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Italian Pages 190 Year 2020
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Alessandro Arienzo, Marco Rampazzo Bazzan, Andrea Cavazzini, Michele Filippini, Marco Grispigni, Giovanni La Guardia, Diego Melegari, Mariamargherita Scotti, Irene Viparelli
Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano A cura di Marco Morra e Fabrizio Carlino
LA CITTÀ DEL SOLE 3
In copertina: Manifestazione di operai e studenti a Torino nell’estate 1969.
Questo volume è pubblicato con il contributo MIUR Prin 2015 - Trasformazioni della sovranità, forme di governamentalità e dispositivi di governance nell’area globale. Dipartimanto di Studi Umanistici, Università degli Studi “Federico II” di Napoli. Centro di Studi ARS Rosa su Ragion di Stato e democrazia(www.ragiondistato.it)
Edizioni «LA CITTÀ DEL SOLE» [email protected] – www.lacittadelsole.net maggio 2020 ISBN 978-88-8292-???-?
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Agli operai della Whirlpool di Napoli, che difendono il salario e la memoria
Abbiamo voluto dedicare questo volume agli operai della Whirlpool di Napoli, che dal 31 maggio 2019 conducono una lotta durissima contro la decisione della multinazionale americana di cedere il ramo d’azienda. Negli ultimi anni in Italia si sono accumulate circa 160 crisi aziendali, che coinvolgono oltre 220 mila lavoratori. Tra queste, nessuna ha avuto la stessa visibilità e lo stesso riconoscimento pubblico della vertenza dei 400 operai della Whirlpool di Napoli, che per molti mesi sono stati il simbolo della resistenza operaia contro le delocalizzazioni e le ristrutturazioni dei grandi gruppi industriali, grazie alla loro determinazione, all’inventività delle forme di protesta adottate, alla straordinaria capacità di resilienza durante i lunghi mesi di presidio permanente mantenuto in fabbrica per impedire l’eventuale smantellamento degli impianti. Non avrebbe senso in questa sede esprimere un giudizio politico sugli obiettivi e sulle forme di questa lotta, ma ci preme sottolineare che ciò che ha costituito la forza di questi operai, di fronte all’irriducibile necessità del bisogno materiale, è stata la solidarietà di classe, che li lega da sempre in maniera speciale, e la memoria delle lotte, degli scioperi e delle occupazioni dei loro padri e delle loro madri, che fu trasmessa loro sin dall’infanzia nel cuore degli anni Settanta e Ottanta, quando la fabbrica, ceduta nel 1972 dalla famiglia Borghi alla multinazionale Philips, era un centro importante di agitazione sindacale nella zona industriale di Napoli, che si distingueva, in modo particolare, per la presenza di operai affiliati ai gruppi extraparlamentari. Gli operai della Whirlpool di Napoli lottano per il futuro loro e delle loro famiglie, ma lottano anche per le generazioni precedenti che per loro lottarono, per la loro storia e identità. E questo nesso tra bisogno e memoria, e quindi tra solidarietà di classe e “cultura” operaia, costituisce a nostro avviso un momento importante di sviluppo di coscienza di classe e di rilancio di quel processo, che oggi appare residuale, di ricomposizione delle lotte degli oppressi contro gli oppressori.
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Indice
Prefazione
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Introduzione Marco Morra, Fabrizio Carlino, Le traiettorie dell’operaismo nel “lungo ‘68” italiano
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All’origine della Nuova Sinistra Mariamargherita Scotti, Il dibattito sull’autonomia nel Partito socialista italiano
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Alessandro Arienzo, Raniero Panzieri: socialismo e democrazia operaia nel neocapitalismo
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Giovanni La Guardia, Franco Fortini. Le ingratitudini dell’ospite
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Traiettorie Operaiste Michele Filippini, Nuova Sinistra e operaismo: le origini intellettuali del ’68 italiano
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Irene Viparelli, Il metodo dell’operaismo. Un confronto tra Tronti e Negri
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Andrea Cavazzini, Genealogia dell’inchiesta (elogio della Nuova Sinistra)
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Operaismo e Movimenti Marco Grispigni, Elogio dell’estremismo. Caratteristiche storiche dell’operaismo nel “lungo ’68” italiano
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Marco Rampazzo Bazzan, Un seminario leninista. Padova 1972-1973
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Diego Melegari, Marco Melotti: verso una critica della crisi della politica
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Bibliografia
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Prefazione
Il volume che presentiamo raccoglie le relazioni del convegno su “Le traiettorie dell’operaismo nel lungo ‘68 italiano”, che si svolse tra il 20 e il 21 dicembre 2018 all’Università di Napoli “Federico II”, in occasione del cinquantenario del Sessantotto. Il convegno nacque dall’incontro tra due realtà di ricerca, l’area napoletana di docenti, studenti, intellettuali legati, formalmente o meno, alla facoltà di Filosofia della “Federico II” e il Groupe de Recherches Matérialistes, rappresentato per l’occasione in particolare da Marco Rampazzo Bazzan, Fabrizio Carlino e Andrea Cavazzini. Queste due “reti” erano, e sono tuttora, accomunate da un interesse “di parte” nel riappropriarsi della tradizione marxista nei suoi sviluppi storici e della storia dei movimenti di emancipazione del Novecento, in una prospettiva attualizzante, tesa a interrogare il presente. In particolare l’organizzazione del convegno fu curata da Alessandro Arienzo, Fabrizio Carlino e Marco Morra, con il contributo importante di Giuseppe Antonio Di Marco che coinvolse, per l’occasione, un gruppo di studio sull’operaismo e il post-operaismo da lui stesso animato, e frequentato, tra gli altri, dallo stesso Fabrizio Carlino e da Irene Viparelli, che avrebbero poi preso parte ai lavori, nonché da numerosi studenti e giovani ricercatori formatisi alla cattedra di Filosofia della Storia. Questo volume, quindi, è indirettamente il frutto di un percorso collettivo, nato dalla convergenza di diverse traiettorie ed esperienze di ricerca; e, di questo percorso, è soltanto un risultato parziale, non definitivo, un primo momento di confronto. I curatori
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Introduzione
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Le traiettorie dell’operaismo nel “lungo ‘68” italiano Fabrizio Carlino e Marco Morra
Il convegno da cui nasce questo volume si è svolto in occasione del cinquantenario del Sessantotto. Ritornare oggi sugli anni del Sessantotto italiano, ossia su quella stagione di lotte, contestazioni e conflitti che dalla fine degli anni Cinquanta si protrasse per oltre due decenni, richiede di confrontarsi non solo con una stratificazione particolarmente complessa di interpretazioni divergenti e contraddittorie, ma soprattutto con il valore intimamente politico della ricostruzione e della trasmissione della sua eredità. La posta in gioco della memoria del lungo ’68 italiano è stata, molto spesso, il riconoscimento o la negazione del ruolo storico che in Italia ebbe una parte del movimento operaio e studentesco che tentò di realizzare un processo di trasformazione rivoluzionaria in un paese capitalistico avanzato. D’altra parte, gli anni compresi tra il 1968 e il 1980 hanno avuto conseguenze di lungo periodo sulle tradizioni e gli ordinamenti politici, giuridici e istituzionali del sistema “Italia”, e, se non altro, hanno per lungo tempo condizionato, direttamente o indirettamente, la storia della sinistra, istituzionale e non, nel nostro paese. Per queste ragioni, lo studio del Sessantotto a cinquant’anni di distanza ha anche un particolare valore storiografico. Sottoposta a ricostruzioni parziali, contesa da giornalisti, magistrati, politici, funzionari di Stato, pentiti, militanti, dunque oggetto di una letteratura sterminata, ma in generale poco affidabile dal punto di vista storico, la memoria del Sessantotto è stata il terreno di una lotta volta all’appropriazione, politicamente intenzionata, del senso complessivo di quella stagione e può solo ora, essere ricostruita con maggiore rigore grazie al lavoro di una nuova generazione di studiosi. Anche assumendo nette prese di posizione, oggi è possibile ritornare con sguardo nuovo al rigore delle fonti, proprio mentre queste stesse fonti sono raccolte, ordinate e catalogate in diversi archivi che si sono nel frattempo costituiti in Italia, oppure, cosa non meno importante, rese disponibili dalla progressiva acquisizione di documenti privati, riservati o protetti da segreto di Stato. Sicché, si potrebbe affermare, che una letteratura critica sul “lungo ‘68” italiano si sia affermata soltanto da un ventennio a questa parte, e che molto lavoro ci sia ancora da fare. 13
La specificità più caratteristica del Sessantotto italiano fu la sua “lunga durata”. Essa fu, di certo, il prodotto della convergenza straordinaria di fattori sistemici e congiunturali, legati sia all’accumularsi di disuguaglianze e arretratezze strutturali, concresciute, per due decenni, in seno allo sviluppo neocapitalistico, sia all’impossibilità sistemica del quadro politico-istituzionale di opporre una risposta “globale” ai bisogni dirompenti della nuova classe operaia e delle classi subalterne emergenti. Ma in misura ancora più significativa, il perdurare del Sessantotto, oltre il biennio 1968-69, fu il risultato, della spinta propulsiva e convergente che ebbero le lotte operaie nelle grandi città industriali e i movimenti studenteschi nelle nascenti università di massa, così come della funzione organizzatrice, contaminatrice e ricompositiva che riuscirono ad avere, in quella congiuntura, dapprima i gruppi militanti e gli intellettuali della Nuova Sinistra, nell’incontro con le avanguardie dei movimenti studenteschi e delle esperienze operaie più avanzate, e successivamente i gruppi extraparlamentari, che dal quell’incontro furono generati. In occasione del cinquantenario del Sessantotto, dunque, senza alcuna pretesa di esaustività, abbiamo cercato di tracciare il solco di una possibile, futura ricerca, che mirasse a delucidare il rapporto tra la Nuova Sinistra e i movimenti di massa e, in questo rapporto, il ruolo dell’“operaismo” come uno dei principali vettori di “soggettivazione” rivoluzionaria nel ciclo di lotte considerato. Si trattava di prendere ad oggetto una teoria che aveva avuto sin dall’origine una vocazione “operativa” e, almeno in Italia, una particolare influenza sui movimenti sociali fino a tempi recenti, di esaminarne lo statuto specifico nel quadro generale della Nuova Sinistra, di ripercorrerne le traiettorie lungo il ventennio degli anni 1960-70, e, oltre, fino ai nostri giorni, di metterne in evidenza il carattere di “complessità”, come oggetto storico, e di “disomogeneità”, come spazio teorico e progetto politico, confrontandone le diverse componenti interne e i suoi sviluppi storici, mostrandone le contraddizioni, per interrogarci, infine, criticamente sui tragitti che da essa ereditiamo. Le relazioni che abbiamo raccolto in questo volume indagano alcuni momenti esemplificativi dello sviluppo non omogeneo dell’operaismo nella sequenza storica considerata, ma soprattutto hanno il merito di rilevare, in maniera talvolta intenzionale, talaltra implicita, la natura non lineare dei percorsi genealogici interni alla Nuova Sinistra, da cui, eccetto forse il caso isolato di Potere operaio, risultarono esperienze politiche e di emancipazione non ascrivibili pacificamente a una specifica corrente teorica. Basti pensare alle diverse componenti che animarono l’Assemblea operai-studenti di Torino nell’estate del 1969: provenienti dalla eterogenea congerie “operaista”, ma anche dal mondo dei movimenti studenteschi, esse soltanto in parte, e sulla base di prospettive di lotta molto concrete, conversero
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in una comune progettualità politica, producendo formazioni nuove come Lotta continua e Potere operaio. Si trattava del “Potere operaio” toscano, del gruppo veneto-emiliano di “La classe”, di quello torinese di Vittorio Rieser, già vicino alla redazione dei “Quaderni rossi”, e, d’altra parte, dei leader dei movimenti studenteschi di Torino, di Trento e di Roma, che, in un modo o nell’altro, avevano avuto già occasione di rapportarsi, con atteggiamento di interesse o di rifiuto, alle teorie e alle analisi degli “operaisti”. L’incontro tra queste realtà e la verifica di “massa”, nelle lotte operaie e studentesche, cui furono sottoposte le pratiche e le analisi sviluppate nel corso di tutto il decennio, fu un momento generativo di nuove forme della politica, che tracciò il solco di percorsi divergenti nella medesima misura in cui faceva convergere traiettorie antecedenti, e tra loro non riducibili, di riappropriazione della politica dal basso. Nondimeno, queste differenziazioni interne alla Nuova Sinistra, ai movimenti studenteschi e, nel caso specifico, all’operaismo, che proprio nelle loro specificità, così come nelle riscontrate affinità, trovarono spazi di intersezione gravidi di nuove possibilità politiche, erano sottese da alcuni elementi essenziali che attraversavano trasversalmente la maggior parte delle realtà della Nuova Sinistra e del Sessantotto. Uno di questi elementi fu la tendenza, consapevole e politicamente orientata, all’“estremismo”, come principio storicamente necessario e propulsivo di rottura con il movimento operaio storico e, più in generale, con il sistema politico italiano: condizione percepita come imprescindibile dalle avanguardie della Nuova Sinistra per il reale avanzamento del movimento di classe. Se questa convinzione era già radicata alla vigilia del Sessantotto, il biennio 1968-69 vi aveva certamente aggiunto la prova che il movimento di massa si stava generalizzando e radicalizzando al punto tale da aprire una crisi di “governabilità” nel sistema Italia, lasciando emergere un’area politica e sociale alla sinistra del Pci, e uno spazio di possibilità per creare un’alternativa di massa al riformismo operaio integrato. Nel caso specifico, inoltre, l’insubordinazione operaia esprimeva momenti di forte conflittualità e autonomia, che eccedevano di gran lunga le compatibilità sistemiche del capitale, trasbordando le dighe della contrattazione sindacale e segnando il passo a una crisi di egemonia dei partiti operai storici che bisognava sviluppare in profondità ed estensione per infrangere la paralisi partitocratica del movimento operaio. Alla luce di queste considerazioni, crediamo sia necessario liberare il campo della ricostruzione storica da interpretazioni equivoche che vorrebbero spiegare il fenomeno dell’estremismo del “lungo ’68” italiano con le categorie classiche della politica moderna, o, peggio, ricondurlo a una equazione storica tesa a farne l’altro e indissociabile termine della “violenza” po-
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litica che fiorì lungo tutto il decennio successivo, e che, invece, bisognerebbe riportare a una logica propria e diversa da quella dell’estremismo, ancorché i loro campi fenomenici si sovrapposero e, talvolta, si intersecarono nel corso degli anni Settanta. A nostro avviso, l’estremismo della Nuova Sinistra va considerato come una forma politica storicamente nuova del processo rivoluzionario in una congiuntura determinata, superata la quale, intorno alla metà degli anni Settanta, con il riflusso del movimento reale e della spinta propulsiva del Sessantotto, i gruppi extraparlamentari e la Nuova Sinistra tutta incorsero in una profondissima crisi, che portò agli esiti più disparati, non ultimo quello della generalizzazione della violenza politica, e che girava intorno al problema fondamentale dell’insufficienza proprio di quell’estremismo originario nella congiuntura nuova verso cui si andava incorrendo, quella del “compromesso storico” e delle leggi “speciali”, della crisi petrolifera e della ristrutturazione della catena transnazionale del valore. Il fenomeno dell’estremismo politico nel contesto del “lungo ‘68” va, quindi, ricondotto a una logica d’interpretazione e d’azione che ha radici assai complesse, per esempio nel lavoro culturale dei “marxisti critici” degli anni Cinquanta, o nelle tensioni “movimentiste” che avevano caratterizzato la sinistra socialista prima della svolta nenniana, o, ancora, nelle pratiche di contestazione dei movimenti studenteschi e nell’insubordinazione operaia che produsse, lungo tutto il decennio dei Sessanta, una capacità autonoma di conflitto e forme nuove di partecipazione. Questa logica, insomma, che definiamo “estremista”, è il prodotto di una specifica congiuntura storica, e assegna una funzione preminente, e dirompente, alla spontaneità delle masse e alla loro autorganizzazione, allo scontro sociale e al movimento come soggetto capace di direzione strategica, e soltanto marginalmente, ad esclusione del caso atipico delle Brigate rosse, e non per filiazione diretta, partorisce esperienze e strategie di lotta armata. Abbiamo diviso il volume in tre sezioni: la prima, intitolata “All’origine della Nuova Sinistra”, indaga alcuni importanti momenti genetici della nascita della Nuova Sinistra italiana; la seconda, “Traiettorie Operaiste”, prende in esame momenti o casi particolarmente significativi delle divaricazioni teoriche interne all’operaismo, tra operaisti, o, seguendo una direttrice diacronica, tra momenti diversi della storia dell’operaismo; la terza, infine, “Operaismo e Movimenti”, affronta il rapporto con i movimenti, mostrando, anche in questo caso, alcune “traiettorie”, riferite ad esperienze politiche diversamente influenzate dall’operaismo. La prima sezione si apre con una ricostruzione del “dibattito sull’autonomia” nel Partito socialista italiano, che getta luce su uno dei principali
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luoghi di origine della Nuova Sinistra. Nella sua relazione, Mariamargherita Scotti mostra come il ruolo precursore svolto dal Psi, nel corso degli anni Cinquanta, nel canalizzare un dissenso che avrebbe trovato piena espressione nel decennio successivo, non possa essere ridotta al “carattere pluralista” e “neo-riformista” che pure caratterizzava il partito di Pietro Nenni nel dopoguerra. Il paradosso per cui alcuni degli intellettuali di riferimento della Nuova Sinistra, così come molti giovani che negli anni Sessanta avrebbero militato al di fuori delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio, si siano formati all’interno di un partito che andava già trasformandosi in partito riformista e di governo, può essere spiegato alla luce di un apparente malinteso riguardo la declinazione politica e culturale del concetto di “autonomia”. Parola d’ordine che condurrà la dirigenza socialista all’elaborazione del progetto di centrosinistra, l’autonomia, ripresa da alcuni intellettuali e dirigenti interni o vicini al Psi in funzione anti-unitaria nei riguardi del Pci, fu altresì utilizzata per costruire un’uscita “da sinistra” dallo stalinismo. Nella sinistra socialista maturava infatti, in questi anni, la ricerca difficile, confusa, ininterrotta, di un’alternativa alle impasse della Terza Internazionale, che potesse aprire uno spazio di praticabilità di una strategia rivoluzionaria in un paese capitalistico avanzato. Scotti mostra come il rapporto tra intellettuali e Psi negli anni Cinquanta assuma un carattere specifico e storicamente rilevante proprio in alternativa all’egemonia culturale perseguita dal Pci, assumendo una funzione propulsiva di «contenitore» di un dissenso che germinava all’interno o ai margini del movimento operaio organizzato già dagli anni della guerra fredda, manifestandosi chiaramente nel periodo del «disgelo» e della crisi del movimento operaio internazionale seguita al XX congresso del PCUS e all’invasione dell’Ungheria nel 1956, e che avrebbe trovato, negli anni Sessanta, «il proprio liberatorio sbocco in una militanza al di fuori dei partiti tradizionali del movimento operaio»1. Attraverso la sua triplice declinazione – autonomia della cultura dalla politica, degli intellettuali dai dirigenti e della classe dal partito – Scotti segue quel filo rosso che conduce, tra gli anni Cinquanta e Sessanta, dalla militanza tra le fila del Psi alle nuove forme di impegno politico e di partecipazione che andavano delineandosi. Questa nuova lettura della politica culturale del partito socialista contribuisce ad arricchire la comprensione della funzione catalizzatrice ricoperta da alcune figure centrali per la nascita della Nuova Sinistra, in primis Raniero Panzieri e Franco Fortini, ai quali sono dedicati gli altri due contributi di questa sezione. 1
Infra, p. 28.
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Su Raniero Panzieri si sofferma Alessandro Arienzo, che rilegge il lavoro dell’intellettuale socialista a partire da «tre soglie critiche»: il problema la composizione sociale e politica del soggetto dell’emancipazione, la funzione rivoluzionaria dello sviluppo tecnologico, il ruolo dello Stato e della pianificazione capitalistica nel processo di produzione e di riproduzione sociale complessivo. Intorno a questi problemi si articola ancora oggi, secondo l’autore, lo sforzo di ripensamento del marxismo e della tradizione socialista a cui Panzieri diede un contributo significativo. Arienzo sviluppa l’idea secondo cui la rivoluzione epistemologica di Panzieri ruota attorno alle tesi sul “controllo operaio”. Queste costituirono forse il punto di svolta decisivo del percorso di rinnovamento del marxismo e della strategia del movimento operaio che impegnò il dirigente socialista tra gli anni Cinquanta e Sessanta, articolandosi al contempo tra la critica del modello del partito-guida e della subalternità riformistica della classe operaia al capitale e il ripensamento della funzione rivoluzionaria della democrazia operaia intesa come forma di contesa di potere e di direzione del processo produttivo dall’interno dei luoghi stessi della produzione. In altri termini, Panzieri avrebbe tracciato un’ipotesi alternativa alla pianificazione capitalistica e statale del processo produttivo e riproduttivo, individuandola nella democratizzazione del processo produttivo stesso: negli anni della svolta nenniana del “centro-sinistra”, per Panzieri non si trattava di compensare le mancanze della borghesia, razionalizzando il processo sociale ed estendendo i consumi e l’occupazione tramite la regolazione statale, bensì di tracciare il solco di una direzione alternativa del processo economico complessivo, di creare e realizzare qui e ora un punto di vista autonomo e proletario sulla produzione e sullo sviluppo. La costruzione del soggetto rivoluzionario coincideva in questa prospettiva con il farsi classe dirigente del proletariato e si realizzava a partire dai luoghi della produzione, come costruzione di una democrazia produttiva, intorno alle pratiche del conflitto che erano altresì pratiche di costruzione e di difesa dell’autonomia di classe, di un’altra direzione possibile dello sviluppo economico e sociale. In questa concezione della produzione, Arienzo mette bene in luce la centralità della continuità del processo di accumulazione, una delle eredità di Panzieri nel cosiddetto postoperaismo, che ha ripreso e sviluppato in altre direzioni l’idea della “straordinaria capacità”, propria del sistema capitalistico, di catturare nuovamente senza sosta, e non una volta per tutte alla sua origine, il carattere sociale della produzione sociale e le spinte autonome della forza-lavoro. Per ricollocare la figura di Franco Fortini all’interno del campo problematico nel quale si è formata la Nuova Sinistra, Giovanni La Guardia sceglie di interrogarsi sulle “ingratitudini dell’ospite” come orizzonte di senso di un itinerario intellettuale e politico di cui l’Ospite ingrato rappresenta uno dei
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momenti più significativi. Dagli anni a Firenze, città da cui Fortini voleva «essere accettato nell’atto stesso del respingere», alle amare riflessioni sulla mancata distinzione tra la “forma” in cui la Nuova Sinistra si è incarnata e la «nube in cui si è manifestata», passando per il confronto con la politica culturale del partito e con il gruppo dei «Quaderni rossi», La Guardia ci mostra in filigrana le trasformazioni dell’“ingratitudine” fortiniana. Quella di Fortini fu una ricerca durata tutta la vita, votata all’intento di cambiare il suo tempo, interrogata da un domanda di senso sull’efficacia del lavoro intellettuale nelle società capitalistiche avanzate, colma di mestizia, forse addolorata, nella lucida consapevolezza che la verità, come il socialismo, non è inevitabile, né necessaria, ma oggetto di conquista. L’impegno di Fortini attraversa tutta la seconda metà del Novecento. Dalla resistenza partigiana alla riconquista del marxismo negli anni duri della “guerra fredda”, fino alla crisi della modernità agli albori della “globalizzazione” e del postmodernismo, Fortini vive sempre con profondo senso del dramma e instancabile partecipazione il movimento della storia. Nei decenni di cui ci occupiamo, egli è spesso tra i principali animatori di una serie di esperienze che precedono e accompagnano la nascita della Nuova Sinistra, contribuendo a fertilizzare il terreno su cui sarebbe fiorita una nuova generazione di intellettuali e di militanti. La sua biografia intellettuale e politica attraversa le storie del «Politecnico» negli anni del secondo dopoguerra, di «Discussioni» e «Ragionamenti» nella stagione del “marxismo critico” e dissidente degli anni Cinquanta, e ancora dei «quaderni piacentini», ma anche, in maniera collaterale, di Panzieri e dei «Quaderni rossi». D’altra parte, meritevoli di aver preparato il terreno di una nuova cultura marxista furono gli intellettuali critici che inaugurarono, accanto a Fortini, già nei plumbei anni Cinquanta, una lunga stagione di “dissenso” e di “rinnovamento” che avrebbe sedimentato, nei decenni successivi, in seno alla Nuova Sinistra, importanti elementi di consapevolezza. Tra questi, la scoperta di Lukács e di Storia e coscienza di classe, ben prima della sua pubblicazione italiana nel 1967, le traduzioni dei filosofi francofortesi, e, sottolinea La Guardia, la scoperta delle moderne scienze sociali, che faceva incontrare, sulle pagine di «Discussioni» e di «Ragionamenti», Cesare Cases, Renato Solmi, Franco Fortini, attenti traduttori e commentatori della teoria critica della società, con Alessandro Pizzorno, Franco Momigliano, Roberto Guiducci, che, tra i primi, si interrogarono sul possibile “uso marxista della sociologia” e degli strumenti ad essa correlati, tra cui l’inchiesta, o, come scrivevano Guiducci e Pizzorno, la «conricerca». I temi centrali di questi tre contributi sulle origini della Nuova Sinistra – l’“altra linea” o l’“altra storia” alla sinistra del Pci e del Psi, la ricerca di un’uscita a sinistra dallo stalinismo nell’area eretica e radicale, la rottura teorica operata
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da Panzieri e da Tronti, e la sfida di Fortini nel pensare un nuovo rapporto tra politica e cultura – sono ripresi da Michele Filippini nel quadro dell’intera estensione e complessità del “lungo ‘68”, dal formarsi delle sue condizioni alle sue diverse eredità, introducendo così la sezione dedicata alle “traiettorie operaiste”. L’autore ricostruisce le traiettorie di questa stagione da un punto di vista complessivo, tenendo insieme le diverse dimensioni che, intersecandosi reciprocamente, ne hanno determinato l’evoluzione (le lotte operaie e studentesche, i nuovi equilibri politici nazionali e internazionali, le forme inedite di militantismo prodotte dalla Nuova Sinistra) e, attraversando l’intero ciclo di lotte nella sua ampiezza cronologica e fattoriale, ripercorre i momenti più significativi del clima intellettuale e politico che lo prepara, segnato dalla proposta di una “cultura nuova” nell’esperienza del «Politecnico», o da figure come Vittorini e Fortini, o, ancora, dal “sottobosco” del radicalismo eterodosso rappresentato, tra gli altri, da Gianni Bosio e Danilo Montaldi, ma soprattutto da Panzieri. Filippini mette bene in luce come quest’ultimo rappresenti solo una delle due anime dei «Quaderni rossi» – quella della sinistra socialista antistalinista e radicalmente democratica, che convive con una componente di marca dellavolpiana, comunista, classista e antistoricista – che saranno all’origine delle diverse eredità dell’operaismo, ma che inizialmente convergono nel riconoscere le potenzialità rivoluzionarie della nuova composizione di classe in Italia negli anni del “miracolo economico”. Ed è proprio nei caratteri dello sviluppo economico nazionale che, nella lettura di Filippini, vanno cercate le ragioni della specificità del lungo ‘68 italiano: gli anni in cui si impone l’esigenza di ripensare le basi teoriche del marxismo, scaturita dalla disgiunzione tra teoria marxista e costruzione del socialismo che segue la crisi del modello sovietico, coincidono in Italia con una fase di crescita economica prorompente e di trasformazioni sociali, istituzionali e culturali profonde, che avrebbero contribuito a fare dell’Italia un laboratorio privilegiato di innovazione teorica e sperimentazione politica lungo almeno un decennio. In questa prospettiva l’autore pone l’accento sulla forza propulsiva delle innovazioni teoriche introdotte da Panzieri e Tronti, tra il 1959 e il 1964, ovvero nel periodo di “incubazione” dell’operaismo, dalla gestazione dei «Quaderni rossi» all’anno della scissione di «classe operaia» e della morte di Panzieri. Due testi in particolare, Sull’uso capitalistico delle macchine di Panzieri e La fabbrica e la società di Tronti, sono presentati come emblematici di una svolta teorica il cui merito fu quello di interrompere «una lunga consuetudine di discorso produttivista e subalterno allo sviluppo capitalistico che aveva caratterizzato il Pci e la Cgil (ma anche il Psi) fin dalla ricostruzione»2. 2
Infra, p. 97.
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In effetti, questi saggi segnavano il passo a un ribaltamento di prospettiva, tracciavano un’interpretazione organica dei caratteri essenziali dell’epoca: spiegando, l’uno, le radici strutturali della funzione conservativa del riformismo operaio nella sussunzione del progresso tecnologico allo sviluppo neocapitalistico, l’altro, il carattere sociale totalizzante della pianificazione capitalistica, individuavano, entrambi, nella classe operaia un momento, sì, interno e subordinato, ma irriducibile, del processo di valorizzazione, ed escludendo che le possibilità di superamento del capitalismo potessero essere individuate nello sviluppo della razionalizzazione, incorporata nel capitale costante, le ricollocavano nel concrescere dell’insubordinazione operaia al dispotismo del capitale, come rifiuto del rapporto schiacciante del capitale costante sul lavoro vivo, ovvero del rapporto salariale tout court nelle forme che esso andava assumendo nella grande fabbrica. Se il lavoro teorico di Panzieri e di Tronti in questi anni trova dei punti importanti di contatto, nondimeno le strade dei due divergono su una questione essenziale. «Prima la classe operaia poi il capitale»; come scrive Irene Viparelli nella sua relazione, questo è il «nucleo epistemologico su cui si struttura l’intera esperienza dell’operaismo italiano»3. Bisogna, altresì, aggiungere che proprio intorno a questo nucleo si consumò la rottura tra Tronti e Panzieri. Mentre il primo, infatti, assegnava alla classe operaia un primato logico sul capitale come forza oggettivamente irriducibile al dominio del capitale e, altresì, propulsiva di sviluppo e crisi del capitalismo, costringendo il capitale a modificare la sua stessa composizione interna e a far trapassare la produzione capitalistica in tutti i rapporti esterni della vita sociale, Panzieri tendeva a valorizzare, piuttosto, la centralità della fabbrica come luogo di contesa del potere tra classi, tra dominio crescente e crescente insubordinazione, i cui conflitti rimanevano inquadrati entro forme dei rapporti di produzione storicamente determinate dall’iniziativa del capitale, entro cicli di lotte in cui discriminante rimaneva la soggettività politica come elemento non oggettivamente connaturato alla composizione di classe. Questa distanza sostanziale origina due diverse traiettorie, tra quanti, come Tronti, Negri, Alquati, avrebbero fondato la rivista «classe operaia» e quanti, invece, continuando l’esperienza dei «Quaderni rossi», avrebbero raccolto l’eredità di Panzieri, come Vittorio Rieser, Liliana e Dario Lanzardo. Le divergenze tra Tronti e Panzieri non sono le sole a caratterizzare la storia dell’operaismo italiano. Nella sua relazione, Viparelli va all’origine del cosiddetto post-operaismo mostrando le radici teoriche della divaricazione 3
Infra, p. 109.
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tra la linea trontiana e quella negriana. La “differenza italiana”, indagata da Filippini attraverso un’analisi multidimensionale, nascerebbe secondo Negri dalla “definizione intransitiva”, data da Tronti, della “soggettività del lavoro vivo davanti al capitale”, sulla quale si fonderebbe la continuità dell’approccio operaista. Viparelli sviluppa una critica dell’interpretazione negriana dei due diversi sviluppi cui hanno dato impulso le tesi di Operai e capitale. Mentre Negri riconduce la scissione del gruppo dei teorici della “autonomia del politico” da quello dei sostenitori della “autonomia del sociale” a una scelta politico-esistenziale di Tronti e dei suoi soci, preoccupati di giustificare il loro rientro nei ranghi del Pci, Viparelli si interroga invece sulla differenza originaria che intercorre tra i dispositivi teorici con cui operano i due autori di riferimento. L’autrice può così mostrare come la diversa interpretazione che Negri e Tronti danno della crisi degli anni Settanta derivi da una diversa declinazione del rapporto sviluppo/crisi, riscontrabile già nella lettura che danno del 1917, su cui si basa una differente articolazione di tattica e strategia. Se da un lato l’evoluzione del pensiero di Tronti, lungi dall’essere il frutto di un “blocco della ricerca” e del conseguente abbandono del metodo operaista, come pretende Negri, appare al contrario profondamente coerente con suoi i presupposti iniziali, dall’altro è l’ontologia del soggetto sociale ad apparire una declinazione propriamente negriana delle tesi di Operai e capitale. Ne consegue quindi la necessità di ripensare sotto questa nuova luce il rapporto tra la continuità, che Negri rivendica per sé in quanto operaista, e le discontinuità, che egli attribuisce a Tronti definendolo postoperaista: nella misura in cui, come mostra questo studio, ha fin da subito tradotto sul terreno ontologico gli assiomi trontiani, è infine l’operaismo di Negri ad apparire come un “originario post-operaismo”. La storia dell’operaismo non si sviluppa soltanto attraverso un succedersi di svolte e contese teoriche. Se finora le relazioni raccolte hanno insistito sulla forza catalizzatrice e rinnovatrice delle rotture epistemologiche operate da Panzieri e Tronti durante l’esperienza pionieristica dei «Quaderni rossi», Andrea Cavazzini ci ricorda, invece, l’importanza della svolta metodologica realizzata dal primo operaismo con l’uso dell’inchiesta, intesa innanzitutto come «pratica di rottura con il marxismo delle citazioni e delle formule dominante nel contesto stalinista»4. Nella sua relazione, Cavazzini fa emergere un importante elemento di discontinuità nell’uso operaista della “conricerca” con la tradizione precedente, tracciando una genealogia dell’inchiesta che, attraverso l’analisi delle variazioni del modo di intendere e praticare l’inchiesta, sulla base di alcuni 4
Infra, p. 127.
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elementi comuni, indaga ancora le origini della Nuova Sinistra, la specificità al suo interno dell’esperienza operaista e la sua problematica posterità al termine della stagione della “centralità operaia” come categoria operativa. Cavazzini ci ricorda infatti non solo che l’inchiesta militante, lungi dal potersi ridurre al suo uso operaista, è un riferimento centrale per diverse correnti degli anni Sessanta e Settanta, ma anche che la sua ripresa in quanto pratica politica e di conoscenza avviene già negli anni Cinquanta all’interno di quell’area “eretica”, legata a diversi marxismi minoritari e alternativa al Pci, che abbiamo visto essere all’origine della Nuova Sinistra. Lo stesso Alquati, al quale in genere è attribuita la paternità della conricerca, riconosce che la sua genesi va fatta risalire piuttosto ai lavori di Danilo Montaldi, così come a quelli di Roberto Guiducci e di Alessandro Pizzorno. È qui che si deve registrare una prima frattura: diversamente da Guiducci e Pizzorno, che pure avevano introdotto in Italia, attraverso la rivista «Ragionamenti», un approccio sociologico all’analisi del capitalismo moderno e l’interesse per le tecniche della sociologia, Montaldi intende la conricerca non solo come strumento per produrre conoscenze più precise della società, ma anche, e immediatamente, come «l’operatore di un’affermazione intransigente del primato politico della classe operaia»5. L’altra corrente, infine, che confluisce nella definizione dell’inchiesta propria della Nuova Sinistra, accanto a quelle storiche del comunismo antistalinista e al marxismo critico di impronta sociologica, è il socialismo di sinistra che ricerca forme di autonomia della classe operaia, di cui Panzieri è il rappresentante principale. Cavazzini insiste sul fatto che, al di là di queste diverse componenti genetiche, ciò che determina la particolare forma di conricerca che dai «Quaderni rossi» attraversa l’esperienza successiva della Nuova Sinistra, è il confronto con l’industrializzazione del Nord e con le trasformazioni sociali, culturali e istituzionali che andavano strutturando una moderna società industriale di massa nel quadro del sistema fordista. D’altra parte, il rifiuto della strategia della “via italiana al socialismo” e del paradigma gramsciano della conquista dello Stato era conseguente all’esigenza di elaborare un sapere concreto che fosse in grado di confrontarsi con la nuova composizione di classe derivante da queste trasformazioni, producendo così le conoscenze oggettive ritenute necessarie per informare i processi di organizzazione dell’autonomia operaia e tracciare la via di una possibilità di contesa del potere all’interno della struttura produttiva stessa. L’uso sistematico dell’inchiesta da parte dei «Quaderni rossi» è quindi indissociabile dalla centralità della fabbrica nella società capitalistica avanzata e 5
Infra, p. 126.
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dall’individuazione della classe operaia come «momento interno» e, insieme, «punto critico» del processo sociale. La “centralità operaia”, in quanto principio operativo di conoscenza e di organizzazione, presuppone infatti, secondo Cavazzini, una posizione non solo centrale, ma anche “decentrante” della classe operaia, che si pone in un rapporto complesso e contraddittorio con la totalità della società neocapitalistica. L’inchiesta, come intesa da Panzieri, lungi dal rappresentare quel soggetto infallibile che la Classe avrebbe incarnato in alcune derive operaiste successive, è un “operatore intensamente dialettico”, che presuppone, come premessa implicita, la critica della “semplice adesione immediata” ai comportamenti della classe operaia. La consapevolezza della necessità di riarticolare rappresentazioni e pratiche da un lato, e prospettive di trasformazione radicale dall’altro, riconoscendo il carattere eccentrico della classe, è ciò che oggi una ripresa dell’eredità dell’inchiesta militante potrebbe contribuire a riportare, con lo scopo di mettere in guardia dall’interpretazione di ogni comportamento, anche il più regressivo, delle classi subalterne come momento di una prassi emancipatrice. Alla rimessa in discussione delle narrazioni costruite ex post dagli stessi protagonisti dell’esperienza operaista, contribuiscono anche i saggi della terza sezione, che mirano a far emergere aspetti del rapporto dell’operaismo con i movimenti, che in quelle narrazioni rischiano di divenire illeggibili. Mentre i contributi finora esaminati fanno emergere la problematicità della lettura, soprattutto negriana, della continuità e linearità dell’operaismo, dalla sua genesi alla sua posterità teorico-politica, nella relazione di Marco Grispigni, al contrario, troviamo una esplicita presa di distanza dalla celebre affermazione di Tronti secondo cui la parabola dell’operaismo italiano comincerebbe con i «Quaderni rossi» per poi chiudersi definitivamente con l’esperienza di «classe operaia». L’originale approccio storiografico adottato da Marco Grispigni nel suo saggio, consente di prendere le distanze da alcune delle interpretazioni più diffuse dell’impatto dell’operaismo sul “lungo ’68”. La chiave di lettura della cosiddetta Italian Theory, ad esempio, riconducendo ai padri dell’operaismo correnti di pensiero eterogenee, e pretendendo di individuare in una sola impostazione teorico-politica di fondo il terreno che accomuna il pensiero di autori come Della Volpe e Cacciari, Tronti e Negri, con le loro diverse evoluzioni, fino a Esposito e Agamben, tende ad enfatizzare il carattere innovativo dell’operaismo e la sua influenza sugli sviluppi della teoria politica e sui movimenti in Italia. Ne deriva una lettura che rischia di attribuire alla prassi operaista un ruolo egemonico nel ciclo di lotte degli anni Settanta, vedendo nelle tesi operaiste la matrice originaria del Sessantotto e dei suoi sviluppi successivi. Questa lettura è rigettata da Grispigni, insieme a quella
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dietrologica che è esposta al medesimo rischio riduzionista, riconducibile alla teoria del “grande vecchio”, che ricerca tra gli operaisti più influenti i responsabili delle derive violente di quella stagione, teoria che non è peraltro senza rapporto con l’impianto accusatorio sotteso al celebre processo del 7 aprile 1979. Respingendo questi due approcci storiografici, Grispigni tenta invece, da un lato, di considerare l’operaismo come una teoria politica la cui genesi precede di almeno un decennio l’esplosione del Sessantotto, riconoscendo allo stesso tempo la “relazione feconda”, ma non univoca, né lineare, che questa teoria politica stabilì con alcuni settori di movimento, prima e dopo il Sessantotto; dall’altro, di ricostruire le dinamiche che hanno portato alcune frange alla lotta armata, prendendo in conto le riflessioni sulla “violenza operaia” come una delle “caratteristiche specifiche” di quel ciclo di lotte. Grispigni ricostruisce le traiettorie dell’operaismo alla prova del movimento studentesco, dell’“autunno caldo” e del ciclo di lotte sociali e politiche degli anni Settanta. In una prima parte, egli mostra come la “cultura operaista” avesse avuto già nelle riflessioni e nelle azioni di una parte rilevante degli studenti sessantottini un ruolo centrale, sebbene non esclusivo, specie nell’interpretazione della condizione studentesca come forza-lavoro in formazione, ovvero componente essenziale della forza-lavoro sociale nel più generale processo di proletarizzazione di massa che coinvolgeva ampie fasce di studenti (per provenienza, formazione e destinazione produttiva), contribuendo a spostare il baricentro di una parte del movimento dall’antiautoritarismo alla ricomposizione di classe, dall’università alla fabbrica. Incentrando, in seguito, l’analisi storica sui due gruppi maggiormente influenzati dall’operaismo, Lotta continua e Potere operaio, l’autore ripercorre gli snodi principali del rapporto tra teoria e pratica sociale conflittuale, affrontando dall’interno delle vicende dei movimenti e del loro interagire con gli altri attori politici e sociali, i temi cruciali che ruotano intorno al problema dell’organizzazione e dell’avanguardia, della centralità operaia e della ricomposizione di classe, dell’emergere di nuovi soggetti sociali conflittuali, senza tralasciare quello della violenza di classe. Il biennio 1968-1969, nella percezione delle avanguardie della Nuova Sinistra e del movimento studentesco, apriva una fase nuova, imponendo in termini concreti il problema dell’“organizzazione”. Mentre il convegno di Venezia, tenutosi tra il 2 e il 6 settembre del 1968, aveva segnato l’ultimo momento di massa del movimento studentesco, lasciando temere un riflusso che aveva spontaneamente accelerato processi organizzativi nel tentativo di raccogliere le forze, l’insubordinazione operaia raggiungeva livelli apicali di conflittualità e generalizzazione, contribuendo a spostare gli studenti dalle università alle fabbriche. Il Sessantanove fu l’anno fatidico della rivolta di
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Corso Traiano, dell’incontro tra operai e studenti ai cancelli della Fiat. Nelle fabbriche proliferavano i comitati operai di base, gli studenti trovavano momenti effettivi di convergenza con le lotte operaie, mentre ampi settori di società si mobilitavano, lasciando intravedere una possibilità di ricomposizione delle lotte. La risposta delle classi dominanti fu determinata, non solo attraverso le forme legali della repressione giuridica e poliziesca, bensì articolando livelli occulti e inaspettati di reazione, il cui punto di caduta più infimo fu la “strategia della tensione” che rintronò a piazza Fontana, il 12 dicembre di quell’anno, come una terribile dichiarazione di guerra. Il problema di una direzione politica dell’insubordinazione di massa, la necessità di collegare e far convergere le lotte, il bisogno di stringere i ranghi per anticipare un eventuale riflusso del movimento di massa, non per ultimo, la volontà di opporre alla reazione in corso una risposta adeguata, dettavano nuove “urgenze organizzative” e inauguravano la stagione dei gruppi extraparlamentari. Le avanguardie cresciute in seno alla Nuova Sinistra e ai movimenti studenteschi dovettero affrontare per la prima volta, in quel biennio, il problema dell’“organizzazione”, e spesso lo fecero attingendo ai modelli della tradizione leninista, nel tentativo di riattualizzarli. Nel secondo Novecento il “leninismo” fu oggetto di contesa tra le varie componenti del movimento operaio. A cominciare dal partito comunista, che, a partire dal secondo dopoguerra, aveva consolidato la propria ideologia intorno a un leninismo edulcorato, modellato a “costruzione egemonica”, funzionale alla via democratica e nazional-popolare di matrice gramsciano-togliattiana. Alla sinistra del Pci, invece, molti furono i gruppi che ritornarono al leninismo in una prospettiva “rivoluzionaria”. A titolo di esempio, potremmo segnalare il leninismo dottrinario e coscienzialistico dei gruppi marxisti-leninisti; quello iperavanguardista, polarizzante e unilaterale delle Brigate rosse; o ancora quello di Potere operaio, in cui convivevano aspirazioni insurrezionali, elementi di economicismo e tendenze dirigiste. Una eccezione significativa, tuttavia, si aprì la strada tra i “neoleninismi” degli anni Settanta. Si tratta di Lotta continua, su cui vale la pena soffermarsi. L’universo teorico di Lotta continua è certamente quello del marxismo, filtrato soprattutto da Panzieri e Tronti, e dal modello cinese della “rivoluzione culturale”. Questi punti di riferimento, tuttavia, non si presentano mai in termini assoluti, sono contaminati da un’impronta populista, desunta dall’area del dissenso cattolico, ma soprattutto vengono piegati all’esigenza di “stare nelle lotte”, unica fonte di legittimità della linea politica dell’organizzazione. Ciò detto, è soprattutto dalle componenti più radicali e movimentiste del Sessantotto che Lotta continua riceve i tratti più caratteristici della sua fisionomia. Già prima della fondazione
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dell’organizzazione, l’attività di Adriano Sofri e degli altri militanti del “Potere operaio” toscano, pur riconoscendo la centralità della classe operaia nella società italiana del tempo, affiancava, all’intervento di fabbrica, campagne di massa nei quartieri e nelle città, insistendo nella prospettiva della “socializzazione” delle lotte, da interpretarsi come estensione di queste alle condizioni sociali complessive della classe operaia e del moderno proletariato (salario, orario di lavoro, affitto, trasporti, condizioni di vita nei quartieri proletari, ecc.). L’orizzonte entro cui si muoveva l’attività del “Potere operaio” toscano era ben lontano quindi da quella centralità rivendicativa del salario che caratterizzava il gruppo di «La classe» e la successiva esperienza di Potere operaio. I militanti toscani cercarono molto presto una sintesi politica tra le diverse figure sociali della contestazione, a cominciare dagli operai e dagli studenti, stabilendo contatti con nuclei di militanti dei movimenti studenteschi antiautoritari di Torino e di Trento. Li accomunava una stessa prassi concreta. Il gruppo, infatti, adottava uno stile di lavoro attivistico, in cui la pratica sociale aveva una netta prevalenza sull’elaborazione teorica, e la capacità di “stare tra le masse” era considerata come la questione decisiva rispetto a tutte le altre, motivando una costante disponibilità a recepire i contenuti nuovi e di rottura che provenivano direttamente dalle situazioni concrete del movimento di classe. Nondimeno, Sofri e i suoi compagni ambivano a orientare gli studenti universitari verso le fabbriche, insistendo sull’interpretazione delle contestazioni studentesche come prodotto di un processo di proletarizzazione in corso. Dal loro punto di vista, il collegamento tra gli studenti, gli operai e le altre categorie sociali non doveva avvenire sulla base di una ideologia o di una linea data dall’esterno, ma partendo dallo sviluppo interno delle lotte e dei loro obiettivi, ovvero come convergenza delle avanguardie di massa e degli obiettivi generalizzabili che queste lotte esprimevano. Con l’avanzare del Sessantotto, tra i militanti toscani emersero delle divergenze inconciliabili sul modo di interpretare il ruolo dell’avanguardia rivoluzionaria, che si esplicitarono in maniera inequivocabile nel settembre del 1968, in occasione di un dibattito sull’“organizzazione”. Il risultato più notevole di questo confronto fu, in termini teorici, la concezione dell’“avanguardia interna”, elaborata e difesa da Sofri e dagli attivisti più giovani del gruppo, contro le concezioni tradizionali del leninismo, assunte dai militanti più anziani e più legati al movimento operaio storico, quali Vittorio Campione, Gian Mario Cazzaniga, Luciano Della Mea, Romano Luperini. Nella sua relazione, Sofri sintetizzava le novità dirompenti del Sessantotto e guardava ai movimenti studenteschi antiautoritari che avevano
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espresso, a suo avviso, contenuti radicali di sovversione sistemica e ridefinito i modi della politica tradizionale6. Facendo tesoro degli insegnamenti della realtà, il giovane leader del “Potere operaio” toscano metteva al centro i movimenti reali, assecondando il ribaltamento operato da molte aree del Sessantotto studentesco, che consisteva, in estrema sintesi, nell’attribuire un valore di gran lunga maggiore ai fatti sociali e alla radicalità espressa dalle lotte piuttosto che alle codificazioni ideologiche e alle analisi complessive, cui corrispondeva una propensione pragmatica a cogliere e sviluppare la capacità di rottura specifica delle varie lotte sociali. Gli stessi movimenti studenteschi avevano espresso delle avanguardie; ma la loro principale preoccupazione, come ben riconosceva Sofri, era stata quella di non distaccarsi dal movimento di massa e di collegarsi con altre forze sociali. I “sessantottini” avevano dimostrato che la direzione politica, lungi dall’annichilirsi a favore della “spontaneità” pura e semplice delle masse, poteva collocarsi all’interno del loro stesso movimento, come prodotto di un’avanguardia che di questo movimento fosse diretta espressione, capace di raccoglierne e generalizzarne i contenuti. D’altra parte, secondo Sofri, era lo sviluppo stesso del capitalismo occidentale a porre le condizioni di un ribaltamento metodologico del rapporto tradizionale tra avanguardia e masse. A cominciare dalla diversa natura che andava assumendo la lotta operaia, non più confinata, nel suo spontaneismo, allo scontro economico e sindacale contro il padrone, bensì capace di raggiungere naturalmente un alto significato di contestazione “politica” nei termini in cui dimostrava di opporsi alla razionalità capitalistica nel suo complesso, per andare oltre le rivendicazioni economiche immediate e porre obiettivi di liberazione del lavoro dal rapporto salariato. In secondo luogo, lo sviluppo capitalistico degli anni 1950-60 aveva trasformato le condizioni sociali che definivano il ruolo degli intellettuali, sicché la concezione leninista del partito, che attribuiva loro un ruolo essenziale di rivoluzionari di professione, diventava inattuale. Gli intellettuali si “proletarizzavano”, erano subordinati, per mansioni e destinazione lavorativa, alle strutture pubbliche e private della economia fordista moderna, dell’industria culturale e del marketing, della pianificazione e della ricerca scientifica e tecnologica funzionale allo sviluppo capitalistico. Sofri deduceva, da queste considerazioni, che, date le trasformazioni intervenute nei rapporti di classe e nella dinamica dei nuovi movimenti sociali, la costruzione dell’organizzazione doveva assecondare il processo di Cfr. Il dibattito di “Potere operaio” sull’organizzazione, in «Giovane Critica», 19 (inverno 1968-1969), pp. 15-45. 6
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radicalizzazione e di generalizzazione crescente delle lotte e, in esso, porsi come il sito del collegamento tra le avanguardie interne, ovvero della parte più cosciente dei movimenti di massa, non potendo in alcun modo avere efficacia gli schemi classici improntati alla creazione di nuclei soggettivamente “rivoluzionari” estranei ai movimenti sociali. Negando che i rivoluzionari dovessero portare la coscienza “dall’esterno” delle lotte, egli cercava di teorizzare un profilo nuovo, moderno, di “rivoluzionario”, e per farlo doveva spingersi, non già “contro”, ma dichiaratamente “oltre” il leninismo. Così, dunque, nella sua relazione sull’organizzazione al dibattito del “Potere operaio” toscano, Sofri enucleava, già nel settembre 1968, i principi fondamentali che avrebbero caratterizzato la natura di Lotta continua come “movimento politico organizzato”, e che ne definivano, peraltro, i tratti più schiettamente sessantottini. Nondimeno, come abbiamo già detto, il “Potere operaio” toscano raccoglieva talune istanze dell’operaismo degli anni Sessanta che avrebbero accompagnato l’esperienza di Lotta continua in tutto il suo decorso. Quando, tra la fine del 1972 e il 1975, per esempio, s’impose la necessità di superare l’originario “estremismo” dell’organizzazione, i dirigenti di Lotta continua non rinunciarono ad alcuno dei loro riferimenti teorici originari. In occasione dell’elaborazione delle “tesi” per il 1° Congresso nazionale dell’organizzazione, svoltosi tra il 7 e il 12 gennaio 1975, tra suggestioni populiste, insegnamenti della “lezione cilena” ed evocazioni operaiste, Adriano Sofri, Guido Viale e Clemente Manenti che furono i redattori di quel documento, fissavano «il momento della strategia nei “contenuti dell’autonomia operaia”» e affidavano «al partito la definizione della tattica come problema del “rapporto tra autonomia di classe e organizzazione maggioritaria della classe”» 7, rielaborando, in questo modo, uno degli assunti più celebri dell’operaismo di Tronti secondo cui “la strategia è nelle masse, la tattica nel partito”. La tesi citata, conosciuta anche come “tesi della tattica”, abbozzava uno schema funzionale alla costruzione di un “movimento-partito” che si candidava alla conquista della maggioranza del proletariato nel contesto della “lunga crisi dell’imperialismo”. All’origine di queste elaborazioni vi era, se così si può dire, la scoperta dei “tempi lunghi” dello scontro di classe, ovvero l’esigenza di ripensare l’ipotesi della rottura rivoluzionaria indipendentemente da una improbabile “ora x” dell’insurrezione, nel quadro di “un processo necessariamente lungo” di accumulazione del consenso e di crescita effettiva dell’autorganizzazione e dell’autonomia del proletariato, durante il L. Bobbio, Storia di Lotta Continua, Milano, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 1988 (1979), p. 146. 7
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quale si sarebbero probabilmente dati molteplici momenti di “precipitazione dello scontro”, ma non di certo una situazione definitivamente insurrezionale. In questo quadro il problema centrale rimaneva quello della tenuta del Pci, rispetto al quale Lotta continua non si illudeva di poter operare una frattura repentina tra la base e la dirigenza, ma piuttosto una conquista progressiva del proletariato a fronte della tenuta generale del sistema politico italiano, agendo sulle contraddizioni interne al partito, a partire da quella che opponeva l’apertura del dialogo con la Dc, voluto dalla sua dirigenza, e la rappresentanza del movimento di classe e dei suoi bisogni, che si sarebbe acuita col prolungarsi della crisi stessa e la necessità di scaricarne i costi sulla forza-lavoro. La tattica del “Pci al governo” fu allora non una svolta riformista o il risultato dell’istituzionalizzazione di Lotta continua, ma l’unico passaggio possibile in questa congiuntura, finalizzata ad acuire le contraddizioni del Pci e, insieme, a consolidare l’opposizione antimperialista del proletariato nell’orizzonte dei tempi lunghi. Un’ipotesi, questa, che poggiava sulla fiducia cieca nella capacità autonoma delle masse di imporre contenuti politici rivoluzionari (nel caso specifico delle “tesi”, di imporre questi contenuti al Pci, producendone uno spostamento a sinistra), derivata da una lettura originale e, per così dire, “non ortodossa” dell’operaismo degli anni Sessanta, che tuttavia spostava la dinamica dell’autonomia del proletariato, dal terreno di un’oggettiva resistenza della classe operaia al “piano del capitale” nell’organizzazione della fabbrica moderna, a quello dei bisogni sociali complessivi, delle aspirazioni e delle resistenze culturali del moderno proletariato. In tutt’altra direzione andò, invece, in questa stessa congiuntura, il gruppo dirigente di Potere operaio dopo lo scioglimento dell’organizzazione. Su un momento particolarmente significativo del passaggio da Potere operaio all’Autonomia operaia organizzata, fa luce Marco Rampazzo Bazzan, soffermandosi in particolare sulla ricezione e rilettura di Lenin da parte di Antonio Negri nelle “trentatré lezioni” che il professore tenne nel 197273 all’Istituto di Dottrina dello Stato dell’Università di Padova. L’Istituto di Dottrina dello Stato dell’Università di Padova fu un luogo particolarmente significativo, benché trascurato, della produzione teorica operaista, diretto da Negri durante gli anni ‘70, fino al processo del 7 aprile 1979 che pose fine alla sua carriera accademica. Nel suo contributo, Bazzan prende le mosse da un seminario del 1972, tenutosi presso l’Istituto padovano, da cui fu tratto l’opuscolo negriano intitolato Trentatré lezioni su Lenin, per interrogare alcuni snodi dell’esperienza operaista prendendo in conto il ruolo ricoperto da Negri all’interno dell’università e ridefinendo, al di là della memorialistica dei protagonisti, i termini del rapporto tra il “programma politico”, fondato metodologicamente su una particolare ripresa
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del leninismo, e il “programma di ricerca”, portato avanti da un’istituzione accademica. Ricollocando le lezioni su Lenin nel suo contraddittorio luogo di origine e nel quadro più ampio delle trasformazioni storiche sul piano internazionale, che sfociano nella cesura del 1973 identificato come un anno di svolta, Bazzan mostra come la riappropriazione operaista di Lenin, lungi dal voler recuperare un modello bolscevico di rivoluzione, serva a porre il problema metodologico dell’inversione della «composizione di classe come formazione sociale determinata in una teoria dell’organizzazione»8, quindi a pensare la costruzione del partito dell’insurrezione a partire dalla nuova composizione di classe. Siamo in anni cruciali per il movimento operaio, nel contesto della crisi energetica e dell’inizio delle politiche di austerità, del consolidamento dello stato neocorporativo e della riconquista sindacale delle lotte operaie, del colpo di stato in Cile e delle prime elaborazioni sul “compromesso storico”, dell’occupazione di Mirafiori, nel marzo del 1973, e dello scioglimento di Potere operaio. Sono anni di ripensamento strategico per tutta la sinistra extraparlamentare. La congiuntura pone problemi determinati: come sviluppare e organizzare l’autonomia di classe, il dualismo di potere, l’insurrezione, e, d’altra parte, come sottrarre le lotte operaie all’egemonia comunista, nel passaggio storico della crisi capitalistica mondiale, della ristrutturazione produttiva e dell’emergenza di una nuova composizione di classe. Il ritorno a Lenin avviene per Negri nel segno di una riappropriazione metodologica propulsiva di nuova tecnologia politica in congiuntura. Si tratta, in altri termini, di articolare l’irruzione “eretica” della contemporaneità nella tradizione recepita, di riattivare un sapere pregresso a fini operativi, laddove l’elemento di discontinuità, l’“eresia”, come sottolinea Bazzan, consiste nella trasformazione oggettiva della composizione di classe e della forma-Stato. Tale utilizzo di Lenin costituisce un esempio emblematico del rapporto non scontatamente liquidatore che gli operaisti instaurano con la tradizione del movimento operaio storico. Come si può riscontrare nelle relazioni raccolte in questo volume, Panzieri, Negri e Tronti, per citare i principali ispiratori dell’operaismo, compirono, nelle differenze del caso, un medesimo atto di recupero di frammenti significativi di tradizione, sostanziando, con questo, un tradimento generativo di innovazioni politiche e teoriche efficaci: così per il consiliarismo delle Sette tesi sul potere operaio, per il “frammento sulle macchine” riscoperto e tradotto sul n. 4 dei «Quaderni rossi», per l’uso dell’inchiesta o, ancora, per la riscoperta del leninismo come “tecnologia politica” e metodo di risoluzione problematica “in congiuntura”. 8
Infra, p. 162.
