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Italian Pages 198 [199] Year 2017
Frecce· �44
Diego Lanza
Tempo senza tempo La riflessione sul mito dal Settecento a oggi
Carocci editore
@ Frecce
I edizione, settembre 1017 ©copyright .017 by Carocci editore S.p.A., Roma a
Realizzazione editoriale: Omnibook, Bari Finito di stampare nel settembre 1017 da Eurolit, Roma
Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 11 aprile 1941, n. 633) Siamo su: www.carocci.it www.facebook.com/caroccieditore www.twitter.com/caroccieditore
Indice
Premessa
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I.
Sentirsi alle origini
IS
2..
La conoscenza dell'altro (e di sé)
3I
3·
Una scienza per il mito
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4·
Simboli e archetipi
59
5·
Comparativismi
75
6.
Sogni, immagini, apparizioni
93
7·
Demitologizzare ?
I07
8.
Strutture e specchi
I2.I
9·
Scrittori e mito
I39
IO.
Quesiti e prospettive
I 59
Bibliografia
I 87
Indice dei nomi
I95
Premessa
C 'era una volta . . . : quanti adulti sono ancora capaci di raccontare storie ai bambini senza l'aiuto di un libro ? Raccontare non è leggere, significa rimodellare nella memoria un racconto, adattandolo, spesso inavvertita mente, alla realtà del momento, facendolo rivivere come se nascesse allora, per quell 'occasione. C 'era una volta. . . : la storia che si sta per raccontare coinvolge il tempo, allontana la narrazione in un passato diverso ; non la rende tuttavia inat tuale, al contrario, il passato rivive nel presente perché chi lo narra gli dà la vivacità di una nuova esistenza, ne suggerisce, sia pur involontariamente, il significato per il presente. Da qualche secolo "C 'era una volta" è la forma incipitaria della fiaba, che ha bisogno di estraniarsi dalla realtà e questo straniamento è marcato da una distanza temporale non trascurabile ma lasciata all' immaginazione perché la trasformi in alterità. La fiaba è un racconto di magia; tuttavia ciò che più importa non è la magia, ma il suo restar sospeso, fuori dalle regole del vivere quotidiano, l'offrire a chi ascol ta, come a chi narra, il piacere della narrazione. Il racconto è dunque, in un certo senso, l'organizzazione del passato. Se, infatti, la memoria individuale consiste in un susseguirsi di visioni psi chiche che si sovrappongono o si combinano secondo le urgenze e gli stati d'animo del presente, quella che definiamo memoria sociale o memoria collettiva, per essere comunicata, si oggettiva in una forma e questa forma è o una rappresentazione visiva o un racconto, un ordinamento temporale di immagini, nella loro collocazione in un seguito di prima e di dopo, se non addirittura di cause e di effetti. Fabula era la storia che passava di bocca in bocca, di orecchio in orec chio, che si trasmetteva con l'atto del parlare. Era ogni racconto, ma finì col denotare il racconto privo di immediata rispondenza nella realtà, che viveva unicamente di sé. Fabulae erano dunque indifferentemente le storie
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TEMPO SENZA TEM P O
jìctae, inventate, che potevano avere protagonisti animali, eroi, divinità, figure allegoriche. Fabulae erano detti anche i t-tii6ot lasciati in eredità dai Greci, le antiche storie degli dei e degli eroi. Per una distinzione tra i due termini, peraltro simili nella loro etimologia, occorre arrivare alla metà del Settecento, quando la curiosità per le diverse popolazioni con le quali l' Europa entrava progressivamente in rapporto sviluppò una riflessione sui caratteri delle loro società e delle loro forme di immaginario. Si scopriro no somiglianze tra alcuni tratti tipici delle società "selvagge" e del mondo antico che condusse a una vera e propria triangolazione - i selvaggi, gli antichi, noi - e a una più attenta riflessione dello studioso europeo su di sé, sulla propria organizzazione sociale, sui propri usi e costumi, sulle proprie credenze. Si riconobbe una distinzione tra l'ambito degli usi e delle con suetudini del vivere quotidiano, definito poi folklore, e l'ambito delle cre denze e delle immagini che al quotidiano non si può dire appartengano, definibile come più propriamente religioso. A denotare le storie degli dei e degli eroi fu creato un neologismo latino, mythus, apparentemente chiaro perché semplice trascrizione del greco, in realtà di non facile decifrazione, perché portatore di un valore semantico di maggiore pregnanza. Il mito, il mito per antonomasia, il mito greco, fu così ben distinto dalla favola; la sua definizione, apparentemente trasparente, rimase tut tavia malsicura : se le nozze di Zeus ed Era non potevano non apparire qualche cosa di molto diverso da quelle del principe azzurro e della bella addormentata, la differenza tra le avventure di Ulisse e quelle di Sindbad non risulta altrettanto chiara; e che dire delle vicende di Edipo, nelle quali la divinità resta nell 'ombra e non si manifesta che con il discreto tramite dell'oracolo ? Nemmeno allargare lo sguardo ai miti egizi, babilonesi o a quelli di più recente scoperta dei Celti e dei Germani poté servire a molto ; che cosa distingue, dunque, un mito da una fiaba ? Fino alla metà del Novecento la differenza fu cercata nelle diverse ar ticolazioni dei due tipi di racconti. Ma, mentre la struttura della fiaba fu riconosciuta con convincente chiarezza grazie all 'efficace analisi narrato logica svolta dal formalismo russo degli anni Venti, i tentativi di indagine sul mito non godettero di uguale successo. Il mito opponeva almeno due rilevanti difficoltà a un rigoroso esame strutturale ; la prima di non offrire una sicura dimensione : quali potevano considerarsi i termini indiscutibili delle storie di Eracle, di Elena, di Edipo e come le si poteva districare dalle altre storie alle quali erano intrecciate ? In una parola : quale doveva consi derarsi il loro principio e la loro fine ?
PREMESSA
Il
La seconda non minore difficoltà era il legame che molti miti mante nevano con il rito. Se nell'antica Grecia questi racconti erano divenuti in gran parte materia poetica e usati in libertà, secondo i più differenti codici della narrazione e della rappresentazione, non mancavano occasioni, ad esempio la celebrazione dei misteri, nelle quali alcune storie erano rievo cate ritualmente, in modo rigorosamente definito, così come accadeva in Egitto, a Babilonia e continua ad avvenire nella calendariale lettura ebraica e cristiana di alcuni passi biblici: il libro di Ester, il racconto della resurre zione di Gesù. Il significato rituale del mito non può dunque astrarsi da un'attenta riflessione sul rapporto tra uomo e divinità proprio di ciascuna società. Pare perciò meglio cercare la differenza tra racconti considerati mitici e racconti considerati favolistici più che nella diversa configurazio ne narrativa nel diverso uso sociale che ne è fatto ; a caratterizzarli non è la loro struttura, ma la diversa funzione a essi assegnata. C 'era una volta . . . : il mito, come la favola, è collocato nel passato ; ma talvolta questo passato pretende di essere meno indistinto. È il caso dei miti di fondazione - di un' istituzione, di un popolo o di una stirpe -, un passato comunque dal quale ha origine il presente. La tradizione mitica si confon de, allora, con la tradizione che noi preferiamo definire storica, e già gli antichi avvertirono la necessità di distinguere nei racconti del passato tra la storia e il mito. In un mondo dove la memoria era affidata a una trasmissio ne ancora in gran parte orale, la distinzione non era però facile ; ciò si vede bene nell'opera di Erodoto che pure appare risoluto nel voler separare le vicende degli uomini da quelle degli dei e degli eroi. La memoria colletti va d'altronde è assai diversa dalla memoria individuale: se questa consiste essenzialmente nel riaffiuire di una fantasmagoria di immagini mentali, di visioni, di stati d'animo, quella, per essere comunicata, richiede un'agget tivazione, deve diventare figura o narrazione ed è perciò sottoposta a un processo di formalizzazione che le assicura trasmissibilità e durata, ma che è già un atto di manipolazione. Solo il concorso di più testimoni o l'esistenza di una documentazione possono garantire l'attendibilità del racconto e per la storiografia, a differenza che per il mito, s' impone un criterio di giudizio fondato sulla distinzione vero/ falso. Perciò quella che si suole definire me moria sociale o collettiva si risolve in una sorta di metafora, perché a essere ricordato non è ciò che si è vissuto, ma ciò che si è appreso. Presentandosi come memoria sociale, anche il mito si apprende; esso però non pone problemi di verificabilità, ma piuttosto di pregnanza sim bolica. È una narrazione che spiega, ma che nello stesso tempo richiede
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TEM PO SENZA TEMPO
di essere spiegata : che cosa significa, che cosa cioè ci può dire la nascita di Afrodite dalla schiuma del mare, che cosa il peregrinare di Ulisse nei mondi incantati nei quali è costretto ad aggirarsi, che cosa I' infanticida Medea ? Il costante ritorno degli antichi su alcuni miti e i differenti modi di raccontar li, di rappresentarli, di figurarli, ci offrono un quadro persuasivo della loro inesausta complessità, che pur s'accompagna all' illusione di familiarizzarci con alcune figure fino al punto di averle ridotte ad abusate espressioni verba li, a comuni modi di dire : Arianna, Sisifo, Eracle ricorrono spesso nei nostri discorsi, come in quelli degli antichi, in qualità di locuzioni proverbiali. Con teatro e filosofia, il mito è una delle eredità più vive !asciataci dai Greci. Ma, mentre la tradizione culturale ha sempre accompagnato lo stu dio della filosofia e del teatro antichi con la loro imitazione o, se si preferi sce, con la loro continuazione, dal mito greco, pur attentamente indagato, dopo l'uso favolistico fattone dal Rinascimento e dall'età barocca, si sono prese le distanze ; il mito fu considerato incompatibile con la razionali tà su cui il pensiero moderno si andava illuministicamente modellando. Il grande intreccio delle storie che avevano popolato I' immaginario dei Greci restò tuttavia un insostituibile punto di riferimento, una strada non secondaria per rivisitare il mondo degli antichi. La riflessione sulla polisemia del mito deperisce non casualmente, due secoli dopo, al tem po della "scomparsa delle ideologie': Il pensiero unico esclude avventure intellettuali legate alla memoria che possano suggerire una molteplicità conflittuale di valori e a essere trascurato è tutto un ricco patrimonio di sollecitazioni e di riflessioni, che viene accantonato e abbandonato a un' ir reversibile senescenza. Nell 'oblio rischiano di cadere non soltanto i remoti miti greci, ma anche quelli, forse più importanti, che la società moderna è venuta elaborando, personificati in alcuni nuovi eroi non meno proverbia li degli antichi: Faust, don Giovanni, don Chisciotte, Robinson Crusoe, Achab. L'onniscienza, il piacere dei sensi, l 'eroismo, l 'autarchia, il pote re sono le grandi tentazioni cui la cultura moderna induce, ma che nello stesso tempo tende a reprimere, a rappresentare come estranee quando non apertamente ostili alla convivenza sociale. Queste figure si affianca no senza difficoltà a quelle di Prometeo, di Ulisse, di Edipo, sottoposte, come queste, a una continua rivisitazione. Né può essere rilevante che le moderne posseggano un autore noto. L'anonimato delle antiche è con forme al modello di società che le produsse, alla quale fu per lungo tempo indifferente la proprietà autoriale dell ' ingegno. Avvertito invece come in sopportabile l'anonimato, in età romantica si ricorse al misticismo dello
P REMESSA
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spirito del popolo, una collettività cui si attribuivano qualità non diverse dai singoli individui. L' ideologia dello sviluppo, generalizzatasi nel corso del xx secolo, in dusse un' inversione funzionale, proiettando nel futuro anziché nel passato se non proprio la comunità di uomini e dei, un mondo almeno nel quale l'uomo riesce finalmente a sottrarsi alle usate regole quotidiane, ad attingere nuove conoscenze e nuovi poteri, il mondo in qualche modo magico della fantascienza. Ricorrendo allo scorrimento, sia pure invertito, dell'asse tem porale, la fantascienza non disdegna, al pari dell 'antico mito, l'evasione dai confini dell'universo noto e annette nuovi, ignoti mondi all' immaginario. Ma oggi a che giova indulgere nella riflessione che gli ultimi due secoli dedicarono allo studio del mito ? Gli ultimi due secoli, nei quali la borghe sia europea si è affermata e, grazie al potere economico, si è impadronita di quello politico ; il periodo storico aperto e chiuso da due date entram be assai emblematiche: la demolizione della Bastiglia e la demolizione del muro di Berlino. In questo periodo, di proposta e di rinuncia del sogno di un egualitarismo sociale, la cultura europea ha per molteplici motivi co nosciuto un forte sviluppo dell 'antropologia e della storia comparata delle religioni. All ' incrocio di queste discipline, la riflessione sul mito si è rive lata della massima importanza, perché il mito è uno degli aspetti dell' im maginario che meglio serba i valori essenziali del vivere sociale. Esaminare questo lungo studio del mito significa dunque di necessi tà sia riflettere sui risultati cui la ricerca è storicamente pervenuta, sia so prattutto considerare le differenti urgenze culturali che l 'hanno indotta e accompagnata. Il libro ha cercato di seguire questo, non sempre facile, duplice percorso, da una parte considerando la molteplicità delle ragioni che hanno condotto a questo tema studiosi diversi e di diversi interessi, dall 'altra segnalando quali nuovi aspetti del mito ciascuno dei differenti approcci abbia contribuito a fare più chiaramente intendere. Un mito non è che un racconto, a qualsiasi sistema, cioè a qualsiasi mitologia, appartenga ; un racconto talvolta enigmatico e simbolico, ma pur sempre un racconto. La sua narrazione può divertire, intimorire, am monire, ma, come per ogni racconto che non annoi, è motivo di piacere ascoltarlo e riascoltarlo. È un piacere che ama confondersi con il piacere del ricordo. Forse, dunque, non è fuori luogo riproporsi una domanda, per troppo tempo trascurata : i miti sono solo favola o ci appartengono, quasi custodissimo anche noi senza saperlo una memoria remota, la memoria di un tempo senza tempo ?
Salvo diversa indicazione, tutte le traduzioni, comprese quelle dei testi classici, sono dell'autore. Ogni accorgimento tipografico {corsivi e testo spa ziato) appartiene alle edizioni citate. Avvertenza
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Sentirsi alle origini
Si racconta o, meglio, si raccontava che il mattino di una domenica di primavera un gruppetto di studenti dello Stift evangelico di Tubinga, nel ducato del Wtirttenberg, uscì dalla città e andò a piantare in un prato un albero della libertà. Siamo tra il 1790 e il 1792, essi intendevano quindi replicare una cerimonia diffusasi in tutta la Francia di quegli anni: la con versione di un antico simbolo di vita e di prosperità al nuovo significa to libertario della Rivoluzione. L'atto mostra con quale partecipazione i giovani svevi seguivano le vicende d'oltre Reno. Essi furono naturalmente rimproverati e forse anche puniti dalle autorità ecclesiastiche dello Stift, ma l 'episodio sarebbe rimasto di sicuro senza alcuna memoria se del grup po non avessero fatto parte tre amici diventati poi famosi: Hegel, Holder lin e Schelling'. A quel tempo Hegel e Holderlin avevano vent 'anni o poco più, Schel ling cinque di meno. I primi due erano entrati nello Stift insieme, nell 'ot tobre 1788, ed erano diventati presto amici per comunanza di interessi e complementarità di sentimenti, sicuro ed estroverso Hegel, proveniente da agiata famiglia - il padre era alto funzionario della cancelleria del duca to -, timido e introverso Holderlin, che per le modeste condizioni familia ri era stato costretto a sottoscrivere l ' impegno a intraprendere il pastorato per ottenere il mantenimento agli studi. Diverso il caso di Schelling, en font prodige, figlio di un docente di orientalistica ed egli stesso conoscitore di ebraico e arabo, che fu ammesso alla facoltà teologica a soli quindici anni, nel 1790. Egli sembra restare sempre un po' ai margini del rapporto affettivo che lega i compagni più anziani, dei quali condivide peraltro la speranza di un prossimo rinnovamento. 1. Sull'episodio e, più in generale, sul soggiorno di Hegel a Tubinga, cfr. Rosenkranz (1974, pp. 46 ss.).
