 151-153. 7 Luisa Muraro, Il Dio delle donne, Mondadori, Milano 2003, p. 119.

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Un metodo a-metodioo

e` mortale”; nel ragionamento sillogistico Socrate e` messo fra i tanti, con la conseguenza che si smarrisce la percezione dell’unicita` esemplare del suo morire. Il pensare che si affida alla logica classica non sa stare al concreto vivente, come se il singolo ente non si sostenesse da solo davanti al pensare (CB: 45). Assimilare le cose dentro un pensare generale significa perdere di vista la loro singolarita` essenziale: perdere il reale. Per trovare la realta` occorre disattivare tutti quei modi epistemici che ci confinano entro un mondo anticipato e fare ritrovare alla mente la condizione dello stare 8 esposta al reale . La conoscenza vera implica che si rinasca. Rinascere e` risvegliarsi, ma si tratta di un risveglio privilegiato, che e` quel modo di tornare alla realta` con la mente vuota, senza alcuna immagine ne´ di se stessi ne´ del reale. Il risvegliarsi alla realta` senza immagini di essa, senza che il pensiero si trovi recintato entro nominazioni gia` configurate, e` un istante di esperienza preziosa. Un istante, pero`, non di piu`. Dura un attimo questo risveglio, ma quando accade lascia un’impronta indelebile perche´ fa esperire il respirare “in una solitudine privilegiata sulle sponde della vita” (CB: 23). Quando si vive l’esperienza della ricerca della conoscenza dell’altro cercando quella autentica che, seguendo Zambrano, accade attraverso la 8

Rintraccio qui una profonda analogia con la pratica del “sillogismo in erba” proposta da Gregory Bateson (Gregory Bateson, Una sacra unita`. Altri passi verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1997 – ed. or. A Sacred Unity. Further Steps to an Ecology of Mind, Harper Collins, New York 1991), il quale di fronte ai riduttivismi e alle semplificazioni innescate dalla logica classica propone di attingere ad un differente modo di pensare per configurare approcci logici piu` capaci di avvicinarsi alla complessita` del mondo vivente. I sillogismi in erba o “affermazione del conseguente” (del tipo: L’erba e` mortale/Gli uomini sono mortali/Gli uomini sono erba) costituirebbero lo strumento cognitivo piu` adeguato per comprendere le tessiture ontologiche del mondo della vita. La logica poetica del sillogismo in erba non puo` essere utilizzata per nessuna dimostrazione cosı` come e` richiesta dalla logica canonica, ma piu` di questa puo` avvicinare alla logica con cui funziona il mondo vivente. Chi si occupa di investigare non solo il mondo vivente ma anche il mondo umano stando nell’orizzonte epistemologico aperto dal paradigma ecologico, che impone di cercare altri sguardi oltre a quelli autorizzati dalla logica materialistica e meccanicistica, ha esperienza di quanto il mondo circostante della vita spesso si sottragga alla logica classica, alle sue ferree leggi argomentative, e richieda di azzardare altri ed imprevisti modi d’indagine, altre sintassi. Come quella della poesia; Bateson, infatti definisce il sillogismo in erba un modo di pensare proprio del poeta (ivi, p. 370). A questo sillogismo Bateson da` anche il nome di metafora e considera la metafora non solo uno dei mezzi del poeta, ma lo strumento che meglio di altri consente di comprendere il mondo vivente (ivi, p. 371). La poesia, dunque, non e` piu` concepita come territorio di procedure alogiche, inutili per la pratica della ricerca di una conoscenza vera, ma diventa serbatoio di altre logiche piu` adatte di quelle canoniche per la comprensione del mondo umano.

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pratica del disfare, succede di esperire questo istante di esperienza viva della realta` dell’altro. Ed e` vero: dura un attimo, ma questo attimo puo` bastare per salvare l’incontro, ossia per lasciare che l’altro respiri secondo il suo ritmo. Non si respira quando si sta dentro la densita` spessa dei pensieri abituali e del sentire gia` vissuto (CB: 27-28). Stare dentro il cerchio delle proprie rappresentazioni e nello spazio gia` tonalizzato del proprio sentire significa asfissiare (e` questo un termine frequentemente usato da Zambrano) il pensiero, togliere ad esso aria; fare vuoto, spossessarsi, morire al gia` dato significa aprirsi per “respirare la vita” (CB: 26). Il metodo del disfare e` quello di un pensiero che lavora continuamente a liberarsi del troppo pieno del se´, per rendere accessibile, nella misura possibile alla ragione umana, la condizione della poverta` di spirito. Stare in un mondo anticipato impedisce l’accesso alla realta`, nascere al reale vuol dire disfarsi di tutto quanto ci impedisce di aderire con pienezza al divenire delle cose del mondo. Significa dunque disfare i pensieri gia` pensati, ma anche rendere fragile ogni epistemologia e ogni visione della vita cui nel tempo abbiamo affidato la nostra trascendenza. Perche´ per nascere alla realta` non basta liberarsi del sapere gia` saputo e con esso del metodo abituale con cui lo si costruisce, ma di ogni misura del vivere e con essa di ogni idea che informa l’esperienza e cosı` ricominciare a cercare il metodo del nascere. “Ogni metodo e` un Incipit vita nova” (CB: 15), nel senso che ogni metodo e` una nuova vita che inizia. Disfarsi di se´, fare il vuoto e` cio` che cerca il mistico. Per questo il metodo di Zambrano e` una pratica ascetica radicale, molto di piu` di quanto non lo sia il metodo fenomenologico husserliano. Per la fenomenologia si accede all’essenza del reale nella misura in cui si mette tra parentesi il gia` saputo; per Zambrano mettere tra parentesi non basta, occorre sapersi spogliare del gia` detto, dei pensieri gia` acquisti, farsi vuoti, solo cosı` si rinasce a forma nuova. Incipit vita nova, ripete spesso Zambrano per indicare che il lavoro del metodo e` quello di disfare forme gia` acquisite (disnascere) per germinare ad una nuova forma (rinascere). A comprendere la pratica del disfare aiuta la metafora dell’esilio. L’esiliato e` colui che ha abbandonato i luoghi familiari e si trova a percorrere il cammino in territori sconosciuti. L’essere in ricerca “e` quanto c’e` di piu` simile ad un abbandono” (B: 88). E l’abbandono dovrebbe essere totale, ossia lasciare tutto senza portarsi appresso nulla. L’essenza della condizione dell’esiliato e` il non avere un posto in cui radicarsi: non avere un posto nel mondo, non essere nessuno. Cosı` e` la condizione della mente che applica la pratica del disfare: “fuggire da tutto

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cio` che e` conosciuto, da tutto cio` che e` stato, per ansia di nascere o rinascere in un paese vergine, per andare, disfacendo la vita, incontro all’altro” (DD: 73). Zambrano interpreta quel “tagliare i ponti” che e` il disfare come uno “strapparsi” da tutto cio` che si e` ricevuto” (B: 88) cosı` da non avere un 9 nucleo di certezze su cui radicare il pensiero . Mettere in disuso ogni teoria consolidata e ogni epistemologia collaudata. Smettere di pensare cosı` come si pensa e adoperarsi per “mantenersi nel punto privo di qualsiasi appoggio” (B: 36), mantenersi in sospeso. Quella in esilio da se´ e` una mente che ha ridotto al minimo il suo bagaglio per stare nell’essenziale, in cio`, e solo in quello, che e` irrinunciabile per continuare il cammino. “Essere soltanto cio` che non si puo` lasciare ne´ perdere” (B: 36) e` il principio non solo epistemologico, ma anche etico, dello stare in una poverta` di spirito, ossia nella semplicita` piu` radicale. Perche´ la semplicita` e` la condizione che consente alla mente di accogliere la realta` e di esperire una sorta di beatitudine, quella che viene dallo stare solo all’irrinunciabile. Stare nella semplicita`, perche´ “solo la semplicita` puo` dar conto” (B: 13), nel senso di consentire l’accesso all’esperienza dell’altro. La semplicita` del portarsi appresso solo l’irrinunciabile non e` privazione, ma intensificazione dell’esperienza d’essere. Siamo arrivati oggi ad essere massimamente complessi, armati di tecniche e di ragioni tecniche, ma tutte le analisi raffinate rese possibili dall’impiego dei vari dispositivi non fanno che tenere lontano la vita, l’esperienza. Per entrare nella realta` occorre semplicita` e questa si raggiunge attivando la pratica dello svuotamento, che consiste nel mettere fuori uso tutti i nostri bagagli tecnicistici. Svuotarsi del troppo pieno di se´ e` movimento essenziale alla vita, perche´ svuotarsi significa guadagnare in presenza, cosı` che l’altro possa venire alla presenza in fedelta` a se´. Una disciplina faticosa quella del disfare per stare nella semplicita` piu` radicale, ma che una volta che se ne e` sperimentato il guadagno non cessa

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Da sempre il conoscere che cerca la verita` e` concepito come un movimento possibile attraverso la pratica del disfare di cui non si puo` tacere l’implicare una forma di violenza. Il tagliare e` violenza, c’e` sempre qualcosa di duro, di forte quando si deve iniziare qualcosa di nuovo. L’inizio si da` sempre nel dolore, come il nascere; non e` un movimento idilliaco. A cambiare e` invece ‘la cosa’ di cui dobbiamo disfarci. Nell’epistemologia platonica e` la realta` materiale, che ingombrerebbe la mente di mere opinioni; nell’epistemologia cartesiana sono le passioni che impedirebbero il conoscere oggettivo. Nella concezione di Zambrano, invece, nella realta` si ha da entrare e si deve entrare tutti interi, anche col proprio sentire; per lei da disfare e` tutto cio` che ingombra la vita dell’anima; sono i prodotti stessi dell’attivita` cognitiva cio` da cui occorre strapparci.

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di far sentire la sua necessita`. E il guadagno primo consiste nello sperimentare come il non possedere (tecniche, retoriche, concetti) si traduca immediatamente nella liberta` del non essere posseduti (dalle logiche dei saperi che tengono la cognizione recintata dentro ben delimitate aree di praticabilita` epistemica). Stare nel poco da` il guadagno del non essere posseduti. Quindi la pratica del disfare e` strettamente connessa con la liberta`; per essere libere/i occorre disfarsi da cio` che e` rinunciabile cosı` da 10 stare solo nell’irrinunciabile . la continuita` del disfare Occorre sottolineare che questo lavorare alla sottrazione di se´, a spossessarsi di ogni strumento con cui abitualmente mettiamo in forma l’esperienza, per rendere l’anima vuota, trasparente, e come tale capace di accogliere l’essere della cosa, e` una disciplina che non dovrebbe conoscere soluzioni di continuita`. Questa pratica ontogenetica dello spossessamento e` cosa che non si compie mai, ma continuamente chiede di essere messa in atto. “Lunga e` la via” (B: 19) per cercare il metodo, perche´ il fare vuoto e` movimento opposto a quello naturale, dal momento che la vita della mente tende ad operare continui riempimenti. Come l’esiliato continuamente ripete la sua partenza dal luogo d’origine, cosı` la mente che va in cerca di quella verita` che e` un dire fedele alla cosa, all’esperienza, e` un continuo sradicarsi dai luoghi simbolici acquisiti, ossia un dismettere i propri saperi. E` un procedere di sradicamento in sradicamento cosı` da divenire poco, meno di meno. Solo in questa poverta` di se´ si puo` realmente fare spazio all’esperienza dell’altro, che puo` essere compresa proprio perche´ e` stata accolta. La “mente vuota” rappresenta dunque un’idea limite, cioe` un’idea che guida il processo di autoformazione epistemica senza che mai possa essere realizzata pienamente. Anche la mente piu` disciplinata non puo` sfuggire alla qualita` del pensiero umano, che sempre e` condizionato da qualcosa. Zambrano sa l’impossibilita` di attuare interamente questo stato cognitivo, sa l’impossibilita` del conoscere a partire da un vuoto di conoscenze, da una mente vuota e limpida:

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Questo amore per la liberta` evidente in Zambrano lo e` anche in altre donne; nella Arendt che epistemologicamente mette in questione la tendenza a stare in un mondo anticipato e politicamente considera la liberta` la condizione stessa della politica, ma anche nella Weil che molto lavora sul concetto di vuoto per aprire la mente al trascendente, e poi nelle mistiche la cui scrittura e` segno di un guadagno di liberta` (Luisa Muraro, Il dio delle donne, cit., p. 21).

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E se anche fosse possibile che, per qualche istante, nessun ricordo attraversi la mente, ci sarebbe comunque un continuo riferimento al passato e sarebbe impossibile che un evento, per quanto atteso, una persona, per quanto infinitamente amata, siano accolti da un’anima pulita e priva di incrostazioni; di orme, di ombre (DD: 21).

Le ombre ingannevoli della caverna non si dileguano. Sempre la mente e` costretta a patire le sue incrostazioni simboliche. E` un lavoro sempre non terminato quello, al quale siamo chiamati, di disfare questi vissuti incrostati sulla pelle delicata dell’anima. Ma dal momento che il disfare sta in una relazione essenziale con la possibilita` di un cominciamento nuovo, natale, del conoscere, tale pratica viene a costituire un irrinunciabile esistenziale ed epistemico. Aspirare ad una mente limpida dovrebbe essere la visione che guida il ricercatore, il suo sogno ossessivo. Ma per non coltivare inutili illusioni, e` necessario nutrire sempre questa ricerca della consapevolezza dei limiti della cognizione umana, e dunque dell’umilta` necessaria a cercare la giusta misura del nostro lavoro del pensiero. La pratica del disfare cosı` concepita richiede tempo, e` un procedere lento, piano. Nel tempo dell’accelerazione massima, dove il principio di valore e` l’efficienza, ed essere efficienti significa produrre conoscenza nel minor tempo possibile, il ritmo lento del cercare la conoscenza a partire da un lavoro su di se´ risulta radicalmente atopico. Il tempo necessario al germinare di un sapere dell’anima e` un tempo dilatato. Di qui la difficolta` di stare autenticamente e con continuita` alla ricerca di questo sapere, e di 11 praticare il metodo della ragione materna disegnato da Zambrano . 11

Penso al mio lavoro di ricercatrice sul campo, quando sono impegnata a conoscere l’esperienza dell’altro, o meglio il significato che egli/ella attribuisce alle sue esperienze. So, per esperienza, che il metodo della ragione poetica, quello che procede a passi misurati e lenti – perche´ nel bel mezzo della ricerca mi chiede di lavorare su di me per fare spazio all’altro – e` il metodo vero. Perche´ con la sua etica del lavorare a disfare mi consente di fare quel vuoto che solo rende praticabile lo stare in prossimita` dell’altro, solo cosı` si fa spazio al dirsi della sua esperienza. Ed e` questo metodo che vorrei informasse costantemente, senza cedimenti, la pratica del mio fare ricerca. Ma poi accade che il mondo della ricerca mi chieda altri ritmi, mi chieda tempi che non sono quelli della ricerca vera. E a questa richiesta di produrre saperi nei tempi canonici cerco di resistere, ma ci sono situazioni in cui la resistenza viene meno, allora tradisco il metodo. Stare nel mondo ordinario chiede continui tradimenti, perche´ il nostro agire e, dunque, il nostro pensare e sentire si intreccia con quelli di altri, che si muovono secondo altre misure di verita`; e in questo intreccio di relazioni differenti, dove continue sono le negoziazioni richieste, nessuno gode di quella sovranita` sul proprio agire che consentirebbe di essere sempre massimente fedeli alla propria misura.

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3.2. stare passivi rendere quieta la mente Il conoscere che si attua secondo il principio di fedelta`, e` quello in cui il soggetto epistemico crea le condizioni affinche´ l’altro acconsenta di venire alla presenza. Lascia all’altro la decisione su come farsi conoscere. Questo conoscere ispirato dal principio del rispetto, che interpreta l’atto epistemico come un girare intorno all’altro quasi nella forma di un corteggiamento, privilegia come postura essenziale l’attenzione, quello sguardo sostenuto sulle cose che si profila “senza cedimenti alla divagazione, audace, ostinato” (A: 31). Prestare attenzione significa dedicare l’attivita` cognitiva a cogliere il manifestarsi delle cose sulla base di una profonda fiducia nell’offrirsi della realta` in modo semplice ed evidente. Dal punto di vista della concezione classica del metodo questo modo di conoscere e` considerato non capace di fornire le necessarie garanzie di produrre dati attendibili, perche´ l’attenzione e` un modo dell’indagine che non interviene sulla cosa, non la manipola, come vorrebbe invece la ragione dell’homo faber, quella che ritiene che conoscere sia un fare. La ragione materna, invece, ha necessita` di un procedere discreto che lascia all’altro il modo e il tempo del rivelarsi in fedelta` a se´. Il conoscere materno accoglie l’offrirsi dell’altro allo sguardo senza alcuna avidita`, perche´ intende la ricerca non come un andare a caccia, ma come un raccogliere forme e figure secondo il rivelarsi della pienezza dell’essere. Lo sguardo attento e` analogo a quel raggio di luce che, anziche´ colpire l’oggetto, su di esso si piega avvolgendolo, si fa quasi cavo come a raccogliere il manifestarsi dell’altro, cosı` come la luce morbida dell’aurora consente il delinearsi gradule dei contorni delle cose. L’attenzione funziona come la clorofilla: capta nell’intorno indizi di realta` trasformandoli in nutrimento per la vita della mente. Quando l’attenzione si allenta, allora anche la realta` si dilegua, nel senso che cio` che di essa rimane a noi presente non e` l’essenziale. Non solo e` causa di perdita del senso di realta`, ma la mancanza di attenzione e` all’origine 12 della nostra incapacita` di vedere gli errori che si radicano nell’anima . Invece un’attenzione intensa e continuata sulla vita della mente aiuta a salvaguardarla dai troppi errori. Ma qui sta il nodo critico del conoscere: la difficolta` a prestare un’attenzione continuata. L’accesso alla verita`, che passa attraverso un 12

Simone Weil, La prima radice, SE-Mondadori, Milano 1996 (ed. or. L’enracinement. Pre´lude a` une de´claration des devoirs envers l’eˆtre humain, Gallimard, Paris 1949), p. 200.

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paziente e tenace girare intorno alle cose per vederle da ogni lato e prospettiva, richiederebbe l’insonnia dell’attenzione; invece, questa e` inevitabilmente discontinua. L’attivarla con un adeguato livello di continuita` non e` una questione di dover essere, ma della presenza di amore per le cose. E` l’amore per la realta` che nutre e tiene desta l’attenzione. Il guardare veramente, quel “guardare che e` la vita”, e` saper prestare attenzione alle cose, “prestare attenzione a cio` che cambia, vedere il cambiamento e vedere mentre ci muoviamo” (DD: 26). L’attenzione, cosı` come e` concepita da Zambrano, e` quindi arte epistemica raffinata, perche´ e` un movimento che si distende nel tempo, quel guardare le cose nel loro accadere e nello stesso tempo guardare noi che ci muoviamo nel tempo guardando le cose. Un’interpretazione analoga dell’attenzione e` quella fornita da Simone Weil, che con le sue riflessioni ci aiuta a comprendere la direzione di passivita` ricettiva resa possible dall’attenzione non orientata. L’attenzione orientata e` quella aggrappata ad un problema, e` un’interpretazione attiva che interpreta la ricerca della conoscenza secondo la concezione classica dell’impresa scientifica, ossia come l’andare a caccia di un risultato. Questa dedizione eccessiva ad ottenere qualcosa impedisce alla mente di vedere altro rispetto a cio` che cerca. L’attenzione non orientata, nel suo tenersi libera dalla tensione a cercare qualcosa di preciso, mantiene la mente aperta al reale. Se la prima ardisce a penetrare nei fenomeni, la seconda tende ad indietreggiare, 13 poiche´ sa che “non si fa nulla se prima non si e` indietreggiato” . L’indietreggiare non va, pero`, inteso come un allontanarsi dalle cose, dal luogo dove si puo` stare in presenza del reale, ma come un tenersi indietro rispetto alla tendenza imperativa del se´. L’indietreggiamento si attualizza, dunque, nel disattivare i propri attaccamenti e le proprie aspettative. Disattivare le aspettative non significa non avere uno scopo, perche´ tale condizione e` umanamente impossibile, ma cambiare la direzione dello scopo: dal mirare ad afferrare la realta` al lavorare su di se´ affinche´ qualcosa accada nella nostra profondita`. E` arrestando il proprio 14 io che “si diventa bilancia giusta” , ossia capaci di trovare l’ordine vero in cui mettere le cose cui dedicare attenzione. E` questa stretta connessione fra attenzione e capacita` di sopprimere il proprio io che fa dell’attenzione l’espressione della virtu` dell’umilta`, virtu` essenziale non solo sul piano 15 etico, ma anche nell’ordine dell’intelligenza . 13 14 15

Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 65. Ivi, p. 116. Ivi, p. 215.

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Riabilitare l’attenzione come modo d’indagine significa dare voce alla postura contemplativa propria della ragione umana, che e` propensione a prolungare lo sguardo sulle cose facendosi assorbire dal modo della loro presenza. Questa postura della mente e` analoga al gesto di una mano che si presenta aperta. Lo stare di fronte alla realta` “con occhi spalancati”, 16 quello in cui la mente per cogliere le cose si abbandona al loro apparire , non e` un modo difettivo di stare nel mondo, ma e` quella postura della mente che, proprio perche´ libera dai limiti che impone la circospezione della vita pratica, consente alla mente di essere adeguatamente responsiva rispetto al manifestarsi dei fenomeni. E` proprio dall’attenzione non orientata, ossia dal guardare alle cose libero da ogni tensione, che inizia il 17 filosofare come εωρεν . Difficile oggi dare voce alla disposizione contemplativa perche´ a prevalere e` una concezione ‘faber’, cioe` attivistica e manipolatoria, della ragione. E` la ragione dell’uomo affannato nell’azione, sempre diretto a qualcosa e mosso da qualcosa, agitato dalla frenesia e dalla diversione. L’attenzione aperta all’altro, quella che e` espressione dell’epistemologia dell’accoglienza, richiede, invece, una postura passiva della mente, quella in cui il soggetto lascia all’altro il modo e il tempo del suo venire alla presenza. Perche´ l’attenzione vera non e` un guardare intensamente come a voler penetrare l’oggetto; l’attenzione eccessiva, quella che pretende di entrare nelle cose interrompe “la comunicazione spontanea che si alimenta nella simpatia e che e` comprensione senza analisi” (DD: 32). Prestare attenzione e` tenere la mente aperta ad accogliere l’altro. Affinche´ sia apertura che accoglie fedelmente l’altro nel suo modo di apparire, la cognizione e` chiamata a sviluppare una postura passiva, quel18 l’essere “azione non-agente” che consiste nel disattivare ogni atto volon16 Edith Stein, Introduzione alla filosofia, Citta` Nuova, Roma 1998 (ed. or. Einfu¨hrung in die Philosophie. In Edith Steins Werke, vol. XIII, Herder, Freiburg 1991), p. 37. 17 Un’attenzione intensa e continuata al reale, che ha la forma della concentrazione esterna capace di cogliere i fatti e ad essi tenere legato il pensiero, e` fondamentale anche per la dimensione politica dell’esistenza, perche´ costringe il pensare a misurarsi con la realta`. Alla radice del vuoto di pensiero, che arendtianamente sta in relazione con l’indebolimento della riflessione etica, c’e` una distrazione diffusa, quella che si fa humus di un pensare superficiale segno che manca un’adeguata intelligenza sul reale. E` il valore politico, oltre che epistemico, della capacita` di attenzione che rende ragione dell’appello di Simone Weil (Attesa di Dio, Rusconi, Milano 1999 – ed. or. Attente de Dieu, Librairie Arthe`me Fayard, Paris 1969 –, p. 75) a considerare come compito primario dell’educazione quello di promuovere la disciplina dell’attenzione. E` nel tempo lungo che la disciplina dell’attenzione svela i guadagni cognitivi che rende possibile, primo fra tutti la coscienza dei limiti della ragione e quindi la necessita` dell’umilta` (ivi, p. 78). 18 Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 199.

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taristico, nel sospendere ogni tensione per lasciare la mente “disponibile 19 vuota e permeabile all’oggetto” . Al suo grado piu` elevato l’attenzione e` 20 come la preghiera , perche´ come il pregare anche il prestare un’attenzione intensa e intensiva al reale senza attaccamento alcuno e` affidarsi, affidarsi al dirsi delle cose, al manifestarsi dei fenomeni, al possibile venirci incontro dell’altro. E l’affidarsi implica una disposizione passiva: “l’attenzione e` uno sforzo, forse il piu` grande degli sforzi, ma uno sforzo 21 negativo” . La mente passiva e` quella che si consegna senza riserve alla verita` che cerca. Avere esperienza non e` solo questione di azione – come la cultura dell’homo faber fa credere – ma anche stare nella “passivita` del patire” (NM: 35). Il problema dell’epistemologia occidentale e` di non aver tenuto in conto la passivita`. L’imperativo di Zambrano – se ci e` concesso con lei parlare di imperativi – e`: “riscattare la passivita` risvegliandola” (B: 11). La passivita` c’e` gia`, e` parte costitutiva del nostro essere. Nella condizione umana convivono, infatti, gli opposti dell’attivita` e della passivita`, quella passivita` che e` patire la vita fino in fondo, patire l’istante che passa goccia a goccia senza che nulla si possa fare (UD: 179). Questo nostro trovarci passivi non e` qualcosa che va eluso esasperando il dinamismo dell’attivita`, soprattutto quella della ragione. Piuttosto va riscattato riscoprendo le possibilita` epistemiche implicite nello stare passivi. Che la passivita` sia tratto costitutivo della concezione che Zambrano ha del metodo e` attestato in Chiari del bosco, dove nel breve paragrafo intitolato “Metodo” si dice che avere un metodo significa stare nella luce e per stare nella luce il cuore deve abbandonarsi. La luce che rende possibile la conoscenza delle cose non e` un irradiare abbagliante, ma un rischiarare accogliente; e per arrivare ad abitare questo modo del conoscere non c’e` alcuna forza da esercitare, nessuna porta da abbattere. Il metodo si trova “senza sforzo, senza protezione” (CB: 43). La conoscenza e` possibile solo a quanti si affidano alla “passivita` della comprensione” (CB: 15). La passivita` e`, dunque, distensione, ossia uno stato di rilassatezza della mente. In questa interpretazione passiva della postura epistemica risalta immediata l’analogia con quello che si puo` definire il “principio di distensione” di Scheler, che il filosofo elabora dialogando con il concetto di conoscenza come abbandono passivo al mondo delle sensazioni di Berg19 20 21

Simone Weil, Attesa di Dio, cit., p. 80. Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 120. Simone Weil, Attesa di Dio, cit., p. 80.

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son. Secondo Scheler ci sono due modi di coltivare l’anima; la prima e` la via della tensione, che chiede di esercitare la capacita` di estraniazione cosciente dalle cose secondo la logica del controllo e del dominio; la seconda e` la via della distensione, che si attualizza nell’attegiamento rilassato22. Scheler concepiva l’essere in ricerca come il disporsi ad una maniera non-orientata di guardare le cose, nutrita dalla disposizione della non-resistenza. Proprio della fenomenologia e` l’andare in cerca dell’intuizione di essenza in cui le cose si offrono nella loro datita` originaria; ma mentre in Husserl la mente si sottopone ad un controllo metodico del suo procedere, in Scheler, per accedere alle cose, alla mente e` richiesto di essere capace di distensione, di disattivare qualsiasi atto volontaristico. Ad animare il pensiero non puo` essere la volonta` di dominio, che si esprime nel determinare e fissare la realta` in modo univoco, ma dovrebbe essere una forma di gratitudine che sa accogliere la pienezza dell’essere che si 23 disvela . E` con questa interpretazione passiva della ricerca della conoscenza che Zambrano si sente in piena sintonia. La distensione della mente non e` un torpore dove i confini tra se´ e le cose svaniscono in un’atmosfera nebulosa in cui dilegua ogni possibilita` di conoscenza razionale; la distensione e` espressione della piu` attiva tensione spirituale, quella che consente “la piu` intensa concentrazione dello spirito 24 sulla pura quiddita` e sull’essenza delle rappresentazioni” . Solo i tradizionalisti, pervicacemente attaccati all’epistemologia della scienza moderna, possono non cogliere le potenzialita` dell’“ideale conoscitivo mistico” in quanto esclude gli atti di prensione volontaristica sulle cose e coltiva in modo passivo la mente25. E`, invece, proprio la via mistica che interessa a Zambrano, specificatamente i “mistici della nascita”, i quali insegnano che per nascere e rinascere non occorre lotta ma distensione (CB: 25) e, insieme, quello sforzo negativo che consiste nell’eliminare, cancellare cio` che ingombra la mente. A caratterizzare l’epistemologia della modernita` e` la logica della prensione. Il metodo positivistico e` quello che cerca di esercitare una forma di controllo sulle cose: sulla natura, sugli altri, e anche sull’interiorita`. Anche la filosofia ha sempre chiesto di soggiogare il pensiero (B: 86). Invece la ragione materna chiede di disattivare la logica della prensione per essere capaci di distensione, che e` condizione essenziale dell’attuarsi 22 23 24 25

Max Scheler, Il valore della vita emotiva, cit., pp. 166-167. Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 96. Ivi, p. 99. Ivi, p. 98.

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Un metodo a-metodioo

della conoscenza come amore per le cose. Perche´ la disposizione amorosa autentica non si appropria dell’oggetto, ma e` un quieto stare presso di 26 esso . Allentare la prensione sulle cose consente il dilatarsi degli spazi e il differenziarsi dei tempi del conoscere, con l’effetto non solo di consentire il germinare del luogo dell’interiorita`, ma anche il rendere la mente piu` recettiva verso la realta`. In sintonia con Zambrano, nel suo appello ad attivare una forma di abbandono, ritroviamo Simone Weil, che preferisce concepire il pensare come un dismettere la logica della prensione sulle cose nella convinzione che sono gli atti cognitivi caratterizzati da una forma di rilassatezza, cioe` di non attaccamento al proprio io, che possono guidare alla comprensione 27 dell’altro . Nella distensione sciolta da ogni attaccamento la mente attua quella condizione che facilita l’incontro autentico con l’altro, perche´ lascia che l’altro venga alla presenza da se´, cioe` in fedelta` alla sua figura e secondo il suo ritmo. Essere nella distensione significa “lasciarsi ricondurre 28 a cio` che non e` un volere” , cioe` trattenersi dall’imporre le proprie condizioni sull’altro. Al fine di raggiungere questa condizione di quietezza della mente, che non appartiene al dominio della volonta`, non occorre mettersi insistentemente alla ricerca di tale condizione mentale, ma solo desiderare che accada: Desiderarlo veramente. Semplicemente desiderarlo, non tentare di realizzarlo. Pensarci solamente. Perche´ ogni tentativo in questo senso e` vano e si paga caro. Nel fare questo, tutto cio` che chiamo ‘io’ deve essere passivo. Mi 29 e` richiesta solo l’attenzione, quella attenzione cosı` piena che l’‘io’ sparisce .

