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Italian Pages 340 Year 2021
Centro Interdipartimentale di Studi FiTMU – Università degli Studi di Salerno Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale progetto paradigma medievale
direzione generale di Giulio d’Onofrio
Institutiones
Saggi, ricerche e sintesi di pensiero tardo-antico, medievale e umanistico
9 Direttore Giulio d’Onofrio Comitato scientifico-editoriale / Scientific Board Michele Abbate – Armando Bisogno – Maria Borriello – Maurizio Cambi Luigi Catalani – Renato de Filippis – Michele C. Ferrari (Erlangen) Melissa Giannetta – John Gavin (Worcester, MA) Christoph Horn (Bonn) – Thomas Leinkauf (Münster) Ernesto S. Mainoldi – Davide Monaco – Daniel Nodes (Waco, TX) Lucia Pappalardo – Pasquale Porro – Michela Salsano Antonio Sordillo – Valeria Sorge – Loris Sturlese – Anca Vasiliu (Paris) Angelo M. Vitale – Fosca Mariani Zini (Tours)
Institutiones è una collana sottoposta a valutazione da parte della Direzione, dei membri del Comitato scientifico-editoriale e da specialisti anonimi selezionati, i cui nomi e giudizi sono periodicamente resi noti on line alla pagina dedicata del sito del Centro: http://www.centrofitmu.org/ ______________ Institutiones is a peer-reviewed Series. The Volumes of the Series are assessed by the Director, the Editorial Board and specialists who are chosen by the Editorial Board and whose name are periodically made known at http://www.centrofitmu.org/
Armando Bisogno
L’eterno assente Agostino e la ricerca della verità
La realizzazione di questo volume è stata resa possibile da un parziale contributo offerto dal Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale (DISPAC) dell’Università degli Studi di Salerno.
In copertina: Agostino d’Ippona Tempera su tavola Juan de Borgogna (1465-1534) Museo e Real Bosco di Capodimonte – Napoli Photographic credit: © su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali – Museo e Real Bosco di Capodimonte
© 2021, Città Nuova Editrice via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-1559-9 Finito di stampare nel mese di febbraio 2021 dalla tipografia Arti Grafiche La Moderna Guidonia (Roma)
a martina e alla nostra vittoria
INDICE
GENERALE
Premessa. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 13 PARTE PRIMA Prendersi cura dell’uomo Prologo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 17 Capitolo primo Il laboratorio filosofico di Agostino: i primi dialoghi. . . . » 1. La necessità del filosofare. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 2. Per lucidas nubes: i primi tre dialoghi di Cassiciaco (386) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 3. Duplex quaestio: i Soliloquia, il De immortalitate animae e il De quantitate animae (387-388). . . . . . . . . » 4. La volontà come ‘perturbante’: il De libero arbitrio/1 (libro I) (388) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . »
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Capitolo 2 Tra filosofia e teo-logia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 79 1. Il linguaggio come ‘luogo’ della filosofia: il De magistro (389-390) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 79 2. Dire veramente Dio: il De vera religione (390). . . . . » 85 Capitolo 3 Cercare nelle Scritture: i primi scritti antimanichei . . . . . » 91 1. Laquei diaboli: il ruolo della polemica con il Manicheismo nella costruzione del sistema. . . . . . . . . . . . . . » 91 2. Tra auctoritas e ratio: il De utilitate credendi (391) e il De moribus (387-389). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 95 3. Il De Genesi contra Manichaeos (388-389). . . . . . . » 101
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Indice generale
4. Il problema del male: gli Acta contra Fortunatum Manichaeum (392) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . pag. 104 Capitolo 4 Camminare nelle Scritture: i primi testi esegetici. . . . . . . » 113 1. Un modello esegetico ‘coerentista’ (393-395) . . . . . . » 113 2. Tra legge e grazia: il confronto con Paolo (394-395). » 118 Capitolo 5 Pensare le Scritture: il De doctrina christiana/1 (libri I-III, 25, 36) (397). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 125 1. I praecepta dell’ermeneusi scritturale. . . . . . . . . . . . » 125 2. Una semiotica teologica. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 135 Capitolo 6 La volontà come problema radicale. . . . . . . . . . . . . . . . . . » 139 1. Giustizia di Dio e libertà dell’uomo (De libero arbitrio/2 - libri II-III) (391-395). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 139 2. «Verum quaerentibus interius lumen accende»: il Contra epistulam Manichaei quam vocant Fundamenti (396) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 150 Capitolo 7 Un Agostino ‘nuovo’? Il De diversis quaestionibus ad Simplicianum (396). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 157 1. La Legge e il peccato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 157 2. Salvare l’ordine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 162 3. Una nuova stagione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 168 PARTE SECONDA Prendersi cura degli uomini Prologo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 173 Capitolo primo Facere veritatem . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 181 1. Educare alla fede: il De catechizandis rudibus (403). » 181 2. La fondazione scritturale di una filosofia della storia. » 187 Capitolo 2 Cercare un Dio cercante: il De Trinitate (400-420). . . . . . » 199 1. La dimensione ‘sociale’ della teologia. . . . . . . . . . . . » 199
Indice generale
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2. La ‘metafora’ trinitaria (libri I-IV) . . . . . . . . . . . . . . pag. 202 3. I limiti del linguaggio trinitario (libri V-XV) . . . . . . » 206 Capitolo 3 I nemici della comunità. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 213 1. La bilancia di Dio: contro i Donatisti . . . . . . . . . . . . » 213 2. L’inizio della grazia: contro i Pelagiani . . . . . . . . . . . » 225 Capitolo 4 La comunità nella storia: il De civitate Dei (412-426). . . . » 235 1. I dubbi dei pagani (libro I). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 235 2. La storia falsa (libri II-X). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 242 3. Il governo invisibile di Dio (libri XI-XVIII). . . . . . . » 259 4. Il fine della storia: educare lo sguardo (libri XIX-XXII). » 266 Capitolo 5 Pensare da filosofo, parlare da pastore. . . . . . . . . . . . . . . » 273 1. Alla ricerca del bonus sermo: il De doctrina christiana/2 (libri III-IV) (426-427). . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 273 2. Il compito del predicatore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 277 Conclusioni L’argilla e il vasaio. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 289 Bibliografia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 297 Indice dei nomi. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 321 Indice biblico. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 331 Summary. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 335
PREMESSA
Nella complessa e multiforme esperienza biografica e intellettuale che lo ha visto attraversare, in modo spesso tormentato, stagioni esistenziali e speculative diverse, Agostino ha in più occasioni ‘convertito’ il suo pensiero, ri-orientandolo di volta in volta alla luce di nuove letture, riflessioni, accadimenti politici e personali. Agostino si è così consegnato all’immaginario dei secoli successivi – soprattutto attraverso le pagine delle Confessiones – come un animo inquieto che, per contrastare il rapido, costante e angoscioso susseguirsi di piaceri passeggeri, glorie transeunti, successi effimeri, amori volatili, dibattiti infiniti, riflessioni laceranti e dottrine incerte, ha cercato sempre e con ansia – tanto nella stagione precedente la conversione al Cristianesimo quanto nel lungo esercizio filosofico e pastorale dei decenni successivi – di individuare qualcosa che non mutasse, che restasse in sé immobile, garante di universalità, non sottoposto al tempo e alle modificazioni che esso implica. Un animo cercante e in ciò sofferente, guidato però dalla convinzione che tale desiderio di immutabilità che lo consumava non fosse altro che l’eco della chiamata che proprio dall’immutabile proveniva; di un eterno che continuamente si sottrae al desiderio dell’uomo ma che altrettanto costantemente, ‘personalmente’ lo chiama, lo esorta alla ricerca, rivelandosi – nascosto – proprio nei luoghi in cui la mancanza di stabilità e certezze ne genera e riproduce il desiderio e la nostalgia. Un eterno assente ma non inesistente, dunque, mèta inarrivabile ma ineludibile, orizzonte ultimo, lontano ma non per questo ostile perché proprio nel suo continuo sottrarsi all’uomo e nel contestuale richiamarlo a sé, gli si rivela. L’eterno cui aspira Agostino è dunque la verità a-temporale che l’uomo storico legge sempre e solo ex post, negli effetti ultimi, nei segni e nelle vestigia, nello sguardo rivolto all’indietro, nella lettura sintetica e postuma di ciò che si è già analiticamente dipanato nel tempo. È in questa capacità di raccontare la condizione umana ‘sospesa’ (che cioè abita il particolare storico ma anela all’universale eterno) che
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Premessa
risiede certamente il fascino che, da più di quindici secoli, Agostino esercita sul pensiero occidentale; al di là infatti delle frequentazioni che tantissimi pensatori, nel corso del tempo, hanno avuto con i suoi testi più famosi, e di quanto l’agostinismo abbia influenzato, direttamente e indirettamente, la speculazione europea, Agostino si presenta ancora oggi, a chiunque si accosti alle sue opere, come una voce viva, che pone a se stessa domande di senso che si riversano sul lettore, costringendolo a interrogarsi e a prendere posizione. L’intento di questo volume è dunque raccontare la genesi e lo sviluppo, in Agostino, di quella ricerca che ha per cinquant’anni alimentato e supportato il suo costante, profondo, incessante desiderio di ‘conversione’ all’eterno. Le pagine che seguono aspirano a restituire, attraverso l’analisi di alcuni dei momenti della sua biografia e di alcuni dei testi più significativi della sua produzione, la cifra intellettuale di un uomo che ha costantemente fatto testimonianza della sua esperienza di ricerca; di un pensatore che, proprio perché ha votato la sua intera esistenza a indagare simmetricamente e contemporaneamente la sua interiorità (consumata nel desiderio di certezze) e l’eterno (che, assente ma misericorde, lo chiamava a sé sfuggendogli), resta sempre ‘contemporaneo’ dell’anima inquieta dei lettori di ogni epoca.
PARTE PRIMA Prendersi cura dell’uomo
PROLOGO
Nato a Tagaste, nella odierna Algeria, nel 354, Agostino trascorre i primi trent’anni della sua vita in Africa, tra la città natale e Cartagine, studiando e insegnando grammatica e retorica, disciplina questa che, tra il 383 e il 384, lo vedrà docente prima a Roma e poi a Milano. Qui, nel 386, si converte al Cristianesimo – dopo un lungo iter di ricerca interiore che lo aveva portato ad abbracciare per più di dieci anni il Manicheismo e poi a rifiutarlo radicalmente – e si ritira in una casa di campagna, a Cassiciaco, con la madre Monica e gli amici per dedicarsi alla riflessione filosofica; in settimane di grande fermento intellettuale prende vita la prima parte della sua produzione, in forma di dialoghi. Dopo la morte di Monica, nel 387, Agostino rientra in Africa, dove viene ordinato prima sacerdote e poi creato vescovo di Ippona, e si impegna concretamente, fino al 430, anno della sua morte, nella vita delle comunità cristiane nordafricane, soprattutto nel contrasto alle dottrine (in special modo Donatismo e Pelagianesimo) da lui giudicate eretiche. Il Contra Academicos è l’opera che apre la produzione agostiniana giunta fino a noi; il dialogo è datato 386 ed è uno dei prodotti delle discussioni tenute da Agostino e dai suoi sodali a Cassiciaco1. Non ci sono dunque opere composte nei trenta anni precedenti, che testimonino cioè l’evoluzione delle riflessioni di Agostino prima della conversione. È però lo stesso Agostino che fornisce un racconto di quell’arco cronologico quando, tra il 397 e il 403, compone le Confessiones e dedica i primi nove libri a raccontare esattamente gli anni compresi tra la sua nascita (354) e la morte della madre Monica (387). È dunque possibile – pur senza mai dimenticare che la voce di Ago-
1 Per la cronologia delle opere di Agostino, cf. J. Anoz, Cronología de la produccíon augustiniana, in «Augustinus», 47 (2002), pp. 239-312. Prima di arrivare a Roma, Agostino aveva composto un De pulchro et apto, perduto però già prima del 400.
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Prologo
stino narra gli avvenimenti di quegli anni ex post e dopo una stagione lunga e spculativamente densa – scorrere le pagine delle Confessiones per ricavare una immagine della vita e delle riflessioni agostiniane precedenti la conversione e il ritiro a Cassiciaco. Agostino si muove lungo una precisa linea narrativa: raccontare a Dio, interlocuore diretto della confessione, i movimenti del suo animo e il percorso di progressiva, crescente presa di consapevolezza dei limiti e delle potenzialità della condizione umana2. Per questo, le Confessiones si aprono con il racconto del feroce desiderio, che caratterizza l’età più giovane, di vivere nel mondo, di goderne e di avere in esso affermazione. Nel descrivere i primi rapporti con i doveri, con gli studi e in generale con la comunità degli adulti nel passaggio dall’infantia alla pueritia, Agostino narra infatti della fascinazione esercitata sul suo giovane animo dai versi dei poeti latini ma, soprattutto, di quanto fosse per lui essenziale il plauso di quelli che apprezzavano i suoi talenti nel recitare e declamare3. Rispettare le regole delle lettere e delle sillabe e ignorare quelle divine; temere più il giudizio dei maestri e degli adulatori che quello di Dio4; sviluppare, cioè, sin da fanciulli, quel desiderio (sterile) di eccellere (vana excellentiae cupiditas) che caratterizza tutta la vita dell’uomo e ogni sua relazione interpersonale. La descrizione della condizione di dispersione nel reale domina la scrittura di Agostino. Così, alla pueritia informe succede la cupiditas infantile, nella quale il desiderio di primeggiare sempre e comunque nei giochi e con i compagni si trasforma in un vero e proprio fuoco che lo consuma fino a inselvatichirlo (silvescere)5. Amare ed essere amato sembrano essere gli unici 2 Cf. J. P. Burns, St. Augustine: The Original Condition of Humanity, in «Studia Patristica», 19 (1989) [= Papers presented to the Tenth International Conference on patristic studies held in Oxford 1987, ed. by E. A. Livingstone, 5 voll., I: Historica, Theologica, Gnostica, Biblica et Apocrypha], pp. 219-222; J. Brachtendorf, The Human Condition as a Unifying Theme of the Confessiones, in St. Augustine and His Opponents, ed. by J. Baun, Leuven 2010, pp. 241-252. 3 Cf. Confessiones, I, 13, 22, 670-671, p. 12; ibid., 17, 27, 673, p. 15. Le opere di Agostino vengono citate senza indicazione dell’autore; dopo il titolo, in corsivo, vengono indicati il libro (in cifre romane) e, a seguire, in cifre arabe, il capitolo, il paragrafo, le colonne dell’edizione della Patrologia Latina, le pagine e le righe dell’edizione critica, se presente. Tutti i riferimenti bibliografici delle edizioni dei testi sono riportati nella sezione ‘Fonti’ della Bibliografia. Laddove assenti, i riferimenti a libro, capitolo e paragrafo si intendono identici a quelli della nota immediatamente precedente. 4 Cf. ibid., 18, 29, 674, p. 16 e 19, 30, 674, pp. 16-17. 5 Cf. ibid., II, 1, 1, 675, p. 18.
Prendersi cura dell’uomo
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interessi dell’Agostino adolescente, avvinto dalle catene dei piaceri6; sordo alle esortazioni della madre Monica – fervente cristiana – egli trascorre un anno in un otium dedito ad amori e godimenti, in attesa di proseguire i suoi studi a Cartagine7, città teatro, nella ricostruzione autobiografica di Agostino, della stagione in cui la passione per una vita dissoluta – cioè letteralmente disciolta nel seguire mille rivoli compossibili – sembra prendere così tanto il sopravvento da sopravanzare in importanza gli stessi oggetti che la muovono; amare l’amare (amare amare) è l’espressione tanto sintetica quanto efficace che Agostino utilizza per restituire nella sua pagina la completa autoreferenzialità di un desiderio che vive e si alimenta di se stesso, a prescindere da ciò cui è rivolto. In questo gorgo, attratto dagli spettacoli teatrali, ancora impegnato a primeggiare tra i compagni di studi, Agostino approfondisce la retorica e, grazie alla frequentazione dei libri eloquentiae, si imbatte nell’Ortensio di Cicerone, una esortazione allo studio della filosofia (oggi perduta)8 che rappresenta, nel suo percorso, il primo momento in cui emerge la necessità di individuare un senso più universale agli accadimenti della sua vita. L’Ortensio produce così la prima ‘conversione’ della vita di Agostino: la ricerca di piaceri legati al sensibile sembra allontanarsi dal suo orizzonte, che invece si orienta all’indagine che aspira a cogliere la sapientia 9. Mosso da questo nuovo fuoco, Agostino ritorna alla fede che la madre Monica aveva tentato di inculcargli da piccolo e che lui non aveva mai del tutto accolto, ma che ora egli tenta di abbracciare nella speranza che il desiderio di sapienza e trascendenza, ingenerato da Cicerone, possa trovare risposte nelle Scritture; Agostino ne riprende la
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Cf. ibid., 2, 2, 675, p. 18. Cf. ibid., 3, 5-8, 677-678, pp. 19-21. 8 Cf. J. H. Taylor, Saint Augustine and the Hortensius of Cicero, in «Studies in Philology», 40 (1963), pp. 487-498; F. B. A. Asiedu, El Hortensius de Ciceròn, la filosofia y la vida mundana del joven Agustìn, in «Augustinus», 45 (2000), pp. 5-25; G. d’Onofrio, Il pensiero ‘convertito’, in Id., Vera philosophia. Studi sul pensiero cristiano in età tardo-antica, alto-medievale e umanistica, Città Nuova, Roma 2013 (Institutiones, 1), pp. 13-70 (per i singoli contributi cui fa riferimento il capitolo, cf. Id., Il parricidio di Cicerone. Le metamorfosi della verità tra gli Academica ciceroniani e il Contra Academicos di Agostino [lettura di testi], in Enosis kai filia. Unione e amicizia. Omaggio a Francesco Romano, a c. di M. Barbanti, G. R. Giardina - P. Manganaro, Catania 2002, pp. 207-236; Id., Il pensiero «convertito»: il giovane Agostino, in «Archivio di filosofia», 59 [1991], pp. 323-337). 9 Cf. Confessiones, III, 4, 7, 685, pp. 29-30. Il giudizio di Agostino su Cicerone non sarà sempre lusinghiero; cf. De civitate Dei, II, 27, 76, p. 62, 1: «Vir gravis et philosophaster Tullius». 7
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Prologo
lettura, ma esse gli appaiono ben lontane, nello stile e nei contenuti, dalla speculazione dell’Ortensio10. Convertitosi dunque alla ricerca della trascendenza grazie a Cicerone, deluso però dal testo sacro, Agostino non rinuncia a cercare altrove risposte alle nuove domande che la nuova ricerca gli pone. Ancora una volta il suo racconto restituisce il senso di una dispersione; incapace di orientare subito la sua ricerca alla verità universale, Agostino tralascia tanto le Scritture quanto – momentaneamente – Cicerone e si lega per diversi anni alla chiesa manichea, alle sue dottrine, alla complessa visione, da essa difesa, del conflitto tra bene e male nell’universo e alla promessa di dare, a tutti questi complessi problemi, una soluzione razionale11. Nove anni trascorrono, passati nell’insegnamento delle doctrinae liberales e, in particolar modo, della retorica, con la quale insegnava a render vere le cose false, e nel culto ‘privato’ della fede manichea, cui non disedegnava di aggiungere una certa passione per le divinationes12. La biografia intellettuale di Ago10 Cf. Confessiones, III, 5, 9, 686, pp. 30-31. Agostino criticherà apertamente questo atteggiamento di superbia intellettuale, derivante dalle conoscenze delle discipline del corretto parlare; cf. De catechizandis rudibus, 9, 13, 320, p. 135, 1-11: «Sunt item quidam de scholis usitatissimis grammaticorum oratorumque venientes, quos neque inter idiotas numerare audeas, neque inter illos doctissimos, quorum mens magnarum rerum est exercitata quaestionibus. His ergo qui loquendi arte ceteris hominibus excellere videntur, cum veniunt, ut christiani fiant, hoc amplius quam illis illitteratis impertire debemus, quod sedulo monendi sunt, ut humilitate induti christiana discant non contemnere, quos cognoverint morum vitia quam verborum amplius devitare, et cordi casto linguam exercitatam nec conferre audeant quam etiam praeferre consueverant». Cf. infra, p. 181. Cf. S. P. Menn, The Desire for God and the Aporetic Method in Augustine’s Confessions, in Augustine’s Confessions: Philosophy in Autobiography, ed. by W. E. Mann, Oxford 2014, pp. 71-107. 11 Cf. Confessiones, III, 6, 10-11, 687-688, pp. 31-33. Il Manicheismo si fonda sugli insegnamenti e la predicazione di Mani, nato in territori persiani nei primi decenni del terzo secolo d. C.; nei testi della vasta e complessa letteratura manichea, frutto anche di diversi sincretismi religiosi, emerge un dualismo radicale tra i principi del bene e del male. Per un quadro approfondito della dottrina manichea, cf. J. K. Coyle, Mani - Manichei - Manicheismo, voce in Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane, a c. di A. Di Berardino, 3 voll., Genova-Milano 2006, II, coll. 2991-3000. Nel discutere dell’Epistola Fundamenti, Agostino spiega come il suo allontanamento dal Manicheismo si concretizzò proprio per la sfiducia nella possibilità stessa che l’uomo, e dunque anche i Manichei, possa arrivare a dire qualcosa di scientificamente e rigorosamente vero su Dio; cf. infra, p. 150. 12 Cf. A. Kotzé, The ‘Anti-Manichaean’ Passage in Confessions 3 and its ‘Manichaean Audience’, in «Vigiliae christianae», 62 (2008), pp. 187-200; J. van Oort, The Young Augustine’s Knowledge of Manichaeism: An Analysis of the Confessiones and Some Other Relevant Texts, in «Vigiliae christianae», 62 (2008), pp. 441-466.
Prendersi cura dell’uomo
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stino, alle soglie del trentesimo anno d’età, sembra dunque ancora profondamente tormentata, vissuta disperdendo energie nel mondo senza riuscire a intuire l’esitenza di quel senso generale che invece, nella rilettura postuma delle Confessiones, egli comprende come fosse già prossimo e continuamente presente ai suoi occhi, incapaci di coglierlo («Et ubi ego eram, quando te quaerebam? Et tu eras ante me»13). È in questo momento che egli ha modo di confrontarsi con il vescovo Fausto che godeva di grande fama tra i Manichei, secta alla quale Agostino era in quel momento ancora legato. Di Fausto si narrava che avesse grandi capacità espressive e fosse depositario di quelle conoscenze scientifiche che permettevano ai Manichei, per esempio, di predire con affidabilità diversi fenomeni astronomici; è dunque nella speranza che tale possesso di discipline gli permettesse di sciogliere i suoi dubbi che Agostino aspira a seguirne il magistero14. L’incontro con Fausto, atteso da anni perché da tutti indicato come personaggio tra i più rappresentativi del mondo manicheo, si rivela una utile delusione. Fausto risponde alle domande di Agostino con pudica modestia, senza rifugiarsi in discorsi forbiti o complessi, ma denunciando la sua ignoranza. Pur restando formalmente parte di quella comunità, Agostino se ne distacca dunque nell’intimità15. Il confronto con Fausto chiude l’esperienza cartaginese di Agostino, che si trasferisce a Roma nella speranza di poter continuare a insegnare retorica a studenti meglio predisposti di quelli africani16. A Roma Agostino frequenta la comunità locale dei Manichei, pur nella sempre maggior convinzione che la loro promessa di fornire spiegazioni razionali della realtà fosse fallace; anzi, proprio tale disillusione lo spinge a tornare alla soluzione proposta dagli Accademici cui si ispirava Cicerone, vale a dire agli ultimi eredi della tradizione platonica e difensori di uno strenuo scetticismo17. Lo scetticismo ciceroniano
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Cf. Confessiones, V, 2, 2, 706-707, pp. 57-58. Cf. ibid., 3, 3 - 6, 11, 707-710, pp. 58-62. 15 Cf. ibid., 7, 13, 711-712, pp. 63-64. 16 Cf. ibid., 8, 14, 712, pp. 64-65. 17 Cf. ibid., 10, 19, 715, p. 68, 24-27: «Etenim suborta est etiam mihi cogitatio, prudentiores illos ceteris fuisse philosophos, quos Academicos appellant, quod de omnibus dubitandum esse censuerant nec aliquid veri ab homine comprehendi posse decreverant». Per Agostino, il tramite con i rappresentanti dell’ultima stagione dell’Accademia platonica è l’opera di Cicerone, autore di due opere dedicate alla filosofia accademica, gli Academica priora e i posteriora. Dei priora è conservato il solo libro del dialogo con Lucullo; dei posteriora, che vedono come interlocutore di Cicerone il letterato Varrone, sono conservati il primo libro e frammenti del secondo e del terzo. Cicerone descrive l’evoluzione dell’Accade14
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appare infatti ad Agostino, deluso anche dalla fede manichea, l’unico habitus intellettuale sensato; dinanzi alla mutevolezza apparentemente senza senso dell’esistenza, e alla conseguente fragilità gnoseologica e morale dell’uomo, incapace di intuire, all’interno di quel flusso incessante, un ordine, la sola prospettiva plausibile sembra infatti quella scettica, in virtù della quale non vi è giudizio che possa dirsi definitivo e che invita alla elaborazione di sole ipotesi probabili, vale a dire sostenibili con il supporto – mai apodittico – di prove particolari. Sfiduciato nei confronti dell’ipotesi manichea, ormai convinto che lo scetticismo fosse l’unica possibile via di convivenza, per l’uomo, con la mutevolezza che lo circonda, Agostino arriva a Milano, dove una seconda conversione lo attende. Nonostante se ne fosse allontanato ideologicamente, i rapporti con la comunità manichea gli avevano permesso di brigare per fuggire anche da Roma, i cui studenti non si erano rivelati migliori in disciplina di quelli cartaginesi, e ottenere il posto di magister rhetoricae richiesto dal praefectus urbis di Milano. La passione per l’esercizio raffinato della parola, che lo aveva condotto a Milano come maestro di retorica, lo lega alla figura del vescovo Ambrogio. Agostino lo ascolta spessissimo quando pronuncia le sue omelie; pur rifiutandone infatti la dottrina, il vescovo lo affascina per il suo stile forbito18. Spinto dalla eleganza delle parole di Ambrogio, Agostino lascia però che lentamente con esse penetrino nel suo animo anche le dottrine cristiane, che non vengono riconosciute come vere ma quantomeno plausibili, soprattutto grazie allo sforzo di Ambrogio di rendere manifesto, attraverso un’analisi spirituale (spiritaliter), il significato dei passi più oscuri delle Scritture19. Affascinato dalla comunità milanese e dal suo pastore, Agostino se ne fa catecumeno e abbandona dunque definitivamente il Manicheismo20. mia verso lo scetticismo come risposta che gli ultimi rappresentanti del pensiero platonico fornirono al tentativo della Stoa di dare valore alle conoscenze provenienti dai sensi. Cf. T. B. De Graff, Plato in Cicero, in «Classical Philology», 35/2 (1940), pp. 143-153; G. Striker, Cicero and Greek Philosophy, in «Harvard Studies in Classical Philology», 97 (1955), pp. 53-61; S. Gersh, Middle Platonism and Neoplatonism. The Latin Tradition, 2 voll., Notre Dame (Indiana) 1986, I, p. 67; E. Bermon, ‘Contra academicos vel de academicis’ (Retract. I, 1): Saint Augustin et les Academica de Cicéron, in «Revue des Études anciennes», 111/ 1 (2009), pp. 75-93. 18 Cf. Confessiones, V, 13, 23, 717, p. 70. 19 Cf. ibid., 14, 24, 718, p. 71. 20 Cf. ibid., 14, 25, 718, pp. 71-72. Agostino tornerà altre volte sul fatto che gli uomini più eruditi, quando si avvicinano al cristianesimo, hanno bisogno di un percorso diverso da quello riservato agli ineruditi; Cf. De catechizandis rudibus, 8, 12, 318-319, p. 133, 1-9: «Sed illud plane non praetereundum est, ut si ad te
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L’incontro con lo scetticismo accademico prima e con Ambrogio poi mutano radicalmente la condizione spirituale di Agostino e ne configurano significativamente la forma mentis. Se infatti la prospettiva scettica gli appare quella più intrinsecamente umana (vale a dire rispondente alla ineludibile condizione di precarietà nella quale ogni uomo vive), il rapporto sempre più intenso con le parole e la dottrina di Ambrogio, venerato in particolare da Monica (che aveva raggiunto Agostino a Milano) per la sua santità e capace di mostrargli il valore di una interpretazione scritturale che superasse la littera e il velo mistico per giungere al senso spirituale, permette ad Agostino di acquisire sempre più certezze rispetto alla fede cristiana come luogo di intuizione del senso universale delle cose21. La definitiva scelta della dottrina cristiana a discapito di quella manichea deriva infatti proprio dalla paradossale problematicità della prima messa a confronto con la pretesa razionalità della seconda; la promessa dei Manichei di rispondere con una scientia ai suoi dubbi era stata tanto tradita da indurlo a preferire la fede cristiana, che chiedeva di credere a dottrine che essa stessa ammetteva di non poter razionalmente dimostrare22. All’ormai acquisito scetticismo filosofico accademico Agostino sente dunque di poter affiancare produttivamente la lettura di quelle Scritture che, nella loro semplicità (che le rende accessibili a ogni essere umano) sembrano rappresentare il contenuto indispensabile per superare l’impasse gnoseologico filosofico e dare avvio alla ricerca. Essendo infatti incapaci di trovare la verità con una ragione evidente, ed essendoci per questo necessaria l’autorità di scritture
quisquam catechizandus venerit liberalibus doctrinis excultus, qui iam decreverit esse christianus, et ideo venerit ut fiat, difficillimum omnino est, ut non multa nostrarum Scripturarum litterarumque cognoverit, quibus iam instructus ad sacramentorum participationem tantummodo venerit. Tales enim non eadem hora qua christiani fiunt, sed ante solent omnia diligenter inquirere, et motus animi sui, cum quibus possunt, communicare atque discutere». Cf. V. Grossi, Sant’Ambrogio e sant’Agostino. Per una rilettura dei loro rapporti - Nec timeo mori, in Atti del Congresso internazionale di studi ambrosiani nel XVI centenario della morte di sant’Ambrogio (Milano, 4-11 aprile 1997), a c. di L. F. Pizzolato - M. Rizzi, Milano 1998, pp. 405-462. 21 Cf. Confessiones, VI, 4, 6, 722, p. 77. 22 Cf. ibid., 7, 722, pp. 77-78, 1-7: «Ex hoc tamen quoque iam praeponens doctrinam catholicam modestius ibi minimeque fallaciter sentiebam iuberi, ut crederetur quod non demonstrabatur (sive esset quid, sed cui forte non esset, sive nec quid esset) quam illic temeraria pollicitatione scientiae credulitatem irrideri et postea tam multa fabulosissima et absurdissima, quia demonstrari non poterant, credenda imperari».
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ispirate, avevo cominciato già a credere che tu non avresti attribuito a quella Scrittura una così ragguardevole autorità diffusa già per tutta la terra, se tu non avessi voluto che, attraverso di essa, si credesse in te e ti si ricercasse (te quaeri voluisses)23.
La condizione nella quale Agostino descrive se stesso e il ristretto circolo di amici che frequentava è dunque per certi versi aggravata proprio dai progressi fatti e dalla scelta, lenta, di dar fiducia alle Scritture e alla lettura che ne forniva Ambrogio24. Mentre infatti la mèta di una ricerca che lo tormenta da più di dieci anni gli appare vicinissima, il richiamo dei piaceri sembra continuamente respingerlo in una condizione incerta. In attesa di poter convolare a nozze con una ragazza cui si era promesso, Agostino convive con un’altra donna, dalla quale ha un figlio; quando la donna viene fatta allontanare perché ritenuta ostacolo alle future nozze, Agostino ne cerca un’altra e con essa continua la sua condizione di convivente fuori dal matrimonio. L’impossibilità di liberarsi dei piaceri carnali sembra dunque attanagliarlo tanto da costringerlo a recedere dal progetto, condiviso con alcuni amici, tra i quali Romaniano, di convivere tutti assieme come una piccola comunità25. Ancora una volta, nelle pagine delle Confessiones, il richiamo del mondo, che lo spinge alla dispersione, si fa pressante, e appare ancor più drammatico proprio perché sembra opporsi a una stagione di grande consapevolezza intellettuale e spirituale. È in questo contesto che ha luogo l’ultima ‘conversione intellettuale’ di Agostino. Dopo aver colto, nell’elegante prosa filosofica di Cicerone, la necessità di una intuizione dell’universale ma anche la fragilità di una condizione umana incapace di raggiungere quel risultato, e aver appreso, grazie alla suadente retorica di Ambrogio, quale ricchezza in tal senso offrisse invece la lettura delle Scritture (precedentemente rifiutate proprio perché ritenute rozze rispetto allo stile ciceroniano), Agostino ha la ventura di imbattersi in alcuni libri platonicorum, con ogni probabilità opere di Plotino e Porfirio tradotte 23 Ibid., 8, 726, p. 78, 29-34: «Ideoque cum essemus infirmi ad inveniendam liquida ratione veritatem et ob hoc nobis opus esset auctoritate sanctarum Litterarum, iam credere coeperam nullo modo te fuisse tributurum tam excellentem illi Scripturae per omnes iam terras auctoritatem, nisi et per ipsam tibi credi et per ipsam te quaeri voluisses». Cf. G. Volta, Condizioni per la ricerca della verità nelle Confessioni di sant’Agostino, in Sant’Agostino e l’Occidente, Atti della giornata di studi (24 ottobre 1998), a c. di L. Valle - P. Pulina, Pavia 1999, pp. 51-74. 24 Cf. F. Butlen, L’amitié dans les Confessiones de saint Augustin, in «Revue des Études latines», 86 (2008), pp. 191-221. 25 Cf. Confessiones, VI, 14, 24, 731, pp. 89-90.
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in latino da Mario Vittorino26. Questi testi sembrano rappresentare, nella sua biografia intellettuale, l’ultimo tassello, indispensabile per dar compimento al quadro d’insieme. Pur non essendo cristianamente ispirati, essi conducono Agostino sempre più lontano dal ‘morbo’ intellettuale che egli stesso, all’inizio del settimo libro, individua come letale: la convinzione che Dio sia materiale e corporeo. La lettura dei testi neoplatonici lo costringe infatti ad abbandonare definitivamente quest’ultimo residuo della dottrina manichea per guadagnare definitivamente la dimensione ‘altra’ della trascendenza, imprimendo alla sua riflessione una svolta decisiva. Un nuovo, radicale approccio ontologico sembra nascere in questo preciso passaggio biografico; affermare che Dio non è corpo, che non ha estensione non significa dire che egli è nulla ma, anzi, esattamente al contrario, affermare che egli è l’unico, vero essere, e che la materialità del creato è solo scala per risalire a Lui. E ho chiesto: ‘La verità dunque è nulla, poiché non si estende né per spazi inifiniti né per spazi finiti?’ E tu da lontano hai gridato: ‘In verità io sono colui che è’. E ho ascoltato, come si ascolta con il cuore, e non avevo più motivo di dubitare, perché avrei dubitato più facilmente del mio vivere che dell’esistenza della verità, che può essere vista attraverso le cose che sono create27.
26 Cf. ibid., VII, 9, 13, 740, p. 101. Cf. R. H. Nash, Some Philosophic Sources of Augustine’s Illumination Theory, in «Augustinian studies», 2 (1971), pp. 47-66; J. J. O’Donnell, Augustine: Confessions, 3 voll., Oxford 1992, II, pp. 413-426, III, pp. 13-20; P. Van Geest, Sensory Perceptions as a Mandatory Requirement for the via negativa towards God. The Skiful Paradox of Augustine as Mystagogue, in «Studia Patristica», 49 (2010), pp. 51-64. Su Vittorino cf. P. Hadot, Marius Victorinus: Recherches sur sa vie et ses oeuvres, Paris 1971; D. G. Hunter, Fourt-century Latin Writers: Hilary, Victorinus, Ambrosiaster, Ambrose, in The Cambridge History of Early Christian Literature, ed. F. Young - L. Ayres - A. Louth, Cambridge 2008, pp. 302-318. Sul Platonismo e sui libri, cf. E. Peroli, Sulla recezione del platonismo nella patristica, in «Rivista di Filosofia neoscolastica», 83 (1991), pp. 3-35; T. O’Loughlin, The Libri platonicorum and Augustine’s Conversions, in The Relationship between Neoplatonism and Christianity, Proceedings of the First Patristic Conference at Maynooth, ed. T. Finan - V. Twomey, Dublin 1992, pp. 101-125. 27 Confessiones, VII, 10, 16, 742, p. 104, 22-27: «Et dixi: ‘Numquid nihil est veritas, quoniam neque per finita neque per infinita locorum spatia diffusa est?’. Et clamasti de longinquo (Lc 15, 30): immo vero ‘ego sum qui sum’ (Es 3, 14). Et audivi, sicut auditur in corde, et non erat prorsus, unde dubitarem faciliusque dubitarem vivere me quam non esse veritatem, quae per ea, quae facta sunt, intellecta conspicitur (Rm 1, 20)». Cf. Enarrationes in Psalmos, I, 6, 68, p. 3, 6-12: «‘Non novi vos’ (Mt 7, 23). ‘Iter’ autem ‘impiorum peribit’ (Sal 1, 6), pro eo positum est, ac si diceretur: Iter autem impiorum non novit Dominus. Sed planius dictum est, ut hoc sit nesciri a Domino, quod est perire, et hoc sit sciri Domino, quod est manere: ut ad scientiam Dei esse pertineat, ad ignorantiam vero non
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Il mondo appare dunque ad Agostino ormai chiaro nella sua complessa struttura ontologica, fondata sulla semplice equazione che identifica l’essere con il bene, e che dunque sottrae al ‘male’ ogni dignità ontologica28. La realtà si configura così come un ordo governato da Dio29, nel quale non può più trovare spazio il dualismo manicheo, che nasce proprio dalla difficoltà di cogliere il più generale equilibrio dell’universo: incapaci di collocare in un più complesso piano provvidenzialmente ordinato le cose, distinte per diversi gradi di dignità e bontà, i Manichei preferiscono infatti pensare all’esistenza di due principi, per attribuire a quello malvagio gli ‘errori’ presenti nel creato30. Liberatosi tramite l’approccio accademico e il fascino delle parole di Ambrogio dalle dottrine manichee, Agostino è giunto dunque alla sua piena maturazione speculativa grazie al’incontro con la filosofia neoplatonica, che lo ha aiutato a collocare in una più vasta economia teologica tutto il creato e la figura mediatrice del Verbo/Cristo, capace al contempo di essere aeterna veritas ma anche di costruire una casa, tra gli uomini, per supportare la loro debolezza31. La biografia di Agostino giunge dunque, nel racconto delle Confessiones, all’ultima svolta. ‘Ciceroniano’ nella valutazione della condizione umana collocata storicamente, ‘ambrosiano’ nella convinzione che le Scritture descrivano in modo affidabile un Dio che, nella sua condizione trascendente, è l’unica mèta possibile per la fragilità umana, ‘plotiniano’ nell’idea che la relazione tra questi due piani (quello orizzontale dell’esistenza e quello verticale della trascendenza) sia coesse; quia Dominus dicit: ‘Ego sum qui sum’; et: ‘Qui est, misit me’ (Es 3, 14)». Sulla cronologia della composizione dei singoli testi di commento ai Salmi, cf. Anoz, Cronología cit., pp. 294-299. 28 Cf. Confessiones, VII, 12, 18, 743, pp. 104-105, 1-14: «Et manifestatum est mihi, quoniam bona sunt, quae corrumpuntur, quae neque si summa bona essent, neque nisi bona essent, corrumpi possent, quia, si summa bona essent, incorruptibilia essent, si autem nulla bona essent, quid in eis corrumperetur, non esset. Nocet enim corruptio et, nisi bonum minueret, non noceret. Aut igitur nihil nocet corruptio, quod fieri non potest, aut, quod certissimum est, omnia, quae corrumpuntur, privantur bono. Si autem omni bono privabuntur, omnino non erunt. Si enim erunt et corrumpi iam non poterunt, meliora erunt, quia incorruptibiliter permanebunt. Et quid monstrosius quam ea dicere omni bono amisso facta meliora? Ergo si omni bono privabuntur, omnino nulla erunt; ergo quandiu sunt, bona sunt. Ergo quaecumque sunt, bona sunt, malumque illud, quod quaerebam unde esset, non est substantia, quia, si substantia esset, bonum esset». 29 Cf. ibid., 13, 19, 743, p. 105, 1-3: «Et tibi omnino non est malum, non solum tibi sed nec universae creaturae tuae, quia extra te non est aliquid, quod irrumpat et corrumpat ordinem, quem imposuisti ei». 30 Cf. ibid., 14, 20, 744, p. 106. 31 Cf. ibid., 18, 24, 745, p. 108.
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stituita da un ordine gerarchico che tutto governa e che è strutturato secondo progressioni discendenti del bene, Agostino sente che la fede cristiana è la sintesi più efficace di tali posizioni, ma il suo animo inquieto ne teme ancora le strettoie32. Pur apparentemente vicinissimo a una condizione di quiete intellettuale, Agostino si descrive, nelle pagine iniziali del libro ottavo, come profondamente lacerato. Incitato e ispirato dalla lettura dei racconti di conversioni radicali e profondissime33, egli sente addosso il peso di ciò che, della sua vita, avrebbe dovuto abbandonare convertendosi completamente al Cristianesimo; come chi è quasi sveglio e sa di doversi alzare ma gode ancora del torpore del corpo e ritarda il momento di abbandonare il giaciglio, così la volontà di Agostino, ormai convinta della necessità di abbracciare Dio, sembra indugiare nel mondo dei piaceri che lo avevano per tanto tempo accolto34. In questo frangente drammatico, la presenza di Dio (che nei primi libri sembra limitarsi a indirizzare la vita di Agostino con lontane e sotterranee admonitiones) si impone con una azione quasi violenta. Mentre l’amico Ponticiano gli racconta le gesta e gli esempi di ferventi cristiani, Agostino sembra incapace di trovare un luogo nel quale non essere invaso da quello stimolo pressante alla conversione. Non dentro di sé, dove Dio stesso lo incalzava; non fuori di sé, dove Ponticiano continuava a presentargli esempi di virtù cristiane35. Sospeso tra desideri contrapposti, inseguito da Dio interiormente ed esteriormente, incapace di non rimandare ma inetto ad agire definitivamente, Agostino sembra descrivere, proprio nel momento più prossimo alla risoluzione, una condizione di terribile impasse 36. Il climax tensivo delle pagine del libro ottavo conduce così all’ultima, definitiva conversione. Agostino freme per la tempesta (aestus) interiore che lo agita; interroga Alipio, chiedendo al fidato amico cosa dovessero fare, come dovessero comportarsi e quale fosse la strada da intraprendere37. Il dolore sembra sopraffarlo, e lo prostra, lasciandolo nella condizione terribile di chi sa quale sia la scelta più giusta da fare ma non ha la forza di compierla; di un’anima che sa dare ordini al corpo e farsi obbedire ma non sa fare altrettanto con se stessa38. Agostino sembra
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Cf. ibid., VIII, 1, 1, 748, p. 113. Cf. ibid., 2, 3 - 5, 10, 750-753, pp. 114-120. 34 Cf. ibid., 6, 13, 754-755, p. 121. 35 Cf. ibid., 7, 16, 756-757, pp. 123-124. 36 Cf. D. D. Crawford, Intellect and Will in Augustine’s Confessions, in «Religious Studies», 24/3 (1988), pp. 291-302. 37 Cf. Confessiones, VIII, 8, 20, 758, p. 126. 38 Cf. ibid., 9, 21, 758-759, pp. 126-27. 33
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sdoppiarsi nel racconto; si rivolge a se stesso, invitando il suo animo ad intraprendere definitivamente la strada nuova, ma esso sembra ribellarglisi, rivoltarglisi contro e disobbedirgli. Nugae e vanitates affollano il proscenio dei suoi pensieri; lo incalzano i piccoli piaceri che egli stentava ad abbandonare e che lo angustiano chiedendogli quanto sia veramente pronto a condurre una vita priva del loro supporto39. Grida e lamenti, una pioggia di lacrime invade Agostino che si abbandona al pianto nel giardino prospiciente la sua abitazione, ormai arresosi alla sua incapacità di percorrere l’ultimo segmento del suo cammino. Dicevo queste cose e piangevo con amarissimo dolore del mio cuore. Ma ecco che sento una voce che proviene dalla casa vicina, che come un canto di un bambino o una bambina – non lo so – che si ripeteva spesso, diceva: ‘Prendi e leggi, prendi e leggi (tolle lege, tolle lege)’. Subito, mutato in volto, cominciai con grandissima attenzione a pensare, se i ragazzi fossero soliti cantare, in qualche gioco, cose del genere, né mi sembrava in alcun modo di averlo mai udito prima e dunque, calmato l’impeto delle lacrime, mi alzai, concludendo che da parte di Dio mi si ordinava di aprire il libro e leggere il primo verso che avessi trovato. (…) Perciò di corsa rientrai nel luogo dove sedeva Alipio; lì infatti avevo posato il libro di Paolo, quando mi ero alzato. Lo presi, lo aprii e lessi in silenzio il versetto, sul quale si posarono gli occhi: ‘Non nelle crapule e nell’ebrezza, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo né assecondate la carne nelle sue concupiscenze’. Non volli leggere oltre, né era necessario. Subito, alla fine della lettura, tutte le tenebre del dubbio svanirono grazie a una specie di luce sicura infusa nel mio cuore40.
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Cf. ibid., 11, 26, 761, pp.129-130. R. J. Ganze, The Medieval Sense of Self, in Misconceptions about the Middle Ages, a c. di S. J. Harris - B. L. Grigsby, Turnhout 2008, pp. 102-116. 40 Confessiones, VIII, 12, 29, 762, p. 131, 18-25 e 30-38: «Dicebam haec et flebam amarissima contritione cordis mei. Et ecce audio vocem de vicina domo cum cantu dicentis et crebro repetentis quasi pueri an puellae, nescio: ‘Tolle lege, tolle lege’. Statimque mutato vultu intentissimus cogitare coepi, utrumnam solerent pueri in aliquo genere ludendi cantitare tale aliquid, nec occurrebat omnino audisse me uspiam repressoque impetu lacrimarum surrexi nihil aliud interpretans divinitus mihi iuberi, nisi ut aperirem codicem et legerem quod primum caput invenissem. (…) Itaque concitus redii in eum locum, ubi sedebat Alypius; ibi enim posueram codicem Apostoli, cum inde surrexeram. Arripui, aperui et legi in silentio capitulum, quo primum coniecti sunt oculi mei: ‘Non in comessationibus et ebrietatibus, non in cubilibus et impudicitiis, non in contentione et aemulatione, sed induite Dominum Iesum Christum et carnis providentiam ne feceritis
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Convertito dall’intervento diretto e decisivo di Dio nella sua vita, Agostino condivide la gioia con Alipio prima e con Monica dopo, per poi mutare radicalmente stile di vita. Sospeso l’insegnamento41, decide di ritirarsi in campagna, a Cassiciaco, con la madre e il fratello Navigio, con il figlio Adeodato e con Alipio e Nebridio che ne avevano accompagnato il percorso di conversione; con loro, sono presenti anche i due giovani Licenzio (figlio di Romaniano), Trigezio e i cugini di Agostino, Lartidiano e Rustico. La vita di questa piccola comunità si divide tra la preghiera, la lettura42 e la meditazione43 delle Scritture, ma è soprattutto indirizzata alla composizione dei primi dialoghi filosofici nei quali, confrontandosi proprio con quanti lo avevano accompagnato in quella esperienza di fede e di riflessione, Agostino delinea gli elementi fondativi del suo sistema. L’esperienza a Cassiciaco conferma ulteriormente la scelta di fede di tutta la comunità44; Agostino rientra a Milano e, con Alipio e il figlio Adeodato, si prepara a ricevere il battesimo45 e a rientrare in Africa. Spostatisi a Ostia per prendere il mare, Agostino viene colpito dall’ultimo, violento dolore: alla sopraggiunta morte della madre Monica dedica le pagine conclusive del libro nono e della lunga sezione ‘narrativa’ delle Confessiones. La vita di Monica diventa, così, una specie di confessio minor nella quale agiscono le medesime forze che hanno contraddistinto il racconto della vita di Agostino46. Nata da famiglia cristiana e così educata, la piccola Monica viene seguita e redarguita, nei suoi errori, da una attenta e severa badante47; andata in sposa a Patrizio, non credente che ella tentò sempre di convertire al Critianesimo48, segue negli anni con apprensione gesta e scelte di Agostino, fino a gioire della sua definitiva conversio-
in concupiscentiis’ (Rm 13, 13-14). Nec ultra volui legere nec opus erat. Statim quippe cum fine huiusce sententiae quasi luce securitatis infusa cordi meo omnes dubitationis tenebrae diffugerunt». Cf. L. C. Ferrari, Saint Augustine’s Conversion Scene: The End of a Modern Debate?, in Historica, Theologica, Gnostica, Biblica et Apocrypha cit., pp. 235-250. 41 Cf. Confessiones, IX, 1, 1 - 2, 4, 763-765, pp. 133-135. 42 Cf. ibid., 4, 8, 766-767, pp. 137-138. 43 Cf. ibid., 4, 9, 767, p. 138. 44 Cf. ibid., 5, 13, 769, p. 140. 45 Cf. ibid., 6, 14, 769, pp. 140-141. 46 Cf. R. Holte, Monica ‘the Philosopher’, in Augustinus, Charisteria Augustiniana Iosepho Oroz Reta dicata, a c. di P. Merino - J. M. Torrecilla, Madrid 1993, pp. 293-316; H. Kotila, Monica’s Death in Augustine’s Confessions IX. 1113, in Cappadocian Fathers, Greek Authors after Nicaea, Augustine, Donatism and Pelagianism, a c. di E. A. Livingstone, Leuven 1993, pp. 337-341. 47 Cf. Confessiones, IX, 8, 17-18, 771, pp. 142-143. 48 Cf. ibid., 9, 19, 772-773, p. 145.
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ne. È in questa atmosfera pacificata che si colloca il racconto della sua morte. Madre e figlio si trattengono a dialogare sul valore e la bellezza della vita futura e su quanto essa sarà incomparabilmente migliore di quella presente49; così, nel loro confrontarsi, il mondo sensibile, con le sue forme e le sue norme, appare sempre più come un concerto di voci che spingono alla ricerca di Dio50 e rendono la vita sulla terra una attesa della verità che si rivelerà post mortem 51. Il dialogo prepara scenicamente il momento dell’addio a Monica che, ammalatasi subito dopo, muore dopo nove giorni di sofferenze52. Chiudevo i suoi occhi e una tristezza infinita confluiva nel mio animo e rifluiva nelle lacrime, e allo stesso tempo i miei occhi per violento comando dell’animo prosciugavano la loro fonte; in tale lotta io mi trovavo. Allora, quando esalò l’ultimo respiro, il piccolo Adeodato gridò, in lacrime, ma poi tacque, frenato da tutti noi. Nello stesso modo quanto di bambinesco c’era in me, che avrebbe voluto piangere, veniva costretto a tacere dalla voce adulta, voce dell’interiorità. Non pensavamo fosse infatti giusto celebrare quella dipartita con pianti lamentevoli e gemiti, poiché si è soliti dolersi in questo modo della sventura di chi è morto o quasi di una dipartita completa. Ma la sua morte non era una sventura né pensavamo che lei fosse scomparsa. Ne erano prova i suoi costumi, la sua ‘fede non finta’ e ragionamenti saldi (rationes certae)53.
Le ultime pagine del libro nono sembrano così sintetizzare in modo fedele ed efficace l’intero percorso esistenziale di Agostino. Le Confes-
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Cf. ibid., 10, 24, 774, pp. 147-148. Cf. ibid., 10, 25, 774-775, p. 148. 51 Cf. ibid., 10, 26, 775, p 148. 52 Cf. ibid., 11, 28, 775-776, pp. 149-150. 53 Ibid., 12, 29, 776, p. 150, 1-13: «Premebam oculos eius, et confluebat in praecordia mea maestitudo ingens et transfluebat in lacrimas, ibidemque oculi mei violento animi imperio resorbebant fontem suum usque ad siccitatem, et in tali luctamine valde male mihi erat. Tum vero, ubi efflavit extremum, puer Adeodatus exclamavit in planctu atque ab omnibus nobis cohercitus tacuit. Hoc modo etiam meum quiddam puerile, quod labebatur in fletus, iuvenali voce, voce cordis, cohercebatur et tacebat. Neque enim decere arbitrabamur funus illud questibus lacrimosis gemitibusque celebrare, quia his plerumque solet deplorari quaedam miseria morientium aut quasi omnimoda exstinctio. At illa nec misere moriebatur nec omnino moriebatur. Hoc et documentis morum eius et ‘fide non ficta’ (1 Tm 1, 5) rationibusque certis tenebamus». Cf. K. Paffenroth, Tears of Grief and Joy: Confessions Book 9: Chronological Sequence and Structure, in «Augustinian Studies», 28 (1997), pp. 141-154. 50
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siones, pur non presentandosi come uno scritto diaristico, che possa cioè essere usato come fedele testimonianza della serie di avvenimenti che si sono succeduti nella vita del giovane Agostino, restituiscono certamente i punti essenziali del primo segmento della sua formazione. Ne emerge l’immagine di uno spirito inquieto, consapevole dei limiti e delle imperfezioni della sua dimensione ‘carnale’ ma al contempo via via sempre più certo della efficacia del supporto offerto spiritualmente dalla fides e intellettualmente dalle rationes.
CAPITOLO PRIMO
IL LABORATORIO FILOSOFICO DI AGOSTINO: I PRIMI DIALOGHI
1. La necessità del filosofare Il primo testo composto da Agostino a Cassiciaco (dopo il trentennio narrato ex post dalle Confessiones), il Contra Academicos, si apre con una lettera proemiale all’amico Romaniano1. In poche pagine, Agosti1 Tutta la prima stagione della produzione di Agostino è caratterizzata dalla stesura di opere in forma dialogica. Se infatti il dialogo rappresenta l’unica modalità, secondo Agostino, attraverso la quale è possibile sviluppare il proprio percorso di ricerca con una comunità di sodali, la scrittura dei dialoghi è il luogo in cui tale confronto tra diverse idee viene fissato in una memoria condivisa e diventa, in ciò, occasione di una riflessione ‘seconda’ che prende le mosse dai risultati della riflessione ‘prima’. Scrivere in generale e, in particolare, scrivere dialoghi non soltanto permette infatti di conservare memoria di quanto discusso ma apre la discussione stessa a una continua ricondivisione di quanti, leggendo il contenuto di un incontro, lo ripensano, lo rielaborano e, da esso, generano nuove discussioni. Cf. De ordine, I, 9, 27, 990, p. 102, 20-22 e 23-28: «Instituimus iam de istis rebus verba non perdere resque ipsas a memoria fugaces, scriptorum quasi vinculo quo reducantur innectere. (…) Nam et vos profecto in rem tantam, quia solis perferenda imponitur nobis, erectiore animo insurgitis et cum illi legerint qui nobis maxima cura sunt, si quid eos moverit ad contradicendum alias nobis disputationes disputatio ista procreabit seque ipsa successio sermonum in ordinem inseret disciplinae»; cf. Contra Academicos, I, 1, 4, 908, p. 5, 98-100: «Adhibito itaque notario, ne aurae laborem nostrum discerperent, nihil perire permisi». Sulla necessità dello scrivere per non rischiare che la sola memoria non riesca a contenere i risultati del percorso di ricerca, cf. Soliloquia, I, 1, 1, 869, p. 3, 7-12: «Ratio. Ecce, fac te invenisse aliquid; cui commendabis, ut pergas ad alia? Augustinus. Memoriae scilicet. R. Tantane illa est ut excogitata omnia bene servet? A. Difficile est, imo non potest. R. Ergo scribendum est»; cf. Epistola ad Proculeianum, XXXIII (396), 4, PL 33, 130, p. 122, 63-68: «Illud tamen quod promittere dignatus es, peto memineris, ut sedentibus quos ipse delegeris (dummodo verba nostra non inaniter ventilentur, sed stilo excipiantur, ut et tranquillius et ordinatius disseramus, et si quid forte a nobis dictum de memoria lapsum fuerit, recitatione revocetur), rem tam magnam, et ad salutem omnium pertinentem cum concordia requiramus»; cf. Epistola ad Volusianum, CXXXII (411-412), 1, PL 33, 508, p. 240, 12-22: «Si quid autem, vel cum legis, vel cum cogitas, tibi oritur
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no riassume quale sia il senso e il valore della riflessione filosofica, negli stessi termini nei quali, anni dopo, descriverà nelle Confessiones la stagione della sua vita precedente il ritiro a Cassiciaco. Nel momento in cui stende il Contra Academmicos, Agostino ha la piena consapevolezza che la parte divina che è nell’uomo (divinus animus), costretta nei vincoli della corporeità mortale, non giunge al porto della sapienza condotta direttamente da una superiore virtus ma quasi spinta, in un modo tortuoso e, per questo, difficilmente comprensibile per l’uomo, dalla fortuna, vale a dire dalla serie di avvenimenti che, pur apparentemente caotici e privi di un senso, sono sempre, necessariamente da ricondursi al piano ordinato che Dio ha predisposto2. A Cassiciaco, Agostino ha infatti l’età e la maturità per volgersi indietro e riconnettere tra di loro gli avvenimenti della sua esperienza esistenziale che, ex post, gli si manifestano come altrettanti richiami (admonitiones) dei quali Dio ha costellato il suo complesso percorso. È compito della lettera proemiale a Romaniano spiegare come sia proprio la filosofia a permettere ai suoi amatores di giungere a tale consapevolezza, a cogliere cioè la relazione tra la precarietà dell’iter esistenziale umano, la mano provvidenziale divina e l’ordito occulto del reale3. Per ottenere tale risultato, la filosofia ‘impone’ a chi voglia seguirla due movimenti, contigui e reciprocamente implicantisi. Il primo movimento è un netto, deciso e definitivo allontanamento dal mondo sensibile; pur essendo apparentemente il luogo della più immediata e affidabile delle conoscenze, esso va invece rifiutato completamente perché gnoseologicamente fragile e inaffidabile.
quaestionis, in quo dissolvendo videar necessarius, scribe ut rescribam. Magis enim hoc forte Domino ad iuvante potero, quam praesens talia loqui tecum; non solum propter occupationes varias et meas et tuas (quoniam non cum mihi vacat, occurrit ut et tibi vacet), verum etiam propter eorum irruentem praesentiam, qui plerumque non sunt apti tali negotio, magisque linguae certaminibus, quam scientiae luminibus delectantur: quod autem scriptum habetur, semper vacat ad legendum, cum vacat legenti; nec onerosum fit praesens, quod cum voles sumitur, cum voles ponitur». Cf. M. Banniard, Viva voce. Communication écrite et communication orale du IVe au IXe siècle en Occident latin, Paris 1992. 2 Cf. Contra Academicos, I, 1, 1, 905-906, p. 3, 15-19: «Etenim fortasse quae vulgo fortuna nominatur occulto quodam ordine regitur nihilque aliud in rebus casum vocamus, nisi cuius ratio et causa secreta est, nihilque seu commodi seu incommodi contingit in parte, quod non conveniat et congruat universo». 3 Cf. ibid., 906, p. 3, 19-22: «Quam sententiam uberrimarum doctrinarum oraculis editam remotamque longissime ab intellectu profanorum se demonstraturam veris amatoribus suis ad quam te invito philosophia pollicetur».
1. La necessità del filosofare
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La filosofia insegna, e lo fa secondo verità, che qualsiasi cosa osservino gli occhi mortali e qualsiasi cosa colgano i sensi non vada mai in alcun modo venerato e che anzi è necessario del tutto disprezzarlo4.
L’aletologia agostiniana condivide in questo primo movimento una delle premesse fondative della prospettiva scettica: il sensibile, nella sua mutevolezza, non può mai fornire conoscenza certa e immutabile. A differenza però della posizione accademica, che da tale conclusione faceva discendere – nella lettura che ne dà Agostino – un pessimismo immobilista, che cioè dissuadeva l’uomo dalla ricerca del vero perché intesa come uno sforzo sterile, Agostino non intende rassegnarsi all’idea che non ci sia spazio, nella vita dell’uomo, per una indagine fruttuosa. Invece dunque di assumere la prospettiva scettica come condanna di ogni aspirazione speculativa, Agostino la intende esattamente all’opposto come un vero e proprio punto di partenza, come uno stimolo a chiedersi se possa esistere un altro ‘oggetto’, necessariamente estraneo al sensibile, che sia ‘luogo’ di una conoscenza affidabile. L’ipotesi che Dio esista viene presentata dunque come una inferenza filosofica prima ancora che come un dato di fede. Nel voler a tutti i costi concedere dignità alla ricerca filosofica, infatti, occorre ipotizzare che ci possa essere qualcosa che non sia sottoposto alla tara gnoseologica del sensible: tutto quello che Agostino ha imparato a conoscere nelle parole con le quali Ambrogio gli squadernava il senso delle Scritture, entra nel suo sistema filosofico non con le caratteristiche del Dio biblico ma come il solo ente che, se esistesse, potrebbe esser detto verus e che è dunque necessario filosoficamente all’uomo per trovare un appiglio che lo salvi dai rischi connessi a uno scetticismo radicale. È questo il secondo movimento che la filosofia chiede ai suoi amatores, dopo averli indotti, come detto prima, a rifiutare ogni legame con il sensibile. Essa stessa [scil. la Filosofia] promette di rendere evidente in modo perspicuo il più vero (verissimus) e il più inaccessibile (secretissimus) Dio e già quasi si degna di mostrarlo come attraverso nuvole illuminate5.
4 Ibid., 1, 3, 907, p. 5, 75-78: «Ipsa enim docet, et vere docet nihil omnino colendum esse totumque contemni oportere, quicquid mortalibus oculis cernitur, quicquid ullus sensus attingit». 5 Ibid., 907, p. 5, 78-80: «Ipsa verissimum et secretissimum Deum perspicue se demonstraturam promittit et iam iamque quasi per lucidas nubes ostentare dignatur».
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Dio è l’unico oggetto degno di esser detto vero ed è tale proprio perché è lontano e separato (secretus) dal sensibile; è cioè l’unico ente che ha la possibilità, almeno teorica, di esser detto vero perché non è compromesso con la sensibilità. I due movimenti indicati da Agostino sono dunque coimplicantisi: la consapevolezza della fragilità del mondo sensibile rende infatti necessaria, pena l’accettazione della prospettiva scettica, la tensione teoretica ancor prima che fideistica a un ente estraneo a tale precarietà ontologica e gnoseologica e, in ciò, approdo possibile di una ricerca che voglia essere aletologicamente fondata. La filosofia non si limita dunque per Agostino a indicare questi due estremi – l’orizzonte sensibile che va rifiutato, e Dio, l’ente ipoteticamente garante di verità, che invece va abbracciato – e a lasciarli separati, non connessi. La speculazione filosofica è infatti capace di fornire proprio gli strumenti per connettere i due piani. Innervato della speranza che esista quell’oggetto trascendente che, solo, potrebbe garantire stabilità gnoseologica, lo sguardo filosofico supera la crosta effimera e mutevole del sensibile, penetra nelle sue strutture, vi rintraccia una ricorsività e dei meccanismi costanti e, in ciò veri e, dunque, procede spedita verso una prima, aurorale intuizione di Dio, paragonabile – è questo il senso dell’immagine metaforica che chiude la citazione – a quella che del sole si ha guardandolo attraverso le nuvole che esso illumina6: esse infatti rivelano, quando illuminate, la presenza nascosta del sole, del quale lasciano intuire l’esistenza pur impedendone la visione; parimenti il sensibile, nella sua struttura opaca ma, nel profondo, organizzata provvidenzialmente, di certo non concede allo sguardo umano di vedere direttamente Dio ma ne mostra l’azione creatrice e ordinatrice e si costituisce come scala gnoseologica che permette, dalla imperfezione ontologica del visibile, di risalire all’intuizione superiore del trascendente. Cicerone, Ambrogio e Plotino, le tre auctoritates che avevano accompagnato Agostino nelle ‘conversioni’ speculative e spirituali precedenti Cassiciaco, si ritrovano qui efficacemente convergenti
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Sul contrasto tra la ‘visibilità intellettuale’ di ciò che è inaccessibile ai sensi e la condizione opaca di ciò che invece può essere da essi colto, cf. Epistola ad Nebridium, IV (387), 2, PL 33, 66, p. 10, 17-21: «Nam plerumque perturbatos et sensibilium plagarum curis refertos mentis oculos illa tibi notissima ratiuncula in respirationem levat, mentem atque intellegentiam oculis et hoc vulgari aspectu esse meliorem: quod non ita esset, nisi magis essent illa quae intellegimus, quam ista quae cernimus». Sulla visione finale che scioglie tali ambiguità e, dunque, permette una conoscenza completa, cf. De civitate Dei, XXII, 29, 796-797, pp. 856-862 e infra, p. 235.
2. Per lucidas nubes: i primi tre dialoghi di Cassiciaco
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nelle poche parole esortative che, dalle pagine della sua prima opera filosofica, Agostino rivolge direttamente a Romaniano e, indirettamente, a tutti i suoi lettori. Pur assumendo come vero il perimetro gnoseologico disegnato dagli scettici, Agostino non vuole accettare che l’uomo sia condannato soltanto a ricerche sterili. Per questo egli prova ad assumere come vera – supportato in cuor suo dalla fede in ciò che Ambrogio gli aveva insegnato a cercare nelle Scritture – l’ipotesi dell’esistenza di Dio, cioè di un oggetto trascendente, secretus, stabile e in ciò verus. Solo tale ipotesi può infatti concedere al pensiero una speranza: soltanto se ragiona come se Dio esistesse, la filosofia può infatti volgere nuovamente lo sguardo al sensibile per superare i dubbi scettici e ricercarvi, in controluce, quegli elementi ordinati universalmente che, in una scala ‘plotiniana’, strutturano il mondo dal grado più basso dell’essere fino al suo limite estremo e lo rendono viatico per il trascendente. Il movimento speculativo di Agostino, in un paradosso ricco di implicazioni, è dunque sin dalle sue prime opere schiettamente teologico proprio in quanto genuinamente filosofico; esso cioè non pone l’adesione di fede – che peraltro Agostino non nasconde né dissimula – come premessa aletologica ma tenta di mostrare che Dio è prima di tutto una esigenza che si impone al pensiero quando esso non voglia arrendersi a un orizzonte di scetticismo radicale7. Ai primi tre dialoghi composti a Cassiciaco (Contra Academicos, De beata vita e De ordine) Agostino affida dunque il compito di spiegare come la fragilità gnoseologica dell’uomo, se pone dinanzi a sé come mèta possibile Dio, può parzialmente intuirlo in un processo di risalita dal sensibile all’intellegibile e mostrare filosoficamente plausibile (se non addirittura necessario) ciò che la fede ritiene credibile.
2. Per lucidas nubes: i primi tre dialoghi di Cassiciaco (386) Il primo dialogo composto a Cassiciaco, il Contra Academicos, si apre con una scena corale. Riunitisi tutti per sua espressa richiesta, Agostino chiede ai suoi sodali se essi ritengano sia necessario per l’uomo avere una conoscenza stabile e certa del vero (scire verum); la domanda implica una istanza fondativa: l’uomo vuole essere felice e individua, da sempre, nella ricerca di ciò che è vero il modo migliore per 7 Cf. A. J. Curley, Augustine’s Critique of Skepticism: A study of Contra Academicos, New York - Bern 1996.
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raggiungere tale risultato. Recepito l’assenso comune rispetto a tale necessità, Agostino formula una seconda domanda: «se potessimo essere felici (beati esse possumus) anche senza aver compreso il vero, riterreste ancora necessaria tale comprensione?»8. Assodata dunque la necessità, per l’uomo, di conoscere il vero, Agostino interroga i suoi interlocutori sull’eventualità che essa sia solo strumentale a essere felici; se così fosse, se cioè indagare il vero fosse per l’uomo funzionale solo a essere felici, sarebbe ovviamente legittimo chiedersi se, trovata una strada non gnoseologica per arrivare alla felicità, la ricerca del vero non perda di significato. È questa l’opinione di uno dei due personaggi che animeranno il dibattito del primo libro del Contra Academicos. Prendendo le mosse da un frammento dell’Ortensio9, Trigezio afferma infatti che tutti gli uomini vogliono essere felici; se dunque è possibile essere felici senza possedere la verità, la verità non va cercata («quaerenda nobis veritas non est»). A tale posizione risponde il secondo interlocutore del dialogo, Licenzio, che riprende le prime due affermazioni di Trigezio, secondo le quali certamente tutti gli uomini vogliono essere felici e possono esserlo senza possedere la verità; ma, specifica Licenzio – esattamente al contrario di come affermava Trigezio – in tal caso, è neccessario, perché siano felici, che cerchino il vero («possumus [beatos nos esse] si verum quaeramus»)10. È affidato a un terzo protagonista, Navigio, il compito di tirare le conclusioni rispetto alle posizioni espresse dai due interlocutori: Mi sollecita, disse Navigio, quello che ha detto Licenzio. È infatti possibile che proprio questo sia il vivere in modo felice (beate vivere), vale a dire vivere nella ricerca della verità11.
8 Contra Academicos, I, 2, 5, 908, p. 5, 1-6: «Cum igitur omnes hortatu meo unum in locum ad hoc congregati essemus, ubi opportunum visum est: Numquidnam dubitatis, inquam, verum nos scire oportere? – Minime, ait Trygetius caeterique se vultu ipso approbasse significaverunt. – Quid si, inquam, etiam non comprehenso vero beati esse possumus, necessariam veri comprehensionem arbitramini?». 9 Cf. supra, p. 19. Cf. M. Cutino, Felicità terrena ed immortalità nell’Hortensius ciceroniano ed in Agostino, in «Sileno», 22 (1996), pp. 69-80. 10 Cf. Contra Academicos, I, 2, 5, 908, p. 6, 12-18: «‘Beati certe’, inquit Trygetius, ‘esse volumus’, et si ad hanc rem possumus absque veritate pervenire, quaerenda nobis veritas non est. – Quid hoc ipsum? inquam; existimatisne beatos nos esse posse etiam non inventa veritate? – Tunc Licentius: Possumus, inquit, si verum quaeramus». Cf. Marco Tullio Cicerone, Hortensius, ed. A. Grilli, Milano 1962, fr. 36. 11 Contra Academicos, I, 2, 5, 908, p. 6, 19-21: «Movet me, inquit Navigius, quod a Licentio dictum est. Potest enim fortasse hoc ipsum esse beate vivere, in veritatis inquisitione vivere».
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Navigio non interviene più in tutta l’opera ma, paradossalmente, proprio questa ‘marginalità’ sottolinea con ancor maggior forza l’importanza del suo intervento e delle sue parole. La premessa di Trigezio, pur riferendosi a un desiderio comune agli uomini, cioè l’essere felici, descrive una condizione solo teorica; per l’uomo è infatti impossibile conseguire una felicità stabile, nella quale cioè ci sia un esse della beatitudo. Navigio dunque applica un ‘correttivo’ alla posizione di Trigezio, intersecandola con quella di Licenzio: l’uomo non può ‘essere’ felice (beatum esse), perché non gli competono mai configurazioni ontologicamente stabili; può solo cercare di ‘vivere’ felicemente (beate vivere), vale a dire abitare la sua condizione di perenne mutamento esistenziale nell’unico modo che lo rende parzialmente e ‘dinamicamente’ felice: la ricerca della verità (inquisitio veritatis). Essa è infatti, come specifica nelle righe successive Agostino, in ciò seguito da tutti i suoi interlocutori, l’esercizio che, solo, può dare felicità all’uomo12 perché gli permette di orientare la sua anima a ciò che la supera, disprezzando ciò che è di lei più infimo13. Tale conclusione condivisa è il vero punto di partenza del dialogo e della discussione che occupano il Contra Academicos. Affermare infatti che l’uomo, cui non può competere per tara essenziale il beatum 12
Cf. ibid., 908-909, p. 6, 21-31: «Defini ergo, ait Trygetius, quid sit beata vita, ut ex eo colligam quid respondere conveniat. – Quid censes, inquam, esse aliud beate vivere, nisi secundum id quod in homine optimum est vivere? – Temere, inquit, verba non fundam; nam id ipsum optimum quid sit, definiendum mihi abs te puto. – Quis, inquam, dubitaverit nihil aliud esse hominis optimum, quam eam partem animi, cui dominanti obtemperare convenit caetera quaeque in homine sunt? Haec autem, ne aliam postules definitionem, mens aut ratio dici potest. Quod si tibi non videtur, quaere quomodo ipse definias vel beatam vitam vel hominis optimum. – Adsentior, inquit». 13 Cf. Epistola ad Celestinum, XVIII (390-391), 2, PL 33, 85, p. 44, 13-24: «Est natura per locos et tempora mutabilis, ut corpus. Et est natura per locos nullo modo, sed tantum per tempora etiam ipsa mutabilis, ut anima. Et est natura quae nec per locos, nec per tempora mutari potest; hoc Deus est. Quod hic insinuavi quoque modo mutabile, creatura dicitur; quod immutabile, Creator. Cum autem omne quod esse dicimus, in quantum manet dicamus, et in quantum unum est, omnis porro pulchritudinis forma unitas sit: vides profecto in ista distributione naturarum, quid summe sit, quid infime, et tamen sit; qui medie, maiusque infimo, et minus summo sit. Summum illud est ipsa beatitas: infimum, quod nec beatum esse potest, nec miserum: quod vero medium, vivit inclinatione ad infimum, misere; conversione ad summum, beate vivit». Cf. Epistola ad Nebridium, III (387), 1, PL 33, 63, p. 6, 5-10: «Prope persuasisti mihi, non quidem beatum esse me; nam id solius sapientis praedium est; sed certe quasi beatum: ut dicimus hominem, quasi hominem in comparatione hominis illius quem Plato noverat; aut quasi rotunda et quasi quadra ea quae videmus, cum longe ab eis absint quae paucorum animus videt».
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esse, può invece beate vivere purché trascorra la sua vita nella ricerca del verum significa apertamente condannarlo a una esistenza di inquieta e perenne imperfezione; a una tensione tanto strutturale quanto prometeica che però i maiores, cioè i filosofi antichi hanno incarnato, secondo Licenzio, non come un limite ma proprio come ciò che li rendeva felici. È la domanda che, subito, Agostino pone («Ti sembra che si possa vivere felicemente anche senza aver trovato il vero, purché lo si sia cercato [quaeratur]?»14) e che polarizza le posizioni. Trigezio nega che si possa esser felici vivendo nella ricerca del vero; chi cerca, infatti, non è perfetto («qui quaerit, perfectus non est»), vale a dire è manchevole di qualcosa, e non è possibile affermare che sia felice l’uomo cui manca ciò che invece fortemente desidererebbe avere15. La controargomentazione di Licenzio parte, anche qui, assumendo le premesse di Trigezio per condurle a differenti conclusioni; nello specifico, è il concetto stesso di perfectio che Licenzio ritiene sia stato erroneamente utilizzato dal suo avversario. Egli condivide infatti tanto l’affermazione di Trigezio sul fatto che la felicità coincida con la perfezione, quanto quella secondo la quale non è perfetto ciò che non giunge al fine; il problema è che il fine cui l’uomo deve giungere per dirsi perfetto e, in ciò, felice, non può essere la conoscenza della verità. Essa è infatti possesso solo di Dio e, forse, delle anime dopo la morte16. Se dunque l’uomo è felice solo quando è perfetto, ma la sua perfezione non può risiedere nella conoscenza stabile della verità, occorre individuare un tipo di perfezione che sia adeguata all’uomo, vale a dire alla sua natura mutevole: «il fine dell’uomo è cercare perfettamente la verità; cerchiamo infatti qualcosa di perfetto ma che sia pur sempre
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Contra Academicos, I, 2, 6, 909, p. 6, 32-34: «Videturne tibi non invento vero beate posse vivi, si tantum quaeratur?». 15 Cf. ibid., 3, 7, 909, pp. 6-7, 1-7: «Quoniam te, inquit, video magnopere nos urgere, ut adversum invicem disputemus, quod te utiliter velle confido, quaero, cur beatus esse non possit qui verum quaerit, etiamsi minime inveniat? – Quia beatum, inquit Trygetius, volumus esse perfectum in omnibus sapientem. Qui autem adhuc quaerit, perfectus non est. Hunc igitur quomodo asseras beatum, omnino non video». 16 Cf. ibid., 3, 9, 910, p. 8, 61-70: «Tu autem, Licenti, volo vel nunc mihi concedas – iam enim libertate, in quam maxime nos vindicaturam se philosophia pollicetur, iugum illud auctoritatis excussi – perfectum non esse, qui adhuc veritatem requirat. – Tum ille post diuturnum silentium: Non concedo, inquit. Et Trygetius: – Cur, quaeso? explica. Istic sum enim et aveo audire, quo pacto possit et perfectus homo esse et adhuc quaerere veritatem. – Hic ille: Qui ad finem inquit, non pervenit, fateor, quod perfectus non sit. Veritatem autem illam solum Deum nosse arbitror aut forte hominis animam, cum hoc corpus, hoc est tenebrosum carcerem, dereliquerit».
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uomo»17. L’uomo è un essere cui non può competere la stabilità gnoseologica e ontologica della verità e del suo possesso; la sua perfezione, il suo realizzarsi non possono dunque coincidere con una condizione di ‘permanenza’ ma devono rispettare la natura mutevole e il continuo evolversi della sua esperienza storica. La perfectio dell’uomo sarà dunque dinamica e non potrà che coincidere con l’esercizio, condotto nel modo migliore, della sua parte migliore, vale a dire la ragione. Per il tramite di Licenzio, Agostino disegna dunque nelle prime pagine del Contra Academicos una ben precisa antropologia, che nega all’uomo la possibilità di conoscere la verità prima della morte ma che, al contempo, eleva la sua condizione mutevole a cifra essenziale e, in ciò, ‘perfezionabile’ della sua natura. Se dunque va cercato ciò che rende l’uomo perfetto, è necessario individuarlo non in una condizione permanente ma in una attività, e certamente nell’attività che più di tutte ne magnifica il talento razionale, unico nel creato. Le parole di Licenzio diventano dunque una sorta di manifesto del filosofare inteso come attività tanto naturale (perché perfettamente adeguata, per il suo statuto ‘tensivo’, all’essere mutevole dell’uomo) quanto necessaria (perché la sola che permette all’uomo di raggiungere una compiutezza, come esercizio della sua parte migliore): In ciò risiede l’esser beato dell’uomo, disse Licenzio, cioè nel cercare perfettamente la verità; questo è giungere al fine oltre il quale non è più possibile progredire. Chiunque dunque cercherà la verità con meno tenacia di quanta ne sia necessaria, non giungerà al fine dell’uomo; invece chiunque si impegna nel cercare la verità tanto quanto l’uomo può e deve, sarà felice anche se non la troverà; avrà fatto infatti tutto ciò per cui è nato. Se pure non trovasse la verità, gli mancherebbe ciò che la natura stessa non gli ha concesso di avere18.
Cercare la verità è dunque al contempo un dovere e una necessità; è il tributo che l’uomo deve pagare al suo essere razionale, per poter con-
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Ibid., 910, p. 8, 71-72: «Hominis autem finis est, perfecte quaerere veritatem: perfectum enim quaerimus, sed tamen hominem». 18 Ibid., 3, 9, 911, pp. 8-9, 78-86: «At hoc ipsum est beatum hominis, ait ille, perfecte quaerere veritatem; hoc enim est pervenire ad finem, ultra quem non potest progredi. Quisquis ergo minus instanter quam oportet veritatem quaerit, is ad finem hominis non pervenit; quisquis autem tantum quantum homo potest ac debet, dat operam inveniendae veritati, etiamsi eam non inveniat, beatus est; totum enim facit, quod ut faciat, ita natus est. Inventio autem si defuerit, id deerit quod natura non dedit».
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durre questo talento alla sua massima espressione, ma è nello stesso momento, come percorso, anche l’unica forma di consolante felicità che al suo fragile essere mutevole è concessa19. Il quadro sin qui delineato sembra dunque descrivere in termini esclusivamente positivi il filosofare come attività principe del vivere umano. Agostino però coglie e immediatamente denuncia anche i rischi insiti in questa prospettiva. Se infatti l’uomo è un perenne cercante, egli non arriverà mai a un risultato che potrà dire definitivo; il che significa che, teoricamente, non assumerà mai una posizione come ultima e conclusiva20. È chiaro dunque l’obiettivo che, poste le premesse, Agostino deve raggiungere nel prosieguo del dialogo (e della sua produzione): dimostrare come una vita passata nella ricerca filosofica – che ha appena dimostrato essere una sorta di necessità per l’uomo – non sia un insensato vagare tra incertezze ma sia una attività capace di acquisire via via segmenti anche solo parziali di verità. Per questo, la disputa tra Licenzio e Trigezio può concludersi e, con essa, può chiudersi il primo libro del Contra Academicos; Agostino interrompe infatti i due giovani, soddisfatto di aver verificato, ascoltandoli, la loro disponibilità ad quaerendam veritatem, e preannuncia che il resto della discussione (che occuperà gli altri due libri del dialogo) avrà un diverso andamento e un preciso obiettivo polemico: gli Accademici21.
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Cf. S. Van Der Meeren, La sagesse ‘droit chemin de la vie’: une métaphore du Contra Academicos relue à la lumière du protreptique philosophique, in «Revue d’Études augustiniennes et patristiques», 53 (2007), pp. 81-111. 20 Cf. Contra Academicos, I, 4, 11, 912, p. 10, 36-40: «Error mihi videtur esse falsi pro vero approbatio. In quem nullo pacto incidit, qui veritatem quaerendam semper existimat; falsum enim probare non potest, qui probat nihil; non igitur potest errare». 21 Cf. ibid., 9, 25, 918-920, pp. 17-18, 39-59: «Sed, ne longum faciamus, iam, si placet, sermo iste claudatur, in quo immorari etiam superfluum puto. Tractata enim res est pro suscepto negotio satis; quae post pauca omnino posset verba finiri, nisi exercere vos vellem, nervosque vestros et studia, quae mihi magna est cura, explorare. Nam cum instituissem vos ad quaerendam veritatem magnopere hortari, coeperam ex vobis quaerere quantum in ea momenti poneretis; omnes autem posuistis tantum, ut plus non desiderem. Nam cum beati esse cupiamus, sive id fieri non potest nisi inventa sive non nisi diligenter quaesita veritate, postpositis caeteris omnibus rebus nobis, si beati esse volumus, perquirenda est. Quam ob rem iam istam, ut dixi, disputationem terminemus, et relatam in litteras mittamus, Licenti, potissimum patri tuo, cuius erga philosophiam iam prorsus animum teneo. Sed adhuc quae admittat, quaero fortunam. Incendi autem in haec studia vehementius poterit, cum teipsum iam intentum mecum sic vivere, non audiendo solum, verum etiam legendo ista cognoverit. Tibi autem si, ut sentio, Academici placent, vires ad eos defendendos validiores para; nam illos ego accusare decrevi. Quae cum essent dicta, prandium paratum esse annuntiatum est, atque surreximus».
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Il fatto che Agostino dia inizio alla sua produzione dopo la conversione con un testo nel quale attacca frontalmente una scuola filosofica pagana del passato indica quanto egli stesso temesse le dottrine e le argomentazioni degli Accademici, vale a dire degli ultimi eredi della tradizione platonica che, partendo anch’essi dall’idea che il destino dell’uomo fosse la ricerca permanente, avevano sposato una linea fortemente scettica e probabilistica. È infatti evidente dalla premessa contenuta nel dialogo tra Trigezio e Licenzio che Agostino sia incline a pensare che il filosofare rappresenti il miglior modo, per l’uomo, di condurre felicemente la sua esistenza; è però altrettanto chiaro come tale prospettiva rischi di delineare l’attività speculativa dell’uomo come un continuo cercare che non giunge mai a possedere nulla di certo. È per questo, dunque, che Agostino chiede a Licenzio, portatore di questa apertura speculativa tanto stimolante quanto pericolosa, e ovviamente incline a posizioni scettiche, di prendere apertamente le parti degli Accademici, per poterne analizzare la prospettiva filosofica e tentare di salvare il quaerere semper da una apparentemente inevitabile deriva scettica. Anche il secondo libro del Contra Academicos si apre con una lettera proemiale indirizzata a Romaniano. Se ci fosse un rapporto di necessità – afferma subito Agostino – tra il cercare (quaerere) e il trovare (invenire) la scientia sapientiae, gli Accademici e il loro scetticismo si sarebbero ben presto estinti; invece, proprio le difficoltà insite nel condurre una ricerca corretta (diligenter quaerere) fanno sì che quella setta filosofica abbia successo22. Gli Accademici, suggerisce Agostino, sembrano infatti proliferare perché, senza offrire una vera e propria dottrina, si limitano a ricordare costantemente all’uomo quella limitatezza gnoseologica che ognuno sperimenta nel suo percorso. L’invito rivolto subito dopo a Romaniano di procedere assieme nella
22
Cf. ibid., II, 1, 1, 919, p. 18, 1-17: «Si quam necesse est, disciplina atque scientia sapientiae vacuum esse non posse sapientem, tam eam necesse esset invenire dum quaeritur; omnis profecto Academicorum vel calumnia, vel pertinacia, vel pervicacia, vel, ut ego interdum arbitror, congrua illi tempori ratio, simul cum ipso tempore, et cum ipsius Carneadis Ciceronisque corporibus sepulta foret. Sed quia sive vitae huius multis variisque iactationibus, Romaniane, ut in eodem te probas, sive ingeniorum quodam stupore, vel socordia vel tarditate torpentium, sive desperatione inveniendi; quia non quam facile oculis ista lux, tam facile mentibus sapientiae sidus oboritur; sive etiam qui error omnium populorum est, falsa opinione inventae a se veritatis, nec diligenter homines quaerunt, si qui quaerunt, et a quaerendi voluntate avertuntur; evenit ut scientia raro paucisque proveniat: eoque fit, ut Academicorum arma, quando cum eis ad manus venitur, nec mediocribus viris, sed acutis et bene eruditis, invicta et quasi Vulcania videantur».
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filosofia (ergo adgredere mecum philosophiam)23 rivela dunque la strategia di Agostino: qualificare il pensiero accademico come non speculativamente fondato e, anzi, portatore di un approccio apertamente antifilosofico. Nel chiudere la lettera e dare avvio al secondo libro del dialogo, Agostino chiarisce i termini entro i quali muoverà tale critica: State dunque attenti a non pensare di conoscere qualcosa a meno che non lo conosciate quasi come sapete che la somma di uno, due, tre e quattro fa dieci. Ma state anche attenti a non pensare che con la filosofia non conoscerete mai la verità o che non sia in alcun modo conoscibile. Sul fatto che sia necessario non disperare di averne conoscenza e che quella futura sarà ancor più manifesta di come lo sono quei numeri, credete a me o ancor meglio credete a colui che ha detto: ‘Cercate e troverete’24.
In poche righe, Agostino ribadisce i confini epistemologici della sua aletologia e disegna quelli antropologici della sua gnoseologia, costruendoli attorno a una precisa indicazione scritturale. Non c’è nulla che si possa definire ‘vero’ per l’uomo se questi non lo possiede come possiede le conoscenze delle discipline liberali, vale a dire delle scienze, che procedono secondo una aletologia ‘corrispondentista’, nella quale cioè è vera una affermazione che descrive efficacemente uno stato di cose25. Ciò però conduce a concludere che l’uomo non possa 23
Cf. ibid., 2, 3, 920-921, pp. 19-20. Ibid., 3, 9, 923, p. 23, 54-61: «Cavete ne quid vos nosse arbitremini, nisi quod ita didiceritis, saltem ut nostis, unum, duo, tria, quatuor simul collecta in summa fieri decem. Sed item cavete ne vos philosophia veritatem aut non cognituros, aut nullo modo ita posse cognosci arbitremini. Nam mihi vel potius illi credite qui ait: ‘Quaerite et invenietis’ (Mt 7, 7), nec cognitionem desperandam esse, et manifestiorem futuram, quam sunt illi numeri». Con riferimento alla epistemologia già descritta nel De ordine, cf. S. Magnavacca, La filosofìa ante las ciencias en el De ordine, in «Etiam», 4/4 (2009), pp. 63-75. 25 Cf. F. D’Agostini, Introduzione alla verità, Torino 2011, pp. 35-62. Il testo individua tre tipologie di teorie aletologiche ‘robuste’: quella che pensa la verità in termini di corrispondenza, quella che la declina nei termini della coerenza e, infine, la versione ‘pragmatista’. La teoria della V-corrispondenza afferma che «una proposizione (o credenza) p è vera se e solo se p corrisponde a un fatto o stato di cose». È questa la teoria ‘classica’, rintracciabile anche nei testi di Platone (Cratilo, 385b e Sofista, 262e) e in Aristotele (Metafisica, IV, 1011b7). Questa teoria si basa sull’assunto che esista, a prescindere dalla qualità e dalla efficacia delle percezioni umane, una realtà oggettiva e che quando il linguaggio la descrive in modo adeguato, si produce verità. La teoria del coerentismo, invece, afferma che «la proposizione (o credenza) p è vera se e solo se p è coerente con altre proposizioni già riconosciute come vere o con l’insieme delle nostre credenze». Infine, l’ipotesi 24
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mai conoscere la verità in quanto tale, perché essa non rientra nel dominio delle singole scienze e, in generale, non è mai coglibile come lo sono i singoli contenuti disciplinari. Se dunque da un lato ‘conoscere’ per l’uomo significa avere certezze scientifiche (produrre cioè affermazioni che dicano le cose come stanno), dall’altro tale presupposto sembra escludere la possibilità di una conoscenza completa della verità intera. È però lo stesso testo sacro che sembra chiedere all’uomo di impegnarsi in una ricerca che, certamente, porterà frutti (quaerite et invenietis). Di fronte ancora una volta al rischio di una ‘disperazione’, della perdita cioè della speranza che si possa superare l’orizzonte limitato dello scetticismo, Agostino invita i suoi lettori a ragionare, utilizzando gli strumenti della filosofia e accogliendo l’ipotesi dell’esistenza di Dio come suggerita dalle Scritture. Il secondo libro del Contra Academicos si apre con una breve illustrazione della dottrina che Agostino ha intenzione di combattere. Gli Accademici sostengono, come aveva fatto Licenzio nel primo libro, che l’uomo non può giungere alla scientia ma che il sapiens sia tale anche solo perché la cerca. Ma proprio per questa sua strutturale incapacità di avere conoscenza certa del vero, il sapiente non darà mai assenso a niente, perché niente può, ai suoi occhi, dirsi incontrovertibilmente vero. Per evitare però che tale sapiente sembri un semper dormiens, vale a dire venga condannato, da questa inconoscibilità del vero, all’inazione, gli Accademici accettarono la possibilità di dare assenso al probabile o verosimile, che è ciò che permette di agire senza dover necessariamente ritenere vero ciò in virtù di cui si agisce26. Alla descrizione di Agostino segue l’intervento di Alipio, finalizzato a spiegare come questa ‘nuova’ Accademia fosse in diretta relazione con quella antica di Platone che, anche nella sua formulazione originaria, aveva una fortissima componente scettica e diffidava della possibilità di una conoscenza certa che si fondasse sui dati provenienti dal sensibile. Agostino riprende da qui il dialogo con Licenzio, procedendo alla decostruzione della dottrina accademica e partendo dal concetto di ‘verosimile’. Esso è epistemologicamente infondato; se infatti il verosimile è tale perché è simile al vero, è necessario conoscere cosa sia il vero per giudicare cosa possa essergli simile. Dunque, è scorretto affermare pragmatista sostiene che «una proposizione p è vera se e solo se l’assunzione di p è coronata da successo, o si rivela efficace per scopi pratici o scientifici». 26 Cf. Contra Academicos, II, 11, 26, 931, p. 32, 21-24: «Audite ergo, inquam, quid sit, vos. Id probabile vel verisimile Academici vocant, quod nos ad agendum sine assensione potest invitare. Sine assensione autem dico, Ut id quod agimus non opinemur verum esse, aut non id scire arbitremur».
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che, in mancanza della conoscenza del vero, ci si possa ‘accontentare’ del verosimile27, che non è la soluzione al problema della ricerca della verità ma, paradossalmente, è il problema stesso. Il concetto di verosimile infatti induce l’uomo ad accontentarsi di un simulacro che ferma e non fa progredire la ricerca; contrastare gli Accademici significa, dunque, ‘liberare’ la ricerca e in ciò mostrarne tutta la sua tragica, infinita apertura. Solo così, solo cioè eliminando concetti come il verosimile – che danno solo l’illusione di un risultato ma sono del tutto inconsistenti aletologicamente – ci si potrà correttamente porre la domanda in merito alla possibilità di trovare il vero (utrum possit verum inveniri 28). Il terzo e ultimo libro del Contra Academicos è tutto indirizzato a sciogliere questa domanda, tanto complessa quanto fondativa. Il punto di partenza da cui muove Agostino è la definizione che è possibile dare di sapiente e, nello specifico, di chi sia il sapiente accademico. L’argomentazione sviluppata nelle pagine iniziali del libro è particolarmente densa e intricata ma fondamentale per tutta la successiva riflessione agostiniana e, dunque, è opportuno seguirne nel dettaglio lo sviluppo. A confrontarsi sono Agostino e Alipio, che prendono le mosse dall’analisi della differenza che intercorre tra il sapiens e il philosophus (o studiosus sapientiae). Nel sapiens, afferma Alipio, sono presenti come habitus le res che lo studiosus desidera conoscere; esse si identificano con la scientia sapientiae, vale a dire con il possesso certo (scire) della sapienza. Ma, conclude Agostino, non può esserci scientia di cose false; nel modello aletologico di una epistemologia ‘corrispondentista’, già sopra evidenziato29, infatti, una affermazione è vera quando descrive in modo adeguato uno stato di cose. Dunque, se chi conosce qualcosa
27
Cf. ibid., 7, 19, 928, p. 28, 72-91: «Quid enim si ille fratris mei visor fama compertum habeat eum esse similem patris, potest insanus aut ineptus esse, si credit? – Stultusne, inquam, saltem dici potest? – Non continuo, inquit, nisi se id scire contenderit. Nam si ut probabile sequitur quod crebra fama iactavit, nullius temeritatis argui potest. – Tum ego: Rem ipsam paulisper consideremus, et quasi ante oculos constituamus. Ecce fac illum nescio quem hominem quem describimus, esse praesentem: advenit alicunde frater tuus; ibi iste: Cuius hic puer filius? Respondetur: Cuiusdam Romaniani. At hic: Quam patri similis est! quam ad me hoc non temere fama detulerat! Hic tu, vel quis alius: Nosti enim Romanianum, bone homo? Non novi, inquit: tamen similis eius mihi videtur. Poteritne quisquam risum tenere? Nullo modo, inquit. Ergo, inquam, quid sequatur vides. Iamdudum, inquit, video. Sed tamen ipsam conclusionem abs te audire volo: oportet enim alere incipias, quem cepisti. Quidni, inquam, concludam? Ipsa res clamat similiter ridendos esse Academicos tuos, qui se in vita veri similitudinem sequi dicunt, cum ipsum verum quod sit, ignorent». 28 Cf. ibid., 9, 23, 930, p. 30. 29 Cf. supra, p. 44.
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deve possedere scientia del suo ambito di competenza, allora il sapiente deve avere scientia, cioè possesso stabile, della sapienza30. Questa affermazione permette ad Agostino ed Alipio di definire meglio le reciproche posizioni: per un verso, resta valida l’affermazione che un sapiente, per essere tale, deve possedere la sapienza; per l’altro, la posizione degli Accademici, che ritengono che nulla si possegga in modo verace e stabile, rende tale possesso impossibile. Come si caratterizzerà dunque il sapiente accademico? Egli, in quanto sapiente, dovrà in una qualche misura possedere la sapienza ma, come Accademico, dovrà affermare che non ne ha un possesso certo; non potrà fare altro che sostenere che gli sembra di conoscere la sapienza31. Agostino può dunque condurre Alipio alla distinzione più importante: anche se gli Accademici affermano che il sapiente non potrà mai cogliere la sapienza, ciò non toglie che, anche per loro, il sapiente ‘teorico’, vale a dire ciò che dovrebbe essere secondo ragione il sapiente, non può che possedere la sapienza. Se si può trovare, disse Alipio, un sapiente quale la ragione richiede sia, mi può sembrare che conosca la sapienza. La ragione dunque, dissi, ti richiede che il sapiente sia tale che non ignori la sapienza: e questo è corretto32.
30
Cf. Contra Academicos, III, 3, 5, 936, pp. 36-37, 2-23: «Sapientem a studioso, ait, nulla re differre arbitror; nisi quod quarum rerum in sapiente quidam habitus inest, earum est in studioso sola flagrantia. – Quae sunt tandem istae res, inquam? Nam mihi nihil aliud videtur interesse, nisi quod alter scit sapientiam, alter scire desiderat. – Si scientiam, inquit, modesto fine determinas, ipsam rem planius elocutus es. – Quoquo modo, inquam, eam determinem, illud omnibus placuit, scientiam falsarum rerum esse non posse. – In hoc mihi, inquit ille, visa fuit obicienda praescriptio, ne inconsiderata consensione mea facile in principalis illius quaestionis campis tua equitaret oratio. – Plane, inquam, mihi nihil ubi equitare possem reliquisti. Nam nisi fallor, quod iamdudum molior, ad ipsum finem pervenimus. Si enim, ut subtiliter vereque dixisti, nihil inter sapientiae studiosum et sapientem interest, nisi quod iste amat, ille autem habet sapientiae disciplinam; unde etiam nomen ipsum, id est, habitum quemdam exprimere non cunctatus es; nemo autem habere disciplinam potest in animo, qui nihil didicit; nihil autem didicit, qui nihil novit; et nosse falsum nemo potest: novit igitur sapiens veritatem, quem disciplinam sapientiae habere in animo, id est habitum iam ipse confessus es». 31 Cf. ibid., 3, 6, 937, p. 38, 56-63: «Paulo ante dixisti, cum quaererem utrum sciret sapiens sapientiam, scire sibi videri. Cui ergo videtur sapientem, scire sapientiam, non utique videtur nihil scire sapientem. Hoc enim contendi non potest, nisi quisquam dicere audeat, nihil esse sapientiam. Ex quo fit, ut hoc tibi, quod etiam mihi, videatur; nam mihi videtur sapientem non nihil scire, et tibi, opinor, cui placet, videri sapienti sapientem scire sapientiam». 32 Ibid., 4, 9, 939, p. 40, 78-81: «Si inveniri, inquit, sapiens qualem ratio prodit, queat; potest mihi videri scire sapientiam. – Ratio igitur, inquam, talem tibi prodit esse sapientem, qui sapientiam non ignoret: et recte isthuc»
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È dunque la ratio, vale a dire le conclusioni cui la ragione costringe l’uomo, quelle cogenti e necessarie, che impone una semplice equazione, dalla quale discende una fondamentale, nuova domanda: se il sapiente è, almeno teoricamente, chi possiede la sapienza, è possibile trovare un uomo di questo tipo? Guadagnata dunque l’idea che, se il sapiente esiste, deve conoscere la sapienza, Agostino dà inizio a un lungo excursus in forma di monologo, che condurrà alla conclusione del libro e del dialogo. Riprendendo – e probabilmente parafrasando – un frammento degli Academica di Cicerone, Agostino descrive ai suoi interlocutori un consesso dei rappresentanti di tutte le scuole filosofiche che, confrontandosi con un Accademico, si distinguerebbero da questi perché lo riterrebbero incapace di avere una posizione che non fosse il dubbio scettico33. Agostino immagina, nel suo racconto, di entrare lui stesso nel consesso, per segnalare a tutte le scuole filosofiche lì raccolte in cosa il suo approccio riprenda e in cosa respinga quello dell’Accademico: entrambi, infatti, affermano di non sapere quali tra le varie dottrine filosofiche lì presenti dica il vero; li divide però il fatto che, a differenza degli Accademici, Agostino non pensa che il vero non esista e, soltanto, ignora chi tra i presenti lo detenga34. Esaurita così l’immagine del tribunale dei filosofi, Agostino ne offre un’altra ai suoi sodali, e li conduce in ipsa schola Platonis 35, per chiedere conto agli Accademici stessi degli esiti scettici cui avevano condotto quella tradizione filosofica. Essi risponderebbero, afferma Agostino, di averlo fatto per timore delle affermazioni dello stoico Zenone, che riteneva che è conoscibile come vero ciò che si presenta con caratteristiche tali che non potrebbero appartenere al falso; i platonici avrebbero dunque ‘temuto’ le conseguenze che avrebbe implicato accogliere tale affermazione perché non c’è nulla che possa avere le caratteristiche di certezza e affidabilità richieste da Zenone. Per questo, essi avrebbero preferito affermare che nulla si conosce con certezza e a nulla si può dare assenso. Proprio nel discutere di questa reazione alla tesi di Zenone, Agostino pone la questione per lui
33
Cf. A.-I. Bouton-Touboulic, Augustin lecteur de Cicéron dans le Contra Academicos, in «Revue des Études anciennes», 111/1 (2009), pp. 95-114. 34 Cf. Contra Academicos, III, 8, 17, 943, p. 45, 24-35: «Ego, viri optimi, hoc cum isto commune habeo, quod dubitat quis vestrum verum sequatur. Sed habemus etiam proprias sententias, de quibus peto iudicetis. Nam mihi incertum est quidem, quamvis audierim decreta vestra, ubi sit verum: sed ideo quod qui sit in vobis sapiens, ignoro. Iste autem etiam ipsum sapientem negat aliquid scire, ne ipsam quidem, unde sapiens dicitur, sapientiam». 35 Cf. ibid., 9, 18, 943, p. 45.
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centrale: se è per certi versi accettabile il timore dei platonici nei confronti dell’affermazione zenoniana, ciò non implica che essi avessero dovuto necessariamente, per conseguenza, negare in modo assoluto la possibilità di conoscere la sapienza; si sarebbero potuti infatti limitare ad affermare che essa non è accessibile all’uomo36. Aver invece sostenuto che la vera sapienza consiste nell’affermare che nulla è conoscibile ha condotto l’Accademia a rinchiudersi in un insolubile paradosso, in virtù del quale è sapiente solo chi afferma che la sapienza non si può cogliere e, in ciò, hanno sviato molti dal più genuino filosofare. È questo per Agostino il vero pericolo insito nella prospettiva degli Accademici: sostenere infatti che la vita di chi fa filosofia è un continuo prendere consapevolezza che la sapienza non esiste, ha portato tanti a ritenere tale sforzo sterile e insostenibile, allontanandoli dalla ricerca e dalla speculazione; ben più sensato è invece promuovere una vita filosofica che, pur accogliendo l’idea che la sapienza non sia coglibile per l’uomo, la ponga come risultato possibile post mortem e ne assicuri, già oggi, una parziale anticipazione. Vediamo dalle parole di chi gli uomini vengano maggioramente distolti dalla filosofia. Da quelle di chi dicesse: ‘Ascolta, amico mio, la filosofia non è la sapienza stessa, ma viene detta ricerca (studium) della sapienza; se tu ti convertirai a essa, non diventerai sapiente finché sarai in vita (la sapienza infatti è presso Dio né può giungere all’uomo), ma poiché con tale ricerca ti eserciterai e purificherai a sufficienza, il tuo animo, dopo questa vita, cioè quando non sarai più un uomo, ne godrà con facilità’ o piuttosto da quelle di chi dicesse: ‘Venite, mortali, alla filosofia; qui si ottiene un grande risultato: che cosa c’è di più caro, per l’uomo, della sapienza? Venite dunque affinché siate sapienti e ignoriate la sapienza’37.
36
Cf. ibid., 9, 19, 943, p. 45, 17-23: «Sed quomodo illum non permoveret, si et nihil tale inveniri potest, et nisi quod tale est, percipi non potest? Hoc si ita est, dicendum potius erat, non posse in hominem cadere sapientiam, quam sapientem nescire cur vivat, nescire quemadmodum vivat, nescire utrum vivat; postremo, quo perversius magisque delirum et insanum dici nihil potest, simul et sapientem esse, et ignorare sapientiam». 37 Ibid., 9, 20, 944, p. 46, 32-41: «Sed videamus per quem potius a philosophia deterreantur. Per eumne qui dixerit: Audi, amice; philosophia non ipsa sapientia, sed studium sapientiae vocatur, ad quam te si contuleris, non quidem dum hic vivis sapiens eris (est enim apud Deum sapientia, nec provenire homini potest), sed cum te tali studio satis exercueris atque mundaveris, animus tuus ea post hanc vitam, id est, cum homo esse desieris, facile perfruetur? An per eum qui dixerit: Venite, mortales, ad philosophiam; magnus hic fructus est: quid enim
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È questa la prima vittoria che Agostino vanta nel suo monologo: aver dimostrato agli Accademici che la loro strategia filosofica antistoica ha prodotto come risultato non una messa in sicurezza della filosofia ma, esattamente all’opposto, un impoverimento della attività filosofica, ridotta a uno sterile esercizio fine a se stesso. Agostino vuole invece affermare con forza il valore ‘umanistico’ del filosofare, sottraendolo all’ombra accademica che lo riduceva a una attività proiettata a un traguardo inesistente, ma descrivendolo come un percorso votato a una verità che, pur non essendo mai presente all’uomo nella sua interezza, è sempre almeno parzialmente accessibile. Per riaffermare completamente il valore della ricerca filosofica, Agostino deve però conseguire un secondo, essenziale risultato: mostrare a che condizioni il recupero del valore antropologico di un filosofare, nuovamente inteso come dimensione schiettamente umana, conduca anche a un efficace esercizio euristico; come cioè l’uomo, che si riscopre in Agostino naturalmente e legittimamente orientato alla filosofia, possa in essa trovare sprazzi di verità. Per costruire la sua argomentazione, Agostino assume per fondata l’osservazione accademica per la quale è impossibile, in una qualsivoglia disputa, prender partito per una o per l’altra posizione; non è infatti possibile decidere in modo certo e definitivo, per esempio, se il mondo è eterno o ha avuto un inizio, o se è frutto o meno di una provvidenza. Filosoficamente non sarà mai possibile determinare quale dei due corni della disgiunzione sia vero; ma sarà incontrovertibilmente lecito affermare che la proposizione ‘il mondo o è eterno oppure ha avuto un inizio’ è, proprio nella sua natura disgiuntiva, vera. È cioè innanzitutto concesso sostenere, afferma Agostino, che è vera la forma delle proposizioni che anche gli Accademici usano per mostrare come nulla di vero si possa dire. Se dunque si è certi che non si può determinare se il mondo sia o meno eterno, l’incertezza del contenuto (l’eternità del mondo) non può nascondere la certezza della forma stessa della disgiunzione (è vero che o è eterno oppure no). Questo espediente – che mostra come l’esistenza delle strutture di pensiero sia incontrovertibilmente vera – appare ad Agostino tanto semplice quanto efficace anche nei casi che maggiormente potrebbero essere sensibili a una critica scettica; l’uomo, infatti, anche quando sogna o quando gusta qualcosa (circostanze in cui sarebbe possibile affermare
homini sapientia carius? venite igitur ut sapientes sitis, et sapientiam nesciatis?». Cf. In epistulam Iohannis ad Parthos, IV, 6, 2009: «Haec est vita nostra, ut desiderando exerceamur. Tantum autem nos exercet sanctum desiderium, quantum desideria nostra amputaverimus ab amore saeculi».