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Se è importante richiamare l’attenzione sulla dimensione accademica del lavoro di Negri e dei suoi collaboratori nella Padova degli anni Settanta, è senz’altro nella realtà industriale di Porto Marghera che l’elaborazione teorica e la pratica politica dell’operaismo ebbero un importante terreno di sperimentazione. Gilda Zazzara, nel suo intervento in occasione del convengo, dal titolo Operaisti di fabbrica a Porto Marghera attraverso e oltre gli “anni ’68”, di cui ci sembra opportuno riportare le linee generali benché – per ragioni che prescindono dalla volontà dei curatori – non abbia potuto essere raccolto nel presente volume, ha ripercorso le tappe fondamentali dello sviluppo delle posizioni operaiste dal giornale socialista «Il progresso veneto» alla nascita di Potere Operaio, per concentrarsi su due traiettorie biografiche di militanti allo stesso tempo eccezionali ed esemplari: Italo Sbrogiò (1934-2016) e Augusto Finzi (1941-2004). Di estrazione rurale-proletaria il primo, alto-borghese e urbana il secondo, furono entrambi protagonisti del “lungo ’68” come lavoratori del Petrolchimico Montedison – l’uno manutentore meccanico, l’altro perito chimico – e come membri del Comitato operaio, un’esperienza politico-sindacale mai interamente sovrapponibile al gruppo di Potere Operaio. Le loro biografie furono spezzate dal drammatico passaggio di decennio – l’inchiesta del 7 aprile 1979 e la spirale di violenza che investì Porto Marghera nel 1980-1981 – che li spinse a riposizionamenti assai distanti tra loro. Zazzara ha cercato di tematizzare queste diverse vie d’uscita dagli “anni ’68”, interrogandosi tanto sulle discontinuità che sulle persistenze della comune matrice operaista. Oggetto del contributo conclusivo è l’analisi di una figura nella quale si intrecciano diverse “traiettorie operaiste”, fino agli esiti del post-operaismo, e si concretizza quell’interconnessione tra le diverse dimensioni, teoriche e politiche, tattiche e strategiche, che ha attraversato l’intero volume. Nella sua relazione, intitolata Marco Melotti: verso una critica della crisi della politica, Diego Melegari si propone di presentare alcuni snodi fondamentali della riflessione teorica di Marco Melotti (1946-2008), intrecciando i contributi apparsi in diverse riviste (“Filo Rosso”, “Primo maggio”, “Collegamenti Wobbly”, “Quaderni del NO”, “Incompatibili”, “Vis-à-Vis”, di cui fu il principale animatore) con l’esperienza di militanza in Avanguardia Operaia, nel movimento del Settantasette, nel sindacalismo di base e nel cosiddetto “movimento dei movimenti”. Muovendo anche dal materiale depositato nel fondo documentario personale di Melotti (depositato al Centro Studi Movimenti di Parma) Melegari focalizza l’attenzione sugli sviluppi di una “critica della politica”, che, sulla scorta una lettura libertaria di Marx (attraverso soprattutto Maximilien Rubel), entrava in forte tensione sia con la trontiana “autonomia del politico” che con la riduzione del capitale a
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dominio politico operata, secondo l’autore, da Negri e, in forma diversa, da Paolo Virno. Ad emergere, anche grazie ad una ripresa di Panzieri e dei primi «Quaderni rossi», è una lettura del postfordismo e della sua condensazione nella “mega-macchina informatica” secondo cui intenzionalità e libertà operaie sono sussunte al capitale, reificate, negate e, al tempo stesso, necessarie. È sullo sfondo di questa estensione e intensificazione dell’astratto che Melotti coglie la formazione di un «proletariato universale», «ceto che coincide con il decomporsi di tutti i ceti», secondo le parole del giovane Marx. Aspetto caratteristico della riflessione di Melotti è che la condizione per l’attivazione politica di questa potenzialità rivoluzionaria, lungi dal ridursi al “politico”, sembra risiedere in una dimensione “antropologica” che mette in gioco memorie e immaginari collettivi, in particolare a partire dalle forme di soggettività emerse dai movimenti degli anni Sessanta e Settanta. Legando la “memoria critica” alla “coscienza della sconfitta”, la riflessione di Melotti riapre la questione della possibilità di una riappropriazione delle esperienze teorico-politiche del “lungo ’68” per il presente, nella quale risiedeva la ragione originaria del convegno. Dai «Quaderni rossi» alle Tesi per il 1° congresso nazionale di Lotta Continua, da Operai e capitale alle “trentatré lezioni su Lenin”, dal Comitato operaio di Porto Marghera al multiforme universo del movimento dell’autonomia, le traiettorie dell’operaismo percorrono sentieri molteplici, orientano la prassi politica e teorica di gruppi disparati, marcando, lungo i decenni, alcune delle innovazioni teorico-politiche più profonde, ma anche limiti endogeni e soggettivi insuperati. Lungi dall’essere una corrente teorica e politica omogenea, l’operaismo fu piuttosto una costellazione di esperienze – politiche e intellettuali, individuali e collettive, di ricerca e di azione – molteplici, frammentate, spesso contaminate da elementi eterogenei, che produssero genealogie non lineari. Con questo lavoro speriamo di aver fornito un contributo utile per le ricerche a venire che intendano andare al di là di quelle interpretazioni equivoche che vorrebbero ricondurre una stagione assai complessa di sperimentazioni politiche e sociali, quale fu il “lungo ’68” italiano, a una presunta “matrice” operaista, o, ancora, ridurre le molteplici traiettorie dell’operaismo alle tesi, per altro a loro volta divergenti, di alcuni suoi più noti rappresentanti.
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All’origine della Nuova Sinistra
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Il dibattito sull’autonomia nel Partito socialista italiano* Mariamargherita Scotti
Per molti anni la storiografia italiana ha alimentato il luogo comune di una sostanziale inesistenza di una politica culturale socialista autonoma e rilevante, sottovalutando il carattere specifico del rapporto tra intellettuali e Psi nel secondo dopoguerra1. Fanno eccezione pochissime ricerche di lungo periodo sulla cultura socialista2 e una serie, nutrita in verità, di saggi dedicati a singoli intellettuali o a esperienze culturali (gruppi, riviste, associazioni) specifiche. Si tratta, in quest’ultimo caso, di una letteratura a carattere perlopiù politico e memorialistico, che ha conosciuto una certa fortuna una prima volta nel corso degli anni Settanta e in seguito, dopo il 1989, quando si è ricercato, tra gli intellettuali della sinistra socialista, il filo rosso di un’«Italia antimoderata» in qualche modo estranea e alternativa alla Una versione precedente di questo intervento è stata pubblicata, con il titolo Il paradosso dell’autonomia. Traiettorie di intellettuali nel Psi tra anni Cinquanta e Sessanta, in Francesca Chiarotto (a cura di), Aspettando il Sessantotto. Continuità e fratture nelle culture politiche italiane dal 1956 al 1968, Torino, Accademia University Press, 2017, pp. 222-237. 1 Si veda a questo proposito quanto raccontato da Vittorio Foa: «Quando Paul Ginsborg mi diede da leggere il dattiloscritto coi primi capitoli della sua Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi gli dissi che li trovavo molto belli ma che c’era un vuoto: non si parlava dei socialisti. E Paul: “Non ne parlo perché non c’erano”. E io: “Come non c’erano? Nel 1946 erano più numerosi dei comunisti e degli azionisti messi insieme!”. Ma Paul insistette: “Non c’erano”. Rimasi un po’ turbato; dal 1947 ero stato coi socialisti, fui persino un loro deputato alla Camera per tre legislature; come si faceva a dire che non c’erano? Molti anni dopo ne parlai con Vittorio Rieser e Carlo Ginzburg. Carlo fu esplicito, per lui il Partito socialista era come una scatola vuota, priva di continuità sociale e anche politica, da riempirsi a seconda delle convenienze, una specie di residuato. Io insistevo: per me i socialisti rappresentavano (e potevano ancora rappresentare) un’oasi libertaria nel grande mare collettivista del movimento operaio. Ma Vittorio Rieser negò questa tesi, quel libertarismo era invisibile e in genere la cultura socialista era ben povera cosa» (Il cavallo e la torre. Riflessioni su una vita, Torino, Einaudi, 1991, p. 196). *
Cfr. Valerio Strinati, Politica e cultura nel partito socialista italiano, Napoli, Liguori, 1980 e Gaetano Arfè, Intellettuali e società di massa. I socialisti italiani dal 1945 a oggi, Genova, ECIG, 1984. 2
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tradizione intellettuale comunista3. Una letteratura che, per quanto si sia arricchita recentemente di contributi storiografici originali, si è concentrata soprattutto su alcuni esponenti di spicco della cultura e della politica socialiste piuttosto che sulla funzione ricoperta dal Psi come primo contenitore di un dissenso che avrebbe trovato, negli anni ’60, il proprio liberatorio sbocco in una militanza al di fuori dei partiti tradizionali del movimento operaio4. Come spiegare che molti dei cosiddetti “padri” della Nuova Sinistra (Raniero Panzieri, Franco Fortini, Gianni Bosio, Giovanni Pirelli, Luciano Della Mea) avessero militato tra le file di un partito che dalla fine degli anni Cinquanta aveva cominciato una progressiva trasformazione in partito riformista e di governo? Dove cercare le ragioni per cui molti dei giovani che si impegnarono, nei primi anni Sessanta, nella costruzione di una sinistra alternativa alle organizzazioni storiche del movimento operaio (Vittorio Rieser, Pino Ferraris, Gianni Alasia, Daria e Liliana Lanzardo, solo per citare qualche nome) avessero cominciato il loro apprendistato politico, tra la fine degli anni Cinquanta e i primissimi Sessanta, proprio nell’orbita del partito guidato da Pietro Nenni? Provare a rispondere a questi interrogativi significa misurarsi con un vero e proprio paradosso, che consente tuttavia di fare un passo avanti rispetto a spiegazioni che puntano la loro attenzione sul (pur innegabile) carattere pluralista del Psi del secondo dopoguerra. Si tratta – come cercherò di argomentare – di un paradosso che ha a che fare con la declinazione, politica e culturale, del concetto di «autonomia». Come è noto, il Psi degli anni ’50 fece proprio dell’«autonomia» la parola d’ordine che l’avrebbe condotto, nell’arco di un decennio e attra3 Per i tempi più recenti, è significativa l’esperienza dei «Quaderni dell’Italia antimoderata» del Centro di Documentazione di Pistoia, lanciata nel 2011 da Attilio Mangano e Antonio Schina in collaborazione con Antonio Benci per «riscoprire, valorizzare, documentare il ruolo di scrittori e pensatori irregolari, espressione di quella che vorremmo chiamare una Italia antimoderata». La categoria «antimoderati» è mutuata dal celebre studio di Massimo Ganci L’Italia antimoderata. Socialisti, radicali, repubblicani, autonomisti dall’Unità a oggi, pubblicato nel 1968 da Guanda. Il termine «antimoderati», tuttavia, è stato utilizzato per la prima volta per individuare una precisa categoria di intellettualimilitanti da Attilio Mangano in L’altra linea. Fortini, Bosio, Montaldi, Panzieri e la nuova sinistra, Catanzaro, Pullano, 1992, volume che faceva esplicito riferimento al libro di Stefano Merli L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Milano, Feltrinelli, 1977. Fino a oggi sono usciti volumi dedicati a Luciano Bianciardi, Giovanni Pirelli, Raniero Panzieri, Stefano Merli, Guido Quazza, Massimo Gorla, Bruno Borghi, Franco Fortini.
È quello che ho cercato di fare con il mio Da sinistra. Intellettuali, Partito socialista italiano e organizzazione della cultura (1953-1960), Roma, Ediesse, 2011. 4
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verso alterne vicende, dalla politica frontista all’elaborazione della strategia dei governi di centro-sinistra. Questa stessa parola, variamente intesa e declinata, fu agitata, in quegli stessi anni, da alcuni intellettuali militanti all’interno o ai margini dello stesso Psi, da tempo insofferenti nei confronti della politica di unità d’azione con il Pci, in particolare, delle sue pesanti ricadute nel campo dell’organizzazione della cultura. Per costoro, tuttavia, l’«autonomia» era una nozione carica di diverse interpretazioni e declinazioni – autonomia della cultura dalla politica, degli intellettuali dai dirigenti, della classe dal partito – e mirava a un’uscita “a sinistra” dallo stalinismo, che non avesse come esito necessario il nuovo modello riformista sul quale si stava orientando – non senza scontri interni – la maggioranza del partito. Fu anche in virtù di questo malinteso intorno alla definizione di «autonomia» che essi poterono restare tra le file del Psi almeno fino ai primissimi anni ’60, trovando tribune e interlocutori per discutere argomenti e approcci che sarebbero diventati centrali nel clima politico-culturale del decennio. Si trattava, tuttavia, di un malinteso solo apparente, di un’ambivalenza consapevolmente e abilmente sfruttata dalle correnti autonomiste del partito e, in più di un’occasione, cavalcata dagli stessi intellettuali per ottenere parola e visibilità nel dibattito politico-culturale del momento. Ripercorrerò dunque alcune delle traiettorie più significative di questi intellettuali, usando il controverso richiamo all’«autonomia» – declinata secondo tre diverse prospettive – come filo rosso di un percorso che li condusse, nel tornante decisivo del passaggio del decennio ’50-’60, dalla militanza tra le fila del Psi a nuove forme di impegno politico al di fuori di esso.
1. L’autonomia della classe: tra storia del movimento operaio e cultura popolare La prima declinazione di autonomia ha a che fare con due argomenti – storia del movimento operaio e cultura popolare – assai sensibili nel dibattito degli anni ’50, che mostrano, ancor prima della crisi del ’56, alcune incrinature tra Psi e Pci. La figura da cui muovere è quella di Gianni Bosio, mantovano, iscritto al Psi dal 1943, protagonista della riorganizzazione del partito in Lombardia e dunque esponente di spicco del rinnovamento dei quadri socialisti avviato da Lelio Basso negli anni della sua segreteria. In virtù dei suoi interessi di studioso (pur non avendo portato a compimento gli studi, aveva concordato con il filosofo Antonio Banfi una tesi sul marxismo in Italia prima del 1892), Bosio fondò nel 1949 «Movimento operaio», bollettino storico-bibliografico inizialmente ciclostilato e autofinanziato. Cifra della rivista – che 39
in poco tempo attirò nella sua redazione un buon numero di esponenti della nascente contemporaneistica italiana – erano il metodo filologico, lo scavo d’archivio, la pubblicazione di fonti e bibliografie, la cronologia e la storia locale. Lo scopo era quello di documentare, cominciando dalla raccolta di un patrimonio disperso di memorie e di carte, una tradizione rivoluzionaria italiana autoctona, che includesse senza censure la Prima internazionale come gli anarchici, le varie organizzazioni della classe prima della nascita del Partito socialista come le istanze spontanee del proletariato rurale. Era infatti convinzione di Bosio che «la classe operaia opera, costruisce, si organizza, pensa e si esprime in maniera propria»5, ed è dunque capace di esprimere una propria storia e una propria cultura, antagoniste ma non necessariamente subalterne. Dunque, secondo Bosio, è possibile studiare «la storia del movimento operaio in funzione del movimento operaio» stesso6. Questo approccio gli attirò critiche di «filologismo» e «corporativismo» di alcuni storici comunisti, a cominciare dagli stessi redattori di «Movimento Operaio». Il nodo cruciale del dissenso investiva proprio la rivendicazione di un’autonomia originaria della classe rispetto alla guida (e alla storia) di partiti e sindacati. Su questo punto gli orientamenti storiografici di area comunista erano allora indirizzati alla valorizzazione della continuità del ruolo nazionale ed egemone della classe operaia (che dal filone democratico-repubblicano del Risorgimento conduceva alla democrazia repubblicana) e non potevano quindi concedere troppo spazio a una storiografia che ne accreditasse un’immagine sovversiva e antistatuale7. Al di là degli esiti immediati della vicenda (che condusse, nel 1953, al licenziamento di Bosio da parte di Giangiacomo Feltrinelli, dal 1952 editore di «Movimento Operaio»), ciò che è interessante notare è come le posizioni 5
Gianni Bosio, Diario di un organizzatore di cultura, Milano, Edizioni Avanti!, 1962, p. 105.
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Ivi, p. 96.
Disse Renato Zangheri nel corso della riunione del 21 dicembre 1952: «Non basta studiare il movimento operaio dal punto di vista economico, ma anche da quello politico: il movimento operaio corre parallelo, è influenzato e influenza la storia politica, economica e letteraria di un paese. [...] La rivista dovrebbe essere rivista di storia d’Italia: a me importano sì i congressi, gli iscritti, ma più mi importa sapere in che misura questo ha inciso sulla storia d’Italia» (Verbale conservato alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Fondo Biblioteca Giangiacomo Feltrinelli, busta 1 fascicolo 4). Lo stesso Zangheri, sulle pagine di «Società», VII (1951), aveva individuato «difetti e incertezze» di «Movimento operaio»: «Si nota ancora una certa ristrettezza e timidezza specialistica nelle ricerche, e sarà forse bene che in questa fase di esplorazione e di escavazione sia così; ma ci pare necessario ricordare che non si puo fare storia del movimento operaio italiano, se non guardando da questo angolo visuale tutta la storia contemporanea d’Italia» (ivi, p. 322). 7
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“autonomiste” di Bosio, minoritarie all’interno del Psi, avrebbero trovato di lì a poco un importante strumento di visibilità nel rilancio della casa editrice del partito, le Edizioni Avanti!, che la Direzione gli affidò nel 1953. Questo rappresenta uno degli esempi più significativi della capacità della dirigenza socialista (che aveva appena lanciato lo slogan dell’«alternativa socialista») di sfruttare a proprio vantaggio anche le iniziative di militanti che esprimevano posizioni critiche quando non esplicitamente eretiche. La ripresa dell’attività editoriale di partito, di cui Bosio si fece totalmente carico tanto dal punto di vista organizzativo quanto da quello finanziario, fu una delle prime occasioni, per il Psi, per mostrare le proprie intenzioni di rilanciare un impegno autonomo nel campo della cultura. D’altra parte, le Edizioni Avanti! furono per Bosio una straordinaria tribuna dalla quale portare avanti la propria eresia, raccogliendo intorno a sé un gruppo di collaboratori che lo avrebbe seguito nelle future evoluzioni al di fuori del Psi (dal quale si sarebbe allontanato nei primi anni ’60), fino ai primi anni ’70, con l’attività delle Edizioni del Gallo, dei Dischi del Sole, del Nuovo Canzoniere Italiano e dell’Istituto Ernesto de Martino8. La sensibilità per il tema dell’autonomia operaia e contadina e, più in generale, la valorizzazione del momento spontaneo di iniziativa rivoluzionaria “dal basso” (con la conseguenza di mettere se non altro in discussione il ruolo del partito nel suo rapporto con le masse) riguarda in realtà più in generale una larga parte dell’intellettualità socialista (soprattutto “a sinistra”). Si consideri il contributo originale fornito dagli intellettuali socialisti (Bosio, certamente, ma anche Alberto Mario Cirese) al dibattito sulla “cultura popolare”, che aveva trovato una prima occasione di verifica, nel 1950, dopo la pubblicazione del saggio di Ernesto de Martino Intorno ad una storia del mondo popolare subalterno9. Fin da allora la discussione si era polarizzata intorno al nodo dell’alternativa tra spontaneismo e organizzazione, e molti intellettuali socialisti avevano mostrato nei confronti di De Martino un atteggiamento più aperto e interlocutorio di quello dei comunisti, di cui si era fatto portavoce, sulle pagine di «Società», Cesare Luporini, con la critica alle nozioni di «irruzione» delle masse popolari nella storia e di «imbarbarimento» della cultura marxista10. Cfr. Paolo Mencarelli, Libro e mondo popolare. Le Edizioni Avanti! di Gianni bosio, Milano, Biblion, 2011 e il numero monografico della rivista «Il de Martino», I libri dell’alta Italia. Le carte e le storie delle Edizioni Avanti!, a cura di Antonio Fanelli e Mariamargherita Scotti, 2012, n. 21. 8
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«Società», V (1949), n. 3, pp. 411-35.
Cesare Luporini, Intorno alla storia del «mondo popolare subalterno, in «Società», VI (1950), pp. 95-106. Sul dibattito cfr. Carla Pasquinellli, Antropologia culturale e questione 10
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Il dibattito proseguì tra 1954 e 1955 intorno alla figura di Rocco Scotellaro, sindaco-poeta socialista di Tricarico morto nel 1953 a soli 30 anni. La pubblicazione delle opere di Scotellaro avvenne, postuma, per volontà di Carlo Levi e Manlio Rossi Doria, suoi amici e maestri11. Non è possibile ricostruire qui il dibattito che si scatenò sulle riviste comuniste intorno al corpus poetico e letterario di Scotellaro, ma occorre almeno rilevare come la discussione si trasformò in un pretesto per colpire la corrente meridionalista di terza forza, accusata di congelare le masse contadine del sud in un’immobilità culturale fuori dalla storia, che non prendeva atto del cambiamento inaugurato nel secondo dopoguerra da una nuova stagione di lotte, con la conseguenza di rendere il Mezzogiorno incomprensibile «più che l’India e la Cina»12. L’atteggiamento del Psi fu del tutto differente: nel febbraio 1955 si fece promotore, a Matera, del convegno Rocco Scotellaro intellettuale del Mezzogiorno, con il quale ascrisse di fatto il poeta lucano al proprio pantheon e aprì una finestra di dialogo con quello stesso meridionalismo criticato dai comunisti13. A dispetto degli intenti celebrativi, gli interventi dei relatori socialisti non si limitarono a rivendicare il valore esemplare dell’opera e della parabola esistenziale di Scotellaro, ma affrontarono di petto proprio il tema della «civiltà contadina meridionale», con coloriture varie ma tutte ugualmente orientate a valorizzare il momento autonomo della formazione di una cultura che aveva fatto della propria miseria e arretratezza uno strumento di resistenza all’egemonia della cultura nazionale. Così scrisse Raniero Panzieri sull’«Avanti!», rivendicando come «nel “perire dei tempi” di cui parla Rocco, la stessa ripetizione di forme di esistenza barbare e pagane, la ripetizione del rifiuto alla civiltà e alla presenza cristiana producono, poiché esse non avvengono nel vuoto ma nella storia, l’accrescersi della protesta, della energia
meridionale. Ernesto De Martino e il dibattito sul mondo popolare subalterno negli anni 19481955, Firenze, La Nuova Italia, 1977. È interessante notare come lo stesso De Martino fosse stato, negli anni ’40, un dirigente di spicco del Psi in Puglia. Nel 1954 furono pubblicati la raccolta di poesie È fatto giorno (1940-1853) e il saggio Contadini del Sud, seguiti, nel 1955, da L’uva puttanella. 11
12 Mario Alicata, Il meridionalismo non si può fermare a Eboli, in «Cronache Meridionali», I (1954), n. 9, ora in Leonardo Mancino (a cura di), Omaggio a Scotellaro, Manduria, Lacaita, 1974, p. 142.
Sul convegno si veda il ricordo di Alberto Mario Cirese, Per Rocco Scotellaro: letizia, malinconia e indignazione retrospettiva, in «SM Annali di San Michele», 2005, n. 18, pp. 197-229 e Mariamargherita Scotti, Da sinistra, cit., pp. 81-109. 13
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liberatrice»14. Nello stesso articolo Panzieri faceva un passo in avanti, fino a rivalutare le correnti autonomiste del meridionalismo («da Colajanni a Salvemini a Dorso»15), la cui eredità politica era stata in parte raccolta proprio dal Psi, soprattutto a sud, grazie alla confluenza nel partito di molti ex-azionisti. Ma chi più di tutti seppe sfruttare il “caso Scotellaro” per promuovere le proprie scelte politiche fu Pietro Nenni, che difese sull’«Avanti!» il valore esemplare delle storie di vita del volume Contadini del Sud (sulle quali si erano particolarmente concentrate le critiche di parte comunista), fornendone una lettura in sintonia con la strategia del Psi in termini di alleanze: Il contadino Di Grazia è iscritto all’Azione Cattolica ma non gli sfugge che dopo la liberazione i «caporioni del fascio sono andati nella d.c.». L’istinto di classe lo guida verso i socialisti. «Ora noi che siamo rimasti dobbiamo fare accordi con i socialisti veri, non con i comunisti, che vogliono essere tutti eguali […] (Deve trattarsi di un elettore del giovane onorevole Colombo che al congresso democristiano di Napoli portò il grido di disperazione dei contadini del Sud; deve trattarsi di uno tra le centinaia di migliaia di elettori che da Fanfani attendono fatti e non parole, fatti dei quali l’accordo “con i socialisti veri” costituisce la premessa necessaria ed ineluttabile)16.
Si tratta di un esempio tipico del paradosso da cui abbiamo preso le mosse: Nenni si appropriava di un dibattito i cui temi sarebbero stati raccolti negli anni ’60 da uno dei filoni più vivi del socialismo di sinistra (in particolare con l’attività dell’Istituto Ernesto de Martino) per dare legittimità ai primi esperimenti di dialogo con i cattolici, che avrebbero condotto il Psi in una direzione che quello stesso socialismo di sinistra avrebbe rifiutato, trovandosi, infine, al di fuori di esso.
2. L’autonomia della cultura: i marxisti critici, Panzieri e la crisi del ’56 La seconda accezione di autonomia investe più direttamente il tema dei rapporti tra cultura e politica o, per essere più precisi, tra intellet14 Raniero Panzieri, Cultura e contadini del sud, in «Avanti!», 20 febbraio 1955, ora in R. Panzieri, L’alternativa socialista. Scritti scelti 1944-1956, a cura di Stefano Merli, Torino, Einaudi, 1982, p. 157. 15
Ivi, p. 159.
Pietro Nenni, Il socialismo contadino nella poesia di Scotellaro, in «Avanti!», 29 agosto 1954, ora in Omaggio a Scotellaro, cit., p. 247. 16
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tuali e partito. Un tema che fu il leit motiv quasi ossessivo del dibattito politico-culturale della crisi del ’56, ma che nella prima metà degli anni ’50 fu patrimonio pressoché esclusivo di alcuni gruppi minoritari di intellettuali militanti all’interno o nell’orbita del Psi, ovvero di quei “marxisti critici” che mantennero viva, negli anni del frontismo, la polemica contro le interferenze della politica nel campo della cultura e coltivarono – quasi clandestinamente – interessi e relazioni intellettuali aperti alle correnti più innovative della cultura europea, allora ignorate o tenute in sospetto dalla cultura di partito (l’esistenzialismo, la Scuola di Francoforte, le nascenti scienze sociali, ecc.). Combattuti tra la volontà di dare voce alla propria critica e la necessità di non nuocere alle forze di sinistra negli anni più duri della guerra fredda, si riunirono in un primo tempo (tra il 1949 e il 1953) intorno al bollettino «Discussioni» (una piccolissima pubblicazione destinata a circolare tra pochi amici, quasi in forma di «lettere aperte»)17 e, più tardi, dal 1955, nella rivista «Ragionamenti»: Roberto e Armanda Guiducci, Renato Solmi, Sergio Caprioglio, Luciano Amodio, Emanuele Tortoreto, Franco Momigliano, Alessandro Pizzorno, Gianni Scalia. Una posizione al tempo stesso originale e di maggior rilievo ebbe, all’interno di questo gruppo, Franco Fortini, “marxista critico” per antonomasia. Socialista dal 1944, egli avrebbe giustificato in più occasioni la scelta di militare nel Psi con la difficoltà di accettare la disciplina richiesta agli intellettuali dal Pci18. Fu però soprattutto dopo la sconfitta elettorale del Fronte popolare che la sua critica alla politica culturale dei due partiti della classe operaia si fece radicale, con la denuncia della «via di vergogna» imboccata da Pci e Psi, pronti a replicare, anche se in scala minima, «tutta la teratologia stalinista»19. Una posizione che lo espose a critiche e censure, che culminarono, nel 1951, in un duro scontro con il vice segretario Rodolfo Morandi20 e, nel 1954, in un provvedimento di «deplorazione» da parte 17
Cfr. «Discussioni» 1949-1953, ediz. integrale, Macerata, Quodlibet, 1999.
Cfr. Daniele Balicco, Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale politico, Roma, manifestolibri, 2006 e M. Scotti, «Giustamente non mi hanno riconosciuto». Il comunismo impossibile di Franco Fortini, in «Storia e problemi contemporanei», 57 (2011), n. 2, pp. 73-89. 18
19 Franco Fortini, Il senno di poi, in F. Fortini, Dieci inverni 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, Bari, De Donato, 1973, p. 15. 20 Lo scontro avvenne in occasione di un Convegno degli intellettuali socialisti di Lombardia. Emanuele Tortoreto ha ricordato: «Questo è scritto nel mio appunto di allora: “Non bisogna dire che una poesia è bella perché Stalin l’ha detto”. Era una cosa che oggi può far ridere i presenti, chiunque di noi, ma dirlo in un convegno del partito socialista, che pure era
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della Federazione milanese per l’articolo Appunti su comunismo e occidente, con il quale aveva negato l’identità di comunismo e stalinismo e rivendicato agli intellettuali il compito di elaborare un progetto di «comunismo occidentale» autonomo e originale21. A partire da quello stesso 1954 i marxisti critici sembrarono trovare una sponda, all’interno del Psi, in Raniero Panzieri, che dal luglio 1955 avrebbe ricoperto la carica di Responsabile della neonata Sezione cultura e Studi, mettendo mano a una radicale riorganizzazione del lavoro culturale del Partito. Un primo passo in questa direzione si era avuto nel settembre 1954, a Bologna, con il convegno Per la libertà della cultura, quando per la prima volta, in una manifestazione organizzata dal Psi, si era parlato di libertà della cultura non solo nei termini classici di lotta contro l’oscurantismo e il clericalismo ma anche come rifiuto della sua partiticità, lanciando un primo segnale della volontà di rifondare il rapporto tra intellettuali e Psi su basi polemiche quando non apertamente concorrenziali rispetto all’alleato-avversario comunista. Il progetto di Panzieri si basava tuttavia su un’ambigua dinamica tra «autonomia» e «organizzazione», secondo la quale il partito avrebbe dovuto svolgere una funzione prevalentemente organizzativa e di coordinamento, fornendo gli strumenti necessari alla discussione (case editrici, riviste, istituti, convegni) senza influenzarne i contenuti. Parafrasando il discorso con cui Nenni chiuse l’assise di Bologna (e che a dispetto delle intenzioni dichiarate fu un vero e proprio concentrato di paternalismo) il Psi voleva infondere negli intellettuali fiducia nelle proprie possibilità, senza nessuna «speculazione» di propaganda o di guida politica diretta22. Nonostante l’apparente consonanza con le richieste di autonomia avanzate da Fortini e dagli altri redattori di «Ragionamenti», obiettivo di questo appello erano non tanto i “marxisti critici” quanto una platea più vasta di intellettuali «genericamente democratici» (per usare un’espressione allora in voga). Questo non sfuggì a Fortini, che in una lunga lettera a Panzieri si mostrò «sconcertato» di fronte all’«appello ad una libera ricerca culturale [che] sembra proclamato in linea di principio ma diretto verso l’esterno e assume dei stato un partito di uomini liberi, in una sala affollatissima, significava rompere pubblicamente una situazione chiamiamola pure di omertà e di silenzi imposti, che era molto pesante» (in «Discussioni», cit., p. 371). Molto dura la risposta di Rodolfo Morandi: Ideologia marxista e partito della classe, in R. Morandi, La politica unitaria, Torino, Einaudi, 1961 (1975), p. 151. F. Fortini, Appunti su comunismo e occidente, in «Nuovi Argomenti», II (1954), n. 6, p. 19. 21
Pietro Nenni, Per la libertà della cultura e della scuola, in «Mondo Operaio», VII (1954), n. 19, p. 13. 22
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caratteri di liberismo difficilmente accettabili», quasi una riproposizione, in termini nuovi, del vecchio frontismo23. Le divergenze si fecero ancora più evidenti nel 1956, quando gli stravolgimenti delle vicende del comunismo internazionale e le loro ripercussioni sui rapporti interni tra i due partiti del movimento operaio italiano strapparono i “marxisti critici” alla marginalità e li posero al centro di un dibattito di cui erano stati precursori (basti ricordare come la celeberrima discussione sul marxismo in Italia, che occupò per settimane le pagine de «Il Contemporaneo», fu scatenata dalla stroncatura del pamphlet di Roberto Guiducci Socialismo e verità sulle pagine del settimanale comunista)24. In questo clima di «insensato ottimismo» (Fortini, a cui si deve questa formula, pretese nei giorni della pubblicazione del Rapporto Kruscev che il provvedimento disciplinare del 1954 fosse ritirato, dal momento che – secondo lui – la storia aveva finito per dargli ragione)25 si inserisce la pubblicazione, su «Ragionamenti», delle Proposte per l’organizzazione della cultura marxista, manifesto con cui i marxisti critici si candidavano a guidare quel processo di «rinascita della cultura marxista» che potevano, finalmente, invocare pubblicamente come necessario e urgente. Un processo che, portato alle estreme conseguenze, avrebbe dovuto addirittura capovolgere il rapporto gerarchico tra politica e cultura, affidando agli intellettuali la verifica delle scelte dei politici26. Nell’autunno, l’invasione sovietica dell’Ungheria precipitò gli eventi, accelerò lo strappo del Psi dal Pci ed ebbe decisive ripercussioni tra gli intellettuali della sinistra italiana. Una buona parte di coloro che decisero di abbandonare il Pci, infatti, cominciarono a guardare con interesse al Psi e anche alcuni intellettuali «democratici» accolsero con entusiasmo lo strap-
23 Fortini a Panzieri, Milano, 4 aprile 1955, in R. Panzieri, Lettere 1940-1964, a cura di Stefano Merli e Lucia Dotti, Venezia, Marsilio, 1987, p. 65. 24 Sinistrismo culturale, in «Il Contemporaneo», III (1956), n. 7, p. 2. La nota, comparsa nella rubrica “Il Caffè”, non era firmata ma si doveva alla penna di Carlo Salinari.
Cfr. Fortini a Guido Mazzali, Milano, 25 marzo 1956, in Archivio Franco Fortini, Università di Siena. Di «insensato ottimismo» Fortini parla nell’articolo Sul 1956. Rileggendo gli appunti di trenta anni fa, in «La talpa», 20 febbraio 1986, ora in F. Fortini, Disobbedienze, II, Gli anni della sconfitta. Scritti sul manifesto 1985-1994, Roma, manifestolibri, 1996, p. 11. 25
Proposte per una organizzazione della cultura marxista italiana, supplemento a «Ragionamenti», I (1955-1956), n. 5-6, ora in Ragionamenti 1955-1955. Ristampa anastatica, saggio introduttivo di Maria Chiara Fugazza, Milano, Gulliver, 1980, pp. 123-134. 26
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po. Proprio questo «darsi all’acquisto delle liquidazioni comuniste»27 fu una delle principali ragioni di frizione tra Panzieri e i “marxisti critici”, in particolare con Fortini, che si sentì scavalcato da quelli che giudicava antistalinisti dell’ultima ora (si pensi che cosa dovesse significare per lui l’adesione al Psi di Carlo Muscetta, che corso nel dibattito sul «Contemporaneo» lo aveva attaccato violentemente sul piano personale28). A questo si aggiungeva, più ingombrante, la questione della funzione del partito, che Panzieri giudicava affrontata in maniera insoddisfacente dalle Proposte di «Ragionamenti» (che avevano vagheggiato la possibilità di un rapporto diretto tra intellettuali e masse)29 e che i “marxisti critici” consideravano risolta da Panzieri ancora nei termini ambigui di «guida» e «direzione»30. Proprio quando l’autonomia della cultura divenne una delle parole d’ordine del cosiddetto disgelo, l’apparente unità di quelle forze che per prime l’avevano rivendicata finì per sfaldarsi. I “marxisti critici” disertarono i tentativi di Panzieri di discutere le prospettive della politica socialista in chiave di salvaguardia della politica unitaria di classe (a cominciare dal progetto di Istituto di Studi Socialisti da lui immaginato sul modello di quello fondato da Rodolfo Morandi a Milano nell’immediato dopoguerra). Nel 1957 «Ragionamenti» si sciolse in seguito alla spaccatura della redazione intorno al nodo della necessità di intervenire nell’agone politico in modo più diretto: Guiducci, Momigliano e Pizzorno fondarono insieme a un gruppo di ex-comunisti (Antonio Giolitti, Alberto Caracciolo, Carlo Ripa di Meana, Lucio Colletti) la rivista «Passato e Presente»; Fortini, profondamente offeso dalla scarsa attenzione dedicata dalla stampa socialista alla sua raccolta di saggi Dieci inverni (con l’eccezione di una recensione critica di Luciano Della Mea, che lo fece infuriare31) presentò nel dicembre 1957 le sue dimissioni dal Psi. Ho tradotto – scriveva a Panzieri in quei giorni – una ventina di volumi, ne ho scritti cinque, ho cercato di capire tutto quel che potevo, di
27
Panzieri a Fortini, Roma, 18 dicembre 1956, in R. Panzieri, Lettere, cit., p. 69.
28
Carlo Muscetta, I poveri fatti, in «Il Contemporaneo», III (1956), n. 16, p. 6.
Cfr. Gianni Scalia a Roberto Guiducci, s.d [ma 1956], in R. Panzieri, Lettere, cit., pp. 76-78. 29
30
Cfr. Guiducci a Panzieri, Ivrea, 7 maggio 1957, ivi, pp. 95-96.
Luciano Della Mea,“Dieci inverni” di Franco Fortini, in «Avanti!», 10 dicembre 1957. Per l’episodio cfr.L. Della Mea, Il “mio” Franco Fortini, in «Il de Martino», 1995, n. 4, p. 1. Si segnala la recente uscita di una nuova edizione di Dieci inverni 1947-1957, a cura di Sabatino Peluso, Macerata, Quodlibet, 2018. Cfr. anche Luca Lenzini, Un’antica promessa. Studi su Fortini, Macerata, Quodlibet, 2013. 31
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fare del mio meglio; e ho il classico pugno di mosche. Basta, non ho e non voglio avere la forza di battermi ancora [...]. Oggi, per me, non c’è posto. Quando ci fosse, non mancherei di occuparlo. Patisco come un cane, puoi crederlo, ma non ho diritto di togliermi questa spina. Il Socialismo mi reggeva; oggi gli son caduto di mano32.
Un vero e proprio grido di dolore che testimonia la sofferenza per la perdita di identità che rappresentava ancora alla fine degli anni ’50 l’abbandono di un partito politico. Un sistema di valori che presto sarebbe entrato in crisi, grazie alla nascita di nuove forme di partecipazione politica, che avrebbero in qualche modo portato alle estreme conseguenze il tema dell’autonomia della cultura dalla politica.
3. L’autonomia operaia: Raniero Panzieri e il ritorno in fabbrica L’ultima declinazione di autonomia ha più direttamente a che fare con Raniero Panzieri e con la sua personale riflessione sulla fabbrica e sulla condizione operaia come contributo al dibattito interno al Psi dopo la svolta del ’56. Una riflessione che troverà i suoi esiti più fruttuosi nella stagione dei «Quaderni rossi», ma che affonda le radici negli ultimi anni della militanza socialista di Panzieri e favorisce dunque la comprensione di come il Psi, proprio nel momento in cui cominciava a intraprendere il percorso che l’avrebbe condotto al centrosinistra, ebbe la funzione di traghettare un buon numero di giovani verso un nuovo modo di fare politica. Estromesso dalla Direzione nel corso del Congresso di Venezia (6-10 febbraio 1957), Panzieri riuscì a ottenere l’incarico di condirettore della rivista «Mondo Operaio», dando inizio a un lavoro di elaborazione culturale e politica che è stato da molti giudicato il suo capolavoro, «una delle stagioni più belle ed entusiasmanti di autentico rinnovamento del socialismo italiano»33. Tra 1957 e 1958 Panzieri riuscì a fare della rivista ideologica del Psi un vero e proprio laboratorio di idee, nel quale le diverse posizioni interne (ed esterne) al partito si confrontarono intorno ai temi più scottanti del dibattito, per contribuire a sciogliere il nodo della futura strategia politica. È questo, per esempio, il caso del dibattito sul «neocapitalismo», cartina tornasole della capacità di partiti e di sindacati di adeguare le proprie strategie 32
Fortini a Panzieri, 9 gennaio 1958, in R. Panzieri, Lettere, cit., p. 124.
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A. Mangano, L’altra linea, cit., p. 115.
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alle mutate condizioni socio-economiche del Paese (dopo lo choc della sconfitta della CGIL alle elezioni per le Commissioni interne alla Fiat del 1955). Certamente «Mondo Operaio» fu per Panzieri anche lo strumento con il quale elaborare e dare voce al proprio dissenso nei confronti delle scelte politiche della maggioranza, con la difesa della politica unitaria di classe e la ricerca di una «terza via socialista» (alternativa tanto allo stalinismo quanto al riformismo). Questo impegno si esplicitò in due direzioni: una, verticale, che ricercava nel passato del movimento operaio i momenti in cui si era tentato un innesto tra rivoluzione e democrazia diretta (il soviettismo della rivoluzione d’Ottobre, il Lenin di Stato e Rivoluzione, il movimento torinese dei consigli di fabbrica, il Gramsci dell’«Ordine Nuovo», la rivoluzione dei consigli in Germania, lo spartachismo); un’altra, orizzontale, che guardava con attenzione agli esperimenti di democrazia diretta allora in atto in paesi socialisti come Polonia e Jugoslavia. La ricomposizione di queste riflessioni in proposta politica si concretizzò nella pubblicazione, nel febbraio 1958, delle Sette tesi sulla questione del controllo operaio, scritte da Panzieri insieme a Lucio Libertini34. Presentate come contributo alla discussione sulla «via democratica e pacifica al socialismo» (declinata come «via della democrazia operaia» piuttosto che come «via parlamentare»), le Tesi ponevano la questione della «autonomia rivoluzionaria del proletariato», auspicando (in polemica con la “teoria dei due tempi”) la creazione di istituti di democrazia diretta «non già dopo il salto rivoluzionario, ma nel corso stesso di tutta la lotta del movimento operaio per il potere». Tali istituti sarebbero dovuti nascere «nella sfera economica, laddove è la fonte reale del potere, e rappresentare perciò l’uomo non solo come cittadino ma anche come produttore». Essi dunque sarebbero dovuti nascere in fabbrica e partire dall’esperienza concreta degli operai. Non è possibile in questa sede indugiare sul dibattito scatenato dalle Tesi (che in verità lo stesso Panzieri giudicò deludente, a dispetto del suo desiderio di farne, come aveva scritto a Giovanni Pirelli, «il reagente immediato per la chiarificazione delle varie posizioni socialiste di fronte alla fase di cambiamento»35): ciò che conta sottolineare, tuttavia, è come proprio il dibattito sul controllo avvicinò a Panzieri (e, per un brevissimo periodo, al Psi) alcuni giovani, ai quali le Tesi sembrarono uno dei pochi tentativi di immaginare nuovi strumenti per la politica del movimento operaio. È questo il caso di alcuni giovani comunisti dissidenti come Alberto Asor Rosa, Lucio Colletti, Mario Tronti, ma anche di quel gruppo di studenti torinesi 34 R. Panzieri, Lucio Liberini, Sette tesi sulla questione del controllo operaio, in «Mondo Operaio», XI (1958), n. 2, pp. 11-15. 35
Panzieri a Giovanni Pirelli, 5 aprile 1958, in R. Panzieri, Lettere, cit., p. 134.
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che manifestò il desiderio di aderire al Psi indicando tra le ragioni di questa scelta «la lotta iniziata e portata avanti sugli organi di stampa del Partito per diffondere nella coscienza di tutti i lavoratori il problema del “controllo operaio”»36. A questi vanno senz’altro aggiunti quei giovani che Panzieri conobbe in giro per l’Italia viaggiando per pruomovere il dibattito sul “controllo” e che coinvolse in un lavoro collettivo che avrebbe dovuto sfociare in una serie di inchieste di fabbrica (proprio sulle pagine di «Mondo Operaio» e di quello straordinario esperimento che fu il suo «Supplemento scientifico-letterario»37 comparvero le prime riflessioni sulla necessità di rimettere la fabbrica al centro degli studi e delle analisi, nonché alcuni primi tentativi in questa direzione, come il lavoro di Aris Accornero sulla RIV o quello di Alasia e Tarizzo sulla Savigliano38). Un progetto nato su stimolo di Maria Adelaide Salvaco e nel quale Panzieri si gettò con passione coinvolgendo gruppi di militanti in diverse città del nord Italia (tra i quali spiccano già i nomi di Gianni Alasia e di Dario e Liliana Lanzardo)39. Nel settembre 1958 – grazie alla collaborazione di Giovanni Carocci (autore della nota inchiesta sulla Fiat pubblicata da «Nuovi Argomenti»40) – i questionari erano pronti, ma il progetto falliva a causa delle difficoltà sorte nel Psi e della mancata collaborazione dei comunisti41. Ciò che però è particolarmente interessante è come il primo tentativo di rimettere la fabbrica al centro dell’interesse della politica del movimento operaio con il metodo dell’inchiesta – che sarebbe stato in seguito patrimonio del gruppo dei «Quaderni rossi» – si consumi ancora una volta all’interno del Psi, seppure ormai ai suoi margini. Lettera di adesione al Psi di Vera Arnoulet, Giorgio Migliardi, Guido Neppi Modona, Carlo L. Ottino, Edda Saccomanni, Massimo L. Salvadori ed Emilio Soave, allegata a C.L. Ottino a R. Panzieri, Torino, 2 agosto 1958, in Archivio Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Fondo Raniero Panzieri, serie 1, fasc. 26. Alla lettera probabilmente non seguì per tutti l’effettiva iscrizione al partito, come ha ricordato Massimo L. Salvadori. 36
37 Il «Supplemento scientifico-letterario» di «Mondo Operaio», diretto da Carlo Castagnoli e Carlo Muscetta, fu allegato alla rivista a partire dal febbraio 1958. 38 Gianni Alasia, Domenico Tarizzo, 30 mesi alla Savigliano. Cronaca di fabbrica, in «Suplemento scientifico-letterario» di «Mondo Operaio», XI (1958), n. 6-7, pp. 3-17; Gli operai della RIV parlano di autogestione, inchiesta di massa a cura di Aris Accornero, in «Mondo Operaio», n. 8 e n. 9, pp. 35-47 e 23-32. 39
Panzieri a Maria Adelaide Salvaco, 19 aprile 1958, in R. Panzieri, Lettere, cit., p. 137.
Giovanni Carocci, Inchiesta alla Fiat. Indagine su taluni aspetti della lotta di classe nel complesso Fiat, in «Nuovi Argomenti», 1958, n. 31-32, pp. 2-344, poi pubblicata in volume, nel 1960, dalla casa editrice Parenti di Firenze. 40
41
Cfr. Panzieri a Salvaco, 23 settembre 1958, in R. Panzieri, Lettere, cit., pp. 161-163.
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Nel 1959, con il trasferimento a Torino, si aprì per Panzieri una nuova fase politica, che – a dispetto della sua brevità – resta ancora oggi la più indagata dagli studiosi. I fatti di Piazza Statuto – che nel luglio 1962 colsero di sopresa partiti e sindacati – diedero di lì a poco un primo importante segnale di apertura di una nuova stagione di conflittualità e il dibattito sull’autonomia operaia fu raccolto e rielaborato in forme originali da una «nuova generazione di sovversivi»42. I primi governi di centrosinistra e la scissione del Psiup (1964) avrebbero di lì a poco forzatamente chiuso una delle stagioni più intense del dibattito politico-culturale interno al Partito socialista. Bosio, Fortini, Panzieri e molti altri protagonisti del socialismo di sinistra avrebbero scelto di non aderire alla nuova formazione politica. Il modello fino ad allora dominante nella relazione tra intellettuali e partito (e tra classe e partito, e tra classe e intellettuali) entrava definitivamente in crisi, e apriva le porte a nuovi scenari e nuove possibilità.