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TEM PO SENZA TEMPO
Annota Rosenkranz nella sua Vita di Hegel: Dopo la dichiarazione dei diritti dell'uomo personalità come Klopstock, Schiller, Kant, Forster, Baggesen, Schlabrendorf. Merk e Jacobi si trovarono uniti nell' ar dente attesa di una rinascita etica dell' Europa. C 'è forse da meravigliarsi se a poca distanza dal Reno e da Strasburgo, vi furono dei giovani che caddero nella più risoluta esaltazione della Rivoluzione francese e che attraverso gli avvenimenti francesi furono sollecitati ad una critica della situazione interna e portati a con fuse speranze di miglioramento di essa in forme più elevate ? (Rosenkranz, 1 9 74, pp. 53 s.).
Ma a imporsi, più della prossimità geografica, è probabilmente la portata universale di quel che sta succedendo : La Rivoluzione francese ha operato in rapporto a questo mondo, esattamente nel lo stesso modo con il quale agiscono le rivoluzioni religiose in vista dell'altro. Ha considerato il cittadino in astratto, a prescindere da qualsiasi società particolare, come le religioni considerano l'uomo in generale, indipendentemente dal luogo e dal tempo. Non ha cercato soltanto quale fosse il diritto particolare del cittadino francese, ma quali fossero in politica i diritti e i doveri generali degli uomini (Sta robinski, 1 9 79, pp. 36 s.).
È proprio quest 'aria di religione universale che spira da Parigi a colpire anche i giovani svevi, a far loro intendere che qualche cosa di radicalmen te nuovo stava per scuotere l ' intera Europa. Tutto sembra ora possibile, come se l'uomo fosse stato finalmente chiamato a dar vita a un mondo diverso. Pare riproporsi il tempo magico del principio ; il mito della Ri voluzione è, in effetti, il nuovo mito delle origini e a prospettarlo è il suo stesso protagonista, anch'esso figura mitica: il popolo. Il nuovo processo di creazione ha, infatti, come protagonista la totalità del popolo parigino e come esecutori due uomini provenienti dalla provincia. Il primo è dai più ricordato come l 'anima nera, la demonica personi ficazione della violenza intransigente, che non conosce esitazioni nell'ab battere ogni ostacolo alla creazione della nuova società. Ma i suoi nemici riescono sì a eliminarne la persona e persino la memoria, non il nome, però, col quale viene ricordato, l ' lncorruptible, che testimonia del suo te nace, irriducibile rifiuto a ogni mercanteggiamento, fosse pure per la sua vita. Il secondo, che qualche anno appresso ne raccolse consapevolmente il senso più profondo, non senza transizioni e compromessi, e giunse ad af-
SENTIRSI ALLE ORIGINI
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fermarlo e a imporlo i n virtù del potere conquistato, fu presto trasformato o, meglio, seppe trasformarsi in icona e come tale sopravvisse alla propria caduta, alla morte e ai rivolgimenti che seguirono, consacrato nella memo ria come l ' Empereur. In questo contesto, il ricordo della classicità pare giocare un ruolo si gnificativo : l'amico è ancora una volta usato come efficace antidoto al vec chio, ma ora esso acquista un senso nuovo. Per tre secoli la cultura europea era vissuta all 'ombra dell'antichità riscoperta. Anche se i Greci e i Romani non erano più assunti come modelli da imitare, la quotidiana frequenta zione di Ovidio, Livio, Plutarco aveva prodotto nei letterati un senso di dimestichezza con l'antico e aveva nutrito i poeti sì che mito e poesia si erano talvolta andati confondendo. Uno Schiller già maturo esprime tutta la nostalgia del poeta per gli dei greci, « la bella essenza della terra favolosa>> , che, andandosene, « han no portato con sé ogni bellezza e ogni alto sentire >> , lasciando la natura «disdiata >> ( entgotterte) : «Ahimè, solo la fatata terra dei canti vive ancora la tua favolosa traccia >> (Schiller, 1 966, vol. II, pp. 673 ss.)'. Plutarco soprattutto era valso a persuadere della profonda unità esi stente tra Grecia e Roma, a ostacolarne qualsiasi distinzione critica, a confonderle insieme come unico grande repertorio di exempla nel quale anche i personaggi storici erano rappresentati come figure mitiche ; Aristi de e Bruto, Orazio e Pindaro, Elena e Cornelia appartenevano tutti a un immaginario che pareva offrire le più agevoli soluzioni di una convincente comunicazione simbolica che si conserva e si consolida anche con il mu tare dei tempi: Fino alla morte di Robespierre la Rivoluzione si dispiega in un linguaggio simbo lico con cui si è costruita la sua leggenda e sotto il quale oggi si cerca di ritrovare il gioco delle forze "reali� I movimenti di folla , le feste, gli emblemi sono gli elementi di questo discorso simbolico che nel medesimo tempo dissimula e ma nifesta un momento decisivo della storia. Essi fanno parte del reale (Starobinski, 1979. p. 43).
Tutto questo si rivela chiaramente anche nell'uso politico che degli ami chi viene fatto nel corso della Rivoluzione : 2. Gli dei della Grecia di Schiller è del 1788, precede cioè di un anno l'inizio della Rivo luzione.
TEMPO SENZA TEM P O
Già le figlie di Memoria a dispetto dei nemici consacrano questo pezzo di scoria del coraggioso popolo di Parigi.
Così la prima strofa di una canzone celebrativa della presa della Bastiglia. Essa si apre con Mnemosyne e le Muse e si conclude col confronto tra la gloria di Roma liberatasi dai re e la rivolta popolare parigina : Oh Roma, in eroi sì feconda, che proscrivesti i tiranni, i tuoi figli vincitori del mondo si mostrarono forse più grandi ?1
Gli esempi si moltiplicano nei discorsi di Robespierre, rimandando indif ferentemente alla storia e alla m itologia degli antichi: Occorre che il popolo francese sostenga il peso di tutto il mondo e allo stesso modo domi tutti i mostri che lo desolano. Occorre che esso sia fra i popoli ciò che Ercole fu fra gli eroi (Robespierre, 19S3. pp. 68 s.). In quale repubblica mai fu contestata la necessità di punire il tiranno ? Tarquinio fu forse chiamato in giudizio ? E che cosa mai si sarebbe detto, a Roma, se alcuni romani avessero osato dichiararsi suoi difensori ? (Robespierre, 1984, pp. 83 s.) E mi compiaccio nel vedere che il furore dei Verre e dei Catilina del mio paese sta tracciando una profonda linea di demarcazione tra essi e le persone oneste ( ivi, p. 226)4•
Il mito tuttavia prevale sulla memoria storica: 3· In parecchi canti che segnano il corso della Rivoluzione ritornano richiami alla storia e alla mitologia degli antichi, da Laprise de Mons, 1792 (Che Mons ammiri ! È Achille l è Jourdan che ci conduce), e il giacobino Aux armes!, 1793 (Montagna, un popolo di Bruti s' immolerà per difenderti), fino alla Chanson nouvelle a l'usage desfoubourgs, 1796 (Evoca l'ombra dei Gracchi, dei Publicola, dei Bruti ! che ti servano da scenario). 4· Le tre citazioni provengono rispettivamente dai discorsi del 2S luglio 1792, del 3 di cembre 1792 e del 26 luglio 1794; sull'educazione retorica di Robespierre, cfr. Mathiez (2oo6, pp. 14 ss.).
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Il modello che emerge dalla tradizione, una tradizione estremamente composi ta, più che quello del politico alle prese con le realtà oscure della scelta, è quello dell'eroe; l'eroe di Plutarco, per esempio, che tanto faceva sognare Jean-Jacques Rousseau bambino ; ma anche un eroe che secoli di cristianesimo, a dispetto dei Lumi, hanno assimilato ai martiri. Diversamente non si spiegherebbe Saint-Just, partecipe al massimo grado di quella che Jaurès chiamava la « vertigine del sa crificio e la pericolosa ebbrezza della morte » . Robespierre non definiva forse se stesso, 1'8 termidoro anno II, « martire vivente della Repubblica » ? Nel rievocare la propria giovinezza Camille Desmoulins tiene a dire che, come tanti altri, egli «Si disperava perché non era nato greco o romano» (Vidal-Naquet, 1996, p. 2n).
Ma chi è l 'eroe antico se non colui che discende da stirpe divina, che può dialogare con gli dei ? Egli appartiene a un altro tempo, nel quale i rapporti tra uomo e divinità erano diversi, nel quale ha preso forma il mondo che gli sopravvive. L' identificazione con l 'eroe implica, dunque, un particolare giudizio sul tempo e, non a caso, la Rivoluzione, attraverso le parole di un suo protagonista, si pretende tempo di diversa intensità, nuovo principio di una diversa storia umana: Dobbiamo invitare alle nostre feste la Natura e tutte le Virtù e fare in modo che tutte siano celebrate sotto gli auspici dell'Essere supremo : che esse gli siano tutte consacrate; che si aprano e si concludano con un omaggio alla sua potenza e alla sua bontà. E sarai tu a dare il tuo nome sacro a una delle nostre feste più belle, tu, figlia della Natura! tu, madre della felicità e della gloria! tu, sola legittima sovrana del mondo, che fosti detronizzata dal crimine. Tu, alla quale il popolo francese ha restituito il tuo dominio, e al quale dai in cambio una patria e buoni costumi, tu, o augusta Libertà! (Robespierre, 1 9 84, p. 215)
Altrettanto abituale è l' intrecciarsi e il sovrapporsi della memoria dell'an tico con le vicende storiche contemporanee nella pittura. Jacques David rappresenta con la stessa enfasi compositiva l'uccisione dei figli di Bruto e il giuramento della pallacorda, Ettore morto e Napoleone trionfante (cfr. Starobinski, 1 979, pp. 6 5 ss.). Si direbbe che gli uomini della Rivoluzione, così impegnati a superare l' ancien régime e a differenziarsene, siano nondimeno pronti a riconoscere nell'antichità la culla stessa della ragione che essi intendono restaurare : Fanatici, non sperate nulla da noi. Richiamare gli uomini al culto per l' Essere supremo è portare un colpo mortale proprio al fanatismo. Tutte le finzioni spari-
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scono dinanzi alla Verità e tutte le follie piegano il ginocchio dinanzi alla Ragione. Senza violenza, senza persecuzione, tutte le sette devono confondersi da se stesse nella religione universale della Natura (Robespierre, 1984, p. 211).
Così Robespierre nel maggio 1794 a giustificazione della celebrazione ri voluzionaria dell' Essere supremo, in polemica con chi voleva vedervi una regressione verso i tempi bui della superstizione. E così l'Inno all'Essere supremo, cantato in quell'occasione, alla sua ottava strofa: La ragione, risvegliata al grido della natura precipita giù i re dal trono dell'orgoglio, e, svelando l' impostura dei preti menti tori, restaura il tuo culto e i nostri diritti (Brécy, 1988, p. 156).
La ragione resta il saldo fondamento del diritto e dell 'eguaglianza. Così termina il Canto del I vendemmiaio, a conclusione della vittoriosa estate 1 799 = O Ragione, eterna potenza, per gli umani facesti la legge: eguali essi erano dinnanzi a te prima d'esser eguali dinnanzi ad essa (ivi, p. 211).
Il mito della ragione trionfante trova, si può dire, il proprio compimento quando la volontà di libertà e di eguaglianza, che aveva a lungo lottato contro il persistere degli antichi privilegi, pare finalmente vincere con centrandosi paradossalmente nel potere di uno solo. Lo intuisce l 'enfasi con la quale Hegel definisce Napoleone « lo spirito del mondo a caval lo >> . La suggestione è la medesima che conduce David alle sue celebri rap presentazioni dell ' imperatore, ma la trasfigurazione concettuale hegelia na ha qualcosa di più. Lo "spirito del mondo" è il principio di razionalità che informa il reale e la sua personificazione in un individuo a tutti noto e molto rappresentato dà alla figura consistenza mitica, ne garantisce la conoscibilità. La figura di Napoleone si trasfigura nel m ito anche per un grande che lo conobbe personalmente. Hans Blumenberg dedica un capitolo del suo denso volume al rapporto di Napoleone con Goethe, indulgen do nel ricordo del loro incontro a Erfurt, nell 'ottobre 1 8 0 8, in occasio ne dell'udienza data dal vincitore di Jena ai principi tedeschi. Napoleo-
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ne conosce bene i l Werther goethiano che ha letto e riletto e che por ta con sé, ma ciò che è soprattutto ricordata è la fermezza con la quale il poeta sa sostenere e ricambiare lo sguardo dell ' imperatore. Qualche giorno dopo, Goethe riceve la croce della Légion d ' honneur, che osten terà per tutta la vita, anche quando la situazione storica sarà profonda mente mutata. Il vecchio poeta è ricordato da Eckermann; pochi mesi prima di morire, nell'ultimo colloquio, Goethe pare ricordarsi di ciò che Napoleone aveva detto molti anni addietro a Erfurt: Goethe è alle soglie del suo ultimo anno di vita. Ci si chiede se nell 'istante di que sto colloquio [con Eckermann] egli si rammentò delle parole che il 26 aprile 1 8 1 3 Napoleone aveva rivolto a l cancelliere von Miiller: «Sapete anche voi Tedeschi cos'è una rivoluzione ? Voi non lo sapete, ma io lo so ! >> . Queste parole racchiudo no la legittimazione storica di Goethe per Napoleone, per Goethe Napoleone era definito - non nella sua grandezza, ma nel suo ruolo - dall 'eredità della Rivolu zione (Blumenberg, 1991, p. sSo ) .
Eredità e superamento. Napoleone impone quel che è il significato essen ziale della Rivoluzione : Nell'istante di quest 'ultimo colloquio Goethe si ricorda di ciò che Napoleone gli aveva detto nella veranda del castello di Erfurt, e che a quel tempo difficilmen te può aver accettato, nonostante le esperienze vissute dopo Jena. Quelle parole dell' imperatore sono ora la formula limite per tutti gli sforzi estetici: «Noi mo derni, sulle orme di Napoleone, diciamo: la politica è il destino>> [citazione di Eckermann] (ivi, pp. 581 s.}.
Certo, ! ' immagine dell ' Empereur trionfante pone al riparo da ogni estre m ismo per il quale i giovani intellettuali tedeschi nutrivano disgusto e timore : Saprai anche che Marat, il vergognoso tiranno, è stato ucciso. La santa Nemesi darà anche agli altri infami popolari la paga delle loro basse macchinazioni e dei loro disumani progetti (Hiilderlin, 1970, vol. II, P· s67 ) .