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che il contenuto del sogno è falso o che la differenza di percezione nel gusto di una pietanza rende reciprocamente falsi i giudizi dei vari soggetti che gustano la stessa pietanza), non può negare il fatto che l’individuo ‘veramente’ stia sognando o stia gustando qualcosa. L’esistenza del pensiero e delle sue forme e strutture esperienziali, spirituali e intellettuali ‘trascendentali’ (che cioè garantiscono che la forma del ragionare umano, a prescindere dalla veridicità dei contenuti, è sempre, universalmente la stessa) se pur recepisce contenuti sui quali non è possibile formulare giudizi veri, è dunque di per se stessa vera perché costituisce un contenuto della cui veridicità non è possibile appercettivamente dubitare38. Partendo dalle premesse faticosamente costruire lungo tutto l’arco del terzo libro, Agostino giunge a precise conclusioni. La nuova Accademia, quella che egli con tanto vigore ha combattuto, è sorta da una ‘strategia difensiva’ nei confronti del pericolo stoico; del platonismo essa ha diffuso soltanto una parte, vale a dire l’idea che il sensibile sia luogo di opinione e di incertezze gnoseologiche, tenendo ben nascosta la dottrina che descriveva il mundus intellegibilis come luogo nel quale abita la verità, modello di quello sensibile che è verosimile perché è fatto a immagine di quello trascendente39. Mentre dunque
38
Cf. Contra Academicos, III, 10, 23 - 13, 29, pp. 48-52. Sul tema Agostino tornerà anche all’inizio del De beata vita, dimostrando a Navigio come non si possa dubitare della propria esistenza in vita; cf. De beata vita, 2, 7, 963, pp. 6869, 1-16: «Manifestum vobis videtur ex anima et corpore nos esse compositos? – Cum omnes consentirent, Navigius se ignorare respondit. – Cui ego: Nihilne omnino scis, inquam, an inter aliqua quae ignoras etiam hoc numerandum est? – Non puto me, inquit, omnia nescire. – Potesne nobis dicere aliquid eorum quae nosti? – Possum, inquit. – Nisi molestum est, inquam, profer aliquid. – Et cum dubitaret: Scisne, inquam, saltem te vivere? – Scio, inquit. – Scis ergo habere te vitam, siquidem vivere nemo nisi vita potest. – Et hoc, inquit, scio. – Scis etiam corpus te habere? – Assentiebatur. – Ergo iam scis te constare ex corpore et vita. – Scio interim; sed utrum haec sola sint, incertus sum. – Ergo duo ista, inquam, esse non dubitas, corpus et animam; sed incertus es utrum sit aliud quod ad complendum ac perficiendum hominem valet. – Ita, inquit. – Hoc quale sit, alias, si possumus, quaeremus, inquam». Sull’importanza di questa struttura argomentativa per i successivi sviluppi, nella filosofia occidentale, di una aletologia della coscienza, Cf. M. Malatesta, St. Augustine’s Dialectic from the Modern Logic Standpoint. Logical Analysis of Contra Academicos III, 10, 22 - 13, 29, in «Metalogicon», 8/2 (1995), pp. 91-120, in partic. pp. 115-116. 39 Cf. Contra Academicos, III, 17, 37, 954, p. 57, 22-29: «Sat est enim ad id quod volo, Platonem sensisse duos esse mundos, unum intellegibilem, in quo ipsa veritas habitaret, istum autem sensibilem, quem manifestum est nos visu tactuque sentire. Itaque illum verum, hunc veri similem et ad illius imaginem factum. Et ideo
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Il laboratorio filosofico di Agostino: i primi dialoghi
sostenevano apertamente uno scetticismo radicale, gli Accademici nascondevano la più genuina dottrina platonica sotto la coltre del verosimile e del possibile, lasciando intendere che i concetti di verosimile e probabile hanno senso solo per chi, abbeverandosi alla fons Platonis, sa cogliere l’exemplum, vale a dire il modello, la forma eterna e vera cui la verosimiglianza fa imitativamente riferimento. Le dottrine accademiche hanno però fallito nel loro intento; esse infatti, per difendere la verissima philosophia che, dall’inconsistenza gnoseologica del sensibile proietta l’uomo alla stabilità veritativa dell’intellegibile40, hanno dissusaso molti dal filosofare insistendo sulla dimensione ineludibilmente scettica della ricerca sensibile. L’ormai avvenuto recupero di quello che egli ritiene il più autentico spirito del platonismo consente ad Agostino di chiudere il cerchio della sua riflessione. Platone ha mostrato che l’unico senso del vivere è la filosofia e che la filosofia altro non è che risalire dal mutevole al trascendente; recuperarne il messaggio significa dunque riguadagnare, per la filosofia, il ruolo di attività di ricerca costantemente tendente al divino. Ma anche il platonismo, pur nella sua straordinaria intuizione metafisica, non è stato in grado di dare risposte ultimative perché, in quanto movimento autonomo dell’uomo, resta sempre ancorato al rischio di ridursi a semplice ipotesi; nessun uomo, nemmeno il più arguto, può infatti conoscere l’oggetto-Dio e dunque qualsivoglia sua teoria non può che restare congettura. Proprio l’impermeabilità di Dio a ogni conoscenza umana lo rende un contenuto che o si autorivela o resta muto. Il Cristianesimo si presenta dunque, per Agostino, come l’unica dottrina che può veramente fondare quel movimento verso il trascendente (inaugurato da Platone) perché caratterizzata dal contromovimento con il quale è lo stesso trascendente a piegarsi verso il mutevole per chiamarlo a sé, per dare al quaerere umano non risposte (che ne annullerebbero il senso e il moto) ma direzione. Dopo aver dimostrato che l’uomo non può cogliere la verità autonomamente ma che, al contempo, ha un insazibile bisogno di toccarla, la ricerca filosofica cristiana appare
de illo in ea, quae se cognosceret, anima velut expoliri et quasi serenari veritatem; de hoc autem in stultorum animis non scientiam, sed opinionem posse generari». 40 Cf. Epistola ad Zenobium, II (387), 1, PL 33, 63, p. 5, 2-9: «Bene inter nos convenit, ut opinor, omnia quae corporeus sensus attingit, ne puncto quidem temporis eodem modo manere posse, sed labi, effluere et praesens nihil obtinere, id est, ut latine loquar, non esse. Horum itaque perniciosissimum amorem, poenarumque plenissimum, vera et divina philosophia monet frenare atque sopire; ut se toto animus, etiam dum hoc corpus agit, in ea quae semper eiusdem modi sunt, nec peregrino pulchro placent, feratur atque aestuet».
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così, alla fine del Contra Academicos, l’unico luogo in cui tale tensione si risolve perché punto di incontro virtuoso di due movimenti, quello (platonicamente) ascensivo dell’uomo che cerca Dio e quello (cristianamente) discensivo di Dio che si volge all’uomo, i quali, soltanto nella loro compresenza, danno un senso compiuto al rapporto tra l’uomo e la verità. Nelle pagine del Contra Academicos, Agostino delinea dunque il vero e proprio ‘manifesto’ di una ‘religione della conoscenza’ declinata come un (neo)platonismo cristiano41. Recuperata la genuina tensione platonica al trascendente, ‘ripulita’ dalle scorie scettiche e difensive dell’Accademia, Agostino la fonde con il movimento, tipicamente ed esclusivamente cristiano, che dalla trascendenza discende nella storia, chiama a sé l’uomo e, in ciò, muove e indirizza la conoscenza. Se infatti per un verso il platonismo fornisce al Cristianesimo la possibilità di dimostrare che la tensione all’altrove non è solo afflato religioso ma necessità strutturale, ‘laica’ e antropologicamente fondata dell’uomo, il Cristianesimo di converso salva per Agostino il platonismo dai rischi di aporeticità cui era necessariamente condannato in quanto ricerca di una mèta trascendente che era a tutti gli effetti soltanto una ipotesi e lo inserisce in un orizzonte provvidenziale in cui l’uomo cerca perché è chiamato a farlo42. La fiducia nell’esistenza di una verità che non solo il credente spera raggiungibile post mortem ma della quale avverte il richiamo alla ricerca, sin dalle pagine del Contra Academicos, dà infatti alla filosofia descritta da Agostino una coloritura che egli rivendica come completamente nuova rispetto alla tradizione pagana. Laddove infatti la filosofia greca aveva cercato di darsi un fondamento razionale, cioè raggiunto tramite una indagine preliminare a sua volta filosofica, essa aveva sempre fallito, scivolando poi in un inevitabile scetticismo per-
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Cf. A.-I. Bouton-Touboulic, Scepticisme et religion dans le Contra Academicos d’Augustin, in Scepticisme et religion. Constantes et évolutions, de la philosophie hellénistique à la philosophie médiévale, éd. par di A.-I. Bouton Touboulic - C. Levy, Turnhout 2016, pp. 171-192 ; A. Bisogno, Il ‘discorso sul metodo’ di Agostino: il Contra Academicos, in «Studi filosofici», 40 (2017), 27-48. 42 Sul Contra Academicos come testo composto per ribadire la necessità del filosofare e, soprattutto, la speranza di poter trovare la verità, cf. Epistola ad Hermogenianum, I (386-387), 1, PL 33, 61, p. 3, 14-21: «Hoc autem saeculo cum iam nullos videamus philosophos, nisi forte amiculo corporis, quos quidem haud censuerim dignos tam venerabili nomine, reducendi mihi videntur homines (si quos Academicorum per verborum ingenium a rerum comprehensione deterruit sententia) in spem reperiendae veritatis: ne id quod eradicandis altissimis erroribus pro tempore accomodatum fuit, iam incipiat inserendae scientiae impedimento esse».
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ché, secondo Agostino, priva di un qualsivoglia criterio che potesse con assoluta certezza permetterle di distinguere il vero dal falso. È per questo che, paradossalmente, solo allorquando la verità si rivela sua sponte all’uomo, dichiarandosi come criterio e chiedendogli di aderirvi per fede, essa diviene fondativa proprio nel suo essere pre-razionale e, dunque, non sottoposta alla precarietà della ricerca filosofica stessa. È nelle pagine del De beata vita, steso durante la composizione del Contra Academicos, che Agostino chiarisce con ancor maggiore puntualità il senso di questa dinamica di reciproca ricerca che unisce l’uomo a Dio e costituisce il senso compiuto del filosofare cristiano. La scena del dialogo è ambientata durante un banchetto organizzato per il compleanno di Agostino, che chiede ai suoi ospiti se, oltre al cibo che hanno consumato per festeggiare e che ha nutrito il corpo, non se ne debba prevedere uno anche per l’altra parte dell’uomo, vale a dire l’anima. Esso non può che essere rappresentato dalla scientia, che altro non è (come affermato nel Contra Academicos) se non il possesso di una conoscenza che sa descrivere correttamente e veridicamente le cose. Per questo si definiscono affamati (famelici) coloro i quali sono a digiuno di disciplinae e di bonae artes, vale a dire dello studio delle arti liberali43; l’efficace immagine del cibo, che implica il desiderio e l’appetito, riprende così, nelle pagine del De beata vita, l’idea che l’uomo sia in continua ricerca di qualcosa. L’anima infatti desidera il nutrimento ma, come avviene con il cibo per il corpo, esso non potrà mai darle soddisfazione perenne ma solo momentanea e transeunte;
43 Cf. De beata vita, 2, 8, 963-964, pp. 69-70, 35-52: «Quid ergo anima, inquam? Nulla ne habet alimenta propria? An eius esca scientia vobis videtur? – Plane, inquit mater; nulla re alia credo ali animam quam intellectu rerum atque scientia. – De qua sententia cum Trygetius dubium se ostenderet: hodie, inquit illa, tu ipse nonne docuisti unde aut ubi anima pascatur? Nam post aliquantam prandii partem te dixisti advertisse quo vasculo uteremur, quod alia nescio qua cogitasses, nec tamen ab ipsa ciborum parte abstinueras manus atque morsus. Ubi igitur erat animus tuus, quo tempore illud, te vescente, non attendebat; inde, mihi crede, et talibus epulis animus pascitur, id est curis et cogitationibus suis, si per eas aliquid percipere possit. – De qua re cum dubitanter streperent: Nonne, inquam, conceditis hominum doctissimorum animos multo esse quam imperitorum quasi in suo genere pleniores atque maiores? – Manifestum esse dixerunt. – Recte igitur dicimus eorum animos, qui nullis disciplinis eruditi sunt, nihilque bonarum artium hauserunt, ieiunos et quasi famelicos esse». Sul timore che il trascurare le artes produca un impoverimento filosofico, cf. Epistola ad Hermogenianum cit., 2, PL 33, 62, p. 4, 28-30: «Tanta porro nunc fuga laboris et incuria bonarum artium, ut simul atque sonuerit, acutissimis philosophis esse visum nihil posse comprehendi, dimittant mentes et in aeternum obducant».
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come dunque qualsiasi cibo placa la fame solo per un breve momento, così lo studio delle discipline liberali non seda in modo definitivo il desiderio di conoscenza, che continuamente si rinnova e ha necessità di nutrirsi ancora. L’unico oggetto che, infatti, potrebbe rendere l’uomo stabilmente felice, che cioè, una volta posseduto, sazierebbe definitivamente ogni suo appetito conoscitivo, è Dio44; ma nessuno può possederlo perché all’uomo è dato solo tendere al divino e cercarlo. Sarà dunque necessario che tale condizione umana, il cercare Dio, si accompagni a un egual movimento di Dio, vale a dire l’avvicinarsi all’uomo e essergli propitius45. Dalla fonte stessa della verità promana verso di noi una specie di richiamo (admonitio), che agisce in noi affinché riportiamo alla memoria Dio, lo cerchiamo e lo bramiamo una volta eliminato ogni intralcio. Quel sole inaccessibile (secretus) infonde nei nostri occhi interiori questo raggio. (…) Quella è dunque la pienezza degli animi, vale a dire la vita felice, conoscere in modo devoto e compiuto da chi tu venga condotto nella verità, quale verità tu possa godere e attraverso cosa tu possa esser connesso alla somma misura46.
Il linguaggio di Agostino pone dunque qui con ancor maggior chiarezza Dio come protagonista della relazione con l’uomo. È la sua admonitio infatti a ricordare all’uomo che Egli esiste e va cercato, che è cioè necessaria una conversio degli occhi per ri-volgerli al divino che, a sua volta, in un movimento schiettamente trinitario, è verità ma è anche sempre, al contempo esortazione e mezzo per il raggiungimento della verità stessa («a quo inducaris in veritatem, qua veritate perfruaris, per quid connectaris summo modo»).
44 Cf. ibid., 2, 11, 965, pp. 71-72. Cf. Confessiones, IV, 12, 18, 701, p. 50, 1417: «Quaerite quod quaeritis, sed ibi non est, ubi quaeritis. Beatam vitam quaeritis in regione mortis; non est illic. Quomodo enim beata vita, ubi nec vita?». 45 Cf. De beata vita, 3, 19-21, 969-970, pp. 75-77. 46 Ibid., 4, 35, 976, pp. 84-85: «Admonitio autem quaedam, quae nobiscum agit, ut Deum recordemur, ut eum quaeramus, ut eum pulso omni fastidio sitiamus, de ipso ad nos fonte veritatis emanat. Hoc interioribus luminibus nostris iubar sol ille secretus infundit. (…) Illa est igitur plena satietas animorum, hoc est beata vita, pie perfecteque cognoscere a quo inducaris in veritatem, qua veritate perfruaris, per quid connectaris summo modo». Cf. J. Oroz Reta, Vocation divine et conversion humaine d’après saint Augustin, in «Studia patristica», 22 (1989), pp. 300-308.
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Il terzo dialogo di Cassiciaco, il De ordine, chiude e delinea con maggior precisione il percorso tracciato dal Contra Academicos e dal De beata vita. Se infatti nei primi due dialoghi, Agostino ha indicato genericamente nel filosofare l’attività che permette di andare incontro al movimento con cui Dio tende all’uomo, è nel De ordine che tale attività viene definita nelle sue articolazioni, quasi a indicare ai lettori in cosa concretamente consista l’essere filosofi. Già nella breve dedica a Zenobio, che apre il dialogo, Agostino definisce in modo estremamente preciso i tratti dei già ricordati movimenti coimplicantisi dell’uomo verso Dio e di Dio verso l’uomo. Essi si manifestano con chiarezza allorquando l’uomo cerca di ritrovare nel creato le tracce che Dio vi ha lasciato; così, il moto di ricerca umano incrocia e ritrova quello con il quale Dio ha avuto cura di lasciare vestigia della sua esistenza. All’erudito che dunque studia le arti liberali, vale a dire le discipline che permettono di conoscere le regulae immutabili di funzionamento e relazione immesse nel creato da Dio, l’esistenza di questo ordine è evidente, al contrario di quanto accade ai non eruditi che, invece, si comportano nei confronti dell’esistente come quelli che, guardando un mosaico troppo da vicino, notano l’irregolarità delle singole tessere e sono incapaci di cogliere il disegno generale che le riunifica tutte e a tutte dà senso. Questi uomini si fanno infatti attrarre dalle specificità singole del molteplice che si presenta multiforme, cangiante, irregolare e quasi si ribellano alla loro stessa natura che, invece, li porterebbe a cercare di rintracciare l’unità (unum quaerere) nella molteplicità47. Agostino indica dunque chiaramente nell’eruditio, nello studium cioè delle disciplinae liberali che permette di fuoriuscire da uno stato di ‘rudezza’, la strada che deve operativamente seguire l’uomo che voglia almeno parzialmente assecondare quel desiderio di trascendenza che, nelle pagine del Contra Academicos, era emerso come necessario per l’uomo48. Cogliere infatti la mano provvidenziale divina dietro un ragionamento regolato dalla dialettica, al di là di una dimostrazione geometrica o di una armonia studiata dalla disciplina musicale significa utilizzare al meglio le strutture logico-deduttive ‘trascendentali’ che il Contra Academicos aveva dimostrato vere, e giungere a intuire ciò 47 Cf. De ordine, I, 1, 1 - 2, 3, 979-980, pp. 89-90. Cf. De civitate Dei, XV, 22, 467-468, pp. 487-488. 48 Cf. J. Doignon, Grandeur et décadence de l’eruditio aux yeux d’Augustin du De ordine au De musica, in Interiorità e intenzionalità in S. Agostino, Atti del primo Seminario Internazionale del Centro di Studi Agostiniani di Perugia, a c. di L. Alici, Roma 1990, pp. 21-33.
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che è nascosto (Dio) proprio attraverso ciò che lo nasconde (il creato organizzato dalla provvidenza); come il sole che viene al contempo mostrato e nascosto dalle nuvole illuminate che lo coprono. Come indica chiaramente a Zenobio, il fine del De ordine è dunque illustrare come tale studio delle discipline liberali rappresenti l’unica possibilità data all’uomo di cogliere parzialmente Dio; nello studium infatti si concretizza operativamente il movimento di ascesa dell’uomo a Dio, che a sua volta, rivelatosi nelle Scritture, tramite l’ordine sotteso al mondo continuamente sollecita l’uomo, lo invita alla ricerca di Lui e in ciò lo richiama a sè49. Il De ordine, nelle pagine che seguono quelle dedicate a Zenobio, si apre con una immagine che restituisce con perfetta eleganza espressiva questa dinamica. Agostino è sveglio, nel cuore della notte; il desiderio di conoscere il vero (amor inveniendi veri) sembra consumarlo così tanto da impedirgli di dormire, costringedolo a seguire pensieri e riflessioni diverse. In questa condizione, il rumore dell’acqua che scorre nei balnea lo colpisce per il suo suono irregolare; incuriosito dal fenomeno, conclude Agostino, «cominciai a cercare (quaerere) da solo quale ne fosse la causa»50. Proprio nel raccontare un episodio tanto banale, Agostino riesce a rappresentare perfettamente la quotidiana ineludibilità del suo ricercare, che non conosce riposo e che coglie ogni aspetto di ciò che lo circonda – anche quelli più trascurabili e accidentali – come occasione per alimentare, raffinare e approfondire la propria ricerca. Di lì a poco, Agostino si accorge che anche Licenzio e Trigezio sono svegli, e comincia a intrattenersi con loro su ciò che lo aveva meravigliato dello scorrere delle acque; l’uomo è infatti quasi costretto a indagare le cause di ciò che esperisce (quaerere causam) 49 Cf. De ordine, I, 2, 4, 980, pp. 90-91. Cf. P. F. Beatrice, Doctrina sana id est Christiana. Augustine from the Liberal Arts to the Science of the Scriptures, in «Theologische Zeitschrift», 62/2 (2006), pp. 269-282. 50 Cf. De ordine, 3, 6, 981, pp. 91-92, 1-16: «Sed nocte quadam cum evigilassem de more, mecumque ipse tacitus agitarem quae in mentem nescio unde veniebant: nam id mihi amore inveniendi veri iam in consuetudinem verterat, ita ut aut primam, si tales curae inerant, aut certe ultimam, dimidiam tamen fere noctis partem pervigil quodcumque cogitarem; nec me patiebar adolescentium lucubrationibus a meipso avocari, quia et illi per totum diem tantum agebant, ut nimium mihi videretur, si aliquid etiam noctium in studiorum laborem usurparent; et id a me ipsi quoque praeceptum habebant, ut aliquid et praeter codices secum agerent, et apud sese habitare consuefacerent animum: ergo, ut dixi, vigilabam; cum ecce aquae sonus pone balneas quae praeterfluebat, eduxit me in aures, et animadversus est solito attentius. Mirum admodum mihi videbatur quod nunc clarius, nunc pressius eadem aqua strepebat silicibus irruens. Coepi a me quaerere quaenam causa esset».
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quando ritiene che gli avvenimenti che in quel momento sta esperendo non siano facilmente collocabili nell’ordine delle cose; quando cioè essi sembrano dovuti al caso. È questa la circostanza che – proseguono i tre interlocutori – riguarda il rumore irregolare che li ha svegliati; esso è probabilmente causato dall’accumularsi di foglie lungo il corso delle acque e che sono dunque, banalmente, la causa ‘locale’ di quel rumore. L’apparente casualità di questo avvenimento nasconde però la presenza di causae ‘generali’ che lo hanno generato: la collocazione degli alberi, la presenza del vento, il peso dei rami, etc. Non c’è dunque niente che, nel mondo, avvenga senza una causa51 e nessuna causa che non sia direttamente collegata con la volontà di Dio, che dunque si rivela in ogni anfratto del reale: Chi negherà, Dio grande – disse Licenzio – che tu governi tutto nell’ordine? Come sono reciprocamente vincolate tutte le cose! Come sono strette nei loro nodi da successioni determinate! Quante numerose e grandi cose sono accadute, solo perché ne potessimo parlare! Quante ne accadono, affinché possiamo trovarti! Da dove infatti proviene ed è guidato, se non dall’ordine delle cose, il fatto che ci siamo svegliati, che tu hai sentito quel suono, che ti sei interrogato tra te e te sulla causa, che non hai trovato la causa di una cosa così insignificante?52
Le parole di Licenzio, nel loro entusiasmo, chiariscono perfettamente non soltanto la prospettiva metodologica di Agostino e della piccola comunità raccolta a Cassiciaco, ma anzi (se non soprattutto) un condiviso approccio spirituale ed esistenziale. Il mondo appare loro come una grande macchina nella quale nulla è esterno all’ordine voluto da Dio; una infinita risorsa di segni, simboli e, dunque, occasioni che Dio concede all’uomo per lodarne la provvidenziale volontà. In ciò allora consiste la vita felice per l’uomo: ‘inseguire’ queste tracce di Dio nel mondo grazie allo studio delle discipline liberali. Lo studio delle discipline liberali, fatto con giusta misura e in giusta quantità, prepara gli amanti più attivi, più perseveranti 51
Cf. ibid., 4, 11, 983, pp. 94-95. Ibid., 5, 14, 984, p. 96, 35-42: «Quis neget, Deus magne, inquit, te cuncta ordine administrare? Quam se omnia tenent! quam ratis successionibus in nodos suos urgentur! quanta et quam multa facta sunt ut haec loqueremur! Quanta fiunt ut te inveniamus! Unde enim hoc ipsum, nisi ex rerum ordine manat et ducitur, quod evigilavimus, quod illum sonum advertisti, quod quaesisti tecum causam, quod tu causam tantillae rei non invenisti?». 52
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e più appassionati della verità che va abbracciata, affinché più ardentemente desiderino e con più costanza inseguano e alla fine con più dolcezza si avvicinino a quella che viene chiamata vita beata53.
«Ordo est, quem si tenuerimus in vita, perducet ad Deum»54. L’ordine è dunque ciò che, se viene seguito, e cioè studiato, analizzato, compreso nelle regulae che innervano l’esistente, conduce in vita a Dio; è quindi il luogo in cui quella aspirazione platonica alla trascendenza si realizza nel modo che è nei fatti il più compatibile possibile con la tara gnoseologica dell’uomo, perché non lo proietta nella ricerca astratta di un oggetto ipotetico che abita in un altrove solo teorico, ma lo impegna concretamente, quotidianamente (cioè nel dare ragione della collocazione di ogni cosa, anche di poche foglie che ostruiscono un corso d’acqua) nello studium dei signa del divino presenti nel reale e, come tali, materia di competenza delle diverse disciplinae 55. È questa la formulazione di una vera e propria ‘metafisica dell’ordine’, in virtù della quale per Agostino la possibilità che l’uomo ha di indagare l’ordito del reale, provvidenzialmente determinato da Dio, costituisce l’attività più alta cui può dedicarsi la ragione; la ricerca e la conseguente, parziale ma contuina intuizione, in controluce, della regula voluta da Dio, pur non arrivando mai a cogliere la verità delle cose, concede infatti all’uomo una forma di consolante esercizio che ne accompagna tutta la vita56.
53 Ibid. 8, 24, 988, p. 100, 50-54: «Nam eruditio disciplinarum liberalium, modesta sane ac succincta, et alacriores et perseverantiores et comptiores exhibet amatores amplectendae veritati, ut ardentius appetant, et constantius insequantur et inhaereant postremo dulcius, quae vocatur Licenti, beata vita». 54 Cf. ibid., 9, 27, 990, pp. 102-103. 55 Cf. N. Cipriani, Sulla fonte varroniana delle discipline liberali nel De ordine di S. Agostino, in «Augustinianum», 40 (2000), pp. 203-224. 56 Il lessico dell’ordine di Agostino si iscrive in una tradizione patristica già attestata ma assume, nel sistema agostiniano, una rilevanza teologica inedita, che sarà a fondamento anche delle scelte operate da Agostino sul tema della grazia e del libero arbitrio; cf. C. A. Valderrama, La metafìsica de la luz y la teorìa de la iluminaciôn Agustiniana, in «Franciscanum», 32 (1990), pp. 283-305; R. Teske, Saint Augustine as Philosopher: The Birth of Christian Metaphysics, in «Augustinian Studies», 23 (1992), pp. 7-32; R. F. Torralba, Metafisica de la razón en san Agustin, in Augustinus minister et magister. Homenaje al profesor A. Turrado, O.S.A., con ocasión de su 65 avversario, Madrid 1992, II, pp. 259-281; U. Pizzani, Qualche osservazione sul concetto di armonia cosmica in Agostino e Cassiodoro alla luce di Sap 11,21, in «Augustinianum», 32 (1992), pp. 301-322; J. Doignon, L’émergence de la notion d’‘ordre très secret’ dans les premiers dialogues d’Augustin: son incidence sur l’approche de Dieu, in «Revue des Études augustiniennes», 42
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Dio dunque determina un ordine per il creato, imponendogli regole57. Ciò significa – ed è da qui che muove la discussione che occupa il secondo libro del dialogo – che l’ordine è un luogo nel quale Dio è al contempo immanente ed esterno; l’ordine è infatti l’effetto della volontà provvidenziale divina, ed è dunque altro da Dio, che però per certi versi ‘vive’, si rispecchia nell’ordine e si fa garante di ogni suo aspetto. Ciò significa concludere, non senza difficoltà, che ogni cosa che avviene nel creato sottostà all’ordine voluto da Dio perché rientra nel più generale equilibrio che sfugge a chi osserva le cose troppo da vicino e non sa sollevarsi con lo sguardo all’universale58. Così inteso, l’ordine non può che accogliere per esempio, al suo interno, l’esistenza dei boia o delle prostitute, entrambi utili a far sì che l’ordine delle leggi e dei costumi non declini59; ogni cosa dunque nel progetto provvidenziale di Dio ha un ruolo che è evidente all’uomo che lo sappia intravedere
(1996), pp. 243-253; A.-I. Bouton-Touboulic, Les valeurs d’ordo et leur réception chez Augustin, in «Revue des Études augustiniennes», 45 (1999), pp. 295-334, A. Bisogno, La ‘metafisica dell’ordine’ come consolatio filosofica in Agostino, Boezio e Gregorio Magno, in «Rivista di filosofia neoscolastica», 110 (2018), pp. 259-279. 57 Cf. Confessiones, IV, 15, 24, 703, p. 52, 1-7: «Sed tantae rei cardinem in arte tua nondum videbam, omnipotens, ‘qui facis mirabilia solus’ (Sal 71, 18), et ibat animus per formas corporeas et pulchrum, quod per se ipsum, aptum autem, quod ad aliquid accommodatum deceret, definiebam et distinguebam et exemplis corporeis astruebam. Et converti me ad animi naturam, et non me sinebat falsa opinio, quam de spiritalibus habebam, verum cernere». Nel De Trinitate, Agostino utilizza l’immagine particolarmente efficace di textura; cf. De Trinitate, III, 9, 16, 877-878, p. 143, 1-8: «Aliud est enim ex intimo ac summo causarum cardine condere atque administrare creaturam, quod qui facit ‘solus Creator est Deus’ (Sir 1, 8); aliud autem pro distributis ab illo viribus et facultatibus aliquam operationem forinsecus admovere ut tunc vel tunc sic vel sic exeat quod creatur. Ista quippe originaliter ac primordialiter in quadam textura elementorum cuncta iam creata sunt sed acceptis opportunitatibus prodeunt». 58 Cf. De ordine, II, 4, 11, 1000, p. 113, 16-25: «Namque omnis vita stultorum, quamvis per eos ipsos minime constans minimeque ordinata sit, per divinam tamen providentiam necessario rerum ordine includitur et quasi quibusdam locis illa ineffabili et sempiterna lege dispositis, nullo modo esse sinitur ubi esse non debet. Ita fit ut angusto animo ipsam solam quisque considerans, veluti magna repercussus foeditate aversetur. Si autem mentis oculos erigens atque diffundens, simul universa collustret nihil non ordinatum suisque semper veluti sedibus distinctum dispositumque reperiet». 59 Cf. ibid., 4, 12, 1000, p. 114, 33-41: «Quid enim carnifice tetrius? Quid illo animo truculentius atque dirius? At inter ipsas leges locum necessarium tenet et in bene moderatae civitatis ordinem inseritur estque suo animo nocens, ordine autem alieno poena nocentium. Quid sordidius, quid inanius decoris et turpitudinis plenius meretricibus, lenonibus caeterisque hoc genus pestibus dici potest? Aufer meretrices de rebus humanis, turbaveris omnia libidinibus; constitue matronarum loco, labe ac dedecore dehonestaveris»
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dietro e al di là delle apparenze: «Credo che tutte le cose stiano così, ma che esse cercano occhi (oculos quaerunt) che le sappiano vedere»60. Educare gli occhi a cogliere l’universale nel quale i particolari sono incastonati e trovano senso: questo è il compito della eruditio, dello studio delle artes che nutre e sostiene il philosophiae miles nella ricerca prima e nella condivisione poi, da maestro, dei suoi risultati61. È alla descrizione della natura e del significato di questa eruditio intesa come vera e propria scelta di una forma di vita dedicata a uno studium decodificante il reale, lontana dagli eccessi e dalle passioni del mondo, che Agostino dedica l’ultima parte del secondo libro del De ordine. Punto di partenza di questo percorso è, per Agostino, l’accettazione da parte dello studiosus di ciò che tramandano le auctoritates, divine e umane, vale a dire le Scritture e l’esempio di uomini dotti ed equilibrati62. Da esse prende le mosse un iter lungo e complesso, che vede l’uomo e, in particolar modo, la sua ratio dispiegare tutti i suoi talenti, in un percorso progressivo, in un ampliarsi di competenze; un cammino che Agostino racconta dettagliatamente quasi proponendo al lettore una sorta di romanzo autobiografico della ragione universale e metastorica che prende coscienza di sé e dei suoi strumenti che, come gradoni di una vera e propria scala, conducono dal sensibile all’intellegibile. La ragione infatti, in tutto ciò che incontra e che i sensi le trasmettono, cerca di individuare le giuste proporzioni e la corretta misura63. Così, facendosi guida dell’uomo, e cercando di seguire ciò che, nel mondo, è rationabilis, essa ha cercato in sé, nelle sue capacità naturali, ciò che era utile al progresso dell’uomo; ha dunque per prima cosa compreso la necessità di definire un linguaggio che permettesse agli uomini di comunicare i loro pensieri e, a tal fine, ha trovato in se la capacità di fissarne regole nella grammatica: «notavit etiam ista et in regulas certas disposuit»64. Dopo aver disposto in modo compiuto la grammatica, la ratio venne poi spinta a indagare (admonita est quaerere) quale ars le avesse dato tale capacità di organizzare i 60
Ibid., 4, 13, 1000, p. 114, 53: «Talia, credo, sunt omnia, sed oculos quaerunt». Cf. ibid., 5, 14, 1001, p. 115, 7-15: «Iam in musica, in geometria, in astrorum motibus, in numerorum necessitatibus ordo ita dominatur ut si quis quasi eius fontem atque ipsum penetrale videre desideret, aut in his inveniat aut per haec eo sine ullo errore ducatur. Talis enim eruditio, si quis ea moderate utatur (nam nihil ibi quam nimium formidandum est), talem philosophiae militem nutrit vel etiam ducem ut ad summum illum modum, ultra quem requirere aliquid nec possit, nec debeat, nec cupiat, qua vult evolet atque perveniat multosque perducat». 62 Cf. ibid., 10, 29, 1008-1009, pp. 123-124. 63 Cf. ibid., 11, 30-34, 1010-1011, pp. 124-126. 64 Ibid., 12, 36, 1012, pp. 127-128. 61
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contenuti linguistici, porli in regole e renderli universali. Dalla riflessione sui suoi stessi meccanismi, la ratio comprese l’importanza prima delle regole della dialettica, che le permetteva appunto di mostrarsi a se stessa (in hac seipsa ratio demonstrat) e di verificare la coerenza dei suoi ragionamenti, e poi di quelle della retorica, che si preoccupa di renderli efficaci e convincenti65. Perfettamente realizzate, nell’esercizio grammaticale, dialettico e retorico, le sue capacità di mettere in regole universali il complesso fluire del pensiero e dell’espressione linguistica, la ragione si rivolse all’indagine delle realtà fisiche. Cercò dunque di studiare i suoni che ascoltava, e si dotò degli strumenti per giudicarne la durata, le cesure, il ritmo, dando vita a quella disciplina musicale dalla quale prendono forza le creazioni dei poeti ma che diventa ars quando considera, nelle singole composizioni, i valori numerici universali. Da questo quarto grado fu semplice, per la ratio, elevarsi ai due successivi; la devozione per il numero, infatti, le insegnò che, come in musica ciò che conta non è la singola composizione del poeta ma le proporzioni tra i suoni e le norme che le regolano, così, al di là di ciò che vedono i sensi, c’è sempre una universale costanza delle forme e delle quantità e, di conseguenza, la necessità di discipline che colgano le regole univesali delle prime (la geometria)66 e delle seconde (l’aritmetica). La storia delle tappe attraverso le quali la ratio ha manifestato a se stessa i suoi talenti permette ad Agostino di tratteggiare con chiarezza il perimetro della sua indagine filosofica e il ruolo dei due ‘oggetti’ alla cui conoscenza essa aspira. Affermare infatti che la ratio può intuire i nessi universali che tengono assieme il reticolato dell’esistente significa infatti per un verso parlare dell’uomo (che è il depositario unico della ratio nel creato) e di ogni uomo (perché essa è universalmente condivisa da ogni essere umano), e per un altro di Dio, che è autore di quei nessi e quasi li pone affinché essi vengano dall’uomo intuiti. La ricerca di Agostino, che resta una, appare nei fatti bipartita: «Duplex quaestio est, una de anima, altera de Deo»67. Più infatti l’anima conosce se stessa (vale a dire compie quel percorso di autocoscienza e consapevolezza che Agostino ha descritto come ascesa attraverso le artes e che si realizza nell’educarsi all’uso degli strumenti filosofici che
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Cf. ibid., 12, 37-38, 1012-1013, p. 128. Cf. R. de Filippis, Loquax pagina. La retorica nell’Occidente tardo-antico e alto-medievale, Roma 2013 (Institutiones, 2), pp. 213-16. 66 Cf. De ordine, 14, 40-42, 1013-1014, pp. 129-130. 67 Ibid., 18, 47, 1017, pp. 132-133.
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rendono possibile cogliere l’universale nel particolare) migliore sarà la sua conoscenza di Dio, che dell’universale è fondatore e garante68. L’anima umana, dedicatasi alla filosofia, guarda dentro di se (se ipsam inspicit) e viene convinta dai suoi studi che, in quanto ratio, non può che inseguire, in ogni ambito e anfratto del reale, il numerus, vale a dire l’unità (divina) che supera e ricomprende ogni molteplicità69.
3. Duplex quaestio: i Soliloquia, il De immortalitate animae e il De quantitate animae (387-388) Il movimento di pensiero che unisce i primi tre dialoghi restituisce certamente una trama di temi intessuta con grande meticolosità. Nel Contra Academicos, Agostino arriva a dare alla sua esperienza filosofica e di fede la forma di un ‘(neo)platonismo cristiano’, espressione che sintetizza perfettamente la compresenza di uno slancio umano (e neoplatonico), che dal sensibile aspira ad innalzarsi al trascendente, e di un amore divino (e cristiano) che si piega verso il sensibile, prima facendosi uomo tra gli uomini, poi raccontadosi nelle Scritture e infi-
68 In alcuni punti della sua produzione, Agostino sembra suggerire, senza però mai poterlo affermare apertamente, che proprio tale sforzo da parte dell’uomo gli faccia guadagnare una maggior ‘interazione’ da parte di Dio, tesi ovviamente rischiosa perché legherebbe l’intervento divino nella vita dell’uomo a un meccanismo premiale e, in ciò, non gratuito; cf. Confessiones, VII, 6, 10, 739, p. 99, 80-83: «Tu enim, Domine, iustissime moderator universitatis, consulentibus consultisque nescientibus occulto instinctu agis, ut, dum quisque consulit, hoc audiat, quod eum oportet audire occultis meritis animarum ex abysso iusti iudicii tui». 69 De ordine, III, 18, 48, 1017, p. 133, 21-31: «Hunc igitur ordinem tenens anima iam philosophiae tradita, primo seipsam inspicit, et cui iam illa eruditio persuasit, aut suam aut seipsam esse rationem, in ratione autem aut nihil esse melius et potentius numeris, aut nihil aliud quam numerum esse rationem, ita secum loquetur: Ego quodam meo motu interiore et occulto, ea quae discenda sunt possum discernere vel connectere, et haec vis mea ratio vocatur. Quid autem discernendum est, nisi quod aut unum putatur et non est, aut certe non tam unum est quam putatur? Item, cur quid connectendum est, nisi ut unum fiat quantum potest?». Nelle Confessiones, Agostino afferma apertamente che la competenza nelle arti liberali, quando non è inserita in un più vasto orizzonte teologico, alimenta la superbia intellettuale dell’uomo che, accecato solo dagli oggetti che studia, dà le spalle alla luce che, in realtà, è proprio ciò che li illumina e li rende intellegibili; cf. Confessiones, IV, 16, 30-31, 705-706, pp. 55-56; ibid., V, 4, 7, 708-709, p. 60, 1-6: «Numquid, ‘Domine Deus veritatis’ (Sal 30, 6), quisquis novit ista, iam placet tibi? Infelix enim homo, qui scit illa omnia, te autem nescit; beatus autem, qui te scit, etiamsi illa nesciat. Qui vero et te et illa novit, non propter illa beatior, sed propter te solum beatus est, si cognoscens te sicut te glorificet et gratias agat et non evanescat in cogitationibus suis».
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ne sollecitandoli costantemente con differenti admonitiones. L’uomo e Dio dunque si cercano reciprocamente, in una condizione sempre precaria in cui, come illustrato nel De beata vita, l’uomo aspira a Dio mentre Dio gli si fa vicino, propitius. Filosofare è, per Agostino, esercitare questo movimento ascensivo che permette di abitare il non-luogo nel quale cercare e, parzialmente, incontrare il divino perché, rintracciando nel creato sensibile le regulae universali, come spiegato nel De ordine, Dio, da semplice ipotesi di fede, assume la forma più ‘concreta’ di ordinatore dell’universo. Per questo, nella lettera proemiale che apre il secondo libro del Contra Academicos, rivolgendosi a Romaniano, e ricordando l’impegno anche economico che questi aveva profuso in suo favore, Agostino lo aveva ringraziato per avergli dato la possibilità di crescere, rinsavire, allontanarsi dai legami delle passioni sensibili ma, soprattutto, di avergli concesso mezzi e opportunità di vivere una condizione esistenziale ideale: «cerco con tutte le mie forze la verità» (quaero intensissimus veritatem)70. È questa l’unica forma di vita degna, quella cioè spesa nell’otium philosophandi, perché essa è l’unico andito per la felicità: «non c’è vita beata se non quella che si trascorre filosofando» («nulla beatam vitam [esse] nisi quae in philosophia viveretur».)71. I dialoghi ‘filosofici’ si presentano dunque come una lunga e articolata declinazione dell’invito con il quale Agostino chiudeva la lettera: «nos, inquam, Romaniane, philosophemur»72. Una esortazione che risuona continuamente nei testi di Agostino, che ricorda sempre come l’indagine filosofica non sia mai motivata dal solo gusto di disputare (disputandi gratia) ma da quanto il farlo riguardi il senso della propria esistenza73; «cercare con grande impegno la verità» (magnopere quaerere veritatem), vale a dire «trascorrere la vita nello studio» (in studiis vivere)74, è infatti l’unica condizione esistenziale che traspare nei dialoghi come veramente degna. La funzione di que-
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Contra Academicos, II, 2, 4, 921, p. 20. Cf. ibid., 921, p. 20, 37-38. 72 Ibid., 3, 8, 923, p. 22, 26-27. 73 Cf. Contra Academicos, II, 9, 22, 929, pp. 29-30, 12-21: «Quamobrem audi, Alypi, quod, ut arbitror, iam optime scis: non ego istam disputationem disputandi gratia susceptam volo. Satis sit quod cum istis adolescentibus prolusimus, ubi libenter nobiscum philosophia quasi iocata est. Quare auferantur de manibus nostris fabellae pueriles. De vita nostra, de moribus, de animo res agitur, qui se superaturum inimicitias omnium fallaciarum, et veritate comprehensa, quasi in regionem suae originis rediens, triumphaturum de libidinibus, atque ita temperantia velut coniuge accepta regnaturum esse praesumit, securior rediturus in coelum». 74 Contra Academicos, III, 1, 1, 933, pp. 34-35. 71
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sta scientia umana con la quale è possibile cogliere le regulae immesse da Dio del creato e dunque sollevarsi dalla propria condizione verrà meno soltanto quando sarà possibile conoscere la verità direttamente, il che avverrà solo post mortem 75. Il sapere filosofico, pur essendo l’unico disponibile per l’uomo, resta dunque, per Agostino, una sorta di palliativo, ciò di cui l’uomo deve nutrirsi ma anche accontentarsi. Una aletologia corrispondentista, in virtù della quale è possibile, grazie alla ‘epistemologia disciplinare’ delineata nel De ordine, formulare proposizioni vere rispetto allo stato di cose che si ha di fronte, non è infatti applicabile a Dio, che si fa cogliere dalla filosofia soltanto come oggetto nascosto dietro le pieghe del reale, nelle regulae e nelle leggi che lo ordinano e che, intuite dallo studium, ne rivelano solo per speculum la natura di ordinatore. Agostino delinea così l’immagine di una indagine filosofica nella quale, come in un eterno gioco di bambini, l’uomo insegue Dio che, nel mentre lo ‘provoca’ alla ricerca per il tramite della Incarnazione, delle Scritture e dello stesso ordinamento del mondo, gli si nasconde e si sottrae, restando in se stesso lontano ma al contempo mostrandosi continuamente attraverso luoghi, persone e avvenimenti: Anche io in filosofia sono solo un bambino e, quando faccio domande, non mi preoccupo troppo di chi sia la persona attraverso la quale mi risponde colui che ogni giorno accoglie me che sono lamentevole (querulus)76.
Come detto, la ricerca umana appare così una infinita, duplex quaestio; l’uomo è cercante e cercato, e quanto più indaga le sue profondità interiori e comprende la consonanza tra i meccanismi di funzionamento della sua ratio e quelli del reale, tanto più si fa recettore efficace delle 75 Cf. De Genesi contra Manichaeos, II, 5, 6, 199, p. 125, 29-36: «Quod nunc ad hoc commemoravi, ut intellegeremus laboranti homini in terra, id est in peccatorum ariditate constituto, necessariam esse de humanis verbis divinam doctrinam, tamquam de nubibus pluviam. Talis autem scientia destruetur. ‘Videmus enim nunc in aenigmate, tamquam in nubilo saginam quaerentes: tunc autem facie ad faciem’ (1 Cor 13, 8-12), quando universa facies terrae nostrae interiore fonte aquae salientis irrigabitur». Per una più ampia riflessione sulle opere antimanichee e sul De Genesi, cf. infra, p. 91. Sulla cognitio della verità post mortem cf. In Iohannis evangelium, III, 20, 1404, p. 4, 7: «Cognitio Dei promittitur: ipsa est gratia pro gratia. Fratres, modo credimus, non videmus: pro ista fide praemium erit, videre quod credimus». 76 De ordine, I, 5, 13, 984, p. 95, 24-26: «Nam et ego in philosophia puer sum et non nimis curo, cum interrogo, per quem mihi ille respondeat, qui me quotidie querulum accipit». Il corsivo nella traduzione è mio.
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admonitiones che, sotto forma di regulae universali, Dio ha sparso nel creato. È per questo che il quarto testo composto da Agostino, i Soliloquia, prende le mosse proprio da tale movimento di ricerca che, pur restando unitario, punta a due differenti oggetti. Quasi in continuità con le ultime pagine del De ordine, infatti, i Soliloquia sembrano voler proseguire il rapporto diretto intrattenuto da Agostino con la ratio, protagonista assieme a lui del dialogo e volutamente indefinita nei tratti, così da lasciar intendere che essa sia al contempo la razionalità universale di ogni uomo e anche la specifica ratio di Agostino. È anzi proprio nelle primissime righe del dialogo che Agostino, in un breve inciso, delinea perfettamente le finalità speculative di tale, voluta ambiguità. Nell’indagare con attenzione se stesso (quaerens memetipsum) e ciò che fosse per lui bene o male, Agostino avverte che qualcuno, forse lui stesso o qualcun altro, interno o esterno a lui, comincia a porgli domande. La natura di questa voce – conclude la pericope – se essa fosse cioè interna o esterna, è quanto c’è di più importante da capire. Agostino gioca qui con una domanda dalle infinite implicazioni filosofiche; la voce che lo interroga, e che di lì a breve prenderà le fattezze, nel dialogo, del personaggio-Ratio, è sempre, al contempo, esterna e interna all’uomo; è la voce della sua razionalità, che è del tutto sua, individuale, interna cioè alla sua irripetibile e singolare esperienza psichica e intellettuale, ma è al contempo esterna, perché comune a tutti gli esseri umani, universale e volutamente donata loro da Dio. Ragionare con la ragione (e della ragione), dunque, è sempre e contemporaneamente parlare a se stessi, a tutti gli uomini e a Dio. All’inizio del dialogo, la Ratio invita Agostino a fare il punto su tutto ciò che ha, fino a quel momento, trovato77; elencati i diversi attributi che di Dio si possono enunciare, Agostino ricorda di come Egli, a prescindere da come lo si definisca, è (in quanto a essenza) uno e (in quanto ad azione) perennemente rivolto ad aiutare l’uomo78: A te aspiro e a te chiedo gli strumenti perché io a te aspiri. Se tu infatti abbandoni, c’è la morte, ma tu non abbandoni, perché sei il sommo bene e non c’è nessuno che, avendoti cercato correttamente, non ti abbia trovato. E cerca correttamente («omnis autem recte quaesivit») qualunque uomo tu hai messo nelle 77 Cf. Soliloquia, I, 1, 1, 869, p. 4, 1-2: «Ratio. Deinde quod invenis paucis conclusiunculis breviter collige». 78 Cf. ibid., 1, 4,871, p. 7, 14-15: «Augustinus. Quidquid a me dictum est, unus Deus tu, tu veni mihi in auxilium».
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condizioni di cercare correttamente («quem tu recte quaerere fecisti»)79.
È questo dunque il risultato più rilevante raggiunto da Agostino nella sua ricerca: individuare in Dio un auxilium permanente e necessario, indispensabile non tanto a trovare la verità, ma a cercarla correttamente, a ‘convertirsi’ completamente, cioè a orientare in direzione efficace la ricerca80. Conclusa la preghiera, la Ratio pone dunque ad Agostino una diretta domanda di senso: Agostino. Ecco, ho pregato Dio. Ragione. Dunque, cosa vuoi conoscere (scire)? A. Proprio le cose per le quali ho pregato. R. Riassumile brevemente. A. Desidero conoscere Dio e l’anima R. Niente di più? A. Assolutamente niente R. Allora comincia a cercare (incipe quaerere)81.
Le veloci battute che i due protagonisti si scambiano sono una eccezionale sintesi di tutto quanto Agostino ha sviluppato, come percorso interiore e di ricerca, nei primi dialoghi. La duplex quaestio con la quale si è chiuso il De ordine (intuire Dio approfondendo la propria eruditio) diventa qui l’oggetto stesso della ricerca di Agostino, che solo adesso, come dopo una lunga premessa costituita dai primi tre dialoghi, può davvero iniziare (incipe quaerere)82. Punto d’avvio non può che essere, per Agostino, una riflessione metodologica sulle condizioni di possibilità dello scire cui egli aspira; è cioè necessario determinare preliminarmente se e come sia possibile, una volta acquisita una qualche forma di conoscenza della verità sul l’anima e su Dio, affermare che tale conoscenza è sufficiente83. Avere
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Ibid., 1, 6, 872, p. 10, 11-15: «A. Ad te ambio, et quibus rebus ad te ambiatur, a te rursum peto. Tu enim si deseris, peritur sed non deseris, quia tu es summum bonum, quod nemo recte quaesivit, et minime invenit. Omnis autem recte quaesivit, quem tu recte quaerere fecisti». 80 Cf. ibid., 1, 6, 872, p. 11, 4-6: «A. Oro excellentissimam clementiam tuam, ut me penitus ad te convertas, nihilque mihi repugnare facias tendenti ad te». Cf. D. Doucet, Recherche de Dieu, Incarnation et philosophie: Sol. I, 1, 2-6, in «Revue des études augustiniennes», 36 (1990), pp. 91-119. 81 Soliloquia, I, 2, 7, 872, p. 11, 11-18: «A. Ecce oravi Deum. R. Quid ergo scire vis? A. Haec ipsa omnia quae oravi. R. Breviter ea collige. A. Deum et animam scire cupio. R. Nihilne plus?A. Nihil omnino. R. Ergo incipe quaerere». 82 Cf. O. Velàsquez, La iluminación agustiniana como explicación de los contenidos de la mente: Agustín en Casicíaco, in «Teologìa y vida», 48 (2007), pp. 215-227. 83 Cf. Soliloquia, 2, 7, 872, p. 11, 18-19: «R. Sed prius explica quomodo tibi si demonstretur Deus, possis dicere: Sat est»
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tale criterio è infatti indispensabile per non rischiare il paradosso di dire cose vere senza saperlo, senza avere cioè gli strumenti per ‘accorgersi’ che ciò che si sta dicendo è vero; è infatti questo ciò che è accaduto ai filosofi antichi, su tutti Platone e Plotino, che, anche quando hanno detto cose vere, non hanno avuto consapevolezza di farlo84. Il modello di tale criterio di validazione aletologica è rappresentato, per Agostino (come già apertamente indicato nelle pagine del De ordine), dalle arti liberali; sarà possibile, per l’uomo, dire vero un contenuto su Dio soltanto se tale contenuto potrà essere accolto con lo stesso grado di certezza con il quale si validano le nozioni delle artes. La Ratio sembra così rinnovare la promessa della lettera di apertura del Contra Academicos, illustrandone meglio i termini: Dio è il sole che, irradiando nelle cose delle norme universali che regolano il creato, permette che le facoltà interiori, che sono gli occhi dell’anima, Lo colgano per speculum nella visione razionale data dalle discipline liberali, che altro non sono se non l’insieme umanamente descritto di quelle regole divine85. Ma, prima che la razionalità possa con efficacia proce84
Cf. ibid., 4, 9, 874, p. 15, 1-5: «R. Sed quid ad nos? Nunc illud responde: si ea quae de Deo dixerunt Plato et Plotinus vera sunt, satisne tibi est ita Deum scire, ut illi sciebant? A. Non continuo, si ea quae dixerunt, vera sunt, etiam scisse illos ea necesse est». Sulla stessa linea, Agostino afferma nelle Confessiones che tutta le conoscenze scientifiche di cui potevano vantarsi i Manichei, e che permettevano loro, per esempio, di predire con grande precisione fenomeni astronomici, perdevano senso proprio perché non immesse in un più generale quadro teologico di ossequio a quella veritas che di quelle conoscenze è il senso ultimo; cf. Confessiones, V, 3, 5, 708, p. 59, 47-57: «Et multa vera de creatura dicunt et veritatem, creaturae artificem, non pie quaerunt et ideo non inveniunt, aut si inveniunt, cognoscentes ‘Deum non sicut Deum honorant aut gratias agunt et evanescunt in cogitationibus suis et dicunt se esse sapientes’ (Rm 1, 31-32) sibi tribuendo quae tua sunt, ac per hoc student perversissima caecitate etiam tibi tribuere quae sua sunt, mendacia scilicet in te conferentes, qui veritas es, et immutantes ‘gloriam incorrupti Dei in similitudinem imaginis corruptibilis hominis et volucrum et quadrupedum et serpentium’, et convertunt ‘veritatem tuam in mendacium et’ colunt et serviunt ‘creaturae potius quam Creatori’ (Rm 1, 31-32)». 85 Cf. Soliloquia, 6, 12, 875, pp. 19,18 - 20,4: «Promittit enim ratio quae tecum loquitur, ita se demonstraturam Deum tuae menti, ut oculis sol demonstratur. Nam mentis quasi sui sunt oculi sensus animae; disciplinarum autem quaeque certissima talia sunt, qualia illa quae sole illustrantur, ut videri possint, veluti terra est atque terrena omnia: Deus autem est ipse qui illustrat. Ego autem ratio ita sum in mentibus, ut in oculis est aspectus. Non enim hoc est habere oculos quod aspicere; aut item hoc est aspicere quod videre. Ergo animae tribus quibusdam rebus, opus est ut oculos habeat quibus iam bene uti possit, ut aspiciat, ut videat». Cf. ibid., 8, 15, 877, p. 23, 13 - 24, 8: «Nunc accipe, quantum praesens tempus exposcit, ex illa similitudine sensibilium etiam de Deo aliquid nunc me docente. Intellegibilis nempe Deus est, intellegibilia etiam illa disciplinarum spectamina; tamen plurimum differunt. Nam et terra visibilis, et lux; sed terra, nisi
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dere in questa ricerca, essa deve accettare per fede che esiste l’oggetto cui aspira, sperare di poterlo cogliere e, per questo, desiderarlo caritatevolmente, vale a dire senza altra aspirazione che aspirare ad esso. Nelle pagine iniziali dei Soliloquia, dunque, Agostino ribadisce come il movimento intellettuale dell’uomo, che cerca i principi universali delle cose e, in essi, una immagine opaca del loro fondatore, sia ispirato e quasi mosso dall’azione di Dio stesso, che ne instrada il percorso. Una filosofia cristiana appare così ancora una volta compiutamente descritta nei suoi elementi essenziali, come una via al divino mossa da Dio grazie alle sue infinite sollecitazioni a tale ricerca; dalla speranza dunque e dal desiderio ardente di giungere a una conoscenza stabile dell’oggetto che la notitia Dei lascia solo intravedere e che è primo motore della stessa ricerca che a Lui tende. Nel dare avvio con ansia e desiderio a questo percorso («Sed quid moramur? Aggredienda est via»)86, la Ratio ribadisce ancora una volta ad Agostino la necessità, per l’uomo, di liberarsi dal sensibile («Unum est quod tibi possum praecipere; nihil plus novi. Penitus esse ista sensibilia fugienda»)87 e di coltivare la massima fiducia nell’intervento di Dio che, solo, sa come e quando intervenire nella vita dell’uomo per ‘chiamarlo’ alla ricerca88. Il secondo libro dei Soliloquia prende le mosse da un articolato argomentare sul concetto di verità. Anche in assenza di cose vere, suggerisce la Ratio ad Agostino, la verità esisterebbe; sarebbe infatti vero che esse non esistono, sarebbe cioè vera la frase ‘il vero non esiste più’. Di converso, il falso esiste nella misura in cui a esso si dà assenso89: «se dunque non ci sono soggetti cui appare, nulla è falso»90. Eliminato il sogget-
luce illustrata, videri non potest. Ergo et illa quae in disciplinis traduntur, quae quisquis intellegit, verissima esse nulla dubitatione concedit, credendum est ea non posse intellegi, nisi ab alio quasi suo sole illustrentur. Ergo quomodo in hoc sole tria quaedam licet animadvertere; quod est, quod fulget, quod illuminat: ita in illo secretissimo Deo quem vis intellegere, tria quaedam sunt; quod est, quod intellegitur, et quod caetera facit intellegi. Haec duo, id est, teipsum et Deum, ut intellegas, docere te audeo». 86 Cf. ibid., 9, 16, 877-878, pp. 24-26. 87 Cf. ibid., 14, 24, 882, pp. 36-37. Cf. Enarrationes in Psalmos, V, 5, 84, p. 21, 4-6: «Non est ergo inhaerendum terrenis, si volumus Deum videre, qui mundo corde conspicitur». 88 Cf. Soliloquia, I, 15, 30, 884-885, p. 44, 7-11: «R. Constanter Deo crede, eique te totum committe quantum potes. Noli esse velle quasi proprius et in tua potestate, sed eius clementissimi et utilissimi Domini te servum esse profitere. Ita enim te ad se sublevare non desinet, nihilque tibi evenire. permittet, nisi quod tibi prosit, etiam si nescias». 89 Cf. ibid., II, 2-3, 886-887, pp. 47-51. 90 Ibid., 3, 3, 886, p. 50, 12: «R. Si ergo non sint quibus videatur, nihil est falsum».
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to, i concetti di verità e falsità perdono di senso91. Ora, il soggetto può dire vero qualcosa in un duplice modo. Per un verso, un contenuto può esser detto vero se viene esperito dall’uomo. Una pietra nascosta nelle profondità della terra sicuramente ‘è’ ma non può esser detta ‘vera’ perché nessun soggetto è capace di vederla e, dunque, di dirla esistente92. Per un altro verso, un contenuto può esser detto vero in relazione alla sua natura. In tal caso, è la ragione a operare attraverso gli strumenti a lei propri, vale a dire le discipline liberali, che altro non sono che le definitiones, le divisiones e le ratiocinationes relative a diversi aspetti concettuali della realtà (forma, proporzioni, relazioni, etc.)93. Tali competenze – come Agostino aveva già descritto nel primo libro usando l’immagine del sole e della vista94 – sono come gli occhi attraverso i quali lo sguardo (cioè la ratio) osserva e può giudicare veri gli aspetti della realtà. Considerati dunque i due giudizi di veridicità, quello sensibile e quello concettuale, è possibile affermare, per esempio, che una figura geometrica è vera in un duplice significato, nella misura cioè in cui è ‘vista’ da due diverse tipologie di occhi, quelli ‘fisici’ e quelli ‘intellettuali’; per questo, essa come oggetto sensibile è ‘veramente vista’ dagli occhi ed è ‘veramente pensata’ nelle sue proprietà teoriche per il tramite delle regole della geometria. Ne consegue che, mentre gli occhi fisici che ‘vedono’ l’esistenza degli oggetti ne condividono la sorte transeunte, gli occhi ‘intellettuali’, quelli della ragione, condividono la sorte delle regole eterne che osservano, e dunque sono immortali, perché depositari di quelle disciplinae 95. La capacità stessa di elaborare un giudizio di verità concettuale, che cioè attiene ai tratti formali dell’oggetto che indaga, è dunque per Agostino garanzia della natura immortale dell’anima umana, depositaria di tali strumenti valutativi universali.
91 Cf. ibid., 4, 5, 887, p. 53, 5-8: «R. Si igitur aliquid inde falsum est quod aliter videtur atque est, inde verum quod ita ut est videtur; ablato eo cui videtur, nec falsum quidquam, nec verum est». 92 Cf. ibid., 5, 7, 888, p. 54,20 - 55,8: «R. Non sunt igitur lapides in abditissimo terrae gremio, nec omnino ubi non sunt qui sentiant: nec iste lapis esset, nisi eum videremus; nec lapis erit cum discesserimus, nemoque alius eum praesens videbit. Nec, si loculos bene claudas, quamvis multa in eis incluseris, aliquid habebunt. Nec prorsus ipsum lignum intrinsecus lignum est. Fugit enim omnes sensus quidquid in altitudine est corporis minime perlucentis, quod non esse omnino cogitur. Etenim si esset, verum esset; nec verum quidquam est, nisi quod ita est ut videtur: illud autem non videtur; non est igitur verum nisi quid habes ad haec quod respondeas». 93 Cf. ibid., 11, 20, 894-895, pp. 71-73. 94 Cf. supra, p. 57. 95 Cf. Soliloquia, II, 13, 24, 896-897, pp. 78-79.
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Pur acconsentendo pienamente alle conclusioni della Ratio, Agostino chiude i Soliloquia con un dubbio: se l’anima che usa le disciplinae è immortale perché con esse condivide la natura eterna, quale sarà il destino degli ineruditi che ignorano le disciplinae? Il De immortalitate animae raccoglie gli appunti che Agostino aveva elaborato, tornato a Milano dopo Cassiciaco, per stendere il terzo libro dei Soliloquia, dedicato proprio ad affrontare questo problema. Il testo, che proprio per la sua natura non organica non si presenta in forma di dialogo, permette ad Agostino di approfondire il tema del rapporto tra le operazioni razionali dell’animo e la sua immortalità; egli infatti afferma con chiarezza, in queste pagine, che non è la conoscenza attuale delle regulae a confermare che l’animo è immortale, ma il fatto che esso è capace di trovare (invenire) in se stesso, se ben interrogato, i principi di tali norme. Tutte le ragioni vere delle cose sono presenti nelle profondità dell’animo umano, a prescindere che esse siano state dimenticate o siano, attualmente, ignorate96. Assodatane l’immortalità, Agostino dedicherà il De quantitate animae, composto solo un anno più tardi, a Roma (388), ad affrontare le restanti questioni sulla natura e le funzioni dell’anima. Nel dialogo con Evodio, Agostino specifica come l’anima, creata simile a Dio97, non possieda gli attributi di grandezza ed estensione dei corpi98; essa infatti, pur essendo per certi versi ‘presente’ nel corpo, è capace di pensare e contenere magnae imagines, ben più estese del corpo che la ospita99. L’anima, dunque, priva di connotazioni spaziali, non può crescere geometricamente ma nelle sue potenzialità; essa, con lo studio, amplia infatti soltanto la sua capacità di agire («vis ad agendum)100. Tale vis si concretizza nella ratiocinatio, che si distingue dalla ratio in quanto di questa è l’esercizio: la ratio dunque è sempre presente nell’uomo che, quando la usa (ratiocinatio) 96
Cf. De immortalitate animae, 6, 1024, p. 107, 16-26: «Cum vel nos ipsi nobiscum ratiocinantes, vel ab alio bene interrogati de quibusdam liberalibus artibus ea quae invenimus, non alibi quam in animo nostro invenimus: neque id est invenire, quod facere aut gignere; alioquin aeterna gigneret animus inventione temporali (nam aeterna saepe invenit; quid enim tam aeternum quam circuli ratio, vel si quid aliud in huiuscemodi artibus, nec non fuisse aliquando, nec non fore comprehenditur?): manifestum etiam est, immortalem esse animum humanum, et omnes veras rationes in secretis eius esse, quamvis eas sive ignoratione sive oblivione, aut non habere, aut amisisse videatur». Cf. C. Tournau, Ratio in subiecto? The Sources of Augustine’s Proof for the Immortality of the Soul in the Soliloquia and its Defense in De immortalitate animae, in «Phronesis», 62 (2017), pp. 319-354. 97 Cf. De quantitate animae, 2, 3, 1037, pp. 133-134. 98 Cf. ibid., 3, 4, 1037-1038, pp. 134-136. 99 Cf. ibid., 5, 9, 1040, pp. 141-142. 100 Cf. ibid., 19, 33, 1054, pp. 172-173.
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Il laboratorio filosofico di Agostino: i primi dialoghi
in modo opportuno, ottiene scientia101. L’anima, dunque, che vivifica il corpo, avverte il dato sensibile, lo accoglie nella memoria e, conoscendolo, si purifica dalle sue lusinghe; così, essa riesce a risiedere in se stessa e, tenendo fermo tale cursus rivolto a Dio, potrà arrivare, lasciata la sua vita terrena, alla visione della verità che rende la morte stessa il più desiderabile dei doni102. Nelle pagine composte a Cassiciaco la filosofia, sottratta al pregiudizio ‘pessimista’ degli Accademici, rappresenta dunque l’attività principe dell’uomo che, con l’esercizio della riflessione razionale, pur non raggiungendo mai un possesso della verità ultimativo, consegue due, straordinari risultati: per un verso ritrova nel mondo, come ordinatore e garante delle norme razionali che le disciplinae sono capaci di cogliere, quello stesso Dio che l’ha sollecitato alla ricerca (tramite le Scritture e i suoi richiami) e, per un altro, proprio perché capace di tale intuizione ‘disciplinare’, si scopre dotato di competenze ermeneutiche innate che certificano l’origine divina della sua anima e postulano il suo destino ultramondano.
4. La volontà come ‘perturbante’: il De libero arbitrio/1 (libro I) (388) Dio sarà vicino (aderit), come già sappiamo, a noi che cerchiamo, Dio che ci promette un luogo felicissimo dopo questo corpo e completamente pieno di verità, senza alcuna menzogna103.
L’immagine, che chiude i Soliloquia, rappresenta perfettamente i risultati che Agostino ha faticosamente raggiunto nel percorso di ricerca 101 Cf. ibid., 27, 53, 1065, p. 198,17 - 199, 5: «Paulo ante dixisti, propterea me tibi debere assentiri scientiam nos habere ante rationem, quod cognito aliquo nititur, dum nos ratio ad incognitum ducit: nunc autem invenimus non rationem vocandam esse dum hoc agitur; non enim sana mens agit hoc semper, cum semper habeat rationem; sed recte ista fortasse ratiocinatio nominatur; ut ratio sit quidam mentis aspectus, ratiocinatio autem rationis inquisitio, id est, aspectus illius, per ea quae aspicienda sunt, motio. Quare ista opus est ad quaerendum, illa ad videndum. Itaque cum ille mentis aspectus, quem rationem vocamus, coniectus in rem aliquam, videt illam, scientia nominatur: cum autem non videt mens, quamvis intendat aspectum; inscitia vel ignorantia dicitur». 102 Cf. ibid., 33, 70-76, 1073-1077, pp. 217-225. 103 Soliloquia, II, 20, 36, 904, p. 98, 6-9: «R. Deus aderit, ut iam sentimus, quaerentibus nobis, qui beatissimum quiddam post hoc corpus, et veritatis plenissimum sine ullo mendacio pollicetur».
4. La volontà come ‘perturbante’
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dei primi dialoghi. Nella prima parte è infatti con efficacia espresso il reciproco coimplicarsi del moto misericorde di Dio verso gli uomini e del moto cercante degli uomini verso Dio; nella seconda, viene indicato con chiarezza che l’uomo potrà accedere alla verità solo dopo la conclusione della sua esperienza storica104. Tutta la stagione dei primi dialoghi è percorsa da un profondo ottimismo filosofico, riassunto in queste righe105; Agostino sembra essere cioè profondamente convinto che il movimento di tensione alla trascendenza, cifra della ricerca umana sin dall’epoca della filosofia pagana, possa virtuosamente saldarsi con la speranza (e la fede) nel fatto che Dio non solo esista ma si chini verso la sua creatura, in una dinamica che giungerà a compimento solo post mortem ma che permette all’uomo già in vita di comprendere quale sia il proprio ruolo nel complesso ordine del creato e di dare ragione della collocazione, in esso, di ciascun ente e avvenimento. Ogni ente creato è dunque, per Agostino, collocato da Dio all’interno dell’ordine in virtù della sua natura. Anche l’uomo, in quanto creatura, rientra in tale legge universale e occupa nel mondo il ruolo che Dio gli ha assegnato. La natura dell’uomo però non è ‘statica’ ma dinamica; egli infatti è capace di riflessione razionale e moti volontari. Ciò significa che l’uomo non può essere considerato, alla stregua di qualsiasi altro oggetto inanimato, come un pezzo immobile del grande mosaico del reale; egli, esattamente all’opposto, è l’unica tra le tessere di quella grande struttura ad avere una capacità appercettiva (può cioè pensare alla sua stessa condizione di parte del creato e averne
104
Cf. De diversis quaestionibus octoginta tribus, 35, 2, 24, p. 52, 42-60: «Quae cum ita sint, quid est, aliud beate vivere nisi aeternum aliquid cognoscendo habere? Aeternum est enim, de quo solo recte fiditur, quod amanti auferri non potest; idque ipsum est quod nihil est aliud habere quam nosse. Omnium enim rerum praestantissimum est quod aeternum est; et propterea id habere non possumus nisi ea re qua praestantiores sumus, id est, mente. Quidquid autem mente habetur, noscendo habetur; nullumque bonum perfecte noscitur, quod non perfecte amatur. Neque ut sola mens potest cognoscere, ita et amare sola potest. Namque amor appetitus quidam est; et videmus etiam ceteris animi partibus inesse appetitum, qui si menti rationique consentiat, in tali pace et tranquillitate vacabit menti contemplari quod aeternum est. Ergo etiam ceteris suis partibus amare animus debet hoc tam magnum quod mente noscendum est. Et quoniam id quod amatur, afficiat ex se amantem necesse est; fit ut sic amatum quod aeternum est, aeternitate animum afficiat. Quocirca ea demum vita beata quae aeterna est. Quid vero aeternum est quod aeternitate afficiat animum nisi Deus?». 105 Cf. M. Beltran, San Agustin: La nocividad moral del liberum arbitrium en el homo lapsus, in «Revista agustiniana», 32 (1991), pp. 579-594; N. Cipriani, Il rifiuto del pessimismo porfiriano nei primi scritti di S. Agostino, in «Augustinianum», 37 (1997), pp. 113-146.
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Il laboratorio filosofico di Agostino: i primi dialoghi
autocoscienza) e una libertà di azione. La natura stessa dell’uomo ne denuncia dunque la condizione ancipite: per un verso, inevitabilmente parte dell’ordine perché creatura a tutti gli effetti; per un altro, elemento potenzialmente dirompente di quello stesso ordine perché unico tra gli enti capace di pensarlo e decidere se conformarvisi o meno106. È dunque proprio l’uomo il potenziale ‘perturbante’ della metafisica dell’ordine di Agostino perché ne è al contempo ineludibilmente parte (come creatura) e potenzialmente eversore (in quanto libero); egli può infatti scegliere – unico ente nel creato ad avere tale diritto – come orientarsi e, dunque, almeno potenzialmente, può ‘incrinare’ il piano provvidenziale scegliendo di ‘perdere’ il posto naturalmente assegnatogli in virtù della sua razionalità. Il problema, posto nel De ordine soltanto in forma generale, occupa interamente la riflessione del De libero arbitrio, dialogo la cui composizione venne avviata a Roma – come il De quantitate animae, del quale condivide l’interlocutore, Evodio – ma che si concluse anni dopo a Ippona, e che costituisce una sorta di revisione autocritica che Agostino stesso opera sui fondamenti della sua metafisica dell’ordine107. Quanto più essa si presenta infatti come affermazione della radicale presenza di un ordinamento provvidenziale del mondo, tanto più costringe il pensiero a uno sforzo di collocazione del male, inteso come ciò che, almeno in apparenza, non è (ontologicamente e moralmente) compatibile con l’ordine stesso. O infatti il male morale va ascritto a Dio, rientra cioè nelle cose che Dio vuole e per questo ha un senso nell’ordine o, esattamente all’opposto, il male è da imputare soltanto all’uomo, che ha dunque la possibilità, con le sue azioni, di mettere in crisi il sistema provvidenzialmente ordinato voluto da Dio. La premessa del De libero arbitrio elimina subito dal novero delle possibilità la prima ipotesi: «crediamo che da un solo Dio vengano tutte le cose che sono e tuttavia crediamo che Dio non sia l’autore dei peccati»108. Se dunque il male non deriva da Dio, è necessario attribuirlo all’esercizio della volontà dell’uomo, ed è dunque 106
Cf. De ordine, II, 7, 23, 1005, p. 120, 92-99: «Eodem, inquam, relaberis; illud enim, quod minime vis, inconcussum manet, nam sive apud Deum fuit ordo, sive ex illo tempore esse coepit, ex quo etiam malum, tamen malum illud praeter ordinem natum est. Quod si concedis, fateris aliquid praeter ordinem posse fieri, quod causam tuam debilitat ac detruncat: si autem non concedis, incipit Dei ordine natum malum videri et malorum auctorem Deum fateberis, quo sacrilegio mihi detestabilius nihil occurrit». 107 Cf. supra, p. 59. 108 De libero arbitrio, I, 2, 4, 1224, p. 213, 13-15: «Augustinus. Credimus autem ex uno Deo omnia esse quae sunt; et tamen non esse peccatorum auctorem Deum»
4. La volontà come ‘perturbante’
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indispensabile giungere a una definizione dell’azione malvagia (male facere). Essa si determina come l’esatto opposto della condizione di beatitudo descritta nei primi dialoghi; come lì infatti la felicità vera veniva individuata nel possesso di ciò che, una volta conseguito, non può esser perso dall’uomo, il male viene invece definito come l’amore per cose che l’uomo può perdere suo malgrado109. Immerso in un universo transeunte, l’uomo è costretto a farsi carico di tale mutevolezza; può però scegliere quale strategia usare per limitarne l’incidenza sulla sua esistenza: può dunque decidere di dirigere le sue azioni a ciò che mai muta (e, in ciò, incanalarsi verso ciò che l’ordine chiede all’uomo stesso) oppure può continuare a legarsi agli oggetti mutevoli (cioè compiere il male per difendersi dalla paura di perdere gli apparenti benefici che da esso sembrano derivare). Scegliere la prima strategia equivale, per Agostino, a optare per quella eterna, summa ratio che sovraintende come una legge universale ai comportamenti degli uomini, al di là di ciò che i singoli ordinamenti giuridici determinano nei vari momenti storici e nelle diverse aree geografiche; essa prevede infatti che ai malvagi tocchi in sorte una vita misera e ai boni una beata vita110 perché è proprio tale legge universale – insita, secondo Agostino, negli animi di tutti gli uomini – che stabilisce che è giusto che tutto sia perfettamente e completamente ordinato: Affinché dunque io spieghi, per quanto posso, a parole in modo conciso la nozione di quella eterna legge, che è impressa in noi, essa è quella legge per la quale è giusto che tutte le cose siano massimamente ordinate111.
L’uomo sarà dunque definito giusto in proporzione a quanto saprà indirizzare le proprie azioni a ciò che l’ordine gli richiede, cioè, in altri termini, se saprà volere ciò che la ragione gli indica come miglior scelta da perseguire112; con una efficace connessione tra razionalità e volontà
109
Cf. ibid., 5, 11, 1227, p. 217. Cf. ibid., 6, 15, 1229, p. 220, 46-51: «A. Quid? Illa lex quae summa ratio nominatur, cui semper obtemperandum est, et per quam mali miseram, boni beatam vitam merentur, per quam denique illa quam temporalem vocandam diximus, recte fertur, recteque mutatur, potestne cuipiam intellegenti non incommutabilis aeternaque videri?». 111 ibid., 6, 15, 1229, p. 220, 64-66: A. «Ut igitur breviter aeternae legis notionem, quae impressa nobis est, quantum valeo verbis explicem, ea est qua iustum est ut omnia sint ordinatissima». 112 Cf. ibid., 8, 18, 1231, p. 223, 32-34: «A. Ratio ista ergo, vel mens, vel spiritus cum irrationales animi motus regit, id scilicet dominatur in homine, cui 110
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Il laboratorio filosofico di Agostino: i primi dialoghi
potrà dunque scegliere se conformarsi all’ordine o opporvisi, ribellandosi a ciò che lo farebbe essere pienamente ciò che è. Così come l’esercizio libero della razionalità può condurre l’uomo all’errore (come nel caso dei filosofi pagani e, in special modo, degli Accademici) e va dunque indirizzato correttamente alla ricerca dell’unica verità, che ne colloca l’azione nel più complesso ordito del mondo, così l’esercizio libero della volontà dell’uomo può portare l’uomo all’errore morale e a perdere il senso del suo posto nel creato. La bona voluntas113 è dunque soltanto quella orientata a un comportamento che realizzi ciò che l’ordine chiede all’uomo (unico essere dotato di ragione): superare i desideri della sensibilità e tendere alla sapienza trascendente. È proprio come dici, e sono d’accordo, che tutti i peccati sono contenuti in quest’unico genere, quando cioè qualcuno si allontana dalle cose divine che, sole, restano uguali a se stesse, e si avvicina alle cose mutevoli e incerte. Queste ultime sono state poste in modo retto in un loro ordine, e realizzano una loro certa bellezza; tuttavia sottomettersi a esse per seguirle è proprio di un animo che ha perso la direzione ed è disordinato, mentre per ordine e legge divine è stato stabilito che andassero dominate dalla volontà umana114.
Nelle pagine del De libero arbitrio sembrano dunque già perfettamente definiti i confini del problema del male, del peccato e della libertà umana. In una filosofia cristiana, infatti, essi sono strettamente e necessariamente connessi, come variabili dipendenti, dalla centralità che viene asseganta al governo ordinato del mondo di cui Dio è garante. dominatio lege debetur ea quam aeternam esse comperimus»; ibid., 11, 21, 1233, p. 225, 7-13: «A. Ergo relinquitur ut quoniam regnanti menti compotique virtutis, quidquid par aut praelatum est, non eam facit servam libidinis propter iustitiam; quidquid autem inferius est, non possit hoc facere propter infirmitatem, sicut ea quae inter nos constiterunt docent; nulla res alia mentem cupiditatis comitem faciat, quam propria voluntas et liberum arbitrium». 113 Cf. ibid., 12, 25, 1234, p. 227, 31-36: «E. Quid est bona voluntas? A. Voluntas qua appetimus recte honesteque vivere, et ad summam sapientiam pervenire. Modo tu vide utrum rectam honestamque non appetas vitam, aut esse sapiens non vehementer velis, aut certe negare audeas, cum haec volumus, nos habere voluntatem bonam». 114 Ibid., 16, 35, 1240, p. 235, 23-29: «E. Est ita ut dicis, et assentior, omnia peccata hoc uno genere contineri, cum quisque avertitur a divinis vereque manentibus, et ad mutabilia atque incerta convertitur. Quae quamquam in ordine suo recte locata sint, et suam quamdam pulchritudinem peragant; perversi tamen animi est et inordinati, eis sequendis subici, quibus ad nutum suum ducendis potius divino ordine ac iure praelatus est».
4. La volontà come ‘perturbante’
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Come gnoseologicamente l’uomo conduce una ricerca alteologicamente efficace quando tenta di cogliere l’ordine provvidenziale che Dio ha dato al mondo, così moralmente l’uomo vive in modo degno quando la sua volontà è orientata a ciò che la provvidenza ha stabilito per il creato. In entrambi i segmenti, vale a dire la libertà di pensiero e d’azione che Dio ha concesso, l’uomo utilizza il suo talento più significativo ma anche, al contempo, il più pericoloso. Mentre infatti ogni altra creatura è passivamente assoggetata al piano provvidenziale divino e dunque non può vantare alcun margine di libertà115 (ma, per lo stesso motivo, non è nemmeno mai imputabile di errore), l’uomo, al quale è stato da Dio concesso di muoversi liberamente all’interno dell’ordine e decidere se realizzare o meno ciò che la provvidenza ha per lui stabilito, trova proprio in questo spazio di libertà il luogo della sua azione più nobilitante ma anche, sempre, il territorio pericoloso e incerto nel quale poter cadere in errore e perdersi. È dunque angosciata e fondativa la domanda che chiude, in tal senso, il primo libro del De libero arbitrio: «Mi chiedo se sia stato opportuno che chi ci ha creato ci abbia dotato di quel libero arbitrio con il quale, come abbiamo concluso, abbiamo ricevuto la facoltà di peccare»116.
115 Agostino affermerà con chiarezza, nel De Genesi ad litteram, che la voluntas Dei è necessitas rerum; cf. De Genesi ad litteram, VI, 15, 26, 349, pp. 189,20 - 190,116: «Verumtamen sic factus est homo, quemadmodum illae primae causae habebant ut fieret primus homo, quem non ex parentibus nasci, qui nulli praecesserant, sed de limo formari oportebat, secundum causalem rationem, in qua primitus factus erat. Nam si aliter factus est, non eum Deus in illorum sex dierum operibus fecerat: in quibus cum dicitur factus, ipsam causam utique fecerat Deus, qua erat suo tempore homo futurus, et secundum quam fuerat ab illo faciendus, qui simul et consummaverat inchoata propter perfectionem causalium rationum, et inchoaverat consummanda propter ordinem temporum. Si ergo in illis primis rerum causis, quas mundo primitus Creator inseruit, non tantum posuit quod de limo formaturus erat hominem, sed etiam quemadmodum formaturus, utrum sicut in matris utero, an in forma iuvenali; procul dubio sic fecit, ut illic praefixerat; neque enim contra dispositionem suam faceret: si autem vim tantum ibi posuit possibilitatis, ut homo fieret quoquo modo fieret, ut et sic et sic posset, id est ut id quoque ibi esset, quia et sic et sic posset; unum autem ipsum modum quo erat facturus in sua voluntate servavit, non mundi constitutioni contexuit: manifestum est etiam sic non factum esse hominem contra quam erat in illa prima conditione causarum; quia ibi erat etiam sic fieri posse, quamvis non ibi erat ita fieri necesse esse: hoc enim non erat in conditione creaturae, sed in placito Creatoris, cuius voluntas rerum est necessitas». 116 De libero arbitrio, I, 16, 35, 1240, p. 235, 34-36: «E. Quaero utrum ipsum liberum arbitrium, quo peccandi facultatem habere convincimur, oportuerit nobis dari ab eo qui nos fecit». Sugli sviluppi, in Agostino, della riflessione sui reali margini di movimento di questa libertà della volontà, cf. infra, p. 139.
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Il laboratorio filosofico di Agostino: i primi dialoghi
Agostino compose il secondo e il terzo libro del De libero arbitrio diversi anni dopo, in Africa, attorno al 395. Il primo libro dell’opera chiude così la sua esperienza ‘italiana’ ma, soprattutto, costituisce uno spartiacque decisivo nella elaborazione del suo sistema. La metafisica dell’ordine, costruita con lenta metodicità nei primi dialoghi, viene infatti messa profondamente in questione dal problema della ‘collocazione’ gnoseologica e morale dell’uomo che, nella dinamicità della sua identità, rischia di contraddire proprio con la sua ricerca dell’ordine la tenuta di quest’ultimo rispetto all’intrusione di qualsivoglia elemento di disturbo. Non è dunque un caso se, proprio a partire dagli anni nei quali compone l’ultima parte del De libero arbitrio, i temi della volontà, della libertà e della grazia diventeranno centrali (soprattutto, come vedremo, nello scontro con i Manichei) nella riflessione di Agostino, impegnato, anche in contesti più complessi, a riflettere sulla relazione tra arbitrio umano e piano provvidenziale divino.
CAPITOLO 2
TRA FILOSOFIA E TEO-LOGIA
1. Il linguaggio come ‘luogo’ della filosofia: il De magistro (389-390) La spietatezza con la quale il De libero arbitrio mette a nudo tutti i potenziali rischi della metafisica dell’ordine mostra quanta fiducia nutrisse Agostino nella possibilità che l’analisi filosofica condotta nel ricercare condiviso e dialogico potesse efficacemente guidare l’uomo anche nell’affrontare temi così complessi e, per certi versi, speculativamente rischiosi. Il dialogo filosofico resta dunque, per Agostino, il luogo d’elezione nel quale gestire e affrontare anche dottrine delicate e restituire, al lettore, tutta la dinamica problematicità delle questioni poste e delle soluzioni proposte. Nell’ultimo dei dialoghi da lui composti, il De magistro, elaborato al suo ritorno in Africa, Agostino si dedica a tirare le somme proprio sull’utilizzo di questo strumento espressivo e speculativo così complesso; pur dedicato allo specifico tema della riflessione linguistica, infatti, il De magistro si rivela, a una lettura più attenta e complessiva, come un vero e proprio metadialogo, nel quale il confronto dialogico è, come nei testi precedenti, strumento espressivo ma anche e al contempo oggetto di riflessione. Parlare è sempre, per Agostino, un gesto ‘sociale’, tanto in relazione al modo in cui viene appreso il linguaggio quanto a quello in cui esso viene utilizzato. Sin da piccoli si impara infatti a comunicare non in virtù di insegnamenti impartiti in modo astratto e teorico ma, semplicemente, imitando il comportamento linguistico dell’ambiente circostante e proprio con il fine di relazionarsi a tale contesto, condividere cioè con esso i propri pensieri1. Usare un linguaggio per comu-
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Nel discutere della grandezza dell’anima nelle pagine del De quantitate animae, Agostino propone a Evodio un esempio. Se due genitori sordomuti generassero un figlio capace di ascoltare e parlare ma lo allevassero in un deserto senza
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Tra filosofia e teo-logia
nicare significa infatti, per Agostino, scegliere di portare all’esterno ciò che, senza tale intermediario, resterebbe confinato nel segreto dell’intimità, laddove nessuno può arrivare2. Tale esercizio linguistico di ‘esposizione’ dei propri pensieri è tanto naturale per l’uomo quanto complesso. Esso si basa su una funzione semiotica elementare, quella della significazione. È segno (signum), per Agostino, tutto quello che può stare al posto di qualcosa, sia intenzionalmente (come nel caso del rapporto tra il pensiero e le parole3) che non intenzionalmente (come nel caso del rapporto tra un incendio e il fumo4). Ciò significa, tanto banalmente quanto significativamente, che i signa non sono le cose che indicano ma rappresentano l’intermediario che permette a chi li ascolta (o più in generale li coglie) di comprendere a quale cosa stia pensando chi li ha prodotti. Nel De magistro 5, dialogo nel quale Agostino si confronta con il figlio Adeodato, l’attenzione si concentra in modo specifico su una particolare tipologia di signa, vale a dire le parole (verba). Esse, in quanto segni, rientrano nella definizione precedente e, dunque, ‘stanno per’ qualcosa (res); sarà dunque sempre possibile, una volta ascoltate o lette delle parole, chiedere di quale res esse siano segni. Per definire dunque cosa ‘significa ‘ (cioè di cosa è segno) un segno, è necessario che ci siano tre elementi: (1) il segno, nessun altro essere umano nei dintorni, il figlio, pur non sordomuto, si esprimerebbe comunque e soltanto a gesti, non avendo nessuno da cui imparare le parole. Cf. De quantitate animae, 18, 31, 1052-1053, pp. 167-169. Cf. E. Caldwell, The loquaces muti and the Verbum infans: Paradox and Language in the Confessions of St. Augustine, in Augustine: Second Founder of the Faith, ed. by J. C. Schnaubelt - F. Van Fleteren, New York - Bern - Frankfurt am Main - Paris 1990, pp. 101 111; C. Ando, Augustine on language, in «Revue des Études augustiniennes», 40 (1994), pp. 45-78. 2 Cf. Confessiones, I, 6, 8, 664, p. 4 ; ibid., 8, 13, 666-667, pp. 7-8; ibid., X, 3, 4, 78, pp. 156-157, 31-34: «Volunt ergo audire confitente me, quid ipse intus sim, quo nec oculum nec aurem nec mentem possunt intendere; credituri tamen volunt, numquid cognituri?». 3 Agostino nelle Retractationes racconta di aver ideato il progetto di opere sulle artes (Retractationes, I, 5, 6, 591, pp. 27-28, 6-7); tra queste, figura un testo sulla dialectica che B. D. Jackson e J. Pinborg identificano con l’opuscolo De dialectica o Principia dialecticae, attribuito tradizionalmente ad Agostino; cf. De dialectica, 5, 1410, p. 120: «Verbum est uniuscuiusque rei signum, quod ab audiente possit intellegi, a loquente prolatum. Res est quidquid vel sentitur vel intelligitur vel latet. Signum est quod et se ipsum sensui et praeter se aliquid animo ostendit. Loqui est articulata voce signum dare. Articulatam autem dico quae comprehendi litteris potest». 4 Cf. De quantitate animae, 24, 45, 1060-1061, pp. 186-188. 5 Per una analisi completa del testo, cf. A. Bisogno, Il quaerere ed il loqui, in Id., Il De magistro di Agostino. Introduzione, testo, traduzione e commento, Roma 2014 (Traditiones, 1), pp. 70-85.
1. Il linguaggio come ‘luogo’ della filosofia
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(2) la cosa cui tale segno punta e (3) un ulteriore segno che permetta a chi parla di indicare la connessione tra il segno pronunciato e la res. Pronunciare la parola (1) ‘sedia’ non produce infatti immediatamente, in un interlocutore che non ne conosce il significato, la consapevolezza di quale sia (2) la res cui ci si riferisce; è necessario, in questo caso, mentre si pronuncia (1) la parola, utilizzare un altro segno, per esempio (3) indicare con un dito, l’oggetto-sedia. Identico procedimento va applicato anche quando la parola che si pronuncia fa riferimento a una res immateriale o astratta. È questo il caso della congiunzione ‘se’ (si) o del pronome indefinito ‘niente’ (nihil) (termini che Agostino trae da un verso virgiliano e che sottopone ad Adeodato affinché questi li analizzi)6. Le res cui entrambi i signa puntano non esistono nella realtà ma soltanto nell’animo di chi le pronuncia; indicano infatti rispettivamente una condizione di dubbio che conduce a formulare una ipotesi e la consapevolezza della assenza di qualcosa. Ciò significa che, per spiegare per esempio a cosa faccia riferimento (1) la parola (e il signum) ‘nihil’, c’è bisogno di una serie di altri segni, cioè delle parole (3) ‘consapevolezza della assenza di qualcosa’, che stanno alla sensazione interiore di consapevolezza di qualcosa come, nell’esempio precedente, il dito puntato stava alla sedia7; permettono cioè che venga fissata la connessione tra il signum e la res cui esso fa riferimento. L’operazione con la quale, espresso un segno, si indica a cosa faccia riferimento (o mostrando l’oggetto relativo o usando altre parole per spiegarlo) è essenziale affinché il linguaggio possa essere funzionale alla comunicazione. Agostino lo illustra ad Adeodato con una precisa domanda: «dic mihi utrum homo homo sit»8. La struttura stessa della lingua latina fa sì che l’interrogativo, di per sè paradossale (‘dimmi se l’uomo è uomo’), risulti anche profondamente ambiguo nella sua formulazione originaria. Se infatti si intende la prima occorrenza di homo come ‘la parola uomo’ e la seconda come ‘essere umano’, la frase risulterà ‘dimmi se la parola uomo sia un essere umano’. La consuetudine comunicativa umana, prosegue Agostino, fa pensare a chiunque legga quella frase in latino che il termine homo faccia riferimento all’uomo comunemente inteso, e non al termine ‘homo’, pur non essendoci, nella frase, nessuna indicazione, nessun dito puntato che possa sciogliere questa potenziale ambiguità. Ciò significa che i signa non hanno
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Cf. De magistro, 2, 3, 1196, pp. 159-160. Cf. ibid., 4, 7, 1198-1199, pp. 164-165. Cf. L. Bescond, Signe et symbole chez saint Augustin, in «Graphè», 5 (1996), p. 11-21. 8 Cf. De magistro, 8, 22, 1207, pp. 180-181. 7
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Tra filosofia e teo-logia
valore per se stessi (e sono dunque potenzialmente molto ambigui se lasciati ‘da soli’) ma soltanto nella misura in cui vengono correttamente correlati alla res cui puntano, sia che tale correlazione la illustri chi parla (indicando, per esempio, la sedia nel pronunciare la parola ‘sedia’) sia che essa venga affidata all’interpretazione di chi ascolta (come nel caso delle due diverse occorrenze del termine homo). Mentre dunque comunemente si pensa che parlare significhi usare segni che illustrano le cose che ha in mente chi parla, il meccanismo è in realtà per Agostino esattamente inverso: senza una conoscenza preliminare delle cose cui essi si riferiscono, i segni (‘sedia’, ‘se’, ‘niente’, ‘uomo’) restano o muti o irrimedibilmente ambigui9. Parlare appare così, ad Agostino, non il mezzo più efficace per dare spiegazioni ma, esattamente al contrario, quello che maggiormente produce fraintendimenti. Se infatti si volesse mostrare a qualcuno cosa è l’arte del cacciare (è l’esempio addotto da Agostino), sarebbe già sufficientemente efficace l’azione di chi, senza dire niente, cominciasse materialmente a compiere le operazioni relative a quella attività (preparare le armi e le trappole, appostarsi, etc.). Se invece, in una delle fasi del suo agire, costui dicesse ‘questo è cacciare’, sarebbe poi costretto a fornire sempre maggiori dettagli e informazioni per giustificare la sua affermazione10. Il verbo ‘cacciare’, infatti, non significa niente se, mentre lo si pronuncia, non si indica se stessi nell’atto della caccia o gli strumenti utilizzati o, in qualche modo, le diverse azioni. In più, ‘cacciare’ non si identifica con una delle singole operazioni che si compiono quando si caccia ma con il loro insieme; è per questo erroneo indicarne una ma sarebbe necessario indicarle tutte nel loro reciproco coordinamento. Le parole, dunque, da sole, non dicono niente; se infatti, esemplifica Agostino, si leggesse il brano del profeta Daniele nel quale si parla di sarabarae e nessuno fornisse spiegazioni o mostrasse oggetti, a pochi sarebbe noto cosa quel termine desueto indichi. Sarà dunque necessario, per rendere intellegibile quei versetti, o mostrare i copricapi che vengono chiamati sarabarae o affermare ‘le sarabare sono dei copricapo’, dando per scontato, tra l’altro, che chi ascolta sappia cosa sia il capo, il coprire e quale tipo di oggetto viene indicato dall’unione di questi due termini11. Ascoltare un signum, dunque, non mostra di per sé la cosa di cui esso è signum: chi lo ascolta sa già di quale res quel signum è signum
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Cf. ibid., 9, 28, 1211-1212, pp. 188-189. Cf. ibid., 10, 32, 1213-1214, pp. 190-192. 11 Cf. ibid., 10, 33, 1214, p. 192. Cf. Dn 1, 94. 10
1. Il linguaggio come ‘luogo’ della filosofia
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ed esso riporterà alla memoria la res di riferimento; se invece costui ignora quella relazione semiotica, il signum non porà in alcun modo mostrargliela ma avrà solo il compito di indicargli una lacuna12. Sentire infatti un signum del quale non si conosce la res produce in chi lo ascolta (e se ne scopre ignorante) il desiderio, la necessità di conoscerla per dare un senso a quel segno; quando dunque si ignora a quale res essi fanno riferimento, i verba servono «soltanto perché esortano a cercare le cose (ut quaeramus res)» cui si riferiscono13. Comprendere il significato di una parola significa, al fine, o attingere al bagaglio della propria memoria e lì ritrovare quella connessione, stabilita (cioè ‘indicata con il dito’) in qualche occasione, tra la parola e la res cui essa fa riferimento14 o cominciare a indagare di cosa sia signum quel signum. Per questo, non esistono signa che possano efficacemente mostrare le verità spirituali, che non possono essere indicate con il dito da nessuno; quando le parole che tentano di illustrarle vengono pronunciate, le comprende solo chi ne possiede già, nell’interiorità, la res, il significato, perché egli, grazie alla verità che abita in ogni uomo, può giudicarne la veridicità. Nulla dunque di spirituale può veramente essere appreso da un maestro esterno, che può avere la sola funzione di sollecitare (admonere) con le sue parole chi lo ascolta15. Le conclusioni cui l’argomentazione agostiniana giunge mostrano la natura ‘metadialogica’ del suo De magistro. Il linguaggio è lo specchio fedele della struttura gnoseologica umana; poiché questa, come più volte affermato nei primi dialoghi, è fragile e incerta, lo sarà anche il suo strumento espressivo principale. La costruzione di un orizzonte di segni articolati e intenzionati se per un verso rappresenta, dunque, la miglior testimonianza di quanto ricca ed elaborata possa essere la ri12
Cf. Epistulae ad Romanos inchoata expositio, 14, 2097-2098, pp. 163-164. Cf. De magistro, 11, 36, 1215, p. 194. 14 Cf. ibid., 12, 39, 1216-1217, pp. 196-197. 15 Cf. ibid., 14, 45, 1219-1220, p. 202, 1-16: «Num hoc magistri profitentur, ut cogitata eorum, ac non ipsae disciplinae quas loquendo se tradere putant, percipiantur atque teneantur? Nam quis tam stulte curiosus est, qui filium suum mittat in scholam, ut quid magister cogitet discat? At istas omnes disciplinas quas se docere profitentur, ipsiusque virtutis atque sapientiae, cum verbis explicaverint; tum illi qui discipuli vocantur, utrum vera dicta sint, apud semetipsos considerant, interiorem scilicet illam veritatem pro viribus intuentes. Tunc ergo discunt: et cum vera dicta esse intus invenerint, laudant, nescientes non se doctores potius laudare quam doctos; si tamen et illi quod loquuntur sciunt. Falluntur autem homines, ut eos qui non sunt magistros vocent, quia plerumque inter tempus locutionis et tempus cognitionis, nulla mora interponitur; et quoniam post admonitionem sermocinantis cito intus discunt, foris se ab eo qui admonuit, didicisse arbitrantur». 13
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flessione umana, e di quanto essa trovi nella condivisione sociale e dialogica la sua massima espressione, è al contempo specchio fedele delle sue difficoltà a muoversi in autonomia rispetto alle verità intellegibili; esse, infatti, non possono essere trasmesse da nessun insegnamento umano, esterno, segnico, ma soltanto accolte, riconosciute dall’uomo, sollecitato dai verba e dai signa – spesso inviati da Dio stesso – che incontra nella sua esperienza di ricerca16. Per questo, il dialogo rappresenta per Agostino la forma elettiva della vita filosofica; esso è il luogo in cui, proprio partendo dall’acquisita consapevolezza della inaffidabilità semiotica di ogni parola, gli uomini esercitano reciproca tolleranza nei confronti della comune e inevitabile fragilità espressiva, cercando, in un gioco di compensazioni e accompagnamenti reciproci, di condividere conclusioni che, proprio perché ciascuno sa aletologicamente 16 Nella sua esperienza biografica, Agostino ritrova non di rado queste ‘parole esortative’. Il caso forse più significativo è quello del primo incontro a Milano con Ambrogio; le sue parole, ricche di eleganza, poco per volta instillano nell’animo di Agostino l’idea che le dottrine cristiane siano accettabili e difendibili; cf. Confessiones, V, 14, 24, 718, p. 71, 26-12: «Cum enim non satagerem discere quae dicebat, sed tantum quemadmodum dicebat audire (ea mihi quippe iam desperanti ad te viam patere homini inanis cura remanserat) veniebant in animum meum simul cum verbis, quae diligebam, res etiam, quas neglegebam. Neque enim ea dirimere poteram. Et dum cor aperirem ad excipiendum, quam diserte diceret, pariter intrabat et quam vere diceret, gradatim quidem. Nam primo etiam ipsa defendi posse mihi iam coeperunt videri et fidem catholicam, pro qua nihil posse dici adversus oppugnantes Manichaeos putaveram, iam non impudenter asseri existimabam, maxime audito uno atque altero et saepius aenigmate soluto de scriptis veteribus, ubi, cum ad litteram acciperem, occidebar»; In Iohannis epistulam ad Parthos, III, 13, 2004: «Magisteria forinsecus, adiutoria quaedam sunt, et admonitiones. Cathedram in coelo habet qui corda docet. Propterea ait et ipse in Evangelio: ‘Nolite vobis dicere magistrum in terra: unus est magister vester Christus’ (Mt 23, 8-10). Ipse vobis ergo intus loquatur, quando nemo hominum illic est; quia etsi aliquis est a latere tuo, nullus est in corde tuo. Et non sit nullus in corde tuo: Christus sit in corde tuo; unctio ipsius sit in corde, ne sit in solitudine cor sitiens, et non habens fontes quibus irrigetur. Interior ergo magister est qui docet, Christus docet, inspiratio ipsius docet. Ubi illius inspiratio et unctio illius non est, forinsecus inaniter perstrepunt verba»; De Trinitate, IX, 7, 12, 967, pp. 301-302, 1-14: «In illa igitur aeterna veritate, ex qua temporalia facta sunt omnia, formam secundum quam sumus, et secundum quam vel in nobis vel in corporibus vera et recta ratione aliquid operamur, visu mentis aspicimus; atque inde conceptam rerum veracem notitiam, tamquam verbum apud nos habemus, et dicendo intus gignimus; nec a nobis nascendo discedit. Cum autem ad alios loquimur, verbo intus manenti ministerium vocis adhibemus, aut alicuius signi corporalis, ut per quandam commemorationem sensibilem tale aliquid fiat etiam in animo audientis, quale de loquentis animo non recedit. Nihil itaque agimus per membra corporis in factis dictisque nostris, quibus vel approbantur vel improbantur mores hominum, quod non verbo apud nos intus edito praevenimus. Nemo enim aliquid volens facit, quod non in corde suo prius dixerit».
2. Dire veramente Dio
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precarie e linguisticamente fraintendibili, devono trovare la propria base di utilizzabilità nel comune percorso che le ha prodotte. Dialogare è dunque per Agostino l’unica modalità che una comunità di esseri imperfetti come gli uomini ha per condividere la propria limitatezza e trasformarla, da tara individuale, in sforzo speculativo corale che trova il suo valore non tanto nei pochi risultati aletologicamente fondati che raggiungerà ma nella stessa dimensione orizzontale di tale esercizio.
2. Dire veramente Dio: il De vera religione (390) Se il procedere dialogico della speculazione filosofica è l’unico esercizio pienamente degno della razionalità, esso però non appare mai ad Agostino efficace se non si accompagna a una prospettiva saldamente religiosa. Per questo, egli avverte la necessità di determinare in modo definitivo i rapporti tra speculazione filosofica e credo religioso, aprendo un confronto diretto con la tradizione del pensiero greco. Punto di partenza assunto da Agostino per rapportarsi, nel De vera religione (composto quasi contemporaneamente al De magistro), con la filosofia pagana è la definzione di ciò che è religione. Essa può dirsi veramente tale quando realizza il fine ultimo di una religio, vale a dire – nell’etimologia offerta da Agostino – di ciò che è finalizzato a re-ligare, a riunire l’uomo a una perduta dimensione di trascendenza17. Ora, questo ricongiungimento è impossibile se non si ha conoscenza di come è fatta la trascendenza stessa perché mancherebbe all’uomo qualsivoglia cognizione della mèta cui ritornare. Lo dimostrano – e qui Agostino apre il confronto con la tradizione pagana – le biografie dei grandi filosofi del passato. Essi infatti partecipavano alla dimensione pubblica, civile dei culti, professandosi dunque almeno esteriomente conformi all’universo religioso della polis, per poi riservarsi invece il diritto di ragionare in termini diversi sulla trascendenza privatamente, con i loro discepoli e nelle loro scuole18. Ciò significa, chiosa Agostino,
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Cf. N. Gasbarro, La religio di Agostino: per una lettura storico-comparativa del De vera religione, in «Studi e Materiali di Storia delle Religioni», 15 (1991), pp. 43-129. 18 Cf. De vera religione, 1, 1, 123, p. 187, 1-17: «Cum omnis vitae bonae ac beatae via in vera religione sit constituta, qua unus Deus colitur, et purgatissima pietate cognoscitur principium naturarum omnium, a quo universitas et inchoatur et perficitur et continetur: hinc evidentius error deprehenditur eorum populorum, qui multos deos colere, quam unum verum Deum et Dominum omnium maluerunt, quod eorum sapientes, quos philosophos vocant, scholas habebant
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che essi stessi hanno implicitamente descritto come falsa la loro scelta religiosa; il loro desiderio re-ligioso, di riconnessione cioè con la trascendenza, proprio perché non trovava luogo nella falsa religio pagana, li spingeva a costruire, nelle loro scuole, una descrizione di tale dimensione che fosse alternativa a quella della religione ufficiale. In ciò, conclude Agostino, il solo Cristianesimo si presenta come religione ‘vera’ perché si fonda non su una tensione dell’uomo a un ipotetico e teorico altrove, ma sulla fede in un Dio che ha parlato agli uomini per spronarli a tale ritorno e che permette loro di non scindere devozione religiosa ed esercizio filosofico19. L’ingresso di Dio nella storia, prima con le parole ispirate delle Scritture e poi con l’Incarnazione, rende dunque la religione cristiana la sola capace di indicare un percorso re-ligioso che sia garantito, nella sua affidabilità, dallo stesso Dio cui esso tende. Il punto di caduta della lunga riflessione aletologica agostiniana è dunque una strenua difesa del valore veritativo della filosofia cristiana. Superate le coniecturae dei filosofi, necessariamente timidae perché appunto prive di qualsivoglia supporto compiutamente aletico20, Agostino difende qui la piena compiutezza del suo sistema, di un Cristianesimo cioè che è vera re-ligio e al contempo vera philosophia perché è basato sul movimento con cui Dio fornisce all’uomo
dissentientes et templa communia. Non enim vel populos vel sacerdotes latebat, de ipsorum deorum natura quam diversa sentirent, cum suam quisque opinionem publice profiteri non formidaret, atque omnibus, si posset, persuadere moliretur; omnes tamen cum sectatoribus suis diversa et adversa sentientibus, ad sacra communia nullo prohibente veniebant. Non nunc agitur, quis eorum verius senserit; sed certe illud satis, quantum mihi videtur, apparet, aliud eos in religione suscepisse cum populo, et aliud eodem ipso populo audiente defendisse privatim». Sulla circostanza per cui le istituzioni pagane accettavano che nelle scuole filosofiche si discutessero anche dottrine potenzialmente false e contrarie alla religione ufficiale, cf. De civitate Dei, XVIII, 41, 600-602, pp. 635-638. 19 Cf. De vera religione, 3, 4, 124-125, p. 190, 37-56: «Quae si facta sunt, si litteris monumentisque celebrantur, si ab una regione terrarum, in qua sola unus colebatur Deus, et ubi talem nasci oportebat, per totum orbem terrarum missi electi viri, virtutibus atque sermonibus divini amoris incendia concitarunt; si confirmata saluberrima disciplina, illuminatas terras posteris reliquerunt; et, ne de praeteritis loquar, quae licet cuique non credere, si hodie per gentes populosque praedicatur: ‘In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum: hoc erat in principio apud Deum. Omnia per ipsum facta sunt, et sine ipso factum est nihil’ (Gv 1, 1-3)». Cf. M. Camisasca, Verso la vera felicità: auctoritas et ratio nel De vera religione di S. Agostino, Roma 1988. 20 Cf. De vera religione, 4, 7, 126, p. 192, 20-24: «Ita si hanc vitam illi viri nobiscum rursum agere potuissent, viderent profecto cuius auctoritate facilius consuleretur hominibus, et paucis mutatis verbis atque sententiis christiani fierent, sicut plerique recentiorum nostrorumque temporum Platonici fecerunt».