Marco Revelli, Dimenticare Panzieri, in Paolo Ferrero (a cura di), Raniero Panzieri un uomo di frontiera, Milano, Il Punto Rosso, 2005, p. 9. 42
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Raniero Panzieri: socialismo e democrazia operaia nel neocapitalismo Alessandro Arienzo
1. Perché Panzieri Nella crisi di quello che Wolfgang Streeck ha descritto come capitalismo democratico1, cui si accompagna la crisi dei movimenti e delle organizzazioni di classe, torna con forza la necessità di rileggere e di comprendere meglio ciò che ha mosso la straordinaria stagione teorica e politica dell’operaismo, e le sue molteplici traiettorie. Una esigenza che non risponde tanto alla volontà di conservare la memoria di esperienze che, almeno in Italia, hanno costituito uno dei luoghi teorici più importanti per il rinnovamento della cassetta degli attrezzi del movimento operaio e del marxismo2. Ma che rispecchia l’urgenza di elaborare strumenti nuovi di lettura del presente e di operare uno scarto teorico analogo a quello compiuto dall’operaismo, e arricchito dai successivi “post-operaismi”3. Individuare, insomma, strumenti teorici che, sebbene collocati nella tradizione socialista e marxista, ci permettano di leggere, interpretare e agire in un presente confuso, e in cui la Wolfgang Streeck, Tempo guadagnato. La crisi rinviata del capitalismo democratico, Milano, Feltrinelli, 2013. 1
2 Necessario è innanzitutto rinviare ai molti volumi pubblicati dell’editore DeriveApprodi, che all’operaismo dedica una specifica collana. In particolare, Gli operaisti, a cura di Gigi Roggero, Guido Borio, Francesca Pozzi (2005) e L’operaismo degli anni Sessanta. Da “Quaderni Rossi” a “Classe operaia”, a cura di Giuseppe Trotta, Fabio Milana. Segnalo quali introduzioni al tema anche: Steve Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Roma, Edizioni Alegre, 2008; Sandro Mezzadra, Operaismo, in R. Esposito, C. Galli (ed.), Enciclopedia del pensiero politico. Autori, concetti, dottrine, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 497-498; Maria Turchetto, De “l’ouvrier masse” à l’“entrepreneurialité comune”: la trajectoire déconcertante de l’operaïsme italien, in Dictionnaire Marx contemporain, Paris, Presses Universitaires de France, 2001, pp. 297-317; Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, ManifestoLibri, 2005; Antonio Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo (1979), Verona, Ombre corte, 2007.
Cfr. C. Corradi, Panzieri, Tronti, Negri: le diverse eredità dell’operaismo italiano, in «Consecutio Rerum. Rivista critica della post-modernità», n.1, 2011. 3
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crisi del soggetto rivoluzionario di classe si affianca, almeno a giudizio di chi scrive, alla crisi delle soggettività liberal-democratica e neoliberale4. Questo sforzo di ripensamento delle tradizioni socialista e marxista, nel contesto di una globalizzazione a guida finanziaria e tecnologica, si articola allora come oggi intorno a tre soglie critiche: in primo luogo, il problema del soggetto politico rivoluzionario e di classe: i suoi esiti, le sue forme nuove (se forme nuove si danno), i luoghi della sua formazione intellettuale e politica; in secondo luogo, il ruolo e la funzione rivoluzionaria – in un senso propriamente marxiano – della dimensione tecnologico-comunicativa delle attuali forme di produzione e di circolazione del capitale; in ultimo, il ruolo dello Stato e della sua funzione di “governo” nella cosiddetta globalizzazione. In questi assi problematici, in una sorta di genealogia ideale del marxismo novecentesco, è utile indicare la ripresa negli ultimi anni della riflessione e dell’esperienza di Raniero Panzieri, che pur nella drammatica brevità della sua vita ha segnato – forse più di quanto ancora oggi si riconosca – la storia successiva del marxismo italiano. In questo breve contributo vorrei presentare le tesi di Panzieri che, sebbene collocate storicamente in una fase specifica dello sviluppo capitalistico – siamo a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento – e in un contesto particolare, come quello italiano, conservano una straordinaria capacità di interrogare il presente. Militante socialista, marxista e non comunista, Panzieri si interroga innanzitutto su quale sia il metodo di analisi del sistema sociale di produzione capitalistico, e di come – su questa analisi – si possa attribuire un ruolo nuovo, pur nel capitalismo avanzato, al movimento operaio. Peraltro, i temi del controllo operaio e della democrazia socialista che sono al centro della riflessione propriamente politica del sindacalista socialista, permettono di tornare a riflettere sulla forma politica che deve assumere la spinta alla trasformazione dell’esistente. A maggior ragione oggi, in un quadro in cui il problema del Partito, della sua funzione politica, e più generale del rapporto che questo doveva instaurare col movimento operaio, si pone con una drammatica urgenza. Preso tra l’evaporare del partito di massa, ancor più se di classe, e dello stesso movimento operaio come soggetto politico autocosciente. In secondo luogo, tra i temi di maggior rilievo della riflessione di Panzieri vi è quindi quello sul ruolo delle “macchine” – e più in generale sullo sviluppo tecnologico e il suo governo capitalistico – in quella forma sociale di produzione che egli descrive come “neocapitalismo”: una riflessione Una tesi che ho argomentato, con Gianfranco Borrelli, nei capitoli conclusivi di A. Arienzo, G. Borrelli, Emergenze democratiche. Ragion di Stato, Governance, Gouvernementalité, Napoli, Giannini, 2011 e che abbiamo ripreso in studi successivi. 4
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che ancora oggi, nell’era della coazione all’innovazione, resta attuale. In ultimo, la questione del ruolo dello Stato e della “pianificazione capitalistica” che ci aiuta a comprendere quanto sia necessario tornare a porre il problema dello Stato del capitale e dello Stato nel capitale globalizzato. Questi sono solo alcuni dei temi che l’esperienza politica di Panzieri ci consegna; basti pensare alla figura di Lenin e alla sua “rottura”, al problema della tenuta della teoria marxiana del valore, alla funzione politica e al ruolo militante dell’intellettuale. Temi cruciali nella riflessione e nell’azione politica del sindacalista socialista che meriterebbero un lavoro più ampio e approfondito di indagine.
2. Panzieri e Marx La figura di Raniero Panzieri è tra quelle che hanno maggiormente segnato la riflessione marxista del secondo dopoguerra, benché il suo impegno intellettuale e militante – che si staglia tra il 1945 e il 1964 – sia stato tragicamente breve5. Iscritto dal 1944 al Partito Socialista, dal quale si distaccherà lentamente a partire dal 1959, si forma nella corrente di Rodolfo Morandi col quale comincia a collaborare nel 1946. Impegnato nell’organizzazione culturale per il Partito, viene incaricato di riorganizzare la presenza socialista in Sicilia e sarà proprio in quella regione che entrerà in contatto col mondo contadino, nei Nebrodi, impegnandosi nelle lotte per la redistribuzione delle terre che segneranno per lui il suo “punto di Archimede”6. Una prima utile presentazione dell’itinerario intellettuale di Raniero Panzieri è nel capitolo a lui dedicato da Monica Quirico, Gianfranco Ragona, Socialismo di frontiera. Autorganizzazione e anticapitalismo, Torino, Rosemberg&Sellier, 2018, pp. 87-106; vedi anche: Sandro Mancini, Introduzione a Raniero Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, Torino, Einaudi, 1976; S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta: introduzione a Raniero Panzieri, Bari, Dedalo, 1977; Cesare Pianciola, Raniero Panzieri, Pistoia, Centro Documentazione Pistoia, 2014; Paolo Ferrero (a cura di), Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2006. Si veda anche: AA. VV., Ripensando Panzieri trent’anni dopo, Atti del convegno di Pisa del 28/29 gennaio 1994, Pisa, BFS, 1995, pp. 19-26 e il numero monografico di «Aut Aut» a cura di D. Lanzardo, Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi», n. 149-150, 1975. 5
R. Panzieri, L’alternativa socialista: scritti scelti 1944-1956, a cura di S. Merli, Torino, Einaudi, 1982, p. 133. Cfr. Giovanni Artero, Il punto di Archimede. Biografia politica di Raniero Panzieri da Rodolfo Morandi ai «Quaderni Rossi», Cernusco su Naviglio, GiovaneTalpa, 2007; Mariamargherita Scotti, Da sinistra. Intellettuali, Partito Socialista Italiano e organizzazione della cultura (1953-1960), Roma, Ediesse, 2011; Domenico Rizzo, Il Partito Socialista Italiano e Raniero Panzieri in Sicilia (1949-1955), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001. 6
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Segnato come tanti suoi contemporanei dalla destalinizzazione dell’URSS promessa dal XX congresso del PCUS del 1956 e dalla contestuale repressione delle insorgenze in Polonia e Ungheria, egli matura la convinzione che solo una profonda “rottura critica” possa rendere possibile la ricerca di una “via italiana e democratica” al socialismo. Proprio il rapporto con Marx può essere un’utile linea di rilettura dell’itinerario intellettuale di Panzieri. La storiografia ha infatti messo in risalto come questo confronto si sia articolato e attraversi fasi diverse. In una prima fase di formazione teorica, lo studio di Marx è innanzitutto quello dei testi “economici”, sebbene nella sua lettura la dimensione economica non sfoci mai nell’economicismo; piuttosto, la storia, se interpretata materialisticamente, appare il regno della contingenza e non quello dello sviluppo progressivo delle forze produttive. In una seconda fase, dopo il 1956, lo studio di Marx e di Lenin si associa sia a una profonda critica dello stalinismo, sia al rifiuto della “subordinazione” riformistica della classe operaia alla società borghese. In particolare, la prospettiva leninista consentiva di contrastare tanto la “degenerazione socialdemocratica”, quanto le prospettive socialiste e comuniste che rimanevano rigidamente orientate a una concezione del partito come guida, e non come strumento al servizio della classe. Nella fase ultima, quella della partecipazione all’esperienza dei Quaderni Rossi, torna centrale il Marx “critico dell’economia politica”, quello del Capitale, di cui tradurrà il II Libro nella bella edizione pubblicata da Rinascita nel 1955. Come per tanti altri intellettuali in quegli anni, la cesura è però segnata dal 1956: gli eventi ungheresi, e più in generale l’incapacità mostrata dall’esperienza sovietica di accompagnare la crescita progressiva della classe come soggetto autonomo, gli mostrava che il pensiero critico marxista non poteva più corrispondere alla verità del partito, ma doveva offrire un metodo di indagine che facesse emergere la verità della classe, di cui il partito non è che uno strumento. La classe operaia è in grado di farsi classe dirigente, attraverso il partito, perché essa: «come classe dirigente nel corso della sua lotta, promuove con le altre classi oppresse rapporti di “consenso”, si pone il compito di interpretare gli interessi generali del Paese nella sua stessa azione di opposizione, procede essa stessa insomma alla costruzione dello Stato democratico»7. In questa prospettiva, uno snodo decisivo sono le Sette tesi sul controllo operaio stilate con Lucio Libertini e pubblicate nel 19588. Le tesi costituiscono R. Panzieri, Il P.C.U.S. e la “via italiana”, in «Opinione», a.1, n.1, maggio 1956, ora in D. Lanzardo, G. Pirelli (a cura di), Raniero Panzieri. La crisi del movimento operaio. Scritti interventi lettere, 1956-1960, Milano, Lampugnani Nigri Editore, 1973, pp. 32-37, cit. p. 36. 7
In «Mondo Operaio», n.2, febbraio 1958, ora in: in D. Lanzardo, G. Pirelli (a cura di), Raniero Panzieri, cit., pp. 104-117. Con Libertini pubblicherà anche le Tredici tesi sulla 8
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uno dei testi “classici” del primo operaismo italiano e sono, come ha sostenuto Michele Battini, la rivoluzione epistemologica di Panzieri9. Nel testo troviamo innanzitutto l’assunzione e la presa d’atto di una crisi del movimento operaio che richiede uno sguardo diverso sulla classe, sullo sviluppo capitalistico e sul suo lavoro politico. Come ci ricorda Battini, sono gli anni del fallimento del Piano del Lavoro della Cgil e della sconfitta alle elezioni delle Commissioni Interne alla Fiat nel 1955, in cui quindi il movimento operaio sembra arretrare a fronte di un avanzamento della prospettiva borghese. Sono gli anni in cui Panzieri matura la convinzione che il rilancio del movimento operaio possa darsi solo col passaggio dalla preminenza politica della contrattazione centralizzata e nazionale, ad un orizzonte politico e sindacale che pone invece al centro dell’impegno una nuova contrattazione “articolata”. Sono, ancora, gli anni in cui emerge nel campo socialista e sostenuta da Nenni una ipotesi di allargamento politico non ai comunisti, ma ai cattolici. Non condividendo questa opzione, e neppure condividendo l’idea di protezionismo statalistico che accompagnava l’ipotesi di un accordo coi cattolici, Panzieri sviluppa una più radicale visione di democrazia operaia che dalla fabbrica entri in opposizione alla “democrazia aziendale”, per poi diventare: «espressione della forza di classe che si misura dalla quota di potere e dalla capacità di esercitare una funzione dirigente all’interno delle strutture della produzione – nell’azienda, nel settore produttivo, e su tutto il fronte produttivo fino al salto rivoluzionario nei rapporti di produzione»10. Del resto, come riconosce in Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, le caratteristiche salienti delle lotte operaie, nel complesso di quelle che egli chiama “le nuove rivendicazioni”, esprimono una soggettività nuova, e se «prese nel loro insieme, queste nuove rivendicazioni indicano la tendenza chiarissima, da parte della classe operaia, a portare in primo piano la condizione operaia nel suo complesso e, vorrei dire, la condizione operaia in se stessa»11. Solo in parte il sindacato di classe è riuscito a cogliere questa nuova soggettività, l’affermarsi di qualcosa che Marx aveva chiamato “operaio collettivo”. Con la differenza che l’operaio collettivo che gli si presentava nel neocapitalismo aveva un compito diverso: esso doveva esprimere «il rifiuto globale del capitale», il quale «comporta il fatto che la questione del partito di classe, in «Mondo Operaio», nn. 11-12, 1958. Anche questo scritto è in D. Lanzardo, G. Pirelli (a cura di), Raniero Panzieri, cit., pp. 187-222. 9 Michele Battini, Raniero Panzieri: genealogia illuministica della critica del neocapitalismo, in Necessario Illuminismo, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2018, pp.109-150, cfr. p. 133 10
Ivi, p. 116.
R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in Id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, cit., pp. 25-50, cit. p. 38. 11
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classe operaia riconosca se stessa come capitale variabile per rifiutarsi come capitale variabile e riconoscersi globalmente come forza sociale contrapposta»12. Dietro questa prospettiva non vi è, comunque, solo la polemica politica del momento, e l’opposizione a una prospettiva moderata e centrista che si presentava come maggioritaria nel Partito. Vi era piuttosto una più complessiva lettura delle relazioni di classe e del loro sviluppo nella società capitalistica che, senza essere “economicistica”, non accoglieva tuttavia quel primato della politica sull’economia che sembrava, pur con diverse prospettive, affermarsi tanto tra i socialisti quanto tra i comunisti. Un primato, peraltro, già a suo modo combattuto da Rodolfo Morandi in opposizione alla posizione che era stata, tra gli altri, di Antonio Giolitti: ossia che potesse darsi una trasformazione socialista della società, per via parlamentare e pur nell’ambito di produzione capitalistico, attraverso il controllo degli investimenti, la definizione di un piano di sviluppo economico centrato sull’occupazione e sul consumo13. In altri termini, attraverso quelle riforme di struttura, imposte per via parlamentare e guidate da innovazione tecnologica e controllo degli investimenti, che sembravano affermarsi quali perni di una nuova politica socialista “post-classista”, votata alla realizzazione dell’interesse generale. Una politica nella quale la classe operaia finiva per scomparire in una visione universale – e pertanto indifferenziata – di classe articolata intorno ad una funzione redistributiva. In definitiva, una classe operaia che, presentandosi come classe universale, affermava la necessità di un contesto pluralistico, privatistico e di mercato. Questa prospettiva, secondo Panzieri, non era peraltro logicamente distinta da quella che voleva far valere lo sviluppo democratico dell’economia nazionale – come nelle democrazie popolari dell’Est – a partire dalla subordinazione operaia al potere del partito che doveva incarnare proprio la dimensione universale della classe. In tal senso, è vero che in Panzieri si affaccia il dubbio, in particolare dopo il ’56, che la stessa pianificazione economica – come accaduto in maniera ricorrente nell’Unione Sovietica – possa “forzare” e irrigidire, frenando invece che consolidando, l’autonomo sviluppo delle forze produttive. Uno sviluppo per nulla gradualistico o determinato, ma frutto dell’incessante conflitto tra le classi e i loro interessi. Panzieri rifiuta queste prospettive, e lo fa con un’argomentazione che parte dalla lettura “materialistica” e “storica” delle contraddizioni specifiche della società italiana (la cui lettura egli mutua da Gramsci), innestandole in quelle più ampie determinate dal conflitto tra capitale e lavoro. Sulla base di questa lettura, egli rigetta le tesi secondo cui, data una lettura a sviluppo 12
Ivi, p. 26.
13
Ancora su questo rinvio al saggio di M. Battini, Raniero Panzieri, cit., p. 111-112.
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per stadi del sistema capitalistico, sarebbe stato in primo luogo necessario favorire lo sviluppo industriale, anche attraverso un deciso intervento statale, per consolidare la classe operaia e il suo ruolo politico. Nella società italiana infatti la borghesia non è affatto una classe nazionale, ma – nata su basi “corporative e parassitarie” – ha sempre operato attraverso il ruolo attivo e “totalitario” dello Stato al fine di consolidare parti del sistema industriale e produttivo, inglobando nei momenti di crisi quelle sue parti in maggiore difficoltà, e favorendo così tendenze monopolistiche. In tal senso, in Italia: si è così determinata una situazione nella quale accanto ad aree monopolistiche coesistono larghe aree di profonda depressione e arretratezza…; si accrescono enormemente le distanze tra ceto sociale e ceto sociale, tra regione e regione; aumentano gli squilibri tradizionali della produzione industriale; crescono le strozzature monopolistiche…; si registra una disoccupazione di massa che diviene un elemento permanente della nostra economia; si riproducono aggravati i tradizionali termini del massimo problema della nostra struttura economico-sociale (questione meridionale)14.
Certo, in Italia si assiste anche a una fase di crescita e di sviluppo economico e sociale, ma questa è essenzialmente dovuta a una dimensione congiunturale: la ricostruzione, l’impulso esercitato dal Piano Marshall e dal contesto internazionale, l’intensa fase di sviluppo tecnologico del capitalismo contemporaneo. Le osservazioni di Panzieri mirano a giustificare l’idea che il riformismo proposto nel campo socialista, e in aree ampie anche del movimento comunista, finisce per operare a sostegno – e non contro – il processo di concentrazione monopolistica che la borghesia italiana, o almeno le sue parti egemoniche, impone per mezzo dell’interventismo statale. Il movimento operaio italiano sconta, in altri termini, la contraddizione essenziale prodotta dalla compresenza di riforme con un contenuto borghese e riforme con un contenuto socialista che operano, e convergono, a favore della borghesia monopolista. Le tesi del controllo operaio sono strettamente connesse a questa visione e hanno la loro ragione nella convinzione di dover individuare una politica autonoma del movimento operaio. Assumendo, peraltro, l’obiettivo di promuovere una complessiva riorganizzazione democratica della società. Del resto, secondo Panzieri, non serve «assegnare al proletariato il compito semplicemente di fare o di portare a termine ciò che è proprio della borghesia e che questa non ha compiuto»15. Piuttosto, spetta al movimento operaio as14 R. Panzieri, L. Libertini, Sette tesi sulla questione del controllo operaio, in D. Lanzardo, G. Pirelli (a cura di), Raniero Panzieri, cit., p. 107. 15
R. Panzieri, La rivendicazione del “controllo” e il piano di sviluppo produttivo, in
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sumere una visione radicalmente altra dello sviluppo economico che parta da una sostanziale democratizzazione del processo produttivo nel processo produttivo, a partire dall’esercizio di un effettivo controllo operaio “in fabbrica” sul processo della produzione. L’istanza espressa da Panzieri diventa, quindi, una proposta di più generale democratizzazione politica e sociale, perché: ciò che spetta al movimento operaio non è solo di difendere e utilizzare gli istituti esistenti della democrazia formale, ma anche di crearne di nuovi, capaci di esprimere una democrazia sostanziale, di rappresentare diritti politici ed economici insieme: anzi soltanto questi nuovi istituti della democrazia operaia potranno efficacemente operare per la conservazione-trasformazione dello stesso Parlamento16.
In questo duplice spostamento, dalla centralità del partito a quella del movimento, dal ruolo di controllo e indirizzo statale della produzione al diretto controllo operaio sulla produzione, emerge una visione nuova del soggetto rivoluzionario e di classe. Se resta confermata la convinzione che l’affermazione di una “democrazia radicale”, o se si vuole sostanziale, può essere solo il portato di un soggetto di classe, questo, tuttavia, non può, né deve essere soggetto universale, né presentarsi politicamente – attraverso il partito – come classe e interesse generale. Piuttosto, è dalla capacità di esercitare un controllo effettivo del processo della produzione, a partire dalla fabbrica, e attraverso un incessante lavoro di inchiesta e di intervento diretto nelle lotte sociali che il movimento operaio può disseminarsi democraticamente nella società italiana17. Il conflitto operaio è quindi un conflitto intorno alla produzione di effettiva “democrazia operaia”, ed è solo in questo conflitto che Il proletariato educa se stesso costruendo i suoi istituti, ossia: «gli istituti del potere proletario devono formarsi non già dopo il salto rivoluzionario, ma nel corso stesso di tutta la lotta del movimento operaio per il potere. Questi istituti debbono sorgere nella sfera economica, laddove è la fonte reale del potere, e rappresentare perciò l’uomo non solo come cittadino ma anche
«Avanti!», Milano, 15 marzo 1958, ora in in D. Lanzardo, G. Pirelli (a cura di), Raniero Panzieri, cit., pp.120-126, cit. p. 125. 16
Ibid.
R. Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia, in «Quaderni Rossi», n. 5, 1965, pp. 67-76, ora in Id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, cit. Necessario è Romano Alquati, Sulla Fiat e altri scritti, Milano, Feltrinelli, 1975. Sul tema dell’inchiesta operaia a partire da Marx mi limito a segnalare Riccardo Emilio Chesta (a cura di), Sul campo. L’inchiesta operaia di Marx: comprendere il mondo per cambiarlo, Milano, Fetrinelli, 2018. 17
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come produttore»18. Ciò deve avvenire innanzitutto nei luoghi della produzione, al cuore di quel processo di sussunzione reale che si opera nel processo produttivo, e deve avvenire tanto contro gli inganni del riformismo, quanto contro la burocratizzazione del potere e la subordinazione del movimento di classe alle concezioni “di guida” del partito, dello Stato. Obiettivo del movimento operaio è innanzitutto difendere la propria autonomia rivoluzionaria e, diremmo in termini che non sono quelli di Panzieri, costruirsi come soggetto rivoluzionario a partire dalla pratica del conflitto intorno alla democrazia di fabbrica, alla democrazia produttiva facendo di questo conflitto il modello per l’affermazione di una più ampia democrazia radicale: dalla fabbrica alla filiera produttiva, dalla società alle istituzioni parlamentari.
3. Macchine, Stato e pianificazione L’attenzione alle dinamiche proprie di quello che egli chiama neocapitalismo, che si presenta con l’energica spinta alla programmazione e il consolidamento di oligopoli e di strutture monopolistiche, spingono Panzieri a insistere sulla produzione nel contesto della grande fabbrica: è in essa che si svolge la lotta di classe, è in essa che al crescente dispotismo del capitale si contrappone il massimo dell’antagonismo della classe lavoratrice. Diventa quindi necessario fare i conti con le trasformazioni nel processo di produzione determinate dal crescente uso capitalistico della scienza, intesa sia come applicazione delle macchine alla produzione, sia come organizzazione “scientifica” del lavoro e della produzione. Panzieri è innanzitutto convinto che non si dia una intrinseca neutralità nella scienza e nel suo sviluppo. Le sue riflessioni nascono nel rapporto diretto con la lettura di Marx; in particolare il Marx del Capitale, e in misura minore – ma significativa – dei Grundisse e del Capitolo VI inedito. I Grundrisse, infatti, saranno introdotti in Italia a partire dal famoso Frammento sulle macchine che Renato Solmi avrebbe pubblicato in traduzione italiana sul numero 4 di «Quaderni Rossi»19, il Capitolo VI inedito era nel dibattito europeo a partire dalla sua prima traduzione sovietica del 1933 e circolava in traduzione tedesca prima ancora che Bruno Maffi ne curasse l’edizione italiana nel 1969. Su questi temi il testo più importante di Panzieri è il suo Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, pubblicato sui «Quaderni Rossi» R. Panzieri, L. Libertini, Sette tesi sulla questione del controllo operaio, in D. Lanzardo, G. Pirelli (a cura di), Raniero Panzieri, cit., p. 110. 18
Karl Marx, Frammento sulle Macchine, tr. it. R. Solmi, in «Quaderni Rossi», n.4, 1964, pp. 289-300. Il testo è tratto dall’edizione tedesca dei Grundrisse del 1953 (Berlin, Dietz). 19
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nel 196120. In questo scritto, l’incremento tecnologico è interpretato come un “modo di esistenza” del capitale, e l’uso capitalistico delle macchine non è inteso come l’appropriazione dello sviluppo proprio e razionale della socialità umana, ma come l’esito proprio del processo sociale di produzione21. Nel sostenere questa tesi, egli interveniva sul dibattito sulla funzione “socialistica” della cooperazione capitalistica affermando che di per sé l’aumento della composizione organica del capitale non era affatto un fattore oggettivo di trasformazione dei rapporti esistenti in rapporti socialisti. Non solo, da qui egli ne traeva la conclusione che non sarebbe bastato l’investimento in scienza e industria a garantire la tenuta del progetto politico socialista e lo sviluppo della nuova società socialista. Per contro, le basi tecniche e tecnologiche raggiunte dalla società capitalistica mostravano una crescente capacità di presa e di consolidamento del potere del capitale, sia all’interno della fabbrica, sia nella società. Se nel Libro I del Capitale sembra presentarsi una teoria della insostenibilità del capitalismo al suo massimo livello di sviluppo, laddove le forze produttive sovrabbondanti appaiono entrare in conflitto con la base sempre più ristretta del sistema del capitale, nel neocapitalismo entrano in campo tendenze a spostare e indebolire questo conflitto su piani diversi, grazie all’incremento della capacità produttiva determinato dalle macchine, ma anche ad un salto di qualità nella “pianificazione” capitalistica ad opera dello Stato. Proprio per questo egli ritiene assolutamente necessario tornare alla fabbrica, il vero luogo del continuo processo di accumulazione operato dal capitale; sebbene facendo di quel luogo – che è il cuore pulsante di una produzione sempre più sociale – il punto di disseminazione di un conflitto per la democrazia sociale che deve innervare l’intera società. L’importanza che il tema dell’accumulazione ha assunto oggi, nello sforzo di ripensamento del marxismo, ha in effetti proprio la sua ragione in una interpretazione del processo accumulativo non come di una fase storicamente definita dello sviluppo capitalistico, o come momento logicamente originario (la preistoria del modo di produzione), ma come un processo continuo, immanente e coestensivo, allo sviluppo del capitale. In ogni momento della produzione, circolazione e riproduzione capitalistiche si rea-
R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine, in «Quaderni Rossi», n.1, 1961, pp. 53-72. 20
Tra i molti studi, rinvio a Andrea Cengia, La tecnologia come problema politico. Raniero Panzieri e l’analisi marxiana dei processi produttivi, in «Filosofia politica, Rivista fondata da Nicola Matteucci», 3/2019, pp. 491-508. 21
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lizzano processi di appropriazione delle ricchezze prodotte socialmente22. Se interpretata come un processo continuo, l’accumulazione rende infatti evidente la contraddizione permanente tra: «il carattere sociale della produzione (resa sociale dal capitalismo) e il modo privato, individuale dell’appropriazione»23. Faccio riferimento a questo passo di Lenin perché è proprio attraverso una rilettura critica del nesso tra la socialità della produzione e l’appropriazione privatistica della ricchezza prodotta che Renato Panzieri dà avvio al suo saggio Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale24. In questo senso, colgono bene Monica Quirico e Gianfranco Ragona quando sottolineano che in questo testo di Panzieri troviamo forse lo scarto metodologico più rilevante nella lettura di Marx, ossia, l’idea che: «occorre mettere da parte tutti gli aspetti contingenti del pensiero marxiano per cogliere in esso alcune suggestioni potenti sulla dinamica complessiva dello sviluppo capitalistico»25. In questo testo il dialogo con Lenin è continuo e decisivo, seppure in termini critici. Nel suo Lo sviluppo del capitalismo in Russia, il rivoluzionario russo ha colto con chiarezza, secondo Panzieri, gli sviluppi del capitalismo mercantile Otto e Novecentesco; questi ha pure correttamente indicato come il capitale non è produzione di valori di scambio, ma determinazione di rapporti sociali nel processo di produzione. Tuttavia, Panzieri obietta a Lenin l’assenza, nella sua analisi, dell’intuizione marxiana dell’appropriazione capitalistica della scienza e della tecnica, e quindi il fatto che nel suo marxismo la tecnologia capitalistica e il piano capitalistico «restano interamente fuori dal rapporto sociale che li domina e li plasma»26. Panzieri rilegge invece Marx a partire dalla quarta sezione del Libro I del Capitale per mostrare come il processo di socializzazione del lavoro non appartiene a una sfera socialmente neutra, ma fin dall’inizio compare all’interno dello sviluppo capitalistico, perché se è vero che il lavoratore cede al capitalista l’uso della sua forza lavoro in cambio di salario, quello che il capitalista guadagna non è tanto una quota di valore esprimibile come plusvalore assoluto – derivata da una quota di tempo di lavoro non Mi limito a segnalare: Sandro Mezzadra, La cosiddetta Accumulazione Originaria, in AA.VV., Lessico Marxiano, Roma, manifestolibri, 2008. 22
Lenin, Caratteristiche del romanticismo economico, in Opere, II, Roma, Editori Riuniti, 1955, pp. 191-192. 23
24 R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, in «Quaderni Rossi», n. 4, 1964, pp. 257-288; ora in Id., Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, a cura di S. Mancini, Torino, Einaudi, 1997, pp. 51-85. 25
M.Quirico, G. Ragona, Lotte operaie nel neocapitalismo, cit., p. 94.
26
R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione, p. 260.
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pagato – quanto una peculiare quota di valore prodotta dalla forza lavoro combinata degli operai, quindi riconducibile piuttosto al piano del plus-valore relativo. Gli elementi che operano al cuore dell’analisi di Panzieri sono quindi connessi da un lato alla capacità del capitalismo di darsi un piano, ossia una specifica pianificazione della produzione che mette a valore sia la cooperazione dei singoli lavoratori nel processo produttivo, sia la “scienza” sotto forma di macchine e di organizzazione dei processi, dall’altro lato alla possibilità da parte operaia di portare già dentro il sistema della scienza il conflitto di classe attraverso l’ampliamento della capacità operaia di controllo del processo produttivo combinato sociale. La riflessione di Panzieri apre, quindi, al problema posto dell’uso tecnologico come di una delle contraddizioni di fondo del sistema capitalistico di produzione: l’impiego della scienza macchinica e della tecnologizzazione dei processi di produzione potenzia la capacità di estrazione di plusvalore relativo, sebbene ciò accada a patto di ridurre il numero dei lavoratori coinvolti nel processo di produzione. La risposta del capitalista è quella di tornare a premere per il prolungamento della giornata di lavoro con l’obiettivo di aumentare l’estrazione di plusvalore assoluto, almeno fino a quando la reazione operaia non è in grado di porre un limite alla durata della giornata di lavoro. Questa tensione resta irrisolta e opera come una spinta permanente all’intensificazione del lavoro attraverso l’applicazione della scienza e della tecnica, e all’affinamento della cooperazione e del comando capitalistici sull’intero processo sociale di produzione. Secondo Panzieri, la tradizione marxista non ha colto fino in fondo la capacità capitalistica di pianificare, di dare una pianificazione non solo alla singola unità o alla singola catena produttive, ma all’intero processo sociale della produzione. Da un lato, Marx ha colto che «l’abolizione della vecchia divisione del lavoro non viene automaticamente preparata dallo sviluppo capitalistico: vengono semplicemente preparati, nella forma antagonistica del piano capitalistico, “fermenti rivoluzionari”. La caricatura capitalistica del processo lavorativo regolato non è un semplice involucro, caduto il quale appaiono alla luce belle e pronte le forme della nuova società»27. Dall’altro lato, in molti punti delle sue opere egli sembra offrire un’analisi che colloca nella sola fabbrica la crescita del comando sul lavoro nella forma della pianificazione28. In definitiva, il capitalismo odierno: «dimostra la capacità del sistema ad “autolimitarsi”, a riprodurre con interventi consapevoli le condizioni della sua sopravvivenza, e a pianificare, con lo sviluppo capitalistico delle forze produttive, anche i 27
Ivi, pp.283-284
28
Ibid.
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limiti di questo sviluppo stesso (ad esempio, con la pianificazione di una quota di disoccupazione)»29. In termini più generali, nella lettura di Lenin e nella tradizione marxista a lui contemporanea, Panzieri trovava che la cooperazione venisse unicamente descritta dal punto di vista “dispotico” del comando del capitale – quindi tutta incentrata sulle funzioni di “direzione, sorveglianza e coordinamento” che si esercitano innanzitutto nella fabbrica in contrasto con una società generica (ancora indifferenziata) nella quale vi sarebbe una condizione di anarchia nella divisione sociale del lavoro, quindi di mera “concorrenza”. A suo parere il sistema capitalistico mostrava, invece, una straordinaria capacità di cattura del carattere sociale della produzione e delle spinte autonome della forza-lavoro, rese funzionali al proprio sviluppo. E facendosi ciclo produttivo complessivo, la capacità di estendere i rapporti di fabbrica all’intera società. Per cogliere correttamente questo tema è forse utile riportare quanto scrive Sandro Mancini che cita passi dello stesso Panzieri: La nuova categoria della fabbrica-società, elaborata da Panzieri e da Tronti, esprime la generalizzazione dei rapporti capitalistici di produzione alla “sovrastruttura” e riflette il fatto che “la fabbrica tende a pervadere, a permeare tutta la società civile, anche l’area esterna”. Egli non intende però la categoria della fabbrica-società in senso restrittivo, come l’assolutizzazione della realtà dell’azienda e dell’operaio-massa; nel suo pensiero la fabbrica non è intesa nel suo senso empirico, bensì in senso scientifico, nei termini in cui era stata definita da Lenin: “La fabbrica non è una raccolta di dati empirici… La fabbrica è, diceva Lenin, lo stesso sviluppo dell’industria a un certo determinato stadio di sviluppo del capitalismo”30.
In altri termini, il sistema capitalistico di produzione “si socializza”, integrando in maniera sempre più stretta i momenti della produzione, della circolazione e della riproduzione.
4. Panzieri e noi Attraverso l’uso della scienza (come insieme dei saperi che rendono possibile la tenuta e lo sviluppo di questo sistema produttivo sociale) il capitalismo è capace di autogovernare i processi economici sotto forma di 29
Ivi, p. 286
30
S. Mancini, Introduzione a R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, cit.,
p. XXI.
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una effettiva pianificazione, alternativa a quella socialista, che tempera e neutralizza lo svolgersi delle contraddizioni connesse alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Alla luce di queste analisi, Panzieri mette quindi in evidenza come la forma storica del capitale azionario e i concomitanti processi di centralizzazione stringono in maniera inestricabile produzione e circolazione relegando «non poche delle “leggi” in una fase storica determinata dello sviluppo capitalistico»31. È in questa serie di analisi che l’operaio diviene quindi operaio sociale. E non perché – almeno in Panzieri – la produzione di valore sia collocata all’esterno della fabbrica, ma perché la pianificazione capitalistica dei processi produttivi trasforma immediatamente la cooperazione allargata in processo di produzione. Tuttavia, proprio per questa ragione la classe operaia ha la possibilità di riappropriarsi del processo di produzione della ricchezza, poiché vede ora dispiegarsi – socializzata – la propria potenza produttiva, e vede aprirsi le possibilità di un uso socialista della scienza e della cooperazione. Panzieri richiama su questo tema le pagine marxiane sulla formula trinitaria del capitale per mettere in evidenza come la pianificazione generalizzata «estende direttamente la forma mistificata fondamentale della legge del plusvalore dalla fabbrica all’intera società» facendo in tal modo quasi scomparire (feticisticamente) ogni traccia del processo capitalistico32. Con ciò egli rappresenta con chiarezza la tendenza del capitale finanziario a mostrarsi esclusivamente come capitale circolante, quindi come capitale che produce valore nella sola sfera della circolazione: forma feticistica estrema ma necessaria ancora oggi a comprendere l’autorappresentazione dei mercati borsistici e finanziari. Panzieri non descrive, evidentemente, i processi di sviluppo capitalistico alla luce di elementi endogeni e strutturali (le leggi di sviluppo del capitale), ma in ragione dell’elemento esogeno della conflittualità operaia che ne costituisce la vera contraddizione interna, il suo principio intrinsecamente antagonistico e quindi l’elemento di sviluppo. Certamente è necessario collocare storicamente la lettura di Panzieri, in un contesto in cui i modelli neo-keynesiani americano, socialdemocratico nordeuropeo e quello dell’economia sociale di mercato tedesca mostravano enormi potenzialità auto-regolative e autolimitanti. E quindi in un contesto in cui la capacità di “pianificazione” del capitale era rappresentata dalla capacità dinamica di offrire una regolazione del conflitto di classe attraverso strumenti come welfare, politiche salariali espansive, ampliamento degli spazi di concertazione e co-decisione nel processo produttivo, rafforzamento del31
R. Panzieri, Lotte operaie e sviluppo capitalistico, cit., p.275.
32
Ibid.
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la dimensione politico-rappresentativa dei sistemi democratici. Peraltro, il modello neocapitalistico di Panzieri doveva tener conto di un duplice limite: interno, rappresentato dalla crescente conflittualità operaia, ed esterno, offerto dallo scontro col blocco socialista. Evidentemente Panzieri non poteva cogliere tutta l’estensione comunicativa e digitale di quell’intelletto generale che era, tutto sommato, ancora interpretato come “macchina” e come intelligenza collettiva nella forma del processo allargato di produzione. Neppure poteva cogliere il salto dell’attuale finanziarizzazione, frutto di specifiche tecnologie economiche, statistiche e digitali oltre che di cambiamenti essenziali nella regolazione monetaria. In tal senso, l’orizzonte di Panzieri era ancora quello in cui lo Stato poteva operare quale superiore agente pianificatore, una posizione – come abbiamo visto – che egli riteneva problematica e addirittura pericolosa per un effettivo sviluppo socialista. Tuttavia, la sua riflessione permette ancora oggi di cogliere le caratteristiche specifiche di un modo sociale di produzione – quello capitalistico – capace di darsi “un piano”, nelle forme di una concentrazione non centralizzata di forze produttive e di capitali, e in cui la soggettività di classe, comunque la si possa interpretare oggi, se vuole effettivamente tornare ad essere un attore consapevole dei processi di trasformazione sociale e politica non può rinunciare a educarsi e costruirsi nella pratica del conflitto e nella promozione e produzione, di istituti democratici. Istituti che dai luoghi della produzione – sempre più diffusa e socializzata – possono dare forma alla società nel suo complesso.
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Franco Fortini Le ingratitudini dell’ospite Giovanni La Guardia
1. Ingratitudini e conversione. Una pagina de «Il politecnico» Giacomo Noventa, il maestro voleva insegnargli a ridere. «C’era poco da ridere». Ai tavoli letterari della sua Firenze fra adolescenza e prima giovinezza cercava benevolenza. Un giovane non si fa scacciare facilmente, il senso d’essere illegittimo non lo abbandonò più, se ne ricordò dopo anni, lui mutato, nel presentare una raccolta di brevi articoli ed epigrammi, poesie e moralità, brindisi e invettive e lettere. L’ospite ingrato, Fortini, all’anagrafe Franco Lattes fiorentino riassume se stesso nella sua città con queste parole «Voler essere accettato nell’atto stesso di respingere». Da un vocabolario: Terra ingrata, dicesi di terra dura e dove non vi è reciprocità. In un’altra città trovò accoglienza Fortini, una città fuori d’Italia, vi ebbe la sua seconda nascita, Zurigo, la città della sua conversione, seguita a non pochi altri mutamenti. Conversione ha della relazione religiosa e vale reciprocità, perfetto amore fra uomo e donna, conversione dell’amante nell’amato. Se ne nutri quella sua seconda nascita, a Zurigo dove poté prestare aiuto e ascoltare i rifugiati ebrei e slavi in fuga dai fascismi, ascoltarne i canti e il pianto e molti conobbe che gli saranno maestri e compagni. D’un uomo lì apprese, maturato in armi in montagna, un tipo d’uomo che non conosceva il dissidio fra l’agire e il pensare, uomo tutto storico e libero dal gioco di specchi della coscienza come ne scrisse sul «Il politecnico», prototipo Saint Just di cui recensisce le opere Ma i Saint Just che razza d’uomini sono, che razza d’uomo il bolscevico, uomo tutto storico e libero dal gioco di specchi della coscienza. Pure nel Saint Just che tace, terribile, quella mattina di Termidoro, quando gli fu tolta dal tumulto la parola, in quel gigante dell’azione Fortini trova che qualcosa non va, ytrova quel silenzio maculato di estetismo. Un ebreo fiorentino convertito al cristianesimo e battezzato da un pastore d’una chiesa riformata: lo racconta lo stesso Fortini ne I Cani del Sinai, quando commentatore a caldo della guerra dei sei giorni spiegò come non potesse testimoniare alcuna solidarietà ad Israele. 69
Obblighi, che Fortini declina in obbedienze ad altri doveri. Come stessero le cose ora dirò solo illustrando una pagina del Politecnico, e ringrazio gli ospiti per l’occasione che mi hanno offerto di aver trovato una pagina da me, se pure altri lo ha fatto, mai prima osservata. Si presentano come una sola le due pagine centrali della rivista, aperte e affiancate, al centro in alto su due colonne affiancate Come in un giorno di festa, l’Inno di Hölderlin, sono riportati i nomi dei traduttori Ruth Leiser e Franco Fortini; Wie wenn am Feiertage l’originale tedesco allineato a destra i versi in colonna a tutta pagina; a sinistra guardando, con diverso carattere Da Hölderlin a oggi, un articolo a firma E. V.; su quattro colonne in basso ai piedi della traduzione parte di uno scritto di Heidegger su Hölderlin, il titolo «Heidegger sull’Inno Come in un giorno di festa». E. V. Elio Vittorini, presenta la pagina e il frammento di Heidegger e alla contemplazione del nulla cui porta il filosofo contrappone la speranza in Carlo Marx (e nel marxismo), la speranza che i poeti siano capiti e resi utili; e aggiunge «Lo stesso che Heidegger fa con Hölderlin la nostra critica fa con Leopardi»; e rimanda alla pagina seguente al saggio di Fortini su Leopardi. E in Fortini: «Cosa ne ha fatto la critica di Leopardi? Un poeta. Leopardi sacerdote della poesia, poeta della poesia. Come Hölderlin. Come Heidegger vuole di Hölderlin. Come Mallarmé. Come molti vogliono di Mallarmé» . Ancor più che la presenza al proprio tempo nel “composto” della ingratitudine di Fortini c’è l’intento di cambiare il suo tempo. La storia è la scena cui coordinare la domanda adolescente «Chi sono io». Anche il duro, il ruvido ha una tradizione, per Fortini va dai catari a Port Royal. Una volta per «Il Politecnico» ha firmato con pseudonimo: Giona.
2. Come fare cosa Del tempo trascorso dal Politecnico sapevo leggendo dai Dieci inverni 1947 - 1957, ne posseggo una copia della prima edizione in rosso tracciato da un pennello come per una scritta su muro, secco, che lo zero della cifra non chiude; da qualche tempo gli era accanto minaccioso per la mole una raccolta recente, solo sfogliata, sapevo di trovarvi il nome di Fortini, e il nome d’altri a lui i prossimi. Ne aveva promosso la pubblicazione Michele Ranchetti la nota introduttiva dovuta a Renato Solmi. Se era intenzione degli ospiti avere notizia della nascita della Nuova sinistra questo, la raccolta di «Discussioni», ne è un documento fondativo e una sorta di palinsesto. Giovani, giovanissimi un gruppo di amici dibatte quanto loro offre la vicenda del giorno un’aria di ripresa, presa d’atto non espressa di una scon70
fitta consumata, il foglio dattilografato un inventario e un crescere numero dopo numero degli oggetti proposti da chiunque di essi alla discussione. I temi: dall’atomica alla violenza alla violenza di stato , la domanda su come a rivoluzione segua sia seguita o debba seguire conservazione, il confronto fra materialismo dialettico e scienza. La lingua d’uso, materia di discussione la lingua come le premesse metodiche, richieste di interlocuzione espresse e adempiute, schemi interpretativi generosi talvolta avventati, riassunti, continuazioni di articoli e riprese anche lontane nel tempo, l’andamento come di ininterrotta conversazione, il guadagno sempre più preciso dell’oggetto che ha mosso la discussione; differenziati nelle scrittura i tratti personali o disciplinari: il limpido Insolera, l’arrischiato e intrepido Solmi l’affabile dissentire, il sommesso argomentare di Michele Ranchetti. Il preliminare della rivista appare a firma di Luciano Amodio soltanto nel numero 7, tratti caratterizzanti la noncuranza dell’estetico e del falso etico e una unità intorno ad un centro storico filosofico che valorizzi il proprio lavoro, la distanza dichiarata dalla generazione che li ha preceduti, generazione ancora di intellettuali letterati, il convincimento infine che problemi individuali nel loro aspetto soggettivo non possono essere materia di cultura. Pagine povere, ciclostilate un entusiasmo contenuto, obblighi se mai liberamente assunti. Un ragionare di sé con altri che non è contro il fare, non però in vista del fare. Due le presenze nuove Cases e Fortini. Cesare Cases lukacsiano e ortodosso già di umore ironico provvisto che invita a sciogliere i fumi fenomenologici, a non preferire la sociologia di Simmel alla dialettica e suo l’ammonimento: guardatevi dall’innestare il naso di Marx sulla faccia di Husserl e di Dewey o sui baffi di Nietzsche. Il nome di Fortini compare nel numero dell’ottobre del ‘50. Interviene in una conversazione avviata da Solmi che discuteva un intervento di Motta. (Cosa avesse impedito a Fortini e a Del Noce di fare la rivista in cui ora Fortini pensa di mutare «Discussioni» non saprei per quanto fra i diversi innesti non è sicuramente trascurabile il rilievo della componente religiosa. D’orietamento cristiano sociale il Motta). Le osservazioni di Fortini: il nesso di politica e cultura non è una questione dei colti è una forma, «la forma più esatta assunta oggi in Italia, in Francia e in Germania dalla lotta di classe». Il secondo tema investe la questione del potere e la sua distribuzione fra struttura e sovrastrutture. Sono lontane le discussioni ultime del Politecnico sul tema delle libertà liberali per gli intellettualli, si tratta di assicurare efficacia al lavoro degli intellettuali. È possibile rinnovare «Discussioni», come? la maggior parte di noi opera altrove, cioè è ingegnere scrittore dirigente industriale, togliere ogni rischio di dilettantismo significa che le nostre iniziative coincidano quanto più è
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possibile con le singole attività private. Il prolungamento dei propri doveri creativi consiste nel portare in pubblico le opere e i pensieri riunirsi, organizzarsi, uscire dall’anarchia, fare come in URSS s’era fatto da quanti erano caduti “correttamente” portando in pubblico il proprio lavoro e pagando per questo, insomma non una questione di garanzie liberali, ma di efficacia, sia pure soltanto in forma di testimonianza. Così levò il capo una generazione sulle brume del terrore atomico, sulle brume della Conservazione, dalle nostrane pozzanghere nere, il 18 di aprile come ne scriverà Scotellaro; così, oltre cortina le capitali della Conservazione Poznan e Berlino e Budapest. Se quegli anni racchiudono una idea questa ne è la matrice, a generarla un innesto, Raniero Panzieri dirigente socialista, venuto a Torino dalla Sicilia, nel ‘55 era a Matera con Fortini per commemorare Rocco Scotellaro. Nello stesso anno in autunno tanto Fortini che Panzieri sono in Cina con due diverse delegazioni. A Roma tempo dopo, a cena dove s’era fatto accompagnare dal figlio Davide con Paola e Vera Padovani è una signorina che parte in quei giorni per la Cina, era Edoarda Masi per il suo primo viaggio di studi in quel paese. Di quel viaggio Edoarda tenne un diario che Fortini presentò a Panzieri. Panzieri era stato chiamato con Renato Solmi a lavorare per Einaudi. Non venne pubblicato il diario, nel rifiuto vi ebbe parte Solmi per riserve ispirate da politica cultuale di partito. Il diario sarà pubblicato solo dopo anni, divenuti i rapporti di Edoarda Masi con Solmi rapporti di stima e di amicizia. Di Solmi e di Panzieri alla Einaudi si ha la testimonianza e la accurata documentazione di Luca Baranelli. Edoada Masi cui Panzieri propone un bollettino mensile sulla Cina per le Edizioni Avanti che non avrà seguito riceverà da Panzieri l’invito a collaborare a Quaderni Rossi. La Lettura delle posizioni cinesi della Masi viene pubblicato sul numero 4 della rivista con Plusvalore e pianificazione di Panzieri e il frammento sulle macchine di Marx che Panzieri aveva chiesto a Solmi di tradurre. Panzieri non era già più in vita. Un gesto, l’estrarre il frammento sulle macchine concretizzazione storica di una situazione storica contingente, questo intendo per matrice. La filologia che presiede a quel gesto e il lavoro di lettura di quel testo, guadagnata a fronte di relazioni nuove, il sistema di potere in fabbrica e quanto ora sembrava unire economia e società per politiche di piano, estensione cioè della razionalità della fabbrica alla società a contenere la anarchia della società, le coordinate delle forme nuove del conflitto sociale e in essi la parte dei lavoratori cui erano chiamate le rappresentanze dei lavoratori e la intelligenza critica di militanti studiosi. L’entusiasmo per il socialismo, entusiasmo riapparso in fabbrica e altrove in Italia messo alla prova, metodicamente osservato e confidato a ra-
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dicamenti in situazioni e saperi vecchi e nuovi di tecniche e scienza, tale l’entusiasmo che ancora oggi trasmette Panzieri a chi legga. In conversazioni, in seminari e in interventi a stampa Panzieri teneva in gran conto interlocutori e i compagni, e quanto abbia prestato attenzione ai contributi di Mario Tronti. Ho riletto di Tronti «La fabbrica e la società», l’intervento pubblicato sul secondo numero di QR . Un punto tornava a colpire me persuaso d’esservi giunto per altra via: Marx che lega la dimensione politica a condizioni storiche, il significato politico dei conflitti a mutamenti nella relazione fra forze produttive e rapporti di produzione – per Marx le lotte per le otto ore che a suo tempo aveva mutato la forma della estorsione di plusvalore. La dottrina di Lenin è la più geniale interpretazione della dottrina di Marx: essa è legata alla dottrina di Marx da un filo sottilissimo – così Noventa. Tronti portando Lenin in Inghilterra, ha spezzato quel filo, penso la stessa cosa anche ora rileggendo. Ma è un colpo magistrale l’avere inserito il lavoro vivo la sua esistenza, le lotte e le resistenze del proletariato a tentare lo spazio rimasto aperto in Marx fra teoria del capitale e teoria della rivoluzione (Se si trattasse di un mossa deduttiva come almeno ad alcuni è sembrato altri dirà). Fortini indirizzò a Panzieri e agli amici di Quaderni Rossi una lettera poi pubblicata nel secondo numero della rivista: «Il socialismo non è inevitabile». Caro Raniero, scriveva Fortini, potete sbagliarvi. Quando, come da Quaderni Rossi, si levano insieme determinismo e volontarismo, la scelta non è più fra gradi diversi di mediazione …. Il socialismo non è inevitabile, lo sapete; ma la vostra lettura dei segni dei tempi è condotta come se lo fosse ...insomma fra l’azione accanto o nei luoghi del nuovo proletariato e l’elaborazione teorica bisogna probabilmente per molto tempo ancora, interporre una zona di disperazione tranquilla e una pura scommessa.
3. Una digressione – di poco momento e di andamento quasi speculativo 1967, porta questa data la traduzione in Italia di Storia e coscienza di classe, György Lukacs che ne è autore scrive la introduzione e qui ritorna sulle ragioni del misconoscimento, rifiuto per immaturità degli scritti giovanili e di questo di Storia e coscienza di classe dice irrilevante quanto in Europa era pure stata e tornava ad essere materia di discussione: come cioè Essere e Tempo avesse come intento strategico proprio Storia e coscienza di classe e oggetto polemico solo appena dissimulato. La introduzione di Lukacs toccava Fortini sotto due aspetti la ricostruzione dell’itinerario che lo aveva portato a Storia e coscienza di classe e le 73
ragioni del suo ripudio. Fortini aveva saputo di Storia e coscienza di classe a Zurigo da Lucien Goldmann, con il quale aveva stretto amicizia. È venuto in Italia più volte György Lukacs. Nell’omaggio a lui reso per una di queste occasioni Cesare Cases ne riassume un aspetto in una maniera concisa e penetrante : Come se in Hegel egli non avesse ritrovato altro che il processo del proprio pensiero. C’è in lui una sicurezza istintiva nell’inquadrare il particolare nel tutto, il molteplice nell’uno, che colpisce ad apertura di pagina e che fa sì che ogni minima allusione non abbi mai nulla di gratuito e partecipi alla forza del pensiero.