Seguendo la logica della passivita` la distensione o quietezza della mente non e` qualcosa da cercare, e` piuttosto una disposizione della mente che si deve lasciare accadere; svuotare la mente significa acconsentire lo svuotarsi del se´. “Non si deve fare nulla, soltanto restare in attesa”: 30 attendere che l’altro si presenti da se´ . Affinche´ della realta` sia possibile un’intuizione d’essenza il pensiero dev’essere ‘vuoto e in attesa’, vuoto di ogni desiderio che anticipi l’oggetto e in attesa di quanto puo` venire alla 26

Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 42. Simone Weil, (1988), Quaderni. Volume terzo, cit., p. 131. 28 Martin Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1989 (ed. or. Gelassenheit, Gu¨nther Neske, Pfullingen 1959), p. 49. 29 Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 79. 30 Martin Heidegger, L’abbandono, cit., p. 50 27

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presenza. Quando il pensare si manifesta nella forma dell’attesa libera dalla tensione di volere, accade che l’altro trovi le condizioni per disvelarsi nel suo profilo originario. Saper attendere e` il tratto distintivo del pensare fenomenologico. Restare in attesa non e` aspettare, perche´ l’aspettare si prefigura gia` qualcosa, ossia “si pone gia` nell’ambito di un rappresentare e 31 del suo rappresentato” ; nell’attesa, invece, la mente si dispone a ricevere cio` che, imprevisto, viene alla presenza. Il restare in attesa e` un orientamento a vuoto, un’attenzione passivamente non orientata, ed e` proprio in questa apertura senza rappresentarsi nulla che all’altro e` lasciato il modo di rivelare-se´-da-se´. Quando sa stare in un’attesa passiva, libera da ogni desiderio di 32 prensione, significa che la mente e` capace di disattivare la volonta` , ossia di “volere non volere”. E` la mistica ad insegnare che la volonta` buona e` non averla (DD: 32). Non e` semplice comprendere il significato di questo imperativo epistemico, perche´ implica un paradosso. Volere che non ci sia volonta` non e` una battaglia contro se stessi, ma al contrario e` quella condizione di quietezza mentale in cui si lascia che ogni tensione abituale verso qualcosa si sciolga e con fiducia si sta in attesa del disvelarsi dell’altro. Sottolineo “con fiducia”, perche´ l’attesa del modo passivo di stare in ricerca non ha nulla a che fare con l’ansia di afferrare qualche risultato; si nutre invece di fiducia, fiducia nell’apparire dell’essere. E la fiducia sta in una relazione ricorsiva con l’amore per la realta`, con la capacita` di innamorarsi delle cose. La passivita` e`, dunque, un modo fondamentale dell’essere in ricerca. Essere passivi non e` un segno di minor grado di presenza, piuttosto indica un modo piu` discreto di situarsi nella realta`, quello che chiede di ritrarsi per lasciare che l’altro trovi il modo di rendersi presente in fedelta` alla sua visione e secondo il suo proprio ritmo. Nell’approccio manageriale e tecnicistico di concepire il fare ricerca, il ricercatore ha la responsabilita` di esercitare controllo sulla cosa, perche´ si fonda sul principio epistemico secondo il quale la possibilita` di guadagnare una conoscenza certa sarebbe direttamente proporzionale al grado di controllo esercitato sui fenomeni. Nel modo passivo di stare in ricerca la responsabilita` che viene richiesta e` quella di non alimentare la propria tendenza ad esercitare forme di

31

Martin Heidegger, L’abbandono, cit., p. 55. Edith Stein, Natura Persona Mistica, Citta` Nuova, Roma 1997 (testi originali in Edith Steins Werke, vol. VI, Welt und Person, Editions Nauwelaerts – Herder, Louvain-Freiburg 1962), p. 146. 32

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prensione, perche´ si tratta di lasciar-essere l’altro nel suo modo proprio di venire alla presenza33. Questo stare passivi non e`, dunque, un mero stare indifferente fra le cose, una forma di non essere, perche´ la passivita` cercata e` attiva. E` una passivita` agente (ST: 15), in questo senso ha un carattere positivo. La passivita` non e` mancanza di presenza attiva nel mondo, ma e` un modo piu` discreto di interpretare tale presenza, che si profila come l’essere massimanente ricettivi rispetto alla realta` dell’altro. E` questa la condizione necessaria per rendere operativa quella che si puo` definire epistemologia dell’accoglienza, della “morbida accoglienza” (CB: 25). Questa epistemologia e` strettamente connessa all’idea che il conoscere abbia a che fare con l’amore per le cose, con l’innamorarsi di esse, perche´ l’amore non e` possesso dell’altro ma accoglienza, e per accogliere l’altro la mente deve diventare passiva. sospendere il domandare Stare nella passivita` significa disattivare la tendenza a fare domande, ossia a cercare qualcosa di preciso: Sospendere la domanda che crediamo costitutiva dell’umano. La funesta domanda alla guida, alla presenza che si dilegua se la si incalza, alla propria anima asfissiata dal domandare della coscienza insorgente, alla propria mente cui non si lascia il tempo di concepire silenziosamente, oscuramente anche (CB: 12).

Ci sarebbe un’asfissia del domandare che toglie respiro alla mente ed espelle le cose dalla possibilita` di disvelarsi in fedelta` a se´. Il metodo autentico e` quello del non cercare, quello che lascia la mente in attesa silenziosa della verita`. Perche´ per Zambrano la verita` della vita non e` un oggetto inerte da conquistare, ma e` una cosa vivente che ci viene incontro chiedendo alla mente una disposizione ricettiva, che si traduce in accoglienza. Il fare troppe domande impedisce alla mente di respirare con le cose. Cercare la verita` e` come cercare la luce chiara nel fitto del bosco, ma il chiaro si rivela solo se non lo cerchi, solo se stai in attesa: 33

I frequenti riferimenti che in questa parte sono stati operati al pensiero di Heidegger trovano legittimazione nel fatto che si puo` rintracciare una sensibile analogia fra la postura quieta e distesa della ragione poetica di Zambrano e quella della ragione meditante di Heidegger, perche´ la ragione meditante e` quella che, come la ragione poetica, disattiva la logica dell’imposizione di rappresentazioni precostituite che costringono il conoscere dentro direzioni stabilite in anticipo e che costantemente si nutre della riflessione (Martin Heidegger, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1989 – ed. or. Gelassenheit, Gu¨nther Neske, Pfullingen 1959 –, p. 37).

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Non bisogna cercare. E` la lezione immediata dei chiari del bosco: non bisogna andare a cercarli, e nemmeno a cercare nulla da loro. Nulla di determinato, di prefigurato, di risaputo. E l’analogia del chiaro con il tempio puo` sviare l’attenzione (CB: 11).

Si esce dall’ombra del fitto dei rami e si entra nella radura chiara dove le cose si rendono visibili quando ci si lascia guidare dai chiarori di luce che attirano il nostro sguardo; ossia, il ricercatore esce dall’ombra dei saperi predefiniti e perviene ad una conoscenza originaria delle cose, quella non anticipata nel registro del nostro domandare, quando si fa guidare dai modi di conoscere che le cose stesse suggeriscono. “Non bisogna cercare (No hay que buscarlo) (...) Se non si cerca nulla l’offerta sara` imprevedibile, illimitata” (CB: 11 e 12). Il pensiero che non cerca e` un pensiero passivo, in attesa. L’incapacita` di entrare nella realta` e` in relazione con la tendenza del pensiero a concentrarsi affrettatamente su qualcosa. E` questo prendere una direzione anticipata che impedisce l’accesso alle cose. L’errore sta nel voler cercare, perche´ “i beni piu` 34 preziosi non devono essere cercati, ma attesi” . La verita` e` qualcosa che si deve intensamente desiderare senza permettersi di cercarla. L’essenziale e` qualcosa che non va conquistato, ma atteso e ricevuto. Mettere in questione la tendenza a fare domande non significa negare il valore dell’interrogare la realta`, perche´ da sempre e` la via che apre il pensiero. Il domandare, che ha la sua matrice generativa nel percepire problemi nel reale, e` l’aspetto piu` umano dell’uomo (UD: 30). Nonostante questa consustanzialita` del domandare con l’umano c’e`, tuttavia, un rischio di dismisura nella tensione a sollevare domande, e quando il porre questioni viene ad essere nell’ordine dell’eccessivo allora, anziche´ aprire squarci di luce, rischia di incrementare la percezione di problematicita` del reale al punto di sentirsi da essa sovrastati. Potrebbe allora il domandare eccessivo provocare uno strappo nell’anima, senza che si siano verificati quei guadagni di sapere che in certi casi possono rimarginare le ferite. Cio` che Zambrano precisamente critica e` quel sollevare domande cui segue il cercare una risposta senza essersi posti in ascolto dell’essere delle cose. E` un domandare autoreferenziale, tutto centrato sul soggetto che pone la domanda, da cui e` espulso l’altro come possibile soggetto della risposta. Quando si sta senza ascoltare il dirsi delle cose, queste appaiono secondo la forma che il nostro pensiero ad esse ha assegnato; il silenzio allora viene a cadere sulle cose che rimangono senza voce propria. Il 34

Simone Weil, Attesa di Dio, cit., p. 81.

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Un metodo a-metodioo

principio di fedelta` chiede che la mente attivi quello sguardo capace di acconsentire alla cosa a farsi presente; questo non accade quando il pensiero e` ostinatamente preso nel domandare che non lascia spazio all’ascoltare. C’e`, pero`, un interrogare impregnato di passivita`: e` l’interpellare l’altro che non prende forma in anticipo rispetto all’esperienza viva, ma emerge dallo stare in ascolto. Non si ha da fissare la mente su una domanda, ma tenere il pensiero sulla strada aperta dell’ascolto della domanda che l’altro solleva. Il tratto caratterizzante di questo interpellare passivo consiste nel lasciarsi interrogare dall’esperienza dell’altro; l’ascolto, il farsi ricettivi, viene prima della domanda. Poi, quando la domanda e` stata formulata, subito si dovrebbe lasciare spazio al silenzio del se´, cosı` da consentire di concepire silenziosamente la conoscenza. Il domandare che ha origine nella postura passiva e` quello che formula domande che “non 35 dipendono da niente che io ho e che io so” ed e` in quanto tali che si aprono all’altro e all’altro fanno posto. E quando riusciamo a fare posto all’altro nella nostra mente, allora si apre la dimensione della relazionalita` che e` costitutiva della condizione umana. In questo senso la pratica cognitiva della passivita`, che ci fa stare in ricerca senza domande, e` pratica essenziale al conoscere perche´ epistemologicamente fedele all’essenza ontologica della condizione umana. saper stare nel non sapere E` all’attenzione che si affida la mente impegnata nella ricerca di un sapere vero; ma affinche´ a tale sapere sia possibile attingere sarebbe necessaria una “insonnia dell’attenzione” (NM: 50), cosı` da mantenere quella presenza continuata che sola ci consentirebbe di vedere le cose da ogni lato. Occorre, invece, fare i conti con l’intermittenza dell’attenzione, in conseguenza della quale e` inevitabile che certe zone dell’essere rimangano nell’invisibile. A fronte della consapevolezza dell’opacita` del nostro essere allo sguardo della coscienza, si vorrebbe pervenire ad una visione chiara e distinta. Invece, ci sono zone destinate a rimanere oscure. Cercare la chiarezza a tutti i costi significa semplicemente scantonare le tenebre senza penetrarle. E` quanto Zambrano rimprovera al metodo cartesiano, ma anche a quello fenomenologico, perche´ accomunati dalla pretesa di ottenere dalla coscienza la massima chiarezza renderebbero ancora piu` pericolosa la vita umana (SA: 163). 35

Luisa Muraro, Il Dio delle donne, cit., p. 20.

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Certo Husserl sa che la realta` mantiene zone di mistero. Il fenomeno disvela l’essere, ma in esso non tutto l’essere si rivela. Per far fronte a questa insuperabilita` del mistero Husserl concepisce il principio di fedelta` come strutturato in due principi metodici: il principio di evidenza e il principio di trascendenza. Posto che ogni cosa ha un modo specifico di darsi a conoscere, nel senso che “ha le sue maniere di presentarsi ad uno sguardo capace di rappresentarlo, di vederlo, coglierlo nell’originale, 36 prima di ogni pensiero predicativo” , applicare il principio di evidenza 37 significa descrivere la cosa “soltanto nei limiti in cui essa si da`” . Il principio di evidenza chiede che si faccia ricerca soltanto nelle direzioni in cui le cose ci invitano a farlo, senza oltrepassare il limite dello stato 38 fenomenico . Essere fedeli al modo di mostrarsi delle cose, ossia attenersi al profilo che appare, e` una forma di lealta` che e` condizione per quella possibilita` di rigore che e` requisito essenziale per l’accesso ad una conoscenza vera. Ma se il profilo della cosa rivela la sua essenza, tuttavia non tutta l’essenza si rivela. Nell’apparire l’essere non si rende completamente trasparente al nostro sguardo, poiche´ ogni cosa ha un suo modo specifico di trascendere l’apparenza. Dal momento che ogni ente ha il suo modo di non apparire oltre che quello di apparire, o – come dice Zambrano – il fenomeno e` cio` in cui l’essere appare e allo stesso tempo l’apparenza lo nasconde (ST: 9), allora per cercare una conoscenza vera occorre applicare anche il “principio di trascendenza”, che consiste nell’andare “oltre cio` che di volta in volta e` dato in senso vero e proprio, oltre cio` che e` da 39 guardare e da cogliere direttamente” . Questo andare oltre l’evidenza, per risalire a cio` che non appare immediatamente, sembrerebbe contraddire il principio di fedelta` al fenomeno, ma questa contraddizione rischiosa non si verificherebbe perche´ il profilo nascosto della cosa e` suggerito da quello apparente. Mentre “il principio di evidenza” chiede di attenersi a cio` che appare, “il principio di trascendenza” chiede di seguire il profilo nascosto del fenomeno che appare nel modo suggerito dal profilo evidente. Impostare la ricerca in modo che l’atto cognitivo sia fedele alla cosa da indagare significa, dunque, lasciarsi guidare oltre le apparenze rimanendo, pero`, fedeli al profilo apparente. 36

Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, cit., p. 19. Ivi, pp. 50-51. 38 Edith Stein, Introduzione alla filosofia, cit., p. 46. 39 Edmund Husserl, L’idea della fenomenologia, Laterza, Roma-Bari 1992 (ed. or. Die Idee der Pha¨nomenologie, Husserliana, II, 1950), p. 64. 37

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Un metodo a-metodioo

Per ritenere epistemologicamente legittimo seguire il profilo nascosto delle cose occorre presupporre che la ricerca di chiarezza, cosı` come e` concepita per le evidenze, valga anche per le zone nascoste. Cosı` non e` per Zambrano, secondo la quale ci sono parti destinate a rimanere escluse dai discorsi chiari e distinti, vi sono cose che non possono essere dette, c’e` l’ineffabile, quello che non trova parole ne´ forma alcuna per essere espresso, il segno degli eventi piu` profondi ed intimi, che si definiscono . Per essi raramente si trova la parola e se la si trova e` attraverso il cammino dell’arte e della poesia (NM: 111).

Se di esse si vuol raggiungere qualche comprensione, e cio` avviene se si sa cambiare l’ordine del discorso, occorre innanzitutto accettare questo nostro essere destinati sempre ad una visione parziale e frammentata della realta`. Accettare, non mai forzare, il mistero irrisolvibile delle cose. Accettare di sentirsi nelle tenebre, senza quei chiarori di luce cui la mente aspira. Accettare la ferita dell’essere, quel sentirsi nella “notte del senso” che puo` anche togliere il respiro. Capita di sentirsi opachi a se stessi e cio` che piu` persiste nella opacita` e` il proprio sentire, e specificatamente il legame fra il sentire e i pensieri. Si vorrebbe inondare questo nostro essere opaco di luce, quella che impregna le cose facendole vivere. Prende come una frenesia, un’ansia non tacitabile di conoscenze chiare e distinte, ma piu` insistiamo piu` l’opacita` si fa spessa e la luce appare sporgersi solo la` fuori, senza penetrare nell’anima. Da imparare e` il saper accettare il nostro essere, solo accettando l’impossibilita` di divenire trasparenti al proprio sguardo puo` accadere che improvvisamente qualche chiarore si apra. Secondo Zambrano noi europei abbiamo perso la capacita` di vivere nell’insicurezza, invece dobbiamo imparare a stare nella mancanza di sapere fino a che non abbiamo elementi sufficienti per ritenere che siamo in presenza di qualcosa di vero (SA: 162). la radicalita` dello stare passivi L’originalita` della proposta di Zambrano sta in questo concepire il metodo come una continua sottrazione della presenza che domina le cose, per attivare una presenza discreta, passiva, in cui la postura non e` quella di penetrare la realta` ma di rimanere recettivi e responsivi alla cosa nel suo disvelarsi. E la radicalita` dello stare passivi e` tale che puo` definirsi elevata al quadrato. Il modo ordinario di concepire il metodo e` quello attivo, progettante, che investiga le cose secondo una procedura prestabilita. E` la concezione

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positivistica del metodo. Invece il metodo qui disegnato, quello che va in cerca della verita` dell’esperienza, chiede una postura radicalmente, o meglio doppiamente, passiva, perche´ non solo avere un metodo significa imparare a non cercare la verita` dell’essere delle cose: i chiarori nel bosco non hai da cercarli, se li cerchi tutto diventa piu` opaco, ma neppure il metodo `e cosa che si deve cercare, affermazione questa accettabile se s’intende il cercare nel suo significato ordinario come processo epistemico guidato da una precisa domanda. La ricerca del metodo dev’essere una ricerca non mirata, una ricerca passiva che si prefigura nella forma di un’attesa vigile dei segni che l’esperienza del conoscere ci rimanda, cosı` che il cammino si apra da se stesso (NM: 44). Quando si pensa alla ricerca, si pensa sempre ad un percorso prefigurato da una domanda, e questa domanda implica gia` una direzione dello sguardo, una direzione rettilinea. Andare alla ricerca di un metodo, seguendo le orme discorsive di Zambrano che esplicitano l’imperativo del non cercare, significa evitare ogni postura predeterminata, per stare nella dimensione dell’aperto che ricettivamente ascolta i segni dell’esperienza. Ogni movimento dell’essere, e dunque ogni movimento del pensare, e` guidato da un anelito, quello che ha la forma non del cercare qualcosa di preciso, ma dello stare in attesa di trovare quello che e` essenziale per essere. Andare alla ricerca di un metodo senza cercarlo, nel senso di evitare di cercare qualcosa di preciso, e` dunque stare radicalmente nella passivita` della postura ricettiva nei confronti dell’esperienza e, insieme, operare un continuo impoverimento del se´ in modo che la mente sia quanto piu` possibile aperta a cogliere gli indizi del metodo che va disegnandosi. Solo cosı` il metodo diventa quel cammino attraverso il quale l’essere umano puo` trovare qualcosa di cio` che gli manca per essere (NM: 47). accettare la vulnerabilita` Il metodo del disfare per stare nella passivita`, dove la mente diventa fluido trasparente all’essere, e` cosa difficile non solo da mettere in atto, ma anche da sopportare perche´ rende vulnerabili. La pratica del fare vuoto, del lavorare a continui spossessamenti, fa sentire vulnerabile, “ossia nudo dinnanzi agli elementi che mostrano tutta la loro forza” (B: 33). E questo autosentimento e` difficile da sopportare perche´ ci fa sentire mancanti di presenza, mancanti di esserci. Allora accade che ci si faccia prendere dalla “tentazione dell’esistenza” (B: 40), ossia di uscire dalla condizione di vulnerabilita` facendo posto all’io, che con le sue azioni viene a colonizzare lo spazio intorno. Ma questa smania di azione per agire continui riempimenti di se´ non e` essere, ma solo illusione di essere.

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Un metodo a-metodioo

La condizione umana e` paradossale: nella sua essenza e` mancanza d’essere e lo stare autenticamente nella propria condizione non e` lavorare a continui riempimenti dell’anima, ma consiste nel salvaguardare tale mancanza tenendoci liberi da certe smanie di impossessarsi delle cose che solo illusoriamente danno l’essere, mentre di fatto tolgono respiro. Il desiderio di possesso, proprio nel suo annullare l’altro, rende impossibile lo scambio relazionale spegnendo cosı` la generativita` dell’essere-con-altri. “La pienezza dell’essere puo` essere raggiunta solo in uno stato di totale carenza o di continua sete” (B: 66). Lavorare a continui riempimenti non fa essere perche´ nel pieno di se´ la cosa, l’altro, non trova spazio per il venire alla presenza nella sua alterita`; e` costretto a dileguarsi. Se si accetta il presupposto ontologico che concepisce l’essenza dell’essere umano in termini relazionali, nel senso che l’esistente pur nella sua singolarita` e` sempre plurale, allora venendo a mancare l’altro veniamo a mancare anche noi. Stare nella mancanza e` necessario per lasciare accadere l’essere, che nella sua essenza e` condivisione, vivere con altri. Ma stare in mancanza d’altro e` essenziale anche alla vita del pensiero, perche´ e` il sentirsi mancanti che nutre la passione per la ricerca della conoscenza. La vera perdita, dunque, non sta nell’essere vulnerabili, ma nel lavorare a sottrarsi a tale condizione, perche´ viene meno la possibilita` dell’incontro con l’altro, che chiede a me il saper patire la situazione di vulnerabilita` conseguente allo spossessamento. E` cosa necessaria saper patire “scintille di vulnerabilita` estrema”, perche´ senza il saper stare nella propria vulnerabilita` “l’immensita` non appare” (B: 39), ossia non viene a dischiudersi quello spazio intatto, senza confini, senza percorsi predefiniti, in cui l’altro sente di poter venire alla presenza in fedelta` a se´, nella sua unicita` e differenza. L’altro per disvelarsi e venire incontro ha bisogno di immensita`, intendendo per immensita` non uno spazio largo, eccessivo, di fronte al quale l’anima si spaura, ma e` l’aperto mancante di confini, di decisioni predate dove l’essere si troverebbe gia` vincolato entro forme definite. Il trarsi da parte dell’io, quello spossessarsi di ogni pretesa di esistenza, che solo e` possibile quando si sa accettare l’estrema vulnerabilita`, si traduce in una germinazione di immensita`. A rendere possibile questo saper stare nella vulnerabilita` estrema e` il sentimento della fiducia, fiducia che il morire a se stessi, il lasciarsi essere senza figura, in un modo “a stento accennato” (B: 42) sia apertura alla vita; fiducia che lo stare nudo di fronte al venire in presenza delle cose,

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dell’altro, non sia perdita di presenza, ma apertura ad un modo piu` intensivo di esserci, quel modo in cui la presenza si da` nell’assenza di se´. Aver fiducia, dunque, e` sentimento essenziale per respirare la vita. Ma per avere fiducia occorre a sua volta accettare la propria vulnerabilita`. Il saper accettare fa diventare l’anima calma e quieta. Solo quando si entra nella quiete si compie una trasformazione decisiva: “inizia una vita nuova” (CB: 64). Il metodo, quindi, proprio perche´ inteso come apertura al nuovo, richiede una trasformazione non solo del pensare ma anche del sentire. diventare metodo incarnato Questo metodo che fa respirare aria nuova e` possibile solo a chi “confida nella passivita` della comprensione” (CB: 15). Confidare nella passivita` significa accettare l’irrimediabile discontinuita` del processo conoscitivo in cambio dell’immediatezza della conoscenza passiva. Il metodo che noi conosciamo e` quello cartesiano; per Cartesio il metodo e` puro esercizio della mente che, esercitando il dubbio metodico, riuscira` a far acquisire conoscenze chiare e indubitabili. Col positivismo il metodo diventera` poi una serie di dispositivi d’indagine, la cui attendibilita` e` funzione del loro essere sottoposti a procedure di collaudo. Cosı` concepito il metodo si prefigura nella forma di una tecnica sempre oggettualmente disponibile quando si voglia iniziare una ricerca. Un oggetto cognitivo di cui disporre e poi da riporre nella cassetta degli attrezzi. Ma un metodo cosı` inteso non e` adeguato alle necessita` di quella ricerca che mira a guadagnare un’adeguata comprensione dell’esperienza, che ha per oggetto la vita umana quella impegnata nella domanda irrispondibile del “che fare”, o meglio che ha per oggetto quella pratica che e` guidata dall’intenzione di offrire esperienze capaci di alimentare nell’anima dell’altro la passione del domandarsi “che fare?”. Un tale oggetto sfugge ad ogni formalizzazione metodologica, si sottrae ad ogni canonizzazione. Occorre altro. Non solo occorre cercare un altro metodo, ma soprattutto che si lavori a riconcettualizzare il significato stesso di metodo. Passare dal concepire il metodo come qualcosa di cui si dispone (qualcosa che si ha) al pensarlo come qualcosa che si incarna (qualcosa che si `e). Apprendere un metodo richiede che si lavori su noi stessi per diventare noi stessi metodo. Non si tratta di incorporare strumenti epistemici oggettivamente disponibili, ma di lavorare nella nostra interiorita`. Cio` che importa della conoscenza e` quel processo di lavoro su di se´ che accade prima che

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Un metodo a-metodioo

la conoscenza abbia inizio. Cercare un metodo, allora, non e` costruire strumenti, ma lavorare su di se´ per rendersi capaci di cercare la verita` delle cose stando in attesa passiva dell’esperienza che ci viene incontro e consentirle cosı` di aprire radure sulle quali fermarsi a pensare. Penso al metodo come τχνη το β ου, la tecnica di dar forma etica ed estetica alla propria vita. Il metodo come tecnica del dar forma al proprio essere non e` un dispositivo che semplicemente si apprende con l’investimento delle sole capacita` intellettuali; il metodo che allarga e apre il tempo del camminare richiede un anelito: “l’anelito non di arrivare in qualche luogo, ma di trovare cio` che all’uomo manca per essere, affinche´ raggiunga la completezza” (NM: 47). Il metodo non e` allora qualcosa di cui si dispone, ma un evento profondo, un evento che accade nell’anima, non soltanto nella mente, qualcosa cui partecipa tutto l’essere, dunque anche il sentire. Il cuore, infatti, e` chiamato a sostenere la mente nella ricerca della verita`. Solo quando e` concepito come pratica su di se´ il metodo bagna la vita di trasparenza. La formazione della mente per l’apprendimento di questo metodo non puo` essere concepita dalla ragione tradizionale, ma richiede che la ragione si faccia poetica. La ragione poetica e` espressione di una mente che non impone dispositivi epistemici sull’essere dell’altro, metabolizzandolo entro procedure gia` date, ma lo accoglie nel rivelarsi suo proprio secondo il suo intimo respiro. Il gesto dell’accoglienza dell’essere dell’altro e` possibile perche´ la ragione poetica si fa muovere dall’amore per le cose e dal principio del rispetto. Non si deve, pero`, pensare che il farsi muovere dal sentire comporti una perdita di intelligenza sul reale, perche´ la ragione che si fa poesia non per questo rinuncia alla razionalita`, piuttosto agisce un modo differente di intenderla. Non si tratta di rinunciare al logos mathe¯matikos, ma di trovare quel linguaggio in cui numero e parola convergono in modo da riuscire a tradurre simbolicamente il ritmo vitale delle cose, il respiro intimo dell’altro. Non sara` scienza il prodotto della ragione poetica, ne´ pretende di diventarlo (A: 36), poiche´ l’esito cui aspira e` quella virtu` sapienziale che si configura come sapere dell’anima.

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4 Il metodo della ragione poetica

4.1. Stare col pensiero fra le cose Dove attingere per apprendere quel modo d’essere che consenta alla mente di entrare nella realta` lasciandosi innamorare delle cose e ad esse rimanere fedele cosı` da dar voce all’essere delle cose nello stesso modo in cui esse vorrebbero dirsi? Per Zambrano maestra di questo modo di essere 1 non puo` essere la filosofia, ma la poesia . La poesia nasce, come la conoscenza, dall’ammirazione, e non dalla violenza. Coloro che furono presi da ammirazione per le cose – per le – e che non vollero staccarsi da esse per andare a caccia delle essenze occulte, furono poeti (CGL: 123)2.

Zambrano vede nella filosofia un pensiero che da subito si e` allontanato dalla vita, “un genere di sguardo che ha ormai cessato di vedere le cose” (FP: 31). E` quello sguardo che ha origine nella caverna platonica; qui si racconta l’origine della filosofia, che inizia da un gesto di violenza con cui la mente recide il rapporto col mondo delle cose che sono

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Zambrano attribuisce ad Heidegger il merito di aver auspicato un ritorno al pensiero poetico e sostiene che se l’attenzione alla poesia ha preso corpo in un’epoca permeata dal pensiero calcolante cio` e` dovuto alla fama di cui godeva il filosofo che ha pronunciato questo auspicio, perche´ “le situazioni, per essenziali che siano, devono essere sostenute, appurate, da un protagonista che si presenti con caratteri di credibilita`” (B: 53). Ma la sua preferenza per la poesia come luogo generativo di un pensare vero trova origine nel pensiero di Miguel De Unamuno, il quale nel libro El sentimiento tra´gico de la vida mette in questione una certa filosofia, quella intesa come ricerca di una conoscenza razionale e oggettiva anziche´ coltivarla come ricerca di una luce sulla vita (SPPC: 76). Un’anima che senta non fame di conoscenza, ma sete di vita non puo` non attingere alla poesia. 2 Zambrano usa qui il termine apparenze ma poi precisa che l’apparenza non esiste, esistono le cose; c’e` bisogno di usare questa parola perche´ di fronte a coloro che le sdegnano una certa filosofia si e` adoperata per riabilitarle; ma “nessuno vede o ama le apparenze” (CGL: 123).

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Un metodo a-metodioo

dappresso, e con una torsione radicale si protende verso altri luoghi che non siano quelli del divenire, dove le cose dal nulla vengono e al nulla ritornano. Il filosofo platonico e` quello che prende commiato dal mondo dato ai sensi per accedere ad un mondo di sostanza differente in cui sarebbe possibile contemplare la verita`. La filosofia platonica, infatti, intende il pensare come un replicare il gesto di Parmenide, che si lascio` trasportare in alto, al di la` delle porte della notte e del giorno, per intraprendere quel cammino divino del pensare che e` estraneo al sentiero ordinario della mente umana, poiche´ la conduce verso la verita` profonda del sapere che ha per oggetto le cose che 3 sempre sono . Il suo e` un brusco distanziarsi dai fenomeni che si offrono per stanare cio` che non si da`, in quanto la realta` vera sarebbe quella che non ci fa dono della sua presenza. “E qui inizia l’affannoso cammino, lo sforzo metodico per catturare qualcosa che non abbiamo e di cui siamo talmente bisognosi da strapparci da cio` che abbiamo senza averlo cercato” (FP: 32). L’epistemologia platonica dell’ascensione alpinistica disegnata nel mito della caverna chiede al filosofo di interrompere bruscamente la relazione col mondo materiale per attingere al mondo imperituro delle idee; e da queste idee, che non conoscono l’usura del tempo e il legame riduttivo con uno spazio, attingere quei criteri a partire dai quali, e solo da quelli, sarebbe possibile disvelare la verita`. In questa ricerca di un pensare apollineo la parola e` presa dall’ossessione di spogliarsi della dimensione del sensibile, del suo essere respiro della materia vivente, ma cosı` si separa dalla “melodia dell’indicibile” (SPPC: 32) che il pensiero sperimenta quando sta radicato nel reale. E mentre il pensiero si esercita nella costruzione di un discorso generale ed astratto accade che la vita rimanga senza luce, senza voce. Perche´ il pensiero che si forma dopo aver reciso il legame con le zone piu` profonde dell’anima umana non ha l’energia necessaria per rischiarare l’esperienza, produce sistemi di idee che occupano spazio e assorbono energia invece di generare pensieri che la mente 4 respirerebbe . 3 Parmenide, Poema sulla natura. Framm. 1, tr. it. Biblioteca Universale Rizzoli RCS, Milano 1999, pp. 147-149. 4 Va precisato che non tutta la filosofia e` oggetto di critica radicale da parte di Zambrano. Se prende le distanze dalla filosofia platonica e aristotelica manifesta, invece, la sua ammirazione per quella filosofia che, senza lasciarsi irretire nelle ambizioni di un pensiero sistematico e che cerca il rigore a costo della rilevanza, si occupa delle questioni della vita per offrirsi come pensiero medicinale. Perche´ la ragion d’essere della filosofia sarebbe quella di coltivare pensieri che aiutano l’essere umano ad affrontare la sua condizione costitutivamente problematica. Punto luminoso di questo modo del filosofare e`,

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Il metodo della ragione poetioa

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Il metodo cartesiano non fa che sviluppare l’essenza violenta dell’epistemologia platonica della distrazione dal mondo materiale, poiche´ “in obbedienza ad un oscuro mandato” (A: 28) chiede di tacitare i sensi e lavorare nell’isolamento con la propria mente, o meglio con i simboli algebrici e geometrici che la mente elabora. L’epistemologia che si ispira alla filosofia cartesiana si fonda sul presupposto che la conoscenza scaturisca da una ragione purificata da ogni emozione, “incapace di patire ... separata e libera dalle proprie viscere” (CGL: 71). L’annichilimento del sentire, e con esso la perdita della vita ricettiva, e` concepito essere la condizione necessaria per l’accesso ad una conoscenza oggettiva. Ma la ragione che rinuncia ai sensi non puo` che provocare nella cognizione un vuoto di realta`. Un vuoto che non viene affatto colmato dalla matematizzazione del reale, soprattutto quando questa si profila ermetica ed inaccessibile. Soggetta ad una ragione geometrizzante e desensibilizzata, la natura non e` piu` physis, ossia materia vivente, cosa sacra che non puo` essere alterata nella sua piu` intima matrice generativa della vita, ma degenera in materialita` manipolabile da una ragione che non conosce altra tensione che quella di esercitare dominio sul reale (A: 34). “Perche´ la violenza, la fretta, il desiderio furioso del distacco?” (FP: 31), si chiede Zambrano; che cosa c’e` alla radice della pretesa di spossessarsi del mondo e con esso della totalita` dell’essere del soggetto conoscente? Sembra plausibile rispondere che cio` accade in conseguenza del fatto che il filosofo, che ha ingolfato il pensiero nell’ontologia della svalorizzazione del mondo della materia, vuol dimenticare il nostro appartenere al mondo della natura, al mondo del divenire, dove l’esistere e` cosa fragile ed incerta, e si affida completamente al suo desiderio di trascendenza. L’essere umano e` costitutivamente chiamato alla trascendenza, ma il rispondere a questa chiamata consente di pervenire alla realizzazione del proprio essere solo se viene agita a partire da un’accettazione dei limiti in cui sta la condizione umana, che e` quella di essere soggetta al tempo che passa e condizionata dai legami con le cose. Nella prospettiva platonica, invece, questo desiderio diventa smisurato e smisurante, proprio perche´

per Zambrano, Seneca, che ha saputo farsi mediatore tra la vita e il pensiero (S: 8). La ricerca che si occupa di mettere a punto teorie sulla formazione troverebbe nutrimento in questo tipo di filosofia interessata a coltivare una ragione che aiuti a trovare il proprio cammino nella vita.