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‘informazioni’ che li orientano in una efficacemente salvifica ricerca di senso: «così infatti si crede si insegna, il che è principio dell’umana salvezza, e cioè che non sono cose diverse la filosofia, cioè la ricerca della sapienza, e la religione», in special modo nella sua dimensione ecclesiologica e comunitaria21. Principio dunque della vera religio è per un verso il movimento di autorivelazione del Dio atemporale nel tempo (attraverso historia e profetia che rappresentano il dispiegarsi della provvidenza divina22 perché viaggiano come emissarie divine nella temporalis dispensatio) e, per un altro, la possibilità, così offerta all’uomo, di ‘ri-legarsi’ al divino. Tutto il guadagno filosofico dei primi dialoghi viene qui al fine riversato, da Agostino, nella descrizione di un unico movimento, che è al contempo religioso e speculativo, spirituale e razionale, metastorico e individuale e nel quale hanno un ruolo ben definito tanto le sollecitazioni scritturali quanto i percorsi filosofici. Gli uomini che, in ogni epoca, seguono le leges divinae providentiae 23 (e cioè profeti e patriarchi nell’epoca dell’Antico Testamento, sapientes in quella del Nuovo) guidano il resto della comunità24 perché, ispirati, danno agli altri fiducia nella veridicità della fede comune. Proprio a partire dalle ‘garanzie’ che può ottenere dalle auctoritates ispirate da Dio, il credente trova aperta la strada della risalita dagli effetti alla causa, attraverso lo studio delle strutture ricorsive del mondo, volute e governate da Dio, in un percorso che è fondato dalla notitia rivelata e che a sua volta la fonda, perché trova nell’esistenza del piano provvidenziale con cui è retto il mondo conferma della veridicità del dato scritturale. Il succedersi del giorno e della notte, il ciclo mensile della luna, la capacità della natura di rigenerarsi: ogni elemento ordinato del creato è per l’uomo occasione di uno studio che non sia semplice curiositas 21
Ibid., 5, 8, 126, p. 193, 12-13 : «Sic enim creditur et docetur, quod est humanae salutis caput, non aliam esse philosophiam, id est sapientiae studium, et aliam religionem»; ibid., 7, 12, 128, p. 196, 6-19: «Repudiatis igitur omnibus qui neque in sacris philosophantur, nec in philosophia consecrantur; et iis qui vel prava opinione, vel aliqua simultate superbientes, a regula et communione Ecclesiae catholicae deviarunt; et iis qui sanctarum Scripturarum lumen, et spiritalis populi gratiam, quod Novum Testamentum vocatur, habere noluerunt, quos quanta potui brevitate perstrinxi. Tenenda est nobis christiana religio et eius ecclesiae communicatio, quae catholica est et catholica nominatur, non solum a suis, sed cum extraneis loquuntur, catholicam nihil aliud quam catholicam vocant». 22 Cf. ibid., 7, 13, 129, p. 196, 20-23: «Huius religionis sectandae caput est historia et prophetia dispensationis temporalis divinae providentiae, pro salute generis humani in aeternam vitam reformandi atque reparandi». 23 Cf. ibid., 26, 48, 143, pp. 217-218. 24 Cf. ibid., 28, 51, 144-145, pp. 220-221.
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ma che disegni una vera e propria scala verso le cose immortali (gradus ad immortalia)25. Mentre infatti la ratio umana è mutevole, perché può conoscere più o meno le cose, la lex che essa ritrova costantemente nelle proprozioni, nelle misurazioni, nelle evoluzioni delle cose è eterna e non muta mai: Poiché questa legge di tutte le discipline (artes) è assolutamente incommutabile mentre la mente umana, alla quale è concesso osservare tale legge, può subire la mutabilità dell’errore, sembra evidente che sopra la nostra mente vi sia una legge, che è detta verità26.
Seguire le Scritture e indagare la natura appaiono così, con chiarezza, i due segmenti dell’iter che l’uomo deve percorrere per fare ciò che una vera religio richiede si faccia: ritornare a Dio, garante tanto della parola ispirata quanto della verità che, superiore alle cose, le governa27. Il movimento re-ligioso, infatti, altro non è che quella tensione che, esercitandosi a rintracciare ordine e simmetria nelle cose, aspira all’unità (unum certe quaerimus)28, all’unico, unitario, trascendente criterio ordinativo del reale29. Religet ergo nos religio uni omnipotenti Deo: la religione deve ‘ri-legare’ al Dio-Verità che, in quanto tale, è forma di tutte le cose, che dall’uno sono fatte e all’uno tendono30. 25
Cf. ibid., 29, 52, 145, p. 221, 1-12: «Et quoniam de auctoritatis beneficentia, quantum in praesentia satis visum est, locuti sumus; videamus quatenus ratio possit progredi a visibilibus ad invisibilia, et a temporalibus ad aeterna conscendens. Non enim frustra et inaniter intueri oportet pulchritudinem caeli, ordinem siderum, candorem lucis, dierum et noctium vicissitudines, lunae menstrua curricula, anni quadrifariam temperationem, quadripartitis elementis congruentem, tantam vim seminum species numerosque gignentium, et omnia in suo genere modum proprium naturamque servantia. In quorum consideratione non vana et peritura curiositas exercenda est, sed gradus ad immortalia et semper manentia faciendus». 26 Cf. ibid., 30, 56, 147, p. 224, 73-77: «Haec autem lex omnium artium cum sit omnino incommutabilis, mens vero humana cui talem legem videre concessum est, mutabilitatem pati possit erroris, satis apparet supra mentem nostram esse legem, quae veritas dicitur». 27 Cf. ibid., 31, 58, 148, p. 225, 24-26: «Omnia enim quae appetunt unitatem, hanc habent regulam, vel formam, vel exemplum». 28 Cf. ibid, 36, 65, 151, pp. 229-230. 29 Cf. ibid., 43, 81, 159, p. 241. 30 Cf. ibid., 55, 111-113, 170-171, pp. 259,98-104 - 260,122-127: «Quibus si similes, vel etiam mundiores atque sanctiores sunt boni Angeli, et omnia sancta Dei ministeria; quid metuimus ne aliquem illorum offendamus, si non superstitiosi fuerimus, cum ipsis adiuvantibus ad unum Deum tendentes, et ei uni religantes animas nostras, unde religio dicta creditur, omni superstitione careamus? (…) Religet ergo nos religio uni omnipotenti Deo; quia inter mentem nostram qua
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Ancora una volta la filosofia, ‘salvata’ dallo scacco scettico degli Accademici, appare al fine come l’esercizio che prende la notitia scritturale, la potenzia e rende, con il suo esercizio, beata la vita come parte integrante dell’unica, vera religio perché movimento capace di assecondare il richiamo che Dio lancia agli uomini: «nessuno infatti può sollevare qualcuno a ciò che lui stesso è se non in quanto discende verso ciò che costui è»31. Agostino ha già chiaramente delineato, nella prima, corposa sezione della sua biografia intellettuale (che va dalla composizione del Contra Academicos a quella del De vera religione) le fondamenta del suo sistema, alle quali non apporterà significative modifiche per tutto il resto della sua riflessione. Pur curvando di volta in volta infatti il lessico, il tono e talvolta lo stile per adattarlo a diverse esigenze, spesso polemiche, Agostino non abbandonerà mai il complesso dispositivo antropologico, gnoseologico ed ermeneutico sviluppato nelle prime opere. L’acquisita consapevolezza (preservata dalla critica antiaccademica come istanza di metodo di uno scetticismo ‘aperto’ e propositivo) della debolezza umana, dell’incapacità di condurre autonomamente una efficace ricerca del vero (che resta la finalità principe del vivere umano) lo induce infatti a considerare l’intervento, le admonitiones di Dio come una sorta di necessità complessiva del sistema; senza di
illum intellegimus Patrem, et veritatem, id est lucem interiorem per quam illum intellegimus, nulla interposita creatura est. Quare ipsam quoque Veritatem nulla ex parte dissimilem in ipso, et cum ipso veneremur, quae forma est omnium, quae ab uno facta sunt, et ad unum nituntur». Sul tema della vera religio come percorso per quaerere la via veritatis Agostino tornerà con forza anche nel De utilitate credendi; cf. infra, p. 95. 31 Cf. Epistola ad Nebridium, XI (390), 4, PL 33, 76, p. 28, 67-73 e 89-100: «Species quae proprie Filio tribuitur, ea pertinet etiam ad disciplinam, et ad artem quamdam, si bene hoc vocabulo in his rebus utimur, et ad intellegentiam quae ipse animus rerum cogitatione formatur. Itaque quoniam per illam susceptionem hominis id actum est, ut quaedam nobis disciplina vivendi, et exemplum praecepti, sub quarumdam sententiarum maiestate ac perspicuitate insinuaretur, non sine ratione hoc totum Filio tribuitur (…). Demonstranda igitur prius erat quaedam norma et regula disciplinae; quod factum est per illam suscepti hominis dispensationem quae proprie Filio tribuenda est, ut esset consequens et ipsius Patris, id est unius principii ex quo sunt omnia, cognitio per Filium, et quaedam interior et ineffabilis suavitas atque dulcedo, in ista cognitione permanendi contemnendique omnia mortalia, quod donum et munus proprie Spiritui Sancto tribuitur. Ergo cum agantur omnia summa communione et inseparabilitate, tamen distincte demonstranda erant propter imbecillitatem nostram, qui ab unitate in varietatem lapsi sumus. Nemo enim quemquam erigit ad id in quo ipse est, nisi aliquantum ad id, in quo est ille, descendat».
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esse, infatti, all’uomo non resterebbe che continuare a brancolare nel buio, disperdendo le energie del proprio cercare, come hanno fatto i filosofi del passato. All’uomo, condannato al desiderio di cercare qualcosa che ignora, la fede non offre una soluzione razionale ma la premessa indispensabile per orientare in modo efficace il suo interrogarsi; credere, dunque, non annulla per Agostino la ricerca filosofica ma la fonda, ne permette lo sviluppo perché la fa fuoriuscire dalla stasi dovuta a uno stato di debolezza gnoseologica altrimenti irrimediabile perché incapace di autofondarsi. Questa complessa struttura metafisica, nella quale alla debolezza umana fa da contrafforte l’intervento divino, pone evidentemente l’uomo in una condizione di minorità nei confronti di Dio, il solo al quale è data la possibilità di concedere rivelazioni che si configurino come orizzonti e perimetri di ricerca. L’uomo, pur potendosi ‘preparare’ con lo studium a tali incontri con la verità divina, resta dunque sostanzialmene incapace, senza l’aiuto divino, di dare senso alla sua ricerca e alla sua vita, in una passività che, gnoseologicamente, dovrà avvalersi delle benigne admonitiones divine per rendere fruttuosa la ricerca, e che, moralmente, dovrà sperare nella insondabile gratia di Dio per rendere virtuoso l’agire. Agostino disegna così un vero e proprio circolo ermeneutico-aletologico. Affermare infatti che l’uomo sia un quaerens, un essere destinato (e per certi versi condannato) a interrogarsi per tutta la vita sul senso della vita stessa, pone l’umanità dinanzi a un bivio: o considerare che proprio questa natura perennemente cercante lo condanna a una condizione di insolubile scetticismo, nella quale non è mai possibile raggiungere un risultato che possa essere anche minimamente definitivo (perché il cercare non ha fondamenti aletologici indiscutibili); o deve affidarsi a un fondamento che non sia razionale (e che sia paradossalmente proprio per questo valido, perché non sottoponibile a una critica scettica) e al quale dunque si aderisca per fede. Agostino non può (né sarà mai sua intenzione) giustificare razionalmente il contenuto di questo fondamento, vale a dire della Rivelazione, perché è proprio la sua natura non razionale a renderlo fondamento, puntello del procedimento razionale. Scopo di Agostino è solo collocare la condizione cercante dell’uomo in un più complesso circuito veritativo che, ricomprendendola, le dia senso: la verità, che è ‘discesa’ e si è rivelata nella storia, ha infatti secondo Agostino garantito all’uomo (che anche quando crede e aderisce a quella verità, resta inevitabilmente un quaerens che sa, ‘accademicamente’, che non potrà mai cogliere in vita la verità stessa) che essa sarà mèta possibile di una ‘risalita’ e verrà colta post mortem.
CAPITOLO 3
CERCARE NELLE SCRITTURE: I PRIMI SCRITTI ANTIMANICHEI
1. Laquei diaboli: il ruolo della polemica con il Manicheismo nella costruzione del sistema Negli anni in cui componeva il De quantitate animae, il De libero arbitrio, il De magistro e il De vera religione, Agostino si dedicò anche alla stesura delle prime opere destinate a confutare le tesi dei Manichei, partendo dai presupposti costruiti nei primi dialoghi, vale a dire dalla consapevolezza della condizione particolarissima e terribile della ratio umana che, pur mostrando i suoi naturali talenti speculativi nella capacità di ricerca del vero, è impossibilitata a giungere autonomamente a una almeno parziale stabilità gnoseologica1 se non indirizzata da una vera e propria chiamata di Dio. Il confronto con la dottrina manichea costituisce un punto essenziale nell’evoluzione del ‘sistema’ di Agostino, come emerge con chiarezza dalla descrizione che lui stesso fornisce della identità del mondo manicheo e delle motivazioni che lo condussero ad abbandonarlo. Nel libro terzo delle Confessiones, infatti, Agostino sintetizza in poche parole il suo giudizio sui Manichei; essi per un verso non riescono a separarsi da un sensismo ‘carnale’ (carnales) che li induce a pensare che tutto sia materiale e, in più, usano la loro facondia (loquaces) per attrarre e ingannare adepti2. La 1
Cf. De Genesi contra Manichaeos, II, 14, 21, 207, pp. 142,8-11 - 143,1-4: «Sed aliquando ratio viriliter etiam commotam cupiditatem refrenat atque compescit. Quod cum fit, non labimur in peccatum, sed cum aliquanta luctatione coronamur. Si autem ratio consentiat, et quod libido commoverit, faciendum esse decernat, ab omni vita beata tamquam de paradiso expellitur homo. Iam enim peccatum imputatur, etiamsi non subsequatur factum; quoniam rea tenetur in consensione conscientia». 2 Per un quadro generale sui temi legati al Manicheismo, cf. Augustine and Manichaeism in the Latin West, Proceedings of the Fribourg-Utrecht Symposium of the International Association of Manichaean Studies (8-11 July, Fribourg), ed. by J. Van Oort - O. Wermelinger - G. Wurst, Boston 2001; J. K. Coyle, Manichaeism
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Cercare nelle Scritture: i primi scritti antimanichei
combinazione di questi due errori li convince di possedere la verità, ridotta alla capacità di conoscere i meccanismi fisici del mondo e alla sfrontata presunzione derivante da una elegante capacità espressiva3. Nel ripensare la sua esperienza all’interno della secta, Agostino ricorda di quando, irretito dai lacciuoli dei molti e voluminosi tomi (multi libri et ingenti) delle opere manichee, ne venne tanto rapito da cominciare a rispettare meccanicamente i precetti, pur soltanto esteriori, di quella chiesa (improntati a una sorta di connessione animistica con la natura4) e a pensare che anche Dio fosse corporeo e che si potesse individuare una precisa, cosmica origine del male; non era ancora intevenuta, chiosa lo stesso Agostino, una lettura attenta e sensata delle Scritture (e, in particolare, del Genesi) a convincerlo del contrario5. and Its Legacy, Boston 2009; J. Van Oort, Augustine and the Books of the Manicheans, in A Companion to Augustine, ed. M. Vessey, Oxford 2012, pp. 188-200. 3 Cf. Confessiones, III, 6, 10, 686, p. 31, 1-11: «Itaque incidi in homines superbe delirantes, carnales nimis et loquaces, in quorum ore laquei diaboli (1 Tm 3, 7) et viscum confectum commixtione syllabarum nominis tui et Domini Iesu Christi et Paracleti consolatoris nostri Spiritus Sancti (Gv 14, 26). Haec nomina non recedebant de ore eorum (Ios 1, 8), sed tenus sono et strepitu linguae; ceterum cor inane veri. Et dicebant: ‘Veritas et veritas’, et multum eam dicebant mihi, et nusquam erat in eis, sed falsa loquebantur non de te tantum, qui vere Veritas es (cf. Gv 14, 6 e Col 2, 8) , sed etiam de istis elementis huius mundi, creatura tua, de quibus etiam vera dicentes philosophos transgredi debui prae amore tuo, mi pater summe bone, pulchritudo pulchrorum omnium». 4 Cf. ibid., 10, 18, 691, p. 37, 1-13: «Haec ego nesciens irridebam illos sanctos servos et Prophetas tuos. Et quid agebam, cum irridebam eos, nisi ut irriderer abs te sensim atque paulatim perductus ad eas nugas, ut crederem ficum plorare, cum decerpitur, et matrem eius arborem lacrimis lacteis? Quam tamen ficum si comedisset aliquis sanctus alieno sane, non suo scelere decerptam, misceret visceribus et anhelaret de illa angelos, immo vero particulas Dei gemendo in oratione atque ructando; quae particulae summi et veri Dei ligatae fuissent in illo pomo, nisi electi sancti dente ac ventre solverentur. Et credidi miser magis esse misericordiam praestandam (Rm 9, 15) fructibus terrae quam hominibus, propter quos nascerentur. Si quis enim esuriens peteret, qui Manichaeus non esset, quasi capitali supplicio damnanda buccella videretur, si ei daretur». 5 Cf. ibid., 7, 12, 688, p. 33, 1-16: «Nesciebam enim aliud, vere quod est, et quasi acutule movebar, ut suffragarer stultis deceptoribus, cum a me quaererent, unde malum et utrum forma corporea Deus finiretur et haberet capillos et ungues et utrum iusti existimandi essent qui haberent uxores multas simul et occiderent homines et sacrificarent de animalibus. Quibus rerum ignarus perturbabar et recedens a veritate ire in eam mihi videbar, quia non noveram malum non esse nisi privationem boni usque ad quod omnino non est. Quod unde viderem, cuius videre usque ad corpus erat oculis et animo usque ad phantasma? Et non noveram Deum esse spiritum (cf. Gv 4, 24), non cui membra essent per longum et latum nec cui esse moles esset, quia moles in parte minor est quam in toto suo, et si infinita sit, minor est in aliqua parte certo spatio definita quam per infinitum et non est tota ubique sicut spiritus, sicut Deus. Et quid in nobis esset, secundum
1. Laquei diaboli: il ruolo della polemica con il Manicheismo
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I nove anni che Agostino trascorre nella fede manichea si trasformano, nel racconto delle Confessiones, in un’epoca di assoluta devozione verso la sola esteriorità, declinata per un verso nell’esercizio pubblico dell’insegnamento delle doctrinae liberales (finalizzato al solo plauso degli altri e alla fama) e, per un altro, al culto per le pratiche di vita manichee, improntate a una ritualità solo materiale6. Alla fine di questo lungo periodo, l’incontro con il vescovo Fausto – atteso da Agostino per la rinomanza di cui godevano nella comunità manichea della provincia africana la sua competenza e il suo elegante eloquio7 – è risolutivo; colui che la setta indicava come il più esperto ed eloquente tra i sapienti era, in realtà, dotato di mediocri strumenti espressivi e, soprattutto, ammetteva lui stesso (con una modestia che Agostino non fa fatica a riconoscergli e che glielo rende almeno in parte gradito) la sua incapacità di dare ragione delle fabulae manichee se messe a confronto con le rationes provenienti dalle altre discipline e dalle scienze8.
quod essemus, et recte in Scriptura diceremur ‘ad imaginem Dei’ (Gen 1, 27), prorsus ignorabam». 6 Cf. ibid., IV, 1, 1, 693, p. 40, 1-11: «Per idem tempus annorum novem, ab undevicesimo anno aetatis meae usque ad duodetricesimum, seducebamur et seducebamus falsi atque fallentes in variis cupiditatibus et palam per doctrinas, quas liberales vocant, occulte autem falso nomine religionis, hic superbi, ibi superstitiosi, ubique vani, hac popularis gloriae sectantes inanitatem usque ad theatricos plausus et contentiosa carmina et agonem coronarum faenearum et spectaculorum nugas et intemperantiam libidinum, illac autem purgari nos ab istis sordibus expetentes, cum eis, qui appellarentur electi et sancti, afferremus escas, de quibus nobis in officina aqualiculi sui fabricarent angelos et deos, per quos liberaremur» 7 Cf. ibid., V, 3, 3, 707, p. 58, 1-10: «Proloquar in conspectu Dei mei annum illum undetricesimum aetatis meae. Iam venerat Carthaginem quidam Manichaeorum episcopus, Faustus nomine, magnus laqueus diaboli (cf. 1 Tm 3, 7), et multi implicabantur in eo per illecebram suaviloquentiae. Quam ego iam tametsi laudabam, discernebam tamen a veritate rerum, quarum discendarum avidus eram, nec quali vasculo sermonis, sed quid mihi scientiae comedendum apponeret nominatus apud eos ille Faustus intuebar. Fama enim de illo praelocuta mihi erat, quod esset honestarum omnium doctrinarum peritissimus et apprime disciplinis liberalibus eruditus». 8 Cf. ibid., V, 7, 12, 711, p. 63, 1-21: «Nam posteaquam ille mihi imperitus earum artium, quibus eum excellere putaveram, satis apparuit, desperare coepi posse mihi eum illa, quae me movebant, aperire atque dissolvere; quorum quidem ignarus posset veritatem tenere pietatis, sed si Manichaeus non esset. Libri quippe eorum pleni sunt longissimis fabulis de caelo et sideribus et sole et luna; quae mihi eum, quod utique cupiebam, collatis numerorum rationibus, quas alibi ego legeram, utrum potius ita essent, ut Manichaei libris continebantur, an certe vel par etiam inde ratio redderetur, subtiliter explicare posse iam non arbitrabar. Quae tamen ubi consideranda et discutienda protuli, modeste sane ille nec ausus est subire ipsam sarcinam. Noverat enim se ista non nosse nec eum puduit confiteri. Non erat de talibus, quales multos loquaces passus eram, conantes ea me
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Prima del tutto immerso nel mondo dottrinale e rituale manicheo e desideroso di incontrare Fausto per la fama che accompagnava la sua eloquenza, Agostino si allontana dalla dottrina della secta proprio per la infondatezza delle tesi che questi difendeva e per la poca eleganza del suo eloquio; pochi mesi dopo, con un moto simmetrico e opposto, Agostino viene invece attratto, al suo arrivo a Milano, dalle parole eleganti e forbite di Ambrogio, del quale però non accoglie il messaggio, vale a dire il contenuto della sua esegesi scritturale. Le letture che Ambrogio conduce spiritaliter sulle Scritture, e in particolar modo sull’Antico Testamento, sciolgono però progressivamente i dubbi di Agostino sulla intellegibilità del testo sacro9; tale nuova prospettiva, unita all’atteggiamento scettico derivantegli dalla ‘conversione’ accademica sopraggiunta a Roma prima della partenza per Milano, lo allontanano definitivamente dalle dottrine manichee, che gli appaiono infondate tanto nel giudizio sulle Scritture quanto nei loro fondamenti filosofici. Nelle parole con le quali Agostino descrive le ragioni del suo ingresso nel mondo manicheo e della successiva decisione di fuoriuscirne è possibile leggere, con chiarezza, le motivazioni che resero il confronto con questa dottrina così importante non solo nella sua esperienza biografica precedente la conversione, ma anche nel succes-
docere et dicentes nihil. Iste vero ‘cor’ habebat, etsi ‘non rectum ad te’ (Sal 77, 37), nec tamen nimis incautum ad se ipsum. Non usquequaque imperitus erat imperitiae suae et noluit se temere disputando in ea coartare, unde nec exitus ei ullus nec facilis esset reditus: etiam hinc mihi amplius placuit. Pulchrior est enim temperantia confitentis animi quam illa, quae nosse cupiebam. Et eum in omnibus difficilioribus et subtilioribus quaestionibus talem inveniebam». 9 Cf. ibid., 14, 24, 718, p. 71, 1-21: «Cum enim non satagerem discere quae dicebat, sed tantum quemadmodum dicebat audire (ea mihi quippe iam desperanti ad te viam patere homini inanis cura remanserat) veniebant in animum meum simul cum verbis, quae diligebam, res etiam, quas neglegebam. Neque enim ea dirimere poteram. Et dum cor aperirem ad excipiendum, quam diserte diceret, pariter intrabat et quam vere diceret, gradatim quidem. Nam primo etiam ipsa defendi posse mihi iam coeperunt videri et fidem catholicam, pro qua nihil posse dici adversus oppugnantes Manichaeos putaveram, iam non impudenter asseri existimabam, maxime audito uno atque altero et saepius aenigmate soluto de scriptis veteribus, ubi, cum ad litteram acciperem, occidebar (cf. 2 Cor 3, 6). Spiritaliter itaque plerisque illorum librorum locis expositis iam reprehendebam desperationem meam illam dumtaxat, qua credideram legem et prophetas (cf. Mt 5, 17) detestantibus atque irridentibus resisti omnino non posse. Nec tamen iam ideo mihi catholicam viam tenendam esse sentiebam, quia et ipsa poterat habere doctos assertores suos, qui copiose et non absurde obiecta refellerent, nec ideo iam damnandum illud, quod tenebam, quia defensionis partes aequabantur. Ita enim catholica non mihi victa videbatur, ut nondum etiam victrix appareret».
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sivo sviluppo del suo sistema. Al di là infatti dei singoli aspetti dottrinali, dei quali tenterà di mostrare l’infondatezza (su tutti quello della ‘consistenza ontologica’ del male), il confronto con il Manicheismo è l’occasione per Agostino per riflettere sulla problematica convergenza di tre aspetti: da un lato le conoscenze scientifico-filosofiche, dall’altro l’afflato religioso-veritativo e, al centro, l’ermeneusi scritturale. Per un verso, Agostino aveva sviluppato (nei primi dialoghi) la sua riflessione sul metodo e le finalità del ragionamento filosofico, mostrando come esso sia indispensabile per l’uomo, nonostante non possa mai garantirgli il raggiungimento della verità; per un altro, proprio negli anni in cui cominciava a scrivere contro i Manichei, Agostino andava elaborando (per esempio nel De vera religione) una compiuta riflessione sul concetto stesso di religione, finalizzata a chiarire cosa l’uomo debba ‘pretendere’ da una religio che voglia (e possa) dirsi vera ma anche, di converso, quale sia il modus vivendi che, superate le superstizioni o l’adesione solo esteriore tipica dei pagani, una religione richieda ai suoi adepti. Nel confronto con i Manichei queste riflessioni si saldano tra di loro in modo ancor più netto ma, soprattutto, si ampliano fino ad includere un tema nuovo, vale a dire la natura e le finalità dell’ermeneusi scritturale, conducendo Agostino a un ulteriore, più compiuto stadio di elaborazione del suo sistema.
2. Tra auctoritas e ratio: il De utilitate credendi (391) e il De moribus (387-389) Nella polemica contro i Manichei Agostino sviluppa un primo nucleo di riflessioni sul ruolo e la centralità del testo sacro. In una prima fase, Agostino ribadisce la funzione imprescindibile che le Scritture svolgono come fondamento pre-razionale di una ‘filosofia cristiana’. Per contrastare la pretesa dei Manichei di poter razionalmente descrivere natura e dinamiche dei principi dell’universo, tutto il dispositivo argomentativo che Agostino costruisce per confutarne le tesi e i testi prende le mosse dalla evidenziazione dei rischi legati all’illusione che l’uomo possa affidarsi in modo esclusivo ai suoi talenti, cioè all’esercizio della mera et simplicis ratio10 (illusione che lo aveva ipnoticamente
10 Cf. De utilitate credendi, 1, 2, p. 4, 10-14: «Nosti enim, Honorate, non aliam ob causam nos in tales homines incidisse, nisi quod se dicebant, terribili auctoritate separata, mera et simplici ratione eos qui se audire vellent introducturos ad Deum, et errore omni liberaturos».
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legato a quella secta per nove anni)11, pensandone autonomi i percorsi. Se infatti – ribadisce ancora una volta Agostino nel De utilitate credendi, in aperta continuità con il De vera religione – esiste una religio che possa dirsi vera, essa è quella che supporta l’anima nel quaerere la via veritatis12. Se ci si trovasse, ipotizza Agostino, nella condizione di chi non ha mai sentito parlare delle diverse religioni, e si avesse solo la definizione di ciò che dovrebbe essere una religione vera (cioè percorso di ritorno a Dio) senza averne scelta ancora una13, sarebbe molto complesso stabilire quale religione seguire; andrebbe infatti preferita quella professata da chi conosce la verità, il che è in sé contraddittorio: per capire chi è in possesso della verità, infatti, sarebbe necessario preventivamente possederla, così da poter opportunamente giudicare («Scis ergo iam quae sit, si scis apud quos sit»14); ma chi possedesse in tal modo la verità, saprebbe già quale religio è la più veritiera e, dunque, quella da preferire. È per questo necessaria, secondo Agostino, una scelta a monte che non può fondarsi sulla individuazione razionale di quale sia, tra le varie religioni, quella vera, ma che si affidi ad altri criteri. La conclusione di Agostino è pienamente coerente con l’impostazione gnoseologica ed antropologica delineata in tutte le prime opere: la ricerca dell’uomo è incapace di orientarsi autonomamente alla verità e dunque necessita dell’intervento con il quale Dio gli concede una notitia che, se assunta come vera, dà modo alla ricerca di procedere in direzione corretta. Ciò significa riaffermare con forza e filosofica lucidità che l’accettazione iniziale del messaggio rivelato
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Cf. Contra Academicos, I, 1, 3, 907, p. 5, 73-75: «Ipsa [philosophia] me penitus ab illa superstitione, in quam te mecum praecipitem dederam, liberavit». Per una analisi del dialogo, Cf. supra, p. 33. 12 Cf. De utilitate credendi, 7, 14, 75, pp. 19,19-29 - 20,1: «Animae igitur causa vel solius vel maxime vera, si qua est, religio constituta est. Haec autem anima, videro quam ob causam, et hoc obscurissimum esse confiteor, errat tamen ac stulta est, ut videmus, donec adipiscatur percipiatque sapientiam, et fortasse ipsa est vera religio. Num te ad fabulas mitto? Num aliquid cogo te temere credere? Animam nostram dico errore ac stultitia irretitam et demersam, viam, si qua est, quaerere veritatis». 13 Cf. ibid., 7, 15, 76, p. 20, 4-12: «Puta nos adhuc neminem audisse cuiuspiam religionis insinuatorem. Ecce res nova est a nobis negotiumque susceptum. Quaerendi sunt, credo, huius rei, si ulla est, professores. Fac nos reperisse alios aliud opinantes, et diversitate opinionum ad se quemque trahere cupientes; sed inter hos excellere famae interim celebritate quosdam, atque omnium pene occupatione populorum. Utrum isti verum teneant, magna quaestio est: sed nonne prius sunt explorandi, ut quamdiu erramus, si quidem homines sumus, cum ipso genere humano errare videamur?». 14 Ibid., 7, 16, 76, pp. 20-21.
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non può che essere pre-razionale, fondativa di un successivo percorso di riflessione e dunque a esso necessariamente esterno perché precedente; ancora una volta, l’alternativa allo scetticismo deve essere, per Agostino, una concessione esterna e gratuita di verità. Spesso osservando, per quanto potevo, la mente umana tanto vivace, attenta, perspicace, pensavo che la verità le rimanesse nascosta per nessun altro motivo che non fosse che le era ignoto il modo di cercare (quaerendi modus) opportuno e che proprio tale modo dovesse essere ricevuto da una divina autorità15.
Il testo sacro è qui, ancora, il luogo nel quale l’uomo trova la notitia Dei che, se accolta come vera per fede, dà senso e modus alla sua ricerca perché la impronta a una fiducia euristica che lo scetticismo accademico e più in generale la filosofia greca non potevano avere; anche se Dio resta infatti ancora del tutto inconoscibile, accoglierne le parole significa ammettere che Egli esista e costituisca la mèta ‘noumenica’ del percorso di ricerca umano. Nella sua esperienza di vita e nella sua scelta di fede, Agostino stesso sentì la necessità di scegliere ‘pre-razionalmente’ quale auctoritas seguire («restabat quaerere quaenam illa esset auctoritas») e gli sembrò naturale, anche grazie agli insegnamenti di Ambrogio, restare nella fede di quella Chiesa nella quale aveva tentato di educarlo la madre. A partire da questa scelta pre-razionale, che cioè non nasce da una dimostrazione della veridicità delle parole scritturali ma da una adesione ‘cieca’, può prendere le mosse – come detto – una ricerca filosofica che sia aletologicamente (pur se ipoteticamente) fondata e che si eserciti, in virtù delle conoscenze liberali, nello studio delle regulae che Dio ha provvidenzialmente imposto al creato. A questa struttura, ai due segmenti cioè del movimento del credente già definiti con chiarezza nel De vera religione, Agostino aggiunge, grazie alla riflessione sorta nel confronto con i Manichei, un terzo, ulteriore elemento. Accolta l’auctoritas scritturale come fondamento, e sviluppata, sulla sua base, la ricerca filosofica, l’uomo potrà poi ritornare al testo sacro, e riapplicare i risultati di tali competenze, 15 Ibid., 8, 20, 79, pp. 24,28 - 25,1-6: «Saepe rursus intuens, quantum poteram, mentem humanam tam vivacem, tam sagacem, tam perspicacem, non putabam latere veritatem, nisi quod in ea quaerendi modus lateret, eumdemque ipsum modum ab aliqua divina auctoritate esse sumendum». Cf. J. S. O’Leary, En lisant le De utilitate credendi de saint Augustin, in La croyance, a c. di J. Greisch, Paris 1982, pp. 29-49; E. A. Eguiarte Bendímez, El De utilitate credendi de san Agustín: protoconfesiones, profesión de fe y apología, in «Augustinus», 61 (2016), pp. 287-337.
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all’intelligenza della pagina scritturale. Una scelta di fede iniziale è dunque preliminare a ogni ricerca e non si fonda su criteri razionali; credere non è infatti altro che accogliere un dato rivelato come vero e dare seguito a tale atto (necessariamente pre-razionale) con un iter di ricerca governato dalla ragione, che cioè indaghi razionalmente la realtà a partire dai contenuti di quella rivelazione (che, per i cristiani, si concretizzano nelle informazioni provenienti dalla Scrittura), giungendo poi a risultati che possono essere nuovamente riversati nell’ermeneusi scritturale. Leggere e cercare di capire il testo sacro diventano, così, per Agostino a tutti gli effetti una necessità che sta prima e dopo la ricerca filosofica; equivale cioè ad accettare un contenuto che sia al contempo pre-razionalmente fondativo di ogni indagine ma anche poi, da quella stessa indagine, razionalmente esplorabile. Agostino tentò di mostrare, nel De moribus ecclesiae catholicae et de moribus Manichaeorum, perché le Scritture debbano essere considerate al contempo fondamento e oggetto di studio della ricerca filosofica. Consapevole delle critiche che i Manichei muovevano alla autoritatività del testo sacro, e volendo al contrario mostrare la necessità razionale di accettarne prima la notitia e studiarne poi la littera, Agostino decide di tralasciare, nel procedere della sua dimostrazione, il ricorso preliminare proprio all’auctoritas (che invece avrebbe dovuto costuituire, nella sua opinione, il momento iniziale) per rivolgersi direttamente alla ratio, e sulla sua scorta procedere. Essa infatti costituisce uno strumento che, se ben utilizzato, può costringere qualsivoglia interlocutore, dunque anche i Manichei, ad accettare le conclusioni di volta in volta dimostrate. Se infatti il riferimento al principio di auctoritas può essere contestato, quello alla ratio è una garanzia di universalità, e permette ad Agostino di muoversi nell’ottica da lui scelta nel confronto con i Manichei, vale a dire tentare di sanarne gli errori piuttosto che attaccarne le dottrine. Per questo l’invito a ragionare assieme («ratione quaeramus»)16 indica – anche concretamente nella strumentalità del l’ablativo e nella prima persona plurale del verbo – come Agostino voglia anche qui applicare, come metodo di lavoro, l’idea di una ricerca filosofica ‘dialogica’, intesa come percorso comune, necessario e necessitante, vale a dire ineludibile per l’uomo e, al contempo, foriero di conclusioni di per se persuasive e in ciò universali, vincolanti. Il percorso che Agostino propone ai suoi avversari e ai lettori prende le mosse, ancora una volta, dall’assunzione ‘esistenziale’ eu16
Cf. De moribus ecclesiae et de moribus Manichaeorum, I, 3, 4, 1312, pp. 6-7.
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demonistica fondamentale che guida tutta la sua riflessione dei primi anni: «beate certe omnes vivere volumus»17. Il desiderio, che tutti gli esseri umani condividono, di essere felici, non può realizzarsi se non con il possesso di ciò che è meglio per l’uomo (optimum hominis), vale a dire di ciò che, se amato e posseduto, non induce l’uomo a desiderare altro. Interrogandosi su quale sia la natura di questo ‘oggetto’ («sequitur ut quaeramus quid sit hominis optimum»18), si conclude che esso non può che coincidere con la virtus, intesa come habitus che permette la sequela e, in ciò, il possesso parziale di Dio19. È per questo che tale percorso di ricerca dell’uomo deve preliminarmente fondarsi sull’accettazione dei praecepta dei sapientes, vale a dire della autorità scritturale. Se la razionalità comprende che Dio, vero oggetto del desiderio dell’uomo, resta incoglibile, lo studium potrà rivolgersi al liber naturae, per coglierne le leggi e magnificarne il legislatore, solo dopo aver accolto, dal liber Scripturae, la notitia sull’esistenza e la natura di Dio come fondamento dell’esistente20. Se dunque, anche nel De moribus, Agostino ribadisce con chiarezza che solo post mortem sarà all’uomo concessa la conoscenza di Dio («aeterna igitur vita est ipsa cognitio veritatis»21), la relazione con le Scritture, al pari dello studio delle artes (già individuato nel De ordine come viatico speculativo a Dio), rappresenta una sorta di necessità tanto esistenziale quanto filosofica per l’uomo, l’alternativa che può concretamente e operativamente ‘consolarlo’ dalla sua evidente e ineluttabile condizione di minorità gnoseologica. La tensione a Dio che le Scritture innescano, infatti, non soltanto consola l’uomo ma ne fonda il percorso di ricerca. È in tale ottica che i Manichei vengono più volte e con forza invitati da Agostino alla ricerca perché, nella loro povertà spirituale («quaerite, miseri»)22, capiscano che si può beatissime vivere amando 17
Sul rapporto tra beate vivere e beatos esse, cf. supra, p. 38. De moribus ecclesiae et de moribus Manichaeorum, I, 3, 5, 1312, pp. 7-8. 19 Ibid., 6, 10, 1315, p. 13, 3-5: «Deus igitur restat quem si sequimur, bene, si assequimur, non tantum bene sed etiam beate vivimus». 20 Ibid., 7, 12, 1315-1316, pp. 14,20-25 - 15,1: «Verae religionis fide praeceptisque servatis non deseruerimus viam quam nobis Deus et Patriarcharum segregatione et Legis vinculo et Prophetarum praesagio et suscepti hominis sacramento et Apostolorum testimonio et martyrum sanguine et gentium occupatione munivit». 21 Ibid., 25, 47, 1331, p. 52. Per il passo conclusivo del De quantitate animae nel quale Agostino indica apertamente questa conoscenza finale e completa come esclusivamente post mortem, cf. supra, p. 71. Agostino descriverà con chiarezza nel De Trinitate questa dinamica della visione di Dio; cf. De Trinitate, I, 6, 11, 826, p. 40, 58-60: «Videri autem divinitas humano visu nullo modo potest, sed eo visu videtur quo iam qui vident non homines sed ultra homines sunt». 22 De moribus ecclesiae et de moribus Manichaeorum, I, 10, 17, 1318, pp. 20-21. 18
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Dio, tendendo cioè a lui con uno slancio di carità, vale a dire di un amore indirizzato al divino che non abbia altro scopo e fine ultimo che cogliere la verità: «se dunque cerchiamo cosa sia il vivere felicemente, cioè il vivere tendendo alla felicità, ciò sarà senza dubbio amare la virtù, la sapienza e la verità»23. Amare Dio24 per come le Scritture lo descrivono diviene dunque per Agostino non solo il primo passo che può dare senso allo sforzo filosofico (vale a dire a quello studio delle artes che permette di cogliere, nel creato, le regulae poste da Dio per intuirne in modo più definito, come per lucidas nubes, i contorni) ma anche l’unico sensato invito che è possibile muovere a chi, come i Manichei, vivono nell’errore: «Infatti se non si desiderano la sapienza e la verità con tutte le forze dell’animo, non è possibile in alcun modo trovarle. Ma se le si cerca cosi come è dovuto, esse non possono sottrarsi e nascondersi agli occhi di chi le ama»25. A una filosofia, come quella pagana, che per semplice curiositas intellettuale indaga la natura con una vana cogitatio, concludendo o che tutto è corporeo o che ciò che è incorporeo non può essere colto e descritto se non con immagini corporee26 (filosofia ‘corporeista’ contro la quale si scaglia Paolo nel denunciare, nella lettera ai Colossesi, i rischi della speculazione umana), si contrappone dunque una filosofia che rispetta le finalità già insite nel suo nome e dunque si configura come un vero e proprio amor sapientiae 27 e sa sollevarsi dalla semplice e mortificante indagine del mondo fisico28. Come aveva già ampiamente chiarito nel Contra 23
Ibid., 13, 22, 1321, p. 26, 4-6: «Si ergo quaerimus quid sit bene vivere, id est ad beatitudinem vivendo tendere, id erit profecto amare virtutem, amare sapientiam, amare veritatem». 24 Ibid., 13, 23, 1321, p. 27, 7-9: «Fiet ergo per caritatem ut conformemur Deo et ex eo conformati atque figurati et circumcisi ab hoc mundo non confundamur cum his quae nobis debent esse subiecta». 25 Ibid., 17, 31, 1324, pp. 35,16-17 - 36,1-3: «Nam si sapientia et veritas non totis animi viribus concupiscatur, inveniri nullo pacto potest. At si ita quaeratur, ut dignum est, subtrahere sese atque abscondere a suis dilectoribus non potest». 26 Cf. ibid., 21, 38, 1327-1328, pp. 43,16-19 - 44,1: «Tali enim amore plerumque decipitur, ut aut nihil putet esse nisi corpus, aut etiamsi auctoritate commota fateatur aliquid esse incorporeum, de illo tamen nisi per imagines corporeas cogitare non possit et tale aliquid esse credere, quale fallax corporis sensus infligit». Cf. N. J. Torchia, Curiositas in the Early Philosophical Writings of Saint Augustine, in «Augustinian Studies», 19 (1988), pp. 111-120. 27 Cf. De moribus, I, 21, 38, 1327, p. 43, 4-5: «Ipsum nomen philosophiae si consideretur, rem magnam totoque animo appetendam significat, siquidem philosophia est amor studiumque sapientiae». 28 Cf. Col 2, 8: «Videte ne quis vos decipiat per philosophiam et inanem fallaciam secundum traditionem hominum secundum elementa mundi et non secundum Christum». Cf. Enarrationes in Psalmos, VIII, 6, 111, pp. 51-52, 22-29:
3. Il De Genesi contra Manichaeos
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Academicos 29, e come specifica ancor meglio nelle pagine del De moribus, la vita dell’uomo, è dunque necessariamente filosofica, ma riesce ad esserlo veramente solo quando si solleva dal sensibile (che, già nel Contra Academicos, veniva indicato come portatore di conoscenza falsa e distraente) e tende soltanto all’intellegibile. Se infatti Dio è il sommo bene dell’uomo, cosa che non potete negare, ne segue che, poiché desiderare il sommo bene è vivere bene, vivere bene non è nient’altro che amare Dio con tutto il cuore, tutta l’anima e tutta la mente30.
3. Il De Genesi contra Manichaeos (388-389) Il guadagno che Agostino consegue nel confronto con i Manichei è, come detto, la consapevolezza che il testo scritturale, oltre a essere fondamento e oggetto della indagine umana, deve diventare (dopo che l’uomo si sia filosoficamente ‘erudito’) a sua volta luogo di ricerca31; la sua littera può infatti spesso offendere, risultare cioè ostica per il lettore, che deve rivolgersi a chi sa interpretarla (il doctor) non con la temerarietà di chi vuole muovere accuse ma con l’impegno di chi vuol ricercare (studium quaerentis)32. Il desiderio di verità che muove chi si «Quamquam etiam philosophi huius mundi bene intellegantur inimici et defensores: quandoquidem Filius Dei Virtus et Sapientia Dei est, qua illustratur omnis quisquis veritate sapiens efficitur. Huius illi se amatores esse profitentur, unde etiam philosophi nominantur: et propterea illam videntur defendere, cum inimici sint eius; quoniam superstitiones noxias, ut colantur et venerentur huius mundi elementa, suadere non cessant». 29 Cf. Contra Academicos, I, 3, 907, pp. 4-5; supra, p. 33. 30 De moribus ecclesiae et de moribus manichaeorum, I, 25, 46, 1330, p. 51, 1-5: «Si enim Deus est summum hominis bonum, quod negare non potestis, sequitur profecto, quoniam summum bonum appetere est bene vivere, ut nihil sit aliud bene vivere quam toto corde, tota anima, tota mente diligere Deum». 31 Nel De doctrina christiana Agostino illustrerà in che modo la ricerca filosofica e, più in generale, l’eruditio siano indispensabili per una interpretazione delle Scritture che, pur incapace di cogliere il suo oggetto ultimo, non voglia assommare a tale limite strutturale le mancanze derivanti dalla propria ignoranza; cf. infra, p. 125. 32 Cf. De moribus, I, 1, 1309-1310, p. 3, 117: «In aliis libris satis opinor egisse nos, quemadmodum Manichaeorum invectionibus, quibus in Legem quod Vetus Testamentum vocatur, imperite atque impie feruntur, seseque inter imperitorum plausus, inani iactatione ventilant, possimus occurrere; quod breviter etiam hic commemorari a me potest. Quis enim mediocriter sanus non facile intelligat, Scripturarum expositionem ab his petendam esse, qui earum doctores se esse profitentur; fierique posse, immo id semper accidere, ut multa indoctis videantur
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avvicina alle Scritture, afferma Agostino nel De Genesi contra Manichaeos, è infatti spesso rafforzato e a volte addirittura indotto proprio da quanti, come i Manichei, distorcono il senso del testo sacro; il loro errore è così strumento grazie al quale la divina provvidenza riaccende gli animi più pigri e li attiva al desiderio di conoscere le Scritture33 per arrivare ad abbeverarsi alla fonte della verità34. Le domande che i Manichei pongono nel commentare i primi versetti del Genesi permettono ad Agostino di ribadire lo schema già difeso nel De moribus: tentare di comprendere il senso della littera scritturale dopo averne accettato per fede la veridicità e dopo averla ‘sfruttata’ come fondamento della ricerca filosofica. Così, nel rispondere al quesito posto dai Manichei, vale a dire ‘perché Dio ha creato il mondo?’, è necessario affermare, secondo Agostino, che una indagine che si limiti a ‘giudicare’ Dio secondo parametri umani, valutando cioè i moti della sua volontà come se fosse la volontà di un essere umano, orienta il quaerere su un sentiero sterile. Non è infatti possibile chiedersi il motivo per cui Dio abbia creato farlo significherebbe cercare di individuare la causa della volontà di Dio mentre la volontà di Dio è causa incausata di tutto: «si dia un freno dunque la temerarietà umana, affinché non cerchi ciò che non è e non rischi di non trovare ciò che è»35. È dunque contro tale temeritas filosofica ed esegetica a un tempo che muove Agostino, affrontando, nelle pagine del testo, i loci del Genesi interpretati in modo a suo parere erroneo dai Manichei che, come i seguaci della ‘cattiva filosofia’ condannata nel De moribus, leggono il testo sacro senza saper superare l’aspetto narrativo e sensibile della sua littera. Per tale motivo, per esempio, essi non riescono a rappresentarsi un Dio-artefice che crei la materia dal nulla, visto che invece gli artigiani umani non possono che plaabsurda, quae cum a doctoribus exponuntur, eo laudanda videantur elatius quo abiectius aspernanda videbantur et eo accipiantur aperta dulcius quo clausa difficilius aperiebantur? Hoc fere in sanctis Veteris Testamenti libris evenit, si modo ille qui eis offenditur, doctorem potius eorum pium quam impium laceratorem requirat priusque studio quaerentis quam temeritate reprehendentis imbuatur». 33 Cf. De Genesi contra Manichaeos, I, 1, 2, 173, p. 68, 5-9: «Sed ideo divina providentia multos diversi erroris haereticos esse permittit, ut cum insultant nobis, et interrogant nos ea quae nescimus, vel sic excutiamus pigritiam, et divinas Scripturas nosse cupiamus». 34 Cf. ibid., 173, p. 68, 19-23: «Qui autem desperant se posse in catholica disciplina invenire quod quaerunt, atteruntur erroribus; et si perseveranter inquirunt, ad ipsos fontes a quibus aberraverunt, post magnos labores fatigati atque sitientes, et pene mortui revertuntur». 35 Cf. ibid., 2, 4, 175, p. 71, 26-27: «Compescat ergo se humana temeritas, et id quod non est non quaerat, ne id quod est non inveniat».
3. Il De Genesi contra Manichaeos
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smare materie pre-esistenti36, e dunque accusano le Scritture di inesattezza. Manca dunque loro la consapevolezza, sulla cui importanza Agostino torna continuamente, del fatto che «di Dio non si può dire nulla di adeguato»37 e che dunque il dato scritturale può essere analizzato (sempre parzialmente) solo dopo aver fortificato nella ricerca le proprie capacità ermeneutiche38. È però paradossalmente – prosegue Agostino nelle prime pagine del secondo libro del De Genesi – proprio questa incapacità dei Manichei di quaerere attorno alle parole della Scrittura per capirne spiritaliter il significato, invece di accusarle di essere sbagliate e piene di errori, che li qualifica e, per certi versi, li condanna: Se i Manichei preferissero discutere questi aspetti oscuri delle parole non rimproverando e accusando, ma cercando e rispettando, non sarebbero Manichei; ma verrebbe concesso a quelli che chiedono, e chi cerca troverebbe, e verrebbe aperto a chi bussa. Infatti propongono molte questioni su questo racconto quelli che indagano cose religiose con disciplina a differenza di quanto fanno questi miseri ed empi: ma questo li distingue, che i primi cercano per trovare, questi invece si preoccupano solo di non trovare ciò che cercano39.
Quasi a esemplificare la modalità con la quale tale ricerca attorno al testo va compiuta, Agostino offre, in tutto il secondo libro, un saggio di interpretazione dei primi versetti del Genesi, fino alla fine del capitolo terzo. La creazione dell’uomo, la geografia mistica dell’Eden, la relazione tra Adamo ed Eva, l’azione del serpente vengono tutti analizzati e illustrati nella loro valenza allegorica come segmenti consonanti, finalizzati a illustrare, in un contesto narrativo ierostorico, la dinamica universale che sempre caratterizza la relazione tra Dio e l’uomo che, quando pecca, lo fa sempre nella medesima direzione: 36
Cf. ibid., 6, 10, 178, pp. 76-77. Ibid., 8, 14, 180, p. 80, 15-16: «Nihil de Deo digne dici potest». 38 Cf. ibid., 180, p. 80, 16-18: «Nobis tamen ut nutriamur, et ad ea perveniamus quae nullo humano sermone dici possunt, ea dicuntur quae capere possumus» 39 Ibid., II, 2, 3, 197, p. 120, 1-8: «Haec secreta verborum si non reprehendentes et accusantes, sed quaerentes et reverentes Manichaei mallent discutere, non essent utique Manichaei; sed daretur petentibus, et quaerentes invenirent, et pulsantibus aperiretur (cf. Mt 7,7). Plures enim quaestiones in hoc sermone proponunt, qui diligentia pia quaerunt, quam isti miseri atque impii: sed hoc interest, quod illi quaerunt ut inveniant, isti nihil laborant, nisi non invenire quod quaerunt». 37
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pensando di poter in autonomia, volgendosi soltanto a se stesso e non a Dio, trovare la verità40. Dopo aver indicato nel testo sacro il fondamento pre-razionale di ogni ricerca, Agostino offre dunque nel De Genesi contra Manichaeos un primo saggio di esegesi scritturale che gli permette di chiarire il criterio che, metodologicamente, applicherà di lì a poco nella composizione dei primi testi dedicati alla interpretazione di singoli libri delle Scritture. Consapevole dell’impossibilità che una esegesi scritturale abbia i crismi di una compiuta scientificità, in virtù della profondità, complessità e divina ispirazione del testo sacro, Agostino si muove lungo i percorsi delle similitiduni e delle (presunte) evidenze suggerendo consonanze tra diversi loci scritturali che possano confermarsi a vicenda, in una lettura che appare più emotiva che ‘scientifica’41 ma che spesso si apre anche alla discussione sulla pensabilità e la coerenza filosofica delle conseguenze poste dalla lettura del testo sacro.
4. Il problema del male: gli Acta contra Fortunatum Manichaeum (392) Agostino colse dunque l’occasione del confronto con i Manichei per definire ancor meglio il duplice ruolo della Scrittura nell’ambito del suo sistema (fonte di ispirazione e oggetto di ermeneusi) e per proporre uno studio della littera scritturale – soprattutto del testo del Genesi – che fosse consentaneo alla fede cristiana che lui riteneva la più genuina. Strettamente collegata proprio al commento del Genesi 40 Cf. ibid., 16, 24, 208, p. 146, 16-20: «Ipsa autem veritas Deus est incommutabilis supra illam. Ab ea ergo veritate quisquis aversus est, et ad seipsum conversus, et non de rectore atque illustratore Deo, sed de suis motibus quasi liberis exsultat, tenebratur mendacio: quoniam ‘qui loquitur mendacium, de suo loquitur’ (Gv 8,44)». 41 Cf. ibid., 3, 4, 198-199, pp. 121-122: «Sed sanctae Scripturae non temerarios et superbos accusatores, sed diligentes et pios lectores». È Agostino stesso, nelle libro dodicesimo delle Confessiones, a confermare l’idea che la sua strategia esegetica si fondi su una non meglio giustificata ispirazione che gli parla in aurem interiorem e lo guida nel commentare il testo sacro; cf. Confessiones, XII, 15, 18, 832, p. 224, 1-4 : «Num dicetis falsa esse, quae mihi veritas voce forti in aurem interiorem dicit de vera aeternitate Creatoris, quod nequaquam eius substantia per tempora varietur nec eius voluntas extra eius substantiam sit?»; ibid., 16, 23, 834, p. 227, 1-4: «Cum his enim volo coram te aliquid colloqui, Deus meus, qui haec omnia, quae intus in mente mea non tacet veritas tua, vera esse concedunt. Nam qui haec negant, latrent quantum volunt et obstrepant sibi».
4. Il problema del male
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è anche l’opposizione che Agostino sviluppò (nel De moribus e negli scritti polemici indirizzati contro singoli esponenti del mondo manicheo tra il 392 e il 405) nei confronti della tesi da lui ritenuta più significativa tra quelle difese dalla secta, quella relativa alla consistenza ontologica del male. Nelle pagine del secondo libro del De moribus, Agostino afferma che il problema della natura del male è così complesso da richiedere a tutti i partecipanti all’analisi di mettere da parte per un attimo le proprie convinzioni («deposita paulisper opinione») per procedere a tentoni e per acquisizioni progressive e condivise. Punto di partenza è, per Agostino, la necessità di porre attenzione al modo in cui è formulata la domanda. Ciò che va indagato non è infatti da dove derivi il male ma cosa esso sia; è infatti sempre primario comprendere la natura di un oggetto perché solo sulla scorta di tale definizione è poi possibile chiedersi da dove esso provenga42. Agostino assume tre definizioni di male difese dai Manichei. Secondo una prima definizione, il male è, per ciascuna cosa, ciò che è contrario alla sua natura, intendendo per natura un sinonimo di essentia o substantia, vale a dire ciò che rende una cosa quella che è. Se però – obietta Agostino – il male si definisce ‘male’ perché è contrario alla natura di qualcosa, esso non può esistere perché proprio ciò che, secondo tale definizione, tende ad annullare l’esistenza di ciò cui è contrario è principio di negazione e dissolvimento43. In una seconda definizione, si descrive il male come ciò che nuoce. Ma, anche in questo caso, se veramente ci fossero, come sostengono i Manichei, due principi, vale a dire il sommo bene e il sommo male, e quest’ultimo si caratterizzasse per una capacità di
42
Cf. De moribus ecclesiae et de moribus Manichaeorum, II, 2, 2, 1345, p. 89, 10-15: «Percunctamini me unde sit malum; at ego vicissim percunctor vos quid sit malum. Cuius est iustior inquisitio? Eorumne qui quaerunt unde sit, quod quid sit ignorant, an eius qui prius putat esse quaerendum quid sit, ut non ignotae rei - quod absurdum. est - origo quaeratur?». 43 Cf. ibid., 1345-1346, pp. 89,15-27 - 90,1-3: «Verissime, dicitis, quis enim est ita mente caecus, qui non videat id cuique generi malum esse, quod contra eius naturam est? Sed hoc constituto evertitur haeresis vestra, nulla enim natura malum, si quod contra naturam est, id erit malum. Vos autem asseritis quamdam naturam atque substantiam malum esse. Accedit etiam illud, quod contra naturam quidquid est, utique naturae adversatur et eam perimere nititur. Tendit ergo id quod est facere, ut non sit. Nam et ipsa natura nihil est aliud quam id quod intelligitur in suo genere aliquid esse. Itaque ut nos iam novo nomine ab eo quod est esse, vocamus essentiam, quam plerumque etiam substantiam nominamus ita veteres qui haec nomina non habebant, pro essentia et substantia naturam vocabant. Idipsum ergo malum est, si praeter pertinaciam velitis attendere, deficere ab essentia et ad id tendere ut non sit»
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nuocere, la più alta possibile, esso non potrebbe in alcun modo essere ciò che è perché gli sarebbe impossibile nuocere al sommo bene che, se è sommo, è certamente immutabile, incorruttibile e inviolabile44. La terza definizione è quella che porta Agostino alle conclusioni. Il male è una corruptio45: mentre infatti il sommo bene è tale per natura, gli altri beni lo sono per partecipazione del sommo bene; mentre il sommo bene non muta, essi sono mutevoli e possono quindi tendere al disordine e al non essere, che coincide, per loro, con la corruzione e il male, cioè con una inconvenientia, definizione di particolare rilevanza per l’economia complessiva del pensiero di Agostino. Il male risulta infatti, alla luce di questa definizione, come contrario alla convenientia, che è la condizione cui l’ordo riporta tutto ciò cui sovrintende («Ordo enim ad convenientiam quamdam quod ordinat redigit»); è l’operazione cioè con cui le cose molteplici vengono ricondotte all’unità e, dunque, all’essere. Al suo estremo opposto si muove, invece, la corruptio, che fa tendere le cose al non essere. Per trovare dunque il summum malum sembrerebbe sufficiente comprendere dove la corruptio si sforza di condurre l’essere («Iam vestrum est considerare quo cogat corruptio, ut possitis invenire summum malum; nam id est quo perducere corruptio nititur»)46; essa però non può giungere mai a compiere a pieno la sua opera dissolutrice perché la bonitas Dei pre-
44
Cf. ibid., 3, 5, 1347, pp. 91,15-26 - 92,1-2: «Si duae naturae sunt, ut affirmatis, regnum lucis et regnum tenebrarum, quoniam regnum lucis Deum esse fatemini, cui simplicem quamdam naturam conceditis, ita ut ibi non sit aliud alio deterius, confiteamini necesse est, quod vehementer quidem est adversum vos, sed tamen necesse est confiteamini, istam naturam, quam summum bonum non modo non negatis, sed etiam vehementer persuadere conamini, esse incommutabilem et impenetrabilem et incorruptibilem et inviolabilem; non enim aliter erit summum bonum, id est enim quo nihil sit. melius; tali autem naturae noceri nullo pacto potest. At si nocere bono privare est, sicut ostendi, noceri non potest regno tenebrarum, quia nihil ibi boni est; noceri non potest regno lucis, quia inviolabile est; cui nocebit igitur quod dicitis malum?» 45 Cf. ibid., 5, 7, 1347-1348, p. 93. 46 Cf. ibid., 6, 8, 1348, pp. 94,14-22 - 95,1-4: «Ordo enim ad convenientiam quamdam quod ordinat redigit. Nihil est autem esse, quam unum esse. Itaque in quantum quidque unitatem adipiscitur, in tantum est. Unitatis est enim operatio, convenientia et concordia, qua sunt in quantum sunt ea quae composita sunt, nam simplicia per se sunt, quia una sunt; quae autem non sunt simplicia, concordia partium imitantur unitatem et in tantum sunt in quantum assequuntur. Quare ordinatio esse cogit, inordinatio ergo non esse; quae perversio etiam nominatur atque corruptio. Quidquid itaque corrumpitur, eo tendit, ut non sit. Iam vestrum est considerare quo cogat corruptio, ut possitis invenire summum malum; nam id est quo perducere corruptio nititur». Sul tema dell’unità come stabilità e senso delle cose, Cf. supra, pp. 60 e 88.
4. Il problema del male
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siede all’ordine del tutto e, anche quando l’uomo, con la potenza del suo libero arbitrio, si pone in contrasto con ciò che sarebbe giusto per lui fare, viene semplicemente collocato, in modo conveniente rispetto alle sue azioni (pro meritis), nei gradi più bassi della gerarchia delle creature47. Non c’è dunque spazio per una dimostrazione razionale dell’esistenza del male; esso coincide infatti soltanto con la tendenza delle cose imperfette alla corruzione e con quella libera dell’uomo ad allontanarsi da Dio. Agostino affronterà il tema del male in diverse altre opere, spesso ancora in contrasto con rappresentanti del mondo manicheo. Nella sua produzione sono presenti gli atti di due dibattiti pubblici, tenuti a più di dieci anni di distanza, con due rappresentanti del mondo manicheo, Fortunato e Felice. Nella disputa contro Fortunato, avvenuta attorno al 392, Agostino discute direttamente dei capisaldi della dottrina manichea e offre ancora una volta una testimonianza sul ruolo dell’esegesi biblica nel suo sistema filosofico. Il punto di partenza, tanto per Agostino quanto per Fortunato, è l’indubitabile esistenza, nel mondo, del male. Per un verso, Fortunato sostiene una ‘cosmogonia’ nella quale, per difendere i suoi regna dalla gens tenebrarum che li attaccava, Dio le ha opposto una virtus che, commista con il principio negativo che combatteva, ha dato vita al mondo48. È que-
47 Cf. ibid., 7, 9, 1349, p. 95, 5-12: «Sed Dei bonitas eo rem perduci non sinit et omnia deficientia sic ordinat, ut ibi sint ubi congruentissime possint esse, donec ordinatis motibus ad id recurrant unde defecerunt. Itaque etiam animas rationales, in quibus potentissimum est liberum arbitrium, deficientes a se in inferioribus creaturae gradibus ordinat, ubi esse tales decet. Fiunt ergo miserae divino iudicio, dum convenienter pro meritis ordinantur». In queste pagine, direttamente collegate con le coeve riflessioni del De libero arbitrio, Agostino pone le premesse per le conclusioni cui arriverà nelle opere degli anni successivi; affermare infatti la non sostanzialità del male e il suo essere ricompreso nel più generale piano ordinativo di Dio lo costringerà poi ad ammettere che anche le azioni umane sono ricomprese in questo ordine presieduto da Dio, nel tentativo di conciliare una collocazione degli uomini pro meritis con l’azione divina che si muove per gratiam. 48 Cf. Contra Fortunatum, 113, pp. 83,7-22 - 84,1-7: «Augustinus dixit: Ego iam errorem puto, quam antea veritatem putabam: utrum recte existimem, a te praesente audire cupio. Fortunatus dixit: Coepta errorem exponere. In primis summum errorem puto, omnipotentem Deum, in quo una nobis spes est, ex aliqua parte violabilem, aut coinquinabilem, aut corruptibilem credere. Hoc vestram haeresim affirmare scio; non quidem verbis. quibus nunc usus sum: nam et vos interrogati confitemini Deum esse incorruptibilem et omnino. inviolabilem et incoinquinabilem; sed cum coeperitis caetera exponere, cogimini eum corruptibilem, penetrabilem, et coinquinabilem profiteri. Dicitis enim aliam nescio quam gentem tenebrarum adversus Dei regnum rebellasse: Deum autem omnipoten-
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sta, sostiene Fortunato, l’unica spiegazione possibile dell’esistenza, nel creato, di cose positive e negative: che esse dunque derivino da due sostanze diverse49. Agostino ritiene invece il racconto manicheo insostenibile; affermare che il mondo sia nato come conseguenza della strategia ‘difensiva’ di Dio significa ammettere che Dio temesse le conseguenze dell’azione del principio negativo, il che è in aperta contraddizione con la sua natura perfetta e, in ciò, inattaccabile. Il male non deriva dunque dalla compresenza di più sostanze ma dal peccato dell’uomo50. Il tema della relazione tra azione dell’uomo e presenza nel mondo del male, già drammaticamente emerso nella stesura della prima parte del De libero arbitrio, si ripresenta con ancor maggiore radicalità in queste pagine e fornisce ad Agostino, nel confronto con Fortunato, la possibilità di mostrare ai Manichei quella che egli ritiene essere la più corretta modalità d’esercizio dell’ermeneusi scritturale. È Fortunato che propone ad Agostino di confrontarsi su un particolare passaggio della lettera agli Efesini; in esso si afferma che gli uomini, nella condizione di chi aveva commesso colpe e peccati, erano per natura figli dell’ira e seguaci del principe delle potenze dell’aria, prima che Dio facesse sì, in Christo, che per grazia e non per meriti giungesse la salvezza; gli uomini sono stati così rigenerati per le opere buone, prediposte da Dio affinché essi al loro interno, nel loro perimetro procedessero51. Per Fortunato, l’espressione di Paolo naturaliter filii irae conferma l’esistenza di una sostanza malvagia, segnatamente quella corporea, contro la quale si muove invece la sostanza buona spiri-
tem, cum videret quanta labes et vastitas immineret regnis suis, nisi aliquid adversae genti opponeret, et ei resisteret, misisse hanc virtutem, de cuius commixtione cum malo et tenebrarum gente mundus sit fabricatus. Hinc esse quod hic animae bonae laborant, serviunt, errant, corrumpuntur: ut necessarium haberent liberatorem, qui eas ab errore purgaret, et a commixtione solveret, et a servitute liberaret. Hoc ego nefas puto credere, Deum omnipotentem aliquam adversam gentem timuisse, aut necessitatem esse passum, ut nos in aerumnas praecipitaret». 49 Cf. ibid., 14, 117, p. 91, 5-12: «Fortunatus dixit: (…) Facta consonant, sed quia inconvenientia sibi sunt, haec per hoc ergo constat non esse unam substantiam, licet ex unius iussione eadem ad compositionem mundi huius et faciem venerint. Caeterum rebus ipsis patet quia nihil simile tenebrae et lux, nihil simile veritas et mendacium, nihil simile mors et vita, nihil simile anima et corpus, et caetera istis similia quae et nominibus et speciebus distant ab invicem». 50 Cf. ibid., 15, 117, p. 91, 19-23: «Augustinus dixit: Contraria ista quae te movent, ut adversa sentiamus, propter peccatum nostrum, id est, propter peccatum hominis contigerunt. Nam omnia Deus et bona fecit, et bene ordinavit; peccatum autem non fecit: et hoc est solum quod dicitur malum, voluntarium nostrum peccatum». 51 Cf. Ef 2, 1-3.
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tuale. L’interpretazione fornita da Agostino restituisce invece, nella sua complessità, tutte le difficoltà del tema che affronta. Paolo infatti afferma che la condizione di perdizione dell’uomo è da attribuire alla colpa e al peccato; ma non c’è colpa né peccato se non c’è una deliberazione del libero arbitrio che induce la volontà a scegliere ciò che va contro il volere divino. Se gli uomini si fossero trovati in quella condizione di peccato naturaliter, vale a dire perché in qualche modo costretti dalla presenza di una sostanza malvagia, la loro non sarebbe stata una colpa, perché le loro azioni non sarebbero state frutto di una scelta. Poiché dunque Dio ha deciso, secondo misericordia, di perdonare quei peccati, e i peccati implicano la libertà della volontà e non il determinismo della natura, Paolo non può far riferimento in quei versetti, come invece sosteneva Fortunato, all’esistenza di una sostanza corporea malvagia dalla cui nefasta influenza Dio avrebbe salvato, per il tramite di Cristo, gli uomini52. Per difendere le proprie tesi, Agostino e Fortunato si scambiano reciprocamente accuse, citando l’uno contro l’altro versetti biblici a difesa delle loro contrastanti posizioni. I presenti al dibattito però rumoreggiano, perché più che a uno scambio vicendevole di accuse e di passi scritturali, vogliono che si proceda secondo ragione53. La contestazione degli astanti sembra un vero e proprio invito a seguire proprio il metodo esegetico che Agostino stesso aveva individuato nel De moribus: analizzare il testo sacro alla luce non della sua semplice littera (con uno scambio di versetti di opposto segno e significato) ma discutendo filosoficamente la coerenza delle conseguenze che il suo contenuto pone alla ragione. Costretti dunque dall’uditorio a non procedere secondo la semplice riproposizione di passi biblici, ma fornendone una intelligenza razionale, Agostino e Fortunato approfon52
Cf. Contra Fortunatum, 17, 119, pp. 98,14-28 - 97,1-2: «Augustinus dixit: Ista Apostoli lectio, quam recitare voluisti si non fallor, pro mea plurimum, et contra tuam fidem facit. Primo, quia ipsum liberum arbitrium, quo ego dixi fieri ut anima peccet, satis hic expressum est, cum peccata nominavit, et cum reconciliationem nostram dixit fieri cum Deo per Iesum Christum. Peccando enim aversi eramus a Deo; tenendo autem praecepta Christi, reconciliamur Deo: ut qui peccatis mortui eramus, servantes praecepta eius vivificemur, et pacem habeamus cum illo in uno spiritu, a quo alienati eramus, non servantes mandata eius; sicuti de homine qui primus est constitutus, in fide nostra praedicatur. Ergo nunc quaero abs te, secundum eam lectionem quae lecta est, quomodo habeamus peccata, si natura contraria nos cogit facere quod facimus? Qui enim cogitur necessitate aliquid facere, non peccat. Qui autem peccat, libero arbitrio peccat. Quare sit nobis poenitentia imperata, si nos nihil mali fecimus, sed gens tenebrarum?» 53 Cf. ibid., 19, 121, p. 97, 8-9: «Hic strepitus factus est a considentibus, qui rationibus potius agi volebant».
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Cercare nelle Scritture: i primi scritti antimanichei
discono il tema della relazione tra natura e peccato dell’uomo, giungendo a conclusioni irrimediabilmente inconciliabili perché figlie di una petizione di principio. Entrambi ritengono indiscutibile, infatti, la condizione di peccato nella quale versa l’umanità; ma, se per Fortunato essa non può che essere dovuta alla presenza, nell’uomo, di una contraria natura che lo ha costretto all’errore, per Agostino essa deriva dall’incapacità dell’uomo di resistere alla cupiditas. Il contrasto tra le due posizioni appare insanabile. Se infatti alla tesi di Fortunato Agostino può obiettare che una azione compiuta per una inclinazione naturale non è imputabile, e dunque non è una colpa, Fortunato può a sua volta contestare ad Agostino che il cedimento dell’uomo alla cupidigia non costituisce una risposta ultimativa al problema, perché sarebbe necessario interrogarsi ulteriormente sul motivo di tale cedimento. Nella conclusione del dibattito, però, è Agostino che incalza Fortunato fino a costringerlo quasi alla ritrattazione con una argomentazione che, per gli sviluppi successivi del suo sistema, specialmente in tema di libertà umana e grazia divina, è di grande rilievo. Agostino conduce infatti Fortunato ad ammettere che, se si seguisse la dottrina manichea, si dovrebbe concludere che Dio ha precipitato le anime degli uomini nel mondo della mescolanza perché costretto dal timore dell’attacco ai suoi regni da parte del principio delle tenebre54. Ciò implica che Dio ha agito per la necessità di contrastare, dandogli una forma, un modus, il principio negativo55 e che, per farlo, ha dovuto in qualche modo abbandonare le anime degli uomini a una condizione ‘immoderata’ di perdizione56, per poi sentirsi per certi versi in obbligo di salvarle. Ma – conclude Agostino – perché precipitarle per poi essere quasi costretto a redimerle comunque57? 54 Cf. ibid., 27, 127, p. 109, 13-16: «Augustinus dixit: Premitur ergo Deus necessitate? Fortunatus dixit: Iam hoc est: noli ad invidiam excitare id quod dictum est, quod non necessitati facimus subditum esse Deum, sed voluntarie misisse animam». 55 Cf. ibid., 34, 129, p. 111, 18-22: «Augustinus dixit: Unde dixerit Dominus noster: ‘Potestatem habeo ponendi animam meam, et potestatem habeo sumendi eam’ (Gv 10, 18), omnibus notum est: quia passurus erat, et resurrecturus. Ego autem abs te iterum atque iterum quaero, si Deo nihil noceri poterat, cur huc animas misit? Fortunatus dixit: Naturae contrariae modum imponere». 56 Cf. ibid., 35, 129, pp. 111,24 - 112,1-3: «Augustinus dixit: Et omnipotens Deus, misericors et omnium summus, ut modum imponeret naturae contrariae, ideo illam moderatam esse voluit, ut nos immoderatos efficeret? Fortunatus dixit: Sed ideo ad se revocat». 57 Cf. ibid., 36, 129, p. 112, 4-8: «Augustinus dixit: Si ad se revocat ab immoderatione, si a peccato, ab errore, a miseria; quid opus erat tanta mala animam pati per tantum tempus, donec mundus finiatur: cum Deo, a quo eam dicitis missam, noceri nihil possit? Fortunatus dixit: Quid ergo dicturus sum?».
4. Il problema del male
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Nell’indurre alla resa Fortunato58, Agostino ribadisce dunque con forza che la redenzione per il tramite della grazia interviene sempre a emendare una colpa, vale a dire un comportamento imputabile e, per questo, necessariamente libero, che è il vero fondamento della presenza, nella vita dell’uomo, del male. La libertà dell’arbitrio che orienta la volontà si presenta, dunque, come una necessità razionale implicata dalla misericordia divina, che non sarebbe tale se non emendasse una colpa imputabile. Nel confronto con Fortunato, anche spinto dai partecipanti al dibattitto, Agostino riesce così a fornire un esempio concreto di quella esegesi biblica ‘razionale’ (qui applicato al testo paolino della lettera agli Efesini) delineato nel De moribus e nel De Genesi contra Manichaeos e che, nella pratica, consiste nell’assumere come vera la littera scritturale (nel caso specifico, Paolo che parla di culpa), cercando di comprenderne razionalmente le implicazioni necessarie (come nel caso della definizione di culpa che necessariamente implica la presenza della libertà d’azione e non della necessità di natura)59.
58 Cf. ibid., 37, 130, p. 112, 9-24: «Augustinus dixit: Et ego novi non te habere quid dicas, et me cum vos audirem in hac quaestione nunquam invenisse quod dicerem; et inde fuisse admonitum divinitus ut illum errorem relinquerem, et ad fidem catholicam me converterem, vel potius revocarem, ipsius indulgentia qui me huic fallaciae semper inhaerere non sivit. Sed si confiteris te non habere quod respondeas; omnibus audientibus et recognoscentibus, quoniam fideles sunt, catholicam fidem, si permittunt et volunt, exponam. Fortunatus dixit: Sine praeiudicio professionis meae dixerim: illa quae a te opponuntur cum retractavero meis cum maioribus, si minus responderint interrogationi huic meae, quae similiter a te nunc mihi offertur; erit in mea contemplatione (quia et ego animam meam cupio certa fide liberari) venire ad huius rei inquisitionem, quae a te mihi offertur, et ostensurum te polliceris». 59 Di lì a pochi anni il tema del rapporto tra libertà dell’uomo e azione di Dio si radicalizzerà nel pensiero di Agostino nella medesima direzione, giungendo alla conclusione che ciò che per certi versi costringe il pensiero a ritenere l’uomo libero è la necessità di conciliarne l’azione con l’assoluta equità del giudizio divino.
CAPITOLO 4
CAMMINARE NELLE SCRITTURE: I PRIMI TESTI ESEGETICI
1. Un modello esegetico ‘coerentista’ (393-395) L’idea che Agostino sviluppa nei primi testi antimanichei, la convinzione cioè che l’interpretazione del testo sacro abbia moventi e metodi filosofici, muove anche i suoi primi testi dedicati direttamente all’esegesi scritturale, alla composizione dei quali attende già dai primi anni del suo ritorno in Africa1. Nelle opere antimanichee l’ermeneutica biblica risultava specificamente funzionale a ribadire l’infondatezza delle tesi degli avversari; i primi commenti organici alle Scritture invece non si presentano come opere d’occasione o polemiche ma come segmenti di una riflessione più complessa, in ciò perfettamente coesi con il quadro generale delineato da Agostino2. La ‘filosofia cristiana’ di cui egli disegna i tratti nei primi anni della sua produzione, infatti, si presenta come quel percorso di ricerca che – come detto – trova
1 Agostino affermerà con forza, all’indomani della sua ordinazione sacerdotale, come ai ministri della Chiesa sia richiesta una attenta conoscenza e un approfondito studio delle Scritture; cf. Epistola ad Valerium, XXI (391), 3, PL 33, 88, p. 49, 33-46: «Quod si non damnando, sed miserando fecit, hoc enim spero certe vel nunc cognita aegritudine mea, debeo Scripturarum eius medicamenta omnia perscrutari, et orando ac legendo agere, ut idonea valetudo animae meae, ad tam pericolosa negotia tribuatur; quod ante non feci, quia et tempus non habui. Tunc enim ordinatus sum, cum de ipso vacationis tempore ad cognoscendas divinas Scripturas cogitaremus, et sic nos disponere vellemus, ut nobis otium ad hoc negotium posset esse. Et quod verum est, nondum sciebam quid mihi deesset ad tale opus, quale me nunc torquet et conterit. Quod si propterea in re ipsa didici quid sit homini necessarium, qui populo ministrat sacramentum et verbum Dei, ut iam non mihi liceat assequi quod me non habere cognovi: iubes ergo ut peream, pater Valeri!». 2 Cf. M. Simonetti, Ermeneutica biblica di Agostino, in «Annali di storia del l’esegesi», 12 (1995), pp. 393-418; N. Kamimura, Augustine’s Scriptural Exegesis in De Genesi ad litteram liber unus imperfectus, in St. Augustine and His Opponents, a c. di J. Baun, Leuven 2010, pp. 229-234.
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Camminare nelle Scritture: i primi testi esegetici
nella Rivelazione il punto di partenza, pre-razionale e fondativo. L’unica soluzione che possa evitare lo scacco gnoseologico che inevitabilmente coglie il pensiero quando cerca autonomamente la verità è infatti per Agostino il ‘darsi’ di un orizzonte di senso che non sia a sua volta razionale (ché, in tal caso, ricadrebbe anch’esso nel perimetro di un inevitabile scettismo) e al quale si debba aderire non in quanto risultato di un calcolo logico, ma in virtù della accettazione volontaria di un dono gratuito, come ipotesi che efficacemente fonda il sistema. Questo non significa che il dato di fede non possa essere pensato, cioè valutato razionalmente; esso però deve preliminarmente essere ‘detto’, narrato e accettato per poi essere razionalmente descritto nella sua più generale, universale e intima coerenza. Parlare delle Scritture significa dunque per Agostino percorrere una strada e invitare il lettore a un viaggio comune nelle pagine di un ‘romanzo sacro’ che come tale va accolto, poi esplorato e infine spiegato, e lungo il cui procedere si avanza per giustapposizioni di immagini e solo dopo per inferenze logiche. Commentare le Scritture significa, per questo, per Agostino, accoglierne le informazioni e analizzare la loro coerenza logica, la loro pensabilità a parte hominis con gli strumenti di cui la ricerca filosofica dota l’uomo. L’esegesi biblica trova dunque la sua valenza razionale e filosofica non perché pretenda di comprendere veramente cosa il testo sacro voglia dire (perché ciò equivarebbe ad affermare che l’uomo ha la possiblità di intendere quali siano state le reali intenzioni comunicative di Dio) ma nella capacità circolare, propria del ragionamento filosofico, di accogliere la littera scritturale, procedere sulla sua scorta nella ricerca, ripensarla alla luce dei risultati di quell’indagine e, così, nuovamente porla a fondamento del continuo procedere della ricerca stessa, in un modello che Agostino stesso teorizzerà nelle pagine del De doctrina christiana 3. Proprio per ribadire la natura parziale, prima narrativa e poi inferenziale del commento biblico4, Agostino avverte l’esigenza, nelle prime
3
Cf. infra, p. 125. De Genesi ad littera liber imperfectus, 1, 1, 219, p. 459, 4-9: «De obscuris naturalium rerum, quae omnipotente Deo artifice facta sentimus, non affirmando, sed quaerendo tractandum est; in Libris maxime quos nobis divina commendat auctoritas, in quibus temeritas asserendae incertae dubiaeque opinionis, difficile sacrilegii crimen evitat: ea tamen quaerendi dubitatio catholicae fidei metas non debet excedere». Per i problemi legati all’edizione del testo, cf. M. M. Gorman, The Text of Saint Augustine’s De Genesi ad litteram imperfectus liber, in «Recherches augustiniennes», 20 (1985), pp. 65-86. 4
1. Un modello esegetico ‘coerentista’
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pagine del testo progettato per commentare il Genesi, e poi rimasto incompiuto, di riaffermare gli elementi più significativi di quel perimetro di fede che è confine e luogo del percorso di esegesi scritturale: Dio, Padre onnipotente, attraverso il Figlio (per Filium), Sapienza e Virtù a lui consubstantialis e coaeternus, e nell’unità dello Spirito Santo, ha creato dal nulla tutte le cose che, dunque, non condividono la sostanza divina5 ma, che per il fatto stesso di essere state create da Dio, sono buone; il male, infatti, coincide o con il peccato o con la punizione inflitta al peccato6. Per sollevare l’umanità da tale condizione, la Sapienza di Dio ha assunto (suscipere) la forma dell’uomo, incarnandosi, e gli ha poi fornito supporto, tramite lo Spirito Santo, affinché, nella comunità della Chiesa universale (catholica) fosse possibile per tutti la salvezza7. A tal fine, le Scritture propongono due racconti, diversi ma intrecciati: per un verso il metaracconto ierostorico dei movimenti della volontà di Dio (prima creatore, poi salvatore) e, per un altro, il racconto degli effetti storici, particolari, evidenti di quei due movimenti nel procedere umano degli avvenimenti8. Paradossalmente, nessuno di questi due racconti è, in quanto tale, oggetto della ermenutica scritturale. Il primo racconto, che si muove sullo sfondo e dà senso e direzione al testo sacro, non è sottoponibile a nessuna operazione ermeneutica ma va accettato in quanto tale perché la volontà divina è assolutamente impenetrabile per l’uomo ed eccede le sue capacità razionali9; per un altro verso, invece, i vari ‘luoghi’ storici nei quali la volontà divina si è manifestata, e che sono oggetto del secondo racconto, hanno una natura così particolare e individuale che, in quanto tale, non può essere interpretata ma solo accolta perché è potenzialmente aperta, proprio per la sua dimensione ‘umana’ e storica, alle più diverse letture10. È nello spazio tra questi due racconti 5
Cf. De Genesi ad litteram liber imperfectus, 1, 2, 219, p. 460. Cf. ibid., 1, 3, 220, p. 460. 7 Cf. ibid., 1, 4, 220, p. 461. 8 Cf. ibid., 2, 5, 222, p. 461, 6-7: «Secundum hanc fidem quae possint in hoc libro quaeri et disputari, considerandum est». 9 Cf. ibid., 3, 8, 223, pp. 463,26-28 - 464,1-3: «Sed quoquo modo hoc se habeat (res enim secretissima est, et humanis coniecturis impenetrabilis), illud certe accipiendum est in fide, etiamsi modum nostrae cogitationis excedit, omnem creaturam habere initium; tempusque ipsum creaturam esse, ac per hoc ipsum habere initium, nec coaeternum esse Creatori». 10 In diversi punti del testo Agostino ribadisce come il racconto delle Scritture sia costruito per essere compreso dagli uomini, distribuendo nel tempo una azione divina che non è temporale; cf. ibid., 7, 28, 231, p. 479, 2-6: «Commodissime in hoc libro, quasi morarum per intervalla factarum a Deo rerum digesta narratio est, ut ipsa dispositio, quae ab infirmioribus animis contemplatione 6
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Camminare nelle Scritture: i primi testi esegetici
che Agostino disegna il perimetro di movimento che deve avere, a suo giudizio, una ermeneutica filosofica del testo sacro. Per cercare di spiegare, per esempio, perché la materia di tutte le cose venga chiamata nei primi versetti del Genesi ‘cielo e terra’, poi ‘terra caotica e abisso’ e infine ‘acqua’, Agostino ipotizza che, con le tre espressioni, le Scritture volessero intendere tre stadi di tale materia, vale a dire nel suo essere tratta dal nulla, nella sua condizione informe e infine nel momento della modellazione divina, che la rende docile come l’acqua nell’assumere forme varie. Ciò che interessa l’azione ermeneutica, per Agostino, non è dunque né il dato scritturale particolare, che narra aspetti specifici (i versetti del Genesi contenenti le espressioni ‘cielo e terra’, ‘terra caotica e abisso’ e ‘acqua’) né il più profondo dato di fede del metaracconto (la modalità con la quale Dio ha creato ogni cosa dal nulla) ma la possibilità di trarre, dalla littera del primo e dalla fede nel secondo, un orizzonte di pensabilità: è razionalmente ovvio che una materia informe vada plasmata e ‘informata’ per dare vita a specifici individui11. Commentare le Scritture non significa, dunque, per Agostino, né attenersi pedissequamente alla littera che, in quanto tale, si limita a presentare avvenimenti e personaggi, né pretendere di cogliere il significato profondo, cioè decriptarne la res ultima, vale a dire la volontà di Dio (protagonista del metaracconto ‘sotterraneo’), che di per sé resta impenetrabile. Non sarebbe dunque possibile immaginare, per l’ermeneusi scritturale, un approccio aletologico ‘corrispondentista’, che pretendesse cioè di dire vere le affermazioni del testo sacro in
stabili videri non poterat, per huiusmodi ordinem sermonis exposita quasi istis oculis cerneretur»; ibid., 9, 31, 233, p. 482, 7-9: «Secundum autem morarum intervallum prius aliquid et postea efficitur, sine quibus narratio factorum esse non potest quamvis sine his Deus ista efficere potuerit»; ibid., 13, 41, 237, pp. 488,24-29 - 489,1-3 : «‘Et posuit illa Deus in firmamento coeli, ut luceant super terram’ (Gen 1, 19) . Quomodo dixit: ‘Fiant in firmamento’; et quomodo nunc dicit: ‘Fecit Deus luminaria, et posuit in firmamento’; quasi extra sint facta, et post ibi posita, cum iam dictum sit ut ibi fierent? An hinc etiam atque etiam significatur, non ita Deum fecisse ut homines solent, sed ita narratum ut hominibus potuit: scilicet ut apud homines aliud sit, fecit; aliud, posuit: apud Deum autem utrumque idem sit, qui faciendo ponit, et ponendo facit?». Sulla possibilità (e, per certi versi, l’opportunità) che il testo sacro venga correttamente interpretato da autori e opere diverse, cf. De Trinitate, I, 13, 31, 844, p. 79, 205-207: «Tanto enim fortius convincuntur haeretici quanto plures exitus patent ad eorum laqueos evitandos». Cf. infra, p. 199. 11 Cf. De Genesi ad litteram liber imperfectus, 4, 16, 226, p. 469, 14-16: «Non invenimus evidentiorem similitudinem et propinquiorem rei de qua loquimur, in his rebus quae ab hominibus quomodocumque capi possunt»
1. Un modello esegetico ‘coerentista’
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virtù della loro effettiva corrispondenza con la res di cui esse parlano, perché tale oggetto, cioè Dio, è del tutto inconoscibile. È invece possibile procedere con una prospettiva ‘coerentista’, che cioè giudichi vere le affermazioni scritturali in quanto tutte tra di loro consonanti e coerenti con gli effetti che esse producono12. Leggere dunque che Dio, che ha raccolto l’acqua perché apparisse l’asciutto (Gn 1, 9), vale a dire ha plasmato la materia informe per dare vita alle cose13 e, in tale azione creatrice, ha separato luce e tenebre (Gn 1, 4) suggerisce ad Agostino che anche le mancanze (privationes), i punti oscuri non sfuggono al Suo piano ordinato provvidenzialmente14; Dio dunque, pur non essendo auctor dei peccati umani, è certamente ordinator dei castighi che essi meritano e che li rendono in qualche modo ‘ordinati’15. Nel creare e reggere l’universo, Dio lo dota di tutte le caratteristiche che lo rendono tale (Gn 1, 10-25), lo popola di piante e animali, e in ciò prepara l’avvento dell’uomo che trova nell’esercizio della sua razionalità interpretante del creato la prova più concreta dell’esser stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Se dunque il primo, incompiuto commento al Genesi – che verrà poi ripreso ed ampliato anni più tardi nei dodici libri del De Genesi ad litteram – è funzionale per Agostino a collocare, in un contesto scritturale, la sua complessa visione metafisica del mondo, nato per volontà di Dio e dal suo piano provvidenziale retto, orientato e reso, in ciò, intellegibile alla ragione umana che sa ‘decriptare’ le linee di quell’ordine, il coevo commento al ‘Discorso della montagna’ permette invece ad Agostino di applicare la medesima logica ermeneutica (accoglimento della littera, discussione delle sue possibili interpretazioni, analisi della coerenza logica delle conclusioni cui l’interpretazione giunge) al versante morale. Nel dare avvio al suo commento del sermo in monte riportato da Matteo, Agostino si rivolge infatti direttamente al suo lettore per invitarlo a considerare che una adeguata analisi del testo
12
Cf. d’Agostini, Introduzione alla verità cit., p. 35. Cf. De Genesi ad litteram liber imperfectus, 10, 32, 234, p. 483, 4-6: «Et bene aqua congregatur, ut appareat arida; id est, cohibetur quod fluitat materiae, ut quod obscurum est illustretur». 14 Cf. ibid., 5, 25, 229, p. 475, 7-12: «Non enim Deum fecisse tenebras dictum est: quoniam species ipsas Deus fecit, non privationes quae ad nihilum pertinent, unde ab artifice Deo facta sunt omnia; quas tamen ab eo ordinatas intellegimus, cum dicitur: ‘Et divisit Deus inter lucem et tenebras’ (Gn 1, 4), ne vel ipsae privationes non haberent ordinem suum, Deo cuncta regente atque administrante». 15 Cf. ibid., 229, p. 475, 17-20: «Nam et vitiorum nostrorum non est auctor Deus; sed tamen ordinator est, cum eo loco peccatores constituit, et ea perpeti cogit quae merentur». 13
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Camminare nelle Scritture: i primi testi esegetici
biblico può condurre ad un perfectus vitae christiane modus in relazione a ciò che concerne i praecepta utili per coltivare mores optimi 16. Se dunque alla lettura di un testo cosmopoietico come il Genesi può seguire una analisi della struttura metafisica dell’esistente, la meditazione su di un testo parenetico come il discorso della montagna non può che implicare una analisi della struttura morale dell’esistenza. Salito su di un monte, simbolo dell’altezza dalla quale impartiva i suoi precetti, Cristo indica infatti all’umanità, in questo sermo, le regole per una vita perfetta, elencando le beatitudini, che Agostino singolarmente commenta. L’analisi agostiniana, nell’affrontare i temi più diversi, dall’adulterio al corretto rapporto tra i coniugi17, dalle forme del giuramento18 a quelle dell’elemosina e della preghiera19, ricama, attorno ai versetti di Matteo, un vero e proprio manuale di precetti comportamentali e restituisce ancora una volta l’immagine di un movimento ermeneutico funzionale non a comprendere l’oggetto-Dio ma a far sì che l’uomo possa meditare sulla sua giusta collocazione morale nel più complessivo piano provvidenzialmente ordinato del reale20.
2. Tra legge e grazia: il confronto con Paolo (394-395) Nella complessa relazione con le Scritture un ruolo a sé è attribuito, da Agostino, ai testi paolini. Le riflessioni sulle lettere di Paolo sono infatti il luogo in cui Agostino ribadisce l’idea che la fede, e il messaggio
16
Cf. De sermone Domini in monte, I, 1, 1, 1229-1230, pp. 1-2, 1-6 e 25-27: «Sermonem quem locutus est Dominus noster Iesus Christus in monte, sicut in Evangelio secundum Matthaeum legimus, si quis pie sobrieque consideraverit, puto quod inveniet in eo, quantum ad mores optimos pertinet, perfectum vitaechristianae modum. (…) Hoc dixi, ut appareat istum sermonem omnibus praeceptis quibus christiana vita informatur esse perfectum». Cf. Mt 5-7. 17 Cf. De sermone Domini in monte, 14,39 - 16,50, 1248-1255, pp. 41-56. 18 Cf. ibid., 17, 52-53, 1256-1257, pp. 59-63. 19 Cf. ibid., II, 2,9 - 3,11, 1275-1274, pp. 99-102. 20 Cf. ibid., I, 2, 9, 1233, p. 6, 109-121: «‘Beati pacifici, quoniam ipsi filii Dei vocabuntur’ (Mt 5, 9). In pace perfectio est, ubi nihil repugnat; et ideo filii Dei pacifici, quoniam nihil resistit Deo, et utique filii similitudinem patris habere debent. Pacifici autem in semet ipsis sunt, qui omnes animi sui motus componentes et subicientes rationi, id est menti et spiritui, carnalesque concupiscentias habentes edomitas fiunt regnum Dei, in quo ita sunt ordinata omnia, ut id quod est in homine praecipuum et excellens, hoc imperet ceteris non reluctantibus, quae sunt nobis bestiisque communia, atque id ipsum quod excellit in homine, id est mens et ratio subiciatur potiori, quod est ipsa veritas unigenitus Dei Filius. Neque enim imperare inferioribus potest, nisi superiori se ipse subiciat».
2. Tra legge e grazia: il confronto con Paolo
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divino che la genera, siano atti divini preliminari a qualsivoglia percorso, ricerca o merito umano. Plasticamente rappresentata dalla violenza scenica del tolle, lege 21, la presenza di Paolo nella biografia spirituale e speculativa è sempre infatti funzionale, per Agostino, a ribadire quanto l’intervento di Dio nella vita dell’uomo non si possa mai configurare come un premio (ché l’uomo non avrebbe capacità naturali di meritarlo, nella sua condizione decaduta) ma come un dono gratuito. Per questo è significativo che la composizione dell’Epistulae ad Romanos inchoata expositio e della Expositio quarundam propositionun ex Epistola ad Romanos – il primo un testo incompiuto e il secondo una raccolta di quaestiones paoline analizzate singolarmente – si collochi tra il 394 e il 395, subito prima cioè della stesura dei testi in cui con maggior forza Agostino concentrerà la sua attenzione sui temi del rapporto tra grazia e fede22. Già nel commentare Paolo, infatti, Agostino afferma che la iustificatio fidei non viene concessa da Dio agli uomini che gli altri uomini ritengono giusti, come se appunto fosse una (immeritabile) ricompensa, intellegibile nelle sue logiche; esattamente all’opposto è infatti essa che rende iusti gli uomini cui è concessa23: Questo dunque intende l’Apostolo dicendo che la grazia del Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo è venuta per tutti. E mostra appunto che la chiama grazia perché non è qualcosa che è dovuto come ricompensa di azioni giuste ma come dono gratuito24.
Dio rende gli uomini capaci di amarlo25; sono anzi proprio i suoi richiami che instradano l’uomo al pentimento del peccato, perché nes21
Cf. supra, p. 28. Cf. infra, pp. 139 e 155. 23 Cf. Epistulae ad Romanos inchoata expositio, 1, 2087-2088, p. 145, 3-10: «In Epistula, quam Paulus apostolus scripsit ad Romanos, quantum ex eius textu intellegi potest, quaestionem habet talem: Utrum Iudaeis solis Evangelium Domini nostri Iesu Christi venerit propter merita operum Legis; an vero nullis operum meritis praecedentibus omnibus Gentibus venerit iustificatio fidei, quae est in Christo Iesu, ut non, quia iusti erant homines, crederent, sed credendo iustificati deinceps iuste vivere inciperent»; cf. Expositio quarundam propositionun ex Epistola ad Romanos, 1, 2063, p. 3, 3-5: «Sensus hi sunt in Epistola ad Romanos Pauli apostoli. Primo omnium, ut quisque intellegat in hac epistola quaestionem versari operum legis et gratiae». 24 Epistulae ad Romanos inchoata expositio, 1, 2088, p. 145, 10-13: «Hoc ergo docere intendit Apostolus omnibus venisse gratiam Evangelii Domini nostri Iesu Christi. Quam propterea etiam gratiam vocari ostendit, quia non quasi debitum iustitiae redditum est sed gratuito datum». 25 Cf. ibid., 7, 2093, p. 155, 2-3: «Prior enim dilexit nos ante omnia merita, ut et nos eum dilecti diligeremus». 22
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Camminare nelle Scritture: i primi testi esegetici
suno si pentirebbe dei propri errori se non in virtù della admonitio derivante da una chiamata di Dio («neminem peccati sui paeniteret nisi admonitione aliqua vocationis Dei»)26. La grazia è dunque ciò grazie alle quale l’uomo è liberato dal peccato27; anche allorquando, nel confronto con quanto prescrive la legge, l’uomo si rende conto che la sua azione è sbagliata, egli non ha infatti autonomamente la forza di salvarsi. L’uomo può dunque trovarsi in una di queste quattro condizioni: o vive prima della legge, o vive sotto la legge, o vive sotto la grazia o vive nella pace28. Ante legem l’uomo non si oppone al peccato perché, in assenza di un precetto che gli indichi univocamente cosa sia giusto e cosa sbagliato, non riconoce nemmeno cosa debba essere considerato come una azione peccaminosa29. Nella condizione sub lege, l’uomo prende consapevolezza dei suoi errori ma è privo della forza per evitarli; egli è dunque ben più misero di quando non aveva la legge, perché viene a conoscenza della sua condizione peccaminosa ma è incapace, per fragilità, di salvarsi30. L’arrivo della legge non toglie il peccato, che può essere eliminato soltanto per il tramite della grazia (per solam gratiam) ma lo mostra in tutta la sua evidenza e, proprio per l’incapacità umana di eliminarlo, rende evidente al contempo la necessità della grazia divina31. Prostrato da questa tragica consapevolezza, l’uomo implora l’auxilium di Dio e, nella stagione della grazia (precondizione di ogni comportamento retto32 ed elargita a quelli che
26 Cf. ibid., 9, 2094, p. 156, 24-26: «Iusta est ergo gratia Dei et grata iustitia, cum in eo quoque etiam poenitentiae meritum gratia praecedat, quod neminem peccati sui paeniteret nisi admonitione aliqua vocationis Dei» 27 Cf. ibid., 11, 2095, pp. 159-160. 28 Cf. Expositio quarundam propositionun ex Epistola ad Romanos, 12, 2065, p. 6, 22-24: «Itaque quattuor istos gradus hominis distinguamus: ante legem, sub lege, sub gratia, in pace». 29 Ibid., 2065, p. 7, 3-4: «Ante legem ergo non pugnamus, quia non solum concupiscimus et peccamus, sed etiam approbamus peccata». 30 Cf. ibid., 2065, p. 7, 5-9: «Sub lege pugnamus, sed vincimur; fatemur enim mala esse quae facimus, et fatendo mala esse, utique nolumus facere, sed quia nondum est gratia, superamur. In isto gradu ostenditur nobis, quomodo iaceamus, et dum surgere volumus et cadimus, gravius affligimur». A questo tema Agostino dedica quasi per intero l’Epistolae ad Galatas expositio, composta negli stessi anni. 31 Cf. ibidem, 2065, p. 7, 12-18: «Bona est ergo lex, quia ea vetat, quae vetanda sunt, et ea iubet, quae iubenda sunt. Sed cum quisque illam viribus suis se putat implere, non per gratiam Liberatoris sui, nihil ei prodest ista praesumptio; immo etiam tantum nocet, ut et vehementiore peccati desiderio rapiatur et in peccatis etiam praevaricator inveniatur». Cf. In Iohannis evangelium, III, 2, 1396-1397, pp. 20-21. 32 Cf. Expositio quarundam propositionun ex Epistola ad Romanos, 15, 2066, p. 9, 22-24: «Quod ergo bene operamur iam accepta gratia, non nobis sed illi tribuendum est, qui per gratiam nos iustificavit».
2. Tra legge e grazia: il confronto con Paolo
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Egli sapeva, nel piano presciente della sua provvidenza, vi avrebbero volontariamente aderito33) acquisisce la forza per vivere senza peccare34. Solo post mortem, infine, ci sarà luogo per la perfecta pax, lontana da ogni tentazione35. Dunque il libero arbitrio era presente in modo perfetto nel primo uomo, in noi invece prima della grazia non c’è un libero arbitrio capace di non farci peccare, ma soltanto di non desiderare di peccare. Perciò la grazia fa sì che non soltanto abbiamo la volontà di agire rettamente, ma ne abbiamo anche la capacità, non con le nostre forze, ma con l’aiuto del Liberatore, che ci donerà anche la pace perfetta nella resurrezione, quella pace perfetta che consegue dalla volontà buona36.
La prima stagione di ermeneusi dei testi sacri vede dunque Agostino ribadire la necessità che anche l’esercizio di interpretazione scritturale sia condotto seguendo i fili della coerenza razionale delle inferenze, cercando di intuire, oltre la littera, ciò che la pagina ispirata vuole e può comunicare. In tal senso, l’analisi dei testi di Paolo, condotta con rigorosa attenzione ai temi del peccato e della libertà umana, quasi costringe Agostino ad ammettere che le premesse così chiaramente delineate nei dialoghi in merito al rapporto tra la debolezza gnoseologica e morale dell’uomo e l’onnipotenza salvifica di Dio non possono 33 Cf. ibid., 47, 2076, p. 33, 15-21: «Non enim omnes, qui vocati sunt, secundum propositum vocati sunt; hoc enim propositum ad praescientiam et ad praedestinationem Dei pertinet. Nec praedestinavit aliquem, nisi quem praescivit crediturum et secuturum vocationem suam, quos et electos dicit. Multi enim non veniunt, cum vocati fuerint, nemo autem venit, qui vocatus non fuerit». 34 Cf. ibid., 12, 2065, p. 8, 5-13: «Sic ergo iacens cum se quisque cognoverit per seipsum surgere non valere, imploret Liberatoris auxilium. Venit ergo gratia, quae donet peccata praeterita et conantem adiuvet et tribuat caritatem iustitiae et auferat metum». 35 Cf. ibid., 12, 2066, p. 8, 5-13: «Hinc enim ostendit esse desideria, quibus non oboediendo, peccatum in nobis regnare non sinimus. Sed quoniam ista desideria de carnis mortalitate nascuntur, quae trahimus ex primo peccato primi hominis, unde carnaliter nascimur, non finientur haec, nisi resurrectione corporis immutationem illam, quae nobis promittitur, meruerimus, ubi perfecta pax erit, cum in quarto gradu constituemur. Ideo autem perfecta pax, quia nihil nobis resistet non resistentibus Deo». 36 Ibid., 2066, pp. 8, 18-22 - 9, 1-2: «Liberum ergo arbitrium perfecte fuit in primo homine, in nobis autem ante gratiam non est liberum arbitrium, ut non peccemus, sed tantum ut peccare nolimus. Gratia vero efficit, ut non tantum velimus recte facere, sed etiam possimus, non viribus nostris, sed Liberatoris auxilio, qui nobis etiam perfectam pacem in resurrectione tribuet, quae pax perfecta bonam voluntatem consequitur».
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Camminare nelle Scritture: i primi testi esegetici
che portare ad attribuire soltanto all’intervento gratuito divino le possibilità di salvezza che vengono concesse all’uomo. Il percorso compiuto da Agostino nel commentare i testi paolini e, più in generale, nei primi esperimenti di esegesi biblica, amplia e rafforza la visione del reale e dell’uomo costruita nei primi dialoghi. La presa d’atto della strutturale fragilità umana lo aveva guidato, sin dagli esordi della sua riflessione, a dire necessario l’intervento divino nella vita dell’uomo affinché il procedere della ricerca fosse sensato; la sua stessa esperienza biografica appare come il manifesto di un quaerere a lungo disperato che soltanto nell’incontro con le admonitiones divine si orienta in modo efficace. Nei testi esegetici Agostino riapplica la medesima logica, declinandola sul piano strettamente morale e soteriologico. Come la debolezza dei talenti gnoseologici dell’uomo richiede infatti che sia Dio a piegarsi verso la sua creatura per donarle gli strumenti utili a dar senso a quella ricerca, così la debolezza morale dell’umanità implica che, senza l’intervento della grazia divina, la condotta di vita degli uomini non li possa mai autonomamente condurre alla salvezza. Dopo aver dimostrato che il contenuto che Dio dona agli uomini, la notitia cioè che dà avvio alla ricerca, deve essere pre-razionale perché deve fondarla e non essere frutto di un ragionamento umano (alla cui debolezza essa va incontro), Agostino si convince – proprio in virtù del ruolo (che emerge dalla lettura antimanichea del Genesi e dalla meditazione sui testi paolini) che Dio ha come assoluto e unico garante dell’essere, del bene e del giusto – che anche la grazia divina debba essere pre-morale, vale a dire debba fondare il comportamento umano e non possa essere di esso un premio, perché è proprio della sua fragilità che essa va in soccorso nell’ottica di un sovradeterminato piano soteriologico e provvidenziale. Affermare dunque che gli uomini sono più o meno condannati pro meritis ma che a tale ‘collocazione’ si giunge solo per gratiam è l’anticipazione dello sforzo, compiuto di lì a pochi anni da Agostino soprattutto nell’Ad Simplicianum, di ricomprendere nel più generale piano ordinato e provvidenziale di Dio un giudizio che tenga conto tanto della responsabilità ‘personale’, e dunque imputabile al peccatore, quanto della conoscenza presciente che della storia ha Dio e della sua azione indubitabilmente giusta, e che quindi assuma le azioni umane in quanto responsabili ma le vincoli necessariamente al supporto gratuito di Dio. Integrare la visione del reale disegnata nei primi dialoghi (di natura quasi esclusivamente filosofica) con un corposo sforzo ermeneutico-scritturale permette dunque ad Agostino di saldare il Dio-ordine
2. Tra legge e grazia: il confronto con Paolo
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(che ponendo in essere il creato con regole universali garantisce l’intellegibilità ‘filosofica’ del reale) con il Dio-persona delle Scritture (che volendo l’uomo e amandolo garantisce la percorribilità ‘morale’ dell’esistenza), delineando un sistema metafisico-teologico necessariamente ‘chiuso’, nel quale cioè ogni atto dell’uomo, teso a una verace conoscenza o a un opportuno comportamento, non può che trovare collocazione in un complessivo, normato, provvidenziale ordinamento governato da Dio.