4. L’omaggio a Lukacs è del ‘56 E ora un passo da Theodor W. Adorno , Tre studi su Hegel traduzione italiana del 1971: I poli che Kant contrappone l’uno all’altro, forma e contenuto, natura e spirito, teoria e pratica , libertà e necessità cosa in sé e fenomeno vengono tutti quanti compenetrati dalla Riflessione, di modo che nessuna di queste determinazioni sussiste come Ultimo. Ognuna per essere pensata , abbisogna di per sé di quell’altro momento che in Kant le viene contrapposto. Mediazione dunque non significa mai, in Hegel, come dopo Kierkegaard usa dipingersela il più fatale dei malintesi, qualcosa di mezzo fra gli estremi, perché la mediazione si raggiunge attraverso il passaggio fra gli estremi stessi come tali; questo è l’aspetto radicale di Hegel, incompatibile con ogni moderatismo.
L’uno e l’altro, l’uno all’altro avverso Lukacs e Adorno , riuniti nel prendere partito per il particolare e per l’insieme, per il particolare e per la totalità. Irriducibile all’uno e all’altro il pensiero che introduce in Teoria del dramma barocco le pagine di Benjamin sul nesso di natura e storia : la resistenza che oppongono le cose a farsi salvare. Una lettura occasionale nella divagante preparazione seguita all’invito è sembrato avermi aperto gli occhi su qualcosa di già nota, ora di diverso peso: 1930, Hannah Arendt recensisce Karl Mannheim. Freschi per Arendt studi e affetti heideggeriani: Mannheim sociologo della conoscenza ripassato al fuoco delle distinzioni fondamentali di Heidegger: ente e essere. Poteva essere d’aiuto la sociologia? Un inciso casuale ad una prima lettura il riferimento di Hannah Arendt alla questione Storia e coscienza di classe, a quanto cioè nella Introduzione italiana Lukacs aveva signorilmente dichiarato non
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meritevole di attenzione. Come sia, il riconoscimento della Arendt significava pur qualcosa. Nei termini della distinzione ormai nota a chiunque pratichi filosofia, la distinzione fra Ente ed Essere – la storia posta nella sfera inautentica del quotidianità, inattingibile come incondizionato l’Essere, sorprendeva ed incuriosiva che alla sociologia come disciplina potesse essere riconosciuto uno spazio per accedere all’Essere, un ruolo ancillare, e tuttavia non trascurabile. Ovviamente rimaneva cosa da filosofi la questione dell’essere. Hanna Arendt si rendeva ben conto però della differenza: se la coscienza e la sua varia fenomenologia avessero a riferirsi a concretizzazioni storiche come per Lukacs, o come in Heidegger fossero da riferire ad una condizione umana tal quale. Per quel che valga, nella lettura della Arendt mi si faceva chiaro come il servizio filosofico che il maestro della Foresta nera aveva reso e cioè che nell’Essere dimenticato e non interrogabile per storia, del niente predicabile del «ci», nella distanza irriducibile dell’Essere come pura onniavvolgete contingenza del «ci», nel «ci» che intende l’immediato e il dejetto, si restaurava qualcosa di già ancora noto, il bimillenario guadagno assicurato e coltivato dal Cristianesimo all’Occidente: l’interiorità. L’interieur cui Adorno di quegli stessi anni nel Kierkegaard affida parte non piccola, e nell’intérieur, nelle vesti di un originario spirito vagante, la fantasmagoria della merce. Tirò dritto Hannah Arendt e tireranno diritto le intelligenze critiche venute dopo. Mannheim era con Hannah in Portogallo all’imbarco per l’America ad attendere Benjamin che non arrivò. Pensieri , inutile dire, cui rimandava il buon uso della Sociologia raccomandato da Panzieri. Documentabile o meno che sia la mediazione di Solmi, rimane pur vero che nel rinvio sociologico Panzieri avrebbe usato anche, né poco, della Sociologia per dissolvere il fumo di fenomenologia e visioni del mondo, giusti i consigli di Cases. Insomma se la discussione su piano e razionalizzazioni riportava ad altro, fuori cioè da ontologia e da esistenzialismo la lettura della Arendt indicava pure un canale della diffusione ontoteologica a venire in Italia, né minore la luce che qui cade sul rapporto fra storia e psicologia vivo nella cerchia di «Discussioni» . Del 1937, ancora una data, iI saggio di Adorno su Mannheim La coscienza della teoria del sapere. Non in questo saggio poi raccolto in Prismi la questione della Sociologia, praticata empiricamente dall’Istituto francofortese in America, troverà la maggiore evidenza. È quanto avverrà a metà degli anni 50 , nella discussioni con Popper e Dahrendorf su Dialettica e Positivismo. È nel corso del dibattito sul neopositivismo che alla Sociologia Adorno rivendicherà legittimità critica e non di mera integrazione
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interdisciplinare rispetto alla economia; difesa cioè della percezione irregolare nella scrittura critica, resistenza posta nella società a fronte della razionalità di fabbrica. Tornano in mente le mosse inaugurali della Teoria critica, materia dei recenti seminari napoletani, i gesti d’apertura, le due assunzioni polemiche: verso l’idealismo e verso la psicoanalisi. A questa stagione, i francofortesi di nuovo in Europa rimandano i Tre studi su Hegel, del ‘63. Adorno in Hegel trattiene la riflessione sull’orlo di quella spaccatura che l’idealismo pensava doversi superare in Kant, la distinzione del conoscere e nell’agire, l’acquisto grande del criticismo, sentimento del limite per l’attività conoscitiva che l’idealismo non che i romantici di prima e seconda generazione si ingegnerano di demolire. In questo trattenere Adorno ha sottratto Hegel all’idealismo. Lo Hegel di Adorno non si risolve in logica, né ontologizza negazione, qui prima dell’unità di soggetto e oggetto il cui pensiero aveva mosso a ricomporre la spaccatura kantiana: in questa assunzione egli aveva salvato il contenuto di verità di Hegel. Nella osservanza delle differenziazioni kantiane di teoria e pratica, di libertà e necessità, di cosa in sé e fenomeno, il momento della non identità; in questo spazio in cui è chiamata la ragione a render conto di se stessa di fronte all’oggetto e alla sua fatticità; nella ricognizione della vita offesa, nelle condizioni dell’esperienza comune Adorno ha raccolto in Minima moralia l’impulso. Limite, come chiameremo lo spazio di osservata distinzione che guidò Panzieri nelle sue lettere, dell’inedito sulle macchine, del Capitale de dei Lineamenti, così la filologia alla quale chiedeva soccorso, fu soccorsa a fronte dello spirito di sistema. Quale sia stato il ruolo di Solmi su questi temi negli anni del sodalizio torinese con Panzieri sarebbe impresa bene meritevole e di non trascurabile esito. 1973, postilla. Dal carteggio fra Hanna Arendt e Günther Anders edito in Italia con il titolo Scrivimi qualcosa di te, la raccolta unisce alle lettere scambiate lo scritto di Hannah e una nota di Anders, anche questa su Mannheim, pubblicata a firma Günther Stern nel 1930, lo stesso anno dello scritto di Hannah. L’autore poi noto con il nome di Günther Anders accompagna il suo scritto con un raccontino: il suo scritto l’aveva perduto, nè molto gli importava che in verità niente forse sottoscriverebbe di quel suo lontano intervento, il quale non andò del tutto perduto solo per caso, avendone spedito copia ad Alfred Doeblin, Doeblin a sua volta se n’era poi disfatto cedendolo ad un antiquario zurighese, e qui a Zurigo lui Stern/Anders potè ricevere quell’unica copia dalle mani di un altro amico Friederich Adler che glielo consegnò ridacchiando. Allievo di Heidegger e studioso di Husserl, Anders aveva avuto ben pochi contatti con Hegel e con Marx ma
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trovava già sospetta la tendenza di Mannheim di esporre lo stesso marxismo alla critica marxista dell’ideologia in modo da depotenziarlo, tendenza che gli appariva sospetta ancora oggi. Renato Solmi stringerà ben presto amicizia personale con Anders e troverà in lui riferimento intellettuale ancor più che in Adorno, che rimarrà pur sempre «il suo grande maestro».
5. Due lettere Questioni di frontiera. Scritti di politica e di letteratura porta le date 1965 -1977. perché allora Fortini vi ha raccolta Il socialismo non è inevitabile titolo della lettera a Panzieri, che porta la data 1962? Ricordavo d’averlo letto questo scritto su Quaderni rossi, raccolto nel secondo numero. Perchè scorrendo ora l’indice cercavo La lettera agli amici di Piacenza? Non l’avrei trovata era in L’ospite ingrato, la data della lettera : 1961. Lo immaginavo pur di poco successiva all’altra. La lettera a Panzieri è una lettera vera, la lettera ai piacentini un documento programmatico, analisi e direttive per una politica di “ceto”, il ceto in questione gli intellettuali, descritti da Fortini come socialmente disarmati, cioè proletarizzati. E nella lettera ai piacentini quanto darà il titolo alla lettera a Panzieri: Il socialismo non è inevitabile, che così continuava : La verità non è inevitabile. A rigore non è neppure necessaria. La lettera poi svolgeva quanto aveva raccomandato prendendo congedo e congedando Discussioni. Perché ricordassi insieme le due lettere è è facile dire, meno chiaro quali ragioni mi spingevano ad assegnare a questi due scritti un significato particolare. Dà il titolo alla prima sezione di Questioni di frontiera il dialogo di Cases con De Martino, l’ultima è dedicata a questioni letterarie, non immediatamente leggibile la disposizione della materia, non cronologica in ogni caso. Non dicono gli articoli più della loro somma distribuita per sezioni, la richiesta di tener presenti le date è già di Fortini. Raccomandazione promettente quando si voglia studiare Fortini: le date e i rimandi interni alla scrittura saggistica o anche alle poesie. L’ordine e il disordine, per esempio, che compare una prima volta nello scritto dedicato a Leopardi, darà il titolo alla seconda sezione di Questioni di frontiera, titolo all’ultimo componimento poetico in Questo muro fa da incipit, l’intera poesia, a Paesaggio con serpente. Nei rimandi acuto e appena dissimulato un intento di autobiografia intellettuale. Rientra nel composto delle ingratitudini di Fortini questo impulso, e alla questione sempre viva in lui del rendere testimonianza. Di testimonianza che si rifiuta a se stessa scrive introducendo Dieci inverni: «Anche se non li conosco vedo altri lavorare come noi non abbiamo saputo». Tensione per un futuro atteso e un passato mancato. Tensione che a me pare rimandare 77
ad un altro motivo che altre volte ricorre e questa tensione riassume, spina che se la togli muori, spina «quella azione sul mondo che è l’unica via per raggiungere il più vero se stessi». Dovuto a Kierkegaard, il primo dei maestri suoi e dell’esistenzialismo il rischio della spina, ma Lukacs che di cose simili non meno si intendeva, sapeva come il vivere coscientemente la propria autobiografia è anche ciò che impedisce chi lo faccia di vivere una vera vita. A meno che non si voglia pensare questa attitudine indistinguibile dalla istanza di controllo dei propri mezzi di produzione intellettuale e suo complemento. Attitudine non soltanto generatrice della tonalità propria degli scritti d’intervento etico politico; comprese le inflessioni caratteristiche del Fortini della sconfitta: la mestizia e il gesto dell’ostinazione. Ho finito per considerarlo quale è, Questioni di frontiera, collocato fra il grande saggismo di Verifica dei poteri e il libero fermo e divagante andamento de l’Ospite ingrato. Rimanevano le due lettere, istruzioni sul tema del socialismo, evitabile non evitabile, un punto mediano d’un insieme: nube che sia o idea. Concrezione storico-politica, e spazio d’una dimensione pubblica quella che ha forma in questi scritti diverso dal poligrafismo illuminista cui si alimentò la sfera della opinione pubblica colta ancor prima che critica, spazio diciamo dello spettatore kantiano, per il quale Kant immaginava memorabile l’esperienza della rivoluzione borghese, traducono questi scritti una intenzione d’efficacia, discorso orientato a persuadere, a contenuto etico-politico, la materia legata ad accadimenti occasionali, non occasionali le scelte e prima la opzione già maturata con il Politecnico per un linguaggio comune ricco e affabile, programmatica la distanza dalla forma aforistica dei Minima moralia ormai noti in Italia per esservi già portati in traduzione da Solmi – glieli aveva fatti conoscere in originale Solmi a suo tempo, e il libro Fortini lo aveva messo da parte, che non ci si capiva niente. Discorso che si vuole medio, e formalmente sostenuto, con riguardo a tutte le forme, delle quali faceva esercizio la traduzione, le voci di lessico, il resoconto di viaggi, la canzone, la lettera, la recensione il commento a fatto di cronaca, o a testi, e certo non ultima la poesia. «A uno a uno - ogni nostra tragedia è una farsa» aveva scritto nella lettera a Panzieri. Si srotolò l’intero archivio delle forme organizzative sperimentato dal Movimento Operaio al suo declinare scimmiottando qualche volta, talvolta in strumentali affiliazioni, altra per maturata disperazione; finché il rumore di fondo non prevalse. Le riviste figliarono quotidiani, e i gruppi partiti, le redazioni si arroccavano nelle città delle quali impadronirsi prima ancora di conoscerle, la rappresentanza politica giocata in reciproco opportunismo con i partiti della sinistra istituzionale. Finchè una “opinione pubblica”, il
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fantasma di una opinione pubblica, venne portata a dividersi su Moro in attesa dei segreti che non si potè estorcere al prigioniero mentre i segreti promessi e anche temuti venivano sepolti in archivi privati e di stato, e tali rimasero, perché non si chiese agli italiani di riconoscerli quei segreti nei guasti che chiunque con mente sgombra avrebbe potuto vedere e nelle campagne e nelle città sul punto d’essere progredite in metropoli, e delle metropoli intendere l’indice, sicuro e precoce, la presenza dei poveri, a tutti comune una povertà nuova. Non era soltanto la prognosi verificata delle tesi di Gramsci sulla gioventù, che di fronte alle crisi si radicalizza per poi rifluire; e ognuno faccia cadere la cesura dove creda. Nè intendo la scissione in Quaderni Rossi, che è poco interessante, per quanto non da poco le conseguenze. Se non trovi avversari degni di te cercali fra i morti o inventali: poi discuti con loro come fossero vivi; ti accorgerai che i tuoi avversari esistono, che esistono oggi e che sono degni di te. Li cercò fra i vivi, Fortini, e ne trovò vivi e le indicò a dito le teste apologetiche. Chiude la seconda sezione di Questioni di frontiera “Gli ultimi Cainiti”, l’anno di pubblicazione 1976. Chi avesse letto Tronti in Quaderni Rossi avrebbe capito ben prima della conclusione dell’intervento. Non era per Tronti più un problema la mediazione, diventava una bazzecola il partito. La soluzione c’era già, portata direttamente dallo sviluppo del Capitalismo, dal soggetto insediato dallo stesso capitale, dal proletariato, i conflitti macchina dello stesso sviluppo al suo apice, solo da dirigere. E con Tronti il Cacciari. A vicenda persuasi del negativo esibito. Chi avesse letto Cacciari non avrebbe dovuto spendere molto a capire dove egli intendesse collocare la grande politica, il cuore del comando . E scrisse Fortini d’una identificazione al mondo dei signori che l’intellettuale non può perseguire se non nel gesto della creazione intellettuale solitaria e sublime ( Nietzsche, Mallarmè... ) o nella esaltazione degli eroi industriali , dei titani e dei dittatori … A questo punto l’intellettuale vuole affittare una a stanza da studio nel Negativo. E la trovò: nei Consigli di amministrazione, negli apparati di stato, nelle strutture della ricerca e del loisir. Né mancò di riconoscere del compiuto cainita il tratto fisiognomico, la marca autoassertiva, l’uso semantico del grugnito. Profezia di breve adempimento: «La verità quella che auguriamo possiamo descriverla solo per via di teologia negativa?» chiudeva la lettera a Panzieri. Aveva fiutato la risposta Fortini. L’esibizione del negativo, materia di propaganda, stile di pensiero, ricongiunta alla sua fonte oltre Heidegger e Nietzsche, al vecchio Schelling. E molto fu qua e là mutuato, mentre teologoumena e mitologie neopagane si scambiavano le parti. Era il tempo del cacao meravigliao.
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Così qualcosa non fu più immediatamente visibile, cioè la rassicurazione ultima depositata nel cuore della dottrina, Marx definitivamente riconosciuto come il filosofo, il più grande del capitalismo – non nell’abbraccio che legava il capitale alla sua creatura, non la cellula che lo riproduceva per sussunzioni a differenti stadi. E mentre la crisi veniva ricomposta e amministrata per impaludamenti successivi, un pensiero intrepido si riscaldava sullo stato di eccezione, sulle innervazioni della potenza, del pathos della decisione, nella logica degli affetti. Così la coscienza colta medicata della propria infelicità riconciliata con il corso delle cose, dovendo di necessità ricongiungersi al corpo e trovandone sorvegliati i valichi di confine, li aggirò e la pur dubbia stella che avrebbe dovuto guidare la ricomposizione tendenziale di coscienza ed essere, di soggetto e oggetto, venne guadagnata d’un colpo, ricomposizione previa ad ogni altra scissione. Quale superiore ironia si esprime nel playdoyer per questo esistenzialismo espanso - glutine non secondario Hannah Arendt, piattoforma d’imposta e propaganda del prodotto Thoughtitaly. È lo stesso Fortini a suggerire potersi intendere nel cainita se non anche nella sua stessa polemica con costoro frammenti d’un regolamento dei conti fra borghesie europee. Sarebbe da ascrivere a qualcosa di simile quanto egli scrisse di Pintor? Ingratitudine il “signore” denunciato in Giaime? Per le sue traduzioni da Rilke aveva avuto parole di ammirazione, era sua per Einaudi la prefazione alla raccolta. Fu polemica grande, aveva sbagliato la misura e il bersaglio, Fortini che replicò come potè e continuò a testimoniare amicizia a Luigi, al Manifesto e alla Rossanda. Intendeva colpire il servo in se stesso? Come aveva appreso doversi fare da Noventa: l’aspetto proprietario della intelligenza separata, il privilegio di classe di chi può giocare su uno qualsiasi dei mercati della scienza o della industria della cultura o della rappresentanza politico e sindacale. E non era chiamata in causa la stessa politica culturale della Nuova Sinistra che il ceto dei colti blandiva e affiliava in modi non tanto diversi dalla politica culturale di partito praticata negli apparati di quella – in senso proprio – industria della coscienza. Aveva congruenza? di quanto si discostava l’orizzonte etico politico di Fortini ? Ma fu gratitudine vera la sua quando ebbe la ventura di riportare con le riserve sul prete Milani il ridere dei ragazzi di Barbiana della scrittura di Franco Fortini.
6. Ritorno in Galilea Chi cerca le proprie amicizie tra gli invisibili diviene presto invisibile, aveva detto di Panzieri. E rimase accanto ai morti e ai carcerati , ai nuovi pove80
ri con i libri che seguirono. Era il gesto del moralista classico che ammoniva: non c’è merito ad essere operaio, ad essere nero, ad essere donna, e il fiuto dello storico: le streghe non torneranno. Non aveva aspettato le controculture per ammonire che il Minotauro e la Fedra in noi chiedono di essere riconosciuti. Extrema ratio, l’ultima raccolta di saggi, è testimonianza da una sconfitta. La storia è andata così, la vita anche, si legge nel sottotitolo. Le rovine sono altre da quelle della modernità. Rocchi di colonne, timpani diruti e basamenti inquadrati dal mirino di un’arma di precisione, la copertina di Questioni di frontiera, rovine le parole ancora di ostinata mestizia: lucidità, speranza, impazienza. Convinto con Jameson che gli ultimi due decenni abbiano concluso nel postmodernismo il processo secolare della modernità, il secolo delle avanguardie, segnatura del moderno, le avanguardie contro cui aveva speso le sue migliori energie. La estetizzazione recente coincide con la fine del processo che la iniziò, questo l’orientamento storico critico di Extrema ratio. Impianto dell’età della estetizzazione una forma inferiore e volgare di spiritualità, a radice neoplatonica . E inquieta ritrovare qui il nome di Hölderlin mai più citato dagli anni del Politecnico se non di sfuggita né più tradotto a quel che a me risulta: Hölderlin e con lui Schelley, all’inizio della estetizzazione. Fortini osservava però come la rovina delle avanguardie avesse trascinato con sé anche ciò che gli si era opposto, il disegno di ispirazione lukacsiana conservativo del grande patrimonio classico esecutore ed erede il proletariato in lotta per il socialismo. Ma quanto poco del moderno sia abolito nel postmodernismo ognuno può vedere permanendo secondo evidenza del moderno l’essenziale. Come sia, la tesi di Fortini suona: «Dal manierismo universale non si esce con nuove forme, ma con nuovi rapporti di conflitto sociale». Richiamo di un lontano gesto elevato a norma fissata in un verso di commiato da suo padre, quando insieme ai compagni era uscito a cercare le strade bianche di Galilea. Fu così che l’impulso alla autobiografia che sempre ancora aveva accompagnato diari, riscritture, ordine espositivi, richiami interni fra componimenti e raccolte, l’autobiografia in Extrema ratio trovò il suo punto di gravitazione nel resoconto del suo ultimo viaggio in Palestina. Un luogo sacro titola la sezione centrale di Extrema ratio. E non sorprende che il picco del rendiconto sia tenuto dal pensiero dell’elezione e del messia e inseparabile da questi la Legge a congiungere la libertà e il rischio tragico della grazia. Coappartenersi di ebraismo e cristianesimo e, a cercare malleveria, qui riunite le erme del moderno e gli eredi di ebraismo e cristianesimo, Hegel e Kant. Si pronuncia a favore di Hegel Fortini perché in Hegel si dà libero corso alle collisioni di doveri e obbligazioni, cosa impossibile nella dottrina
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kantiana dei costumi. Per trovare infine in Hegel il suo Goethe, e di Faust il volere – volere il cambiamento e l’acquisto, il sorgere e il perire. Non conoscesse Fortini il senso di quel volere; non tinge agonismo lo stato d’animo faustiano? Non avessi trovato poche pagine avanti : «Ma non è forse quello che domando, una passione per la scelta in quanto tale invece che per i suoi contenuti?» Torna a mente la riserva di volontarismo sollevata agli amici separati Panzieri e i Quaderni Rossi, volontarismo o cos’altro richiama una decisione per la scelta che nel contenuto della scelta non trovi misura? Cosa ne è del vivente nel corso d’un sorgere e perire cui ora si dice sì? Sono mutate, come? le condizioni del conoscere e dell’agire? Sono ancora commensurabili volontà e potenza, o dove altrimenti ancorare la scelta? È più vicino alla radicalità esistenziale di Marcuse che ad Adorno Fortini. Al concreto dell›esistenza Hans Jurgen Krahl s›era volto per ripensare condizioni e cognizione di una prassi criticamene orientata. Qui, mentre Krahl tornava ad incontrare il suo maestro, l›intelligenza italiana prese altre strade, così è stato anche per Fortini; le strade di Galilea portavano altrove che sulla landa ghiacciata dell›astrazione dove Adorno e Krahl continuavano a questionare – maturata Adorno l›idea che lo stadio raggiunto dalla astrazione nella vita dei socializzati renda impossibile la prassi e in questo aggiornando la prognosi funesta per l’Occidente di Freud. Freud l’estremista, l’unico Freud disposto Adorno a prendere in considerazione. Non si trovarono d’accordo nelle aule e davanti ai microfoni del Sessantotto berlinese Krahl e Adorno. Krahl che pure riconosceva la minaccia manifesta nella oppressione reciproca fra socializzati. Minacciata la Koris, Koris il mantra di Adorno, l’apertura kantiana fra fenomeno e cosa in sé saturata da servitù involontaria, da Adorno per tempo presagita. La colonizzazione del noumeno rimessa a chiunque . Il postmodernismo di Ultima ratio è stato ed è solo manifestazione di ciò che ha bonificato fino a cancellarlo lo spazio dello spettatore, spazio cui Kant affidava il memorabile delle rivoluzione borghesi e che toglieva alla testimonianza il destinatario, la duplicità in ciascuno di cittadino e produttore. L’esercizio della mediazione – la mediazione, lo spazio fra il fenomeno e la verità in essa contenuta – non poteva uscirne illesa. E non basta l’evidenza degli uccisi, dei carcerati, delle vite offese, dei fumi del nuovo spiritualismo, non basta a muovere a nuove secessioni? I nuovi poveri, furono ben presto premiati con bonus, regalie e altre rassicurazioni, l’inconcludente approdo della signoria della merce danaro, destinata a decadere a misura che la merce sostanzi il behaviour e delle moltitudini faccia plebe.
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Nel non aver saputo distinguere fra la forma in essa incarnata e la nube in cui si è manifestata, si è consumata la dispersione della Nuova sinistra e con essa sono andate disperse le verità che Fortini ora raccomanda siano salvate. Nell’appello la ingratitudine trova in Fortini l’ultima figura nella fedeltà a se stesso, ingrato egli a sé. Le si cerchi, viene pure da dire, nel volto muto delle cose. E di lui ripetere quanto egli ha detto di Panzieri «... ha lasciato degli scritti, tutti lasceremo degli scritti, ma la nostra verità, se una verità abbiamo attinto, è stata detta quasi per caso, in margine.» Una volta ho sentito Giacomo Magrini, lamentava che Mondadori al primo volume dei Meridiani dedicato al Fortini saggista non facesse seguire il volume delle poesie, cosa poi ottenuta in collana di minor prestigio e di non minore cura, in quella occasione ho sentito Magrini assegnare la palma al poeta rispetto al saggista. Sono propenso a dargli ragione. Ma alla stessa spina si sono alimentate le verità del saggista e quelle del poeta; non mescolando però, il contenuto dell’una testimonia per le verità dell’altra e dove esse si sfiorino si continuerà a cercare una verità che a Fortini per certo dobbiamo, la verità del comunismo come uso formale della vita. «Finché ci sarà un uomo da sacrificare per tutto il popolo». Sono le parole che chiudono il resoconto d›un lontano viaggio in fabbrica nella Milano della nuova Italia. E soccorra le mestizie di Estrema ratio la sobrietà di chi ha scritto di un sabbiatore, profezia e come deve essere ammonimento.
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Traiettorie Operaiste
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Nuova Sinistra e operaismo: le origini intellettuali del Sessantotto italiano Michele Filippini
1. Il movimento, la politica, la teoria Se si dovesse scegliere la più rilevante tra le particolarità del Sessantotto italiano rispetto al ciclo globale di mobilitazioni di quell’anno, questa sarebbe probabilmente la sua durata. La stessa storiografia ha ripetutamente identificato come “lungo ’68” il decennio successivo a quell’evento, sottolineando più che la ripetizione – assai diverse sono infatti le fasi, le pratiche, i protagonisti – una specie di effetto a catena che permette di risalire a quella rottura per spiegare le profonde trasformazioni ideologiche, culturali e politiche avvenute in Italia negli anni ’701. Quella rottura aveva però avuto nel decennio precedente un periodo di incubazione caratterizzato dall’accumularsi di fenomeni nuovi – lo sviluppo economico accelerato, la scolarizzazione crescente, l’emigrazione dal sud al nord del paese – che avevano creato contraddizioni e conflitti. Ha quindi qualche ragione chi fa risalire l’origine della rottura sessantottina al protagonismo giovanile nella rivolta del luglio ’60 contro il governo Tambroni, alla ripresa del conflitto operaio con gli elettromeccanici a cavallo tra il ’60 e il ’61, ai tumulti di Piazza Statuto contro la Uil del ’62 o alla grande stagione di lotta per i rinnovi contrattuali degli anni 1962-632. Cfr. Guido Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2005, pp. 217-604; Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi: società e politica 1943-1988, Torino, Einaudi, 1999, pp. 404-545; Marcello Flores, Alberto De Bernardi, Il Sessantotto, Bologna, Il Mulino, 1998; Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro, 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Milano, Feltrinelli, 1997; Marco Revelli, Movimenti sociali e spazio politico, in Storia dell’Italia Repubblicana, vol. 2: La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, Torino, Einaudi, 1995, 385-476; Sidney Tarrow, Democrazia e disordine: movimenti di protesta e politica in Italia, 1965-1975, Roma, Laterza, 1990; Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Roma, Editori riuniti, 1988. 1
Cfr. Carmelo Adagio, Rocco Cerrato, Simona Urso (a cura di), Il lungo decennio: l’Italia prima del 68, Verona, Cierre, 1999. Nel decennio del boom economico (1954-1963) 2
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Anche dal punto di vista delle mobilitazioni studentesche, le prime occupazioni universitarie si hanno in Italia in anticipo rispetto al trend internazionale: già nel ’66 alla Sapienza di Roma (dopo la morte dello studente Paolo Rossi) e a Sociologia a Trento (per il riconoscimento della nuova laurea); nel ’67 la Cattolica a Milano, Palazzo Campana a Torino, la Statale a Pisa, ancora Trento, poi Napoli, Venezia, Milano Statale e Architettura. Il movimento dura poi a lungo anche dopo l’anno degli studenti3, scomponendosi e ricomponendosi all’interno dei nuovi gruppi extraparlamentari e attraverso esperienze più o meno fortunate di collegamento con i lavoratori (in particolare a Torino) di nuovo in lotta dall’autunno ’69. Seguendo lo stesso frame ricostruttivo fatto di anticipazioni e di effetti duraturi, anche dal punto di vista politico il Sessantotto rimanda a mutamenti sostanziali lungo un arco di tempo esteso. Due eventi in particolare segnano la rottura con il conformismo degli anni ’50: da una parte la reazione della Cgil alla sconfitta senza precedenti della Fiom alle elezioni per le commissioni interne della Fiat nel ’554; dall’altra la crisi dell’intellettualità di sinistra nel ’56 dopo il rapporto Krusciov di denuncia dello stalinismo al XX congresso del Pcus e la repressione della rivolta ungherese5. Questi il reddito nazionale raddoppia e nel 1963, grazie alle lotte operaie, i salari crescono per la prima volta più della produttività del lavoro (cfr. G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 13). Nel ’62 si raggiunge il numero massimo di ore di sciopero, superato solo nell’anno dell’autunno caldo, il 1969 (cfr. S. Tarrow, Democrazia e disordine, cit., p. 155). Tarrow fa iniziare il decennio delle contestazioni nel 1965 e lo chiude nel 1975: «Il ciclo italiano iniziò prima, durò più a lungo e influenzò la società e la politica più profondamente di quello francese» (Ivi, p. 7). Si tratta del titolo di un libro di Rossana Rossanda, allora responsabile della politica culturale del Pci, uscito in quello stesso anno a ridosso degli avvenimenti e recentemente ripubblicato: Rossana Rossanda, L’anno degli studenti, Roma, manifestolibri, 2018. 3
«C’è chi pensa a una maestranza Fiat ormai perduta, ormai comprata. La Cgil e il Pci danno ragione agli operai e non attribuiscono la colpa solo alle pressioni del padrone: se ne accollano una parte consistente. Questa autocritica qualifica il movimento operaio italiano in un periodo nel quale, altrove, il procedimento è piuttosto raro. L’autocritica fa giustizia del comodo ricorso alla teoria dell’aristocrazia operaia, e riconosce che non i lavoratori si sono allontanati dall’organizzazione operaia bensì questa si è staccata dalla realtà della loro condizione di fabbrica» (Aris Accornero, Per una nuova fase di studi sul movimento sindacale, in A. Accornero, Alessandro Pizzorno, Bruno Trentin, Mario Tronti, Movimento sindacale e società italiana, Milano, Feltrinelli, 1977, pp. 32-33). 4
5 Cfr. Nello Ajello, Intellettuali e Pci, 1944-1958, Roma-Bari, Laterza, 1979, pp. 397452 e, da due punti di vista opposti, Giuseppe Vacca (a cura di), Gli intellettuali di sinistra e la crisi del 1956, Roma, Editori riuniti-Rinascita, 1978 e Romano Luperini, Marxismo e intellettuali, Venezia-Padova, Marsilio, 1974.
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due eventi, uno sindacale e uno politico, provocano nella seconda metà degli anni ’50 due reazioni diverse, entrambe decisive per le sorti del “lungo ’68”. Sul fronte sindacale la Cgil rivede il suo modello centralistico, apre alla contrattazione articolata e si pone l’obiettivo di una presenza in fabbrica per avere un contatto diretto con gli operai, con i loro nuovi bisogni e rivendicazioni. È qui che si allenta il collateralismo politico (o meglio la subalternità politica al Pci) e nascono i primi germi dell’autonomia sindacale, nella direzione di quel sindacato di classe che, con tutti i suoi ritardi e le sue contraddizioni, sarà comunque la struttura portante dei due cicli successivi di lotta operaia, quello dei primi anni ’60 e quello del ’696. Sul fronte dei partiti lo choc della denuncia dello stalinismo, ma soprattutto quello creato dall’invasione dell’Ungheria nel ’56 da parte dell’esercito sovietico, non produce invece un’apertura, ma piuttosto un irrigidimento del Pci a difesa del legame con l’Urss e con esso dell’impostazione politico-culturale che Togliatti aveva dato al partito sin dal ’447. Oltre all’allontanamento di molti intellettuali dal partito quest’evento segna, almeno simbolicamente, la data di nascita di un’opposizione a sinistra del Pci (come anche all’interno del Pci): uno spazio politico che fino ad allora era stato occupato dal bordighismo, dal trotskismo e dall’anarchismo, tendenze che nei primi anni dal dopoguerra erano state sconfitte e marginalizzate dalla costruzione del partito nuovo togliattiano. Quest’area di dissenso politico-culturale, che nella seconda metà degli anni ’50 ha contorni labili e nessuna organizzazione, faticherà molto a trovare un autonomo protagonismo politico, riuscendo a organizzarsi, sia fuori sia dentro i due principali partiti del movimento operaio, solo dopo la parentesi del centro-sinistra e la morte di Togliatti8. Negli stessi anni, in particolare dalle elezioni del ’58 che segnano la fine del centrismo, inizia il lento e accidentato percorso di avvicinamento tra Dc Cfr. A. Accornero, La parabola del sindacato, Bologna, Il Mulino, 1992; A. Pizzorno, Le due logiche dell’azione di classe, in A. Pizzorno, Emilio Reyneri, Marino Regini, Ida Regalia, Lotte operaie e sindacato: il ciclo 1968-1972 in Italia, Bologna, Il Mulino, 1978, pp. 22-43. 6
Cfr. Ennio Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani (1943-1953), Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1986; Antonio Gambino, Storia del dopoguerra dalla liberazione al potere Dc, Roma-Bari, Laterza, 1975. 7
All’interno dei partiti, per il Pci si veda la parabola di Pietro Ingrao e la definitiva emersione del dissenso all’XI Congresso del 1966 (P. Ingrao, Volevo la luna, Torino, Einaudi, 2006), per il Psi si veda invece la vicenda di Lelio Basso (Chiara Giorgi, Un socialista del Novecento: uguaglianza, libertà e diritti nel percorso di Lelio Basso, Roma, Carocci, 2015). All’esterno invece il Pci riesce a mantenere presidiata elettoralmente la sua sinistra, mentre il Psi subisce la scissione del Psiup nel 1964. 8
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e Psi, che all’inizio degli anni ’60 produrrà la stagione del centro-sinistra. Anche questo graduale spostamento dell’asse politico del paese è tra i fattori che concorrono a creare le condizioni per il “lungo ’68”, da una parte come effetto delle politiche di apertura del centro-sinistra – nel Sessantotto, ad esempio, le scuole superiori sono già piene dei ragazzi che hanno frequentato la scuola media unificata istituita dal governo di centro-sinistra nel ’639 –, dall’altro come risentimento per la timidezza di queste stesse riforme e come insoddisfazione rispetto alle promesse di emancipazione che questa stagione aveva creato – non a caso il movimento studentesco crescerà grazie all’opposizione alla legge Gui sull’università. Dal punto di vista della teoria, infine, il ’56 segna, con il distacco di una parte dell’intellettualità di sinistra dal Pci, l’apertura definitiva di un campo di sperimentazione che nei due decenni successivi innoverà la teoria marxista e la letteratura, la filosofia e la sociologia, la pedagogia e la psichiatria, alimentando il Sessantotto e i movimenti successivi e da questi venendo alimentato. Nel primo decennio della Repubblica la continuità dello Stato10 non era stata infatti solo quella della macchina amministrativa, ma anche quella della cultura diffusa, impregnata di conformismo e moderatismo, che nel campo del Pci si rifletteva in un’opposizione fatta di centralismo interno e di strenua difesa esterna da un anticomunismo derivato da «corpose e arcaiche culture reazionarie»11. Il fatto epocale dell’inizio degli anni ’60, che trova tutta la sua cogenza nel Sessantotto e nel decennio che lo segue, è quindi la rottura prima timida, poi tumultuosa, poi ancora irriverente e infine anche violenta di un immaginario conservatore che impregnava tanto il senso comune quanto la prassi istituzionale, politica, sociale e culturale del paese. In questi anni la letteratura vede l’emergere della neoavanguardia, il marxismo dell’operaismo, la filosofia viene investita dalla crisi dei fondamenti, la psichiatria viene sfidata dall’anti-psichiatria, dal (e contro il) movimento nasce una stagione di pensiero e di pratica femminista12. Il ritardo che la cultura «Gli alunni delle medie superiori sono poco più di 400.000 nel 1951, 760.000 nel 1960 e più di 1.400.000 nel 1967» (G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 203). 9
Il riferimento è al noto volume di Claudio Pavone, che evidenzia la continuità amministrativa tra lo stato fascista e quello repubblicano: C. Pavone, Alle origini della Repubblica: scritti su fascismo, antifascismo e continuità dello Stato, Torino, Bollati Boringhieri, 1995. 10
G. Crainz, Il paese mancato, cit., p. 4. Si veda l’esemplare ricostruzione di Franco Fortini, Il senno di poi, in F. Fortini, Dieci inverni 1947-1957, Macerata, Quodlibet, 2018, pp. 27-51. 11
Sulla neo-avanguardia si veda R. Luperini, Marxismo e intellettuali, cit.; sull’operaismo Giuseppe Trotta, Fabio Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta. Da «Quaderni rossi» a «classe operaia», Roma, Deriveapprodi, 2008; sulla filosofia Dario Gentili (a 12
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italiana aveva accumulato rispetto alle correnti maggiori della cultura mondiale – dovuto prima al ventennio fascista di isolamento, poi al conformismo dell’Italia degli anni ’50 – nei due decenni successivi viene recuperato vorticosamente, con un effetto di spiazzamento dato dall’accelerazione che è probabilmente alla base della ricchezza sperimentale di questa stagione13. Queste tre dimensioni – le mobilitazioni studentesche e operaie, l’emergere di nuovi equilibri politici, lo sperimentalismo e la “Nuova Sinistra” – si richiamano chiaramente l’una all’altra e finiscono necessariamente per spiegarsi a vicenda. Non è quindi da un punto di vista causale che si possono ricostruire le traiettorie, le rotture e le innovazioni di quella stagione. Appare invece più fecondo un punto di vista che sappia tenere insieme le diverse dimensioni del “lungo ’68” e che ambisca a riportare l’ampiezza del fenomeno.
2. L’eredità degli anni ’50: Vittorini, Fortini e l’“altra linea” Nell’immediato dopoguerra un tentativo di apertura della cultura di sinistra a quelle correnti di pensiero “moderne” che erano emerse nei paesi a capitalismo avanzato (in particolare negli Usa) in realtà era stato fatto. «Il Politecnico», rivista diretta da Elio Vittorini e pubblicata dal settembre ’45 al dicembre ’47, pur in modo eclettico e disordinato, si proponeva infatti come uno spazio dove continuare “con altri mezzi” quella battaglia di rinnovamento che era stata la Resistenza e che aveva visto, evento raro nella storia italiana, un incontro tra ceti popolari, intellettuali progressisti borghesi e quadri politici dei partiti di sinistra. Così scrive Franco Fortini qualche anno dopo la chiusura della rivista: «Il Politecnico», almeno in un primo momento, si proponeva di rivolgere agli intellettuali dell’antifascismo, alla frazione radicale della borghesia e a quei lavoratori che la Resistenza aveva presentati alla responsabilità politica, un discorso complesso dove l’informazione (e la divulgazione) di tutti i risultati di quella cultura contemporanea dalla quale il fascismo aveva tenucura di), La crisi del politico. Antologia de “il Centauro”, Napoli, Guida, 2007; sulla psichiatria il libro simbolo esce proprio nel ’68, Franco Basaglia, L’istituzione negata: rapporto da un ospedale psichiatrico, Milano, Baldini & Castoldi, 2014; sul femminismo Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel e altri scritti, Milano, Et al., 2010. 13 Fortini faceva risalire questo «svantaggio» della cultura socialista italiana proprio «al fatto di non aver vissuto direttamente in tutte le sue fasi la grande querelle moderna fra comunismo e pensiero rivoluzionario non stalinista» F. Fortini, Che cosa è stato «Il Politecnico», in F. Fortini, Dieci inverni 1947-1957, p. 74; cfr. anche N. Ajello, Intellettuali e Pci, 1944-1958, cit., pp. 113-137.
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to lontani quasi tutti gli italiani, fosse, per metodo, linguaggio e correlazione di soluzioni e problemi, una proposta o fondazione di “cultura nuova”14.
La fine di questa esperienza è nota: una polemica pubblica con la dirigenza del Pci (con articoli dello stesso Togliatti) che si avvita nella rivendicazione per entrambe le parti della “primazia” della politica o della cultura15. Togliatti agiva allora in un contesto di progressiva marginalizzazione del Pci (era stato appena varato il terzo Governo De Gasperi con l’estromissione delle sinistre, iniziava la guerra fredda) e preparava una fase difensiva del movimento all’interno della quale i ranghi, anche quelli culturali, dovevano rimanere serrati per reggere l’urto dell’avversario. Vittorini, dal canto suo, «invece di […] affermare che, sì, la richiesta di indipendenza della ricerca letteraria è una richiesta politica, […] finiva col formulare la richiesta “corporativa” della libertà della letteratura»16. Frutto di una stagione che si andava chiudendo, quella dell’unità antifascista e del vento del nord rinnovatore, «Il Politecnico» non trova quindi spazio nel nuovo contesto della ricostruzione caratterizzato dalla “missione nazionale” del Pci che implica moderatismo politico e ortodossia culturale. Da allora, per almeno un decennio, la vita culturale a sinistra sarà caratterizzata da quella gran bonaccia delle Antille immortalata da Calvino in un celebre racconto satirico nel ’5717. 14
F. Fortini, Che cosa è stato «Il Politecnico», cit., p. 57.
Fausto Lupetti, Nino Recupero, La polemica Vittorini-Togliatti e la linea culturale del Pci nel 1945-47, Milano, Lavoro liberato, 1974. Togliatti accusava la rivista di avere «una strana tendenza a una specie di “cultura” enciclopedica, dove una ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente, prendeva il posto della scelta e dell’indagine coerenti con un obiettivo, e la notizia, l’informazione… sopraffaceva il pensiero» («Rinascita», ottobre 1946); Vittorini rispondeva: «vedo la tendenza a riconoscere come rivoluzionaria la letteratura di chi suona il piffero per la rivoluzione» («Il Politecnico», 35, 1947). 15
F. Fortini, Che cosa è stato «Il Politecnico», cit., p. 71. La polemica Togliatti-Vittorini fissa il canone della discussione sul rapporto politica/cultura per i successivi 15 anni: autonomia della cultura dalla politica ma sua ininfluenza, ruolo critico degli intellettuali ma all’interno del mandato di preservare i “valori più alti”, la cultura al potere solo come zdanovismo. Per una critica a questa visione, poi sostanzialmente assunta negli anni ’60 dal marxismo ortodosso italiano, cfr. R. Luperini, Politica culturale del Pci e limiti del marxismo critico e di quello dogmatico, in R. Luperini., Marxismo e intellettuali, cit., pp. 137-146. 16
17 «Il capitano aveva spiegato che la vera battaglia navale era quello star lì fermi guardandoci, tenendoci pronti, ristudiando i piani delle grandi battaglie navali di Sua Maestà Britannica, e il regolamento del maneggio delle vele e il manuale del perfetto timoniere, e le istruzioni per l’uso delle colubrine, perché le regole della flotta dell’ammiraglio Drake restavano in tutto e per tutto le regole della flotta dell’ammiraglio Drake: se si cominciava
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Gli anni dal ’48 al ’56, dal punto di vista della cultura critica impegnata politicamente, rappresentano quindi un lungo inverno, dove la sopravvivenza di voci dissonanti è garantita solamente da alcune riviste come «Discussioni» (1950-53, Guiducci, Solmi, Fortini), «Movimento operaio» (soprattutto dal ’49 al ’52 sotto la direzione di Gianni Bosio), «Ragionamenti» (’55-’58, Amodio, Fortini, Guiducci, Momigliano, Pizzorno)18. È il trauma del ’56, come abbiamo visto, a rimettere in moto un duplice processo di sperimentazione teorica e di lotta politica che si materializza prepotentemente negli anni successivi: la prima attraverso la stagione delle riviste autonome degli anni ’60, la seconda con la ripresa del conflitto operaio. Questa rinascita di teoria e di lotte non viene però dal nulla; al contrario, essa si innesta su una serie di tradizioni sotterranee, tra di loro anche molto diverse, che nel lungo inverno avevano continuato a vivere ai margini del movimento operaio. Si tratta di un sottobosco in realtà limitato e quasi clandestino di personaggi eterodossi e radicali, il cui lavoro avrà un ruolo di preparazione/anticipazione del Sessantotto, pur non determinandolo, e che costituirà una delle basi sulle quali si agganceranno gran parte delle innovazioni teoriche del decennio ’68-’77, influenzando la cultura italiana per i decenni successivi. Personaggi come Franco Fortini, Gianni Bosio, Danilo Montaldi, Raniero Panzieri, ma anche Franco Basaglia, Luciano Bianciardi, Danilo Dolci, Don Milani. Si tratta in parte di quell’“altra linea”, o “altra storia” descritta da Attilio Mangano e Stefano Merli19 che si era sempre situata alla sinistra del Pci e del Psi (sia dentro che fuori questi due partiti), in parte di un cerchio più ampio di dissenso (compreso quello cattolico) che aveva trovato nella critica radicale alle istituzioni nazionali – la scuola, il manicomio, l’industria culturale – una via per opporsi al conformismo che in quegli anni aveva la faccia tanto della Dc quanto del Pci. a cambiare non si sapeva dove…» (Italo Calvino, La gran bonaccia delle Antille, in Romanzi e racconti, Vol. 3, Milano, Meridiani Mondadori, 1994, pp. 223). 18 Tra il marzo e il luglio ’56, dopo un intervento critico di Roberto Guiducci sui limiti e le chiusure della cultura di sinistra, si apre su “Il Contemporaneo” un primo dibattito: «Si propose finalmente di studiare i principi primi delle armi dell’avversario quando esse già sparavano all’impazzata facendo vuoti nel proprio schieramento» (Roberto Guiducci, Sul disgelo e l’apertura culturale, in R. Guiducci, Socialismo e verità, Torino, Einaudi, 1976, pp. 40-41). 19 Attilio Mangano, L’altra linea: Fortini, Bosio, Montaldi, Panzieri e la nuova Sinistra, Catanzaro, Pullano, 1992; Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Milano, Feltrinelli, 1977. Cfr. anche, sugli intellettuali del Psi, Mariamargherita Scotti, Da sinistra. Intellettuali, Partito socialista italiano e organizzazione della cultura (1953-1960), Roma, Ediesse, 2011.
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Se Fortini20 ha il merito di mantenere aperta la ricerca di un rapporto tra politica e cultura diverso da quello prefigurato dallo zdanovismo – ovvero la partiticità della cultura – nella speranza di un’uscita a sinistra dallo stalinismo che permetta di rivendicare un legame con la prima garantendo autonomia e pluralismo alla seconda, Gianni Bosio21 dispiega già dalla fine degli anni ’40 un’intensa attività di ricostruzione delle culture politiche e delle forme organizzative del proletariato italiano, in netta contrapposizione alla narrazione nazionale-popolare del Pci. Danilo Montaldi22 è invece il primo a mostrare gli effetti della modernizzazione capitalistica in agricoltura, dipingendo un affresco delle campagne cremonesi abitate non più da contadini che aspirano all’appezzamento di terra per diventare piccoli proprietari ma da lavoratori salariati che lottano per migliorare le proprie condizioni di lavoro.
3. La rottura teorica: Panzieri e Tronti La figura più importante di quest’area eretica e radicale è però quella di Raniero Panzieri, personalità di straordinaria vivacità intellettuale nonché quadro della sinistra morandiana del Psi sin dal dopoguerra23. Panzieri, tra gli anni ’40 e ’50, lavora con De Martino a Bari e con Della Volpe a Messina per poi stabilirsi a Roma con incarichi importanti come quello di responsabile per la stampa e la propaganda del partito24. Il suo è un socialismo libertario interessato più ai comportamenti della classe che a quelli del partito, che quindi mal si concilia tanto con la linea politica nenniana quanto con il politicismo della corrente di sinistra nella quale milita. Per questo motivo, soprattutto F. Fortini, Dieci inverni 1947-1957, cit.; F. Fortini, Verifica dei poteri: scritti di critica e di istituzioni letterarie, Milano, Il Saggiatore, 1965. 20
21 Gianni Bosio, L’intellettuale rovesciato: interventi e ricerche sulla emergenza d’interesse verso le forme di espressione e di organizzazione spontanee nel mondo popolare e proletario, Milano, Del Gallo, 1967; si veda anche il lavoro culturale svolto con la rivista «Movimento operaio» fondata nel ’49 e con l’Istituto De Martino fondato nel ’66.
Franco Alasia, Danilo Montaldi, Milano, Corea: inchiesta sugli immigrati, Milano, Feltrinelli, 1960; D. Montaldi, Autobiografia della leggera, Torino, Einaudi, 1961; si veda anche il successivo Militanti politici di base, Torino, Einaudi, 1971. 22
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Cfr. Aldo Agosti, Rodolfo Morandi: il pensiero e l’azione politica, Bari, Laterza, 1971.
Cfr. Paolo Ferrero (a cura di), Raniero Panzieri: un uomo di frontiera, Milano, Punto rosso, 2005; A. Mangano, L’altra linea, cit., pp. 75-121; Sandro Mancini, Socialismo e democrazia diretta: introduzione a Raniero Panzieri, Bari, Dedalo, 1977; Mario Alcaro, Dellavolpismo e nuova sinistra, Bari, Dedalo, 1977, pp. 181-211. 24
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a partire dal congresso di Venezia, Panzieri inizia un graduale distacco dai ruoli politici, preferendo nel ’57 la direzione della rivista teorica del partito, «Mondo operaio», sulla quale l’anno seguente pubblica, insieme a Lucio Libertini, le Sette tesi sul controllo operaio, che possono essere considerate la prima sfida “operaista” alla cultura politica, ma soprattutto alla linea politica dei due principali partiti del movimento operaio25. Con la pubblicazione delle Tesi, a cui segue un acceso dibattito26, viene infatti esplicitata l’opzione del controllo operaio: una proposta politica che parte dall’idea che lotta salariale e lotta generale non debbano più essere pensate separatamente, come invece presupponevano entrambe le strategie, riformista del Psi e leninista-stalinista del Pci, ma agite insieme nel conflitto di fabbrica. Scriverà Libertini qualche anno dopo: la classe operaia – e più precisamente gli strati più avanzati di essa – vanno acquistando consapevolezza che qualunque aumento salariale, o miglioramento normativo, o miglioramento delle stesse condizioni del potere scritte nei contratti viene regolarmente assorbito dal padronato, soprattutto nella industria moderna, se alla battaglia contrattuale seguono lunghe pause di “pace sociale”, all’interno delle strutture produttive. Nell’ambito della “pace sociale”, ovviamente gestita dal padronato, è facile annullare i vantaggi e diritti conseguiti dagli operai attraverso modifiche della organizzazione produttiva, variazione dei ritmi, ricambio e dequalificazione della forza-lavoro, ecc. […]. Articolazione e generalizzazione sono momenti dialettici di una strategia. Il vero problema sta più avanti, ed è la scelta tra una lotta a direzione delegata, che nasce e si conclude all’esterno della fabbrica, e lascia vuoti riempiti dalla incontestata gestione padronale, e una continua lotta e contestazione che si esercita all’interno della produzione e dalla quale cresca di continuo un contropotere27. 25 Raniero Panzieri, Lucio Libertini, Sette Tesi sulla questione del controllo operaio, in «Mondo operaio», 2, 1958 (ora in R. Panzieri, Dopo Stalin. Una stagione della sinistra 19561959, Marsilio, Venezia, 1986, pp. 83-95). Che si tratti di un modo nuovo di impostare il lavoro intellettuale lo dimostra anche il dissidio tra Fortini e Panzieri alla fine del ’57, il primo ancora legato a una visione della cultura “impegnata”, sul modello sartriano, il secondo che si disinteressa della battaglia culturale nel partito per rivolgere la propria attenzione all’indagine sociologica dei comportamenti operai nel neocapitalismo (cfr. Id, Lettere 1940-1964, Venezia, Marsilio, 1987, pp. xxxiii-xxxiv).