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volendo sottrarsi alla corrente del tempo il filosofo lavora a recidere il rapporto primigenio con le cose, per poter situare il pensiero in un luogo non reale. All’origine di questo desiderio di un esclusivismo ontologico, che consisterebbe nell’essere enti dall’essenza spirituale, c’e` l’angoscia conseguente al non saper accettare la qualita` della condizione umana; e` per rendere sopportabile l’angoscia che si finge un mondo altro. Ma l’inganno non funziona. Accade, infatti, che colui che ha ideato l’iperuranio incorruttibile risulti avere la mente massimanente imprigionata nelle catene della condizione terrestre, fatta di carne e di tempo (DD: 31), proprio per non sapere accettare tale condizione, cioe` il nostro appartenere alla terra. Se la condizione umana e` quella di trovarsi a camminare alla continua ricerca di se´ essendo destinati a non trovare mai il luogo in cui la ricerca sia compiuta, ossia a non trovare quella verita` in cui ci si senta accolti definitivamente nel proprio essere, il sentiero tracciato da Platone da` invece l’illusione che il sapere certo, incontrovertibile, cioe` l’πιστ μη nel senso di un sapere che sta saldo sopra le cose, quello al di la` del tempo contingente della vita, sia accessibile alla mente. Ma la condizione umana e` quella di appartenere al mondo delle cose visibili e tangibili; negare questo nostro appartenere al mondo della concreta materialita` e ipotizzare che si possa noi accedere ad un mondo incorporeo rientra tra gli inganni della metafisica, che non vuol tenere conto del fatto che “il mondo delle apparenze precede qualsiasi regione il filosofo possa scegliere come pro5 pria ‘vera’ dimora” della vita della mente . Proprio perche´ nell’epistemologia dell’ascensione alpinistica il desiderio di trascendenza e` privato del rapporto con l’immanenza, il pensare non diventa un aprirsi all’ulteriore, ma uno spericolato sporgersi sull’abisso senza fondo del pensiero astratto. Ma la violenza e` doppia, perche´ poi il filosofo, dopo aver interrotto il legame con la realta` e aver cercato la verita` altrove, ritorna ad occuparsi del mondo ordinario pretendendo di applicare questa verita` unica, atemporale e acontestuale al mondo molteplice e mutevole della vita, dove gli enti sono molti, differenti gli uni dagli altri, legati ad un luogo preciso e con una loro storia singolare. Questa epistemologia e` doppiamente violenta proprio in quanto, oltre a provocare la derealizzazione del mondo della vita nel pensiero astratto, operando la negazione della singolarita` nell’universale, pretende di sottoporre la realta` a un principio d’ordine ad essa estraneo. 5

Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 104.

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A sottolineare questa doppia violenza sono sia Zambrano che Arendt. Per Arendt il fallimento della politica avrebbe le sue origini proprio in questa distorsione cognitiva che pretende di mettere ordine nella realta` mutevole ed imprevedibile, dove sempre ha inizio qualcosa di nuovo che in nessun modo puo` essere anticipato secondo una causalita` di tipo lineare, imponendo ad essa i criteri universali desunti dalle idee pure. Per Zambrano, attenta alla vita, col rimuovere il mondo finito e opaco delle apparenze per il cielo limpido e immobile delle idee eterne, il pensiero platonico rimuove le cose nella loro singolarita` e unicita`, la cui distinzione scompare nell’Essere: solo l’Essere e`. E insieme alle cose scompare l’essenza stessa della vita, cioe` la temporalita`, perche´ il pensiero che si occupa della verita` atemporale non sopporta la finitezza, il breve durare delle cose, che sono concepite strette nella morsa nullificante del venire dal nulla e al nulla ritornare, annichilite in quel divenire che non e` essere. La pretesa di illuminare il tempo della vita con verita` astratte e decorporeizzate e` di una tale violenza che non farebbe altro che mettere in fuga la vita. Nell’opporsi con radicalita` alla visione platonica, Arendt e Zambrano rivelano un pensiero contrassegnato dall’amore femminile per la realta`, per il mondo, che si esprime nel saper accettare il finito e nel saper ammirare il molteplice. E` la saggezza dello stare con lo sguardo affondato nella realta`, cosı` come insegna la ragazza tracia, che di fronte allo sguardo di Talete perso nel cielo sorride ironica, ricordando che solo il guardare a terra, fra le cose, fa trovare un cammino sicuro. Quando Zambrano istituisce una distinzione fra la filosofia che “si dirige verso l’essere che si cela dietro l’apparenza” e il poetare che “resta immerso nelle apparenze stesse” (FP: 34) in essa sento echeggiare la distinzione – questa interna allo stesso pensiero filosofico ma per questo non meno significativa – fra le filosofie oggettivanti e la fenomenologia, ossia fra una filosofia che, presa dentro il dualismo ontologico fra essere e apparire e la svalutazione axiologica del secondo rispetto al primo, sceglie di scantonare l’apparire per rivolgere la sua attenzione all’essere, e la fenomenologia che, smantellato l’antico dualismo ontologico, sceglie come il poeta di prestare attenzione al mondo delle apparenze, di aderire al mondo delle cose. Il fenomenologo, cosı` come il poeta, “aderisce alle apparenze seduttrici” (FP: 35). Ma l’operazione simbolica di Zambrano va oltre quella operata dalla fenomenologia, poiche´ distinguendo filosofia e poesia, chiede un superamento di tutta la filosofia che vede comunque irretita nella logica di costringere la conoscenza nelle ferree leggi del concetto. Solo un abban-

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dono radicale del linguaggio filosofico consentirebbe di aderire alle cose stesse mettendo in parola il rapporto poetico con le cose che si stabilisce quando si rimane attaccati “in modo errante” alla molteplicita` apparente (FP: 35). Che la verita` possa essere cercata adottando il metodo del pensare poetico e` cosa difficile da accettare nel contesto della cultura occidentale, perche´ la ricerca della verita` – concepita da una filosofia che intendeva accreditarsi nella forma discorsiva propria dell’indagine scientifica – e` sempre stata sottoposta ai criteri di certezza e di evidenza. Questi criteri, pero`, sono applicabili solo a quella conoscenza che produce la ricerca scientifica, mentre e` errato pretendere di applicarli a quella verita` che e` il sapere dell’anima, di cui va alla ricerca il pensare. Costringere il filosofare entro questi criteri significa adottare una misura inadeguata all’essenza del 6 pensare .

4.2. Con stupore ammirato La svolta epistemologica che ci e` richiesta consiste secondo Zambrano nel recuperare l’atto originario del pensiero, la capacita` di uno stupore ammirato delle cose. Secondo Zambrano all’inizio filosofia e poesia erano accomunate dalla stessa postura di fronte alla realta`, cioe` la capacita` di stupore: E cosı` vediamo gia` piu` chiaramente la condizione della filosofia: meraviglia, sı`, stupore di fronte all’immediatezza delle cose cui fa improvvisamente seguito uno strappo (FP: 32).

Sembra, pero`, una misinterpretazione quella che individua una stessa postura cognitiva all’origine sia del filosofare sia del poetare, perche´ lo stupore del filosofo platonico non si sorprende affatto della singolarita` di ogni evento e della peculiarita` di ogni cosa. Rimanendo in continuita` con la prospettiva parmenidea, lo stupore del filosofo e` ammirazione del cosmo, ossia dell’armonia invisibile che trascende ogni evento singolare: “Lo stupore di cui gode il filosofo non puo` mai concernere qualcosa di particolare, ma e` sempre suscitato da una totalita` che diversamente dalla 7 somma degli enti non e` mai manifesta” . 6

Martin Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, Adelphi, Milano 1995 (ed. or. Brief u¨ber den “Humanismus”, Klostermann, Frankfurt am Main 1976), pp. 33-34. 7 Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 234.

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Forse ad accomunare filosofia e poesia e` uno sbalordimento iniziale di fronte alle cose, quella condizione della mente che Zambrano definisce “lo strato piu` profondo e intimo dello stupore” (NM: 104). E quando si prova lo sbalordimento si puo` reagire in due modi diversi: o cercando di ridurre l’insolito a cio` che si conosce, e quindi immediatamente facendo agire il pensiero operativo, con l’effetto di cancellare lo sbalordimento e stare in una condizione di prensione sulle cose, oppure “accettando quel momento nel quale si e` vinti e portandolo all’estremo” (NM: 105), passivamente viverlo fino in fondo. Mentre la filosofia si riprende subito da questo sbalordimento e, presa dall’ποριν, ossia sentendosi perplessa, inizia quel percorso caratterizzato da un interrogare continuo la realta` per cercare di comprendere quel fondo che non e` immediatamente apparente, il poeta e` colui che sa trasformare lo sbalordimento nello αυμζειν, cioe` nello stupore ammirato. Il poeta e` quello che si lascia prendere dallo stupore di fronte alle cose, e lascia il suo sguardo rimanere irretito dalla foglia mentre cade e dall’acqua mentre scorre, senza sentire il desiderio di chiudere gli occhi del corpo per aprire quelli della mente cosı` da vedere l’idea della foglia e quella dell’acqua (FP: 32). La poesia e` il pensare “fedele alla cosa” (FP: 32), fedele “a cio` che offre la propria presenza e dona la propria figura”. Il poeta e` “innamorato delle cose” (FP: 34), ad esse aderisce e le segue attraverso il labirinto del tempo, del mutamento, senza poter rinunciare a nulla: ne´ a una creatura, ne´ a un istante della creatura stessa, ne´ a una particella dell’atmosfera che l’avvolge, ne´ a una sfumatura dell’ombra che getta o del profumo che emana, ne´ al fantasma che gia` in assenza suscita” (FP: 34).

Il poeta non penetra nella realta` (espressione ricorrente sia nella filosofia che nella scienza), ma accoglie le cose nel loro offrirsi. Il problema che si profila a questo punto del discorso consiste nel capire come agire epistemologicamente l’etica dell’accoglienza. Per accogliere occorre lavorare non sugli strumenti del pensiero, concettualizzazioni e procedure, ma lavorare su di se´ per rendere la mente capace di fare spazio al dato offerente. In questo la filosofia non sarebbe in grado di aiutarci, perche´, essendo caratterizzata dall’atteggiamento del “domandare perenne” (FP: 33), patirebbe un’asfissia del domandare. Il poeta, invece, non avvicina la cosa interrogandola, ma guardando ed ascoltando. Si potrebbe parlare di opposizione fra il metodo interrogante, che penetra le cose, e il metodo ascoltante dell’avvicinarsi alle cose facendosi guidare dal modo in cui esse si danno a conoscere. Accogliere e` anche il

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gesto epistemico della fenomenologia, o meglio l’etica dell’epistemologia fenomenologica, perche´ per il fenomenologo l’apparenza e` qualcosa di 8 donato e di offerto, e “un dono non ci si limita a riceverlo, lo si accoglie” . Ma le analogie finiscono qui. Husserl, rimanendo nel solco della filosofia, e` interessato a cercare qualcosa di stabile, su cui rifondare tutto il sapere; mira ad una filosofia rigorosa, e per questo non rinuncia ai canoni del discorso filosofico, invece la poesia non pretende di fondare nulla, semplicemente di dire il dirsi delle cose. Zambrano afferma addirittura che il poeta e` colui che non ha metodo, ne´ etica (FP: 39). Non ha metodo se s’intende per metodo il cercare qualcosa, ma un metodo l’ha: e` il metodo a-metodico del non cercare. Non ha un metodo fatto di regole; non e` interessato a cercare qualcosa di preciso, sta in una posizione ricettiva: “senza progettare tragitti, senza inciampi, ne´ contorsioni”, in questo senso il poeta non ha metodo (FP: 39). Il poeta ha il metodo del non cercare, dello stare in attesa.

4.3. La parola incarnata Proprio perche´ e` fedele alle cose, la poesia e` capace di insegnare la parola incarnata. “La legge della corporeita`, in questo pianeta, in questo modo di essere uomini, e` cio` che governa tutto. Tutto ha da farsi corpo, e la parola prima di tutto” (B: 50). La filosofia non ha obbedito a questo principio di realta`, perche´ ha cercato un linguaggio incorporeo, dematerializzato. Alla poesia, invece, e` stato assegnato il compito di “darci il corpo della parola” (B: 51). Affascinati dal pensiero astratto ci si lascia prendere da giochi linguistici che portano lontano dalle cose e non ci si avvede che, quando pretendiamo di misurare l’ombra col compasso, non facciamo che stendere un velo d’ombra sulle cose: Mentre l’ape costruisce, con essenza di campo e sole, io vado seminando verita` che nulla sono, vanita` al fondo del mio crogiuolo. Dal mare alla percezione, dalla percezione al concetto, dal concetto all’idea 8

Roberta De Monticelli, L’allegria della mente, cit., p. 58.

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– oh, che bella fatica – dall’idea al mare. E cominciare daccapo (Antonio Machado, Parabole)

Il pensiero poetante non ha nulla a che fare con l’astrazione, poiche´ gli e` proprio il cercare quelle parole che aderiscano al profilo essenziale di ciascuna cosa, al profilo dell’altro nella sua unicita`. L’adesione al pensare poetico si attualizza anche come disponibilita` a frequentare un dire che non sia quello concettuale, ma un dire evocativo, che procede per metafore ed immagini, animato dall’intenzione non di definire, ma di mostrare la realta`. Tutta l’opera di Zambrano e` percorsa dalla diffidenza nei confronti del concetto, perche´ la complessita` della vita sfugge e trascende le forme del pensiero concettuale. E` la vita stessa, nella ricchezza delle sue forme sempre cangianti in una processualita` non facilmente discernibile, a richiedere un processo cognitivo piu` fluido, e quindi piu` congeniale alla 9 qualita` del divenire dei fenomeni, di quello concettuale . Quando ci si affida al processo di concettualizzazione del reale si rischia di “riempirsi di sicurezze”, perche´ il concetto genera l’illusione di avere afferrato la realta`, autorizzando la mente a distrarsi da essa per operare solo con i prodotti cognitivi da essa elaborati. “Ci sentiamo liberi e padroni, e continuando cosı` a sostituire i concetti con la realta` possiamo impadronirci di tutto, ma questo tutto manchera` di ... realta`” (DD: 171). Quando la parola si materializza nella sola produzione di concetti e` come se costringesse la realta` dentro un recinto spesso e stretto. I concetti “funzionano come materia materiale: spessore, impenetrabilita`, sordita`” (B: 67). La parola che ha corpo, nel senso che ha realta`, e` quella che sa dire il palpito nel volo discontinuo della farfalla che taglia la compattezza dell’aria, e` quella che coglie l’essenza degli assolati voli di campo dell’ape (B: 51-52). E` quella che, attenta alla soggettivita` di ciascuno, ne dice fedelmente la sua unicita` e singolarita`, senza pretendere di riportare tutto ad un sapere generale e astratto. Decisiva e` a questo scopo l’arte della descrizione, che e` l’arte del prestare attenzione al singolo ente nella sua

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Nel testo che Zambrano definisce immortale La posizione dell’uomo nel cosmo, Scheler, commentando Bergson, parla della persistenza nella cognizione umana di differenti forme della coscienza che – esprimendoci con un linguaggio batesoniano – manifestebbero le molteplici forme della vita della mente che attraversa la natura vivente. Tali forme nel tempo sarebbero divenute nascoste all’intelletto calcolante, che si e` proposto come l’unica via di accesso alla realta` (Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 111). La possibilita` di accedere ad un’intuizione viva dell’essenza delle cose richiederebbe che le diverse facolta` della mente fossero risvegliate e riattivate.

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individualita` essenziale, senza ricondurre il suo essere a cause necessitanti o spinte teleologiche. La descrizione fedele alla cosa e` ispirata dall’etica del rispetto per il reale. Per essere capace di una parola incarnata occorre pensare con interezza senza lasciarsi prendere dalla ricerca di un’oggettivita` che pretende che noi si diventi soggetti senza corpo e senza emozioni. Cosı` di fatto ha preteso la filosofia che vorrebbe il soggetto non avesse un essere determinato come condizione per cercare la verita` dell’Essere. L’Essere senza soggetto (B: 56) non si rivelerebbe ad un ente denso della sua soggettivita`. Per questo il pensatore “Non puo` essere sacerdote, poeta, saggio, legislatore, perche´ non puo` essere ne´ questo ne´ quello” (B: 54). Ma se la verita` che si va cercando non e` quella razionale e oggettiva nutrita dalla fame di conoscenza, ma la verita` che illumina la vita, ossia quella che nasce dalla sete di vivere, e dunque deve rischiarare il mio cammino qui ed ora, non puo` essere cercata altrove da un soggetto che pretende di aver perso il radicamento nell’esperienza cosı` come si da` alla coscienza quando e` attenta al divenire alle cose. La ricerca del sapere dell’anima non chiede al soggetto di cancellare la sua presenza, occultando la sua unicita` e singolarita`, ma di pensare a partire da se´. Il sapere vero non e` un sapere diafano e neutro, ma un sapere che si porta appresso tutto il sapore dell’esperienza soggettiva, e` dunque un pensare che si nutre di contingenza. Il pensare a partire da se´ e` il pensare che muove dall’esperienza, cioe` dal vissuto portato sotto la luce del pensiero. Questo pensare intensivamente la contingenza, che e` attenzione a cio` che si vive concretamente, ai sentimenti e alle contraddizioni vissute in prima persona, ha una ripercussione materiale sul senso dell’essere poiche´ apre l’orizzonte del rinascere. E` la pratica del partire da se´ che consente di rinnovare la propria 10 nascita .

4.4. Perdersi fra le cose per guadagnare il reale Mentre leggo le pagine dove Zambrano parla dell’innamorarsi delle cose mi accade di pensare al concetto di “distrazione” scandagliato da Agostino 10

Luisa Muraro, Partire da se´ e non farsi trovare, e Chiara Zamboni, Il materialismo dell’anima, entrambi in Diotima, La sapienza a partire da se´, Liguori, Napoli 1996, rispettivamente alle pp. 5-21 e pp. 154-170.

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nelle Confessioni. La curiosita`, che si ammanta del nome di conoscenza e scienza, e` definita da Agostino una tentazione avida e vana: Siccome fa parte dell’impulso alla conoscenza e gli occhi sono fra i sensi lo strumento principale della conoscenza, la parola divina la definisce ‘passione degli occhi’11.

Facile essere d’accordo con Agostino quando mette in evidenza il pericolo rappresentato dalla tendenza alla distrazione, che consiste nel lasciare la mente farsi catturare da “innumerevoli minuzie irrilevanti che 12 solleticano la nostra curiosita` ogni giorno” . Distrarsi e` allontanarsi dalla ricerca della verita`, tacitare l’anelito al sapere dell’anima. Ma poi e` difficile essere con lui d’accordo quando considera distrazione la spinta a “esplorare i fenomeni della natura fuori di noi”, atteggiamento conoscitivo da lui valutato negativamente perche´ ritiene che “a nulla giova conoscere”. Per noi, moderni o postmoderni che vogliamo definirci, il conoscere 13 non puo` certo essere uno dei rami della mente da tagliare . Ma non meno problematico e` considerare una forma della tentazione distraente – quella che smarrisce la mente tra la folla di minuzie e di dettagli vacui di cui il cuore tende a farsi ricettacolo – anche quell’attenzione alle cose che lega il pensiero ai fatti circostanti della vita. Per questo non si puo` non rimanere sorpresi quando Agostino considera un distrarsi vano prestare attenzione ai fenomeni della vita circostante, quel “guardare una lucertola intenta a catturare mosche, o un ragno che avvolge nelle sue 14 reti quelle che vi siano incappate” . Questo stato della mente che definisce dispersione nel molteplice e` per Agostino sintomo del desiderio di scantonare quel pensare meditante che, portandosi nel profondo dell’anima, continuamente attizza la consapevolezza della fragilita` della condizione umana. Si tende a disperdere l’attenzione sulla molteplicita` delle apparenze che animano il mondo esterno per non stare col pensiero presso quelle cose di fronte alle quali il cuore si spaura. Ma sono davvero “pensieri futilissimi” quelli che si generano dall’incontro appassionato con le cose? Allora quel perdersi dello sguardo fra le cose proprio del poeta e` da considerarsi uno smarrirsi dell’anima? Stare per un tempo indefinito ad osservare un limone che languido lascia

11 12 13 14

Agostino, Confessioni, Libro X, 35.54. Ivi, 35.56. Ivi, 35.56. Ivi, 35.57.

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sospeso un ramo scolorito o polveroso (Machado) e` davvero uno smarrirsi della mente? Non si puo` non essere interessati alla conoscenza del mondo, non impegnarsi ad affinare le proprie competenze tecniche; e` una questione di sopravvivenza, ma anche di piacere, il piacere del reale. Il problema consiste piuttosto nel trovare una misura che orienti nel coltivare le varie facolta` della mente. Zambrano aiuta a fare luce. La curiosita` che allontana la mente dalla ricerca della verita` non e` il pensiero legato alle cose, ma piuttosto un rapportarsi alle cose stando in superficie, in cui si lascia inondare la mente da conoscenze non essenziali. E` una sorta di pattinaggio mentale. Quando, invece, il pensare che si lascia catturare dal mondo circostante non e` un mero divagare, bensı` attenzione all’essere delle cose, allora il pensiero che si innamora di una forma di vita, della foglia mentre trema o dell’acqua mentre scorre, e` nutrimento di realta` per la mente. La tendenza ad abbandonare il mondo per cercare altrove la verita` e` una tentazione costante nella nostra cultura. Se Platone va in cerca del cielo limpido delle idee eterne, e quindi concepisce il conoscere come un uscire da se´ e ascendere verticalmente verso l’altrove, la tradizione della formazione spirituale di ispirazione cristiana pensa alla cura dell’anima come ad un movimento del soggetto che rivolto verso di se´ penetra nelle piu` intime profondita` di se stesso; conoscere e` andare verso il centro trasparente dell’anima in cui trovare la vera vita. Edith Stein parla di un conoscere che sboccia verso l’interno, verso quella profondita` che e` l’anima. Solo quando il soggetto accede a questo profondo interno arriva al “fondamento del suo essere, dove e` veramente di casa e dove deve stare (...) E se vive a partire da questa profondita`, vive una vita piena e 15 raggiunge l’apice del proprio essere” . Per Zambrano questo profondo interno ove trovare il proprio essere e` nel mondo, fra le cose, ed e` entrando nella realta` con la mente e con il cuore che troviamo noi stessi (CGL: 54). La sua e` un’anima cosmica, che si nutre della materia del mondo (SA: cap. 1). Si puo` parlare di “materiali16 smo dell’anima” per indicare il bisogno vitale dell’anima, di quell’invisibile che noi siamo, di nutrirsi di forme e figure. Se per Agostino la passione degli occhi di guardare le cose e` una tentazione distraente, per 15

Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 35. A coniare l’espressione “materialismo dell’anima” e` stata Chiara Zamboni per indicare la ricerca di senso che avviene nella concretezza della vita (Id., Il materialismo dell’anima, in Diotima, La sapienza del partire da se´, cit., pp. 155-170, in part. p. 159), perche´ quella cosa immateriale che e` l’anima, di cui non sappiamo forma e figura, si nutre di cose concrete e visibili. 16

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Zambrano e` una tentazione la vita interiore intesa come un sentire e pensare chiuso nei confini dell’io. Lasciare che la propria attenzione s’innamori delle cose non vuol dire smarrire la cognizione nella molteplicita` degli enti, ma attivare quell’attenzione concentrata sull’altro che e` come lo stupore che accende lo sguardo del bambino, quella meraviglia ammirata che e` matrice originaria del pensare che va in cerca di verita` capaci di illuminare l’esperienza. E` l’attenzione allocentrica, ossia quel guardare radicalmente delocalizzato sull’altro di cui e` capace solo chi sa spogliarsi del proprio se´, liberarsi di certi pensieri futilissimi, e che sa tenere l’anima preservata dal rischio che penetri in essa qualcosa che leda la sua vita, che ostacoli il suo libero respirare. Il metodo cartesiano, invece, “trovato il punto d’innesto della ragione nella vita”, ha subito liberato di questo legame la ragione. Il soggetto cartesiano trova l’evidenza su cui fondare la conoscenza nella sua solitudine metafisica “lontano da tutte le cose” (CGL: 81), scisso dal mondo e dunque anche dalla pienezza dell’essere nel mondo. Per Zambrano la via del pensare si da` inevitabilmente nel fitto bosco della vita; e` solo la`, fra le cose che divengono, fra la molteplicita` che fiorisce nella temporalita`, che all’essere umano e` possibile esercitare la ragione vitale necessaria alla ricerca della verita`. Solo accettando di mischiare la mente e il cuore al divenire delle cose si puo` sperare in qualche radura chiara dove le cose, accarezzate da una luce aurorale, parlano all’anima. Cosı` com’e` pericoloso aspirare a soggiornare nel cielo limpido delle idee eterne, altrettanto rischioso e` cercare la conoscenza vera nell’isolamento del proprio io, quando ci si lascia prendere “dall’ansia sempre piu` frenetica di cercare l’originalita` del mondo interiore” dove si rischiano gli “abissi allucinatori” (CGL: 83). Come insegnano i mistici l’anima in solitudine non dev’essere altro che una fase transitoria del cammino verso la luce, una fase in cui continua il lavoro su di se´ fatto di pratiche di continuo e radicale svuotamento da ogni attaccamento: La solitudine, come tutte le dimore dei mistici, era una tappa del cammino. La sua differenza con gli ‘stati’ – quegli stati d’animo abusati dal postromanticismo – consiste nel fatto che sono reali, che trasformano realmente l’anima. Le tappe intermedie di questo cammino non consistono in un mero attraversamento, ma in successive e violentissime trasformazioni (CGL: 80).

La via mistica di Zambrano e` la via di un’anima materiale, un’anima di carne trasparente che anche quando raggiunge la conoscenza chiara lo fa portandosi appresso il sapore delle cose della terra:

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Come un passero che si fa nido nell’aria ma che e` uscito dalla terra bruna e che e` bruno come essa, fatto, infine, della sua stessa sostanza. E cosı`, quando canta, per quanto liberamente lo faccia, e` come se la terra stessa cantasse; come se la terra stessa fosse riuscita a disfarsi del suo peso e della gravita` che lo trattiene (CGL: 110).

Il compito epistemico, dunque, per chi intraprende il cammino della ricerca di un sapere vitale non e` quello di recidere il legame con le cose, ma piuttosto di trovare quel sentiero che porta all’incontro con le cose stesse. Un incontro che genera vita e nutre l’anima, ma solo, e solo se, prima si e` lavorato sull’anima per spogliarla di ogni attaccamento, di ogni tensione all’atto volontaristico. Solo allora “si gusta la piu` recondita realta` delle cose” (CGL: 118). La mente convertita alla ricerca della verita` non e` quella che intraprende il lavoro del conoscere con un metodo prestabilito, sapendo gia` a cosa mira, come accade nel metodo sperimentale, ma e` l’anima che ha saputo attraversare la fatica che comporta il farsi trovare svuotata tra le cose nella loro intensa presenza: le montagne, le valli solitarie e boscose, le isole strane, i fiumi sonori, il soffio delle aure amorose. La quieta notte apertasi al levarsi dell’aurora, la musica taciuta, la solitudine sonora (CGL: 118-119).

L’anima svuotata del troppo pieno di se´ e` quella che sola puo` accogliere la cosa. E nell’accogliere la realta` si offre alla conoscenza. Il problema, dunque, non e` quello di sospendere il rapporto con le cose, ma di trovare un accesso vero, cosa che non succede al filosofo quando si allontana dal mondo alleggerendosi delle cose ingombranti, come sono le passioni e le preoccupazioni del quotidiano. Allora, arendtianamente, non trova il mondo, ma incontra solo se stesso. La fame di verita` e` “fame di presenza di figure reali, letteralmente ”, e` questo desiderio di realta` che la distingue dalla semplice fame di sapere scientifico (CGL: 121). Non si tratta di attrezzarsi di teorie, ma di lavorare nella nostra mente affinche´ la conoscenza si realizzi.