CAPITOLO 5
PENSARE LE SCRITTURE: IL DE DOCTRINA CHRISTIANA/1 (LIBRI I-III, 25, 36) (397)
1. I praecepta dell’ermeneusi scritturale In una lettera particolarmente accorata, inviata attorno al 395, nel periodo cioè della composizione dei primi commenti esegetici, Agostino condivide le sue riflessioni sul testo scritturale con Girolamo, impegnato nella traduzione in latino delle Scritture. Pur non avendo mai avuto occasione di conoscersi di persona – esordisce la lettera – Agostino avverte che lo unisce al frater Hieronymus una comunione di intenti (in unum nitimur) che lo spinge ad aprirsi e a confidargli alcune riflessioni che urgono nel suo animo relativamente ai comuni studi sulla dottrina cristiana («de studiis nostris, quae habemus in Christo Iesu Domino nostro»)1. In particolare, Agostino sembra voler consi1
Cf. Epistola ad Hieronymus, XXVIII (395), 1, PL 33, 111-112, pp. 92-93, 4-25: «Nunquam acque quisquam tam facie cuilibet innotuit, quam mihi tuorum in Domino studiorum quieta, laeta, et vere exercitatio liberalis. Quanquam ergo percupiam omnino te nosse; tamen exiguum quiddam tui minus habeo, praesentiam videlicet corporis: quam ipsam etiam posteaquam te beatissimus nunc episcopus, tum vero iam episcopatu dignus, frater Alypius vidit, remeansque a me visus est, negare non possum magna ex parte mihi esse relatu eius impressam; et ante reditum, cum te ille ibi videbat, ego videbam, sed oculis eius. Non enim animo me atque illum, sed corpore duos, qui noverit, dixerit, concordia dumtaxat et familiaritate fidissima, non meritis quibus ille antecellit. Quia ergo me primitus communione spiritus quo in unum nitimur, deinde illius ex ore iam diligis; nequaquam impudenter quasi aliquis ignotus commendo Germanitati tuae fratrem Profuturum, quem nostris conatibus, deinde adiutorio tuo vere profuturum speramus; nisi forte quod talis est, ut ipse tibi per eum fiam commendatior, quam ille per me. Hactenus fortasse scribere debuerim, si esse vellem epistolarum solemnium more contentus; sed scatet animus in loquelas communicandas tecum de studiis nostris, quae habemus in Christo Iesu Domino nostro; qui nobis multas utilitates et viatica quaedam demonstrati a se itineris, etiam per tuam caritatem non mediocriter ministrare dignatur». Agostino tornerà con Girolamo sull’argomento due anni più tardi; cf. Epistola ad Hieronymus, XL (397), 4, 7, PL 33, 157, pp. 163-164, 114-124: «Quare arripe, obsecro te, ingenuam et vere christianam
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Pensare le Scritture: il De doctrina christiana/1
gliare a Girolamo grande prudenza tanto nell’operazione di traduzione dell’Antico Testamento dall’ebraico al latino quanto nel commento dei testi sacri, ai quali non va mai attribuito, nemmeno teoricamente, un contenuto mendace (per non incorrere nel pericolo che tutto possa essere letto in modo distorto e non veritiero). Alla luce di tale devozione per il testo sacro e forte dei suoi primi esperimenti esegetici, Agostino si dedica alla composizione del De doctrina christiana, che si presenta come un manuale contenente i praecepta che devono guidare il lettore nella corretta interpretazione delle Scritture2 ma che, ben più profondamente, chiarisce quale sia per Agostino il risultato che l’ermeneusi scritturale può realisticamente raggiungere. Nell’analizzare preventivamente tutte le potenziali critiche che ritiene potrebbero essere mosse al suo testo, Agostino si sofferma su una specifica contrarietà, quella di quanti ritengono di esser capaci di interpretare correttamente il testo sacro, senza bisogno di apprendere norme e per pura ispirazione divina. Nell’affrontarne le obiezioni, Agostino ha modo di illustrare il fine eminentemente pedagogico del suo sforzo: se anche qualcuno avesse ricevuto per ispirazione divina la capacità naturale di comprendere il testo sacro, suo dovere sarebbe condividerne gli esiti con gli altri3. È infatti proprio a questo esercizio cum caritate severitatem, ad illud opus corrigendum atque emendandum, et palinodian, ut dicitur, cane. Incomparabiliter enim pulchrior est veritas Christianorum, quam Helena Graecorum. Pro ista enim fortius nostri martyres adversus hanc Sodomam, quam pro illa illi heroes adversus Troiam, dimicaverunt. Neque hoc ideo dico, ut oculos cordis recipias; quos absit ut amiseris: sed ut advertas, quos cum habeas sanos et vigiles, nescio qua dissimulatione avertisti, ut non intenderes quae consequantur adversa; si semel creditum fuerit, posse honeste ac pie scriptorem divinorum Librorum in aliqua sui operis parte mentiri». Cf. R. Hennings, The Correspondance between Augustine and Jerome, in Cappadocian Fathers cit., pp. 303-310; G. Menestrina, Il carteggio Agostino-Gerolamo. Note a margine di un recente studio, in «Cristianesimo nella storia», 18 (1997), pp. 387-396; Id., Varianti d’autore nel carteggio Gerolamo-Agostino, in Motivi letterari ed esegetici in Gerolamo, a c. di C. Moreschini - G. Menestrina, Brescia 1997, pp. 223-243. 2 Cf. De doctrina christiana, proem., 1, 15, p. 1, 1-4: «Sunt praecepta quaedam tractandarum Scripturarum, quae studiosis earum video non incommode posse tradi, ut non solum legendo alios qui divinarum Litterarum operta aperuerunt, sed et aliis ipsi aperiendo proficiant». Cf. F. Van Fleter, Augustine’s Principles of Biblical Exegesis, De doctrina Christiana Aside: Miscellaneous Observations, in «Augustinian Studies», 27 (1996), pp. 109-130. 3 Cf. De doctrina christiana, 8, 18, p. 5, 115-127: «Postremo quisquis se nullis praeceptis instructum divino munere quaecumque in Scripturis obscura sunt intellegere gloriatur, bene quidem credit, et verum est, non esse illam suam facultatem quasi a se ipso exsistentem, sed divinitus traditam; ita enim Dei gloriam quaerit et non suam. Sed cum legit et nullo sibi hominum exponente intellegit, cur ipse aliis affectat exponere ac non potius eos remittit Deo, ut ipsi quoque non
1. I praecepta dell’ermeneusi scritturale
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magistrale di condivisione con una comunità delle proprie esperienze esegetiche che Agostino si dedica nelle pagine del De doctrina christiana, prendendo le mosse dalla distinzione, già chiaramente delineata nelle pagine del De magistro e che è alla base di ogni tentativo di intepretazione: quella tra le res, le cose cioè di cui si parla, e i signa, vale a dire gli strumenti linguistici e comunicativi che si usano per indicare le res. Ogni doctrina dunque ha sue res, oggetti di cui elettivamente si occupa, e lo fa usando specifici signa4. Le res, a loro volta, si distinguono in quelle delle quali si può godere e quelle che si devono usare; le prime (che si identificano con il piano spirituale) sono un fine, le seconde (nelle quali rientrano gli strumenti della vita sensibile) sono un mezzo per arrivare alle prime5. Quando l’uomo pensa alle seconde non come mezzo ma come fine, si piega alla passione per ciò che è inferiore6. Per questo, esuli dalla patria, gli uomini non devono godere
per hominem sed illo intus docente intellegant? Sed videlicet timet ne audiat a Domino: ‘Serve nequam, dares pecuniam meam nummulariis’ (Mt 25, 26-27). Sicut ergo hi ea quae intellegunt produnt ceteris vel loquendo vel scribendo, ita ego quoque si non solum ea quae intellego, sed etiam in intellegendo ea quae observent, prodidero, culpari ab eis profecto non debeo». 4 Cf. De doctrina christiana, I, 2, 2, 19-20, pp. 7-8, 1-20: «Omnis doctrina vel rerum est vel signorum, sed res per signa discuntur. Proprie autem nunc res appellavi, quae non ad significandum aliquid adhibentur, sicuti est lignum, lapis, pecus atque huiusmodi cetera; sed non illud lignum quod in aquas amaras Moysen misisse legimus, ut amaritudine carerent (Cf. Ex 15, 25) neque ille lapis quem Iacob sibi ad caput posuerat (cf. Gen 28, 11) neque illud pecus quod pro filio immolavit Abraham (cf. Gen 22, 13). Hae namque ita res sunt, ut aliarum etiam signa sint rerum. Sunt autem alia signa quorum omnis usus in significando est, sicuti sunt verba. Nemo enim utitur verbis nisi aliquid significandi gratia. Ex quo intellegitur quid appellem signa: res eas videlicet quae ad significandum aliquid adhibentur. Quamobrem omne signum etiam res aliqua est; quod enim nulla res est, omnino nihil est. Non autem omnis res etiam signum est. Et ideo in hac divisione rerum atque signorum, cum de rebus loquemur, ita loquemur ut etiamsi earum aliquae adhiberi ad significandum possint, non impediant partitionem, qua prius de rebus, postea de signis disseremus; memoriterque teneamus id nunc in rebus considerandum esse quod sunt, non quod aliud etiam praeter seipsas significant». Cf. B. D. Jackson, The Theory of Signs in St. Augustine’s De doctrina christiana, in «Revue d’Études augustiniennes et patristiques», 15 (1969) pp. 9-49. 5 Cf. De doctrina christiana., I, 3, 3, 20, p. 8, 1-5: «Res ergo aliae sunt quibus fruendum est, aliae quibus utendum, aliae quae fruuntur et utuntur. Illae quibus fruendum est nos beatos faciunt; istis quibus utendum est tendentes ad beatitudinem adiuvamur et quasi adminiculamur, ut ad illas quae nos beatos faciunt, pervenire atque his inhaerere possimus». 6 Cf. ibid., 20, p. 8, 6-10: «Nos vero qui fruimur et utimur, inter utrasque constituti, si eis quibus utendum est frui voluerimus, impeditur cursus noster et aliquando etiam deflectitur, ut ab his rebus quibus fruendum est obtinendis vel retardemur vel etiam revocemur, inferiorum amore praepediti».
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del loro cammino, per non rischiare di innamorarsene, ma pensarlo sempre come percorso funzionale alla condizione di vero godimento, e cioè al raggiungimento finale della mèta. Forte di questa premessa, Agostino procede nel tentativo di sistematizzazione dell’operazione ermeneutica. I signa vengono definiti data quando hanno una natura intenzionale; quando cioè sono stati prodotti con la finalità di comunicare qualcosa7. I signa scritturali hanno però una caratteristica che li distingue da tutte le altre parole; essi infatti hanno un duplice livello di referenza semiotica. Ogni parola delle Scritture è in primo luogo signum di ciò che pensava chi l’ha scritta (profeti, evangelisti, etc.) ma, in secondo (e più pregnante) luogo, è da riferirsi alla volontà di chi ha ispirato gli scrittori sacri (nella già ricordata distanza tra metaracconto ierostorico e racconto storico delle Scritture). È dunque la voluntas Dei, vale a dire ciò che Dio voleva venisse detto tramite le parole che ha ispirato, a costituire la vera res di cui sono signum le Scritture; ciò ne rende al contempo complessa ed esaltante, per Agostino, l’ermeneusi. Se infatti, come chiarito sin dall’incipit dell’opera e dai testi coevi, è impossibile la costruzione di una disciplina, di una doctrina che studi un oggetto (la voluntas Dei appunto) che di per sé resta non coglibile8, per un altro verso proprio il fatto che a fondamento anche dei passaggi più oscuri, complessi e ricchi di similitudini difficili da sciogliere vi sia l’intento divino di comunicarsi garantisce che essi possano essere, in qualche modo, intellegibili perché l’‘intenzionalità divina’ è garanzia della sensatezza di questo sforzo interpretativo, seppur mai adeguato9.
7 Cf. De doctrina christiana, II, 2, 3, 37, p. 33, 1-9: «Data vero signa sunt quae sibi quaeque viventia invicem dant ad demonstrandos quantum possunt motus animi sui, vel sensa aut intellecta quaelibet. Nec ulla causa est nobis significandi, id est signi dandi, nisi ad depromendum et traiciendum in alterius animum id quod animo gerit is qui signum dat. Horum igitur signorum genus, quantum ad homines attinet, considerare atque tractare statuimus, quia et signa divinitus data quae in Scripturis sanctis continentur, per homines nobis indicata sunt qui ea conscripserunt». 8 Cf. ibid., 5, 6, 38, p. 35. 9 Agostino chiarirà, nei libri XII e XIII delle Confessiones, con esempi specifici legati ai primi versetti del Genesi, come sia possibile prevedere più interpretazioni divergenti dei medesimi passi biblici e quali siano le difficoltà nello sciogliere tali situazioni complesse; cf. Confessiones, XII, 20,29 - 24,33, 836-839, pp. 230-234 e, ancor più nello specifico, ibid., XII, 31, 42, 844, p. 240 e ibid., XIII, 24, 36, 860-861, p. 263, 31-35: «Ecce quod uno modo Scriptura offert et vox personat: ‘In principio Deus fecit caelum et terram’ (Gen 1, 1), nonne multipliciter intellegitur, non errorum fallacia, sed verarum intellegentiarum generibus? Ita crescunt et multiplicantur fetus hominum». Cf. ibid., XIII, 24, 37, 861, p.
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Nessuno mette in dubbio che le cose vengano conosciute più facilmente attraverso le similitudini e che, quando vengono indagate con una certa difficoltà, le si scopre molto più volentieri. Infatti quelli che non trovano in alcun modo ciò che cercano, sono affaticati dal desiderio; quelli al contrario che non cercano, perché hanno le risposte dinanzi agli occhi, spesso si infiacchiscono nella noia: in entrambi i casi va però evitata l’inazione. In modo incredibile e salvifico allora lo Spirito Santo ha dato alle sante Scritture una struttura (modificavit) che, con punti più chiari, andasse incontro al desiderio e che al contempo cancellasse la noia con quelli più oscuri10.
L’azione dello Spirito Santo dà forma, modo («modificavit») alle Scritture per renderle, con il loro alternarsi di punti più complessi e passaggi più comprensibili, capaci di attrarre tanto gli intelletti arguti (che per non annoiarsi nell’esegesi devono confrontarsi con asperità ermeneutiche) tanto quelli che, invece, davanti a difficoltà eccessive e ripetute, si stancherebbero presto, rinunciando allo studio del testo sacro. Fondamento di una corretta ermeneusi scritturale è, dunque, 264, 51-66: «In his omnibus nanciscimur multitudines et ubertates et incrementa; sed quod ita crescat et multiplicetur, ut una res multis modis enuntietur et una enuntiatio multis modis intellegatur, non invenimus nisi in signis corporaliter editis et rebus intellegibiliter excogitatis. Signa corporaliter edita generationes aquarum propter necessarias causas carnalis profunditatis, res autem intellegibiliter excogitatas generationes humanas propter rationis fecunditatem intelleximus. Et ideo credidimus utrique horum generi dictum esse abs te, Domine: ‘Crescite et multiplicamini’ (Gen 1, 11-12). In hac enim benedictione concessam nobis a te facultatem ac potestatem accipi et multis modis enuntiare, quod uno modo intellectum tenuerimus, et multis modis intellegere, quod obscure uno modo enuntiatum legerimus. Sic implentur aquae maris, quae non moventur nisi variis significationibus, sic et fetibus humanis impletur et terra, cuius ariditas apparet in studio, et dominatur ei ratio». 10 De doctrina christiana, II, 6, 8, 39, p. 36, 33-40: «Nemo ambigit et per similitudines libentius quaeque cognosci et cum aliqua difficultate quaesita multo gratius inveniri. Qui enim prorsus non inveniunt quod quaerunt, fame laborant; qui autem non quaerunt, quia in promptu habent, fastidio saepe marcescunt: in utroque autem languor cavendus est. Magnifice igitur et salubriter Spiritus Sanctus ita Scripturas sanctas modificavit, ut locis apertioribus fami occurreret, obscurioribus autem fastidia detergeret». Cf. De civitate Dei, XV, 25, 472, p. 493, 6-11: «Sed si non utatur Scriptura talibus verbis, non se quodammodo familiarius insinuabit omni generi hominum, quibus vult esse consultum, ut et perterreat superbientes et excitet neglegentes, et exerceat quaerentes et alat intellegentes; quod non faceret, si non se prius inclinaret et quodammodo descenderet ad iacentes»; ibid., XVI, 2, 479, p. 500, 85-88: «Illa itaque exequitur litterarum sacrarum scriptor istarum vel potius per eum Dei Spiritus, quibus non solum narrentur praeterita, verum etiam praenuntientur futura, quae tamen pertinent ad civitatem Dei».
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per Agostino, il timor Dei, inteso come presa di consapevolezza, da parte dell’uomo, della distanza tra la sua finitezza e la grandezza della volontà di Dio, capace addirittura di costruire la forma letteraria del messaggio scritturale in modo tale da essere plurivocamente intellegibile all’uomo11. Mosso dal timor e fondato nella mitezza devota (pietas), l’interprete (indagator) delle Scritture potrà arrivare a coglierne la scientia; essa consiste non già nel conoscere l’oggetto ultimo cui puntano le Scritture (la voluntas Dei) ma nel corretto esercizio della (infinita) ricerca di tale oggetto. Teorizzando ciò che aveva già concretamente realizzato nella stesura dei primi testi esegetici, Agostino descrive così nel De doctrina christiana il percorso ermeneutico-scritturale come perfettamente speculare a quello filosofico-scientifico dei dialoghi; come questo si svolgeva in un quaerere permanente che non coglieva mai l’oggetto ultimo della sua indagine (l’ordine voluto da Dio) ma ne interpretava i signa visibili come serie di infiniti rimandi, così quello dell’ermeneusi è un percorso tra i signa scritturali al quale manca sempre la possibilità di coglierne il significato ultimo: «In tutti questi libri quelli che temono (timentes) Dio e che sono mansueti per la loro devozione (pietate mansueti) cercano la volontà di Dio (quaerunt voluntatem Dei)»12. Tale esercizio ermeneutico, indispensabile per l’uomo, che pure resta incapace di giungere a un risultato ultimo, viene descritto da Agostino nelle sue regole più generali che, anche non garantendo un esito corretto dell’interpretazione, mettono al riparto l’interprete da errori dovuti a manchevolezze o ignoranze. L’ermeneuta del testo sacro dovrà dunque prendere le mosse in primo luogo da una lettura completa (anche se non capace, a un primo sguardo, di comprendere il senso di tutto quello che legge) dell’intero testo scritturale13, per familiarizzare con il linguaggio e lo stile. Questa lettura
11
Cf. De doctrina christiana, II, 7, 9, 39, pp. 36, 43 - 37, 12: «Ante omnia igitur opus est Dei timore converti ad cognoscendam eius voluntatem, quid nobis adpetendum fugiendumque praecipiat. Timor autem iste cogitationem de nostra mortalitate et de futura morte necesse est incutiat et quasi clavatis carnibus omnes superbiae motus ligno crucis affigat. Deinde mitescere opus est pietate, neque contradicere divinae Scripturae sive intellectae, si aliqua vitia nostra percutit, sive non intellectae, quasi nos melius sapere meliusque praecipere possimus, sed cogitare potius et credere id esse melius et verius quod ibi scriptum est, etiam si lateat, quam id quod nos per nosmetipsos sapere possumus». 12 Ibid., 9, 14, 42, p. 40, 58-59: «In his omnibus libris timentes Deum et pietate mansueti quaerunt voluntatem Dei». 13 Cf. ibid., 8, 12, 40, p. 38, 3-6: «Erit igitur divinarum Scripturarum solertissimus indagator, qui primo totas legerit notasque habuerit, et si nondum intellec-
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permetterà, suggerisce Agostino, di individuare le prime difficoltà da sciogliere, come quelle legate o all’ignoranza dei termini incontrati (perché provenienti da un’altra lingua14) o da passi inizialmente più oscuri (la cui intelligenza è però facilmente possibile nel confronto con altri loci scritturali di più facile interpretazione15) o infine dalle difficoltà legate alla traduzione e tradizione del testo16. Più complesso risulta invece, nella prospettiva di Agostino, lo studio dei signa translata, vale a dire delle espressioni che non vanno interpretate alla lettera ma per ciò che figurativamente vogliono esprimere. Tali figuratae locutiones vanno sciolte, suggerisce Agostino, cercando preliminarmente di conoscere la natura degli oggetti di cui esse parlano; così, per esempio, è necessario sapere che tra le abitudini dei serpenti c’è nascondere la testa tra le pietre, lasciando visibile a chi li sta cacciando solo il corpo, per capire che quando nelle Scritture viene comandato di essere astuti sicut serpentes si indica la necessità di preservare il capo, vale a dire Cristo17. A questa tipologia di competenze accessorie, alla capacità cioè di conoscere oggetti e circostanze cui fanno riferimento in modo translato le Scritture, si aggiunge necessariamente, per Agostino, lo studio di alcune discipline (come l’aritmetica o la musica18) utili a sciogliere simbologie più tecniche grazie a competenze che provengono dalla tradizione pagana. È questa l’occasione per Agostino di una lunga digressione, che si estenderà fino alla fine del secondo libro, sul rapporto tra ermeneutica biblica, identità speculativa cristiana e tradizione scientifico-filosofica non cristiana. Rifiutata infatti ogni forma di su-
tu, iam tamen lectione, dumtaxat eas quae appellantur canonicae». Agostino qui si sofferma a indicare quali siano, nella sua visione, i libri da considerare canonici. 14 Cf. ibid., 11, 16, 42-43, p. 42. 15 Cf. ibid., 12, 17, 43, pp. 42-43. 16 Cf. ibid., 14, 21, 45-46, pp. 46-47; cf. ibid., 15, 22, 46, p. 47, 1-5 e 7-12: «In ipsis autem interpretationibus, Itala ceteris praeferatur; nam est verborum tenacior cum perspicuitate sententiae. Et latinis quibuslibet emendandis graeci adhibeantur, in quibus Septuaginta interpretum, quod ad Vetus Testamentum attinet, excellit auctoritas. (…) Qui si, ut fertur, multique non indigni fide praedicant, singuli cellis etiam singulis separati cum interpretati essent, nihil in alicuius eorum codice inventum est quod non isdem verbis eodemque verborum ordine inveniretur in ceteris, quis huic auctoritati conferre aliquid, nedum praeferre audeat?». 17 Cf. ibid., 16, 24, 47, p. 49, 23-29: «Nam et de serpente quod notum est, totum corpus eum pro capite obicere ferientibus, quantum illustrat sensum illum, quod Dominus iubet astutos nos esse sicut serpentes (Cf. Mt 10, 16), ut scilicet pro capite nostro, quod est Christus, corpus potius persequentibus offeramus, ne fides christiana tamquam necetur in nobis si parcentes corpori negemus Deum!». 18 Cf. ibid., 16, 25-26, 48-49, pp. 50-52.
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Pensare le Scritture: il De doctrina christiana/1
perstitio presente in quei saperi19, Agostino individua una serie di competenze provenienti dal mondo pagano che il cristiano deve necessariamente riconoscere come valide e utili. Rientrano dunque in questo novero la forma delle lettere e la nascita delle diverse lingue20, lo studio della storia21 o delle discipline finalizzate alla conoscenza del moto degli astri e di quelle più pratiche, come l’agricoltura o il governo delle navi22. Tra queste artes, tutte portatrici di conoscenze relative a oggetti menzionati nelle pagine sacre, Agostino individua però nella dialectica quella che merita maggiore attenzione perché più ricca di potenzialità ma anche, al contempo, di pericoli. Essa appare infatti estremamente utile nello sciogliere le questioni che si incontrano nel percorso dell’esegesi scritturale purché, nell’usarla, si abbandoni una certa pulsione a discutere per il sol gusto di farlo o di attaccare il proprio interlocutore23, cadendo nella pratica, sterile e violenta, dei sophismata, argomentazioni false che sembrano imitare quelle vere24. L’autentica attività della dialettica consiste, invece, nell’individuare la veritas connexionum, ciò che regola cioè e unisce premesse e conclusioni. Tale veritas non è ovviamente prodotta da quella disciplina ma da essa individuata nel reale; una verità dunque presente nelle cose (e dunque anche nel reticolo dei contenuti scritturali), che le connette perché stabilita ab origine da Dio e che come tale viene indagata dalla disciplina umana. La stessa verità delle connessioni non è stata istituita dagli uomini, ma da essi colta con l’animo e messa in regole, affinchè essi possano imparare o insegnare. Infatti è iscritta nella natura (ratio) delle cose, eterna e prodotta da Dio25.
19
Cf. ibid., 19,29 - 24,37, 50-54, pp. 53-60. Cf. ibid., 26, 40, 55, pp. 61-62. 21 Cf. ibid., 28, 42-44, 55-56, pp. 62-63. 22 Cf. ibid., 30, 47, 57, p. 65. 23 Cf. ibid., 31, 48, 58, p. 65, 3-7: «Sed disputationis disciplina ad omnia genera quaestionum quae in Litteris sanctis sunt penetranda et dissolvenda, plurimum valet; tantum ibi cavenda est libido rixandi et puerilis quaedam ostentatio decipiendi adversarium». 24 Cf. ibid., p. 66, 7-10: «Sunt enim multa quae appellantur sophismata, falsae conclusiones rationum et plerumque ita veras imitantes, ut non solum tardos, sed ingeniosos etiam minus diligenter attentos decipiant». 25 Ibid., 32, 50, 58, p. 67, 1-4: «Ipsa tamen veritas connexionum non instituta, sed animadversa est ab hominibus et notata, ut eam possint vel discere vel docere. Nam est in rerum ratione perpetua et divinitus instituta». 20
1. I praecepta dell’ermeneusi scritturale
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L’apprendimento e la ‘scoperta’ di queste regole da parte dell’uomo costituisce, per Agostino, un elemento fondamentale nella costruzione di una corretta esegesi scritturale. La dialettica, infatti, è regula della verità delle connessioni, non della veridicità delle affermazioni; essa dunque permette metodologicamente di indagare la affidabilità della struttura di inferenze interne a un ragionamento, a prescindere dalla verità delle affermazioni in esso contenute. Applicata al testo scritturale, questa metodologia permette di intuire il nesso che lega una conclusione alle sue premesse, e di comprendere dunque la prima individuando le seconde. Così, quando nella prima lettera ai Corinzi, Paolo afferma «nemmeno Cristo è risorto»26, la disciplina dialettica mostra come occorra procedere: Ciò che però consegue [scil. da questa affermazione] è falso; Cristo infatti è risorto: dunque è falsa anche la premessa (quod praecedit). Ma la premessa è che non c’è resurrezione dei morti; c’è dunque la resurrezione dei morti. Il che può essere riassunto così: se non c’è la resurrezione dei morti, ‘nemmeno Cristo è risorto’; ma Cristo è risorto; dunque, c’è la resurrezione dei morti. Questo procedimento, per il quale tolto il conseguente, si toglie necessariamente anche la premessa, non è stato prodotto dagli uomini, che lo hanno solo mostrato. E questa regola è relativa alla verità delle connessioni, non a quella delle affermazioni27.
Agostino applica dunque con precisione e senza alcuna remora il tecnicismo dialettico all’esegesi scritturale, soprattutto in virtù della distinzione tra i due piani veritativi, quello delle relazioni logiche e quello delle affermazioni. Se infatti si sostenesse, prosegue Agostino, che ‘se la lumaca è un animale, ha voce’ e si inferisse che, poiché la lumaca non ha voce, non è un animale, si applicherebbe correttamente il medesimo procedimento utilizzato nel caso di Paolo, salvaguardandone la veridicità; verrebbe invece meno la verità delle conclusioni,
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Cf. 1 Cor 15, 16. De doctrina christiana, II, 32, 50, 59, p. 67, 17-26: «Hoc autem quod sequitur falsum est; Christus enim resurrexit: falsum est ergo et quod praecedit. Praecedit autem non esse resurrectionem mortuorum; est igitur resurrectio mortuorum. Quod totum breviter ita dicitur: Si non est resurrectio mortuorum, ‘neque Christus resurrexit’ (1 Cor 15, 13); Christus autem resurrexit, est igitur resurrectio mortuorum. Hoc ergo, ut consequenti ablato auferatur etiam necessario quod praecedit, non instituerunt homines, sed ostenderunt. Et haec regula pertinet ad veritatem connexionum, non ad veritatem sententiarum». 27
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Pensare le Scritture: il De doctrina christiana/1
perché la premessa implicita (‘ogni animale ha voce’) è falsa, e dunque ogni conclusione che da essa si trae non può che essere altrettanto infondata28. In queste righe conclusive del secondo libro del De doctrina christiana Agostino riesce, dunque, ad aggiungere una ulteriore sfumatura di definizione alla sua più generale teoria filosofico-teologica. Partendo dall’accettazione per fede della Rivelazione, l’esercizio razionale permette all’uomo di muoversi con efficacia sia nell’interpretazione del liber naturae (del quale coglie i signa, vale a dire la presenza ricorsiva e univerale di regole immutabili) che in quella del liber Scripturae. Complesso e, talvolta, oscuro nelle immagini e nelle espressioni, quest’ultimo va in prima istanza accolto e accettato per fede e, sulla base di tale accoglimento, analizzato razionalmente per disquisire sulla coerenza interna delle sue affermazioni. In merito a quelli che sono detti filosofi, se per caso hanno affermato cose vere e consone alla nostra fede, mi riferisco in particolar modo ai platonici, tali cose non solo non vanno temute ma vanno anche rivendicate al nostro uso come dalle mani di chi le possiede impropriamente. Come infatti gli Egiziani non avevano soltanto idoli e pesanti tributi che il popolo di Israele fuggiva e detestava, ma anche vasi e ornamenti d’oro e d’argento e vestiti, tutte cose che quel popolo, uscendo dall’Egitto, rivendicò di nascosto per se per destinarlo a un uso migliore e lo fece non per propria decisione, ma in virtù di un comando divino, mentre gli stessi Egiziani glieli concedevano perché non ne facevano un corretto uso, allo stesso modo tutte le dottrine dei pagani non solo presentano contenuti ingannatori e superstiziose finzioni e pesi gravosi di un inutilissima fatica, tutte cose che ognuno dei nostri, quando con la guida di Cristo si allontana dalla comunità dei pagani, deve rigettare ed evitare, ma contengono anche le discipline liberali più adatte all’esercizio
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Cf. ibid., 33, 51, 59, p. 68, 1-11: «Sed in hoc loco de resurrectione cum ageretur, et regula connexionis vera est, et ipsa in conclusione sententia. In falsis autem sententiis connexionis veritas est isto modo: faciamus aliquem concessisse: Si animal est cochlea, vocem habet. Hoc concesso, cum probatum fuerit vocem cochleam non habere, quoniam consequenti ablato illud quod praecedit aufertur, concluditur non esse animal cochleam. Quae sententia falsa est, sed ex concesso falso vera conclusionis connexio. Veritas itaque sententiae per se ipsam valet, veritas autem connexionis ex eius cum quo agitur, opinione vel concessione consistit». Cf. F. Gasti, L’oro degli egizi. Cultura classica e paideia cristiana, in «Athenaeum», 80 (1992), pp. 311-329; T. Toom, The Necessity of Semiotics: Augustine on Biblical Interpretation, in «Studia Patristica», 43 (2006), pp. 257-262.
2. Una semiotica teologica
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della verità e taluni precetti morali particolarmente efficaci, e si trovano presso di loro non poche cose vere sull’unico Dio che va onorato29.
2. Una semiotica teologica Nelle pagine del De doctrina christiana, Agostino sembra voler descrivere le regole fondative di una epistemologia dell’ermeneusi scritturale. Ciò però non nasconde la consapevolezza, fortissima nel suo sistema, dei limiti intrinseci a ogni operazione di interpretazione del dato scritturale. Una doctrina christiana, per essere doctrina, deve avere una res sua propria (che è ciò cui deve arrivare per goderne) e dei signa (che sono mezzi da usare per arrivare alla res). La res di cui si occupa tale doctrina, e che la rende christiana, dovrebbe essere il Dio unitrinitario30; i signa sono le Scritture, donate da Dio agli uomini. Agostino aveva già descritto, nelle pagine del De magistro, il meccanismo che fonda un dispositivo semiotico: i signa che gli uomini si scambiano parlando hanno valore solo se chi li ascolta già conosce la res cui pensa
29 De doctrina christiana, 40, 60, 63, pp. 73-74, 1-16: «Philosophi autem qui vocantur, si qua forte vera et fidei nostrae accomodata dixerunt, maxime Platonici, non solum formidanda non sunt, sed ab eis etiam tamquam ab iniustis possessoribus in usum nostrum vindicanda. Sicut enim Aegyptii non tantum idola habebant et onera gravia, quae populus Israel detestaretur et fugeret, sed etiam vasa atque ornamenta de auro et de argento et vestem, quae ille populus exiens de Aegypto sibi potius tamquam ad usum meliorem clanculo vindicavit, non auctoritate propria, sed praecepto Dei, ipsis Aegyptiis nescienter commodantibus ea quibus non bene utebantur (cf. Es 3, 21-22; Es 12, 35-36); sic doctrinae omnes Gentilium non solum simulata et superstitiosa figmenta gravesque sarcinas supervacanei laboris habent, quae unusquisque nostrum, duce Christo, de societate Gentilium exiens, debet abominari atque devitare, sed etiam liberales disciplinas usui veritatis aptiores et quaedam morum praecepta utilissima continent, deque ipso uno Deo colendo nonnulla vera inveniuntur apud eos». Nel terzo libro del De doctrina christiana, Agostino indirizza tutti gli strumenti, individuati nelle pagine precedenti come utili e legittimi, allo scopo – già precedentemente indicato – di ogni analisi scritturale: l’indagine sulla volontà di Dio; cf. ibid., III, 1, 1, 65, p. 77, 1-2: «Homo timens Deum, voluntatem eius in Scripturis sanctis diligenter inquirit». Tale indagine va esercitata dall’uomo con la consapevolezza dell’abissale insondabilità dell’oggetto indagato (timens Deum) ma, al contempo, con il supporto di una giusa coscienza ‘scientifica’; laddove infatti la strumentazione a disposizione dell’uomo non può sciogliere in maniera definitiva i dubbi, essi sono lasciati alla capacità e all’arbitrio esegetico dell’interprete; cf. ibid., 2, 5, 67, p. 79, 54-55: «Tales igitur distinctionum ambiguitates in potestate legentis sunt». 30 Cf. ibid., I, 5, 5, 21, p. 9, 1-2: «Res igitur quibus fruendum est, Pater et Filius et Spiritus Sanctus, eademque Trinitas».
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Pensare le Scritture: il De doctrina christiana/1
chi li sta pronunciando31. Questa semplice regola rende di fatto impossibile parlare di teologia. Dio, l’oggetto cioè di cui essa dovrebbe trattare, è strutturalmente impossibile da cogliere. Ciò significa che tutte le parole che lo descrivono sono letteralmente ‘insignificanti’, nel senso che non potranno mai cogliere né indicare appropriatamente la res cui puntano. O dunque si conclude che tutta la semantica teologica, tanto quella costituita dalle parole scritturali quanto quella costruita dalle riflessioni umane, è uno sterile esercizio linguistico che non dice mai il suo oggetto, oppure è necessario derogare da quella regola semiotica e assegnare ai signa che parlano di Dio un valore diverso. Proprio per risolvere il problema di questa potenziale ‘insignificanza’ delle parole scritturali (e, più in generale, di tutti i signa che rimandano a Dio), Agostino avverte la necessità di chiarire come la sua metafisica dell’ordine si riversi sul dispositivo linguisitico-ermeneutico che caratterizza questa categoria così speciale di termini32. Come affermato più volte nei primi dialoghi, Dio, oggetto incoglibile e indicibile per l’uomo, costruisce per sua volontà e in virtù della sua caritas 33 una vera 31
Cf. supra, p. 79. Cf. De doctrina christiana, I, 6, 6, 21, pp. 9-10, 1-17: «Diximusne aliquid et sonuimus aliquid dignum Deo? Imo vero nihil me aliud quam dicere voluisse sentio: si autem dixi, non hoc est quod dicere volui. Hoc unde scio, nisi quia Deus ineffabilis est; quod autem a me dictum est, si ineffabile esset, dictum non esset? Ac per hoc ne ineffabilis quidem dicendus est Deus, quia et hoc cum dicitur, aliquid dicitur. Et fit nescio quae pugna verborum, quoniam si illud est ineffabile, quod dici non potest, non est ineffabile quod vel ineffabile dici potest. Quae pugna verborum silentio cavenda potius quam voce pacanda est. Et tamen Deus, cum de illo nihil digne dici possit, admisit humanae vocis obsequium, et verbis nostris in laude sua gaudere nos voluit. Nam inde est et quod dicitur Deus. Non enim revera in strepitu istarum duarum syllabarum ipse cognoscitur; sed tamen omnes latinae linguae scios, cum aures eorum sonus iste tetigerit, movet ad cogitandam excellentissimam quamdam immortalemque naturam». Cf. In Iohannis epistulam ad Parthos, IV, 6, 2009: «Iam diximus aliquando: Exinani quod implendum est. Bono implendus es, funde malum. Puta quia melle te vult implere Deus: si aceto plenus es, ubi mel pones? Fundendum est quod portabat vas: mundandum est ipsum vas; mundandum est, etsi cum labore, cum tritura, ut fiat aptum cuidam rei. Maledicamus, aurum dicamus, vinum dicamus; quidquid dicimus quod dici non potest, quidquid volumus dicere, Deus vocatur. Et quod dicimus Deus, quid diximus? Duae istae syllabae sunt totum quod exspectamus? Quidquid ergo dicere valuimus, infra est: extendamus nos in eum, ut cum venerit, impleat». Nel De Trinitate, Agostino, parlando del prologo al Vangelo di Giovanni, spiega come la condizione del Verbum sia trascendente e inarrivabile mentre quella storica, successiva all’incarnazione, pur non essendo del tutto comprensibile, per il tramite del racconto scritturale invita gli uomini alla ricerca su Dio; cf. De Trinitate, XIII, 1, 2, 1013, pp. 381-382. 33 Cf. De doctrina christiana, III, 10, 15, 71, p. 87, 22-24: «Non autem praecipit Scriptura nisi caritatem, nec culpat nisi cupiditatem, et eo modo informat mores ho32
2. Una semiotica teologica
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e propria ‘semiotica teologica’ costellando di signa (scritturali e naturali) la vita degli uomini. Tali segni non possono però trovare significato nell’oggetto-Dio cui apparentemente puntano; esso resta sempre celato e per questo non significabile. Come dunque di uno scritto del quale non si comprende il significato si può però sempre quantomeno cogliere, per il sol fatto che esso è stato prodotto, il desiderio che chi lo ha steso aveva di comunicare qualcosa, anche la semiotica teologica mostra all’uomo il movimento caritatevole e soprattutto gratuito con il quale Dio ha scelto di dirsi. I signa che parlano di Dio, dunque, non dicono Dio ma paradossalmente ne raccontano l’assenza, l’incoglibilità, l’alterità e, in ciò, spingono l’uomo a cercarlo in modo ancora più intenso. Leggere e interpretare le Scritture diventa così per Agostino non un esercizio di tecnica ermenenutica ma un vero e proprio percorso di progressiva purificazione che permette di ‘prepararsi’ alla visione della luce divina34 nella stessa modalità che, per Agostino, sovrintende al dialogo filosofico: consapevole del suo stato di minorità, infatti, l’uomo condivide con i suoi simili, nel perimetro della comunità ecclesiastica, l’esercizio di ‘masticazione’ del testo sacro che Dio ha concesso agli uomini proprio in ragione della loro debolezza35. Così, come il dialogare filosofico metteva a fattor comune i talenti razionali dei singoli elevando la fragilità gnoseologica di tutti a cifra dello sforzo condiviso, allo stesso modo l’unico intellectus sensato delle Scritture36 è quello che, a imitazione dell’amore caritatevole in virtù del quale Dio le ha concesse, è finalizzato ad alimentare circolarmente l’amore verso gli altri uomini e, in ciò, nuovamente verso Dio stesso. Lontano dal potersi configurare – come detto – con i crismi di una scienza apodittica, l’ermeneusi scritturale è al fine il percorso di animi in cammino. Ancora una volta, il Cristianesimo si caratterizza, per Agostino, come la religione del movimento di Dio verso gli uomini, e la filosofia
minum»; cf. ibid., 10, 16, 72, p. 87, 32-35: «Caritatem voco motum animi ad fruendum Deo propter ipsum et se atque proximo propter Deum; cupiditatem autem motum animi ad fruendum se et proximo et quolibet corpore non propter Deum». 34 Cf. ibid., I, 10, 10, 23, p. 12, 1-6: «Quapropter, cum illa veritate perfruendum sit quae incommutabiliter vivit, et in ea trinitas Deus, auctor et conditor universitatis, rebus quas condidit consulat, purgandus est animus, ut et perspicere illam lucem valeat et inherere perspectae. Quam purgationem quasi ambulationem quamdam et quasi navigationem ad patriam esse arbitremur». Cf. V. Cricco, El signo escritural en San Agustin, in «Etiam», 4/4 (2009), pp. 91-101. 35 Cf. De doctrina christiana, 11,11 - 16,15, 23-25, pp. 12-15. 36 Cf. ibid., 36, 40, 034, p. 29, 1-4: «Quisquis igitur Scripturas divinas vel quamlibet earum partem intellexisse sibi videtur, ita ut eo intellectu non aedificet istam geminam caritatem Dei et proximi, nondum intellexit (Cf. 1 Cor 8, 1-2)»
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Pensare le Scritture: il De doctrina christiana/1
cristiana si configura anche qui come sforzo di accogliere, più ancora che comprendere, tale movimento. Interpretare la realtà e, ancor più, le Scritture37 non significa dunque per Agostino avere la pretesa di comprendere cosa veramente vogliano dire i signa che si presentano all’intelligenza umana ma individuare, di volta in volta, il tipo di lettura che permetta di cogliere, nel testo sacro, il movimento caritatevole che ha guidato Dio nel suo rivelarsi in quei segni: i passi che indirizzano apertamente alla carità andranno dunque accolti letteralmente; quando invece tale riferimento alla carità non è chiaro, andrà cercata una interpretazione figurata che permetta di farlo emergere38.
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Cf. ibid., III, 9, 13, 70, p. 85, 1-6: «Sub signo enim servit qui operatur aut veneratur aliquam rem significantem, nesciens quid significet. Qui vero aut operatur aut veneratur utile signum divinitus institutum, cuius vim significationemque intellegit, non hoc veneratur quod videtur et transit, sed illud potius quo talia cuncta referenda sunt». 38 Cf. ibid., 15, 23, 74, p. 91, 3-6: «Servabitur ergo in locutionibus figuratis regula huiusmodi, ut tam diu versetur diligenti consideratione quod legitur, donec ad regnum caritatis interpretatio perducatur. Si autem hoc iam proprie sonat, nulla putetur figurata locutio».
CAPITOLO 6
LA VOLONTÀ COME PROBLEMA RADICALE
1. Giustizia di Dio e libertà dell’uomo (De libero arbitrio/2 - libri II-III) (391-395) Agostino interruppe a III, 25, 35 la stesura del De doctrina christiana, come lui stesso afferma1, per riprenderla solo molto più tardi. A questa interruzione, e alla natura delle opere cui attese contestualmente (in special modo il completamento del De libero arbitrio immediatamente prima e, probabilmente subito dopo, la prima parte dell’Ad Simplicianum), è stato attribuito, da parte della storiografia, uno specifico valore speculativo; si è cioè ipotizzato che Agostino, preso da una sempre più angosciata riflessione sulla libertà dell’uomo e sulla forza cogente della grazia di Dio, si sia dedicato in toto a questi temi, tralasciando il lavoro di codifica dell’ermeneutica biblica intrapreso appunto nel De doctrina christiana 2. Agostino avrebbe così modificato, in questi anni, la sua teoria, abbandonando una più generale fiducia nei confronti del ‘supporto’ che la grazia di Dio, per il tramite delle più volte citate admonitiones, fornisce agli uomini, per orientarsi pessimisticamente all’idea di un intervento della grazia tanto ‘cieco’ (vale a dire stabilito da Dio in modo completamente indipendente da qualsivoglia azione teoricamente meritoria dell’uomo) quanto irresi-
1 Cf. Retractationes, II, 4, 1, 631, pp. 92-93, 1-10: «Libros De doctrina christiana, cum imperfectos comperissem, perficere malui quam eis sic relictis ad alia retractanda transire. Complevi ergo tertium, qui scriptus fuerat usque ad eum locum, ubi commemoratum est ex Evangelio testimonium ‘de muliere quae abscondit fermentum in tribus mensuris farinae, donec totum fermentaretur’ (Lc 13, 21). Addidi etiam novissimum librum, et quattuor libris opus illud implevi, quorum primi tres adiuvant ut Scripturae intellegantur, quartus autem quomodo quae intellegimus proferenda sint». 2 Sul tema cf. G. Lettieri, L’altro Agostino. Ermeneutica e retorica della grazia dalla crisi alla metamorfosi del De doctrina christiana, Roma 2002.
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La volontà come problema radicale
stibile. È dunque nella lettura dei testi coevi a tale interruzione che va verificata la solidità di tale tesi storiografica e, più in generale, l’eventuale evoluzione della riflessione agostiniana sui temi dell’arbitrio umano e della grazia divina. Agostino compose, come detto, il secondo e il terzo libro del De libero arbitrio alcuni anni dopo il suo ritorno in Africa (tra il 391 e il 395) e dopo aver dato già inizio alla sua attività di esegeta scritturale e di polemista; quasi degli stessi anni è la risposta alla lettera di Mani, detta del Fondamento (396)3. In queste opere appaiono centrali i temi della libertà, della volontà e dell’arbitrio; essi, sin dalla composizione del primo libro del De libero arbitrio, risultavano già potenzialmente ‘perturbanti’ della metafisica dell’ordine costruita nei dialoghi e ribadita nella produzione dei primi anni in Africa4. Anche il diabolus, aveva infatti affermato Agostino nel De vera religione, nello scegliere di allontanarsi da Dio, «divenne meno di quel che era» (minus est quam fuit), vale a dire perse la giusta ‘collocazione’ nell’ordine delle cose5. Allo stesso modo l’uomo che compie il male lo fa liberamente ed è solo in base a tale, indubitabile libertà che la sua azione può essere opportunamente ed equamente giudicata da Dio6. Compiere il male non significa, dunque, che esista qualcosa di male che possa esser fatto ma, piuttosto, che l’uomo si rivolge non all’oggetto più alto cui può tendere, e al quale è dunque naturalmente ordinato, ma a quelli
3
Cf. Anoz, Cronologìa cit., pp. 235 e 242. Per la collocazione e il significato del primo libro del De libero arbitrio, cf. supra, p. 72. 5 Cf. De vera religione, 13, 26, 133, p. 203, 7-10: «Ille autem angelus magis seipsum quam Deum diligendo, subditus ei esse noluit, et intumuit per superbiam, et a summa essentia defecit, et lapsus est: et ob hoc minus est quam fuit, quia eo quod minus erat frui voluit, cum magis voluit sua potentia frui, quam Dei». 6 Cf. ibid., 14, 27, 133-134, p. 204, 1-19: «Defectus autem iste quod peccatum vocatur, si tamquam febris invitum occuparet, recte iniusta poena videretur, quae peccantem consequitur, et quae damnatio nuncupatur. Nunc vero usque adeo peccatum voluntarium est malum, ut nullo modo sit peccatum, si non sit voluntarium; et hoc quidem ita manifestum est, ut nulla hinc doctorum paucitas, nulla indoctorum turba dissentiat. Quare aut negandum est peccatum committi, aut fatendum voluntate committi. Non autem recte negat peccasse animam, qui et poenitendo eam corrigi fatetur, et veniam poenitenti dari, et perseverantem in peccatis iusta lege Dei damnari. Postremo, si non voluntate male facimus, nemo obiurgandus est omnino, aut monendus: quibus sublatis Christiana lex et disciplina omnis religionis auferatur necesse est. Voluntate ergo peccatur. Et quoniam peccari non dubium est, ne hoc quidem dubitandum video, habere animas liberum voluntatis arbitrium. Tales enim servos suos meliores esse Deus iudicavit, si ei servirent liberaliter: quod nullo modo fieri posset, si non voluntate, sed necessitate servirent». 4
1. Giustizia di Dio e libertà dell’uomo
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inferiori7. La domanda con la quale si concludeva il primo libro del De libero arbitrio nasceva dunque proprio da queste premesse: se la libertà della volontà è ciò che permette all’uomo di agire in autonomia ma, in ciò, anche di rischiare di cadere in errore, vale a dire di opporsi al piano provvidenziale divino, perché Dio l’ha concessa? Perché ha cioè donato all’uomo uno strumento potenzialmente così pericoloso per il suo destino (e, per certi versi, per il destino dell’ordinamento provvidenziale del creato)? Nelle prime pagine del secondo libro, che ripropongono, nelle parole di Evodio, questo interrogativo8, Agostino descrive il movimento della volontà come condizione necessaria tanto a un conveniente esercizio razionale dell’uomo quanto alla azione del giudizio divino9. Solo infatti una volontà libera può essere, per un verso, spazio di movimento coerente con la deliberazione razionale umana (che, dunque, ha bisogno di essere pensata libera proprio perché razionale) e, per un altro, garanzia della equità del giudizio divino10. Agostino ed Evodio giungono così al punto più delicato, quello in cui il ragionamento procede per inferenze certamente necessarie ma che discendono da presupposti ipotetici e non evidenti e che dunque necessitano di dimostrazione. È infatti possibile affermare che, se Dio esiste e se è giusto, ha dovuto necessariamente fornire l’uomo della libertà necessaria a un esercizio razionale che possa essergli poi imputato in caso di errore. A questi interrogativi, e in special modo al primo (cioè alla 7
Cf. ibid., 20, 38, 138, p. 205, 1-10: «Est autem vitium primum animae rationalis, voluntas ea faciendi quae vetat summa et intima veritas. Ita homo de paradiso in hoc saeculum expulsus est, id est ab aeternis ad temporalia, a copiosis ad egena, a firmitate ad infirma: non ergo a bono substantiali ad malum substantiale, quia nulla substantia malum est; sed a bono aeterno ad bonum temporale, a bono spiritali ad bonum carnale, a bono intellegibili ad bonum sensibile, a bono summo ad bonum infimum. Est igitur quoddam bonum, quod si diligit anima rationalis, peccat; quia infra illam ordinatum est». 8 Cf. De libero arbitrio, II, 1, 1, 1240, p. 236, 1-3: «Evodius. Iam, si fieri potest, explica mihi quare dederit Deus homini liberum voluntatis arbitrium: quod utique si non accepisset, peccare non posset». 9 Cf. ibid., 1, 3, 1241, pp. 236-237, 35-41: «Augustinus. Plane si haec ita sunt, soluta quaestio est quam proposuisti. Si enim homo aliquod bonum est, et non posset, nisi cum vellet, recte facere, debuit habere liberam voluntatem, sine qua recte facere non posset. Non enim quia per illam etiam peccatur, ad hoc eam Deum dedisse credendum est. Satis ergo causae est cur dari debuerit, quoniam sine illa homo recte non potest vivere». 10 Cf. ibid., 2141, p. 237, 54-58: «A. Ac per hoc et poena iniusta esset et praemium, si homo voluntatem non haberet liberam. Debuit autem et in supplicio, et in praemio esse iustitia; quoniam hoc unum est bonorum quae sunt ex Deo. Debuit igitur Deus dare homini liberam voluntatem».
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domanda posta da chi, come l’insipiens del Salmo 52, afferma non est Deus 11), non è possibile rispondere affidandosi soltanto all’auctoritas dei libri sacri12 ma è necessario dare luogo a una ricerca che giunga sin dove può spingersi la conoscenza umana. Se non fosse altro credere e altro comprendere, e se non fosse necessario preliminarmente credere in ciò che di grande e divino desideriamo conoscere, il profeta avrebbe parlato inutilmente dicendo ‘Se non avrete creduto, non comprenderete’. Lo stesso Signore nostro tanto con le parole quanto con i fatti per prima cosa ha esortato quelli che chiamava alla salvezza a credere. Ma dopo, quando parlava del dono che avrebbe dato a chi credeva, non disse ‘Questa è la vita eterna, che credano’ ma ‘Questa è la vita eterna, che credano che tu sei il vero Dio, e che hai mandato Gesù Cristo’. Poi a quanti già credevano disse ‘Cercate e troverete’. Infatti non si può dire di aver trovato ciò che si crede sia ignoto; né qualcuno è capace di trovare Dio se prima non abbia creduto ciò che dopo conoscerà. Per questo, seguendo i precetti del Signore, cerchiamo senza posa. Ciò che, su sua esortazione, cerchiamo lo troveremo perché lui stesso lo mostra, nella misura in cui queste cose possono essere trovate in questa vita da esseri come noi13.
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Cf. ibid., 2, 5, 1242, p. 238, 36-42: «A. Si quis ergo illorum insipientium, de quibus scriptum est, ‘Dixit insipiens in corde suo: Non est Deus’ (Sal 52, 1; 13, 1), hoc tibi diceret, nec vellet tecum credere quod credis, sed cognoscere utrum vera credideris; relinqueresne hominem, an aliquo modo, quod inconcussum tenes, persuadendum esse arbitrareris; praesertim si ille non obluctari pervicaciter, sed studiose id vellet agnoscere?». L’immagine ritorna anche in De civitate Dei, V, 9, 149-153, pp. 136-140. 12 Cf. De libero arbitrio, II, 2, 5, 1243, p. 239, 65: «E. Sed nos id quod credimus, nosse et intellegere cupimus». 13 Ibid., 2, 6, 1243, p. 239, 66-83: «A. Recte meministi, quod etiam in exordio superioris disputationis a nobis positum esse, negare non possumus. Nisi enim et aliud esset credere, aliud intellegere, et primo credendum esset, quod magnum et divinum intellegere cuperemus, frustra propheta dixisset, ‘Nisi credideritis, non intellegetis’ (Is 7, 9). Ipse quoque Dominus noster et dictis et factis ad credendum primo hortatus est, quos ad salutem vocavit. Sed postea cum de ipso dono loqueretur, quod erat daturus credentibus, non ait, Haec est autem vita aeterna ut credant; sed, ‘Haec est’, inquit, ‘vita aeterna, ut cognoscant te verum Deum, et quem misisti Iesum Christum’ (Gv 17, 3). Deinde iam credentibus dicit, ‘Quaerite et invenietis’ (Mt 7, 7): nam neque inventum dici potest, quod incognitum creditur; neque quisquam inveniendo Deo fit idoneus, nisi ante crediderit quod est postea cogniturus. Quapropter Domini praeceptis obtemperantes quaeramus instanter. Quod enim hortante ipso quaerimus, eodem ipso demonstrante inveniemus, quantum haec in hac vita, et a nobis talibus inveniri queunt».
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Agostino condensa, sintetizza e ribadisce, in queste poche righe, il più generale quadro speculativo delineato negli anni e nelle opere precedenti. La fides viene qui indicata chiaramente come la portatrice di una notitia iniziale senza la quale nessun percorso di ricerca può essere sensato. È Dio stesso infatti che spinge l’uomo al cercare, in un circolo gnoseologico in cui il cercato è anche cercante, perché è colui che stimola, dà avvio, quasi cerca appunto la ricerca dell’uomo, che potrà giungere, in questa vita, soltanto a una intuizione parziale e incompleta della verità. È dunque la fiducia in questo ‘circolo teologicoermeneutico’ della verità che guida, sempre, la ricerca agostiniana: «Cerchiamo (quaeramus) dunque in questo ordine, se sei d’accordo: in primo luogo, in che modo sia manifesto che Dio esiste; poi, se da lui vengono le cose in quanto buone; infine, se tra le cose buone vada annoverata la volontà libera»14. Punto di partenza della ricerca (che mira ad acquisire certezza dell’esistenza di Dio per inferirne, di conseguenza, quella dei beni da lui prodotti e della volontà che nel loro novero va ricompresa) è la certezza che ogni uomo ha della sua esistenza in vita e di ciò che lo caratterizza in relazione alle altre creature: egli, infatti, non solo esiste (come le pietre) e vive (come gli animali), ma pensa. Se infatti le informazioni arrivano nell’animo umano dall’esterno per il tramite degli stessi intemediari che usano gli animali, vale a dire i sensi, nell’interiorità dell’uomo il meccanismo di elaborazione di questi dati è patentemente differente: un sensus interior sembra riunirne ed amalagamarne i risultati che, poi, vengono ulteriormente analizzati dalla ragione per farne scientia15. Queste facoltà (cinque sensi, senso interiore e ragione) sono strutturate gerarchicamente: i sensi sono giudicati dal senso interiore che, a sua volta, è valutato dalla ragione, in una struttura nella quale ciò che sovrintende e giudica è certamente superiore a ciò che è controllato16. Secondo questo schema, conclude Agostino, se Dio esiste, esso va pensato come il grado finale, ulteriore di tale gerarchia; se Dio esiste, coincide con ciò che supera la ragione umana al pari di come essa supera, ricomprende e giudica il senso interiore che, a sua volta, sovrintende all’esercizio dei cinque sensi: «L’esistenza di Dio sarà dunque evidente quando io, come ho promesso, avrò mostra14 Ibid., 3, 7, 1243, p. 239, 1-4: «A. Quaeramus autem hoc ordine, si placet: primum, quomodo manifestum est Deum esse; deinde, utrum ab illo sint quaecumque in quantumcumque sunt bona; postremo, utrum in bonis numeranda sit voluntas libera». 15 Cf. ibid., 3, 7-9, 1243-1246, pp. 239-243. 16 Cf. ibid., 5, 11-12, 1246-1247, pp. 244-245.
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to, con l’aiuto di Dio stesso, che esiste al di sopra della ragione»17. Nella sua immediatezza, l’espressione di Agostino è particolarmente significativa. Dio è un contenuto che, se esiste, non può che trovare collocazione gnoseologica supra rationem perché nessuna delle tre facoltà prima indicate è capace di coglierlo; questa conclusione, se da un lato ne magnifica la superiorità (teorica) rispetto a qualsiasi altro dato conoscibile, per un altro certifica ancora una volta l’impossibilità stessa che Egli divenga oggetto di scientia, proprio perché per la sua eminenza deve travalicare i confini del più alto strumento che l’uomo ha a sua disposizione, la ragione. La dimostrazione dell’esistenza di Dio dovrà dunque essere condotta ancora una volta in absentia, vale a dire ragionando di un oggetto non in relazione a ciò che di esso si può conoscere, ma in virtù di ciò che è necessario inferire proprio dal suo essere (oggi e sempre) completamente assente nell’orizzonte gnoseologico umano. Agostino intraprende questo percorso partendo da una semplice constatazione. Ogni uomo ha sensi e ragione separati da quelli degli altri uomini; quando infatti un soggetto esperisce o pensa qualcosa, non esperiscono o pensano con lui tutti gli altri uomini. Gli oggetti però che vengono esperiti e pensati sono sovente unici; c’è un solo sole che tutti vedono, anche se ciascuno lo vede in modo indipendente dagli altri18. L’unicità degli oggetti esperibili rende spesso individuale la loro fruizione; non è possibile, per esempio, che due persone mangino per intero lo stesso cibo. Esistono invece cose che, pur essendo oggetti esterni all’uomo, possono essere fruite interamente e contemporaneamente da ogni uomo; sono le conoscenze universali, oggettive perché immutabili, che regolano per esempio la numerazione o in generale i procedimenti scientifici19. Se infatti non ci fosse una universalità del verum, sarebbe impossibile condividere forme di conoscenza assolute; ciascuno avrebbe la propria verità e, per esempio, la propria idea di sommo bene20. Deve dunque esistere una verità 17
Cf. ibid., 6, 14, 1249, p. 247, 53-55: «A. Manifestum erit Deum esse, cum ego, quod promisi, esse supra rationem, eodem ipso adiuvante monstravero». 18 Cf. ibid., 7, 15-18, 1249-1250, pp. 247-249. 19 Cf. ibid., 8, 24, 1253, pp. 252-253, 104-109: «A. His et talibus multis documentis coguntur fateri, quibus disputantibus Deus donavit ingenium, et pertinacia caliginem non obducit, rationem veritatemque numerorum, et ad sensus corporis non pertinere, et invertibilem sinceramque consistere, et omnibus ratiocinantibus ad videndum esse communem». 20 Cf. ibid., 10, 28, 1256, p. 256, 16-21: «A. Hoc item verum, et unum esse, et omnibus qui hoc sciunt, ad videndum esse commune, quamvis unusquisque id nec mea, nec tua, nec cuiusquam alterius, sed sua mente conspiciat, cum id quod
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universale (in virtù della quale tutte le cose vere sono vere e che nei confronti delle conoscenze particolari funzioni come il sole che resta uno ma rende luminose le singole cose) e immateriale, che renda la vita dell’uomo degna di essere vissuta quando questi rivolga a essa lo sguardo21. Questa certissima atque secretissima veritas è la regio in cui risiedono le norme eterne (come quelle che regolano la numerazione o il discorso dialettico)22 e alla quale ogni uomo tende naturalmente quando avverte che l’osservazione dei singoli casi particolari offerti dal sensibile non conduce mai a una conoscenza scientifica e dunque sente la necessità di individuare regole sempre uguali nella loro universale ricorsività23. La possibilità stessa di questo percorso
conspicitur, omnibus conspicientibus communiter praesto sit, numquid negare poterimus? E. Nullo modo». 21 Cf. ibid., 1256, p. 256, 22-47: «A. Item, iuste esse vivendum, deteriora melioribus esse subdenda, et paria paribus comparanda, et propria suis quibusque tribuenda, nonne fateberis esse verissimum, et tam mihi quam tibi atque omnibus id videntibus praesto esse communiter? E. Assentior. A. Quid incorruptum melius esse corrupto, aeternum temporali, inviolabile violabili, poteris negare? E. Quis potest? A. Hoc ergo verum potest quisque suum proprium dicere, cum incommutabiliter contemplandum adsit omnibus qui hoc contemplari valent? E. Nullus hoc vere dixerit suum esse proprium, cum tam sit unum atque omnibus commune quam verum est. A. Item a corruptione avertendum animum, atque ad incorruptionem convertendum esse, id est non corruptionem, sed incorruptionem diligendam esse quis negat? Aut quis cum verum esse fateatur, non etiam incommutabile intellegat, atque omnibus mentibus id valentibus intueri, communiter praesto esse videat? E. Verissimum est. A. Quid? Eam vitam quae nullis adversitatibus de certa et honesta sententia demovetur, dubitabit aliquis esse meliorem, quam eam quae facile incommodis temporalibus frangitur atque subvertitur? E. Quis dubitaverit?». 22 Cf. ibid., 11, 30, 1257, p. 258, 12-26: «A. Nam cum incommutabilem veritatem numerorum mecum ipse considero, et eius quasi cubile ac penetrale vel regionem quamdam, vel si quod aliud nomen aptum inveniri potest, quo nominemus quasi habitaculum quoddam sedemque numerorum; longe removeor a corpore: et inveniens fortasse aliquid quod cogitare possim, non tamen aliquid inveniens quod verbis proferre sufficiam, redeo tamquam lassatus in haec nostra, ut loqui possim, et ea quae ante oculos sita sunt dico, sicut dici solent. Hoc mihi accidit etiam cum de sapientia quantum valeo, vigilantissime atque intentissime cogito. Et propterea multum miror, cum haec duo sint in secretissima certissimaque veritate, accedente etiam testimonio Scripturarum, quo commemoravi coniuncte illa posita; plurimum miror, ut dixi, quare numerus vilis sit multitudini hominum, et cara sapientia». 23 Cf. ibid., 11, 31, 1258, pp. 258-259, 34-52: «A. Sed quia dedit numeros omnibus rebus etiam infimis, et in fine rerum locatis; et corpora enim omnia quamvis in rebus extrema sint, habent numeros suos; sapere autem non dedit corporibus, neque animis omnibus, sed tantum rationalibus, tamquam in eis sibi sedem locaverit, de qua disponat omnia illa etiam infima quibus numeros dedit: itaque quoniam de corporibus facile iudicamus, tamquam de rebus quae infra nos
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di risalita dal particolare all’universale è garantita, all’uomo, da una sorta di struttura ‘trascendentale’ che risiede nella sua interiorità24. La capacità infatti di produrre giudizi di valore (per esempio valutare se un animo è meno pronto o mite di quanto dovrebbe) deriva dalla presenza, nell’animo umano, di reguale veritatis che l’uomo non produce ma che ritrova dentro di sé25. Il percorso di dimostrazione dell’esistenza di Dio giunge così, per Agostino, al termine; trovare nel proprio animo tali regulae ribadisce la cogenza (filosofica prima ancora che esistenziale) di quella duplex quaestio (già descritta nei Soliloquia) in virtù della quale quanto più l’uomo conosce le strutture intime (a lui connaturate e dunque non derivanti dall’esperienza) che informano le sue capacità gnoseologiche, tanto più vi ritrova l’eco di una presenza divina: «Ti avevo promesso, se ricordi, che ti avrei dimostrato che c’è qualcosa che è più alto (sublimius) della nostra mente e della ragione. Eccolo a te, è la verità stessa»26. Come dà forma all’interiore struttura dell’anima umana, così essa si rivela in ogni cosa27 perché ogni cosa trova collocazione, forma, misura, ordine e pienezza nella norma che regola e informa tutto: la provvidenza28. In questo universo divinamente ordinato, anche i bona sono organizzati secondo una struttura gerarchica; ne esistono di magna e di minima, e proprio la
ordinatae sunt, quibus impressos numeros infra nos esse cernimus; et eos propterea vilius habemus. Sed cum coeperimus tamquam sursum versus recurrere, invenimus eos etiam nostras mentes transcendere, atque incommutabiles in ipsa manere veritate. Et quia sapere pauci possunt, numerare autem etiam stultis concessum est, mirantur homines sapientiam, numerosque contemnunt. Docti autem et studiosi, quantum remotiores sunt a labe terrena, tanto magis et numerum et sapientiam in ipsa veritate contuentur, et utrumque carum habent: et in eius veritatis comparatione non eis aurum et argentum, et caetera de quibus homines dimicant, sed ipsi etiam vilescunt sibi». 24 Cf. supra, p. 51. 25 Cf. De libero arbitrio, 12, 34, 1259, p. 260, 33-35: «A. Et iudicamus haec secundum illas interiores regulas veritatis, quas communiter cernimus: de ipsis vero nullo modo quis iudicat». 26 Ibid., 13, 35, 1260, p. 261, 1-3: «A. Promiseram autem, si meministi, me tibi demonstraturum esse aliquid quod sit mente nostra atque ratione sublimius. Ecce tibi est ipsa veritas». 27 Cf. ibid., 16, 43, 1264, p. 266, 54-56: «A. Vae qui derelinquunt te ducem, et oberrant in vestigiis tuis, qui nutus tuos pro te amant, et obliviscuntur quid innuas, o suavissima lux purgatae mentis sapientia!» 28 Cf. ibid., 17, 45, 1265, pp. 267-268, 16-21: «A. Hinc etiam comprehenditur omnia providentia gubernari. Si enim omnia quae sunt, forma penitus subtracta nulla erunt, forma ipsa incommutabilis, per quam mutabilia cuncta subsistunt, ut formarum suarum numeris impleantur et agantur, ipsa est eorum providentia: non enim ista essent, si illa non esset».
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convivenza delle loro diverse ‘altezze’ è conferma dell’esistenza di un piano provvidenziale e ordinato29. In questo piano, la voluntas umana si pone come un bonum medium: essa cioè può sia tendere al più grande dei beni, cioè la verità di Dio, sia mortificarsi nella ricerca dei beni materiali30. L’esistenza di Dio appare dunque ad Agostino dimostrata in modo necessario dall’evidente presenza, nell’uomo, di una struttura gnoseologica tanto connaturata da non poter derivare che da un ordinatore previdente; tale provvidenza si estende a tutto il creato e anche alla volontà umana, pur resa unica da specifiche caratteristiche di libertà: nel corso del secondo libro, Agostino ha dunque risposto ai tre quesiti posti da Evodio in merito all’esistenza di Dio, al fatto che Egli sia autore dei beni e alla collocazione della volontà tra questi. Nel chiudere tale percorso, Agostino non può però sottrarsi a una considerazione tanto problematica quanto inevitabile: affermare che la volontà è un bene medio, che cioè può orientarsi alla verità o al sensibile, significa sostenere che essa è capace autonomamente di farlo, che sia cioè indipendente nel suo agire da un intervento divino? La risposta di Agostino non può che essere negativa: Ma poiché l’uomo non può rialzarsi con le sue forze come invece con le sue forze è caduto, dobbiamo credere con fede salda, attendere con speranza certa e desiderare con carità ardente che su di noi si stende la mano di Dio, vale a dire il Signore nostro Gesù Cristo31.
La assertività con la quale Agostino parla dell’intervento diretto di un Dio ‘personale’ nella vita dell’uomo, della sua mano che ne orienta il movimento non può che condurre, nel terzo libro, all’analisi del rapporto tra questa azione divina e la libertà dell’uomo; su quanto
29 Cf. ibid., 19, 50, 1267-1268, p. 271, 1-3: «A. Meminisse te oportet, non solum magna, sed etiam minima bona non esse posse, nisi ab illo a quo sunt omnia bona, hoc est Deo». 30 Cf. ibid., 19, 53, 1269, p. 272, 57-61: «A. Voluntas ergo adhaerens communi atque incommutabili bono, impetrat prima et magna hominis bona, cum ipsa sit medium quoddam bonum. Voluntas autem aversa ab incommutabili et communi bono, et conversa ad proprium bonum, aut ad exterius, aut ad inferius, peccat». 31 Ibid., 20, 54, 1270, p. 273, 32-36: «A. Sed quoniam non sicut homo sponte cecidit, ita etiam sponte surgere potest; porrectam nobis desuper dexteram Dei, id est Dominum nostrum Iesum Christum, fide firma teneamus, et exspectemus certa spe, et caritate ardenti desideremus».
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cioè la prima sia, nella sua onniscienza, necessariamente vincolante per l’azione della seconda32. All’inizio della disamina che occupa l’intero terzo libro, Agostino afferma che molti uomini si interrogano sulla questione posta da Evodio, vale a dire sul margine di libertà effettiva concessa all’uomo dalla presenza di un Dio onnisciente, e sostiene che essi non arrivano alla soluzione perché non la cercano in modo devoto («Verumtamen maximam partem hominum ista quaestione torqueri non ob aliud crediderim, nisi quia non pie quaerunt»)33. Nel linguaggio di Agostino, questo non significa che per comprendere la dinamica della relazione tra onniscienza divina e azione umana ci si debba rifugiare nella irrazionalità della fede ma che affidarsi alla fede è l’unica possibilità quando si cercano risposte fondative; la natura non razionale del contenuto di fede è infatti – come più volte sin qui affermato – paradossalmente la vera garanzia della sua indiscutibilità, vale a dire della impossibilità che esso sia sottoposto al vaglio di una ragione scettica che, filosoficamente, sa che non c’è fondamento oggettivo possibile alla ricerca. La via alla sapienza, dunque, non è quella della riflessione filosofica ma quella della misericordia di Dio34 che concede una verità di fede che, sola, può fondare l’iter razionale. La risposta fornita dalla fede può così diventare non esito del percorso ma suo avvio. La discussione tra Agostino ed Evodio prende le mosse dal rapporto tra volere e potere: è realmente possibile per un individuo (cioè è in suo potere farlo) ciò che può realizzare quando vuole realizzarlo. Per questo, per esempio, è in potere dell’uomo voler essere felice ma non è in suo potere diventarlo perché, pur volendolo sempre, non riesce a realizzare questo fine a suo piacimento35. L’uomo dunque ha in suo potere il volere come atto libero (può cioè liberamente volere qualcosa, pur se non la ottiene, perché il volere è in suo potere); la prescienza di Dio conoscerà tali atti del volere dell’uomo per ciò che
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Cf. ibid., III, 2, 4, 1272, p. 276, 1-3: «E. Quae cum ita sint, ineffabiliter me movet, quomodo fieri possit ut et Deus praescius sit omnium futurorum, et nos nulla necessitate peccemus». 33 Cf. ibid., 2, 5, 1273, p. 277, 20. 34 Cf. ibid., 2, 5, 1273, p. 277, 45-48: «A. Ita certis itineribus divinae misericordiae in sapientiam ducerentur, ut neque inventis rebus inflati, neque non inventis turbulenti, et cognoscendo instructiores fierent ad videndum, et ad quaerendum ignorando mitiores». 35 Cf. ibid., 3, 7, 1274-1275, p. 279.
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sono, cioè come atti liberi: se così non fosse, se cioè Dio nel suo conoscere atti che sono liberi li necessitasse, Egli non sarebbe veramente ed efficacemente presciente, perché non conoscerebbe quegli atti per quello che veramente sono36. Tale ipotesi, secondo la quale Dio appare come il grande perimetro nel quale sono presenti tutte le informazioni sui comportamenti degli uomini che egli ‘rispetta’ come liberi perché li conosce, in un eterno presente37, come tali, sembra però stridere con la più generale teoria agostiniana dell’ordine, che ritorna con urgenza nel testo poco dopo. La presenza di anime peccatrici, infatti, non può che essere pensata come funzionale al più generale e complesso equilibrio dell’ordine del tutto38, che è reso pieno e compiuto dalla compresenza di uomini peccatori e virtuosi39. Si ripresenta qui, ancora, la dimensione ‘perturbante’ della volontà umana; essa infatti è, come ogni altra creatura, parte dell’ordine voluto da Dio e a esso sottoposta necessariamente ma, unica tra le creature, ha una natura ‘dinamica’ che subordina la sua ‘collocazione’ nell’ordine stesso a come essa si orienta liberamente. Agostino non può sciogliere qui il nodo se non ampliando e approfondendo il tema stesso dell’ordine, che resta la sua idea guida: se è necessario che Dio sia giusto nel giudicare le azioni degli uomini, è di conseguenza necessario che tali azioni siano libere; negandone la libertà, infatti, si dovrebbe negare la giustizia con la quale Dio regge l’universo40.
36 Cf. ibid., 3, 8, 1275, p. 280, 112-113: «A. Cum enim sit praescius voluntatis nostrae, cuius est praescius ipsa erit. Voluntas ergo erit, quia voluntatis est praescius». 37 Cf. De diversis quaestionibus octoginta tribus, 17, 15, p. 22, 1-5: «Omne praeteritum iam non est, omne futurum nondum est; omne igitur et praeteritum et futurum deest. Apud Deum autem nihil deest, nec praeteritum igitur nec futurum, sed omne praesens est apud Deum». 38 Cf. De libero arbitrio, III, 9, 25, 1283, p. 290, 44-48: «A. Sic etiam differentias animarum cogites, in quibus hoc quoque invenies, ut miseriam quam doles, ad id quoque valere cognoscas, ut universitatis perfectioni nec illae desint animae, quae miserae fieri debuerunt, quia peccatrices esse voluerunt». 39 Cf. ibid., 9, 26, 1284, pp. 290-291, 65-70: «A. Cum autem non peccantibus adest beatitudo, perfecta est universitas. Cum vero peccantibus adest miseria, nihilominus perfecta est universitas. Quod autem ipsae non desunt animae, quas vel peccantes sequitur miseria, vel recte facientes beatitudo, semper naturis omnibus universitas plena atque perfecta est». 40 Cf. ibid., 18, 51, 1295-1296, p. 305. Cf. De diversis quaestionibus octoginta tribus, 24, 17, pp. 29-30, 3-25: «Quidquid casu fit, temere fit; quidquid temere fit, non fit providentia. Si ergo casu aliqua fiunt in mundo, non providentia universus mundus administratur. Si non providentia universus mundus administratur, est aliqua natura atque substantia quae ad opus providentiae non pertineat. Omne autem quod est, in quantum est, bonum est. Summe enim est illud
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Nel suggerire che l’uomo deve essere libero ma che non ha gli strumenti per meritare il premio divino, e che, d’altro canto, Dio deve essere onnisciente e sempre giusto nei giudizi, Agostino è così arrivato alle soglie ultime della sua riflessione sul rapporto tra azione divina e libertà umana e sarà di qui a poco costretto a chiarire quanto la sua ‘fede’ nella identità di Dio come ordinatore sia superiore a qualsivoglia altra considerazione.
2. «Verum quaerentibus interius lumen accende»: il Contra epistulam Manichaei quam vocant Fundamenti (396) Nel 396, Agostino si impegna nella confutazione della Epistula Fundamenti che ritiene essere uno dei testi composti da Mani41. I primi paragrafi del testo riassumono in modo straordinariamente efficace la condizione spirituale e intellettuale del travaglio interiore ed intellettuale di Agostino. È infatti proprio nel contestare le tesi manichee e, segnatamente, nel ragionare attorno ai problemi posti dalla loro dottrina in merito al rapporto tra libertà umana e grazia divina, che Agostino sembra giungere, negli anni a ridosso della sua elezione episcopale, a una radicalizzazione delle sue tesi. Il testo si apre con una invocazione a Dio affinché conceda ad Agostino una mens pacata atque tranquilla che gli permetta di accompagnare e correggere
bonum, cuius participatione sunt bona cetera. Et omne quod mutabile est, non per se ipsum, sed immutabilis boni participatione, in quantum est, bonum est. Porro illud bonum, cuius participatione sunt bona cetera quantumcumque sunt non per aliud, sed per se ipsum bonum est, quam divinam etiam providentiam vocamus. Nihil igitur casu fit in mundo. Hoc constituto consequens videtur, ut quidquid in mundo geritur partim divinitus geratur, partim nostra voluntate. Deus enim quovis homine optimo et iustissimo longe atque incomparabiliter melior et iustior est. Iustus autem regens et gubernans universa nullam poenam cuiquam sinit immerito infligi, nullum praemium immerito dari. Meritum autem poenae peccatum, et meritum praemii recte factum est, nec peccatum aut recte factum imputari cuiquam iuste potest qui nihil propria fecerit voluntate. Est igitur et peccatum et recte factum in libero voluntatis arbitrio». Cf. Enarrationes in Psalmos, II, 4, 70, p. 4, 4-7: «Iram autem et furorem Domini Dei non perturbationem mentis oportet intellegi, sed vim qua iustissime vindicat, subiecta sibi ad ministerium universa creatura». Cf. M. Djuth, The Hermeneutics of De libero arbitrio: Are There Two Augustines?, in Cappadocian Fathers cit., pp. 405-408. 41 Cf. Cf. J. Van Oort, Augustine and the Books of Maincheans, in A Companion to Augustin, ed. by M. Vessey, Chichester 2012, pp. 188-200.
2. «Verum quaerentibus interius lumen accende»
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i Manichei piuttosto che attaccarli42. Non è un esordio di maniera; non è soltanto l’aver condiviso con essi parte del suo percorso, averne accolto e vissuto le dottrine e le pratiche a indurre Agostino a tale atteggiamento ma una profonda e ormai lucida consapevolezza della caducità della condizione umana, da lui sperimentata e, per questo, accolta quando individuata nell’errore altrui. Si accaniscano contro di voi quelli che non sanno con quanta fatica si trovi il vero e con quanta difficoltà si evitano gli errori. Si accaniscano contro di voi quelli che non sanno quanto sia raro e arduo superare le illusioni carnali con la tranquillità di una mente devota. Si accaniscano contro di voi quelli che non sanno con quanta difficoltà si sana l’occhio dell’uomo interiore affinché possa guardare verso il suo sole: non questo, che voi onorate dotato di un corpo celeste, con occhi carnali e che irradia e splende per gli uomini e gli animali, ma quello del quale è stato scritto dal profeta: ‘è sorto per me il sole della giustizia’ e del quale è detto nel Vangelo ‘Era lume vero, che illumina ogni uomo che viene in questo mondo’. Si accaniscano contro di voi quelli che non sanno con quanti sospiri e lamenti si giunge a far sì che Dio possa esser compreso in una proporzione infinitesimale. Al fine, si accaniscano contro di voi quelli che non sono mai caduti in un errore come quello nel quale vedono che siete caduti voi43.
Il testo sembra, nella sua incisiva e per certi versi commovente forza espressiva, una sorta di rapida anticipazione dei sentimenti che di lì a poco Agostino svilupperà nelle pagine delle Confessiones: solo chi
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Cf. Contra epistola Manichaei quam vocant Fundamenti, 1, 1, 173, p. 193, 1-9: «Unum verum Deum omnipotentem, ex quo omnia, per quem omnia, in quo omnia, et rogavi et rogo, ut in refellenda et revincenda haeresi vestra, Manichaei, cui et vos fortasse imprudentius quam malitiosius adhaesistis, det mihi mentem pacatam atque tranquillam, et magis de vestra correctione, quam de subversione cogitantem». 43 Ibid., 2, 2, 174, p. 194, 13-27: «Illi in vos saeviant, qui nesciunt cum quo labore verum inveniatur, et quam difficile caveantur errores. Illi in vos saeviant, qui nesciunt quam rarum et arduum sit carnalia phantasmata piae mentis serenitate superare. Illi in vos saeviant, qui nesciunt cum quanta difficultate sanetur oculus interioris hominis, ut possit intueri solem suum: non istum quem vos colitis coelesti corpore, oculis carneis et hominum et pecorum fulgentem atque radiantem, sed illum de quo scriptum est per prophetam: ‘Ortus est mihi iustitiae sol’ (Ml 4, 2); et de quo dictum est in Evangelio: ‘Erat lumen verum, quod illuminat omnem hominem venientem in hunc mundum’ (Gv 1, 9). Illi in vos saeviant, qui nesciunt quibus suspiriis et gemitibus fiat, ut ex quantulacumque parte possit intellegi Deus. Postremo, illi in vos saeviant, qui numquam tali errore decepti sunt, quali vos deceptos vident».
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La volontà come problema radicale
non ha tribolato nella ricerca del vero e non ha sospirato nel tentativo di comprendere Dio può infierire su quanti, nell’esercizio di tale sforzo, sono caduti in errore44. Non posso in alcun modo accanirmi contro di voi che devo invece ora sostenere come hanno fatto altri con me e avere con voi tanta pazienza quanta ne ebbero con me i miei cari, quando, cieco e furente, vagavo nell’errore, legato alla vostra dottrina45.
Non dunque (soltanto) una excusatio nella quale fare indirettamente ammenda del suo passato ‘ereticale’ sembra muovere qui Agostino, ma una più generale considerazione di antropologia filosofica sulla debolezza intesa come dato caratteristico dell’uomo che, nel condannarlo al rischio costante dell’errore, lo apre però sempre, al contempo, alle possibilità luminose del cercare che, se compiuto assieme, permette il riassorbirsi di ogni polemica in un percorso di crescita condivisa. Affinché con più facilità diventiate miti, e non vi opponiate a me con animo ostile e per voi stessi dannoso, è necessario che io ottenga da voi in qualunque modo che da entrambe le parti si deponga la arroganza. Nessuno di noi dica di aver già trovato la verità: cerchiamola (quaeramus) quasi come se entrambi la ignorassimo. Così con disciplina e concordia la si può cercare se, senza alcuna temeraria presunzione, non si crede di averla trovata e conosciuta46. 44 Cf. ibid., 3, 3, 174, p. 195, 1-12: «Ego autem qui diu multumque iactatus tandem respicere potui quid sit illa sinceritas, quae sine inanis fabulae narratione percipitur; qui vanas imaginationes animi mei variis opinionibus erroribusque collectas vix miser merui Domino opitulante convincere; qui me ad detergendam caliginem mentis, tam tarde clementissimo medico vocanti blandientique subieci; qui diu flevi, ut incommutabilis et immaculabilis substantia concinentibus divinis Libris sese mihi persuadere intrinsecus dignaretur; qui denique omnia illa figmenta, quae vos diuturna consuetudine implicatos et constrictos tenent, et quaesivi curiose, et attente audivi, et temere credidi, et instanter quibus potui persuasi, et adversus alios pertinaciter animoseque defendi». 45 Ibid., 175, p. 195, 13-16: «Saevire in vos omnino non possum, quos sicut meipsum illo tempore, ita nunc debeo sustinere, et tanta patientia vobiscum agere, quanta mecum egerunt proximi mei, cum in vestro dogmate rabiosus et caecus errarem». 46 Ibid., 3, 4, 175, p. 194, 17-23: «Ut autem facilius mitescatis, et non inimico animo vobisque pernicioso mihi adversemini, illud quovis iudice impetrare me a vobis oportet, ut ex utraque parte omnis arrogantia deponatur. Nemo nostrum dicat iam se invenisse veritatem: sic eam quaeramus, quasi ab utrisque nesciatur. Ita enim diligenter et concorditer quaeri poterit, si nulla temeraria praesumptione inventa et cognita esse credatur».
2. «Verum quaerentibus interius lumen accende»
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Il quaerere che, sin dalle pagine del Contra Academicos, rappresenta per Agostino il ‘ritmo’ naturale del vivere umano, si conferma qui come attività garante del dialogo, condizione di possibilità del confronto tra posizioni dottrinali distanti, territorio inter-umano nel quale condividere fragilità per giungere a conclusioni per tutti sostenibili. Ciò che ha invece caratterizzato sempre la secta manichea (e che Agostino denuncia nelle Confessiones come motivo principale del suo allontanamento da quel mondo47) è la loro pretesa – in aperto contrasto con la logica del quaerere semper agostiniano – di conoscere in modo indubitabile la verità. La catholica ecclesia, invece, partendo proprio dall’incapacità dell’uomo di conoscere il vero, basa la sua forza e la sua attrattiva sulla sua stabilità nel tempo, sulla successione del sacerdozio, sulla identità della sua comunità; sull’aver cioè costruito una tradizione (connettendo Antico e Nuovo Testamento) che quasi compensa, nella sua dimensione trans-storica e comunitaria, le puntuali fragilità dei singoli uomini. I Manichei, non potendo vantare le medesime caratteristiche, millantano dunque una promessa di verità che non possono mantenere48. Se dunque essi fossero effettivamente capaci di mostrare la veritas come manifesta, cioè in modo razionalmente evidente e apoditticamente necessario, la loro dottrina sarebbe da preferirsi a quella cattolica; ma poiché è impossibile non solo ai Manichei ma a qualunque essere umano cogliere con evidenza razionale la verità, essa deve restare mèta costante dell’uomo che, guidato dalla fides, sceglie come religio l’unica che sa essere quello che deve essere49, cioè quella christiana. Credere nel Vangelo è dunque apertamente posto qui in contraddizione con il reddere rationem non perché l’adesione di fede sia interpretata come abbandono all’irrazionale ma perché il contenuto di cui essa si fa portatrice non è mai intercettabile razionalmente e, dunque, può essere solo accolto50. La teoria di Mani, al contrario, pretende di presentarsi con i crismi di una risposta razionale ma inevi-
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Cf. supra, p. 21. Contra epistola Manichaei quam vocant Fundamenti, 4, 5, 175, pp. 196,2526 - 197,1-5: «Apud vos autem, ubi nihil horum est quod me invitet ac teneat, sola personat veritatis pollicitatio: quae quidem si tam manifesta monstratur, ut in dubium venire non possit, praeponenda est omnibus illis rebus, quibus in Catholica teneor; si autem tantummodo promittitur, et non exhibetur, nemo me movebit ab ea fide quae animum meum tot et tantis nexibus christianae religioni astringit». 49 Cf. supra, p. 86. 50 Contra epistola Manichaei quam vocant Fundamenti, 5, 6, 176, p. 198, 7-16: «Multo enim iustius atque cautius facio, si Catholicis quoniam semel credidi, ad te non transeo, nisi me non credere iusseris, sed manifestissime ac apertissime scire aliquid feceris. Quocirca si mihi rationem redditurus es, dimitte Evangelium. Si 48
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tabilmente difetta proprio in tale sua presunta caratteristica. Nelle parole di Mani, che Agostino riporta citando il testo dell’Epistola, prima della creazione ci sarebbero state infatti due sostanze: Dio Padre aveva il controllo (imperium) di quella della luce, che ne fondava i regna 51; le ha fatto da contraltare, in un’epoca pre-storica e relativa alla sola esistenza di tali principi, una terra tenebrarum, luogo abitato da corpi ignei e governato da un princeps 52. La ricostruzione di Mani appare ad Agostino completamente insostenibile dal punto di vista filosofico; essa infatti implica che Dio possa essere limitato nella sua estensione infinita da un altro principio53 e nega il principio fondativo stesso di
ad Evangelium te tenes, ego me ad eos teneam, quibus praecipientibus Evangelio credidi; et his iubentibus tibi omnino non credam». 51 Cf. ibid., 13, 16, 182-183, p. 209, 11-28: «‘Haec quippe’, inquit, ‘in exordio fuerunt, duae substantiae a sese divisae. Et luminis quidem imperium tenebat Deus Pater, in sua sancta stirpe perpetuus, in virtute magnificus, natura ipsa verus, aeternitate propria semper exsultans, continens apud se sapientiam et sensus vitales: per quos etiam duodecim membra luminis sui comprehendit, regni videlicet proprii divitias affluentes. In unoquoque autem membrorum eius sunt recondita millia innumerabilium et immensorum thesaurorum. Ipse vero Pater in sua laude praecipuus, magnitudine incomprehensibilis, copulata habet sibi beata et gloriosa saecula, neque numero, neque prolixitate aestimanda, cum quibus idem sanctus atque illustris Pater et genitor degit, nullo in regnis eius insignibus aut indigente aut infirmo constituto. Ita autem fundata sunt eiusdem splendidissima regna supra lucidam et beatam terram, ut a nullo umquam aut moveri aut concuti possint’». 52 Cf. ibid., 15, 19, 184, p. 212, 8-22: «Ita enim dicit: ‘Iuxta unam vero partem ac latus illustris illius ac sanctae terrae erat tenebrarum terra profunda et immensa magnitudine, in qua habitabant ignea corpora, genera scilicet pestifera. Hic infinitae tenebrae, ex eadem manantes natura inaestimabiles, cum propriis fetibus: ultra quas erant aquae coenosae ac turbidae cum suis inhabitatoribus; quarum interius venti horribiles ac vehementes cum suo principe et genitoribus. Rursum regio ignea et corruptibilis cum suis ducibus et nationibus. Pari more introrsum gens caliginis ac fumi plena, in qua morabatur immanis princeps omnium et dux, habens circa se innumerabiles principes, quorum omnium ipse erat mens atque origo: haeque fuerunt naturae quinque terrae pestiferae’». 53 Cf. ibid., 19, 21, 186-187, p. 216, 4-21: «Si ergo animam, ut dixi, his atque huiusmodi motionibus toties mutabilem, sentis non diffundi extendique per locos, sed omnia talia spatia potentiae vivacitate superare: quid de ipso Deo cogitandum aut existimandum est, qui supra omnes rationales mentes inconcussus atque incommutabilis manens, tribuit quod cuique tribuendum est? Quem facilius eloqui audet anima, quam videre: et quem tanto minus eloquitur, quanto sincerius videre potuerit. Qui tamen si, ut Manichaeorum phantasmata perstrepunt, locorum ex una parte determinato, ex aliis immenso spatio tenderetur: quantaelibet in eo particulae, et innumerabilia frusta alia maiora, alia minora pro cogitantis arbitrio metirentur; ut bipedalis in eo, verbi gratia, pars octo partibus minor esset quam decempedalis. Id enim necesse est contingat omnibus naturis, quae per talia spatia diffusae ubique totae esse non possunt: quod in ipsa anima non invenitur, et ab eis qui considerare haec non valent, deformiter de illa et turpiter creditur».
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qualsivoglia discorso teologico: se Dio esiste e lo si pensa creatore, a lui va attribuito il merito di aver creato ogni cosa che è e che, in quanto da lui voluta, è buona e sottoposta al suo governo54. Dunque, il male non può avere nessuna consistenza ontologica in un universo retto e governato dall’ordine voluto e garantito da Dio55: le tenebrae infatti o non sono, e dunque da esse nulla può essere generate o, se sono, in quanto sono sono buone56 e quanto più perdono la loro connotazione di bontà, tanto meno sono57 a causa della corruptio, vale a dire della 54 Cf. ibid., 25, 27, 191, pp. 223,12-29 - 224,1-12: «Quare, si vobis iam persuadetur posse aliquid boni omnipotentem Deum de nihilo facere, venite in Catholicam; et discite, omnes naturas quas fecit Deus et condidit, excellentiae gradibus ordinatas, a summis usque ad infimas, omnes bonas, sed alias aliis esse potiores: easque factas esse de nihilo, cum Deus artifex per sapientiam suam potentialiter, ut ita dicam, operaretur, ut posset esse quod non erat: et in quantum esset, bonum esset; in quantum autem deficeret, se non de Deo genitum, sed ab ipso de nihilo factum ostenderet. Quid enim vos teneat, si consideretis, non invenitis: cum terram luminis quam describitis, neque hoc esse quod Deus est possitis dicere, ne ipsa Dei natura foeditate quadrae illius inarctetur; neque de illo genitam, ne nihilominus hoc quod Deus est cogatur intellegi, et ad eamdem deformitatem redeat; nec alienam ab illo, ne in alieno regna eum posuisse, et non duas, sed tres naturas dicere urgeamini; neque ab eodem de aliena factam substantia, ne aut bonum aliud fuerit praeter Deum, aut malum praeter gentem tenebrarum. Remanet igitur vobis, ut de nihilo terram luminis Deum fecisse fateamini: et non vultis credere quod si magnum aliquod bonum, quod tamen illo ipso esset inferius, Deus ex nihilo facere potuit: potuit etiam, quia bonus est, et nulli bono invidet, facere alterum bonum, quod illo priore esset inferius; potuit et tertium, cui secundum praeponeretur, et deinde usque ad infimum bonum naturarum factarum ordinem ducere, donec universitas earum, non numero indefinito incerta difflueret, sed certo terminata consisteret. Aut si nec de nihilo istam luminis terram Deum fecisse vultis fateri, non erit exitus quo tantas turpitudines et tam sacrilegas opiniones evadatis». 55 Cf. ibid., 29, 32, 194-195, pp. 229,17-25 - 230,7-10: «Quis igitur ista ordinavit? Quis distribuit atque distinxit quis numerum, qualitates, formas, vitam dedit? Haec enim omnia per se ipsa bona sunt, nec invenitur unde cuique naturae nisi ab omnium bonorum Deo auctore tribuantur. Non enim sicut chaos describere, vel quoquo modo insinuare etiam poetae solent, informem quamdam materiem sine specie, sine qualitate, sine mensura, sine numero et pondere, sine ordine ac distinctione, confusum nescio quid, atque omnino expers omni qualitate (…) Haec tanta bona enumerare, et ab auctore omnium bonorum Deo aliena esse dicere, hoc est nec in rebus agnoscere tantum ordinis bonum, nec in se tantum erroris malum». 56 Cf. ibid., 32, 35, 197, p. 234, 3-5: «Illud tamen scio, quod si non habebant aliquam speciem, sicut istae non habent, nihil generare potuerunt: si autem habebant, meliores erant»; cf. ibid., 33, 36, 199, p. 237, 4-18: «Unde intellegitur eas, in quantum naturae sunt, bonas esse: quia cum eis vicissim omne quod bonum habent detraxeris, naturae nullae erunt». 57 Cf. ibid., 33, 36, 199, p. 236, 7-28: «Si tollantur illa quae mala enumerata sunt, bona illa quae laudata sunt sine ulla vituperatione remanere; si autem bona
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perdita della condizione di armonia che le cose hanno, ciascuna in proporzione alla sua importanza gerarchica58. Anche nel commentare la Lettera del Fondamento, dunque, Agostino torna sui temi del rapporto tra la creazione e il male, vale a dire sulla relazione tra la funzione ordinatrice e previdente di Dio e l’azione più o meno libera dell’uomo. Il confronto con il testo di Mani permette infatti ad Agostino di ripensare e ribadire ulteriormente gli elementi cardine che, dai dialoghi fino all’episcopato, lo hanno accompagnato in questa delicatissima riflessione e che di lì a poco troveranno una sistematizzazione compiuta e, per certi versi, estrema nel suo sistema: per un verso, la convinzione che nel piano provvidenziale del Dio creatore e ordinatore il male sia soltanto il nome che viene dato alla corruzione, fisica (derivante dal fatto che le cose derivano dal nulla) e morale (legata all’esercizio libero della volontà dell’uomo); per un altro, la stringente necessità di un intervento divino che permetta all’uomo di comprendere la complessità di tale ordito universale, nel quale trovano posto, in modo inspiegabile a parte hominis, la misericordia e la giustizia divine: «Dio misericordia, aiuta coloro i quali intuiscono e concedi luce a coloro i quali interiormente cercano il vero (quaerentes verum)»59.
ipsa tollantur, nullam remanere naturam. Ex quo iam videt qui potest videre, omnem naturam, in quantum natura est, bonum esse: quia ex una eademque re, in qua et ego quod laudarem, et ille quod vituperaret invenit, si tollantur ea quae bona sunt, natura nulla erit; si autem tollantur ea quae displicent, incorrupta natura remanebit». 58 Cf. ibid., 35, 39, 201, p. 239, 18-22: «Quis enim dubitet totum illud quod dicitur malum, nihil esse aliud quam corruptionem? Possunt quidem aliis atque aliis vocabulis alia atque alia mala nominari: sed quod omnium rerum malum sit, in quibus mali aliquid animadverti potest, corruptio est»; ibid., 38, 44, 203, p. 244, 1-12: «Quapropter quamvis sit malum corruptio, et quamvis non sit a Conditore naturarum, sed ex eo sit, quod de nihilo factae sunt: tamen etiam ipsa illo regente et gubernante omnia quae fecit, sic ordinata est, ut non noceat, nisi naturis infimis ad supplicium damnatorum, et exercitationem admonitionemque redeuntium, ut inhaereant Deo incorruptibili, maneantque incorrupti, quod unum est bonum nostrum; sicut per prophetam dicitur: ‘Mihi autem inhaerere Deo bonum est’ (Sal 72, 28). Neque illud dixeris: Non faceret Deus naturas corruptibiles. In quantum enim naturae sunt, Deus fecit: in quantum autem corruptibiles, non Deus fecit; non enim est ab illo corruptio, qui solus est incorruptibilis». 59 Ibid., 27, 29, 193, p. 226, 2-28: «Deus misericordiarum, adiuva intuentes, et verum quaerentibus interius lumen accende».
CAPITOLO 7
UN AGOSTINO ‘NUOVO’? IL DE DIVERSIS QUAESTIONIBUS AD SIMPLICIANUM (396)
1. La Legge e il peccato Chiunque di noi ha come fine il giungere alla vita eterna, ami Dio con tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la mente. Infatti la vita eterna è il premio compiuto, della cui promessa oggi già godiamo; ma il premio non può precedere i meriti né si può dare all’uomo prima che ne sia degno. Cosa infatti sarebbe più ingiusto di ciò e cosa invece è più giusto di Dio? Dunque non dobbiamo chiedere il premio prima di aver meritato di riceverlo1.
Agostino descriveva con queste parole, nel combattere le tesi manichee, la relazione che deve intercorrere tra le azioni dell’uomo e la vita eterna. In generale è evidente come, nei testi composti contro i Manichei, dal De moribus fino all’opera contro la ‘Lettera del Fondamento’, Agostino affermi che la vita eterna sia un premio cui si può giungere solo attraverso dei meriti, e che anzi la giustizia di Dio si manifesta proprio nel non far sì che chi non l’abbia meritata la ottenga. All’uomo è chiesto di diventare dunque dignus di un praemium; il male – come Agostino non manca di sottolineare in ogni testo antimanicheo – non ha sostanzialità e dunque, non esistendo, non può essere prodotto da Dio ma solo dall’azione malvagia dell’uomo. La natura del male è dunque esclusivamene morale; anche le anime dei malvagi – chiarisce il De duabus animabus contra Manichaeos, coevo
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De moribus ecclesiae et de moribus Manichaeorum, I, 25, 47, 1331, p. 52, 1-7: «Diligamus igitur Deum ex toto corde, ex tota anima, ex tota mente, quicumque ad vitam aeternam pervenire proposuimus. Vita enim aeterna est totum praemium, cuius promissione gaudemus, nec praemium potest praecedere merita priusque homini dari quam dignus est. Quid enim hoc iniustius et quid iustius Deo? Non ergo debemus poscere praemium antequam mereamur accipere». Per un inquadramento di questo brano nell’opera, cf. supra, p. 95
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Un Agostino ‘nuovo’? Il De diversis quaestionibus ad Simplicianum
del De utilitate credendi – in quanto creature, sono un bene; anche quando cadono nel vizio, il loro defectus non le fa diventare meno anime, cioè non fa perdere loro dignità ontologica, ma le rende soltanto meno virtuose e consentanee alla volontà di Dio, a causa di una perversa decisione della loro voluntas 2. Se infatti la volontà è il moto dell’animo libero che cerca di ottenere o di non perdere qualcosa3, il peccato è proprio il rivolgersi di quella volontà a ciò che la giustizia vieta4; perché però il peccato sia tale, e possa essere giudicato, è necessario che esso non sia il frutto di un’anima naturalmente malvagia (che non avrebbe potuto fare altro che peccare)5 ma di una precisa e determinata deliberatio attraverso la quale l’anima, naturaliter buona, si perde invece di scegliere di orientarsi a Dio6. Ciò non significa che, nella prima fase della sua produzione, Agostino ritenga che sia solo merito dell’uomo compiere questa scelta virtuosa, optare per il bene, progredire nella ricerca e, così, giungere alla salvezza. A conclusione del primo libro dei Soliloquia, Agostino afferma anzi con grande chiarezza che è Dio che interviene, in modo spesso sotterraneo, nella vita degli uomini per accompagnarli e orientarli7. Nel corso del tempo, Agostino porta a maturazione l’interazione tra queste due tesi. È lui stesso che lo testimonia molti anni più tardi, nel 428, quando in una delle sue ultime opere, il De praedestinatione sanctorum, afferma con chiarezza che la sua dottrina del rapporto tra fede e grazia ha subito una significativa modifica tra il ritorno in Africa e la sua elezione vescovile: 2 De duabus animabus contra Manichaeos, 6, 8, 100, pp. 60,25 - 61,1-3: «Licet enim per defectum intellegerentur vitiosae, quia virtutis egestate vitiosae; non tamen per defectum animae, quia vivendo animae. Nec fieri potest ut vitae praesentia sit causa deficiendi; cum tanto quidque deficiat, quanto deseritur a vita». 3 Cf. ibid., 10, 14, 104, p. 68, 23-24: «Voluntas est animi motus, cogente nullo, ad aliquid vel non amittendum, vel adipiscendum». 4 Cf. ibid., 11, 15, 105, p. 70, 15-17: «Ergo peccatum est voluntas retinendi vel consequendi quod iustitia vetat, et unde liberum est abstinere». 5 Cf. ibid., 12, 17-18, 106-108, pp. 73-75. La riflessione sul rapporto tra la libera determinazione della volontà e il peccato è uno dei primi temi sui quali Agostino, nella sua biografia, sentirà di doversi allontanare dalla dottrina manichea; cf. Confessiones, VII, 3, 5, 735, pp. 94-95. 6 Cf. Contra epistola Manichaei quam vocant Fundamenti, 37, 43, 203, p. 243, 18-23: «Quid enim tam iustum, et quid iustius Deo? Hoc namque humana natura in Adam meruit, de quo nunc non est disputandi locus: sed tamen dominator iustus et iustis praemiis et iustis suppliciis approbatur, beatitate recte viventium poenaque peccantium. Nec tamen sine misericordia derelicta es, quae certis rerum temporumque mensuris vocaris ut redeas». 7 Cf. Soliloquia, I, 15, 30, 884-885, p. 44; per una collocazione di questo brano nell’ambito dei Soliloquia e dei primi dialoghi di Agostino, cf. supra, p. 63.
1. La Legge e il peccato
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Io non credevo che la fede fosse preceduta dalla grazia di Dio, in modo che per mezzo di essa ci venisse concesso ciò che chiediamo utilmente. Pensavo, certo, che noi non potremmo credere, se non precedesse l’annuncio della verità. Ma il fatto che diamo il consenso al Vangelo che ci viene predicato, lo ritenevo opera esclusivamente nostra e proveniente da noi stessi. Quel mio errore appare piuttosto evidente in alcuni opuscoli, scritti prima del mio episcopato8.
Agostino specifica nelle righe successive che quelli, tra quanti lo seguono, che sono ancora fermi alla sua posizione prevescovile, non hanno seguito la sua evoluzione e, soprattuto, non hanno letto il primo dei due libri del De diversis quaestionibus ad Simplicianum 9. L’informazione che fornisce Agostino è dunque tanto precisa quanto inoppugnabile rispetto alla necessità – già chiaramente espressa alla fine del secondo libro del De libero arbitrio e nel terzo – di un intervento divino che muova la fede e, con essa, le opere10. C’è chi ha voluto leggere questo indiscutibile e da lui stesso ammesso cambio di posizione – che lo condusse ad affermare che la grazia precede e permette il consenso al Vangelo (secondo alcuni interpreti in modo irresistibile11) – come una modifica radicale e complessiva del suo pensiero, che gli avrebbe fatto abbando-
8 De praedestination sanctorum, 3, 7, 964: «Neque enim fidem putabam Dei gratia praeveniri, ut per illam nobis daretur quod posceremus utiliter; nisi quia credere non possemus, si non praecederet praeconium veritatis: ut autem praedicato nobis Evangelio consentiremus, nostrum esse proprium, et nobis ex nobis esse arbitrabar. Quem meum errorem nonnulla opuscula mea satis indicant, ante episcopatum meum scripta». Cf. N. Cipriani, Autonomia della volontà umana nell’atto di fede: le ragioni di una teoria prima accolta e poi respinta da S. Agostino, in Il mistero del male e la libertà possibile: linee di antropologia agostiniana, in «Studia Ephemeridis Augustinianum», 48 (1995), pp. 7-17. 9 Cf. De praedestionatione sanctorum, 4, 8, 965: «Videtis certe quid tunc de fide atque operibus sentiebam, quamvis de commendanda gratia Dei laborarem; in qua sententia istos fratres nostros esse nunc video; quia non sicut legere libros meos, ita etiam in eis curaverunt proficere mecum. Nam si curassent, invenissent istam quaestionem secundum veritatem divinarum Scripturarum solutam in primo libro duorum, quos ad beatae memoriae Simplicianum scripsi episcopum Mediolanensis Ecclesiae, sancti Ambrosii successorem, in ipso exordio episcopatus mei». 10 Cf. De libero arbitrio, III, 19, 53, 1297, p. 306, 10-15: «Recte enim fortasse quererentur, si erroris et libidinis nullus hominum victor existeret: cum vero ubique sit praesens, qui multis modis per creaturam sibi Domino servientem aversum vocet, doceat credentem, consoletur sperantem, diligentem adhortetur, conantem adiuvet, exaudiat deprecantem» 11 Per una efficace disamina in merito al problema del rapporto tra la grazia e la sua natura cogente, Cf. N. Cipriani, L’altro Agostino di G. Lettieri, in «Revue des Études augustiniennes», 48 (2002), pp. 249-265.