Così Holderlin in una lettera al fratello nel luglio 1793 ; più distaccato, due anni dopo, lo sguardo di Schelling che scrive a Hegel : Con Kant spuntò l'aurora, - nessuna meraviglia se qui o là in una valle paludosa resti ancora una nebbiolina, mentre già le somme vette splendono al sole. La luce
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del!' aurora deve precedere il sole vero e proprio, finanche la natura, con il sorgere graduale del pieno giorno e con il passaggio crepuscolare ha messo cura materna mente ai deboli occhi; ma una volta che I' aurora è spumata, deve seguire il sole, e allora perfino nell'angolo più fondo luce e vita s'irradieranno, disperdendo la nebbia delle paludi (Hegel, 1983, p. 1 1 4 ) .
Schelling scrive da Tubinga, al principio del febbraio 179 5 , quando è giunto quasi al termine dei suoi studi. Poi la sua carriera accademica è assai rapida e già nel 1798, con l'appoggio di Goethe, viene chiamato come professore a Jena accanto al grande Fichte, cui succede due anni appresso. Ed è sempre da Jena, dove segue le lezioni di Fichte, che Hòlderlin nel gennaio 179 5 comunica a Hegel la sua gioia di aver conosciuto personal mente le grandi figure della poesia tedesca del tempo : Schiller si cura molto di me e mi incoraggia a dare contributi al suo nuovo gior nale, "Die Horen" e anche al suo prossimo "Musenalmanach': Ho parlato con Goethe, fratello! È il piacere più bello della nostra vita trovare tanta umanità in tale grandezza. Si è intrattenuto con me in modo così calmo e amichevole che ve ramente il cuore mi rise, e ancora mi ride, se ci ripenso. Anche Herder fu cordiale e mi strinse la mano, ma mostrò subito più l 'uomo di mondo, parlando spesso per allegoria, nel modo che anche tu conosci. Certo, tornerò ancora qualche volta a rivederlo (ivi, p. 1 1 2 ) .
Forse il giovanile entusiasmo ingannò Hòlderlin : Herder, seppur perso naggio di minor spessore intellettuale e di assai inferiore ispirazione poe tica, gli era assai più vicino di Goethe nell ' interesse per i Greci. In una dis sertazione di quindici anni prima, Sull'effetto dell'arte poetica sui costumi dei popoli nell'antichità e nei tempi recenti, Herder, dopo aver ricordato il detto del saggio egizio riferito, o più probabilmente inventato da Platone, «l Greci sono sempre stati bambin i » , scrive : La signora Mitologia ha trovato molti cavalieri che si sono battuti per lei, e se c 'è una mitologia per la quale battersi, essa può essere sempre quella greca e nessun'altra. Ma che cosa significa mitologia, che cosa è ? Che in principio nel suo fondamento sia stata spiegazione non c 'è da dubitare. Neppure i peggiori menti tori possono mentire senza fondamento. Ma mi pare anche difficile negare che già nel tempo più amico che noi conosciamo e del quale abbiamo poesie essa sia diventata per lo più semplice racconto popolare ( Volkssage). Già in Omero
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c 'è una vecchia osservazione, che i suoi dei stiano tra i suoi uomini; da loro egli è di casa, per lui essi sono soltanto strumenti (Maschinen) che egli inserisce per lo sviluppo della poesia e il piacere degli ascoltatori. Cosi Pindaro usa la storia degli dei alla sua maniera, gli autori di tragedia e di commedia alla loro (Herder, 1988, p. � 6).
Il passo contiene più di un motivo di riflessione : è spostata a un tempo remoto, « in principio >> , la funzione ermeneutica, cioè religiosa, del mito, poi gli si riconosce una duplice valenza, di racconto popolare e di allegoria poetica. A quest 'accostamento, se non addirittura identificazione, non è estranea la fede largamente condivisa della sorgente popolare della poesia che trova alla fine del secolo la propria consacrazione nei Prolegomena ad Homerum di Friedrich August Wolf. L'atteggiamento di Goethe di fronte alla mitologia classica è diverso. In Poesia e verita, rievocando gli anni del proprio noviziato intellettua le a Lipsia dove Christopher Gellert insegnava eloquenza, egli ricorda di avergli sottoposto un suo componimento poetico d 'occasione nel quale aveva « radunato tutto l'Olimpo >> . Il severo giudizio del vecchio poeta fu convincente : Ora, poiché la sua critica, se ammettevo il suo punto di vista, mi sembrava com pletamente giusta, e quelle divinità viste più da vicino, erano davvero larve vuote, mandai al diavolo l ' intero Olimpo, gettai via il Pantheon mitico, e da quel tempo l'Amore e la Luna sono le uniche divinità che compaiono nelle mie poesie (Goethe, 1949, pp. 865 s.).
La mitologia ritorna, ed è ritorno chiassoso, solo nella Notte di Va/purga classica del secondo Faust, ma è ritorno estraneo a qualsiasi vezzo classici stico. La rassegna riguarda prevalentemente le figure più oscure dell ' anti co mito, mostri e demoni infernali : Erittone, Manto, le Lamie, Empusa. Guida è il centauro Chirone, il saggio pedagogo di Achille, in groppa al quale Faust è costretto ad aggirarsi per la scena. Né manca all ' inizio la bat tuta ironica sulla pretesa dei filologi di saper dominare la loro materia, di conoscere a tal punto il mito da poter determinare l'età di Elena quando fu rapita : Vedo, i filologi come s' ingannano cosi te pure hanno ingannato. Un caso a sé è la donna mitologica. Il poeta la mostra come gli occorre, mai essa cresce mai diventa
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vecchia, è sempre appetibile figura, rapita in gioventù, non liberata vecchia, per ché i poeti non vincola alcun tempo (Goethe, 1 970, p. 662)1•
Coglie dunque nel segno Thomas Mann nel suo saggio goethiano in for ma di romanzo, Carlotta a 'l#imar, quando rappresenta il vecchio Goethe in un risveglio mattinale mentre lascia libero corso ai propri pensieri. In questo rimuginare caleidoscopico di ricordi e di progetti, Goethe imma gina, o meglio Mann gli fa immaginare, la prossima composizione della grande scena del secondo Faust: La classica notte di Santa Walpurga, per pensare a qualcosa di lieto, di altamente promettente - ah ! sarà uno spasso grandioso, tale da superare di gran lunga le mascherate di corte - un gioco pieno di significato, di mistero di vita, I' arguta e sognante interpretazione della nascita dell 'uomo in forma ovidiana - ma senza solennità, stilisticamente ridotta ad una satira menippea della massima levità e brevità - abbiamo un Luciano in casa ? (Mann, 1955, pp. 420 s.)
Occorre sottolineare una differenza che si delinea sempre più chiaramen te tra la Germania e il resto d ' Europa. In Francia e in Inghilterra il ri chiamo all 'antico resta per lo più indifferenziato : Atene, Sparta e Roma offrono tutte gli esempi del comportamento della vita individuale e dei rapporti sociali; il classicismo tedesco stabilisce, invece, una netta distin zione tra Greci e Romani. Nella dissertazione già ricordata supra, Herder scrive : Con i Romani le cose stavano diversamente. Essi non erano, come i Greci, educati al suono della lira, ma, grazie agli ordinamenti, alla legge e all 'uso politico della religione, come Romani di ferro. Quando I' arte poetica dei Greci giunse a loro, essi avevano quasi compiuto la loro opera (Herder, 1988, p. 29 ).
Sono così enunciati i caratteri distintivi dei due popoli, accettati e si può dire codificati nelle innumerevoli trattazioni storiografìche : i Greci di sinteressati creatori di poesia, i Romani vigili interpreti della pratica del potere. Che la preferenza di un letterato vada ai primi è inutile dirlo. Ma nell 'affermazione di Herder c 'è qualcosa di più. Alcune pagine più avanti, egli, infatti, annota : 5· Un fuggevole accenno alla Medusa decapitata da Perseo è già nella prima Notte di Val purga (Goethe, 1 970 ).
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Che la Germania non abbia subito alcuna influenza da Roma, ne dobbiamo esser grati ai suoi eroi e ai suoi bardi, al canto di guerra e di libertà che risuonò tra gli scudi dei suoi padri. Oh avessimo ancora questi canti o li potessimo riscoprire ! (ivi, p. 36).
La riscoperta dell'antica epica germanica, vera o costruita, pervade il x vm secolo, ribadendo con sempre maggiore autorevolezza il modello della pu rezza di un popolo ardito e incurante del piacere. I Germani riappaiono in tutta la loro incontaminata identità, quali li aveva descritti Tacito, e in Herder ne riecheggiano persino i canti guerreschi amplificati dal rimbom bo degli scudi: Ricordano che Ercole visse presso di loro e come primo degli uomini valorosi è cantato da coloro che partono per la guerra. Hanno anche canti la cui intonazio ne, da loro chiamata bardito, rinvigoriscono il coraggio; con lo stesso canto essi sanno prevedere l'esito dell 'imminente battaglia. Incutono terrore o sono colti da trepidazione a seconda del riecheggiare del suono, che non sembra una con sonanza di voce ma di valore. Cercano soprattutto suoni aspri e fragori franti, sovrapponendo gli scudi alle bocche perché col ripercuotersi la voce si gonfi più piena e più grave (Tacito, Gennania, m ) .
Così è proprio nell'autore latino che si può ironicamente scoprire la prima descrizione di quell 'originalità che avrebbe dovuto orgogliosamente pre servare i popoli del Nord dall' influsso di ogni altro popolo: Devo credere che i Germani siano indigeni e non si siano mescolati per la venuta e il soggiorno di altri popoli (ivi, 11).
I Germani, in grazia della loro purezza, possono considerarsi simili agli antichi Greci. La Grecia vagheggiata è quella arcaica concepita in tutto l 'aspro rigore della grande architettura dorica che si veniva in quegli anni riscoprendo, piuttosto che nell'armonica perfezione della scultura esaltata da Winckelmann (cfr. Forster, 1996). I Tedeschi sono gli eredi o, meglio, la reincarnazione di questo spirito ellenico, disinteressato alle banalità della vita quotidiana e tutto volto allo spirito e alla gloria. Non è un caso che l'attenzione al classico per Holderlin come per Hegel e poi per Schelling si concentri sugli autori greci, perché con quest'amore per la Grecia si coniuga l'attesa del grande rinnovamento degli spiriti di cui vivono gli studenti dello Stift di Tubinga e molti altri giovani intellet-
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tuali tedeschi. Così Holderlin a Hegel in una lettera del 1 794: « La mia occupazione è adesso fortemente concentrata. Kant e i Greci sono le mie quasi uniche letture » (Hegel, 1 9 83, p. 102.). È il tempo in cui egli s' impe gna nella composizione di Iperione, il romanzo epistolare il cui protagoni sta, che porta il nome dell 'amico titano, rimpiange, da giovane romantico, l'amore di una patria perduta. Erra in una Grecia asservita ai Turchi con la nostalgia della passata grandezza, « come uno spigolatore nel campo di stoppie >> (Holderlin, 1 989, p. 1 6). È questa l 'unica opera che il suo autore vede stampata; poi, nel 1 8 04, pubblica la traduzione delle due tragedie sofoclee, Antigone ed Edipo re6• Ben presto le condizioni familiari e la malattia separano Holderlin dagli amici, entrambi impegnati nella vita accademica. Anche il suo approccio al mito si manifesta come quello di un poeta piuttosto che di un filosofo. Mentre per Hegel è persuasiva immagine della sua teoresi e per Schelling la mitologia si fa oggetto di trattazione storico-filosofica, Holderlin si im pegna nella traduzione delle due tragedie di Sofocle, delle quali analizza a fondo anche la scansione drammaturgica. In queste preziose note di corre do, mito e trasposizione poetica appaiono strettamente intrecciati, si può dire che facciano tutt'uno. Soltanto due anni dopo Hegel assume la vicenda di Antigone come paradigma della coscienza etica : Ma la coscienza etica è più completa, la sua colpa è più pura quando conosca in precedenza la legge e il potere cui si contrappone, quando la intenda come violen za e come co reo, come un'accidentalità etica e scientemente, al pari di Antigone, commetta il crimine (H egei, 1973, vol. n, p. 29 ).
E i versi di Sofocle sono citati nella definizione delle leggi da parte della ragione: Esse sono: non altro; ecco ciò che costituisce la coscienza della relazione dell'au tocoscienza. Esse valgono all'Antigone sofoclea come diritto degli dei, non scritto
6. La traduzione delle tragedie non riscuote grande interesse; Schelling arriva a insinuare che essa denuncia un cerco squilibrio mentale dell'autore; il poeta è effeccivamente inter· detto tre anni dopo e vive poi fino alla morte (1843) nella torre del falegname Zimmer a Tubinga. Solo nel 1905 le traduzioni sono ripubblicate per poi essere rappresentate una decina di anni dopo, diventando un classico del teatro tedesco.
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e infallibile: «Non oggi né ieri ma sempre l esso vive e nessuno sa quando sia apparso » ( ivi, vol. I, pp. 3 S9 s.).
Nell'Antigone si consuma in una forma esemplare quell'antinomia tra privato e pubblico che lacera in realtà l ' individuo del suo tempo e le cui conciliazioni proposte nella filosofia del diritto si riducono a mere traspo sizioni di piani concettuali. È importante che Hegel non parli di comunità di sangue e di comunità politica, digenos e di polis, ma anacronisticamen te proprio di famiglia e di Stato. Il discorso, proprio nella sua ostentata universalità, si rivela, infatti, anacronistico, e quindi poco attendibile per il v secolo ateniese, ma assai concreto e determinato nella storia del XIX europeo. Famiglia e Stato, vita privata e vita pubblica sono i poli di una contraddizione che Hegel vive direttamente e che coglie come strutturale dell'organizzazione della società del suo tempo. Karl Reinhardt fece osservare che « Holderlin è il primo che, molto prima di Hegel, ha riconosciuto il tragico dell 'Antigone nel conflitto di due principi, nell' insolubilità di un'antinomia » (Reinhardt, 1 9 62, p. 9 1 ) ; l 'osservazione tuttavia rischia di confondere i l problema. Quella alla quale fa riferimento Hegel è una conflittualità etica, i cui caratteri sono bene precisati: Possiamo dire in generale che il tema vero e proprio della tragedia originaria sia il divino, ma non il divino che costituisce il contenuto della coscienza religiosa come tale, bensì il divino quale compare nel mondo, nell'agire individuale, senza rimetterei però in questa realtà il suo carattere sostanziale e senza vedersi mutato nel proprio opposto. Sotto questa forma la sostanza spirituale del volere e del rea lizzare è l'etico ( Hegel, 1967, p. 1337 ).
Per contro, l ' interpretazione holderliniana di Sofocle si rivela essenzial mente religiosa e metafisica, anche se non mancano nel linguaggio valenze politiche : La forma razionale che qui nasce in modo tragico è politica, e in verità repub blicana, poiché è mantenuto l'equilibrio tra Creonte e Antigone, tra il formale e l ' informale ( Hiilderlin, 1958, p. 144).
Tuttavia la definizione fondamentale data da Holderlin dell 'opposizione tra "legge" e "senza legge" è di natura diversa:
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Prima ciò che caratterizza I'antitheos per cui uno, nel senso del dio, è col dio in un rapporto di opposizione e riconosce senza legge lo spirito dell 'altissimo. Poi il religioso timore di fronte al fato, e con ciò l 'onorare il dio come qualcosa di posto. Tale è lo spirito delle due opposizioni contrapposte nel coro ( ivi, p. 1 40 }.