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5 Coltivare sentimenti amorosi e positivi

Il nostro e` un tempo contrassegnato da un aumento esponenziale del sapere scientifico e del progresso tecnologico. E` un tempo pieno di conoscenze e di tecniche, ma povero, troppo povero, delle altre forme di conoscenza, quelle forme attive di conoscenza che nascono dal desiderio di un sapere adeguato della vita del cuore (SA: 55). La nostra condizione di esseri mancanti di essere, dal momento che l’essere e` presente solo come esigenza, come anelito a realizzarsi, rende necessario andare in cerca di un sapere del cuore, che si occupi di comprendere il sentire originario da cui dipende ritmo e direzione dell’esperienza. E` questa, suggerita da Zambrano, una direzione di senso fondamentale: mettere al centro il sentire “perche´ vivere umanamente dev’essere un trarre alla luce il sentire, principio oscuro e confuso, un portare alla luce l’intelligenza” (DD: 95). La vita del cuore e` essenziale per condurre un’esistenza pienamente umana. Se, infatti, il cuore cessa di far sentire la sua voce anche un solo minuto, la persona patisce quel vuoto di capacita` di percezione del valore delle cose che e` all’origine delle azioni non buone, non giuste, quelle contrarie alla vita. Quando si avverte il silenzio del cuore e` necessario essere capaci della passivita` piu` radicale, quella in cui ci si ritira dall’azione e, disattivando ogni tensione alla presenza operativa, si attende che il cuore torni ad ispirare l’agire. Una cultura che s’interpreta nella forma del coltivare la vita in vista del suo massimo fiorire non puo` allora evitare di coltivare la vita del cuore affinche´ con continuita` ispiri le scelte della mente. Il sentire non e` la parte irrazionale dell’anima; il sentire genera un ordine del cuore che e` parte essenziale del sapere di cui l’essere umano ha bisogno per fare della sua vita un cammino. “Il sentire risveglia, ravviva, 1 ed e` fuoco rianimato dal capire” (B: 94) . 1

Nel suo assegnare una primarieta` al sentire si puo` ipotizzare aver giocato un ruolo importante il pensiero heideggeriano, ma basilare e` stata l’influenza esercitata dal pensiero di Miguel de Unamuno. Per il filosofo spagnolo l’essere umano, anziche´ “essere razionale”,

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Un metodo a-metodioo

E` fenomenologicamente evidente che l’essere umano sempre si trova in una situazione emotiva; questo trovarsi sempre in una tonalizzazione emotiva e` heideggerianamente inteso come un modo cooriginariamente costitutivo dell’esserci. Mentre le altre funzioni psichiche sono qualcosa che si puo` dire di possedere, il sentire e` qualcosa che noi siamo. Proprio perche´ il sentire e` la condizione esistenziale fondamentale, quella cioe` che ci costituisce nel nostro essere, esso rappresenta il segno di veridicita`, la fonte di una “verita` viva: la fonte ultima di legittimita` di quanto l’uomo dice, fa, pensa” (SP: 65). Se si assume che l’altro esistenziale fondamentale consiste nella ricerca 2 della comprensione dell’esserci , allora cio` che deve innanzitutto divenire oggetto di comprensione e` il sentire. Avere comprensione del sentire acquisisce, quindi, la qualita` di un imperativo etico fondamentale. Se si arrivasse al punto in cui attraverso la riflessione si attuasse una comprensione del sentire allora secondo Zambrano si realizzerebbe la condizione ontologica, aristotelicamente intesa, in cui il pensare e` vita. Il modo della conoscenza cui aspira Zambrano e` quella della ragione poetica, e la ragione poetica e` quella in cui pensare e sentire stanno insieme. Perche´ la comprensione non e` possibile che accada se il sentire non accompagna il capire; “colui che cerca la conoscenza, [che] semplicemente e` colui che non abbandona, che non sospende, il sentire originario” (B: 64). Sul sentire per molto tempo ha pesato, invece, una concezione negativa. Sotto il peso del razionalismo, che ha confinato il sentire a mera soggettivita`, il pensiero occidentale ha perseguito la ricerca di una scissione tra conoscere e sentire, perche´, cartesianamente, il sentire inquinerebbe le procedure razionali della mente, ossia impedirebbe il verificarsi di quel rigore necessario alla costruzione di un sapere ‘oggettivamente’ fondato. Cio` si e` verificato senza che ci si rendesse conto che forse “per un pensiero che vuol essere rigoroso e` il peggiore degli inganni credere di 3 potersi, o addirittura dovere, separare dall’umano sentire” . La ricerca dovrebbe essere definito come “animale affettivo o sentimentale”, poiche´ nell’esistenza il sentire gioca un ruolo ancora piu` fondamentale del conoscere (Miguel de Unamuno, Il sentimento tragico della vita, Piemme, Casale Monferrato 2004 – ed. or. Del sentimento tra´gico de la vida en los hombres y en los pueblos, [1913], Alianza Editorial, Madrid 1986 – p. 48). Sarebbe dal sentire che nascono le idee, e non viceversa, anche se non si puo` negare che poi le idee agiscono di riflesso sul sentire (ivi, p. 60). Di Unamuno Zambrano coglie in particolare la tesi secondo la quale ci sarebbero due modi differenti di pensare: uno intellettualistico, ossia “unicamente col cervello”, e un altro “con tutto il corpo e tutta l’anima, ..., col cuore”, e sarebbe il secondo il solo pensare capace di comprensione della vita (ivi, p. 58). 2 Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 171. 3 Luisa Muraro, Il Dio delle donne, cit., p. 146.

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Coltivare sentimenti amorosi e positivi

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della impassibilita`, concepita come condizione indispensabile all’esercizio della conoscenza razionale, impedisce che la ragione sia avvertita dai sentimenti. Invece la gioia o il dolore che si avverte nel vivere certe circostanze sono avvenimenti che aiutano a trovare la giusta direzione dei movimenti dell’essere. Quando, invece, il cuore si chiude in un impenetrabile silenzio, lasciando sole le operazioni della mente, queste, abbandonate a se stesse, senza il sostegno del sentire, facilmente perdono la giusta direzione, poiche´ tendono ad assumere una forma imperativa e giudicante. Ogni impresa conoscitiva richiede una conversione del cuore (CGL: 53). Quando ad esempio la mente affronta l’esperienza del fare vuoto, del disfare e stare passiva, esperisce quel momento del cominciamento assoluto che accade quando tra la domanda e la risposta interviene il niente di se´, in quel momento solo un “cuore fermo” puo` sostenere lo sforzo: “Senza l’assistenza del cuore la persona non e` mai del tutto presente” (NM: 114). L’unita` della mente e del cuore sta alla base di tutti quei movimenti del pensiero che attingono alla conoscenza vera, quella che e` condizione della scoperta del metodo. Sentire e pensare dovrebbero andare insieme. E il rapporto tra sentire e capire e` quello in cui il sentire precede il capire e poi prosegue illuminato dal capire. E`, dunque, la ragione poetica un pensare emozionato o un sentire pensoso. Per autorizzare il sentire nel bel mezzo della ricerca della conoscenza occorre, pero`, operare una torsione concettuale radicale rispetto alla modernita`, che aveva svalutato la parte affettiva della mente considerandola fattore inquinante il processo cognitivo. E il riunirli richiede che l’anima sia capace di percepire la “fiducia nella non irrazionalita` del sentire” (B: 94). Una parte consistente delle riflessioni piu` recenti nel campo della filosofia morale individua nei sentimenti una componente razionale, quella che aiuta a rischiarare la situazione opaca facendo sentire alla mente la giusta direzione da prendere. Questa valutazione positiva del sentire, come implicante una direzione di intelligenza sul reale, era gia` parte della sapienza antica. L’apostolo Paolo parla degli “occhi del cuore” (Efesini, 1, 1-18) ed e` ad un sentimento, quello dell’amore, che attribuisce la capacita` di comprendere la profondita` delle cose (Efesini, 1, 3-18). La sapienza ebraica, in cui il cuore riceve grande attenzione, per dire l’atto cognitivo del riflettere usa l’espressione: “pensare in cuor mio”. Segno che nella Bibbia non c’e` opposizione tra le ragioni della mente e le ragioni del cuore, Qohelet dice di consacrare il suo cuore alla ricerca della sapienza (Il Libro dell’Ecclesiaste).

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Un metodo a-metodioo

Percorrere una nuova via, come quella richiesta dalla ragione poetica, che chiede di camminare al di fuori dei sentieri abituali, significa avventurarsi in territori sconosciuti senza sicuri e collaudati appoggi concettuali; significa arrischiare. E per arrischiare l’inedito occorre saper nutrire il sentimento della fiducia, quello che fa sı` che un presupposto inverificabile – come quello che considera le emozioni fenomeni non irrazionali dell’anima, ma ragionamenti del cuore – sia assunto come punto di partenza cui si rimette il proprio pensare.

5.1. Comprendere il sentire Sede del sentire e` il cuore, e la prima cosa che ha da fare il cuore e` conoscersi. Il cuore “non potra` essere libero senza conoscersi” (CB: 83) e nessuna quiete interiore e` possibile se non si impara a comprendere la vita del cuore. Poiche´ il cuore e` pieno di sentimenti che lo tengono in continuo movimento, per non diventare schiavi del tumulto interiore occorre impa4 rare la disciplina del dedicare tempo all’analisi della propria vita . La vera riflessione e` quella del cuore che dialoga con se stesso per conoscere le acque del sentire che lo inondano. Non c’e` vita che si trasformi in cammino se, oltre ad inoltrarsi nel mondo, il cuore non si avventura anche lungo i sentieri della vita interiore. Solo conoscendosi il cuore puo` dare frequenza e ritmo alla vita che lo attraversa. Il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa diventa, dunque, comprensione del sentire, e la comprensione trasforma la condizione dell’essere portati dai sentimenti in un andare nel tempo vivificato da un sentire che illumina la vita. Il difficile della comprensione che ha per oggetto i vissuti emotivi consiste nell’arrivare a “capire cio` che si sente senza annullarlo, senza cessare di sentirlo” (DD: 96). Rischio questo facile da correre, quando si pretende di circoscriverli in un concetto, perche´ la vita dell’anima, di cui i sentimenti sono l’essenza, sono quanto di piu` ribelle alla definizione. Affinche´ una cosa possa essere definita, di essa occorre poter vedere distintamente i confini; mentre i sentimenti, proprio in quanto avvolgono e inondano la nostra anima, non possono essere chiaramente delimitati. L’intelligenza capace della comprensione della vita emozionale, che non non dev’essere inibente ma vivificante, non puo` essere allora la ragione analitica, bensı` l’intelligenza del cuore. La questione che, pertanto, si profila come decisiva consiste nel capire 4

Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 47.

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come si attualizza questo tipo di intelligenza. Provo ad entrare nella questione a partire dalla fenomenologia, secondo la quale avere intelligenza di una cosa e` cogliere di essa l’essenza, fatto questo che accadrebbe praticando l’esercizio cognitivo della descrizione. La descrizione, ossia il nominare l’accadere del fenomeno cosı` come appare, e` un modo discreto di accostarsi al reale; quando poi, fenomenologicamente, e` mosso dal principio di fedelta` all’apparire del fenomeno, che impone di attenersi a quelle parole e solo a quelle che dicono il quid dell’esperienza, allora si puo` ipotizzare che la descrizione consenta di cogliere, se non l’essenza, almeno qualche frammento dell’esperienza del sentire senza snaturarlo. Che la descrizione del sentire sia una disciplina difficile da praticare costituisce una evidenza innegabile, perche´ il sentire e` materia sfuggente, che di fronte alla riflessione tende a sciogliersi come neve al sole. I sentimenti “sono la cosa piu` viva della nostra vita, sono anche la piu` inafferrabile, la piu` pronta a sfumare e a lasciarci una specie di vuoto palpitante quando pretendiamo di catturarli“ (SP: 65). Proprio per questo secondo Arendt i vissuti emotivi sono inconoscibili. Tutto cio` che verrebbe alla luce attraverso la riflessione non sarebbe l’esperienza emozionale nel suo quid, ma solo cio` che di essa pensiamo: “A differenza dei pensieri e delle idee, sentimenti, passioni ed emozioni non possono divenire parte in5 tegrante del mondo delle apparenze” perche´ non possiedono quei tratti di 6 permanenza che caratterizzano l’apparire individuale . Certo non si puo` non tener conto della cautela che Arendt suggerisce di adottare quando il pensiero si trova alle prese con quella materia delicata che e` il sentire, ne´ si deve dimenticare che l’attenzione, richiesta dal metodo della descrizione, e` inevitabilmente frammentaria e disconti-

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Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 113. Non si puo`, a questo punto, non risalire all’origine fenomenologica delle riflessioni arendtiane, che si rintraccia nel pensiero husserliano. Nelle Idee, Husserl spiega che nella riflessione, o intuizione essenziale riflessa, l’Erlebnis nel momento in cui viene fatto oggetto di considerazione diventa cio` che si offre al pensiero, mentre quando lo sguardo riflessivo si distoglie, questo diventa altra cosa. “L’essenza afferrata e` soltanto essenza dell’Erlebnis riflesso” (Husserl, Idee, cit., p. 173). Consideriamo il vissuto della gioia: quando lo sguardo riflettente si dirige su di esso, la gioia diventa qualcosa di osservato. Questo produce una modificazione del vissuto, poiche´ quando si attiva il pensare s’interrompe l’adesione immediata al sentire e questo nel suo venire presentificato cambia di qualita`. E` del resto intuitiva la differenza fra il sentire e il pensarsi sentire. Il sentire semplicemente vissuto e` altro dal sentire consaputo, perche´ il riflettere interrompe il fluire spontaneo del vissuto. Se, pero`, si presta un’attenzione intensiva al vissuto per rendere di esso possibile una descrizione dettagliata si puo` ipotizzare l’accesso all’essenza del sentire consaputo, ed e` questo l’obiettivo proprio della riflessione. 6

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nua, con la conseguenza che tutto quello che perviene alla luce della coscienza riflessiva e` sempre mancante di altro, che e` destinato a rimanere opaco. Tuttavia tali cautele non impediscono che si esplori la possibilita` di una conoscenza adeguata per quanto imperfetta possa essere. E l’esperienza conferma la possibilita` che tale conoscenza sia possibile. Se si adotta come pratica cognitiva da perseguire quella della autopresenza, ossia del tenere il pensiero riflessivamente attento a quello che accade nella mente, da attivare con la massima continuita` possibile, allora il fenomeno del sentire, da vissuto evanescente e senza confini, prende forma nella sua individualita`, in quanto acquisisce un suo profilo, tanto piu` riconoscibile e identificabile quanto piu` a lungo e intensivamente si e` protratta l’autopresenza. Il sentire viene a costituire allora un fenomeno che puo` essere descritto e come tale divenire oggetto di comprensione. Lo stesso Heidegger autorizza la pratica fenomenologica come modo attra7 verso il quale la persona puo` interpretarsi da se´ , portando cosı` l’attenzione sulla valenza autoformativa del metodo fenomenologico. Chi ha fatto esperienza della pratica della descrizione del sentire impegnandosi nella disciplina dell’autopresenza intensa e intensiva ha conosciuto i guadagni di questa pratica, dei quali forse il piu` significativo consiste nell’acquisire conoscenza del proprio profilo emotivo, profilo che spesso si scopre differente da quello che si supponeva essere. Sapere cosa si sente e poi cosa si pensa mentre si sente puo` forse aiutare a dissipare, almeno in parte, la nostra opacita`. Avere anche solo qualche barlume di conoscenza della propria vita emotiva puo` aiutare a trovare il centro di se stessi, e trovare il centro significa raccogliere il tempo della vita, evitare la disper8 sione che inutilmente consuma il tempo . Ma avere un metodo che si costituisce cercando un ordine del cuore non significa solo portare l’attenzione sul sentire originario per comprenderlo, ma anche coltivare i sentimenti che aiutano a vivere e che, quindi, aiutano anche la ricerca della verita`. Il pensare che e` vita non si limita al piano della comprensione dell’esistente, ma coltiva altro, rendendo possibile il 7

Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 178. Di fronte al dilagare di teorie che pretendono di proporre metodiche per la gestione intelligente delle emozioni e` necessario precisare che i discorsi qui sviluppati si pongono su un piano radicalmente differente. Qui si parla di comprensione del proprio vissuto per vivere sapendosi, senza per questo pretendere alcuna postura di controllo, perche´ “non e` possibile possedersi da se´. Si dovrebbe essere piu` di se stessi, possedersi a partire da qualche altra cosa che si situa al di la`, da qualcosa che possa effettivamente contenerci.” (FP: 112), ma nessuna mente puo` trovare un punto d’appoggio all’esterno da cui padroneggarsi. 8

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movimento della trascendenza che si sporge sull’altrimenti. Quello che ci e` richiesto, a noi mancanti d’essere, e` di entrare nella vita, ossia di trovare un modo felice di muoverci nel tempo, e nella vita si entra non solo con la mente, ma anche col cuore. Quale sentire fa entrare nella vita e si costituisce come nutrimento della ricerca del sapere dell’anima? Zambrano invita a prendere in considerazione i “sentimenti amorosi e positivi” (SP: 65). Guardare concettualmente a questi (farli cioe` oggetto della riflessione teoretica) e questi coltivare (per fare della pratica un’amorosa pratica) non e` distrarsi dalla realta` nel suo essere impregnata di sofferenza; e` che si nasce per vivere, per incominciare, e la sofferenza, gli stati di dolore che attanagliano l’anima, inibiscono il movimento, arrestano il cammino del 9 vivere. “I sentimenti bassi (invidia, risentimento) sono energia degradata” . Si dice che dalla sofferenza s’impara, e` vero o almeno puo` essere, ma puo` esserlo solo a patto che dalla sofferenza ci si tragga fuori, e per trarsi fuori occorre saper trovare nel centro dell’anima un sentire positivo, quello che solo da` la forza di nascere, quello che solo nutre l’anelito alla trascendenza. Quando la sofferenza e` insostenibile, tanto da dilagare nell’anima rendendola sorda ad ogni altro sentire, puo` accadere che le energie vengano riservate unicamente ad anestetizzare il dolore, un modo questo non meno drammatico del non uscirne. Chi non esce dal dolore, chi si trascina nella sofferenza e` perche´ non sa trovare quella leva vitale che e` il sentire amoroso e positivo, quello che penso ci venga dall’impronta che lascia nell’anima la prima relazione che ci apre al mondo, cioe` la relazione materna. E` la qualita` del primo sguardo che ci accoglie quello che semina nel nostro cuore la qualita` del sentire originario. “La prima cosa nell’essere umano non e` guardare quanto sentirsi guardato” (NM: 63). Zambrano, pero`, aggiunge anche “senza sapere da chi ne´ come”; invece da subito penso che si e` guardati da un ‘chi’ in carne ed ossa, e il come del suo guardare penetra la nostra carne e la impregna di una tonalita` emotiva originaria. Per chi si occupa di educazione la tensione verso il sentire positivo e` cosa essenziale. Volere la vita, volere che l’altro trovi il suo cammino, e con esso l’anelito che spinge a cercare la forma eccellente del suo tempo, chiede di coltivare sentimenti positivi. Portare l’attenzione sul sentire positivo non e` negare la vita nella sua inaggirabile sofferenza. Si sa che c’e`, si deve accettarla. Non ci si puo` tirare indietro, il soffrire va patito fino in fondo. Perche´ e` la realta` e nella realta` occorre saperci stare. Ma tenere lo sguardo 9

Simone Weil, Quaderni. Voume secondo, cit., p. 74.

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sulla sofferenza non aiuta a trovare respiro. Occorre trovare altri modi di sentire la realta` e questa possibilita` si apre non combattendo la sofferenza, ma coltivando sentimenti differenti, perche´ “non si padroneggia una tona10 lita` emotiva liberandosi da essa, ma in virtu` della tonalita` opposta” .

5.2. Saper accettare Noi siamo esseri non finiti, non terminati con il compito di dar forma alla nostra esistenza cercando quel cammino capace di illuminare il tempo della vita. Una ricerca difficile perche´ ci scopriamo sempre opachi a noi stessi. Scopriamo che il nostro essere ha le radici in “un fondo oscuro, che, inespugnabile resiste” (DD), resiste al pensiero che cerca una comprensione del nostro essere. Chiamati a dare forma al proprio tempo si scopre questo compito come non pienamente realizzabile. In questo senso la condizione umana e` drammatica. Non meno drammatico e` percepire che si puo` morire alla vita pur rimanendo vivi. Si sente di essere vivi ma non di stare nella vita, come se il nostro esserci non aderisse pienamente all’essere. E` la ferita dell’essere: non essere mai pienamente la` dove si e`, non essere aperti immediatamente alle cose, essere mancanti, mancanti d’essere. Proprio in quanto esseri solo “per meta` compiuti” (B: 12), e quindi inaggirabilmente consegnati alla ricerca della propria forma, siamo destinati alla solitudine. E` la costitutiva mancanza d’essere che obbliga gli esseri umani alla cura, a prendersi cura della vita affinche´ da questo essere per meta` compiuti si pervenga alla forma del proprio poter essere. Ma quando si sta in un rapporto riflessivo col proprio esserci accade facilmente che l’anima sia presa dal timore che il proprio aver cura non produca nulla di essenziale. Ci si sente invasi, allora, da una forma di inquietudine. La vita tutta e` impregnata di inquietudine; nessuna vita puo` essere assolutamente calma e tranquilla. Ma ci sono momenti in cui l’inquietudine e` eccessiva, “oltre il limite della sopportazione” (SA: 80). Si e` inquieti sia a causa di eventi esterni, che irrompono imprevisti a scompigliare il debole ordine dei nostri passi quotidiani, ma anche per eventi interni all’anima. Ci si sente inquieti quando ci si rende conto di non avere orizzonti di senso, quando mancano le ragioni necessarie che giustificano il ritmo e la direzione del nostro camminare. E questo in conseguenza del fatto che ci manca la visione, l’idea giusta della vita. Ci puo` mancare 10

Martin Heidegger, Essere e tempo, cit., p. 174.

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perche´ all’improvviso ci rendiamo conto di non averla dal momento che mai l’abbiamo cercata, oppure ci manca perche´ quella cui ci affidavamo ha perso la sua verita`, in quanto non piu` capace di farsi misura ontogenetica del nostro camminare. Allora l’inquietudine si addensa nell’anima, acquisisce un profilo spesso e pesante. L’errore in cui si cade in questi momenti e` quello di lasciarsi prendere dall’ansia di colmare le nostre mancanze. Si innesca allora un lavorio affannoso che nulla di vero produce, solo rumore, cha aumenta il disordine. La cura si trasforma in “cupiditas”, in quel disordine dell’anima che disaggrega la ricerca della propria forma nel disperdersi in una molteplicita` disparata di azioni all’inseguimento di cose che semplicemente riempiono il tempo. Cosı`, anziche´ stare nella semplicita` essenziale che viene dal mettersi alla ricerca di cio` che e` irrinunciabile, l’agire si disordina in una pluralita` inessenziale di direzioni. Questo disordine dell’anima, che mina il processo di donazione di senso dell’esistenza, si manifesta a livello di vita cognitiva come “dissipatio 11 mentis” , ossia come dispersione mentale, che consiste nel perseguire una molteplicita` di interessi, nell’ingombrare inutilmente la memoria di cose non sempre essenziali, nell’inseguire ogni stimolo alla ricerca di conoscenze che solo riempiono la mente, nella vana illusione che l’accumulo delle informazioni colmi il vuoto di verita`. Nel vagare frenetico alla ricerca di riempimenti il desiderio di conoscenza si polverizza in una molteplicita` di direzioni. Alla radice di questa dispersione della mente, cosı` come della dispersione dell’anima, c’e` il dilagare dell’inquietudine conseguente al non saper accettare quella mancanza d’essere che e` proprio della condizione 12 umana. Per contrastare il rischio del disordine occorre saper accettare . Un sentimento fondamentale per poter respirare la vita e` saper accettare l’essenza della condizione umana, il suo essere costitutivamente mancante d’essere. Accettare la vita cosı` come e` data significa accettare di essere ben poca cosa, senza farsi prendere da alcuna brama di essere altro. Accettare

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Roberta De Monticelli, L’allegria della mente, cit., p. 169. Il saper accettare non implica la pretesa di annullare l’inquietudine. L’inquietudine e` un sentimento costitutivo dell’esistenza umana proprio in quanto mancante, ed e` alimento necessario della vita cognitiva; funziona da propellente alla ricerca. Ma quando l’inquietudine eccede la sua misura sostenibile si cade nel disordine esistenziale e/o cognitivo. Allora per trovare un sentire positivo che aiuti la nostra ricerca d’essere non si dovrebbe agire sull’oggetto che costituisce la causa del problema, ma si dovrebbe spostare lo sguardo sul sentimento opposto e quello si cerca di coltivare. E` questa delocalizzazione oppositiva dell’attenzione, che fa germinare l’altro differente polo del sentire, la condizione necessaria per trovare quell’equilibrio emotivo essenziale sia al cuore che alla mente. 12

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di sentirsi niente di piu` che “una pagliuzza d’essere, un po’ di polvere smaniosa di entrare nella luce” (DD: 23). Accettare la condizione umana significa accettare la fatica di continuare a nascere senza che ci sia dato sapere in anticipo qual e` il giusto ritmo da dare al proprio tempo, la buona direzione da seguire nel proprio cammino. Accettare di arrischiare il nuovo senza paracaduti. Ma ancor piu` difficile da accettare e` il compito di continuare a nascere sapendo che da subito s’inizia a morire; e tale compito diventa ancora piu` arduo col passare del tempo, quando l’anima ha avuto esperienza della sofferenza e con essa della difficolta` di tenere il cuore aperto al desiderio d’altro. Il difficile e` accettare di sentirsi nelle tenebre, senza i chiari di luce cui la mente aspira: accettare la ferita dell’esserci (DD: 19). Sentire che il tempo e` inabitabile e consumabile non puo` non provocare angoscia. Quando ci si sente arpionati dall’angoscia, la reazione subitanea e` quella di cercare di evitarla. Ma l’evitamento di questo sentimento, che e` rivelatore del nostro essere, e` un’azione pericolosa. Cio` che occorre fare e` accettarla, ossia non sottrarsi al soffrire, ma patirlo. Accettare e` stare nella passivita` e l’essere passivi richiede di disattivare ogni attaccamento alla brama di essere altro, di poter attingere un altrove differente dalla condizione terrestre. Accettare “significa non voler alterare in nessun modo l’ordine del mondo, per strano che possa sembrare; guardarsi senza rancore, avere smesso di vedersi e sentirsi finalmente come qualcosa che e`” (S: 47). E` questo l’insegnamento che Zambrano matura attraverso Seneca e Agostino: accettare la realta`, accettarla senza condizioni (CGL: 53) e senza cercare consolazione alcuna (DD: 57), perche´ la consolazione e` frutto dell’immaginazione e l’immaginazione ci sradica dalla realta`. Il cercare consolazioni e` da evitare perche´ contrario al movimento dell’entrare nella 13 vita, che e` possibile solo se si sta nell’ordine della verita` . Il saper accettare e` sentimento essenziale alla vita perche´ libera l’anima dal rancore, dal risentimento che prende al sapersi non compiuti, non terminati, e addossati del compito mai terminabile di trovare la forma del proprio esserci. Il 13

Sulla necessita` di imparare ad accettare la sofferenza molto ha riflettuto Simone Weil, che sostiene si debba accettare la vita cosı` com’e`, alludendo quindi alla valenza positiva della disposizione passiva dell’anima. Da` da pensare la sua riflessione secondo la quale non si deve mai cercare una consolazione al dolore, perche´ la felicita` che si va cercando e` di un ordine del sentire differente da quello della sofferenza e della consolazione. Lei dice che “e` percepita con un altro senso”, un senso che si forma attraverso uno spostamento dell’attenzione che sarebbe possibile attraverso un coinvolgimento della persona intera, nella sua anima e nel suo corpo (Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 165).

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saper accettare riconcilia con la vita e quando l’anima e` distesa, quando e` in pace col tempo, evita pericolosi azzardi simbolici, cioe` quelli che 14 portano a fuggire la condizione umana . Lasciarsi prendere dalla tentazione di fuggire la condizione umana e` un sentimento negativo che si manifesta alle origini della cultura occidentale. E` la matrice generativa che innesca la περιαˇ γωγ τ#ς ψυχ#ς, ossia la torsione radicale operata dal filosofo protagonista del “mito della caverna”. Nell’ontologia platonica il mondo della vita e` considerato un mondo fatto di ombre ingannevoli; pertanto se il filosofo vuol arrivare a cogliere la verita` deve recidere i suoi legami col mondo vissuto per ascendere al cielo limpido e puro delle idee, dove nulla diviene ma tutto e`. Si produce cosı` la derealizzazione del mondo della vita. Cosa origina questa violenza, questo strappo? E` l’incapacita` di accettare la vita nella sua incerta fragilita`, incapacita` che prende la forma del risentimento conseguente al sentire insostenibile il peso dell’esistenza. Un sentimento, il risentimento, che produce la chiusura alla vita e sul piano del pensiero innesca la tensione che spinge alla ricerca di un altrove. Da qui si genera l’invenzione dell’ontologia della scissura fra i due mondi, quello imperituro dell’essere e quello illusorio del divenire, ontologia che nutre quella visione che ci vorrebbe altro dalle cose che divengono e affini alla realta` immateriale del mondo delle idee. Tale e` la brama d’altro, come reazione alla percezione della finitudine, che l’ontologia platonica non fatica ad acquisire credibilita`, e su questa viene a fondarsi l’epistemologia dell’ascensione alpinistica. Di fronte ad un ordine del mondo difficile da accettare, dove l’esistenza si trova esposta al dolore nudo, quello che lacera i tessuti dell’anima, si inventa un altrove, quell’altrove con cui si vorrebbe placare il rancore che e` uno dei sentimenti primari della vita (S: 31). L’incapacita` di accettare l’essenza della condizione umana e` quel sentimento tragico che, dopo aver contrassegnato la modernita`, non solo risulta tuttora operante, ma e` divenuto drammatico nel momento in cui 14

Figura esemplare della capacita` di elaborazione di questo sentimento e` Agostino, il quale, partendo da un’inimicizia tra se´ e la divinita`, un’inimicizia che gli fa sentire estranea la sua stessa vita, arriva ad accettare la realta` senza condizioni; un’accettazione che comporta il disinteressarsi di se´, al punto da nemmeno pretendere risposte sul proprio essere come, invece, fa Giobbe. Ed e` accettando la propria condizione che arriva a trovare se stesso. A questo sentimento e` difficile che pervenga la ragione moderna, perche´ dal suo inizio si qualifica come esercizio del dubbio. Invece, proprio il metodo del non cercare aiuta la mente a trovare la postura essenziale per sviluppare la capacita` di accettare.

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per soddisfarlo non e` piu` bastata la metafisica, ma si e` cominciato a far ricorso alla tecnologia. Ora per sfuggire ai limiti della vita terrestre non solo abbiamo portato l’energia del sole sulla terra, ma attraverso l’ingegneria genetica interveniamo nelle zone piu` intime e nascoste del processo vitale. Inoltre, piu` semplicemente ma non meno drammaticamente, non sappiamo accettare il nostro corpo e azzardiamo interventi che mettono a rischio la vita. Anche nell’uso di sostanze chimiche mirate ad ottimizzare le prestazioni atletiche, la tecnologia e` posta al servizio di un progetto di vita fuori dall’ordine, smisurato. La smania ingegneristica che ci vorrebbe soggetti capaci di esercitare una piena sovranita` sui processi naturali, sulle dinamiche sociali, sulla vita del corpo, nonche´ sull’esperienza interiore, e` mossa da quel desiderio di sfuggire la condizione umana che ha origine nell’incapacita` di accettare la sua qualita` fragile ed incerta. Non si vorrebbe cioe` che il processo di costituzione della forma del nostro esserci incontrasse limiti fisici e temporali, e neppure che fosse cosı` poco autosufficiente rispetto al contesto biologico e a quello sociale. Si vorrebbe guadagnare una condizione di assoluta padronanza dell’esistenza, che consisterebbe nel poter controllare le reti di relazioni eco-socio-mentali in cui ci si trova implicati. Da qui la messa in atto di approcci manageriali sia rispetto alla propria vita interiore che al tessuto di relazioni in cui viviamo. Ma l’andare alla ricerca di una condizione di sovranita` che consenta di dominare il tempo della vita non puo` costituire quella giusta misura ontogenetica di cui abbiamo necessita` per imprimere un principio d’ordine al processo di auto-eco-composizione dell’esistenza, perche´ tale condizione non appartiene alla vita umana e quando ci si lascia guidare da desideri che non tengono conto della qualita` del reale la vita precipita nel disordine. E` l’incapacita` di accettare certi limiti che e` alla radice di un modo smisurato di abitare il proprio tempo, cioe` un modo che manca della giusta misura dell’esistere, quella che puo` essere cercata solo a partire da una disposizione di fedelta`, per quanto sofferta, alla qualita` fragile ed incerta della condizione umana, a quell’essere vacillante e inerme che noi siamo. Per uscire dal disordine provocato da questo agire smisurato occorre imparare ad accettare la vita umana cosı` come ci e` data. Cosı` come “le radici che si sono rifiutate di sostenere un peso perdono la condizione di fondamento” (B: 17), cosı` quel pensare che si rifiuta di sostenere il peso della realta` non puo` essere un pensiero efficace, capace di costituirsi come misura misurante del vivere. La mente e` chiamata a lavorare non per fuggire il reale ma per entrare nella realta`. E` vero che la tensione a oltrepassare i limiti e` propria dell’essere

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umano e che senza questa tensione alla trascendenza non sarebbe fiorita alcuna civilta`. La trascendenza e` costitutiva della condizione umana ed e` la capacita` che hanno gli esseri umani di protendersi verso l’ulteriore, agendo oltre l’ordine dato. Ma la tensione alla trascendenza, proprio perche´ implica il protendersi oltre, comporta un rischio, quello della dismisura. Il problema, allora, dell’essere umano consiste nel rispondere a questa tensione sapendo pero` accettare certi limiti, nel senso che la ricerca di una buona forma della vita, quella cioe` che consente di attualizzare l’eccellenza che costitutivamente l’essere umano va cercando, va concepita come un divenire perfettamente quello che si puo` essere stando dentro i vincoli che costitutivamente strutturano la condizione umana. Da un’idea del trascendere come un oltrepassare ogni limite, mossi da una misura non umana dell’esistere, si tratta di transitare ad un’idea di trascendenza come ricerca dei modi di attualizzare le possibilita` di realizzazione esistenziale senza rischiare che l’andare oltre l’esistente scivoli nella dismisura. Da cercare e` quella che Nussbaum definisce “trascen15 denza immanente o interna” , per indicare quel principio di visione della miglior forma di vita possibile che innerva la ricerca dell’ulteriore coniugandola con la disposizione a sorvegliare la tentazione a forzare ogni limite. Il principio della trascendenza immanente concilia l’anelito all’ulteriore con la capacita` di accettare la vita cosı` come ci e` data, che pero` non significa rinunciare ad andare oltre l’ordine esistente venendo cosı` meno alla possibilita` di realizzare cio` che si intuisce aprirsi nel tempo, quanto rispondere alla chiamata di attualizzare il possibile del proprio essere secondo quel principio di equilibrio che consente di prendere le distanze sia dalle azioni che mirano ad oltrepassare i limiti, cercando una vita del tutto differente da quella che ci e` data, sia da ogni atteggiamento rinunciatario, per coltivare invece quelle visioni che invitano a divenire tutto il possibile del proprio poter essere piu` proprio. Se la vita acquista la sua qualita` in relazione al che cosa del suo 16 desiderare , allora una vita mossa dal principio della trascendenza immanente, quello che direziona il desiderio verso le cose che stanno nell’ordine del possibile immanente, e` una vita conciliata con l’essenza della condizione umana. Occorre, pero`, intendersi sul significato di ‘possibilita`’. In analogia con la distinzione istituita dal biologo Adolf Portmann fra “apparenze autenti-

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Martha Nussbaum, Love’s Knowledge, Oxford University Press, New York 1990, p. 379. Agostino cit. in Hannah Arendt, Il concetto d’amore in Agostino, cit., p. 30.