Ora raccolto in L. Libertini (a cura di), La sinistra e il controllo operaio, Milano, Feltrinelli, 1969. Cfr. anche A. Mangano, L’altra linea, cit., pp. 89-95 e S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta, cit., pp. 53-59. 26
L. Libertini, Introduzione, in L. Libertini (a cura di), La sinistra e il controllo operaio, cit., pp. 16-17. 27
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Che il potere potesse crescere in fabbrica era una novità per la tradizione marxista italiana, che proprio sui limiti del biennio rosso aveva costruito, attraverso la riflessione gramsciana28, l’azione politica come azione nello Stato attraverso il partito. Le Tesi riprendevano invece dalla tradizione consiliarista l’idea che «gli istituti del potere proletario devono formarsi non già dopo il salto rivoluzionario, ma nel corso stesso di tutta la lotta del movimento operaio per il potere»29. Questa insistenza sulla fabbrica come “luogo del potere” coesiste ancora in questo testo con un elemento classico delle letture ortodosse dei partiti del movimento operaio: una visione positiva e oggettiva dello sviluppo che legge l’arretratezza italiana come frutto del mancato ammodernamento dovuto alla presenza dei monopoli. Di lì a un anno anche questo aspetto di subalternità all’ideologia dello sviluppo capitalistico si rovescerà nella critica al neocapitalismo, un neologismo coniato in quegli anni per identificare il nuovo sviluppo capitalistico e le ideologie che esaltano l’integrazione della classe operaia al suo interno. È infatti il ’59 l’anno della svolta definitiva per Panzieri: ad aprile si trasferisce a Torino per lavorare all’Einaudi, a settembre rompe con Libertini – che punta a una battaglia egemonica all’interno del Psi – per iniziare un lavoro esterno al partito di critica ideologica e ricerca teorica, e già nel febbraio ’60 organizza riunioni con Tronti e il cosiddetto “gruppo romano” (Asor Rosa, Coldagelli, Di Leo, Accornero) per impostare un “lavoro politico autonomo” da cui nasceranno l’anno successivo i «Quaderni rossi», la rivista più importante di quegli anni. Mario Tronti nel ’59 ha 28 anni, dieci in meno di Panzieri, e ha militato nel Pci togliattiano fino al ’56 per poi avvicinarsi alla corrente del marxismo scientifico antistoricista capeggiata da Galvano Della Volpe e ben rappresentata alla Sapienza, dove Tronti è segretario della cellula comunista universitaria, da Lucio Colletti30. I «Quaderni rossi» sanciscono quindi l’incontro di due anime diverse dell’eterodossia operaia degli anni ’60 – quella socialista rivoluzionaria antistaliCfr. Michele Filippini, Una politica di massa: Antonio Gramsci e la rivoluzione della società, Roma, Carocci, 2015. 28
29
R. Panzieri, L. Libertini, Sette Tesi sulla questione del controllo operaio, cit., p. 110.
Tronti nel 1959 aveva già pubblicato due saggi su Gramsci e la tradizione del marxismo italiano che avevano avuto una certa eco: M. Tronti, Alcune questioni intorno al marxismo di Gramsci, in Istituto Gramsci (a cura di), Studi gramsciani, Roma, Editori Riuniti, 1958, pp. 305-21; M. Tronti., Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi. Gramsci e Labriola, in Alberto Caracciolo, Gianni Scalia (a cura di), La città futura. Saggi sulla figura e il pensiero di Antonio Gramsci, Milano, Feltrinelli, 1959, pp. 139-86 (ora in M. Tronti, Il demone della politica: antologia di scritti 1958-2015, a cura di M. Cavalleri, M. Filippini, J.M.H. Mascat, Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 67-94). 30
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nista e quella comunista classista antistoricista – , entrambe interessate alle potenzialità rivoluzionarie della nuova composizione di classe dell’Italia del boom economico, caratterizzata dall’emergere di una forza-lavoro dequalificata che adotta specifiche strategie di rifiuto del lavoro ed esprime il proprio antagonismo in forme nuove, come durante la rivolta di Piazza Statuto a Torino l’8 luglio ’62. I contributi di Panzieri e Tronti all’inizio degli anni ’60 interrompono quindi una lunga consuetudine di discorso produttivista e subalterno allo sviluppo capitalistico che aveva caratterizzato il Pci e la Cgil (ma anche il Psi) fin dalla ricostruzione31. Si tratta di un periodo molto breve – dal ’59 con la preparazione dei «Quaderni rossi» al ’64 con uscita di «classe operaia» e la morte di Panzieri – nel quale il corpus di innovazioni teoriche che i due riescono a produrre e a socializzare è ampio, va in profondità e forgia quei «prototipi mentali» di cui ha parlato Sergio Bologna, attraverso un numero tutto sommato contenuto di testi che hanno «tracciato un solco dal quale è difficile scostarsi ancora oggi»32. La rottura tra i due nei primi mesi del ’6333 – che si crea su una precisa richiesta politica, quella di Tronti di un 31
Cfr. A. Accornero, Per una nuova fase di studi sul movimento sindacale, cit., pp. 71-98.
Sergio Bologna, L’operaismo italiano, in Pier Paolo Poggio (a cura di), L’altronovecento: comunismo eretico e pensiero critico, Vol. 2: Il sistema e i movimenti. Europa 1945-1989, Milano, Jaca Book, 2011, p. 205. Il gruppo redazionale dei «Quaderni rossi» è di eccezionale qualità e l’area culturale coinvolta è sicuramente molto più ampia, ma è difficilmente confutabile il fatto che le innovazioni teoriche sulle quali i contributi poggiano venivano elaborate negli scritti di Panzieri e Tronti: cfr. D. Gentili, Italian Theory: dall’operaismo alla biopolitica, Bologna, Il Mulino, 2012, pp. 33-60; G. Trotta, F. Milana (eds), L’operaismo degli anni Sessanta, cit., pp. 63-316; R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei «Quaderni rossi» 1959-1964, Pisa, Bfs edizioni, 1994; Stefano Merli, Teoria e impegno nel modello Panzieri, in R. Panzieri, Lettere 1940-1964, cit., pp. vii-xlix. 32
33 Per descrivere questa rottura viene spesso riportato un passo dell’intervento di Panzieri alla riunione del gruppo torinese dei «Quaderni rossi» dell’agosto ’63: «Il discorso di Mario Tronti alla “Lega marxista” è per me un riassunto affascinante di tutta una serie di errori che in questo momento può commettere una sinistra operaia. È affascinante perché è molto hegeliano, in senso originale, come nuovo modo di rivivere una filosofia della storia. Ma è appunto una filosofia della storia, una filosofia della classe operaia» (R. Panzieri, Non mistificare le sconfitte in successi, in R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione, cit., p. 117). Va però anche tenuto conto che solo qualche mese prima, a una lettera di Tronti che sollecitava un’«esperienza pratica», Panzieri rispondeva: «alla tua lettera con le proposte romane non si risponde, si esegue» (R. Panzieri, Lettere 1940-1964, cit., p. 376), e che nemmeno un anno prima il giudizio di Panzieri su Tronti fosse il seguente: «è del tutto evidente che egli è l’unico pensatore marxista di cui si abbia conoscenza ai nostri giorni» (lettera ad Alberto Asor Rosa, in R. Panzieri, Lettere 1940-1964, cit. p. 330).
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intervento diretto nelle lotte, e che ha alla base un dissidio su un punto teorico specifico, la precedenza logica che Tronti assegna alla classe operaia sul capitale – non deve trarre in inganno rispetto a una serie di assunti teorici elaborati in comune che costituiscono le basi di quello che verrà chiamato, inizialmente in senso dispregiativo, operaismo34. La prima messa in discussione dell’ordine del discorso produttivista avviene, come succede sempre nello stile dei due, tramite la riscoperta di un testo marxiano, quel Frammento sulle macchine dei Grundrisse tradotto per la prima volta nel n. 4 dei «Quaderni rossi»35. In Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo Panzieri ribalta l’idea secondo la quale lo sviluppo tecnico avvicini la liberazione del lavoro, sostenendo invece che la razionalizzazione capitalistica non faccia altro che aumentare il dispotismo del capitale: l’uso capitalistico delle macchine non è, per così dire, la semplice distorsione o deviazione da uno sviluppo “oggettivo” in se stesso razionale, ma esso determina lo sviluppo tecnologico […], di fronte all’operaio individuale “svuotato”, lo sviluppo tecnologico si manifesta come sviluppo del capitalismo […], coincide con l’incessante aumento dell’autorità del capitalista […], [con] lo sviluppo del piano come dispotismo36.
Le possibilità rivoluzionarie non sono quindi legate allo sviluppo dei processi di razionalizzazione, ma alla crescente “insubordinazione operaia” suscitata dall’intensificarsi del dominio. Fissato questo punto, è chiaro come la rottura del sistema possa avvenire più facilmente nei punti di più alto sviluppo: «la forza eversiva della classe operaia, la sua capacità rivoluzionaria si presenta (potenzialmente) più forte precisamente nei “punti di sviluppo” del capitalismo, laddove il rapporto schiacciante del capitale costante sul lavoro vivente, con la razionalità in quello incorporata, pone immediatamente alla Tronti rivendica sin da subito l’appellativo: «L’operaismo può anche essere un pericolo reale, quando gli operai salariati sono secca minoranza in mezzo alle classi lavoratrici. Ma dentro un processo che tende a ridurre ogni lavoratore ad operaio?» M. Tronti, Il piano del capitale, in Operai e capitale, Torino, Einaudi, 1966, p. 79. Sull’operaismo cfr. S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Roma, Edizioni Alegre, 2008; G. Trotta, F. Milana ( a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta, cit.; Antonio Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo, Verona, Ombre corte, 200. 34
Karl Marx, Frammento sulle macchine, trad. it. di R. Solmi, in «Quaderni rossi», 4, luglio 1964, pp. 289-300. 35
R. Panzieri, Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo, in Spontaneità e organizzazione, cit., p. 27. 36
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classe operaia la questione della sua schiavitù politica»37. Tronti, due anni più tardi, porrà la questione su un piano ancora più ambizioso: «dentro la società capitalistica in fondo il punto più alto dello sviluppo non è affatto il livello del capitale, il punto più alto dello sviluppo è la classe operaia, per cui probabilmente non è più vera la tesi di Marx secondo cui il capitale spiega tutto quello che c’è dietro, perché evidentemente c’è qualcosa oggi che spiega il capitale e che soltanto può spiegare il capitale, e che è appunto la classe operaia»38. La riflessione di Tronti in La fabbrica e la società, che vede l’estendersi dalla prima alla seconda della logica organizzativo-produttiva del capitalismo e che per questo sancisce la centralità della fabbrica come punto nevralgico di tutta l’organizzazione sociale, lo porterà a sviluppare il “punto di vista” come indicazione metodologica rivoluzionaria, espressa qui in un passo assai famoso dell’introduzione a Operai e capitale: la sintesi può essere oggi solo unilaterale, può essere solo consapevolmente scienza di classe, di una classe. Sulla base del capitale, il tutto può essere compreso solo dalla parte. La conoscenza è legata alla lotta. Conosce veramente chi veramente odia. Ecco perche la classe operaia può sapere e possedere tutto del capitale: perche è nemica perfino di se stessa in quanto capitale. Mentre i capitalisti trovano un limite insormontabile alla conoscenza della propria società, per il fatto stesso che devono difenderla e conservarla39.
Per entrambi questo antagonismo della classe operaia verso il capitale si concretizza nel rifiuto che la stessa classe operaia sviluppa rispetto alla propria posizione all’interno della produzione capitalistica; una produzione che, grazie alla catena di montaggio, è sempre più parcellizzata e nella quale il lavoro ripetitivo e intercambiabile dell’operaio massa ha perso quegli attributi di senso che l’operaio di mestiere ancora gli attribuiva: l’odio verso il capitale è quindi anche odio verso il proprio lavoro, che all’interno del meccanismo di produzione funziona come capitale variabile, riproducendo lo sfruttamento40. Infine, entrambi sottolineano il carattere politico del neocapita37
Ivi, p. 36.
38
M. Tronti, La rivoluzione copernicana, in Il demone della politica, cit., p. 124.
M. Tronti, La linea di condotta, in Il demone della politica, cit., p. 203. Il tema era comunque già stato formulato nell’articolo del 1961: «È questo un principio di metodo da utilizzare in modo permanente. Anche quando ci costringe a scegliere quella feroce unilateralità, che tanto terrore suscita nell’anima moderata di tanti “rivoluzionari di professione”» (M. Tronti, La fabbrica e la società, in Il demone della politica, cit., p. 115). 39
Su questo tema le formulazioni di Panzieri e Tronti convergono: «comporta il fatto che la classe operaia riconosca se stessa come capitale variabile per rifiutarsi come capitale varia40
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lismo, esemplificato dalla figura del «capitalista collettivo, funzionario del capitale complessivo sociale»41, che ha la necessità di programmare il proprio sviluppo, gestendo anche con la leva politica del rallentamento economico i conflitti che si innescano con quella sua parte interna che è sempre sfruttata ma mai sottomessa42, la classe operaia, alla quale si apre così la possibilità di influenzare politicamente lo sviluppo stesso del capitale43. Si può quindi dire che la centralità della fabbrica nel neocapitalismo rappresenti il contributo più importante di Panzieri all’operaismo, mentre quello di Tronti sia l’enfasi sulla centralità della classe operaia e lo sviluppo conseguente di un suo punto di vista sul sistema. Queste due acquisizioni, insieme al rifiuto dello sviluppo tecnologico come elemento di liberazione e al riconoscimento di un piano politico del capitale, innerveranno una nuova stagione di scoperte teoriche e di lotte politiche, che si produrranno anche in ambiti diversi (letteratura, filosofia, psichiatria), secondo altre parole d’ordine (quelle dei gruppi extraparlamentari degli anni ’70), per mezzo di soggetti diversi dalla classe operaia (gli studenti, le donne), ma che avranno bile e riconoscersi globalmente classe operaia» (R. Panzieri, Lotte operaie nello sviluppo capitalistico, in Spontaneità e organizzazione, cit., p. 83); «Il singolo operaio deve diventare indifferente al proprio lavoro, perché la classe operaia possa arrivare a odiarlo. Dentro la classe, solo l’operaio “alienato” è veramente rivoluzionario» (M. Tronti, Il piano del capitale, cit., p. 80). 41
M. Tronti, Il piano del capitale, cit., p. 61.
42
Cfr. Ivi, p. 80.
La differenza tra i due sembra in questo caso riguardare il grado di questa relazione, non tanto il fatto che la classe operaia, soggettivamente con la sua lotta, abbia un effetto sulla composizione organica del capitale e sul processo di valorizzazione. Scrive Panzieri: «Lo sviluppo del capitalismo nella sua forma recente dimostra la capacità del sistema ad “autolimitarsi”, a riprodurre con interventi consapevoli le condizioni della sua sopravvivenza, e a pianificare, con lo sviluppo capitalistico delle forze produttive, anche i limiti di questo sviluppo stesso (ad esempio, con la pianificazione di una quota di disoccupazione). Si ritorna dunque al problema fondamentale dello stadio capitalistico non previsto da Marx, al suo livello odierno (al di là di quello del capitale finanziario) nei paesi più avanzati» (R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del “Capitale”, in Spontaneità e organizzazione, cit., p. 68). Aveva scritto due numeri prima Tronti: «La lotta di classe operaia ha costretto il capitalista a modificare le forma del suo dominio. Il che vuol dire che la pressione della forza-lavoro è capace di costringere il capitale a modificare la sua stessa composizione interna; interviene dentro il capitale come componente essenziale dello sviluppo capitalistico; spinge in avanti, dall’interno, la produzione capitalistica, fino a farla trapassare completamente in tutti i rapporti esterni della vita sociale» (M. Tronti, La fabbrica e la società, cit., pp. 106-107). Di parere diverso Cristina Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, manifestolibri, 2005, pp. 167-174. 43
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tutti come condizione di possibilità la rottura degli schemi interpretativi marxisti alla luce delle trasformazioni del neocapitalismo prodotte nella breve stagione dei «Quaderni rossi».
4. La politica in movimento: centro-sinistra, Pci e Nuova Sinistra Mentre nel giugno del ’62 esce il secondo numero dei «Quaderni rossi» con l’editoriale di Tronti La fabbrica e la società e il mese successivo gli operai di Torino assaltano la sede della Uil dopo che questa aveva spaccato il fronte sindacale sul rinnovo contrattuale firmando un accordo separato con la Fiat, l’Italia vive i primi mesi della stagione del centro-sinistra con il governo Fanfani IV, sorretto dall’appoggio esterno del Psi. Si tratta dell’esito di un percorso di avvicinamento tra Dc e Psi che punta a rispondere con alcune riforme di sistema a quei cambiamenti e a quella conflittualità che il boom economico ha fatto emergere44. Nello stesso periodo anche il Pci inizia a rivedere, seppur timidamente, la sua lettura della realtà italiana: tra giugno e novembre dello stesso anno prende vita un serrato dibattito sulla dialettica tra storicisti e “dellavolpiani” sulle pagine di «Rinascita»45, mentre a marzo si svolge il convegno dell’Istituto Gramsci sulle “Tendenze del capitalismo italiano”, dove si confrontano due relazioni contrapposte di Bruno Trentin – che ricostruisce la genesi e l’ambivalenza delle dottrine neocapitalistiche riconoscendo la sfida che queste pongono al marxismo – e di Giorgio Amendola – fermo nel rivendicare il ruolo della classe operaia nel Il Fanfani IV viene considerato il primo governo di centro-sinistra, anche se i socialisti lo sostengono dall’esterno, sarà anche l’unico ad approvare una serie di provvedimenti progressisti come la scuola media unificata, l’aumento del 30% delle pensioni, la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la legge 167 sull’espropriazione e la pianificazione urbanistica. Dalla fine del ’63, invece, i governi Moro apriranno la stagione del centro-sinistra “organico” con la partecipazione diretta del Psi al governo, ma le riforme di struttura si bloccheranno: cfr. Enzo Santarelli, Storia critica della Repubblica: l’Italia dal 1945 al 1994, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 119-147; Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Venezia, Marsilio, 1992, pp. 307-342; P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., pp. 344-403. 44
Franco Cassano (ed), Marxismo e filosofia in Italia, 1958-1971: i dibattiti e le inchieste su «Rinascita» e il «Contemporaneo», Bari, De Donato, 1973, pp. 157-248. Tappe importanti erano state anche lo scambio Gerratana-Colletti sulla dialettica (Ivi, pp. 77-157) e il convegno del ’59 dedicato a “Marxismo e sociologia”, del quale abbiamo le sole relazioni di Colletti (Lucio Colletti, Il marxismo come sociologia, in Ideologia e società, Roma-Bari, Laterza, 1969, pp. 3-59) e Tronti (M. Tronti, A proposito di marxismo e sociologia, in G. Trotta, F. Milana (a cura di), L’operaismo degli anni Sessanta, cit., pp. 77-80). 45
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portare avanti gli «interessi generali della nazione» contro quelli dei gruppi monopolistici46. Anche il mondo cattolico mostra un fermento inedito, sia rispetto alla necessità di ammodernare le proprie letture della società – il ’62-’63 è ad esempio il primo anno accademico del nuovo Istituto universitario superiore di Scienze Sociali di Trento voluto da Bruno Kessler47 – sia rispetto alla rivitalizzazione delle comunità di base che avviene grazie all’apertura del Concilio Vaticano II (ottobre ’62) e alla pubblicazione nel ’63 dell’enciclica Pacem in terris, che si rivolge non più ai soli cristiani, ma “a tutti gli uomini di buona volontà”48. A livello internazionale poi una serie di proteste e di lotte stanno immettendo nuovi temi e nuove soggettività al centro della scena politica: nell’estate del ’64 gli Usa invadono il Vietnam e la resistenza dei vietcong diventa un modello globale di opposizione all’imperialismo; in autunno scoppia la rivolta nel campus dell’università di Berkeley e qualche mese dopo quella nei ghetti neri di Watts, nel frattempo Malcolm X abbandona il nazionalismo islamico avvicinandosi al movimento per i diritti civili di Martin Luther King; nel ’66 Mao avvia la rivoluzione culturale in Cina; nel ’67 Che Guevara viene ucciso in Bolivia e il mito del guerrigliero inizia a diffondersi. Si tratta di eventi che avranno un effetto duraturo sia sul movimento studentesco del Sessantotto sia sui gruppi politici che successivamente popoleranno il panorama extraparlamentare italiano. Se quindi è vero che gli anni ’60 sono caratterizzati da forti tensioni e cambiamenti a livello internazionale, c’è però una specificità italiana che va sottolineata, perché ci aiuta a comprendere i potenti effetti che questa stagione avrà sulle vicende dei decenni successivi. La crisi del modello sovietico, tanto come orizzonte ideale quanto come fonte di legittimazione derivante dalla perfetta coincidenza di teoria marxista e costruzione del socialismo, porta infatti alla luce la necessità di un ripensamento radicale delle basi teoriche del marxismo. Ma questo ripensamento avviene in Italia in 46 Bruno Trentin, Le dottrine neocapitalistiche e l’ideologia delle forze dominanti nella politica economica italiana, in Tendenze del capitalismo italiano, Roma, Editori Riuniti, 1962, pp. 97-144; Giorgio Amendola, Lotta di classe e sviluppo economico dopo la liberazione, in Tendenze del capitalismo italiano, cit., pp. 145-213. Si vedano anche gli interventi di Foa (Ivi, pp. 229-239) e Libertini (Ivi, pp. 353-363) da una parte, di Sereni (Ivi, pp. 379-388) dall’altra. 47
Cfr. Concetto Vecchio, Vietato obbedire, Milano, BUR, 2005.
Cfr. Alessandro Santagata, La contestazione cattolica: movimenti, cultura e politica dal Vaticano II al ’68, Roma, Viella, 2016. 48
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condizioni storiche affatto particolari, quelle di un prorompente sviluppo capitalistico che modifica le figure sociali, i rapporti di potere in generale nella società e in particolare nella fabbrica, il costume e i consumi49. La denuncia dello stalinismo, la crisi di quel marxismo e la ricerca di una nuova via per la rivoluzione50 coincidono quindi con uno sviluppo che impone l’elaborazione di nuove interpretazioni e nuove pratiche legate alle trasformazioni del neocapitalismo. Questa coincidenza è ciò che rende gli anni ’60 italiani un vero e proprio laboratorio di innovazione teorica, e il “lungo ’68” un campo aperto di sperimentazione politica. A testimonianza di come questo “nuovo marxismo” abbia un’influenza difficilmente sottostimabile sulla cultura italiana successiva ci sono i riflessi che esso ha nei diversi campi del sapere. Vediamo solo tre esempi, di tre personaggi che nel ’64 erano tutti, non a caso, nella redazione di «classe operaia». Nella critica letteraria Alberto Asor Rosa sovverte il canone dell’Italia letteraria criticando i «populisti democratici e progressisti […] tutti raccolti fedelmente intorno al principio ineliminabile della “tradizione nazionale”»51. Nella critica filosofica Massimo Cacciari ribalta il giudizio sull’irrazionalità del nichilismo riconoscendo nella crisi del pensiero negativo un dispositivo centrale e costante del nuovo ordine, che impedisce in maniera definitiva «di risolvere in senso sintetico la crisi del sistema classico-dialettico»52. In campo giuridico Antonio Negri rinnova la teoria dello Stato attraverso l’analisi del governo della crisi, riuscendo a passare «dalla critica dell’economia politica alla critica della politica pur continuando a tenere il discorso saldamente ancorato alla composizione di classe e senza ricadere in utopie umanistiche di “riappropriazione” della sfera politica»53. L’attacco ai paradigmi consolidati Cfr. C. Adagio, R. Cerrato, S. Urso (a cura di), Il lungo decennio, cit.; Stefano Cavazza, Emanuela Scarpellini (a cura di), La rivoluzione dei consumi: società di massa e benessere in Europa: 1945-2000, Bologna, Il Mulino, 2010; Paolo Capuzzo (a cura di), Genere, generazione e consumi: l’Italia degli anni Sessanta, Roma, Carocci, 2003. 49
Scrive Tronti: «se la classe operaia organizzata riuscisse a batterlo [il capitalismo] una prima volta su questo terreno, nascerebbe allora il modello della rivoluzione operaia nel capitalismo moderno» (M. Tronti, La fabbrica e la società, cit., p. 118). 50
Alberto Asor Rosa, Scrittori e popolo: saggio sulla letteratura populista in Italia, Roma, Samonà e Savelli, 1965, p. 4. 51
Massimo Cacciari, Krisis: saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 8; si veda anche M. Cacciari, Pensiero negativo e razionalizzazione, Venezia, Marsilio, 1977. 52
Damiano Palano, Dioniso postmoderno: classe e Stato nella teoria radicale di Antonio Negri, Milano, Multimedia, 2008, p. 60; si veda A. Negri, Crisi dello Stato-piano: comu53
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avviene anche in altre discipline, non sempre portato dagli esponenti di questa Nuova Sinistra ma sicuramente come frutto di un clima di rifondazione teorica da questa promosso. Tale «rivoluzione nel pensiero» trova comunque il suo principale canale di espressione nelle riviste che nascono o si politicizzano negli anni ’60. Si tratta di una svolta vera e propria nella cultura di un paese abituato a una gestione centrale e unitaria della politica culturale da parte del Pci e della Dc. In quegli anni sorgono un po’ ovunque riviste di critica letteraria, cinematografica, filosofia critica, dissenso marxista54. Inizia già alla fine degli anni ’50 la neoavanguardia letteraria con «Officina» (Pasolini, Roversi, Leonetti, ’55), «Il Verri» (Anceschi, Balestrini, ’56) e «il Menabò» (Calvino, Vittorini, ’59). Seguono quelle riviste che, partite da interessi letterari e culturali, si politicizzano rapidamente: i «Quaderni piacentini» (Bellocchio, Cherchi, Fofi, ’62), probabilmente la rivista più letta all’interno del movimento studentesco, «Giovane critica» (Mughini, ’63), «Angelus novus» (Cacciari, De Michelis, ’64), «Nuovo impegno» (Petroni, Luperini, Ciabatti, ’65) e i «Quindici» (Giuliani, Balestrini, ’67), espressione quest’ultima del «Gruppo ’63», un insieme di scrittori della neoavanguardia a cavallo tra riformismo e critica di sistema del quale fanno parte anche Eco, Sanguineti, Guglielmi, Barilli55. Nella seconda metà degli anni ’60 il succedersi di nuove riviste segue le fortune dei gruppi politici ai quali queste fanno riferimento: dopo la scissione all’interno dei «Quaderni rossi» (’64) nasce quindi «classe operaia» (Tronti, Negri, Asor Rosa, ’64-’67), poi una parte del gruppo prosegue con «Contropiano» (’68-’71) mentre parallelamente viene fondato «Potere operaio» (Negri, Piperno, Bologna, ’67-’69), giornale del gruppo omonimo. Il giornale del gruppo di «Lotta continua», prima settimanale e poi quotidiano, nasce nel ’69 e smetterà di pubblicare solo nel ’82; infine «il manifesto», nismo e organizzazione rivoluzionaria, Milano, Feltrinelli, 1974; A. Negri, La forma Stato: per la critica dell’economia politica della Costituzione, Milano, Feltrinelli, 1977 e la recente antologia a cura di Giuseppe Allegri, Dentro/contro il diritto sovrano: dallo Stato dei partiti ai movimenti della governante, Verona, Ombre corte, 2009. Sergio Dalmasso, L’arcipelago delle sinistre. Partiti, gruppi e riviste, in C. Adagio, R. Cerrato, S. Urso (a cura di), Il lungo decennio, cit. pp. 265-286; Attilio Mangano, Antonio Schina, Le culture del Sessantotto. Gli anni sessanta, le riviste, il movimento, Pistoia, Massari, 1998; A. Vittoria, Organizzazione e istituti culturali, in Storia dell’Italia repubblicana, Vol. II, Tomo II, Torino, Einaudi, 1995, pp. 635-703; Gli anni delle riviste: 1955-1969, numero monografico di «Classe: quaderni sulla condizione e sulla lotta operaia», 17, 1980; Giovanni Becchelloni (a cura di), Cultura e ideologia nella nuova sinistra, Milano, Edizioni di comunità, 1973. 54
55
Cfr. R. Luperini, Marxismo e intellettuali, cit., pp. 22-23.
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nato dall’espulsione di Rossanda, Pintor, Magri e Natoli dal Pci nel ’69, cercherà senza successo di svolgere un ruolo di unificazione dei nuovi gruppi della sinistra rivoluzionaria e sarà la più longeva di queste esperienze56. Va anche notato come questo rifiorire culturale degli anni ’60 contenga al suo interno un’ambivalenza che è propria di tutti i momenti di passaggio, ovvero la nascita di gruppi intellettuali che si posizionano sul crinale tra contestazione e inclusione rispetto a un sistema che è in rapido movimento e trasformazione. In questo caso tale ambiguità trova un’ulteriore spinta nella forza dirompente, anche culturale, del neocapitalismo per la deideologizzazione, la relativizzazione e l’innovazione, che se da una parte aiuta la Nuova Sinistra nella polemica contro lo storicismo comunista, dall’altra pone il pericolo costante di un utilizzo strumentale da parte delle ideologie neo-borghesi. Come scrive Luperini criticando il “Gruppo ’63”: il sistema sembra tutto assorbire e accettare: il collage fenomenologico o tecnologico che i più vari tasselli accozza in un virtuoso mosaico di non-sense è in tutto omologo alla sua onnivora irrazionalità razionale. Il che poi equivale a dire che la neoavanguardia si inserisce oggettivamente in questo clima, oggettivamente collaborando a formarlo e a qualificarlo proprio mentre induce sul mercato librario una girandola vorticosa di novità57.
Il portato di questa stagione delle riviste sulla formazione teorico-politica delle nuove generazioni – come recita il titolo di un convegno che il Pci tiene nel ’71 riconoscendo con un certo ritardo l’importanza del fenomeno58 – è difficilmente sottostimabile, non tanto sulla base di una filiazione diretta rispetto al movimento studentesco o alle avanguardie di classe del ’68 e ’69, quanto sulla base di una critica a quell’ideologia neocapitalistica che voleva tutta la società funzionale all’accumulazione, attraverso l’integrazione di ogni elemento potenzialmente conflittuale59. Altre riviste della nuova sinistra sono “Ideologie” (Rossi-Landi, Sabbatini, 1967), “Classe e stato” (Stame, 1966), “Che fare” (area Uci e poi PC(ml)I, 1967), “La Sinistra” (Colletti, 1966). Anche il mondo del dissenso cattolico pubblica in quegli anni “Testimonianze” (Balducci, Grassi, Gozzini, Setti, 1958) e il mensile “Questitalia”. 56
R. Luperini, Per una critica delle ideologie letterarie degli anni Sessanta, in Marxismo e intellettuali, cit., p. 24. 57
Il marxismo italiano degli anni Sessanta e la formazione teorico-politica delle nuove generazioni, Roma, Editori Riuniti – Istituto Gramsci, 1972. 58
Concordi su questo giudizio sono R. Luperini, Le riviste della sinistra rivoluzionaria da «Quaderni rossi» al maggio 1969, in Marxismo e intellettuali, cit., p. 151 e P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi, cit., p. 408; Massimo Teodori sostiene al contrario la 59
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5. Conclusione La rottura consumatasi in Italia nel biennio ’68-’69 non sta tutta dentro le premesse e le condizioni di possibilità che sono state ricostruite in questa sede. Rimangono infatti una specificità e un’intensità del movimento che impediscono di contenerlo all’interno di una storia di “modernizzazione” del paese o di semplice aggiornamento della cultura “di sinistra”. La sua natura di vero e proprio evento storico, testimoniata dalla successiva e continua risignificazione e riappropriazione60, ne impedisce infatti una riconduzione lineare secondo presupposti definiti. Ciò detto, la stagione aperta dai movimenti nel ’68-’69 ha avuto profondissime conseguenze sulla cultura politica, sul senso comune e sulla legislazione italiana. Basta scorrere le riforme varate in quegli anni per rendersene conto: lo Statuto dei lavoratori (maggio ’70), la legge sul divorzio (dicembre ’70), la legge sull’obiezione di coscienza (dicembre ’72), la riforma del diritto di famiglia (maggio ’75), la legge sulla riforma penitenziaria (luglio ’75), la legge Basaglia sui manicomi (maggio ’78), la legge 194 sulla regolamentazione dell’aborto (maggio ’78), l’istituzione del Servizio sanitario nazionale (dicembre ’78). Queste riforme, figlie di lunghe battaglie settoriali ma che riescono ad arrivare ad approvazione sulla spinta generale che i movimenti esercitano dall’esterno sul sistema politico, aprono una fase nuova per il paese, interrompendo quella continuità con lo stato fascista richiamata all’inizio che aveva impedito di considerare l’Italia un paese solidamente e definitivamente democratico-repubblicano. C’è un’ultima particolarità del caso italiano che, in conclusione, vale la pena sottolineare, ed è quella che riguarda le modalità di emersione di queste “novità politiche”, tanto pratiche quanto teoriche. La storia delle origini intellettuali del Sessantotto italiano mette infatti in evidenza sempre un doppio movimento, di recupero e di tradimento, di precedenti tradizioni di lotta: è così per quanto riguarda l’operaismo, nato all’interno della tradizione del movimento operaio ma già da subito in contrapposizione ad essa; è così per il femminismo, che rinasce sul binario emancipazionista ma da subito elabora temi centrali come la differenza (non l’uguaglianza) e la liberazione (non l’emancipazione) che sono contestativi di quella stessa tradizione; così è anche per il cattolicesimo sociale, che dalla spinta conciliare mancanza di collegamento tra la “nuova sinistra” e il movimento in Storia delle nuove sinistre in Europa (1956-1976), Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 347-348, 354. Cfr. Lorenzo Zamponi, La memoria in azione. Narrazioni del Sessantotto nel movimento studentesco italiano del 2008-2011, in Donatella Della Porta (a cura di), Sessantotto. Passato e presente dell’anno ribelle, Milano, Feltrinelli, 2018, pp. 57-81. 60
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guadagna il coraggio di porsi al servizio degli ultimi anche quando questo significa andare contro la propria Chiesa61. La riattivazione di culture politiche e di tradizioni di lotta sopite, attraverso un tradimento interno e una proiezione esterna, sembra essere il carattere distintivo, se non di tutte, almeno di questa stagione di conquiste politiche e sociali.
61 L’episodio forse più emblematico è la “scomunica” di Paolo VI delle Acli nel 1970, dopo che queste, nel loro congresso, avevano optato per una posizione classista e anticapitalista. In quegli anni sfidano le gerarchie ecclesiastiche anche i preti operai, Don Milani, alcuni missionari e numerose comunità di base: cfr. A. Santagata, La contestazione cattolica, cit.
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Il metodo dell’operaismo Un confronto tra Tronti e Negri Irene Viparelli1
1. Introduzione «Prima la classe operaia poi il capitale»2. Secondo Negri, tale scoperta teorica di Tronti, nucleo epistemologico su cui si struttura l’intera esperienza dell’operaismo italiano, ha un significato essenzialmente duplice. Riferendosi a Operai e capitale, scrive infatti Negri: La grandezza di questo libro non sta negli editoriali di Classe operaia, né in quella frase sul leggere la storia del capitale dal punto di vista della lotta di classe operaia che fa ancora oggi godere ogni comunista onesto: la grandezza di Operai e capitale sta nella scoperta del lavoro vivo come soggettività. La “differenza italiana” nasce in questa definizione intransitiva della soggettività del lavoro vivo davanti al capitale: ciò che strappa il comunismo di Marx a ogni tentazione dialettica3.
Da un lato, quindi, il principio trontiano del primato della classe operaia «permette di leggere la storia del capitale dal punto di vista della lotta di classe»; sviluppa, cioè, un’«analisi antagonistica del processo storico»4 che, mettendo in luce il nucleo soggettivo della dialettica, liquida definitivamente le letture economiciste, oggettiviste e, in ultima istanza, revisioniste della teoria di Marx. Dall’altro, parallelamente, il medesimo principio del primato della classe operaia esprime una «concezione costituente delle lotte di Questo lavoro è stato svolto nell’ambito del progetto del Centro di ricerca CICP (Centro de Investigação em Ciência Política - UID/CPO/0758/2019. Universidade do Minho/Universidade de Évora) con il contributo della Fundação para a Ciência e a Tecnologia (FCT) e con i fondi del Ministero portoghese dell’Educazione e della Scienza. 1
2 Mario Tronti, Operai e Capitale (1966), Roma, Derive Approdi, 2013, p. 257 (da ora in poi OC).
Antonio Negri, Storia di un comunista, a cura di Girolamo de Michele, Ponte Alle Grazie, 2015 (E-book, pos. 673; d’ora in poi SC). 3
4
PDF).
Id., Galera ed esilio, a cura di Girolamo de Michele, Ponte alle Grazie, 2017 (E-book;
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classe»5 che definisce il soggetto proletario come potenza ontologica, come «concetto vivente, corporeo, potenzialmente rivoluzionario del lavoro vivo considerato nella sua secca produttività o, se si vuole, nella sua assoluta povertà» (SC, 673). Ed è tale concezione del soggetto antagonista come realtà ontologica che, per Negri, permette di prolungare il metodo operaista oltre l’orizzonte congiunturale degli anni ´60, facendone un importante strumento ermeneutico per la comprensione di una contemporaneità. Operaismo come ontologia, dunque: perché l’ontologia costituisce l’unica possibilità di dire quel che siamo e quel che vogliamo essere – perché ontologia è essere produttivo, e senza produzione non c’è vita. Si usciva così dall’operaismo “grezzo” che Tronti aveva definito: si nutriva l’operaismo dei risultati della lotta passata e si apriva a quella futura6.
La differenza tra “operaismo grezzo” e “operaismo che si apre al futuro” sposta la riflessione di Negri dai meriti ai limiti teorici di Tronti. Se, infatti, è innegabile che Tronti sia stato “un maestro” per tutti gli operaisti, ben presto però, com’è noto, il gruppo si divide tra i seguaci dell’ “autonomia del politico” e i rappresentanti dell’ “autonomia del sociale” o, per riprendere la definizione scelta da Negri in Storia di un comunista, tra “scolastici” e “agostiniani”. I primi, secondo Negri, di fronte alla dissoluzione di ogni dialettica di capitale, prodotta dalla nuova composizione di classe dell’operaio sociale, arretrano, riproponendo la tradizionale visione del Partito come forma di esistenza politica della classe operaia. Gli “agostiniani” come Negri, invece, proclamano che non esiste né autonomia del politico, né pensiero unico economico: esistono solo due autonomie, l’una contro l’altra armate – quella del capitale e quella del proletariato. È su questo dualismo della lotta di classe che si costruisce il materialismo storico, non più dialettico (SC, 1253).
Negri, sostanzialmente, critica l’incapacità trontiana di riconoscere le conseguenze teorico-politiche delle premesse da lui stesso poste. Da un lato, infatti, l’affermazione della classe come soggetto ontologico, autonomo, rivoluzionario e costituente tende a spostare l’analisi oltre la figura dell’operaio massa e oltre la dialettica. Dall’altro però, in modo profondamente contraddittorio, Tronti si rifiuta di riconoscere il passaggio all’operaio sociale e, conseguentemente, la necessità di fondare definitivamente la teoria rivoluzionaria sull’ontologia costituente. 5
Ibid.
Id., «Postoperaismo? No, operaismo», Euronomade, 2017, URL:http://ww.euronomade.info/?p=9189 6
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Tronti non riconosce […], per la classe operaia, una differenza strutturale di composizione tecnica e politica fra fordismo e anni ‘70. Non vi è modificazione dei processi lavorativi, taylorismo e keynesismo restano egemoni ed i rapporti politici di classe tuttora dominati dallo Stato-piano7.
C’è quindi, in Tronti, un vero e proprio “blocco della ricerca”, che non gli permette di andare oltre la congiuntura degli anni ’60 e di adeguare la teoria alla nuova configurazione del rapporto di classe. Uno squilibrio teorico che trova la sua causa più profonda nell’incapacità trontiana di emanciparsi dal legame con il Partito Comunista Italiano: la necessità di garantire la persistente centralità del partito nel processo rivoluzionario lo spinge, infatti, a relativizzare progressivamente il concetto di “autonomia della classe operaia”, ristrutturando l’analisi a partire dal concetto di “autonomia del politico”. L’origine di tale spostamento teorico sarebbe individuabile, secondo Negri, nel numero 10-12 di Classe Operaia: Con questo numero avviene il ritorno del gruppo romano nelle braccia del PCI. Non sono mai riuscito a capire che cosa sia successo: di sicuro la delusione e l’insoddisfazione per non essere riusciti a costruire fin dall’inizio un’organizzazione alternativa, una nuova figura carismatica, una Minerva tratta dal cervello degli dei. Ma ci deve essere stato dell’altro: promesse, minacce, pressioni: non ci si imbarca in una storia tanto importante per farla durare un anno o due […] Classe operaia era diventata una lobby picista (SC, 602).
L’interpretazione negriana dei meriti e limiti di Tronti fa emergere una lettura che oppone la radicale continuità del punto di vista teorico dell’operaismo alla discontinuità politica delle vicende del gruppo. Da un lato, infatti, Negri, rifiutando ogni presunta scissione tra “operaismo” e “post-operaismo”, rivendica la persistenza del medesimo metodo ontologico-costituente, che prolunga l’esperienza operaista fino alla nostra contemporaneità. Dall’altro contrappone a tale coerenza teorica il problematico rapporto tra intellettuali e Partito comunista, che spinge una parte del gruppo ad abbandonare i presupposti teorici dell’operaismo e a rifondare la teoria sul principio dell’ “autonomia del politico”. Così, a dispetto di chi vorrebbe separare l’esperienza degli anni ’60 da quella contemporanea, Negri proclama infine: Si può concludere che l’unico postoperaista (talora mal accompagnato) sia ormai Mario Tronti e che invece il pensiero di quei mille compagni che hanno sviluppato il “grezzo” principio del “punto di vista” della classe Id., «Che cosa è successo dentro la classe operaia dopo Marx», Euronomade, 2016. URL:http://www.euronomade.info/?p=7366 7
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operaia possa legittimamente assumere e difendere il nome “operaismo” – cosi, tout court, senza belletti né ricostituenti8.
Nel corso dell’articolo ci proponiamo di problematizzare tale lettura negriana, fondata sull’opposizione tra la continuità teorica e la frattura politico-esistenziale, mostrando come la scissione tra “agostiniani” e “scolastici”, lungi dall’esser riducibile alla questione intellettuali-Partito, sia fondata su basi eminentemente teoriche. Attraverso un confronto tra Operai e Capitale e i saggi di Negri John M. Keynes e la teoria capitalistica dello stato nel ’29 e Marx sul ciclo e la crisi, metteremo in luce come i due dispositivi teorici presentino, fin da subito, punti sostanziali di differenza. Elementi originari di eterogeneità che, imponendo una differente interpretazione della crisi degli anni ’70, determinano la necessaria scissione delle prospettive teoriche.
2. 1917 La rivoluzione sovietica rappresenta per gli operaisti un momento cruciale nello sviluppo della società capitalistica. «Col 17», scrive Tronti, «l’articolazione operaia del capitale viene soggettivamente imposta ai capitalisti» (OC, 251). Negri, parallelamente, nel suo saggio su Keynes, specifica le conseguenze politiche fondamentali di questo passaggio: D’ora in poi la teoria dello stato dovrà fare i conti non solo con i problemi inerenti al meccanismo di socializzazione dello sfruttamento, ma con una classe operaia politicamente identificata, divenuta soggetto, - con una serie di movimenti materiali che, già dentro la loro materialità portano intera la connotazione politica rivoluzionaria9.
1917 è il rifiuto proletario a farsi “capitale variabile”; è la costituzione della classe operaia come soggetto politico antagonistico che, opponendosi strategicamente al capitale, ne sfrutta le contraddizioni per accrescere la propria potenza rivoluzionaria. 1917 è, parallelamente, la fine del lassez faire e la radicale ridefinizione delle proprie condizioni di esistenza. 1917 è, infine, segno della politicizzazione del rapporto capitale/forza-lavoro e della progressiva subordinazione dell’intera società alla fabbrica. Ma come dobbiamo intendere tale nuova configurazione? Come interpretare tale politicizzazione della dialettica di capitale? Nella risposta a 8
Id., «Postoperaismo? No, operaísmo» cit.
Antonio Negri, John M. Keynes e la teoria capitalistica dello stato nel ’29, in Collettivo, Operai e stato, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 70 (da ora in poi JMK). 9
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tali questioni, nella concettualizzazione del nuovo livello di antagonismo di classe, è possibile cominciare a individuare, a nostro avviso, importanti elementi di differenza tra il dispositivo teorico di Tronti e quello di Negri. Scrive Tronti: Non bisogna prendere sul serio le baruffe borghesi sull’intervento dello Stato nell’economia: a un certo livello di sviluppo, questo apparente intervento dall’esterno è niente altro che una forma molto avanzata di autoregolazione del meccanismo economico, o serve, in certi casi, a rimettere in moto quel tipo di meccanismo a un livello più alto. La stessa pianificazione capitalistica può essere un momento particolare dentro lo sviluppo del capitale. Il tratto specifico generale rimane l’esistenza storica oggettiva del capitale sociale (OC, 65).
L’intervento dello Stato nell’economia esprime la trasformazione del politico in una vera e propria “forza economica”, funzionale a garantire la persistenza delle condizioni oggettive del processo di valorizzazione del capitale. Con l’emergere della classe operaia quale soggetto politico, infatti, il rapporto di classe si configura come relazione oppositiva tra l’esigenza capitalistica di ridurre la classe operaia a capitale variabile e il rifiuto proletario a collaborare allo sviluppo del capitale. Conseguentemente, l’antagonismo operaio blocca la dialettica e spinge il capitale alla crisi, all’apertura di congiunture critiche che pongono la società capitalistica di fronte a «una sola alternativa: stabilizzazione dinamica del sistema o rivoluzione operaia» (OC, 53). L’intervento dello Stato nell’economia, la politicizzazione della relazione produttiva, è lo strumento che permette di evitare l’esito rivoluzionario e di reintegrare la classe operaia nel rapporto di capitale. «Tattica di stabilizzazione» (OC, 95) e «strategia di programmazione» (OC, 95); integrazione congiunturale della classe operaia e pianificazione dello sviluppo sono le uniche basi su cui si può ancora dare il processo di valorizzazione del capitale. «Finché esiste il capitale, al suo interno devono esistere tutte e due le classi e devono lottare» (OC, 209). Conseguentemente, la società del capitalismo maturo si configura come «una catena di congiunture» (OC, 99), un alternarsi di fasi critiche e fasi di sviluppo che, finché non si apre il processo rivoluzionario, è destinato a ripetersi indefinitamente, in un movimento che è potenzialmente infinito. Negri propone una lettura del processo di “politicizzazione della dialettica di capitale” per molti versi irriducibile alla prospettiva trontiana. Lungi dal riaffermare congiunturalmente delle condizioni per lo sviluppo capitalistico, l’intervento dello Stato nell’economia rappresenta piuttosto «il paradosso del sistema keynesiano» (JMK, 91), il tentativo di armonizzare
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due istanze tra loro assolutamente contraddittorie e inconciliabili: la stabilizzazione e lo sviluppo del sistema: A ben guardare il dinamismo del capitale è a questo punto soltanto la risultante di una lotta continua, in cui si accetta la spinta operaia e si forgiano strumenti ad evitare che questa si svolga fuori del capitale, per farla agire in un quadro sempre di nuovo configurato. Fino a che punto? […] In Keynes c’è solo la consapevolezza della drammaticità della situazione politica che si rovescia in tentativo di fare della crisi, della lotta il motore dello sviluppo. Fino a che punto? “Nel lungo periodo saremo morti!” (JMK, 91).
L’azione antagonista della classe operaia impone un’esigenza espansiva del controllo che porta alla continua “colonizzazione” capitalistica del sociale. Parallelamente, però, si radicalizza e si generalizza anche il rifiuto proletario, l’esteriorità della classe, rendendo sempre più difficile garantire le condizioni di esistenza del capitale. Tale duplice e contraddittoria tendenza, spinta all’estremo, porta necessariamente alla distruzione della dialettica, all’abolizione delle condizioni oggettive dello sviluppo e alla trasformazione del capitale in una forza eminentemente politica, che definisce il controllo, il dominio e il comando sulla società come nuove basi della sua esistenza storica: Il capitale può anche subire l’appiattimento della sua essenza economica: non può in nessun caso dimenticare la propria essenza di dominio e di sfruttamento. Su questo fronte esso è disposto a resistere, a combattere, a distruggere; può essere disposto, al limite, a dissociare la propria immagine da quella dello sviluppo e a mostrarsi solo come crisi. E tutto questo significa che il corrispettivo di quella precarietà dello sviluppo, che il capitale ha sentito drammaticamente nel momento stesso in cui ha voluto presentarsi come sviluppo, è il suo configurarsi come violenza, come momento definitivo e decisivo di potere politico, fino al limite della mera volontà di distruzione10.
In Negri, quindi, l’emersione del soggetto politico proletario è fin da subito crisi (anche se soltanto tendenziale) del capitale e impossibilità (potenziale) della dialettica. In conclusione, se per Tronti e Negri il più profondo significato del 1917 è l’inizio del processo di socializzazione capitalistica e la politicizzazione del rapporto di classe, tale postulato assume, nei due autori, connotazioni opposte: in Tronti c´è un “primato dello sviluppo sulla crisi” che da un lato riconosce Id., Marx sul ciclo e la crisi, in Collettivo, Operai e stato, Milano, Feltrinelli, 1973, p. 224 (da ora in poi MCC). 10
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al rifiuto proletario la capacità di imporre al capitale un movimento di sviluppo fondato sull’alternarsi di congiunture critiche e processi di stabilizzazione e dall’altro, parallelamente, attribuisce all’intervento dello Stato nell’economia, alla politicizzazione della dialettica, la funzione di stabilizzare la congiuntura riaffermando, contro la classe operaia, le condizioni dello sviluppo. Il presupposto negriano del primato della crisi sullo sviluppo, invece, interpreta la politicizzazione della dialettica come trasformazione tendenziale del vincolo economico in un rapporto eminentemente politico; come un processo che afferma da un lato l’inessenzialità della funzione capitalista dello sviluppo rispetto a quella del comando e, dall’altro, la progressiva radicalizzazione e generalizzazione dell’antagonismo. Lungi, quindi, dal presentarsi come un susseguirsi di congiunture critiche, potenzialmente infinito, lo sviluppo nelle società del capitalismo maturo si configura come un duplice movimento tendenziale: alla trasformazione del capitale in forza politica e alla piena autonomizzazione costituente del soggetto antagonista. La diversa interpretazione della crisi degli anni ´70 scaturisce, a nostro avviso, esattamente da tale declinazione differente del rapporto sviluppo/ crisi. In Tronti, la visione del capitalismo maturo come un infinito alternarsi di congiunture critiche e processi di stabilizzazione spinge a leggere la crisi degli anni ’70 come una specifica congiuntura critica, come apertura della storia alla doppia possibilità: rivoluzione o stabilizzazione. La sconfitta congiunturale della classe operaia, conseguentemente, è interpretata come processo di riaffermazione delle condizioni dello sviluppo capitalistico. In Negri, invece, la nuova duplice tendenzialità che si instaura nel capitalismo maturo porta ad interpretare la crisi degli anni ’70 come espressione dell’attualizzazione del movimento, fino ad allora solo tendenziale, di distruzione delle condizioni della dialettica; come il momento storico in cui la trasformazione del capitale in “forza politica” e della classe operaia in soggettività costituente definiscono i presupposti per una radicale rifondazione della società su presupposti non più dialettici ma eminentemente ontologici.
3. Rifiuto, organizzazione, rivoluzione Il 1917, l’affermazione della classe operaia come soggettività politica, rappresenta, nella lettura operaista, il momento della maturità della società capitalista, l’inaugurazione di una fase di esistenza del capitale dominata dalla possibilità concreta dell’apertura del processo rivoluzionario: È solo lo sviluppo rivoluzionario della classe operaia che può rendere efficiente ed evidente al tempo stesso la contraddizione di fondo tra livello
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delle forze produttive e rapporti sociali di produzione: senza quello sviluppo la contraddizione stessa rimane un dato di fatto potenziale e non reale, una pura e semplice possibilità, come la possibilità della crisi al livello M-D-M (OC, 54).
L’antagonismo operaio è, quindi, condizione necessaria della rivoluzione. Non sufficiente, però. La strategia del rifiuto, infatti, in assenza dell’organizzazione della classe, non riesce a spingere l’antagonismo fino a un definitivo “punto di rottura”; alla definitiva dissoluzione del capitale. Il parallelismo dello sviluppo capitalistico e del potere operaio può, da questo punto di vista, riprodursi indefinitamente fino a quando la strategia capitalistica del ciclo e la funzione che in esso esercita lo stato come forma sostanziale di questo sviluppo non siano spezzate dall’insorgenza di un potere operaio capace non solo dell’opera estensiva dell’erosione bensì dotato della capacità intensiva della rottura: questa dunque è la condizione a che la realtà dello sviluppo capitalistico abbia il suo rovescio. […] Altrimenti il cattivo infinito operaio non è meno sterile del cattivo infinito dell’avversario di classe – ed è molto più drammatico e doloroso (MCC, 228).
Solo il momento della tattica, la capacità politica di organizzare la strategia del rifiuto in funzione della distruzione del rapporto di capitale, permette di sfuggire a tale pericolo di una cattiva infinità. Ma allora, come si definisce la relazione tra strategia e tattica? Tra teoria e politica? Tra classe e partito? Tali questioni, ancora una volta, ci permettono di mettere in luce fondamentali elementi di eterogeneità nei dispositivi teorici di Tronti e Negri. La diversa declinazione del rapporto sviluppo-crisi nei due autori, infatti, necessariamente si traduce in una differente definizione del rapporto di tattica e strategia. In Tronti strategia e tattica devono essere separate nella pratica e unite nella teoria. Se, infatti è il vincolo dialettico tra i due momenti che definisce la possibilità dell’apertura del processo rivoluzionario, nella pratica però, dal punto di vista politico, è piuttosto la loro separazione, la precisa divisione del lavoro tra classe e partito, che può stabilire le condizioni dell’esito rivoluzionario. In primo luogo, il rifiuto proletario, separato dall’organizzazione della classe, assume una fisionomia puramente negativa: La non collaborazione, la passività, anche massificate, il rifiuto sì, ma non politico, non soggettivamente organizzato, non inserito in una strategia, non praticato per via tattica, l’alta forma di spontaneità a cui la lotta di classe è costretta da decenni, - tutto questo non solo non basta più
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per provocare la crisi, ma è diventato addirittura un elemento stabilizzatore dello sviluppo» (OC, 253).