L'osservazione si riferisce all'Edipo re, che egli non considerava inferiore all'Antigone. Le opposizioni inconciliabili di Holderlin sono assai diverse da quelle di Hegel, ma l 'uno e l'altro hanno un comune oggetto di analisi, le tragedie di Sofocle, mentre non c 'è alcun cenno al fatto che il tragedio grafo antico abbia dovuto elaborare i propri drammi sulla traccia di rac conti ben conosciuti. La forma tragica, come già ad Aristotele, appare loro l 'espressione più alta e compiuta della poesia, quella nella quale, per usare le parole dello stesso Holderlin, trova compimento l 'originario : Il significato delle tragedie è il più facile da comprendere. Tutto ciò che è origi nario, infatti, - poiché ogni facoltà è equamente ed egualmente ripartita - non appare nella sua forza originaria, ma propriamente soltanto nella sua debolezza; sicché è proprio alla debolezza di ogni totalità che appartiene la luce della vita e l'apparenza ( ivi, pp. 61 s.}.
Si direbbe, dunque, che per entrambi la tragedia sia la più compiuta espres sione del racconto mitico, anzi che essa faccia tutt 'uno con il mito di cui è rappresentazione, e che in quest 'unità si concentri la conflittualità che l ' idealismo tedesco proietta sul proprio modello. Il classicismo, diffuso in tutta l ' Europa al tempo della Rivoluzione, tro va in Germania, in virtù di un esercizio di identificazione con la Grecia antica, il suo terreno più propizio e penetra in profondità e a lungo nella cultura tedesca. Non è perciò difficile comprendere come la Germania abbia avuto al principio del XIX secolo e abbia mantenuto fino alla metà del xx un ruolo dominante negli studi di antichistica, ruolo confermato dalla fisionomia assunta dalla sua scuola e dalla sua università. La creazione della nuova Università di Berlino al termine dell'età napoleonica ne è eloquente testi monianza: è qui che, auspice Wilhelm von Humboldt, prende autorità la "scienza dell'antichità classica': Non meno importante è il grande sviluppo che l 'editoria tedesca riserva ai testi greci e latini e all'esegesi storica e filo logica dell'antichità. Oggi noi possiamo vedere nella versione holderliniana delle due tra gedie sofoclee quasi una profezia del cammino tedesco nello studio del
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mito greco. Le figure di Antigone e di Edipo segnano, in effetti, l ' inizio e la conclusione del secolo: la prima per i rapporti tra individuo e Stato, la seconda per l 'esplorazione freudiana dell' inconscio umano. I nuovi tempi. se hanno confermato la consuetudine di interloquire con l'antico e il suo immaginario, ne hanno tuttavia mutato il carattere : non ci si accontenta più di godere dell'evidenza allegorica del mito, ma si pretende di interpretarlo, di spiegarne il riposto significato. Gli strumen ti provengono sia dalla riflessione filosofica, sia, in parte preponderante, dall ' indagine etnologica che conosce ora un felice sviluppo grazie all'ac quisita consapevolezza di venire a conoscere popoli diversi, non riducibili alla sbrigativa definizione di selvaggi.
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La conoscenza dell'altro (e di sé)
Il capitano James Cook morì, pare, per un incidente mitologico. Cook, impegnato in un viaggio di esplorazione nei mari del Sud, giunse alle Hawaii, che già gli erano note, verso la fine del novembre 1778. Dopo la vittoriosa conclusione della Guerra dei sette anni, combattuta anche nel Nord America tra Inghilterra e Francia, di cui era stato protagonista, Cook si trovava alle Hawaii, perché nella seconda metà del Settecento le due scoperte geografiche che ancora si attendevano erano il passaggio a Nord-Ovest, cioè una rotta che permettesse di passare dalla Groenlandia al mare di Bering, e il raggiungimento della terra australis, di un nuovo continente colonizzabile, immaginato a una latitudine assai diversa da quella dell'Antartide. Poiché aveva compiuto la circumnavigazione dell ' isola di Maui in sen so orario, egli fu accolto dagli indigeni come la manifestazione stagionale del dio Lono. Per più settimane, fino alla sua partenza, che casualmente coincise con il tempo della scomparsa annuale del dio, tutto procedette nel migliore dei modi. Purtroppo però, qualche settimana dopo, la rot tura dell'albero di una delle navi lo costrinse a far rotta dov 'era partito. Il ritorno riuscì intempestivo : sempre come Lono, ora però fuori tempo, fu osteggiato e si giunse allo scontro con gli indigeni. Scrive Marshall Sahlins: I molti resoconti di quanto successe dopo sono confusi, ma tutti concordano sul fatto che la folla prese le armi, passò ali 'attacco e Cook cadde sotto il colpo di un pugnale di ferro. Fu un omicidio rituale, consumato collettivamente : più di cento hawaiani si scagliarono sul dio caduto per avere una parte nella sua morte. L'uccisione del capitano Cook non fu premeditata e, in termini strutturali, non si trattò nemmeno di un caso, ma piuttosto di una forma storica del Makahiki. [ .. ] Ali' inizio del XIX secolo le ossa ricomparvero nello scrigno di sartiame in cui si conservavano i resti dei capi deificati e furono portate in giro per I' isola .
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di Hawaii dai sacerdoti nei riti annuali del Makahiki : « Lono era ritornato >> (Sahlins, 1992., p. 37 ).
L'antropologo può dunque affermare : La vita e la morte di Cook alle isole Hawaii furono, per molti aspetti, delle meta fore storiche di una realtà mitica (ivi, pp. 2.1 s.).
Grazie all'attenta ricostruzione di Sahlins, conosciamo anche la data esat ta della morte di Cook: il 1 4 febbraio 1779'. Meno di sei mesi dopo, un altro suddito di Sua Maestà Britannica, il professore di eloquenza dell' Università di Gottinga, Christian Gotdob Heyne, pronunciava una breve prolusione in occasione dell ' insediamento del nuovo prorettore ; il titolo del suo discorso era La vita degli antichissi
mi uomini, in particolare della Grecia, illustrata tramite il confronto con po polazioni selvagge e barbare. Nulla certo Heyne poteva sapere ancora della scomparsa di Cook, perché la spedizione, che Cook aveva guidato, fece ritorno in Inghilterra solo l 'anno successivo ; egli tuttavia ricorda « quale debito di riconoscenza abbia l'umanità verso coloro che hanno descritto parti del mondo lontane e remote da loro visitate >> : Dalla fatica, dal pericolo, dall 'opera di quegli uomini è stato infatti aperto un campo vastissimo di indagine; sono stati estesi gli angusti confini dello studio della filosofia, quale era prima, non solo oltre le vie dell 'anno e del sole, ma oltre i ristretti limiti del territorio in cui ciascuno era nato e cresciuto, quei limiti che ciascuno considerava anche come i confini del mondo'.
Heyne era un filologo classico, ma un filologo interessato ai problemi del suo tempo e alla cui solerte attività si deve anche la ricchissima biblioteca universitaria di Gottinga ; i suoi interessi potevano essere soddisfatti per ché dall ' inizio del Settecento la città, come tutto il principato di Hanno ver, era stata unita alla Gran Bretagna nella persona del re Giorgio 1. Cir1. Non molto diverso il caso ricordato da van Gennep (1991, p. 159) di un forzato eva so in Australia e ritenuto dagli indigeni Wudthaurung come un loro morto; episodio da considerare in un quadro più generale, poiché, come spiega sempre van Gennep: « Per la maggior parte delle tribù, il nome che designa i bianchi è lo stesso che indica gli spiriti dei morti >> (ibid. ). 2.. Heyne (2.004, pp. 45 s.; cfr. anche l'illuminante Introduzione di S. Fornaro).
LA CONOSCENZA D ELL'ALTRO (E DI SÉ)
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colavano perciò a Gottinga anche informazioni e opere ignote o trascurate nella maggior parte delle altre università tedesche1• L' interesse per i paesi del mondo che gli Europei andavano via via co noscendo non fu secondario nella formazione intellettuale di Heyne. In un poscritto al successivo discorso nel settembre dello stesso anno 1779, in occasione questa volta della solenne inaugurazione del nuovo anno acca demico, egli annotava : Un facto, di cui ho craccaco in queste due dissertazioni, ricengo tuttavia di aver rilevato con sufficiente chiarezza, e cioè che ogni discussione sui costumi, le isti tuzioni e le opinioni di popoli barbari e selvaggi è priva di fondamento qualora, a partire da una data situazione descricca dagli esploratori e dagli scrittori che han no parlato di loro ed interpretata attribuendo alle parole della nostra lingua - di cui pure occorre necessariamente servirsi - il loro significato comune, eu giunga a pensare che negli animi di uomini primitivi siano presenti i medesimi concecci che eu stesso hai, dal momento che, per esprimerli, sono state usate le medesime parole; e qualora conseguentemente eu formuli ulteriori valutazioni argomentan do secondo cale presupposto. Bisogna invece penetrare, per quanto è possibile, il modo di sentire di questi barbari: quali siano stati, o debbano presumibilmente essere stati, i loro punti di vista nel seguire quelle pratiche o nel compiere quelle azioni che i nostri esploratori europei hanno definito con nomi a loro familiari e secondo quelle che erano le proprie categorie e i propri criteri di valutazione; biso gna considerare quali possano e debbano essere le nozioni degli uomini in quello che è il loro tipo di vita, il loro cielo, il loro grado di cultura•.
Si compendia in queste parole l'acuta consapevolezza dello sforzo neces sario per la conoscenza di ciò che obbedisce a regole mentali differenti, perché differente è la società che le ha prodotte. Questa consapevolezza ha però richiesto un lungo tempo di maturazione. Nell'Esprit des lois, Montesquieu nota lucidamente i diversi approcci del!' Europa ai nuovi mondi fino ad allora poco o nulla conosciuti, i diversi modi cioè della colonizzazione europea : 3· Si aggiunga che Heyne era suocero di Georg Forscer, naturalista ed esploratore, autore era l'altro di Viaggio intorno al mondo, un resoconto della seconda esplorazione di Cook {1772·7 s ), cui aveva partecipato ancora adolescente con il padre. 4· Heyne {2004, pp. 78 s.). Come nota Fornaro nella sua Introduzione a questo teseo, è probabile che Heyne conoscesse la Scienza nuova di Vico, presente nella biblioteca di Goccinga, ma molto diverso è il suo acceggiamento di fonte al "primitivo': non micico ma documentato.
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T E M P O SENZA TEM P O
G l i Spagnoli considerarono dapprima l e terre scoperte come oggetto d i conqui sta; altri popoli, più raffinati, compresero che erano oggetti di commercio e a ciò indirizzarono le loro mire. Parecchi popoli si sono comportati con tanta saggezza da affidare il dominio di quei territori lontani a compagnie di commercianti che, governandoli unicamente per mezzo dei traffici, hanno costruito una grande po tenza accessoria, senza procurare fastidi alla madrepatria (Montesquieu, 1 748, l. X X I , cap. w).
I popoli «più raffinati >> sono gli Inglesi, i Francesi e gli Olandesi che con le rispettive Compagnie delle Indie orientali dominarono per due secoli il commercio marittimo, stabilendo scali lungo tutte le coste dell 'Africa, dell ' India e dell ' Indonesia. Si trattava quasi sempre di intraprese lucrose che approvvigionavano i paesi europei di merci rare e preziose, ma che non avevano grande interesse alla conoscenza dei modi di vita delle popolazio ni con le quali venivano in contatto, salvo quanto fosse di utilità agli affari da trattare con esse. Diverso il caso delle Americhe : quella che oggi definiamo latina, con quistata m ilitarmente dagli Spagnoli, e quella settentrionale, in particolare del Nord-Est, che divenne teatro di guerra di Inglesi e Francesi tra la metà del XVI I e la fine del XVII I secolo. Di qui venne la maggior parte dei reso conti, talvolta anche un po' fantasiosi, sui quali maturò la riflessione degli Europei sulla figura del selvaggio e sulla sua definizione'. Le conquiste spagnole del Messico e del Perù erano state caratterizzate, come si sa, da pratiche di grande violenza sugli indigeni, da subito denun ciate con grande vivacità ed esattezza dai testimoni che vi avevano assisti to6. Nella condivisa credenza monogenetica della specie umana affermata dalla Bibbia non era facile la collocazione dei popoli con i quali gli Europei venivano ora in contatto : scoprire l ' incompletezza della Scrittura o rico noscere in essi dei discendenti ignorati di Israele o di antiche popolazioni camitiche ? La giudeogenesi, che trovò non pochi consenzienti, riusciva certo utile a giustificare la loro persecuzione e sottomissione?.
5· Ampie ricostruzioni del grande dibattito sono offerte da Landucci (1972., pp. 93 ss.), Gliozzi (1976, pp. 371 ss.) e Meek (1981, pp. 94 ss.). 6. Così Las Casas (1972.a). Duchet (1976-n, vol. Il, pp. 85 ss.) descrive la lunga polemica che ha riguardato il resoconto di Las Casas fino al xv m secolo. 7· Seppure l' idea che gli indigeni fossero piuttosto animali che uomini non sia mai stata sostenuta teoricamente, il comportamento di alcuni conquistadores sembrava suggerirla; per il sorgere dell' ideologia coloniale all'ombra della Bibbia, cfr. Gliozzi (1976, pp. m ss.).
LA CONOSCENZA DELL'ALT RO (E DI SÉ)
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I "selvaggi" non erano stati dichiarati, quindi, formalmente schiavi, ma sottoposti ali' encomienda: l' encomiador bianco, spesso un avventuriero che cercava fortuna nel nuovo mondo, aveva assunto la tutela di un gruppo di uomini con il pretesto di condurli alla fede cristiana in cambio della loro fOrzata obbedienza e sottomissione per tutto ciò che gli poteva servire8• A denunciare l ' ipocrisia dell' encomienda prodigò ogni sua energia il do menicano Bartolomeo de Las Casas, che in qualità di missionario dovette assistere più di una volta agli atti di ferocia dei conquistadores e ne scrisse precisi rendiconti. L'opera di Las Casas è per noi importante anche per la sua diretta conoscenza dei territori conquistati; egli ne sa ricavare la memo ria di un passato recente ma irrimediabilmente perduto, perciò in tutte le sue descrizioni dei modi di vita degli Indios egli è sempre costretto a usare malinconicamente il passato. Sulla loro religione, che gli appariva molto interessante per la sua stessa funzione di missionario, Las Casas annota : Si potrà concludere che queste genti, o la maggior parte di loro, ebbero meno brutture che altre famose e civili nazioni di quelle antiche, e con meno sozzu re di errori nella loro idolatria. Nella scelta degli dei ebbero più ragionevolezza, discrezione e moralità che la maggior parte di quante nazioni idolatre ci furono nell'antichità - barbari, greci e romani - i quali tutti in questo esse superarono e in ciò mostrarono essere più ragionevoli di tutti (Las Casas, 1972b, pp. 1 6 8 s.).
Il paganesimo degli antichi e i loro miti fungono, dunque, da termine di confronto per stabilire il livello di civiltà di quelli che, a dispetto dell'esi stenza di strutture sociali complesse e articolate, erano sbrigativamente de finiti selvaggi. Si è voluto ricavare dall'opera di Las Casas un vero e proprio paradigma classificatorio dei livelli di civilizzazione, ma è probabilmente utile ricordare che l ' intento dei suoi scritti fu apologetico ; essi servivano a contestare le diffuse dicerie e a documentare la difesa degli abitanti del nuovo mondo che egli sostenne in molte occasioni e in diverse sedi, in polemica con i molti dotti accademici che non cessarono mai di avversare la sua condotta9. 8. «Il successo in terra americana consisteva per il nuovo venuto nel raggiungere una po sizione sociale analoga a quella dei nobili spagnoli; tale posizione avrebbe dovuto avere le sue basi nella ricchezza che si pensava di poter acquisir facilmente e nella sottomissione di un gran numero di indigeni» (Romero, 1989, p. 64). 9· Sul preteso paradigma di Las Casas, cfr. Pagden {1989, pp. ISS ss.) e la giusta critica di Gliozzi (1993, pp. 173 ss.).