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che”, quelle che vengono alla luce spontaneamente, e “apparenze inauten17 tiche”, che diventano visibili allorche´ s’interviene a manipolare il reale , si puo` operare la distinzione fra possibilita` autentiche, quelle che si aprono spontaneamente dentro i vincoli che definiscono la condizione umana, e possibilita` inautentiche, che vengono prodotte quando si lavora a disoccultare cio` che spontaneamente non appare. La manipolazione del DNA, la produzione di energia nucleare, la ‘creazione’ di nuove forme di vita attraverso la manipolazione biotecnologica, sono possibilita` non apparenti, che divengono tali in conseguenza di un intervento che penetra nell’intimita` piu` recondita dell’essere. Arrischiare possibilita` non apparenti, anziche´ dilatare il ‘qui’, dischiude un ‘altrove’. E quando si aprono le possibilita` di un altrove allora ci si sporge su un abisso, un rischio pericoloso perche´ dell’altrove manca ogni saggezza a gestire le azioni che si rendono praticabili. Questo modo della trascendenza che si spinge verso possibilita` non apparenti intensifica il senso di inquietudine connesso in questo caso al percepire la mancanza di padronanza sull’imprevedibile che l’altrove porta con se´. E` vero che proprio della condizione umana e` un modo dissidente di abitare la terra, che aspira a liberarsi dai vincoli che la condizione terrestre pone per cercare una legge propria (A: 62); ma per trovare un modo felice di muoversi nel tempo occorre la massima cautela rispetto alla decisione di inseguire visioni che spingono a perseguire una differente qualita` della condizione umana, che si esprime nel cercare il completo controllo della natura esterna e di quella interna nonche´ dei processi relazionali di cui ogni vita e` tessuta; da perseguire e`, invece, la miglior forma possibile che questa condizione fragile e arrischiata consente. 18 Noi non siamo “piante celesti” , ma piante che guardano il cielo stando radicate nella terra, quindi esseri viventi che, destinati a vivere in un frammezzo, siamo chiamati a trovare la giusta misura dell’esistere fra la remissione incondizionata all’immanenza e la tensione sradicante della trascendenza. Respirare la vita significa realizzare la pienezza di cio` che si puo` essere senza soccombere ai vincoli che strutturano l’esistenza, ma anche senza impantanarsi in derealizzanti fughe dalla finitezza umana. In questo senso la questione chiave sta nel promuovere la ricerca di una forma della vita che sia guidata da una misura misurata del progetto esistenziale. Una ricerca questa che non puo` non situarsi nell’orizzonte di un sapere dell’anima che assume come criterio di misura il principio della 17 18

Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 111. Platone, Timeo, 90 d.

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“trascendenza immanente”, poiche´ orienta il processo del dar forma alla propria umanita` secondo il criterio del restare fedeli alle proprie radici terrestri senza per questo rimanere assenti di cielo. La tensione costitutiva dell’essere umano ad attualizzare una forma eccellente del tempo della vita non va declinata come tensione ad oltrepassare ogni limite, quanto piuttosto a dare compimento perfetto al possibile stando alla qualita` propria della condizione terrestre. Questo sentimento di realta` trova espressione nell’Ulisse omerico, il quale posto di fronte all’offerta di Calipso di una vita sciolta dai vincoli della condizione terrestre, sceglie di ricominciare il suo viaggio; questa decisione puo` essere assunta come metafora della consapevolezza che il meglio per l’essere umano non sta in un altrove che non ci appartiene, ma nell’accettare di star esposti al divenire incerto e difficilmente governabile dell’esperienza cosı` come ci e` data. Il saper accettare e` una sorta di conversione (NM: 80), convertirsi ad accogliere il passare di tutte le cose, il passare di se stesso, e che in questo passare ogni forma dell’essere e` sempre troppo fragile. Va detto che la capacita` di accettare non puo` essere concepita come un apprendimento che si puo` realizzare pienamente e in forma definitiva. Impossibile, infatti, essere capaci di un’accettazione completa. Se cosı` fosse si potrebbe raggiungere quella quiete totale dell’anima che e` beatitudine. Ma questa condizione non ci e` data, perche´ il profilarsi della morte come esito inevitabile della vita genera un’angoscia che, impossibile da evitare, impedisce la quiete chiara cui si aspira. Per questa ragione imparare ad accettare e` un apprendimento mai finito, mai terminato, come la vita. Un apprendimento che ha da esercitarsi proprio rispetto alla materia di cui la vita e` fatta, cioe` il tempo. In questa prospettiva acquista primarieta` ontologica il saper accettare il tempo, ossia di essere nel tempo e che il tempo e` cio` che passa. Il tempo e` l’elemento della vita, la vita e` fatta di tempo. Ma proprio dal tempo l’essere umano inferisce una profonda minaccia, perche´ difficile e` accettare la finitudine della condizione umana. A pensarla nella sua essenza la vita risulta essere consumo incessante di tempo, e mentre consuma il 19 tempo appare dal tempo consumata . La riflessione sul tempo della vita porta a vedere in esso niente altro che un progressivo venir meno dell’essere. E questo pensare la vita come tempo dal tempo consumata puo` generare nella mente “il risentimento dell’essere qui” (DD: 22), del nostro stare nudi, senza difese, esposti all’accadere imprevedibile delle cose. 19

Agostino, Confessioni, IX, 10.

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Il risentimento fa precipitare l’anima nel disordine, quel disordine evidente quando ci si lascia prendere dal desiderio di andare oltre le porte del tempo, che si manifesta epistemologicamente nella ricerca di un sapere la cui validita` non conosca la corrosione operata dal tempo, e` “un anelito che giace, spesso inavvertito, nel piu` profondo di ogni persona” (B: 111). Si crea cosı` quel paradosso per cui il tempo, oltre a costituire la sostanza della vita si rivela l’ostacolo che si oppone all’anelito di sottrarsi al tempo che passa. “Il fluire del tempo fa venire fuori, fa risvegliare, l’ansia di eternita` della vita” (B: 111). Quando non si sa accettare il proprio essere finiti si rischia che l’anima venga invasa da quell’ansia corrosiva che finisce per costituire una solida resistenza a quelle forme di realizzazione esistenziale che richiederebbero, invece, il piacere dell’esserci. La vita per essere vissuta intensamente richiede una forma di quietudine dell’anima, il saper accettare il tempo, che e` tutt’uno col saper accettare la vita: Dato che non siamo nulla o siamo appena qualcosa, perche´ non sorridere all’universo, al giorno che avanza, perche´ non accettare il tempo come un regalo splendido? (DD: 22).

Questa conversione, quando accade, fa della vita uno “spazio vivente dove il presente germina” (NM: 81), nel senso che un’anima convertita all’accettazione della sua condizione ontologica e` quella che si lascia distendere nel presente. Un presente dilatato, germinante, perche´ non piu` schiacciato fra il passato e il futuro, ma respirato nell’istante del suo accadere. Accettare il passare di tutte le cose, sciogliendo ogni attaccamento e sgravando l’anima dall’ansia di utopie atemporali, e` una sorta di conversione (NM: 80). Quando accade, tale conversione rende la vita uno spazio arborescente, nel senso che un’anima convertita all’accettazione della sua condizione ontologica e` capace di lasciarsi fecondare dalle differenti possibilita` del presente. Un presente germinante, perche´ non piu` schiacciato fra il passato e il futuro, ma respirato nell’istante stesso del suo accadere. L’accettare la vita si modula secondo differenti tonalita` a seconda della fase o del momento della vita che stiamo vivendo. Nella giovinezza si accetta il tempo come dono da godere, poi quando il tempo si e` portato appresso sofferenze il saper accettare diventa remissione al proprio essere. Abbiamo, infatti, sufficiente essere perche´ si aprano ferite; accettare diventa allora quel sentire che matura dal lasciarsi vivere fino in fondo nella nostra debolezza ontologica. E` percio` il sentimento primigenio, condizione essenziale perche´ si possa nascere al mondo. Il rapportarsi serenamente al tempo e`, pero`, il compito piu` difficile da

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affrontare. Risulta con particolare evidenza in quei momenti in cui ci si sente senza via d’uscita, come immobilizzati. Questo percepirsi senza possibilita` accade quando il tempo della vita ha smarrito il suo ordine, perche´ il passato viene a sovrapporsi al presente e cosı` chiude il futuro. Il tempo si avviluppa su se stesso, nel senso che il passato invade il presente cosı` che dal presente non si vede il futuro, quando non si sta conciliati con la vita. Quando il passato non e` passato e sta lı` ad occupare lo sguardo, ci tiene voltati, rigirati all’indietro, quindi bloccati. Ma il passato non si puo` modificare, neppure nelle conseguenze che ha sul presente. Va accettato 20 cosı` com’e`, perche´ “il mio passato e` sempre nelle mani degli altri” , nelle interpretazioni che essi costruiscono e da cui dipende il loro re-agire rispetto al nostro agire. La nostra sostanza relazionale e` evidente nel suo lato problematico proprio quando ci si rapporta al passato, perche´ sono le mosse degli altri che spesso decidono il suo senso. Non sempre ci e` concesso di lavorare ad una ermeneutica collaborativa del passato, attraverso cui pervenire a significazioni condivise. Quando cio` non e` possibile non resta altro che accettare le interpretazioni in cui ci troviamo situati. Questa azione non agente, con cui si accetta di stare consegnati ad altro rispetto al proprio desiderio, chiede di lavorare nella profondita` di se´ per disattivare alla radice i desideri impossibili. E il desiderio si disattiva solo dopo che siamo arrivati ad accettare la sua impossibilita`, il non-senso. Solo accettando ci si riconcilia col tempo. Il saper accettare mette le cose al loro posto, mette il passato al passato e sgombra della sua ombra il presente. Il saper accettare non va inteso come rassegnazione, come rinuncia, ma come quel conciliarsi con la realta` che e` condizione necessaria ad ogni movimento dell’essere. Accettare quieta l’anima e la quiete fa trovare il proprio centro. E lı`, nella distensione, la speranza puo` respirare. Non c’e` speranza, infatti, se non c’e` accettazione della realta`. Nessun sentimento se ne sta da solo e percio` non si da` una comprensione atomistica e disgiuntiva del sentire. Il saper accettare per accadere ha necessita` di stare intrecciato con un altro sentimento, il sentimento della speranza, ma a sua volta la speranza ha necessita` di nutrirsi della capacita` di accettare (B: 111). Quando si adotta una logica relazionale, quella piu` adatta a spiegare i fenomeni del mondo vivente, permane tuttavia il rischio di gravarla di un approccio sequenziale e gerarchico, come quello che stabilisce che l’accettazione della realta` costituisce una precondizione per l’emergere della speranza; in questo caso si verifica una interpretazione semplicistica, 20

Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 85.

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perche´ e` difficile stabilire precedenze, soprattutto nel mondo oscuro del sentire, di cui abbiamo scarsa e frammentaria conoscenza. Ci e` possibile parlare solo di intreccio di sentimenti, o meglio di codipendenza evolutiva, nel senso che si puo` accettare la propria condizione se si ha speranza che in essa comunque ci si realizzi e si ha speranza se si accetta la realta` cosı` come ci e` data senza lasciarsi prendere dalla tentazione di fuggire ad essa.

5.3. Sperare Nell’essere umano, mancante di una forma precisa dell’essere, e` presente come esigenza ineludibile quella di esserci, di realizzare le proprie possibilita`. Ma proprio il sapersi nel tempo mostra la difficolta` di divenire pienamente il proprio poter essere, perche´ all’opera di trovare la propria forma sembra che il tempo non basti mai. A noi, fatti di tempo e mancanti di essere, e` chiesto di divenire il nostro essere in un tempo che ci sembra non sufficiente alla tessitura dell’esserci. Cosı` accade che il mancare d’essere e il mancare di tempo siano la stessa cosa. Saperlo genera quell’angoscia che puo` paralizzare ogni movimento vitale, ogni respiro nel presente. Per poter esserci occorre allora saper accettare, saper accettare di stare in questa strettoia ontologica. Accettare di essere nel tempo, sapendo che il tempo finisce significa nutrire la speranza che il proprio realizzarsi possa accadere comunque. Perche´ la speranza “e` fame di nascere del tutto, di portare a compimento cio` che portiamo dentro di noi solo in modo abbozzato. In questo senso la speranza e` la sostanza della nostra vita; grazie ad essa siamo figli dei nostri sogni” (SA: 90). Per divenire il proprio poter essere ciascuno ha necessita` di una visione. A nessuno pero` e` data la possibilita` di afferrare una visione chiara del proprio divenire. Se si avesse una conoscenza esatta della forma cui tendere allora il nostro camminare sarebbe rischiarato da una luce tanto chiara da non rendere necessario piu` nulla. Invece e` inevitabile trovarsi ad attraversare zone oscure, dove a sostenere la fatica del cercare la giusta direzione del proprio camminare puo` essere solo la speranza. In questo senso “la speranza e` il vuoto attivo di un essere insufficiente a se stesso, di un essere che non e` ancora” (NM: 51). Vivere e` anelare, afferma Zambrano richiamando Ortega, ma anelare e` il segno minimo dell’essere presenti nel tempo. La vita e` vissuta quando si respira il tempo, e per respirare a pieni polmoni occorre sperare, sperare che nel tempo noi possiamo essere, che possiamo realizzarci. Perche´ l’essere umano e` colui che ha necessita` di realizzarsi. “Deve crearsi il

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proprio essere, che non ha ricevuto gia` compiuto” (SA: 91). Ma per dare forma al proprio essere occorre energia e questa energia viene dalla speranza. “La verita` e` la speranza” scrive Machado nel testo poetico Parabole. La speranza e` l’aria che consente all’anima di respirare la vita. Essere senza speranza e` essere senz’aria. La speranza e` il motore che alimenta il movimento ascensionale della propria realizzazione: e` il fondo ultimo della vita, la vita stessa ... che nell’essere umano si dirige inesorabilemnte verso una finalita`, verso un oltre ... La speranza e` la trascendenza stessa della vita che incessantemente rampolla, mantenendo aperto l’essere individuale (B: 106)

Ci sono due tipi di speranza. C’e` la speranza ‘di’ qualcosa di preciso, e` attesa di qualcosa di concreto e si concentra sul suo oggetto (B: 103). E c’e` la speranza che non e` legata a qualcosa di definito, che nulla spera di immediato (B: 104): e` la speranza pura, quella consegnata all’immensita`. E` questa la speranza che nutre la vita e ci fa entrare nella realta`. E` per opera della speranza pura che “l’uomo puo` realizzare quella cosa impossibile che e` camminare sopra il proprio tumulto interiore, sopra il tempo che gli passa, e puo` in un certo senso elevarsi e sostenersi sopra la propria 21 profondita`” (B: 114) . Di questa speranza Zambrano dice due cose: si produce di rado e quando si manifesta lo fa in persone che hanno perso tutto e che proprio in quanto tali nulla sperano di concreto, inoltre sarebbe un sentimento che viene dal nulla “non si nutre, si direbbe, di nulla. E puo` sostenere la vita di chi cosı` la sente” (B: 104). Difficile dirlo con certezza, ma forse questo tipo di speranza non si manifesta cosı` raramente; se si presta attenzione la si sente incarnata in molte delle persone che incontriamo, quelle che sembrano capaci di galleggiare sopra gli avvenimenti non per incuranza ma per un guadagno di sapiente leggerezza, quelle che ti raccontano la sofferenza senza farsi artigliare da questa, quasi fosse una cosa di altri. E non necessariamente

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Per Zambrano lo stoicismo, respirato soprattutto sui testi di Seneca, e` una visione significativa, perche´ e` una di quelle che risponde alla ragione d’essere della filosofia di aiutare a vivere. Lo stoicismo insegna che per raggiungere la quiete dell’anima occorre non sperare nulla, ne´ sperare ne´ temere nulla. Solo quando non spera e non teme l’anima diventa libera e capace di intensa ricettivita` (A: 63). Questa etica dell’evitamento della speranza non contraddice il discorso qui sviluppato che tende a mostrare la centralita` di questo sentimento per la filosofa spagnola, perche´ per lei da evitare e` la speranza che esprime un attaccamento a qualcosa, non certo la speranza pura.

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sono persone che hanno perso tutto. Se pensi al loro modo di essere sembra che la speranza li accompagni da sempre, sia la sostanza della loro vita. Occorre poi intendersi su questo venire dal nulla della speranza. Si puo` accettare questa affermazione se si pensa alla speranza come ad un sentimento primigenio, che appartiene al nostro essere in quanto possibilita`. Ma non sempre le possibilita` si attualizzano, quando la speranza accade e` perche` l’anima ha potuto nutrirsi di speranza. La speranza si nutre di speranza, cosı` come la fiducia si nutre di fiducia. Il depositarsi nell’anima di questi sentimenti basilari della vita al suo inizio dipende dal verificarsi di certe condizioni, ossia dalla qualita` dei primi sguardi in cui siamo guardati, perche´ questi primi sguardi, quelli che ci accolgono alla vita, diventano poi nostri. La teoria dello sviluppo di matrice vygotszkjana sostiene che lo sviluppo delle funzioni superiori del pensiero e` il risultato di un processo di interiorizzazione di processi di pensiero socialmente situati cui l’individuo partecipa; ossia, le capacita` intrasoggettive sarebbero funzione di quelle intersoggettive. Lo stesso principio di spiegazione dello sviluppo cognitivo si puo` ipotizzare valere anche per la sfera del sentire, nel senso che l’anima all’inizio si strutturerebbe interiorizzando il clima emotivo in cui viene a trovarsi situata: la speranza nutre la vita del cuore quando questo respira in un ambiente impregnato di speranza. Ci sono vari tipi di indigenza di cui puo` capitare di soffrire nel corso della vita. C’e` l’indigenza materiale di chi non ha nulla o troppo poco per soddisfare le esigenze primarie, si vive allora in una tale poverta` in cui la speranza e` sentimento assente; cio` di cui si ha necessita` in questi casi e` di quelle azioni sociali capaci di far sentire il futuro, ossia di vedere la possibilita` di un futuro differente. Ma c’e` un altro tipo di indigenza, quella affettiva, che consiste nel mancare di affetti primari, che si verifica quando all’inizio della vita vengono a mancare quelle relazioni in cui ci si sente accolti e protetti. La chiamano “deprivazione di cure primarie”, un fenomeno che segnerebbe l’anima di un’indigenza difficile da colmare. Questa indigenza primaria dell’anima ha origine nella mancanza di cure affettive che si traduce in deprivazione dell’energia che sostiene la spinta alla trascendenza. L’indigenza affettiva si qualifica essenzialmente come mancanza di quello spazio relazionale in cui respirare sentimenti amorosi e positivi, come la speranza e la fiducia. Quando all’inizio della vita si e` patita questa indigenza il mestiere di vivere diventa un compito arduo. La forma dei sentimenti che permeano l’anima ci viene dalla qualita` delle relazioni primarie che strutturano il nostro essere, quelle relazioni

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attraverso le quali abbiamo aperto il nostro sguardo sul mondo. Prima di tutte la relazione materna. La speranza, la fiducia, il saper accettare, non sono sentimenti che vengono dal nulla, ma si apprendono vivendo relazioni primarie permeate da questi sentimenti, solo allora questi diventano carne della nostra carne.

5.4. Avere fiducia Cosı` come non si dovrebbe considerarli disgiuntamente dalle relazioni in cui prendono forma, la` dove essi hanno le loro radici, allo stesso modo i sentimenti non andrebbero considerati separatamente l’uno dall’altro, secondo quella procedura atomistica propria del metodo cartesiano che aveva tolto di mezzo il sentire. I sentimenti sono sempre intrecciati l’uno con l’altro, avviluppati come le viscere, dice Zambrano. E il sentimento con il quale sta assieme la speranza e` la fiducia, la fiducia nella vita. Perche´ nel fondo della speranza pura, “assoluta, possiamo distinguere qualcosa che la sostiene: la fiducia. La speranza sostiene ogni atto della vita; la fiducia sostiene la speranza” (B: 107). Quello che Zambrano piu` di ogni altra cosa considera essenziale per dare forma all’esistenza e` di riconciliarsi con la vita, e poiche´ la vita e` qualcosa che supera ogni possibilita` di comprensione, solo il “nutrire completa fiducia” (DD: 36) ci riconcilia con cio` che e` situato oltre la comprensione umana. La fiducia sta in una relazione ricorsiva con la capacita` di accettare la vita, quella che sola ci consente di vedere (piano epistemologico) e di vivere (piano esistenziale) la vita nella sua pienezza. Perche´ avere fiducia e saper accettare genera nell’anima quella quiete – ben conosciuta dai mistici – che rappresenta la condizione necessaria affinche´ la realta` si disveli e si possa cosı` entrare in essa: ... l’attitudine della vita umana che denominiamo fiducia rappresenta il luogo in cui la realta` appare. Tanto piu` ampia e` la fiducia, tanto piu` grande la realta` di cui godiamo (SA: 87).

La fiducia e` sentimento della passivita` perche´ e` apertura, apertura alla vita, e` “fiducia in tutto e in niente, fiducia pura la cui ricchezza illimitata ci lascia supporre che sia inesauribile” (SA: 86). Riprendendo Ortega y Gasset, Zambrano concepisce la fiducia, quella assoluta, quella in tutto e in niente, la fiducia pura (SA: 86), come quel sentire che ci apparterrebbe naturalmente, perche´ l’essere umano sarebbe costitutivamente fiducioso. Questa fiducia originaria sarebbe nata con noi

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configurandosi come il sostrato primigenio del nostro essere. E` perche´ la fiducia radicale si annida nel profondo del cuore che l’essere umano riesce a proferire la parola. Senza fiducia non parlerebbe. “Si direbbe persino che la fiducia radicale e la radice della parola si confondano tra loro o si diano in un’unione che permetterebbe alla condizione umana di emergere” (CB: 28). Qualunque tipo di sfiducia o di dubbio puo` prodursi solo perche´ esiste una fiducia originaria gia` presente nell’anima. Ma neppure la fiducia, come anche la speranza, viene dal nulla; essa prende forma nelle relazioni primarie che strutturano il nostro essere. Zambrano afferma che speranza e fiducia risiedono nelle viscere (SA: 90); liberamente interpreto le viscere come la matrice generativa del nostro essere, che e` matrice relazionale. Stare in relazione e` essenziale alla vita. E` stando con altri che la responsabilita` del dar forma al tempo, quella che ci chiama a venire nella luce del senso che vivifica la vita, risulta sostenibile. Non c’e` vita vera se non tenendosi per mano con altri. Sentirsi per mano con altri rassicura; il respiro allora si quieta, e respirando il cuore puo` sciogliersi dal rischio di vivere la vita con rancore, con risentimento (CGL: 65). Da qui la centralita` della carita`, che e` sentimento essenziale per dar vita all’azione generativa di realta`. Proprio per questo nostro essere i pensieri che pensiamo e i sentimenti che sentiamo, l’essere in relazione e` condizione della vita della mente, perche´ non c’e` possibilita` di essere, e dunque di pensare e di sentire, se non nella condivisione. La relazione di cui ciascuno ha necessita` per esistere e` quella capace di alimentare il cuore di fiducia: E` difficile abbandonarsi alla vita con fiducia, ..., se non siamo cresciuti cosı`, sentendoci guidati da una mano forte e delicata che sa misurare (SA: 119).

La fiducia mette radici nell’anima quando si ha esperienza di relazioni primarie con persone che ci guardano e guardano il mondo con fiducia; persone che senza nascondere il peso dell’esistenza sono capaci di offrire un appoggio tenero e incondizionato. “E` questa l’educazione fondamentale” (SA: 119). Quando l’anima ha ricevuto il dono di questa educazione allora vengono poste le basi necessarie per affrontare con misura il mestiere di vivere e niente potra` sradicare dall’anima questa fiducia originaria. E` nelle relazioni primarie che va cercato “il fondamento 22 dell’esperienza dell’essere” . Zambrano individua la matrice generativa di questa fiducia originaria 22

Donald Winnicott, cit. in Luisa Muraro, Il Dio delle donne, cit., p. 164, nota 131.

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nella relazione paterna (SA: 120); sapendo l’importanza della relazione materna preferisco parlare di relazioni primarie, che diventano positivamente significative sul piano della costituzione dell’essere quando nutrono l’anima di sentimenti amorosi. Chi manca dell’esperienza di queste relazioni primarie, infuse di tenera fiducia e animate da una speranza pura, e` come lasciato senza protezione. E l’anima, quando non si sente custodita, si riempie di paura; non quella ordinaria, intenzionale, che cioe` sta in relazione con un oggetto ben preciso, ma una paura smisurata perche´ e` paura di vivere. Quando e` eccessivo, il sentimento della paura toglie il respiro e innesca un agire che manca della giusta misura. Chi, invece, cresce in uno spazio relazionale permeato di fiducia e` come se accumulasse nell’anima riserve di quell’energia positiva che e` necessaria per interpretare la vita come aperta sempre ad ulteriori possibilita` di ricominciare a nascere. Se si ragiona pedagogicamente a partire dall’idea che esperienze relazionali primarie permeate da un sentire positivo verso la vita costituiscano l’educazione fondamentale, allora e` necessario che dei primi tempi della vita di ogni nuovo venuto al mondo si abbia la massima cura, predisponendo quelle condizioni che facilitano il prender forma di questo tipo di relazioni. Da` le vertigini pensare, come suggerisce Zambrano, che questa educazione primaria sia insostituibile (SA: 119), quasi non ci fosse scampo per chi non ha goduto di tale dono. E` legittimo, pero`, ipotizzare la possibilita`, purtroppo non remota, che non a tutti sia dato questo dono e ad alcuni non in misura sufficiente. Allora, sospendendo la tesi vertiginosa della insostituibilita` di tale educazione e ipotizzando – sulla base del principio di speranza – che margini di recupero siano sempre possibili anche se aprirebbero modi dell’esserci differenti, e` necessario che l’agire formativo assuma come direzione di senso fondamentale quella di offrire esperienze relazionali capaci di nutrire un sentire positivo verso la vita. Forse la fiducia secondaria alimentata da queste relazioni educative non sara` come quella originaria, la cui forza e` tale che nessuna catastrofe potra` mai cancellare, ma nondimeno aiutera` a trovare quella energia necessaria a vivere il proprio tempo senza rischiare di farsi paralizzare dalla paura di essere e cadere cosı` nel panico. Chi si e` nutrito di fiducia originaria, chi ha respirato dall’inizio quella speranza pura che tiene la mente aperta sul futuro non e` che sia immune dalla paura, ma quello che non rischia e` di provare quel sentimento paralizzante che e` l’aver paura della paura. E` forse questo il sentimento piu` terribile, perche´ tiene l’anima contratta, incapace di distendersi nel tempo. Fiducia e speranza, invece, fanno da contenitore alla paura consentendo all’anima di respirare la vita.

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5.5. Il sentire nutrimento del pensare Ci sono sentimenti e sentimenti, ci sono quelli non essenziali alla vita, che possono esserci o non esserci, e ci sono quelli basilari, sono i sentimenti tensionali, quelli che tengono la vita tesa verso la trascendenza. Speranza e fiducia sono sentimenti tensionali. Si depositano nell’anima all’inizio della vita con una qualita` e una intensita` che dipende dallo sguardo di fiducia e di speranza con cui siamo stati accolti nel mondo; e lı` nell’anima restano, come radici, e al momento opportuno fioriscono. Questi sentimenti amorosi e positivi sono essenziali per respirare il tempo della vita e in quanto tali sono essenziali anche alla vita cognitiva. La semplice curiosita` non mette in moto la ragione vitale, c’e` necessita` della speranza. La ricerca della verita` ha bisogno di essere nutrita dalla speranza. Il camminare alla ricerca del sapere dell’anima che illumini i nostri passi e` una fatica che chiede molta energia. Puo` accadere facilmente che la spinta a stare in ricerca venga meno, perche´ si deve continuamente fare i conti con la fatica del vivere, cioe` di non avere soste nel camminare essendo noi obbligati a respirare senza un attimo di respiro. La speranza di arrivare alla verita` e`, dunque, sentimento irrinunciabile della vita della mente. Ma la speranza e` parte essenziale della vita cognitiva non solo perche´ la nutre di energia, la tiene in tensione, ma anche perche´ fa trovare al pensiero la giusta direzione. Capita nella vita di sentirsi come in un labirinto, o peggio in una stanza murata, senza vie d’uscita. In questi casi la speranza non solo ci fa sentire che ogni situazione, per quanto difficile possa essere, puo` trovare la sua soluzione, ma “nutre l’intelligenza, la comprensione, fino a farci scoprire l’uscita dove non si presenta” (B: 108). La mente ha necessita` del sentire positivo per vedere vie d’uscita laddove il pensiero da solo non riesce a vederle. La speranza, come tutti i sentimenti positivi, non e` componente irrazionale dell’anima, ma “e` fattore di conoscenza” (B: 110), perche´ “segnala la strada indicando l’altra sponda” (B: 109). E per essere fattore di conoscenza essa richiede conoscenza delle dinamiche che governano la realta`. C’e`, quindi, una dialogica ricorsiva tra il sentire e il conoscere, che chiede di essere costantemente nutrita dalla pratica della meditazione, quel meditare che e` un addentrarsi nei fatti della vita per averne conoscenza adeguta. Anche la fiducia e` sentimento fondamentale al conoscere. Perche´ la realta` appaia occorre aver fiducia nelle cose, nella capacita` dell’essere di farsi presente. Tanto piu` grande e` la fiducia, tanto piu` grande e` la realta` di cui puo` godere la mente. Si tende ad interpretare la vita della mente come un processo essenzialmente razionale, invece il decidersi per la

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ricerca della verita` ha necessita` di quel sentire vitale che e` la fiducia. La conoscenza diventa trasformativa, capace cioe` di un’azione operante sul reale, perche´ nutrita dalla fiducia, che si esprime nel sentire possibile il guadagno di un sapere vero. La fiducia e` essenziale alla vita epistemica. Ma proprio per quella circolarita` ricorsiva che caratterizza ogni fenomeno vitale, va sottolineato che se la fiducia e` nutrimento essenziale del processo generativo della conoscenza, a sua volta la conoscenza che produce evidenze ha l’effetto di aprire l’anima alla fiducia (CGL: 77). E` la fiducia che fa germogliare la quiete della mente, e quando la mente e` quieta si apre al reale. La fiducia, intesa appunto come sentimento tensionale che e` segno di apertura della mente al reale, e` la condizione generativa della disposizione alla distensione, indicata come fondamentale postura della mente nella concezione epistemologica di Zambrano. Solo chi nutre fiducia nelle cose avverte come un’insensatezza il voler controllare ogni fenomeno del reale. Aver fiducia non significa non vedere cio` che nel reale non funziona, ma sottrarsi alla tendenza a riporre nel proprio io ogni possibilita` di ricostituzione dell’ordine dell’essere. C’e`, dunque, una stretta connessione tra fiducia e umilta`. Non meno essenziale al conoscere e` il saper accettare. La realta` nella sua pienezza puo` essere accolta solo se si sa accettare il modo in cui le cose si manifestano, il modo in cui gli altri vengono alla presenza. E questo saper accettare si dovrebbe declinare in modo tanto radicale da tessere una relazione di “vera e propria schiavitu` nei confronti della realta`” (SA: 87), perche´ sono le cose a doverci dire come vorrebbero essere conosciute e noi si dovrebbe stare in una relazione di ubbidienza. L’esatto contrario, dunque, del metodo come dominio. Nel metodo della ragione poetica e amorosa e` la realta` che s’impone alla mente, perche` solo cosı` si consente alle cose di mostrarsi nella loro datita` originaria, nella loro pienezza. Si puo`, dunque, affermare che un certo sentire, e precisamente quello positivo implicante una disposizione passiva, e` condizione del conoscere che cerca un sapere vero. Anche l’elaborazione del metodo, che sembrerebbe l’esito di una procedura altamente razionalistica, e` accompagnata da un sentire, quello positivo dell’allegria. Ogni metodo salta fuori come un Incipit vita nova che si tende verso di noi con la sua inalienabile allegria (CB: 14-15).