Il rifiuto operaio, nella sua immediatezza e spontaneità, da un lato determina l’apertura della congiuntura critica, ponendo la società di fronte alla duplice possibilità rivoluzione-stabilizzazione. Dall’altro, però, se non supera la sua originaria spontaneità, se non riesce a farsi potere, a rovesciarsi in un processo costituente, è destinato a soccombere alla stabilizzazione e pianificazione capitalistica. Per sé, quindi, il rifiuto è senz’altro causa di squilibri e di congiunture critiche della società del capitale, ma non riesce a inaugurare il processo rivoluzionario, a mettere realmente in pericolo l’esistenza del capitale. Certo che bisogna arrivare a bloccare il meccanismo economico, metterlo al momento decisivo nell’impossibilità di funzionare, ma l’unica via a questo è il rifiuto politico a farsi lato attivo di tutto il processo reale, e di più, è il rifiuto perfino della collaborazione passiva allo sviluppo capitalistico, - rinuncia cioè a quella forma di lotta di massa che unifica oggi i movimenti diretti degli operai nei paesi a capitalismo avanzato (OC, 252-253).
La vera crisi del sistema, quindi, si dà soltanto attraverso la metamorfosi del rifiuto di classe che, perdendo la sua fisionomia immediata di “spontaneità-passività” si trasforma in “rifiuto politico”, attivo, cosciente delle sue finalità e obiettivi. «Tattica dell’organizzazione dunque per arrivare alla strategia del rifiuto» (OC, 265); poiché per Tronti la tattica dell’organizzazione, in quanto momento costituente, trasforma la prima, passiva, figura del rifiuto in un processo cosciente e strategico di dissoluzione del capitale. Solo così, solo in virtù di tale incontro della classe col partito, della strategia con la tattica, si definiscono le condizioni per l’apertura del processo rivoluzionario. Un potere politico autonomo di parte operaia è l’unica arma che può impedire al meccanismo economico capitalistico di funzionare. In questo solo senso lo Stato operaio di domani è il partito di oggi. Ritorna così quel concetto, che abbiamo voluto attribuire a Marx, del comunismo come partito, che sostituisce al modello di costruzione della società futura un organo pratico di distruzione della società presente, e qui dentro chiude tutti i bisogni rivoluzionari della classe operaia (OC, 254).
Insomma, solo la separazione pratica e la congiunzione teorica di classe e partito, per Tronti, possono mettere in crisi realmente le condizioni di sviluppo del capitale, interrompendo l’infinito susseguirsi di congiunture critiche e processi di stabilizzazione e inaugurando il processo rivoluzionario. 117
La centralità della dimensione della crisi nel dispositivo di Negri porta a una rappresentazione differente del rapporto tattica-strategia. In Negri infatti il rifiuto operaio, lungi dall’esprimere la passività, la pura negatività, si dà immediatamente come “rifiuto politico”, attivo e cosciente, in grado di generare la crisi, di aprire il processo rivoluzionario, distruggendo progressivamente le condizioni di esistenza del capitale. D’ora in poi la teoria dello stato dovrà fare i conti […] con una classe operaia politicamente identificata, divenuta soggetto, - con una serie di movimenti materiali che già dentro la loro materialità porta intera la connotazione politica rivoluzionaria. Perché così si rappresenta il primo momento realizzato della rivoluzione operaia mondiale. (JMK, 70).
La società del capitalismo maturo non rappresenta quindi, nel dispositivo teorico di Negri, una fase specifica di sviluppo del capitale, ma piuttosto il primo momento della rivoluzione comunista, la fase in cui l’antagonismo di classe distrugge le condizioni della dialettica di capitale, rende impossibile ogni mediazione tra capitale e classe operaia e, con essa, ogni eventuale uscita capitalistica dalla crisi. A questo punto ci troviamo di fronte a quello che è evidentemente il problema più grosso. Cioè: che cosa significa oggi transizione al comunismo? Qual è oggi il contenuto della dittatura del proletariato? Quali le forme e i tempi dentro i quali si cominciano a svilupparsi le condizioni effettive dell’estinzione dello Stato?»11.
Quale il significato della distinzione tra strategia e tattica in tale dispositivo? Il presupposto negriano dell’attualità di processo rivoluzionario già iniziato non supera il rischio del “cattivo infinito”, piuttosto lo sposta su un piano differente, quello di un’infinita transizione al comunismo. Oltre la dialettica, infatti, l’antagonismo di classe si presenta come opposizione radicale e inconciliabile: da un lato il capitale, in quanto potere di controllo; dall’altro la classe operaia, in quanto autonomia costituente. Come superare tale dualismo? Come distruggere il comando? Qui, la strategia del rifiuto, la decostruzione permanente delle condizioni di esistenza del capitale deve trasformarsi in tattica dello “spezzare”, in forza di distruzione del comando capitalistico. Qui il problema diventa estremamente grave perché comporta conseguenze che riguardano un po’ tutte le modalità del processo rivoluzionario, 11
Id., Trentatre lezioni su Lenin, Roma, Manifestolibri, 2004, p. 255 (d’ora in poi TLL).
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in primo luogo la figura del partito rivoluzionario, come capacità di riprodurre continuamente da dentro la classe, per la classe, la forza di spezzare continuamente il tipo di rapporti e di equilibri di classe che vengono determinandosi. Quindi la sua capacità di essere avanguardia, avanguardia che usa tutti i mezzi della violenza per la conquista del potere. Questa capacità tuttavia non viene fuori dalla concezione leninista dell’avanguardia esterna che nega e spezza per pianificare, per creare il socialismo, ma insorge dall’interno della classe come funzione adeguata e determinata, nella misura appunto in cui il socialismo è impossibile, la pianificazione è la prima cosa da battere, il comunismo è il programma minimo (TLL, 261).
Il momento della tattica quindi, in Negri, assume connotazioni e funzioni completamente eterogenee rispetto al dispositivo di Tronti. Nella misura in cui il rifiuto proletario ha già inaugurato il processo rivoluzionario, la tattica perde una delle funzioni fondamentali che le attribuiva Tronti: l’esigenza di un’azione dialettica sulla classe operaia, tesa a trasformare il “rifiuto passivo” in “rifiuto politico”. Conseguentemente, per Negri, la tattica esiste esclusivamente in funzione anti-statale, per spingere il processo rivoluzionario fino alla piena convergenza dei movimenti dello “spezzare” e “dell’estinguersi”, fino alla distruzione del comando del capitale e alla immediata affermazione del comunismo. In tale prospettiva teorica, la trascendenza del partito rispetto alla classe perde ogni ragion d’essere: A processo rivoluzionario aperto, è chiaro che la contraddizione tra strategia e tattica è minima. Questo momento presuppone infatti già risolto il problema dell’organizzazione. Classe e partito neppure qui coincidono; mettono in atto però fra di loro una normale divisione del lavoro rivoluzionario, e procedono uniti verso lo stesso scopo. Guardate invece oggi, quando l’apertura del processo rivoluzionario è ancora un programma teorico, quando si tratta di trovare ancora la via per cominciare a praticarlo: la contraddizione tra strategia e tattica è al suo massimo livello di sviluppo: teoria e politica non hanno niente in comune; la classe è senza partito e il partito è senza classe (OC, 261).
Seguendo Tronti, quindi, il rapporto tra tattica e strategia è subordinato alla fase specifica della lotta di classe: quando il processo rivoluzionario è già cominciato, la tattica diventa un’articolazione della classe stessa, una «positiva duplicità di funzioni viva già nella composizione politica di classe» (MCC, 232-233), che esprime la “divisione del lavoro” rivoluzionaria tra il processo di destrutturazione del capitale e quello della distruzione del comando. Quando, invece, la classe non ha ancora invertito i rapporti di 119
dominio, le due istanze si presentano separate e la loro relazione appare profondamente contraddittoria. Tali riflessioni ci portano a concludere che la scissione del gruppo degli operaisti tra “scolastici” e “agostiniani”, lungi dal riflettere semplicemente il rapporto intellettuali-partito, trova in questa differente collocazione del presente in relazione al processo rivoluzionario la sua base teorica. Se, con Tronti, si considera la società del capitalismo maturo come fase di sviluppo del capitalismo, quindi pre-rivoluzionaria, allora la tattica si presenterà come figura contraddittoria e esterna rispetto alla classe. Se invece, con Negri, leggiamo il presente come “prima fase della rivoluzione mondiale”, allora ogni trascendenza sarà dissolta e la tattica apparirà come una funzione della classe stessa.
4. Conclusioni Negri interpreta il rifiuto trontiano della figura dell’operaio sociale come espressione di una contraddizione tra le premesse teoriche della sua analisi e le sue posizioni politiche. A nostro avviso, invece, il “blocco” trontiano, il suo attaccamento alla figura dell’ “operaio massa”, risulta esser perfettamente coerente con la sua concezione del rapporto antagonistico. L’opposizione di classe, così come si presenta negli anni ’60, esprime infatti la compiuta espressione del rifiuto operaio, che riesce a imporre allo sviluppo del capitale la forma specifica di un susseguirsi di congiunture critiche, ma che non può, per sé, definire le condizioni per dissolvere il nucleo dialettico della società capitalista. Il processo generale di socializzazione non può arrivare a liquidare gli operai come classe particolare, non può, non deve, diluire, dissolvere, smembrare la classe operaia nella società; può e deve sempre di più socializzare – così com’è – il rapporto di classe e quindi al suo interno di nuovo gli operai come classe antagonista; da parte capitalistica è questa la via del controllo sociale sui movimenti della classe operaia, da parte operaia è la prospettiva di una propria crescita politica illimitata di contro al limite invalicabile che il capitale pone a se stesso (OC, 218).
Il capitalismo maturo quindi, in Tronti, si presenta come un movimento che, se tende asintotticamente alla rottura del vincolo dialettico di capitale e classe operaia, parallelamente riproduce sempre, continuamente, il rapporto di classe, in un processo che è, potenzialmente, infinito. Insomma, per Tronti il rifiuto proletario, la classe operaia come soggetto autonomo, nella sua immediatezza, definisce la fisionomia della società del capitalismo maturo, ma «provoca solo, e in parte, una caduta nel saggio 120
di profitto. […] Il progresso dello sfruttamento capitalistico serve sempre da base materiale allo sviluppo del capitale» (OC, 72-73). La catastrofe del sistema, la rottura del “cattivo infinito”, si dà soltanto con l’intervento di un elemento esterno – il partito – in grado di orientare il rifiuto di classe verso obiettivi compiutamente rivoluzionari; di subordinare la lotta al processo di dissoluzione delle condizioni di esistenza del capitale. Il passaggio oltre la dialettica, quindi, in Tronti, non è pensabile come processo sociale di radicalizzazione e generalizzazione dell’antagonismo (la classe operaia degli anni ’60 è già la forma compiuta del rifiuto di classe), ma soltanto come movimento di connessione della classe con il partito, inteso leninisticamente come elemento esterno. È soltanto l’ontologizzazione negriana del principio del primato della classe operaia che definisce la possibilità teorica del passaggio all’operaio sociale, alla generalizzazione della radicalità del rifiuto operaio. La potenza rivoluzionaria, infatti, in tale prospettiva, come abbiamo visto, progressivamente dissolve le condizioni della valorizzazione capitalistica, l’orizzonte del profitto: Qui non si tratta di mettere in atto una controtendenza alla caduta del saggio di profitto […] qui si tratta di superare lo stesso orizzonte del profitto, meglio, di metterne in luce e di inverarne la forma come mera funzione politica di dominio e di violenza. Il configurarsi statuale della socializzazione del capitale non riapre meccanismi che la lotta di classe ha chiuso, bensì interpreta in maniera funzionale alla nuova condizione di livellamento del saggio di profitto un ruolo di repressione politica – ora divenuto necessario ed esclusivo. La figura antagonistica che il capitale sempre assume di fronte all’emergenza della classe operaia come forza produttiva sociale si fa qui massima» (MCC, 219-220).
Il superamento dell’orizzonte del profitto, prima fase della rivoluzione mondiale, dissolvendo la razionalità economica del capitale, impone il passaggio all’operaio sociale, quale “classe operaia come forza produttiva sociale”, come autonomia costituente che è ormai in grado di produrre e riprodurre la società in forma autonoma, democratica. Il comunismo è, in tale dispositivo, «programma minimo» (TLL, 261); è l’atto rivoluzionario che distrugge il comando e il lavoro e libera le forze sociali; è «l’essenza» che «deve riconoscersi come produttiva, deve negarsi come connessione» (TLL, 333). Le riflessioni qui sviluppate ci spingono ad una conclusione fondamentale: il principio trontiano «Prima la classe operaia poi il capitale» (OC, 257) non esprime, come vorrebbe Negri, una duplice connotazione della classe operaia. Le due figure, l’ontologica e la dialettica, infatti, lungi dal
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rappresentare funzioni complementari della classe, rappresentano piuttosto due forme eterogenee di concepire l’antagonismo. In Tronti, la centralità dell’elemento dialettico esclude ogni connotazione ontologica del soggetto proletario: mentre il proletariato per sé è passività – spontaneità, negatività, il partito, parallelamente, incarna la facoltà costituente. In Negri invece la rappresentazione ontologica dell’autonomia della classe operaia fin dall’inizio esclude tendenzialmente la dialettica, ponendo il soggetto antagonista non come motore del capitale, ma come forza distruttrice, decostruente, rivoluzionaria. La dimensione politico-costituente, conseguentemente, è concepita come proprietà specifica del soggetto proletario. La categoria di “postoperaista”, che Negri attribuisce a Tronti quale segno del suo abbandono delle premesse metodologiche dell’operaismo, potrebbe quindi, in realtà, essere utilizzata per lo stesso Negri. Non però nell’accezione criticata da Negri; come sintomo di una scissione tra la riflessione operaista degli anni ´60, ’70 e quella sulla contemporaneità. Piuttosto come segno dell’ “originario postoperismo” di Negri che, riconfigurando fin da subito sul terreno ontologico i postulati trontiani, crea le basi metodologiche per potere estendere l’esperienza operaista fino alla contemporaneità.
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Genealogia dell’inchiesta (elogio della Nuova Sinistra) Andrea Cavazzini
L’operaismo e la sua posterità sono associati strettamente alla tematica dell’inchiesta militante, che pare costituire uno dei suoi principali tratti distintivi. Le pratiche d’inchiesta sono valorizzate, dall’inizio degli anni Sessanta, come un operatore politico decisivo per individuare e attualizzare il potenziale critico della composizione sociale. In realtà, il riferimento all’inchiesta è un leitmotiv frequente delle correnti militanti degli anni Sessanta e Settanta. La genealogia di queste pratiche nel pensiero e nell’azione rivoluzionari risale senza dubbio a “classici”: le inchieste operaie elaborate da Marx, l’inchiesta di Lenin sul capitalismo in Russia, quella di Mao sulle classi sociali in Cina… Ma è incontestabilmente nel periodo compreso tra gli anni Cinquanta e Settanta, segnato dalla ripresa delle lotte operaie e dei movimenti studenteschi, dallo svilupparsi di una contestazione radicale delle strutture di potere che innervano la vita quotidiana e dal sorgere di esperienze socialiste alternative ai modelli europei, che l’inchiesta “di base” diventa, non solo una pratica generalizzata, ma anche un momento essenziale dell’analisi della situazione e dei processi di organizzazione politica. Dunque, tra l’Ottocento ed oggi, il termine “inchiesta” ingloba una molteplicità di oggetti e di procedure che è impossibile esaurire in formule semplici ed univoche, ma di cui si possono individuare alcuni tratti comuni. Ciò che pare caratterizzare le pratiche dell’inchiesta è l’articolazione tra un’intenzione “militante”, che ambisce a trasformare una situazione o a riappropriarsi dei momenti di autonomia, e un certo uso del sapere. Il sapere prodotto dalle risorse scientifiche della sociologia, dell’etnografia e della storia, che nutre quindi l’analisi delle situazioni concrete; ma anche il sapere prodotto dai soggetti direttamente coinvolti in un contesto o una pratica, o ancora dai militantiricercatori immersi nelle situazioni singolari nelle quali essi stessi intervengono in prima persona. Seguendo queste coordinate, l’inchiesta sembra caratterizzarsi sempre di più, dai suoi inizi “classici” fin al momento della sua generalizzazione e centralità, come la sintesi tra la riappropriazione di una capacità di autonomia o di autodeterminazione ed un effetto di conoscenza indissociabile da questa riappropriazione. 123
Da questo punto di vista, si può considerare come paradigmatica l’inchiesta operaia introdotta in Italia dai «Quaderni Rossi», nella quale la ripoliticizzazione delle condizioni concrete della fabbrica si univa in modo indissociabile alla costruzione di un’analisi critica del capitalismo dei Trent’anni gloriosi e allo spostamento dell’iniziativa politica dalle direzioni partitiche e sindacali in favore dei collettivi operai e dei militanti di base. . L’inchiesta operaia dei «Quaderni Rossi», ripresa poi dall’operaismo negli anni Sessanta, sarà un punto di riferimento per la Nuova Sinistra degli anni Sessanta e Settanta. Essa resta un fenomeno paradigmatico del contesto politico e ideologico italiano, che è incontestabilmente tra i più ricchi d’Europa per quanto riguarda lo sviluppo di pratiche d’inchiesta in quanto strumento per sbloccare la sinistra rivoluzionaria dai punti ciechi dell’ortodossia terzinternazionalista e stalinista. Uno dei termini chiave utilizzati in tale contesto per interpretare e pensare l’inchiesta in quanto operatore politico, epistemologico e organizzativo è, non a caso, “conricerca”, che rimanda immediatamente all’indissociabilità tra produzione di discorsi veri sulle condizioni sociali esistenti e costruzione di un collettivo portatore di un’alternativa politica. In tal senso, la conricerca o inchiesta è indisgiungibile dalla centralità operaia, poiché è la Classe operaia il soggetto storico e sociale che incarna il punto di vista, o la prospettiva, a partire da cui una verità (critica) può essere formulata a riguardo del sistema capitalistico globalmente inteso. La genealogia dell’inchiesta resta però relativamente opaca: nella memoria generale e nelle ricostruzioni recenti della Sequenza rossa italiana, essa tende ad identificarsi alla corrente operaista o al limite ai «Quaderni Rossi» considerati alla stregua di una mera anticipazione imperfetta dell’operaismo (che daterebbe nel suo senso proprio dalla nascita di «classe operaia»). In realtà, la genealogia dell’inchiesta militante in Italia è ben più complessa e multiforme: lungi dal coincidere con l’operaismo, la sua storia è legata alla costituzione di un’area politica e morale, alternativa alla sinistra “storica” (PCI e PSI), a partire da una combinazione inedita di diversi marxismi minoritari, ma che finirà per restare irriducibile a qualsiasi eresia identificabile (trotskista, bordighista, luxemburghista, eccetera). In altri termini, l’inchiesta come pratica politica e di conoscenza appartiene alla storia trasversale della Nuova Sinistra tutta intera. Tale è la tesi di un grande storico del socialismo di sinistra, Stefano Merli, esposta in particolare nel libro L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra. Secondo Merli, l’inchiesta o conricerca è stata il frutto di un’elaborazione collettiva, a partire dall’epoca della destalinizzazione, animata in par-
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ticolare da figure della sinistra del Partito socialista e da certe correnti impropriamente definite bordighiste, ma che si dovrebbero più correttamente qualificare come “comuniste internazionaliste” o “leniniste di sinistra”, sorte dalle minoranze di sinistra della Terza internazionale precedenti la glaciazione staliniana. La figura centrale di questa discendenza è ovviamente Danilo Montaldi, a cui fu vicino politicamente il giovane Romano Alquati, membro dei «Quaderni Rossi» e cofondatore di «classe operaia». Alquati è spesso citato come l’inventore del termine e dell’idea di conricerca1. In realtà, a lui spetta il merito di averne inscritto la pratica sistematica nel contesto della grande fabbrica capitalista-avanzata producendo le prime inchieste sociologiche dedicate alla grande “istituzione totale” fordista che era la Fiat. Nondimeno, i materiali studiati, più di quarant’anni fa, da Merli, testimoniano di una genealogia dell’inchiesta ben più stratificata e complessa: nel numero del giugno 1959 della rivista «Presenza», Alquati stesso attribuisce l’invenzione della conricerca ai lavori di Montaldi e a quelli, datati 1956-1957, di ricercatori indipendenti quali Roberto Guiducci e Alessandro Pizzorno, che si riavvicineranno alla tecnocrazia socialdemocratica del primo centrosinistra all’inizio degli anni Sessanta. Stefano Merli considera come un momento cruciale della definizione delle pratiche d’inchiesta la pubblicazione, nel n°2 della rivista «Opinione», di un’inchiesta sulle forme politiche e sociali delle classi popolari nella regione di Cremona, città natale di Montaldi, intitolata Un’inchiesta nel cremonese, con una Presentazione firmata R.G. (Roberto Guiducci)2. Guiducci e Pizzorno sono tra i protagonisti, assieme a Franco Fortini, Renato Solmi, Franco Momigliano e Luciano Amodio, del periodo detto del Disgelo, in cui alcune minoranze intellettuali intraprendono una fuoriuscita critica dalla Guerra fredda allo scopo di riformare la cultura critica della sinistra italiana. La rivista «Ragionamenti», animata da Fortini, Guiducci, Pizzorno ed altri ancora, introduce in Italia Lukács e Adorno, e, con loro, il marxismo occidentale, l’analisi sociologica del capitalismo moderno e l’interesse per le tecniche sociologiche. Ma questi autori, che rivolgono il loro lavoro critico ai quadri delle organizzazioni comuniste e socialiste, non sono solo dei ricercatori e dei saggisti: molti tra loro lavorano per aziende d’avanguardia come Olivetti, di cui Momigliano e Pizzorno sono dei diSi veda ad esempio, ttp://www.infoaut.org/articolo/morto-a-torino-romano-alquati-operaista-e-inventore-della-conricerca; http://www.senzasoste.it/anniversari/morto-a-torino-romano-alquati-operaista-e-inventore-della-conricerca. 1
Stefano Merli, L’altra storia. Bosio, Montaldi e le origini della nuova sinistra, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 48. 2
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rigenti di alto livello, e tutti conoscono dall’interno il mondo industriale contemporaneo. Ciò che separa Montaldi da Guiducci e Pizzorno, con i quali la rottura sarà consumata dopo l’adesione dei due sociologi al centrosinistra, è l’idea che la conricerca non è solo uno strumento metodologico per una conoscenza più precisa della società, ma immediatamente l’operatore di un’affermazione intransigente del primato politico della classe operaia. La con-ricerca è, per Montaldi come per i «Quaderni Rossi», indissociabile da ciò che sarà poi il principio della “centralità operaia”. Lo schema storico proposto da Merli mostra quindi che l’inchiesta nasce dall’incontro di tre correnti, ciascuna delle quali costituisce un’anima della Nuova Sinistra in via di formazione: il comunismo antistalinista nato dalla sinistra della Seconda e Terza internazionale, il marxismo critico aperto alle tecniche sociologiche e alle analisi del capitalismo avanzato, e infine il socialismo di sinistra attento al potenziale politico autonomo della classe operaia. Quest’ultima tendenza è ovviamente incarnata da Panzieri, la cui figura è a giusto titolo centrale nel lavoro di Merli. Il merito di questo lavoro è di non considerare Panzieri come un generoso ma evanescente precursore (che è quanto tendono a fare le ricostruzioni ispirate dalla posterità di Alquati, Negri e Tronti), ma come il rappresentante di una linea politica ed intellettuale la cui storia è essa stessa complessa e stratificata. Qui basterà ricordare come questa storia incida sullo sviluppo dell’idea e della pratica dell’inchiesta che Panzieri teorizzerà soprattutto verso la fine della sua vita, in opposizione alla “mistica sociologica” dell’insurrezione operaia sviluppata dagli scissionisti di «classe operaia»3. È ben noto che il giovane quadro intellettuale Panzieri si rivela come dirigente politico nel Sud dell’Italia, ove è inviato dapprima nel 1946 come rappresentante alla Federazione socialista di Bari della Sinistra del PSI diretta da Rodolfo Morandi e Lelio Basso. A Bari, Panzieri conosce Ernesto de Martino, lui pure militante della sinistra socialista, che in quegli anni sta scrivendo Il mondo magico. De Martino in quegli anni compie la transizione dalla sua originaria problematica filosofica a quella delle inchieste etnografiche che sfoceranno in Sud e magia. Il filo conduttore di questo passaggio è lo studio, dapprima filosofico poi sul terreno, delle forme di coscienza delle classi dominate e del loro potenziale critico. Secondo Merli, è possibile che Panzieri abbia letto o ascoltato le tesi del Mondo magico durante la sua collaborazione con de Martino; in ogni caso, secondo lo storico, l’approccio etnologico che de Martino sviluppa in 3
Raniero Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia, in «Quaderni Rossi», 5, 1965.
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quegli anni sembra correggere l’astrattezza del marxismo di Panzieri, ancora intellettualista in quegli anni, fino ad affermare che de Martino e Panzieri sono ambedue all’origine della pratica definita prima conricerca poi inchiesta operaia, vista in primo luogo come pratica di rottura con il marxismo delle citazioni e delle formule dominante nel contesto stalinista4. In ogni caso, è chiaro che le lotte per la terra nel Sud sono state una matrice importante della cultura politica della Nuova Sinistra, precisamente per quanto riguarda il legame diretto tra militanti e classi oppresse, e in merito alla trasformazione che un tale legame induce nelle forme della politica e della conoscenza. In tal senso, la scoperta del Sud è stato un momento decisivo della valorizzazione delle forme di coscienza e di indocilità emancipatrice dei gruppi sociali detti subalterni, un momento che attraversa e complica la stessa tematica nazionalpopolare, la quale, nella linea ufficiale del PCI, significa principalmente politica di alleanze, ma che, al livello del lavoro di base, contiene dei fermenti irriducibili alla via italiana al socialismo. Non è un caso, credo, che nel già citato numero di «Opinione», un articolo di Pizzorno proponga il superamento della sociologia-letteratura dei Carlo Levi e dei Rocco Scotellaro verso una sociologia scientifica misurata essenzialmente sulle trasformazioni delle classi e del quotidiano nel Nord industrializzato5: Pizzorno riconosce infatti all’opera di Levi e di Scotellaro il merito di aver esplorato una realtà rimossa e insospettata, e di aver allargato il senso del termine “cultura” aldilà delle forme superiori dello Spirito per inglobarvi le mentalità e i saperi taciti del lavoro, del quotidiano, delle credenze implicite, arcaiche e apparentemente irrazionali6. S. Merli, Introduzione a R. Panzieri, Lettere (1940-1964), Venezia, Marsilio, 1987, p. XIII. 4
5 Alessandro Pizzorno, Abbandonare la sociologia-letteratura per la sociologia-scienza, in «Opinione», n. 1, mai 1956, citato in S. Merli, L’altra storia, cit. p. 48. 6 Si confronti l’editoriale inedito per il «Politecnico» scritto da Franco Fortini nel 1945: «Quando si pronuncia la parola cultura, viene fatto di pensare ai libri e allo studio; perché per i più, infatti, cultura equivale a sistema più o meno organizzato di conoscenze intellettuali. Per altri, e per noi, cultura è invece il modo nel quale gli uomini producono quanto è necessario alla loro esistenza, la particolare maniera, mutevole per il mutare dei mezzi di produzione, con la quale essi entrano in rapporto con gli altri uomini e con le cose. Cultura è la forma nella quale gli uomini, nella loro storia, si sono scambiati i prodotti del lavoro, costruite capanne e cattedrali, scelte le parole dell’amore; è la forma varia nella quale hanno fissato i costumi, i riti, le leggi; nella quale hanno arato i campi, esplorato il mare, condotto gli eserciti, speculato i cieli, composto i poemi» (Franco Fortini, «Una nuova cultura», in Saggi ed epigrammi, a cura di Luca Lenzini, Milano, Mondadori, 2003, p. 1232).
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Il salto qualitativo che, a partire da tutte queste esperienze e correnti, darà vita all’inchiesta operaia elaborata dai «Quaderni Rossi», e, da essa, alla centralità dell’inchiesta lungo il quasi ventennio della sequenza rossa italiana, è ovviamente indissociabile dal confronto con l’industrializzazione del Nord e con l’avvento di una società del consumo di massa, dell’industria culturale e dell’istituzionalizzazione della riproduzione della forza lavoro nel quadro del sistema fordista. La scommessa pascaliana dei «Quaderni Rossi» consisterà nell’identificare la classe operaia prodotta e riprodotta da questo sistema economico, giuridico, politico e culturale all’elemento in eccesso, ad un tempo esterno ed interno, e che costituisce al tempo stesso il motore del sistema attraverso l’estorsione pianificata del plusvalore e la prefigurazione di un’organizzazione alternativa del processo produttivo e sociale. Questa idea di una Classe che sarebbe ad un tempo un momento interno e il punto critico del sistema sociale è l’idea stessa della centralità operaia; e questa idea, che fonda tanto una posizione politica quanto il principio di una conoscenza totale della società neocapitalista, implica una pratica dell’inchiesta in quanto perno della strategia politica e del sapere intorno ai rapporti sociali. La conoscenza diretta e non mistificata dei comportamenti della classe, della sua mentalità, delle forme di pensiero e di azione attraverso i quali essa esprime il proprio antagonismo o la propria passività, diviene la condizione certamente della conoscenza critica del Capitale, della possibilità di coglierne la logica d’insieme a partire da ciò che gli è esterno e interno al tempo stesso; ma anche dell’invenzione politica, la cui difficoltà consiste allora nell’articolare la prospettiva reale del rovesciamento del sistema a ciò che la Classe esprime in termini di comportamento antagonista e di contropotere embrionale. L’inchiesta diventa così un operatore intensamente dialettico, in cui si fondono la pratica di base della sociologia, il militantismo organizzato e la teoria critica della società capitalista vista come una “totalità del falso”, come sistema dei rapporti sociali mistificati e della razionalizzazione irrazionale. La conoscenza concreta delle classi e della loro cultura globale, il legame diretto con la classe oppressa e il riconoscimento dialettico del non identico che totalizza il sistema prefigurandone il superamento: l’inchiesta dei «Quaderni Rossi» è tutto ciò insieme, e l’ultima teorizzazione di Panzieri ne rappresenta la sintesi teorica e politica. In tal senso, credo si possa parlare di uno statuto “classico” di questa formulazione dell’inchiesta, che non mi pare adeguatamente espresso dalle tendenze successive, egemoni fino ad oggi in seno alla posterità della Nuova Sinistra. L’inchiesta operaia è indissociabile dalla posizione ad un tempo centrale e decentrante della classe operaia, il che impedisce di ridurre il legame con la classe ad una semplice adesione ai suoi comportamenti immediati.
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È contro un tale immediatismo che Panzieri metteva in guardia il gruppo dei «Quaderni Rossi» all’epoca della scissione di «classe operaia»: la mistica di una Classe infallibile, di cui ogni comportamento, in apparenza regressivo, sarebbe in realtà un’espressione rivoluzionaria, è un frutto avvelenato che dai limiti interni dell’operaismo giunge fino ai discorsi contemporanei, opposti ma in realtà solidali, delle Moltitudini e del Popolo. Tanto le correnti postautonome che i neopopulisti di sinistra lavorano sulle ipotesi inverificabili di un’adeguazione tra prospettiva politica emancipatrice e descrizione empirica delle mentalità e delle condotte di gruppi sociali immediatamente dati. In tal modo, le rivoluzioni passive diventano invisibili, e la subalternità di tali gruppi al capitalismo neoliberale e alle derive autoritarie e razziste si trasforma magicamente in sintomo del potere costituente o della resistenza alla mondializzazione del Capitale. Mi pare che la complessità e la ricchezza dei significati che l’inchiesta o la conricerca hanno incarnato siano oggi rimosse dal velleitarismo e dall’impotenza critica e politica delle posizioni immediatamente disponibili. In tal senso, l’eredità della Nuova Sinistra resta ancora senza trasmissione. Possiamo essere certi che essa riapparirà, se riapparirà, in controtendenza rispetto alle continuità apparenti dei vocabolari e delle formule.
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Operaismo e Movimenti
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Elogio dell’estremismo Caratteristiche storiche dell’operaismo nel lungo ‘68 italiano Marco Grispigni Quando si parla dell’operaismo italiano nel contesto del lungo 1968, la stagione dei movimenti, normalmente vengono privilegiate due chiavi di lettura contrapposte tra loro: quella dell’italian theory, che rivendica ed esalta il carattere innovativo di questa corrente di pensiero e la sua egemonia sull’intero ciclo politico; oppure quella della ricerca dei prodromi e delle cause dell’esito violento del movimento italiano, che individua in alcuni dei maggiori teorici di questa area il “grande vecchio”, esercizio caro a tutte le ricostruzioni dietrologiche di quegli anni. Il vantaggio di un approccio storiografico a queste vicende è, invece, quello di ricostruire come una teoria politica, che nasce prima dell’esplosione della contestazione (e che non è la miccia di questa detonazione), entri in relazione feconda con un movimento sociale autonomo. Logicamente alla base di questo percorso c’è il disaccordo con l’apodittica affermazione di uno dei maggiori teorici dell’operaismo italiano, Mario Tronti. «L’operaismo italiano degli anni Sessanta comincia con la nascita di “Quaderni rossi” e finisce con la morte di “classe operaia”. Punto. Questa è la tesi»1. Questo breve saggio intende ripercorrere alcuni dei passaggi fondamentali di questa relazione tra teoria e pratica sociale conflittuale nella lunga vicenda della stagione dei movimenti e in quella delle organizzazioni maggiormente influenzate dall’operaismo, Potere operaio e Lotta continua. Il tema dell’organizzazione come quello dell’avanguardia, della centralità operaia e della ricomposizione di classe, dell’emergere di nuovi soggetti sociali conflittuali e, logicamente, della violenza, verranno affrontati all’interno delle vicende dei movimenti e del loro interagire con gli altri attori politici e sociali.
1
Mario Tronti, Noi operaisti, Roma, Derive Approdi, 2009, p. 7.
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1. L’operaismo di fronte all’esplosione della rivolta studentesca Il rapporto tra l’operaismo e l’esplosione del movimento studentesco nelle università è estremamente intrigante. Da un lato c’è fin dall’inizio una forte influenza nei gruppi dirigenti che emergono nelle differenti città, si pensi ad esempio alle Tesi della Sapienza di Pisa nel 1967 sugli “studenti come forza lavoro in formazione”; dall’altro, la rivolta studentesca non è certamente il risultato di una teoria che si è sviluppata da ormai quasi dieci anni e alcune delle figure principali dell’operaismo espressero da subito (e continuano a farlo) un giudizio negativo e liquidatorio nei confronti del Sessantotto. A parte Panzieri, morto nel 1964, una delle figure più emblematiche dell’operaismo italiano, Mario Tronti, ha sempre espresso un sostanziale rifiuto/scarsa considerazione nei confronti del movimento studentesco. L’operaismo è stato, almeno in Italia, una premessa fondante del ’68, ma è stato al tempo stesso anche una sua sostanziale critica anticipata... L’operaismo ha spinto il ’68 al di là delle sue premesse, nel ’69 non era questione di antiautoritarismo, ma di anticapitalismo. Operai e capitale si trovarono materialmente gli uni di fronte all’altro. La violenta reazione di sistema alla spallata dell’autunno caldo ha travolto il movimento o, è la stessa cosa, lo ha deviato2.
Una parte significativa dell’operaismo, per semplificare quella che proprio in quegli anni inizia un percorso che la conduce alla scelta di fare politica all’interno del Pci, considera la composizione sociale del movimento studentesco e il tema dell’antiautoritarismo come elementi alieni allo scontro di classe e in qualche modo anticipatori di quella deriva individualistica che, a loro avviso, proprio dal conflitto studentesco muove i suoi primi passi. La frase citata di Tronti è da questo punto di vista emblematica. In realtà non credo affatto che si possa affermare che l’operaismo sia stato “una premessa fondante del ‘68”. La storia del pensiero critico è lunga e per molti versi gloriosa, anche in Italia, ma spesso ‘sovradeterminata’. Le esplosioni di conflitto sociale, specie quelle più significative da un punto di vista della quantità di soggetti coinvolti e dalla durata, hanno con il pensiero critico esistente un rapporto strumentale complesso e vario. I movimenti sociali non nascono grazie a un pensiero critico ma indipendentemente da esso, come reazione o conseguenza di 2
Ibid., p. 21.
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una trasformazione sociale ed economica in atto. Questi movimenti usano il pensiero critico esistente creando genealogie assolutamente non lineari. L’operaismo è uno degli “attrezzi di lavoro” che una parte del movimento utilizzerà nel corso di questi anni. Così come non trovo convincente l’idea dell’operaismo come “premessa fondante” del movimento studentesco, ugualmente trovo meccanica e anche un po’ stucchevole la distinzione tra antiautoritarismo e anticapitalismo. Fra l’altro questa distinzione nelle riflessioni dozzinali dell’oggi (quindi assolutamente lontane dalla complessità del pensiero trontiano) ritornano assai spesso sulla coppia oppositiva diritti civili / diritti sociali che sarebbe alla base della sconfitta storica dell’idea di sinistra (non solo nel nostro paese). Al riguardo credo che invece oggi, come ieri alla fine degli anni Sessanta, questa distinzione sia profondamente reazionaria e non a caso alla base delle affermazioni di chi, muovendo da una presunta radicalità di sinistra, trova consonanze col pensiero più esplicitamente reazionario e retrivo. All’antiautoritarismo si è spesso imputato di trascurare i diritti collettivi a favore delle libertà individuali. Si tratta di una calunnia bipartisan: la contestazione dell’autorità e del suo impianto disciplinare ha sempre investito meglio e prima di partiti e sindacati le gerarchie del lavoro, gli strumenti di ricatto, la riconversione aziendalistica di ogni dimensione sociale, l’imperativo della competitività3.
Se quindi mi sembra contestabile l’idea del 1968 che hanno Tronti e una parte degli operaisti, occorre ora vedere come invece quel pensiero sia presente nel movimento studentesco e come ne influenzi le riflessioni e le azioni concrete. Ho già fatto riferimento alle Tesi della Sapienza. Più in generale nel movimento studentesco italiano non ebbero una significativa influenza le riflessioni di origine marcusiana sulla presunta integrazione della classe operaia nel sistema capitalistico grazie al consumismo. In un paese nel quale il boom economico si era basato sul notevole aumento della produttività unito alla compressione dei salari, parlare di integrazione della classe operaia era difficile e privo di concreti riscontri. L’autunno caldo del 1969, ma già le prime lotte del 1968 e l’evento simbolico dell’abbattimento della statua di Marzotto da parte degli operai in sciopero, ne erano stati la prova concreta. Marco Bascetta, No all’autoritarismo del reddito di sudditanza, «Il Manifesto» 13 ottobre 2018. 3
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Nel movimento, anche nelle sedi dove più significativa è la riflessione e l’elaborazione teorica sui concetti dell’antiautoritarismo, l’idea di interpretare la lotta degli studenti come un aspetto della lotta di classe è assai diffusa. Dice a questo proposito Marco Scavino nel suo libro su Potere operaio. ... il discorso sugli studenti come “forza lavoro in formazione” ... risultava di straordinaria efficacia... come strumento per combattere le tesi che vedevano nel movimento studentesco l’espressione di settori della piccola e media borghesia “alleati” con la classe operaia, contrapponendovi invece l’idea di un processo di proletarizzazione di massa nel quale gli studenti, in particolare quelli degli istituti tecnici e professionali, diventavano tout-court una componente della forza-lavoro sociale in rivolta contro il “piano del capitale”4.
Gran parte dei gruppi dirigenti che emergono nelle occupazioni contribuiscono a spostare l’asse del movimento studentesco dall’antiautoritarismo e dal terzomondismo verso un approccio che possiamo definire, a posteriori, operaista. Per questi settori del movimento studentesco i problemi dell’università non potevano avere soluzione rimanendo all’interno delle cittadelle universitarie. Non si trattava semplicemente di attivare una politica delle alleanze tra gruppi sociali diversi, ma piuttosto di operare per una più avanzata “ricomposizione di classe”. Infatti, se studenti, operai e tecnici erano tutti forze produttive soggette alle dinamiche di controllo e di esproprio del capitale, allora era ragionevole concretizzare questa condizione di uguaglianza in una teoria e in una pratica che riunificasse quello che fino ad allora era rimasto artificialmente diviso (ad esempio con la rivendicazione del “salario agli studenti”). La componente “operaista” si caratterizza essenzialmente per una sottolineatura del carattere socialmente determinato del movimento studentesco. Gli studenti si fanno movimento perché la loro condizione sociale è sempre più assimilabile a quella del proletariato, sia dal punto di vista della loro provenienza sociale (gli anni Sessanta sono infatti gli anni in cui inizia l’allargamento sociale dell’ingresso all’Università), sia dal punto di vista della formazione e della destinazione produttiva5. Marco Scavino, Potere operaio. La storia. La teoria, vol. I, Roma, Derive Approdi, 2018, p. 53. 4
5
p. 96.
Franco Berardi (Bifo), La nefasta utopia di Potere operaio, Roma, Castelvecchi, 1998,
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Per le avanguardie studentesche l’andata verso i cancelli delle fabbriche fu dunque un passo naturale, che si concretizzò in diversi modi: dalla costituzione di collettivi misti studenti e operai finalizzati all’analisi e al confronto sulla propria condizione subalterna, diversa ma simile, al volantinaggio davanti agli ingressi per chiedere solidarietà, per convocare manifestazioni comuni o su temi di portata politica generale. I frutti di questo lavoro comune si sarebbero visti, soprattutto in Italia, a partire dall’autunno e poi per tutto il 1969. Confermato quindi il ruolo centrale che una parte della cultura operaista ebbe nelle riflessioni e nelle azioni del movimento studentesco, occorre, però, evitare la costruzione di una memoria mitologica di quegli eventi. Il rapporto organico con la classe operaia riguardò fasce ristrette, sia di studenti che di operai. Pesò in maniera significativa nelle vicende del sindacalismo italiano, producendo analisi importanti anche sul piano teorico, ma fu confinato ai protagonisti più politici di quei movimenti. E proprio il mancato incontro di massa produsse come unica possibile scelta, la nascita dei gruppi politici (o il “bisogno” di rientrare nel seno del partito della classe operaia), in forma se non di partito, certo di avanguardie, con una propria elaborazione separata e proprie strutture organizzative diverse da quelle del movimento e delle assemblee. Allora prevaleva nella nostra cultura la concezione lineare, cumulativa e semplificante della conflittualità. Le azioni che emergevano dentro contraddizioni cosiddette secondarie sembravano destinate a confluire ed a fondersi nell’unità di rottura primaria, quella tra capitale e lavoro nella grande fabbrica fordista, che di tutte le contraddizioni, azioni ed esperienze doveva essere riassuntiva, in quanto essa sola, alla fine, risolutiva6.
Quindi il movimento studentesco del 1968 fu certamente influenzato dalle teorie operaiste, ma la sua vicenda, che travalica di gran lunga la specificità italiana, non può essere narrata e compresa inforcando unicamente gli occhiali dell’operaismo.
2. Il Sessantanove operaio L’entrata in scena della classe operaia nel 1969, con lo straordinario ciclo di lotte che riprende il testimone del conflitto sociale dalle mani degli studenti, offre una nuova centralità al pensiero operaista. Pino Ferraris, L’eresia libertaria, collana dell’istituto di studi storico-giuridici filosofici e politici, 1999, p. 65. 6
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La sentenza di Mario Tronti “eppure, là dove più potente è il dominio del capitale, più profonda si insinua la minaccia operaia”, ripresa dal suo famoso articolo Lenin in Inghilterra, sembra materializzarsi. Il principio della centralità della lotta operaia si afferma nell’evidenza dei fatti. Abbiamo visto anche noi prima lo sviluppo capitalistico, poi le lotte operaie. È un errore. Occorre rovesciare il problema, cambiare il segno, ripartire dal principio: e il principio è la lotta di classe operaia7.
Emerge nel ciclo di lotte la figura dell’operaio massa8. La razionalizzazione taylorista della produzione nella grande industria, che riduce sempre più il lavoro ai suoi caratteri astratti e impersonali, produce una gigantesca mutazione della composizione di classe. È in questo contesto che l’operaio massa diviene la figura sociale egemone nella classe operaia, protagonista del tumultuoso ciclo di lotte di fabbrica che si colloca a cavallo degli anni Sessanta e Settanta. «Il bracciante pugliese che si faceva operaio-massa a Torino, era questo l’evento strutturale simbolico che chiudeva la storia dell’Italietta»9. Sarà il granello di sabbia che punterà a inceppare il ciclo produttivo, sfruttandone la natura e le debolezze, con il minimo di rischio e di esposizione per i singoli operai: scioperi selvaggi, interruzioni improvvise, atti di sabotaggio, scontro diretto, e spesso violento, con le gerarchie di fabbrica. Porterà avanti una prepotente spinta egualitaria, insofferente delle divisioni legate alla vecchia scala professionale e una volontà di partecipazione diretta, in costante tensione conflittuale con le organizzazioni sindacali. Lontano dall’accettare qualsiasi logica di compatibilità dell’azienda, metterà al centro delle sue rivendicazioni la questione del salario, imponendo la parola d’ordine del “salario come variabile indipendente”. La Fiat è il luogo simbolico dell’autunno caldo, con gli enormi stabilimenti della Mirafiori nei quali lavorano in quegli anni circa 60.000 operai. Lì la scintilla esplode.
7
Mario Tronti, Lenin in Inghilterra, «classe operaia», gennaio 1964.
La definizione, divenuta poi famosa, secondo Scavino viene utilizzata per la prima volta da Sergio Bologna nel 1967 e poi nel 68 nel famoso saggio, scritto insieme a Giairo Daghini, sul maggio parigino e pubblicato sui «Quaderni Piacentini» (cfr M. Scavino, Potere operaio, cit. p. 53). 8
9
M. Tronti, Noi operaisti, cit., p. 35.
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... non appena gli operai addetti alle fasi finali del processo di produzione (quasi tutti di terza categoria, operai comuni senza specifiche funzioni professionali) iniziarono a scioperare autonomamente, senza alcuna indicazione sindacale, con rivendicazioni varie (soprattutto salariali), in forme caotiche e assolutamente incontrollabili, fino a paralizzare totalmente la fabbrica e a mettere in moto una generalizzazione delle lotte che sfuggiva a ogni tentativo di mediazione e di gestione sul piano meramente contrattuale10.
Il carattere dirompente dell’autunno caldo nel panorama italiano è chiaro per tutto l’operaismo. Quelle che differiscono saranno le letture di questi avvenimenti. Il ciclo di lotte che vede dopo uno spiazzamento iniziale delle organizzazioni sindacali - scavalcate dalla spontaneità, dalle rivendicazioni e dalle pratiche conflittuali - una capacità di ripresa di controllo, radicalizza le scelte e conduce a percorsi totalmente differenti. La frattura che si era già manifestata all’interno di «classe operaia» e poi nella breve stagione di «Contropiano» diviene definitiva. Il gruppo vicino a Tronti, Asor Rosa e Cacciari ritiene che solo nelle organizzazioni storiche del movimento operaio sia possibile proseguire una battaglia politica che non sia rinchiusa nel recinto del minoritarismo. La valutazione positiva di quella che Gino Giugni definì la “sindacalizzazione della contestazione” (creazione dei delegati di linea e dei comitati di reparto, articolazione delle lotte interne sul controllo dei ritmi, superamento delle commissioni interne e rinnovamento alla radice delle strutture di rappresentanza) conferma per questa area l’idea che una battaglia con esiti positivi sia possibile solo dentro il Pci e il sindacato. Si conferma la tesi che Tronti aveva chiaramente espresso già nel 1964 sul bisogno di “non consegnare il Pci all’operazione riformistica del capitale, ... costi quel che costi di sacrifici personali, di arretramenti teorici, perfino di compromessi pratici”11. Radicalmente differente sarà invece l’approccio di quella parte dell’operaismo interna all’esperienza del Sessantotto. Ai cancelli della Fiat e nell’esperienza dell’assemblea operai – studenti si consuma il tentativo rivoluzionario della costruzione di un’organizzazione dall’unificazione dei vari comitati di lotta operai. Nella primavera del Sessantanove, gruppi di militanti del Potere operaio toscano e del movimento studentesco torinese affluiscono alle porte di 10
M. Scavino, Potere operaio, cit., pp. 112-113.
11
M. Tronti, Classe e partito, «classe operaia», dicembre 1964.
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Mirafiori dove è in atto una durissima offensiva operaia, nata e cresciuta al di fuori del controllo sindacale. Il settimanale «La Classe», realizzato da un gruppo composto essenzialmente da elementi del Potere operaio veneto-emiliano e del movimento studentesco romano, interviene alla Fiat già da qualche settimana e diventa in giugno l’organo di stampa dell’assemblea permanente operai-studenti, che raduna i quadri operai che dirigono le varie lotte nei reparti e tutti i raggruppamenti studenteschi. Dopo la battaglia di Corso Traiano12, l’assemblea convoca per la fine del mese a Torino (26-27 luglio) un convegno nazionale delle avanguardie di fabbrica (“Dalla Fiat a tutta Italia: unifichiamo le lotte – costruiamo l’organizzazione”). Al convegno il gruppo di La Classe e quello formato dal Potere operaio toscano e gli studenti torinesi si dividono. La linea proposta da La Classe viene giudicata “economicista”; a una strategia che vuole identificare obiettivi capaci di disarticolare il piano del capitale e di convogliare il rifiuto operaio del lavoro, i toscani e i torinesi contrappongono un progetto che punta essenzialmente sulla crescita della coscienza antagonista operaia attraverso una mobilitazione continua e qualificata. Nell’estate si forma, intorno a questa seconda posizione, uno schieramento che comprende anche una parte del Movimento trentino e dei quadri studenteschi della Cattolica di Milano. Il gruppo decide la pubblicazione di un giornale nazionale, che riprende nel titolo lo slogan adottato nei volantini dell’assemblea operai-studenti torinese: Lotta continua. Avviene quindi una seconda rottura nell’area dell’operaismo che apre la strada ai distinti percorsi di due delle organizzazioni nate dal biennio rosso, Lotta continua e Potere operaio.
3. Senza partito non c’è rivoluzione? Leninismo, spontaneismo, autonomia del politico La rottura fra le due nascenti organizzazioni avviene proprio sul tema dell’organizzazione. Per Potere operaio, che nasce come organizzazione dopo la spaccatura dell’assemblea operai – studenti chiudendo l’esperienza della rivista «La classe» e iniziando quella di una nuova rivista «Potere operaio», è necessario passare dall’articolazione orizzontale delle lotte di fabbrica all’organizzazione centrale. Diego Giachetti, Il giorno più lungo. La rivolta di Corso Traiano, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1997 (nuova edizione 2019). 12
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... va detto chiaramente che esiste un salto dal discorso portato avanti con «La classe» a quello che si intende impostare con Potere Operaio. Non è un salto determinato in astratto, ma provocato dal livello delle lotte e in primo luogo dalle urgenze d’organizzazione... La battaglia di linea per la creazione di una direzione operaia del ciclo di lotte è un’altra cosa. Innanzitutto richiede una sede e un raggio d’intervento dei quadri operai che non sia limitato all’organizzazione della lotta in fabbrica: ma non è certo una teoria dei quadri che può garantire una direzione. È il problema del rapporto tra autonomia e organizzazione, e il ruolo delle avanguardie di classe, è il complesso rapporto che lega lotte operaie e lotte di popolo in generale, che va affrontato... Organizzazione del rifiuto del lavoro, organizzazione politica operaia... ieri il problema era quello della lotta continua, oggi il problema è quello della lotta continua e della lotta organizzata13.
La convinzione è quella che gli ultimi mesi avessero chiuso un’intera fase dello scontro di classe in Italia e ne avessero aperta una nuova, nella quale il principale “nodo” da sciogliere consisteva in un salto di qualità complessivo nel rapporto lotte/organizzazione. Si trattava della tesi [ci si riferisce alla declinazione in senso politico-rivoluzionario del tema della “composizione di classe”] che legava strettamente – in un rapporto di causa/effetto – le trasformazioni sociali e tecnico-produttive del capitalismo nell’ultimo mezzo secolo, grazie alle quali gli “operai massa” erano diventati maggioranza della classe operaia, e la crisi degli apparati politico-ideologici tradizionali del movimento operaio, che si erano invece modellati storicamente – attorno alla figura dell’operaio professionale di mestiere14.
Questa necessità di organizzazione viene declinata in Potop con un ‘brusco’ ritorno al leninismo. È vero che, a un certo punto, il gruppo dirigente di Potere operaio decise di rinunciare al contenuto più innovativo (e disincantato) del suo metodo analitico [ci si riferisce alle analisi sulla transizione in atto verso il postindustriale], per ripescare, nel pieno della battaglia politica dei primi anni Settanta, un’ipotesi leninista che non aveva realismo politico né forza esplicativa, e soprattutto riportava Potere operaio nell’alveo della tradizione autoritaria e terrorista del comunismo terzinternazionalista15. 13
Da La Classe a Potere operaio, «Potere operaio», n. 1, 18-25 settembre 1969.