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Nel grande quadro delle dispute sulla natura dei "selvaggi" e sul loro habitat che percorrono l ' Europa moderna'0 si collocano, in un tempo successivo e a un diverso piano, le riflessioni del gesuita Joseph François Lafìtau intorno alle popolazioni irochesi del Québec : MO!urs des sauvages américains comparées aux mfl!urs des premiers temps, del 1 724. Così egli stesso riassume i risultati del suo lavoro comparativo : Non mi sono accontentato di conoscere il carattere dei selvaggi e di informarmi dei loro costumi e delle loro pratiche. In queste pratiche e in questi costumi ho cercato le tracce dell'antichità più remota. Ho letto con attenzione gli autori più antichi che hanno trattato dei costumi, delle leggi e delle usanze dei popoli di cui avevano qualche conoscenza. Ho fatto il confronto tra questi costumi e gli altri e confesso che, se gli autori antichi mi hanno offerto lumi per confermare alcune facili congetture riguardanti i selvaggi, i costumi dei selvaggi mi hanno offerto lumi per spiegare molte cose di cui parlano gli autori antichi (Lafitau, 1724, vol. 1, pp. 3 s.).
Nel 1 6 84, quarant'anni prima dei MO!urs di Lafìtau, Bernard Le Bouyer de Fontenelle, un letterato accademico di Francia interessato ai problemi della scienza, nel suo libro De l'origine desfobles scriveva : Potrei mostrare forse bene, se occorresse, una stupefacente somiglianza tra le fa vole degli Americani e quelle dei Greci. Gli Americani mandavano le anime di coloro che avevano vissuto male in certe paludi fangose e repellenti, come i Greci le mandavano sulle rive dei loro Stige e Acheronte. Gli Americani credevano che la pioggia venisse da una ragazza che, giocando con il fratellino tra le nuvole, gli rompeva la brocca piena d'acqua. Questo non assomiglia molto a quelle ninfe delle fonti che versano l'acqua nelle urne ? Secondo le tradizioni del Perù, l' inca Manco Guyna Capac, figlio del sole, trovò modo, grazie alla sua eloquenza, di tirar fuori dalla foresta gli abitanti del paese che ci vivevano al modo delle bestie, e li fece vivere sotto ragionevoli leggi. Orfeo fece altrettanto per i Greci, e anch'egli era figlio del sole. Il che dimostra che i Greci per un periodo di tempo erano stati dei selvaggi proprio come gli Americani, e che essi furono tratti dalla barbarie con gli stessi mezzi, e anche che gli immaginari di questi due popoli così lontani concordavano nel ritenere figli del sole coloro che possedevano talento straordi nario. Poiché i Greci con tutto il loro spirito, quando erano ancora giovani, non pensavano in modo più razionale dei barbari delle Americhe, un popolo, secondo 10. Un vastissimo panorama documentato in Gerbi ( 2000 ), a cui si rimanda per figure importanti del dibattito come Buffon e Cornelis de Pauw.
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tutte le apparenze, abbastanza giovane quando furono scoperti dagli Spagnoli, vi è motivo di credere che gli Americani sarebbero alla fine arrivati a pensare così ragionevolmente come i Greci, se se ne fosse data loro la possibilità (Fontenelle, 1825, pp. 305 s.).
Secondo Fontenelle, la storia dei popoli è dunque un processo evolutivo e i racconti che essi elaborano per spiegare le proprie origini costituiscono l ' indice di civiltà raggiunto ; perciò anche nel mito greco troviamo deposi tata la memoria di un'umanità primitiva. I Greci sono a un tempo i model li della nostra ragione e gli eredi di una barbarie da poco superata. Così il confronto dell 'antico e delle sue storie con l 'esotico ; ma verso la fine del XVII secolo si apre in Europa anche un nuovo terreno d ' in dagine. Se la pittura indugia a favoleggiare con le rappresentazioni al legoriche del mito antico, nella letteratura d' intrattenimento delle corti si va diffondendo un nuovo genere, i racconti delle fate". È dalla corte europea più importante, quella di Luigi XIV, che ci viene la più celebre raccolta di fiabe, I racconti di mamma Oca di Charles Perrault. Seppur opera di un dotto letterato, il racconto di fate, la fiaba, ama riprodurre nel proprio dettato l 'espressività della narrazione orale, il suo indulgere alle ripetizioni di sintagmi formulari, finanche all'onomatopea, e anche la materia appare tratta da una lunga tradizione di stereotipi che la sapien za dello scrittore rielabora, ingentilendola, e riuscendo a rappresentare senza turbamento pure episodi e personaggi macabri e violenti. Perrault ha di certo alle spalle una trasmissione di forme e di contenuti narrativi da cui direttamente o indirettamente può attingere ; Le piacevoli notti di Giovan Francesco Straparola e il Cunto de li cunti di G iambattista Basile - prodotto, questo, nell'ambito della corte napoletana - sono i maggiori esempi da richiamare. Raccolte di novelle collocate in una cornice alla maniera del Decamerone, parecchie racchiudono elementi magici che le hanno fatte considerare quasi prodromi dell 'opera di Perrault (cfr. Liithi, 1 9 64, pp. 41 s.) . Lo scriver fiabe appare peraltro, in questi tempi, occu pazione prediletta di molte dame di corte, che immergono tratti tipici del racconto di magia - fate, orchi, animali parlanti - nel loro raffinato ambiente aristocratico. Nel contesto di questa moda galante appare nei 11. Conte des ftes è l'espressione francese, cui corrisponde l' inglese foiry tale; l' italiano "fiaba" corrisponde al tedesco Marchen preferito da Thompson (1994, p. 24).
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primi due decenni del XVIII secolo la traduzione della raccolta delle Mille e una notte, che aggiunge un certo tono esotico, ben accetto dal nascente orientalismo occidentale. Ma ad assegnare alla fiaba un ruolo davvero importante nel dibattito cul turale europeo sono i fratelli Wilhelm e Jacob Grimm, con la prima pub blicazione nel 1 8 1 2 dei Kinder- und Hausmarchen". Anche se il loro inter vento letterario nella stesura dei testi è tutt'altro che trascurabile, i Grimm si vogliono presentare come semplici raccoglitori e trascrittori di racconti trasmessi fino ad allora soltanto oralmente e come garanti della loro origina ria purezza. Così annotano presentando la seconda edizione della raccolta : Abbiamo voluto includere in questa seconda edizione del libro ciò che finora ab biamo acquisito per la nostra raccolta. Perciò il primo volume è stato quasi com pletamente rielaborato: quel che era incompleto integrato, qualcosa narrata più semplicemente e con maggiore esattezza e non sono molti i pezzi che non appaio no in miglior forma. È stato ancora una volta esaminato e quindi eliminato quel che appariva sospetto, che in qualche modo cioè rivelasse un'origine estranea o poteva esser stato falsificato con aggiunte''·
È un patrimonio popolare, si potrebbe dire rurale, di cui i Grimm si pre tendono scrupolosi conservatori e fedeli divulgatori, nella fiducia che in esso si rispecchi l'anima autentica del popolo, i tratti essenziali della sua identità, talvolta vivacemente espressi nella voce e nello sguardo dei loro semplici interpreti: Un caso felice è stato che nel villaggio Niederzwehrn presso Kassel abbiamo co nosciuto una contadina che ci ha raccontato la maggior parte delle più belle fiabe del I I volume. La signora Viehmann era ancora vigorosa e non aveva più di cin quant 'anni. I suoi lineamenti avevano qualcosa di fermo, intelligente, gradevole, e lo sguardo dei suoi grandi occhi era puro e acuto. Serbava nella sua memoria le antiche storie e lei stessa diceva che questa non era dote concessa a tutti e che vi era qualcuno del tutto incapace di salvarne la coerenza. Raccontava lenta, sicura e con non comune vivacità e con propria soddisfazione, dapprima molto liberamente, poi, quando glielo si chiedeva, ancora una volta lentamente, così che con un cer to esercizio era possibile trascrivere. Qualche cosa di questo modo si è conserva-
1�. Le edizioni si susseguirono fino alla settima (1857 ) . 13. Così nella Prefozione all'edizione in due volumi di Kassel; cfr. Grimm, Grimm (1980, vol. I, p. n).
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to letteralmente, e rimane inconfondibile nella sua genuinità (Grimm, Grimm, 1980, vol. l, p. n ) •• .
Particolarmente suggestiva appare l ' immagine di un'oralità intorno al focolare domestico o nelle veglie contadine nella stalla, garanzia del ca rattere popolare del racconto, della sua originalità. Un tratto forse non se condario di tale suggestione è forse la costante formula incipitaria "C 'era una volta� che colloca l'azione narrata in un passato indistinto da avvertire come remoto, un tempo diverso da quello vissuto quotidianamente, eppur legato a esso nella trasparente riconoscibilità dei comportamenti. L' importanza della pubblicazione dell 'opera è duplice : aver portato all'attenzione di un vasto pubblico una narrativa che avrebbe altrimenti rischiato la consunzione e l 'oblio e, soprattutto, l'avvio di una riflessio ne e di uno studio dei caratteri e dell'origine di questi racconti. Gli stessi Grimm offrono, nel commentario alla raccolta, ampi confronti, fiaba per fiaba, con possibili fonti e loci paralleli. L'apparizione della raccolta dei Grimm segna anche l ' inizio di un più diffuso interesse per la fiaba in tutta l ' Europa. In Germania anzitutto, dove un giovane scrittore romantico, Wilhelm Hauff. dà avvio nel 1826 a un vero e proprio almanacco della fiaba che esce per soli tre anni a causa della morte prematura dell'autore'1• Il folklorista americano Stith Thomp son, il cui nome è unito a quello di Antti Amatus Aarne, nel sistema di classificazione delle fiabe per motivi narrativi (AATH), traccia una sintetica mappa della favolistica: Considerato che tra le varie espressioni di narrativa tradizionale di tutti i popoli dal l' Irlanda all' India, e dei loro discendenti stabilitisi in nuove terre, vi è un innegabile nesso storico, al quale corrisponde un fondo comune di motivi narrativi, ed anche di elementi formali, sarà bene che, per prima cosa, riuniamo ed esaminiamo in modo particolare i racconti di questa vasta area, che in gran parte coincide, nei suoi confini generali, con quella della cosiddetta civiltà occidentale (Thompson, 1994, p. 32).
Da queste righe introduttive appaiono chiari i confini che lo studioso, benché persuaso del carattere universale del racconto favolistico, stabili14. A Dorothea Viehmann, figlia di un oste e moglie di un sarto, fu eretto un busto nella sua contrada natale. I S . Miirchen-Almanach aufdas jahr I8z6for Sohne und Tochter gebildeter Stiinde, cui se guirono le raccolte del 1827 e del 1828; cfr. Hauff (1986).
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sce : da una parte l ' Europa, sia pure allargata, dall'altra i popoli "primitivi': cioè senza scrittura, quelli che un secolo prima erano definiti sbrigativa mente selvaggi. Estranei a questa contrapposizione, quasi sospesi in diver so spazio, la Cina e il Giappone, dove mancherebbe ogni attenzione a ciò che non sia attestato dalla scrittura. Thompson, sebbene compiendo un'attenta disamina dei diversi ambiti regionali, insiste sull'unità culturale di quest' Europa allargata : È ben noto che molte storie, nate in un punto qualsiasi di quest 'area, si sono spar se in tutto il resto di essa, facendosi accettare dappertutto. All'interno dei suoi confini si compie un libero scambio di temi e di motivi, che lega assieme, con una moltitudine di tradizioni comuni, tutti i paesi che ne fanno parte. È un'area nient 'affatto uniforme, ai cui poli estremi i popoli presentano diffe renze grandissime, non soltanto nei modi di vita, ma anche nell'atteggiamento di fronte a fiabe popolari identiche. Chi si accinge a studiare la narrativa di questa vasta regione deve riconoscere l'esistenza di molte sub-aree e, se vuole capire i movimenti di tradizione dall'una all'altra, deve saperle distinguere l'una dall'altra (ivi, p. 33).
Thompson evita di dare rigorose definizioni, che distinguano fiabe, leg gende e miti, preferendo parlare di racconti popolari. Le distinzioni, in effetti, si rivelano spesso insoddisfacenti, perché la medesima storia può comparire nei diversi contesti con diverso carattere, sì che viene da pensare che a distinguere la natura della fiaba e del mito abbia soprattutto contri buito il differente approccio dei due gruppi di studiosi impegnati nel loro studio : folkloristi e antropologi. Mito e fiaba, a noi noti grazie alla loro elaborazione letteraria, erano in origine espressioni di una trasmissione eminentemente orale ed entrambi erano rivolti ad ascoltatori che già li conoscevano, che conoscevano cioè almeno i tratti essenziali del racconto ; il piacere dell 'ascolto era il piacere dell ' iterazione, della riappropriazione del già posseduto. Analoghi sono, inoltre, alcuni elementi contenutistici: il luogo dell'azio ne, che, seppure talvolta nominato e ben noto, si presenta come scenario as sai differente dal quotidiano ; il tempo, strutturalmente diverso da quello nel quale s' inscrive la nostra vita; la metamorfosi, che assicura una riconoscibile continuità nel cangiante spettacolo di un mondo essenzialmente magico'6• 16. Sulla componente magica del racconto insiste Bruno Berrelheim, che esamina gli ele menti della narrazione nel loro valore simbolico: «È generalmente riconosciuto che i miti
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La difficoltà di distinguere si manifesta nella tradizione celtica, dove mito e fiaba si alternano e spesso si confondono, integrandosi reciproca mente. Anche per questo il loro studio, sviluppatosi agli inizi dell' Otto cento, si rivela di particolare interesse. Nel 1 8 04 è fondata a Parigi l 'Académie Celtique, che può considerarsi la manifestazione della « diversità francese nell 'unità nazionale » presup posta dal movimento rivoluzionario (Meyer, 2.00 3, p. 410 ). L'Académie nasce sullo slancio delle ricerche svolte nel precedente decennio sulla spe cificità della tradizione bretone; a promuoverne la fondazione è Jacques Cambry, figura complessa di studioso ben inserito nell 'amministrazione statale, aurore di una raccolta di racconti e proverbi. La sua attenta inda gine sulla situazione postrivoluzionaria del patrimonio storico-artistico della Bretagna, condotta sul campo come commissario governativo alle scienze e alle arti, ha come risultato la pubblicazione nel 1797 del Voyage dans le Finistère ou État de ce département en I794 et I795· Cambry è anche studioso di antichità classiche e la sua passione antiquaria sta a fondamen to del! 'Académie, che egli crea insieme con Jacques-Antoine Dulaure, un letterato impegnato nella Rivoluzione e autore di diverse ricerche storico religiose''. In dieci anni i "Mémoires" dell 'Académie pubblicano una serie di ricerche su tutti gli aspetti delle antichità celtiche - monumenti, usan ze, racconti tradizionali - di cui i bretoni rivendicano l 'eredità; a guida re queste indagini è il Questionnaire pubblicato nel 1808, redatto in gran parte da Dulaure, che mostra assai bene l'ampio spettro degli interessi del le ricerche. Diviso in quattro sezioni, il Questionnaire propone domande sulle usanze che si accompagnano alla celebrazione delle diverse festività (Natale, Carnevale, Pasqua, San Giovanni ecc.), domande sulle diverse pratiche volte a proteggere alcuni importanti momenti della vita (nascita, crescita, matrimonio, funerale ecc.), domande riguardanti l 'esistenza di monumenti considerati magici, domande sulle credenze diffuse e sui race le fiabe ci parlano nel linguaggio di simboli che rappresentano un contenuto inconscio. Essi fanno appello contemporaneamente alla nostra mente conscia e inconscia, a tutti e tre i suoi aspetti - Es, lo, Super-io - nonché al nostro bisogno d' ideali dell' lo. Ecco il perché della loro efficacia. Nel contenuto delle fiabe vengono espressi in forma simbolica fenomeni psicologici interiori » {Bettelheim, 1977, p. 39). Al mondo delle relazioni sociali si sostituisce l'universo individuale della psiche, facendo così regredire la magia da supera mento dei limiti tra umano e sovrumano a mero " bisogno di magia del bambino� 17. Sulla fondazione e le attività dell'Académie, cfr. Senn {1981) e Guiomar (1992).