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nare l’ottimismo filosofico dei primi dialoghi per indirizzarlo a un più cupo pessimismo della grazia. L’analisi del testo dedicato a Simpliciano, e che Agostino stesso indica come spartiacque di questa nuova fase della sua riflessione sul concetto di grazia, è dunque indispensabile per comprendere portata e direzione di tale cambiamento di rotta. Il De diversis quaestionibus ad Simplicianum è la prima opera che Agostino compone dopo l’elezione vescovile, come lui stesso indica nelle Retractationes. Nel testo, egli affronta alcune questioni di ermeneutica scritturale postegli dall’antistes Simpliciano, successore di Ambrogio a Milano; in particolar modo, il primo libro è occupato dalla discussione di due brani tratti dall’Epistola ai Romani: il primo (Rm 7, 7-25) è dedicato alla condizione dell’uomo sotto la Legge; il secondo (Rm 9, 19-29) al rapporto tra fede, grazia e opere. Nel discutere questo secondo insieme di versetti, rivela Agostino, grande è stato lo sforzo in difesa del libero arbitrio dell’uomo, ma ha vinto la grazia di Dio12. Nell’affrontare la prima questione, Agostino chiarisce quale sia, nei termini della sua lettura, la funzione della Legge13. Essa non estirpa il peccato ma ne dà all’uomo consapevolezza; l’esistenza di una norma infatti non concede ipso facto a chi la accoglie il potere di rispettarla ma fornisce soltanto la coscienza di ciò che andava fatto. La Legge dunque non salva ma rivela all’uomo quali siano i suoi peccati e, soprattutto, quanto egli sia incapace di evitarli senza la grazia di Dio14. La Legge è dunque funzionale all’esercizio della humilitas, a mostrare cioè all’uomo la necessità di sottomettersi a Dio (se subdere Deo) per poter poi, attraverso la grazia, realizzare le prescrizioni che la Legge stessa impone15. Agostino ribadisce ancora una volta infatti quali siano 12 Cf. Retractationes, II, 1, 1, 629, pp. 89-90, 20-22: «In cuius quaestionis solutione laboratum est quidem pro libero arbitrio voluntatis humanae, sed vicit Dei gratia». 13 Cf. supra, p. 120. 14 Cf. De diversis quaestionibus ad Simplicianum, I, 1, 2, 103, pp. 8-9, 30-36: «Quare intellegendum est legem ad hoc datam esse, non ut peccatum insereretur neque ut extirparetur, sed tantum ut demonstraretur, quo animam humanam quasi de innocentia securam ipsa peccati demonstratione ream faceret, ut, quia peccatum sine gratia Dei vinci non posset, ipsa reatus sollicitudine ad percipiendam gratiam converteretur»; ibid., 1, 3, 104, p. 9, 42-43: «Consequens autem erat ut, quoniam nondum accepta gratia concupiscentiae resisti non poterat». 15 Cf. ibid., 1, 6, 105, p. 11, 93-94: «Male autem utitur lege qui non se subdit Deo pia humilitate, ut per gratiam lex possit impleri». Cf. G. W. Schlabach, Augustine’s Hermeneutic of Humility: An Alternative to Moral Imperialism and Moral Relativism, in «Journal of Religious Ethics», 22 (1994), pp. 299-332; B. Stock, Augustine the Reader. Meditation, Self-Knowledge, and the Ethics o f Interpretation, London 1996.
1. La Legge e il peccato
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i due movimenti che caratterizzano l’azione dell’uomo. Il velle è senza dubbio nella disponibilità (in potestate) dell’uomo; non è invece nella sua potestas la capacità di portare a effetto, di compiere il bene (perficere bonum), a causa del peccato originale, che ha precipitato l’uomo in una mortalitas che è per lui una seconda natura, «dalla quale la grazia del Creatore libera quanti di noi gli si sottomettono attraverso la fede (subditi sibi per fidem)»16. La conclusione di Agostino sembra, in questa ottica, particolarmente estrema ma è perfettamente coerente con la la più generale impostazione del suo sistema: «ciò resta dunque in questa vita mortale al libero arbitrio, non che l’uomo possa compiere la giustizia secondo il suo volere, ma che si converta (convertere) con supplice pietà a colui con il cui dono egli possa compierla»17. La necessità di una conversio ad Deum ma, soprattutto, la consapevolezza che questo movimento di ri-volgimento a Dio, anche quando fosse realizzato dall’uomo nella sua vita, non coinciderebbe in alcun modo con l’acquisizione della conoscenza del vero o della salvezza dell’anima, sono a fondamento della riflessione di Agostino sin dai primi dialoghi; è cioè il movimento degli occhi che, nelle pagine del De beata vita, sollecitati dall’admonitio divina, tentano con fatica di rivolgersi al verum18.
16 Cf. De diversis quaestionibus ad Simplicianum, 1, 11, 107, pp. 15-16, 188196: «‘Velle enim’, inquit, ‘adiacet mihi, perficere autem bonum non’ (Rm 7, 18). His verbis videtur non recte intellegentibus velut auferre liberum arbitrium. Sed quomodo aufert, cum dicat: ‘Velle adiacet mihi’? Certe enim ipsum velle in potestate est, quoniam adiacet nobis; sed quod perficere bonum non est in potestate, ad meritum pertinet originalis peccati. Non enim est haec prima natura hominis sed delicti poena, per quam facta est ipsa mortalitas quasi secunda natura, unde nos gratia liberat Conditoris subditos sibi per fidem». 17 Ibid., 1, 14, 107, p. 18, 246-250: «Hoc enim restat in ista mortali vita libero arbitrio, non ut impleat homo iustitiam cum voluerit, sed ut se supplici pietate convertat ad eum cuius dono eam possit implere». 18 Cf. De beata vita, 4, 13, 966, pp. 72-73. Sul tema della conversio, cf. De ordine, I, 8, 23, 988, p. 100, 30-43: «Non enim meipsum parum movet quod modo tam aegre avocabar a nugis illis carminis mei, et iam redire ad eas piget et pudet, ita totus in quaedam magna et mira subvehor. Nonne hoc est vere in Deum converti? Simul et illud gaudeo, quod frustra mihi scrupulus superstitionis iniectus est quod tali loco talia cantitabam. – Mihi, inquam, neque hoc displicet, et ad illum ordinem puto pertinere ut etiam hinc aliquid diceremus. Nam illi cantico, et locum ipsum quo illa offensa est, et noctem congruere video. A quibus enim rebus putas nos orare ut convertamur ad Deum, eiusque faciem videamus, nisi a quodam coeno corporis atque sordibus, et item a tenebris quibus nos error involvit? Aut quid est aliud converti, nisi ab immoderatione vitiorum, virtute ac temperantia in sese attoli?»; Soliloquia, I, 1, 3, 870, p. 5, 16-17: «Deus a quo averti, cadere; in quem converti, resurgere; in quo manere, consistere est»; De magistro, 14, 46, 1219-1220, pp. 202-203, 23-27: «Quid sit autem in coelis, docebit ipse a quo etiam per homines signis admonemur et foris, ut ad eum intro conversi eru-
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Volgersi umilmente a Dio è dunque sempre, per Agostino, l’azione – la sola – che l’uomo può compiere, quasi in attesa che, a sua volta, Dio si rivolga a lui. Anche in queste pagine, infatti, dinanzi ai limiti gnoseologici e morali dell’uomo, che non riesce ad individuare un criterio conoscitivo e di condotta che possa essere universalmente valido, Agostino pone sempre, come alternativa, la possibilità dell’adesione di fede; verificata cioè filosoficamente l’impossibilità di giungere autonomamente al verum ed allo iustum, all’uomo si presenta la possibilità o di cedere allo scetticismo radicale o di affidarsi a un contenuto ‘altro’ e proprio per questo da accettare in quanto tale. L’adesione di fede non è dunque per Agostino un movimento di rifiuto della razionalità ma la strategia ultima che resta all’uomo quando questi, razionalmente, conclude che la razionalità da sola non si mostra sufficiente. Se dunque Agostino negasse all’uomo la possibilità di questo movimento verso Dio per il tramite della fede, lo condannerebbe alla più assoluta passività rispetto all’azione divina; se, di converso, negasse la necessità del movimento di Dio, si troverebbe a descrivere l’azione dell’uomo come prometeicamente autonoma e capace di giungere da sola alla verità.
2. Salvare l’ordine È però la voce stessa di Agostino che sembra mettere in discussione questa conclusione, l’idea cioè che sia necessario pensare l’adesione di fede come movimento autonomo e, in ciò, potenzialmente meritorio dell’uomo. Nel postremo De praedestinatione sanctorum, come ricordato, condividendo l’interpretazione fornita da Cipriano di 1 Cor 4, 7 («Cosa hai che non hai ricevuto? Ma se lo hai ricevuto, perché te ne diamur: quem diligere ac nosse beata vita est, quam se omnes clamant quaerere, pauci autem sunt qui eam vere se invenisse laetentur»; De libero arbitrio, I, 15, 32, 1238, p. 233, 42-43: «Iubet igitur aeterna lex avertere amorem a temporalibus, et eum mundatum ad aeterna convertere». Sulla fede come precondizione, assieme alla speranza e alla carità, di una conversio dello sguardo a Dio, cf. Contra Academicos, III, 20, 44, 958, p. 61, 40-43: «Quare iam, socii mei, exspectationem vestram, qua me ad respondendum provocabatis, certiore spe mecum ad discendum convertite. Habemus ducem qui nos in ipsa veritatis arcana, Deo iam monstrante, perducat»; Soliloquia, I, 6, 13, 876, p. 20, 10-18: «Aspectus animae, ratio est. Sed quia non sequitur ut omnis qui aspicit videat, aspectus rectus atque perfectus, id est quem visio sequitur, virtus vocatur; est enim virtus vel recta vel perfecta ratio. Sed et ipse aspectus quamvis iam sanos oculos convertere in lucem non potest, nisi tria illa permaneant: fides, qua credat ita se rem habere, ad quam convertendus aspectus est, ut visa faciat beatum; spes qua cum bene aspexerit, se visurum esse praesumat; charitas, qua videre perfruique desideret».
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vanti come se non lo avessi ricevuto?»), Agostino affermerà di essersi convinto che anche la fede è un dono gratuito di Dio (e non un moto tutto umano e autonomo) e che tale quaestio era stata da lui affrontata e risolta secundum veritatem divinarum Scripturarum, diversi anni prima, proprio nel primo libro del testo indirizzato a Simpliciano. Dopo la discussione sul rapporto tra Legge e peccato, infatti, Agostino si dedica con più attenzione alla riflessione sulla relazione tra fede e grazia e al rapporto di entrambe con la libera volontà dell’uomo e la prescienza divina. In molti luoghi [Paolo] spesso afferma questo [scil. che la grazia precede i meriti], ponendo la grazia della fede prima delle opere, non per eliminare le opere, ma per mostrare che non ci sono opere che precedono la grazia ma solo opere che la seguono, affinché dunque nessuno pensi che abbia ricevuto la grazia perché ha ben operato ma che non possa operare bene se non abbia ricevuto la grazia attraverso la fede. Ma l’uomo comincia a ricevere la grazia quando inizia a credere in Dio, mosso alla fede da una sollecitazione (admonitio) interiore o esterna19.
È ancora una volta il lessico dell’admonitio a qualificare i rapporti tra il moto dell’uomo verso Dio e quello di Dio verso l’uomo e a fornire una chiave di lettura essenziale per capire quale spazio venga riservato al libero volere umano in un orizzone speculativo in cui sembra venire attribuito a Dio il monopolio della concessione della fede per gratiam. È infatti indubbio, per Agostino, che la scelta di Dio preceda in modo assoluto qualsivoglia azione umana, e che la stessa fede non possa che sorgere nell’animo dell’uomo grazie all’intervento di Dio che si configura chiaramente come una chiamata20. È paradigmatica, per Agostino, la scelta che Dio opera tra Giacobbe ed Esaù – interpretata da Paolo nell’Epistola ai Romani – nati da un medesimo rapporto («ex uno concubitu») ma posti prima della nascita in un ordine gerarchico
19 De diversis quaestionibus ad Simplicianum, I, 2, 2, 111, pp. 24-25, 22-25: «Et multis locis hoc saepe testatur fidei gratiam praeponens operibus, non ut opera extinguat, sed ut ostendat non esse opera praecedentia gratiam sed consequentia, ut scilicet non se quisque arbitretur ideo percepisse gratiam, quia bene operatus est, sed bene operari non posse, nisi per fidem perceperit gratiam. Incipit autem homo percipere gratiam, ex quo incipit Deo credere vel interna vel externa admonitione motus ad fidem». 20 Cf. ibid., 2, 3, 113, p. 27, 84-86: «Vocantis est ergo gratia, percipientis vero gratiam consequenter sunt opera bona, non quae gratiam pariant, sed quae gratia pariantur».
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in cui l’uno era sottomesso all’altro. Nulla dunque li distingueva né era possibile attribuire loro meriti che giustificassero il favore di Dio se non la scelta insondabile di Dio stesso21: «non ex operibus sed ex vocante»22. La forza dell’esempio (una elezione che avviene prima ancora che i soggetti interessati nascano) è specchio della radicalità della prospettiva di Agostino: Nessuno infatti che non sia chiamato (vocatur) crede. Ma Dio misericorde non chiama nessuno elargendo doni per i meriti della fede, poiché i meriti della fede seguono la chiamata invece di precederla23.
La vocatio di Dio precede dunque la fides, ma tale chiamata non è in alcun modo irresistibile: «Nessuno dunque che non sia stato chiamato crede, ma non tutti quelli che sono stati chiamati credono»24. Dopo aver negato che l’adesione di fede sia opera dell’uomo, Agostino sembra dunque voler assegnare ora alla libera azione umana la risposta alla vocatio divina. Agostino sembra ribadire dunque qui i termini di quella dinamica che, sin dalle pagine del Contra Academicos, caratterizza la sua riflessione: l’uomo è certamente cercante Dio ma è sempre, al contempo, un cercato da Dio, in quel movimento duplice che caratterizza il Cristianesimo rispetto alla riflessione filosofica pagana. Essa infatti si limitava a tendere indefinitamente a Dio, spesso cadendo nella disperazione scettica; il Cristianesimo invece, forte della certezza, derivante dalla fede, di una precisa volontà divina di andare incontro agli uomini, descrive tale movimento umano come complementare rispetto a quello divino, che si piega verso l’uomo: «Dio volle che il nostro volere fosse nostro e suo, suo chiamando, nostro seguendo (suum vocando nostrum sequendo)»25. Aderire alla chiamata di Dio: questa sembrerebbe dunque l’unica azione che, per Agostino, è concessa all’uomo come libera. Ma, aggiunge Agostino, nemmeno questo movimento di adesione alla vocatio è veramente nella disponibilità 21
Cf. ibid., 2, 4-6, 113-115, pp. 28-30. Cf. Rm 9, 10. 23 De diversis quaestionibus ad Simplicianum, 2, 7, 115, pp. 31-32, 204-206: «Nemo enim credit qui non vocatur. Misericors autem Deus vocat nullis hoc vel fidei meritis largiens, quia merita fidei sequuntur vocationem potius quam praecedunt». 24 Ibid., 2, 10, 117, p. 35, 283-284: «Nemo itaque credit non vocatus, sed non omnis credit vocatus». 25 Ibid., 2, 10, 117, p. 35, 298-299: «Ut velimus enim et suum esse voluit et nostrum, suum vocando nostrum sequendo». 22
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dell’uomo, perché anche il moto di volontà con il quale si risponde positivamente alla chiamata di Dio non può che esser prodotto dal l’intervento di Dio stesso negli uomini26 che, caduti in Adamo, costituiscono una massa peccati27, incapace, senza l’intervento di Dio, di salvarsi da una legittima e generalizzata perdizione28. Né la fede né la risposta alla vocatio divina sembrano dunque azioni in potere dell’uomo. Dio appare allora come l’unico, vero protagonista della concessione di grazia e, dunque, della conversione e della salvezza degli uomini, attraverso una occulta electio che, quando stabilisce chi tra i chiamati debba rispondere alla vocatio, rende tale richiamo conforme (aptum) a che essi rispondano positivamente29. Regge dunque il destino degli uomini una divina, nascosta aequitas, sulla quale Agostino ammette apertamente l’ignoranza sua (e di ogni uomo30) e l’incapacità di cogliere la natura della disposizione che Dio ha dato al creato. Perché [Dio] con qualcuno agisce in un modo e con altri in un altro? (…) Limitiamoci a credere, anche se non siamo capaci 26 Cf. ibid., 2, 21, 127, p. 54, 754-760: «Cum ergo nos ea delectant quibus proficiamus ad Deum, inspiratur hoc et praebetur gratia Dei, non nutu nostro et industria aut operum meritis comparatur, quia ut sit nutus voluntatis, ut sit industria studii, ut sint opera caritate ferventia, ille tribuit, ille largitur. Petere et quaerere et pulsare ille concedit qui haec ut faciamus iubet». 27 Cf. ibid., 2, 16, 120, pp. 41-42, 467-471: «Sunt igitur omnes homines quando quidem, ut Apostolus ait, ‘in Adam omnes moriuntur’ (1 Cor 15, 22), a quo in universum genus humanum origo ducitur offensionis Dei una quaedam massa peccati supplicium debens divinae summaeque iustitiae, quod sive exigatur sive donetur, nulla est iniquitas». 28 È la medesima, durissima conclusione cui arriverà il De praedestinatione sanctorum: anche la fede viene concessa da Dio in modo gratuito e, in ciò, tanto imperscrutabile quanto indiscutibile; tale è infatti la condizione di minorità del l’uomo dopo il peccato originale che, se anche Dio decidesse di non salvare nessun essere umano con l’intervento della sua insondabile grazia, non sarebbe biasimabile nemmeno in quel caso. Cf. In Iohannis evangelium, III, 8, 1400: «Unde vocatur gratia? Quia gratis datur». 29 Cf. De diversis quaestionibus ad Simplicianum, 2, 13, 118, p. 38, 360-368: «Ad alios autem vocatio quidem pervenit, sed quia talis fuit, qua moveri non possent nec eam capere apti essent, vocati quidem dici potuerunt sed non electi; et non iam similiter verum est: Igitur non miserentis Dei sed volentis atque currentis est hominis, quoniam non potest effectus misericordiae Dei esse in hominis potestate, ut frustra ille misereatur, si homo nolit; quia si vellet etiam ipsorum misereri, posset ita vocare, quomodo illis aptum esset, ut et moverentur et intellegerent et sequerentur». 30 Cf. ibid., 2, 22, 127, p. 54, 771-774: «Certe ita occulta est haec electio, ut in eadem consparsione nobis prorsus apparere non possit. Aut si apparet quibusdam, ego in hac re infirmitatem meam fateor».
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di capire, poiché colui il quale ha creato e fatto ogni creatura spirituale e corporea ha disposto tutto secondo numero, peso e misura31.
Agostino è così giunto, nelle pagine dell’Ad Simplicianum, alla scelta definitiva sui rapporti tra azione divina e libertà umana. Le riflessioni sparse nelle opere composte degli anni precedenti, nelle quali si faceva sempre più forte la convinzione che, a fondamento di qualsivoglia riflessione teologica, debba porsi la convinzione (filosofica prima ancora che religiosa) che l’universo sia retto in ogni sua parte da un ordine provvidenziale voluto da Dio, conduce qui Agostino a trarre le inevitabili conseguenze: anche la volontà dell’uomo è infatti parte integrante di quel piano ordinato da Dio. Pur essendo apparentemente capace (come sembrava aver affermato Agostino nel primo libro del De libero arbitrio) di scegliere dove orientarsi, essa non può essere considerata estranea al governo delle regulae che Dio ha imposto al mondo. Le durissime conclusioni cui Agostino giunge nell’Ad Simplicianum e che, fino alle pagine del De praedestinatione sanctorum, caratterizzeranno tutta la sua produzione non sono dunque altro che il frutto della completa maturazione di una scelta filosofica originaria, vale a dire della decisione di applicare con coerenza estrema anche ai temi della grazia, della libertà e della salvezza i presupposti teorici che fondano i suoi primi scritti32. Se Dio è – gnoseologicamente – il garante dell’ordine che la filosofia riesce a indagare per il tramite delle artes (individuando quelle regulae che, nella loro universale ricorsività, sono chiare vestigia dell’azione divina33), Egli deve essere anche – moralmente – garante di quella occulta aequitas che stabilisce chi sono i chiamati e chi, tra i chiamati, sarà dotato degli strumenti per
31 Ibid., 2, 22, 128, pp. 55-56, 807-810: «Quare tamen huic ita et huic non ita? (…) Credamus tantum, et si capere non valemus, quoniam qui universam creaturam et spiritalem et corporalem fecit et condidit, omnia in numero et pondere et mensura disponit (Sap 11, 21)». 32 Cf. C. Harrison, The Assault of Grace in St. Augustine’s Early Works, in «Studia Patristica», 43 (2006), pp. 113-119. 33 Tesi questa che Agostino esplicita continuamente nei suoi primi scritti; cf. Epistola ad Nebridium, XIII (390), 4, PL 33, 78, p. 32, 36-43: «Hoc si dices, veniat in mentem illud quod intellegere appellamus, duobus modis in nobis fieri: aut ipsa per se mente atque ratione intrinsecus, ut cum intellegimus esse ipsum intellectum; aut admonitione a sensibus, ut id quod iam dictum est, cum intelligimus esse corpus. In quibus duobus generibus illud primum per nos, id est, de eo quod apud nos est Deum consulendo; hoc autem secundum de eo quod a corpore sensuque nuntiatur, nihilominus Deum consulendo intellegimus».
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acconsentire opportunamente alla vocatio divina34. ‘Concedere’ all’uomo un margine significativo (negatogli invece in ambito gnoseologico) di movimento morale autonomo, in virtù del quale esso potesse aderire o meno, liberamente, alla chiamata divina, avrebbe significato per l’Agostino dell’Ad Simplicianum – dunque più di dieci anni prima che la polemica contro i Pelagiani indurisse i toni dei suoi scritti – distruggere l’idea stessa di un ordine divino pensato fuori dal tempo ma profondamente immanente nella storia. La lotta che Agostino ha combattuto dentro di sé tra grazia e libero arbitrio è dunque in realtà lo scontro tra la necessità teo-logica di pensare Dio come l’ordinatore assoluto di Sap 11, 21 (al quale è necessario pagare il tributo della compressione degli spazi di movimento della volontà umana) e la tentazione di pensare l’uomo come essere almeno in parte moralmente autonomo; questa condizione avrebbe implicato un Dio imperfettamente sottoposto, nella realizzazione del suo piano salvifico, ai voleri della sua creatura, che risulterebbe così, con i diversi, compossibili orientamenti della propria volontà, arbitro degli esiti di quel progetto escatologico. Se dunque «bona voluntas Dei praecedit bonam voluntatem nostram»35 ciò non significa che il volere di Dio operi in modo coercitivo sull’uomo ma che la differenza di natura, dignità ed efficacia delle due voluntates pone l’azione divina in una condizione di assoluta superiorità e preminenza perché unica garante della generale struttura ordinata del creato. L’affermazione dunque secondo la quale l’uomo è pienamente libero ma, al contempo, completamente vinco-
34
Cf. De diversis quaestionibus ad Simplicianum, 2, 19, 124-125, pp. 47-50. Agostino afferma qui con chiarezza, e lo farà anche nel seguito della sua produzione (per esempio nell’undicesimo libro del De Genesi ad litteram), che la condanna dei malvagi è funzionale alla salvezza dei buoni. 35 Agostino esprime, anni prima, nei commenti ai Salmi, le medesime convinzioni con altrettanta forza; cf. Enarrationes in Psalmos, V, 17, 89, p. 26, 1-11: «Quoniam ‘tu benedices iustum’ (Sal 5, 13): haec est benedictio, gloriari in Deo, et inhabitari a Deo. Ista sanctificatio conceditur iustis; sed ut iustificentur, praecedit vocatio, quae non est meritorum, sed gratiae Dei: omnes enim peccaverunt, et egent gloria Dei (cf. Rm 3, 23). Quos enim vocavit, hos et iustificavit; quos autem iustificavit, hos et glorificavit (cf. Rm 8, 30). Quia ergo vocatio non meritorum nostrorum, sed benevolentiae et misericordiae Dei est, subiecit dicens: ‘Domine, ut scuto bonae voluntatis tuae coronasti nos’ (Sal 5, 13); bona enim voluntas Dei praecedit bonam voluntatem nostram, ut peccatores vocet in paenitentiam»; ibid., VI, 5, 93, p. 30, 24-28: «Intellegit non suorum meritorum esse quod sanatur, quandoquidem peccanti et datum praeceptum praetereunti, iusta damnatio debebatur; sana me ergo, inquit, non propter meritum meum, sed propter misericordiam tuam»; ibid., VII, 2, 98, p. 37, 15-16: «Si enim Deus non redimat neque salvum faciat, ille [scil. diabolus] rapit».
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Un Agostino ‘nuovo’? Il De diversis quaestionibus ad Simplicianum
lato alla grazia e al volere di Dio è sì contraddittoria ma soltanto nella misura in cui essa pretende di dire (e capire) ciò che l’uomo non può cogliere e che dunque non può che essere riportato con espressioni paradossali, che cercano di restituire razionalmente ciò che la ragione non può fino in fondo cogliere, e cioè che Dio, nella struttura dell’ordine, è capace di predestinare la libertà e di premiare gratuitamente. Agostino accetta dunque di tener fede ai presupposti fondativi del suo sistema, anche quando le conclusioni sembrano inaccettabili perché quasi insopportabilmente contrarie all’idea di libertà come autodeterminazione dell’uomo; egli sceglie, con un atto estremo di fiducia nella cogenza filosofica delle sue premesse, di difendere anche in ambito morale l’idea che Dio sovrintenda tutto il reale e che a lui solo è da attribuirsi il movimento che dà senso alla storia e alle singole storie.
3. Una nuova stagione È impossibile comprendere il complesso insieme di teorie e idee che caratterizzano le opere agostiniane comprese tra la composizione del Contra Academicos e quella delle Confessiones (397-403) senza tener presente lo sforzo enorme compiuto da Agostino per mettere al centro e, in ciò, ‘prendersi cura’ dell’uomo, della sua strutturale, irrecuperabile fragilità. È infatti per Agostino centrale, in questi anni, l’idea che l’esperienza concreta restituisca a ogni individuo la consapevolezza quasi quotidiana dello stato di minorità nel quale egli versa irrimediabilmente. Incapace di dotarsi di conoscenze stabili e di parametri di comportamento condivisi – come Agostino mostra nell’impietoso racconto del suo personale ondivagare contenuto nelle Confessiones – l’uomo sembra sbandare tra le derive scettiche e quelle dogmatiche. Prendersi cura dell’uomo inteso come membro di una umanità così fragile per essentiam significa, dunque, per Agostino offrire a tale precarietà una possibile via d’uscita che non sia la resa a una sconfitta senza alternative ma la possibilità di aprirsi, almeno in via teorica, all’idea che ci possa essere un altro agente, capace di portare a effetto ciò che l’uomo da solo non riesce a realizzare. Dio diventa così per l’uomo l’unica alternativa credibile, nel senso più tecnico di tale aggettivo; un orizzonte (il solo possibile per Agostino) al quale cioè ci si possa affidare per fede proprio perché contenuto non razionale ma fondamento di una razionalità in sé incapace di movimenti autonomi efficaci. Così, l’alternativa a una antropologia della sconfitta è per Agostino la fede in un Dio-ordine che per un verso fondi – gnoseologicamen-
3. Una nuova stagione
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te – l’intellegibilità del creato in virtù delle regulae in esso poste e, per l’altro, intervenga – moralmente – nella storia dei singoli uomini e dia loro la possibilità di agire correttamente; l’adesione di fede altro non è, dunque, che il movimento con il quale l’uomo indaga nel creato quelle regulae e risponde al moto – che per Agostino qualifica la filosofia cristiana come una vera religio – con il quale il mediator Cristo ha cercato l’uomo affinché l’uomo lo cercasse36. Ti scongiuro attraverso il Signore nostro Gesù Cristo, Figlio tuo, ‘uomo alla tua destra, Figlio dell’uomo, che stabilisti per te’ Mediatore tuo e nostro, attraverso il quale ci hai cercato quando non ti cercavamo, e tu invece ci hai cercato, affinché ti cercassimo («per quem nos quaesisti non quaerentes te, quaesisti autem, ut quaereremus te»); Verbo tuo, attraverso il quale hai fatto ogni cosa, tra le quali me; unigenito tuo, attraverso il quale hai chiamato all’adozione («per quem vocasti in adoptionem») il popolo dei credenti, tra i quali me37.
Nel corso della stesura delle sue opere, il limite e la fragilità umane appaiono ad Agostino via via più grandi e problematici, e quanto più essi risultano incolmabili in modo autonomo dall’uomo, tanto più necessariamente ‘invadente’ gli appare debba essere la presenza e l’intervento di Dio nel mondo. Il metodo filosofico del quaerere che, nella sua dimensione ineludibilmente dialogica accompagna gli uomini nella condivisa attività di ricerca mirante a individuare, nel creato, le regulae poste dal Dio rivelatosi nelle Scritture, infatti, conduce Agostino a evidenziare con forza sempre crescente proprio la funzione di Dio come unico e massimo ordinatore provvidenziale a cui tutto deve essere sottoposto. A tale ordinamento onnipervasivo, che non ammette principi contrastanti – a differenza di quanto pensavano i Manichei in merito all’esistenza di un principio antagonista malvagio – non può dunque risultare esterno nemmeno un ‘oggetto dinamico’ e autonomo come la volontà dell’uomo che, ricompresa in quel piano provvidenziale, è (incomprensibilmente per l’uomo) libera nel suo esercizio 36 Cf. Soliloquia, I, 1, 6, 872, p. 10, 14-15: «Omnis autem recte quaesivit, quem tu recte quaerere fecisti». 37 Confessiones, XI, 2, 4, 810, p. 196, 47-53: «Obsecro per Dominum nostrum Iesum Christum Filium tuum, ‘virum dexterae tuae, Filium hominis, quem confirmasti tibi’ (Sal 79, 18) Mediatorem tuum et nostrum , per quem nos quaesisti non quaerentes te, quaesisti autem, ut quaereremus te, Verbum tuum, per quod fecisti omnia, in quibus et me, Unicum tuum, per quem vocasti in adoptionem populum credentium, in quo et me». Cf. 1 Tim 2, 5; Gv 1, 3; Gal 4, 5.
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e come tale preconosciuta da Dio nell’ordito generale del tutto. La teologia diventa così lo specchio della antropologia, perché la duplex quaestio che indaga l’uomo per comprendere Dio, mostra che l’azione gratuita del secondo è necessaria proprio in virtù della abissale limitatezza del primo. Garantito così all’uomo un credibile seppur duro rimedio all’insensatezza della sua esistenza, Agostino affronta un cambiamento esistenziale che muterà inevitabilmente la sua prospettiva speculativa. La missione episcopale e pubblica che Agostino viene infatti ad assumere lo induce a modificare, a cavallo dell’inizio del nuovo secolo, il suo raggio d’azione; il racconto stesso delle Confessiones – nella loro dimensione intimistica ma al contempo universale, sempre privata ma anche costantemente rivolta a fornire alla comunità uno strumento di riflessione e crescita morale – lo apre all’idea (che lo guiderà negli anni successivi e fino alla morte) che, chiariti i termini della sua antropologia filosofico-religiosa negli scritti ‘italiani’ e in quelli composti nei primi anni del ritorno in Africa, la cura, nelle nuove vesti di vescovo e uomo concretamente impegnato nella gestione politica della comunità ecclesiale nordafricana, non vada più rivolta soltanto all’uomo (nella sua singolarità esistenziale e fragilità essenziale) ma agli uomini, intesi come membri di una socialità che va nutrita e supportata – come si analizzerà nella seconda parte del volume – nella triplice dimensione spirituale, ecclesiologico-dottrinale e politica, per «predicare la parola di Dio e dispensare il suo sacramento al suo popolo»38.
38 Cf. Confessiones, XI, 2, 2, 809, p. 194, 1-4: «Quando autem sufficio lingua calami enuntiare omnia hortamenta tua et omnes terrores tuos et consolationes et gubernationes, quibus me perduxisti praedicare verbum et sacramentum tuum dispensare populo tuo?»; cf. Sal 44, 2. Cf. R. Mazziotta, The Best Reader and the One Repetitor? The Bishop in Augustine’s Confessions, in «New Blackfriars», 75 (1994), pp. 460-472; F. Decret, Le christianisme en Afrique du Nord ancienne, Paris 1996; J. E. Merdinger, Rome and the African Church in the Time of Augustine, New Haven - London 1997.
PARTE SECONDA Prendersi cura degli uomini
PROLOGO
Gli studi su Agostino hanno spesso proposto partizioni della sua esperienza biografica e intellettuale, dividendola in periodi funzionali a evidenziare il succedersi di specifici segmenti dottrinali del suo pensiero. Al di là della efficacia dei diversi criteri adottati in tali divisioni che, pur nella loro inevitabile parzialità, rappresentano utili strumenti per analizzare l’evoluzione di un pensatore prismatico e complesso come Agostino, è indubbio che la stesura delle Confessiones costituisca uno spartiacque esistenziale, spirituale e intellettuale. Se per un verso è dunque possibile utilizzarle, in un modo abusivamente anacronistico, come testimonianza delle riflessioni agostiniane dei primi anni della sua vita1, esse trovano la loro più opportuna collocazione intellettuale e speculativa alla fine della lunga stagione dei dialoghi e all’avvio di quella vescovile. Le Confessiones si aprono con una citazione scritturale tratta dai Salmi: «Sei grande Signore, e senza dubbio degno di lode»2. Se Dio è grande e, soprattutto, lodabile, ciò significa che ci deve essere qualcuno che sia capace di lodarlo; in caso contrario, di Dio si affermerebbe una proprietà (la lodabilità) che non potrebbe mai giungere ad effetto. Se dunque – aggiunge Agostino – l’uomo, pur nella sua limitatezza, nel suo essere una piccola parte del creato, desidera lodare Dio3 è proprio perché è Dio stesso che ha creato l’uomo tendente
1 Cf. supra, p. 17. Cf. M.-A. Vannier, La conversion d’Augustin, principe herméneutique de son œuvre, in De la conversion, éd. par J.-C. Attias, Paris 1996, pp. 281-294. 2 Confessiones, I, 1, 1, 659, p. 1, 1: «Magnus es, Domine, et laudabilis valde (cf. Sal 47, 1)». 3 Cf. ibid., 659, p. 1, 2-4: «Et laudare te vult homo, aliqua portio creaturae tuae, et homo circumferens mortalitatem suam, circumferens testimonium peccati sui (cf. 2 Cor 4, 10)».
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Prologo
a Lui con un desiderio che quasi lo consuma e che non gli dà requie fino a che non trova in Lui quiete4. Ma tale desiderio spesso agita l’uomo in modo cieco perché l’oggetto ultimo della ricerca (che ne è al contempo il movente) è sconosciuto. L’uomo dunque sente il bisogno di muovere lodi a qualcosa che lo chiama dal profondo a tale ricerca ma di cui ignora l’identità, in una condizione euristica particolarmente complessa. Lodare infatti significa predicare qualcosa di positivo di un soggetto. Per lodare Dio, dunque, Dio va invocato, cioè ne va detto il nome5. Ma – si interroga Agostino – occorre forse arrivare a conoscere Dio prima di invocarlo – per non correre il rischio di rivolgere la propria invocazione e la conseguente lode all’oggetto sbagliato6 – o è necessario invocarlo per conoscerlo, vale a dire per ottenere da Lui una conoscenza efficace e funzionale alla successiva lode? Due testimonianze, la prima paolina, la seconda tratta dai Salmi, supportano Agostino nella risoluzione di questa difficoltà. Nella Lettera ai Romani, Paolo afferma che non è possibile invocare Dio, del quale nessun uomo sa nulla, se non si crede in Lui, ma che per credere è prima necessario che Dio stesso venga annunciato da un praedicator. La vita dell’uomo, come suggerisce la seconda citazione che Agostino trae dai Salmi, va dunque spesa nella continua ricerca di quel Dio che viene semplicemente ‘detto’ da un praedicator, cui è possibile dar fede, e a partire dalle cui parole può prendere le mosse l’invocazione che porta alla lode7. La natura quaerens dell’uomo viene collocata interamente nel perimetro dell’azione di Dio, che incita (excitare) l’uomo a tale ricerca e che addirittura l’ha creato naturaliter proteso a questo fine (fecisti nos ad te). In questa grande machina, nella quale Dio è oggetto desiderato e soggetto che progettualmente 4 Cf. ibid., 660, p. 1, 6-7: «Tu excitas, ut laudare te delectet, quia fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te». 5 In diverse opere Agostino chiarisce come l’invocatio, vale a dire pronunciare una vox per chiamare a sé qualcosa, equivalga a dirne il nomen. 6 Cf. Confessiones, I, 1, 1, 660, p. 1, 7-10: «Da mihi, Domine, scire et intellegere (cf. Sal 118, 34), utrum sit prius invocare te an laudare te et scire te prius sit an invocare te. Sed quis te invocat o nesciens te? Aliud enim pro alio potest invocare nesciens». 7 Cf. ibid., 11-17: «‘Quomodo autem invocabunt, in quem non crediderunt? Aut quomodo credunt sine praedicante?’ (Rm 10, 14). ‘Et laudabunt Dominum qui requirunt eum’ (Sal 21, 27). Quaerentes enim inveniunt eum (Mt 7, 8) et invenientes laudabunt eum. Quaeram te, Domine, invocans te et invocem te credens in te; praedicatus enim es nobis. Invocat te, Domine, fides mea, quam dedisti mihi, quam inspirasti mihi per humanitatem Filii tui, per ministerium praedicatoris tui». Cf. De civitate Dei, XVI, 2, 477-479, pp. 498-500. Su questo punto, cf. infra, p. 235.
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instilla tale desiderio nell’umana natura, la vita diventa il percorso nel quale ciascuno si relaziona a tale ‘invasione’ di Dio nella sua storia e prende più o meno parzialmente coscienza del piano ordinato che lo sovrasta. I primi nove libri delle Confessiones hanno come protagonista assoluta tale invasione. Le vicende dell’Agostino-narrato appaiono continuamente contrappuntate, nel racconto che a posteriori elabora l’Agostino-narratore, dalle admonitiones e dai richiami di Dio, la cui azione sembra dipanarsi nella storia accompagnando da vicino le vicende del protagonista. Ma il tempo della vita, quello che scorre nelle quotidianità, non è mai tempo della scienza e della conoscenza; il senso dell’insieme dei richiami di Dio infatti diventa evidente solo nel coglimento extra-storico e universale del racconto fatto ex post, che raccoglie le singole, particolari vicende, le sintetizza e individua, al di là e sotto di esse, il nesso di senso che le unisce; quando dunque l’io ‘esperiente’ diventa io narrante e, dopo che tutta la (sua) storia si è svolta, egli può riguardarla e ricomprenderla in un solo sguardo unificante. Tale conoscenza complessiva (che l’uomo raggiunge solo a valle del processo storico, quando si volta ad osservarlo e cerca con fatica di interpretarne i meccanismi di sviluppo) è invece la condizione naturale di Dio, che intuisce in un eterno istante presente le vicende che poi si dipanano nella storia e che sembrano solo apparentemente vederlo agire puntualmente, di occasione in occasione. In tal senso, Dio non predetermina il futuro: esterna al fluire del tempo, la conoscenza che Egli ha dell’uomo e del creato è infatti una scientia già compiuta ab aeterno 8; se così non fosse, infatti, si dovrebbe ipotizzare in Dio una mutazione, perché ciò che era in precedenza oggetto di prescienza diventerebbe contenuto della sua scienza una volta realmente accaduto nella storia. Mentre dunque l’uomo è immerso in una condizione temporale nella quale il futuro è incognito e potenzialmente aperto a esiti diversi e non controllabili, Dio invece vive in quell’eternità che è al contempo presente e futura, vale a dire tutta insieme consistente anche in ciò che invece, a parte hominis, non è ancora accaduto9. Se
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Cf. De diversis quaestionibus ad Simplicianum, II, 2, 2, 138-139, p. 76, 2731: «Quid est enim praescientia nisi scientia futurorum? Quid autem futurum est Deo, qui omnia tempora supergreditur? Si enim scientia Dei res ipsas habet, non sunt ei futurae sed praesentes; ac per hoc non iam praescientia sed tantum scientia dici potest». 9 Cf. Confessiones, XI, 11, 13, 814, p. 201, 14-16: «Quis tenebit cor hominis, ut stet et videat, quomodo stans dictet futura et praeterita tempora nec futura nec praeterita aeternitas?»; ibid., 13, 16, 815, p. 202, 19-22: «Anni tui nec eunt nec veniunt: isti enim nostri eunt et veniunt, ut omnes veniant. Anni tui omnes simul
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dunque l’uomo può solo produrre parole che – come avviene nei primi nove libri delle Confessiones – non possono avere altra funzione che raccontare ex post egli avvenimenti dell’esistenza, nella sua parola – Verbum massimamente performativo – Dio progetta ex ante l’intero creato imponendogli una aeterna ratio10. La differenza ontologica tra Dio e uomo pone una distanza tra le capacità espressive: mentre dunque l’efficacia di una sola parola produttiva di tutto esprime perfettamente l’eternità a-temporale e multipotenziale della natura creatrice di Dio, che non prevede mutamenti e movimenti, cambi di condizione e di intenzione, la fluida pluralità delle parole umane che raccontano il tempo e i tempi restituisce efficacemente la condizione di precarietà con la quale l’uomo vive e misura in modo soggettivo e non universalizzabile la sua condizione mutevole11. Raccontare e, in ciò, misurare (descrivere cioè tempi lunghi e brevi, confrontare il passato con il presente, tentare di dimensionare il futuro ipotizzandolo, etc.12) è infatti per l’uomo lo strumento con il quale orientarsi nell’irregolare fluire di ciò che è stato in ciò che è e in ciò che sarà13. L’uomo incessantemente stant, quoniam stant, nec euntes a venientibus excluduntur, quia non transeunt; isti autem nostri omnes erunt, cum omnes non erunt». 10 Cf. ibid., 7, 9, 813, p. 199, 11-14: «Non ergo quidquam verbi tui cedit atque succedit, quoniam vere immortale atque aeternum est. Et ideo verbo tibi coaeterno simul et sempiterne dicis omnia, quae dicis, et fit, quidquid dicis ut fiat; nec aliter quam dicendo facis; nec tamen simul et sempiterna fiunt omnia, quae dicendo facis»; ibid., 8, 10, 813, p. 199, 1-5: «Utcumque video, sed quomodo id eloquar nescio, nisi quia omne, quod esse incipit et esse desinit, tunc esse incipit et tunc desinit, quando debuisse incipere vel desinere in aeterna ratione cognoscitur, ubi nec incipit aliquid nec desinit». 11 Cf. ibid., 15, 19, 816, p. 203, 21-23: «Videamus ergo, anima humana, utrum praesens tempus possit esse longum: datum enim tibi est sentire moras atque metiri. Quid respondebis mihi?». Agostino ne parlerà con ancor maggior chiarezza nel De cathechizandis rudibus. Cf. infra, p. 181. 12 Cf. Confessiones, XI, 15,20 - 20,26, 817-819, pp. 204-206. 13 Cf. ibid., 21, 27, 819-820, p. 207, 10-20: «Sed unde et qua et quo praeterit, cum metitur? Unde nisi ex futuro? Qua nisi per praesens? Quo nisi in praeteritum? Ex illo ergo, quod nondum est, per illud, quod spatio caret, in illud, quod iam non est. Quid autem metimur nisi tempus in aliquo spatio? Neque enim dicimus simpla et dupla et tripla et aequalia et si quid hoc modo in tempore dicimus nisi spatia temporum. In quo ergo spatio metimur tempus praeteriens? Utrum in futuro, unde praeterit? Sed quod nondum est, non metimur. An in praesenti, qua praeterit? Sed nullum spatium non metimur. An in praeterito, quo praeterit? Sed quod iam non est, non metimur»; ibid., 27, 36, 824, p. 213, 46-52: «In te, anime meus, tempora metior. Noli mihi obstrepere, quod est: noli tibi obstrepere turbis affectionum tuarum. In te, inquam, tempora metior. Affectionem, quam res praetereuntes in te faciunt et, cum illae praeterierint, manet, ipsam metior praesentem, non ea quae praeterierunt, ut fieret; ipsam metior, cum tempora metior. Ergo aut ipsa sunt tempora, aut non tempora metior».
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desidera il futuro (expectare), pone attenzione al presente (adtendere) e ricorda il passato (meminisse), in un ritmo che caratterizza tutta la sua esistenza e che non troverà requie fino al momento in cui potrà sciogliersi in Dio14; solo allora, infatti, l’uomo assumerà una forma stabile e, in ciò, priva di tempo15. Nell’atto del confessare la sua vita passata proiettandola continuamente agli esiti futuri, Agostino evidenzia dunque con forza come la temporalità sia proprio il carattere tipico dell’esistenza e come essa riposi tutta nel racconto che la coscienza ne fa, cucendo nella confessio presente ricordi e speranze e, in ciò, mostrando tutta la distanza con la capacità di Dio di vedere, simul et semel, storia e destini del creato. La distanza tempo/eternità altro non è, dunque, se non l’ennesima manifestazione della differenza tra lo sguardo umano e quello divino, tra la presunta libertà delle singole azioni umane e la prescienza del tutto, tra il racconto storico e l’ordinamento provvidenziale16. Tale complessa relazione tra l’uomo, che costantemente affida alle parole di un racconto sempre polisemico il senso della propria esistenza, e Dio, che dice e produce ogni cosa con una singola parola, è perfettamente esemplificato dalla natura del testo sacro, oggetto espressivamente duplice perché scritto in un linguaggio fragile (come quello degli uomini cui è rivolto) ma che nasce dalla volontà più stabile e
14 Cf. ibid., 29, 39, 825, p. 215, 10-14: «Nunc vero ‘anni mei in gemitibus’ (Sal 30, 11), et tu solacium meum, Domine, Pater meus aeternus es; at ego in tempora dissilui, quorum ordinem nescio, et tumultuosis varietatibus dilaniantur cogitationes meae, intima viscera animae meae, donec in te confluam purgatus et liquidus igne amoris tui». Agostino ha anche, almeno all’inizio della sua riflessione, ipotizzato una dimensione ‘platonica’ del ricordo, inteso come reminiscenza; cf. Epistola ad Nebridium, VII (389), 2, PL 33, 68, pp. 15-16, 20-33: «Verum quid me adiuvet, facito intentus accipias. Nonnulli calumniantur adversus Socraticum illud nobilissimum inventum, quo asseritur, non nobis ea quae discimus, veluti nova inseri, sed in memoriam recordatione revocari; dicentes memoriam praeteritarum rerum esse, haec autem quae intellegendo discimus, Platone ipso auctore, manere semper, nec posse interire, ac per hoc non esse praeterita: qui non attendunt illam visionem esse praeteritam, qua haec aliquando vidimus mente; a quibus quia defluximus, et aliter alia videre coepimus, ea nos reminiscendo revisere, id est, per memoriam. Quamobrem si, ut alia omittam, ipsa aeternitas semper manet, nec aliqua imaginaria figmenta conquirit, quibus in mentem quasi vehiculis veniat, nec tamen venire posset, nisi eius meminissemus, potest esse quarumdam rerum sine ulla imaginatione memoria». 15 Cf. Confessiones, XI, 30, 40, 825, p. 215, 1-2: «Et stabo atque solidabor in te in forma mea, veritate tua». 16 Cf. E. Flood, The Narrative Structure of Augustine’s Confessions. Time’s quest for Eternity, in «International Philosophical Quarterly», 28 (1988), pp. 141-162.
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comunicativamente efficace che esista17. Il dodicesimo e il tredicesimo libro delle Confessiones riprendono dunque l’esegesi dei primi versetti del Genesi – cui si era già dedicato Agostino – ma si soffermano nello specifico sulle modalità e le difficoltà cui va incontro l’esegeta delle Scritture in relazione all’ispirazione che lo guida18; sul confronto cioè, ancora una volta, tra l’inaccessibile intenzione comunicativa di Dio e la parziale interpretazione degli uomini. Comprendere un testo significa infatti, per Agostino, intuire l’intenzione di chi lo ha voluto19; ma nel testo sacro lo scriptor è diverso dall’autore, ed è dunque possibile che Dio, vero ispiratore delle Scritture, voglia talvolta comunicare per il tramite del testo sacro qualcosa di vero che non era nelle intenzioni degli scriptores veicolare20. Anche il testo sacro e la sua ermeneusi si rivelano così, in Agostino, simbolo della distanza tra gli uomini e Dio21. Proprio tale caratteristica delle Scritture e, più in generale, le difficoltà che sempre incontra chi pretenda di comprendere perfettamente il pensiero di un altro uomo leggendone un testo22 suggeriscono ad Agostino una significativa prudenza nell’affermare che l’una 17
Agostino lo chiarirà ancor meglio alla fine dell’opera, in conclusione del libro tredicesimo; cf. Confessiones, XIII, 29, 44, 864, p. 268, 9-17: «Dicis voce forti in aure interiore servo tuo perrumpens meam surditatem et clamans: ‘O homo, nempe quod Scriptura mea dicit, ego dico. Et tamen illa temporaliter dicit, verbo autem meo tempus non accidit, quia aequali mecum aeternitate consistit. Sic ea, quae vos per spiritum meum videtis, ego video, sicut ea, quae vos per spiritum meum dicitis, ego dico. Atque ita cum vos temporaliter ea videatis, non ego temporaliter video, quemadmodum, cum vos temporaliter ea dicatis, non ego temporaliter dico’». 18 Cf. supra, p. 126. 19 Cf. Confessiones, XII, 18, 27, 836, p. 229, 10-14: «Omnes quidem, qui legimus, nitimur hoc indagare atque comprehendere, quod voluit ille quem legimus, et cum eum veridicum credimus, nihil, quod falsum esse vel novimus vel putamus, audemus eum existimare dixisse». Cf. de Filippis, Loquax pagina cit., p. 87. 20 Cf. Confessiones, XII, 18, 27, pp. 229-230, 14-18: «Dum ergo quisque conatur id sentire in Scripturis sanctis, quod in eis sensit ille qui scripsit, quid mali est, si hoc sentiat, quod tu, lux omnium veridicarum mentium, ostendis verum esse, etiamsi non hoc sensit ille, quem legit, cum et ille verum nec tamen hoc senserit?». Cf. ibid., XIII, 15, 16, 852, pp. 250-251. 21 Per una più generale considerazione su questa funzione dell’esegesi scritturale in Agostino e, in particolare, nei libri conclusivi delle Confessiones, cf. C. Scibetta, Il ruolo del lettore nelle Confessiones di Agostino, in «Paideia», 41 (2006), pp. 654-695. Sulle numerose e diverse compossibili interpretazioni del testo sacro Agostino tornerà spesso nella sua produzione; cf. De Genesi ad litteram, I, 18,37 - 21,41, 260-262, pp. 26-31. 22 Cf. Confessiones, XII, 24, 33, 839, p. 234, 16-21: «Video quippe vere potuisse dici, quidquid horum diceretur, sed quid horum in his verbis ille cogitaverit, non ita video, quamvis sive aliquid horum sive quid aliud, quod a me commemoratum non est, tantus vir ille mente conspexerit, cum haec verba promeret, verum eum vidisse apteque id enuntiavisse non dubitem».
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interpretazione sia migliore dell’altra. È infatti lo stesso Dio ad ammonire con forza l’uomo (terribiliter admonens) affinché non ritenga che la verità possa essere possesso esclusivo e privato di una voce soltanto. Perciò, o Signore, i tuoi giudizi sono tremendi poiché la tua verità non è né mia né di questo o di quello ma di tutti noi che tu pubblicamente chiami alla sua comunione, terribilmente richiamandoci affinché non ci prenda il desiderio di averla come cosa privata finendo così per esserne privati23.
La lettura del testo sacro è, dunque, una attività che qualifica non il talento del singolo interprete ma la caritas della comunità che, proprio nella lettura delle parole di Dio, ritrova il comune anelito a comprenderne il senso24; se fosse allora mai possibile la perfetta ermeneusi essa non dovrebbe limitarsi a stabilire la veridicità di una opinione che annulli le altre ma dovrebbe raccogliere assieme quanto di vero ciascuno avverte nel messaggio scritturale. Così quando qualcuno dice ‘Afferma una cosa che ho detto io’ e un altro ‘Piuttosto è quello che ho detto io’ mi sembra più religioso dire: ‘Perché piuttosto non hanno ambedue ragione, se sono entrambe vere le loro idee?’. E se qualcuno vedesse, in queste parole, un terzo vero o un quarto vero o qualcosa di interamente vero, perché non si dovrebbe credere che abbia 23
Ibid., 25, 34, 840, p. 265, 21-25: «Ideoque, Domine, tremenda sunt iudicia tua, quoniam veritas tua nec mea est nec illius aut illius, sed omnium nostrum, quos ad eius communionem publice vocas, terribiliter admonens nos, ut eam nolimus habere privatam, ne privemur ea». 24 Cf. ibid., 25, 35, 840, pp. 235-236, 32-52: «Hanc enim vocem huic refero fraternam et pacificam: si ambo videmus verum esse quod dicis et ambo videmus verum esse quod dico, ubi, quaeso, id videmus? Nec ego utique in te nec tu in me, sed ambo in ipsa quae supra mentes nostras est incommutabili veritate. Cum ergo de ipsa Domini Dei nostri luce non contendamus, cur de proximi cogitatione contendimus, quam sic videre non possumus, ut videtur incommutabilis veritas, quando, si ipse Moyses apparuisset nobis atque dixisset: «‘Hoc cogitavi, nec sic eam videremus, sed crederemus?’ Non itaque ‘supra quam scriptum est unus pro altero infletur adversus alterum’ (1 Cor 4, 6). Diligamus ‘Dominum Deum nostrum ex toto corde, ex tota anima, ex tota mente nostra et proximum nostrum’ sicut nosmetipsos (Mt 22, 37-39). Propter quae duo praecepta caritatis sensisse Moysen, quidquid in illis libris sensit, nisi crediderimus, mendacem faciemus Dominum (Cf. 1 Gv 1, 10), cum de animo conservi aliter quam ille docuit opinamur. Iam vide, quam stultum sit in tanta copia verissimarum sententiarum, quae de illis verbis erui possunt, temere affirmare, quam earum Moyses potissimum senserit, et perniciosis contentionibus ipsam offendere caritatem, propter quam dixit omnia, cuius dicta conamur exponere».
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Prologo
visto tutte quelle cose attraverso quello [Spirito] servendosi del quale l’unico Dio ha modellato le sacre lettere per renderle atte alle sensibilità dei tanti che dovranno vedere cose vere e diverse? (…) Io certamente, e lo affermo intrepido dal mio cuore, se scrivessi qualcosa giunto al culmine dell’autorità, preferirei scrivere in modo che le mie parole risuonassero di quanto di vero chiunque possa trarre da queste cose piuttosto che porre una sola opinione più dichiaramente, che escludesse le altre, la cui falsità però non mi offendesse25.
Dopo aver condiviso, per lunghissime pagine, la sua avventura personale con la comunità di quanti avrebbero letto il suo resoconto, destinato a confessare se stesso ai suoi simili e non certamente al Dio onnisciente, la dimensione ‘sociale’ dell’esercizio ermeneutico e, più in generale, dell’esperienza di fede sembra essere così il lascito che, nelle ultime pagine delle Confessiones, condensa il significato dell’opera intera, e si concretizza nell’invito, rivolto soprattutto ai ministri di Dio, a essere esempio per i fedeli (forma fidelibus), stimolo all’imitazione, modello di ciò che viene detto e compiuto26 e, in ciò, animatori della societas cristiana.
25 Ibid., 31, 42, 844, p. 240, 1-12: «Ita cum alius dixerit: ‘Hoc sensit, quod ego’, et alius: ‘Immo illud, quod ego’, religiosius me arbitror dicere: ‘Cur non utrumque potius, si utrumque verum est?’ Et si quid tertium et si quid quartum et si quid omnino aliud verum quispiam in his verbis videt, cur non illa omnia vidisse credatur, per quem Deus unus sacras Litteras vera et diversa visuris multorum sensibus temperavit? Ego certe, quod intrepidus de meo corde pronuntio, si ad culmen auctoritatis aliquid scriberem, sic mallem scribere, ut, quod veri quisque de his rebus capere posset, mea verba resonarent, quam ut unam veram sententiam ad hoc apertius ponerem, ut excluderem ceteras, quarum falsitas me non posset offendere». Cf. ibid., XIII, 15, 17, 851, p. 250; ibid., 19, 24-25, 855856, pp. 255-256. 26 Cf. ibid., XIII, 21, 30, 857, p. 258, 27-34: «Operentur ergo iam in terra ministri tui, non sicut in aquis infidelitatis annuntiando et loquendo per miracula et sacramenta et voces mysticas, ubi intenta fit ignorantia mater admirationis in timore occultorum signorum (talis enim est introitus ad fidem filiis Adam oblitis tui, dum se abscondunt a facie tua et fiunt abyssus) (cf. Gen 3, 8) sed operentur etiam sicut in arida discreta a gurgitibus abyssi et sint ‘forma fidelibus’ (1 Ts 1, 7) vivendo coram eis et excitando ad imitationem».
CAPITOLO PRIMO
FACERE VERITATEM
1. Educare alla fede: il De catechizandis rudibus (403) In una lettera di poco successiva alla sua elezione vescovile, Agostino scrive al frater Eusebius per chiedergli di farsi giudice e mediatore con Proculiano, vescovo donatista di Ippona, su una specifica questione; egli racconta infatti di un giovane che, perso il lume della ragione, non ha esistato a picchiare la madre ed è stato dunque ammonito dal suo vescovo. Allontanatosi per questo dalla chiesa cattolica, il giovane ha ricevuto il battesimo della chiesa donatista per il tramite di Proculiano ed è stato da questa gioisamente accolto come spiritualmente renovatus nonostante il crimine. Agostino narra la vicenda con la consueta eleganza del suo registro retorico: il giovane è colpevole di due, paralleli tentativi di matricidio, uno rivolto contro la madre naturale, l’altro contro quella spirituale, vale a dire la Chiesa cattolica. L’incipit della lettera racconta in modo molto efficace la dimensione spirituale e ‘politica’ della nuova stagione di Agostino e si presenta come una specie di sintetico manifesto programmatico. Dio, al quale sono manifesti i movimenti più nascosti dell’animo, sa che quanto amo la pace cristiana, tanto vengo scosso dalle azioni sacrileghe di quelli che perseverano indegnamente ed empiamente nella distruzione di quella pace; [Dio sa anche che] il moto del mio animo è pacifico e che non agisco per costringere qualcuno contro la sua volontà alla comunione cattolica, ma affinché la verità, resa accessibile, divenga chiara per tutti quelli che errano e, resa manifesta attraverso la nostra azione, con il favore di Dio, sia da sola capace a sufficienza di convincere ad abbracciarla e seguirla1. 1 Epistola ad Eusebium, XXXIV (396-397), 1, PL 33, 132, p. 124, 3-10: «Scit Deus, cui manifesta sunt arcana cordis humani, quantum pacem diligo christia-
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Agostino riafferma, qui e in diversi altri luoghi del suo epistolario, che l’interiorità dell’uomo è nota solo all’uomo stesso e a Dio; nessuno può dunque conoscerla o giudicarla. Ma, se l’interiorità resta a tutti celata, c’è una dimensione nella quale gli uomini si incontrano e si conoscono; è quella societas che non è data dalla somma degli arcana cordis (che appunto restano nascosti all’esterno), cioè dei pensieri dei singoli, ma dai facta, da quelle azioni cioè che rendono più o meno possibile la convivenza e che, quando sono scellerate, pregiudicano la pax christiana. Agostino sembra non vivere tale condizione di scissione; il suo animus è pacificato perché i sentimenti del suo cuore non stridono né divergono dai gesti della sua vita pubblica, che solo da questa pax interiore è resa possibile: la vera communio non può infatti nascere quando i membri di una comunità vengono costretti con la forza ad agire in armonia ma quando, persuasi dalla veritas ipsa, vengono proprio da essa portati a unirsi (amplecti) e a camminare insieme (sectare). In questa dinamica, Agostino individua per sé un compito ben preciso: rendere chiara (declarare) la verità per ministerium, assumere cioè innanzitutto la cura Hipponensis ecclesiae 2, che lo impegna totalmente e che lui vive in piena continuità con la sua precedente esperienza intellettuale3. Proprio in virtù dei doveri che da tali cure discendono, Agostino ha chiesto ad Eusebio che sollecitasse Proculiano e lo convincesse a un incontro, che invece questi sembra fuggire. Agostino manifesta meraviglia per il fatto che Proculiano, vescovo da tanti anni, abbia timore a discutere (conferre sermonem) con un principiante nella carica vescovile (tiro) come lui. Forse, sottolinea Agostino non senza pungente sarcasmo, Proculiano è in difficoltà perché ha appreso ben poco della doctrina liberalium litterarum o comunque sicuramente meno di quanto ha fatto il suo più giovane collega; ma
nam, tantum me moveri sacrilegis eorum factis, qui in eius dissensione indigne atque impie perseveranti eumque motum animi mei esse pacificum, neque me id agere ut ad communionem catholicam quisquam cogatur invitus, sed ut omnibus errantibus aperta veritas declaretur, et per nostrum ministerium, Deo iuvante, manifestata se amplectendam atque sectandam satis ipsa persuadeat». 2 Cf. ibid., 5, 133, pp. 125-126. 3 Cf. ibid., 6, p. 126, 80-89: «Quanquam et iste qui se tot annorum episcopum dicit, quid in me tirone timeat, quominus mecum velit conferre sermonem, non satis intellego: si doctrinam liberalium litterarum, quas forte ipse aut non didicit, aut minus didicit, quid hoc pertinet ad eam quaestionem, quae vel de sanctis Scripturis, vel documentis ecclesiasticis aut publicis discutienda est, in quibus ille per tot annos versatur, unde in eis deberet esse peritior? Postremo est hic frater et collega meus, Samsucius episcopus Turrensis ecclesiae, qui nullas tales didicit, quales iste dicitur formidare: ipse adsit, agat cum illo».
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l’argomento della questione, prosegue Agostino, è relativo alle sacre Scritture e ai documenti, ecclesiastici e pubblici, nella cui pratica Proculiano è sicuramente più esperto. Sarà forse il caso, conclude con un’ultima stilettata Agostino, che al suo posto si confronti con Proculiano il frater Sansucio, anch’egli vescovo ma che non ha nessuna competenza nelle arti liberali. Nel breve spazio della lettera inviata a Eusebio, Agostino illustra con mirabile sintesi la condizione di passaggio che caratterizza la sua esistenza negli anni della elezione vescovile. Resta fondativa, nella sua prospettiva, quella particolare antropologia filosofica che lo aveva condotto, sin dalla composizione del Contra Academicos, a descrivere l’uomo come un essere imperfettamente proiettato, per natura, alla costante ricerca di un altrove divino. Lo studio delle arti liberali e del testo sacro restano per Agostino l’esercizio più adeguato che l’uomo possa compiere per sollevarsi dallo sguardo orizzontale della visione storica a quello verticale, universale dell’intuizione teologica. Assunta però in modo diretto la cura ecclesiae, Agostino pone come suo obiettivo non più soltanto il percorso personale (o di pochi intimi) che, nella ricerca, promuove il singolo credente a una più alta intuizione, pur sempre parziale, del vero, ma quella pax che non è soltanto vittoria esteriore sul nemico, ma tentativo di riportare chi si è perso nella luce autoevidente della verità. L’imperfezione dell’umano cercante non sembra più apparire ad Agostino come il destino di un singolo (prometeicamente ma per certi versi sterilmente proiettato alla ricerca individuale di una verità razionale intesa come viatico per l’intuizione del divino) ma come collante di una comunità, trasformando così la fuga intellettuale del singolo uomo verso un Dio-ordine nell’anelito dell’umanità intera verso un Dio-carità (come Agostino aveva già chiaramente delineato nelle pagine del De doctrina christiana 4). La apertura dell’orizzonte agostiniano alle condizioni e ai destini della comunità umana si riversa, nei suoi scritti, in un rilievo sempre maggiore riservato alla dimensione ecclesiale. È in questa direzione che, attorno al 403, Agostino compone un testo finalizzato a illustrare modalità e strategie di catechesi di coloro i quali non avevano alcun rudimento di fede cristiana. Agostino risponde infatti alla richiesta del diacono Deogratias – futuro vescovo di Cartagine – che lamenta le sue difficoltà dinanzi al numero di quanti, privi di ogni rudimento teologico e religioso (rudes), vengono a lui indirizzati affinché li istruisca nella fede cristiana. È giusto – commenta Agostino – che in virtù 4
Cf. supra, p. 125.
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della doctrina che Deogratias possiede e della suavitas del suo eloquio gli sia affidato dalla comunità questo ruolo5, nel quale Agostino stesso si riconosce pienamente6. Proprio i doveri connessi alla cura della comunità animano la composizione del testo: il dovere di rispondere a Deogratias non deriva infatti, nell’animo di Agostino, solo dal legame affettivo che li unisce ma, ben più profondamente, da quella caritas che impone un servizio alla mater Ecclesia e che si concretizza nel supportare tutti quegli uomini che Dio affida ai suoi ministri come fratres da guidare. Nell’articolare la sua risposta, Agostino amplia i temi già analizzati nel De magistro e, declinandoli nella prospettiva ‘sociale’ che caratterizza la sua produzione africana e vescovile, prende le mosse dalla difficoltà di fondo che si cela dietro ogni forma di comunicazione: l’impossibilità cioè di rendere con parole realmente efficaci la complessità dei pensieri custoditi nell’animo; l’incapacità cioè della lingua di tener dietro al cuore7. Ancora una volta, la dinamica interiorità/ esteriorità si ripresenta nelle pagine agostiniane, sia nella sua declinazione comunicativa che in quella più schiettamente sociale. In questa nuova fase, infatti, Agostino non è solo mosso dal desiderio di rendere manifesto all’esterno ciò che si cela nell’interiorità («voglio che chi mi ascolta comprenda tutto ciò che io comprendo»8) ma è anche preoccupato dal fatto che, qualora ciò nell’ambito della sua azione pastorale non avvenisse, i risultati sarebbero nefasti. È questo infatti – conclude Agostino – il vero cruccio di chi insegna o, in generale, fa della comunicazione la sua attività principale, come nel caso del predicatore: avere la continua consapevolezza della inevitabile inadeguatezza dei suoi strumenti espressivi. Paradossalmente però, proprio nella sua di5 Cf. De catechizandis rudibus, 1, 1, 309, p. 121, 1-6: «Petisti me, frater Deogratias, ut aliquid ad te de catechizandis rudibus, quod tibi usui esset, scriberem. Dixisti enim, quod saepe apud Carthaginem, ubi diaconus es, ad te adducuntur qui fide christiana primitus imbuendi sunt, eo quod existimeris habere catechizandi uberem facultatem, et doctrina fidei et suavitate sermonis». 6 Cf. ibid., 1, 2, 311, p. 121, 19-24: «Ego vero non ea tantum quam familiariter tibi, sed etiam quam matri Ecclesiae universaliter debeo, caritate ac servitute compellor, si quid per operam meam, quam Domini nostri largitate possum exhibere, idem eos Dominus quos mihi fratres fecit, adiuvari iubet, nullo modo recusare, sed potius prompta et devota voluntate suscipere». 7 Cf. ibid., 2, 3, 311, p. 122, 7-10: «Melioris enim avidus sum, quo saepe fruor interius, antequam eum explicare verbis sonantibus coepero: quod ubi minus quam mihi motus est evaluero, contristor linguam meam cordi meo non potuisse sufficere». 8 Ibid., 311, p. 122, 9-10: «Totum enim quod intelligo, volo ut qui me audit intelligat».
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mensione catechetica (potenzialmente il luogo più pericoloso e dannoso per i fraintendimenti) tale fragilità della comunicazione umana trova una possibile ricomposizione: la comunità dei credenti non è il tribunale della ragione logico-discorsiva pronto a sindacare sulla reale efficacia del flusso comunicativo ma un orizzonte condiviso nel quale ciò che conta non è l’eleganza dello stile di chi parla ma la forza della sua fede9. Laddove infatti, nel De magistro, il problema centrale sembrava quello del reciproco intendersi da parte di due interlocutori, nel De catechizandis rudibus Agostino, forte delle conclusioni raggiunte nel De doctrina christiana10, individua il tema portante nell’amore che lega le persone quando tentano di comunicare con efficacia qualcosa relativamente alla loro fede. E come nel dialogo con Adeodato la prospettiva era teologico-filosofica, votata cioè a evidenziare quanta distanza performativa separi il Verbum divino dai verba umani, così nel testo indirizzato a Deogratias il modello è teologico-caritatevole, fondato cioè sul tentativo di imitare il movimento di rivelazione gratuita di Dio, mosso dal solo amore per gli uomini11. Se dunque tanto l’Incarnazione quanto la rivelazione scritturale altro non sono se non segni dell’amore di Dio per gli uomini, che lo ha indotto a volersi comunicare loro nel modo più efficace possibile, l’unico elemento attorno al quale ha senso costruire una verace comunicazione teologica è imitare, nelle proprie parole, il movimento di quella superiore dilectio12. Il discorso che dunque un uomo può rivolgere ad un altro uomo per catechizzarlo deve configurarsi come luogo di mediazione, spazio nel quale ad agire non può che essere Dio stesso: «colui che ascolta noi (…) ascolta Dio per il nostro tramite»13. Proprio in virtù di questo valore ‘vicario’ del discorso catechetico, esso deve essere capace di illustrare il dato scritturale con una triplice azione comunicativa; deve 9
Cf. ibid., 2, 4, 311, p. 123, 41-45: «Sed mihi saepe indicat eorum studium qui me audire cupiunt, non ita esse frigidum eloquium meum, ut videtur mihi; et eos inde aliquid utile capere, ex eorum delectatione cognosco, mecumque ago sedulo, ut huic exhibendo ministerio non desim, in quo illos video bene accipere quod exhibetur». 10 Cf. supra, p. 125. 11 Cf. ibid., 4, 7, 314, pp. 126-127, 1-3 e 10-13: «Quae autem maior causa est adventus Domini, nisi ut ostenderet Deus dilectionem suam in nobis, commendans eam vehementer. (…) Nulla est enim maior ad amorem invitatio quam praevenire amando; et nimis durus est animus, qui dilectionem si nolebat impendere, nolit rependere». 12 Cf. ibid., 4, 8, 316, p. 129, 78-80: «Hac ergo dilectione tibi tamquam fine proposito, quo referas omnia quae dicis, quidquid narras ita narra, ut ille cui loqueris audiendo credat, credendo speret, sperando amet». 13 Ibid., 7, 11, 318, p. 132, 39-40: «Ille qui nos audit (…) per nos audit Deum».
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cioè essere in grado al contempo di guidare gli incolti nell’apprendere le nozioni anche più semplici ed elementari (come il racconto delle vicende bibliche); di supportare gli eruditi di studi liberali nella miglior comprensione dei passi più oscuri e dei commenti dei teologi14; di sferzare oratori e grammatici, convinti, alla luce delle loro competenze, di poter giudicare qualità ed eleganza dell’eloquio scritturale, ricordando loro che il significato precede per importanza la parola15. La fortissima sensibilità catechetico-pastorale che sembra animare Agostino trova, nelle poche ma dense prescrizioni del De catechizandis rudibus, una sorta di manifesto programmatico di una nuova stagione: come a muovere Dio a comunicare agli uomini la sua esistenza è stata la gratuita dilectio, così è l’amore di carità che deve muovere il catechista nei confronti dei rudes; parimenti, come l’incarnazione di Cristo è la presa in carico, da parte di Dio, di tutti i limiti della forma umana, assunti perché questa era l’unica strada per comunicarsi agli uomini in un senso soteriologicamente efficace, così la fatica nel trovare parole adeguate o la consapevolezza che i discorsi non saranno mai perfetta espressione dei pensieri che li ispirano vanno accettati perché quella comunicazione, per quanto complessa, è l’unico modo per guidare gli altri alla fede16. In questa ottica, ciò che determina l’efficacia della riflessione teologico-filosofica e della comunicazione non sono la costruzione di un sistema speculativamente coerente o la trasmissione puntuale di una informazione ma la capacità, di quella riflessione e di quella comunicazione, di accompagnare l’umanità nel suo percorso a Dio. Dinanzi agli uomini, decaduti in Adamo, si prospetta infatti sempre la possibilità di scegliere se seguire ancora il diavolo o convertirsi a Dio17; essi, qualora guidati opportunamente da un pastore, costitui14
Cf. ibid., 8, 12, 318-319, pp. 133-134. Cf. ibid., 9, 13, 320, p. 135, 21-25: «His enim maxime utile est nosse, ita esse praeponendas verbis sententias, ut praeponitur animus corpori. Ex quo fit, ut ita malle debeant veriores quam disertiores audire sermones, sicut malle debent prudentiores quam formosiores habere amicos». 16 Cf. ibid., 10, 15, 322, pp. 137-138, 54-65: «Si enim causa illa contristat, quod intellectum nostrum auditor non capit, a cuius cacumine quodam modo descendentes cogimur in syllabarum longe infra distantium tarditate demorari, et curam gerimus quemadmodum longis et perplexis anfractibus procedat ex ore carnis quod celerrimo haustu mentis imbibitur, et quia multum dissimiliter exit, taedet loqui, et libet tacere: cogitemus quid nobis praerogatum sit ab illo qui demonstravit nobis exemplum, ut sequamur vestigia eius. Quantumvis enim differat articulata vox nostra ab intellegentiae nostrae vivacitate, longe differentior est mortalitas carnis ab aequalitate Dei. Et tamen cum in eadem forma esset, ‘semetipsum exinanivit formam servi accipiens etc. usque ad mortem crucis’ (Fil 2, 6-8)». 17 Cf. ibid., 18, 30, 332-333, pp. 154-155. 15
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scono, nella storia, la città dei santi, contrapposta a quella degli empi, che si muove senza guida e senza alcuna possibilità di aspirare a Dio.
2. La fondazione scritturale di una filosofia della storia La riflessione sull’esercizio pastorale e catechetico amplia l’orizzonte speculativo di Agostino, che sempre più sembra procedere verso l’elaborazione – nelle opere esegetiche dedicate al Genesi e ai testi giovannei che, in quegli stessi anni, andava componendo – di una compiuta filosofia della storia. Nel De catechizandis rudibus, Agostino sembra testimoniare la necessità di trasferire i guadagni speculativi della stagione dei dialoghi nella dimensione catechetica, per accompagnare la comunità dei credenti a una condivisa aspirazione alla trascendenza. Per raggiungere tale risultato, Agostino riprende e approfondisce, ora con fini pastorali, il dispositivo ermeneutico-scritturale inaugurato sin dai primi scritti antimanichei. Leggere le Scritture è dunque funzionale per il vescovo, ancor più di quanto non lo fosse negli anni precedenti, a comprendere il moto triadico con il quale Dio si prende cura dell’umanità, che Egli in primis crea, poi ‘osserva’ nel suo evolversi storico e, infine, attende nella dimensione dell’atemporalità18. Agostino dedica alla illustrazione di questa scansione triadica (che ovviamente ha senso solo a parte hominis) gli scritti esegetici composti dopo la nomina vescovile. In particolare, il De Genesi ad litteram, composto tra il 404 e il 414, in momenti diversi e con una lunga pausa19, è dedicato a comprendere i primi due movimenti (come cioè Dio costituisca il punto iniziale e il perimetro all’interno del quale tale movimento si dà e nel quale trova garanzia); il commento ai testi giovannei – avviato negli stessi anni e poi protratto fino al 420 – ha invece la funzione di illustrare meglio il terzo movimento, quello cioè di ritorno a Dio. «Due sono i motivi per i quali Dio ama la sua creatura: affinché essa esista e affinché permanga»20. Nelle pagine del De Genesi ad litteram, la ‘stabilità ontologica’ di Dio fonda la sua capacità di creare e preservare l’esistente; le rationes (eterne, incommutabili e stabili) 18 Cf. De Genesi ad litteram, I, 17, 34, 259, p. 25, 4-6: «Instituimus enim de Scripturis nunc loqui secundum proprietatem rerum gestarum, non secundum aenigmata futurarum». 19 Cf. supra, p. 117. 20 De Genesi ad litteram, I, 8, 14, 251, p. 11, 16-18: «Duo quippe sunt propter quae amat Deus creaturam suam; ut sit, et ut maneat».
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della sua sapientia 21 presenti nel Verbo vengono infatti come incubate dallo Spirito Santo22, in una complessa e impenetrabile dinamica che si svolge interamente in uno spazio di movimento intratrinitario ma che fonda, anzi quasi ‘cova’ e ha in cura (come farebbe la chioccia con i pulcini) l’esistenza storica dell’universo23. Questa descrizione risulta, ovviamente, comunque e sempre parziale; la Scrittura tenta infatti di rappresentare, con un linguaggio comprensibile, una dinamica che non può che sfuggire agli uomini, costretti a pensare sempre l’azione, anche quella divina, come svolta in un tempo e, dunque, incapaci di cogliere la straordinarietà dell’unico atto atemporale di Dio. Dio dunque non ha detto: ‘sia fatta questa o quella creatura’ tutte le volte che in quel libro è ripetuto: ‘E Dio disse’. Egli generò il suo unico Verbo, nel quale disse ogni cosa prima che le cose singole venissero fatte; ma la parola scritturale, abbassandosi alla capacità dei più semplici, mentre illustra una per una le diverse specie di creature, si riferisce attraverso ciascuna di esse all’eterna ragione nel Verbo di Dio24.
L’azione di Dio non si ripete infatti tutte le volte in cui le Scritture la indicano, ma è completamente contenuta nella dimensione unitaria e stabile dell’essere divino che pensa le cose nel suo Verbo (il fiat), ne stabilisce i confini ontologici (il factum) e ne preserva l’esistenza (il vidit)25. Mentre dunque gli uomini conoscono gli enti nel loro pro-
21 Cf. ibid., 10, 20, 253, p. 14, 27-28: «Verbo sibi coaeterno, id est incommutabilis Sapientiae internis aeternisque rationibus, non corporali sono vocis, ‘vocavit Deus lucem diem, et tenebras noctem’ (Gen 1, 5)». 22 Cf. ibid., 18, 36, 260, p. 26, 20-25: «Sed ante omnia meminerimus, unde iam multa diximus, non temporalibus quasi animi sui aut corporis motibus operari Deum, sicut operatur homo vel angelus; sed aeternis atque incommutabilibus et stabilibus rationibus coaeterni sibi Verbi sui, et quodam, ut ita dixerim, fotu pariter coaeterni sancti Spiritus sui». 23 Cf. ibid., 260, p. 27, 1-7: «Nec sicut foventur tumores aut vulnera in corpore aquis vel frigidis vel calore congruo temperatis; sed sicut ova foventur ab alitibus, ubi calor ille materni corporis etiam formandis pullis quodammodo adminiculatur, per quemdam in suo genere dilectionis affectum. Non itaque per singulos dies istorum operum divinorum tamquam temporales voces Dei carnaliter cogitemus». 24 Ibid., II, 6, 13, 268, p. 41, 19-26: «Non ergo Deus toties dixit: ‘Fiat illa vel illa creatura’, quoties in hoc libro repetitur: ‘Et dixit Deus’. Unum quippe Verbum ille genuit, in quo dixit omnia, priusquam facta sunt singula: sed eloquium Scripturae descendens ad parvulorum capacitatem, dum insinuat singillatim genera creaturarum, per singula respicit uniuscuiusque generis aeternam rationem in Verbo Dei». 25 Cf. ibid., 6, 14, 268, p. 42, 5-12: «Cum ergo audimus: ‘Et dixit Deus: Fiat’; intellegimus quod in Verbo Dei erat ut fieret. Cum vero audimus: ‘Et sic
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gressivo mostrarsi storico, Dio li ha pensati tutti ab initio; per questo, per esempio, gli angeli non apprendono le cose sensibili attraverso i sensi, nel tempo, ma le vedono nel Verbo perché Dio le rivela loro26. Il riposo del settimo giorno indica dunque la conclusione della creazione delle diverse specie di creature (genera creaturae) che però Dio continua a reggere e governare come causa della loro sussistenza (causa subsistendi creaturae)27: «Per questo intendiamo in tal modo che Dio abbia riposato da ogni opera da lui prodotta, e cioè che non ha creato nessuna nuova natura, non che abbia cessato di proteggere e governare quelle che già aveva creato»28. Il tempo è dunque il luogo in cui vengono a dipanarsi, come singole e particolari, le cose che, prima del tempo, erano state create29, tutte insieme e con un solo atto (simul uno ictu)30. est factum’; intellegimus factam creaturam non excessisse praescriptos in Verbo Dei terminos generis sui. Cum vero audimus: ‘Et vidit Deus quia bonum est’, intellegimus in benignitate Spiritus eius non quasi cognitum posteaquam factum est placuisse, sed potius in ea bonitate placuisse ut maneret factum, ubi placebat ut fieret». 26 Cf. ibid., 8, 17, 269, p. 44, 5-10 e 8, 18, 270, p. 45, 2-4: «Neque enim sicut pecora, solo sensu corporis, vident Angeli haec sensibilia; sed si quo sensu tali utuntur, agnoscunt ea potius, quae melius noverunt interius in ipso Dei Verbo, a quo illuminantur ut sapienter vivant: cum sit in eis lux quae primo facta est, si lucem spiritalem in illo die factam intellegimus. (…) Ex ipso ergo discebant Angeli, cum in eis fieret cognitio creaturae deinceps faciendae, ac deinde fieret in genere proprio». 27 Cf. ibid., IV, 12, 22, 304, p. 108, 9-22: «Potest etiam intellegi Deum requievisse a condendis generibus creaturae, quia ultra iam non condidit aliqua genera nova: deinceps autem usque nunc et ultra operari eorumdem generum administrationem, quae tunc instituta sunt; non ut ipso saltem die septimo potentia eius a coeli et terrae, omniumque rerum quas condiderat, gubernatione cessaret, alioquin continuo dilaberentur. Creatoris namque potentia, et omnipotentis atque omnitenentis virtus, causa subsistendi est omni creaturae: quae virtus ab eis quae creata sunt regendis, si aliquando cessaret, simul et illorum cessaret species, omnisque natura concideret. Neque enim, sicut structor aedium cum fabricaverit, abscedit, atque illo cessante atque abscedente stat opus eius; ita mundus vel ictu oculi stare poterit, si ei Deus regimen sui subtraxerit». 28 Ibid., 12, 23, 305, p. 110, 2-5: «Quapropter sic accipimus Deum requievisse ab omnibus operibus suis quae fecit, ut iam novam naturam ulterius nullam conderet; non ut ea quae condiderat, continere et gubernare cessaret». 29 Cf. ibid., 33, 52, 318, p. 132, 14-17: «Non itaque tarde institutum est, ut essent tarda quae tarda sunt; nec ea mora condita sunt saecula, qua transcurrunt. Hos enim numeros tempora peragunt, quos cum crearentur, non temporaliter acceperunt». 30 Cf. ibid., VI, 4, 5, 325, pp. 173,2027 - 174,1-2: «Cum dicit ergo: ‘Eiecit adhuc de terra omne lignum pulchrum ad aspectum’ (Gen 2, 9), manifestat utique quod aliter nunc eiecerit de terra lignum, aliter tunc cum tertio die produxit terra herbam pabuli, seminantem semen secundum genus suum, et lignum fructuosum
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È possibile infatti parlare di una creazione ‘potenziale’ (potentialiter), precedente ogni tempo, invisibile all’uomo perché tutta interna alle cause divine (causaliter) ed oggetto dell’esamerone scritturale (commentato da Agostino nel quarto e quinto libro), e di una creazione ‘storica’ (visibiliter), che cioè si svolge nel tempo (ed è oggetto dell’analisi letterale). Questa distinzione tra un momento di creazione atemporale e potenziale e un dispiegamento storico negli effetti si muove in direzione di un compiuto e radicale esemplarismo, che permette ad Agostino di riprendere il tema del rapporto tra predestinazione divina e azione umana e di ampliarlo in un orizzonte speculativo più vasto. Nella prima creazione del mondo (prima conditio mundi), quando Dio ha creato assieme ogni cosa, l’uomo è stato posto in essere come ratio creandi, modello e paradigma di ciò che avrebbe dovuto essere31. Anche l’uomo, dunque, come ogni altra cosa, è stato prima creato idealmente e poi gli è stata data temporalmente esistenza, in un vincolo strettissimo che lega prima e secunda conditio: le cose saranno infatti, nel tempo, necessariamente come Dio le ha volute nelle rationes pre-temporali, perché la voluntas di Dio è vincolante per le cose (rerum necessitas)32. I giorni invisibili (dies invisibiles) nei quali Dio ha ‘pensato’ ogni cosa, sono quelli della vera creazione; essi sono distinti dai giorni nei quali ciò che era stato ‘ideato’ ab origine si sviluppa in tempore, quando cioè la ratio formale di Adamo diventa vita propria degli uomini, storia, scelte33. secundum suum genus. Hoc est enim: ‘Eiecit adhuc’, super illud scilicet quod iam eiecerat: tunc utique potentialiter et causaliter in opere pertinente ad creanda omnia simul, a quibus consummatis in die septimo requievit; nunc autem visibiliter in opere pertinente ad temporum cursum, sicut usque nunc operatur». 31 Cf. ibid., 9, 16, 345-346, p. 182, 6-17: «Sicut enim Esau et Iacob, quos nondum natos dixit Apostolus nihil egisse boni vel mali, non possemus dicere traxisse aliquid meriti de parentibus, si nec ipsi parentes egissent aliquid boni aut mali; nec genus humanum peccasse in Adam, si ipse non peccasset Adam; non autem peccasset Adam, nisi iam suo tempore viveret, quo posset vivere sive bene sive male: ita frustra peccatum eius, seu recte factum requiritur, cum adhuc in rebus simul creatis causaliter conditus, nec vita propria iam vivebat, nec in parentibus sic viventibus erat. In illa enim prima conditione mundi, cum Deus omnia simul creavit, homo factus est qui esset futurus, ratio creandi hominis, non actio creati». 32 Cf. ibid., 15, 26, 350, p. 190, 12-16: «Manifestum est etiam sic non factum esse hominem contra quam erat in illa prima conditione causarum; quia ibi erat etiam sic fieri posse, quamvis non ibi erat ita fieri necesse esse: hoc enim non erat in conditione creaturae, sed in placito Creatoris, cuius voluntas rerum necessitas est». 33 Cf. ibid., 6, 9, 342, p. 176, 15-18: «In qua distributione operum Dei, partim ad illos dies invisibiles pertinentium, quibus creavit omnia simul, partim ad istos, in quibus operatur quotidie quidquid ex illis tamquam involucris primordialibus in tempore evolvitur».
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La connessione tra le due conditiones, il fatto cioè che nel dipanarsi storico degli avvenimenti non possa che rivelarsi ciò che Dio ha ab initio disposto, dà sostanza scritturale al ‘determinismo’ teologico che Agostino aveva già delineato nei testi in cui aveva discusso della grazia e della libertà umana: il Dio-ordinatore, che prima pensa le cose nelle rationes e poi lascia che esse si sviluppino secondo i suoi disegni, non può non sapere, in virtù proprio di questa struttura, quale sarà il destino di ogni cosa34. Anche Adamo, infatti, deve la sua virilitas (cioè il suo esser stato creato uomo) alla realizzazione del modello di uomo che Dio aveva posto nelle cause eterne35, tanto impenetrabili da non permettere all’uomo una intelligenza del perché il progenitore sia stato creato ‘tentabile’36. Tale insormontabile difficoltà rende inintellegibile, infatti, la comprensione della causa ultima per la quale Dio predestini alcuni uomini alla salvezza e altri al castigo, e concede soltanto una riflessione sulla funzionalità della coesistenza di queste due tipologie di uomini per la più generale economia dell’universo, nella quale cioè la condanna dei predestinati alla perdizione è funzionale al percorso dei predestinati alla salvezza. Nel libro XI del De Genesi ad litteram Agostino procede al commento dei versetti dedicati, nel terzo capitolo, alla tentazione del serpente e alla risposta di Adamo ed Eva, e raccoglie la domanda di quanti si chiedono perché Dio ha permesso che i progenitori fossero tentati, pur sapendo, nella sua preveggenza, che avrebbero ceduto. Agostino ricorda ai suoi lettori che, in linea di principio, è impossibile comprendere i moti della volontà divina; ciò non toglie che l’uomo possa però formulare ipotesi (senza dunque pretendere di aver con esse colto il vero). È dunque possibile, in via ipotetica, immaginare che Dio, nel tentare una creatura che sapeva 34 Cf. ibid., 17, 28, 350, p. 191, 10-15: «Hoc enim necessario futurum est quod ille vult, et ea vere futura sunt quae ille praescivit. Nam multa secundum inferiores causas futura sunt; sed si ita sunt et in praescientia Dei, vere futura sunt: si autem ibi aliter sunt, ita potius futura sunt, sicut ibi sunt, ubi qui praescit, falli non potest». 35 Cf. ibid., 18, 29, 351, p. 192, 9-17: «Quapropter, si omnium futurorum causae mundo sunt insitae, cum ille factus est dies, quando Deus creavit omnia simul; non aliter Adam factus est, cum de limo formatus est, sicut est credibilius iam perfectae virilitatis, quam erat in illis causis, ubi Deus hominem in sex dierum operibus fecit. Ibi enim erat non solum ut ita fieri posset, verum etiam ut ita eum fieri necesse esset. Tam enim non fecit Deus contra causam, quam sine dubio volens praestituit, quam contra voluntatem suam non facit». 36 Cf. ibid., XI, 4, 6, 431, p. 337, 11-14: «Si ergo quaeritur cur Deus tentari permiserit hominem, quem tentatori consensurum esse praesciebat; altitudinem quidem consilii eius penetrare non possum, et longe supra vires meas hoc esse confiteor».
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avrebbe ceduto, abbia voluto proprio mostrare quale sia la dinamica della relazione tra volontà umana e male, evidenziando cioè, grazie alle vicende di Adamo, che non c’è condanna senza colpa e non c’è colpa senza scelta. In particolare, la scelta di Adamo è paradigmatica di ogni errore umano perché pretende di porre l’uomo laddove egli non può arrivare. L’azione del tentator infatti non avrebbe avuto seguito se in Adamo non fosse prima cresciuto un desiderio di sollevarsi ed esaltarsi (elatio) che gli impediva di sottomettersi con la necessaria umiltà a Dio37; la condanna per l’uomo è dunque proprio la descensio da quella condizione innaturale – cui egli inopportunamente aspirava – verso una humiliatio, una condizione cioè umile in quanto ‘terrena’ (humus). Dio ha dunque permesso che l’uomo venisse tentato affinché egli venisse in ciò messo alla prova38, scegliendo secondo voluntas e non per necessitas 39; ciò non toglie, sostengono alcuni, che Dio avrebbe potuto sia far sì che tutti gli uomini fossero buoni sia che i malvagi si convertissero. Pur possibile, risponde Agostino, questa eventualità mal si concilierebbe con l’economia generale del creato, nel quale la distanza tra buoni e malvagi è essenziale per qualificare l’azione dei primi in contrasto con quella dei secondi che, anzi, sono spesso motivo di riflessione e sprone a migliorarsi per chi si comporta correttamente40. Premessa filosofico-teologica e dimensione etico-politica si saldano qui mostrando una consonanza perfetta: la potenza e la onnipervasività del progetto divino rendono infatti la storia il teatro di svolgimento degli effetti molteplici e particolari dell’unico moto 37 Cf. ibid., 5, 7, 432, p. 338, 4-7: «Nec arbitrandum est quod esset hominem deiecturus iste tentator, nisi praecessisset in anima hominis quaedam elatio comprimenda, ut per humiliationem peccati, quam de se falso praesumpserit, disceret». 38 Cf. ibid., 8, 8, 432, p. 339, 12-21: «Sic autem quidam moventur de hac primi hominis tentatione, quod eam fieri permiserit Deus, quasi nunc non videant universum genus humanum diaboli insidiis sine cessatione tentari. Cur et hoc permittit Deus? An quia probatur et exercetur virtus, et est palma gloriosior non consensisse tentatum, quam non potuisse tentari: cum etiam ipsi qui deserto Creatore eunt post tentatorem, magis magisque tentent eos qui in verbo Dei permanent, praebeantque illis contra cupiditatem devitationis exemplum, et incutiant contra superbiam timorem pium». 39 Cf. ibid.¸7, 9, 433, p. 340, 4-9: «Talem, inquiunt, faceret hominem, qui nollet omnino peccare. Ecce nos concedimus meliorem esse naturam quae omnino peccare nolit; concedant et ipsi non esse malam naturam quae sic facta est, ut posset non peccare si nollet, et iustam esse sententiam qua punita est, quae voluntate non necessitate peccavit». 40 Cf. ibid., 10, 13, 434, p. 343, 2-5: «Puto tamen paulo ante satis nos ostendisse non parvi boni esse rationalem creaturam, etiam istam quae malorum comparatione cavet malum».
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creante di Dio; essa, per questo, pur nella apparente commistione nella quale gli uomini condividono le loro esistenze, è luogo di una invisibile polarizzazione tra quanti sono conformi al volere di Dio e quanti se ne discostano (pur non essendo per questo ignoti al suo sguardo assolutamente previdente); una sola societas visibile dunque nella quale agiscono due differenti amores, l’uno santo, l’altro immondo, che a loro volta generano due diverse civitates, che si trovano in una mescolanza (commixtio) nel saeculum ma che verranno poi distinte, l’una destinata alla vita aeterna, l’altra all’ignis aeternum 41. Consapevole della assolutezza e della pervasività, per il destino dei singoli, dell’azione di Dio («prevede quelli che saranno buoni, e li crea; prevede quelli che saranno malvagi, e li crea»42), Agostino sembra così voler traslare il tema in una dimensione sociale e politica nella quale non è il semplice fato dell’individuo a essere oggetto di riflessione ma la ben più generale sorte dell’umanità che, intesa come complesso articolato, viene descritta come necessariamente prodotta dal comporsi di luci e ombre. La compiuta costruzione di una filosofia della storia, avviata nella esegesi della Genesi, prende ancor meglio forma nel lavoro di commento ai testi giovannei che occupò Agostino in due momenti distinti (tra il 406 e il 407, con la composizione dei primi 17 trattati sul Vangelo e dei 10 trattati dedicati alla Lettera di Giovanni, e tra il 414 e il 420 per i restanti 107 trattati del commento)43. Il commento a Giovanni prende le mosse ancora una volta, come era stato nel De doctrina christiana e 41 Cf. ibid., 15, 20, 437, pp. 347,27 - 348,1-19: «Hi duo amores, quorum alter sanctus est, alter immundus; alter socialis, alter privatus; alter communi utilitati consulens propter supernam societatem, alter etiam rem communem in potestatem propriam redigens propter arrogantem dominationem; alter subditus, alter aemulus Deo; alter tranquillus, alter turbulentus; alter pacificus, alter seditiosus; alter veritatem laudibus errantium praeferens, alter quoquo modo laudis avidus; alter amicalis, alter invidus; alter hoc volens proximo quod sibi, alter subicere proximum sibi; alter propter proximi utilitatem regens proximum, alter propter suam: praecesserunt in Angelis; alter in bonis, alter in malis; et distinxerunt conditas in genere humano civitates duas, sub admirabili et ineffabili providentia Dei, cuncta, quae creat, administrantis et ordinantis, alteram iustorum, alteram iniquorum. Quarum etiam quadam temporali commixtione peragitur saeculum, donec ultimo iudicio separentur, et altera coniuncta Angelis bonis in rege suo vitam consequatur aeternam, altera coniuncta angelis malis in ignem cum rege suo mittatur aeternum. De quibus duabus civitatibus latius fortasse alio loco, si Dominus voluerit, disseremus». 42 Ibid., 11, 15, 435, p. 344, 9: «Praevidet bonos futuros, et creat; praevidet malos futuros, et creat». 43 Cf. M.-F. Berrouard, Introduction aux homélies de saint Augustin sur l’évangile de saint Jean, Turnhout 2004.
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nel De catechizandis rudibus, da una riflessione sulla distanza tra l’oggetto indagato, cioè la volontà di Dio espressa nelle parole scritturali, e il soggetto che la indaga, cioè l’uomo. Nessun profeta o interprete – nemmeno Giovanni – può infatti affermare di aver capito e riferito la realtà delle cose di cui parla, perché nessun uomo può, nemmeno se divinamente guidato, smettere di essere uomo44. Anche l’ispiratissimo quarto Vangelo, dunque, non può che proporre semplici parole, la cui intelligenza va cercata non in colui che le ha scritte ma in chi le ha suggerite45. La consapevolezza della debolezza della parola umana, anche di quella di Giovanni, è per Agostino al contempo espediente e premessa per cogliere invece la funzione del Verbum 46: proprio infatti nella condizione di prostrazione che Agostino riconosce all’uomo sin dai primi dialoghi l’unica speranza deriva infatti, per l’umanità, dall’atto di humilitas con il quale Dio assume su di sè tale condizione precaria e poi la supera, ponendo dunque le premesse per un re-ligioso47 ritorno all’eterno non del singolo uomo ma dell’umanità intera. 44 Cf. In Iohannis evangelium, I, 1, 1379-1380, p. 1, 8-25: «‘In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum’ (Gv 1, 1): hoc enim animalis homo non percipit. Quid ergo, fratres? Silebimus hinc? Quare ergo legitur, si silebitur? Aut quare auditur, si non exponitur? Sed et quid exponitur, si non intellegitur? Itaque quoniam rursum esse non dubito in numero vestro quosdam, a quibus possit non solum expositum capi, sed et antequam exponatur, intellegi; non fraudabo eos qui possunt capere, dum timeo superfluus esse auribus eorum qui non possunt capere. Postremo aderit misericordia Dei, fortasse ut omnibus satis fiat, et capiat quisque quod potest: quia et qui loquitur, dicit quod potest. Nam dicere ut est, quis potest? Audeo dicere, fratres mei, forsitan nec ipse Iohannes dixit ut est, sed et ipse ut potuit; quia de Deo homo dixit: et quidem inspiratus a Deo, sed tamen homo. Quia inspiratus, dixit aliquid; si non inspiratus esset, dixisset nihil: quia vero homo inspiratus, non totum quod est dixit; sed quod potuit homo, dixit». Cf. ibid., XIV, 6, 1505, pp. 144-145, 11-19: «Quantum ad ipsum hominem pertinet, de terra est, et de terra loquitur: si autem aliqua loquitur divina, illuminatus est a Deo. Nam si non esset illuminatus, terra terram loqueretur. Ergo seorsum est gratia Dei, seorsum natura hominis. Modo naturam hominis interroga: nascitur et crescit, usitata ista hominum discit. Quid novit nisi terram de terra? Humana loquitur, humana novit, humana sapit; carnalis carnaliter aestimat, carnaliter suspicatur: ecce est totus homo. Veniat gratia Dei, illuminet tenebras illius». 45 Cf. ibid., 7, 1382: «Inde qui haec dixit, accepit Iohannes ille, fratres, qui discumbebat super pectus Domini (cf. Gv 13, 25), et de pectore Domini bibebat quod propinaret nobis. Sed propinavit verba; intellectum autem inde debes capere, unde et ipse biberat qui tibi propinavit». 46 Cf. ibid., I, 17, 1387, p. 4, 11-15: «Sic ergo, fratres carissimi, quia Sapientia Dei, per quam facta sunt omnia, secundum artem continet omnia, antequam fabricet omnia; hinc quae fiunt per ipsam artem, non continuo vita sunt, sed quidquid factum est, vita in illo est». 47 Cf. ibid., II, 4, 1390: «At vero quidam philosophi huius mundi exstiterunt, et inquisierunt Creatorem per creaturam: quia potest inveniri per creaturam, evi-
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La cristologia (l’idea cioè che il Verbo sia al contempo principio produttore – dunque posto all’origine di tutto – persona incarnata – cioè ‘fatto’ storico visibile – e, infine, viatico di salvezza) sembra dunque portare a compimento la riflessione ‘triadica’ sulla storia e sul rapporto tra l’azione divina e il suo dipanarsi temporale48: se infatti la Genesi descrive l’azione di creazione e di governo del mondo da parte di Dio, Giovanni mostra il compiersi di questo percorso, indicando in Cristo il viatico per il ritorno dei credenti a Dio. Su questa struttura Agostino costruisce la sua ecclesiologia49 che, lungi dall’essere semplice esigenza politica di definizione di un perimetro istituzionale ed
denter dicente Apostolo: ‘Invisibilia enim eius, a constitutione mundi, per ea quae facta sunt, intellecta conspiciuntur; sempiterna quoque virtus eius et divinitas, ut sint inexcusabiles. Et sequitur: Quia cum cognovissent Deum: non dixit: Quia non cognoverunt; sed: Quia cum cognovissent Deum, non sicut Deum glorificaverunt, aut gratias egerunt; sed evanuerunt in cogitationibus suis, et obscuratum est insipiens cor eorum. Unde obscuratum? Sequitur, et dicit apertius: ìDicentes enim se esse sapientes, stulti facti sunt’ (Rm 1, 20-22). Viderunt quo veniendum esset: sed ingrati ei qui illis praestitit quod viderunt, sibi voluerunt tribuere quod viderunt; et facti superbi amiserunt quod videbant, et conversi sunt inde ad idola et simulacra et ad culturas daemoniorum, adorare creaturam, et contemnere Creatorem. Sed iam isti elisi ista fecerunt: ut autem eliderentur, superbierunt; cum autem superbirent, sapientes se esse dixerunt. Hi ergo de quibus dixit: Qui cum cognovissent Deum, viderunt hoc quod dicit Iohannes, quia per Verbum Dei facta sunt omnia. Nam inveniuntur et ista in libris philosophorum: et quia unigenitum Filium habet Deus, per quem sunt omnia. Illud potuerunt videre quod est, sed viderunt de longe: noluerunt tenere humilitatem Christi, in qua navi securi pervenirent ad id quod longe videre potuerunt; et sorduit eis crux Christi. Mare transeundum est, et lignum contemnis? O sapientia superba! Irrides crucifixum Christum; ipse est quem longe vidisti: In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum. Sed quare crucifixus est? Quia lignum tibi humilitatis eius necessarium erat. Superbia enim tumueras, et longe ab illa patria proiectus eras; et fluctibus huius saeculi interrupta est via, et qua transeatur ad patriam non est, nisi ligno porteris. Ingrate, irrides eum qui ad te venit ut redeas!». Cf. ibid., IV, 1-4, 1046-1047. 48 Cf. In epistola Iohannis ad Parthos, II, 10, 1994: «Propter te factus [scil. Cristhus] est temporalis, ut tu fias aeternus; quia et ille sic factus est temporalis, ut maneret aeternus. Accessit illi aliquid ex tempore, non decessit ex aeternitate. Tu autem temporalis natus es, et per peccatum temporalis factus es: tu factus es temporalis per peccatum, ille factus est temporalis per misericordiam dimittendi peccata». 49 Cf. ibid., 4, 1992: «‘Numquid Paulus pro vobis crucifixus est? aut in nomine Pauli baptizati estis?’ (1 Gv 2, 13) Quid dicit? Nolo mei sitis, ut mecum sitis: mecum estote; omnes illius sumus qui pro nobis mortuus est, qui pro nobis crucifixus est: unde et hic: ‘Dimittuntur vobis peccata per nomen eius’, non per hominis alicuius». Cf. N. Cipriani, La rivelazione della trinità immanente nei Tractatus in Iohannem di S. Agostino, in Atti del VII Simposio di Efeso su S. Giovanni Apostolo, a c. di L. Padovese, Roma 1999, pp. 235-258.
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esteriore, risulta l’effetto dell’ampliamento della prospettiva speculativa disegnata nella stagione dei dialoghi. Dio appare sempre di più, nelle opere di Agostino, come protagonista di un movimento caritatevole e gratuito di misericordia che crea il mondo, lo accompagna e indica la via del ritorno in patria. Se in tutta la prima parte della sua produzione, Agostino ritiene che a tale movimento debba rispondere il singolo credente con uno sforzo di ricerca personale, capace di ascendere speculativamente con il supporto delle artes e di accogliere e decodificare la notitia che Dio dà di sé attraverso i signa scirtturali e naturali, nella stagione vescovile egli avverte l’esigenza di ampliare il suo orizzonte, e di individuare il compito dell’uomo non nella sola indagine filosofica ma nell’esercizio comunitario di quella caritas fraterna che è a sua volta riflesso dell’amore gratuito che ha mosso Dio dalla creazione fino all’incarnazione; di una societas cioè che genera gaudium perché ritrova il motivo della sua unitas nell’esercizio della caritas: «Plenum gaudium dicit in ipsa societate, in ipsa caritate, in ipsa unitate»50. Costruire una comunità ecclesiastica e, al contempo, porre ai margini gli eretici significa, dunque, per Agostino superare la dimensione individualista della ricerca e cogliere quale ruolo l’umanità abbia nella struttura metafisica dell’esistente51. La scelta di far parte della Chiesa, conclude infatti Agostino, nasce negli uomini proprio dalla presa d’atto che, se la ricerca filosofica è l’attività individuale che più di tutte permette una intuizione aurorale ma sempre limitata di Dio per il tramite dello studio dei sui signa presenti nel creato, l’amore caritatevole e ‘sociale’ nei confronti dei propri simili è l’unica strategia efficace di ritorno (re-ligioso) all’e-
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Cf. In epistola Iohannis ad Parthos, I, 3, 1980: «‘Quia vidisti, credidisti; beati qui non vident et credunt’ (Gv 20, 25-29). Nos descripti sumus, nos designati sumus. Fiat ergo in nobis beatitudo quam Dominus praedixit futuram: firme teneamus quod non videmus; quia illi nuntiant qui viderunt. ‘Ut et vos’, inquit, ‘societatem habeatis nobiscum’. Et quid magnum societatem habere cum hominibus? Noli contemnere; vide quid addat: ‘Et societas nostra sit cum Deo Patre, et Iesu Christo Filio eius. Et haec’, inquit, ‘scribimus vobis, ut gaudium vestrum sit plenum’ (1 Gv 1, 3-4). Plenum gaudium dicit in ipsa societate, in ipsa caritate, in ipsa unitate». 51 Cf. ibid., III, 5, 1999: «Hinc ergo videat caritas vestra, quia multi qui non sunt ex nobis, accipiunt nobiscum Sacramenta, accipiunt nobiscum Baptismum, accipiunt nobiscum quod norunt fideles se accipere, Benedictionem, Eucharistiam, et quidquid in Sacramentis sanctis est; ipsius altaris communicationem accipiunt nobiscum, et non sunt ex nobis. Tentatio probat quia non sunt ex nobis. Quando illis tentatio venerit, velut occasione venti, volant foras; quia grana non erant. Omnes autem tunc volabunt, quod saepe dicendum est, cum area dominica coeperit ventilari in die iudicii».