14
M. Scavino, Potere operaio, cit., p. 56.
15
F. Berardi (Bifo), La nefasta utopia di Potere operaio, cit., p. 12.
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Differente l’approccio di quella parte dell’operaismo che darà vita all’esperienza di Lotta continua. Nel secondo numero del nuovo settimanale, un lungo pezzo teorico, chiarisce il punto di vista di Lc sul nodo dell’organizzazione. Quello che diventa chiaro è che le organizzazioni tradizionali hanno potuto tradire gli interessi della classe solo perché sono riuscite a spegnere l’iniziativa diretta delle masse... Allora la nuova organizzazione deve garantire in primo luogo questo: che non si riproduca un meccanismo di potere fondato sull’inerzia e sulla passività, ma si solleciti, nel massimo di disciplina collettiva e di solidarietà, il massimo di emancipazione reale degli sfruttati... Nessuna strategia rivoluzionaria può essere “inventata”, può fare a meno dell’esperienza pratica e tecnica della storia passata e presente del movimento rivoluzionario. Ma è anche vero che nessuna teoria può crescere al di fuori delle idee che le masse nelle lotte esprimono, del modo in cui la lotta di massa svela il funzionamento della società e le possibilità reali di superamento rivoluzionario... La risposta alla questione dell’organizzazione consiste sempre nel rapporto tra la crescita della lotta di classe complessiva e la sua direzione politica. Non esiste una linea politica “giusta”, indipendentemente dalla forza del movimento di massa... Se questo è vero, se l’organizzazione non è una tappa, ma un processo essa stessa, allora non esiste mai un momento determinato in cui l’organizzazione è acquisita, in cui l’avanguardia organizzata si cristallizza, si distacca dal movimento delle masse, rischiando di anteporre una sua logica interna – e inevitabilmente burocratica – a quella della lotta proletaria. Se il partito significa questa cristallizzazione, siamo contro il partito16.
Leninismo vs. spontaneismo. Questa è la netta differenza nell’idea di organizzazione tra le due formazioni della sinistra rivoluzionaria. Lotta continua propone una concezione spontaneista e movimentista dell’organizzazione, in cui ciò che conta è piuttosto la forma delle lotte che il loro obiettivo. Potere operaio insiste sul carattere decisivo degli obiettivi materiali nella definizione della direzione politica, e attribuisce alle avanguardie operaie un ruolo di direzione rigoroso, di cui l’organizzazione esterna deve farsi carico17.
Lontano da questa diatriba sarà il percorso di quel filone dell’operaismo che ha fatto la scelta di entrare/rientrare nel Pci. Incidere concretamente 16
Troppo e troppo poco, «Lotta continua», n. 1, 22 novembre 1969.
17
F. Berardi (Bifo), La nefasta utopia di Potere operaio, cit., p. 104.
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sugli equilibri politici esistenti è fondamentale e per farlo l’unica possibilità è quella di agire all’interno del partito che rappresenta la classe operaia e che ha un consenso di massa tale da influenzare la vita politica e la possibilità concreta di divenire forza di governo. Le lotte operaie determinano lo sviluppo capitalistico. Ma se su questa determinazione strutturale non si apre soggettivamente un processo rivoluzionario guidato e organizzato, che rovescia appunto il rapporto delle forze, lo sviluppo capitalistico utilizzerà, per sé, le stesse lotte operaie18.
Non c’è tempo né spazio per il sogno della palingenesi rivoluzionaria e per la nascita ex novo di una forza politica rappresentativa della classe. L’unica strategia possibile è quella dell’autonomia del politico, del ruolo di “consiglieri del principe” di una serie di intellettuali. La radicalizzazione del discorso sull’autonomia del politico, che è dei primissimi anni Settanta nasceva lì: dal fallimento dei moti insurrezionali che, dalle lotte operaie alla contestazione giovanile, avevano attraversato l’intero decennio Sessanta19.
Sulla questione dell’organizzazione e del ruolo delle avanguardie si consuma quindi, alla fine del punto alto del conflitto, una profonda divisione in quell’area che aveva mosso i suoi passi dalle acute analisi sulle trasformazioni in atto nel capitalismo italiano. Tutti sono coscienti della posta in gioco e lontani mille miglia da quella sinistra che parla di “arretratezza del capitalismo italiano”. Tutti sono coscienti che la spallata del Sessantanove operaio non ha messo in crisi radicale il sistema e soprattutto non è bastata per costruire un’egemonia sul conflitto operaio alternativa a quella dei sindacati e del Pci. Da questi punti comuni partono percorsi diversi che mirano a rilanciare il conflitto e a conquistare un’egemonia all’interno delle avanguardie di fabbrica: con un nuovo partito di quadri rivoluzionari (anche se interni al movimento reale); lottando per l’egemonia dentro il partito esistente della classe operaia; privilegiando le lotte e gli obiettivi parziali rispetto alla direzione di un partito. Tutti e tre questi percorsi, che nella realtà dei fatti non saranno mai così lineari, saranno sconfitti. Né Potop né Lc riusciranno, se non in occasioni limitate e in alcune realtà locali, a mettere alle corde il controllo sulle lotte operaie e sulla loro strategia dei sindacati e del Pci. Ma neanche 18
M. Tronti, Noi operaisti, cit., p. 30.
19
Ibid., p. 51.
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i teorici dell’“autonomia del politico” riusciranno ad acquisire un peso significativo nelle strategie del Pci: lontani, anche per il loro aristocratico senso di superiorità intellettuale, da qualsiasi possibile alleanza con la “sinistra” ingraiana interna al partito, termineranno il loro percorso intellettuale nell’irrilevanza politica e, in alcuni casi, nell’adesione al trasformismo successivo alla fine del Pci. Se quindi l’operaismo italiano resta una corrente di pensiero significativa nel quadro delle vicende del marxismo critico della seconda metà del XX secolo, credo che sia per il suo apporto teorico, per la capacità di analisi e di anticipazione delle trasformazioni in atto e non certo per la capacità di coniugare queste analisi in una pratica politica concreta. Questo, a mio avviso, resta valido anche per il cosiddetto “post operaismo” (penso, ad esempio, ai libri di culto di Toni Negri sull’Impero e sul concetto di “moltitudine”), ma questo discorso mi porterebbe ‘fuori tema’.
4. Il tema della rivoluzione. Illegalità di massa e violenza Logicamente non è possibile parlare dell’operaismo nel quadro della lunga stagione dei movimenti senza affrontare il nodo dell’uso della violenza nello scontro di classe e del successivo passaggio verso la lotta armata che coinvolse numerosi militanti operaisti. Senza limitarci al “cattivo maestro” par excellence, Toni Negri, è abbastanza noto che diversi studiosi hanno individuato nel pensiero operaista una delle cause della ‘deriva terrorista’ dei cosiddetti anni di piombo. Richard Drake è l’autore che più coerentemente, fin dagli anni Ottanta, ha messo l’operaismo e lo stesso Panzieri sul banco degli accusati. La tesi di Drake è che la causa del terrorismo di sinistra in Italia risiede nell’idea stessa di rivoluzione e nel fatto che il “carattere nazionale” italiano fosse contraddistinto “dalla presenza di tradizioni rivoluzionarie straordinariamente forti”. Partendo da questo assunto individua proprio nell’operaismo una delle scuole di pensiero responsabili di aver rinforzato questa idea di rivoluzione. In una breve ma intensa carriera, Panzieri si sforzò di vivere la rivoluzione della profezia marxista. Fu un esempio che ispirò emulazione. Vivere la rivoluzione divenne l’impulso vitale per un’eterogenea generazione di radicali marxisti negli anni Sessanta. Alcuni di essi si accontentarono di fare speculazioni accademiche sul capitalismo, altri invece iniziarono a esigere – come avrebbero successivamente fatto le tatticamente innovative Brigate
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rosse – l’immediato e violento abbattimento del capitalismo. La storia di Panzieri li illumina tutti20.
In anni più vicini a noi questa tesi è stata sostanzialmente ripresa nel lavoro dello storico Angelo Ventrone. Nel suo libro, Vogliamo tutto, l’insieme di analisi di quegli intellettuali che indagano le trasformazioni del neocapitalismo, che studiano la nuova composizione di classe, che si interrogano sulla possibilità della rivoluzione e che la ritengono possibile nell’Occidente industrializzato, vengono ricondotte sostanzialmente all’unico tema della violenza. Siamo qui addirittura oltre ai limiti del “teorema Calogero”, di triste memoria, visto che, sulle orme di Drake, si risale fino alle origini stesse dell’operaismo. Se ripensiamo a queste riflessioni, saltano agli occhi come fossero anticipati alcuni degli elementi che nel giro di poco tempo sarebbero diventati i pilastri ideologici dei settori più radicali dell’estrema sinistra e, qualche anno più tardi, anche di quelli che si sarebbero spinti fino alla lotta armata: in primo luogo, evitare a qualsiasi costo che il Pci potesse trasformarsi in un partito riformista e che in Italia potesse nascere una democrazia parlamentare compiuta; in secondo luogo, dar vita a un partito rivoluzionario in grado di disarticolare il sistema attraverso la capacità di acuire progressivamente le lotte anche tramite l’uso della violenza aperta. Ma a questi due fattori ne va aggiunto un terzo, non meno importante, anzi, a mio avviso fondamentale: la convinzione che aspettare che si realizzassero le condizioni internazionali favorevoli per poter aviare un’insurrezione nella penisola fosse in fondo una manifestazione di “opportunismo” di “disimpegno”, un modo per limitarsi a sognare, non a fare la rivoluzione21.
Più stringenti sono le riflessioni di Angelo Ventrone, che vede nell’esperienza di Potop e in quella successiva dell’autonomia operaia una “sorta di divisione del lavoro all’interno del fronte della lotta armata”22, lasciando in pace Panzieri morto ben prima di tutto questo. Ora questo saggio non intende perdersi nei meandri delle varie interpretazioni sulle origini della lotta armata in Italia ma, parlando dell’operaismo, il nodo della pratica concreta della violenza deve essere affrontato. Richard Drake, The revolutionary Mistique and Terrorism in Contemporary Italy, New Haven, Indiana University Press, 1989, p. 33. 20
21
Angelo Ventrone, Vogliamo tutto, Bari-Roma, Laterza 2012, p. 81.
22
Angelo Ventura, Per una storia del terrorismo italiano, Roma, Donzelli 2010, p. 9.
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L’intero percorso dell’operaismo, fin dall’inizio, deve confrontarsi con il tema delle pratiche violente della lotta di classe e le accuse di esserne istigatori. La vicenda di Piazza Statuto è fin troppo nota e segna fin dai tempi dei «Quaderni rossi» questo delicato tema del rapporto tra teoria e pratica. Tutte le riflessioni che provengono da questo filone sono radicali e rivoluzionarie e contemplano nella descrizione delle lotte e nelle strategie elaborate l’azione diretta, spesso anche violenta, delle avanguardie operaie in lotta, la “dura razza pagana”. La differenza passa, probabilmente con una certa dose di ipocrisia, quando nella strategia rivoluzionaria la violenza esce dai cancelli delle fabbriche e diviene esplicitamente confronto con l’apparato statuale. È qui che, consumata la definitiva separazione con l’area che sceglierà di ritornare o restare nel Pci, nei due gruppi operaisti, Potop e Lc, il tema “dell’uso della forza” nel conflitto sociale e politico viene declinato in maniera differente e con esiti non sovrapponibili. La scelta di “forzare i livelli alti di lotta”, per riprendere una frase famosa di Mario Tronti, porta in Potop alla spinta verso un’organizzazione leninista avanguardia del proletariato. In questo contesto Potop, che si pensa come “il partito dell’insurrezione”, sviluppa e articola un apparato clandestino, “Lavoro illegale” prima e poi il “Faro” (Fronte armato rivoluzionario operaio), che pratica azioni che vanno da piccoli attentati, a rapine e al reperimento di armi, mentre più in generale il gruppo accentua e teorizza la violenza nei conflitti intesa come uno strumento per combattere l’egemonia riformista sulle lotte operaie e studentesche. Il tentativo di Po era quello di proporre e praticare forme di lotta armata che non presupponessero l’esaurimento dell’attività del gruppo nell’organizzazione clandestina di attentati: si trattava, in sostanza, di rifiutare la logica terroristica senza rinunciare alla lotta armata23.
Questa opzione politica, che da Potere operaio seguirà nell’Autonomia operaia organizzata, sarà finalizzata al tentativo di forzare il passaggio dalla conflittualità sociale alla lotta armata. Si tratta dell’ipotesi di egemonizzare e governare i fenomeni conflittuali interpretati come embrioni di una presunta “illegalità di massa”, primo passaggio verso il pieno dispiegamento della lotta armata per la rottura rivoluzionaria. Questo percorso, nei primissimi anni ‘70, ha indubbiamente molti punti di contatto con la strategia che si va delineando nelle Br: lo scambio teorico, ma anche 23
Gabriele Donato, “La lotta è armata”, Roma, Derive Approdi 2014, p. 230.
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alcune azioni militari, vengono fatte in stretta collaborazione. A partire però dal 1972-73, con la scelta strategica delle Br della clandestinità, le forme di “competizione collaborativa” si trasformano in esplicita polemica politica. Inizia una fase di scontro per l’egemonia sul fenomeno della lotta armata; una vera e propria concorrenza, sia nella scelta delle azioni, sia nell’elaborazione strategica. La strategia movimentista portata avanti dall’autonomia, la scelta di restare interni ai movimenti e puntare su quello che veniva definito l’innalzamento del livello di scontro durante le manifestazioni e le occupazioni di case; la scelta di coprire e sostenere forme di violenza prepolitiche, legate all’esplosione episodica della rabbia sociale e della devianza fanno parte di una strategia politica completamente differente da quella portata avanti dalle Br. In questa fase lo scontro per l’egemonia su quell’area di militanti disponibili al salto etico e politico che comporta la pratica della lotta armata sarà duro sia da un punto di vista teorico che pratico. In quegli stessi anni la parabola di Lotta continua è invece profondamente differente. Lc, che fu l’organizzazione più importante e con più militanti/simpatizzanti fra quelle dell’estrema sinistra, si basava su un’idea di partito lontana dalla tradizione leninista a cui guardava invece Potop. Anche la teorizzazione e la pratica della violenza in Lc è differente da quella di Potop. In Lc la violenza resta, in una prima fase, sostanzialmente intesa in senso difensivo, come disponibilità a reagire sempre e ovunque agli attacchi delle forze dell’ordine, ma anche a prepararsi per rispondere a una possibile svolta autoritaria. Il tema della repressione e dei rischi di golpe sono centrali nell’iniziativa politica di Lc (e sostanzialmente assenti dalle riflessioni e dalle strategie di Potop); si pensi alla campagna virulenta contro Calabresi per la morte di Pinelli e a quella contro il “fanfascismo” del 1971-72, nella quale Amintore Fanfani, dirigente di primo piano della Democrazia cristiana e candidato alla Presidenza della Repubblica, era considerato come l’uomo di punta di una svolta autoritaria di tipo presidenzialista (il gollismo all’italiana). Questo approccio difensivo cambia con il congresso nazionale dell’aprile 1972, nel corso del quale si afferma la linea che prevede un “inevitabile scontro generale” a breve termine e quindi si decide da un lato di accentuare lo sforzo informativo, con la decisione di trasformare il settimanale «Lotta continua» in un quotidiano, dall’altro di accentuare gli aspetti politico-militari dell’organizzazione, rinforzando il servizio d’ordine e accentuando la politica dello scontro con i fascisti, simboleggiata dalla parola d’ordine, durante la campagna elettorale per le politiche del 1972, “i fascisti non devono parlare”. Lotta continua vira 147
chiaramente verso una forte militarizzazione: ne sono testimonianza le posizioni ambigue assunte in occasione delle prime azioni eclatanti delle Br, come il sequestro, a Milano, di Idalgo Macchiarini, dirigente della Sit Siemens (3 marzo 1972). In quell’occasione l’esecutivo milanese di Lc, in un comunicato, afferma che «questa azione si inserisce coerentemente nella volontà generalizzata delle masse di condurre la lotta di classe anche sul terreno della violenza e dell’illegalità». L’organizzazione sembra accettare la sfida della rincorsa all’azione sempre più violenta in competizione con Potop e le nascenti Br. Il tutto però mantenendo un livello di ambiguità tra il lancio di grandi campagne politiche pubbliche, la pratica di una violenza esplicita, ma soltanto in chiave difensiva, e le azioni offensive clandestine e non rivendicate. Qui stava la differenza tra Lotta continua e Brigate rosse nel 1972. Le Br pensavano a strutture che operavano militarmente, rivendicavano l’azione e allargavano così la loro influenza; Lc credeva che il movimento si estendesse per ragioni sociali e politiche, ma nel contempo generasse un fantasma che si muoveva nella città e nelle fabbriche e ogni tanto colpiva il nemico e trovava fonti di finanziamento. Senza mai firmare le azioni: non era un’organizzazione politica; era il movimento: era la violenza popolare che si manifestava24.
Il mantenimento di questa ambigua posizione non regge però di fronte al drammatico evento dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi, il 17 maggio 1972. Il comunicato di sostanziale rivendicazione apparso il giorno dopo sul giornale apre un dibattito lacerante nell’organizzazione. Uno dei suoi dirigenti, Luciano Pero, attacca, sulla rivista «Quaderni Piacentini», «l’opportunismo di sinistra [di] quei compagni che, pur non essendo d’accordo con la strategia del terrorismo, preferiscono eludere un giudizio politico netto, affidandosi caso per caso all’opinione delle masse»25. Il partito e il suo gruppo dirigente (in primis Adriano Sofri) esce da questo dibattito rompendo in maniera netta con le ambiguità del passato. Tra la fine del 1973 e l’inizio del 1974 la linea politica di Lc cambia e si allontana dalla teorizzazione dell’inevitabile scontro, assumendo posizioni, definite come “neo-istituzionali”, che portano all’uscita dall’organizzazione di chi è convinto della necessità di spingere i conflitti verso l’esito della lotta 24 Testimonianza di Massimo Negarville, dirigente di Lc, in Aldo Cazzullo, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, Milano, Mondadori 1998, p. 185. 25
Luigi Bobbio, Lotta continua, Roma, Savelli, 1979, p. 106.
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armata. Sarà il caso di quei militanti che si erano occupati delle carceri e che daranno vita alla breve esperienza dei Nuclei armati proletari e poi di alcune avanguardie di fabbrica del gruppo “Senza tregua” che in seguito, daranno vita a Prima linea. La posizione di Lc diviene ora chiaramente distante e opposta sia all’opzione clandestina, portata avanti dalle Br, che a quella che si sviluppa in alcune realtà geografiche dove l’Autonomia operaia sostiene la pratica dell’illegalità di massa. Questa posizione sarà portata avanti fino al 1976, quando nel congresso di Rimini il gruppo dirigente di Lc considererà impossibile continuare a governare (e/o contenere) le posizioni di chi, all’interno dell’organizzazione, a fronte della crisi dei gruppi, della sconfitta dell’ipotesi elettorale, della fine di qualsiasi speranza rivoluzionaria, sosterrà di nuovo la scelta della lotta armata. Concludendo quindi, è chiaro che parlare dell’operaismo e di alcune delle organizzazioni politiche che ispirandosi a queste riflessioni agirono negli anni Settanta significa anche parlare della violenza politica e della lotta armata. È altrettanto chiaro che ridurre a questo unico tema la complessità delle riflessioni, così come le vicende delle organizzazioni politiche che dall’operaismo presero forma, significa perdere la capacità di comprendere le ragione dell’egemonia che il pensiero operaista esercitò sul conflitto sociale italiano degli anni Sessanta e Settanta, oltre che rimuovere, con un certo imbarazzo, la riflessione sulla violenza operaia che fu una delle caratteristiche specifiche del conflitto di classe di quegli anni.
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Un seminario leninista Padova 1972-1973 Marco Rampazzo Bazzan
Nel 2003, nella prefazione scritta per la riedizione delle sue Trentatré lezioni su Lenin, Toni Negri rivendica con orgoglio gli eccellenti risultati scientifici ottenuti dall’Istituto di dottrina dello Stato dell’Università di Padova sotto la sua direzione1. Quando scrive queste pagine l’ex «barone»2 ha ormai assunto da un paio d’anni una nuova dimensione intellettuale che lo accompagna in fondo fino ad oggi. Dalla pubblicazione di Impero in poi, infatti, Negri non è più un semplice ex «cattivo maestro» (in isolamento, in fuga, in esilio, in parlamento o in carcere), ma è diventato a tutti gli effetti un ideologo planetario3. Se sottolineiamo questo orgoglio è perché vogliamo focalizzare la nostra attenzione su un aspetto della sua biografia in generale poco considerato (perché oscurato dalle vicende giudiziarie), ovvero la perdita della cattedra universitaria. Con il processo 7 aprile l’ex professore rimane, infatti, senza studenti e senza un’istituzione nella quale poter fare ed organizzare ricerca4. Relativamente a questa vicenda, dalle pagine della sua autobiografia, pare trasparire una profonda amarezza. Raccontando le attività dell’Istituto Negri ammette di provare «ancora nostalgia per quegli anni»5. A corroborare questa amarezza vi è senz’altro il fatto che, nonostante abbia scontato la pena, Negri continua ad essere persona non grata nell’Università di Padova. Stiamo 1
Antonio Negri, Trentatré lezioni su Lenin. Roma, manifestolibri, 2004, pp. 10-11.
Per Di Leo: «Tutto quello che è poi stato detto ecc. non vi deve offuscare sul personaggio. Lui era un vero barone universitario, di grandissima levatura intellettuale, profondamente inserito nel contesto della sua città, città avvolgente, Padova con tutte le sue caratteristiche. Aveva sposato un membro di una importante famiglia veneziana ed era divenuto un grande borghese, pur mantenendo le sue personali follie» (Giuseppe Trotta, Fabio Milana, L’operaismo degli anni Sessanta. Da « Quaderni rossi » a classe operaia, Roma, DeriveApprodi, 2008, p. 626). 2
Cfr. Judith Revel, Préface: Faire de la pensée un laboratoire du commun, in A. Negri, Inventer le commun des hommes, Paris, Bayard, 2010, p. 8. 3
4
Le attività in Francia non sono equiparabili a quella padovana.
5
A. Negri, Storia di un comunista. Milano, Ponte delle grazie, 2015, p. 276.
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parlando dell’istituzione che, conformemente ai sempre in voga riti della cooptazione, lo aveva consacrato come «il più giovane cattedratico italiano»6. Conoscendo la vis polemica del personaggio non è difficile immaginare l’orgoglio e la rabbia che lo animano al momento di rivendicare l’eccellenza delle ricerche realizzate nell’Istituto sotto la sua direzione. Nella sua autobiografia descrive l’attività di quella «gioiosa macchina da guerra». Ci dividiamo i compiti, seguiamo gli allievi con molta attenzione, diveniamo, nell’attività didattica e di ricerca, un luogo preferenziale per gli studenti e un polo del CNR: è sufficiente essere un professore attento e avere degli assistenti capaci e dei colleghi assidui per costruire, in un ambiente routinier, un punto di attrazione didattica e di egemonia scientifica7.
In linea con il contenuto delle Trentatré lezioni quella rabbia e quell’orgoglio divengono, nel 2003, «disprezzo leninista»8. Un disprezzo tanto maggiore quanto è evidente, ai suoi occhi, la mediocrità intellettuale di molti di coloro che in quella stessa Facoltà hanno fatto carriera anche approfittando della sua estromissione. E, forse, pure per l’incompetenza degli uni, o la rinuncia generale degli altri, ad organizzare una ricerca capace di fare di quell’istituzione un «punto di attrazione di didattica» e di «egemonia scientifica». Per prendere la misura della cesura biografica che si produce per il vecchio professore alla fine degli anni Settanta, vale la pena ricordare le parole di Rita di Leo: «Per uno integrato come era lui nell’Università, nella società della sua città, nel Partito socialista, decidere di tagliare con tutto e andare con i giovani davanti alle fabbriche deve essere stato stravolgente, e per lui si è risolto nel boomerang che sappiamo»9. Ora, il lancio e il ritorno di questo «boomerang», ovvero la traiettoria personale di Negri da «più giovane cattedratico italiano» a rinnegato, un’esperienza straordinaria se non stravolgente e sconvolgente per l’Università di allora, nel suo prodursi e nel suo arrestarsi a Padova, si lega a doppio filo con il nome di «Lenin». In queste pagine cercheremo di mettere in luce come nel seminario del 1972-73 convergano le analisi sulla ristrutturazione capitalista in atto da un lato, e le ipotesi di rinnovo delle forme di lotta e organizzazione dall’altro. Organizzare un corso su Lenin nel 1972-73 significa, per Negri, riflettere teoricamente sul problema politico fissato dalla congiuntura alla ricerca della sua soluzione 6
Ivi, pp. 268, 275.
7
Ivi, p. 276
8
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 11.
9
G. Trotta, F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 627.
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pratica, ovvero l’organizzazione del partito oltre i modelli forgiati nell’alveo della Terza internazionale10. Analizzeremo la convergenza dei piani menzionati a partire da un’osservazione che egli formula nel 2003: «Adesso ripensandoci devo ammettere che un seminario siffatto era del tutto indigeribile per l’Università italiana»11. Indigeribile ed intollerabile come mostrano ancora gli atteggiamenti di molti ex colleghi. L’ex professore ricorda così l’attività didattica di quegli anni: «Ogni anno c’era un corso diverso e le discussioni nel seminario settimanale contribuivano a verificare i temi e a fissare i punti degli interventi didattici dell’anno successivo»12. Tutti questi elementi fanno di queste lezioni non un semplice corso sulla figura di Lenin o sul leninismo, bensì un vero e proprio ‘seminario leninista’. Con questa espressione Negri esprime il paradosso di piegare le attività di una cattedra che avrebbe per vocazione «la costruzione di paradigmi di legittimità per sviluppare l’ideologia del capitalismo applicata alle tecniche di governo»13 all’orizzonte politico dell’estinzione dello Stato, ovvero dell’insurrezione14. Come scrive nell’Introduzione alla Forma Stato si trattava di fare la teoria dello sviluppo costituzionale dal punto di vista operaio, «perché quest’ultimo è sia storicamente antecedente sia logicamente più rilevante di ogni altra trafila causale»15. In un seminario leninista Lenin non è un semplice oggetto di ricerca, bensì un «prototipo metodico». Giacché «reificandone l’analisi se ne sarebbe perduta l’efficacia: si doveva farlo vivere nella ricerca»16. Come vedremo riflettendo con Lenin Negri elaborerà le sue soluzioni teoriche alle impasse del movimento. Questo aspetto fa delle Trentatré lezioni una «fabbrica della strategia». La questione che le attraversa è: come organizzare il potere operaio? Per noi, mettere in luce come nel nome e nel significante Lenin convergano lo sviluppo dell’ipotesi operaista di Tronti, l’analisi delle ristrutturazioni del comando capitalista nella cornice della crisi dello «Stato-piano», la strategia di Potere Operaio in direzione della progressiva teorizzazione 10 A. Negri, La questione Lenin in Italia anni ‘70. L: http://www.euronomade.info/?p=9656: euronomade. 11
Ibid.
12
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 11.
13
A. Negri, Storia di un comunista, cit., p. 376.
14
Negri stesso ne definisce il limite, in A. Negri, Storia di un comunista, cit. p. 268.
A. Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della Costituzione, Milano, Baldini Castoldi, 2012, p. 33. 15
16
A. Negri, Storia di un comunista, cit., p. 440
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dell’Autonomia Organizzata (che segna il periodo tra il 1973 e il 1977) è funzionale a un questionamento del nostro presente. Vogliamo chiederci infatti se, aldilà del dramma personale e delle traiettorie post-operaiste dentro e fuori l’accademia, nell‘esempio dell’Istituto di dottrina dello Stato sotto la direzione di Negri, sia racchiusa un’esperienza che ci consente di riflettere criticamente sulle nostre pratiche di ricerca in filosofia politica in relazione all’istituzione universitaria. A prescindere dalle ineludibili idealizzazioni che caratterizzano il racconto autobiografico vorremmo cogliere in quell’esperienza l’esempio un’attività di scambio tra una ricerca multidisciplinare sulle trasformazioni in atto e lotte politiche con l’ambizione di rinnovare entrambe dall’interno17. A partire da questo esempio, nella misura in cui il confronto con quel contesto ci pare segnalare un’assenza nel nostro presente, vorremmo finalmente interrogare i nostri desideri, i nostri fantasmi, le nostre pratiche come persone impegnate nella ricerca in filosofia politica negli ultimi dieci anni. Per verificare la bontà di questa ipotesi occorre, innanzitutto, comprendere quanto Negri non fosse affatto, al principio, un corpo estraneo nell’Università di Padova. La sua natura di homo universitarius trova piena conferma nel suo racconto sulle regole minimali di prudenza che avrebbe adottato come direttore dell’Istituto. Ovvero: «evitare che gli altri professori ti invidino; secondo evitare che ti ammirino; terzo, anche se si lavora di più, non chiedere più soldi, più assistenti o più spazi»18. In una parola, fare profilo basso per non inimicarsi i colleghi. Secondo quanto Di Gerolamo racconta, nel 1965 e 1966, Negri viene cooptato perché i suoi «maestri» conoscono così bene il suo posizionamento politico da ritenerne la nomina politicamente innocua, se non addirittura funzionale alla conservazione della composizione ideologica universitaria di allora19. Pur sapendo bene che era un estremista di sinistra, lo avrebbero infatti considerato una sorta di lupo solitario. Questo perché egli era non solo esterno al PCI, ma anche e soprattutto un suo acerrimo critico. Prima di vincere il concorso Negri era conosciuto politicamente come partecipante alle attività della sezione della sinistra del PSI. Inoltre, come mette in luce la testimonianza di Rita Di Leo, Negri si era perfettamente integrato nella cosiddetta «Padova bene». Fino al 1968 era insomma del tutto verosimile immaginarlo divenire uno dei – peraltro mai troppo rari – estremisti da salotto che lavorano nell’Università. 17
Ivi, pp. 377-378.
18
Ivi, p. 276.
19
Cf. ivi, pp. 268, 275.
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Tuttavia, a partire dal 1969, questa percezione del giovane ordinario e del suo estremismo cambiano rapidamente. Secondo le cronache di quegli anni, Padova diviene un centro della sovversione prima di destra, e poi di sinistra20. Negli anni ’70 l’Istituto viene additato come il centro teorico dell’eversione di sinistra21. Come noto il giudice Calogero costruisce il suo teorema su prove indiziarie accusando la direzione di Potere Operaio (Negri, Piperno, Scalzone) e in quel gruppo di professori padovani più o meno strutturati la direzione politica delle BR che, dal 75, dispiegano la loro celeberrima, terribile e fantomatica «geometrica potenza»22. Tra i capi di accusa figurano «associazione sovversiva», il sequestro Moro e «insurrezione armata contro i poteri dello Stato»23. Queste vicende sono fin troppo note e le menzioniamo ora semplicemente per ricordare le ragioni dell’oblio della dimensione universitaria di quell’esperienza. Chiediamoci cosa si facesse realmente in questo Istituto. Seguendo il racconto di Negri, potremmo dire sostanzialmente «ricerca» a partire dallo sviluppo delle ipotesi operaiste nell’orizzonte, da lui teorizzato, del passaggio da operaio massa a operaio sociale (che faceva tesoro dei lavori di Alquati, focalizzati sulla composizione di classe). Nel corso degli anni Settanta Negri, da un lato, teorizza l’autonomia come forma di avanguardia delle masse, e, dall’altro, coordina e partecipa a una serie di studi sull’impatto della ristrutturazione capitalista nella definizione dello Stato autoritario (dispotico) caratterizzato dalla cogestione dei partiti e sindacati tradizionali. Su questo doppio binario, la vocazione delle ricerche realizzate nell’Istituto sarebbe stata quella «di rinnovare il cammino marxiano, dall’analisi dei rapporti tra capitale e lavoro alla costituzione di una prospettiva comunista»24. A tal fine gli studenti venivano iniziati alla dottrina dello Stato mediante la lettura propedeutica del Capitale. «Poi ci sono i corsi per tutti, i seminari per coloro che chiedono la tesi, un pomeriggio di lavoro (ogni settimana) su quello su cui si lavora, da soli o per gruppi […] la riunione settimanale è «I neo-fascisti violenti – che da tempo occupavano Padova – e i neo-marxisti rivoluzionari trasformarono la città in uno dei principali terreni fertili del terrorismo italiano» (Richard Drake, Il seme della violenza. Toni Negri apostolo della rivoluzione nella stagione del terrorismo, in «Nuova storia contemporanea», n. 61 (2004), p. 6. 20
21 Cf. Michele Sartori, La cronaca, in Pietro Calogero, Carlo Fumian, M. Sartori, Terrore rosso, Roma-Bari, Laterza, 2010, pp. 39-41. 22
Franco Piperno, Dal terrorismo alla guerriglia, Pre-Print, 1978, p. 12.
23
M. Sartori, La cronaca, cit., pp. 5-6.
24
A. Negri, Storia di un comunista, cit., p. 277
155
anche un tavolo di decisione collettiva sulla ripartizione del lavoro didattico e sulla divisione del denaro all’interno dell’Istituto»25. Di Lenin, Negri si era occupato una prima volta all’inizio degli anni 60 su sollecitazione di Tronti. Secondo quest’ultimo urgeva approfondire lo studio dei soviet (Trotta & Milana, 2008, p. 328). Questo studio ‘su commissione’ costituisce la base del secondo dei tre blocchi nei quali Negri articola le lezioni pubblicate nel 1977. Nel primo blocco il fu professore analizza la dinamica interna del pensiero leninista. e nel terzo focalizza la sua attenzione sul problema «dell’estinzione dello Stato a partire, da un lato da Stato e Rivoluzione, dall’altro dalla condizione attuale dei rapporti di forza tra le classi e di sviluppo delle forze produttive»26. L’intento pedagogico adottato da «cattivo maestro» è evidente fin dalla prima questione che Negri affronta, ovvero il rapporto della sua generazione con Lenin. A questa questione egli risponde distinguendo l’approccio operaista da altri, ben più presenti nel panorama culturale italiano dell’epoca, ovvero, da un lato, l’interpretazione di Togliatti che costituiva il dogma del PCI e, dall’altro, quello settario da parte di gruppi marxisti-leninisti che cercavano di riproporre partiti di avanguardia sul calco del modello bolscevico. Negri qualifica la sua posizione insistendo sull’elemento di discontinuità costituito dalla diversa composizione di classe. Per lui, il pensiero marxista può confrontarsi solamente con la serie di problemi che di volta in volta si rinnovano e la continuità che assume non può essere altra che quella – dinamica e contraddittoria – del soggetto rivoluzionario cui si riferisce. Come scriverà alla fine degli anni ‘70, la composizione di classe sarebbe, infatti, sempre duplice: «è insieme oggetto di sfruttamento e soggetto di autovalorizzazione»27. La sovversione leninista di una cattedra di Dottrina dello Stato avviene mediante un rinnovo del marxismo che trova in Lenin la sua ispirazione. Nelle parole del saggio «Dall’Estremismo al Che fare?» questo rinnovo consiste nel «passaggio da un’analisi strutturale ad un’analisi politica dell’amministrazione, da una ricerca funzionale ad una definizione antagonistica»28. Questa inversione necessaria della prassi è l’arte della «rivoluzione permanente» che la classe operaia avrebbe imparato da Lenin. Ovvero l’arte di «rovesciare soggettivamente la prassi imposta attraverso la continuità della 25
Ivi, p. 276.
26
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 15.
27
A. Negri, La forma Stato, cit., p. 460
28
Ivi, p. 445.
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guerriglia politica»29. Lenin è, pertanto, il nome della capacità di inversione soggettiva della prassi esistente30. Nel 1972-73 l’obiettivo è pertanto svolgere «un’analisi marxista del marxismo» a partire dai problemi attuali. In quest’ottica Lenin diviene il nome di questa capacità (e necessità) di rinnovare il marxismo in funzione delle dinamiche in atto31. Per teorizzarlo Negri procede nel solco del giovane Lukacs secondo il quale «l’idea fondamentale di Lenin» sarebbe stata «l’attualità della rivoluzione»32. Con Lenin, la rivoluzione non sarebbe più «soltanto l’orizzonte storico universale della classe lavoratrice in lotta per la propria liberazione», ma sarebbe «già venuta all’ordine del giorno per il movimento operaio»33. Su questa base, nelle lezioni del 72-73, «Lenin» diviene il nome dell’enigma al centro delle opzioni che si prospettano all’orizzonte della militanza extra-parlamentare all’inizio degli anni 7034. «Il leninismo ritrova la sua attualità» quando «ogni mediazione salta» cosicché la critica all’economia politica è immediatamente critica dell’amministrazione, della Costituzione e dello Stato»35. Ma questo passaggio «è possibile, solo se il punto di vista operaio è soggettivamente presente»36. Leninista è il metodo che viene proposto agli studenti per formarsi alla dottrina dello Stato. La loro lettura del Capitale è una lettura politica. Per Negri, Lenin è un esempio, perché «vede lo scheletro del Capitale non tanto nella teoria economica del capitale ma piuttosto nel rapporto sociale che la teoria scopre, cioè nella formazione sociale determinata». Questo il primo elemento che ne fa una lettura politica volta alla «definizione del tessuto sociale complessivo dialettico dentro il quale il punto di vista operaio va formandosi»37. A questo si accompagna il concetto di ‘astrazione determina29
Ibid.
30
Ivi, p. 460.
«Quando considero l’altra parte di me stesso, il militante, rispetto al filosofo che umilmente sono, non riesco immediatamente a separare Lenin da Marx. Il «marxismo-leninismo» fu cosa indissolubile nella Bildung comunista del XX secolo». Lenin la rivoluzione l’aveva fatta mentre Marx l’aveva pensata (Negri, 2019). 31
32 György Lukács, Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, Torino, Einaudi, 1976. 33
Ivi, p. 15.
34
A. Negri, La questione Lenin in Italia, cit.
35
A. Negri, La forma Stato, cit., p. 32.
36
Ivi, p. 445.
37
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 27.
157
ta’ che permette «la comprensione della dialettica rivoluzionaria nel quadro della tendenza»38. Concetto fondamentale per individuare il livello più alto di sviluppo e rovesciarlo sul piano politico con una organizzazione adeguata. L’intelligenza di Lenin consiste nel leggere il Capitale come se avesse studiato anche i Grundrisse: si pone la questione del potere operaio come soggetto rivoluzionario. Ora, le Trentatré Lezioni prendono le mosse dall’impostazione operaista, ovvero «insieme una posizione totalmente revisionista, nei confronti dell’ipotesi di Lenin, e del tutto rivendicativa del suo progetto rivoluzionario»39. Ambiscono ad elaborare una riflessione critica sull’impasse del movimento e sulla sua scomposizione grupuscolare40 al fine di prospettare un’alternativa alla «autonomia del politico», considerata come l’ultima manifestazione del riformismo socialdemocratico41. Dopo l’innesco della «strategia della tensione» con lo scoppio della bomba nella Banca dell’Agricoltura a Milano, era diventato necessario elaborare una strategia. Nel corso degli anni ’70 Negri pensa questa strategia nell’orizzonte problematico, dapprima, della nozione di ‘potere operaio’ e, dopo il 1973, di quella di ‘contropotere’42, che va a costituire il filo rosso del suo essere e dirsi comunista fino ad oggi43. A livello della teorizzazione dell’operaio sociale, «contropotere» significa «soggettività potente e impaziente ma anche e soprattutto autovalorizzazione, scelta autonoma di terreni di salario e di riproduzione, difesa della sussunzione capitalistica di tutta la capacità produttiva che è propria della forza-lavoro sociale»44. In definitiva, il seminario del 1972-1973 diviene il fulcro di un lavoro teorico volto a rinnovare il comunismo, sviluppando l’ipotesi operaista nel tentativo di teorizzare il «potere operaio» di fronte alla 38
Ivi, p. 29.
39
Ivi, p. 9.
Su questo frazionamento cfr. Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro 19681977, vol 2, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 157. 40
41
A. Negri, La forma Stato, cit., p. 36.
Secondo Negri, per essere efficace, questa nozione deve comporre tre elementi: resistenza, insurrezione e potere costituente (cfr. A. Negri, Contropoder, in Contrapoder una introduccion, Buenos Aires, Ediciones de mano en mano, 2001). 42
43 I comunisti sono «coloro che riconoscono nella cooperazione lavorativa e sociale la virtualità di una praxis sovversiva. Essi trasformano questa cooperazione in contropotere. Qui, nel contropotere, non c’è mai solo una risposta oppositiva al potere ma c’è l’avvenire di un’eccedenza: il comune è il nome di questa eccedenza» (A. Negri, Chi sono i comunisti?, Roma 2017 http://www.euronomade.info/?p=8701). 44
A. Negri, La forma Stato, cit., p. 37.
158
crisi dello Stato-piano e all’integrazione sociale della classe operaia correlativa alla trasformazione autoritaria dello Stato. Questo sviluppo lo porterà all’elaborazione del ‘contro-potere’ mediante le teorizzazioni dello Stato-crisi e della svalutazione della forza lavoro45, da una parte, e dell’operaio sociale e l’autovalorizzazione operaia dall’altra. In generale, nell’esperienza universitaria padovana, Negri si propone di sviluppare un’ipotesi trontiana alla base dell’operaismo «in una ricerca orientata in maniera plurale, convocando le discipline al confronto e assumendo la conricerca come experientia crucis: verifica e invenzione»46. La parola d’ordine operaia sulla quale la ricerca si sviluppa in termini di verifica e invenzione è il «rifiuto del lavoro», letto come negazione definitiva della relazione tra capitale e lavoro. Non più solo rifiuto dello sfruttamento come era in Lenin (Negri, 2004, p. 23), bensì rifiuto di ogni ricomposizione della relazione alla base della legge del valore: «Il massimo della negazione è il massimo della sintesi. Il processo di autovalorizzazione operaia, così, la trasformazione della legge del valore, un punto centrale di rilevazione del mutamento qualitativo delle forze produttive (il proletariato) a fronte dei rapporti di produzione»47. Ma, pur negando l’opzione del riformismo dell’autonomia del politico, Negri rivendica la sua fedeltà all’ipotesi elaborata da Tronti in «Lenin in Inghilterra»48. La sfida teorica lanciata da Tronti all’inizio dell’operaismo è che la classe operaia abbia «abbandonato nelle mani delle sue organizzazioni tradizionali tutti i problemi di tattica, per riservarsi una autonoma visione strategica»49. La fabbrica della strategia dispiegata nelle lezioni negriane è in fondo un tentativo di dare forma alla «nuova sintesi» che Tronti auspicava in Classe operaia dentro e fuori: La nuova sintesi è per noi è questa consapevolezza strategico-teorica lucida e fredda di tutti i processi che avvengono all’interno del capitale, di tutti i movimenti di lotta di classe operaia, e contemporaneamente la capacità pratica di utilizzare tutte le possibilità che si offrono materialmente per conquistare posizioni di potere, posizioni di forza, perché soltanto con il potere e con la forza si possono poi rovesciare quelle soluzioni strategiche del capitale50. 45
Ivi, p. 432.
46
A. Negri, Storia di un comunista, cit., p. 477.
47
A. Negri, La forma Stato, cit., 434.
48
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 9.
49
Mario Tronti, Operai e capitale, Roma, DeriveApprodi, 2006, p. 91.
50
G. Trotta, F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 581.
159
Nella piena coscienza dell’obsolescenza dei modelli organizzativi forgiati dalla Rivoluzione russa Lenin denota, in Negri, il fulcro problematico dello sviluppo dell’ipotesi operaista sul piano politico in direzione dell’Autonomia operaia organizzata. D’altronde, nel 1963, lo stesso Tronti aveva ribadito la necessità di riprendere le discussioni sull’organizzazione tra Lenin e Luxemburg per «arrivare a una critica della concezione leninista del partito» (Riunione 27.05.63, che viene considerata una sorta manifesto dell’operaismo). Perché, come scriveva nel 1964, «la realtà della classe operaia è legata in modo definitivo al nome di Marx. La necessità della sua organizzazione politica è in modo altrettanto definitivo legata al nome di Lenin.»51. Le divergenze si producono sul tipo di partito. Per Negri, le mediazioni rappresentative e le istituzioni tradizionali hanno perso, definitivamente, ogni efficacia rivoluzionaria. Il partito deve essere realmente rivoluzionario, ovvero «fino in fondo «anti-Stato»52. La particolare fedeltà che Negri rivendica nei confronti dell’ipotesi operaista è ribadita dalla conclusione di Crisi dello Stato-piano, là dove si legge: «Per la seconda volta per noi è attuale «Lenin in Inghilterra»53. Questa rinnovata attualità di Lenin al cuore del capitalismo andrebbe mediata e compresa attraverso l’esperienza di Potere Operaio. Per Negri, il suo grande merito sarebbe di aver colto «il problema dell’organizzazione nella sua forma più estrema». Dal punto di vista teorico si trattava di risignificare Lenin, ovvero «riattualizzare» la rivoluzione con e oltre Lenin. La questione che domina è quella: «che fare?»: Il passaggio fondamentale del Che fare? è dunque questo. La lotta politica non è solo lotta economica: se la lotta politica si mantiene su un livello fabbrichista, se l’organizzazione spontanea non riesce a trovare al suo interno la capacità di rompere il processo indefinito della lotta economica e a superarsi nella determinazione di un atto di volontà soggettiva, costituitasi all’esterno, in termini di totalità, - bene, se questo non avviene, il processo dell’organizzazione non si sposta all’altezza della formazione sociale determinata e della sua necessità54.
Nel 1972 Negri rivendica questa ipotesi come la linea guida nelle sue esperienze, prima in Potere operaio, e poi nell’Autonomia. A testimoniarlo il terzo numero di Potere operaio che si intitola emblematicamente comincia51
M. Tronti, Operai e capitale, cit., p. 93.
52
A. Negri, La forma Stato, cit., p. 466.
53
A. Negri, I libri del rogo, Roma, DeriveApprodi, 2006, p. 59.
54
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 35.
160
mo a dire Lenin55. E dire Lenin è porsi la questione del potere e del partito. Insomma, il problema politico dell’organizzazione che si pone in particolare dopo Piazza Fontana, assume Lenin come orizzonte problematico per pensare un «partito dell’insurrezione»56 a partire dal presupposto inderogabile dell’inapplicabilità del modello del partito bolscevico57. Tuttavia, «finchè ci sarà lo Stato la centralizzazione politica del proletariato è assolutamente necessaria»58. Nel seminario leninista Negri ritorna criticamente sui risultati prodotti da questa parola d’ordine. Il ritorno a Lenin non può essere inteso come «la ripetizione maldestra di alcuni aforismi, la riproduzione meccanica di taluni schemi burocratici, il riflusso teorico, l’accomodamento alle posizioni del riformismo». La riattivazione di Lenin «deve farsi sostanziale adesione leninista alla prassi collettiva, alla composizione politica di classe operaia. In maniera rigorosa»59. Nonostante i suoi limiti la vocazione «neo-leninista» di Potere Operaio60, avrebbe portato alle estreme conseguenze la convinzione di Tronti secondo la quale «Il grido Lenin in Inghilterra prima gli operai poi il capitale, cioè prima le lotte operaie e poi lo sviluppo capitalistico – ebbene questo è politica»61. Nel 1972-73 «potere operaio» diviene un problema teorico da trattare con il metodo leninista. Il seminario del 1972-73 tenta di sviluppare «l’ipotesi leninista», ovvero «una reinvenzione teorica del comunismo e di un superamento insurrezionale delle strutture dello Stato»62 aggiornandola a partire dallo studio dei processi produttivi e delle trasformazioni del lavoro (post-fordismo) da un lato, e delle pratiche antagoniste spontanee o organizzate dall’altro63. È un seminario leninista perché affronta sul piano teorico-critico il problema centrale di quella congiuntura che l’esperienza di Potere Operaio ha posto in tutta la sua urgenza sul piano pratico, delineando una impasse. Potere operaio sarebbe stata una formazione neo-leninista proprio perché avrebbe sviluppato «l’analisi condotta sul livello operaio delle lotte fino al
55
A. Negri, Storia di un comunista, cit., p. 382.
56
Ivi, p. 407.
57
Cfr. ivi, p. 416.
58
A. Negri, La forma Stato, cit, p. 470.
59
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 330.
60
A. Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale, Verona, Ombre corte, 2007, p. 103
61
G. Trotta, F. Milana, L’operaismo degli anni Sessanta, cit., p. 17.
62
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 11.
63
A. Negri, Storia di un comunista, cit., pp. 439-442)
161
livello sociale» in termini di «contropotere»64. Il suo leninismo pratico vive nella ricerca sistematica di scadenze per fissare lo scontro con lo Stato65. Recuperando Lenin, Potere Operaio si opponeva ad ogni tipo di riformismo «social-democratico». Il seminario riflette teoricamente su questa esperienza cercando nel confronto con Lenin delle soluzioni che possano alimentare la prassi. «La composizione di classe, la sua determinatezza, il concetto di rivoluzione permanente, l’inversione della prassi, - questi sono i parametri sui quali si determinano le nostre operazioni»66. La grandezza di Lenin è stata nella capacità di invertire la composizione di classe come formazione sociale determinata in una teoria dell’organizzazione (partito delle avanguardie). La nuova soluzione politica, il partito dell’insurrezione, deve essere pensato a partire dalla nuova composizione di classe. Le Lezioni su Lenin dispiegano una riflessione metodologica sull’oggi: La ricerca di una teoria dell’organizzazione, di un ammodernamento del leninismo, di una rilettura interna del leninismo, per comprendere dal suo interno la formidabile potenza dei nostri problemi, e cioè quale forma di organizzazione sia possibile67.
Come abbiamo detto, Lenin non offrirebbe soluzioni in sé, ma insegnerebbe come trovarle. Diviene un metodo per tentare di rispondere al drammatico problema che l’esistenza stessa di Potere Operaio ha determinato sul piano politico, ovvero «la capacità di sviluppare il processo rivoluzionario escludendo le mediazioni istituzionali»68. Il compito del partito era «centralizzare la specificità dei vari settori proletari in un progetto di salario che ponga le basi della lotta per la riappropriazione intera della produttività sociale sempre più estesa»69. La questione dell’organizzazione del partito doveva essere rottura, di un «salto» a partire dalla teorizzazione della Crisi dello Stato-piano70. L’esigenza di questa rottura trova piena espressione nell’opuscolo Per le avanguardie del partito, là dove l’obiettivo era fissato nell’urgenza di «defi64
A. Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale, cit., p. 103.
65
Ivi, p. 105.
66
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 156.
67
A. Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale, cit., p. 108.
68
Ibid.
69
A. Negri, La forma Stato, cit., p. 470.
«La ristrutturazione capitalista cominciava a identificarsi come colossale operazione sulla composizione della classe operaia di dissoluzione della forma nella quale la classe era venuta costituendosi, determinandosi negli anni Sessanta» (A. Negri, I libri del rogo, cit., p. 113). 70
162
nire il terreno politico, le scadenze e le forme intermedie di crescita dell’organizzazione e soprattutto di contrastare con urgenza il contrattacco capitalista»71. All’opzione trontiana dell’autonomia del politico, Negri oppone pertanto l’autonomia operaia come organizzazione di «contro-potere». E nella definizione di «un programma comunista per il potere e di organizzazione politica per il potere» Potere Operaio si proclama leninista perché cosciente che «per rovesciare la crisi in crisi rivoluzionaria la parola d’ordine» doveva essere «dittatura operaia per trasformare in programma di potere il programma politico, il manifesto collettivo espresso negli anni 60»72. Tutto ciò è perfettamente coerente con la diagnosi che Negri propone nella Crisi dello Stato-piano. Il rinnovo del leninismo deve prendere le mosse dalla risposta capitalistica alla Rivoluzione d’ottobre. Quest’ultima avrebbe distrutto il modello organizzativo del 1917, ovvero il partito avanguardia forgiato da Lenin a partire dalla specificità russa di inizio secolo. Questa «risposta» capitalista sarebbe caratterizzata da due fattori: la sostituzione dell’operaio-massa all’operaio professionale da un lato, e il «contenimento riformista con l’integrazione delle organizzazioni operaie tradizionali nel governo della crisi» dall’altro73. Alla luce di ciò l’articolazione tra avanguardia e masse andrebbe «riformulata anche se in parte mantenuta puntualmente per produrre una dimensione insurrezionale». È in quest’ottica che le avanguardie avrebbero dovuto costituire focolai di lotta per aggregare le masse di sfruttati. Ovvero, l’avanguardia avrebbe dovuto organizzare «in maniera intelligente e puntuale» questa opzione contro l’impresa sociale del capitale trovando «nell’organizzazione di massa il suo referente ed il suo sostegno»74. Perché «è la forza rivoluzionaria che impone le sue regole al nemico, come i guerriglieri Viet ai marines USA»75. Questa diagnosi permette di comprendere la rivendicata fedeltà nei confronti del modo di procedere di Lenin: recuperiamo molti degli elementi che definiscono la struttura del partito leninista rivoluzionario. Riconquistiamo, in particolare, l’articolazione fra avanguardia e massa, come elemento fondamentale del programma e della forma dell’organizzazione e insieme come sequenza simultanea dell’iniziativa insurrezionale. Ma se il 1917 vive della milizia dei nuovi quadri rivoluzionari come formidabile verifica della verità 71
Potere Operaio, Alle avanguardie del partito, edizioni politiche, 1970.
72
Ivi, p. 85.
73
A. Negri, I libri del rogo, cit., p. 30.
74
Ivi, pp. 51-52.