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conti di fate, demoni, folletti. Il valore metodico del questionario fu auto revolmente riconosciuto, quasi cent 'anni dopo, dall 'etnologo Arnold van Gennep che ne riprese l ' impostazione per comporre la sua fondamentale enciclopedia del folklore francese. Il Questionnaire naturalmente non era privo di precedenti; Peter Burke ricorda un questionario di 1 40 domande elaborato dal vescovo di Normandia, Colbert, verso la fine del Seicento. Come spiega lo stesso Burke, l ' indagine era volta ad accertare l 'eventuale sopravvivenza di pratiche rituali non tollerabili dalla Chiesa nell 'ambito delle principali festività liturgiche (cfr. Burke, 1 9 88, pp. 5 1 ss.). Si trattava, cioè, di un'iniziativa per arginare tutto quello che appariva non conforme al nuovo rigore dottrinario tridentino. La ricerca promossa dall'Académie Celtique sulla persistenza delle tradizioni bretoni è di segno opposto, per ché è rivolta alla loro riscoperta e alla loro conservazione. Sono molti coloro che, nel decennio di vita dell 'Académie ( 1 8 04- 1 3). hanno occasione di frequentarla e di collaborare ai suoi "Mémoires"; tra essi particolare interesse ha per la nostra trattazione il nome di Jacob Grimm. Studente di diritto, ma interessato piuttosto allo studio della lin gua e della letteratura tedesca medioevale, egli arriva a Parigi meno che ventenne al seguito del giurista Friedrich von Savigny. La sua passione per le antichità si dimostra pienamente congeniale alle attività dell'A cadémie : tornato presto in Germania, nel 1 8 1 2 pubblica insieme con il fratello Wilhelm la prima edizione dei Kinder- und Hausmarchen. Le fia be, raccolte da racconti orali ascoltati e trascritti in diverse regioni della Germania, come già si è detto, intendevano rappresentare un importante contributo alla tesaurizzazione del patrimonio di una tradizione popolare tedesca. La diffusione delle fiabe, tuttavia, e la difficoltà di definirne le origini impediscono una loro precisa caratterizzazione nazionale. Seppur ricavate da narratori orali non professionisti, non poche trovano infatti riscontro, seppure con varianti talvolta non indifferenti, nei Contes di Per rault; così Cappuccetto rosso, Pollicino, Cenerentola, Rosaspina (La bella
addormentata nel bosco). La bella addormentata è un caso significativo. I Grimm offrono solo la prima metà del racconto di Perrault, ma già così si può dire che si tratti di una fiaba completa : la vendetta della fata trascurata e il destino di mor te precoce della giovane principessa mutato dalla fata benigna nel sonno centenario. Questo sonno e i differenti modi del risveglio hanno attratto per lo più l ' interesse degli studiosi e già gli stessi Grimm segnalavano la somiglianza con il sonno di Brunilde punta con il fuso e addormentata da
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Odino e risvegliata poi da Sigfrido'8• C 'è, però, un altro tratto del raccon to, a prima vista secondario, che ci fa risalire anche a una diversa tradizio ne. La vendetta dell'esclusa dalla festa è motivo presente anche nel mito greco delle nozze di Peleo e Teti: Eris giunge non invitata alla festa e getta tra i convitati la mela d'oro "destinata alla più bella" che è motivo della disputa tra le dee. Anche in Perrault e nei Grirnrn il risentimento della fata malefica è dovuto all'esclusione da un banchetto di festeggiamento, ma c 'è un particolare in entrambi i racconti che merita attenzione. Perrault spiega che si è trattato di una dimenticanza. Oltre alle sette fate del rearne invitate, per ciascuna delle quali era stato preparato un astuccio d'oro per le posate, ne compare a sorpresa un'ottava, dimenticata perché creduta or mai morta. Anch'essa viene premurosamente invitata alla tavola, ma pur troppo non c 'è per lei un ottavo astuccio dorato. Perrault indugia a descrivere le preziose posate delle fate ; può sembrare il vezzo del gentiluomo abituato alle sontuose cene e al gusto per le tavo le imbandite del xvn secolo, ma probabilmente non si tratta soltanto di questo. Anche nella Rosaspina dei Grirnrn, raccolta in ambiente del tutto diverso, il risentimento della fata vendicativa si lega ali ' inadeguatezza della mensa approntata, una carenza di piatti anziché di posate. Di più: Ce n'erano tredici [fate] nel suo regno, ma poiché egli [il re] aveva solo dodici piatti d'oro dai quali esse avrebbero dovuto mangiare, si fu costretti a (asciarne una a casa.
È dunque il tradizionale servizio da dodici a condizionare gli inviti e a portare ali 'esclusione del!' ultima fata. Rirnostranze per una tavola non apparecchiata, o non apparecchiata a dovere, le troviamo anche, seppure in chiave parodica, nel duecentesco]eu de la Feuillée di Adarn de la Halle. Al calare della notte la gente di Arras, che aveva riempito fino a quel momento la scena con il suo cicaleccio, si ri tira timorosa per l'atteso sopraggiungere delle fate. Darne Morgue e le sue due compagne, infatti, arrivano e si siedono alla tavola per loro preparata. Guardate ! - osserva subito stizzita Magloire - qui in fondo dove sono seduta io non è stato messo il coltello (de la Halle, 19 82, p. 109).
18. Cfr. Grimm, Grimm (1980, vol. 111, p. 8s), che danno conto delle differenze in Basile e Perrault.
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Quando poi al termine della cena, Morgue e Arsile propongono di ricom pensare con doni quelli che si sono occupati di loro, insorge : Da parte mia di cerco non riceveranno nulla. Meritano d'essere privati di un bel dono, visco che io sono stata privata del coltello. Vergogna a chi darà loro qualun que cosa! (ivi, p. m).
Qui le fate non sono né sette, né dodici, ma tre ; non sono invitate a un banchetto regale, ma siedono alla tavola apparecchiata dalla gente di Ar ras per loro sole lontano da occhi indiscreti, e gli umani si guardano bene dali' interferire. La scena è all ' interno di una farsa, ma il suo significato non doveva essere di difficile comprensione per gli spettatori dello jeu, perché si trat tava di credenze ben condivise. Solo due secoli prima il vescovo di Worms Burcardo, nel suo Decretum, aveva criticato come pratica pagana l 'usanza di lasciare, in alcune notti, del cibo e tre coltelli a disposizione della triade di divinità celtiche, note abitualmente con il nome latino di tres matres. Lo stesso Burcardo non esita a riconoscere nelle matres la triade delle greche moire, cui riconduce anche il nome fatae, dafatum (cfr. Ginzburg, 1 9 8 9, pp. 83. 1 64) . Così anche la fiaba suggerisce u n ritorno alla considerazione del mito, non come mascherata allegorica quale era usato nella letteratura e nell'ar te, ma come racconto ben radicato nel complesso delle credenze e delle pratiche religiose degli antichi. Neli 'età della Rivoluzione maturano sia l 'etnologia, lo studio del!' altro, dei popoli remoti e diversi, sia il folklore, lo studio della propria identità nazionale, del proprio passato serbato negli usi domestici, nei riti, nei rac conti popolari. Questi due interessi concorrono a determinare la configu razione di un nuovo approccio ai miti degli antichi, definendone carattere e regole, a trasformarlo in vera e propria disciplina.
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Una scienza per il mito
Così iniziano i versi che Holderlin sul volger del secolo dedica a Hei delberg : Da tempo ti amo l vorrei per mio piacere chiamarti madre l Tra le città della mia terra patria l per quante io vidi l tu campestremente la più bella (ldndlichschiinste) .
La memoria di Heidelberg è la memoria del Neckar, il fiume sulle cui rive il poeta era naro e cresciuto. Heidelberg, la città più grande che il Neckar incontra nel suo lungo corso, è ricordata da Holderlin per il castello, l'antico ponte ricostruito e il monte che la sovrasta, quello che possiamo vedere in ogni dipinto romantico del luogo. L'accento romantico dell'e vocazione holderliniana non sta solo nella città "campestre" - di difficile resa italiana, ma d' indubbia forza espressiva - né nelle « vie che riposano tra i profumati giardin i >> , ma anche nell'attributo "triste-lieto" (traurig froh) che definisce la corrente del fiume, «giovanilmente protesa verso il piano >> come « il cuore amante si getta nei flutti del tempo >> (Holderlin, 1 970, vol. I, p. 28o). Città romantica, per il paesaggio in cui è inscritta e per le suggestive ro vine della rocca, Heidelberg è città barocca, ricostruita, dopo la completa distruzione subita alla fine del Seicento, quando ebbe fine l ' indipendenza del Palatinato con la sua annessione al Baden, e ricattolicizzata dopo un secolo e mezzo di inquieta alternanza tra luteranesimo e calvinismo. Al termine del XVIII secolo e nel primo decennio del XIX, quando Holderlin la ricorda, essa è effettivamente il punto d'attrazione di molti intellettuali, cattolici per nascita o per recente conversione, che qui concorrono alla formazione del cosiddetto "secondo Romanticismo" tedesco : Joseph Gor res, Joseph von Eichendorff. Clemens Brentano e Achim von Arnim. È a questi due ultimi che si deve la pubblicazione nel 1 8 os del primo dei tre volumi del! ' imponente raccolta di canti popolari tedeschi Il corno
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magico delfanciullo'. La tradizione vuole che l'amicizia dei due poeti fosse nata durante un viaggio sul Reno compiuto insieme tre anni prima; è una tradizione a forte valenza simbolica, se si pensa che il Reno era considerato il fiume tedesco per eccellenza, cui era legata una parte importante della più antica mitologia germanica'. All' Università di Heidelberg, la più antica della Germania da poco re staurata, nel 1 8 04 è chiamato a insegnare filologia e storia antica il giovane Friedrich Creuzer, che in quel vivace ambiente culturale scrive nel 1 8 1 2 l ' importante trattato sull 'origine della religione e della mitologia : Sim bolica e mitologia, un'opera in più volumi, quasi una vera e propria enci clopedia, celebre soprattutto per la sua ampia introduzione teorica, che, già scorporata dal resto del libro e presentata come appendice nella terza edizione, divenne poi un vero e proprio libro indipendente. È quest' introduzione a produrre grande interesse e non meno grandi diatribe. Creuzer vi traccia un vasto panorama del!'origine e del senso stes so della religione, dominando un quadro storico che, oltre al mondo clas sico, comprende India, Iran, Israele, senza rinunciare ad alcuni confronti con le società indoamericane. L'esposizione muove dal brano erodoteo, nel quale, ricordando l 'an tico santuario oracolare di Dodona, lo storico spiegava come i Pelasgi, antichi abitatori della Grecia, ignorassero i nomi degli dei e li pregassero quindi indistintamente senza nominarli. Interrogato poi l'oracolo sull'op portunità di adottare il modello egizio e dare a ciascuna divinità un nome, ne ebbero risposta affermativa : Prima i Pelasgi compivano sempre i loro sacrifici pregando le divinità, come io so perché l'ho saputo a Dodona, senza dare a nessuna di esse un nome, perché non li avevano appresi. Li avevano denominati dei (Seo[) perché avevano posto in or dine (9evnç) tutte le cose e avevano il potere su tutte le distribuzioni. In seguito, dopo molto tempo, vennero a sapere dall' Egitto i nomi di tutti gli dei - quello di Dioniso lo conobbero però parecchio tempo dopo - e proposero quindi su questi
1. Heine, nel suo panorama critico del Romanticismo tedesco, spesso causticamente iro nico, cita diversi canti della raccolta di Arnim e Brentano, e così annota: «Che bella poe sia! C 'è in questi canti popolari un fascino strano. I poeti colti vogliono imitare questi prodotti della natura, così come si fabbricano artificialmente acque minerali» (Heine, 1972, p. n s ) . 2. Non più di un sesto dei canti raccolti è peraltro sfuggito alla rielaborazione dei racco glitori, più poeti che etnologi; cfr. Cocchiara (1971, pp. 225 ss.).
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nomi una domanda all'oracolo di Dodona, stimato il più antico della Grecia e che a quel tempo era l'unico. Interrogato dai Pelasgi se fosse il caso di accogliere i nomi provenienti dai barbari, l 'oracolo assentì. Da allora essi compirono i loro sacrifici usando i nomi degli dei. In un secondo tempo i Greci ricevettero i nomi dai Pelasgi. Ma quale fosse l'origine di ciascun dio, se tutti e ciascuno avessero sempre avuto le loro immagini, non lo si è saputo fino a poco tempo fa, si può dire fino a ieri. Penso infatti che Omero ed Esiodo siano più vecchi di me di quattro cento anni, ed essi sono coloro che hanno dato ai Greci una teogonia, attribuendo agli dei le denominazioni, distinguendone prerogative e arti e delineando le loro sembianze (Erodoto, Storie, n, so-si )'.
In questo racconto, secondo Creuzer, si concentrerebbero due momenti fondamentali della trasformazione della religione greca : la nominazione degli dei, la nascita cioè di un vero e proprio politeismo, e l ' inizio di un'era sacerdotale, del dominio dei sacerdoti ermeneuti, conoscitori dei misteri divini e intermediari tra la divinità e gli uomini. Il sacerdote è la figura iniziale, in lui si confondono il "primo maestro della preghiera" e il "primo orante� che in Grecia Creuzer riconosce in Orfeo, il quale con il canto e la preghiera seppe condurre gli uomini dalla barbarie alla civiltà : Il mediatore fra dèi e uomini è chi compie il sacrificio (iepeilç) e ne opera la divi nazione (haruspex). Egli è veggente, scorge ciò che è nascosto grazie a segni divi ni (fltXVTlç). Osserva il volo degli uccelli (oiwv01réÀoç, auspex). Interpreta i sogni (òve1po1réÀoç). Talvolta si connette a lui la fede nell'arte magica, una credenza che alcuni ritengono radicata in modo così profondo ed essenziale da pensare di spie gare grazie ad essa nella maniera più spontanea il sorgere della stessa dignità sacer dotale. Senza associarci a questa convinzione, osserviamo che quest ' idea di una virtù sacerdotale magica si riscontra non solo in popolazioni del tutto primitive, ma anche per alcune tracce fra i Greci. Quanto meno, alcuni s'immaginavano come maghi quegli Orfeo ed Anfione - che tuttavia nella saga erano considerati uomini, abbigliati con solenne dignità divina o sacerdotale -, i quali, grazie ai loro poteri straordinari, avevano compiuto i prodigi che di essi si raccontavano (Creuzer, 2004, p. 1 2s ) .