Un sentire positivo qual e` l’allegria non emerge solo al termine di un processo conoscitivo, ma sostiene il lavoro del pensare nel suo accadere. Husserl parla della gioia che la coscienza esperisce quando ha percezione

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dello scorrere “libero e fruttuoso” di un atto cognitivo23. Questa tesi del valore epistemico dei sentimenti non si da` come presupposto inverificabile, ma e` un’evidenza di cui ciascuno puo` fare esperienza attraverso quella pratica riflessiva che assume come oggetto la vita della mente nel suo accadere presente. Senza quelli che Weil definisce “sentimenti benevoli” (amicizia, ammirazione, simpatia) la mente e` incapace di trovare le energie richieste dalla 24 ricerca della verita` dell’esperienza . E` nella gioia che la mente sviluppa il 25 sentimento della realta` , quello che tiene la mente aperta alle cose, mentre la tristezza e il dolore indeboliscono tale sentimento perche´ portano la 26 mente a ripiegarsi su se stessa . Senza l’energia che viene da un sentire positivamente orientato nessuno sforzo cognitivo mette in grado da solo di approssimarsi alla verita`. Non e` sufficiente che si faccia vuoto, facendo silenzio dentro di se` e disattivando ogni desiderio e ogni opinione, occorre 27 anche che “si pensi con amore” . E il sentimento che, secondo Zambrano, piu` di ogni altro e` componente essenziale di quel pensare che cerca una comprensione profonda dell’esperienza e` la pieta`, che considera il sentimento originario, il piu` ampio e profondo (SP: 65). La pieta`, che non va confusa ne´ con la carita` ne´ con la compassione, e` “il saper trattare adeguatamente l’altro” (UD: 185), cioe` saper sentire l’altro nella sua alterita` senza schematizzarlo in un’dea astratta in cui va perduta la sua originale differenza. E` quindi sentimento di comunione, poiche´ ci tiene in relazione con altri facendosi risposta al bisogno ontogenetico di convivere con gli altri, essendo l’essere umano fondamentalmente plurale pur nella singolarita` della sua vita. Proprio perche´ ci fa sentire e accettare l’alterita` degli altri piani dell’essere, la pieta` e` quel sentimento che ci mette in comunione con tutti gli esseri, non solo con il prossimo, ma anche con gli animali e con le piante; e`, infatti, quel modo del sentire che ci “situa in modo adeguato tra tutti i piani dell’essere” ed e` in quanto tale che ci consente una comprensione larga e profonda del reale, compreso di esso quanto e` piu` radicalmente differente da noi (SP: 67). La qualita` ontologica dell’essere umano e` quella di sentirsi allo stesso tempo parte della realta` ed eterogeneo ad essa, e mentre ha coscienza della sua solitudine allo stesso tempo percepisce che

23 24 25 26 27

Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica, cit., p. 165. Simone Weil, La prima radice, cit., p. 188. Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 144. Ivi, pp. 204 e 234. Ivi, p. 159.

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la qualita` etica dell’esserci consiste nel trovare la comunione col resto degli enti. La pieta` e` il sentimento che da` voce a questa tensione etica, poiche´ e` “aspirazione a trovare i tratti e il modo di intendersi con ognuna di queste molteplici maniere di realta`” (SP: 68) consentendo all’anima di riconci28 liarsi con la vita .

5.6. La ragione del cuore L’attenzione al sentire occupa buona parte del pensiero di Zambrano, la quale mette in questione la filosofia occidentale proprio per la scarsa considerazione che riserva a questa parte oscura e palpitante dell’essere. In particolare sottolinea le risorse che la filosofia ha dedicato alla costruzione del metodo per la ricerca scientifica, senza che si sia preoccupata dei sentimenti che stanno al fondo e dirigono l’essere di ciascuno. L’iperrazionalismo della nostra cultura ha tagliato fuori l’essenziale, per questo ci manca quella comprensione della vita cui tutti aspiriamo. La valorizzazione della sfera del sentire e` un tratto che accomuna Zambrano ad altre pensatrici a lei contemporanee. Anche se raramente Arendt prende in esame i sentimenti, concettualizza, pero`, l’idea di un “cuore che comprende”. Come Zambrano preferisce portare l’attenzione sui sentimenti positivi, come la gioia, che consi29 dera elemento essenziale al venire in essere di una relazione dialogica ; ma affronta anche il tema non facile dei sentimenti nobili come l’amicizia. 28

In questa primarieta` assegnata alla pieta` in virtu` del suo metterci in comunione con tutti gli enti si rintraccerebbe un afflato cosmico in cui Zambrano, anche se a livello di ragione germinale, anticipa temi della piu` attuale filosofia ecologica. In questo puo` aver agito il suo vivo interesso per i temi sviluppati da Scheler, in particolare il suo indicare l’essere umano come quello che, diversamente dagli altri esseri non si adatta mai a nessun ambiente. Mentre gli altri enti sono completamente situati dentro l’ordine delle cose, l’essere umano conosce “il sussulto dell’uscir fuori” (DD: 120). Ma quando percepisce di se´ solo il suo essere estraniato dalla natura e su questo sentire si concentra il suo meditare, allora finisce per smarrire il radicamento nell’essere. L’intuizione di Zambrano e` di aver stabilito una connessione fra la possibilita` di un sentire che ci tenga in comunione con l’essere e la necessita` di un modo interconnesso di pensare l’essere, oggi si direbbe un’ontologia della relazionalita`. Se, pero`, in una certa filosofia ecologica contemporanea la tensione ad evidenziare l’interconnessione fra tutte le forme di vita rischia di annullare la posizione originale dell’essere umano, Zambrano, invece, sottolinea la compresenza in noi di partecipazione e di solitudine rispetto al mondo circostante della vita e accenna alla ricerca di “un modo adeguato” di situarci nelle varie zone dell’essere. 29 Hannah Arendt, L’umanita` nei tempi oscuri. Riflessioni su Lessing, in “La societa` degli individui”, 2001, n. 7, p. 16.

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Da raffinata fenomenologa quale e`, Arendt fornisce riflessioni interessanti sulle emozioni, che invita a considerare sempre incarnate: Ogni emozione e` un’esperienza somatica: il cuore mi duole quando sono addolorata, si scalda con la simpatia, si apre nei vari momenti in cui l’amore o la gioia mi colmano, e sensazioni fisiche consimili si impadroniscono di me con la rabbia, la collera o altri affetti30.

Un’altra fenomenologa, Edith Stein, che attraverso l’analisi dell’empatia ci offre un metodo per la descrizione rigorosa della sfera del sentire, 31 parla di “pensieri del cuore” e del cuore come del “vero e proprio centro 32 della vita” . Per lei il cuore va pensato come il profondo dell’anima, ed e` vivendo da questa profondita` che si puo` vivere una vita piena e raggiun33 gere l’intensita` del proprio essere . Non c’e` vita che si trasformi in cammino se oltre ad inoltrarsi nel mondo non si frequentano anche i sentieri della vita interiore. Weil, che dedica ad un‘analisi puntuale dei sentimenti molte delle sue riflessioni contenute nei Quaderni, sostiene che i sentimenti giocano un ruolo fondamentale non solo nella vita privata, ma 34 anche nel determinare la direzione di molti degli avvenimenti politici . In queste pensatrici l’attenzione al sentire non e` una semplice riabilita35 zione della sfera emozionale rispetto a quella razionale , ma risponde all’intenzione di pervenire ad un’interpretazione ‘piu` intera’ della vita della mente e insieme al desiderio di dare la giusta attenzione alla dimensione affettiva della vita. Perche´ il sentire e` il fondo invisibile dell’esperienza, nella vita quotidiana come nei contesti pubblici: e` il nocciolo di ogni evento, la sua direzione piu` intima e mai interamente disvelabile. Solo l’attenzione ai sentimenti mette il pensiero nelle condizioni di cogliere l’esperienza vivente, l’intensita` della vita. Le pensatrici qui citate hanno fornito un notevole contributo alla messa a tema della sfera emotiva, che pero` non va confuso col mero interesse per la vita interiore. Cio` che le accomuna e` la diffidenza per il ripiegamento intimistico, mentre ad orientarle e` l’attenzione al nucleo 30

Hannah Arendt, La vita della mente, cit., p. 114. Edith Stein, Scientia crucis. Studio su S. Giovanni della Croce, Postulazione Generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1982. 32 Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 35. 33 Ivi, p. 35. 34 Simone Weil, La prima radice, cit., p. 188. 35 Laura Boella, Cuori pensanti, cit., p. 93. 31

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vitale dell’esperienza, alla “soggettivita` vivente e concreta”36. Puo` sembrare strano che un’attenta e interessata lettrice di Agostino come e` Zambrano e, insieme a lei, anche Arendt prendano le distanze dal pensare ripiegato sull’interiorita`, l’una concependo il pensare come un entrare nella realta` innamorandosi delle cose e l’altra concependolo in senso socratico come indagine mai conclusa sulle questioni irrispondibili che e` condizione essenziale all’esercizio del giudizio. Ma l’introspezione da cui prendono le distanze non e` quella di Agostino, perche´ il suo “se quaerere: quaestio 37 mihi factus sum” non e` uno sprofondare negli abissi dell’intimita` dove si rischia di perdere il mondo, ma un interrogare se´ per trovare Dio. La diffidenza di queste pensatrici e` rivolta a quel ripiegamento intimistico che in periodi ricorrenti torna di moda e che rischia spesso di tradursi in una forma di emigrazione interiore. Ad accomunare queste donne e` non solo l’aver riabilitato il sentire come ambito di riflessione, ma di essere riuscite a parlare con equilibrio e sobrieta` dei sentimenti, evitando di scivolare nel sentimentalismo e nello psicologismo. Zambrano, pero`, azzarda un passo ulteriore, perche´ non si limita a riabilitare il sentire, ma va oltre i tradizionali dualismi che costituiscono i nodi strutturanti del pensiero occidentale. Primo fra tutti il separare l’organo del sentire (il cuore) dall’organo del pensare (la mente). E` quanto, invece, continua a fare anche Arendt, che colloca il sentire nell’anima tenendo questa ben separata dalla mente: L’anima da cui sgorgano le nostre passioni, i nostri sentimenti e le nostre emozioni, e` un vortice piu` o meno caotico di eventi che noi non mettiamo in atto, ma patiamo (pathein) e che in circostanze di forte intensita` possono travolgerci, come avviene con il dolore o il piacere ... La vita della mente, al contrario, e` pura attivita`, un’attivita` che, alla stregua delle altre, puo` essere 38 avviata e interrotta a volonta` .

Arendt, che rigorosamente e con finezza di pensiero ha messo in questione i dualismi che hanno strutturato l’impianto della filosofia occidentale, conserva tuttavia la distinzione fra anima e mente, e parla della mente come pura attivita`, quasi che la cognizione fosse disgiunta dal sentire. Invece, sentire e pensare stanno insieme, intricati, ingarbugliati. Zambrano, adottando lo stile poetico del pensare, non cade nella trappola dei dualismi: parla dell’anima e del sentire dell’anima, senza postulare una 36 37 38

Ivi, p. 94. Agostino, Confessioni, X, 25. 50. Hannah Arendt, La vita della mente, cit., pp. 154-155.

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possibile distinzione dalla mente. E cosı` ci aiuta a tenere la riflessione raccolta sull’unita` dell’essere, dove i pensieri sono sempre emozionati, densi di affettivita`, e le emozioni sono sempre in relazione con precise concettualizzazioni. E` sulla base di questo stile cognitivo che Zambrano struttura la sua originale concezione dell’intelligenza come “intelligenza del cuore”. Si tratta di una forma differente di intelligenza rispetto a quella che presiede la ricerca scientifica, ma e` altrettanto reale e certamente non di minor valore. E` l’intelligenza necessaria alla vita, necesssaria per convivere con altri trovando un modo felice di camminare insieme nel tempo. A diffe39 renza dell’intelligenza scientifica non da` potere , ma e` essenziale per tessere relazioni che fanno lavoro di civilta`. Il problema e` che come tutte le cose essenziali per la vita anche questa non e` padroneggiabile, nel senso che non e` una tecnica di cui disporre e che puo` essere trasmessa da una persona all’altra per mezzo di un atto volontaristico. E` di quelle cose che si apprendono per contagio, abitando luoghi dove di questa intelligenza altre e altri danno testimonianza diretta nel loro modo di guardare gli altri e di sentire la vita.

39

Luisa Muraro, Il Dio delle donne, cit., p. 97.

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6 Scrivere di formazione

6.1. Disfare i discorsi sistematici Il mestiere dell’educare ha molto da imparare dalla pratica del disfare che Zambrano insegna, perche´ il suo rischio e` quello di fare troppo, di riempire ogni istante del tempo senza lasciare istanti vuoti. Quando prende forma la paideia socratica il processo educativo diventa il dialogare con altri per cercare insieme di aver cura dell’anima, cercando la virtu` e la saggezza (Platone, Apologia di Socrate). Con Dewey l’educare viene a qualificarsi come offerta di esperienze significative, significative nel presente. Recentemente la cultura manageriale, che ormai pervade ogni campo della vita, ha prodotto l’interpretazione dell’educare come esecuzione di una serie lineare di azioni di insegnamento anticipatamente definite da una progettazione, ossia da una pianificazione dettagliata di ogni momento e spazio dell’azione formativa. Rispetto a questo fare frenetico senza pause, che non lascia respiro, la cui legittimazione va cercata in quella logica utilitaristica che afferma il bene stare nello sfruttare intensamente ogni spazio del tempo, la formazione dell’educatore e` intesa come un lavorare ad attrezzarsi di competenze, a riempire la mente di concetti e strumenti da cui ci si attende l’agire efficace. E cosı` ci si dimentica che l’arte dell’educare e` innanzitutto un lavoro di relazione, quella relazione magistrale che funziona se la maestra sa creare lo spazio dell’incontro, se sa accogliere l’allieva. La possibilita` che prenda forma un’autentica pratica educativa, intesa qui come il coltivare il respiro libero dell’anima, si gioca tutta in questo atto aurorale, che consiste nel saper accogliere l’altro, fare posto al suo essere in quanto condizione per il germinare della relazione. La relazione e` possibile se c’e` posto per entrambi. Si tratta di coltivare e salvaguardare nella relazione una zona vuota. Poiche´ la relazione educativa e` fortemente asimmetrica questa azione e` responsabilita` dell’educatore. Significa creare le condizioni del proprio non-agire, del proprio esser-ci-passivamente cosı`

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da lasciare all’altro sufficienti spazi di decisione sul come muoversi nella relazione, sul come venire alla presenza in fedelta` a se´. Il rischio e`, invece, che il docente riempia troppo di se´ lo spazio relazionale, che lo riempia dei suoi saperi – concettuali e procedurali –, delle sue precomprensioni non sapute, delle sue aspettative spesso ossessivamente coltivate, dunque che ingombri tutto lo spazio col suo esserci. E diremmo arendtianamente del suo “che cosa”, cioe` di quel che sa fare, e non del suo “chi”, che invece per apparire ha bisogno della pluralita`. E` rispetto a questo rischio del troppo pieno di se´ che si rivela il valore – innanzitutto in termini autoformativi per l’educatore – della pratica del disfare: “disfare quanto visto, vissuto, accumulato” (DD: 21). Disfarsi di quanto si e` appreso, disattivare quei dispositivi che, quando messi in azione, recintano l’altro in uno spazio delimitato impedendo che possa venirci incontro a partire da se´. Troppe teorizzazioni, troppe aspettative, troppi dover essere, troppe pianificazioni ingombrano lo spazio dell’educare fino a togliere ogni respiro. Si tratta allora di disapprendere, di disfarsi del troppo pieno dell’io, per consentire un incontro aurorale con l’altro. Disfarsi non solo del sapere accumulato, ma anche delle aspettative che l’educatore tende a mettere in gioco, spesso senza misure, senza attenzione ai desideri dell’altro. Spogliarsi del troppo pieno di se´ per fare dentro di se´ il deserto, inteso come quello spazio aperto e intatto dove solo puo` accadere l’incontro con l’altro. Per fare posto all’altro occorre “svuotarsi di tutto” (DD: 59), praticare azioni di disapprendimento. Solo cosı` puo` germinare una reale relazione educativa, dove l’altro puo` respirare a pieni polmoni il suo poter essere possibile. Questo disfare non va pero` limitato ad una pratica professionale, ma agito in tutta la sua portata di pratica del vivere, che rende possibile il mestiere del divenire che e` cercare la propria forma. Disfare e` fare posto alla vita, al suo fondamento. Disfare non e` negazione dell’essere, ma e` un devitalizzare, non privo di sofferenze, le costruzioni in cui recintiamo e deformiamo il nostro divenire: “l’appropriazione dell’essere, il dominio dell’io, le ossessioni 1 chiamate abitudini, l’incedere della violenza della liberta`” . E` devitalizzare le certezze alle quali ci attacchiamo e che ci impediscono di vivere a pieni 1

Annarosa Buttarelli, Poesia madre della filosofia. Per una filosofia della passivita` efficace, in Chiara Zamboni (a cura di), Marı´a Zambrano, in fedelta` alla parola vivente, Alinea Editrice, Firenze 2002, pp. 13-34, in part. p. 16.

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polmoni la vita nel suo apparire di forme e fenomeni imprevisti. Avere certezze significa sapere mettere in forma le cose. Ma cosı` le cose non sono pienamente vissute. Il disfare, dunque, si profila come primaria pratica di autoformazione, di lavoro su di se´. E non si tratta di disfare cio` che sta all’esterno: teorie, sistemi, procedure, logiche organizzazionali; ma di lavorare all’interno disattivando tutti i nostri attaccamenti agli artefatti di cui e` possibile disporre e nei quali spesso corriamo l’errore di identificarci. E` attraverso questa operazione di spossessamento dell’io, di devitalizzazione dei nostri attaccamenti, che si crea nell’anima quello spazio libero che fa scoprire “altri modi di stare nel tempo, altri modi di stare in presenza di tutto cio` 2 che c’e`, che e` e non e`” : “restare al meno, con il meno” (DD: 86). Desiderare non di essere, inteso qui quell’essere che realizza un’idea, ma lasciarsi divenire “pagliuzze d’essere” (DD: 23). Quello che non si insegna agli educatori, maestri ed insegnanti, e` che la formazione e` innanzitutto un lavoro su di se´. Solo agendo su se stessi si puo` diventare strumento per la formazione dell’altro, nel senso di generare nell’altro la passione per la propria autoformazione.

6.2. Dare parola all’esperienza Compito dell’educatore impegnato a costruire una teoria della pratica educativa e` quello di trovare un discorso che sta al proprio dell’esperienza educativa, che consiste nell’individuare quali esperienze sono da promuovere per facilitare nell’altro la ricerca del suo divenire piu` proprio, compito questo che sempre rivela la nostra mancanza di strumenti culturali adeguati. Certa pedagogia parla pretendendo di sapere troppo rispetto a quella domanda iperbolica che sta all’origine della ricerca di un sapere dell’educare: “che fare” affinche´ l’altro si ponga la domanda del “che fare” e trovi il metodo per stare alla ricerca di una risposta? A questa domanda Socrate non aveva risposte, dichiarando essere cosa ardua impadronirsi dell’arte 3 che ha per fine la cura dell’anima dei giovani , perche´ di essa non esiste 4 dottrina alcuna che possa essere insegnata . Per tale ragione non si puo` 5 essere maestro di nessuno . Socrate insegna che si puo` solo stare alla 2 3 4 5

Ivi, p. 19. Platone, Lachete, 185d-186e. Platone, Apologia di Socrate, 33b. Platone, Apologia di Socrate, 33a.

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continua ricerca di una risposta. Ne consegue che i discorsi che sono chiamati a render conto della ricerca di una teoria dell’educare non possono essere troppo sistematici. La pedagogia, invece, in molti casi costruisce discorsi compiuti, ingegneristici. Mira a verita` generali, quelle 6 che non illuminano il particolare . Quando dialoga con la filosofia, di questa tende ad apprendere il suo lato sistematico, non quello problematico. Presa dal fascino del metodo cartesiano cerca una chiarezza omogenea e estesa. E per trovarla scantona le zone opache dell’educare. Ma la realta` dell’educare e` cosa densamente problematica, complessa; una zona paludosa, rispetto alla quale non e` possibile costruire discorsi sistematici e definitivi, e quando le cose appaiono chiare e distinte allora significa che qualcosa di essenziale non abbiamo messo nel conto. L’educazione ha a che fare col problema della vita, che e` il divenire il proprio poter essere nella mancanza di essere in cui ciascuno si trova. Un compito arduo, perche` e` un problema troppo opaco per sperare di tradurlo in discorsi chiari e distinti. Occorre saper stare nell’opacita`, sapendo che quello che ci e` dato trovare e` solo qualche “filo di luminosita`” (NM: 25). Al pensiero pedagogico autentico, cioe` quello che accetta la natura del suo oggetto, che sa quindi essere fedele al profilo densamente problematico dell’esperienza educativa, che nella sua essenza e` relazione con l’altro, sono accessibili solo pagliuzze sparse di discorso. Zambrano suggerisce di scartare ogni tentazione per i discorsi formalistici per mettersi alla ricerca di una conoscenza capace di un valore 7 trasformativo . Per essere trasformativa una scrittura deve agglutinare il senso vivo dell’esperienza in cui il discorso e` radicato. Da mettere in parole e`, dunque, un sapere dell’esperienza, cioe` un sapere che con la realta` si misura, e tale e` quello che si traduce in un discorso dove i pensieri portano ancora traccia viva del pensare, quei pensieri che non sono strutturati in modo da dare l’impressione che il lavoro del pensare abbia finalmente trovato una sua conclusione, ma mantengono vivo il travaglio riflessivo da cui hanno preso forma. Il problema primario consiste nel fuggire la tentazione dell’astrazione e ammettere solo quelle parole che vanno incontro all’esperienza, senza cercare appoggi entro percorsi costituiti. Evitare il gia` detto non equivale ad evitare la frequentazione di quei

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Nel contesto di un laboratorio di formazione alla pratica della riflessione una maestra di scuola dell’infanzia e` intervenuta nel gruppo di discussione con queste parole: “Sı` le teorie servono, possono servire, pero` ti dicono delle cose generali e il caso che hai davanti e` sempre un’altra cosa, ti serve altro” (settembre 2004). 7 Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata, cit., p. 14.

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discorsi che si ritengono autorevoli, che invece debbono costituire delle linee guida per continuamente problematizzare le interpretazioni che andiamo costruendo dell’esperienza. Da evitare sono quelle forme di discorso in cui le direzioni esplicative sono gia` definite. Per cercare un discorso che sappia tenersi aderente all’esperienza senza chiudere il pensiero in asfissianti forme dottrinali, Zambrano suggerisce di chiedere aiuto alla parola poetica. La filosofia, dice Zambrano, ha bisogno della poesia. La pedagogia anche, diciamo qui, ha bisogno della poesia, di un discorso che abbia della poesia la sua densa leggerezza. Cosı` come puo` salvare la filosofia dal suo costituirsi come discorso lontano dalla vita e chiuso in discorsi troppo sistematici, cosı` la poesia puo` aiutare la pedagogia a liberarsi da quel linguaggio tecnicistico che, sotto l’apparenza di competenza, nasconde spesso l’inaccessibilita` alle zone oscure dell’educare, con l’effetto di produrre quelle semplificazioni ermeneutiche che sono all’origine di discorsi incapaci di farsi misura misurante dell’agire educativo. Per disegnare un discorso pedagogico capace di costituirsi come discorso con senso, per pensare e dare ordine alla pratica educativa, e` necessario che lo scrivere si mantenga fedele al principio enunciato da Zambrano: “Salvare le parole dalla loro vanita`, dalla loro vacuita`, dando loro consistenza, forgiandole durevolmente” (SA: 25). E` questo lo scopo che dovrebbe perseguire chi intende scrivere davvero. disfare la tendenza alla formalizzazione stringente Per cercare la parola poetica dell’educazione occorre innanzitutto disfare. Anche la pedagogia ha il suo linguaggio dell’ovvieta`, linguaggio pronto all’uso, dove le parole si combinano secondo regole estranee all’essere delle cose. Spogliarsi di questo linguaggio logorato che non ha rimandi con l’esperienza e cercare parole dove il loro essere risuona e` l’imperativo epistemologico che qualifica la ragione poetica. E poi disfare la tendenza ai discorsi sistematici, che tutto pretendono di portare all’evidenza in concetti chiari e distinti. Un pensiero che sta vicino alla vita non puo` pretendere di ridurre il senso vivo e problematico dell’esperienza in un discorso declinato solo sulla ricerca di concatenazioni logiche. Poiche´ le direzioni di senso dell’educare e` cosa che si fatica ad individuare e che anche quando prendono forma nella mente hanno sempre l’aspetto di pensieri provvisori, mai definitivamente compiuti, la teoria pedagogica non puo` pretendere la forma del discorso architettonicamente sistematizzato. L’educazione ha luogo tra persone; ogni persona e` un ente vivo

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avvolto nel concreto, le cui direzioni di realizzazione non sono facilmente decifrabili. Per questa ragione nella relazione educativa l’altro o, meglio, gli altri (perche´ il lavoro dell’educare si da` nella pluralita` delle relazioni) sfuggono alla possibilita` di una comprensione chiara, cosı` che il senso di quello che accade fatica ad essere messo in parola. Proprio perche´ nella relazione educativa c’e` l’altro che e` destinato, fortunatamente, a rimanere trascendente, ci sono zone dell’esperienza educativa insolubili, che non si riesce a sciogliere nella parola. La mia stessa coscienza di persona impegnata nel mestiere artistico dell’educare in molti punti mi rimane opaca, soprattutto rispetto al sentire che impregna la mente. Avvertire di non avere accesso ad una comprensione adeguata dell’altro, e allo stesso tempo di non riuscire ad avere di se´ quella chiarezza che si vorrebbe, costituisce una strettoia per il pensiero, una strettoia nella quale occorre imparare a stare, a patirla senza cercare scorciatoie, pena il cadere in pseudosoluzioni che mancano una presa trasformativa sul reale. E` difficile stare nella strettoia senza ansie di soluzioni veloci, perche´ il difficile dell’agire educativo o di chi e` preso dal costruire teorie sull’educare e` che deve trovare criteri di decisione per l’azione e l’azione ha i suoi tempi che difficilmente si piegano ai ritmi lenti di cui ha necessita` la mente quando e` impegnata a cercare una comprensione adeguata degli eventi. Educare non e` il lavoro disinteressato del filosofare, che puo` essere sospeso ogniqualvolta la mente ne senta la necessita`, educare e` un lavoro impegnato, preso dentro i ritmi non sempre governabili della vita. Proprio la pressione a decidere quale azione intraprendere, e quindi a definire discorsi capaci di orientare l’agire, possono spingere alla fretta di guadagnare quanto piu` velocemente possibile un pensiero chiaro e lineare. E` proprio in questi casi che occorre attivare la pratica del disfare e accettare momenti di passivita`: disfare la tendenza a cercare discorsi apollinei, disfare l’ansia che spinge affannosamente a risolvere ogni zona opaca, ogni contraddizione, e accettare la propria mancanza di comprensione, l’inadeguatezza della ragione rispetto alla complessita` dell’esperienza. Accettarsi mancanti di sapere e saper patire la sofferenza che genera il sapere di non sapere. Come direbbe Hannah Arendt si tratta di fermarsi e pensare, quel pensare che innanzitutto si declina nel saper accettare l’eccedenza dell’esperienza educativa rispetto alla parola. Solo dopo che si e` accettato la mancanza del sapere che tutto rischiara ci si puo` decidere in modo autentico ad obbedire al principio di cercare quella parola che sappia trattare adeguatamente l’esperienza. Zambrano suggerisce di cercare una parola incarnata. Dare corpo alla

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parola non significa cadere in un linguaggio materialistico, ma cercare una parola che si porta appresso la pesantezza dell’esperienza. Cercare una parola incarnata vuol dire dar voce ad un pensiero che sta nel vivo dell’esperienza, che e` uno stare in carne ed ossa. Il Verbo della religione cristiana e` parola di verita` perche´ si e` fatto carne, ossia ha accettato di patire l’esperienza viva. Solo allora la parola si fa vera ed in essa puo` accadere il germogliare della luce. Il sapere dell’esperienza non puo` essere un discorso apollineo, depurato da ogni incertezza, un discorso neutro da cui e` bandita ogni sofferenza, che invece e` cosa inevitabile dell’umana esperienza; l’esperienza del vivere, ma anche quella dell’educare e quella del fare ricerca. Una parola che si fa corpo e` quella che, incarnando il principio della lealta` e della fedelta` al reale, restituisce all’attenzione del pensiero il sapore dell’esperienza, senza tagliar via nulla, compreso cio` che non risulta comprensibile, il troppo opaco, compresa la sofferenza, quella che toglie il respiro necessario a stare nella ricerca della verita`. Per questo la parola incarnata e` quella che non solo dice l’amore per le cose ma anche il nostro non sapere fino in fondo le cose, una parola che dice gli scarti del pensiero oltre che gli approdi. Paradossalmente e` proprio in questo suo stare nell’opacita` dell’esperienza, nel patirla fino in fondo, che la parola incarnata apre spazi al germogliare della luce. L’epistemologia del lavoro poetico suggerisce uno sguardo aperto, che “lavora perche´ tutto cio` che esiste e cio` che non esiste arrivi ad essere” (FP: 28). Da sviluppare e` quell’atteggiamento poetico che non investe l’altro, perche´ sta in ascolto del suo dirsi e lavora a trovare le parole vere. La ragione poetica chiede di arrischiare l’abbandono del pensiero argomentativo astratto, che racchiude l’oggetto del discorso nella formazione di concetti, costruendo di essi relazioni causali e finali, in cui il reale sembra essere stato portato alla massima chiarezza, mentre cosı` non e`. Interessata non alla questione dell’essere in generale, ma ai singoli esseri nella loro individualita` essenziale, Zambrano indica la necessita` di un discorso che sappia rendere conto di ogni forma esperienziale nella sua unicita`. Cio` che e` concreto e vivente puo` essere compreso solo se si rimane fedeli al suo profilo originale senza pretendere di sussumerlo entro discorsi generali. Per muoversi in questa direzione occorre sperimentare 8 pratiche che aiutino ad interrompere l’attivita` abituale del pensiero per riuscire a trovare la via di accesso a quella parola che fedelmente dica l’esperienza. La parola capace di dire il senso che si va tessendo nella 8

Annarosa Buttarelli, Poesia madre della filosofia, cit., p. 23.