75
A. Negri, La forma Stato, cit., p. 435.
163
storica del metodo marxista in quella fase storica – il nostro leninismo è pur nuovo nel senso più profondo, è nuovo nella misura in cui cerca la verifica di una nuova analisi di un nuovo progetto sulla nostra attuale composizione di classe76.
Le lezioni su Lenin sono altresì importanti perché sono elaborate in un passaggio storico decisivo e, per molti versi, epocale a livello tanto internazionale, che nazionale e locale. Nelle lettere scritte dal carcere di Rebibbia, ripensando al triennio 1971-73, Negri afferma che «non studieremo mai abbastanza quegli anni»77. Sul piano internazionale la data chiave è il 7 agosto 1971 quando Nixon decide di sganciare il dollaro dall’oro. Negri interpreta questa decisione come la dissoluzione di «ogni relativo parametro di certezza dei valori»78. E negli anni ’70 si svilupperebbero: tutte le sequenze che da questa decisione necessariamente promanavano: divisioni forzose e funzionali del mercato del lavoro sia a livello interno che internazionale, mobilità selvaggia, programmi recessivi, adeguate politiche monetarie...quello che era stato minato e in parte distrutto dal ciclo decennale delle lotte e cioè l’ordinato sviluppo dello sfruttamento – era ora assunto e teorizzato dal capitale internazionale come luogo e possibilità di predeterminazione di una nuova fase di accumulazione e di ristrutturazione selvaggia a livello mondiale79.
Per comprendere questo passaggio il testo marxiano di riferimento divengono i Grundrisse80. Per Negri si era di fronte alla rottura del rapporto tra denaro e sviluppo che avrebbe reso evidente «la progressiva ma inesorabile obsolescenza della democrazia borghese, dell’uguaglianza e della libertà». Ciò significava l’entrata nel «dispotismo capitalistico» che «esalta la sua figura sulla caduta della funzione nella completa disarticolazione dalle ragioni dello sviluppo». Lo Stato perderebbe la sua maschera di «garante della libertà borghese» affermandosi come «libero» ma solo in quanto «il suo potere è casuale e arbitrario». Ora dopo il 68 «sotto il formidabile impulso della lotta di classe operaia» il sistema politico italiano andrebbe in crisi imponendo «un ammo76
A. Negri, I libri del rogo, cit., p. 52.
77
A. Negri, Pipe-line. Lettere dal carcere di Rebibbia, Roma, DeriveApprodi, 2009, p. 131.
78
Ivi, p. 115.
79
Ibid.
Sull’importanza dell’attraversamento dei Grundrisse A. Negri, I libri del rogo, cit., pp.19-20. 80
164
dernamento del sistema costituzionale e un approfondimento del comando politico»81. La soluzione della crisi avrebbe imposto: una modificazione del contenuto e della fondazione del principio stesso di legittimità […] nel senso dell’’intensificazione socialdemocratica al patto sociale, nel senso della fondazione di un sistema dinamico di compartecipazione corporativa fra le classi, nel senso indice della rigida delimitazione costituzionale e dell’esclusione (criminalizzazione) delle conflittualità esogene e della devianza istituzionale82.
La compenetrazione di struttura e sovrastruttura provocherebbe insomma una trasformazione del comando in vista non più dello sviluppo, bensì del comando stesso. Questa trasformazione segnerebbe «un configurarsi totalitario della dittatura della borghesia», che assumerebbe le forme di un passaggio dal «garantismo al funzionalismo», là dove «amministrazione e costituzione» diverrebbero «funzioni dirette ed immediate, unilaterali ed esclusive del comando capitalistico sulla società intera»83. Il problema dell’organizzazione coincide, per Negri, con quello della «transizione» e la transizione nella prospettiva comunista non può essere altro che reinvenzione della dittatura del proletariato84, che nel 1972-73 viene declinata nel lemma ‘dittatura operaia’85. E Negri, come Lenin, pensa la dittatura come la compresenza di elementi vecchi e nuovi, funzionale alla disarticolazione del modo di produzione capitalista e allo Stato che lo garantisce. La base è «il contropotere che, in forme necessariamente transitorie, la classe operaia trasforma in estensione di episodi sovversivi e in approfondimento ed irriducibilità di comportamenti rivoluzionari»86. E là dove essa si produce effettivamente, questa disarticolazione costituirebbe il comunismo in quanto «movimento reale di abolizione dello stato di cose presenti»87. Ora, pensare e prospettare la transizione negli anni ’70 impli81
A. Negri, La forma Stato, cit., p. 30.
82
Ivi, p. 31.
83
Ibid.
84
Sulla transizione cfr. A. Negri, Inventer le commun des hommes, Paris, Bayard, 2010, p. 50.
85
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 81.
86
A. Negri, La forma Stato, cit., p. 460.
«Le communisme vivait déjà dans la transition,[…] comme une subjectivité active et efficace – qui se confrontait à l’ensemble des conditions de production et de reproduction capitalistes en se les réappropriant, et pouvait, à cette condition, les détruire et les dépasser. Le communisme, en tant que processus de libération était défini comme le mouvement réel qui détruit l’état 87
165
ca necessariamente un confronto con l’esperienza bolscevica. Lo implica perché si tratta di chiudere il ciclo inaugurato dalla Rivoluzione d’ottobre secondo lo schema di Stato e Rivoluzione. Dopo quell’esperienza, «la transizione non è immaginabile se non attraverso una serie di centralizzazioni funzionali organizzative di un movimento di massa permanente» al punto che «qualsiasi altra concezione della transizione» risulterebbe «reazionaria», ivi inclusa la ricostruzione di un partito sul calco di quello bolscevico88. Questo, forse, è l’unico compito effettivo che l’operaismo ci ha lasciato, problema completamente aperto tanto che la rilevanza di massa dei comportamenti operai lo ripropone oggi come fondamentale. È chiaro che, negli anni Sessanta, il problema poteva essere risolto di volta in volta, a livello di piccolo gruppo, a livello di singola lotta; ma quando nasce il problema organizzativo, quando cioè si pone il problema dell’organizzazione di massa dentro il movimento, allora esso diventa al quale occorre dare una risposta sul tono del «Che fare?»89.
Parlando del biennio 1971-1973 Negri sostiene che l’idea stessa del potere borghese si modifica: non è una risultante ma una predeterminazione: non accetta costi di mediazione»90. Molti avvenimenti fanno del 1973 una soglia epocale91: a livello internazionale l›inizio del 1973 registra la fine della guerra del Viet-Nam con la sconfitta degli Stati Uniti, e l›autunno il colpo di Stato in Cile (che indurrà Berlinguer a varare la strategia del compromesso storico), la guerra del Kippur (che porta i paesi dell’OPEC a alzare il prezzo del petrolio generando la crisi energetica a causa del varo del primo piano di austerità del governo Rumor). Insomma, il 1973 costituisce una svolta che segna l’apertura di una nuova sequenza di lotte drammatiche, sanguinarie e, spesso, disperate che troverà il suo epilogo con la manifestazione dei colletti bianchi della FIAT in opposizione all’ultimo grande sciopero (appoggiato all’occasione anche dal PCI) segnando di fatto la definitiva sconfitta operaia. Lo stabilimento della FIAT Mirafiori è teatro della fine come lo era stato dell’inizio della sequenza più drammatica delle lotte in Italia. L’esperienza actuel de choses» (A. Negri, Inventer le commun des hommes, cit., p. 38). 88
A. Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale, cit., p. 109
89
Ibid.
90
A. Negri, Pipe-line, p. 131.
91
Su questo cfr. anche A. Negri, La forma Stato, cit., pp. 13-17.
166
più importante per il tema dell’organizzazione e, quindi, anche del confronto con Lenin, è l’occupazione di questo stabilimento del marzo 1973. Questa azione viene salutata nella ventiseiesima lezione del seminario del 1972-73 con le seguenti parole: in questi giorni gli operai di Mirafiori stanno essi stessi compiendo il loro miracolo teorico, scoprendo una forma di organizzazione militare di massa dentro la fabbrica e identificando il terreno corretto del nuovo rapporto fra lotta di appropriazione e lotta di potere. Su questi temi dovremo dunque provarci, ricordando che i problemi posti dalla nostra lettura possono avere come Lenin ci indica, una soluzione definitiva solo d’ordine pratico. Alle masse la prima e l’ultima parola sempre92.
Come noto l’occupazione è decisa malgrado e dopo il raggiungimento dell’accordo sindacale vantaggioso ottenuto dalle organizzazioni sindacali dopo alcuni mesi di sciopero. Per Negri l’occupazione è il segno dell’emergenza della nuova soggettività operaia organizzata, che diventerà nelle settimane seguenti nei suoi discorsi e scritti il «partito di Mirafiori». L’occupazione diviene così il mito fondatore e l’archetipo dell’Autonomia Operaia Organizzata, che verrà fondata nel corso dell’estate successiva proprio a Scienze Politiche93. Il «partito di Mirafiori» è visto, invece, da Sartori come la prima concreta manifestazione di quel partito armato che unirà l’autonomia operaia da un lato e le Brigate Rosse dall’altro, in una strategia coordinata e complementare, all’illegalità di massa della prima, all’avanguardia armata clandestina della seconda, la prima serbatoio naturale della seconda94. Secondo il giudice istruttore Palombarini: La realtà è che se da un lato alla Fiat vi è un intervento reiteratosi nel tempo delle BR, manca del tutto l’iniziativa e l’incidenza dei gruppi, e di Potere Operaio in particolare. Che poi Potere Operaio e Lotta Continua si siano attribuiti grandi meriti in ordine all’occupazione di Mirafiori questo rientra nel rituale propagandistico dei gruppi95.
Per Negri esso è embrione del contropotere come «soggettività potente ed impaziente», che si costruisce come «l’altro movimento operaio», quello che sceglie l’autovalorizzazione come scelta autonoma di terreni di salario 92
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 271.
93
M. Sartori, La cronaca, cit., pp. 20-21.
94
Ivi, p. 15-17.
Giovanni Palombarini, 7 aprile: il processo e la storia. Venezia, Arsenale Cooperativa Editrice, 1982, p. 101. 95
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e di riproduzione, come difesa dalla sussunzione capitalistica96. Il nocciolo della prospettiva negriana è in fondo pienamente definito. Il contro-potere diviene il filo rosso per pensare l’essere comunista alla luce delle lotte, che si propongono dal popolo di Seattle ai gilets jaunes, l’orizzonte che definisce il recupero della prospettiva bio-politica, del divenire o delle moltitudini97. Il cattivo maestro ha trovato la sua ontologia. Tanto è vero che, all’inizio del nostro secolo, Negri presenta le sue lezioni del 72-73 come «un’utile introduzione» per prepararsi al compito che ci resta: «costruire il materialismo storico nell’età imperiale»98. Nostra convinzione è che lo studio di ‘quegli anni’ sia fondamentale per comprendere la crisi politica e culturale che segna il nostro presente. Per costruire una nuova sinistra è necessario comprendere «da dentro» che cosa furono i tentativi e gli insuccessi per rinnovarla, organizzare diversamente i bisogni sociali negli anni ’70. Sono tempi per ricostruire una memoria viva, cioè per riappropriarsi criticamente di temi e problemi che si definiscono nel lungo ’68. La storia (soprattutto la storia politica) è divenuta una dimensione del sapere che viene sempre più marginalizzata dalla cosiddetta offerta formativa all’Università. Per molti versi la nostra è diventata una società senza capacità di memoria come preconizzato da Adorno (e il paese ha visto svanire la cultura politica tanto nelle élites quanto nelle masse). Ora, il ritorno a Marx che si produce a partire dalla crisi finanziaria del 2008 caratterizzando gli ultimi dieci anni come crisi permanente ha visto la nascita di collettivi che hanno cercato, da un lato, di organizzare ricerca che l’Università esclude sistematicamente dal suo interno; dall’altro di discutere dell’attualità politica fuori dalle istituzioni tradizionali (partiti e sindacati). Queste esperienze hanno riunito giovani, e non più giovani, per organizzare un lavoro collettivo basato anche sul desiderio comune di una riappropriazione critica della storia del movimento comunista. Al GRM abbiamo anche noi spolverato le nostre biblioteche rileggendo Lenin, confrontandoci con la sua inattualità, ovvero con l’obsolescenza dell’opzione rivoluzionaria dal nostro orizzonte. Intraprendendo un lavoro di anamnesi della grande sequenza comunista nel secolo breve, abbiamo ricostruito i significanti ricostruendo «da dentro» politicizzazioni e innovazioni della teoria in congiuntura, riscrivendo alcune sequenze per cogliere virtualità e potenzialità dei problemi e 96 A. Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale, cit., p. 145. Su questo cfr. N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro, cit. 97
Cfr. J. Revel, Préface : Faire de la pensée un laboratoire commun, cit..
A. Negri, Trentatré lezioni su Lenin, cit., p. 13. Il riferimento a Lenin è ribadito anche in A. Negri, Contropoder, cit., p. 89. 98
168
desideri che le attraversavano con il fine di mantenere viva l’intelligenza e la ricchezza dell’ipotesi comunista alla quale il nome di Lenin rimarrà sempre indissociabile (anche nelle fasi di intervallo di Badiou!)99. In definitiva, il nostro lavoro decennale è consistito in una sorta di ricostruzione storico-critica del pensiero in congiuntura per una riappropriazione delle ambizioni e traiettorie passate aldilà dei litigi, delle vicissitudini giudiziarie o delle commemorazioni talvolta sterili o sclerotiche di coloro che ne furono protagonisti. Questa riappropriazione si è sempre sottratta a una scelta di campo immediatamente politica100. Questa opzione non avrebbe qualificato il nostro lavoro, ma lo avrebbe invece ostacolato nella misura in cui le nostre sensibilità politiche come del resto i nostri approcci hanno trovato nel gruppo una composizione dinamica e mai identitaria, fattore che ne ha costituito l’imprescindibile motore o, più semplicemente, la singolarità101. I contributi delle persone che vi hanno lavorato negli anni mostra quantomeno il GRM come un sintomo di un’assenza che si costituisce ancora oggi come un compito aldilà della sua esistenza singolare come collettivo102. Una riarticolazione riflessiva di ricerca in filosofia e storia sociale da un lato, e pratica politica dall’altro, una connessione che mi pare ancora imprescindibile per contrastare la deriva nell’insensatezza per entrambe. Una connessione per la quale il «seminario leninista» di Padova rappresenta un esempio inattuale103. Di questo esempio è probabilmente giunto il tempo di fare la storia per riappropriarsene in forma critica e creativa (e anche per girare la pagina di un passato che, non passando, rischia ormai di svanire nell’insignificanza o di ostacolare le opzioni future per nuove pratiche di soggettivazione collettiva). 99
Cf. Alain Badiou,. L’hypothèse communiste, Paris, Nouvelles editions lignes, 2009.
100
Cfr. l’autopresentazione in URL: https://grm.hypotheses.org/368.
GRM, Editorial, «Cahiers du GRM», URL: https://journals.openedition.org/ grm/120.2011. 101
102 Nella ricerca di un nuovo concetto di politica, all’inizio degli anni ‘90, Negri insiste sul fatto che «nous devons saisir le lieu d’une absence, la positivité d’une réalité latente, la main invisible du collectif» (A. Negri, Inventer le commun des hommes, cit., p. 51). 103 «Con i miei compagni-colleghi avevamo creato un dispositivo di insegnamento, attraverso seminari, che toglieva agli insegnanti ogni figura di autorità. D’altra parte, l’insegnamento era interamente fondato sulla ricerca, non volevamo in alcun modo trasmettere verità che non fossero metodiche. Ritenevamo che la funzione pubblica fosse garantita da questa apertura: chiedevamo a tutti, professori e allievi, di partecipare a una comunanza di ricerca nella costruzione della verità. Non davamo voti: solo la partecipazione pagava, non solo nell’insegnamento ma anche nelle ricerche del CNR che all’Istituto, per la sua costituzione e autorità scientifiche erano concesse» (A. Negri, Storia di un comunista, cit., p. 377).
169
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Marco Melotti: verso una critica della crisi della politica1 Diego Melegari La rivoluzione in generale – il rovesciamento del potere esistente e la dissoluzione dei vecchi rapporti – è un atto politico, nella misura in cui ha bisogno della distruzione e della dissoluzione. Ma non appena abbia inizio la sua attività organizzativa, non appena emergano il suo proprio fine, la sua anima, allora il socialismo si scrolla di dosso il rivestimento politico (Karl Marx, Glosse critiche all’articolo «il re di Prussia e la riforma sociale. Di un prussiano», 1844)
Nel 1985 un articolo apparso su «il Manifesto» a firma Gian Marco Antignani, Marco Melotti, Raffaele Sbardella e intitolato L’ideologia del quinto Stato sferrava un duro attacco alla categoria di intellettualità di massa (teorizzata in un precedente appello firmato da Marco Bascetta, Piero Bernocchi e Enzo Modugno), presentata come proiezione di un “ceto politico” che voleva «riemergere nel sociale come centralità non più di ceto politico, appunto, ma addirittura di nuova e universale classe sociale»2. Successivamente praticamente tutti gli interventi teorici di Melotti non mancarono il confronto aspramente critico con quello che, ormai molti anni fa, influenzato da letture distanti da quella di Melotti, mi è capitato di chiamare «il partito del General intellect»3. La presa di distanza di Melotti riguardava diverse sfaccettature di questa tendenza: la categoria di intellettualità di massa come espressione di una soggettività compiutamente post-fordista e capace di au1 Per la preparazione di questo contributo sono stati fondamentali, oltre ai documenti conservati presso il Centro Studi Movimenti di Parma, i suggerimenti di persone vicine a Marco Melotti: Marina Biggiero, Fabio Ciabatti, Alessio Gagliardi. Ad esse vanno i ringraziamenti dell’autore, solo responsabile di eventuali errori nella ricostruzione o nell’interpretazione.
Sulle vicende editoriali dell’articolo in questione, pubblicato anche su «Incompatibili», cfr. M. Melotti, Al tramonto del Secolo. Note a margine per una resa dei conti e una ripresa della critica, in «Vis-à-Vis», n. 4, 1996, p. 139. 2
Diego Melegari, Il problema scongiurato. Note su Antonio Negri e il “partito del General Intellect”, Pistoia, Crt, 1998. 3
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tovalorizzazione (Marco Revelli), la teoria dell’esodo e delle sue ambivalenze produttive (Paolo Virno), l’individuazione di «soggetti diventati produttori autonomi di ricchezza conoscenza e cooperazione», fino all’emergere del concetto di “moltitudine” (Antonio Negri e Michael Hardt), ma anche quelle che egli riteneva indebite aderenze al postmodernismo e al pensiero debole in Carlo Formenti, Lapo Berti e Sergio Bologna4. Fino alla «resa dei conti» con quelle impostazioni, consumatasi a partire dalle polemiche sulla mailing-list di movimento ecn.org (in particolare con il Centro Sociale “Corto circuito” e con Antonio Negri) a proposito dell’azione e dell’autorappresentazione del movimento delle “Tute bianche”. Si trattava allora, in particolare, di cogliere come intorno al termine “moltitudine” si coagulassero una certa trasfigurazione in soggetto antagonista di quella che, in effetti, si presentava piuttosto come «informe nebulosa di singolarità alienate», un rifiuto della dialettica in nome di una «contrapposizione frontale fra entità totalmente distinte ed opposte» e, infine, un attualismo sfociante, di fatto, in una «rivoluzione riformistica ininterrotta»5. La matrice comune di queste posizioni poteva essere individuata, secondo Melotti, nel «ridurre il capitale alla sua forma politica di arbitrario dominio, per potergli poi contrapporre l’altrettanto pura forma politica del proletariato “il Partito”; o comunque una qualche espressione organizzativa “costituente”, capace di condensare in sé la valenza autopoietica del “Politico”»6. Un modo per evitare «la coscienza della sconfitta, dunque, la memoria critica di essa»7. A delinearsi attraverso queste polemiche era forse l’ultima manifestazione teoricamente coerente di quell’area dell’Autonomia di classe nella quale, fin dagli anni Settanta, Melotti si era collocato, pur non identificandosi totalmente con nessuna realtà organizzata8. Approccio al quale egli resterà legato anche a cavallo e dopo il tournant del ’80, come testimoniato dal perdurare nella sua riflessione della valorizzazione del “rifiuto del lavoro” 4 Marco Melotti, Dopo il decennio rosso ‘68/’77. L’onda lunga della sconfitta e l’autopoiesi del soggetto collettivo, in «Vis-à-Vis», n. 5, p. 135. 5 Centro di Documentazione per la Critica della Politica e del Soggetto Collettivo, Redazione di «Vis-à-Vis», N’artro litrozzo, senza prescia: ché la gatta presciolosa fa li mici ciechi!, in «Vis-à-Vis», n. 8, 2000, p. 169. 6
M. Melotti, Al tramonto del Secolo, cit., p. 140.
7
Ibid.
Per una sintesi delle coordinate teoriche e politiche dell’area dell’Autonomia, cfr. Ottone Ovidi, Il rifiuto del lavoro. Teorie e pratiche dell’autonomia operaia, Roma, Bordeaux edizioni, 2015. Sulle peculiarità dell’esperienza romana, cfr. G. Marco D’Ubaldo, Giorgio Ferrari, Gli autonomi, vol. IV, Roma, DeriveApprodi, 2017. 8
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come «elemento fondamentale di unificazione»9 e dell’idea di una contro-società, «costituzione di un ‘soggetto sociale’ nella produzione che non è più solo “antagonismo” e “rigidità”, ma che comincia ad essere comunismo»10. D’altra parte, non solo ogni fuga in avanti volontaristica, ogni scorciatoia politicista, ogni “tecnica di potere” separata dall’«espressione diretta ed egemonica del farsi autonomo del soggetto collettivo rivoluzionario»11 viene duramente criticata da Melotti in tutto l’arco della sua produzione, ma la sua esperienza nell’area dell’Autonomia appare principalmente quella di un “compagno di movimento”, «“policarpico” addetto alle pubbliche relazioni» (come ebbe modo di descrivere il proprio ruolo nel tentativo di mettere in relazione la rivista “Primo Maggio” e le variegate situazioni di lotta dell’area romana)12. Dopo essere stato espulso da “Avanguardia operaia” (alla quale dopo il Sessantotto si era avvicinato soprattutto per seguire l’esperienza dei Cub e, in particolare, la realtà della Pirelli di Tivoli) per “deviazioni piccolo borghesi”, infatti, Marco Melotti si era immerso nelle mobilitazioni e nelle assemblee della Facoltà occupata di Lettere, contribuendo poi alla nascita della “Commissione fabbriche e quartieri”, in cui erano presenti vari collettivi romani che avevano attraversato il movimento del ‘77 e comitati politici di Alitalia, Atac, Ferrovie, oltre a lavoratori della Fatme13. Da quel momento, tra l’altro, il bollettino “Filo Rosso”, già esistente come espressione dei lavoratori Alitalia, si aprì alle diverse realtà in mobilitazione, divenendo di fatto espressione di un “coordinamento di movimento”14. È possibile notare M. Melotti (a cura di), Macchine e utopia, Roma, Dedalo, 1986, p. 17 (il libro raccoglie gli atti di un convegno organizzato dal “Comitato di quartiere Alberone” e dalla rivista «Quaderni del NO»). 9
M. Melotti, Tecnica di una sconfitta, in “Collegamenti per l’organizzazione diretta di classe”, Quaderno 2, Roma 1980 (cfr. http://www.chicago86.org/archivio-storico/lotte-operaie-anni-60-70/miscellanea-lotte-operaie/99-tecnica-di-una-sconfitta.html; consultato in data 28 maggio 2019). 10
11
M. Melotti, Al tramonto del Secolo, cit. p. 151.
Intervento di Marco Melotti, Dibattito su “Dieci anni di Primo Maggio”, in «Primo Maggio», n. 21, primavera 1984, p. 63. 12
13 Cfr. F. Ciabatti, Memorie dall’Osteria Melotti. A dieci anni dalla scomparsa di Marco, in «Carmilla», https://www.carmillaonline.com/2018/09/29/memorie-dallosteria-melotti-a-dieci-anni-dalla-scomparsa-di-marco/ (consultato in data 28 maggio 2019). 14 «Uno strumento di incontro tra varie realtà di lavoratori, a favorire il più possibile momenti di aggregazione tra lavoratori, a creare un ponte di contatti tra il movimento dei non garantiti e gli occupati, a favorire il più possibile momenti di aggregazione e di dibattito tra organizzazioni dei lavoratori e movimento nel territorio, ad iniziare anche se
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l’influenza di Melotti in questo frangente nella proposta di dibattito per la costruzione di un “Centro di opposizione operaia e proletaria” che, nel luglio ’77, era emersa dalla discussione interna alla Commissione. Dopo un’analisi sulla ristrutturazione in senso repressivo dello Stato in funzione della ripresa produttiva e della novità della spaccatura, creata dalla ristrutturazione capitalistica, «non più fra ‘bonzi sindacali’ e ‘delegati di sinistra’, ma fra cogestione e opposizione», si criticava aspramente la tendenza ad accettare di essere relegati al piano dello scontro militare, a discapito delle possibilità di saldatura fra strati proletari in lotta. Si trattava, quindi, di rivendicare una diversa funzione dell’operatività politica interna al soggetto di classe: Si tratta di omogeneizzare, con un lavoro intenso e continuo, situazioni di classe diverse, di comprendere e sviluppare a livello di massa i legami fra lotte in fabbrica e lotte sociali sui bisogni proletari, di costruire organizzazione di massa che esprima concretamente opposizione alla crisi non solo dei comportamenti, ma anche nel programma. Un nuovo stile di lavoro: non più l’avanguardia ideologizzata che pretende di spiegare tutto alle masse, ma una continua e profonda capacità di sapere i problemi, di afferrare i nodi posti dallo scontro e dipanarne collettivamente soluzioni e proposte […] La realtà attuale dello scontro di classe ci dimostra che la soluzione della crisi nel capitalismo non sarà un progetto insurrezionale di presa del Palazzo d’Inverno, ma passerà invece per consolidarsi di forme stabili e durature di contropotere proletario15
O, per essere ancora più diretti nelle linee di demarcazione da tracciar, come recitava un volantone a firma dei collettivi già citati: Contropotere non può essere attacco al cuore dello Stato, ma il terreno concreto di affermazione e di crescita del movimento antagonista degli operai e dei proletari in una pratica di programma e di attacco ben più articolata, che si sappia modellare sui reali livelli di capillarità del comando del capitale e del suo Stato!16 tra mille difficoltà, il dibattito con i proletari ed i comunisti nelle carceri di stato» («Filo Rosso», n. 1, febbraio 1978, p. 4). Proposta di dibattito per la costruzione di un Centro Romano dell’opposizione operaia e proletaria, luglio 1977, conservato presso Archivio Centro Studi Movimenti Parma, fondo “M. Melotti”, busta n. 6. 15
16 Collettivo Politico Alitalia e Aeroporti Romani, Comitato politico Atac, Comitato Politico Ferrovieri, Nucleo di iniziativa di quartiere Zona-Nord, La rivoluzione sta dietro una porta? Cerchiamo di aprire quella giusta!, 18 gennaio 1978, conservato presso Archivio Centro Studi Movimenti Parma, fondo “M. Melotti”, busta n. 6; ripreso in «Vis-à-Vis», n. 5, inverno 1997, p. 201.
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Si trattava, insomma, di respingere una «vocazione insurrezionalistica che faceva del confronto con lo Stato (e non con le sue articolazioni periferiche) il solo criterio per stabilire i comportamenti e decidere le iniziative», contrapponendole un’iniziativa in grado di «disarticolare il controllo e il consenso che il riformismo tenta di creare dentro la classe». Secondo una simile impostazione, infatti, lo «Stato autoritario» coincideva in primo luogo con una capacità di intervento politico nei processi di ristrutturazione della fabbrica e del mercato del lavoro, attraverso «organismi, vecchi e nuovi, del potere decentrato», di cui il “riformismo” del Pci si proponeva come sintesi privilegiata, anche declinando il tema delle “due società” come contrapposizione tra fabbrica ed emarginazione piuttosto che come effetto di controllo capitalistico nel corpo stesso della classe. È su queste premesse che Melotti ha calibrato la propria presenza militante, rapportandosi di volta in volta, in modo più o meno critico nelle varie fasi, sia a quella parte dell’Autonomia romana più vicina a impostazioni marxiste-leniniste (il gruppo de “i Volsci”), sia a “Unità Proletaria” (in particolare attraverso il rapporto intellettuale con Raffaele Sbardella), sia persino alla distante “Organizzazione Proletaria Romana”17, quando la priorità era arginare tendenze avventuristiche del movimento. A fianco di questa attività direttamente politica spicca la collaborazione con riviste della sinistra rivoluzionaria quali “Primo Maggio”, “Collegamenti Wobbly”, “Quaderni del NO” e “Incompatibili”, fino alla rivista “Vis-àVis”. di cui divenne il principale ispiratore. Potremmo individuare un presupposto alla base del percorso teorico di Melotti nell’idea che la dialettica di soggetto-oggetto, una volta interpretata materialisticamente, non potesse che esprimersi storicamente in un «movimento a spirale», nell’«alternarsi, cioè di fasi di fusione collettiva (…) con pericoli di scomposizione passivizzante nell’atomismo del ciclo della merce»18. Da un lato è opportuno notare come questa posizione si alimentasse di una lettura di Marx che, appoggiandosi soprattutto sull’opera di Maximilien Rubel e rifiutando ogni ipotesi di “rottura epistemologica”, avvicinava matura critica dell’economia politica e testi come le Note critiche in margine all’articolo ‘il re di Prussia e la riforma sociale del 184419. D’altro lato bisogna precisare che, in Melotti, tali dinaAA. VV., Una storia anomala. Dall’Organizzazione proletaria romana alla Rete dei comunisti, primo volume, Il conflitto di classe negli anni Settanta, scaricabile al sito: http:// lnx.retedeicomunisti.net/2019/04/17/una-storia-anomala-il-conflitto-di-classe-negli-anni-70-primo-volume-dallorganizzazione-proletaria-romana/ (consultato il 29 maggio 2019). 17
18
M. Melotti, Dopo il decennio rosso ‘68/’77, cit., pp. 148-149.
M. Melotti, Il fantasma del Moro di Treviri. Alcune questioni di metodo e di merito, in «Vis-à-Vis»n, 3, p. 49. 19
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miche ricorsive, che in diversi passaggi riecheggiano la distinzione sartriana tra “gruppo in fusione” e “pratico-inerte”20, chiamavano principalmente in causa «l’esprimersi storico del soggetto collettivo di classe nelle forme a lui proprie del movimento di massa»21. È, quindi, a partire da questa articolazione tra parzialità di classe e dimensione di massa, pensata rigorosamente a distanza di ogni ipotesi di ricomposizione puramente politica, che gran parte delle elaborazioni e delle aspre polemiche di Melotti vanno comprese. In effetti, è proprio sulla scorta della «contraddizione antagonistica», individuata da Rubel, tra Marx e il marxismo e in nome di un corrente carsica di comunismo libertario «sempre sconfitta e sempre risorgente» che, al centro della sua elaborazione, si pone costantemente la critica alla politica, in quanto sfera inevitabilmente alienata, espressione della stessa logica dell’astratto permeante l’economia e, infine, luogo privilegiato di identificazione tra la “Sinistra” e il “Politico”, nella forma della mediazione o del volontarismo rivoluzionario. In un momento in cui il capitale sembrava «farsi beffe di quanti si erano inebriati del delirio di potenza di una autonomia della politica», mostrandosi in grado «di aggredire direttamente il livello centrale della mediazione politica, il livello della rappresentanza» 22, in cui si realizzava, quindi, la «diretta conquista capitalista dello Stato» con l’altrettanto diretta surdeterminazione della forma politica da parte del suo contenuto economico23, era importante tenere distinte le diagnosi sulla crisi dei meccanismi di rappresentanza borghese e la critica teorica alla politica. Era proprio assumendo radicalmente la seconda che le prime potevano essere sviluppate e valorizzate, sia dal lato delle ristrutturazioni del rapporto tra statualità e capitalismo sia da quello di alcune derive interne ai movimenti. Dal primo lato si poteva certamente riconoscere come «legittima e necessaria la battaglia per il ripristino di tutti quegli spazi che connotano la forma-stato in funzione di una dialettica politica da garantire e mantenere aperta ed attenta a riverberare in sé, sia pur in forma alienata» gli antagonismi percorrenti il tessuto sociale. A questo proposito Melotti arrivava persino a riconoscere che «la critica della politica troppo spesso si è andata trasformando fra le nostre fila in crisi e fine della politica», impedendosi così di cogliere, ad esempio, l’importanza della resistenza di classe sul fronte del salario sociale e delle forme istituzionali 20
M. Melotti, Dopo il decennio rosso ‘68/’77, cit., p. 145.
21
Ivi, p. 149.
22
M. Melotti, Il fantasma del Moro di Treviri, cit., p. 61.
23
M. Melotti, Dopo il decennio rosso ‘68/’77, cit., p. 146.
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in grado di garantirlo24. Dall’altro Melotti non cessava di sottolineare la continuità tra autonomia del politico e autonomia del militare, disastrosa e colpevole «sorta di ‘tubo-Venturi’ che avrebbe dovuto coartatamente imprimere un’accelerazione al tempo storico, attraverso cui spezzare la cogenza delle condizioni materiali date e trascenderle»25. Non c’è forse descrizione migliore della dialettica tra questi due poli che la diagnosi sul chiudersi del ’77: La critica della politica per un verso si concluse nella crisi della politica tout-court e nel riflusso e nell’isolamento di migliaia di compagni, per un altro non riuscì a disvelare l’inganno perpetrato da chi pretendeva sostituire le regole formali della mediazione astratta, appunto, della politica quelle altrettanto astratte, sia pur di tragico spessore, dello scontro armato: lo scontro fine a se stesso di avanguardie oggettivamente isolate è solo vuota forma, così come la sua mediazione politica o anche la sua estremizzazione militare. Si tratta in ogni caso di dimensioni iscritte nel regno dell’astratto, ove i concreti protagonisti sociali tacciono o peggio vengono costretti al silenzio nella delega più o meno coartata a chi, di volta in volta profittando dei loro limiti oggettivi (e quindi anche soggettivi), pretende surrettiziamente di rappresentarne la più intima valenza26.
Paradossalmente a fare le spese di una mancata critica della politica fu così proprio la politica ancora pensabile, e fondamentale, anche alla luce dell’istanza utopica marxiana, ovvero colta come «dimensione, pur sempre alienata, ma in cui è possibile fare sopravvivere la memoria e la speranza» di una comunità umana esiliata27. Infatti, come ebbe modo di scrivere Melotti, la «‘corte dei miracoli’ (…) sociologicamente frammentarizzata, ideologicamente schizoide e babilonica» del movimento del ’77 era approdata, passando «dalla percezione dell’emarginazione coatta, alla riproposizione miope e alla lunga suicida della propria auto-emarginazione», ad un «rifiuto paranoide della politica, intesa come scienza della mediazione teorico-pratica, dell’articolazione operativa sul piano progettuale»28. I risultati erano sintetizzati da Melotti con 24
Ivi, p. 137.
25
M. Melotti, Al tramonto del Secolo, cit., p. 152
M. Melotti, L’onda lunga del biennio ‘68/69 e le dinamiche della crisi (atti del Convegno di Bologna 12-13 marzo 1994, Centro di Documentazione Francesco Lorusso), in «Vis-à-Vis», n. 3, 1995, p. 220. 26
27
M. Melotti, Il fantasma del Moro di Treviri, cit., p. 55.
28
Intervento di Marco Melotti, Dibattito su “Dieci anni di Primo Maggio”, cit., pp.
63-64.
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estrema durezza: «il rifiuto della politica diventava privilegiamento esclusivo del ‘militare’»; l’introiezione della teoria delle due società si trasformava in elusione del rapporto con il tessuto operaio e proletario delle città; una certa declinazione della tematica dei bisogni apriva ad una «pratica miopemente ribellistica»; la radicalità appariva «misurabile solo in termini di durezza di scontro con l’avversario»; un fantomatico “operaio sociale” veniva sistematicamente riconosciuto nei «deliri dell’‘operaio soldato’»; si affermavano, infine, un’esasperata logica del “tanto peggio tanto meglio” e «l’ideologia dello scontro e l’individuazione semplicistica dello Stato come orrendo Moloch repressivo», con la reintroduzione «di tutto il ciarpame terzo internazionalista»29 Ma quali sommovimenti sociali avevano posto le condizioni di questa strettoia e quale riformulazione del soggetto si rendeva, allora, pensabile? Per rispondere diventava indispensabile, secondo Melotti, leggere i processi effettivi che erano alla base di quello che i teorici dell’intellettualità di massa e della moltitudine presentavano come singolarità storiche già realizzate, piuttosto che come tendenze ricorrenti. Alla base della categoria di “postfordismo”, ad esempio, vi sarebbe stato effettivamente, secondo Melotti, un «salto tecnologico epocale», consistente nella ristrutturazione produttiva a partire da dispositivi tele-informatici, entrati in circuito attraverso un’innovazione organizzativa risalente, con Taichii Ohno, alla fine degli anni ‘4030. Esso, però, avrebbe prodotto un assorbimento del saper operaio nelle macchine, una capillarizzazione della «trasmissione spettacolarizzata dell’ideologia dominante» e un’interiorizzazione del dominio di classe «nella stessa struttura interna della quotidianità individuale delle persone»: «la borghesia dell’era tecnologica ha aperto le proprie frontiere di classe, instaurando la cooptazione formale di vasti strati sociali31. Come si vede da questo esempio nella lettura di Melotti le ricadute sul piano della composizione di classe (ove ad una quota crescente di lavoro produttivo residuo che «‘promossa’ al rango di soggetto stabile del processo di valorizzazione» sembrava corrispondere un «processo di estraneazione-espropriazione di una massa via via crescente di proletari»)32 si intrecciavano a quelle antropologiche, dal momento che lo stesso “immaginario collettivo” appariva riplasmato dalla velocizzazione e diffusione della merce-informazione33. 29
Ibid.
30
M. Melotti, Dopo il decennio rosso ‘68/’77, cit. pp. 130-131.
31
M. Melotti (a cura di), Macchine e utopia, cit., p. 13.
32
Ivi, p. 19.
33
Ivi, p. 21.
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Se si guarda al lato della produzione a delinearsi era un movimento per cui la rottura della rigidità della catena taylorista si traduceva in rottura della rigidità antagonistica della classe, mentre la limitazione del conflitto allo spazio della fabbrica si rovesciava in una ghettizzazione rispetto alla trasversalità messa in campo dal movimento del ’77 e dalle mobilitazioni immediatamente successive34. È quanto era accaduto, secondo Melotti anche a seguito di una strategia consapevole del Pci, con la svolta tragica dell’80 alla Fiat: È come se tutti i nuovi soggetti emersi nelle lotte dell’estate ’79 – che avevano allora impegnato al livello più alto la lotta dentro i nuovi processi produttivi, dentro l’automazione e l’informatizzazione operassero invece adesso una sorta di delega verso la vecchia composizione di classe. Una composizione rigida sì, ma rigida in difesa […] Assistiamo ad una divaricazione pazzesca fra composizione tecnica e politica della classe. Eravamo abituati a vedere marciare insieme questi due aspetti: oggi, invece di fronte ad una composizione tecnica mutata, modernamente razionalizzata dall’introduzione dell’automazione, della cibernetica, della flessibilità delle lavorazioni, troviamo una composizione politica anni 50 egemonizzata dal Partito prima che dal sindacato. Come dire che la coscienza politica è posta fuori dalla fabbrica, esternamente ai rapporti di produzione, e a questo punto deve fare i conti con una società normalizzata35.
Si assisteva, dunque, ad uno scorporarsi della fabbrica in «una complessità reticolare transnazionale tendenzialmente illimitata», in grado di ottundere l’alterità operaia, ridotta «nella fabbrica hi-tech a pura esternità, incomunicante e monadica solitudine», proprio nel momento in cui sussumevano intenzionalità, coscienza e libertà, cosificandole36. D’altra parte, a questa valorizzazione della “forza-intenzione” (non solo della forza-lavoro) corrispondeva un movimento che veniva al tempo stesso evocato e banalizzato nel termine “globalizzazione”: si trattava della rinnovata capacità del capitale di «ottimizzare la propria valorizzazione tramite un sapiente uso delle sue interne differenziazioni particolari», in modo tale che, pur restando «Il ’77 fu anche e fondamentalmente questo: la scommessa di riuscire a gettare un ponte fra due entità, degli occupati e dei disoccupati, apparentemente così inconciliabili eppure così vicine, nel comune essere frutto della selvaggia rivincita che il capitale si stava prendendo, con l’imposizione generalizzata dell’assoluta precarizzazione del rapporto di salario»; cfr. M. Melotti, Il ’77 e la crisi , in «Vis-à-Vis», n. 5, 1997, p. 206. 34
35
M. Melotti, Tecnica di una sconfitta, cit.
36
M. Melotti, Al tramonto del Secolo, cit., p. 176.
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trainanti i settori a più alto tasso innovativo, diveniva di fatto impossibile prevederne, a breve termine, un livellamento37. Ad essere mobilitato era, allora, il Panzieri di Plusvalore e pianificazione, laddove presentava «un modello dinamico generale del modo di produzione capitalistico, nel quale ogni ‘fase’, quelle che nella fase precedente si presentavano come controtendenze subordinate ad altre tendenze prevalenti, possono rovesciarsi a loro volta in nuove tendenze dominanti»38. Una volta giocata sincronicamente, a livello di mercato-mondo, la «bipolarità di plusvalore assoluto e plusvalore relativo» consentiva una «varietà di composizioni fruibili da parte capitalistica, pressoché infinita», in una strutturazione a macchia di leopardo tra livelli di innovazione, composizioni di classe, contesti territoriali e culturali. Riassumeva efficacemente Melotti: «in parole povere ci si dice sostanzialmente che il capitale oggi è in grado di “farsi i cazzi suoi” rivestendo i panni che meglio crede a seconda della situazione in cui sceglie di…operare»39. A una effettiva decentralizzazione della rete della produzione corrispondeva, d’altra parte, una centralizzazione del controllo (al limite verso la costituzione di poli imperialistici), il che spingeva ad una certa erosione del valore del rapporto salariale, proprio nel momento della sua massima estensione in quanto fattore di cementazione sociale40 A prendere corpo in questo intreccio sembrava essere, per così dire, l’ultima (in ordine logico direi, non necessariamente storico) avventura dell’astrazione reale: «l’astrazione universale”, come sostanza reale della “comunità materiale del capitale antropomorfizzato”», centrato su «un’intensificazione smisurata della produttività umana, oggi sfruttabile in ogni sua più peculiare, immateriale manifestazione»41. In questo passaggio ad entrare in contraddizione sarebbero state, quindi, «la miseria universale del ‘capitale totale’” e l’“infinita ricchezza della ‘comunità umana’» in essa racchiusa, ovvero il nocciolo più profondo dell’utopia concreta di Marx42. Era, infatti, la nozione di Gemeinwesen ad essere assunta da Melotti come teoria della sog37
M. Melotti, Dopo il decennio rosso ‘68/’77, cit., p. 132.
M. Melotti, Al tramonto del Secolo, cit., p. 163. Il riferimento è a Raniero Panzieri, Plusvalore e pianificazione. Appunti di lettura del Capitale, in «Quaderni Rossi», n. 4, 1964, poi in Id., Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei “Quaderni Rossi” 1959-1964, a cura di S. Merli, Pisa, BFS Edizioni, 1994, pp. 54-55. 38
39
M. Melotti, Al tramonto del Secolo, cit., p. 170.
40
Ivi, p. 173.
41
Ivi, p. 175.
42
Ivi, p. 156. Il riferimento è a Jacques Camatte, Il capitale totale, Dedalo, Bari 1976.
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gettività collettiva43. A fronte della divaricazione fra composizione tecnica e composizione politica, la nozione centrale diventava quella di “proletariato universale”, al tempo stesso trasversale all’intero ecosistema del capitale e affrancata da qualsiasi rapporto predeterminato: una «sorta di “non classe”, depositaria però di una potenziale valenza autenticamente classista, e del tutto refrattaria a lasciarsi ghettizzare nell’ideologizzazione della propria separatezza»44. A riattivarsi in questi passaggi è, evidentemente, la nozione di proletariato emergente dall’Introduzione alla critica della filosofia del diritto di Hegel: «ceto che coincide con il decomporsi di tutti i ceti», oggetto di una ingiustizia totale e soggetto di un totale riscatto. Allo stesso tempo Melotti continuava a sottolineare la necessità materialistica di individuare una figura di classe interna a settori produttivi a partire dai quali si potesse innescare un’incrinatura nel quadro complessivo del capitale. La nozione fondamentale diveniva, allora, quella di centralità strumentale, il solo senso in cui appariva ancora possibile parlare di centralità della classe. Ecco la centralità della classe operaia, o, meglio, di un suo precipuo segmento, sta ancora tutta qui. Non tanto nella garanzia di un suo immediato, diretto passaggio dal livello della dialettica di mercato, “giocata” con la controparte padronale, a quello dell’antagonismo storico/strategico, rispetto all’essenza del rapporto di capitale (ché, anzi, nessuna deterministica certezza è data, né mai lo sarà, del meccanico costituirsi politico della “classe per sé”, a partire dalla sua originaria connotazione di merce, di fattore soggettivo della produzione), quanto nel suo essere strutturalmente modellata dentro il ciclo della produzione, nella sua stessa composizione tecnica, dunque, in base alla quale detiene un potenziale ma oggettivo ed esclusivo potere di veto assoluto e definitivo nei confronti della globalità del modo di produzione capitalistico e delle sue interne articolazioni45.
Al di là del richiamo alla necessità dell’inchiesta qui si gioca uno dei punti di discrimine che conducono Melotti a riportare criticamente l’eredità dell’operaismo, compreso quello più radicale, nel grande alveo dell’“autonomia del Politico”. La distanza si consuma rispetto ad una modalità di pensiero che, dopo il depotenziamento dell’operaio massa nella metà degli anni Settanta, non avrebbe fatto altro che designare come centrali singoli frammenti di classe, lasciando così aperte le strade opposte del volontarismo
43
M. Melotti, Il fantasma del Moro di Treviri, cit., p.60.
44
M. Melotti, Al tramonto del Secolo, cit., p. 178.
45
M. Melotti, Al tramonto del Secolo, cit., p. 182.
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politico o dell’esodo verso “altre società”46, surrogati tipici nei momenti in cui una composizione di classe «viene scompaginata nei suoi reticoli connettivi»47. La scommessa di Melotti era, invece, che, proprio nella misura in cui la trasformazione del capitalismo «presume come un a priori assolutamente indispensabile la più completa subordinazione operaia», la possibilità dell’antagonismo, sempre materialisticamente fondata nei rapporti di classe48, potesse alimentarsi di una ripresa della critica dell’ideologia, declinata prima di tutto in termini di immaginario sociale. Il campo dell’ideologia, della subdola imposizione di immaginari collettivi funzionali all’occultamento dell’alienazione dell’uomo, è oggi più che mai un campo di prova irrinunciabile per qualsiasi impegno teorico critico che si pretenda radicale. E soprattutto perché questo è il primo livello del dominio, del controllo di classe, che i soggetti atomizzati all’interno del grande spettacolo della merce, si trovano contrapposti sul cammino della riacquisizione di una coscienza antagonista49.
Dopo il ’77, infatti, il processo di frantumazione aveva, secondo Melotti, investito in particolare l’immaginario, un tempo in grado di conferire senso strategico alla soggettività50. D’altra parte, anche su questo terreno il livello di totalizzazione raggiunto dall’alternativa tra “società del capitale” e “comunità umana” permetteva ora, pur nella sconfitta, di sottrarre ulteriore legittimità ad una mera fuga nell’autonomia del Politico-Militare, conducendo ad una «definitiva acquisizione, sul piano dell’inconscio collettivo, del rifiuto della logica suicida del ‘fine che giustifica i mezzi’»51. In questo strato della costituzione del soggetto collettivo, in cui singolarità concrete accomunate da simili condizioni di esistenza materiale potevano pensarsi in funzione «della loro collocazione e autopercezione di classe» e in cui la blochiana “corrente calda” del marxismo poteva essere articolata senza equivoci al «campo dell’emozionalità, della pulsionalità passionale, in ultima istanza 46
M. Melotti, Dopo il decennio rosso ‘68/’77, cit., p. 141.
47
Ivi, p. 151.
A restare centrale, dunque, è, anche in chiave critica rispetto alle teorizzazioni di Sergio Bologna sul lavoro autonomo, «il rapporto di produzione fondato sullo sfruttamento e mediato dal mercato», F. Ciabatti, M. Melotti, Quando la bussola impazzisce, in «Visà-Vis», n. 6, 1998, p. 40. 48
49
M. Melotti (a cura di), Macchine e utopia, cit., p. 130.
50
M. Melotti, Dopo il decennio rosso ‘68/’77, cit., p. 149.
51
M. Melotti (a cura di), Macchine e utopia, cit., pp. 133-134.
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dell’irrazionale»52, il modello ricompositivo non poteva essere quello che, molto più recentemente, è stato definito di “ars combinatoria”53, per quanto “immanente”, quanto l’effetto di «processi di osmosi sociale», «coniugazione trasversale di strati e segmenti di classe»54, in cui la stessa “sensibilità di classe” non poteva costituire in alcun modo un presupposto scontato55. La distinzione interna dei comunisti dalla classe, ragione spesso della loro frustrazione e, dunque, della loro tendenza a «fare di necessità virtù», sfociando in un’effettiva separatezza, poteva essere giocata esclusivamente nei termini di punti di riattivazione della memoria, funzionali ad ogni processo che si proponesse come ricompositivo. Ben altro retroterra teorico-politico-culturale, dunque, dobbiamo oggi saper riscoprire, riattivando quello specifico circuito della memoria, che traspare, sia pur solo in filigrana, nei comportamenti conflittuali messi in atto, da quei settori di classe che, negli ultimissimi anni, hanno saputo riprendersi il diritto di lottare in prima persona, per resistere, se non altro, e dire no all’odierno, dilagante strapotere del capitale. Costituirsi in memoria di quel soggetto, dei 60/70 e di questo suo ultimo ostinato manifestarsi, può e deve essere l’impegno di oggi, per molteplici ma disperse segmentazioni di esperienza, di coscienza, di immaginario, che rappresentano tuttora, l’ultimo frammentario sedimento di quel ciclo di lotta ventennale56.
Si potrebbe quasi dire che Melotti, nel punto estremo di crisi della politica comunista e di frammentazione della classe, proponesse ai residui militanti quel ruolo di “sopravvivenza della memoria e della speranza” che, ricordiamo, rappresentava la funzione, al tempo stesso alienata e utopica, riservata ad una politica passata al vaglio della critica marxiana. Ma perché questo grumo di operatività politica, interno ma inevitabilmente distinto dalla vita del soggetto collettivo, avrebbe avuto proprio nella memoria del Sessantotto la sua dimensione privilegiata? Il fatto è che il biennio ‘68/’69 rappresenta, nell’elaborazione di Melotti, il momento in cui quanto nel sociale vi è di più irriducibile al politico si è espresso con maggiore nettezza, nei termini di «movimento di massa, autorganizzazione di base, democrazia 52
M. Melotti, Dopo il decennio rosso ‘68/’77, cit., p. 145.
Cfr. Marco Bascetta, L’ars combinatoria della moltitudine, in «il Manifesto», 22 novembre 2018, http://www.euronomade.info/?p=11298 (ultima consultazione: 29 maggio 2019). 53
54
M. Melotti (a cura di), Macchine e utopia, cit., p. 128.
M. Melotti, Dopo il decennio rosso ‘68/’’77, cit., p. 153 (il riferimento è una rilettura della Luxemburg). 55
56
M. Melotti, Al tramonto del Secolo, cit,, p. 187.
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diretta come espressione spontanea ed autonoma del soggetto collettivo rivoluzionario di classe», ovvero, potremmo dire, come una critica pratica della politica, ancora in grado, però, di produrre un immaginario strategicamente orientato. Non a caso non esiste praticamente scritto teorico di Melotti che non ritorni alla sequenza apertasi con il Sessantotto, così come, per converso, quando si tratta di rievocarla appaiono tutti i temi fin qui descritti: l’emergere di una percezione collettiva di appartenere alla stessa “comunità umana”, la sperimentazione della democrazia diretta e la tensione rispetto al costituirsi di nuovo ceto politico, la necessità di comprendere come la «sfida ereticale al monopolio della violenza» possa essersi trasformata in un’«autonomia del militare altra faccia dell’autonomia della politica», l’«universalità concreta dell’autonomia del soggetto collettivo», nettamente distinta dalla «contrapposizione tra il particolare e il generale» propria di alcuni teorici del postmoderno57. Il «costituirsi in memoria» diventa, allora, un aspetto essenziale di un intervento che, senza sostituirsi alla realtà effettiva della classe, prevenga lo sfociare della critica alla politica in crisi permanente di ogni prospettiva politica. E per quanti ritengono, come chi scrive, che la situazione attuale sia segnata invece proprio dalla necessità di ristabilire condizioni, spazio e leve della politica e che la frase marxiana citata in esergo esprima più un’aporia che una soluzione58, esso diviene il luogo di un “faccia a faccia” ininterrotto con chi ha saputo condurre una critica radicale a questa ipotesi, seguendo i processi costituenti del nostro presente senza mai cedere alla sua apologia, diretta o indiretta.
Alessio Gagliardi, M. Melotti, A 30 anni dal 68/69: un magma che scotta ancora, in «Vis-à-Vis», n. 6, 1998, p. 104. 57
Tra i vari riferimenti possibili in questa direzione, cfr. Carlo Formenti, Il socialismo è morto, viva il socialismo! Dalla disfatta della sinistra al momento populista, Milano, Meltemi, 2019. 58
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