Il sacerdote è "il primo maestro della preghiera e il primo orante� perché il più prossimo al dio e perché nella preghiera è racchiuso il suo insegna3· A differenza di quanto per lo più creduto, la corrispondenza delle divinità non è in tuizione erodocea, ma pratica comunemente in uso in tutto l'ambito del Vicino Oriente antico, che lo storico greco si limita ad adottare; cfr. Assmann (1996).
TEMPO SENZA TEMPO mento ; essa è il segno del rivelarsi della divinità. Carattere del divino è la brevità del suo manifestarsi; perciò Creuzer vede nel simbolo !' "evidenza istantanea" di ciò che si mantiene celato : Chiamiamo simboli queste massime espressioni della capacità rappresentativa, e tale denominazione dovrebbe restare, circoscritta all'uso strettamente scientifico per questa limitata cerchia di idee incarnate. Essa esprime tutto quel che è pecu liare di questo genere, e lo solleva al livello più alto: l'istantaneo, il totale, l' imper scrutabile della sua origine, il necessario ( ivi, p. s7).
L' imperscrutabilità del divino conduce Creuzer a porre la pratica misteri ca come origine stessa della religione e a riconoscere un nesso tra i misteri pagani e i riti cristiani: Quanto dei Misteri pagani s ia stato assimilato nella liturgia dei cristiani, è già stato osservato da grandi studiosi della più antica storia della Chiesa. Ciò vale particolarmente per l'uso dei simboli, parola in cui, come vedemmo, già la reli gione popolare e la dottrina m isterica greche avevano riposto i significati riservati al servizio religioso. L'esclusività di quest 'elevata accezione della parola 01Jfl�OÀov passò dunque dal paganesimo al cristianesimo assieme alla consuetudine di dar vita a determinate parole e atti come segni di una superiore consacrazione. I con cetti di significatività e di pregnante brevità restano, qui come là, decisamente prevalenti ( ivi, p. 46).
Ali' istantaneità del O'UfL�OÀov, alla sua immediatezza, si oppone il fLii9oç, il discorso, che Creuzer riconduce alla diade rivelazione-ermeneusi; egli lo fa muovendo da due etimologie, entrambe false, della parola: fLUW (chiude re) e fLÒ�w (mugolare). Il mito sarebbe in ogni caso originariamente qual che cosa di indistinto : Mu6oç lo si faccia ora derivare immediatamente da flVW, claudo, oppure da flUÉw, che discende da quello, arcanis initio, o infine dalla parola di egual provenienza flV�, musso, clauso ore sonum aliquem per nates edo ; gli resta sempre il significato fondamentale del pensiero non ancora manifestato, bensi serrato ancora nell'animo; cui si associò presto l' idea: discorso, come espressione delpensiero (ibid. ) .
Dall'esoterismo non è difficile il passaggio alla filosofia, che Creuzer vede come il suo naturale sviluppo : al mythos segue perciò il logos, «discorso che espone » , attinente la sfera del numero, del contare, e quindi della ra gione. Si trova qui un paradigma destinato a determinare, e a fuorviare,
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parte delle ricerche analitiche e delle sintesi, anche importanti, sul pensie ro greco : il passaggio dal mito al logos . Così Creuzer: Tuttavia quella distinzione tra À6yoç e flli9oç aveva nel frattempo già fatto la sua comparsa prima della formazione della prosa attica. Anzitutto si designava con À6yoç la saga in quanto tale, senza riguardo alla verità o non verità del suo con tenuto. Però presto fu operata una distinzione più precisa, nel senso che flli9oç [evidente refuso per À6yoç] indicò la saga veridica, mentre flli9oç quella inventata (ivi, p. 48).
L' importanza riconosciuta al sacerdozio e alle confraternite sacerdotali, l 'affermata necessità della loro mediazione tra gli uomini e la divinità, fanno sì che il protestante Creuzer sia definito « criptocattolico >> 4• La ragione prima del suo interesse per le pratiche iniziatiche è da cercare, però, anche altrove : dietro i Greci, che occupano lo spazio maggiore della sua riflessione, si delinea l 'antica India. Non si tratta di un interesse iso lato : Friedrich Schlegel pubblica nel 1 8 o 8 a Heidelberg un' importante dissertazione sulla lingua dell ' India antica, Ober die Sprache und Weisheit der Indier (Sulla lingua e la sapienza degli Indiani) , nella quale afferma essere il sanscrito la madre di tutte le lingue europee e arriva a postulare un'antichissima migrazione di popoli dall' India all ' Egitto, così da poter riportare anche la civiltà egizia a una matrice indiana. Ma perché l ' India ? Gli studi di indianistica, avviati nel 1 784 con la costituzione a Calcutta, per iniziativa di William Jones, deii'Asiatic Society, diventano particolar mente importanti per la scoperta dell'affinità del sanscrito e dell'antico persiano con le lingue europee, rilevata in una memoria dello stesso Jones nel 1786. Si va profilando così la determinazione di un'unica grande fami glia linguistica indoeuropea, che trova la propria definitiva conferma nel 1 8 1 6 nella memoria scritta da Franz Bopp sul sistema di coniugazione del sanscrito confrontato con quello di alcuni importanti lingue europee (cfr. Leroy, 1 9 6 9, p. z6)1• Per Creuzer tuttavia c 'è una chiara differenza tra religiosità orientale e mito greco : 4· «Mostrare invece fedeltà al protestantesimo, e il suo orrore verso il clericalismo, signi ficava ribadire la sua estraneità alle accuse >> (Fornaro, 1010, p. 19 }. ;. Nel 18n anche in Francia è fondata una Société Asiatique interessata ai rapporti tra l'antichità classica e l'antico Oriente.
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Il modo di pensare orientale, in particolare, posto a concacco con l'agile spirito dei Greci, creò molto materiale micico. Prima di cucco la scultura e l'archiceccura geroglifiche degli Egiziani, dalle quali l'arguto spirito dei Greci fece uscire con la bacchecca magica della sua fantasia un' incera schiera di favole. [ ... ] Quel popolo rimase sempre e globalmente fedele, nei suoi più alci rappresen tanti al simbolico, la Grecia invece divenne molto presto la feconda madre dei miei ( Creuzer, 2004, p. 69 ).
È la poesia greca il grande laboratorio del mito : Noi scorgiamo le !oece e le pene degli eroi, la compassione e l 'aiuto di dei che agiscono e sentono come uomini. Però la scena sulla quale queste gesta avvennero è proprio il grande punto di separazione dell'oriente dal mondo occidentale, così come quella poesia pone i confini più n ecci fra l'oscura indeterminatezza del culto divino dell'Asia anteriore e la multiforme e luminosa schiera degli dei micici. [ ... ] L' Ellade con le sue generazioni di dei che si perdono nell'umanità lungo eroi ne ed eroi, con le sue lo cee di dei ed eroi, è e rimane la madre dei miti (fLu6oTéKoç 'El1«ç), ed Omero è il figlio più fecondo e più rassomigliante a questa madre (ivi, p. 1 1 3).
La Symbolik di Creuzer desta risentimento e fastidio nell 'ambito del clas sicismo tedesco, perché trascura la supposta diretta eredità ellenica della Germania; riscuote, invece, grande interesse in Francia: è tradotta nel 1822 - ne viene data enfaticamente notizia sulla "Revue Encyclopédique" - e, tre anni dopo, il suo autore è accolto come membro deii'Académie des In scriptions et des Belles Lettres, al posto dello scomparso Friedrich August Wolf (cfr. Fornaro, 2010, par. 4) . Ma perché questo successo, che concorda peraltro con l'apprezzamento espresso da Hegel ? Forse perché la fondazio ne teorica nella simbolica appare del massimo interesse per una considera zione tutta mondana della religione, come richiesto dalla nascente positi va scienza sociale; senz 'altro perché i percorsi di sviluppo intellettuale di Francia e Germania si vanno sensibilmente differenziando. La vittoria di Napoleone a Jena nel 1 8 o 6 non segna soltanto la crisi di una potente macchina militare, ma anche della struttura sociale di cui essa era espressione ; segna anche la fine di ogni simpatia tedesca per la Francia e l'abbandono dell ' ideale di libertà che la Rivoluzione aveva contribuito a diffondere in gran parte della Germania. Il cosmopolitismo liberale di molti intellettuali tedeschi lascia il posto a un risentito nazionalismo che trova assai presto la propria celebrazione nei Discorsi alla nazione tedesca
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con i quali, da Berlino, Fichte esorta al nuovo ideale di una Germania lin guisticamente e culturalmente unita6• La reazione alla sconfitta non ha tuttavia l 'esclusivo carattere della restaurazione ; in Prussia si avvia un im portante processo di trasformazione sociale e culturale della quale non è tratto secondario la fondazione nel I 8 I O dell' Università di Berlino. Essa, che sarà poi intitolata a Wilhelm von Humboldt, suo massimo ideatore, è parte integrante di un grande disegno di riorganizzazione di tutto il si stema educativo del regno, nel quale si afferma l 'orgoglio di rappresentare nel mondo moderno quel che la Grecia aveva significato nel mondo antico (cfr. Ugolini, 20I6). Lo studio dell'antichità, soprattutto di quella greca, diventa uno dei cardini della formazione della nuova classe dirigente e tale resterà per più decenni nella Germania dell 'Ottocento. Di qui, il rilevante ruolo intellettuale assunto dagli studiosi dell'antichità, dapprima a Berli no, poi via via in tutte le altre università. A Berlino, alla scuola di August Bockh, l'autore del!' Enciclopedia e me todologia delle scienzefilologiche, approda nel I 8 I 6 Karl Otfried Miiller, un giovane ventenne slesiano, alacre studioso dei molti aspetti della società greca : della storia, della letteratura, dell'arte, della religione. Le sue mol teplici indagini si svolgono nel quadro rassicurante della scienza proposta nel grande disegno di Bockh, tralasciando le giustificazioni filosofiche che usavano in precedenza accompagnare la considerazione del mondo antico. La filosofia anzi è esplicitamente definita da Miiller disciplina specialisti ca e come tale esclusa, qualche anno dopo, dalla sua trattazione storico letteraria: La filosofia è un regno affatto speciale dello spirito umano, il quale ha il suo fon damento in quei bisogni del! 'umana natura che non si manifestano in ogni uomo, ma solo allora che sian raggiunti cerci gradi d' intellettuale avanzamento ( Miiller, 1858, vol. I, p. 389 ) ' .
Nel I 820 Miiller pubblica quello che sarebbe dovuto essere il primo volu me di un'ampia opera storica sulle stirpi e le città greche ( Geschichten der hellenischen Stamme und Stadte) : l 'enfasi con la quale sono poste in risalto 6. Discorsi alla nazione tedesca, lezioni tenute a Berlino nell' inverno 1807-08. 7· Cito dalla storica traduzione di Giuseppe Miiller ed Eugenio Ferrai che seguì di soli diciassecce anni l'edizione tedesca del i841.
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le differenti stirpi greche risponde con evidenza al sostrato nazionalistico del tempo e già si era manifestato nei ricordati discorsi di Fichte. Stirpi (Stiimme) sono definiti i gruppi della popolazione greca, diffe renti per parlata, tutti nondimeno integrati in un medesimo sistema lin guistico8. La distinzione tra Dori, Ioni ed Eoli apparteneva già alla tradi zione mitica degli antichi: i tre ceppi erano fatti discendere da tre fratelli, Doro, Xuto ed Eolo, figli tutti di Elleno, a sua volta figlio di Deucalione, il ricreatore dell'umanità dopo il diluvio sterminatore (cfr. Apollodoro, Biblioteca, 1, 48)9• La distinzione linguistica ha una significativa ricaduta letteraria; essa però viene esaltata da Mi.iller a vera e propria tipologia etnica, differen za di sangue e di qualità spirituali e persino di proprietà fisiognomiche'0• Nell 'uomo dorico si vede impersonato il carattere di originaria austerità, di disciplina, di tendenza alla collettivizzazione ; nello ionico la duttilità mentale, l ' inquieta curiosità, la propensione a un indisciplinato indivi dualismo; meno tipizzati quelli eoli, che rimangono al margine di questo gioco di contrapposizioni. Non si tratta naturalmente di contrapposizioni simmetriche ; la distin zione è assiologica: i Dori, nella loro solenne semplicità, appaiono i Greci delle origini, quelli nei quali l 'essenza stessa della grecità ha dovuto patire minori contaminazioni, si è mantenuta più pura; essi sono quindi, per così dire, i Greci più greci". Che poi nell 'anima dorica meglio che nella ionica si pretenda rispecchiata l'anima tedesca è accidente, importante sì, ma che viene tenuto fuori da quello che si intende presentare come un rigoroso accertamento storiografico. La caratterizzazione degli Stiimme conquista rapidamente piena credibilità, al punto che, anziché discuterne la veridi8. Come si sa, è difficile distinguere quel che è definibile lingua da quel che è definibile dialetto; qui basti osservare che cucci i "dialetti" (dialektoi) greci, che presentano era di loro varianti anche sensibili negli esiti fonetici, non hanno però differenze sostanziali di carat· cere morfologico e sin tattico, e permettevano a cucci i parlanti di riconoscersi appartenenti a un unico sistema linguistico (cfr. Meillec, 1977, p. 103). 9· Dei ere, due appaiono dire[[ameme eponimi delle due genti, il terzo, Xuco, è padre di Ione. Trasparente anche la loro filiazione da Elleno, eponimo di tutta la Grecia. lnte· ressami analogie presenta il caso dei capostipiti delle dodici tribù d' Israele (cfr. Garbini, 1986, pp. 168 ss.). 10. Miiller ( •8s8, vol. I, p. 14 ) afferma che la differenza di stirpe gioca un ruolo «della massima importanza per la situazione della vita civica » . 11. Anche Atene è ricondoua perciò d a Miiller alla doricicà (cfr. Cambiano, 1984 ) .
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cità, se ne discutono le cause. Si arriva così a spiegare come, in grazia del la loro collocazione geografica, gli Ioni siano curiosi, più permeabili alle suggestioni dell'Oriente, e come abbiano quindi smarrito parte della loro autenticità greca. Ma offrire spiegazioni alternative di uno stesso fenome no significa sempre concorrere ad accreditarlo in quanto dato di fatto, fu gare i dubbi sulla sua realtà, impedirne la messa in discussione. È così che, anche quando, assai tardi, si lascia cadere in desuetudine la certezza delle differenze d' identità etnica tra le stirpi greche, non se ne eliminano con facilità le conseguenze". La scientificità della ricerca è apertamente rivendicata dallo stesso ti rolo del successivo libro pubblicato nel 182. 5 , Prolegomena zu einer wis senschaftlichen Mythologie (Prolegomeni a una mitologia scientifica) ; tirolo ambizioso, che sapientemente allude a due illustri precedenti, i Prolegome na ad Homerum di Friedrich August Wolf e la Enciclopedia e metodologia delle scienzefilologiche del maestro August Bockh. Al magistero di Bockh Miiller rimase fedele, considerando sempre le opere letterarie, i monumenti artistici e i documenti epigrafici nel quadro culturale cui storicamente erano appartenuti. Egli non indulge né in pole miche, né in allusioni a precedenti studiosi, ma il suo dissenso da Creuzer'3 e i suoi debiti verso Heyne appaiono evidenti. Per intendere la sua ope ra sembra perciò necessario richiamare l ' insegnamento di Heyne e la sua singolare sorte. Maestro di Wolf e di Bockh, egli è ignorato dagli illustri allievi, forse perché la sua opera non è riportabile al modello di scienza positiva che essi attribuirono allo studio del!' antichità. Heyne vive e lavora nella temperie dell' Illuminismo settecentesco. Si è già mostrato come il filologo si appassioni al fitto intreccio di nuove conoscenze che allargano i confini della sua ricerca; egli acquisisce con profitto le informazioni che gli giungono dei viaggi di scoperta e delle prime descrizioni etnologiche, ma si mantiene fedele al proprio ruolo di professore di retorica che sa ri12. Soltanto nel 1956, con il breve ma essenziale libro di Will si ricostruisce la storia del problema e se ne dimostra l'infondatezza. Basti ricordare l'esemplare tirolo del cap. n: «Individualisme ionien» et «discipline dorienne» : deuxfousses idées claires. Ma, a dispetto di Wili, quante trattazioni delle origini d eli' indagine cosmologica o geografica non inizia no ancora invocando la curiositas ionica ? 13. Significativa tuttavia la distinzione che egli riprende: « Per l'antica Grecia c'erano soltanto due modi per dar forma alle idee sulla divinità e per comunicarle: il miro e il simbolo » { Miiller, 1991, p. 188).