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relazione educativa, o meglio i sensi differenti, molteplici: quello dell’educatore e quello di ogni altra persona che sta nella rete delle relazioni che strutturano il contesto dell’educare. La via e` quella della passivita` attenta al dirsi dell’altro nel suo divenire. Stare ascoltanti, con uno sguardo innamorato dell’esperienza, con uno sguardo amoroso. cercare parole che fanno passare l’esperienza La parola vera e` quella leale, fedele all’esperienza, perche´ per dire parole vere occorre ubbidire al principio di fedelta` alle cose. Il principio di fedelta` si puo` dire fondato su una ragione necessaria, poiche´ e` una risposta metodica alla constatazione che se l’apparire delle cose e` sempre manifestazione della loro essenza, tuttavia l’apparenza mai completamente disvela l’essenza. Ma l’esperienza eccede il potere della parola. Ogni cosa contemporaneamente si annuncia e si nasconde. Cosa questa evidente quando si vuol avere conoscenza delle persone, come e` proprio della pratica educativa. Ogni persona si offre alla conoscenza, ma allo stesso tempo sempre qualcosa rimane nascosto. La conoscenza che possiamo raccogliere e mettere insieme e`, dunque, sempre radicalmente inadeguata. Ogni volta che si riprendesse la ricerca della conoscenza dell’altro, questi non finirebbe mai di sorprendere. Sempre e inevitabilmente l’accesso alla realta` deve fare i conti col suo serbare una zona di mistero. Proprio perche´ molte sono le zone opache nella pratica educativa, allora il discorso fedele all’esperienza dell’educare puo` avere l’aspetto di un parlare non terminato, dove molti sono i momenti di silenzio. Dal momento che non tutto riesce a tradursi in parole, da cercare e` una parola porosa, un discorso punteggiato di fessure dove si accenni al mistero irrisolvibile dell’altro. Perche´ col pensiero si arriva in presenza della realta` quando si fa posto, nel senso di lasciar essere al suo posto, cio` che necessariamente rimane nascosto. Far posto al profilo nascosto dell’esperienza significa chiedere alla parola di far trapelare il suo contrario: il silenzio. Perche´ la parola vera e attiva e` quella intessuta di silenzio. Una parola che sappia trattare con delicatezza la materia della vita con cui ha a che fare l’agire educativo e` quella che “vorra` unirsi a esso (il silenzio) invece di distruggerlo: ‘musica silenziosa’, ‘solitudine sonora’ ...” (SA: 36). Per trovare parole intessute di silenzio e` necessario che innanzitutto si sappia stare nel silenzio, nel senso di tacitare i discorsi gia` compiuti, perche´ solo nel silenzio accade il germinare lento della parola viva. E` nel connubio tra parola e silenzio che il discorso puo` trovare il ritmo del dirsi dell’esperienza. La questione del

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ritmo, del discorso che deve trovare un ritmo, e` fondamentale in Zambrano, poiche´ “il ritmo e` uno dei fenomeni piu` profondi e decisivi della vita” (SA: 38). Il pensare poetico diventa allora una necessita`. La capacita` della poesia e` quella di dire l’evidenza delle cose e, allo stesso tempo, attingere a quella parola intessuta di silenzio che delle cose accenna al loro lato nascosto, al mistero che sempre traluce tra le poche isole delle evidenze sperdute nel mare dell’indicibile. E` attenzione al non visibile, al residuale. e se fosse la metafora E se fosse la metafora il nucleo del discorso che si va cercando? La parola enunciativa, che ordina il discorso in lucide architetture concettuali non sempre e` adeguata, anzi puo` ingannare, perche´ da` l’impressione di aver raggiunto una chiarezza di fatto irraggiungibile. La metafora e` quel modo del discorso che dice e non dice allo stesso tempo. Puo` essere lo strumento essenziale della ragione poetica. Una delle mancanze piu` tristi del tempo attuale e` quella di metafore vive e attive, che s’imprimono nell’animo delle genti e lasciano un segno nella loro vita (SA: 43).

Da cercare sono quelle metafore che riescono ad avvicinare in modo indiretto la realta` cosı` da riuscire ad accennare quei nodi dell’esperienza che, irriducibili al linguaggio ordinario, rimarrebbero altrimenti indicibili. Cercare metafore non significa semplicemente cercare immagini poetiche, lasciandosi affascinare dal gusto estetico di pervenire ad una creazione artistica, ma cercare quelle forme del dire che meglio accennano all’essenza dell’esperienza, al sentire originario in essa attivo e spesso impenetrabile. Per evitare etichettature di irrazionalismo al pensiero di Zambrano, etichettature che si riferiscono proprio al concetto di ragione poetica e all’uso metaforico del linguaggio da lei praticato, e` necessario precisare che la metafora non e` una forma imprecisa del pensiero, ma svolge “la funzione di definire una realta` che la ragione non puo` comprendere ma che puo` essere captata in altro modo” (SA: 44). La metafora e` un modo di presentare una realta` che non puo` rendersi accessibile nel discorso ordinario e che, se fosse costretta a dirsi in tale linguaggio, diverrebbe ineffabile. Anche la scienza usa il linguaggio metaforico e suggerisce di ricorrere all’uso di metafore ogni volta che le parole mancano. Dunque ne riconosce il valore, ma le assume come strumento transitorio, cioe` ne accetta l’uso fino a quando non prendera` forma un paradigma linguistico capace

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di sciogliere ogni zona opaca. Quello che, invece, suggerisce Zambrano e` di privilegiare sempre l’uso di metafore, perche´ sempre qualcosa sfugge e la metafora e` il modo proprio di un linguaggio che sa trattare adeguata9 mente la realta`, perche´ capace di una risignificazione creativa . La metafora e` quello strumento cognitivo che accenna ad una realta` che non riesce a dirsi attraverso i modi consueti del linguaggio. Ci sono intuizioni che non riescono a trovare espressione; se la mente trattasse queste intuizioni col linguaggio ordinario, allora la realta` che l’intuizione coglie si ribellerebbe, si sottrarrebbe, diverrebbe ineffabile. La metafora e` l’unica forma in cui certe intuizioni si rendono visibili. Le parole vere non hanno mai l’aspetto di un discorso compiuto, finito; piuttosto hanno l’apparenza di un nucleo che attende di svilupparsi. Non perimetrano con sicurezza isole di significato, perche´ non sono niente di piu` che “il batter d’ali del senso” (CB: 90). Nelle parole vere non c’e` ansia di dominare le cose. Non lasciano trapelare alcun desiderio di affermazione della verita`. Il dire della parola vera ha la forma dell’accennare; un accennare che mentre evoca il senso che si assegna all’esperienza 9

Molte sono le metafore ricorrenti nel pensiero di Zambrano: quelle della luce, del risveglio, del riscatto, del cuore (Rosella Prezzo, Metafore della lettura, cit., 41), ma anche quella del naufragio e dell’esilio. Come per molti altri temi anche rispetto a quello dell’uso delle metafore Zambrano e` stata profetica. Rispetto ad una cultura che svalutava la metafora come espressione di un pensiero non logico Zambrano sottolinea tutta la sua potenza comunicativa anticipando riflessioni che della metafora portano alla luce la sua capacita` di sollecitare la mente a trovare nuove connessioni tra idee differenti, che hanno l’effetto di generare nuove intuizioni (George Lakoff, Mark Johnson, Philosophy in the Flesh. The Embodied Mind and its Challenge to Western Thought, Basic Books, New York 1999, pp. 118-129). La metafora e` il mezzo attraverso il quale noi elaboriamo il senso dell’esperienza. Questo strumento cognitivo sarebbe cosı` intimamente pervasivo delle varie forme di pensiero che se si eliminassero le metafore cio` che rimarrebbe del pensiero sarebbe cosı` impoverito di significato da non essere di alcuna ultilita` per attivare processi di comprensione dell’esperienza. Lakoff e Johnson sostengono che “eliminando la metafora si eliminerebbe anche la filosofia” e con essa gran parte delle strutture basilari del discorso scientifico che di metafore si nutre ampiamente (ivi, p. 129). In genere il ricercatore ricorre all’invenzione di immagini metaforiche quando non dispone degli strumenti linguistici capaci di esprimere la nuova visione delle cose che sta emergendo. Cio` accade piu` frequentemente nei momenti di crisi, quando e` in atto un cambiamento di paradigma. In questo senso la produzione di metafore e con essa l’esercizio dell’immaginazione, che va oltre cio` che appare evidente per prefigurare altre rappresentazioni, svolge un ruolo insostituibile non solo nella ricerca scientifica, ma per la vita di una cultura. Il ricorso alla metafora favorisce, generalmente, l’emergere di un approccio conoscitivo al quale il pensiero concettuale tradizionale difficilmente consente di accedere. Anche se si preferisce presentare il discorso scientifico sotto forma di proposizioni protocollari esenti da influenze estetiche ed emotive, in realta` il ricorso all’analogia e` frequente nella scienza, perche´ laddove la logica si arresta il ricorso a processi analogici svolge un ruolo essenziale.

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allo stesso tempo lascia percepire lo spazio dell’indicibile che contorna i frammenti di senso. Il dire misurato, che accenna senza pretendere di esaurire il senso del discorso che si va tessendo, e` manifestazione di una “ragione fecondante”, quella che non si occupa di dispiegare argomentazioni stringenti – che la liberta` di pensiero deve temere ancor piu` dell’ortodossia –, ma si preoccupa di favorire l’emergere di “ragioni seminali” (CB: 112), quelle che, a differenza delle ragioni sistematiche, tengono aperto il pensiero all’ulteriore. il tempo dello scrivere Chi e` impegnato nell’arte dell’educare – proprio per la responsabilita` che questa pratica comporta – si lascia assorbire dall’azione, quella di progettare, attuare, valutare, e questo essere assorbiti lascia poco tempo, se non nulla, alla scrittura. Invece scrivere salva l’azione. Perche´ scrivere disegna lo spazio e il tempo della riflessione, crea quel luogo della temporalita` dilatata in cui “proprio la lontananza da tutte le cose concrete rende possibile una scoperta di rapporti tra di esse” (SA: 23). Scrivere e` diverso dal parlare: Parliamo perche´ qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’esterno, da una trappola in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie alla parola ci rendiamo liberi, liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea (SA: 23).

Ma la parola orale non ci mette al riparo dalla tendenza alla dispersione; un uso eccessivo del parlare, senza gli spazi meditativi aperti dalla pratica della scrittura, rischia di produrre una disgregazione del pensiero. Scrivere, invece, aiuta il pensiero a raccogliersi, aiuta a pensare “partendo dal centro del nostro essere raccolto in se stesso” (SA: 24). Aiuta a pensare partendo sa se´. Lo spazio del pensare aperto dallo scrivere favorisce l’addensarsi di significato nelle parole, che cosı` diventano capaci di far risuonare il senso dell’esperienza. Lavorare sulle parole scrivendo aiuta a ritrovare l’amicizia con le cose. Scrivere non e` mettere sulla carta una verita` gia` trovata; scrivere e` parte costitutiva e consistente del lavoro di ricerca della verita` dell’esperienza. E` scrivendo che trova compimento la ricerca della conoscenza, perche´ “le grandi verita` non si e` soliti dirle parlando” (SA: 25). Lo scrivere che accompagna la ricerca della verita` e` un lavorare a trattenere le parole, scavarle dentro per spogliarle del troppo ingombro dei significati consunti che si portano appresso, ridurle all’essenziale, e poi di ogni parola trovare quella posizione nell’ordine del discorso e quel legame

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con le altre parole che consente ad esse di condensare il potere espressivo. Lavorare per renderle adatte alla verita` che si sta trovando, capaci di far passare il senso vivo dell’esperienza. Questo scrivere, per essere luogo di ricerca della verita`, dev’essere mosso dallo stesso principio che guida la ricerca della conoscenza: il principio di fedelta`. Essere fedeli alle cose nel loro dirsi fa della scrittura un lavoro di trascrizione reso possibile dal disporsi della mente in uno stato di passivita`. Lo scrivere con fedelta` e` nella sua essenza lavoro di trascrizione, non di interpretazione, dove il protagonismo dell’autore 10 impedirebbe all’esperienza di dirsi nella sua essenziale evidenza . Trascrivere e` descrivere, nel senso assunto in fenomenologia dalla descrizione che e` concepita come quella pratica cognitiva che risponde al principio di non oltrepassare il limite con cui il fenomeno si offre alla coscienza. Lo scrivere richiede fedelta` prima di ogni altra cosa: essere fedeli a cio` che chiede di essere tratto fuori dal silenzio (SA: 28).

Per questo nello scrivere non s’interrompe il lavoro del fare vuoto, di purificare la mente dagli ingombri dell’io; di far tacere lo schiamazzo delle passioni, innanzitutto della passione della vanita`. Far agire la tentazione della vanita` significa cercare nelle parole di esprimere se stessi, di fare posto al proprio se´. Ma accade cosı` che la verita` non trovi modo di venire alla luce, perche´ non trova nella nostra parola la trasparenza necessaria. Invece, far agire il principio di fedelta` richiede di fare dentro di se´ quel vuoto necessario a rendere la mente un luogo sufficientemente sgombro e trasparente da consentire alla verita` dell’esperienza di venire alla parola. Anziche´ esporre se´ nelle parole gonfie di vanita`, divenire strumento, semplice strumento, del dirsi dell’esperienza. Questo divenire strumento trasparente richiede che si lavori a fare della mente “un luogo di calma e di quiete” (SA: 36). La parola fedele all’esperienza e` per Zambrano una parola sacra, sacra perche´ in essa si dice la verita` del vissuto. La parola sacra e` azione; agisce nel senso di aprire uno “spazio vitale” in cui “le differenti classi di essere e cose entrano in contatto con noi, rendendoci accessibili differenti modalita` di realta`” (SA: 34). Cio` che preoccupa Zambrano e` il ricorso alla parola violenta, quella di chi, preoccupato di attingere alla verita` unica ed universale, annichilisce 10

Annarosa Buttarelli, Una filosofa innamorata, cit., p. 6.

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Sorivere di ormazione

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le singole cose nella loro originaria differenza. Rispetto ad una parola che uniforma tutto dentro una monologica, la parola sacra salva le differenze in cui l’essere delle cose accade. Ed e` in obbedienza al principio di dar voce alle differenze che occorre prestare attenzione ad ogni dettaglio dell’esperienza, specialmente a quelli che tendono a stare nel silenzio. Zambrano parla di attenzione ai diritti di quella realta` minuta che nessuno coglie (DD: 62). Non solo nella vita quotidiana, ma anche nella pratica educativa ci sono isole di esperienza destinate a rimanere senza voce, compresi certi saperi dell’educazione, quelli che costruiti dai pratici a partire dalla loro esperienza costituiscono una misura viva dell’agire educativo, senza che pero` trovino una consistenza simbolica, perche´ non percepiti essenziali dai discorsi dominanti. La parola fedele alla realta` e` allora quella attenta ad ogni minimo dettaglio, alle differenze. E`, dunque, una parola etica perche´ salva l’esperienza dal silenzio, dalla non esistenza simbolica. Ha per questo i tratti di uno scrivere mosso dal sentimento della pieta`. Perche´ la pieta` e` quel sentire capace di cogliere l’eterogeneita` dell’essere, di cogliere i singoli enti nella loro individualita` essenziale, che si attualizza nell’“aspirazione a trovare i tratti e il modo di intendersi con ognuna di queste molteplici maniere di realta`” (SP: 68). Ma soprattutto la pieta` e` quel sentire capace di trattare col mistero. La realta` non e` interamente conoscibile, ne´ tantomeno si puo` pretendere di tradurre tutto il conoscibile in idee chiare e distinte. Questa e` l’illusione del razionalismo, ma la realta` resta estranea a questa teoria. Proprio in quanto tessuta di mistero, la realta` non puo` essere trattata solo da una ragione calcolante, che pretende di tradurre tutto in algoritmi, ma chiede un linguaggio adeguato a trattare con le zone di mistero che si porta appresso. La parola fedele all’esperienza non puo` essere, dunque, che quella nutrita dalla pieta` (SP: 69). Avere pieta` e` sentire e fare luogo alle differenze. E poiche´ la parola e` la dimora dell’essere umano, e` nella parola che si chiede di rendere attivo il principio di rispetto delle differenze creando quello spazio simbolico in cui esse vengono a dirsi in fedelta` a se´. Avere rispetto per le differenze e` amore per la realta`. Per Zambrano la parola dovrebbe essere una preghiera che chiama la realta` a dirsi. Dunque, una parola che ringrazia la realta` per il suo donarsi al pensiero. La ragione capace di questa intelligenza che si nutre del sentire non puo` essere quella calcolante, ma quella che lei definisce “ragione fecondante” (CB: 112), che e` un altro modo per nominare la ragione materna. La ragione fecondante non si lascia prendere dal deside-

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Un metodo a-metodioo

rio di piegare la realta` all’ordine del discorso, pronunciando parole che materializzano il desiderio di potere. Ma, fedele alla qualita` ontologica della condizione umana per cui il vivere e` convivere, e` innanzitutto alla ricerca di “parole di comunione” (CB: 88). Proprio perche´ l’essere umano e` nella sua essenza plurale e come tale e` chiamato a realizzare il suo essere unico e singolare con gli altri, le parole di comunione sono parole irrinunciabili per la vita. Non puo` certo essere l’intelligenza che si vorrebbe impassibile a pronunciare tali parole; la sua matrice generativa e` l’intelligenza dell’anima, quella che in primis ha cura dell’essere con gli altri. Ed e` proprio quando si fa muovere da questa cura, che e` premura di vivere-con, che l’intelligenza va in cerca della parola pura e attiva, la parola creatrice di spazi di dicibilita` fedeli all’essere.

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 La pratica dell’educare secondo la ragione poetica

La vita puo` srotolarsi dispersa e confusa. Puo` scivolare nel silenzio di giorni sempre uguali. E` la vita che manca di un’idea che la illumini, che la informi, come un viaggio acquistato in agenzia, dove tutto e` stato stabilito da altri. Ciascuno sente nell’anima la necessita` di una vita vera, “quella che sa attraversare il tempo, essere innanzitutto un modo felice di muoversi nel tempo” (SA: 70), perche´ e` proprio di ciascuno cercare di realizzare una buona qualita` della vita. Proprio il sentire questa necessita` dovrebbe muovere l’anima alla ricerca della verita`, del sapere necessario alla vita. Perche´ il sapere della vita e` qualcosa che va cercato, dove per cercare s’intende il lavorare a dare forma a questo sapere. Questo lavoro faticoso e` compito di ciascuno, ad esso nessun essere umano puo` sottrarsi, perche´ sembra che “il piu` profondo sapere, quello delle cose della vita, non possa trasmettersi” (NM: 112). Sembra che non esistano modi per rendere trasmissibile tale sapere da una vita all’altra. Si puo` dire che l’essere uomo consista proprio nel cercare questo sapere. E` stando alla ricerca di questo sapere che si risponde alla chiamata dell’essere. Ma cio` non sempre accade. Per una forma di economia del pensiero si preferisce la chiarezza che si trova disponibile nelle certezze correnti piuttosto che andarle a cercare da se´. La vita della mente si riduce allora ad un masticare vertita` trite, opinioni ripetute, teorie standardizzate. 1 Anche se “il bisogno di verita` e` il piu` sacro di tutti” , non sempre la vita si converte alla ricerca della verita` dell’esperienza; e` allora che procede confusa e dispersa. Come fare in modo che vita e verita` s’intendano, la vita lasciando spazio alla verita` e la verita` entrando nella vita? (CGL: 39).

1

Simone Weil, La prima radice, cit., p. 42.

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Un metodo a-metodioo

Faccio mia questa domanda di Zambrano e la ripropongo a partire dal mio punto di osservazione che e` quello di chi si occupa della possibilita` di educare e mi chiedo: Come si converte la persona a questa ricerca? Come si converte a cercare il metodo che guidi alla ricerca del sapere dell’anima? Perche´ se una vita che si e` affidata alla ricerca della verita` e` una vita convertita, occorre che innanzitutto la vita si converta alla ricerca della verita`. Cosa questa che non necessariamente accade nella vita delle persone, dal momento che per una sorta di economia della mente e del cuore l’essere umano ”preferisce la chiarezza che trova gia` pronta a quella che deve andarsi a cercare” (S: 6). Quello di attivare la passione per la ricerca della verita` puo` essere il compito proprio e primario dell’educazione? Se si segue il magistero socratico sembra proprio di sı`, per Socrate educare e` persuadere l’altro alla ricerca della verita`, coltivando quella passione che obbliga a cercare la miglior forma possibile del proprio essere. Il problema e` capire come. Non ci sono dispositivi tecnici, non c’e` una didattica della ricerca della verita`, lo dice bene Socrate quando afferma che non ha nulla da insegnare (διδσκειν). Si puo` solo aver cura (πιμελεσαι) che l’altro possa convertirsi a tale ricerca, cosı` come Socrate fece con Alcibiade, se s’intende l’educazione come apprendistato di una pratica. Ogni esperienza irrinunciabile, e tale e` la ricerca della verita`, “si trasmette unicamente se viene rivissuta” (SA: 66). L’esperienza di Socrate insegna che l’educatore converte l’altro alla ricerca della verita` solo nella misura in cui si fa testimone della passione per tale ricerca e consente all’altro di condividere tale passione. La ricerca della verita` non e` un esercizio intellettuale, e` una pratica, e come tutte le pratiche la si apprende sperimentandola in un contesto dove c’e` un apprendista, piu` esperto di noi in questa ricerca, che ci contagia della sua passione. E` quanto accadde a Zambrano, che imparo` ad amare la verita` dal padre che “da sempre le aveva insegnato ad amarla, ad abbandonare tutto di fronte ad essa, a cercarla pur sapendola invisibile” (DD: 26). Educare alla ricerca della verita` della vita e`, dunque, testimoniare nell’esperienza l’essere presi dentro questa ricerca, la ricerca di un’idea che consenta alla vita di uscire dalla sua confusione. Perche´ la vita ha bisogno di un’idea che aiuti a dare forma al tempo, di una visione del proprio poter essere possibile che metta l’anima in tensione verso la trascendenza accendendo il tempo di senso. Per essere tale un’idea non puo` essere astratta, cioe` un’idea che si apprende gia` sistematizzata, ma deve essere guadagnata a partire dall’esperienza. La verita` e` quell’idea che ha il sapore vivo dell’esperienza, qualcosa dunque che si apprende pensando a partire da se´.

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La pratioa dell’eduoare seoondo la ragione poetioa

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.1. Sentire la necessita` di pensare Pratica educativa essenziale e`, dunque, educare a pensare. Il pensare e` modo essenziale dell’esserci perche´ e` quella forma di agire in cui l’essere viene alla parola. In questo senso il pensare e` la forma di azione piu` semplice e anche piu` elevata2. L’essere umano e` chiamato alla responsabilita` del pensare perche´ la sua condizione e` quella di dover subire la trascendenza, ossia di nascere gia` gravato dalla responsabilita` di muoversi oltre cio` che e` dato per protendersi verso l’ulteriore. Solo pensando l’essere umano lotta contro la dissoluzione costante della vita per obbedire all’imperativo di essere. Proprio in quanto mancanti di essere, mancanti di una forma del proprio tempo e di un luogo definito in cui essere, l’essere umano ha necessita` di pensare; e` il pensare che “rende la vita piu` viva” (SPPC: 94). Il pensare e` irrinunciabile perche´: non potrei morire senza aver vissuto la verita`, ..., (perche´) mi tocca vivere umanamente, ..., dal momento che devo imparare a vivere nel tempo, devo essere persona, vivere la condizione umana” (DD: 193).

Pensare e` cosa necessaria come l’aria che respiriamo, perche´ per “finire di nascere interamente e creare il proprio mondo” (SA: 90) occorre concepire una forma di vita. Quando il pensare si lascia reclamare dalla vita per dire la sua verita` risponde al suo compito primario. E`, dunque, attraverso il pensare che l’essere umano si prende a cuore il suo essere chiamato all’esistenza. Rispetto a tutti gli altri enti l’essenza dell’essere umano consiste nell’essere chiamato ad esistere, e per esistere e` necessario pensare il senso dell’esserci. Invece, c’e` il rischio di vivere senza pensiero, di morire anzitempo alla vita. Questo succede quando si sta nel mondo addormentati perche´ ci si lascia portare dal pensiero di altri. Quando cio` accade e` come passare sopra la nostra vita. E questo passare sopra, questo vivere la vita irriflessivamente senza addentrasi in essa per sentirla e pensarla, e` cio` che di piu` grave possa accaderci. La cosa piu` umiliante per un essere umano e` quella di sentirsi portato, trascinato, senza prendere alcuna decisione perche´ qualcun altro la sta gia` prendendo al suo posto. Quando non si e` educati alla disciplina del pensare si vive a meta`, perche´ si vive in un mondo da altri anticipato. Zambrano definisce una “sconfitta” (DD: 66) esistenziale l’incapacita` di problematizzare la realta` a partire da se´. 2

Martin Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, cit., p. 32.

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Un metodo a-metodioo

Ma la tendenza e` proprio questa, di stare in una forma di economia del pensiero, quella di vivere senza meditare sull’esperienza. “Certamente non tutti gli uomini si sentono sradicati dal loro vivere quotidiano, dal loro vivere indifferente, per pensare anche solo per un istante, senza aiuto, senza nulla” (NM: 35). Per questa ragione ciascuno di noi ha necessita` di una torpedine che lo risvegli alla ricerca della verita`. Per conseguire questo esito, cioe` convertire alla ricerca della verita`, l’educatore deve saper spiazzare l’altro dall’ovvio in cui tende a stare affinche´ senta l’urgenza di pensare. Quando non si pensa, il deserto s’impadronisce dell’anima. Il deserto non e` mancanza di pensiero, ma usare pensieri gia` pensati, stare nello stordimento dei discorsi reclamizzati. E niente puo` svilire e umiliare l’essere umano piu` che il trovarsi mossi da un pensare che non gli appartiene, da qualcosa al di fuori di se´ (PD: 7-8). Il metodo dell’educare consiste nello sradicare dal vivere indifferente cosı` da far esperire l’urgenza di pensare. Un pensare pero` non astratto, ma quello che aiuta a vivere, ossia quello che sta radicato nell’esperienza cercando fili di luce che la rischiarino. Il pensare e` quell’azione piu` attiva di tutte, che rivela all’uomo il suo essere e lo fa nascere. Pensare e` andare nascendo, perche´ pensare e` aprire possibilita` di essere, e` dar corpo a quelle visioni che fanno da orizzonte al nostro camminare nel tempo. Pensare e` essenziale alla vita come l’aria che si respira, perche´ pensare e` trascendere, cioe` farsi creatore di un tempo nuovo. Quando dedichiamo tempo a pensare e non agiamo, abbiamo la percezione che il tempo passi invano; invece, dedicando tempo al pensare creiamo le possibilita` per vivere un tempo vivo. E` pensando che si disfa la nascita per rinascere ad un’altra figura dell’esistenza. Il pensare e` la piu` attiva di tutte le azioni, perche´ e` quella che fa nascere. E` in questo senso che il pensare e` vita, ossia il vivere e il pensare sono la stessa cosa. Chi non pensa, chi evita di addentrarsi nella vita “emette una sentenza di morte” (DD: 16). Pensando si diventa presenti all’accadere del proprio esserci. Significa “fuoriuscire da un mero esserci per arrivare ad essere” (ST: 26), ossia essere qualcuno, un ‘chi’, con la sua forma propria. Perche´ la mia vita da un semplice passare si trasformi in presenza al tempo non basta stare nel tempo, occorre pensarlo. L’atto di presenza ontologica e` manifestazione attiva. Mentre il nascere biologico e` qualcosa che si subisce, il nascere simbolico, quello in cui si da` forma al proprio essere, richiede un atto di decisione alla presenza attiva. Educare a pensare e`, dunque, pratica essenziale dell’arte dell’educare. Come attuare questa pratica? Sperimentando insieme il pensare. Per dirla in termini pedagogici, il contesto dell’educare deve divenire comunita`

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La pratioa dell’eduoare seoondo la ragione poetioa

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di pratiche di pensiero, dove l’educatore e` l’apprendista esperto della ricerca della verita` ed e` in quanto tale che puo` far sentire la necessita` di pensare. Si tratta ora di individuare cosa e` essenziale fare oggetto del pensare e secondo quali direzioni di senso per attualizzare “un pensare vivificante e vivente” (NM: 40). E` questo uno dei concetti fondamentali che ci offre Zambrano, cui noi siamo chiamati a dare corpo e figura.

.2. L’irrinunciabile del pensare pensare questioni essenziali Fra le qualita` essenziali del “pensare vivificante e evivente” c’e` quello di disegnare una forma di vita, una figura di realta` in cui l’esistenza prenda il suo senso. Ma per trovare la visione che illumina il nostro cammino, e` necessario porre le domande giuste. Il pensare e` un domandare. Quello da cercare e` il domandare vitale, cioe` quello che si mette in ascolto delle questioni essenziali, essenziali sono quelle che hanno a che fare con il nostro esserci, quelle questioni che sentiamo necessario frequentare perche´ ci aiutano a trovare la giusta 3 misura per abitare la condizione umana . Arendt distingue fra conoscere e pensare: il primo procura strumenti utili a padroneggiare l’ambiente in cui si vive, il secondo affronta le questioni di significato per rispondere al desiderio originario di un orizzonte di senso. Operando all’interno di una distinzione analoga, Zambrano parla di un sapere che ci consente di muoverci in un mondo di strumenti utili e di un sapere che ci aiuta a disnascere per nascere di nuovo (SA: 58). Questo secondo sapere sapienziale, capace di una energia trasformativa sulla vita, e` quello generato da un pensare che si mantiene alle radici dell’essere. Questo tenersi presso i bisogni della vita si attualizza laddove la mente si pone in ascolto delle questioni radicali. Quando il pensare si tiene radicato nelle domande essenziali, allora arriva a generare idee vivificanti e vitali, quelle che sanno trasformare la vita. La vita ha necessita` di “verita` operanti e trasformatrici” (SA: 58), perche´ l’essere umano e` chiamato a rinascere di nuovo. Ma per rinascere 3

Per Zambrano essenziali sono le domande che Scheler solleva nel testo La posizione dell’uomo nel cosmo, perche´ invitano l’essere umano a riflettere sul suo posto fra gli altri enti, sull’ordine della natura di cui sentirsi parte, sulla sua condizione creaturale, concetto questo particolarmente caro alla filosofa. Seguire la pista riflessiva aperta da Zambrano significa autorizzare le domande metafisiche come nucleo problematico generativo di un pensare vitale.