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terno perché la sola che imita, almeno parzialmente, il corrispettivo movimento di Dio verso gli uomini52: Se infatti lo amiamo ora che non vediamo, in che modo lo accoglieremo quando vedremo? Ma dove dobbiamo prepararci? Nell’amore fraterno. Potresti infatti dirmi: non ho mai visto Dio; ma potresti mai dirmi invece: non ho mai visto un uomo? Ama il tuo fratello. Se infatti avrai amato il fratello che vedi dinanzi a te, nello stesso momento vedrai anche Dio; perché vedrai la carità stessa e lì è presente Dio53.
Come l’uomo risponde dunque a un Dio che lo cerca cercandolo a sua volta, senza però mai poter andare oltre i confini del suo sguardo parziale, così gli uomini possono rispondere a un Dio che li ha amati gratuitamente, amandolo e amandosi in egual modo54. La dimensione dell’uomo è qui, ancora, quella dell’esule che cerca la sua patria eterna55; il percorso prospettato non è più soltanto, però, quello della ricerca (filosofica) del singolo, quello cioè in cui l’uomo vede la realtà e cerca di cogliere al di là di essa il suo fondatore, ma quello comunitario dell’amore («Semel ergo breve praeceptum tibi praecipitur: Dilige, et quod vis fac»56), di quel moto che permette agli uomini di sublimare gli errori derivanti dalla loro strutturale fragilità perché essi sono, per certi versi, movente dell’amore di Dio57: «Dici dunque di 52 Cf. ibid., V, 3, 2013: «Puto enim, fratres, quia omnis homo sollicitus est pro anima sua, qui non sine causa intrat Ecclesiam, qui non temporalia quaerit in Ecclesia, qui non propterea intrat ut transigat negotia saecularia; sed ideo intrat, ut aliquid sibi aeternum promissum teneat, quo perveniat». 53 Ibid., 7, 2016: «Si enim amamus cum non videmus, quomodo amplectemur cum viderimus? Sed ubi nos debemus exercere? In amore fraterno. Potes mihi dicere: Non vidi Deum; numquid potes mihi dicere: Non vidi hominem? Dilige fratrem. Si enim fratrem quem vides dilexeris, simul videbis et Deum; quia videbis ipsam caritatem, et intus inhabitat Deus». 54 Cf. ibid., VI, 13, 2028: «Hic nunc iam interroga omnes haereticos, Christus venit in carne? Venit; hoc credo, hoc confiteor. Imo hoc negas. Unde nego? audis quia hoc dico. Imo ego convinco quia negas. Dicis voce, negas corde; dicis verbis, negas factis. Quomodo, inquis, nego factis? Quia ideo venit in carne Christus, ut moreretur pro nobis». 55 Cf. ibid., VII, 1, 2029: «Mundus iste omnibus fidelibus quaerentibus patriam sic est, quomodo fuit eremus populo Israel. Errabant quidem adhuc, et patriam quaerebant: sed duce Deo errare non poterant. Via illis fuit iussio Dei. Nam ubi per quadraginta annos circumierunt, paucissimis mansionibus conficitur iter ipsum, et notum est omnibus». 56 Cf. ibid., 8, 2033. 57 Cf. ibid., 11, 2035: «Noli in homine amare errorem, sed hominem: hominem enim Deus fecit, errorem ipse homo fecit. Ama illud quod Deus fecit, noli
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amare Cristo; preserva allora il suo comandamento, e ama il tuo fratello. (…) Non abbandoniamo la via retta; manteniamo l’unità della Chiesa, manteniamo la carità»58.
amare quod ipse homo fecit»; ibid., VIII, 4, 2038: «Necesse est sicut ignis, prius occupet proxima, et sic se in longinquiora distendat. Propinquior est tibi frater quam nescio quis homo. Rursus tibi magis adhaeret ille quem non noveras, qui tibi tamen non adversatur, quam inimicus qui etiam adversatur. Extende dilectionem in proximos, nec voces illam extensionem. Prope enim te diligis, qui eos diligis qui tibi adhaerent. Extende ad ignotos, qui tibi nihil mali fecerunt. Transcende et ipsos; perveni, ut diligas inimicos. Hoc certe Dominus iubet»; ibid., IX, 10, 2052: «Quid ergo? Qui diligit fratrem, diligit et Deum? Necesse est ut diligat Deum, necesse est ut diligat ipsam dilectionem. Numquid potest diligere fratrem, et non diligere dilectionem? Necesse est ut diligat dilectionem. Quid ergo, qui diligit dilectionem, ideo diligit Deum? Utique ideo. Diligendo dilectionem, Deum diligit». 58 Ibid., IX, 11, 2053: «Dicis ergo te diligere Christum; serva mandatum eius, et fratrem dilige. (…) Non recedamus a via; teneamus unitatem Ecclesiae, teneamus Christum, teneamus caritatem».
CAPITOLO 2
CERCARE UN DIO CERCANTE: IL DE TRINITATE (400-420)
1. La dimensione ‘sociale’ della teologia Pur coltivando la profonda convinzione, più volte espressa nelle pagine del De catechizandis rudibus, che le buone intenzioni di chi illustra temi teologici valgano più delle incerte parole che questi può utilizzare, Agostino affrontò la sua opera più teologicamente densa, il De Trinitate1, con grande timore e con un impegno di diversi anni, iscrivendo anch’essa in una più vasta prospettiva ‘sociale’. Punto di partenza della riflessione di Agostino è l’insieme degli errori che, in materia teologica, gli uomini sono capaci di collezionare. L’approccio aletologico di Agostino resta infatti qui immutato e, anzi, non può che radicalizzarsi proprio quando affronta i temi legati alla natura del divino. Dio non è un oggetto che l’uomo, creatura mutevole, possa comprendere. Alcuni invece ritengono di poter pensare Dio secondo gli schemi solitamente applicati alle sostanze corporee; altri ancora lo descrivono con gli strumenti con i quali si parla delle sostanze spirituali, come l’anima. Altri infine ritengono di poter immaginare, per pensare Dio, formule nuove e specifiche, che nulla hanno a che fare con Dio o con le altre sostanze. Per questo le Scritture, quasi preconoscendo le falsitates che gli uomini avrebbero prodotto nel parlare di Dio per incapacità o per superbia, utilizzano per un verso immagini ed espressioni diverse, anche molto concrete e legate a un immaginario materiale, per permettere, quasi pensandole come infantilia oblectamenta, di portare coloro i quali hanno meno capacità speculativa a cercare i contenuti spirituali (ad quaerenda superiora); per un altro, descrive con espressioni specifiche, come quella presente in Es 3, 14, ciò che
1 Cf. De Trinitate, prol., 818, p. 25, 4-5: «De Trinitate quae Deus summus et verus est libros iuvenis inchoavi, senex edidi».
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Cercare un Dio cercante: il De Trinitate
di Dio si può affemare2. Agostino ribadisce dunque, proprio quando affronta un tema così delicato e inconoscibile come la natura trinitaria di Dio, che l’unica fonte di informazioni affidabile per l’uomo è la Scrittura; per questo, i primi quattro libri del De Trinitate sono un invito a tutti i credenti a indagare quale sia l’affermazione di fede più corretta sulla Trinità secundum auctoritatem sanctarum Scripturarum 3. Tale sforzo ermeneutico amplia e chiarifica la dimensione apertamente ‘sociale’ sin qui delineata come tratto caratteristico della stagione vescovile della produzione di Agostino. Dinanzi al mistero più grande, alla difficoltà più oscura e ai temi più densi, davanti cioè al tentativo – che già in partenza sa di essere perdente – di cogliere l’impensabile natura unitrinitaria di Dio, Agostino formula apertamente l’auspicio che tutti quelli che sono soliti studiare le sue opere possano, nella lettura del De Trinitate, ritrovarsi come raccolti in una sola platea dinanzi a Dio, perché non c’è argomento più arduo da affrontare e ricerca più utile da intraprendere4. E a quanti tra questi non trovassero risposte adeguate nella sua opera, Agostino rivolge l’invito a cercare altrove, in altri autori e in altre opere, così che libri diversi, con stili differenti ma con identica fede riescano a rispondere efficacemente alle necessità di tutti i credenti che indagano5. Agostino non può infatti offrire, ai suoi lettori, garanzie di scientificità o esattezza delle sue affermazioni ma solo chiarezza dei suoi metodi6. La difficoltà
2 Cf. ibid., 1, 2, 820, pp. 28-29. Sul fatto che lo Spirito dia alle Scritture una forma che può sollecitare i più abili interpreti senza spaventare i meno eruditi Agostino si esprime anche nel De doctrina christiana; cf. supra, p. 129. 3 Cf. ibid., I, 2, 4, 822, pp. 31-32. 4 Cf. ibid., 3, 5, 822, p. 32, 5-11: «Et hoc placitum pium atque tutum coram Domino Deo nostro cum omnibus inierim qui ea quae scribo legunt et in omnibus scriptis meis maximeque in his ubi quaeritur unitas Trinitatis, Patris et Filii et Spiritus Sancti, quia neque periculosius alicubi erratur, nec laboriosius aliquid quaeritur, nec fructuosius aliquid invenitur». 5 Cf. ibid., 823, p. 33, 25-28: «Ideoque utile est plures a pluribus fieri diverso stilo, non diversa fide, etiam de quaestionibus eisdem ut ad plurimos res ipsa perveniat, ad alios sic, ad alios autem sic». 6 Cf. ibid., 823, pp. 33-34, 38-48: «Ego tamen ‘in lege Domini meditabor’ (Sal 62, 7), si non ‘die ac nocte’ (Sal 1, 2), saltem quibus temporum particulis possum, et meditationes meas ne oblivione fugiant stilo alligo sperans de misericordia Dei quod in omnibus veris quae certa mihi sunt perseverantem me faciet; ‘si quid autem aliter’ sapio, ‘id quoque’ mihi ipse ‘revelabit’ (Fil 3, 15-16) sive per occultas inspirationes atque admonitiones sive per manifesta eloquia sua sive per fraternas sermocinationes. Hoc oro et hoc depositum desideriumque meum penes ipsum habeo, qui mihi satis ‘idoneus est’ et custodire quae dedit et ‘reddere quae promisit’ (Rm 4, 21; Gv 17, 12)». Cf. ibid., V, 1, 1, 911, p. 206, 13-17: «Ab his etiam qui ista lecturi sunt, ut ignoscant peto, ubi me magis voluisse quam po-
1. La dimensione ‘sociale’ della teologia
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stessa del tema affrontato, chiarisce infatti poco dopo Agostino, occupa sempre il suo animo, ed è proprio tale dedizione alla ricerca sulla Trinità ad indurre tanti a chiedergli conforto intellettuale sul tema. Quello che però Agostino può condividere con i suoi lettori, su un argomento così complesso, non è il risultato della ricerca ma il suo stesso procedere; un movimento dunque che, fondato ancora una volta sulla caritas, connetta l’ansia di indagine di Agostino, che sempre si sente quaerens, con il desiderio di conoscenza dei quaerentes che lo interrogano7. Al crescere della difficoltà teoretica e teologica del tema, dunque, Agostino fa corrispondere non la necessità di un elitarismo intellettuale che selezioni gli interlocutori in virtù delle competenze necessarie per la complessità dell’argomento ma, esattamente al contrario, amplia la platea dei soggetti coinvolti e quasi richiede che una nuova, condivisa corresponsabilità comunitaria guidi la riflessione. I richiami di Dio e le informazioni che Egli ha lasciato agli uomini nel liber Scripturae diventano così non elementi funzionali a instradare il percorso del singolo credente ma veri e propri inviti all’azione pastorale e di condivisione. Lo ius con il quale Agostino si è fatto servus dei suoi fratres lo costringe così a rispondere alle loro necessità spirituali e intellettuali con la lingua e la penna, quasi bighe incitate a volare dalla carità, giungendo alla composizione di un testo che, su problemi così spinosi, non sia nutrimento di pochi specialisti ma supporto della riflessione di molti.
tuisse dicere adverterint, quod vel ipsi melius intellegunt, vel propter mei eloquii difficultatem non intellegunt; sicut ego eis ignosco ubi propter suam tarditatem intellegere non possunt». 7 Cf. ibid., I, 5, 8, 825, p. 37, 24-41: «Si dicimus nos nihil de talibus rebus cogitare solere, mentimur; si autem fatemur habitare ista in cogitationibus nostris quoniam rapimur amore indagandae veritatis, flagitant iure caritatis ut eis indicemus quid hinc excogitare potuerimus. ‘Non quia iam acceperim aut iam perfectus sim’ (Fil 3, 12) (nam si Paulus apostolus, quanto magis ego longe infra illius pedes iacens, non me arbitror apprehendisse?), sed pro modulo meo si ea ‘quae retro sunt obliviscor et in anteriora me extendo et secundum intentionem sequor ad palmam supernae vocationis’ (Fil 3, 14), quantum eiusdem viae peregerim et quo pervenerim unde mihi in fine reliquus cursus est ut aperiam desideratur a me illis desiderantibus quibus me servire cogit libera caritas. Oportet autem et donabit Deus ut eis ministrando quae legant ipse quoque proficiam, et eis cupiens respondere quaerentibus ipse quoque inveniam quod quaerebam. Ergo suscepi haec iubente atque adiuvante Domino Deo nostro non tam cognita cum auctoritate disserere, quam ea cum pietate disserendo cognoscere».
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2. La ‘metafora’ trinitaria (libri I-IV) Agostino afferma senza tentennamenti che, in virtù della inseparabilis aequalitas di una sola e medesima sostanza, le tre persone della Trinità non sono tre dèi ma un Dio unico. È per questo problematico comprendere come sia possibile conciliare la distinzione personale con la unione operativa; per tentare di sciogliere tale insolubile difficoltà, Agostino imposta il problema trinitario partendo da una considerazione tanto semplice (e da sempre caratterizzante il suo pensiero) quanto significativa. Nessun occhio umano può vedere Dio8; ciònonostante, di Dio gli uomini hanno avuto testimonianze, sempre però in un’ottica ‘personale’. Non hanno cioè mai visto la Trinità ma, esattamente al contrario, hanno sentito le parole del Padre, hanno osservato il magistero terreno del Figlio, hanno ricevuto l’ispirazione dello Spirito Santo; se dunque per un verso occorre affermare che la Trinità non si è incarnata, non è discesa sugli apostoli in forma di colomba e non ha parlato quando Giovanni battezzò Gesù, perché queste tre occasioni hanno interessato rispettivamente il Figlio, lo Spirito Santo e il Padre, per un altro è necessario sostenere che le loro operazioni avvengono inseparabiliter 9. Dimensione trascendente e dimensione storica si ritrovano così a dialogare nell’ambito della dottrina trinitaria, che deve infatti esser capace di dar ragione per un verso di una azione storica puntuale e dunque ‘personale’, vale a dire concretamente operata da una sola manifestazione di Dio (la parola del Padre, il Figlio incarnato, lo Spirito che discende, etc.) e, per un altro, della necessità che tale manifestazione locale venga sempre però ricondotta all’unica potenza di Dio in quanto tale. È qui che Agostino individua il vero paradosso filosofico del mistero trinitario, che ruota attorno al movimento con il quale il Dio uno, quando si manifesta, lo fa in modo triplice, in ciò distinguendosi personalmente senza separarsi essenzialmente. Il movimento dell’Incarnazione risulta l’esempio più efficace (e più problematico) di tale dinamica. Il Figlio incarnato è, in quanto uomo, inferiore a se stesso in quanto Dio («Veritas autem ostendit secundum istum modum etiam se ipso minorem Filium»10) perché incarnarsi è, per Dio, proprio il movimento che va dalla rinuncia a se stesso al ritorno in se, passando per la condizione di
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Cf. ibid., I, 6, 11, 826, p. 40, 58-60: «Videri autem divinitas humano visu nullo modo potest, sed eo visu videtur quo iam qui vident non homines sed ultra homines sunt». 9 Cf. De Trinitate, I, 4, 7, 824, pp. 34-35. 10 Ibid., 7, 14, 828, p. 45, 15-16.
2. La ‘metafora’ trinitaria (libri I-IV)
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minorità propria della forma umana11. Distinguere la dimensione storica, visibile, manifesta e, in ciò, personale di Dio dalla sua natura inaccessibile è dunque la vera regula utile a comprendere quanto le Scritture riportano in merito al problema trinitario12 e, più in generale, è la prospettiva ermeneutica che, con grande chiarezza, Agostino propone al suo lettore. È infatti proprio nella paradossalità di questa formulazione che il mistero trinitario esprime tutte le sue potenzialità speculative, che Agostino illustra con un dispositivo filosofico particolarmente profondo. Dio, lontano e invisibile, quando irrompe nella storia non può che farlo con una manifestazione visibile che, dunque, al contempo lo mostra e lo nega, lo rende accessibile ma non nella sua forma ‘vera’13. La struttura uni-trinitaria di Dio è dunque, per Agostino, perfetta per rappresentare la paradossale e tragica condizione umana, che di Dio non può cogliere la natura nemmeno quando Dio si manifesta, perché anche in quel caso lo fa dicendosi con immagini umane che, mentre lo rendono visibile, lo nascondono, in una dinamica già perfettamente illustrata da Agostino sin dalle pagine del Contra Academicos 14. In che modo può essere inteso il versetto così paradossale e contraddittorio ‘Chi crede in me, non crede in me ma in colui che mi ha mandato’ se non lo si intende ‘Chi crede in me, non crede in ciò che vede’, affinché la nostra speranza non sia riposta nella creatura, ma in colui che ha assunto la creatura nella quale apparisse agli occhi umani e così purificasse i cuori attraverso la fede nel fatto che egli, uguale al Padre, deve essere contemplato?15
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Cf. ibid., 10, 21, 835, p. 58, 54-64: «‘Exivi a Patre et veni in hunc mundum: iterum relinquo mundum et vado ad Patrem’ (Gv 16, 28). Quid est, ‘a Patre exivi’, nisi ‘non in ea forma qua ‘aequalis’ sum ‘Patri’ sed aliter, id est in assumpta creatura ‘minor’ apparui”? Et quid est, ‘veni in hunc mundum’, nisi “’formam servi’ quam me exinaniens accepi etiam peccatorum qui mundum istum diligunt oculis demonstravi”? Et quid est, ‘iterum relimquo mundum’, nisi ‘ab aspectu dilectorum mundi aufero quod viderunt’? Et quid est, ‘vado ad Patrem’, nisi ‘doceo me sic intellegendum a fidelibus meis quomodo aequalis sum Patri’?». 12 Cf. ibid., 11, 22, 836, p. 60, 1-6: «Quapropter cognita ista regula intellegendarum Scripturarum de Filio Dei ut distinguamus quid in eis sonet secundum ‘formam Dei’ in qua est et ‘aequalis’ est ‘Patri’, et quid secundum ‘formam servi’ quam accepit et in qua ‘minor’ est ‘Patre’, non conturbabimur tamquam contrariis ac repugnantibus inter se sanctorum librorum sententiis». Cf. ibid., II, 1, 2, 845-846, pp. 81-82. 13 Cf. B. Studer, History and Faith in Augustine’s De Trinitate, in «Augustinian Studies», 28 (1997), pp. 7-50. 14 Cf. supra, p. 33. 15 De Trinitate, I, 12, 27, 840, pp. 7-68, 143-149: «Quomodo tam contrarium sibique adversum potest intellegi ‘Qui in me credit, inquit, non in me credit sed in
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Agostino chiarisce, alla luce della sua consolidata visione filosofica, perché è necessario credere e non credere al Figlio, in virtù del fatto che è al contempo Dio e uomo. Non credere al Figlio come uomo ma al suo magistero come Dio signfica infatti non riporre le speranze nella creatura ma in ciò che ha assunto vesti creaturali; significa cioè interpretare anche il mistero dell’Incarnazione come sommo vestigium di Dio, quasi metafora e simbolo che, nella sua visibilità storica, rimanda alla sua invisibilità trascendente. Proprio per questo l’Incarnazione non è una mutazione (mutare) della forma Dei, ma l’assunzione (accipere) di una forma servi; proprio tale dispositivo permette infatti di dire che Dio si mostra visibile ma rimanda all’intellegibile che, appunto, non ha intanto mutato natura16. Parimenti, l’apparire in forma visible dello Spirito Santo17 ha come fine non mostrare l’invisibile, che sarebbe logicamente contraddittorio, ma spingere i cuori degli uomini alla ricerca della eternità occulta grazie alla sollecitazione derivante da una manifestatio visibile, la sola che essi possono cogliere18. Nell’economia di quella ‘semiotica teologica’ già descritta nelle pagine del De doctrina christiana, dell’idea cioè che, essendo il suo oggetto incoglibile, ogni
eum qui me misit’ (Gv 7, 16) nisi ita intellegas ‘Qui in me credit’, non in hoc quod videt credit, ne sit spes nostra in creatura, sed in illo qui suscepit creaturam in qua humanis oculis appareret ac sic ad se ‘aequalem Patri’ (Fil 2, 6) contemplandum per fidem corda mundaret?». 16 Cf. ibid., II, 5, 9, 850-851, p. 92, 98-111: «Quoniam illa quae coram corporeis oculis foris geruntur ab interiore apparatu naturae spiritalis exsistunt, et propterea convenienter missa dicuntur. Forma porro illa suscepti hominis Filii persona est, non etiam Patris. Quapropter Pater invisibilis una cum Filio secum invisibili eundem Filium visibilem faciendo misisse eum dictus est, qui si eo modo visibilis fieret ut cum Patre invisibilis esse desisteret, id est si substantia invisibilis Verbi in creaturam visibilem mutata et transiens verteretur, ita missus a Patre intellegeretur Filius ut tantum missus non etiam cum Patre mittens inveniretur. Cum vero sic accepta est ‘forma servi’ ut maneret incommutabilis ‘forma Dei’, manifestum est quod a Patre et Filio non apparentibus factum sit quod appareret in Filio, id est ab invisibili Patre cum invisibili Filio idem ipse Filius visibilis mitteretur». 17 Cf. ibid., 5, 10, 851, p. 93, 118-125: «Facta est enim quaedam creaturae species ex tempore in qua visibiliter ostenderetur Spiritus Sanctus, sive cum ‘super ipsum’ Dominum ‘corporali specie velut columba descendit’ (Mt 3, 16; Lc 3, 22), sive ‘cum decem diebus peractis post eius ascensionem die Pentecostes factus est subito de caelo sonus quasi ferretur flatus vehemens, et visae sunt illis linguae divisae sicut ignis qui et insedit super unumquemque eorum’ (At 2, 1-4)». 18 Cf. ibidem, 851, p. 93, 125-131: «Haec operatio [scil. la discesa dello Spirito Santo sulla terra in forma corporea, di colomba o di lingue di fuoco] visibiliter expressa et oculis oblata mortalibus missio Spiritus Sancti dicta est; non ut appareret eius ipsa substantia qua et ipse invisibilis et incommutabilis est sicut Pater et Filius, sed ut exterioribus visis hominum corda commota a temporali manifestatione venientis ad occultam aeternitatem semper praesentis converterentur».
2. La ‘metafora’ trinitaria (libri I-IV)
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ragionamento teologico altro non è se non un continuo rimando segnico a un altrove sfuggente, sembra farsi spazio, nelle parole di Agostino, l’idea che anche la Trinità possa esser interpretata, a parte hominis, come una sorta di metafora visibile dell’unitarietà e multipotenzialità di Dio, funzionale cioè a rivelarne al contempo l’unicità dell’essenza nella molteplicità delle azioni19. Partendo dalla complessità dell’interpretazione dei passi veterotestamentari nei quali viene descritta l’apparizione di Dio (perché è difficile comprendere in che forma ciò sia accaduto20, se cioè vi sia stata una manifestazione della intera Trinità, del solo Spirito Santo21 o del Padre22) per arrivare fino alle testimonianze neotestamentarie sulla venuta di Cristo, è per Agostino indubitabile che l’essenza divina in quanto tale (per semetipsam) resta invisibile23 e che dunque Dio – che vuole motrarsi al mondo per incitarlo alla ricerca del bene – non può che manifestarsi per il tramite di ‘incarnazioni’ in esseri creati24, tra le quali ovviamente quella del Figlio ha una preminenza assoluta. Per un verso dunque Dio resta inaccessibile nella sua natura; per un altro, il suo desiderio di spronare gli uomini quasi lo costringe a manifestarsi in forme che essi possano comprendere e che quindi siano compatibili con l’orizzonte gnoseologico sensibile25;
19 Cf. ibid., 7, 13, 853, pp. 97-98. Cf. R. Markus, Communication and Transcendence in Augustine’s De Trinitate, in Gott und sein Bild. Augustins De Trinitate im Spiegel gegenwärtiger Forschung, ed. J. Brachtendorf, Paderborn 2000, pp. 173-181. 20 Cf. De Trinitate, II, 10,17 - 15,25, 855-862, pp. 101-114. 21 Cf. ibid., 15, 26, 862, pp. 114-115. 22 Cf. ibid., 17, 32, 866, pp. 122-123. 23 Cf. ibid., III, 11, 21, 881-882, p. 150, 1-5: «Quapropter substantia vel si melius dicitur essentia Dei, ubi pro nostro modulo ex quantulacumque particula intellegimus Patrem et Filium et Spiritum Sanctum, quandoquidem nullo modo mutabilis est, nullo modo potest ipsa per semetipsam esse visibilis»; cf. ibid., V, 1, 1, 911, p. 206, 1-12: «Hinc iam exordiens ea dicere, quae dici ut cogitantur vel ab homine aliquo, vel certe a nobis non omni modo possunt; quamvis et ipsa nostra cogitatio, cum de Deo Trinitate cogitamus, longe se illi de quo cogitat, imparem sentiat, neque ut est eum capiat sed, ut scriptum est, etiam a tantis quantus Paulus Apostolus hic erat, ìper speculum in aenigmate’ (1 Cor 13, 12) videatur, primum ab ipso Domino Deo nostro, de quo semper cogitare debemus, et de quo digne cogitare non possumus, cui laudando reddenda est omni tempore benedictio, et cui enuntiando nulla competit dictio, et adiutorium ad intellegenda atque explicanda quae intendo, et veniam precor sicubi offendo». 24 Cf. ibid., III, 11, 22, 882, pp. 150-151, 5-8: «Proinde illa omnia quae Patribus visa sunt cum Deus illis secundum suam dispensationem temporibus congruam praesentaretur per creaturam facta esse manifestum est». 25 Cf. ibid., IV, 21, 30, 909, p. 202, 10-15: «Sed ita non posse per longe imparem maximeque corpoream creaturam inseparabiliter demonstrari, sicut per voces nostras quae utique corporaliter sonant non possunt Pater et Filius et Spiri-
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che gettino cioè un ponte tra l’Eterno e il presente: «Per il fatto che siamo nati, non potremmo giungere all’eterno, se non fossimo tratti alla sua eternità dall’eterno stesso, che si è assimilato a noi (sociatus) nascendo»26.
3. I limiti del linguaggio trinitario (libri V-XV) Nei primi quattro libri del De Trinitate, dunque, Agostino conferma l’idea che Dio risiede in un altrove distante e incoglibile; le ‘azioni’ con le quali il Dio-Trinità si manifesta personalmente, nella storia, non confutano ma anzi confermano tale condizione, perché, anche nel farsi visibile, Egli si sottrae allo sguardo e alla parola umani. È dunque compito dei libri successivi delineare una possibile strategia di dicibilità, pur limitata, di Dio e della sua natura. Agostino parte da due assunti: in primo luogo che Dio, proprio perché è Dio, è l’essere in quanto tale27 che non subisce modificazioni e, dunque, non ha accidenti28; in secondo luogo, che le Scritture parlano di Padre, Figlio e Spirito Santo, e dunque tali parole vanno accolte e in qualche modo spiegate. Intersecare queste due premesse
tus Sanctus nisi suis et propriis intervallis temporum certa separatione distinctis, quae sui cuiusque vocabuli syllabae occupant nominari»; ibid., 910, p. 203, 30-35: «Qua similitudine utcumque cognoscitur inseparabilem in se ipsa Trinitatem per visibilis creaturae speciem separabiliter demonstrari, et inseparabilem Trinitatis operationem etiam in singulis esse rebus, quae vel ad Patrem, vel ad Filium, vel ad Spiritum Sanctum demonstrandum proprie pertinere dicuntur». 26 Ibid., 18, 24, 904, p. 192, 44-46: «Nec ab eo quod orti sumus ad aeterna transire possemus, nisi aeterno per ortum nostrum nobis sociato ad aeternitatem ipsius traiceremur». 27 Cf. ibid., V, 2, 3, p. 912, pp. 207, 46 - 208,16: «Est tamen sine dubitatione substantia, vel, si melius hoc appellatur, essentia, quam Graeci ousia vocant. Sicut enim ab eo quod est sapere dicta est sapientia, et ab eo quod est scire dicta est scientia, ita ab eo quod est esse dicta est essentia. Et quis magis est ,quam ille qui dixit famulo suo Moysi: ‘Ego sum qui sum’, et: ‘Dices filiis Israel: Qui est misit me ad vos’? (Es 3, 14). Sed aliae quae dicuntur essentiae, sive substantiae capiunt accidentias quibus in eis fiat vel magna vel quantacumque mutatio; Deo autem aliquid eiusmodi accidere non potest. Et ideo sola est incommutabilis substantia vel essentia, quae Deus est, cui profecto ipsum esse, unde essentia nominata est, maxime ac verissime competit. Quod enim mutatur, non servat ipsum esse; et quod mutari potest, etiamsi non mutetur, potest quod fuerat non esse; ac per hoc illud solum quod non tantum non mutatur, verum etiam mutari omnino non potest, sine scrupulo occurrit quod verissime dicatur esse». 28 Cf. ibid., 4, 5, p. 913, p. 209, 1-2: «Accidens autem dici, non solet nisi quod aliqua mutatione eius rei cui accidit amitti potest».
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è complesso. Se infatti Dio è l’essere in quanto tale, non c’è possibilità in Lui di una predicazione accidentale: tutto ciò che si dice di Dio deve dunque essere riferito alla sua sostanza29. Ma la relazione di paternità e figliolanza non può essere sostanziale perché non si può essere padri o figli per se stessi; gli uomini infatti possono perdere questo status quando, per esempio, uno dei due soggetti della relazione muore. Proprio in virtù della condizione ontologicamente immutabile di Dio, il Padre e il Figlio sono invece tali da e per l’eternità, e dunque quella che tra gli uomini sarebbe una predicazione relazionale accidentale, tra le persone trinitarie è relativa all’unica sostanza divina30. Appare evidente come le strutture logico-argomentative umane non riescano a esprimere, se non tramite paradossi, la natura divina; ciò però non elide la necessità di parlare e disputare della Trinità (loquendi et disputandi necessitas) e di esprimerne l’insondabile mistero31. Se anche Dio è incoglibile nella sua essenza unitrinitaria, l’uomo non riesce infatti a cancellare, dalla sua intimità, il desiderio di dirlo32, di indagare anche il mistero trinitario33. Le lucidae nubes che, nelle pagine del Contra Academicos, indicavano alla ragione un confine gnoseologicamente limitante ma, al contempo, teologicamente svelante, ostacolo che induceva lo sforzo filosofico necessario a una intuizione
29 Cf. ibid., 5, 6, 914, p. 210, 24-26: «Quamobrem nihil in eo secundum accidens dicitur, quia nihil ei accidit; nec tamen omne quod dicitur, secundum substantiam dicitur». 30 Cf. ibid., 5, 6, 914, p. 210,3-8 e p. 211,19-22: «Dicitur enim ad aliquid sicut Pater ad Filium, et Filius ad Patrem, quod non est accidens: quia et ille semper Pater, et ille semper Filius; et non ita semper quasi ex quo natus est Filius, aut ex eo quod numquam desinat esse Filius, Pater esse non desinat Pater, sed ex eo quod semper natus est Filius, nec coepit umquam esse Filius. (…). Quamobrem quamvis diversum sit Patrem esse et Filium esse, non est tamen diversa substantia, quia hoc non secundum substantiam dicuntur, sed secundum relativum; quod tamen relativum non est accidens quia non est mutabile.». 31 Cf. ibid., 4, 8, 915-916, pp. 212-215. 32 Cf. ibid., VIII, 2, 3, 948, pp. 270-271, 14-22: «Non enim parvae notitiae pars est, cum de profundo isto in illam summitatem respiramus, si antequam scire possimus quid sit Deus, possumus iam scire quid non sit. Non est enim certe nec terra, nec caelum, nec quasi terra et caelum, nec tale aliquid quale videmus in caelo, nec quidquid tale non videmus et est fortassis in caelo. Nec si augeas imaginatione cogitationis lucem solis, quantum potes, sive quo sit maior, sive quo sit clarior, millies tantum, aut innumerabiliter, neque hoc est Deus». 33 Cf. ibid., 949, p. 271, 32-38: «Noli quaerere quid sit veritas; statim enim se opponent caligines imaginum corporalium et nubila phantasmatum, et perturbabunt serenitatem, quae primo ictu diluxit tibi, cum dicerem: Veritas. Ecce in ipso primo ictu quo velut coruscatione perstringeris, cum dicitur: Veritas, mane si potes; sed non potes. Relaberis in ista solita atque terrena».
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di Dio per speculum, sono ora nubila phantasmatum, ancora una volta ostacolo che nasconde la visione e, al contempo, spinge lo sguardo a cercare, oltre i singoli bona, il bonum in quanto tale34. Dinanzi al rischio che, ancora una volta, l’impossibilità di cogliere Dio riduca l’uomo al silenzio, Agostino sceglie di seguire la medesima strategia: affidarsi alla prospettiva di una semiotica teologica, all’idea cioè che di Dio si possa intuire solo ciò che è possibile cogliere nei signa che Egli stesso ha concesso al mondo, libro denso di simboli35. E come, nel De ordine e nei testi coevi, la struttura razionale del creato era specchio del pensiero di Dio che ne garantiva ordine e leggi, così, nel De Trinitate, la risalita dalle nebbie delle incertezze a una prima intuizione della struttura trinitaria avviene tramite l’analisi di un vestigium e, nello specifico, del più prezioso: l’uomo stesso. Nella sua interiorità, l’uomo prende coscienza del fatto che lo anima un desiderio di conoscere se stesso, ma ‘se stesso’, pur essendo oggetto del suo desiderio, è a lui ignoto. Dapprima, dunque, egli si conosce (Agostino qui riprende integralmente la terminologia a lui più cara) come un quaerens che non sa niente (nesciens) e che dunque cerca per conoscere36. Nel cercarsi, la mens comprendere di non essere corpo; eliminate tutte le immagini sensibili e le loro fascinazioni, essa individua, dentro di sé, una costituzione triadica di memoria, intelligenza e volontà37, che si rivela come perfettamente congruente con la struttura trinitaria. Non sono infatti tre mentes o tre vitae a convivere nell’animo dell’uomo; memoria, intelligenza e volontà, pur essendo moti indipendenti tra di loro, hanno senso solo nella connessione reciproca, nel loro essere al contempo distinti ma connessi. Non è infatti possibile ricordare se non si è compreso e se non lo si desidera; non c’è intelligenza se non c’è volontà di apprendere e memoria di ciò che si è colto; non c’è 34
Cf. ibid., 3, 4, 949, p. 272, 15-17: «Bonum hoc et bonum illud. Tolle hoc et illud, et vide ipsum bonum, si potes; ita Deum videbis, non alio bono bonum, sed bonum omnis boni». 35 Cf. ibid., X, 1, 2, 973, p. 313, 58-66: «Quid ergo amat, nisi quia novit atque intuetur in rationibus rerum quae sit pulchritudo doctrinae, qua continentur notitiae signorum omnium; et quae sit utilitas in ea peritia, qua inter se humana societas sensa communicat, ne sibi hominum coetus deteriores sint quavis solitudine, si cogitationes suas colloquendo non misceant? Hanc ergo speciem decoram et utilem cernit anima, et novit, et amat; eamque in se perfici studet, quantum potest, quisquis vocum significantium quaecumque ignorat, inquirit». 36 Cf. ibid., X, 3, 5, 976, p. 3718, 44-45: «Novit enim se quaerentem atque nescientem, dum se quaerit ut noverit». 37 Cf. ibid., 11, 17, 982, p. 329, 1-3: «Remotis igitur paulisper ceteris, quorum mens de se ipsa certa est, tria haec potissimum considerata tractemus, memoriam, intellegentiam, voluntatem».
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volontà se non di oggetti già conosciuti e compresi38. Colta nella sua interiorità tale struttura triadica che è fatta a immagine di quella trinitaria divina, l’uomo può uscire ‘fuori di sé’ e tentare di individuare, nella sua costituzione corporea, un’ulteriore immagine trinitaria. La trova nel processo di acquisizione del dato sensibile, che prevede sempre la presenza di un oggetto esperito, di un atto percettivo e di una comprensione di ciò che è stato esperito39. Tale triade non è immagine della struttura divina perché comprende un oggetto esterno; da essa però ne deriva una seconda, quando l’oggetto sensibile scompare, e dunque restano il suo ricordo, la visione che l’uomo ha del ricordo e la volontà che è capace di connettere il primo alla seconda40; quando cioè il dato sensibile viene ripensato in una ottica più generale e filosofica, diviene oggetto di una scientia che si pone come viatico per la successiva intuizione della sapientia. La dimensione del quaerere appare ancora, nel De Trinitate, il dispositivo ermeneutico preferito quando Agostino ha la necessità di descrivere la relazione tra una condizione antropologica imperfetta e inquieta e l’oggetto del desiderio umano, Dio, che nella vita dell’uomo trova il suo posto naturale proprio nella perenne, incessante ricerca41 che
38 Cf. ibid., 11, 18, 983, p. 331, 44-48 : «Memini enim me habere memoriam, et intellegentiam, et voluntatem; et intellego me intellegere, et velle, atque meminisse; et volo me velle, et meminisse, et intellegere, totamque meam memoriam, et intellegentiam, et voluntatem simul memini». 39 Cf. ibid., XI, 2, 2, 985, p. 334, 1-8: «Cum igitur aliquod corpus videmus, haec tria, quod facillimum est, consideranda sunt et dignoscenda. Primo, ipsa res quam videmus sive lapidem, sive aliquam flammam, sive quid aliud quod videri oculis potest; quod utique iam esse poterat, et antequam videretur. Deinde, visio, quae non erat priusquam rem illam obiectam sensui sentiremus. Tertio, quod in ea re quae videtur, quamdiu videtur sensum detinet oculorum, id est animi intentio». Agostino chiarisce come l’esempio della vista può essere facilmente esteso a tutti e cinque i sensi. 40 Cf. ibid., 3, 6, 988, pp. 339,161 - 340,3: «Quia etiam detracta specie corporis quae corporaliter sentiebatur, remanet in memoria similitudo eius, quo rursus voluntas convertat aciem ut inde formetur intrinsecus, sicut ex corpore obiecto sensibili sensus extrinsecus formabatur. Atque ita fit illa trinitas ex memoria, et interna visione, et quae utrumque copulat voluntate. Quae tria cum in unum coguntur, ab ipso coactu cogitatio dicitur». 41 Cf. ibid., XV, 2, 2, 1057-1058, p. 461, 17-23: «Cur ergo sic quaerit, si incomprehensibile comprehendit esse quod quaerit, nisi quia cessandum non est, quamdiu in ipsa incomprehensibilium rerum inquisitione proficitur, et melior meliorque fit quaerens tam magnum bonum, quod et inveniendum quaeritur, et quaerendum invenitur? Nam et quaeritur ut inveniatur dulcius, et invenitur ut quaeratur avidius».
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Cercare un Dio cercante: il De Trinitate
Egli stesso stimola. L’unità dell’essenza e la trinitarietà delle manifestazioni personali, che appartengono a piani diversi, l’uno trascendente, l’altro storico, ribadiscono dunque la dinamica per la quale l’eterno assente e invisibile fonda, in virtù dei signa con i quali si mostra in modo comprensibile ai sensi dei mortali, il destino degli uomini. Parlare della Trinità significa allora per Agostino discutere delle diverse, ‘personali’ modalità con le quali l’unica essenza divina è discesa tra gli uomini per far sì che essi potessero, compiendo a ritroso il medesimo cammino, tornare a Dio, risalendo a fide ad speciem 42. Infatti la natura o sostanza o essenza o con qualsivoglia altro nome vada chiamato ciò che propriamente è Dio, qualsiasi cosa esso sia, non può essere visto come se fosse corporeo. Dobbiamo credere che non solo il Figlio o lo Spirito Santo ma anche il Padre abbia potuto dare un segno di sé (significatio sui) ai sensi mortali in una forma o con una similitudine corporea43.
Ancora una volta, e anche dinanzi a temi teologicamente oscuri, il servitium Christi che Agostino si sente chiamato a compiere prende la forma di uno studium dedicato a difendere una fede che, quasi paradossalmente, vive delle incertezze dell’incessante quaerere 44 umano
42 Cf. ibid., I, 10, 21, 835, pp. 58-59, 64-69: «Hoc qui credunt digni habebuntur perduci a fide ad speciem, id est ad ipsam visionem, quo perducens dictus est tradere regnum Deo et Patri. Fideles quippe eius quos redemit sanguine suo dicti sunt regnum eius pro quibus nunc interpellat; tunc autem illic eos sibi faciens inhaerere ubi aequalis est Patri, non iam rogabit Patrem pro eis»; cf. ibid., II, 17, 29, 864, pp. 119-120, 59-64: «Quia hoc in membris Christi speramus quae nos ipsi sumus quod perfectum esse in ipso tamquam in capite nostro fidei sanitate cognoscimus. Inde non vult nisi cum transierit videri posteriora sua ut in eius resurrectionem credatur. Pascha enim hebraeum verbum dicitur quod transitum interpretamur». 43 Ibid., II, 18, 35, 866, p. 126, 70-76: «Ipsa enim natura vel substantia vel essentia vel quolibet alio nomine appellandum est idipsum quod Deus est, quidquid illud est, corporaliter videri non potest. Per subiectam vero creaturam non solum Filium vel Spiritum Sanctum sed etiam Patrem corporali specie sive similitudine mortalibus sensibus significationem sui dare potuisse credendum est». 44 Cf. ibid., IV, 1, 2, 887, pp. 160-161, 1-21: «Sed quoniam exsulavimus ab incommutabili gaudio, nec tamen inde praecisi atque abrupti sumus ut non etiam in istis mutabilibus et temporalibus aeternitatem, veritatem, beatitatem quaereremus (nec mori enim nec falli nec perturbari volumus), missa sunt nobis divinitus visa congrua peregrinationi nostrae quibus admoneremur non hic esse quod quaerimus sed illuc ab ista essae redeundum unde nisi penderemus hic ea non quaereremus. Ac primum nobis persuadendum fuit quantum nos diligeret Deus ne desperatione non auderemus erigi in eum. Quales autem dilexerit ostendi oportebat ne tamquam de meritis nostris superbientes magis ab eo resiliremus et in
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e per questo rifiuta gli errori degli uomini che invece ritengono ingenuamente di possedere la verità45. Il De Trinitate si presenta dunque, proprio per la evidentissima incoglibilità del tema che vorrebbe affrontare, come l’ennesima occasione utile ad Agostino per ribadire l’ineluttabilità della condizione quaerens della sua personale biografia intellettuale e, con essa, di quella di ogni essere umano. Indirizzando a questa regola della fede il mio volere, ti ho cercato (quaesivi te) per quanto ho potuto e per quanto tu hai disposto che io potessi, e ho desiderato di vedere con l’intelletto ciò che ho creduto, e molto ho discusso e ho faticato. Signore Dio mio, sola speranza mia, esaudiscimi affinché non smetta, stanco, di cercarti (quaerere) ma cerchi (quaeram) sempre con ardore il tuo volto. Concedimi le forze necessarie a cercarti (quaerendi vires), tu che ti sei reso trovabile dall’uomo, e che hai dato di volta in volta sempre più speranza di essere trovato46.
nostra fortitudine magis deficeremus, ac per hoc egit nobiscum ut per eius fortitudinem potius proficeremus atque ita in infirmitate humilitatis perficeretur virtus caritatis. Hoc significat in Psalmo ubi ait: ‘Pluviam voluntariam segregans, Deus, haereditati tuae, et infirmata est; tu vero perfecisti eam’ (Sal 67, 10). ‘Pluviam’ quippe ‘voluntariam’ non nisi gratiam vult intellegi, non meritis redditam sed gratis datam unde et gratia nominatur; dedit enim eam non quia digni eramus sed quia voluit. Hoc cognoscentes non fidentes in nobis erimus, et hoc est infirmari». 45 Cf. ibid., III, 1, 1, 867-868, p. 127, 1-8: «Credant qui volunt malle me legendo quam legenda dictando laborare. Qui autem hoc nolunt credere, experiri vero et possunt et volunt, dent quae legendo vel meis inquisitionibus respondeantur, vel interrogationibus aliorum quas pro mea persona quam in servitio Christi gero et pro studio quo fidem nostram adversus errorem carnalium et animalium hominum muniri inardesco necesse est me pati». Cf. L. Ayres, The Christological Context of Augustine’s De Trinitate XIII: Relocating Books VIII-XV, in «Augustinian Studies», 29 (1998), pp. 111-139. 46 De Trinitate, XV, 28, 51, 1098, p. 534, 12-18: «Ad hanc regulam fidei dirigens intentionem meam, quantum potui, quantum me posse fecisti, quaesivi te, et desideravi intellectu videre quod credidi, et multum disputavi, et laboravi. Domine Deus meus, una spes mea, exaudi me, ne fatigatus nolim te quaerere, sed quaeram faciem tuam semper ardenter. Tu da quaerendi vires, qui inveniri te fecisti, et magis magisque inveniendi te spem dedisti».
CAPITOLO 3
I NEMICI DELLA COMUNITÀ
1. La bilancia di Dio: contro i Donatisti Nel commento al Vangelo di Giovanni, e in special modo nei primi trattati, Agostino si sofferma ad analizzare i versetti relativi alla valenza sacramentale del battesimo. Punto di partenza del suo ragionamento è, nelle pagine dedicate al quarto Vangelo, la necessità di pensare che l’uomo abbia due nascite, una carnale, l’altra spirituale, e che come è impossibile rientrare nel ventre materno per nascere nuovamente nella carne, così è impossibile ricevere Cristo ex novo una seconda volta1; se dunque si è stati ‘partoriti’ nello spirito, cioè battezzati, da chi non è degno, non è possibile rinascere ma solo cercare (quaerere) Cristo a prescindere dalla ‘qualità’ di quel parto iniziale2. Questo passaggio conferma quanto Agostino temesse il prendere piede di dottrine che in qualche modo mirassero, più o meno consapevolmente, a scalfire l’unità della Chiesa, che egli stesso aveva dimostrato essere, in tutti i testi successivi alla sua nomina vescovile, una vera e propria necessità, filosofica e soteriologica. Per questo, uno degli obiettivi polemici che lo occuparono maggiormente e per più tempo fu la dottrina donatista3. 1
Cf. In Iohannis evangelium, XII, 2, 1484, pp. 120-121, 1-10: «Regeneratio spiritalis una est, sicut generatio carnalis una est. Et quod Nicodemus Domino ait, verum dixit, quia non potest homo cum sit senex, redire rursum in uterum matris suae, et nasci. Ille quidem dixit, quia homo cum sit senex, hoc non potest, quasi, et si infans esset, posset. Omnino enim non potest, sive recens ab utero, sive annosa iam aetate, redire rursum in materna viscera, et nasci. Sed sicut ad nativitatem carnalem valent muliebria viscera ad semel pariendum; sic ad nativitatem spiritalem valent viscera Ecclesiae, ut semel quisque baptizetur». 2 Cf. ibid., 4, 1486: «Hoc ergo, fratres, dixerim: melius est ab hominibus sua quaerentibus et mundum diligentibus, quod significat nomen ancillae, baptizari et spiritaliter haereditatem quaerere Christi, ut sit tamquam filius Iacob de ancilla, quam baptizari per sanctos et superbire, ut sit Esau foras mittendus, quamvis natus ex libera. Haec, fratres, tenete». 3 Il Donatismo si presentava come una forma di rigorismo ecclesiologico; i Donatisti identificavano la Chiesa nordafricana come la comunità che, a partire
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I nemici della comunità
Il primo e più rilevante testo composto da Agostino per opporsi a tale dottrina è rivolto contro l’epistula che Parmeniano, vescovo donatista di Cartagine, aveva indirizzato, con alcune considerazioni scritturali, al teologo Ticonio, uomo – dice Agostino – di grande ingegno ed elegante eloquio, sed donatista 4. Sin dalle prime pagine Contra epistulam Parmeniani (403-404), Agostino avverte l’esigenza di ribadire i guadagni più profondi del suo sistema, imputando ai Donatisti per certi versi il medesimo errore che aveva attribuito ai Manichei e che, più in generale, costituisce nella sua visione il peggiore fraintendimento possibile di ogni speculazione: pensare che ciò che l’uomo compie sia più importante e rilevante di ciò che compie Dio. Nello specifico, infatti, la chiesa donatista riteneva che le azioni indegne dei ministri inficiassero l’efficacia dei sacramenti da essi amministrati, dimenticando che l’auctoritas in cui tali azioni santificanti trovano senso non è quella degli uomini ma quella di Cristo5; affermare il contrario significa pensare che, contro il volere divino, possa avere la meglio dal sangue dei suoi martiri dei primi secoli e fino alla grande persecuzione di Diocleziano dell’inizio del IV secolo, era rimasta fedele a se stessa, ai suoi principi e valori, senza mai allontanarsene a scopo difensivo. Era dunque evidente come i Donatisti distinguessero i credenti e i ministri degni di tale nome da quelli che invece che ne erano indegni; in particolare, proprio a seguito della persecuzione di Diocleziano, la chiesa donatista aveva accusato come traditores i sacerdoti che per salvarsi avevano consegnato (tradere) alle autorità pagane le Scritture in segno di resa, e che dunque non erano più degni di somministrare i sacramenti che, se ricevuti da loro, erano da considerarsi non validi. Per una ricostruzione della storia e della dottrina del movimento donatista, soprattutto in relazione alla sua espansione, nel IV secolo, in tutto il nord Africa, Cf. W. H. C. Frend, The Donatist Church: A Movement of Protest in Roman North Africa, Clarendon, Oxford 2009; Id., Donatismo, voce in Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane cit., I, coll. 1481-1493. Cf. inoltre H. Chadwick, Donatism and the Confessions of Augustine, in Philanthropia kai Eusebeia: Festschrift für A. Dihle zum 70. Geburtstag, ed. G. W. Most - H. Petersmann - A. M. Ritter, Göttingen 1993, pp. 23-35. 4 Cf. Contra epistulam Parmeniani, I, 1, 1, 33-34, p. 19, 1-13: «Multa quidem alias adversus donatistas pro viribus quas Dominus praebet partim scribendo partim etiam tractando disserui. Nunc autem, quoniam incidit in manus nostras Parmeniani quondam episcopi eorum quaedam epistula quam scribit ad Tychonium, hominem quidem et acri ingenio praeditum et uberi eloquio, sed tamen donatistam, cum eum arbitraretur in hoc errare quod ille verum coactus est confiteri, placuit petentibus, immo iubentibus fratribus, ut hic eidem Parmeniani epistulae responderem propter quaedam maxime quae de Scripturis testimonia non sicut accipienda sunt accipit». Cf. W. F. C. Frend, voce Parmeniano in Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane cit., III, coll. 3929-3930 5 Cf. ibid., 2, 2, 35-36, p. 21, 20-22: «In Christo ergo gentes omnes benedictionem habituras tanta auctoritate promissum est, tanta exhibitum veritate, et contradicunt qui se christianos dici volunt».
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la menzogna umana6. La strategia antidonatista di Agostino si muove, nelle pagine scritte contro Parmeniano, in due direzioni: per un verso, politicamente, rivolgendo ai Donatisti la stessa accusa che essi muovevano ai traditores, vale a dire quella di lacerare, con i loro atti, l’unità della Chiesa e della sua azione; per un altro verso, filosoficamente, ricordando loro (nell’ottica che aveva definitivamente chiarito nei suoi scritti successivi alla nomina vescovile) che la volontà di Dio è sempre sovradeterminata rispetto a qualsivoglia azione dell’uomo7. Sul versante politico, Agostino non poteva accettare che l’ideale stesso dell’ecumene cristiana venisse messo in discussione dalla Chiesa donatista, che voleva individuare nella sola comunità africana l’insieme dei perfetti che avevano fino in fondo rispettato e protetto l’onesta dottrina8. Se è infatti indubbio che nella vastissima comunità dei credenti convivano peccatori e uomini virtuosi, il rischio che Agostino addita ai Donatisti, e dal quale lui per primo tenta di tenersi lontano, è pensare che sia dovere degli uomini individuare, giudicare e reprimere con violenza quanti non condividano la più genuina dottrina cristiana. Se dunque non tradisce la strategia ‘accogliente’ che aveva già utilizzato contro i Manichei, Agostino è qui necessariamente, in virtù del nuovo ruolo episcopale intanto sopraggiunto e delle difficoltà (socio-politiche e non solo speculative) che la chiesa donatista poneva alla convivenza nella comunità nordafricana, ben più radicale nell’individuare i pericoli della azione scismatica di quella dottrina9. Essa cade infatti nell’errore che accomuna tutti gli eretici: per quanto
6
Cf. ibid., 2, 3, 36, p. 22, 9-11: «Sed eligat quisque quod placet et, si contra caelestia fulgura mendacii terreni fumus aliquid praevalet, dimisso caelo evanescat in ventos». 7 Cf. ibid., II, 1, 2, 50, pp. 44,22-26 - 45,1-4: «Quid enim lucidius promissis Dei, qui temporibus nostris exhibuit quod ante annorum milia praenuntiavit, in semine Abrahae, quod est Christus, benedictionem omnes gentes habituras (cf. Gen 22, 18), et quid tenebrosius praesumptionibus hominum, qui propter temere obiecta et numquam probata crimina traditorum - quae si vera essent numquam Deo praeiudicarent quominus quod promisit impleret - perisse dicunt christianum nomen de tot gentibus in orbe terrarum et in sola Africa remansisse?». 8 Cf. ibid., 2, 5, 52, pp. 48,23-28 - 49,1-3: «Ego parco, non invehor, non exaggero, dolorem meum melius premo quam promo. Si autem dicunt se Christo dare cor suum, Christo ergo credant dicenti quod per totum mundum et filii regni crescant et filii maligni (cf. Mt 13, 38), non Donato dicenti quod per mundum filii maligni tantummodo creverint, filii autem boni usque ad solam Africam deminuti sint. Quodsi Christo credunt, non iam dicimus cum Ecclesiis orbis terrarum, sed cum ipso Evangelio pacem habeant, quod ab igne se conservasse mendaciter iactitant, quia factis non probant». 9 Cf. ibid., 3, 6, 53, pp. 49-50.
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I nemici della comunità
ciascuno di essi creda di operare con diligentia e sollertia a difesa della Chiesa, della sua dottrina e, dunque, di Dio, proprio la singolarità e l’unidirezionalità della loro azione ‘risanatrice’ distrugge quella unitas che costituisce, per Agostino, l’elemento fondativo di ogni ecclesiologia10 e rischia di orientare l’azione dei potenziali riformatori nella direzione peggiore: nascondere, dietro il nobile obiettivo dichiarato (la pax Christi) quello manifesto (la pax Donati)11. Se infatti è indubbio che alcune comunità ‘umane’ e locali siano governate da vescovi o ministri indegni, la vera comunità degli uomini è quella civitas i cui habitantes hanno per capo (princeps) Cristo e per ministri quanti si conformano alla sua azione12. Non è dunque compito degli uomini fare partizioni, che avranno luogo solo nel momento del giudizio finale, in cui avverrà la distinzione tra le due città (separatio civitatum)13. Non è dunque lecita, agli occhi di Agostino, l’azione scismatica dei Donatisti perché essi pretendono di dar vita a una comunità che non contempli, al suo interno, chi ha commesso un errore; in ciò, essi manifestano la presunzione di poter discriminare e distinguere, a parte hominis, ciò che a parte Dei è invece ricompreso in un più generale (e insondabile) piano ordinato che prevede la compresenza di errori e virtù, come Agostino aveva chiarito nelle pagine del De catechizandis rudibus e del De Genesi ad litteram14. È solo così, vale a dire saldan-
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Cf. ibid., 3, 6, 54, pp. 50,24-26 - 51,1-3: «Quod quidem omnium haereticorum est, qui rem manifestissimam in luce omnium gentium constitutam videre non possunt, extra cuius unitatem quidquid operantur, quamvis magna sollertia et diligentia fieri videatur, tam illis nihil prodest adversus iram Dei, quam nec aranearum telae possunt defendere a frigore». Cf. E. Lamirande, Aux origines du dialogue interconfessionnel: saint Augustin et les donatistes: vingt ans de tentatives infructueuses (391-411), in «Studia canonica», 32 (1998), pp. 203-228. 11 Cf. Contra epistulam Parmeniani, II, 3, 7, 54, p. 52, 3-5: «Si haec pro pace non obsunt Christi, obsunt tamen pro pace Donati, cui multum favetur in iniuriam pacis Christi». 12 Cf. ibid., 4, 9, 56, p. 54, 11-18: «Nam ipsi respiciant et recordentur quam multos inter se similes habeant, quorum par malitia est, sed impar notitia, et aliquando veniant ad veram sententiam istorum verborum et intellegant unum populi principem Dominum nostrum Iesum Christum, cuius ministri sunt boni, et ipsum rectorem civitatis illius Hierusalem, ‘quae est mater nostra aeterna in caelis’ (Gal 4, 26). Cuius rectoris dignitati congruunt habitantes non ad aequalitatem, sed pro modo suo». 13 Cf. ibid., 4, 9, 56, p. 55, 2-5: «Sed istorum populorum atque civitatum tunc erit aperta separatio, cum ista messis fuerit ventilata; quod donec fiat omnia tolerat dilectio frumentorum, ne, dum grana paleam praepropere fugiunt, a consortibus granis impie separentur». 14 Cf. ibid, 23, 43, 82, p. 98, 1-12: «Ex qua regula et illud intellegendum quod consequenter opponit dicens esse scriptum: ‘Sit vobis legitimum aeternum
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do la consapevolezza teologica dell’azione provvidenziale di Dio con l’umiltà politica mirante a non dividere la Chiesa, che si produce una disciplina ecclesiastica (cioè una idea di come la comunità dei credenti debba funzionare) la cui ratio sia pia e che possa vantare un modus 15, e che si sostanzi nella scelta di eliminare il male da se stessi senza avere la pretesa di individuarlo negli altri ed estirparlo prima che lo faccia il giusto giudizio di Dio16. Agostino conferma così, nelle prime pagine rivolte ai Donatisti, i confini di una ecclesiologia che vive consapevolmente l’inevitabile compresenza, nella comunità dei credenti, di uomini più o meno lontani dal male ma che al contempo è fondata sulla certezza che tale distinzione, che solo Dio conosce e governa, non può né deve esser fatta al fine di allontanare chi sbaglia ma di riportarlo nell’ecumene17. Essa in progenies vestras dividere in medio sanctorum et irreligiosorum et in medio mundorum et immundorum’ (Lv 10, 9-10). Tanto enim quisque melius hoc facit, quanto magis in Ecclesia proficit. ‘Cum enim crevisset herba et fructum fecisset, tunc apparuerunt zizania’ (Mt 13, 26). Et quamvis inter utrumque iam servi patris familias cognitione dividerent atque distinguerent, iubentur ea tamen sinere crescere et hoc usque ad messem (cf. Mt 13, 30). Sed haec hactenus. Ea enim quae restant aliquanto diligentius ab alio exordio consideranda atque tractanda sunt». 15 Cf. ibid., III, 1, 1, 83, pp. 98,16-26 - 99,1-2: «Cum omnis pia ratio et modus ecclesiasticae disciplinae unitatem spiritus in vinculo pacis (cf. Is 5, 20) maxime debeat intueri, quod Apostolus sufferendo invicem praecepit custodiri et quo non custodito medicina vindictae non tantum superflua, sed etiam perniciosa et propterea iam nec medicina esse convincitur, illi filii mali, qui non odio iniquitatum alienarum, sed studio contentionum suarum infirmas plebes iactantia sui nominis irretitas vel totas trahere vel certe dividere affectant, superbia tumidi, pervicacia vaesani, calumniis insidiosi, seditionibus turbulenti, ne luce veritatis carere ostendantur, umbram rigidae severitatis obtendunt et, quae Scripturis sanctis salva dilectionis sinceritate et custodita pacis unitate ad corrigenda fraterna vitia mordaciore curatione fieri praecepta sunt, ad sacrilegium schismatis et ad occasionem praecisionis usurpant dicentes: ‘Ecce ait Apostolus: “Auferte malum a vobis ipsis”’ (Sal 132, 1)». 16 Cf. ibid., 1, 2, 83, p. 100, 2-15: «Quapropter quisquis etiam contempserit Ecclesiae disciplinam, ut malos cum quibus non peccat et quibus non favet desistat monere, corripere, arguere, etsi talem personam gerit et pax Ecclesiae patitur etiam a sacramentorum participatione separare, non alieno malo peccat sed suo. Ipsa quippe in tanta re neglegentia grave malum est. Et ideo, sicut Apostolus monet, si auferat malum a se ipso, non solum auferet audaciam committendi aut pestilentiam consentiendi, sed etiam pigritiam corrigendi et neglegentiam vindicandi, adhibita prudentia et oboedientia in eo quod praecepit Dominus, ne frumenta laedantur (cf. Gen 22, 18). Ea quippe intentione quisquis inter triticum zizania toleraverit auferendo malum a semet ipso, nec eis communicat et ea distinguit ac iudicat interim ad diem (cf. Is 5, 20). Non enim novit quod cras futurum est». 17 Cf. ibid., 2, 13, 92, p. 114, 19-24: «In hac velut angustia quaestionis non aliquid novum aut insolitum dicam, sed id quod sanitas observat Ecclesiae, ut, cum quisque fratrum id est christianorum intus in Ecclesiae societate constituto-
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infatti non è la semplice articolazione – come chiaramente affermato all’inizio del De baptismo, composto da Agostino per dare seguito ad alcune questioni affrontate proprio nel testo contro Parmeniano – di una comunità che possa dirsi unita per una semplice prossimità geografica, ma vive nell’uniformità dei voleri (consensio voluntatum) che permette anche a chi abbandona fisicamente l’unità della comunità di esserne parte, se ne rispetta appunto le condivise volontà18. La polemica contro i Donatisti permette dunque ad Agostino di ribadire con forza il paradigma sociale e comunitario che, nel suo pensiero, si è via via assommato a quello ‘individualista’ dei primi dialoghi. Per l’Agostino vescovo è infatti auspicabile pensare la salvezza non solo in termini di fuga speculativa dell’eruditus verso il Dio-ordine (intellegibile nelle regulae del mondo) ma come movimento dell’umanità intera che, proprio nel rispondere con tale afflato al corrispondente moto caritatevole con il quale Dio si china verso le sue creature, ricomprende e sublima i limiti dei singoli e delle loro riflessioni. Questo vincolo della caritas dà senso e sostanzia la comunità della Chiesa e rende ancor più intollerabili i tentativi di lacerazione ‘individualista’ degli eretici e di quanti apertamente da essa si allontanano19. Esattamente all’opposto, infatti, i patriarchi, pur vissuti in epoche diversi, sono stati tutti parte di una unica societas, come cittadini di una civitas che fa della fatica (labor) del suo pellegrinaggio terreno la sua cifra20, quello stesso labor
rum in aliquo tali peccato fuerit deprehensus, ut anathemate dignus habeatur, fiat hoc ubi periculum schismatis nullum est atque id cum ea dilectione». 18 Cf. De baptismo, I, 1, 2, 109-110, p. 146,8-11 e p. 147,3-10: «Sacramentum enim baptismi est quod habet qui baptizatur: et sacramentum dandi baptismi est quod habet qui ordinatur. Sicut autem baptizatus, si ab unitate recesserit, sacramentum baptismi non amittit; sic etiam ordinatus, si ab unitate recesserit, Sacramentum dandi baptismi non amittit. (…) Non enim accessus iste atque discessus corporalibus motibus, et non spiritalibus est metiendus. Sicut enim coniunctio corporum fit per continuationem locorum, sic animorum quidam contactus est consensio voluntatum. Si ergo qui recessit ab unitate, aliquid aliud agere voluerit, quam quod in unitate percepit, in eo recedit atque disiungitur: quod autem ita vult agere sicut in unitate agitur, ubi hoc accepit et didicit, in eo manet atque coniungitur». 19 Cf. ibid., 9, 12, 116, p. 158, 3-9: «Si aliqua ingruente persecutione tradant ad flammas nobiscum corpus suum pro fide quam pariter confitentur (cf. 1 Cor 13, 3): tamen quia separati haec agunt, non sufferentes invicem in dilectione, neque studentes servare unitatem spiritus in vinculo pacis (cf. Ef 4, 2-3), caritatem utique non habendo, etiam cum illis omnibus quae nihil eis prosunt, ad aeternam salutem pervenire non possunt»; cf. ibid., III, 16, 21, 148-149, pp. 212-213. 20 Cf. ibid., I, 16, 25, 123, p. 169, 1-14: «Quae autem peperit Abel et Enoch et Noe et Abraham, ipsa peperit et Moysen et Prophetas tempore posteriores ante adventum Domini; et quae istos, ipsa et Apostolos et martyres nostros et omnes
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che Agostino aveva voluto autobiograficamente restituire nelle Confessiones proprio come testimonianza di una esperienza certamente privata ma filosoficamente sociale, condivisibile, universale nella sua assoluta umanità. Spiritales e carnales sono dunque sempre, necessariamente compresenti nella storia dell’umanità (e anche nel cammino del singolo individuo) e quasi garantiti, nel bilanciamento della reciproca numerosità, dall’insondabile equilibrio del piano provvidenziale divino (statera divina); è dunque speculativamente e per questo politicamente improprio, da parte degli uomini, avere la pretesa di distruggere tale equilibrio cercando di costruire una comunità nella quale non entrino mai i peccatori21. Nell’opporsi ai Donatisti, Agostino conferma dunque la profonda saldatura tra la sua prospettiva metafisica, la visione teologica e le dottrine ecclesiologiche e politiche affinate nel corso degli anni. La stessa distinzione tra ‘cattolici’ ed ‘eretici’ resta sempre una separazione operata dall’uomo, mentre la praescientia Dei, che vede presenti le cose future, sa che alcuni tra quelli che vengono oggi condannati dalla comunità umana sono invece più credenti di quelli che si ritengono tali. La distanza tra il non-tempo di Dio, in cui siamo già ciò che saremo (quod futuri sunt iam sunt), e quello degli uomini, che invece devono limitarsi a osservare gli avvenimenti nel loro susseguirsi senza poterne conoscere gli esiti («quid enim sint hodie, videmus; quid cras futuri sint, ignoramus»)22, ritorna così prepotentemente nelle pagine di Agostino, dopo aver innervato tutto l’impianto e la narrazione delle Confessiones, e gli permette di ribadire anche in questa occasione, vent’anni dopo la composizione
bonos Christianos. Omnes enim diversis quidem temporibus nati apparuerunt, sed societate unius populi continentur; et eiusdem civitatis cives labores huius peregrinationis experti sunt, et quidam eorum nunc experiuntur, et usque in finem ceteri experientur. Item quae peperit Cain et Cham et Ismaelem et Esau, eadem ipsa peperit et Dathan et alios in eodem populo similes; et quae istos, eadem ipsa et Iudam pseudoapostolum, et Simonem magum, et ceteros usque ad haec tempora pseudochristianos in affectione animali pertinaciter obduratos, sive in unitate permixti sint, sive aperta praecisione dissentiant». 21 Cf. ibid., II, 6, 9, 132, p. 184, 6-11: «Non afferamus stateras dolosas, ubi appendamus quod volumus, et quomodo volumus, pro arbitrio nostro dicentes: ‘hoc grave, hoc leve est’, sed afferamus divinam stateram de Scripturis sanctis tamquam de thesauris dominicis, et in illa quid sit gravius appendamus; imo non appendamus, sed a Domino appensa recognoscamus». L’azione di Dio è per Agostino l’unica veramente ‘sacramentale’, la sola garante della efficacia dei riti umani; cf. ibid., V, 20, 27, 190, p. 285, 6-9: «Si autem Deus adest Sacramentis et verbis suis, per qualeslibet administrentur, et Sacramenta Dei ubique recta sunt, et mali homines quibus nihil prosunt, ubique perversi sunt». 22 Cf. ibid., IV, 3, 4,155, pp. 224-226.
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dei primi dialoghi, la necessità di un approccio filosofico ‘scettico’: dinanzi all’incapacità dell’uomo di cogliere, nel procedere del tempo, il senso del tutto, anche il giudizio di valore sui comportamenti degli altri uomini è sottoponibile a dubbio e non può mai dirsi certo. Alla mutevole condizione umana, che si sviluppa nel movimento che al vedere (videre) le cose deve sempre far seguire un cercare (quaerere) per capirne il senso (e che anche nel caso degli eretici non può che osservare le loro azioni per cercar di capire se esse siano o meno errate, senza mai poter emettere giudizi definitivi) fa anche qui da contraltare, come sempre avviene nel pensiero di Agostino, la condizione di Dio che, nella semplicità del suo esse, non è ‘costretto’ a scindere temporalmente i due momenti, ma vede e conosce tutto nel suo eterno presente. Ancora una volta, è la consapevolezza della profonda, insanabile distanza qualitativa tra la modalità del conoscere umano, diluito nel tempo e sempre legato alle esteriorità, e quello divino a guidare Agostino. L’incapacità umana di scandagliare l’interiorità altrui non soltanto infatti delega completamente a Dio il giudizio sulla fede degli uomini ma, nello specifico, impedisce di giudicare il ministro nell’atto delle sue funzioni. Se infatti, come sostengono i Donatisti, la coscienza corrotta del celebrante vanifica il sacramento che questi amministra, sarebbe necessario, per capire quali sacramenti vanno ritenuti validi, conoscere i moti della altrui coscienza; ma tale conoscenza è impossibile per l’uomo23. Dio appare, ancor di più in queste pagine, l’assoluto protagonista; colui il quale dà la fede, quasi crea i credenti nel loro credere ed è certamente il solo che dà senso all’atto sacramentale24. 23 Cf. Contra litteras Petiliani, I, 2, 3, 247, pp. 4-5; ibid., 3, 4, 247, p. 5, 16-17: «Sed quomodo et de istis securi erunt, si conscientia dantis attenditur, quae latet oculos accepturi?»; ibid., II, 3, 7, 260, p. 25, 7-9: «De conscientia Christi ergo securi sumus. Nam si quemlibet hominem ponas, incerta erit accipientis mundatio, quia incerta conscientia est abluentis». 24 Cf. ibid., III, 3, 4, 349-350, pp. 165,15-30 - 166,1-2: «Maxima quippe palma tolerantiae est, inter subintroductos falsos fratres, sua quaerentes, non quae Iesu Christi, dilectionem non sua quaerentium, sed quae Iesu Christi, nulla turbulenta et temeraria dissensione turbare, nec unitatem sagenae dominicae ex omni piscium genere congregantis, dum ad littus, id est, ad finem saeculi ducitur, superbe nefaria contentione disrumpere: cum se putat quisque aliquid esse, dum nihil sit, atque ita se ipsum seducit; et sufficere vult ad populorum christianorum separationem, suum vel suorum iudicium, qui malos quosdam communione Sacramentorum christianae religionis indignos se apertissime nosse dicunt: de quibus tamen quidquid nosse se dicunt, universae Ecclesiae quae per omnes gentes sicut est praedicta diffunditur, persuadere non possunt. Et cum istorum, quasi
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Questo complesso insieme di considerazioni, sviluppate da Agostino contro gli scritti di Petiliano, vescovo donatista di Cirta (l’odierna Costantina, in Algeria), vengono riprese nel testo forse più tecnico tra quelli composti contro i Donatisti, destinato a confutare un laico, Cresconio, probabilmente insegnante di grammatica, che aveva scritto un’opera contro il primo libro del Contra litteras Petiliani (401403). L’accusa che Agostino muove al suo avversario sin dalle prime righe del Contra Cresconium (406-407) è di aver tentato di rendere agli uomini invisa l’eloquenza («suspecta hominibus eloquentia»), suggerendo che anche le Scritture la condannino, quando affermano «ex multa eloquentia non effugies peccatum»25. Non è però l’eloquentia che viene condannata nel testo dei Proverbi, ma il multiloquium, vale a dire la loquacità estrema che diviene vitium quando distorce, secondo Agostino, l’amor loquendi, vale a dire l’espressione massima di quel desiderio di esprimere la propria interiorità che è, come detto, alla base di ogni processo comunicativo26. Ma tale desiderio, motore naturale del parlare, non può prescindere, come Agostino più volte ripete nelle sue opere, da una consapevolezza del quid e del quomodo; se cioè si parla senza avere competenza sul contenuto (logico-dialettico) e sulla forma (grammaticale) dell’espressione linguistica, il risultato non è una resa perfetta ed elegante del proprio pensiero in una espressione efficace (l’eloquenza) ma un confuso profluvio di parole (il muliloquium appunto)27. L’affermazione di Cresconio sulla pericolosità dell’eloquenza appare così, ad Agostino, strumentale, finalizzata cioè soltanto a distogliere l’attenzione dei lettori del Contra litteras Petiliani dalla sostanza di quanto lì argomentato e a raggiungere l’effetto che, come detto, è secondo Agostino il vero fine di ogni eretico: distruggere l’unità della Chiesa. Ciò non significa, precisa Agostino, che ogni discussione accesa (altercatio sermonis) sia da rigettare perché lesiva della concordia della comunità dei credenti28. L’uso del linguaggio per
quos noverunt, refugiunt communionem, illius deserunt unitatem: cum potius deberent, si esset in eis caritas omnia sufferens, ne se a bonis dividerent, quos in omnibus gentibus aliena mala docere non poterant, ipsi in una gente tolerare quod noverant». 25 Cf. Prv 10, 19. 26 Cf. Contra Cresconium, I, 1, 2, 447, p. 325. 27 Cf. ibid., 447, p. 326, 11-12: «Eloquentia vero facultas dicendi est, congruenter explicans quae sentimus». 28 Cf. ibid., 8, 10, 451, p. 392, 19-28: «Nam si contentiosus habetur a vobis vel animosus paratorque rixarum, quisquis cuiquam sermonis altercationem vel inferre vel referre curaverit; videte quid de ipso Domino Iesu Christo, eiusque servis Prophetis et Apostolis sentiatis. Nempe enim Dominus ipse Filius Dei, numquid cum
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ammonire, insegnare, indicare la verità è una delle sue funzioni più importanti; e l’insieme delle Scritture, intese proprio come il racconto delle parole che diversi attori hanno speso per difendere e diffondere la verità, lo testimoniano. Da Cristo ai profeti, dai Vangeli a Paolo, il testo biblico è di per sé un invito all’espressione, certamente corretta, del vero29. Nel suo viaggio ad Atene, Paolo infatti non disdegna di discutere con tutti quelli che incontra e che, a suo parere, vengano dalla Sinagoga o dalle scuole dei filosofi, sono in errore30. Per questo, egli arriva – nella lettura di Agostino – anche ad accettare il confronto con i rappresentanti dell’Areopago, esperti in discussioni che trattano più delle parole (de verbis) che dei contenuti (de rebus)31, avidi di disputare sterilmente più che di trovare la veritas 32. Se dunque la dialectica è la capacità di discutere (peritia disputandi), vale a dire lo strumento per individuare le inferenze più cogenti per rendere le proprie conclusioni efficaci (e non l’esteriore abilità di rendere ornato il discorso), non è infondato che la si debba poter utilizzare anche per difendere le verità di fede con solide argomentazioni33. Ciò che infatti qualifica solis discipulis vel turbis qui in eum crediderunt, an non etiam cum inimicis tentantibus, obtrectantibus, interrogantibus, resistentibus, maledicentibus, habuit de veritate sermonem? Numquid eum etiam cum una muliere de quaestione orationis contra opinionem vel haeresem Samaritanorum piguit disputare? (cf. Gv 4, 20-21)». 29 Cf. P. Langa, La autoridad de la Sagrada Escritura en Contra Cresconium, in «Augustiniana», 40-41 (1990), pp. 691-721. 30 Cf. Contra Cresconium, 12, 15, 454, p. 337, 18-23: «Ecce apostolus Paulus Stoicos et Epicureos, diversas, non solum ab illo, verum etiam inter se, adversasque haereses secum conferre non respuit, non tantum extra Ecclesiam, sed etiam extra synagogam disputans cum eis; nec eorum conviciis exterritus velut lites contentionesque declinans a praedicanda christiana veritate cessavit». 31 Cf. ibid., 338, 8-15: «Quod tamen ad quaestionem quam nunc discutimus, sufficit, attende, obsecro te, Hebraeum ex Hebraeis Apostolum Christi stantem ac sermocinantem, non in synagoga Iudaeorum neque in ecclesia Christianorum, sed in Areopago Atheniensium, hoc est, contentiosorum maxime impiorumque Graecorum. Ibi enim loquacissimae philosophorum haereses exstiterunt, quarum nonnullae, sicut ipsi qui hic commemorati sunt Stoici, magis de verborum quam de rerum adversitate confligunt». 32 Cf. ibid., 338, 17-25: «Nam de his, ut nosti, Tullius ait: ‘Verbi enim controversia iam diu torquet homines Graeculos, contentionis cupidiores quam veritatis’. Hos tamen Paulus noster alloquendos corrigendosque suscepit: nec ipsius loci nomine exterritus, quod ex Marte inditum resonat, quem deum dicunt esse bellorum, ibi pacifica credituris intrepidus loquebatur, ibi spiritalibus accinctus armis perniciosos expugnabat errores; nec contentiosos tamquam mitissimus, nec dialecticos tamquam simplicissimus formidabat». Per la citazione ciceroniana, Cf. Cicerone, De oratore, 1, 47, ed. K. Kumaniecki, Leipzig 1969 (M. Tulli Ciceronis scripta quae manserunt omnia, 3), p. 20, 1. 33 Cf. Contra Cresconium, 13, 16, 455, p. 339, 2-16: «Quid est enim aliud dialectica, quam peritia disputandi? Quod ideo aperiendum putavi, quia etiam ipsam
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l’eloquens e il dialecticus non è la semplice capacità stilistica e l’abilità argomentativa, ma il condurre entrambi questi esercizi logico-lingusitici veraciter 34. La dialettica si limita dunque a gestire e garantire la coerenza delle conseguenze che discendono da premesse date35; fine del dialecticus (o disputator) sarà distinguere interiormente – grazie all’aiuto di Dio – il vero dal falso, per garantire al suo ragionamento delle premesse affidabili36 che rendano solida la conoscenza della res di cui ci si occupa, a prescindere dalle parole con le quali essa viene espressa: «[la dialettica] satis tamen sobrie docet, cum de re constat, non esse de nomine laborandum»37. La lunga premessa ‘linguistica’ che occupa l’intero primo libro del Contra Cresconium si scioglie, nel secondo, mostrando la strategia argomentativa di Agostino. Come infatti, tra l’ornamento dei verba e la verità della res, va preferita certamente la seconda, così tra la
mihi obiicere voluisti, quasi christianae non congruat veritati, et ideo me doctores vestri velut hominem dialecticum merito fugiendum potius et cavendum, quam refellendum revincendumque censuerint. Quod cum tibi non persuaserint; nam te adversus nos etiam scribendo disputare non piguit; tu tamen in me dialecticam criminatus es, quo falleres imperitos, illosque laudares qui disputando mecum congredi noluerant. Sed tu videlicet non dialectica uteris, cum contra nos scribis? Utquid te ergo in tantum disputandi periculum proiecisti, cum disputare non noveris? Aut si nosti, cur dialecticus dialecticam criminaris; ita vel temerarius, vel ingratus, ut aut imperitiam qua vinceris non refraenes, aut doctrinam qua iuvaris accuses?». 34 Cf. ibid., 13, 16, 455, p. 339, 16-21: «Inspicio sermonem tuum, istum ipsum quem ad me scripsisti; video te quaedam copiose ornateque explicare, hoc est, eloquenter; quaedam vero subtiliter arguteque disserere, hoc est, dialectice: et tamen eloquentiam dialecticamque reprehendis. Si noxia sunt, quare haec facis? si non sunt, cur arguis?» . 35 Cf. ibid., 20, 25, 459, pp. 346,23-28 - 347,1-2: «Hanc enim artem quam dialecticam vocant, quae nihil aliud docet quam consequentia demonstrare, seu vera veris, seu falsa falsis, numquam doctrina christiana formidat; sicut eam in Stoicis non formidavit Apostolus, quos secum volentes conferre non respuit. Et ipsa enim fatetur, et verum est, neminem a disputante ad conclusionem falsam consequenter impelli, nisi prius consenserit falsis, quibus eadem conclusio velit nolit efficitur». 36 Cf. ibid., 15, 19, 457, p. 342, 12-22: «Qui autem verus disputator est, id est, veritatis a falsitate discretor, primo id apud se ipsum agit, ne non recte discernens ipse fallatur; quod nisi divinitus adiutus peragere non potest: deinde, cum id quod apud se egit ad alios docendos profert, intuetur primitus quid iam certi noverint, ut ex his eos adducat ad ea quae non noverant vel credere nolebant, ostendens ea consequentia his quae iam scientia vel fide retinebant: ut per ea vera de quibus se perspiciunt consentire, cogantur alia vera quae negaverant approbare; et sic verum quod falsum antea putabatur, discernatur a falso, cum invenitur consentaneum illi vero quod iam antea tenebatur». 37 Ibid., II, 2, 3, 468-469, p. 362.
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purezza della coscienza del ministro di culto e l’esteriorità delle sue azioni va certamente scelta la prima. Ma, poiché la coscienza non è indagabile dall’uomo, i Donatisti propongono che ci si affidi, nel giudizio sulla affidabilità di un sacerdote, sulla sua bona fama, vale a dire sull’opinione che la comunità in cui vive ha dei suoi comportamenti38. Come nella disquisizione linguistica precedente, Agostino invita il suo interlocutore a non smarrirsi nell’analisi della dinamica interiorità/ esteriorità, e suggerisce così che il rito battesimale sta al ‘vero’ battesimo come le parole stanno alle cose che indicano; come queste sono capaci sia di indicare efficacemente ciò che dovrebbero esprimere sia di ingannare o produrre fraintendimenti, così anche il rito del battesimo può, se operato da persone indegne, essere ingannatore. E così come nel primo caso ciò che conta è la res che le parole dovrebbero indicare, così in termini sacramentali è importante la sola res del battesimo, che è l’azione di Cristo39: «Per quanto attiene al sacramento visibile, battezzano buoni e cattivi: ma attraverso di essi battezza invisibilmente Colui che impartisce il battesimo visibile e la grazia invisibile. Possono dunque immergere nel fonte tanto i buoni quanto i cattivi ma verrà lavata solo la coscienza di chi è sempre buono»40. Nel distinguere il battesimo ‘visibile’ come esteriore rispetto a quello ‘invisibile’, Agostino incastona la polemica antidonatista nel densissimo perimetro speculativo che caratterizza questa stagione della sua riflessione, incrociando i temi della ‘ecclesiologia della carità’ sin qui più volte descritta con quelli della ‘semiotica teologica’ presente anche nelle pagine del De Trinitate; la Chiesa viene qui coerentemente letta come comunità di fedeli accomunati non tanto (o soltanto) da una dottrina condivisa ma dalla fiducia nel governo giusto di Dio, il quale prevede la compresenza al suo interno di buoni e malvagi e ne conosce così intimamente i moti da poter (lui solo) dare senso alle va-
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Cf. ibid., II, 18, 22, 479, pp. 380,26-29 - 381,1-3: «Ecce ipsa verba tua posui, quibus te dicere ostenderem, quod meis verbis breviter aperteque complexus sum, quod ad hoc attendatur abluentis conscientia, ut quae de illa fama sit cognoscatur. Non ergo ipsa attenditur, homo bone, non ipsa attenditur quae videri non potest: sed fama attenditur, quae etiam falsa esse potest, quod ipse confiteris atque concedis». 39 Cf. ibid., 20, 25, 481, p. 384, 17-20: «Dic ergo quod dicimus; quia hoc est verum, hoc sanum, hoc catholicum; quod Christus mundet accipientium conscientias, sive per bonos ministros Baptismi sui, sive per malos». 40 Ibid., 21, 26, 482, p. 385, 13-17: «Baptizant ergo, quantum attinet ad visibile ministerium, et boni et mali: invisibiliter autem per eos ille baptizat, cuius est et visibile Baptisma et invisibilis gratia. Tingere ergo possunt et boni et mali, abluere autem conscientiam non nisi ille qui semper est bonus».
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rie azioni e attività del culto41 perché all’uomo non è dato che cogliere l’aspetto segnico ed esteriore del rito sacramentale42. L’ecclesiologia inclusiva che Agostino andava costruendo in quegli anni si definisce ancor meglio nello scontro con i Donatisti; essa risulta essere, al fine, non la resa a una indefinita mescolanza nella quale non sia possibile distinguere reprobi e malvagi, ma piuttosto vive del l’invito ad aver sempre presente come, a parte hominis, tale distinzione non possa mai dirsi certa e ultima. La fiducia Dei e non la fiducia hominis fonda dunque la Chiesa43, che Agostino descrive come istituzione tutta certamente umana (e, in ciò, «piena di acque amare e di pesci dolci»44) ma interamente innervata, cioè garantita, dalla gratia divina45.
2. L’inizio della grazia: contro i Pelagiani Nel 411, un confronto tenutosi a Cartagine tra vescovi cattolici e Donatisti, che vide presenti tanto Petiliano quanto Agostino, e che fu presieduto, su ordine dell’imperatore, da Flavio Marcellino, orientò la dottrina ufficiale in direzione antidonatista, chiudendo sostanzialmente la disputa (sulla quale Agostino tornò poi occasionalmente negli anni successivi). Marcellino era un tribunus di grande cultura, aveva intessuto relazioni epistolari con Girolamo e con Agostino e proprio a quest’ultimo aveva segnalato il sorgere di un nuovo pericolo ereticale. Un anno dopo le vicende di Cartagine, Agostino riprende dunque la sua battaglia dottrinale ma muovendo contro un nuovo, diverso avversario. Nel De peccatorum meritis et remissione et de baptismo
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Cf. ibid., 13, 16, 476, p. 375, 6-11: «Cum ergo quisque ad Ecclesiae veniens unitatem, cum eius membris veraciter copulatur, accipiat Spiritum sanctum, per quem diffunditur caritas in cordibus nostris, eademque caritas cooperiat multitudinem peccatorum, ut et Baptismum quem primum habebat ad iudicium, habere iam mereatur ad praemium». 42 Cf. ibid., III, 7, 6, 499, p. 415, 20-24: «Non ergo, sicut inaniter inveheris, nihil inter fidelem perfidumque discernimus: sed discernimus humana merita, non Sacramenta divina; quae tu quoque vi veritatis adductus et haereticae intentionis oblitus, nobis et vobis non alia, sed una eademque esse dixisti». 43 Cf. ibid., 9, 9, 500-501, pp. 417-418. 44 Cf. ibid., 66, 74, 537, p. 480, 6-10: «Immo non tantum haereticis, verum etiam ceteris hominibus malis plenus est orbis et sanctis ac fidelibus Dei servis plenus est orbis, quia et mare plenum est amaris fluctibus, plenum est et dulcibus piscibus» 45 Cf. ibid., 30, 34, 514, p. 442, 14-17: «Ergo pro humanis factis, aut et hinc et inde manifestatis, aut ex utroque latere incertis, ne qui in unum Deum credimus litigemus, quod certum et divinum munus est, in Christi gratia concordemus».
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parvulorum, composto appunto tra il 411 e il 412, Agostino risponde a Marcellino, opponendosi alle tesi di personaggi non meglio specificati o qualificati, i quali sostengono (qui dicunt) che Adamo era stato creato in un modo tale che lo avrebbe condotto a morte anche senza peccato, per una necessità intrinseca alla sua natura. Soprattuto, però, Agostino ha saputo da altre fonti (ex aliis) che gli stessi sostenitori di quella tesi affermavano anche – interpretando in tal senso le parole di Rm 5, 12 – che il peccato originale fosse presente nell’umanità non per propagationem, a partire da Adamo, ma per imitationem 46. Esattamente all’opposto Agostino distingueva i peccati che ciascun individuo compie personalmente da quello che caratterizza necessariamente, ab initio, la natura di ogni uomo47, compresi i bambini che non sono entrati in comunione con Cristo e che dunque, pur non avendo commesso peccati ‘personali’, hanno contratto alla nascita quello originale che è già di per sé motivo sufficiente per la loro condanna48. Pur consapevole di quanto potesse risultare emotivamente difficile da accettare questa tesi, Agostino decide di non declinare, nemmeno in questo caso limite, dalle conclusioni cui era giunto nella sua riflessione sui rapporti tra azione dell’uomo e grazia divina. La presa di consapevo-
46 Cf. De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, I, 9, 9, 114, p. 10, 8-16: «Hoc autem apostolicum testimonium, in quo ait: ‘Per unum hominem peccatum intravit in mundum et per peccatum mors’ (Rm 5, 12), conari eos quidem in aliam novam detorquere opinionem tuis litteris intimasti, sed quidnam illud sit quod in his verbis opinentur tacuisti. Quantum autem ex aliis comperi, hoc ibi sentiunt, quod et mors ista, quae illic commemorata est, non sit corporis, quam nolunt Adam peccando meruisse, sed animae, quae in ipso peccato fit, et ipsum peccatum non propagatione in alios homines ex primo homine, sed imitatione transisse». 47 Cf. ibid., 10, 11, 115, p. 12, 9-17: «Deinde quod sequitur: ‘In quo omnes peccaverunt’ (Rm 5, 12), quam circumspecte, quam proprie, quam sine ambiguitate dictum est! Si enim peccatum intellexeris, quod per unum hominem intravit in mundum, in quo peccato omnes peccaverunt, certe manifestum est alia esse propria cuique peccata, in quibus hi tantum peccant, quorum peccata sunt, aliud hoc unum, in quo omnes peccaverunt, quando omnes ille unus homo fuerunt. Si autem non peccatum, sed ipse unus homo intellegitur, in quo uno homine omnes peccaverunt, quid etiam ista manifestatione manifestius?». 48 Cf. ibid., 12, 15, 117, p. 16, 5-15: «Immo vero nos intellegamus Apostolum et videamus ideo dictum iudicium ex uno delicto in condemnationem, quia sufficeret ad condemnationem, etiamsi non esset in hominibus nisi originale peccatum. Quamvis enim condemnatio gravior sit eorum, qui originali delicto etiam propria coniunxerunt, et tanto singulis gravior, quanto gravius quisque peccavit, tamen etiam illud solum, quod originaliter tractum est, non tantum a regno Dei separat, quo parvulos sine accepta Christi gratia defunctos intrare non posse ipsi etiam confitentur, veram et a salute ac vita aeterna facit alienos, quae nulla esse alia potest praeter regnum Dei, quo sola Christi societas introducit».
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lezza della condizione di minorità in cui versa gnoseologicamente e moralmente l’uomo ha infatti spinto Agostino, sin dai primi dialoghi, a disegnare un Dio che, solo, può ispirare e muovere la ricerca umana; che dà alle Scritture una forma che le rende per ogni uomo intellegibile; che fonda i meccanismi di funzionamento del reale e della loro decodificabilità dalla ragione umana fatta a sua immagine; che fornisce con insondabile equità gli uomini giusti di ciò che li rende tali; che dà fondamento ultimo alle manifestazioni esteriori, cultuali e sacramentali; che si fa garante della comune ispirazione caritatevole della Chiesa. Dio è dunque per Agostino l’assoluto protagonista della storia degli uomini proprio in virtù della condizione decaduta nella quale vive ogni uomo dal momento stesso in cui viene al mondo49. E come dunque non è in potere dell’uomo sapere come e perché vengano distinti i virtuosi dai malvagi, nella eterna predisposizione divina, così non è concesso intuire perché ad alcuni bambini venga data ‘immeritatamente’ la possibilità di ricevere il battesimo mentre ad altri è assegnato ‘incolpevolmente’ un destino opposto. La lunga sequela di testimonianze scritturali che Agostino adduce a sostegno della sua tesi mostra quanto essa risulti per lui per primo particolarmente estrema e, dunque, bisognosa di supporti e conferme50; essa però, proprio per la sua radicalità, permette ad Agostino di ribadire i termini del più vasto perimetro della sua riflessione sulla libertà e la grazia che, proprio nel corso del dibattito con i pelagiani, giunge a una più compiuta definizione51. La condizione dei bambini non battezzati costituisce una esemplificazione di grande impatto della antropologia agostiniana; se infatti l’uomo è nella sua stessa natura tanto corrotto e schiavo del peccato da essere condannabile anche nella infanzia, vale a dire nel momento del49
Cf. ibid., 22, 33, 128, p. 32, 17-22: «Cedamus igitur et consentiamus auctoritati sanctae Scripturae, quae nescit falli nec fallere, et, sicut nondum natos ad discernenda merita eorum aliquid boni vel mali egisse non credimus, ita omnes sub peccato esse, quod per unum hominem intravit in mundum et per omnes homines pertransiit, a quo non liberat nisi ‘gratia Dei per Dominum nostrum Iesum Christum’ (Rm 7, 25), minime dubitemus» 50 Cf. ibid., 27, 40-54, 131-140, pp. 38-53. 51 La dottrina pelagiana, nelle diverse forme e fasi nelle quali si è sviluppata, difendeva l’idea che l’uomo, grazie alla libertà della quale era naturalmente dotato e che non aveva compromesso con la caduta di Adamo, era capace di osservare i precetti divini e dunque meritarsi autonomamente la salvezza. Per una ricostruzione generale della dottrina pelagiana, cf. V. Grossi, Pelagio - Pelagiani - Pelagianesimo, voce in Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane cit., III, coll. 3996-4005. Cf. anche G. Bonner, Pelagianism and Augustine, in «Augustinian Studies», 23 (1992) pp. 33-51.
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la sua vita in cui nessun altro errore derivante da azioni individuali può essergli imputato, ne consegue l’assoluta impossibilità di pensare che il suo agire possa autonomamente portarlo alla salvezza: «A peccare non siamo aiutati da Dio; al contrario, non possiamo compiere azioni giuste o seguire un precetto di giustizia completamente se non vieniamo aiutati da Dio»52. Agostino riprende i temi sviluppati nelle prime opere successive all’elezione vescovile e definisce qui con maggior precisione quale sia la relazione tra azione dell’uomo e intervento salvifico di Dio. La grazia di Dio si presenta infatti come adiuvans; essa cioè si muove non in sostituzione ma a supporto (con una elezione insondabile perché fondata nelle ragioni della aequitas divina che restano oscure all’uomo) delle azioni degli uomini che, in quanto esseri razionali, devono avere uno spazio di movimento53. La configurazione che dunque Agostino propone è costantemente identica a se stessa: un universo in cui niente sfugge all’ordinante sguardo provvidenziale di Dio, neanche l’azione dell’uomo, che resta libera proprio perché Dio la ‘vede’ libera. Agostino arriva qui, nel tentativo di dar conto razionalmente di ciò che non è possibile conoscere con la ragione, a un punto di massima tensione speculativa: ciò che predestina – sembra infatti affermare – non è Dio, ma è la scelta stessa degli uomini (in ipsis causa est) che Dio preconosce54; Egli è però al contempo non solo lo spettatore preveggente di tale libera scelta ma il solo a poterla rendere realmente efficace, elargendo – per una elezione segreta – la bona voluntas a quanti dovranno salvarsi55. Ancora una volta, come nell’Ad Simplicianum 56,
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De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, II, 5, 5, 153, p. 75, 10-12: «Ad peccandum namque non adiuvamur a Deo; iusta autem agere vel iustitiae praeceptum omni ex parte implere non possumus, nisi adiuvemur a Deo». 53 Cf. ibid., 5, 6, 154, p. 77, 3-8: «Non sicut in lapidibus insensatis aut sicut in eis, in quorum natura rationem voluntatemque non condidit, salutem nostram Deus operatur in nobis. Cur autem illum adiuvet, illum non adiuvet, illum tantum, illum autem tantum, istum illo, illum isto modo, penes ipsum est et aequitatis tam secretae ratio et excellentia potestatis». 54 Cf. ibid., 17, 26, 167, p. 99, 4-9: «Ut autem innotescat quod latebat et suave fiat quod non delectabat, gratiae Dei est, qua hominum adiuvat voluntates; qua ut non adiuventur, in ipsis itidem causa est, non in Deo, sive damnandi praedestinati sunt propter iniquitatem superbiae sive contra ipsam suam superbiam iudicandi et erudiendi, si filii sunt misericordiae». 55 Cf. ibid., 18, 32, 170, p. 103, 6-9: «Quare autem illos velit convertere, illos pro aversione punire, cum et in beneficio tribuendo nemo iuste reprehendat misericordem et in vindicta exercenda nemo iuste reprehendat veracem» 56 Cf. J. Wetzel, Pelagius Anticipated: Grace and Election in Augustine’s Ad Simplicianum, in Augustine, From Rhetor to Theologian cit., pp. 121-132.
2. L’inizio della grazia: contro i Pelagiani
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Agostino non può fare concessioni all’esercizio della libertà umana per non correre il rischio di attribuire, all’uomo decaduto, più potere di quanto la sua natura lapsa non abbia. Il peccato originale – specifica infatti Agostino nelle pagine del De natura et gratia, composto pochi anni dopo, tra il 414 e il 415, in risposta a un’opera di Pelagio che gli era stata sottoposta perché la confutasse, e nel De gratia Christi et de peccato originali, composto nel 418 contro il Pro libero arbitrio di Pelagio – condanna ipso facto ogni essere umano venuto al mondo; se dunque l’intervento gratuito di Dio non ne salvasse una parte, l’universa massa degli uomini sarebbe tutta giustamente ed equamente condannata, senza altra motivazione ‘giuridica’ che la macchia del peccato d’Adamo57. Le tesi di Pelagio conducono dunque Agostino a dichiarare apertamente la relazione strettissima che salda la prospettiva teologica con quella antropologica: la natura stessa dell’uomo è stata corrotta in Adamo e ciò implica necessariamente, in un’ottica soteriologica, la presenza della grazia58. Il primo uomo fu infatti creato senza colpa (inculpabilis), dotato di libero arbitrio e soprattutto della libera capacità (ad iuste vivendum potestas libera) di vivere in modo giusto59. Tale potestas è, secondo Pelagio, preservata anche nell’uomo decaduto, che in virtù del suo esercizio virtuoso merita la grazia divina, annullando in ciò – secondo l’interpretazione di Agostino – il valore stesso della gratuità dell’azione di Dio che, se segue ai meriti, perde il suo status di grazia (cioè di ciò che viene concesso gratis) e diventa un premio60.
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Cf. De natura et gratia, 4, 4, 249, p. 235, 23-25: «Haec igitur Christi gratia, sine qua nec infantes nec aetate grandes salvi fieri possunt, non meritis redditur, sed gratis datur, propter quod gratia nominatur»; ibid., 5, 5, 250, p. 236, 7-8: «Universa igitur massa poenas debet et, si omnibus debitum damnationis supplicium redderetur, non iniuste procul dubio redderetur». 58 Cf. ibid., 19, 21, 256, p. 246, 6-9: «Iam nunc videte, quod ad rem maxime pertinet, quomodo humanam naturam, tamquam omnino sine vitio ullo sit, conetur estendere et contra apertissimas Scripturas Dei luctetur sapientia verbi, qua evacuetur crux Christi (cf. 1 Cor 1, 17)». 59 Cf. ibid., 43, 50, 271, p. 270, 15-17: «Quis enim eum nescit sanum et inculpabilem factum et libero arbitrio atque ad iuste vivendum potestate libera constitutum?». 60 Cf. De gratia Christi et de peccato originali, I, 23, 24, 372, p. 144, 11-16: «Haec scilicet tam ingentia bona, nonnisi de arbitrii, secundum istum, efficimus libertate, ut his praecedentibus meritis sic eius gratiam consequamur, ut cor nostrum quo voluerit ipse declinet. Quomodo est ergo gratia, si non gratis datur? quomodo est gratia, si ex debito redditur?»; cf. ibid., 31, 34, 377, p. 151, 25-29: «Nempe manifestum est, cum dicere gratiam secundum merita dari, quamlibet eam, vel qualemlibet significet, quam tamen aperte non exprimit. Nam cum eos
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I nemici della comunità
Agostino difende così, in modo estremo, le necessarie conseguenze implicite nelle premesse del suo sistema. Resta per lui indubitabile, infatti, l’assunto che muove la sua riflessione sin dalle pagine del Contra Academicos, ovverosia che l’uomo è un essere decaduto e razionale e che Dio è onnipotente e provvidente. Ciò significa, per un verso, che l’uomo è necessariamente libero (perché la libertà altro non è se non lo spazio in cui si muove la deliberazione razionale) ma che egli, a causa della sua condizione lapsa, non può mai giungere a conclusioni certe e a comportamenti virtuosi; per un altro, questo implica che nulla di ciò che avviene nel mondo è estraneo alla volontà di Dio. La somma di queste due premesse porta inevitabilmente ad affermare che la libera azione dell’uomo è preconosciuta da Dio che deve supportarla e orientarla secondo le ragioni della Sua giustizia perché, se non lo facesse, la lascerebbe senza speranza in una condizione di perdizione irrecuperabile. Una serie di necessità filosofiche discedono dunque dalle premesse poste: l’uomo deve essere libero perché è razionale ma, poiché è decaduto, deve essere aiutato a risalire perché incapace di farlo da solo; Dio, garante dell’ordine, deve aiutare l’uomo perché, se non lo facesse, non sarebbe misericordioso ma, al contempo, in quanto unico protagonista di una salvezza che l’uomo da solo non potrebbe guadagnare perché decaduto, deve farlo gratuitamente, cioè a prescindere da azioni meritorie. La necessità della libertà e l’equità di un giudizio occulto si condensano nelle espressioni usate da Agostino che, nel confronto con Pelagio, fa dunque esplodere tutta la contraddizione insita naturaliter in quel discorso che vuole dire l’indicibile e che, in quanto tale, nasce perdente61 ma che Agostino stesso non cessa mai di inseguire.
remunerandos dicit, qui bene utuntur libero arbitrio, et ideo mereri Domini gratiam, debitum eis reddi fatetur». 61 Cf. De natura et gratia, 68, 82, 288, p. 297, 1-15: «Si ergo volumus ‘animos ad recte vivendum frigidos et pigros christianis exhortationibus excitare et accendere’, primitus exhortemur ad fidem, qua christiani fiant et eius nomini subiciantur, sine quo salvi esse non possunt. Si autem iam christiani sunt et recte vivere neglegunt, verberentur terroribus et praemiorum laudibus erigantur; ita sane, ut non solum ad bonas actiones, verum etiam ad pias orationes eos exhortari meminerimus atque hac instruere sanitate doctrinae, ut et illinc gratias agant, cum instituerint bene vivere, quod aliquid sine difficultate fecerint, et ubi difficultatem aliquam sentiunt, fidelissimis et perseverantissimis precibus et misericordiae promptis operibus facilitatem a Domino impetrare persistant. Sic autem proficientes ubi et quando plenissima iustitia perficiantur non nimis curo; ubicumque autem et quandocumque perfecti fuerint, non nisi gratia Dei per Iesum Christum Dominum nostrum (cf. Rm 7, 25) perfici posse confirmo».
2. L’inizio della grazia: contro i Pelagiani
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Nella parte conclusiva del secondo libro del De gratia Christi, Agostino si sofferma sul rapporto tra matrimonio ed esercizio della concupiscenza. Su questo tema prende le mosse il confronto con un altro rappresentante del mondo pelagiano, Giuliano d’Eclano, contro cui Agostino si scontrò duramente. Dopo aver parzialmente risposto alle sue tesi nel De nuptiis et concupiscentia (418-421) e nel Contra duas epistulas Pelagianorum (420-421), Agostino ne confutò la dottrina nei più organici sei libri del Contra Iulianum (420-421) che, di fatto, chiudono la prima parte della disputa con i Pelagiani, almeno fino al nuovo confronto con i monaci di Adrumeto62. Nel De gratia Christi come nelle opere specificatamente dedicate al tema, Agostino aveva separato l’istituzione coniugale dal peccato carnale, affermando che, se non fossero caduti nel peccato, anche Adamo ed Eva si sarebbero congiunti in matrimonio63 e la loro unione sarebbe avvenuta per il tramite di un atto di volontà libero e non sotto la spinta della libido e della passione64. L’opposizione di Giuliano e del mondo pelagiano alle tesi di Agostino sul matrimonio si inserivano in un più complesso quadro di cinque dottrine agostiniane che essi ritenevano contraddittorie; i pelagiani, e Giuliano in particolare, sostenevano infatti che, con la sua dottrina sul peccato originale, Agostino avrebbe implicitamente ammesso che il diavolo è creatore degli uomini quando nascono, che le nozze sono da condannare, che il battesimo non rimette tutti i peccati, che Dio è imputabile di iniquità e che l’uomo non può sperare di giungere a uno stato di perfezione65. È ancora una volta facile desumere e contrario, partendo dalle accuse mossegli, la ‘necessità filosofica’ delle argomentazioni di Agostino; quanto cioè le sue conclusioni, anche quelle più estreme sulla condanna dei neonati non battezzati, discendano dall’aver posto come indiscutibili i presupposti prima in62
Cf. P. L. Barclift, In Controversy with Saint Augustin: Julian of Eclanum on the Nature of Sin, in «Recherches de Théologie ancienne et médiévale», 58 (1991), pp. 5-20. Cf. infra, p. 289. 63 Cf. De gratia Christi, II, 35, 40, 405, p. 198, 21-23: «Essent autem procul dubio nuptiae etiam non praecedente peccato, quia neque ob aliam causam viro adiutorium, non alius vir, sed femina facta est». 64 Cf. ibid., 36, 41, 405, p. 199, 15-19: «Sic ergo et primarum nuptiarum sine libidinis passione tranquillitas, et motus genitalium sicut aliorum membrorum, non ad effrenati caloris incitamentum, sed ad voluntatis arbitrium (quales nuptiae perseverassent, si peccati non intervenisset opprobrium), nunc ostendi non potest: sed ex iis quae divina auctoritate conscripta sunt, non immerito credi potest». 65 Cf. Contra Iulianum, II, 1, 2, 672: «Dicitis enim: ‘Nos asserendo originale peccatum, diabolum dicere hominum nascentium conditorem, damnare nuptias, negare in Baptismo dimitti universa peccata, Deum crimine iniquitatis arguere, desperationem perfectionis ingerere’».