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occorre innanzitutto disnascere, ossia disfare i mondi ordinari per trovare quelle direzioni di senso che sentiamo essere un modo felice di muoverci nel tempo. Questo disfare le visioni della vita ormai logore e devitalizzare le idee non piu` capaci di fare ordine nell’esperienza e` l’effetto prodotto proprio dal pensare che interroga le questioni essenziali, perche´ quando si esercita il domandare che chiamo radicale per il suo porre le questioni metafisiche, cioe` quelle per le quali non esiste una risposta certa e univocamente definibile, l’effetto che produce e` spesso quello di lasciare chi domanda “piu` ignorante dell’ultimo degli ignoranti” (NM: 104). Questa ignoranza e` vitalmente necessaria, perche´ e` questa ignoranza non solo saputa, ma poi anche accettata, che consente al pensiero di rinascere, di iniziare, per “essere creatore di un tempo nuovo” (NM: 103). E` cosı` che il pensiero e` fedele alla vita. riflettere sull’esperienza E per mantenersi fedele ad essa deve restare massimamente legato all’esperienza facendosi guidare dal principio di trovare il “logos del quotidiano” (SA: 62). Perche´ il pensare rimanga fedele alla sua ragione generativa, che consiste nel cercare un sapere capace di valenza trasformativa della vita, non puo`, infatti, lasciarsi distrarre da preoccupazioni secondarie e inessenziali, quali ad esempio la tensione a produrre forme di sapere sistematico, ma deve stare in ascolto del desiderio irrinunciabile di trovare un senso al proprio camminare. Tutto il vissuto sarebbe un semplice passare, dove niente e` del tutto vivo, se non divenisse oggetto di quel pensare che degli eventi cerca comprensione. Riflettere sul vissuto significa presentificarlo, portarlo alla presenza della coscienza. Il presentificare salva i vissuti dando loro corpo e figura. Quando questo atto cognitivo viene meno allora “gli eventi passano al passato senza essere stati presenti” (NM: 91). In questo obliarsi del vissuto viene meno la consistenza stessa della vita. Per questa ragione il pensare vivificante prende innanzitutto la forma del meditare l’esperienza. Riflettere sull’esperienza e` sapersi, e solo sapendosi ci si muove liberamente nel tempo. Sapersi e` pensare l’esperienza nel suo accadere, cosı` da arrivare a sapere dove si e` nel mentre in cui sentiamo e pensiamo. Questo atto riflessivo e` quello piu` vitale di ogni altro perche´, “se sapessi dove sono esattamente, saprei quello che devo fare” (DD: 28). Di fatto e` impossibile guadagnare una completa conoscenza situazionale, dal momento che il nostro pensare e` imbricato nella situazione oggetto del pensiero, si muove all’interno. Il nostro pensare e` sempre vincolato al luogo a partire dal quale si pensa, e` per questa ragione che “il

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sapere dove si e` esattamente” implica il sapere dove si `e quando si pensa. Una domanda metariflessiva che, se ha l’effetto di produrre un guadagno di consapevolezza nella forma dell’autopresenza, allo stesso tempo mostra i limiti della nostra attivita` cognitiva destinata ad accadere dentro un mare di opacita`. Nonostante i limiti del pensare non ci si puo` astenere da questa pratica cognitiva, perche´ solo pensando l’accadere delle cose, solo dedicando il pensare alla comprensione del tempo che arriva, il vissuto diventa esperienza, l’esperienza essendo presa di coscienza, autognosi (ST: 20). E` nella riflessione che il soggetto risponde alla necessita` di vivere il piu` intensamente possibile. La riflessione riscatta la vita, poiche´ apre uno spazio esperienziale di secondo grado. Tuttavia, pur riconoscendo la funzione ontologica del pensare che riflettendo sul vissuto lo trasforma in esperienza, occorre sapersi sottrarre dalla tentazione di pensare che nella riflessione l’esperienza diventi qualcosa di padroneggiabile, perche´ sempre delle cose rimangono lati in ombra, aspetti oscuri, impossibili da penetrare. Il vissuto sfugge al pensiero. Qui sta il negativo, sta nel lato non conoscibile della vita, perche´ rispetto ad esso noi si e` costretti a subire, subire questi aspetti opachi. Lı` non c’e` possibilita` di decisione, di decidersi per la passivita`, cioe` di patirli, semplicemente li si subisce. Il sapere dell’anima, che e` il sapere della vita, non e` qualcosa che si acquisisce attraverso argomentazioni rigorosamente strutturate. E` un sapere che viene dall’esperienza, ossia dal vivere intensamente il proprio tempo accettando ogni suo lato, patendolo fino in fondo. E patire non e` subire, e` accettare di starci pienamente nella ferita dell’essere. Per starci pienamente occorre pensare il proprio esserci, per questo non c’e` patire senza pensare, di conseguenza il sapere della vita viene da quell’esperienza che si e` patita attraverso un pensiero che sta nelle cose, “e` frutto di lunghi patimenti, di lunga osservazione, che ad un tratto si condensa in un istante di lucida visione” (NM: 111). L’educazione della mente alla riflessione sul vissuto cosı` che si trasformi in esperienza rischia, nella nostra cultura, un approccio incorporeo, ossia il mancare la consapevolezza che la vita del pensiero accade in un corpo. Quando si pensa, infatti, si e` portati a ritenere che la mente stia in compagnia di pensieri che abiterebbero uno spazio immateriale, lontano dal mondo. Proprio quando ascende alla sua massima attivita` pensante, cioe` la riflessione, che poi puo` diventare oggetto di un atto cognitivo ancora piu` immateriale come la metariflessione, il soggetto puo` dimenticare di avere un corpo. Dal momento che ha tutta l’apparenza di

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Un metodo a-metodioo

un’attivita` incorporea, il dedicarsi a pensare puo` mancare della consapevolezza del radicamento corporeo della vita della mente, ossia del nostro essere materia vivente. In questo oblio c’e` tutto il peso della nostra cultura filosofica incorporea, quella che voleva dimenticare che noi siamo innanzitutto soggetti biologici. Il nostro pensare accade sempre in un corpo materiale. E in ogni attivita`, anche quella apparentemente piu` immateriale come la riflessione, l’essere umano si porta appresso la sua materia. Quella materia grazie alla quale esiste e partecipa della vita (ST: 24). L’errore in cui si cade e` quello di dimenticare la nostra costitutiva materialita` per il semplice fatto di essere vivi, quando invece il pensare che ci fa entrare nella realta` richiede che si attivino i sensi. Non si puo` entrare nella realta` senza attivare la capacita` della nostra materia di aprirsi alla materia di cui sono fatte le cose. Allora per esserci veramente nel tempo non basta pensare, ma risignificare il pensare a partire dal riconoscimento delle sue radici materiali. Riconoscere che il pensare che entra nella realta` e` quello che si nutre dell’esperienza sensoriale. Per sentire amore per le cose occorre saper entrare nella realta` con tutto se stessi, dunque anche con i sensi, cosı` come fa il poeta. Zambrano parla di un “ordine sacro che riguarda i sensi” (B: 11), perche´ sono i sensi che ci mettono in contatto con le cose. La realta` non e` fatta di mere apparenze; parlare di apparenze equivale a smaterializzare e dunque togliere vita alle cose, perche´ la vita sta solo laddove c’e` la materia. La realta` e` fatta di cose che chiedono di essere percepite col corpo o, meglio, con una mente incarnata. Che la riflessione sul vissuto promuova la consapevolezza del pensare come attivita` incarnata e` quindi mossa formativa essenziale, non solo su un piano ontologico, quello che ci fa scoprire di essere corpo vivo inserito nell’ordine cosmico, ma anche sul piano epistemologico, poiche´ il sapersi pensiero che accade in un corpo e, quindi, nutrito dai sensi porterebbe ad una piu` attenta cura della dimensione sensoriale dell’esperienza. pensare il tempo Per essere fedeli alla vita occorre innanzitutto pensare la vita, ma poiche´ la vita e` tempo, allora il tempo e` cosa primaria da pensare. E` dal saper patire ogni attimo del tempo pensandolo radicalmente che puo` venire “quel grano di sapere che feconderebbe tutta una vita” (NM: 112). Pensare il tempo significa pensare la forma che ad esso si vorrebbe dare, ma e` anche descrivere le forme che esso prende realmente, e quindi il rapporto che nel reale si viene ad istituire tra la nostra visione e l’accadere delle cose.

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In questa attenzione al tempo che Zambrano ci suggerisce e` evidente il peso che ha avuto la lettura di Seneca, altro filosofo spagnolo, che del tempo fece l’oggetto primario delle sue riflessioni. Seneca sosteneva che la cosa fondamentale da fare e` pensare il tempo affinche´ questo non passi invano, perche´ il tempo che si limita a passare senza che con esso noi abbiamo istituito un rapporto intenzionale e riflessivo “scivola nell’abisso, nell’abisso del non vissuto del tutto” (ST: 19). Pensarlo, il tempo, e` salvarlo, sia perche´ ad esso si da` forma sia perche´ diventa memorabile. Il tempo non pensato divora tutto cio` che pretende di essere, impedisce l’esserci. Solo pensando il tempo ci si trae fuori da quel perdersi che si verifica quando ci si lascia accadere, come trascinati dal fluire delle cose. “Avendo coscienza del tempo, il soggetto passa dal patirlo al muoversi con esso e persino sopra di esso, allo stesso modo in cui si nuota nell’acqua respirando nell’aria” (NM: 106-107). Il tempo e` cosa essenziale da pensare perche´ e` la materia di cui e` fatta la vita. Di conseguenza nessuna esperienza puo` essere piu` rilevante per la formazione dell’anima della scoperta del tempo (S: 37). Anche se la vita e` tempo, non e`, pero`, automatico che la mente rifletta su questa cosa, per la ragione che nel tempo noi ci siamo immersi, come i pesci nell’acqua. Del tempo come materia della vita acquistiamo coscienza in momenti particolari, in genere i momenti di crisi, quelli in cui si avverte all’improvviso il poco tempo che rimane, quelli in cui la sofferenza ci fa avvertire la questione del tempo, oppure quando l’anima patisce la malinconia del fluire incessante delle cose, quel fluire che non lascia scampo. Di solito la scoperta del tempo e` legata ad un momento negativo della vita, quando la paura arpiona l’anima, o quando il venir meno di cio` che consideriamo importante ci fa scoprire in tutta la nostra fragilita`. Quando la coscienza, a lungo disattenta al tempo, si trova improvvisamente interpellata dalla domanda divina: 4, non puo` che precipitare nello sgomento, perche´ non c’e` nulla di piu` drammatico del trovarsi d’un tratto a dover rendere conto del proprio tempo senza che prima lo si avesse tenuto in conto. L’educazione che mira a far germinare il sapere dell’anima non puo` allora non portare l’attenzione riflessiva sul tempo come essenza della vita, cosı` che del tempo si impari ad aver cura. Il tempo ha da essere raccolto e conservato, perche´ “lo spreco piu` vergognoso e` quello provocato dall’incuria”5. 4

Martin Buber, Il cammino dell’uomo, Edizioni Qiqajon, Magnano 1990 (tr. it. da Der Weg des Menschen nach der chassidischen Lehre, Pulvis Viarum, L’Aia 1947), p. 18. 5 Seneca, Lettere morali a Lucilio, Mondadori, Milano 2005, I, 1, 1.

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Guida della pratica educativa potrebbe essere in questo caso le Lettere che Seneca scrive a Lucilio, che portano l’attenzione del discepolo sulla temporalita` dell’esistenza, per far germinare la consapevolezza che del tempo, la cosa che noi siamo, non ne disponiamo ma ne abbiamo la responsabilita`, la quale consiste nell’essere chiamati ad aver cura che il tempo non passi invano. E questo richiede che l’essere presenti alla propria vita si costituisca come continua donazione di senso.

.3. Le direzioni di senso del pensare Lo snodo critico delle riflessioni di Zambrano sul pensare va individuato nel rilievo dato al cercare un pensiero che si fa vita. Tale e` il pensiero che sgorga dalla vita ed evita l’astrazione. Solo questo pensiero risponde alla funzione di rendere respirabile l’ambiente. Ma affinche´ si possa dare forma a questo pensare e` necessario trovare la giusta direzione di senso della vita della mente, direzione che consisterebbe nel pensare con sobrieta` e con umilta`. Si pensa con sobrieta` quando si sanno scantonare le domande inessenziali, quelle frequentate da chi pratica il lusso dell’astrazione, e ci si lascia invece interrogare dalle domande irrinunciabili, quelle che inquietano la coscienza. Pensare con sobrieta` significa attivare il pensiero solo in relazione a domande vitali, perche´ e` ascoltando queste che il pensiero si fa “azione vitale” (DD: 50). Dedicare il pensare alle domande vitali, quelle che s’impongono alla ragione secondo un principio di necessita`, e` cosa difficile perche´ la fatica dell’esaminare queste radicalmente non e` compensata dal poter pervenire a risposte definitive. Anche se all’apparenza questa fatica del pensare sembra inutile e`, invece, fondamentale. Fondamentale perche´ se non si sta in ascolto delle domande vitali allora si dicono parole non essenziali, meramente ornamentali, che funzionano come vano riempitivo. Sobrieta` e` anche temperanza nell’uso delle parole, dedicando la propria cura a pronunciare solo quelle relative a cio` cui si tiene profondamente. Se il linguaggio e` la casa dell’essere, le energie del pensare e del dire vanno spese laddove si sente essere in gioco l’essenziale, il senso del proprio esserci. L’energia di cui innanzitutto l’anima ha necessita` e` quella richiesta per adottare un comportamento coerente con le proprie convinzioni; poiche´ questa coerenza richiede molta energia interiore occorre saper evitare dissipazioni inutili, come quando ci si consuma nella chiacchiera, nel dire non essenziale. Se essere e pensare sono lo stesso, allora scartando le questioni vitali e discutendo nella forma della chiacchiera si finisce per non

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pensare e, quindi, per non essere veramente. Il pensare e` vita, afferma Aristotele; ne consegue che per entrare nella vita occorre pensare e farlo radicalmente, ossia pensare quello che chiede di essere pensato. Proprio perche´ concepisce il pensare non disgiunto dal sentire, e la sua preferenza va decisamente all’intelligenza del cuore, Zambrano suggerisce – e di piu` non fa, lasciando a noi il compito di coltivare le sue riflessioni – di considerare vitali quei pensieri che non solo sgorgano dalla vita, ma che si muovono nell’amore per la realta`: “volere la realta` di qualcosa nell’amore, ossia nel volere l’esistenza di qualcosa con allegria” (DD: 51). L’amore di cui parla Zambrano e` il desiderare l’esistenza dell’altro, 6 spogliati di ogni illusione di possesso (DD: 57) . Se da una parte ci e` richiesto di praticare la sobrieta` dell’interrogare come condizione per trovare la visione che guidi il nostro cammino, dall’altra la mente sente l’esigenza di valutare, di soppesare, di misurare. E fra le cose che la mente sente essenziale valutare e` il grado di autenticita` del nostro esistere, quanto cioe` il modo del nostro esserci e` congruente con la visione che vorremmo perseguire, quanto e` fedele alle credenze nelle quali ci sembra di individuare le direzioni assiologiche (DD: 60). Ma pensare che sia possibile soddisfare questa ricerca e` una forma di arroganza, perche´ significa presupporre che noi siamo capaci di osservarci dall’esterno, di essere spettatori del nostro accadere, come se la mente fosse capace di un pensare che nascendo da fuori penetri poi nell’interno. Perche´ il pensare aiuti a vivere occorre praticarlo con umilta`, tenendosi fedeli ai limiti inaggirabili della ragione umana. Pensare con umilta` significa sapere che il nostro potere di afferrare conoscenze vere e` poca cosa perche´ non afferra alcuna realta`, semplice7 mente la mente costruisce qualcosa che funziona , e poi accettare che cio` che 6

Raccontando della sua giovinezza Zambrano si descrive situata in un ambiente connotato da un’intimita` intensa e senza oppressione, dove “respirava avvolta nell’amore della sua famiglia” (DD: 59). Questo dato del suo vissuto, nella sua sobrieta` espressiva, potrebbe condensare il nucleo di una ipotesi pedagogica: forse che l’intelligenza amorosa per prendere corpo necessita non di una didattica, ma che la mente viva in un ambiente in cui il modo di stare insieme e` permeato da questa intelligenza? Se cosı` fosse, allora l’educazione per essere fondamentale, cioe` capace di nutrire la ragione materna, non andrebbe concepita, come invece sempre piu` accade di constatare, solo come attivazione di procedure mirate a provocare l’emergenza di certe abilita` cognitive, bensı` anche come tessitura di un ambiente di relazioni in cui si pratica un modo amorevole di stare con gli altri. Specificatamente l’intelligenza amorosa potrebbe avere come matrice generativa un ambiente di pensiero contrassegnato da un clima emozionale positivo. Viene qui da pensare all’allegria, una tonalita` emotiva spesso nominata da Zambrano. 7 Simone Weil, Quaderni. Volume secondo, cit., p. 142.

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l’intelligenza non afferra e` piu` reale di quello che riesce a comprendere8. L’umilta` e` una virtu` ricorrente nelle riflessioni di Zambrano – come anche in quelle di Weil – per indicare un modo d’essere attraverso il quale opporre resistenza al razionalismo, allora come ora imperante, secondo il quale la mente sarebbe padrona dei suoi pensieri (SA: 108). Umilta` e sobrieta` sono quei modi dell’essere che tengono la persona fedele alla sua condizione creaturale, che e` innanzitutto fragilita` e provvisorieta` di ogni conquista.

.4. La passivita` del pensare Durante l’esperienza di un laboratorio di pensiero, che avevo attivato nell’ambito di un corso universitario finalizzato a provocare una riflessione sul concetto di ‘buona qualita` della vita’, al termine di una discussione di gruppo molto intensa, nel corso della quale molte delle convinzioni correnti erano state sottoposte ad una radicale problematizzazione, una studentessa mi chiese: “Ma perche´ pensare se il pensare genera dubbi? Non si vive meglio accettando le idee correnti? Da quando e` iniziato il laboratorio spesso mi trovo a pensare e il pensare mi genera sofferenza”. Sollevare domande significa mettersi in discussione e scoprire la fragilita` delle proprie certezze, con la conseguenza di sentire la necessita` di doversi spogliare di molte convinzioni. Si tende a non pensare proprio perche´ pensare significa scoprire la nostra inaggirabile finitezza, la nostra mancanza d’essere, significa sapere la poverta` delle cose umane. Significa scoprire l’impossibilita` di divenire pienamente il proprio poter essere e dunque trovarsi di fronte allo scarto fra la chiamata alla trascendenza e l’impossibilita` di attualizzarla pienamente. Il pensare ci porta di fronte all’innegabile realta` della fragilita` della condizione umana, cioe` di fronte al fatto che il nostro essere non e` qualcosa di durevole, e` drammaticamente “prorogato di momento in momento, e sempre esposto alla possibilita` del nulla”9. Pensando si scopre di stare in “quella condizione dell’essere in movimento, senza cambiare luogo” (NM: 103). Si sente di essere chiamati a fare un cammino, a farsi viandanti pellegrini, senza che questo camminare cambi il luogo dove si e`, che rimane inesorabilmente quello della finitezza, della fragilita` che e` innegabilmente fonte di angoscia. Pensare “mostra e rivela il nostro affanno” (NM: 103). Per questo a stento si puo` pensare 8 9

Ivi, p. 172. Edith Stein, La mistica della croce, cit., p. 33.

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senza tremare di fronte alla percezione vivida della consistenza problematica dell’esserci. Pensando si ha un’immagine fin troppo nitida della drammaticita` della condizione umana, del fatto che si puo` morire alla vita pur rimanendo vivi. Si sente di essere vivi, ma non di stare dentro la vita. Si sente il dondolarsi delle foglie al vento ma non si riesce a toccare il loro movimento, si vede la luce spandersi la` fuori, ma e` la`, lontano, non bagna la nostra pelle. Si sente che la realta` non e` a noi presente del tutto, e anche quella parte di realta` che ci appare ci si rivela in modo discontinuo, altalenante. Si sta dentro la realta`, ma come da essa divorziati. Il percepire questo continuo scarto ontologico fa sentire di morire vivendo. Si muore quando l’anima e` troppo piena, quando ci sono troppi attaccamenti. Per pensare occorre saper stare in poverta`, poverta` di sapere, poverta` di spirito. Respirare la vita richiede di rendere l’anima il piu` trasparente possibile, “ridurre l’ombra al minimo, assottigliarla” (DD: 16). Il lavoro vitale del pensiero e` il lavoro del disfare. Disfare e` lasciar morire quelle parti di se´ che fanno resistenza all’altro, fanno resistenza all’aria. Il pensare gradualmente costruisce un involucro, qualcosa di invisibile, di incorporeo, ma di cosı` spesso da interporsi fra noi e l’aria d’intorno. Nascere e` lavorare a sgretolare questo involucro. Un lavoro destinato a non essere mai terminato. E` il paradosso radicale della vita: si nasce non terminati, senza forma, e per trovare la propria forma si e` chiamati ad un lavoro mai terminato di disfare le forme gia` compiute. Si e` chiamati ad un nascere continuo. Dunque, affinche´ si possa pensare, occorre disfare i prodotti del pensiero. Il pensare non si da` la` dove ci sono certezze cui aggrapparsi, perche´ aggrappandosi alle certezze il pensiero si ferma, non si muove, non si mette in cammino. Il domandare radicale, che ci spossessa di tutte le certezze, quello che fa scoprire il niente del proprio pensare di fonte alle domande della vita, non puo` che generare quell’angoscia che fa tremare l’anima. Ma perche´ questa angoscia anziche´ annichilire il movimento dell’essere sia generatrice di cammino verso l’ulteriore, occorre che si sappia stare fino in fondo in questa sofferenza del non sapere, “giacche´ la legge umana e` di non potersi elevare se non dal fondo” (NM: 104). Solo accettando di stare nel fondo del sentirsi mancanti d’essere si puo` trovare il cammino giusto del pensare, il metodo del pensare. Solo “accettando quel momento nel quale si e` vinti e portandolo all’estremo” (NM: 105) si puo` ascendere a nuova nascita. Accettare significa innanzitutto non opporre resistenza all’angoscia che prende l’anima quando scopre che la visione del proprio giusto

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divenire puo` mancare, e manca perche´ e` difficile afferrare una comprensione chiara ed intera del nostro essere. Per stare nella verita` e` indispensabile imparare ad accettare di essere radicati in un sentire originario che resiste nella sua opacita`. Il sapere dell’anima non puo` chiedere troppa luce al pensare. Da cercare e` solo qualche debole chiarore, quella luce che si mostra come un raggio che con delicatezza si curva sulle cose fragili della vita umana. Presi dal desiderio di verita`, si rischia di alimentare illusioni smisuranti circa la nostra capacita` di comprensione. Il saper accettare i limiti del nostro essere e, quindi, anche i limiti della ragione mette al riparo da certe dismisure che disordinano il pensare e il sentire, e con esso l’essere. Questo accettare e` cosa difficile, perche´ non si tratta solo di accettare che non si sa, che non si hanno risposte alle domande che premono alla coscienza, ma anche di accettare che manchiamo della capacita` di capire cio` che non si e` saputo pensando (NM: 109). L’essere umano e` destinato a mancare di capire cio` che inevitabilmente si sottrae al pensiero. E che ci siano zone di mistero deve imparare ad accettarlo. Ma c’e` un accettare ancor piu` radicale: e` il saper accettare la sofferenza che questo sapere produce. Pensare provoca sofferenza, ma in questa sofferenza bisogna sapere starci. Accettare di sapersi ignorante, di stare in poverta` di spirito di fronte alle cose avvolte nel mistero, sembra nell’ordine del possibile, ma stare fino in fondo nella sofferenza prodotta dalla consapevolezza della propria mancanza e` come cosa fuori dall’ordine. Accettare la sofferenza, fino ad esserne vinti; non opporre resistenze, lasciare che impregni l’anima, la carne, la carne dell’anima. Solo allora, solo dopo essersi lasciati vincere, si apre la strada del rinascere ad uno sguardo nuovo. Sapere stare nella passivita` e` gia` trascendenza. Accettare la verita` del nostro essere trasforma il nostro atteggiamento nei confronti della vita (SA: 58).

.5 Aver cura del sentire In una cultura come e` la nostra, dove la fatica psichica che richiede il far fronte alla responsabilita` di esistere sembra aumentare giorno per giorno, dove il benessere coesiste con l’angoscia, dove per le tante occupazioni si finisce col vivere con l’anima disoccupata, dove di frequente assistiamo allo “sport intellettuale della disperazione estetizzante” (B: 105) mentre con indifferenza si passa accanto a forme di vero dolore, si tende sempre piu` a fare affidamento su una intelligenza efficientistica, alla quale si

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chiede di controllare ogni angolo dell’esperienza, senza che ci si fermi a meditare la radice della sofferenza. Di fronte a questa distorsione l’educazione della mente non puo` piu` concepire il pensare disgiunto dal sentire, perche´ quel pensare che, nella sua essenza, e` meditare sull’esperienza “e` anche riconquistare il sentire originario delle cose, del paesaggio, della gente, degli uomini e dei popoli, il sentire della realta` immediata che ci apre alla realta` del mondo” (DD: 86). Anche se da tempo si sa che il sentire e` cio` che ci tiene aperti al reale, a dominare e` la tendenza a separare l’attivita` cognitiva dalla vita emotiva, nell’illusione che la prima guadagnerebbe in efficacia se fosse svincolata dalla seconda. Siamo vittime di una concezione intellettualistica, devitalizzata e devitalizzante dell’educazione, che riduce tutto a strategie che pretendono di razionalizzare il processo di formazione. Si dimentica il ruolo decisivo che il sentire ricopre nella vita umana. Invece la funzione di chi ha acquisito un qualche seme di sapere della vita e` quella di allenare il giovane a “sostenersi con il cuore, da solo con il suo cuore, ..., davanti alle situazioni enigmatiche che la vita gli presentera`” (NM: 114). E non c’e` altro modo di allenare a sostenersi con il cuore che quello di coltivare nell’ambiente sentimenti amorosi e positivi. Un’educazione che si muova in questa direzione non puo` che essere concepita nella cornice di una ragione materna, quella che, senza rinunciare a pronunciare parole dure e severe ogni volta che la realta` lo richiede, non abbandona ne´ la gioia ne´ la fiducia (DD: 90). Perche´ il pensare si nutre di gioia. E` vero che la vita della mente puo` subire come una specie di accelerazione dal trovarsi a vivere un “evento estremo, un fatto assoluto, come la morte di qualcuno, la malattia, la perdita di un amore o lo sradicamento forzato dalla propria patria” (NM: 111). Non bisogna, pero`, pensare che sia solo l’essere sottoposti ad un evento estremo generatore di sofferenza la molla che fa germogliare il sapere della vita. Il pensiero primariamente sgorga da una mente che si trova in una tonalita` emotiva positiva. Zambrano sostiene che nasce dall’allegria e dalla felicita` (NM: 112). Lei conosceva bene il pensiero di Agostino e proprio nell’ultimo libro delle Confessioni troviamo scritto: “Nutre la mente solo cio` che la ralle10 gra” . La ragione che ha cura di coltivare i sentimenti positivi e` quella materna, quella che ama la vita, nutrendo per essa uno sguardo di “fede, speranza e goia” (DD: 90). Siamo cosı` portati a portare il pensiero a meditare su cio` che e` 10

Agostino, Confessioni, libro XIII, 27.42.

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problematico, su cio` che non funziona, sulla sofferenza, che parlare in positivo e` vissuto come straniante, fuori luogo. “Parlare bene del bene” 11 risulta imperdonabile . Chi, pero`, ha esperienza della sofferenza, quella piu` radicale, dilaniante l’anima perche´ perdurante nel tempo senza che si possa nutrire la minima speranza di scrollarsela di dosso, e proprio a partire da questa sua esperienza ha sperimentato direttamente su di se´ e su chi condivide il suo spazio vitale gli effetti di azioni nutrite da una ragione materna, trova il coraggio di dire anche l’imperdonabile, mettendosi dalla parte del sentire amoroso e positivo di cui parla Zambrano. Anche Arendt, che pur non esprime un’adesione teoretica cosı` appassionata al sentire, considera “fede e speranza” le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana e insieme ad esse “la gioia di abitare insieme con gli altri 12 un mondo” . Quello che si deve chiedere all’educazione e` di uscire dai limiti di un’interpretazione intellettualistica per pensare che educare significa anche offrire ai giovani esperienze in cui imparare a pensare e a coltivare la sfera del sentire. Un’adeguata teoria dell’educazione e` quella che si nutre di una logica che sa riconciliare l’idea razionale dell’essere umano (penso dunque sono) con l’idea che tiene conto della dimensione emotiva (sento dunque sono), e che proprio su queste basi concepisce la formazione come un processo che intreccia insieme l’educazione al pensare rigoroso, che si nutre della piu` ampia alfabetizzazione culturale, con “la gioia di vivere e 13 di amare” . L’educazione ha il compito di guidare il soggetto educativo non solo a comprendere la sua geografia emozionale, individuando i sentimenti che sono alla radice della sua postura esistenziale, ma anche a coltivare altri territori del sentire, quelli dei sentimenti positivi che aiutano il mestiere di vivere nella direzione della trascendenza.

11

Giuseppe Pontiggia, Nati due volte, Mondadori, Milano 2000, p. 175. Hannah Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1989, pp. 182 e 180. 13 Gregory Bateson, Dove gli angeli esitano, Adelphi, Milano 1989 (ed. or. Angels Fear. Towards an Epistemology of the Sacred, Macmillan, New York 1987), pp. 272-273. 12

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Teorie & Oggetti della Letteratura

A. Helbo (a cura di), Semiologia della rappresentazione J.-C. Gardin, Le analisi dei discorsi U. Carpi, Bolscevico immaginista. Comunismo e avanguardie artistiche nell’Italia degli anni venti F.P. Botti, G. Mazzacurati, M. Palumbo, Il secondo Svevo P. Getrevi, Nel prisma di Tozzi R. Genovese, Teoria di Lulu M. Jeanneret, La scrittura romantica della follia. Il caso Nerval R. Luperini, Montale o l’identità negata P. Fasano, L’utile e il bello C. Benedetti, La soggettività nel racconto. Proust e Svevo U.M. Olivieri (a cura di), «Change»: un laboratorio del ’900 N. Ordine, La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno F. Curi, Parodia e Utopia J. Risset (a cura di), Georges Bataille: il politico e il sacro G. Frasca, Cascando. Tre studi su Samuel Beckett M. Sechi, La figura del corvo. Percorsi letterari degli anni cinquanta P. Voza, Tra continuità e diversità: Pasolini e la critica. Storia e antologia M.A. Grignani, Retoriche pirandelliane M.C. Cabani, Gli amici amanti. Coppie eroiche e sortite notturne nell’epica italiana E. Mattioda, L’ordine del mondo. Saggio su Primo Levi E. de Pasquale, Il segreto del giullare. La dimensione testuale nel teatro di Dario Fo M. D’Ambrosio, Le “Commemorazioni in avanti” di F. T. Marinetti. Futurismo e critica letteraria F. Moliterni, R. Ciccarelli, A. Lattanzio, Primo Levi. L’a-topia letteraria. Il pensiero narrativo. La scrittura e l’assurdo F. Pozzo, Emilio Salgari e dintorni F. Montesperelli, Flussi e scintille. L’immaginario elettromagnetico nella letteratura dell’Ottocento C. Bordoni, Stephen King. La paura e l’onore nella narrativa di genere N. Ordine (a cura di), La letteratura comparata: questioni di metodo M.I. Macioti, Giallo e dintorni F. Montesperelli (a cura di), Tra Frankenstein e Prometeo. Miti della scienza nell’immaginario del ’900 G. Amoroso, Raccontare l’assenza. Annotazioni sulla narrativa italiana del 2005 D. Trotta, La via della penna e dell’ago. Matilde Serao tra giornalismo e letteratura. Con antologia di scritti rari e immagini N. Novello (a cura di), Apocalisse. Modernità e fine del mondo

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F. Rastier, Ulisse ad Auschwitz. Primo Levi, il superstite F. Giuntoli Liverani, Elsa Morante. L’ultimo romanzo possibile

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