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I nemici della comunità
dicati, vale a dire che l’uomo è un essere razionale ma debole e Dio è l’ordinatore provvidente del mondo. Per rispondere alle cinque obiezioni formulate contro le sue dottrine, Agostino sceglie (nei primi due libri del testo) di citare a sua difesa una lunga serie di auctoritates patristiche latine e greche, con una particolare predilezione per Ambrogio; a partire dal terzo libro entra invece in medias res, soffermandosi sulle singole obiezioni e cercando di fornire una risposta unitaria. Affermare la presenza anche nei neonati di un peccato che li porterebbe, se morti senza la grazia battesimale, alla condanna deve implicare, secondo i Pelagiani, che l’uomo nasca dal diavolo e per questa colpa possa essere, sin dalla nascita, punito. Sostenere questa interpretazione – controargomenta Agostino – significa ammettere che tutti gli uomini che non riescono a salvarsi o ad agire rettamente siano sotto dominio del diavolo e, in ciò, negare un presupposto fondativo di una filosofia cristiana dell’ordine: che, anche quando peccano e dunque sono sotto la potestas diaboli, gli uomini non fuoriescono dal controllo di Dio (potestas Dei), rispetto al quale nemmeno il diavolo stesso è esterno66. Se dunque Dio è Dio – sembra dire Agostino – sua è l’unica, vera potestas, dal cui perimetro non può esser considerato esterno nemmeno il diavolo, a meno che non si vogliano sposare (nuovamente!) posizioni manichee. Non è dunque una presunta creazione ‘diabolica’ a condannare gli uomini sin dal primo istante in cui vengono al mondo, ma il peccato originale, che si trasmette come un contagio di uomo in uomo non a causa del matrimonio – che per Agostino resta una istituzione con un suo ordine e una sua santità – ma in virtù della primigenia corruzione della natura umana che non può non trasmettersi di generazione in generazione67; corrotta la radice della natura umana, essa si manifesta corrotta in ogni nuovo individuo68. Ciò non
66 Cf. ibid., 2, 7, 705: «Ecce primum argumentum tuum quanta facilitate destructum est, dum attendere negligis, sic esse homines sub diaboli potestate, antequam redimantur a Christo, ut tamen Dei potestati, non solum hi, sed ne ipse quidem diabolus subtrahatur». 67 Cf. ibid., 6, 13, 708-709: «Actione quippe qui reus est hominis, homo est, homo autem natura est. Homines igitur, sicut peccati actione maiores, ita minores maiorum contagione sunt rei: isti ex eo quod faciunt, illi ex quibus originem ducunt. Quocirca in parvulis bonum est, quod homines sunt; quod omnino non essent, nisi eos ille qui summe bonus est creavisset». 68 Cf. ibid., 12, 24, 714: «Natura vero humana secundum catholicam fidem bona instituta, sed vitiata peccato meritoque damnata est. Nec mirum autem, nec iniustum est, quod radix profert damnata damnatos, nisi cuius manus non defuit creantis, non desit et misericordia liberantis; quam vos miseris invidetis, cum malum parvulos, a quo liberentur, non habere dicitis».
2. L’inizio della grazia: contro i Pelagiani
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significa, continua Agostino nel libro quarto, che il matrimonio vada impedito o che, in esso, vada proibita l’attività sessuale e la riproduzione (che sono invece parte integrante dell’unione nuziale69) ma implica che i figli nati da queste unioni vadano rigenerati, per mezzo del battesimo. E come la condanna, in Adamo, ha coinvolto tutta l’umanità in modo radicale, così specularmente avverrà la redenzione, per il tramite del battesimo in Cristo, il cui sacrificio rappresenta il viatico attraverso il quale, per i credenti, si apre la possibilità di un perfezionamento70.
69 Cf. ibid., IV, 1, 4, 738: «Quis autem nostrum suspicatus est, ‘usum coniugum a diabolo fuisse repertum’? Quis ‘commixtionem corporum per malum praevaricationis’ credidit ‘accidisse’; cum sine bis nuptiae prorsus esse non possent?» 70 Cf. ibid., VI, 26, 83, 831: «Unus enim pro omnibus mortuus est, ergo omnes mortui sunt (cf. 2 Cor 5, 14): et pro omnibus mortuus est; nec aliqui poterunt vivere pro quibus non est mortuus, qui pro mortuis vivus est mortuus».
CAPITOLO 4
LA COMUNITÀ NELLA STORIA: IL DE CIVITATE DEI (412-426)
1. I dubbi dei pagani (libro I) Nel 399, Agostino indirizzò una lettera alla comunità di Sufetula, nell’ordierna Tunisia; in quella città infatti, come ritorsione contro la distruzione di una statua di Ercole, che era stata abbattuta in ossequio a una norma imperiale contro il culto idolatrico, i pagani avevano ucciso sessanta cristiani. Nella lettera, Agostino offre ai sufetulani, se fossero stati capaci di restituire a loro volta le vite che avevano stroncato, un risarcimento per la statua che essi avevano perso1. Agostino non affrontò tutte le sue controversie con le varie comunità nordafricane con l’elegante, amaro e dolorante sarcasmo della lettera rivolta ai pagani di Sufetula. Rispetto a posizioni più concilianti, come quelle tenute contro i Manichei, Agostino sembra dover ammettere, con il passare degli anni, che non sempre è possibile convertire gli eretici discutendo e ragionando o con i soli strumenti della retorica ma è necessario, talvolta, smuoverli con il timore di punizioni temporali, comminate dal potere politico2. È infatti necessario, per chi assume l’onere di sovrintendere alla concordia ‘politica’ e alla salvezza ultraterrena degli uomini, risvegliare chi sbaglia dal suo sonno letargico con gli scossoni delle temporales 1
Cf. Epistula ad ductores ac princepes vel seniores coloniae Suffectanae, L (399), PL 33, 190-191, p. 214. 2 Cf. Epistula ad Vincentium, XCIII (406-408), 5, 17, PL 33, 329, p. 179, 388-397: «His ergo exemplis a collegis meis mihi propositis cessi. Nam mea primitus sententia non erat, nisi neminem ad unitatem Christi esse cogendum; verbo esse agendum, disputatione pugnandum, ratione vincendum, ne fictos catholicos haberemus, quos apertos haereticos noveramus. Sed haec opinio mea, non contradicentium verbis, sed demonstrantium superabatur exemplis. Nam primo mihi opponebatur civitas mea, quae cum tota esset in parte Donati, ad unitatem catholicam timore legum imperialium conversa est; quam nunc videmus ita huius vestrae animositatis perniciem detestari, ut in ea numquam fuisse credatur».
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La comunità nella storia: il De civitate Dei
molestiae 3 e garantire, pur con la rudezza di taluni interventi, la complessiva coerenza dell’ordinamento della societas che, se vuole essere cristiana, deve essere integralmente sottoposta a Dio, farsene serva nel senso di essere consentanea al suo progetto provvidenziale: «è giusta quella comunità (societas) umana che si fa serva di te»4. Se dunque compito del teologo e del catechista è indicare come vere christianus soltanto chi si accosti alla religione non per ottenerne favori terreni ma per partecipare del futuro regnum di Cristo5, l’azione degli uomini, ivi compresi re e imperatori, deve essere finalizzata a preservare (talvolta anche con la forza della legge e della coercizione) il volere di Dio6 e a riportare in seno alla Chiesa quanti ne sono fuoriusciti. Se dunque il formarsi e il crescere di una Chiesa altro non è se non il riflesso istituzionale di quell’indispensabile vincolo di carità che Agostino ha mostrato filosoficamente essere la sola via che l’umanità può coltivare per accedere alla salvezza, l’azione politica deve per certi versi garantire che questa istituzione, come detto razionalmente necessaria, viva e si sviluppi. È in questo quadro che è possibile considerare opportunamente la collocazione speculativa di una delle opere più poderose di Agostino, il De civitate Dei. Articolato in ventidue libri, composti in un lungo arco cronologico compreso tra il 412 e il 426, il testo permet3
Cf. ibid., 1, 2, 322, p. 168, 55-57: «Nonne salubriter regula temporalium molestiarum excutiendi erant, ut tamquam de somno lethargico emergerent, et in salutem unitatis evigilarent?». 4 Confessiones, III, 9, 17, 691, p. 37, 16-17: «Iusta est societas hominum, quae servit tibi». 5 Cf. De catechizandis rudibus, 17, 27, 331, p. 152, 18-22: «Qui autem propter beatitudinem sempiternam et perpetuam requiem quae post hanc vitam sanctis futura promittitur, vult fieri christianus, ut non eat in ignem aeternum cum diabolo, sed in regnum aeternum intret cum Christo, vere ipse christianus est». Nella stessa opera, Agostino fa riferimento alle due città; cf. ibid., 19, 31, 334, p. 156, 9-19: «Duae itaque civitates, una iniquorum, altera sanctorum, ab initio generis humani usque in finem saeculi perducuntur, nunc permixtae corporibus, sed voluntatibus separatae, in die iudicii vero etiam corpore separandae. Omnes enim homines amantes superbiam et temporalem dominationem cum vano typho et pompa arrogantiae, omnesque spiritus qui talia diligunt, et gloriam suam subiectione hominum quaerunt, simul una societate devincti sunt; et si saepe adversum se pro his rebus dimicant, pari tamen pondere cupiditatis in eamdem profunditatem praecipitantur, et sibi morum et meritorum similitudine coniunguntur». 6 Cf. Epistula ad Bonifacium, CLXXXV (417), 5, 19, PL 33, 801: «Quomodo ergo reges Domino serviunt in timore, nisi ea quae contra iussa Domini fiunt, religiosa severitate prohibendo atque plectendo? Aliter enim servit, quia homo est; aliter, quia etiam rex est: quia homo est enim ei servit vivendo fideliter; quia vero etiam rex est, servit leges iusta praecipientes et contraria prohibentes convenienti vigore sanciendo». Cf. D. Burns, Augustine on the Moral Significance of Human Law, in «Revue d’Études augustiniennes et patristiques», 61/2 (2015), pp. 273-298.
1. I dubbi dei pagani (libro I)
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te di verificare, nel suo complesso sviluppo, la coerenza della dottrina ecclesiologica e politica di Agostino e si presenta come il compimento di quella filosofia della storia più volte sin qui descritta7. L’opera si colloca, cronologicamente e non solo, dopo il sacco di Roma ad opera di Alarico del 410. L’avvenimento, pur nella violenza che lo caratterizzò, non mise in pericolo la tenuta dell’impero, che i Goti non avevano nessuna intenzione di rovesciare ma dal quale pretendevano soltanto il pagamento dei loro servigi militari; agli occhi dei contemporanei, però, sembrò il segno più evidente della fine di un universo politico, militare e, soprattutto, culturale, strettamente legato alle modificazioni che, da meno di un secolo, erano intervenute nel mos romano. Nell’arco cronologico compreso tra l’editto di Costantino (313) e quello di Tessalonica (380), infatti, il Cristianesimo era passato da culto inviso all’impero a religione prima tollerata e poi imposta come credo ufficiale. Non fu dunque difficile, per l’élite intellettuale pagana di Roma, mettere in correlazione questo radicale cambiamento, che aveva di fatto per la prima volta allontanato l’impero dai suoi riti pluricentenari e soprattutto dall’inveterata abitudine di assorbire nel proprio pantheon i culti stranieri senza farsene fagocitare, con la prima, vera violazione del perimetro della città da parte di contigenti nemici. Abbracciare in toto la fede cristiana, infatti, sembrava ai pagani più raffinati non soltanto tradire gli antichi culti ma, soprattutto, sposare una dottrina che mal si conciliava con la storia e l’identità di Roma. In uno scambio epistolare avvenuto tra il 411 e il 412, Volusiano – personaggio di spicco dell’amministrazione imperiale, pagano ma avversario dei pelagiani e sensibile alla lettura e all’approfondimento delle Scritture – chiede lumi ad Agostino sui temi affrontati in una confabulatio con alcuni amici; in particolare, egli racconta di aver discusso con i suoi sodali del valore dell’eloquenza, della capacità di ben organizzare il discorso e dell’importanza che ha lo studio dei filosofi del passato8. All’improvviso – riporta Volusiano – la discussione però muta d’argomento; uno dei presenti, infatti, chiede come sia possibile
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Cf. C. Ligota, La foi historienne: histoire et connaissance de l’histoire chez s. Augustin, in «Revue des Études augustiniennes», 43 (1997), pp. 111-171. 8 Cf. Epistula Volusiani ad Augustinum, CXXXV (411-412), 1, PL 33, 513, III, p. 250, 25-32: «Tunc ad familiarem tuam philosophiam sermo deflectit, quam ipse Aristotelico more tamquam Isocraticam fovere consueveras. Quaerebamus et quid egerit praeceptor ex Lyceo; quid Academiae multiplex et continuata cunctatio; quid ille disputator ex Porticu; quid Physicorum peritia; quid Epicureorum voluptas; quid inter omnes infinita disputandi libido, tuncque magis ignorata veritas, postquam praesumptum est quod possit agnosci».
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La comunità nella storia: il De civitate Dei
credere in una religione che descrive un Dio umiliato nella carne, nato da parto naturale, sottoposto alle angherie della crescita fisica, dei dolori, delle veglie, della fame; come cioè sia possibile che un corpo limitato come quello umano possa mai ospitare l’ente che regge (e dunque non può mai essere in esso contenuto) l’universo. Gli altri amici fermano la discussione, prima che l’indagine su argomenti così misteriosi si trasformi in reato contro la religione ufficiale dell’impero9; restano però – conclude Volusiano – la profondità delle obiezioni sollevate, l’impossibilità che esse vengano sciolte dai vari sacerdoti a causa della loro ignoranza (inscitia) e, dunque, la necessità che ad aiutarli intervenga il sacerdote per eccellenza, Agostino10. La lettera testimonia, in modo significativamente efficace, sia i dubbi che la nuova religione continuava a produrre nella sensibilità culturale e speculativa del mondo pagano romano sia la diffusa incapacità dei ministri di culto del tempo di rispondere alle obiezioni filosofiche che da esso sorgevano. Ma non è solo la coerenza speculativa della religione cristiana a preoccupare il mondo pagano. Fa seguito alla lettera di Volusiano una epistola di Marcellino – che negli stessi anni era coinvolto nella disputa contro i Donatisti11 – che invita Agostino a rispondere alle obiezioni che quella confabulatio aveva prodotto, soprattutto perché a esse ne è collegata una ulteriore e, per certi versi, più pericolosa. Marcellino informa infatti Agostino del fatto che lo stesso Volusiano nutriva dei dubbi sull’abbandono degli antichi riti; se infatti, a differenza di quanto sempre avvenuto nella storia di Roma, il nuovo culto cristiano non si 9 Cf. ibid., 2, 513-514, pp. 250-251, 33-51: «Dum in his confabulatio nostra remoratur, unus e multis: Et quis, inquit, est sapientia ad perfectum Christianitatis imbutus, qui ambigua in quibus haereo possit aperire, dubiosque assensus meos vera vel verisimili credulitate firmare? Stupemus tacentes. Tunc in haec sponte prorumpit: Miror utrum mundi Dominus et rector intemeratae feminae corpus impleverit, pertulerit decem mensium longa illa fastidia mater (Virgilio, Ecloghe, 4, 61), et tamen virgo enixa sit solemnitate pariendi, et post haec virginitas intacta permanserit. His et alia subnectit: Intra corpusculum vagientis infantiae latet, cui par vix putatur universitas; patitur puerilitatis annos, adolescit, iuventute solidatur; tam diu a sedibus suis abest ille regnator, atque ad unum corpusculum totius mundi cura transfertur; deinde in somnos resolvitur, cibo alitur, omnes mortalium sentit affectus; nec ullis competentibus signis tantae maiestatis indicia clarescunt, quoniam larvalis illa purgatio, debilium curae, reddita vita defunctis, haec, si et alios cogites, Deo parva sunt. Intervenimus ulterius inquirenti, solutoque conventu, ad potioris peritiae merita distulimus, ne dum incautive secreta temerantur, in culpam deflecteret error innocuus». 10 Cf. ibid., 514, 53-56: «Utcumque absque detrimento cultus divini in aliis sacerdotibus toleratur inscitia; at cum ad antistitem Augustinum venitur, legi deest quidquid contigerit ignorari». 11 Cf. supra, p. 213.
1. I dubbi dei pagani (libro I)
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era integrato con quelli pagani ma li aveva soppiantati completamente, ciò significava che esso pretendeva di porsi come unica religione vera e, in ciò, dichiarava del tutto false le convinzioni precedenti; accettare il messaggio cristiano significava dunque ammettere che la religione degli ultimi dieci secoli di Roma era stata falsa12. Ciò che dunque veniva richiesto era abbandonare la religione dei padri e accettare una dottrina che, oltre a volersi mostrare fieramente diversa da qualsivoglia altro culto, sembrava anche incompatibile con il rispetto della tradizione e, in ciò, dell’identità stessa di Roma: una religione della tolleranza, che non permette di rispondere al male con il male, che chiede di porgere l’altra guancia e dividere con il prossimo i propri averi non può infatti sorreggere un impero come quello romano, da sempre fondato sulla capacità, strategica e militare, di imporre il proprio volere con la forza delle armi e del suo ordinamento giuridico13. L’implicita inferenza nascosta dietro queste obiezioni viene apertamente esplicitata da Marcellino: i pagani ritengono che proprio tale indebolimento del mos romano sia la causa degli avvenimenti tragici che hanno colpito la città14. È dunque necessario – conclude – che Agostino risponda con un’opera a queste obiezioni, perché la Chiesa ha bisogno, in un momento storico come quello successivo al sacco di Alarico, di potersi difendere da queste accuse15. Il problema posto dai pagani romani
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Cf. Epistula Marcellini ad Augustinum, CXXXVI (411-412), 2, 515, II, p. 254, 33-40: «Dicebat enim quod etsi sibi hodie incarnationis dominicae ratio redderetur, reddi vix ad liquidum possit cur hic Deus, qui et Veteris Testamenti Deus esse firmatur, spretis veteribus sacrificiis delectatus est novis. Nihil enim corrigi posse asserebat nisi quod antefactum non recte probaretur; vel quod semel recte factum sit, immutari ullatenus non debuisse. Recte enim facta dicebat mutari nisi iniuste non posse; maxime quia ista varietas inconstantiae Deum possit arguere» 13 Cf. ibid., 2, 515, II, pp. 254-255, 40-50: «Tum deinde quod eius praedicatio atque doctrina, reipublicae moribus nulla ex parte conveniat; utpote, sicut a multis dicitur, cuius hoc constet praeceptum, ut nulli malum pro malo reddere debeamus (cf. Rm 12, 17), et percutienti aliam praebere maxillam, et pallium dare persistenti tunicam tollere, et cum eo qui nos angariare voluerit, ire debere spatio itineris duplicato (cf. Mt 5, 39): quae omnia reipublicae moribus asserit esse contraria. Nam quis tolli sibi ab hoste aliquid patiatur, vel Romanae provinciae depraedatori non mala velit belli iure reponere? Et caetera quae dici ad reliqua posse, intellegit Venerabilitas tua». 14 Cf. ibid., 515, p. 255, 50-53: «Haec ergo omnia ipsi posse adiungi aestimat quaestioni, in tantum ut per christianos principes, christianam religionem maxima ex parte servantes, tanta (etiamsi ipse de hac parte taceat) reipublicae mala evenisse manifestum sit». 15 Cf. ibid., 3, p. 255, 61-63: «Ego vero ad haec omnia promissionis non immemor sed exactor libros confici deprecor, Ecclesiae, hoc maxime tempore, incredibiliter profuturos».
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del circolo di Volusiano è tanto profondo quanto concreto; essi infatti mettono in stretta correlazione la caduta di Roma non semplicemente con la cristianizzazione dell’impero (nell’ottica, che pure Agostino affronterà nel De civitate Dei, secondo la quale la città è caduta in mano nemica perché è stata abbandonata dagli dèi pagani a causa della sua conversione) ma anche con l’indebolimento strutturale dell’identità militare e politica romana causato dalla nuova religione. L’incipit del De civitate Dei si ricollega direttamente a questa polemica e, più in generale, alle riflessioni che lo scambio epistolare con Volusiano e Marcellino mostrano fossero comuni a Roma. La chiave di lettura fornita sin dall’inizio dell’opera da Agostino (in piena coerenza con le riflessioni che in quegli stessi anni andava sviluppando) si muove costantemente su due piani. Per un verso, ricordare che all’uomo non è dato cogliere quali siano le linee di movimento metastoriche che, provvidenzialmente, governano in profondità la storia; per un altro, analizzare ex post gli avvenimenti storici, quelli più recenti come quelli più lontani del tempo, per tentare di rintracciare in essi un senso complessivo. Agostino riapplica cioè, alla storia dell’uomo e per certi versi dell’umanità, lo stesso schema ermeneutico e narrativo con il quale, nelle Confessiones, aveva discusso della sua storia personale, della sua biografia: evidenziare l’impenetrabilità del piano provvidenziale divino ma ricordare come esso intersechi concretamente, quotidianamente il piano storico dell’esistenza dell’uomo e per questo possa essere, dopo il suo svolgimento, decodificato nelle sue linee di sviluppo. Per un verso dunque i pagani vengono accusati di non avere l’humilitas necessaria per capire che gli avvenimenti della storia non sono comprensibili all’occhio della superbia umana ma vanno riportati nell’ambito della inintellegibile azione della grazia divina16; per un altro, però, è necessario ricordare loro come, ripensando al fatto che durante gli eccidi avvenuti a Roma molti si sono salvati perché i Goti non hanno varcato la soglia delle chiese (diventate, a differenza dei templi pagani, luogo sicuro di rifugio) non si possa non individuare, in tale circostanza, un chiaro segno della benevolenza divina17. Il piano di Dio per il mondo è dunque, al contempo, segreto e manifesto; ne è incomprensibile la ratio 16
Cf. De civitate Dei, I, praef.., 13, p. 1, 9-13: «Nam scio quibus viribus opus sit, ut persuadeatur superbis quanta sit virtus humilitatis, qua fit ut omnia terrena cacumina temporali mobilitate nutantia, non humano usurpata fastu, sed divina gratia donata celsitudo transcendat». 17 Cf. ibid., I, 1, 13, pp. 1-2, 9-15: «Testantur hoc martyrum loca et basilicae Apostolorum, quae in illa vastatione Urbis ad se confugientes suos alienosque receperunt. Huc usque cruentus saeviebat inimicus, ibi accipiebat limitem trucida-
1. I dubbi dei pagani (libro I)
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più profonda ma ciò non significa che non sia mai possibile leggerne le logiche. Come dunque le Confessiones, a conclusione della stagione nella quale Agostino si preoccupa di richiamare il singolo uomo (e dunque in primis se stesso) alla ricerca, riavvolgevano il nastro della sua biografia per cogliere in controluce la presenza ordinante di Dio, così nel De civitate Dei, nel momento in cui Agostino pone al centro della sua riflessione non più l’uomo cercante ma la comunità, è la biografia dell’umanità stessa a essere posta sotto analisi, per tentare di dare ragione ex post alla serie di avvenimenti che ne hanno costruito la storia nei secoli. Nel primo libro, Agostino analizza le vicende legate al sacco di Alarico alla luce di tale premessa. Nessun uomo ha la capacità di comprendere perché Dio abbia permesso che avvenisse; ciascun uomo, al contrario, interpretando correttamente ciò che è avvenuto, ha la facoltà di convertire i suoi beni materiali in beni spirituali e mettere le vere ricchezze, così accumulate, in sicurezza nel proprio spirito, laddove nessun barbaro può toccarle18. Nessuna sofferenza infatti colpisce chi non ha legami con la terra; non la fame, né la schiavitù o la tortura né la morte che, a prescindere da come sopraggiunga, è una necessità legata alla natura stessa dell’uomo, e dunque non può essere evitata. Non c’è dunque, conclude Agostino, avvenimento storico che possa realmente fiaccare o mettere in discussione lo spirito del credente che sa dell’esistenza di un piano ulteriore dove ogni avvenimento, anche quello che a parte hominis appare atroce e insensato, ha il suo senso. È per questo ingiustificato, nel cristiano, il suicidio; non soltanto esso si configura infatti come un vero e proprio homicidium ma, soprattutto, manifesta una scorretta lettura del rapporto tra i due piani. Uccidersi perché si è commesso un reato o, come nei casi relativi al sacco di Roma, a causa dell’onta subita per mano dei barbari irrispettosi della pudicizia e della castità, significa anticipare o ignorare il giudizio, la misericordia o l’ira di Dio; equivale cioè quasi a sottrarsi a quella paradossale condizione di ignoranza del senso complessivo nella quale però l’uomo trova senso. È, per certi versi, il vero peccato di Giuda che, temendo di non poter espiare il suo crimine, ha assommato un secondo delitto al primo, disperando della misericordia di Dio19. toris furor, illo ducebantur a miserantibus hostibus, quibus etiam extra ipsa loca pepercerant, ne in eos incurrerent, qui similem misericordiam non habebant». 18 Cf. ibid., 10, 2, 24, p. 11, 5-10: «Ac per hoc qui Domino suo monenti oboedierant, ubi et quo modo thesaurizare deberent, nec ipsas terrenas divitias barbaris incursantibus amiserunt». 19 Cf. ibid., 26, 39-40, p. 27, 27-36: «Hoc dicimus, hoc adserimus, hoc modis omnibus approbamus, neminem spontaneam mortem sibi inferre debere velut fu-
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Se dunque l’uomo non può cogliere ex ante il senso del piano provvidenziale divino, egli ha invece il dovere di tentare di leggerne le logiche ex post in una prospettiva re-ligiosa. La fede in Dio e nel movimento, di cui Egli è garante, che dalla creazione giunge all’escatologia passando per la storia, permette infatti di interpretare correttamente, una volta che essi si siano svolti, avvenimenti che sembrano invece, nel loro scorrere, privi di un significato. Sarà dunque necessario, per giungere a questa critica storico-teologica, in primis decostruire (nei libri II-X) l’immagine del divino e del religioso attraverso la cui lente distorcente i pagani hanno per secoli deformato la lettura della realtà per poi sostituirla (nei libri XI-XXII) con la più corretta prospettiva fornita dalla adesione alla vera religio cristiana.
2. La storia falsa (libri II-X) La prima parte del De civitate Dei, vale a dire i libri II-X, dedicati a mettere in discussione e decostruire la cultura e la tradizione politeistica romana, si apre con un aperto invito di Agostino all’esercizio razionale del filosofare che, solo, può fare in modo che degli irrationabiles motus si trasformino in res clarae 20. Emergerà così, suggerisce Agostino, che la devastazione di Roma (vastatio romanae urbis) non è in alcun modo collegata con il diffondersi del culto cristiano21. È giendo molestias temporales, ne incidat in perpetuas; neminem propter aliena peccata, ne hoc ipso incipiat habere gravissimum proprium, quem non polluebat alienum; neminem propter sua peccata praeterita, propter quae magis hac vita opus est, ut possint paenitendo sanari; neminem velut desiderio vitae melioris, quae post mortem speratur, quia reos suae mortis melior post mortem vita non suscipit». 20 Cf. ibid., II, 1, 47, p. 34, 1-15: «Si rationi perspicuae veritatis infirmus humanae consuetudinis sensus non auderet obsistere, sed doctrinae salubri languorem suum tamquam medicinae subderet, donec divino adiutorio fide pietatis impetrante sanaretur, non multo sermone opus esset ad convincendum quemlibet vanae opinationis errorem his, qui recte sentiunt et sensa verbis sufficientibus explicant. Nunc vero quoniam ille est maior et taetrior insipientium morbus animorum, quo irrationabiles motus suos, etiam post rationem plene redditam, quanta homini ab homine debetur, sive nimia caecitate, qua nec aperta cernuntur, sive obstinatissima pervicacia, qua et ea quae cernuntur non feruntur, tamquam ipsam rationem veritatemque defendunt, fit necessitas copiosius dicendi plerumque res claras, velut eas non spectantibus intuendas, sed quodam modo tangendas palpantibus et coniventibus offeramus». 21 Cf. ibid., 3, 49, p. 36, 1-11: «Memento autem me ista commemorantem adhuc contra imperitos agere, ex quorum imperitia illud quoque ortum est vulgare proverbium: pluvia defit, causa Christiani sunt. Nam qui eorum studiis liberalibus instituti amant historiam, facillime ista noverunt; sed ut nobis ineruditorum
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la razionalità infatti a mostrare come le divinità pagane non possano essere tecnicamente nemmeno definite tali: esse sono infatti completamente disinteressate degli uomini, della loro crescita ed evoluzione spirituale e, per questo, non degne di rientrare nella definizione che la ragione prima della fede dà di ciò che è divino. Se infatti con la parola ‘dio’ si intende una entità superiore e, per questo, certamente buona e previdente, questo esclude che le divinità pagane, dalle quali mai giunge agli uomini un messaggio che li supporti e li aiuti nel superare i loro limiti morali, possano essere definite tali22. Ne sono non a caso testimonianza, prosegue Agostino, le opere e le riflessioni dei filosofi. Già nel De vera religione il comportamento dei pensatori pagani veniva indicato come la più evidente dimostrazione della infondatezza della religione greca: essi, infatti, partecipavano ai culti pubblici ma, nelle loro scuole, professavano teorie teologiche completamente alternative, mostrando in ciò quanto riteneressero quei riti inadatti a dare risposta alla necessità dell’uomo relativamente alla trascendenza23. Agostino riconosce nuovamente in questa dinamica un merito e un limite: i filosofi infatti, con grande ingegno, hanno indagato ciò che è a fondamento della natura delle cose, ciò che va perseguito come costume ideale e quali siano le regole che rendono corretto un ragionamento, comprendendo che i culti pagani non potevano in alcun modo rispondere a tali domande; nonostante ciò, hanno però preferito continuare a seguire pubblicamente i riti dei lontani e anonimi dèi pagani24 che, incuranti della decadenza dei costumi e della corruzione turbas infestissimas reddant, se nosse dissimulant atque hoc apud vulgus confirmare nituntur, clades, quibus per certa intervalla locorum et temporum genus humanum oportet affligi, causa accidere nominis Christiani, quod contra deos suos ingenti fama et praeclarissima celebritate per cuncta diffunditur». 22 Cf. ibid., 6, 51, pp. 38-39, 1-7: «Hinc est quod de vita et moribus civitatum atque populorum a quibus colebantur illa numina non curarunt, ut tam horrendis eos et detestabilibus malis non in agro et vitibus, non in domo atque pecunia, non denique in ipso corpore, quod menti subditur, sed in ipsa mente, in ipso rectore carnis animo, eos impleri ac pessimos fieri sine ulla sua terribili prohibitione permitterent». 23 Cf. supra, p. 85. 24 Cf. De civitate Dei, II, 7, 52, pp. 39-40, 1-15: «An forte nobis philosophorum scholas disputationesque memorabunt? Primo haec non Romana, sed Graeca sunt; aut si propterea iam Romana, quia et Graecia facta est Romana provincia, non deorum praecepta sunt, sed hominum inventa, qui utcumque conati sunt ingeniis acutissimis praediti ratiocinando vestigare, quid in rerum natura latitaret, quid in moribus appetendum esset atque fugiendum, quid in ipsis ratiocinandi regulis certa connexione traheretur, aut quid non esset consequens vel etiam repugnaret. Et quidam eorum quaedam magna, quantum divinitus adiuti sunt, invenerunt; quantum autem humanitus impediti sunt, erraverunt, maxime cum
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endemica di quei tempi – penetrata anche a Roma, come testimonia lo sferzante giudizio di Sallustio25 – non hanno mai fornito agli uomini adeguate norme morali26. Gli dèi pagani, dunque, non sono capaci di accompagnare gli uomini nel loro percorso ma li abbandonano alle loro debolezze. La fede in quelle divinità appare perciò sterile e, nello specifico, distorcente nella lettura che produce degli avvenimenti. L’intera interpretazione che la cultura romana ha fatto della storia di Roma viene, così, ripensata da Agostino come testimonianza della completa inutilità del divino: la guerra fratricida con Alba27, la morte violenta dei Tarquini28, la scontro intestino tra patrizi e plebei29, le guerre sociali e quelle puniche30, la lunghissima stagione della guerra civile31: la vicenda plurisecolare che dalla fondazione ha condotto alla nascita dell’impero viene rapidamente ripercorsa da Agostino per evidenziare le violenze e i soprusi inferti e subiti da Roma, nonché le tante sconfitte e le turbolenze interne, senza che mai l’intervento degli dèi potesse dirsi univocamente a supporto dell’urbs (talvolta favorita dalla sorte, in altre occasioni punita). È dunque pretestuoso, agli occhi di Agostino, l’argomento di quanti, tra i pagani, sostengono che il culto degli dèi abbia portato a Roma, nel complesso della sua evoluzione storica, gloria e capacità d’espansione. Le istituzioni politiche, argomenta Agostino, sono come gli uomini; e come l’uomo ricco vive nell’angosciante timore di perdere ciò che possiede e, quando con le azioni che mette in campo per difendersi, amplia i suoi possedimenti ma reduplica con essi i suoi timori, così una istituzione politica che vive in una perenne condizione di belligeranza per espandere i suoi territori genera una inevitabile guerra permanente che, seppur con-
eorum superbiae iuste providentia divina resisteret, ut viam pietatis ab humilitate in superna surgentem etiam istorum comparatione monstraret; unde postea nobis erit in Dei veri Domini voluntate disquirendi ac disserendi locus». Agostino fa direttamente riferimento (probabilmente traendolo da Cicerone, Tusculanae disputationes, II, 11, 27, ed. M. Pohlenz, Stuttgart 1965 (M. Tulli Ciceronis scripta quae manserunt omnia, 44, pp. 293-294) alla condanna dei poeti da parte di Platone. 25 Cf. Sallustio, Historiae, 1, fr. 14. 26 Cf. De civitate Dei, II, 23, 2, 71, p. 57, 36-39: «Illa igitur res publica malis moribus cum periret, nihil dii eorum pro dirigendis vel pro corrigendis egerunt moribus, ne periret; immo depravandis et corrumpendis addiderunt moribus, ut periret». 27 Cf. ibid., III, 14, 2, 90, p. 77, 68-70: «Quo modo ergo gloriosum alterius matris, alterius filiae civitatis inter se armorum potuit esse certamen?». 28 Cf. ibid., 15, 91-93, pp. 78-80. 29 Cf. ibid, 17, 95-98, pp. 81-85. 30 Cf. ibid., 18-20, 98-102, pp. 85-89. 31 Cf. ibid., 27-30, 107-110, pp. 93-96.
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cede un apparente lustro in virtù della grande estensione acquisita, lo sottopone a continue tensioni con i suoi nemici esterni e all’interno32. La percezione che la cultura romana ha avuto dell’intera sua esperienza storica viene dunque messa in discussione da Agostino; nel suo sviluppo, infatti, essa ha manifestato che i romani non hanno tratto, dalla loro fede, nessuna capacità di corretta interpretazione degli avvenimenti e nessuna norma morale e che hanno fatto del ricorso alla violenza l’unica regola della loro vita, nei rapporti con le nazioni vicine e tra le parti che ne componevano la comunità. Una storia ‘falsa’, dunque, perché vissuta sulla base di un modello etico violento, prevaricatore e incapace di indicare la necessità, essenziale per una comunità come per i singoli individui, di allontanarsi dai mali derivanti dall’accumulazione di onori e glorie terrene per sposare un modello caritatevole; una mitologia che adora le dee Vittoria e Fortuna solo quando esse appaiono propizie alla propria parte, vale a dire quando favoriscono la distruzione della parte avversa33. A partire da tale premessa, Agostino avverte la necessità di confrontarsi direttamente con quella tradizione culturale, rea di aver accettato una mitologia che, proprio nella costruzione di fabulae nelle quali a ciascuno degli dèi sono assegnate competenze e mansioni specifiche34, mostra tutta la debolezza di quell’universo teologico, l’incapacità cioè delle divinità pagane, pur nella variegata molteplicità delle loro attribuzioni, di intervenire positivamente nella storia degli uomini e aiutarli a comprendere il senso e la direzione da dare alla propria vita. Agostino individua, nel mondo pagano, alcune voci che per prime hanno avvertito i limiti di tale configurazione, di quanto cioè il
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Cf. ibid., IV, 3, 114, pp. 100-101, 14-33: «Duos constituamus homines (nam singulus quisque homo, ut in sermone una littera, ita quasi elementum est civitatis et regni, quantalibet terrarum occupatione latissimi), quorum duorum hominum unum pauperem vel potius mediocrem, alium praedivitem cogitemus; sed divitem timoribus anxium, maeroribus tabescentem, cupiditate flagrantem, numquam securum, semper inquietum, perpetuis inimicitiarum contentionibus anhelantem, augentem sane his miseriis patrimonium suum in immensum modum atque illis augmentis curas quoque amarissimas aggerantem; mediocrem vero illum re familiari parva atque succincta sibi sufficientem, carissimum suis, cum cognatis vicinis amicis dulcissima pace gaudentem, pietate religiosum, benignum mente, sanum corpore, vita parcum, moribus castum, conscientia securum. Nescio utrum quisquam ita desipiat, ut audeat dubitare quem praeferat. Ut ergo in his duobus hominibus, ita in duabus familiis, ita in duobus populis, ita in duobus regnis regula sequitur aequitatis, qua vigilanter adhibita si nostra intentio corrigatur, facillime videbimus ubi habitet vanitas et ubi felicitas». 33 Cf. ibid., 17-19, 125-127, pp. 112-114. 34 Cf. ibid., 9-11, 119-180, pp. 105-110.
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proliferare di culti specifici quasi occultasse il senso del rapporto con la trascendenza. Se dunque già Cicerone denunciava le storture della superstitio nel De natura deorum 35, è nelle pagine del suo contemporaneo Varrone che con più evidenza emerge la consapevolezza della stridente distanza tra apparenza dei culti e fondamento teologico. Varrone descrive e analizza, nel suo studio, il complesso pantheon pagano; se per un verso la sua vocazione ‘antiquaria’ – orientata cioè alla preservazione del patrimonio culturale antico – lo induce a descrivere minuziosamente gli dèi, con i nomi e le funzioni che la tradizione assegna loro36, ciò però non gli impedisce di affermare – in un frammento delle Antiquitates che solo Agostino conserva – che al di là dei singoli riti e della mitologia, c’è una sola anima divina che regge e governa il mondo37. La sapienza pagana ha dunque colto secondo Agostino la presenza, nell’universo, di un piano ordinato di natura divina; mentre però la cultura popolare lo ha il più delle volte legato alla credenza nell’influsso degli astri38, la filosofia ha cercato di rielaborarne la nozione, giungendo però a esiti contrastanti, come Agostino evidenzia confrontando le posizioni di Seneca e Cicerone. Nell’indicare a Lucilio il modo corretto per affrontare gli inconvenienti della vita che sembrano renderla faticosa e insopportabile, Seneca descrive l’esistenza umana
35 Cf. ibid., 30, 136-137, pp. 123-124; Cicerone, De natura deorum, 2, 28, 70, ed. W. Ax, Stuttgart 1933 (M. Tulli Ciceronis scripta quae manserunt omnia, 45), p. 60. 36 Cf. De civitate Dei, IV, 31, 137, p. 125, 8-10: «Quoniam in vetere populo esset, acceptam ab antiquis nominum et cognominum historiam tenere, ut tradita est, debere si dicit, et ad eum finem illa scribere ac perscrutari, ut potius eos magis colere quam despicere vulgus velit». 37 Cf. ibid., 138, p. 125, 24-36: «Dicit etiam idem auctor acutissimus atque doctissimus, quod hi soli ei videantur animadvertisse quid esset Deus, qui crediderunt eum esse animam motu ac ratione mundum gubernantem, ac per hoc, etsi nondum tenebat quod veritas habet (Deus enim verus non anima, sed animae quoque est effector et conditor), tamen si contra praeiudicia consuetudinis liber esse posset, unum Deum colendum fateretur atque suaderet, motu ac ratione mundum gubernantem, ut ea cum illo de hac re quaestio remaneret, quod eum diceret esse animam, non potius et animae Creatorem. Dicit etiam antiquos Romanos plus annos centum et septuaginta deos sine simulacro coluisse. ‘Quod si adhuc’, inquit, ‘mansisset, castius dii observarentur’». Cf. Marco Terenzio Varrone, Antiquitates rerum divinarum, ed. in B. Cardauns, M. Terentius Varro Antiquitates rerum divinarum, Wiesbaden 1976, fr. 18. 38 Cf. De civitate Dei, V, 1, 139, p. 128, 15-20: «Sed illi, qui sine Dei voluntate decernere opinantur sidera quid agamus vel quid bonorum habeamus malorumve patiamur, ab auribus omnium repellendi sunt, non solum eorum qui veram religionem tenent sed et qui deorum qualiumcumque, licet falsorum, volunt esse cultores».
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come un luogo complesso («non est delicata res vivere»39), reso faticoso dal susseguirsi di avvenimenti ineluttabili che l’uomo non può modificare ma ai quali può soltanto adattarsi, educandosi a sopportarne le angherie. L’animo umano deve dunque conformarsi a questa lex e, soprattutto, seguire senza recriminazioni Giove dal quale, come auctor, proviene ogni cosa. A lui, conclude Seneca, vanno indirizzati quei versi (che egli traduce dal greco e che Agostino riporta verbatim) che gli aveva dedicato Cleante per ricordare come le azioni degli uomini sono rette dal volore ineluttabile del dio, e che a essi non resta altra possibilità che scegliere se segurine docilmente i voleri o inutilmente opporvisi: «Ducunt volentem fata, nolentem trahunt»40. Esattamente all’opposto si colloca, per Agostino, Cicerone che, per difendere la centralità del libero arbitrio, avvertì invece la necessità speculativa di decostruire il determinismo stoico negando che chiunque, Dio compreso, possa pre-conoscere il futuro. Cicerone si sforzò di individuare argomentazioni cogenti contro la predestinazione, quasi equiparandosi, con ispirata preveggenza – ironizza Agostino – all’insipiens dei Salmi che, in cuor suo, afferma che Dio non esiste41. L’argomentazione di Cicerone ha un preciso obiettivo. Se le cose future sono preconosciute (praescita) da Dio – egli afferma – lo sono anche le loro cause; il che significa che non hanno nessuna efficacia le cause ‘locali’, quelle che al contrario sembrano materialmente indirizzare le azioni, come per esempio il moto libero dell’arbitrio. Questa conclusione minerebbe alle fondamenta, secondo Cicerone, la possibilità stessa di un vivere associato, perché renderebbe inutili le leggi, le punizioni, i premi, i castighi e in generale qualsivoglia legame tra la qualità dell’azione umana e le sue conseguenze42. Per preservare dunque quello che ritiene il 39 Seneca, Ad Lucilium epistolae morales, CVII, 1, ed. L. D. Reynolds, 2 voll., Oxford 1965, p. 140. Cf. E. Gallicet, Seneca nel De civitate Dei di Agostino, in Seneca e il suo tempo, Atti del convegno internazionale di Roma-Cassino (11-14 novembre 1998), a c. di P. Parroni, Roma 2000, pp. 445-467. 40 Cf. De civitate Dei, V, 8, 148, pp. 135-136; Cf. Seneca, Ad Lucilium epistolae morales, CVII, 11, p. 141; Stoicorum Veterum Fragmenta, ed. J. von Arnim, 4 voll., Leipzig 1903-1924, I, fr. 527. 41 Cf. De civitate Dei, 9, 149-152, pp. 136-140. Cf. A. Pic, Saint Augustin et l’impiété de Cicéron: Étude du De Ciuitate Dei V, 9, in Augustine and His Opponents, ed. by M. Vinzent, Leuven, 1997, pp. 213-220. 42 Cf. De civitate Dei, 9, 149, p. 137, 35-48: «Quid est ergo, quod Cicero timuit in praescientia futurorum, ut eam labefactare disputatione detestabili niteretur? Videlicet quia, si praescita sunt omnia futura, hoc ordine venient, quo ventura esse praescita sunt; et si hoc ordine venient, certus est ordo rerum praescienti deo; et si certus est ordo rerum, certus est ordo causarum; non enim fieri aliquid potest, quod non aliqua efficiens causa praecesserit; si autem certus est ordo cau-
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fondamento filosofico della convivenza politica (ogni uomo è responsabile per le proprie scelte) Cicerone è costretto a negare non la sola prescienza divina, ma Dio stesso, perché non c’è Dio senza prescienza; così, conclude Agostino, per garantire agli uomini la libertà, li ha trasformati in sacrileghi43. Entrambe le declinazioni del problema qui riassunte sono, per Agostino, problematiche. Dio sovrintende all’ordine delle cause; ciò significa che le conosce in modo compiuto per quello che esse sono e, dunque, non può che conoscere come libera la volontà dell’uomo44. Non è dunque inappropriato parlare di necessitas quando con tale termine si intende il vincolo che la natura stessa delle cose impone loro: come è infatti necessario che Dio, in quanto Dio, conosca ogni cosa, così è parimente necessario che la volontà, in quanto tale, sia libera45 e che Dio ne pre-conosca, come liberi, tutti i movimenti (compresi la promulgazione delle leggi o il comminare pene e punizioni)46. Se dunque per un verso Seneca intuì opportunamente l’ineluttabilità della lex divina ma errò nell’annullare in essa del tutto l’arbitrio dell’uomo, riducendolo a semplice capacità di accettazione sarum, quo fit omne quod fit, ‘fato’, inquit, ‘fiunt omnia quae fiunt’. Quod si ita est, nihil est in nostra potestate nullumque est arbitrium voluntatis; ‘quod si concedimus’, inquit, ‘omnis humana vita subvertitur, frustra leges dantur, frustra obiurgationes laudes, vituperationes exhortationes adhibentur, neque ulla iustitia bonis praemia et malis supplicia constituta sunt’»; cf. Cicerone, De divinatione, II, 49, ed. R. Giomini, Leipzig 1975 (M. Tulli Ciceronis scripta quae manserunt omnia, 46), pp. 1-148, pp. 99-100; Id., De fato 17, 40, ed. R. Giomini, Leipzig 1975 (M. Tulli Ciceronis scripta quae manserunt omnia, 46), pp. 149-174, p. 159. 43 Cf. De civitate Dei, 9, 150, p. 137, 56-62: «Ipse itaque ut vir magnus et doctus et vitae humanae plurimum ac peritissime consulens ex his duobus elegit liberum voluntatis arbitrium; quod ut confirmaretur, negavit praescientiam futurorum atque ita, dum vult facere liberos, fecit sacrilegos. Religiosus autem animus utrumque eligit, utrumque confitetur et fide pietatis utrumque confirmat». 44 Cf. ibid., 150, p. 138, 76-78 e 96-102: «Nos adversus istos sacrilegos ausus atque impios et Deum dicimus omnia scire antequam fiant, et voluntate nos facere, quidquid a nobis non nisi volentibus fieri sentimus et novimus. (…) Et ipsae quippe nostrae voluntates in causarum ordine sunt, qui certus est Deo eiusque praescientia continetur, quoniam et humanae voluntates humanorum operum causae sunt; atque ita, qui omnes rerum causas praescivit, profecto in eis causis etiam nostras voluntates ignorare non potuit, quas nostrorum operum causas esse praescivit». 45 Cf. ibid., 10, 152, p. 140, 13-15: «Si autem illa definitur esse necessitas, secundum quam dicimus necesse esse ut ita sit aliquid vel ita fiat, nescio cur eam timeamus, ne nobis libertatem auferat voluntatis». 46 Cf. ibid., 10, 153, p. 141, 52-58: «Proinde non frustra sunt leges obiurgationes exhortationes laudes et vituperationes, quia et ipsas futuras esse praescivit, et valent plurimum, quantum eas valituras esse praescivit, et preces valent ad ea impetranda, quae se precantibus concessurum esse praescivit, et iuste praemia bonis factis et peccatis supplicia constituta sunt».
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del fato, Cicerone dall’altro canto, proprio per difendere giustamente tale arbitrio, giunse sbagliando a negare qualsivoglia piano provvidenziale divino, rinunciando, in ciò, a magnificare l’azione dell’unico, vero legislatore dell’universo. All’origine di tali errori di intepretazione degli avvenimenti storici e umani c’è, per Agostino, una errata prospettiva teologica; l’idea che una cultura ha di Dio e del divino influenza infatti la sua capacità di collocare in un orizzonte di senso gli avvenimenti della sua storia. Per questo, la lettura che il mondo romano fornisce e ha fornito degli eventi che ne hanno caratterizzato lo sviluppo non può che essere, per Agostino, fallimentare da tutti i punti di vista. Nella sua declinazione popolare, narrata da Varrone, essa si lega al culto di entità troppo incostanti e antropomorfe per essere degne di dirsi divine; nella sua prospettiva filosofica senecana e ciceroniana, invece, oscilla tra l’idea che di Dio sia il cieco procedere di un fato anonimo o un problematico ostacolo alla libertà dell’uomo. È dunque necessario, secondo Agostino, un ripensamento complessivo della storia di Roma, riletta ora con lo sguardo teologicamente efficace del Cristianesimo. Nella seconda parte del quinto libro, Agostino offre dunque un excursus sui mores che hanno caratterizzato le vicende di Roma e che, pur non apertamente cristiani, sono risultati graditi a Dio e le hanno permesso di dominare su tutti gli altri popoli47. I più antichi romani amarono ardentemente la gloria e cercarono di raggiungerla attraverso la via della virtù48; questo non li ha certamente resi santi ma soltanto meno deformi (minus turpes)49 nella loro azione: se è infatti migliore la vita che aspira virtuosamente alla gloria che quella che si disperde nel conseguimento delle ricchezze o dei soli onori, ben più nobile è la scelta (dei cristiani) di perseguire la gloria personale per Dio50. Se dunque, per un verso, Dio non ha potuto concedere ai romani la vita eterna,
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Cf. ibid., 12, 154, p. 142, 1-3: «Proinde videamus, quos Romanorum mores et quam ob causam Deus verus ad augendum imperium adiuvare dignatus est, in cuius potestate sunt etiam regna terrena». 48 Cf. ibid., 12, 156, p. 144, 92-97: «Hae sunt illae bonae artes, per virtutem scilicet, non per fallacem ambitionem ad honorem et gloriam et imperium pervenire; quae tamen bonus et ignavus aeque sibi exoptant; sed ille, id est bonus, vera via nititur. Via virtus est, qua nititur tamquam ad possessionis finem, id est ad gloriam honorem imperium». 49 Cf. ibid., 13, 158, pp. 146-147. 50 Cf. ibid., 14, 159, p. 148, 27-31: «Non in ea tamquam in suae virtutis fine quieverunt, sed eam quoque ipsam ad Dei gloriam referentes, cuius gratia tales erant, isto quoque fomite eos, quibus consulebant, ad amorem illius, a quo et ipsi tales fierent, accendebant».
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che viene data soltanto a chi si consorzia nell’esercizio della vera pietas, che consiste nel culto (latreia) dell’unico vero Dio, è indubitabile che Egli ha dato loro la gloria terrena perché, se non lo avesse fatto, non avrebbe reso la giusta ricompensa (merces) alle loro virtutes 51. Una lettura degli avvenimenti storici teologicamente corretta permette dunque di comprendere come ci sia ricompensa divina anche per le azioni che l’uomo compie virtuosamente al di fuori di un perimetro religiosamente ortodosso. Essa è però terrena come le azioni degli uomini che la meritano e si muove nell’orizzonte della città degli uomini, vale a dire della storia; ben altra è, invece, la ricompensa dei santi, tutta interna alla civitas sempiterna, quella celeste. Agostino usa dunque la sua rilettura delle vicende della storia di Roma per mostrare, in positivo e senza damnatio di quella tradizione, la relazione tra le due città: per render chiaro infatti quali potessero essere le ricompense promesse nella città celeste ai santi, Dio ha mostrato agli uomini quali ricompense toccano in sorte agli uomini virtuosi nella città terrena52. La conoscenza delle vicende dell’impero e la loro rilettura in una prospettiva teologicamente corretta deve dunque fungere da momento di ripensamento per la cultura pagana e, ancor di più, da pungolo per i cristiani, che devono essere pronti a replicare, per meritare la gloria celeste, gli sforzi che i romani hanno accettato a maggior gloria della città terrena53. Anche la storia di Roma entra nel complesso ordito della semiotica teologica agostiniana; essa appare come una lunga admonitio, ricompresa nell’azione con la quale Dio governa l’universo con dinamiche occulte: Mario, Cesare, Augusto e Costantino,
51 Cf. ibid., 15, 160, p. 149, 1-7: «Quibus ergo non erat daturus Deus vitam aeternam cum sanctis Angelis suis in sua civitate caelesti, ad cuius societatem pietas vera perducit, quae non exhibet servitutem religionis, quam latreian Graeci vocant, nisi uni vero Deo, si neque hanc eis terrenam gloriam excellentissimi imperii concederet: non redderetur merces bonis artibus eorum, id est virtutibus, quibus ad tantam gloriam pervenire nitebantur». 52 Cf. ibid., 16, 160, p. 149, 9-16: «Proinde non solum ut talis merces talibus hominibus redderetur Romanum imperium ad humanam gloriam dilatatum est; verum etiam ut cives aeternae illius civitatis, quamdiu hic peregrinantur, diligenter et sobrie illa intueantur exempla et videant quanta dilectio debeatur supernae patriae propter vitam aeternam, si tantum a suis civibus terrena dilecta est propter hominum gloriam». 53 Cf. ibid., 18, 165, p. 154, 130-137: «Proinde per illud imperium tam latum tamque diuturnum virorumque tantorum virtutibus praeclarum atque gloriosum et illorum intentioni merces quam quaerebant est reddita, et nobis proposita necessariae commonitionis exempla, ut, si virtutes, quarum istae utcumque sunt similes, quas isti pro civitatis terrenae gloria tenuerunt, pro Dei gloriosissima civitate non tenuerimus, pudore pungamur».
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ma anche il crudele Domiziano o l’apostata Giuliano fanno così parte, alla stregua dei tanti signa dei quali è costellata la storia e il creato, di un solo progetto provvidenziale54 (nel quale spiccano, evidentemente, non solo per virtù personali ma anche come destinatari dei favori divini i christiani imperatores). Dopo aver dimostrato che alla storia della città degli uomini non è né estranea né esterna l’azione di un Dio che, a differenza degli dèi pagani, non si qualifica perché sovrintende a un particolare aspetto della realtà ma proprio perché la governa tutta, tanto nella sua dimensione terrena e storica, quanto (ancor più) in quella futura ed escatologica55, Agostino può ritornare al confronto diretto con i più illustri rappresentanti di quella tradizione e, in particolare, con Varrone56, analizzando in special modo le pagine in cui il grande intellettuale latino tentava una sistematizzazione coerente delle diverse forme di teologia57. La stessa presenza, nell’opera di Varrone, di tre genera theologiae, vale a dire quella fabulosa, quella physica e quella civilis dimostra agli occhi di Agostino, al di là delle specifiche caratteristiche di ciascuna di esse, la fragilità di un sapere religioso così multiformemente declinato nelle pratiche, nelle finalità e negli strumenti. La prima theologia è infatti opera dei poeti, che hanno narrato storie che Varrone stesso non esita a definire mortificanti per la dignità degli dèi (contra dignitatem immortalium); esse dunque non possono che essere invenzioni senza alcun fondamento. Il secondo genere di teologia, quella physica, è quello nel 54
Cf. ibid., 21, 168, p. 137, 7-10: «Ille igitur unus verus Deus, qui nec iudicio nec adiutorio deserit genus humanum, quando voluit et quantum voluit Romanis regnum dedit». 55 Cf. ibid., VI, 1, 2, 176, p. 165, 39-45: «Impudentissimae igitur stultitiae est vitam aeternam a talibus diis petere vel sperare, qui vitae huius aerumnosissimae atque brevissimae et si qua ad eam pertinent adminiculandam atque fulciendam ita singulas particulas tueri asseruntur, ut, si id, quod sub alterius tutela ac potestate est, petatur ab altero, tam sit inconveniens et absurdum, ut mimicae scurrilitati videatur esse simillimum». 56 Cf. ibid., 4, 179, p. 169, 13-16: «Iste ipse Varro propterea se prius de rebus humanis, de divinis autem postea scripsisse testatur, quod prius exstiterint civitates, deinde ab eis haec instituta sint. Vera autem religio non a terrena aliqua civitate instituta est, sed plane caelestem ipsa instituit civitatem. Eam vero inspirat et docet verus Deus, dator vitae aeternae, veris cultoribus suis. Varronis igitur confitentis ideo se prius de rebus humanis scripsisse, postea de divinis, quia divinae istae ab hominibus institutae sunt, haec ratio est: ‘Sicut prior est’, inquit, ‘pictor quam tabula picta, prior faber quam aedificium: ita priores sunt civitates quam ea, quae a civitatibus instituta sunt’. Cf. Marco Terenzio Varrone, Antiquitates rerum divinarum cit., fr. 5. 57 Cf. P. C. Burns, Augustine’s Use of Varro’s Antiquitates Rerum Divinarum in his De Civitate Dei, in «Augustian Studies», 32 (2001), pp. 37-64.
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quale si impegnano i filosofi, che cercano di descrivere e definire natura, prerogative e collocazione degli dèi; le loro teorie non appaiono a Varrone adatte alla massa ma all’ambito ristretto dell’insegnamento nelle scuole (intra parietes in schola)58. Il terzo genere di teologia vive invece nelle città e, nel suo ambito, è compito dei sacerdotes stabilire quali siano le divinità da onorare. Agostino non esita ad evidenziare le incongruenze di tale distinzione varroniana; gli dèi che vengono raccontati dalle favole abusive dei poeti, che Varrone ha denunciato, sono infatti gli stessi che la teologia civilis prescrive ai cittadini di adorare. Mentre infatti gli dèi dei filosofi hanno un qualche fondamento razionale, esso manca completamente a quelli che i poeti inventano e fanno rappresentare nei teatri e che le città venerano. Poiché dunque anche i primi vivono di racconti e rappresentazioni sociali, la teologia mitica può esser considerata una parte di quella civile, che a sua volta può essere ripensata come teologia artificiale, in contrapposizione a quella dei filosofi59. Se dunque Varrone, come altri doctissimi del suo tempo, non ha voluto accomunare nella condanna la teologia poetica e quella civile non è perché non si fosse avveduto di quanto esse fossero strettamente connesse e, dunque, entrambe parimenti biasimevoli ma perché ebbe perfettamente consapevolezza del fatto che, proprio in virtù della loro connessione, evidenziarne l’intima connessione avrebbe messo in pericolo la tenuta stessa di Roma nei suoi fondamenti religiosi60. Teologia mitica e teologia civile non possono dunque essere considerate separatamente, perché la seconda fonda l’identità civile sugli stessi dèi che la prima descrive e racconta; la teologia naturale, invece, afferma con forza che il kosmos è come l’uomo, composto cioè da una parte materiale e da una spirituale, e che quella spirituale è Dio61. Emerge ancora una volta, nel confronto diretto con Varrone, la strategia argomentativa di Agostino: mostrare la distanza tra una teologia filosofica, che cioè tenta di inseguire Dio nella misura in cui Egli
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Cf. De civitate Dei, 5, 180-182, pp. 170-172. Cf. ibid., 6, 182-183, p. 173, 21-26: «Quanto liberius subtiliusque ista divideres, dicens alios esse deos naturales, alios ab hominibus institutos, sed de institutis aliud habere litteras poetarum, aliud sacerdotum, utrasque tamen ita esse inter se amicas consortio falsitatis, ut gratae sint utraeque daemonibus, quibus doctrina inimica est veritatis!». 60 Cf. ibid., VII, 4, 197, p. 189, 5-10: «Ridemus quidem, cum eos videmus figmentis humanarum opinionum partitis inter se operibus distributos, tamquam minuscularios vectigalium conductores vel tamquam opifices in vico argentario, ubi unum vasculum, ut perfectum exeat, per multos artifices transit, cum ab uno perfecto perfici posset». 61 Cf. ibid., 6, 199, p. 191. 59
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è almeno parzialmente intuibile, e una teologia mitica che, figlia delle invenzioni dei poeti, innerva la vita civile e trova solo lì il suo senso. È infatti proprio nello spazio di tale separazione che Agostino individua il vero limite del sapere teologico pagano e, per diretta conseguenza, della sua lettura degli avvenimenti storici. Un culto solo esteriore, poetico, civile che non abbia alcun fondamento razionale e pensato conduce a una adesione di fede soltanto apparente, superficiale, utile ai vantaggi della compagine istituzionale e non alla salvezza. Proprio per dare valore a questa sua accusa, Agostino indica ai suoi lettori un controesempio virtuoso, un segmento cioè della teologia pagana che ha seguito una linea differente: è la speculazione platonica62, che ha almeno tentato di costruire un discorso (sermo) e un ragionamento (ratio) de divinitate e di Dio ha affermato che ha fatto il mondo e l’anima dell’uomo e che è la mèta ultima della aspirazione umana alla verità. Per collocare la riflessione di Platone nel contesto culturale del suo tempo e mostrare così quanto essa si fosse distinta rispetto alla tradizione filosofica che l’aveva preceduta, Agostino dedica diverse pagine a un excursus storiografico sulle scuole greche63. Esse vengono distinte dalla tradizione in due tronconi: quelle italiche, nate in Magna Grecia dal magistero di Pitagora, e quelle ioniche, inaugurate da Tale62
Cf. ibid., VIII, 1, 225, pp. 216-217, 17-39: «Neque enim hoc opere omnes omnium philosophorum vanas opiniones refutare suscepi, sed eas tantum, quae ad theologian pertinent, quo verbo Graeco significari intellegimus de divinitate rationem sive sermonem; nec eas omnium, sed eorum tantum, qui cum et esse divinitatem et humana curare consentiant, non tamen sufficere unius incommutabilis Dei cultum ad vitam adipiscendam etiam post mortem beatam, sed multos ab illo sane uno conditos atque institutos ob eam causam colendos putant. Hi iam etiam Varronis opinionem veritatis propinquitate transcendunt; si quidem ille totam theologian naturalem usque ad mundum istum vel animam eius extendere potuit, isti vero supra omnem animae naturam confitentur Deum, qui non solum mundum istum visibilem, qui saepe caeli et terrae nomine nuncupatur, sed etiam omnem omnino animam fecerit, et qui rationalem et intellectualem, cuius generis anima humana est, participatione sui luminis incommutabilis et incorporei beatam facit. Hos philosophos Platonicos appellatos a Platone doctore vocabulo derivato nullus, qui haec vel tenuiter audivit, ignorat. De hoc igitur Platone, quae necessaria praesenti quaestioni existimo, breviter attingam, prius ills commemorans, qui eum in eodem genere litterarum tempore praecesserunt». 63 Le fonti sulle quali si basa Agostino sono dossografiche, tratte certamente dai suoi studi giovanili e dalle letture del libro V delle Tusculanae disputationes e del primo libro del De natura deorum. Per una ricostruzione della tradizione manualistica cui probabilmente fa riferimento Agostino, cf. H.-I. Marrou, Saint Augustin et la fin de la culture antique, Paris 1938; P. Courcelle, Les lettres grecques en Occident de Macrobe à Cassiodore, Paris 1943, pp. 179-181; A. Solignac, Doxographies et manuels dans la formation philosophique de saint Augustin, in «Recherches augustiniennes», 1 (1958), pp. 113-148.
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te. Quest’ultimo, in particolare, per primo indagò la natura delle cose (rerum natura) e, pur cercando di individuarne il principio, non fu capace di giungere all’intuizione dell’esistenza di una mente divina, e come lui fecero il suo discepolo Anassimandro e il discepolo di questi Anassimene. Furono solo Anassagora e, dopo di lui, Diogene e Archelao (maestro di Socrate) ad affermare che le parti di cui è composta la materia sono governate da una mente divina. Le parole che Agostino dedica a Socrate ne delineano con sorprendente e sintetica efficacia il profilo. Il maestro ateniese, distinguendosi dall’approccio ‘fisico’ dei suoi predecessori, fu profondamente convinto della necessità che il filosofo avesse una mente libera (mundata mens) gnoseologicamente dalle tare delle res obscurae del sensibile e moralmente dalle passioni del corpo; per questo egli stimolava il suo uditorio, dissimulando ignoranza, per spingerlo a una vera e propria purificazione intellettuale. Proprio questo atteggiamento, conclude Agostino quasi facendo riferimento a una sorta di ‘martirio laico’, gli valse la condanna, il processo e la morte, che però non ne interruppe il magistero, sviluppato in direzioni diverse (proprio a causa della intrinseca apertura aporetica della sua indagine) dai suoi discepoli64. Tra tutti, Platone appare nelle parole di Agostino come il punto di sintesi più luminoso dell’intera tradizione filosofica classica. Discepolo di Socrate ma avido di conoscenze, Platone toccò nei suoi viaggi l’Egitto e l’Italia, formandosi tanto alla sapienza orientale quanto a quella italica e raccogliendo così, nel suo magistero, l’afflato morale della speculazione socratica e quello ‘teoretico’ della riflessione pitagorica, applicando a entrambe le regole dialettiche che rendono efficace l’uso della ragione65. Platone è dunque, proprio in questo esercizio tripartito, il pensatore la cui dottrina sintetizza e racchiude tutte le altre, capace di confrontarsi con il problema teologico con tanto acume da riuscire a costuire un sistema nel quale, accanto a teorie apertamente contrarie al sentire religioso cristiano, si ritrovano invece dottrine invece pienamente coerenti con la vera religio 66. Platone e i suoi discepoli sono dunque, per Agostino,
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Cf. De civitate Dei, VIII, 3, 226-227, pp. 218-219. Cf. ibid., 4, 228, p. 220, 22-28: «Socrates in activa excelluisse memoratur; Pythagoras vero magis contemplativae, quibus potuit intellegentiae viribus, institisse. Proinde Plato utrumque iungendo philosophiam perfecisse laudatur, quam in tres partes distribuit: unam moralem, quae maxime in actione versatur; alteram naturalem, quae contemplationi deputata est; tertiam rationalem, qua verum disterminatur a falso». 66 Cf. ibid., 228, p. 220, 43-50: «Ex his tamen, quae apud eum leguntur, sive quae dixit, sive quae ab aliis dicta esse narravit atque conscripsit, quae sibi 65
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il modello di cosa avrebbe dovuto essere la filosofia pagana, certamente capace, se avesse voluto, di giungere alle stesse conclusioni dei platonici e affermare che lo scopo della vita del sapiente è tentare di giungere a un Dio67 che abita la trascendenza e che è il solo del quale è possibile predicare in modo efficace la condizione dell’essere, perché unico ente immutabile68. Questa intuizione, che indica nel movimento di ricongiungimento a Dio il compito del filosofo, produce, nella interpretazione complessiva che Agostino fornisce del sistema platonico, una ben precisa teoria gnoseologica (che separa nettamente la species intellegibilis dal sensibile, e individua nell’intuizione della prima l’unica forma di conoscenza affidabile69) e una altrettanto definita prospettiva morale (vale a dire il vivere secundum virtutem e tendere a Dio come mèta della propria ricerca)70.
placita viderentur, quaedam commemorari et operi huic inseri oportet a nobis, vel ubi suffragatur religioni verae, quam fides nostra suscepit ac defendit, vel ubi ei videtur esse contrarius, quantum ad istam de uno Deo et pluribus pertinet quaestionem, propter vitam, quae post mortem futura est, veraciter beatam». 67 Cf. ibid., 5, 229, p. 221, 1-4: «Si ergo Plato Dei huius imitatorem cognitorem amatorem dixit esse sapientem, cuius participatione sit beatus, quid opus est excutere ceteros? Nulli nobis quam isti propius accesserunt». 68 Cf. ibid., 6, 231, pp. 222-223, 1-9: «Viderunt ergo isti philosophi, quos ceteris non immerito fama atque gloria praelatos videmus, nullum corpus esse Deum, et ideo cuncta corpora transcenderunt quaerentes Deum. Viderunt, quidquid mutabile est, non esse summum Deum, et ideo animam omnem mutabilesque omnes spiritus transcenderunt quaerentes summum Deum. Deinde viderunt omnem speciem in re quacumque mutabili, qua est, quidquid illud est, quoquo modo et qualiscumque natura est, non esse posse nisi ab illo, qui vere est, quia incommutabiliter est». 69 Cf. ibid., 7, 232, p. 224, 15-20 : «Hi [scil. i Platonici] vero, quos merito ceteris anteponimus, discreverunt ea, quae mente conspiciuntur, ab his, quae sensibus attinguntur, nec sensibus adimentes quod possunt, nec eis dantes ultra quam possunt. Lumen autem mentium esse dixerunt ad discenda omnia eundem ipsum Deum, a quo facta sunt omnia». 70 Cf. ibid., 8, 233, p. 225, 33-49: «Nunc satis sit commemorare Platonem determinasse finem boni esse secundum virtutem vivere et ei soli evenire posse, qui notitiam Dei habeat et imitationem nec esse aliam ob causam beatum; ideoque non dubitat hoc esse philosophari, amare Deum, cuius natura sit incorporalis. Unde utique colligitur tunc fore beatum studiosum sapientiae (id enim est philosophus), cum frui Deo coeperit. Quamvis enim non continuo beatus sit, qui eo fruitur quod amat (multi enim amando ea, quae amanda non sunt, miseri sunt et miseriores cum fruuntur): nemo tamen beatus est, qui eo quod amat non fruitur. Nam et ipsi, qui res non amandas amant, non se beatos putant amando, sed fruendo. Quisquis ergo fruitur eo, quod amat, verumque et summum bonum amat, quis eum beatum nisi miserrimus negat? Ipsum autem verum ac summum bonum Plato dicit Deum, unde vult esse philosophum amatorem Dei, ut, quoniam philosophia ad beatam vitam tendit, fruens Deo sit beatus qui Deum amaverit».
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Evidenziare in queste pagine del De civitate Dei l’esistenza di un sistema speculativo pagano capace di giungere autonomamente, vale a dire prima della Rivelazione, a conclusioni così vicine a quelle poi fatte proprie dal Cristianesimo non significa per Agostino soltanto individuare, in una tradizione intellettualmente così raffinata, dei nobili antecedenti ma soprattutto riaffermare la possibilità stessa di pensare in termini anche razionali il dato di fede e, ancora una volta, ribadire la naturalità per l’uomo del quaerere. La potenza speculativa dei platonici risulta infatti per Agostino pienamente funzionale a riaffermare – sulla stessa linea già difesa, non a caso, nel Contra Academicos – la liceità di uno sforzo filosofico che, anche tra i cristiani, è ammissibile non in quanto figlio della fascinazione per la cultura pagana ma, ben più profondamente, perché perfettamente consentaneo con la natura cercante propria di ogni uomo, a prescindere dalla sua collocazione temporale, contestuale e intellettuale. Agostino ritrova dunque in Platone il medesimo orizzonte che Paolo delinea in Rm 1, 19-20 (la possibilità di risalire, dall’indagine degli effetti visibili dell’azione di Dio, alle sue perfezioni invisibili) e che, nel discorso all’Areopago riportato negli Atti, lo induce a ricordare agli Ateniesi il comune afflato all’intuizione del divino che li accomuna a lui; ma è anche, al contempo, l’ammonimento di Col 7, 9 a diffidare di quella filosofia che procede secundum elementa mundi, vale a dire quella che riflette solo sulla natura senza un orizzonte di trascendenza. Platone è dunque, riletto alla luce di questa prospettiva paolina, l’esempio perfetto dell’azione filosofica; interamente proiettato a superare il sensibile per rivolgersi al trascendente (come Paolo indicava ai Colossesi), il platonismo neoplatonizzante descritto da Agostino è esattamente lo sforzo di risalire, attraverso l’intelligenza della struttura ordinata del reale, dagli effetti all’unica causa (come raccomandato nella Epistola ai Romani)71. È dunque paradossalmente di poca importanza, per Agostino, l’ipotesi che Platone, nelle sue peregrinazioni, sia venuto in contatto con i personaggi o quantomeno con il messaggio dell’Antico Testamento; il legame che unisce platonismo e cristianesimo, infatti, non si fonda sull’eventualità che il primo si sia abbeverato alla fonte del secondo ma, ben più significativamente, sul desiderio di entrambi di puntare al vero, l’uno con gli strumenti ‘autonomi’ della razionalità, l’altro ‘spinto’ dalle admonitiones contenute nelle Scritture, nello specifico nella loro declinazione paolina. Nel quadro di questa generale magnificazione del pensiero platonico acquisiscono ancor più rilievo le critiche che Agostino muove 71
Cf. ibid., 10, 234, pp. 226-227.
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alla demonologia e alla angelologia degli eredi di Platone in una lunga sezione dell’opera che occupa la parte conclusiva del libro ottavo e, per intero, i libri IX e X. Agostino analizza con particolare attenzione, in queste pagine, le opinioni espresse dal platonico Apuleio sui demoni, esseri che il filosofo descrive come intermedi tra gli dèi (che vivono felici in una condizione di immutabilità) e gli uomini. Proprio perché la stabilità ontologica degli dèi non è in alcun modo scalfibile, Apuleio afferma che tutto ciò che di antropomorfo si racconta di loro è in effetti da attribuirsi ai demoni. Così, nel descrivere la volontà di Minerva di favorire i Greci contro i Troiani, Omero avrebbe inopportunamente attribuito tale azione alla dea che, in quanto tale, non può avere inclinazioni o mutazioni; le entità che, in momenti diversi, hanno favorito questo o quello schieramento furono invece solo demoni translativamente indicati, dal poeta, con il nome di dèi72. In virtù della loro posizione mediana e della attitudine a mutare, i demoni vengono descritti da Apuleio come intermediari (mediatores) tra gli uomini e gli dèi, pur non avendo – evidenzia Agostino – caratteristiche tali per svolgere tale ruolo73; la mediazione è infatti possibile soltanto quando chi è al centro ha caratteristiche parzialmente comuni con entrambi gli estremi e, in ciò, li sintetizza. È dunque Cristo l’unico vero mediatore, perché è al contempo mortale ed eterno, transeunte e permanente74 e in ciò partecipe del divino e dell’umano. Se il fine della religione è riportare l’uomo a Dio75, nessun culto può essere attribuito a entità intermedie76 72
Cf. ibid., IX, 7, 262, pp. 255-256, 21-31: «Quod ergo Minerva illa fuerit, poeticum vult esse figmentum, eo quod Minervam deam putat eamque inter deos, quos omnes bonos beatosque credit, in alta aetheria sede collocat, procul a conversatione mortalium; quod autem, aliquis daemon fuerit Graecis favens Troianisque contrarius, sicut alius adversus Graecos Troianorum opitulator, quem Veneris seu Martis nomine idem poeta commemorat, quos deos iste talia non agentes in habitationibus caelestibus ponit, et hi daemones pro eis, quos amabant, contra eos, quos oderant, inter se decertaverint: hoc non procul a veritate poetas dixisse confessus est». 73 Cf. ibid., 9-14, 264-268, pp. 257-262. 74 Cf. ibid., 15, 268, p. 262, 7-16: «Mortalis quippe factus est non infirmata Verbi divinitate, sed carnis infirmitate suscepta; non autem permansit in ipsa carne mortalis, quam resuscitavit a mortuis; quoniam ipse est fructus mediationis eius, ut nec ipsi, propter quos liberandos mediator effectus est, in perpetua vel carnis morte remanerent. Proinde mediatorem inter nos et Deum et mortalitatem habere oportuit transeuntem et beatitudinem permanentem, ut per id, quod transit, congrueret morituris, et ad id, quod permanet, transferret ex mortuis». 75 Cf. supra, p. 86. 76 Cf. De civitate Dei, X, 3, 281, p. 276, 47-53: «Hic est Dei cultus, haec vera religio, haec recta pietas, haec tantum Deo debita servitus. Quaecumque igitur immortalis potestas quantalibet virtute praedita si nos diligit sicut se ipsam, ei vult
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né hanno senso i sacrifici esteriori, non finalizzati cioè a una autentica sancta societas con Dio77. Agostino, nei libri che costituiscono la prima parte del De civitate Dei, ha inizialmente tentato di dimostrare, razionalmente, che le divinità pagane non rientrano, in virtù del loro disinteresse per gli uomini, in ciò che può essere opportunamente detto ‘Dio’ e poi, dedicandosi nello specifico ai culti della tradizione romana, ha mostrato come essi, privi di uno stabile fondamento filosofico (tanto nella narrazione ‘antiquaria’ di Varrone quanto nelle ipotesi speculative di Seneca e Cicerone), restano soltanto esteriori. Il vero afflato teologico, testimoniato da Platone, è invece quello che aspira a ricongiungersi con la trascendenza risalendo dal mondo dei signa immanenti come da una scala, soprattutto grazie all’azione di quel mediator capace di essere protagonista del sacrificio come soggetto operante (in quanto incarnatosi e morto come uomo) ma anche come suo destinatario (in quanto Dio, mèta soteriologica)78. Piuttosto che a un attacco completo e senza distinzioni a tutta la tradizione pagana, Agostino preferisce dunque disegnare, al suo interno, un perimetro intellettualmente virtuoso, che coincide con il pensiero di Platone, capace, a suo dire, di giungere da solo alla intuizione della necessità filosofica del monoteismo e della fuga del sapiente verso la trascendenza. Evidenziare infatti i meriti del platonismo come filosofia potenzialmente affidabile permette infatti ad Agostino di distinguerla, senza banalmente stigmatizzarla, dalla filosofia vera che non può che coincidere con la dottrina che, sola, fornisce la via universale di liberazione dell’anima («universalis via animae liberandae»)79. È
esse subditos, ut beati simus, cui et ipsa subdita beata est. Si ergo non colit Deum, misera est, quia privatur Deo; si autem colit Deum, non vult se coli pro Deo». 77 Cf. ibid., 6, 283, p. 278, 1-5: «Proinde verum sacrificium est omne opus, quo agitur, ut sancta societate inhaereamus Deo, relatum scilicet ad illum finem boni, quo veraciter beati esse possimus. Unde et ipsa misericordia, qua homini subvenitur, si non propter Deum fit, non est sacrificium». 78 Cf. ibid., 20, 298, p. 294, 1-7: «Unde verus ille mediator, in quantum formam servi accipiens mediator effectus est Dei et hominum, homo Christus Iesus, cum in forma Dei sacrificium cum Patre sumat, cum quo et unus Deus est, tamen in forma servi sacrificium maluit esse quam sumere, ne vel hac occasione quisquam existimaret cuilibet sacrificandum esse creaturae. Per hoc et sacerdos est, ipse offerens, ipse et oblatio». 79 Cf. ibid., 32, 312, p. 309, 1-2: «Haec est religio, quae universalem continet viam animae liberandae, quoniam nulla nisi hac liberari potest». Agostino afferma che lo stesso Porfirio ebbe consapevolezza del fatto che la sua filosofia non poteva dirsi verissima perché incapace di individuare proprio quella via di liberazione dell’anima; cf. ibid., 312-313, pp. 309-310, 5-21: «Cum autem dicit
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proprio grazie a tale confronto a tre tra la virtuosa aspirazione platonica al trascendente, la falsa funzione mediatrice dei demoni apuleiani (che a quel magistero erroneamente si ispiravano) e la genuina azione rilegante del Cristo che Agostino inaugura la sezione del De civitate Dei dedicata a descrivere l’azione ‘storica’ della vera religio che, appunto, opera concretamente e efficacemente nel tempo degli uomini80.
3. Il governo invisibile di Dio (libri XI-XVIII) Nelle righe finali del libro decimo Agostino ricorda al lettore che, con quelle pagine, si conclude la prima parte dell’opera, dedicata a mostrare quanto il culto degli dèi sia inutile tanto per la vita terrena quanto per quella post mortem 81. Nelle prime pagine del libro undicesimo, che apre la seconda parte del De civitate Dei, Agostino riepiloga velocemente i contenuti della prima parte, disegna il progetto dei libri successivi ma, soprattutto, riconnette la sua riflessione sul senso della presenza, nella storia, delle due città, quella degli uomini e quella di Dio, al più complesso ordito del suo sistema speculativo82. L’uomo coglie Dio soltanto in virtù del fatto che la sua mens può potenzialmente intuirne la verità83; poiché però la mente umana è ob-
Porphyrius in primo iuxta finem De regressu animae libro nondum receptum in unam quamdam sectam, quod universalem contineat viam animae liberandae, vel a philosophia verissima aliqua vel ab Indorum moribus ac disciplina, aut inductione Chaldaeorum aut alia qualibet via, nondumque in suam notitiam eamdem viam historiali cognitione perlatam: procul dubio confitetur esse aliquam, sed nondum in suam venisse notitiam. Ita ei non sufficiebat quidquid de anima liberanda studiosissime didicerat sibique vel potius aliis nosse ac tenere videbatur. Sentiebat enim adhuc sibi deesse aliquam praestantissimam auctoritatem, quam de re tanta sequi oporteret. Cum autem dicit vel a philosophia verissima aliqua nondum in suam notitiam pervenisse sectam, quae universalem contineat viam animae liberandae: satis, quantum arbitror, ostendit vel eam philosophiam, in qua ipse philosophatus est, non esse verissimam, vel ea non contineri talem viam». 80 Cf. ibid., 29, 307, p. 304, 9-11: «Itaque videtis utcumque, etsi de longinquo, etsi acie caligante, patriam in qua manendum est, sed viam qua eundum est non tenetis». 81 Cf. ibid., 32, 312-316, pp. 309-314. 82 Cf. ibid., XI, 2, 317, p. 322, 1-5: «Magnum est et admodum rarum universam creaturam corpoream et incorpoream consideratam compertamque mutabilem intentione mentis excedere, atque ad incommutabilem Dei substantiam pervenire, et illic discere ex ipso, quod cunctam naturam, quae non est quod ipse, non fecit nisi ipse». 83 Cf. ibid., 317-318, p. 322, 5-16: «Sic enim Deus cum homine non per aliquam creaturam loquitur corporalem, corporalibus instrepens auribus, ut inter
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nubilata dalle incertezze della vita sensibile, ha avuto bisogno della fede, fondata sull’incarnazione del mediatore, per dirigersi a quella veritas cui può aspirare84. In un articolato esamerone, Agostino riprende con forza l’idea della creazione come piano complessivamente ordinato di Dio, dal quale non sfuggono né gli angeli, creature di luce e primi abitanti della città di Dio85, né tantomeno le creature decadute, come il diavolo, la cui condanna è comunque funzionale all’esercizio di una armonia complessiva86. Non è dunque – ribadisce nuovamente contro i Manichei Agostino – un principio malvagio a produrre il male nel mondo, ma è Dio che, da supremo ordinatore, contempera nella sua creazione luci e ombre87. Riprendendo il lessico già utilizzato nel De beata vita e nel De ordine, Agostino afferma che tutte le naturae, nella misura in cui sono e hanno una forma (species) loro propria, sono sonantem et audientem aeria spatia verberentur, neque per eius modi spiritalem, quae corporum similitudinibus figuratur, sicut in somnis vel quo alio tali modo; nam et sic velut corporis auribus loquitur, quia velut per corpus loquitur et velut interposito corporalium locorum intervallo; multum enim similia sunt talia visa corporibus; sed loquitur ipsa veritate, si quis sit idoneus ad audiendum mente, non corpore. Ad illud enim hominis ita loquitur, quod in homine ceteris, quibus homo constat, est melius, et quo ipse Deus solus est melior». 84 Cf. ibid., 318, p. 322, 20-29: «Sed quia ipsa mens, cui ratio et intellegentia naturaliter inest, vitiis quibusdam tenebrosis et veteribus invalida est, non solum ad inhaerendum fruendo, verum etiam ad perferendum incommutabile lumen, donec de die in diem renovata atque sanata fiat tantae felicitatis capax, fide primum fuerat imbuenda atque purganda. In qua ut fidentius ambularet ad veritatem, ipsa veritas, Deus Dei Filius, homine adsumpto, non Deo consumpto, eamdem constituit et fundavit fidem, ut ad hominis Deum iter esset homini per hominem Deum». 85 Cf. ibid., 9, 323, p. 328, 1-5: «Nunc, quoniam de sanctae civitatis exortu dicere institui, et prius quod ad sanctos angelos adtinet dicendum putavi, quae huius civitatis et magna pars est, et eo beatior, quod numquam peregrinata, quae hinc divina testimonia suppetant, quantum satis videbitur, Deo largiente, explicare curabo». 86 Cf. ibid., 18, 332, p. 337, 1-5: «Neque enim Deus ullum, non dico angelorum, sed vel hominum crearet, quem malum futurum esse praescisset, nisi pariter nosset quibus eos bonorum usibus commodaret atque ita ordinem saeculorum tamquam pulcherrimum carmen etiam ex quibusdam quasi antithetis honestaret». 87 Cf. ibid., 22, 335, pp. 340-341, 17-21: «Unde nos admonet divina providentia non res insipienter vituperare, sed utilitatem rerum diligenter inquirere, et ubi nostrum ingenium vel infirmitas deficit, ita credere occultam, sicut erant quaedam, quae vix potuimus invenire»; ibid., XII, 4, 352, p. 358, 13-20: «Cuius ordinis decus nos propterea non delectat, quoniam parti eius pro condicione nostrae mortalitatis intexti universum, cui particulae, quae nos offendunt, satis apte decenterque conveniunt, sentire non possumus. Unde nobis, in quibus eam contemplari minus idonei sumus, rectissime credenda praecipitur providentia Conditoris, ne tanti artificis opus in aliquo reprehendere vanitate humanae temeritatis audeamus».
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buone88 e che il male, di conseguenza, non può che coincidere con una perdita di essere e di forma89. Come già chiarito nel commento al Genesi e ai testi giovannei, Dio non sovrintende solo alla creazione di tutte le nature ma anche al succedersi nel tempo di eventi ordinati cronologicamente (i ‘giorni’ della creazione) con un disegno che è stabile e fisso90. Dio è dunque origine e luogo di svolgimento della storia, in un movimento che è al contempo eterno nella progettazione provvidenziale e temporale nel suo dispiegarsi terreno91. Nell’economia più generale del creato rientra ogni cosa, compresi i due avvenimenti ierostorici che hanno caratterizzato il destino dell’uomo: il peccato in Adamo e l’incarnazione di Cristo. Se infatti la caduta dei progenitori ha dato operativamente avvio al percorso storico postedenico e dispersivo dell’umanità, ha cioè proiettato l’uomo in una condizione temporale, nella quale la sua vita si sviluppa nella costante presenza del sentimento della morte92, tale orizzontalità si è declinata poi, in virtù della incarnazione di Cristo, in una logica unidirezionale che 88 Cf. ibid., 5, 352, p. 359, 1-3: «Naturae igitur omnes, quoniam sunt et ideo habent modum suum, speciem suam et quamdam secum pacem suam, profecto bonae sunt». 89 Cf. ibid., 7, 355, p. 362, 1-14: «Nemo igitur quaerat efficientem causam malae voluntatis; non enim est efficiens, sed deficiens, quia nec illa effectio sed defectio. Deficere namque ab eo, quod summe est, ad id, quod minus est, hoc est incipere habere voluntatem malam. Causas porro defectionum istarum, cum efficientes non sint, ut dixi, sed deficientes, velle invenire tale est, ac si quisquam velit videre tenebras vel audire silentium, quod tamen utrumque nobis notum est, neque illud nisi per oculos, neque hoc nisi per aures, non sane in specie, sed in speciei privatione. Nemo ergo ex me scire quaerat, quod me nescire scio, nisi forte ut nescire discat, quod sciri non posse sciendum est. Ea quippe quae non in specie, sed in eius privatione sciuntur, si dici aut intellegi potest, quodam modo nesciendo sciuntur, ut sciendo nesciantur». 90 Cf. ibid., 362, p. 370, 27-29: «Valde quippe altum est et semper fuisse, et hominem, quem numquam fecerat, ex aliquo tempore primum facere voluisse, nec consilium voluntatemque mutasse». 91 Cf. ibid., 15, 362, p. 369, 1-13: «Quid autem mirum est, si in his circuitibus errantes nec aditum nec exitum inveniunt? quia genus humanum atque ista nostra mortalitas nec quo initio coepta sit sciunt, nec quo fine claudatur; quando quidem altitudinem Dei penetrare non possunt, qua, cum ipse sit aeternus et sine initio, ab aliquo tamen initio exorsus est tempora et hominem, quem numquam antea fecerat, fecit in tempore, non tamen novo et repentino, sed immutabili aeternoque consilio. Quis hanc valeat altitudinem investigabilem vestigare et inscrutabilem perscrutari, secundum quam Deus hominem temporalem, ante quem nemo umquam hominum fuit, non mutabili voluntate in tempore condidit et genus humanum ex uno multiplicavit?». 92 Cf. ibid., XIII, 10, 383, p. 392, 7-12: «Quidquid temporis vivitur, de spatio vivendi demitur, et cotidie fit minus minusque quod restat, ut omnino nihil sit aliud tempus vitae huius, quam cursus ad mortem, in quo nemo vel paululum sta-
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orienta il procedere storico verso la fine dei tempi. Questi due avvenimenti sono, di fatto, l’atto fondativo delle due città, quella che vive secondo la carne e quella che invece procede secondo lo spirito93. È questa la cornice nella quale (Agostino lo ribadisce nuovamente con una insistenza che manifesta quanto l’idea sia per lui centrale) tutto l’iter dell’umanità va inserito; una cornice che, a sua volta, mai sfugge al controllo provvidenziale di Dio che si conferma, nelle parole di Agostino, come sovradeterminato rispetto alle esistenze dei singoli e al complessivo piano di funzionamento del reale e dell’umanità che lo abita. Non è dunque un caso che anche in queste pagine Agostino ribadisca – con una precisione raramente riscontrabile in altri testi – la drammatica correlazione tra la potenza dello sguardo pre-vidente di Dio e la radicalità dell’errore di Adamo. Non c’è azione umana che possa scalfire il progetto divino94. Ciò significa affermare che Dio sapeva che l’uomo avrebbe peccato perché tale errore, frutto del libero esercizio della volontà donata al primo uomo, era anch’esso preconosciuto da Dio proprio in quanto esercizio libero95. Ma ciò che vale per Adamo, vale per tutta l’umanità perché la storia è sempre, in Agostino, il teatro di una azione libera ma non per questo sottratta allo sguardo e al progetto di Dio. Nel disegno complessivo del De civi-
re vel aliquanto tardius ire permittitur; sed urgentur omnes pari motu nec diverso impelluntur accessu». 93 Cf. ibid., XIV, 1, 403, p. 414, 12-21: «Ac per hoc factum est, ut, cum tot tantaeque gentes per terrarum orbem diversis ritibus moribusque viventes multiplici linguarum armorum vestium sint varietate distinctae, non tamen amplius quam duo quaedam genera humanae societatis existerent, quas civitates duas secundum Scripturas nostras merito appellare possemus. Una quippe est hominum secundum carnem, altera secundum spiritum vivere in sui cuiusque generis pace volentium et, cum id quod expetunt assequuntur, in sui cuiusque generis pace viventium». 94 Cf. ibid., 11, 418, p. 431, 1-10: «Sed quia Deus cuncta praescivit et ideo quoque hominem peccaturum ignorare non potuit: secundum id, quod praescivit atque disposuit, civitatem sanctam debemus asserere, non secundum illud, quod in nostram cognitionem pervenire non potuit, quia in Dei dispositione non fuit. Neque enim homo peccato suo divinum potuit perturbare consilium, quasi Deum quod statuerat mutare compulerit; cum Deus praesciendo utrumque praevenerit, id est, et homo, quem bonum ipse creavit, quam malus esset futurus, et quid boni etiam sic de illo esset ipse facturus». 95 Cf. ibid., 418, p. 431, 14-21: «Fecit itaque Deus, sicut scriptum est, hominem rectum ac per hoc voluntatis bonae. Non enim rectus esset bonam non habens voluntatem. Bona igitur voluntas opus est Dei; cum ea quippe ab illo factus est homo. Mala vero voluntas prima, quoniam omnia opera mala praecessit in homine, defectus potius fuit quidam ab opere Dei ad sua opera quam opus ullum, et ideo mala opera, quia secundum se, non secundum Deum».
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tate Dei di fornire agli uomini una nuova chiave di lettura della storia e dei suoi movimenti, questa consapevolezza della presenza costante e ‘panottica’ di Dio conduce alla costruzione di una vera e propria fenomenologia del divino, in cui non solo gli avvenimenti particolari delle vicende di Roma vengono ricompresi in uno sguardo cristianamente orientato ma viene illustrata la dinamica stessa che regola ab initio la convivenza tra gli uomini, in quello che è forse il più ampio sforzo profuso da Agostino per descrivere l’intera vicenda umana come luogo della manifestazione dei signa divini. A partire da questa premessa, Agostino ricostruisce (nei libri XVXVIII) la vita delle due città, quella degli uomini e quella di Dio, muovendo dalle vicende dei patriarchi, e mostrando come, di volta in volta, nella storia sacra, i rappresentanti delle due comunità si trovino sempre a confronto. Così, la descrizione del tempo storico che, da Adamo (in cui ogni uomo è malus e carnalis) giunge a Cristo (che permette all’uomo di divenire bonus e spiritalis) diviene modello e schema della dialettica che in ogni tempo, anche in quello precedente l’Incarnazione, divide gli uomini appartenenti ai due insiemi. Il percorso (excursus)96 che, infatti, nella storia ha permesso all’uomo, malus in Adamo, di diventare bonus in Cristo, affonda le sue radici nella natura stessa dell’essere umano che, sempre, nasce civis della sola città terrena e poi, successivamente, in virtù della grazia divina, può diventare cittadino di quella celeste97. Se dunque non tutti i cattivi diventano buoni, d’altra parte non c’è buono che non sia stato precedentemente cattivo prima di essere salvato in virtù dell’opera della mano di Dio, plasmatore (figulus) dell’uomo e della storia. In tal senso, Caino e Abele simboleggiano perfettamente, prima ancora dell’incarnazione di Cristo, la dinamica che mette in relazione le due comunità98. A
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Cf. ibid., XV, 1, 438, pp. 453-454. Cf. ibid., 437, pp. 453-454, 33-46: «Unusquisque, quoniam ex damnata propagine exoritur, primo sit necesse est ex Adam malus atque carnalis; quod si in Christum renascendo profecerit, post erit bonus et spiritalis: sic in universo genere humano, cum primum duae istae coeperunt nascendo atque moriendo procurrere civitates, prior est natus civis huius saeculi, posterius autem isto peregrinus in saeculo et pertinens ad civitatem Dei, gratia praedestinatus, gratia electus, gratia peregrinus deorsum, gratia civis sursum. Nam quantum ad ipsum attinet, ex eadem massa oritur, quae originaliter est tota damnata; sed tamquam figulus Deus (hanc enim similitudinem non impudenter, sed prudenter introducit Apostolus) ex eadem massa fecit aliud vas in honorem, aliud in contumeliam»; cf. Rm 9, 21. 98 Cf. ibid., 437, p. 453, 29-31: «Natus est igitur prior Cain ex illis duobus generis humani parentibus, pertinens ad hominum civitatem, posterior Abel, ad civitatem Dei». 97
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Caino è infatti legata la prima occorrenza, presente nelle Scritture, che indichi la costruzione di una città99; una fondazione fratricida, fondata sulla violenza instillata in lui dall’invidia100. Caino rappresenta perfettamente, nella ricostruzione di Agostino, gli effetti nefasti del peccato originale sulla convivenza umana; egli infatti, invece di rendersi umile dinanzi a Dio che, per ragioni occulte ma non per questo infondate, gli preferiva Abele, ha agito seguendo la superbia, volendo cioè affermare il suo primato sulla terra, nella relazione con il fratello e non con Dio101. Come dunque il peccato di Adamo è a fondamento della storia dell’umanità, così il peccato di Caino è fondativo della convivenza sociale nella città degli uomini; entrambi hanno preferito volgere il loro sguardo a loro stessi e al loro interesse piuttosto che a Dio e ai precetti della sua volontà. Il testo sacro restituisce così, secondo Agostino, una chiara immagine dell’evoluzione storica delle due città. La prima, quella terrena, fondata da Caino (nome che, seguendo l’interpretazione di Girolamo, indica il possesso), che le diede il nome del figlio, Enoch (interpretato come dedicatio); la seconda, invece, ha come capostipite Set (nome che significa resurrectio), il figlio che Dio diede ad Adamo ed Eva dopo la morte di Abele102. Del figlio di Set, Enos, il Genesi afferma che sperò di invocare il nome di Dio; è questo l’atto fondativo, per Agostino, della città celeste, quella cioè in cui gli uomini aspirano a rivolgere la propria vita interamente a Dio e non alla terra103. È sulla scorta di questo schema che Agostino rilegge, nelle pagine successive, gli avvenimenti e le vite dei personaggi più significativi del’Antico Testamento, orientandoli a una
99 Cf. ibid., 438, p. 454, 55-56: «Scriptum est itaque de Cain, quod condiderit civitatem; Abel autem tamquam peregrinus non condidit»; cf. Gen 4, 17. 100 Agostino non manca di evidenziare come anche la storia di Roma si fondi su un fratricidio, quello di Romolo ai danni di Remo; a differenza di quello genesiaco, però, quello romano è tutto interno alla città degli uomini. Cf. D. X. Burt, Cain’s City: Augustine’s Reflections on the Origins of the Civil Society (Book XV 1-8), in Augustinus, De civitate Dei, ed. C. Horn, Berlin 1997, pp. 195-210. 101 Cf. De civitate Dei, XV, 7, 444, p. 461, 49-54: «Cognito itaque Cain quod super eius germani sacrificium, nec super suum respexerat Deus, utique fratrem bonum mutatus imitari, non elatus debuit aemulari. Sed contristatus est et concidit facies eius. Hoc peccatum maxime arguit Deus, tristitiam de alterius bonitate, et hoc fratris». 102 Cf. Gen 4, 25-26. 103 Cf. De civitate Dei, XV, 18, 461, p. 480, 1-5 : «‘Et Seth’, inquit, ‘natus est filius, et nominavit nomen eius Enos; hic speravit invocare nomen Domini Dei’ (Gen 4, 26). Nempe clamat attestatio veritatis. In spe igitur vivit homo filius resurrectionis; in spe vivit, quamdiu peregrinatur hic, civitas Dei, quae gignitur ex fide resurrectionis Christi».
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intelligenza della verità che essi rivelano al di là della narrazione storica104 e che, ovviamente, prende la forma di una anticipazione della venuta e del sacrificio salvifico di Cristo. Non c’è infatti – afferma con chiarezza Agostino – avvenimento della storia sacra che non sia prefigurazione (praefiguratio) o annuncio (praedicatio) dell’Incarnazione e che non vada letto come parte della più generale evoluzione della civitas Dei 105. Vicende e personaggi veterotestamentari scorrono nelle pagine di Agostino, che tenta di ricostruire e rendere comprensibile le complesse connessioni cronologiche del racconto sacro e di dare senso allegorico, ove opportuno, alle diverse figure. A tale narrazione delle vicende della città di Dio si assommano e con esse si intrecciano, a partire dal libro XVIII, quelle della città degli uomini. La storia della civiltà umana appare ad Agostino come una continua lotta, alimentata dalle cupiditates. La città degli uomini si è evoluta in un continuo susseguirsi di scontri che hanno portato alcuni popoli a dominare altri i quali, pur di garantirsi una sopravvivenza tranquilla, hanno accettato tale sottomissione. Agostino individua, nel complesso fluire degli avvenimenti storici, due civiltà che, più di tutte, sono riuscite a dominare le altre, imponendosi come vincitrici: quella assira (in Oriente) e quella romana (in Occidente)106. Il racconto di Agostino segue l’evoluzione dei due imperi e, nello specifico, il declino di quello assiro proprio mentre, a Occidente, la civiltà latina fondata da Enea, fuggito da Troia, cominciava a svilupparsi. La venuta di Cristo durante l’impero di Augusto, che aveva pacificato (pacatus) il mondo107, ha dato vita a una casa fondata sul Nuovo Testamento
104 Cf. De catechizandis rudibus, 6, 10, 317, p. 131, 19-31: «Si enim fictas poetarum fabulas et ad voluptatem excogitatas animorum, quorum cibus nugae sunt, tamen boni qui habentur atque appellantur grammatici, ad aliquam utilitatem referre conantur, quamquam et ipsam vanam et avidam saginae saecularis: quanto nos decet esse cautiores, ne illa quae vera narramus, sine suarum causarum redditione digesta, aut inani suavitate aut etiam perniciosa cupiditate credantur. Non tamen sic asseramus has causas, ut relicto narrationis tractu cor nostrum et lingua in nodos difficilioris disputationis excurrat, sed ipsa veritas adhibita rationis quasi aurum sit gemmarum ordinem ligans, non tamen ornamenti seriem ulla immoderatione perturbans». 105 Cf. De civitate Dei, XVI, 2, 479, p. 500, 73-79: «Haec Scripturae secreta divinae indagamus, ut possumus, alius alio magis minusve congruenter, verum tamen fideliter certum tenentes non ea sine aliqua praefiguratione futurorum gesta atque conscripta neque nisi ad Christum et eius Ecclesiam, quae civitas Dei est, esse referenda; cuius ab initio generis humani non defuit praedicatio, quam per omnia videmus impleri». 106 Cf. ibid., XVIII, 2, 560-561, pp. 593-594. 107 Cf. ibid., 46, 608-609, pp. 643-644.
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(domus ad Novum pertinens Testamentum)108, diventata ben presto nuova protagonista della storia dell’umanità ma con una modalità significativamente diversa da quella che ha caratterizzato la città degli uomini, narrata da Agostino: mentre infatti la città eterna è stata fondata da Dio per gli uomini, quella pagana è stata creata dagli uomini e dotata di dèi falsi, ai quali veniva infondatamente deputato il compito di difenderla109.
4. Il fine della storia: educare lo sguardo (libri XIX-XXII) Ricostruita la lunga storia, sacra e civile, dello sviluppo delle due città, essa appare adesso, nelle parole di Agostino, chiarissima e perfettamente consentanea con il suo modello epistemologico, filosofico e antropologico. Se la pax è l’obiettivo di ogni essere, essa è sempre declinata da Agostino nel senso di una ‘metafisica dell’ordine’, a partire da quello che sovrintende alle parti del corpo, per passare a quello che governa i moti delle anime irrazionali e razionali, per giungere alla pace che è presente nell’uomo, a quella che regge le relazioni tra gli uomini e, infine, alla concordia della caelestis civitas, che è la societas nella quale massimo vige l’ordine (ordinatissima)110. Mentre gli animali, che usano la sensibilità, si accontentano per essere felici di appagare i loro istinti, gli uomini, e le città temporali che essi abitano, aspirano in quanto razionali a una stabilità ordinata; essi però, proprio in virtù di quella ragione che permette loro di aspirare a quell’ordine, sanno di non essere capaci da soli di evitare l’errore. Per questo, dunque, si affidano al magistero divino per giungere alla mèta che desiderano 108
Cf. ibid., 48, 610, pp. 646-647. Cf. ibid., 54, 620, p. 656, 86-91: «Illa, quae terrena est, fecit sibi quos voluit vel undecumque vel etiam ex hominibus falsos deos, quibus sacrificando serviret; illa autem, quae caelestis peregrinatur in terra, falsos deos non facit, sed a vero Deo ipsa fit, cuius verum sacrificium ipsa sit». Cf. F. E. Cranz, De Ciuitate Dei, XV, 2 and Augustine’s Idea of the Christian Society, in Augustine, ed. J. Dunn - I. Harris, Cheltenham (UK) - Lyme, 1997, pp. 116-126. 110 Cf. De civitate Dei, XIX, 13, 640, pp. 678-679, 1-11: «Pax itaque corporis est ordinata temperatura partium, pax animae irrationalis ordinata requies appetitionum, pax animae rationalis ordinata cognitionis actionisque consensio, pax corporis et animae ordinata vita et salus animantis, pax hominis mortalis et Dei ordinata in fide sub aeterna lege oboedientia, pax hominum ordinata concordia, pax domus ordinata imperandi atque oboediendi concordia cohabitantium, pax civitatis ordinata imperandi atque oboediendi concordia civium, pax caelestis civitatis ordinatissima et concordissima societas fruendi Deo et invicem in Deo, pax omnium rerum tranquillitas ordinis». 109
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raggiungere111. Come dunque l’indagine naturale e quella scritturale acquistano senso soltanto se, rispetto a una lettura sensibile e ‘orizzontale’ (vale a dire alla semplice osservazione della natura e alla fruizione ‘letteralista’ del testo sacro), riescono a sollevarsi a una intelligenza filosofica, a sua volta prodromica di una intuizione che ne riporti il senso a una prospettiva teologica, così la storia degli uomini e la morale che essi nel suo svolgere mettono in campo trova senso solo se orientata al raggiungimento di quel fine ordinato superiore, se cioè dal piano dell’orizzontalità dei comportamenti si eleva a quello verticale dei fini condivisi (tra gli uomini e con Dio)112. Così, la res publica, per essere realmente tale, deve necessariamente prevedere che tra le sue parti, vale a dire tra i cittadini, vi sia una ordinata coerenza. Il modello di governo che ha in mente Agostino non è ovviamente egualitariamente democratico ma virtuosamente piramidale; una societas cioè in cui la iustitia si eserciti come virtus che attribuisce a ciascuno ciò che gli è dovuto113. In questa ottica, come nelle istituzioni politiche c’è un ordinamento che attribuisce ai diversi cittadini differenti responsabilità e, di conseguenza, ruoli di predominio sugli altri, così avviene tra le diverse istituzioni e, infine, tra tutte esse e Dio114. I destini delle due città, dunque, sono condizionati dalla capacità della societas umana di porsi nel giusto ordinamento rispetto a quella celeste e di presentarsi così al giudizio finale (più volte evocato nelle Scritture115) nell’estremo compimento del complesso dispositivo ierostorico che, per Agostino, è sotteso all’apparentemente casuale fluire degli avvenimenti nel tempo. La scelta degli angeli e di Adamo di allontanarsi dalla societas celeste ha infatti costretto al principio l’uomo alla sua peregrinazione temporale; Dio, pur preconoscendo perfettamente che tali defezioni avrebbero avuto luogo, le ha permesse per
111 Cf. ibid., 14, 642, p. 681, 16-26: «Sed quia homini rationalis anima inest, totum hoc, quod habet commune cum bestiis, subdit paci animae rationalis, ut mente aliquid contempletur et secundum hoc aliquid agat, ut sit ei ordinata cognitionis actionisque consensio, quam pacem rationalis animae dixeramus. Ad hoc enim velle debet nec dolore molestari nec desiderio perturbari nec morte dissolvi, ut aliquid utile cognoscat et secundum eam cognitionem vitam moresque componat. Sed ne ipso studio cognitionis propter humanae mentis infirmitatem in pestem alicuius erroris incurrat, opus habet magisterio divino, cui certus obtemperet, et adiutorio, ut liber obtemperet». 112 Cf. ibid., 17, 645-646, pp. 683-685. 113 Cf. ibid., 21, 648-650, pp. 687-689. 114 Cf. R. J. Doughery, Christian and Citizen: The Tension in St. Augustine’s De civitate Dei, in Augustine: Second Founder of the Faith cit., pp. 205-224. 115 Cf. De civitate Dei, XX, 30, 705-709, pp. 753-758.
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garantire il libero arbitrio delle sue creature116 e perché anche nelle azioni peggiori Egli è capace di individuare percorsi per giungere al bene117. Ormai decaduto, l’uomo non può fare altro che tentare di riorientare il suo percorso storico a Dio attraverso un processo di tensione alla trascendenza118 che occupi l’intera sua esistenza, come singolo e come comunità, e che si configuri come una lenta, progressiva educazione preparatoria alla visione finale119 e alla condizione pacificata120 della civitas beata nella quale a ognuno verrà riconosciuto il giusto merito delle sue azioni e l’amore caritatevole non susciterà mai invidia tra i cives 121. Lì, conclude Agostino, non ci saranno più né grazia né libertà, perché l’uomo avrà raggiunto il grado massimo di liberazione cui può aspirare: non essere libero di non peccare, ma non essere libero di peccare122. Una civitas dunque nella quale le diverse voluntates si fonderanno in una sola voluntas libera dal peccato e dove, al fine, il quaerere incessante dell’uomo, libero di sbagliare ma al contempo condannato a farlo, cesserà. Nelle pagine iniziali del terzo libro del De Trinitate, Agostino giungeva a illustrare la condizione umana con una immagine di straordinaria efficacia. Si immagini, ipotizza Agostino, che esista un sapiens che, in quanto tale, partecipi con la sua anima razionale dell’eterna e im-
116
Cf. ibid., XXII, 1, 751-752, pp. 805-806. Cf. ibid., 2, 753, pp. 807-808. 118 Cf. ibid., 22, 784-787, pp. 842-845. 119 Cf. ibid., 29, 801, pp. 861-862, 202-208: «Ita Deus nobis erit notus atque conspicuus, ut videatur spiritu a singulis nobis in singulis nobis, videatur ab altero in altero, videatur in se ipso, videatur in caelo novo et terra nova atque in omni, quae tunc fuerit, creatura, videatur et per corpora in omni corpore, quocumque fuerint spiritalis corporis oculi acie perveniente directi. Patebunt etiam cogitationes nostrae invicem nobis». 120 Cf. ibid., 30, 801, p. 862, 1-4: «Quanta erit illa felicitas, ubi nullum erit malum, nullum latebit bonum, vacabitur Dei laudibus, qui erit omnia in omnibus! Nam quid aliud agatur, ubi neque ulla desidia cessabitur neque ulla indigentia laborabitur, nescio». 121 Cf. ibid., 802, p. 863, 40-42: «Atque id etiam beata illa civitas magnum in se bonum videbit, quod nulli superiori ullus inferior invidebit, sicut nunc non invident archangelis angeli ceteri». 122 Cf. ibid., 802, p. 863, 49-56: «Nec ideo liberum arbitrium non habebunt, quia peccata eos delectare non poterunt. Magis quippe erit liberum a delectatione peccandi usque ad delectationem non peccandi indeclinabilem liberatum. Nam primum liberum arbitrium, quod homini datum est, quando primo creatus est rectus, potuit non peccare, sed potuit et peccare; hoc autem novissimum eo potentius erit, quo peccare non poterit; verum hoc quoque Dei munere, non suae possibilitate naturae». 117
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mutabile verità e, sulla scorta di tale visione, riesca sempre ad agire secondo virtù123. Nel caso in cui il sapiente, per seguire le indicazioni veraci che vede in Dio, si impegnasse in una attività che lo affaticasse così tanto da farlo ammalare, sarebbe lecito affermare che la causa più profonda del suo malanno è la volontà di Dio che, ovviamente, egli ha seguito124. Parimenti, se tale sapiente, per compiere quella attività, si fosse avvalso di uomini non ispirati da Dio ma anzi desiderosi solo di ricompense materiali, ed essi a loro volta avessero usato, per aiutare il sapiente, degli animali e degli oggetti, tutto ciò che dovesse accadere a quelli che hanno lavorato con il sapiente, agli animali e agli oggetti dovrebbe essere ricondotto, come causa prima, alla volontà di Dio125. Per certi versi, dunque, proprio a causa del possesso della 123
Cf. De Trinitate, III, 3, 8, 872, p. 133, 1-5: «Constituamus ergo animo talem sapientem cuius anima rationalis iam sit particeps incommutabilis aeternaeque veritatis quam de omnibus suis actionibus consulat, nec aliquid omnino faciat quod non in ea cognoverit esse faciendum ut ei subditus eique obtemperans recte faciat». 124 Cf. ibid., 872, pp. 133-134, 5-20: «Iste si consulta summa ratione divinae iustitiae quam in secreto audiret aure cordis sui eaque sibi iubente in aliquo officio misericordiae corpus labore fatigaret aegritudinemque contraheret, consultisque medicis ab alio diceretur causam morbi esse corporis siccitatem, ab alio autem humoris immoderationem; unus eorum veram causam diceret, alter erraret, uterque tamen de proximis causis, id est corporalibus pronuntiaret. At si illius siccitatis causa quaereretur et inveniretur voluntarius labor, iam ventum esset ad superiorem causam quae ab anima proficisceretur ad afficiendum corpus quod regit; sed nec ipsa prima esset. Illa enim procul dubio superior erat in ipsa incommutabili Sapientia cui hominis sapientis anima in caritate serviens, et ineffabiliter iubenti obediens, voluntarium laborem susceperat. Ita non nisi Dei voluntas causa prima illius aegritudinis veracissime reperiretur». 125 Cf. ibid., 872, pp. 134-135, 21-44: «Iam vero si in labore officioso et pio adhibuisset ille sapiens ministros collaborantes secum in opere bono, nec tamen eadem voluntate Deo servientes sed ad carnalium cupiditatum suarum mercedem pervenire cupientes vel incommoda carnalia devitantes; adhibuisset etiam iumenta si hoc exigeret illius operis implendi procuratio, quae utique iumenta irrationalia essent animantia nec ideo moverent membra sub sarcinis quod aliquid de illo bono opere cogitarent sed naturali appetitu suae voluptatis et devitatione molestiae; postremo adhibuisset ipsa etiam corpora omni sensu carentia quae illi operi essent necessaria, frumentum scilicet, vinum, oleum, vestem, nummum, codicem, et si qua huiusmodi. In his certe omnibus in illo opere versantibus corporibus sive animatis sive inanimis quaecumque moverentur, attererentur, repararentur, exterminarentur, reformarentur, alio atque alio modo locis et temporibus affecta mutarentur - num alia esset istorum omnium visibilium et mutabilium factorum causa nisi illa invisibilis et incommutabilis voluntas Dei per animam iustam, sicut sedem Sapientiae, cunctis utens, et malis et irrationalibus animis et postremo corporibus, sive quae illis inspirarentur et animarentur sive omni sensu carentibus, cum primitus uteretur ipsa bona anima et sancta quam sibi ad pium et religiosum obsequium subdidisset?»
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sapientia, quel sapiente non sarebbe libero; se infatti essere sapiens significa conoscere perfettamente ciò che Dio vuole, tale conoscenza quasi costringerebbe l’uomo che fosse sapiens a conformarsi a quel volere, che diverrebbe la causa ultima e, quasi, necessaria delle sue azioni e di tutte le conseguenze, dirette e indirette, che esse generano. Ma – constata Agostino in più punti della sua produzione – l’uomo non è mai veramente sapiente, il che implica che dunque egli è autonomo nelle sue valutazioni proprio perché può solo, per tutta la vita, aspirare a quella condizione, vivere nell’incertezza che essa genera e essere imperfettamente libero perché naturalmente filosofo. In tal senso, tutta la filosofia di Agostino si configura come un allenamento dello sguardo, l’invito costante agli uomini ad alzare il proprio orizzonte dal limite ristretto della propria visione sensibile all’intuizione dell’intellegibile. Pur essendo allettato da cose belle, l’occhio dell’uomo resta infatti cieco se non è capace di riportare questa visione particolare a una più vasta prospettiva filosofico-teologica126. Nella sfera dell’esercizio individuale della speculazione, questo sforzo si realizza nella eruditio che fornisce gli strumenti per superare la semplice osservazione del sensibile, intuire filosoficamente le regole della realtà e riportarle al più generale piano provvidenziale di Dio. Quando però la visione di Agostino si allarga e – complice la sua nuova funzione vescovile – supera l’orizzonte dei destini dei singoli uomini e cerca di abbracciare quello di tutta l’umanità, la riflessione si fa politica, nel senso più alto del termine. Lo sguardo, andando oltre la confessio della singola e individuale esperienza biografica, deve osservare la successione degli avvenimenti storici che hanno prodotto lo stato attuale dell’umanità e delle societates ma, senza fermarsi a una lettura cronachistica, deve cogliere, in quel fluire storico, le universali invarianze e comprendere come esse si collochino nella giurisdizione dell’imperator che regge la struttura ordinata della respublica ‘creaturale’127 e
126 Cf. De civitate Dei, XV, 22, 467, pp. 487-488, 10-21: «Quod bonum Dei quidem donum est; sed propterea id largitur etiam malis, ne magnum bonum videatur bonis. Deserto itaque bono magno et bonorum proprio lapsus est factus ad bonum minimum, non bonis proprium, sed bonis malisque commune; ac sic filii Dei filiarum hominum amore sunt capti, atque ut eis coniugibus fruerentur, in mores societatis terrigenae defluxerunt, deserta pietate, quam in sancta societate servabant. Sic enim corporis pulchritudo, a Deo quidem factum, sed temporale carnale infimum bonum, male amatur postposito Deo, aeterno interno sempiterno bono, quemadmodum iustitia deserta et aurum amatur ab avaris, nullo peccato auri, sed hominis». 127 Cf. De Trinitate, III, 4, 9, 873, p. 136, 23-29: «Voluntas Dei est prima et summa causa omnium corporalium specierum atque motionum. Nihil enim fit
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i destini della superna atque caelestis patria. È questa la lezione che Agostino cerca di impartire attraverso la complessa trama di riflessioni teoriche e analisi scritturali del De civitate Dei, nelle cui dense pagine lo sguardo, sollevandosi, per il tramite dell’indagine filosofica, da una sterile lettura evenemenziale, viene invitato a cogliere la necessità di una ermeneutica degli avvenimenti storici che sia teologica e operativa al contempo, nella quale cioè la ‘repubblica dei credenti’ (nella quale tutti sono uguali in quanto tutti parimenti figli di Dio) sia indirizzata teoreticamente a intuire l’esistenza del governo di Dio e salvificamente ad azioni volte a onorare il regnum da Lui presieduto. Prive di tale prospettiva, le istituzioni statuali pagane non sono state capaci di accogliere le sollecitazioni che provenivano dalla riflessione teologica (segnatamente quella platonica) a una sana tensione verticale al trascendente e hanno preferito pensare il divino nella prospettiva esclusivamente etico-cultuale, storica, orizzontale della religione civica128. Il popolo di Dio invece, nella sua societas, ritiene veri philosophi i theologi, vale a dire i profeti e tutti i sapienti che non scindono la fede religiosa dalla pratica morale129 e in ciò sottomettono per scelta razionale i destini umani alla guida della divina auctoritas 130.
visibiliter et sensibiliter quod non de interiore invisibili atque intellegibili aula summi Imperatoris, aut iubeatur, aut permittatur secundum ineffabilem iustitiam praemiorum atque poenarum, gratiarum et retributionum, in ista totius creaturae amplissima quadam immensaque republica». Cf. F. Florez, La Theologia civilis: planteamiento y critica de San Agustin, in «La Ciudad de Dios», 203 (1990), pp. 593-612. 128 Cf. De civitate Dei, XVIII, 41, 601, p. 637, 60-67: «Has et alias paene innumerabiles dissensiones philosophorum quis umquam populus, quis senatus, quae potestas vel dignitas publica impiae civitatis diiudicandas et alias probandas ac recipiendas, alias improbandas repudiandasque curavit, ac non passim sine ullo iudicio confuseque habuit in gremio suo tot controversias hominum dissidentium, non de agris et domibus vel quacumque pecuniaria ratione, sed de his rebus, quibus aut misere vivitur aut beate?». 129 Cf. ibid., 601, p. 637, 74-81: «At vero gens illa, ille populus, illa civitas, illa res publica, illi Israelitae, quibus credita sunt eloquia Dei, nullo modo pseudoprophetas cum veris Prophetis parilitate licentiae confuderunt, sed concordes inter se atque in nullo dissentientes sacrarum Litterarum veraces ab eis agnoscebantur et tenebantur auctores. Ipsi eis erant philosophi, hoc est amatores sapientiae, ipsi sapientes, ipsi theologi, ipsi prophetae, ipsi doctores probitatis atque pietatis». 130 Cf. ibid., 600, p. 636, 13-15: «Quid agit aut quo vel qua, ut ad beatitudinem perveniatur, humana se porrigit infelicitas, si divina non ducit auctoritas?».
CAPITOLO 5
PENSARE DA FILOSOFO, PARLARE DA PASTORE
1. Alla ricerca del bonus sermo: il De doctrina christiana/2 (libri III-IV) (426-427) Agostino interruppe la stesura del De doctrina christiana nel 397, quasi alla fine del terzo libro, per poi riprendere il testo trenta anni dopo, nel 426, per completarlo e aggiungere un quarto libro. Nel terzo libro, prima della interruzione, Agostino aveva riassunto i dettami della sua teoria ermeneutico-scritturale: Dio vuole comunicarsi agli uomini, tramite i signa della natura e delle Scrittura, in virtù di un moto caritatevole, vale a dire completamente gratuito e non dovuto; se dunque tale carità è il motore del movimento semiotico di Dio, del Suo sforzo cioè di dirsi in signa, esso non può che costituire anche il dispositivo ermeneneutico di comprensione di quei signa1. Laddove dunque la lettura della littera scritturale conduce già a insegnamenti votati alla carità, essa va accolta come tale; quando invece tale lettura è impossibile, è necessario operare in maniera figurata2. Il senso dello sforzo umano di lettura delle Scritture non risiede dunque nella aspirazione a comprenderne veramente il significato ma, per certi versi, nello sforzo stesso allorquando esso, compiuto coralmente dalla comunità di credenti, si fa in ciò imitazione del moto caritatevole di Dio e realizza de facto il più genuino significato del messaggio scritturale inteso come dono gratuito e condiviso. Nel riprendere, diversi anni dopo, il testo, Agostino si muove in perfetta continuità con questa premessa. La forza di quella donazione caritatevole di signa che fonda ogni rapporto ermeneutico tra uomo e Dio, infatti, è ribadita da Agostino in una direzione che egli stesso aveva già perfettamente delineato nel secon-
1
Cf. D. Glidden, Augustine’s Hermeneutics and the Principle of Charity, in «Ancient Philosophy», 17 (1997), pp. 135-157. 2 Cf. supra, p. 125.
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Pensare da filosofo, parlare da pastore
do libro dell’opera3, quando aveva chiarito come l’alternarsi, nel testo sacro, di punti più complessi e passaggi più chiari fosse determinata dall’azione dello Spirito Santo che aveva dato alle Scritture una forma che potesse essere accessibile ai più deboli tra gli interpreti e stimolante per i più capaci. La possibilità stessa della convergenza di più interpretazioni e di diversi strumenti utili a giungere alla medesima conclusione appare ancora, infatti, ad Agostino, opera della azione accogliente e unificante dello Spirito Santo4. È sulla base di questo ‘ottimismo ermeneutico’ e della sua più autentica prospettiva comunitaria che il testo, dopo aver concluso il libro terzo con l’elencazione e l’illustrazione delle sette regole del donatista Ticonio, grazie alle quali è possibile una sistematizzazione della lettura biblica, si dedica, nel quarto libro, a come condividere (de proferendo) le conoscenze apprese nella lettura del testo sacro. Agostino sa perfettamente, infatti, che l’ars rethorica è capace di persuadere un uditorio tanto del vero quanto del falso. Se è così, i cristiani che, pur in possesso della verità, fossero invece privi di competenze retoriche, si troverebbero nella paradossale condizione di chi può affermare cose vere ma non ha – a differenza degli avversari – gli strumenti espressivi per convincere quanti lo ascoltano5 e non può, dunque, combattere per difendere la verità (militare veritati). Chi dunque studia e insegna le Scritture ha per Agostino un compito chiaro, da perseguire con un attento atteggiamento pedagogico nei confronti della comunità di cui si assume le cure: insegnare le cose giuste (bona docere) e far dimenticare quelle sbagliate (mala dedocere)6. La competenza retorica deve dunque esse-
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Cf. De doctrina christiana, II, 6, 8, 39, p. 36. Cf. De doctrina christiana, III, 27, 38, 80, p. 100, 10-18: «Ille quippe auctor in eisdem verbis quae intellegere volumus, et ipsam sententiam forsitan vidit et certe Dei Spiritus, qui per eum haec operatus est, etiam ipsam occursuram lectori vel auditori sine dubitatione praevidit, immo ut occurreret, quia et ipsa est veritate subnixa, providit. Nam quid in divinis eloquiis largius et uberius potuit divinitus provideri, quam ut eadem verba pluribus intellegantur modis, quos alia non minus divina contestantia faciant approbari?». 5 Cf. ibid., IV, 2, 3, 89, p. 117, 1-6: «Nam cum per artem rhetoricam et vera suadeantur et falsa, quis audeat dicere, adversus mendacium in defensoribus suis inermem debere consistere veritatem, ut videlicet illi qui res falsas persuadere conantur, noverint auditorem vel bene volum vel intentum vel docilem proemio facere; isti autem non noverint?». 6 Cf. ibid., 4, 6, 91, pp. 119-120, 1-15: «Debet igitur divinarum Scripturarum tractator et doctor, defensor rectae fidei ac debellator erroris, et bona docere et mala dedocere atque in hoc opere sermonis conciliare aversos, remissos erigere, nescientibus quid agatur quid exspectare debeant intimare. Ubi autem benevolos, intentos, dociles aut invenerit aut ipse fecerit, cetera peragenda sunt, sicut 4
1. Alla ricerca del bonus sermo
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re messa pienamente al servizio della condivisione della verità; Agostino non ha infatti dubbi sul fatto che, se l’optimum sarebbe parlare con cognizione di causa (sapienter) e in modo forbito (eloquenter), è in ogni caso preferibile seguire i discorsi di chi afferma la verità, anche quando lo fa in modo sgraziato, piuttosto che farsi sedurre da un eloquio raffinato. Se infatti già Cicerone aveva evidenziato i rischi di una eloquenza separata dalla sapienza7, quanto più tale precauzione deve essere adottata – chiosa Agostino – dai cristiani, testimoni della esistenza e della azione della sapientia di Dio incarnata e narrata nelle Scritture?8 Proprio il testo sacro appare, ad Agostino, esempio massimo della fusione tra sapientia ed eloquentia; l’ispirazione divina dei suoi autori infatti è garanzia tanto della veridicità delle parole usate quanto della loro efficacia9. È dunque partendo da questo esempio, modello irraggiungibile ma al contempo imprescindibile per l’oratoria cristiana, che chi fa progressi nell’esegesi scritturale deve condividerli con gli altri. Accompagnare (perducere) la comunità alla comprensione delle Scritture e delle verità in esse contenute è, infatti, un dovere per quanti hanno il talento ermeneutico necessario, nonostante la fatica (labor) che tale lavorìo di divulgazione comporta10. Se infatti nei colloquia l’interlocutore ha la possibilità di interrompere chi parla, postulat causa. Si docendi sunt qui audiunt, narratione faciendum est, si tamen indigeat, ut res de qua agitur innotescat. Ut autem quae dubia sunt certa fiant, documentis adhibitis ratiocinandum est. Si vero qui audiunt movendi sunt potius quam docendi, ut in eo quod iam sciunt agendo non torpeant et rebus assensum quas veras esse fatentur accomodent, maioribus dicendi viribus opus est. Ibi obsecrationes et increpationes, concitationes et coercitiones et quaecumque alia valent ad commovendos animos, sunt necessaria». 7 Cf. Cicerone, De inventione, 1, 1, ed. E. Stroebel, Stuttgart 1955 (M. Tulli Ciceronis scripta quae manserunt omnia, 2), p. 2, 5-8. 8 Cf. De doctrina christiana, IV, 5, 7, 91-92, p. 120, 13-18: «Si hoc ergo illi, qui praecepta eloquentiae tradiderunt, in eisdem libris in quibus id egerunt, veritate instigante coacti sunt confiteri, veram, hoc est supernam quae ‘a Patre luminum’ (Gc 1, 17) descendit sapientiam nescientes, quanto magis nos non aliud sentire debemus, qui huius sapientiae filii et ministri sumus?». 9 Cf. ibid., 6, 10, 93, pp. 122-123. Agostino utilizza alcuni brani tratti da Paolo e dal profeta Amos per mostrare la ricchezza dell’eloquenza scritturale; cf. ibid., 7, 11-20, 93-98, pp. 123-131. 10 Cf. ibid., 9, 23, 99, p. 132, 5-14: «In libris autem, qui ita scribuntur ut ipsi sibi quodammodo lectorem teneant cum intelleguntur, cum autem non intelleguntur molesti non sint nolentibus legere, et in aliquorum collocutionibus non est hoc officium deserendum, ut vera quamvis ad intellegendum difficillima, quae ipsi iam percepimus, cum quantocumque labore disputationis ad aliorum intellegentiam perducamus, si tenet auditorem vel collocutorem discendi cupiditas nec mentis capacitas desit, quae quoquo modo intimata possit accipere; non curante illo qui docet quanta eloquentia doceat, sed quanta evidentia».
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Pensare da filosofo, parlare da pastore
ponendogli domande per comprendere meglio quanto sta ascoltando, quando si pronuncia un sermo in populo, quando cioè tutti tacciono e c’è una sola voce a parlare, nessuno ha il coraggio di sollevare obiezioni o mostare incertezze; lì è dunque ancor più necessario dire il vero ma, al contempo, farlo in modo efficace11. Sia che si parli dinanzi a una assemblea sia che si stia tenendo una lezione, in tutte le situazioni cioè in cui la relazione tra chi parla e chi ascolta è gerarchica e piramidale, la preoccupazione dell’oratore – come affermava anche Cicerone – non deve essere il parlare elegantemente, ma essere sicuro che ciò che doveva insegnare sia stato compreso12. L’oratore cristiano è dunque colui che, chiedendo a Dio supporto (e da lui traendo ispirazione13), si assume la piena responsabilità delle parole che utilizza, che è sempre enorme. Se infatti, in ambito di oratoria civile, è lecito distinguere tra argomenti più o meno importanti, scegliendo di conseguenza quale registro usare14, quando parla ai fedeli dal pulpito il predicatore ha sempre a che fare con un argomento essenziale, vale a dire la salvezza umana, e dunque non può che utilizzare sempre il registro più serio e gli strumenti espressivi più efficaci15.
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Cf. ibid., 10, 25, 100, p. 133, 27-34: «Et hoc quidem non solum in collocutionibus, sive fiant cum aliquo uno sive cum pluribus, verum etiam et multo magis in populis quando sermo promitur, ut intellegamur instandum est, quia in collocutionibus est cuique interrogandi potestas, ubi autem omnes tacent ut audiatur unus et in eum intenta ora convertunt, ibi ut requirat quisque quod non intellexerit, nec moris est nec decoris, ac per hoc debet maxime tacenti subvenire cura dicentis». 12 Cf. ibid., 12, 27, 101, p. 135, 1-6: «Dixit ergo quidam eloquens, et verum dixit, ita dicere debere eloquentem ut doceat, ut delectet, ut flectat. Deinde addidit: ‘Docere necessitatis est, delectare suavitatis, flectere victoriae’. Horum trium quod primo loco positum est, hoc est docendi necessitas, in rebus est constituta quas dicimus, reliqua duo in modo quo dicimus»; cf. Cicerone, Orator, 21, 69, ed. R. Westman, Leipzig 1980 (M. Tulli Ciceronis scripta quae manserunt omnia, 5), p. 7. 13 Cf. De doctrina christiana, 15, 32, 103, p. 139, 23-24: «Si ergo loquitur in eis Spiritus Sanctus, qui persequentibus traduntur pro Christo, cur non et in eis qui tradunt discentibus Christum?». 14 Cf. ibid., 17, 34, 104-105, p. 141. Cf. Cicerone, De oratore, 29, 101, ed. Kumaniecki cit., p. 12. 15 Cf. De doctrina christiana, 18, 35, 105, p. 142, 12-18: «In istis autem nostris, quandoquidem omnia, maxime quae de loco superiore populis dicimus, ad hominum salutem nec temporariam sed aeternam referre debemus, ubi etiam cavendus est aeternus interitus, omnia sunt magna quae dicimus, usque adeo ut nec de ipsis pecuniariis rebus vel adquirendis vel amittendis parva videri debeant quae doctor ecclesiasticus dicit, sive sit illa magna sive parva pecunia». Cf. R. Pérez Velazquez, Aplicaciones catequéticas de De doctrina Christiana, in «Augustinus», 42 (1997), pp. 353-390.
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Se è dunque forse impossibile determinare, in modo univoco, perché Agostino interruppe per trent’anni la stesura del De doctrina christiana, è ben più evidente come la struttura del quarto libro, pur fedele al progetto iniziale (vale a dire passare dal de inveniendo al de proferendo) è perfettamente coerente con la stagione ‘sociale’ nel quale esso viene elaborato. Agostino non ritiene possibile fornire delle regole oggettive e universali che permettano al lettore e all’interprete di muoversi senza difficoltà tra le pagine del testo sacro. Piuttosto, il complesso di indicazioni, consigli e riflessioni dei primi tre libri sembra confluire, proprio nel quarto, in un ennesimo esercizio di apertura comunitaria, in una ulteriore occasione usata da Agostino per offrire ai suoi lettori uno spaccato di riflessioni, essenzialmente personali e autobiografiche, sul vero esercizio legato all’ermeneutica scritturale: quello della condivisione dei risultati dell’interpretazione16. Se infatti Dio è l’unico che può quasi materialmente mettere in bocca all’oratore cristiano un bonus sermo, soprattutto quando esso è finalizzato alla aeterna hominum salus, la lettura delle Scritture non può che essere orientata verso la predicazione che, a sua volta, viene declinata, in perfetta coerenza con la lettura ‘determinista’ dei testi coevi, nei termini di una gratuita donazione di Dio.
2. Il compito del predicatore I Sermones sono uno dei ‘luoghi’ nei quali questo anelito comunitario e pastorale agostiniano sembra trovare il suo luogo d’elezione17; essi rappresentano infatti per certi versi la forma di comunicazione più efficace grazie alla quale rendere accessibili, attraverso la meditazione su diversi passaggi biblici, la visione del mondo e della relazione tra uomo e Dio sviluppata da Agostino nella prima fase della sua produzione. Replicando la logica di Cassiciaco, nella quale la condivisione si alimentava dello scambio dialogico, Agostino costruisce infatti
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Cf. ibid., 30, 63, 120, p. 167, 1-8: «Sive autem apud populum vel apud quoslibet iamiamque dicturus, sive quod apud populum dicendum vel ab eis qui voluerint aut potuerint legendum est dictaturus, oret ut Deus sermonem bonum det in os eius. Si enim regina oravit Esther, pro suae gentis temporaria salute locutura apud regem, ut in os eius Deus congruum sermonem daret, quanto magis orare debet ut tale munus accipiat, qui pro aeterna hominum salute in verbo et doctrina laborat?»; cf. Est 14, 13. 17 Cf. A. G. Hamman, Un pasteur au milieu de son peuple, in «Itinéraires augustiniens», 10 (1993), pp. 5-19.
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quasi quotidianamente, nella sua attività omiletica, una vera e propria ‘comunità di parole’, un legame con quanti lo ascoltavano fondato sulla sua capacità di dare sempre, alla sua predicazione, una natura speculativamente densa ma stilisticamente piana. L’attività omiletica di Agostino si svolgeva tanto in chiesa quanto nelle case; i suoi sermones, talvolta improvvisati al momento (repentini), condensavano in modo così efficace, secondo il suo biografo Possidio, i risultati delle sue riflessioni filosofiche e della lettura scritturale da attirare haeretici cum catholicis e da indurre chi ne aveva la possibilità a produrne una reportatio scritta grazie al lavoro dei notari 18. Agostino predicava non solo ad Ippona ma dovunque lo invitassero; teneva almeno due sermones a settimana, non faceva mai mancare la sua parola durante le feste liturgiche e, in particolar modo, nella settimana della Pasqua. La natura, il numero e la frequenza dei sermones non permette di individuare, al loro interno, una linea comune; non è cioè possibile pensarli come un’opera unitaria. Proprio però la densità speculativa che lo stesso Possidio riconosce loro li pone come fedeli testimoni dell’evoluzione del pensiero di Agostino e della sua volontà di rendere tale riflessione accessibile anche a quanti potevano abbeverarsi soltanto alla sua predicazione e non alle sue opere. Ciò non significa che Agostino riversasse in toto nella sua predicazione i temi della sua riflessione filosofica; è anzi interessante verificare proprio quale scelta, linguistica e comunicativa, egli abbia compiuto nella loro elaborazione19. Non è infatti infrequente il riferimento di Agostino, nei Sermones, ai temi della grazia e della libertà che tanto caratterizzano la sua riflessione dopo la nomina vescovile. Ai fedeli vengono, per esempio,
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Cf. Possidio, Vita Augustini, 7, 1-3, 38-39: «Et docebat ac praedicabat ille privatim et publice, in domo et in ecclesia, salutis verbum cum omni fiducia (cf. At 4, 29) adversus Africanas haereses, maximeque contra Donatistas, Manichaeos et Paganos, libris confectis, et repentinis sermonibus, ineffabiliter admirantibus Christianis et collaudantibus, et hoc ipsum ubi poterant non tacentibus, sed diffamantibus. Atque Dei dono levare in Africa Ecclesia catholica exorsa est caput, quae multo tempore illis convalescentibus haereticis, praecipueque rebaptizante Donati parte maiore multitudine Afrorum, seducta et pressa et oppressa iacebat. Et hos eius libros atque tractatus mirabili Dei gratia procedentes ac profluentes, instructos rationis copia, atque auctoritate sanctarum Scripturarum, ipsi quoque haeretici concurrentes cum Catholicis ingenti ardore audiebant: et quisquis, ut voluit, et potuit, notarios adhibentes, ea quae dicebantur excepta describentes». Cf. A. Verwilghen, Rhétorique et prédication chez saint Augustin, in «Nouvelle Revue Théologique», 120 (1998), pp. 233-248. 19 Cf. P.-M. Hombert, Augustin, prédicateur de la grâce au début de son épiscopat, in Augustin prédicateur (395-411), Actes du Colloque International de Chantilly (5-7 septembre 1996), éd. par G. Madec, Paris 1998, pp. 217 245.
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additati modelli di uomini virtuosi che hanno accettato di amare Dio gratuitamente, al di là cioè di ciò che potessero da lui ottenere o addirittura talvolta, come nel caso di Abramo, quando veniva comandato loro qualcosa che poteva nuocere20. Nonostante dunque non eviti, nei Sermones, di affrontare i temi più delicati della grazia, Agostino sceglie di illustrarli al suo uditorio, certamente non teologicamente sempre erudito, in termini meno tecnici e filosofici; emerge così, dai suoi discorsi, una grazia intesa non tanto come l’esercizio unidirezionale e assoluto di Dio, ma come la donazione di verità (e di conseguente possibilità di salvezza) legata alle rivelazioni21 che liberano l’uomo. Ripensando le logiche della grazia e della libertà in un contesto prettamente pastorale, Agostino sembra dunque voler almeno in parte depotenziare, nella prosa omiletica dei Sermones, la violenza con la quale invece il movimento dello Spirito santo22 - indicato come il mediatore che, senza che l’uomo ne possa intuire i moti, a volte infligge la pena, altre concede la grazia spirituale23 - veniva descritto nelle opere coeve. Nel Sermo datato attorno al 411 e dedicato a commentare il giudizio di Salomone sulle due meretrices che litigavano perché il sovrano riconoscesse all’una o all’altra l’appartenenza di un bambino conteso (1 Rg 3, 16-27), Agostino identifica le donne con la Chiesa e la Sinagoga. Quest’ultima, incapace di riconoscere Cristo, lo aveva fatto morire e, accortasi che invece egli era ancora vivo per la Chiesa, lo reclamava e avanza pretese sul Vangelo come ricompensa per la sua giustizia (debitum iustitiae suae). Se per un verso Agostino ha già, in quegli anni, de20 Cf. Sermones, II, 4, 38, 29, 41, pp. 12-13, 117-129: «Quid ergo nos docet Abraham? Ut breviter dicam, ut Deo non praeponamus quod dat Deus. Interim ad litteram rerum gestarum, antequam tractetur latebra sacramenti, id est quid lateat in hoc mysterio, quo iussus est Abraham occidere unicum filium. Ergo nec illud quod tibi pro magno praestat Deus, praeponas illi qui praestitit; et cum tibi voluerit subtrahere, non tibi vilescat: quia gratis amandus est Deus. Quod enim dulcius a Deo praemium, quam ipse Deus?»; su Abramo come esempio di accettazione di ciò che insondabilmente Dio stabilisce per l’uomo, cf. ibid., XIV, 3, 38, 113, 41Aa, p. 187, 90-93: «Iustificatus est gratia Dei, non propria praesumptione. Fidelis erat, bene operabatur. Filium iussus est immolare; neque cunctatus est ei offerre quod acceperat, a quo acceperat». 21 Cf. ibid., V, 7, 38, 58, 41, p. 58, 259-262: «Quia quando eum carnaliter noveramus, non putabamus nisi quia homo erat tantum: at vero postquam gratia eius illuxit nobis, intelleximus Verbum aequale Patri». 22 Cf. ibid., VIII, 11, 38, 73, 41, pp. 89-91: «Quia nemo implet legem nisi per gratiam Spiritus sancti» 23 Cf. ibid., 18, 38, 74, 41, p. 155, 99-100: «[Spiritu Sanctus] aliud enim facit gratia, aliud poena; aliud enim facit implendo, aliud deserendo»; ibid., X, 2, PL 38, 93, 41, p. 155, 99-100: «Hac illuminatione, tanquam mane facto, intelligit Ecclesia gratiam spiritualem».
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finitivamente concluso che la parola di Dio non si concede agli uomini come premio per i loro meriti ma solo gratuitamente, per un altro è, nel suo procedere omiletico, deliberatamente più indulgente nei toni e nel linguaggio, riconoscendo al mondo cristiano una sorta di merito nell’aver custodito il dono divino dell’Incarnazione, rigettando il desiderio di gloria terrena che, nella sua interpretazione, ha invece guidato la Sinagoga24. Nel settembre 417, in un periodo cioè compreso tra la composizione del De natura et gratia e quella del De gratia Christi et de peccato originali, nel pieno dunque della sua polemica contro le opere di Pelagio, Agostino tiene una omelia a Cartagine dedicata a commentare i versetti «venite adoremus et curvemur flectamus genua ante faciem Domini factoris nostri» e «Ipse fecit nos, et non ipsi nos»25. La prostrazione che il Salmo richiede all’uomo è la conseguenza della presa di coscienza della distanza tra creatore e creatura; quando l’uomo coglie infatti che è Dio il factor che lo ha voluto, non può che genuflettersi al suo cospetto non soltanto per ringraziarlo del dono dell’esistenza ma per ottenerne il favore, perché Dio ha sempre cura della sua creatura e certamente ne esaudisce le preghiere26. Non è questa però, prosegue Agostino, l’unica lettura possibile dei due versetti. Un altior et utilior intellectus è infatti nascosto sotto la littera, un significato che lo Spirito Santo ha voluto immettere in quei versetti, quasi preconoscendo in quali errori gli uomini sarebbero caduti. Le Scritture sottolineano infatti con forza che l’uomo non si è creato né fatto da solo, per ricordare, a quanti al contrario pensavano di poter affermare che ogni destino dell’uomo è prodotto dall’esercizio della sua volontà, che l’esser giusti è legato all’azione preliminare di Dio27.
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Cf. Sermones, X, 3, 38, 94, 41, p. 156, 136-140: «Vigilabat autem iam ista mater, et intelligebat, non meritis suis, quia meretrix erat, sed gratia Dei sibi filium esse concessum, opus videlicet evangelicae fidei, quod in sinu cordis nutrire cupiebat. Itaque illa gloriam hominum quaerebat in alieno filio: haec affectum dilectionis servabat in suo». 25 Cf. Sal 94, 6; Sal 99, 2. 26 Cf. Sermones, XXVI, 1, 171, 41, pp. 348-349, 24-34: «Ad istum itaque primum verborum istorum et facilem sensum, sed tamen verum, ‘adoremus eum’, fratres, ‘et prosternamur ei, et ploremus ante Dominum qui nos fecit’ (Sal 94, 6). Non enim fecit, et deserit: non enim curavit facere, et non curat custodire. ‘Ploremus ante Dominum, qui nos fecit’: quia non ploravimus quando nos fecit, et tamen fecit. Qui ergo fecit antequam rogaretur, deserit cum rogatur? Tanquam ergo dubitaret homo utrum exaudiretur orans, admonuit eum Scriptura, cum dicit, ‘Ploremus ante Dominum qui nos fecit’. Utique exaudit quos fecit: utique non potest non curare quos fecit». 27 Cf. ibid., 2, 38, 172, 41, p. 349, 39-53: «Quare enim addidit, ‘Et non ipsi nos’, cum sufficeret dicere, ‘Ipse fecit nos’ ? (cf. Sal 99, 2) nisi quia illam facturam
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Solo Adamo, infatti, ha avuto la possibilità di esercitare il suo libero arbitrio sine Deo, mostrando quanto tale condizione di solitudine non possa che portare alla caduta28. Agostino illustra al suo pubblico questo passaggio certamente complesso con un esempio di facile fruizione. La nascita è certamente per l’uomo un dono, ed è pienamente ed evidentemente gratuito; prima di essere creato, l’uomo non può infatti far niente per meritare l’esistenza29. Sul modello di quella gratia naturae, in virtù della quale l’uomo viene al mondo senza alcun merito, funziona dunque la maior gratia che conduce alla salvezza; la vera colpa dei pelagiani, novella haeresis, è dunque impedire all’uomo, con le loro teorie sulla libertà dell’arbitrio, di riconoscere la sua debolezza e accogliere la mano tesa da Dio30. Solo quando è consapevole della sua fragilità, infatti, l’uomo può intendere la grazia di Dio non come un movimento che limita la sua libertà, ma come l’unica possibilità di sal-
voluit admonere, ubi dicunt homines, Ipsi fecimus nos; id est, ut iusti essemus, iustos nos libera voluntate fecimus: quando conditi sumus, liberum arbitrium accepimus; ut ergo iusti simus, libero id arbitrio agimus. Quid adhuc Deum invocamus, ut iustos nos faciat, quod habemus in potestate, ut nos ipsi iustos faciamus? Audite, audite: et iustos et iniustos, ‘Ipse fecit nos, et non ipsi nos’. Creatus est primus homo in natura sine culpa, in natura sine vitio: creatus est rectus, non se fecit rectum. Quid se autem ipse fecerit, notum est: cadens a manu figuli fractus est. Regebat enim eum ipse qui fecerat, voluit deserere a quo factus erat; permisit Deus, tanquam dicens, Deserat me, et inveniat se, et miseria sua probet quia nihil potest sine me». 28 Cf. ibid., 38, 3, 172, 41, p. 350, 54-60: «Hoc modo ergo ostendere voluit Deus homini quid valeat liberum arbitrium sine Deo. O malum liberum arbitrium sine Deo! Experti sumus quid valeat sine Deo. Ideo miseri facti sumus, quia sine Deo quid valeat experti sumus. Experti ergo tandem aliquando noverimus, et ‘venite, adoremus eum, et prosternamur ei. Venite adoremus, et prosternamur illi, et fleamus coram Domino qui nos fecit’ (Sal 94, 6); ut perditos nos per nos, reficiat nos qui fecit nos». 29 Cf. ibid., 38, 4, 173, 41, p. 351, 90-95: «In mundo isto facti sumus, nec mundus erat quando electi sumus. Ineffabilia, mirabilia, fratres mei! Quis hoc explicare suffecerit? quis saltem quod explicet, cogitare? Eliguntur qui non sunt: nec errat qui eligit, nec vane eligit. Eligit tamen, et habet electos, quos creaturus est eligendos: habet autem apud se ipsum, non in natura sua, sed in praescientia sua»; ibid., CLVIII, 38, 3, 863, 41Bb, p. 25, 49-57: «Nemo ergo dicat: Ideo me vocavit Deus, quia colui Deum. Quomodo coluisses, si vocatus non fuisses? Si propterea te vocavit Deus, quia coluisti Deum: ergo prior dedisti, et retribuit tibi. (…) Sed ecce quando vocatus es, vel iam eras. Quomodo praedestinareris, nisi quando non eras? Quid Deo dedisti, quando qui aliquid dares, non eras? Quid ergo fecit Deus, quando praedestinavit qui non erat?». 30 Cf. ibid., XXVI, 38, 8, 174, 41, pp. 352-353, 142-146: «Haec enim est disputatio eorum, quando primo exoriri coeperunt, et contra gratiam disputare, multum tribuentes non libertati hominis, sed infirmitati; et iacentem miserum hominem ideo extollentes, ne manu sibi desuper porrecta valeat surgere».
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vezza. Agostino non risparmia dunque al suo pubblico le conseguenze aspre di tale premessa; ma, nel ribadire anche nella sua azione omiletica che l’umanità è una massa perditionis e che, per questo, non può in alcun modo meritare o aver meritato la grazia31, condivide con il suo uditorio quanto questa cosa inquieti lui per primo, in quanto uomo, incapace di cogliere il senso profondo della volontà divina: «Dirai ‘mi inquieta il fatto che uno muore, l’altro viene battezzato. Mi inquieta e mi inquieta in quanto uomo’. Se vuoi sentire la verità, inquieta anche me per il fatto che io sono un uomo»32. Agostino sembra dunque, nel linguaggio dei Sermones, aprire almeno in modo mediato alla possibilità di una conversio ad gratiam che implichi un movimento dell’uomo33, aiutato da Dio34, o quantomeno alla consapevolezza, da parte della creatura ‘malata’, della necessità di chiedere supporto alle cure divine per il tramite di Cristo35. Pur non omettendo dunque di ricordare che la gratia di Dio risiede nel profondo della sua volontà e che si esercita in modo gratuito, imperscrutabile e preventivo rispetto ai meriti36, Agostino sembra dunque 31
Cf. ibid., 14, 177, 41, p. 358, 297-299: «Si aliquid meritorum antevenit gratiam iam non gratis datur, sed ex debito redditur. Si autem gratis non datur, gratia quare vocatur?» 32 Ibid., 15, 178, 41, p. 358, 310-312: «‘Sed movet me, inquis, quod ille perit, ille baptizatur. Movet me, movet tamquam homine’. Si verum vis audire, et me movet quia homo sum». 33 Cf. ibid., X, 5, 92, 41, p. 157, 167-170: «Meretrices autem fuerunt ambae; quia omnes ex cupiditate saeculi convertuntur ad gratiam Dei, nec de prioribus iustitiae meritis vere potest quisquam gloriari». 34 Cf. ibid., 8, 96-97, 41, p. 159, 247-249: «Dicit enim Apostolus tanquam matrem se exhibuisse parvulis, in quibus bonum opus evangelicum fecerat; non ipse, sed gratia Dei cum illo». 35 Cf. ibid., XX, 1, 138, 41, p. 261, 10-15: «Sicut enim ipsam carnem nostram percutere et vulnerare cum volumus, possumus; ut autem sanetur, medicum quaerimus; nec ita nostra potestate salvamur, ut nostra potestate sauciamur: ita ad peccandum anima sibi ipsa sufficit; ad sanandum quod peccatum laeserit, Dei medicinalem dexteram implorat»; cf. ibid., XXX, 8, 191, 41, p. 387, 166-169: «Simul ergo audiamus dicentem: ‘Venite ad me omnes qui laboratis’ (Mt 11, 28). Audiamus et veniamus. Quid est: Veniamus? Credendo proficiamus, gratias agendo accedamus, perseverando perveniamus»; ibid., CCLXXVIII, 1, 1269: «Gratia enim Dei salvi efficimur a peccatis nostris, in quibus aegrotamus. Illius, illius medicina est, quae sanat animam. Nam se ipsa vulnerare potuit, sanare non potuit». 36 Cf. ibid., LIII, 14, 15, 371, 41Aa, p. 103, 326: «Gratia Dei est in occulto voluntatis eius»; ibid., C, 3, 4, 605: «O gratia gratis data! Quid tu, iuste, credis te sine Deo non posse servare iustitiam? Ipsius ergo totum reputa, quod iustus es, pietati: quod autem peccator es, tuae iniquitati adscribe»; ibid., CX, 2, 639: «Sed tamen iustus homo, gratia Dei est iustus homo (…) Homo ergo si vult esse aliquid, non sit de suo; si de suo esse voluerit, mendax erit; si verax esse voluerit,
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avvertire l’esigenza, nella occasioni omiletiche, di attenuare almeno in parte l’assolutezza della sua posizione, al fine di poter indicare, a quanti lo ascoltavano, che la radicalità di tale dottrina non esime l’uomo da uno sforzo individuale, che si concretizza nell’abbandonare le spoglie di Golia per assumere quelle di Davide, sottraendosi così al timor connesso alla sua connaturata incapacità di compiere il bene per sottomettersi invece all’amor che, guidandolo nelle sue azioni37, lo rende humilis 38. Agostino dunque non nasconde al suo uditorio le sue conclusioni: Dio non agisce secondo l’umana declinazione della giustizia (nel senso che non è possibile cercare di individuare una razionalità dell’azione giusta divina per intuirne le ragioni) ma è la sua stessa azione a produrre giustizia; non c’è dunque criterio che possa aiutare l’uomo a capire l’equità dei moti di Dio perché sono i moti di Dio a produrre equità39. Se dunque per un verso l’uomo ha perso le potenzialità (vires) del suo libero arbitrio nella caduta40 e quindi
de Dei, non de suo erit»; ibid., CXXXI, 5, 732: «Gratia salvi facti sumus, non ex nobis, sed Dei donum est (Ef 2, 8)»; ibid., CCXCIII, 8, 1333: «Non ergo nos discernunt merita, sed gratia. Nam si merita, debitum est: si debitum est, gratis non est: si gratis non est, gratia non est». 37 Cf. ibid., XXXII, 8, 200, 41, p. 403, 170-173: «Qui transit ad Christum, transit a timore ad amorem, et incipit amore iam posse quod timore non poterat. Et qui trepidabat in timore non trepidat in amore»; ibid., CLXVI, 4, 909, 41Bb, p. 315, 76-77: «Mendacium ad Adam pertinet, veritas ad Christum»; ibid., CLXXIV, 2, 940, 41Bb, p. 510, 39: «Venit Deus homo per gratiam liberatricem»; ibid., CLXXVI, 2, 950, 41Bb, p. 547, 33-35: «Nullus hominum in ista quae ex Adam defluit massa mortalium, nullus omnino hominum non aegrotus, nullus sine gratia Christi sanatus». 38 Cf. ibid., XXXII, 9, 200, 41, p. 403, 177-183: «Et ut noveritis, Fratres, quia gratia hoc implet, nemo debet de viribus suis praesumere. Hoc est enim praesumere de gratia Dei. Vocat enim te Deus et iubet ut facias, sed ipse dat vires, ut quod iubet impleri possit. Tibi autem capax fides adhibenda est, ut inundatione gratiae humilies te, supplices Deo nihil de te praesumas; spolies te Golia, induas David». 39 Cf. ibid., CXXXI, 9, 733: «Haec est ergo iustitia Dei. Quomodo dicitur: ‘Domini salus’ (Sal 3,9), non qua salvus est Dominus, sed quam dat eis quos salvos facit: sic et Dei gratia per Iesum Christum Dominum nostrum, iustitia Dei dicitur, non qua iustus est Dominus, sed qua iustificat eos quos ex impiis iustos facit»; ibid., CLXIX, 3, 917, 41Bb, p. 403, 75-79: «Nihil in eis invenis unde salves, et tamen salvas. Gratis das, gratis salvas. Omnia merita praecedis, ut dona tua consequantur merita mea. Prorsus gratis das, gratis salvas, qui nihil invenis unde salves, et multum invenis unde damnes». 40 Cf. ibid., CXXXI, 6, 732: «Verum est, magnas arbitrii liberi vires homo, cum conderetur, accepit; sed peccando amisit. In mortem lapsus est, infirmus factus est, a latronibus semivivus in via relictus est»; ibid., XXVI, 2, 172, 41, p. 349, 47: «Creatus est primus homo in natura sine culpa, in natura sine vitio: creatus est rectus, non se fecit rectum. Quid se autem ipse fecerit, notum est: cadens a manu
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Pensare da filosofo, parlare da pastore
non può che affidarsi per la sua redenzione a Dio, per un altro tale azione divina e gratuita viene descritta non come sostitutiva dell’azione virtuosa dell’uomo ma come aiuto e supporto all’esercizio della carità, che significa, per Agostino, sperare umilmente41 nella propria salvezza42. Tutto deriva dunque da Dio ma ciò non significa – sottolinea con forza Agostino quasi temendo che tale prospettiva teologica potesse indurre nella sua comunità un atteggiamento di rilassamento e passività – che gli uomini possano essere dormientes; se infatti la iustitia non è se non di Dio, la voluntas è umana43. Nella sua azione omiletica Agostino, pur non modificando mai le conclusioni cui la sua riflessione era giunta (e ribadendo con forza e costanza quanto l’azione della grazia divina sia immeritata, nonché precedente e fondativa di qualsiasi azione dell’uomo), compie dunque una precisa scelta comunicativa. Proprio la natura pastorale dei sermones sembra infatti far emergere una particolare attenzione a descrivere la condizione umana non come servile ma come nata dalla divina misericordia. L’uomo umile comprende infatti che, stante la sua fragilità, solo l’intervento divino può portare salvezza; l’azione della grazia diviene così non una mortificazione di un arbitrio (che, pur libero44, ha perso la facoltà di fare figuli fractus est. Regebat enim eum ipse qui fecerat, voluit deserere a quo factus erat; permisit Deus, tanquam dicens, Deserat me, et inveniat se, et miseria sua probet quia nihil potest sine me». 41 Cf. ibid., CLVI, 9, 855, 41Ba: «Deus enim superbis resistit, humilibus autem dat gratiam (Gc 4, 6)»; ibid., CCXII, 1, 1059: «Ex hac fide gratiam sperate: in qua vobis peccata omnia dimittentur. Hinc enim salvi eritis, non ex vobis: Dei enim donum est»; ibid., CCXXIV, 1, 1094: «Non enim digne cogitari potest illa dignatio Dei, et deficit omnis sermo sensusque humanus, venisse vobis gratuitam gratiam nullis meritis praecedentibus. Ideo et gratia dicitur, quia gratis datur». 42 Cf. ibid., CLXV, 3, 791-792, 41Bb: «Lex timorem habet, gratia spem. Quid autem interest inter Legem et gratiam, quandoquidem unus dator et Legis et gratiae? Lex terret de se ipso praesumentem, gratia adiuvat in Deum sperantem. Lex, inquam, terret; nolite contemnere, quia breve est; appendite, et magnum est. Videte quid dixerim, sumite quod ministramus, probate unde sumamus. Lex terret de se ipso praesumentem, gratia adiuvat in Deum sperantem». 43 Cf. ibid., CLXIX, 13-14, 922-923, 41Bb, pp. 417-418, 357-361 e 381-382: «Totum ex Deo: non tamen quasi dormientes, non quasi ut non conemur, non quasi ut non velimus. Sine voluntate tua non erit in te iustitia Dei. Voluntas quidem non est nisi tua, iustitia non est nisi Dei. Esse potest iustitia Dei sine voluntate tua, sed in te esse non potest praeter voluntatem tuam. (…) Et ipsa virtus tua erit; communicatio passionum Christi, virtus tua erit. Quid autem erit in communicationibus passionum Christi, si charitas non erit?». 44 Cf. ibid., CCLXXXIII, 3, 1289: «Praecipitavit hominem arbitrium liberum ingratum, arbitrium liberatum dicat nunc Domino, ‘Patientia Israel, Domine’ (Ger 17, 13)».
2. Il compito del predicatore
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il bene autonomamente) ma la sola, concreta possibilità che all’uomo resta per compiere azioni degne45 perché Dio resiste ai superbi e dà grazia agli umili46, che nell’esercizio stesso del loro amore gratuito per Lui mostrano che l’azione della grazia è già concretamente presente.
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Cf. ibid., CCCXXXIII, 6, 1463-146. Cf. ibid., XXX, 2, 188, 41, pp. 382-383; ibid., LXXXI, 3, 500-501; ibid., CL, 8, 812; ibid., CLVI, 9, 855; ibid., CCLXX, 7, 1244-1245; ibid., CCLXXXIX, 3, 1309-1310. Cf. Gc 4, 6. Cf. M.-F. Berrouard, Deux peuples, un seul troupeau, un unique Pasteur: Ecclésiologie de saint Augustin et citations de Jean 10: 16, in Augustine: Second Founder of the Faith cit., pp. 275-301. 46
CONCLUSIONI
L’argilla e il vasaio
Nell’affrontare le cinque obiezioni mosse da Giuliano e dai pelagiani (origine diabolica dell’uomo, inutilità del matrimonio, inutilità del battesimo, iniquità di Dio e impossibilità della perfezione dell’uomo) Agostino dedica in modo particolare pochi, densi passaggi, nel Contra Iulianum, ad affontare il quarto punto, relativo alla equità di Dio nel predestinare gli uomini per ribadire (con una chiarezza raramente riscontrabile su questo tema in testi precedenti) quanto il primato di Dio sia fondamento di tutta la sua riflessione: non esiste il destino (fatum) perché è Dio che fa ciò che vuole1. Resta dunque per Agostino indiscutibile che la piccolezza dell’uomo non può chiedere, nella sua condizione di minorità gnoseologica, ragioni a Dio della avvenuta o mancata elezione2, ma solo accettare che essa non possa che essere giusta e fondata. La genesi e le finalità delle ultime opere dedicate a confutare le dottrine pelagiane, composte da Agostino poco prima di morire, forniscono un osservatorio privilegiato e un luogo di utilissima riflessione per comprendere quanto profonda fosse tale convinzione. Gli ultimi tre testi, infatti, non furono composti, come tutti i precedenti, in risposta a opere pelagiane o in occasione di avvenimenti legati allo scontro con i seguaci di Pelagio. Un gruppo di monaci di Adrumeto (oggi Susa, in Tunisia) avevano infatti, per il tramite del loro abate Valentino, informato Agostino di quanto il tema del rapporto tra grazia divina e libertà umana animasse il loro dibattito interno. Per andare incontro a tali difficoltà Agostino compose, tra il 426 e il 427, il De 1 Cf. Contra Iulianum, IV, 8, 46, 761: «Nos autem cum vitiatae originis mala merita esse dicamus, gratia dicimus intrare parvulum in regnum Dei, quoniam bonus est Deus; et alium merito non intrare, quoniam iustus est Deus; et in neutro esse fatum, quoniam quod vult facit Deus». 2 Cf. ibid., IV, 8, 46, 761: «Cur istum potius quam illum damnet aut liberet nos qui sumus qui respondeamus Deo?»
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Conclusioni
gratia et libero arbitrio e il De correptione et gratia; successivamente, i dubbi sollevati, sempre nell’ottica di una riflessione dottrinale, dai monaci di Marsiglia lo indussero, per gli stessi motivi, a comporre tra il 428 e il 429 il De sanctorum praedestinatione, in due libri, oggi conosciuti come opere separate, vale a dire il De praedestinatione sanctorum e il De dono perseverantiae. Tutte e tre le opere, dunque, non nascono con fini direttamente polemici, perché non era in discussione l’ortodossia dei monaci destinatari; nelle loro pagine è dunque possibile leggere una dottrina per certi versi ‘ripulita’ dalle scorie che, inevitabilmente, la natura polemica degli scritti precedenti lasciava nello stile, nel linguggio e, per certi versi, anche nei contenuti. Analizzare la modalità con la quale Agostino affronta i medesimi temi ma in un momento in cui ha la percezione di aver sconfitto il pelagianesimo (condannato in via praticamente definitiva nel 4183) mostra quanto essi fossero tanto strutturali alla sua riflessione e, soprattutto, speculativamente necessari ed inevitabili. Le dissensiones sorte tra i fratres di Adrumeto su un problema di così profonda obscuritas4 suggeriscono ad Agostino un andamento stilisticamente e argomentativamente piano. Primo passaggio è l’affermazione netta dell’esistenza del libero arbitrio; essa è garantita da diversi passi scritturali ma, soprattutto, da tutte le occasioni in cui Dio dà agli uomini dei comandi (mandata) che, se l’uomo non fosse stato libero, sarebbero stati insensati5. Ciò non significa però che l’uomo possa ritenersi capace di agire correttamente per poter accumulare autonomamente meriti senza l’aiuto della grazia di Dio; ci sono infatti, afferma Agostino, altrettanti passi scritturali che dimostrano come, senza l’intervento divino preventivo, nessuna azione dell’uomo possa giungere veramente a effetto. Come conciliare dunque la libertà della volontà umana con la necessitarietà dell’azione della grazia che, se non interviene preliminarmente, rende inutile qualsiasi sforzo umano? Agostino non può che ribadire che la sua assoluta e incondizio3
Cf. Contra Iulianum, III, 1, 5, 703-704. Cf. De gratia et libero arbitrio, 1, 1, 881: «Nuntiatum est enim mihi de vobis, fratres, ab aliquibus qui in vestra congregatione sunt, et ad nos inde venerunt, per quos et ista direximus, quod de hac re dissensiones in vobis sint. Itaque, dilectissimi, ne vos perturbet huius quaestionis obscuritas, moneo vos primum, ut de iis quae intellegitis, agatis Deo gratias: quidquid est autem quo pervenire nondum potest vestrae mentis intentio, pacem inter vos et caritatem servantes, a Domino ut intellegatis orate; et donec vos ipse perducat ad ea quae nondum intellegitis, ibi ambulate quo pervenire potuistis». 5 Cf. ibid., 2, 4, 883: «Quid illud, quod tam multis locis omnia mandata sua custodiri et fieri iubet Deus? quomodo iubet, si non est liberum arbitrium?». 4
L’argilla e il vasaio
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nata fiducia nel Dio-carità, che si piega benevolo verso gli uomini, è l’unica ‘strategia’ che permette una parziale pensabilità dell’incomprensibile intrecciarsi di giustizia ed equità, libertà e grazia: Con queste e altre testimonianze degli scritti divini, che sarebbe troppo lungo elencare tutti, si è mostrato a sufficienza, io credo, che Dio opera nei cuori degli uomini per inclinare le loro volontà dovunque voglia, sia alle cose buone in virtù della sua misericordia sia a quelle cattive in virtù delle loro azioni, con un giudizio a volte chiaro, a volte oscuro ma sempre giusto6.
Agostino sa che tale fiducia incondizionata nella necessità dell’intervento di Dio che, solo, può dare agli uomini gli strumenti per la loro salvezza poteva indurre, nei credenti, una sorta di lassismo determinista; l’idea cioè che, se Dio è l’unico e vero protagonista della salvezza, l’uomo possa in qualche modo restare passivo ed ‘essere agito’ rendendo così superflue tanto le reprimende (che colpirebbero uomini incolpevoli) tanto le preghiere (che nulla possono rispetto al già determinato volere di Dio). L’obiezione permette ad Agostino – nel breve De correptione et gratia – di chiarire ancor meglio la sua tesi e, per certi versi, di mostrarne ulteriormente la radicalità, specificando quale ruolo abbia la riflessione filosofica in questo delicatissimo ambito. La condizione di minorità dell’uomo, che ha bisogno di Dio per salvarsi, ha senso solo se letta a parte Dei; è cioè solo Dio che sa, nell’eterno presente in cui vive, quale sarà lo sviluppo della storia degli uomini e di ogni uomo. A parte hominis, invece, la storia si svolge in una serie consequenziale di avvenimenti che un chiaro meccanismo di cause ed effetti connette tra di loro; una serie cioè, nella quale l’arbitrio dell’uomo decide e agisce e dove le azioni possono essere oggetto di correzione o indirizzate al meglio dalla preghiera. L’uomo, si potrebbe concludere, è predestinato se visto con l’occhio di Dio ma libero se osservato con lo sguardo umano; la filosofia, vale a dire la riflessione che Agostino ha condotto sin dai primi dialoghi, permette a questo secondo sguardo di provare a intuire – pur non potendolo mai fare in modo completo e definitivo – come sarebbe la sua vita se la guardasse con gli occhi di Dio.
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Cf. ibid., 21, 43, 889: «His et talibus testimoniis divinorum eloquiorum, quae omnia commemorare nimis longum est, satis, quantum existimo, manifestatur, operari Deum in cordibus hominum ad inclinandas eorum voluntates quocumque voluerit, sive ad bona pro sua misericordia, sive ad mala pro meritis eorum, iudicio utique suo aliquando aperto, aliquando occulto, semper tamen iusto».
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Conclusioni
L’uomo trae vantaggio dalla correzione quando ha di lui misericordia e lo aiuta Colui che fa trarre vantaggio anche senza correzione a quelli che designa. Ma poiché alcuni vengono chiamati per essere corretti (reformo) in un modo, altri in un altro e con diversi e innumerevoli modi, evitiamo di affermare che il giudizio tocchi all’argilla anziché al vasaio7.
Il procedere delle ultime opere indirizzate ai monaci di Marsiglia mostra quanto questo risultato sia, nella riflessione agostiniana, ormai lineare e stabile. Nel De praedestinatione sanctorum, Agostino ripensa le sue posizioni giovanili, ricordando il momento in cui lui stesso aveva superato l’idea che la fede si producesse nell’uomo autonomamente e non fosse dono di Dio8; questa nuova convinzione non scalfisce però in lui la fiducia nella piena giustezza di tale azione di Dio. Tutti, nella comunità degli uomini, sono peccatori in Adamo e, dunque, condannati alla perdizione; se Dio elegge in modo insondabile alcuni, concedendo loro il dono della fede, non commette ingiustizia nei confronti di chi non sceglie perché questi verranno comunque condannati in modo equo a causa di quel peccato originale. Mentre dunque i condannati non scelti restano tali, in modo opportuno, secondo giustizia, gli uomini cui viene donata la fede sono eletti secondo misericordia9.
7 Cf. De correptione et gratia, 5, 8, 920, pp. 225-226, 25-30: «Tunc autem correptione proficit homo, cum miseretur atque adiuvat, qui facit quos voluerit etiam sine correptione proficere. Sed quare isti sic, illi aliter, atque alii aliter, diversis et innumerabilibus modis vocentur ut reformentur, absit ut dicamus iudicium luti esse debere, sed figuli». Cf. Rm 9, 20. 8 Cf. De praedestinatione sanctorum, 3, 7, 964: «Quo praecipue testimonio [scil. di Cipriano] etiam ipse convictus sum, cum similiter errarem, putans fidem qua in Deum credimus, non esse donum Dei, sed a nobis esse in nobis, et per illam nos impetrare Dei dona quibus ‘temperanter et iuste et pie vivamus in hoc saeculo’ (Tit 2, 12)». Sul momento della sua ‘conversione’, cf. ibid., 4, 8, 966: «Ecce quare dixi superius, hoc apostolico praecipue testimonio etiam me ipsum fuisse convictum, cum de hac re aliter saperem; quam mihi Deus in hac quaestione solvenda, cum ad episcopum Simplicianum, sicut dixi, scriberem, revelavit. Hoc igitur Apostoli testimonium, ubi ad reprimendam hominis inflationem dixit: ‘Quid enim habes quod non accepisti?’ (1 Cor 4, 7) non sinit quemquam fidelium dicere: Habeo fidem quam non accepi. Reprimitur omnino his apostolicis verbis tota huius responsionis elatio». 9 Cf. ibid., 8, 16, 972: «Fides igitur, et inchoata, et perfecta, donum Dei est: et hoc donum quibusdam dari, quibusdam non dari, omnino non dubitet, qui non vult manifestissimis sacris Litteris repugnare. Cur autem non omnibus detur, fidelem movere non debet, qui credit ex uno omnes isse in condemnationem, sine dubitatione iustissimam, ita ut nulla Dei esset iusta reprehensio, etiamsi nullus inde liberaretur. Unde constat magnam esse gratiam, quod plurimi liberantur, et quid sibi deberetur, in eis qui non liberantur agnoscunt». Cf. De dono perserveran-
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In tutta la sua produzione, Agostino mostra costantemente quale sia, a suo parere, la relazione tra il tempo della vita e il dispositivo filosofico che di tale tempo si fa interprete. L’uomo infatti è, rispetto allo svolgersi della sua esistenza, un testimone tanto partecipe da essere incapace di analizzarne le linee di sviluppo in modo oggettivo; pur soffermandosi, momento per momento, ad analizzare le vicende della propria vita, infatti, egli non sa sollevarsi per collocarle in uno sguardo prospettico più vasto. È dunque necessario che, conclusa una fase del suo vissuto, l’uomo si fermi a riguardarla per portarla a sintesi e comprenderne moventi e movimenti. La vita, da esperienza vissuta, si trasforma così, nello sguardo di chi l’ha prima esperita e poi la rianalizza, in una sorta di testo conchiuso che, proprio nel suo essersi già interamente svolto, può essere oggetto di interpretazione. Le vicende della propria esistenza diventano così altrettanti capitoli di un’opera che, non più viva ma vissuta, può essere sottoposta a vaglio. Ponendo costantemente al centro della sua riflessione la sua esperienza biografica, intesa sia come cammino personale che come caso paradigmatico, Agostino mostra al suo lettore la vastissima gamma di eventi interiori che ne hanno costellato il percorso. La ricerca infinita, il desiderio carnale, l’aspirazione alla gloria, la necessità del trascendente, l’esaltazione della fede raccontano, nel loro susseguirsi, una fragilità, sua e di ogni uomo, che Agostino, da debolezza connaturata, trasforma in chiave di volta del suo sistema. È proprio infatti la presa in carico, da parte della filosofia, di questa limitatezza che costringe il pensiero, che altrimenti cadrebbe nella passività gnoseologica e morale dello scetticismo, a ipotizzare come necessario un approdo fideistico, che cioè di quella fragilità si prenda cura, la accompagni e la supporti. Alla luce di tale premessa, lungo tutto l’arco della sua produzione Agostino chiarisce sempre più (in primo luogo a se stesso) che il protagonismo di Dio nella vita del singolo uomo come dell’umanità intera non può essere parziale: se l’uomo è debole, fragile e dunque incapace di conoscere il vero e operare il giusto (pur desiderandoli entrambi), l’intervento di Dio non può limitarsi a un semplice supporto, ma deve per certi versi realizzare direttamente ciò che l’uomo non potrebbe mai compiere autonomamente. La ‘invadenza’ di Dio diventa così sempre più signi-
tiae, 12, 28, 1009: «Dando enim quibusdam quod non merentur, profecto gratuitam, et per hoc veram suam gratiam esse voluit: non omnibus dando, quid omnes merentur ostendit. Bonus in beneficio certorum, iustus in supplicio ceterorum: et bonus in omnibus, quoniam bonum est, cum debitum redditur; et iustus in omnibus, quoniam iustum est, cum indebitum sine cuiusquam fraude donatur».
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ficativa per Agostino che, però, non può né vuole rinunciare a ribadire come la natura razionale e quaerens dell’uomo non possa che dirlo libero, ed è dunque costretto a concludere come essa sia insondabilmente compatibile con l’intervento di una grazia divina che precede ogni atto dell’uomo. Nell’inevitabile evoluzione stilistica e personale che producono quarant’anni di dispute, contrasti, dialoghi, riflessioni e impegni politici, Agostino sceglie di accettare fino in fondo tanto le conseguenze dello stato di minorità cui l’uomo è condannato quanto il suo essere naturaliter filosofo, nella paradossale consapevolezza che proprio la sua condizione cercante è, al contempo, il problema e la soluzione. Essere filosofi cristiani, infatti, significa per Agostino vivere in una particolare condizione di appercezione di se; di uno sguardo cioè che, in quanto umano, vive l’orizzontalità della storia (nella quale gli uomini agiscono) come luogo di esercizio della volontà libera (che, per questo, può essere corretta, rimproverata, e per la cui salvezza è possibile pregare e agire) ma che, in quanto cristiano, sa che al di sopra della sua prospettiva ‘orizzontale’ c’è uno sguardo superiore, alla cui azione nulla sfugge e senza il cui intervento nulla giunge veramente a compimento. Il compito che Agostino sembra assegnare alla filosofia cristiana è dunque, per certi versi, drammatico e ‘disumano’. Se infatti modi e forme della ri-forma (reformatio) degli uomini non possono esser compresi dagli uomini stessi ma solo da Dio, così come è di competenza del vasaio e non dell’argilla scegliere quale forma essa debba assumere, al filosofo cristiano è assegnato il ruolo ancipite di materia plasmabile (perché egli, in quanto uomo, condivide la sorte di sottomissione alla volontà di Dio comune a tutti i suoi simili) che ha però possibilità di intuire (grazie ai suoi talenti speculativi e alla sua fede) elementi sparsi della natura e delle intenzioni del suo plasmatore10. È questa per Agostino la condizione, a un tempo terribile e straordinaria, del filosofare cristiano, costretto a (con)vivere nel tempo con la intuita consapevolezza dell’esistenza di un piano ulteriore che di quello temporale è progetto sempre provvidente. Perché è l’imperfezione stessa dell’uomo, gnoseologica e morale, che per certi versi implica naturalmente l’azione di Dio; è lo spazio vuoto lasciato dai limiti umani a richiedere che Dio li riempia con la sua azione. Uomo e filosofo al contempo, Agostino rappresenta, nelle sue opere, la condizione scissa di chi vive, esistenzialmente, il tempo quotidiano delle 10 Cf. De correptione et gratia, 8, 19, 927, pp. 230, 2-3: «Nec miremur nos vestigare non posse investigabiles vias eius».
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azioni e delle scelte, ma aspira ad abitare, intellettualmente, il metatempo concettuale della verità. Fare filosofia è dunque il movimento con il quale l’uomo guarda il suo tempo storico ma cerca di intuirne il senso metastorico; è il tentativo di collocare le vicissitudini degli uomini, come singoli (Confessiones) e come comunità (De civitate Dei) nel più complesso ordito provvidenziale divino, in una indagine in cui anche lo sforzo dell’uomo trova senso, pur nella sua piccolezza, perché «i più enormi tra i problemi sono soliti rendere grandi i piccoli uomini che li indagano»11. Così, dopo aver compreso e mostrato (nella fase della sua vita successiva alla conversione e interamente dedicata a costruire le fondamenta filosofiche della sua riflessione) che la ratio umana non può giungere autonomamente alla verità – alla quale pure aspira incessantemente – se il Dio-ordinatore non si piega verso di essa, guidandone e indirizzandone la ricerca per il tramite di tutte le vestigia che la sua azione provvidente ha lasciato e lascia nel creato, Agostino individua proprio in tale movimento caritatevole di Dio l’elemento cardine attorno al quale costruire la sua stagione pastorale. Come infatti il Dio-carità si dice e si dona gratuitamente all’uomo per farsi cercare, l’uomo non può fare altro che vivere l’esercizio della sua imperfetta ratio nell’imitazione ‘sociale’ di quella somma caritas, cercando cioè di condividere il suo percorso con un moto filantropico gratuito che imiti quello di Dio. La condizione per certi versi prometeica dell’individuo che, nel chiuso della sua speculazione razionale, alimenta la sua fede grazie alla ricerca incessante delle tracce lasciate da Dio nel creato, si amplia così fino a raggiungere una prospettiva nella quale non è più in questione il destino del singolo ma dell’umanità tutta. L’individuo, che scopre insufficiente la pur straordinaria ratio filosofica sua e di tutti i suoi simili, non può che condividere le fragilità di questa condizione, esaltata dal quaerere ma in esso anche sempre imperfetta, con gli altri ‘singoli’ affinché la societas, senza mai poter arrivare a conoscere la verità, possa quantomeno condividere il percorso di continua e imperfetta approssimazione a essa dettato dal vincolo della caritas. La riflessione filosofico-teologica si declina, così, nel pensiero di Agostino, non come un iter disciplinare, che cioè intenda condurre al possesso di uno specifico contenuto, ma come un vero e proprio orizzonte di senso. Agostino non intende cioè la ricerca della verità come il progressivo conseguimento di conoscenze sempre più affida11 Cf. Contra Academicos, I, 2, 6, 909, p. 6, 49-50: «Nam et maximae res cum a parvis quaeruntur, magnos eos solent efficere».
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Conclusioni
bili ma come l’apertura di uno spazio di movimento che il pensiero umano può (e per certi versi deve) percorrere per dare significato e direzione alla sua esistenza e, nello specifico, al dono razionale che, solo, ha ricevuto. Un movimento aperto e infinito, plurivoco e asintotico, consapevole cioè di potersi ‘convertire’ per tutta la vita verso innumerevoli direzioni, tutte compossibili ma tutte allo stesso modo incapaci di farlo aderire perfettamente all’oggetto cui esso tende. Tutta la sua produzione – tanto quella maggiormente focalizzata sullo sforzo della eruditio individuale quanto quella innervata di una tensione caritatevole alla dimensione sociale – appare così, in uno sguardo di insieme, come il luogo in cui Agostino inanella esperienze diverse (intellettuali, spirituali, disciplinari, politiche, comunitarie, etc.) per mostrare ai suoi lettori, con la complessa testimonianza dei suoi multiformi vissuti, ciò che sarebbe stato impossibile illustrare loro attraverso un dispositivo razionale. La tensione a una trascendenza che resta in sé sempre incoglibile ma che sempre richiama a sé l’uomo fa sì che la riflessione di Agostino non possa che coincidere con il racconto della sua stessa esperienza di vita, con la testimonianza cioè di quell’esercizio di ricerca che, impossibilitato ad accedere all’oggetto al quale aspira, non trova mai requie e per questo occupa interamente l’animo e l’esistenza. Le opere di Agostino restituiscono così al lettore l’immagine vibrante e complessa di un quaerere lacerante ma destinale, indispensabile, unico vero dispositivo esistenziale veramente capace di dare senso alla vita dell’uomo.
BIBLIOGRAFIA
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INDICE
DEI NOMI*
Abele (bibl.) 218n, 263, 263n, 264, 264n, 301 Abramo (bibl.) 127n, 215, 218n, 279, 279n Accademia, Accademici 21, 21n, 23, 26, 35, 42-53, 72, 76, 89, 90n, 94, 97 Adamo (bibl.) 103, 158n, 165, 165n, 180n, 186, 190, 191, 191n, 192, 226, 226n, 227, 229, 231, 233, 261, 262, 263, 263n, 264, 267, 271, 281, 283n, 292 Adeney, F. S. 301 Adeodato, figlio di Agostino 29, 30, 30n, 80, 81, 185 Adrumeto (Susa, Tunisia) 231, 289, 290 Africa 17, 21, 29, 78, 79, 93, 113, 140, 158, 170, 170n, 184, 213n, 214n, 215, 215n, 235, 278n, 308, 313 Agostino di Ippona passim; Acta contra Fortunatum Manichaeum 107-111, 297; Confessiones 13, 18-31, 33, 34, 55n, 60n, 63, 68n, 80n, 84n, 91, 92n, 93, 104n, 128n, 151, 153, 158n, 168, 169n, 170, 170n, 173-180, *
219, 236n, 240, 241, 295, 297, 303, 304, 308, 310, 313, 317, 319, 320; Contra Academicos 17, 19n, 22n, 33-54, 55, 56, 63, 64n, 65n, 68, 89, 101, 101n, 162n, 183, 203, 207, 230, 295n, 297, 302, 303, 304, 318; Contra Cresconium 221, 221n, 222n, 297, 311; Contra duas epistolas Pelagianorum 231, 297; Contra epistolam Manichaei quam vocant Fundamenti 20n, 150-156, 158n, 297; Contra epistolam Parmeniani 214-217, 297; Contra Iulianum 231, 231-233, 289, 289n, 290n, 297, 316; Contra litteras Petiliani 220n, 221, 297; De baptismo 218, 218n, 297; De beata vita 37, 51n, 54-55, 56, 64, 64n, 161, 161n, 260, 297, 305, 314, 318; De catechizandis rudibus 20n, 22n, 181-187, 194, 199, 216, 236n, 265n; De civitate Dei 19n, 56n, 86n, 129n, 142n, 174n, 235-271, 295, 297, 303, 305, 307, 308, 309, 313, 316, 318; De correptione et gratia 290, 292n, 297; De dialecti-
I numeri in corsivo rinviano a una trattazione specifica del lemma; una ‘n’ accanto al numero indica le ricorrenze delle note. L’indice accoglie anche i nomi geografici.
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Indice dei nomi
ca [=Principia dialecticae] 80n, 298; De diversis quaestionibus ad Simplicianum 122, 139, 157168, 175n, 228, 228n, 298, 305; De diversis quaestionibus octoginta tribus 73n, 149n, 298; De doctrina christiana 101n, 114, 125-138, 139, 139n, 140n, 183, 185, 193, 204, 273-277, 311, 312, 315, 317; De dono perseverantiae 290, 293n, 298; De duabus animabus contra Manichaeos 157, 158n, 298; De Genesi ad litteram 77n, 113n, 117, 117n, 167, 178n, 187n, 191, 216, 298, 314, 316, 317; De Genesi ad litteram liber imperfectus 113n, 114n, 115n, 116n, 117, 298, 309, 311; De Genesi contra Manichaeos 65n, 91n, 101-104, 111, 298, 310, 314; De gratia Christi et del peccato originali 229, 292n, 231, 280, 298; De gratia et libero arbítrio 290, 290n, 291n, 298; De immortalitate animae 71, 71n, 298, 318; De libero arbítrio 72-78, 91, 107n, 108, 139-150, 150n, 159, 159n, 166, 298, 306, 307, 310, 314; De magistro 79-85, 91, 127, 161n, 185, 298, 302; De moribus ecclesiae et de moribus Manichaeorum 98-102, 105, 105n, 109, 110, 111, 157, 298; De musica 56n, 306; De natura et gratia 229n 230n, 280, 298; De ordine 33n, 37, 44n, 56-68, 74n, 99, 161n, 260, 298, 305, 306, 312, 319; De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum 225-228, 298; De praedestinatione sanctorum 158, 159n, 162, 165n, 290, 292, 298; De pulchro et apto 17n; De
quantitate animae 71, 71n, 74, 79n, 80n, 91, 99n, 298; De sermone Domini in monte 117119, 298; De Trinitate 60n, 84n, 99n, 116n, 136n, 199-211, 224, 268, 270n, 298, 301, 306, 312, 313, 314, 318; De utilitate credendi 89n, 95-98, 158, 299, 307, 314; De vera religione 85-89, 91, 95, 96, 97, 140, 140n, 243, 299, 304, 309, 312; Enarrationes in Psalmos 25n, 69n, 101n, 150n, 167n, 299; Epistolae 33n, 36n, 39n, 52n, 53n, 54n, 89n, 166n, 177n; Epistulae ad Romanos inchoata expositio 83n, 119-123, 299; Expositio quarundam propositionum ex Epistola ad Romanos 119-123, 299; In Iohannis epistolam ad Parthos 50n, 84n, 136n, 195n, 196n, 299; In Iohannis evangelium 65n, 120n, 165n, 194n, 213n, 299; Retractationes 22n, 80n, 139n, 160, 160n, 299; Sermones 277-285, 299; Soliloquia 33n, 66-72, 146, 158, 158n, 161n, 162n, 169n, 299, 305, 311, 318 Aigner, T. 318 Alarico I, re dei Visigoti 237, 239, 241 Alici, L. 57n, 301, 305, 307, 315 Alipio, vescovo di Tagaste 27, 28, 28n, 29, 45-47, 64n, 125n Ambrogio di Milano 22, 23, 23n, 24, 25n, 26, 35, 36, 37, 84n, 94, 160, 232, 309, 310, 316, 317 Ambrosiaster 25n Amos, profeta (bibl.) 275n Anassagora di Clazomene 254 Anassimandro di Mileto 254 Anassimene di Mileto 254 Ando, C. 80n, 301 Anoz, J. 17n, 26n, 140n, 301
Indice dei nomi
Apuleio di Madaura 257, 259 Archelao di Atene 254 Areopago di Atene 222, 222n, 256 Aristotele di Stagira 44n, 237n, 316; Metafisica 44n Arquillière, X. 301 Asiedu, F. B. A. 19n, 301 Atene 222, 222n Attias, J.-C. 173n, 319 Auer, G. 318 Augusto, Gaio Giulio Cesare Ottaviano (imperatore) 250 Ayres, L. 25n, 211n, 301, 311 Ax, W. 246n, 299 Bakhoche, B. 311 Balido, G. 301 Banniard, M. 301 Barbanti, M. 19n Barclift, P. L. 231n, 301 Barnes, T. 314 Bauer, J. B. 297, 298 Baun, J. 18n, 303 Beatrice, P. F. 57n, 301 Beltran, M. 73n, 302 Benjamins, H. S. 302 Bentivegna, J. 302 Bermon, E. 22n, 301, 302 Berrouard, M.-F. 193n, 285n, 302 Bescond, L. 81n, 302 Bettetini, M. 302 Bisogno, A. 53n, 60n, 80n, 302 Bochet, I. 300, 302 Boeve, L. 320 Bonner, G. 227n, 302 Boodts, S. 299 Bouscharian, A. 303 Bouton-Touboulic, A.-I. 48n, 53n, 60n, 303 Bracht, K. 303 Brachtendorf, J. 18n, 205n, 303, 313 Bright, P. 303 Brons, M. 303
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Bueneacasa Pèrez, C. 303 Burnier, A. 308 Burns, D. 236n, 303 Burns, J. P. 18n, 303 Burns, P. C. 251n, 303 Burt, D. X. 264, 304 Butlen, F. 24n, 304 Caino (bibl.) 219n, 263, 263n, 264, 264n, 301, 303 Caldwell, E. 80n, 304 Caltabiano, M. 304 Cambronne, P. 304 Cameron, A. 303 Camisasca, M. 86n, 304 Campodonico, A. 304 Capelle, P. 312 Cappuccio, C. 304 Caputo, D. 300 Cardauns, B. 246n, 300 Carneade di Cirene 43n Cartagine 17, 19, 21, 22, 93n, 126, 183n, 184n, 214, 225, 280 Caruso, G. 304 Cary, P. 304 Cassiciacum 17, 29, 33, 34, 36, 37, 56, 58, 67n, 72 Cassiodoro, Flavio Magno Aurelio Senatore 59n Catapano, G. 304 Cataudella, Q. 305 Cavalcanti, E. 305 Cesare, Gaio Giulio 250 Chadwick, H. 214n, 305 Chronister, A. C. 305 Cicerone, Marco Tullio 19, 19n, 20, 21, 21n, 22n, 24, 26, 36, 38n, 43n, 48, 222, 244, 246, 246n, 247, 247n, 248, 249, 258, 275, 275n, 276299, 309, 308, 314, 318; Academica 21n, 22n, 48; De divinatione 248n, 299; De fato 248n, 299; De inventione 275n, 299; De natura de-
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Indice dei nomi
orum 246, 246n, 253n, 299; De oratore 276n, 299; Hortensius 19, 19n, 20, 38, 38n, 299, 301, 306, 318; Orator 276n, 299; Tusculanae disputationes 244n, 253n, 299, 305, 314 Cipriani, N. 59n, 73n, 159n, 195n, 305 Cirta (Constantina, Algeria) 221 Claes, D. 320 Cleante di Asso 247 Colli, A. 305 Costantino I, imperatore 237, 250 Courcelle, P. 253n, 306 Coyle, J. K. 20n, 91n, 305, 306 Cranz, F. E. 266n, 306 Crawford, D. D. 27n, 306 Cresconio, donatista 221 Cricco, V. 137n, 306 Cristaudo, W. 300 Curley, A. J. 37n, 306 Cutino, M. 306 D’Agostini, F. 44n, 117, 306 d’Onofrio, G. 19n, 306 Daniele, profeta (bibl.) 82 Daur, K.-D. 299 Davide, re di Israele (bibl.) 283, 283n de Filippis, R. 62n, 178n, 306 De Graff, T. B. 22n, 306 De Monticelli, R. 306 De Paulo, C. 301 Decret, F. 170n, 306, 316 Dekker, D. E. 299 Di Berardino, A. 20n, 305 Di Martino, C. 306 Diogene di Sinope 254 Divjak, J. 299 Djuth, M. 150n, 306, 307 Dodaro, R. 306 Doignon, J. 56n, 59n, 307 Dolbeau, F. 307 Dombart, B. 297
Domiziano (imperatore) 251 Donato, Donatismo 17, 29n, 181, 213-225, 235n, 238, 274, 278n, 300, 303, 307, 308, 311, 316 Doody, J. 300 Doucet, D. 67n, 307 Doughery, R. J. 267n, 307 Drecoll, H. 300 Drobner, H. R. 307 Dulaey, M. 307 Dunkle, B. 307 Dunn, J. 266, 306 Dupont, A. 307 Durand, E. 309 Dutton, B. D. 307 Duval, Y.-M. 307 Edwards, M. 303 Eguiarte Bendìmez, E. A. 97n, 307 Enea (mit.) 265 Enoch (bibl.) 218n, 264 Enos (bibl.) 264, 264n Epicuro, Epicureismo 222n, 237n Esaù (bibl.) 163, 190n, 213n, 219n Esposito, C. 300 Eva (bibl.) 231, 264 Evodio, vescovo di Uzala 71, 74, 79n, 141, 141n, 147, 148 Fahey, M. 314 Fausto, vescovo manicheo 21, 93, 93n, 94 Feichtinger, H. 308 Felice, manicheo 107 Felici, S. 314 Ferrari, L. C. 29n, 308 Ferretti, S. 308 Ferri, R. 308 Ferrisi, P. A. 308 Fialon, S. 311 Finan, T. 25n, 314 Fitzgerald, A. 308 Fladerer, L. 308 Flood, E. 177n, 308
Indice dei nomi
Florez, F. 271n, 308 Foley, M. P. 308 Folliet, G. 297 Föllinger, S. 305 Fortunato, manicheo 107, 109 Fraipont, J. 299 Fredouille, J.-C. 307 Frend, W. H. C. 214n, 308 Fuhrer, T. 308 Galindo Garcia, A. 309 Gallicet, E. 247n, 309 Ganze, R. J. 28n, 309 García Álvarez, J. 309 Gard, D. L. 309 Gasbarro, N. 85n, 309 Gasti, F. 134n Gersh, S. 22n, 309 Giacobbe (bibl.) 127n, 163, 190n, 213n Giardina, G. R. 19n Gioia, L. 309 Giomini, R. 248n, 299 Giovanni, apostolo ed evangelista (bibl.) 193, 194, 195, 195n, 202 Girardi, M. 313 Girolamo di Stridone 124, 124n, 125, 126, 225, 264, 304 Giuda, apostolo (bibl.) 219n, 241 Giuliano d’Eclano 231, 231n, 289, 301 Giuliano, Flauvio Claudio (imperatore) 251 Glidden, D. 273n, 309 Glorie, F. 298 Golia (bibl.) 283, 283n Gorman, M. M. 114n, 309 Green, W. M. 297, 298 Greisch, J. 97n, 314 Grigsby, B. L. 28n, 309 Grilli, A. 38n Grossi, V. 23n, 227n, 309 Hadot, P. 25n, 309
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Haggerty, W. P. 309 Hamman, A. G. 277n, 310 Harding, B. 310 Harris, I. 266n, 306 Harris, S. J. 28n, 309 Harrison, C. 166n, 310 Harrison, S. 310 Hebb, R. N. 310 Hébert, G. 312 Heidl, G. 310 Helm, P. 310 Hennigfeld, J. 310 Hennings, R. 126n, 310 Hessbrüggen, W. S. 310 Holt, L. 310 Holte, R. 29n, 310 Holtz, L. 307 Holzer, V. 309 Hombert, P.-M. 278n, 310 Hörmann, W. 298, 299 Horn, C. 264n, 304 Hughes, C. 310 Hughes, L. L. 300 Hugo, M. 313 Humphries, T. L. 310 Hunter, D. G. 311 Ilario di Poitiers 25n Inglis, J. 320 Ippona (al-Annaba, Algeria) 17, 74, 181, 182, 278, 300, 302, 311, 314 Isola, A. 311 Jackson, B. D. 80n, 127n, 298 Jackson, M. G. 311 James-Raoul, D. 303 Jerphagnon, L. 312 Jullien, M.-H. 307 Kalb, A. 297 Kamimura, N. 113n, 311 Kennedy, R. P. 300 Kenyon, E. 311
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Indice dei nomi
King, P. 311 Kotila, H. 29n, 311 Kotzé, A. 20n, 311 Kretzmann, N. 301 Kriegere, C. 319 Kronbichler, J. 318 Kumaniecki, K. 222n, 276n, 299 Lagouanère, J. 311 Lamberigts, M. 311, 320 Lambot, C. 299 Lamirande, E. 216n, 311 Lane Fox, R. J. 311 Langa, P. 222n, 312 Laporte, J. 312 Lartidiano, cugino di Agostino 29 Lavere, G. 312 Lenzi, M. 312 Lettieri, G. 305, 312 Levy, C. 53n, 303 Licenzio, figlio di Romaniano 29, 38-43, 45, 57, 58, 58n, 59, 59n Lienhard, J. T. 318 Ligota, C. 237n, 312 Livingstone, E. A. 18n, 302, 307 Louth, A. 25n, 311 Lucullo, Lucio Licinio 21n Luttikhuizen, G. P. 302 Maccagnolo, E. 312 MacCarthy, M. C. 312 MacKenzie, J. 312 Madec, G. 279n, 300, 310, 312 Magnavacca, S. 44n, 312 Magris, A. 312 Maierù, A. 312 Malatesta, M. 51n, 312, 313 Manganaro, P. 19n Mani, Manicheismo 17, 20, 20n, 21, 22, 23, 25, 26, 65n, 68, 78, 84n, 91-111, 113, 122, 150, 151, 151n, 153, 153n, 154, 157, 158n, 169, 187, 214, 215, 232, 235, 260, 278, 300, 305, 306,
310, 311, 312, 313, 314, 316, 317, 319, 320 Mann, W. E. 20n, 310 Mara, M. G. 313 Marcellino, Flavio 225, 226, 238, 239, 240 Mario Vittorino 25, 25n Marin, M. 313 Marini, A. 300 Mario, Gaio 250 Markus, R. 205n, 313 Marrou, H.-I. 253n, 313 Martin, J. 298 Mason Sutherland, C. 313 Massie, A. 313 Matteo, evangelista (bibl.) 117, 118, 118n Matter, E. A. 313 Maxifield, J. A. 309 Mayer, M. 313 Mazziotta, R. 170n, 313 McWilliam, J. 314 Menestrina, G. 126n, 313 Menn, S. P. 20n, 313 Merdinger, J. E. 170n, 313 Merino, P. 29n, 310 Merrigan, T. 320 Milano 17, 22, 23, 29, 71, 84n, 94, 160 Miles, R. 310, 316 Miotti, M. E. 314 Miscioscia, S. 314 Mondin, B. 314 Monica, madre di Agostino 17, 19, 23, 29, 29n, 30, 54n, 310, 311 Monique, V. 314 Moreschini, C. 126n, 313, 314 Morrison, K. F. 314 Mosè (bibl.) 127n, 179n, 206n, 218n Most, G. W. 214, 305 Mountain, W. J. 298 Muller, E. C. 318 Müller, G. M. 305 Mutzenbecher, A. 298, 299
Indice dei nomi
Nakagawa, S. 314 Naldini, M. 312 Nash, R. H. 25n, 314 Navigio, fratello di Agostino 29, 38, 38n, 39, 51n Nebridio 29 Neoplatonismo 22n, 25, 25n, 26, 63, 309, 314 Newhauser, R. 314 Noblesse-Rocher, A. 319 Noè (bibl.) 218n Nunez, L. 308 O’Connell, R. J. 314 O’Daly, G. J. P. 301, 314 O’Donnell, J. J. 25n, 314 O’Leary, J. S. 97n, 314 O’Loughlin, T. 25n, 314 O’Meara, 314 Obertello, L. 314 Ocker, C. 315 Ogliari, D. 315 Oroz Reta, J. 29n, 55n, 315 Ostia 29, 320 Padovese, L. 196n, 305 Paffenroth, K. 30n, 300, 315 Pagliacci, D. 300, 315 Paolo di Tarso, Paolo Apostolo (bibl.) 28, 28n, 47n, 72n, 100, 108, 109, 109n, 111, 118-123, 133, 163, 165, 174, 190n, 195n, 201n, 205n, 217, 222n, 223, 256, 263n, 275n, 282n, 292n, 301, 302, 304, 305, 306, 313, 316, 317 Paparazzo, E. 315 Parel, A. J. 315 Parmeniano, donatista 214, 214n, 215, 218, 308 Parrish, J. M. 315 Parroni, P. 247n, 309 Partoens G. 299 Patrizio, padre di Agostino 29
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Pelagio, Pelagianesimo 17, 29n, 167, 227n, 228-233, 237, 280, 281, 289, 290, 302, 304, 305, 306, 307, 309, 310, 311, 320 Pérez Velazquez, R. 276n, 315 Peroli, E. 25n, 315 Petersmann, H. 214n, 305 Petiliano, vescovo donatista di Cirta 221, 225 Petschenig, M. 297 Pic, A. 247n, 315 Picard, G.-C. 315 Piccolomini, R. 301, 305, 315 Pieretti, A. 301, 305, 315 Pinborg, J. 80n, 298 Pitagora di Samo 253, 254, 254n Pizzani, U. 59n, 315 Pizzolato, L. F. 23n, 309 Platone, platonismo 21, 22n, 25n, 39n, 43, 44n, 45, 48, 49, 51, 51n, 52, 53, 59, 63, 68, 68n, 86n, 87n, 134, 177, 177n, 244n, 253, 253n, 254, 255, 255n, 256, 257, 258, 271, 301, 311, 314, 315; Cratilo 44n; Sofista 44n Plotino di Licopoli 24, 26, 36, 37, 68, 68n, 318, 320 Pohlenz, M. 244n, 299 Pollmann, K. 300, 310, 315, 316 Ponticiano 27 Popelard, M.-D. 312 Poque, S. 316 Pool, J. B. 316 Porfirio di Tiro 24, 73n, 258n, 259, 259n, 305 Porro, P. 300, 302, 316 Possidio, vescovo di Calama, biografo di Agostino 278, 278n, 300 Pranger, M. B. 316 Privitera, G. A. 305 Proculiano 181, 182, 183 Pulina, P. 24n, 319
328
Indice dei nomi
Rebillard, E. 316 Remo, fondatore di Roma 264n Rémy, G. 316 Reta, J. O. Reynolds, L. D. 247n, 300 Ribreau, M. 316 Ries, J. 316 Ritter, A. M. 214n, 305 Rizzi, M. 23n, 309 Roberts, D. E. 316 Roma 17, 17n, 21, 22, 71, 74, 94, 170n, 214n, 237, 238, 239, 239n, 240, 241, 242, 243n, 244, 245, 249, 249n, 250, 250n, 240n, 241n, 252, 258, 263, 264n, 265, 306, 308, 313, 315, 317 Romaniano 24, 29, 33, 34, 37, 43, 43n, 46n, 64 Romano, F. 19n Romolo 264n Rousselet, J. 316 Rosheger, J. P. 316 Rudebusch, J. P. 316 Ruiz, R. E. 316 Ruokanen, M. 316 Rustico, cugino di Agostino 29 Saeteros Pérez, T. 316 Salamito, J.-M. 316 Salanitro, G. 317 Sallustio, Gaio Crispo 244, 244n Salzman, M. R. 317 Salomone (bibl.) 279 Santi, G. 317 Scanlon, M. J. 300 Schlabach, G. W. 160n, 317 Schlapbach, K. 317 Schnaubelt, J. C. 80n, 302 Schragl, F. 318 Schuhl, P.-M. 312 Schwindt, J. P. 308 Scettici, Scetticismo 35, 36, 37, 37n, 43, 45, 48, 50, 52, 53, 89,
90, 94, 97, 148, 162, 164, 168, 220, 293, 304, 306 Scibetta 178n, 317 Scippa, V. 301 Seneca, Lucio Anneo 246, 247, 247n, 248, 249, 258, 309; Ad Lucilium epistolae morales 247n, 300 Set (bibl.) 264, 264n Simonetti, M. 113n, 317 Simpliciano 160, 163 Siniscalco, P. 317 Slater, P. 314 Socrate 177, 254, 254n Solignac, A. 253n, 317 Stark, J. C. 317 Stivers, R. L. 301 Stock, B. 160n, 317 Stoici, Stoicismo 48, 50, 51, 222n, 223n, 247, 247n, 299; Stoicorum veterorum fragmenta 247n, 300 Stone, M. 317 Stone, R. H. 301 Straka, A. 317 Striker, G. 317 Stroebel, E. 275n, 299 Studer, B. 203n, 318 Stump, E. 301 Subrt, J. 318 Sufetula (Tunisia) 235, 235n Tagaste (Suok Ahras, Algeria) 17 Talete di Mileto 253 Tanca, E. 318 Tarsicio, J. B. 318 Taylor, J. H. 19n, 318 Teske, R. 59n, 318 Tessalonica 237 Ticonio Afro 214, 274, 303, 307 Todisco, O. 318 Toom, T. 134n, 318 Topping, R. 318 Torchia, N. J. 100n, 318
Indice dei nomi
Tornau, C. 318 Torralba, R. F. 59n, 318 Torrecilla, J. M. 29n, 310 Trigezio 29, 38-43, 54n, 57 Troia 265 Twomey, V. 25n, 314 Uglione, R. 311 Urba, C. F. 298 Valderrama, C. A. 59n, 318 Valle, L. 24n, 319 Van Der Meeren, S. 42n, 318 Van Fleteren, F. 80n, 126n, 302, 319 Van Geest, P. 25n, 319 Van Mal-Maeder, D. 308 Van Oort, J. 20n, 91n, 92n, 150n, 300, 319 Vanhoozer, K. J. 301 Vannier, M.-A. 173n, 319 Varrone, Marco Terenzio 21n, 59n, 246, 249, 251, 252, 253n, 258, 300, 303, 305; Antiquitates 246, 246n, 251n, 300, 303 Velàsquez, O. 67n, 319 Verbraken, P.-P. 299 Verheijen, L. 297 Vermès, H. 319
329
Verwilghen, A. 278n, 319 Vessey, M. 92n, 151n, 300, 310, 315, 319 Vigna, C. 304 Vinzent, M. 247n, 314, 315 Virgilio Marone, Publio 81, 238n Volta, G. 24n, 319 Von Arnim, J. 247n, 300 Volusiano 237, 238, 240 Wagner, M. F. 319 Weber, D. 298 Wermelinger, O. 91n, 300 Westman, R. 276, 299 Wetzel, J. 228n, 319 Williams, T. 320 Wolterstorff, N. 320 Wong, H.-W. 300 Wurst, G. 92n, 300 Yats, J. P. 320 Young, F. 25n, 311 Zanardo, S. 304 Zenobio 56, 57 Zenone di Cizio 48, 49 Ziolkowski, T. 320 Zycha, J. 297, 299
INDICE
Bibbia, Scrittura, Sacra Scrittura, Sacre Scritture, Libri sacri, Testo sacro, Pagina sacra 19, 20, 23, 24, 26, 29, 33n, 37, 44, 45, 57, 61, 63, 65, 86, 87, 88, 89, 91-140, 142, 160, 169, 173, 177, 178, 178n, 179, 180, 180n, 183, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 193, 195, 199, 199n, 200, 206, 214, 214n, 221, 222, 227, 237, 256, 264, 271, 273, 274, 277, 279, 313, 314, 317, 318 Antico Testamento 87, 94, 101n, 102n, 126, 131n, 205, 239n, 256, 265 Nuovo Testamento 87n, 153, 205, 266 Genesi 92, 102, 116, 128n Salmi 26n, 167n, 174, 247 Proverbi 221 Vangeli, Vangelo 84n, 118, 119n, 128, 139, 151, 151n, 153, 153n, 154n, 159, 159n, 215n, 222, 279, 280n Vangelo di Giovanni 136n, 194, 213, 312 Epistola ai Romani 119n, 160, 163, 174, 256, 301, 306
BIBLICO
Gn 1, 1 Gn 1, 4 Gn 1, 5 Gn 1, 11-12 Gn 1, 27 Gn 2, 9 Gn 3, 8 Gn 4, 17 Gn 4, 25 Gn 4, 26 Gn 22, 13 Gn 22, 18 Gn 28, 11 Es 3, 14 Es 3, 21-22 Es 12, 35-36 Es 15, 25 Lv 10, 9-10 Ios 1, 8 1 Rg 3, 16-27 Sal 1, 2 Sal 1, 6 Sal 3, 9 Sal 5, 13 Sal 13, 1 Sal 30, 6 Sal 30, 11 Sal 31, 27 Sal 44, 2 Sal 47, 1 Sal 52, 1 Sal 62, 7
128n 117n 188n 129n 93n 189n 180n 264n 264n 264n 127n 215n, 217n 127n 25n, 26n, 199, 206n 135n 135n 127n 217n 92n 279 200n 25n 283 167n 142n 63n 177n 174n 170n 173n 142n 200n
332
Indice biblico
Sal 67, 10 Sal 71, 18 Sal 77, 37 Sal 79, 18 Sal 94, 6 Sal 99, 2 Sal 118, 34 Sal 132, 1 Prv 10, 19 Sap 11, 21 Sir 1, 8 Is 5, 20 Is 7, 9 Ger 17, 13 Dn 1, 94
211n 60n 94n 169n 280n 280n, 281n 174n 217n 221n 59n, 166n, 167 60n 217n 142n 284n 82n
Mt 3, 16 Mt 4, 2 Mt 5, 9 Mt 5, 39 Mt 7, 7 Mt 7, 23 Mt 10, 16 Mt 11, 28 Mt 13, 26 Mt 13, 30 Mt 13, 38 Mt 22, 37-39 Mt 23, 8-10 Lc 3, 22 Lc 13, 21 Lc 15, 30 Gv 1, 1 Gv 1, 1-3 Gv 1, 3 Gv 1, 9 Gv 4, 20-21 Gv 4, 24 Gv 7, 16 Gv 8, 44 Gv 10, 18 Gv 13, 25 Gv 14, 6 Gv 14, 26
204n 151n 118n 239n 44n, 103n, 142n 25n 131n 282n 217n 217n 215n 179n 84n 204n 139n 25n 194n 86n 169n 151n 222 92n 204n 104n 110 194n 92n 92n
Gv 16, 28 Gv 17, 3 Gv 17, 12 Gv 20, 25-29 At 2, 14 At 4, 29 Rm 1, 19-20 Rm 1, 20 Rm 1, 31-32 Rm 3, 23 Rm 4, 21 Rm 5, 12 Rm 7, 7-25 Rm 7, 18 Rm 7, 25 Rm 8, 30 Rm 9, 15 Rm 9, 19-29 Rm 9, 21 Rm 10, 14 Rm 12, 17 1 Cor 1, 17 1 Cor 4, 6 1 Cor 4, 7 1 Cor 8, 1-2 1 Cor 13, 3 1 Cor 13, 8-12 1 Cor 15, 13 1 Cor 15, 22 2 Cor 3, 6 2 Cor 4, 10 2 Cor 5, 14 Gal 4, 5 Gal 4, 26 Ef 2, 8 Ef 4, 2-3 Fil 2, 6-8 Fil 3, 12 Fil 3, 14 Fil 3, 15-16 Col 2, 8 Col 7, 9 1 Ts 1, 7 1 Tm 1, 5
203n 142n 200n 196n 204n 278n 256 25n, 195n 68n 167n 200n 226n 160 161n 227n, 230n 167n 92n 160 263n 174n 239n 229n 179n 162n, 292n 137n 218n 65n 133n 165n 94n 173n 233n 169n 216n 283n 218n 186n, 204n 201n 201n 200n 92n, 100n 256 180n 30n
333
Indice biblico
1 Tm 3, 7 Tit 2, 12 Gc 4, 6
92n, 93n 292n 284n
1 Gv 1, 3-4 1 Gv 1, 10 1 Gv 2, 13
196n 179n 195n
SUMMARY
In the renowned pages of the Confessiones, Augustine recounts a long series of experiences that shaped his youth: the fascination with pleasures and honors; the reading and subsequent rejection of the Scriptures; the embracing of Manicheism, followed by his distancing from the sect; and the encounter with Academic and Ciceronian skepticism. Because of the continuous succession of such contrasting experiences, the young Augustine formed the conviction that it was impossible for man to reach stabile knowledge of the truth. However, the subsequent encounters with the Neoplatonic tradition and with Ambrose’s scriptural hermeneutic led him, in the years of his conversion to Christianity, to change his perspective. In fact, Augustine began to think that God-Truth, eternally absent from man’s cognitive horizon, urged man to use the interior gaze of philosophy for two ends: to trace within nature the vestiges of his creative action and to imitate his loving and merciful action in the life of the community of believers. This volume seeks to describe, through an analysis of some of the most significant moments of Augustine’s biography and works, his legacy in conjunction with the profile of a man and thinker who dedicated his entire existence to examining in parallel his interior life and eternity. For this reason, Augustine remains forever a “contemporary” of the restless souls of readers from every era.
Progetto Paradigma Medievale direzione generale di Giulio d’Onofrio Città Nuova Editrice
Collationes Studi sul pensiero tardo-antico, medievale e umanistico Collana diretta da Giulio d’Onofrio 1. Armando Bisogno, Sententiae philosophorum. L’alto Medioevo e la storia della filosofia, 2011 2. Giacomo Gambale, La lingua di fuoco. Dante e la filosofia del linguaggio, 2012 3. Pierfrancesco De Feo, Il Cristo delle scuole. Il dibattito cristologico nella prima metà del secolo xii, 2012 4. Davide Monaco, Cusano e la pace della fede, 2013 5. Renato de Filippis, Le ragioni del diavolo. Otlone di Sankt Emmeram e la filosofia, 2015 6. Melissa Giannetta, Apologia di Roscellino, 2020
Institutiones Saggi, ricerche e sintesi di pensiero tardo-antico, medievale e umanistico Collana diretta da Giulio d’Onofrio 1. Giulio d’Onofrio, Vera philosophia. Studi sul pensiero cristiano in età tardo-antica, alto-medievale e umanistica, 2013 2. Renato de Filippis, Loquax pagina. La retorica nell’Occidente tardoantico e alto-medievale, 2013 3. Giulio d’Onofrio, Storia del pensiero medievale, 2013 (20111) 4. Dialogus. Il dialogo fra le religioni nel pensiero tardo-antico, medievale e umanistico, a c. di Mario Coppola, Germana Fernicola, Lucia Pappalardo, 2014 5. Princeps philosophorum. Platone nell’Occidente tardo-antico, medievale e umanistico, a c. di Maria Borriello e Angelo Maria Vitale, 2016
6. Ernesto Sergio Mainoldi, Dietro ‘Dionigi l’Areopagita’. La genesi e gli scopi del Corpus Dionysiacum, 2018 7. Giulio d’Onofrio, «Per questa selva oscura». La teologia poetica di Dante, 2020 8. Roberto Melisi, Miseria e dignità dell’uomo nel pensiero di Marsilio Ficino, 2021 (in corso di pubblicazione) 9. Armando Bisogno, L’eterno assente. Agostino e la ricerca della verità, 2021
Traditiones Testi del pensiero tardo-antico, medievale e umanistico Collana diretta da Armando Bisogno 1. Armando Bisogno, Il De magistro di Agostino. Introduzione, testo, traduzione e commento, 2014 2. Francesco Fiorentino, Il Prologo dell’Ordinatio di Giovanni Duns Scoto. Introduzione, testo, traduzione e commento, 2016 3. Lucia Pappalardo, La Strega (Strix) di Gianfrancesco Pico. Introduzione, testo, traduzione e commento, 2017 4. Riccardo Fedriga - Roberto Limonta, Il Trattato sulla predestinazione e prescienza divina riguardo ai futuri contingenti di Guglielmo di Ockham. Introduzione, testo, traduzione e commento, 2019