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volgersi a un pubblico ampio di ascoltatori, riuscendo a comporre nel suo fluido latino discorsi che spaziano ben al di là dell'orizzonte letterario e filosofico tradizionale'4• I suoi interventi sul m ito dal 1763 al 1807 suggeriscono un percorso teorico molto preciso e innovativo, a cominciare dall' introduzione del ter mine mythus in luogo dell'ancora consueto fabula: Il mito è dunque ogni narrazione e ogni espressione del pensiero tramandato dalle età antiche alle nostre, comunque prima del tempo in cui le imprese, le scoperte e le invenzioni dell ' ingegno dai loro autori o dai contemporanei e dai compatrioti fossero affidate alla scrittura, che era già entrata in uso (Verra, 1966, p. 1 6 1 ).
Il mito ha alla propria origine o il ricordo di grandi imprese o la necessità di spiegare le cause di un fenomeno : Ho decco che il fondamento di ogni mito è o il ricordo di un' impresa o di un evento, oppure l' idea che i popoli antichi avevano di qualche cosa, espressa nel linguaggio delle antiche età, e che attraverso di esse si sono costituite la natura e la nozione di mito (ivi, p. 185).
Sono questi secondi i miti più antichi: Ciò mostra anche perché i miei che riguardano la natura siano i più antichi, per ché siano teologici e perché i primi poeti si siano dedicaci a cosmogonie e ceogo nie ( ivi, p. 187).
Essi coprono, infatti, la sostanziale ignoranza dei fenomeni: «Si deve ri tenere che il fondamento di ogni m itologia sia l ' ignoranza dei fatti e delle cause » ( ivi, p. 176). Heyne riconosceva in uno slittamento lessicale non solo la forma, ma anche il contenuto del mito : Così le menti degli uomini convennero nell'abitudine di riportare alle parole ge nerare e nascere qualunque cosa che noi definiamo come cause ed effecci. Quando volevano dichiarare nature era di loro diverse o contrarie, le narravano come com battimenti e guerre; quando avvenimenti nuovi o successivi ad altri come parco, quando in via di estinzione e finite come vecchiaia e morte (i vi, p. 199 ).
14. «Fa una cerca impressione scoprire nel latino di Heyne un termine come fecichus (nel De caussisfobularum ... physicis del 1764, 196 e 200, soli quattro anni dopo il Culte des dieuxfétiches del de Brosses ! ) » (Sassi, 1984, p. 918).
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Anche Miiller riflette sul linguaggio del mito : L'espressione mitica deve essere considerata come un tipo particolare di lingua semplice e infantile, il cui vocabolario e la cui grammatica sono da stabilire : è una ricerca che può partire soltanto dal materiale dato, perché una tradizione sull 'in terpretazione di questo modo di esprimersi, un' interpretazione autentica, non ce la possiamo aspettare dall 'antichità, o almeno non ce ne sono di accettabili (Miil ler, 1991, p. 197 ) .
La lingua manifesta uno spostamento dalla ripetitività alla puntualità, un evento o un fenomeno naturale che acquista i tratti di una persona vivente : È infatti evidente che il racconto di un'azione e di un evento è la forma in cui vengono indicati nel mito rapporti durevoli, concernenti sia oggetti naturali che concetti. Così in numerosi racconti mitologici compresi nella Teogonia di Esiodo troviamo che la Notte partorì l ' Inganno e il Piacere amoroso, la Discordia Com battimenti e Battaglie ( Theog. 224 ss.}, ma, se si sostituisce il concetto astratto di "causare, provocare" a quello figurato di "partorire", si devono considerare en trambe le cose non come eventi singoli, bensì come processi abituali ( ivi, p. 41 }. La distinzione forse più importante stabilita da Heyne è, tuttavia, tra il mito e il poeta che lo racconta ; essi sono da collocare in tempi diversi: Perciò la natura dei miti dei poeti è costituita in modo tale che non si può trattare di scoperte e invenzioni nuove, senza alcun precedente simile o analogo, ma che al contrario ci siano stati miti più antichi dei quali il poeta si serve, seppure in diverso modo ( Verra, 1966, p. 189 ) .
Così Heyne nel 1799. Un quarto di secolo dopo, Miiller riprende e allar ga la differenza, stabilendo una successione di quattro fasi, cioè creazione, trasmissione, rielaborazione e uso del mito : All ' inizio si trova l'epoca che creò i miti in base a idee e sentimenti religiosi di va rio tipo e alla loro applicazione al mondo naturale ed umano; segue poi un'altra, che li trasmise con fede come fatti reali appartenenti ad una meravigliosa età pri mitiva; dopo di questa una terza (quella pindarica} la cui religiosità subì trasfor mazioni per opera della speculazione filosofica, e di conseguenza venne a trovarsi già in contrasto con parecchi miti antichi; più avanti ancora il tempo dell' illumi nismo filosofico (l'età di Euripide} che considerava i miti come forme, ma non già forme di pensiero antichissimo, bensì di idee proprie che vi introducevano arbitrariamente (Miiller, 1991, p. 1 2 4 ) .
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Il mito è dunque sottoposto a un vero e proprio lavoro di elaborazione che spesso si traduce in una pratica di accumulo : più racconti si connettono a formarne uno solo. Così Miiller: Ma il motivo principale per cui i miti di regola sono cosl poco semplici nella loro formazione, consiste in questo : che essi per la maggior parte non sono sorti in un sol colpo, ma si sono sviluppati a poco a poco e progressivamente, sot to l ' influsso di avvenimenti esteriori ed interiori di tipo assolutamente diverso, le cui tracce sono state raccolte, nel corso di lunghi secoli, dalla tradizione che continuava a vivere sulla bocca del popolo, senza consolidarsi né irrigidirsi in nessuno scricco, finché essi hanno assunto la forma nella quale noi li possediamo. Questo è un dato di fatto importante quanto evidente, il quale però nella spiega zione dei miti continua assai spesso ad essere trascurato, in quanto il mito viene considerato come un'allegoria che è stata escogitata da un individuo in una sola volta con la precisa intenzione di celare un pensiero nella forma di un racconto ( ivi, pp. Bo s.).
La complessità del mito richiede un metodo di decifrazione, che Miiller lucidamente riconosce nel compiere a ritroso il percorso che condusse alla sua formazione: Ritorniamo alla regola generale : quella per cui, al fine di ricondurre il mito alla sua forma iniziale, dobbiamo sempre fare il contrario di quello che gli antichi si sono proposti in quest 'ambito. Ora una cosa è accertata: che nell'antichità dominava lo sforzo di collegare era loro le leggende per far di esse un insieme coerente, dunque dobbiamo prima di ogni altra cosa distruggere e dissolvere quell' insieme. Quante leggende di varia specie, le quali in origine cucco erano fuorché un in sieme unico, sono state manipolate dai poeti epici fino a diventare delle Eracleidi, delle Argonauciche, dei nostoi: quanta pena si sono daci i poeti e gli scrittori per introdurre una successione, una consequenzialità e un ordine nelle gesta e nelle avventure degli eroi ! quanta i logografi per rendere concordi e coerenti le leggen de di una regione ! [ .. ] In seguito non soltanto la poesia, compresa quella del!' antica schiatta di aedi, ma anche la stessa leggenda popolare di ogni età ha perseguito l' intento di con neccere e unificare quello che in qualche modo si lasciava unificare. [ . . ] Cosl dunque quella di separare è una delle occupazioni principali del mi colo go, e nel corso di essa si dimostra a cucci i momenti come del materiale originaria mente del cucco eterogeneo, una volta che fosse stato reso omogeneo accraverso la mediazione della forma micica, poteva essere messo insieme con piccolo sforzo ed essere considerato come un cucco unico ( ivi, pp. 1 6 1 ss.). .
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L' indagine non deve naturalmente esaurirsi in un gioco di frammenta zione atomica dei miti. Miiller indica tre regole da tener sempre presenti nell'analisi. La prima è di chiedersi dove il racconto possa avere avuto inizio e dove esso si sia poi ampliato e trasformato. Spesso è il mito stesso a rivelarlo, ma lo storico può disporre anche della conoscenza delle migrazioni e delle colonizzazioni che interessarono i primi secoli della storia greca. Lo spo stamento comporta la memoria dei luoghi d'origine e l'adattamento del racconto alle nuove condizioni ambientali con progressivi mutamenti di parti della narrazione. In secondo luogo lo studioso deve considerare l 'eventuale trasferimen to del mito dagli autori originari a una diversa comunità che se ne appro pria o perché succede alla prima nel territorio o perché con la prima viene a contatto, domina o ne è dominata. La terza regola riguarda la considerazione del fondamento del raccon to, che è non di rado narrazione eziologica di un'usanza o di un vero e proprio atto di culto. Qui Miiller tocca un motivo caro agli specialisti di storia delle religioni, il controverso rapporto tra mito e rito. Attenzione, però : quest'analisi scompositiva non ha come obiettivo di ristabilire un'astratta purezza originaria del racconto : Il modo in cui i miti sono stati trasformati dalla leggenda popolare e sono sta ti disposti insieme dagli scrittori sì da formare degli aggregati sempre nuovi può rivendicare a buon diritto per sé la nostra attenzione tanto quanto i più lontani inizi del mito stesso e le motivazioni della sua origine; anzi, nella trasformazione e nel mutamento che i miti conobbero in epoche diverse si trova un materiale straordinariamente ricco per la storia della formazione intellettuale e religiosa dei Greci ( ivi, p. 165).
L'interesse di Miiller è sempre rivolto, infatti, all ' insieme della cultura an tica ed è interesse vivace che non evita la polemica anche aspra con chi vorrebbe riconoscere nella Grecia null'altro che lo specchio della propria quotidianità : In fin dei conti che cosa vogliamo in generale dalla storia? Vogliamo vedere delle persone agire e pensare proprio come agiamo e pensiamo noi e osservare così in modo compiaciuto il livello della nostra cultura ? Rivolgetevi allora direttamente alla vita e osservate le occupazioni e i contatti che si svolgono nei gabinetti e nei salotti. Ma è proprio al di sopra di questa limitatezza che la storia ci deve sollevare,
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essa deve porre per n o i l'umanità tutta incera a l di sopra delle singole epoche: noi dobbiamo imparare e capire nella sua essenza anche il diverso. Io sono convinco che la conoscenza dell 'umanità eleva lo spirito e Io umanizza, sopraccucco per ché ci pone dinnanzi un'umanità a noi estranea nella sua esistenza incera, valida e completa. Ora, di cucce le parti della conoscenza dell'antico, la mitologia non è forse quella che ci conduce più lontano, al di fuori dell'ambito del presente, proprio dentro i luoghi di elaborazione di idee e forme la cui collocazione e dispo sizione costituiscono ancora un problema storico? (ivi, p. 152)
Il brano è importante per la giusta ammonizione che ci trasmette. La storia non procede per paradigmi, è storia del diverso, e diversi da noi nel loro modo di vivere e di pensare sono i Greci, e diversi anche, come si è visto, secondo Miiller, i Greci tra di loro. C 'è, inoltre, una differenza di documentazione : Miiller, oltre che filo logo e linguista, fu importante epigrafista e archeologo (cfr. Settis, 19 84). La sua morte, traslata presto nella leggenda esemplare, è la morte di un intrepido archeologo, vittima della propria ansia di ricerca: un' insolazio ne al termine di un' intensa settimana di scavi e di decifrazioni sotto il sole estivo tra le rovine del tempio di Apollo a Delfi. Creuzer e Miiller sono entrambi filologi classici. Diversi l'uno dall 'al tro per età, temperamento e formazione culturale, contribuiscono tuttavia entrambi ad ampliare i confini dello studio del mito n eli ' ambito del!' anti chistica, strappandolo a quel ruolo del tutto subalterno e poco significati vo attribuitogli nell 'enciclopedia di Wolf e, seppur meno esplicitamente, di Bockh, a mostrarlo come elemento necessario per la definizione della società antica. Lo studio del mito, che già Heyne aveva connesso con la religione, è chiamato ora a intersecare, acquisendo e conferendo significa to, la filosofia, i costumi sociali e le arti e preludendo così alla sociologia e ali' antropologia storica.
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Simboli e archetipi
Schelling, già famoso, è chiamato a Berlino sulla cattedra di Hegel nel 1 84I, cioè otto anni dopo la sua scomparsa; vi tiene negli anni immediata mente successivi alcuni corsi dedicati alla "filosofia della mitologia': Quale ruolo è chiamato a ricoprire il mito nel quadro complessivo della filosofia di Schelling ? Come lucidamente metteva in evidenza Ernst Cassirer, la riflessione di Schelling si fonda sul definitivo accantonamento della tradi zionale concezione allegoristica del mito : Come Herder aveva fatto nella filosofia del linguaggio, anche Schelling nella fi losofia della mitologia supera il principio dell'allegoria. Anche lui dali' illusoria spiegazione mediante l'allegoria risale al problema fondamentale dell'espressione simbolica. L'interpretazione allegorica del mondo mitico viene da lui sostitui ta con l ' interpretazione "tautegorica", vale a dire con un' interpretazione la quale accoglie le forme mitiche come formazioni autonome, da intendersi secondo un principio specifico che ne spieghi il senso e gli aspetti ( Cassirer, 1964, p. 7).
Quale senso, dunque, acquisti il mito nella riflessione sulla religione, cui pure, obbedendo anche allo spirito del tempo, il filosofo dedica le sue le zioni sulla "filosofia della rivelazione� appare chiaro già nelle sue prime lezioni berlinesi: Sebbene io abbia paragonato un punto della dottrina di Persefone con quanto narra la Genesi del soggiorno del primo uomo, un tale accordo sarebbe assai male utilizzato, se lo si usasse per dimostrare che tutte le rappresentazioni mitologiche non sarebbero altro che deformazioni di verità bibliche rivelate. Ciò sarebbe solo se potessimo considerare anche quelle rappresentazioni come puramente acci dentali. Invece io ho mostrato, ovvero lo ha mostrato la natura di queste stesse rappresentazioni, che esse si producono con necessità, provengono dalla natura più profonda, intima della coscienza. Esse sono attinte dalla stessa fonte da cui è anche attinta la rivelazione, vale a dire dalla fonte della cosa stessa, e quando ho
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richiamato l'attenzione su questa connessione, è stato soprattutto per mostrarvi la necessità di questi pensieri. Del resto lo scopo di quest ' intera trattazione è di gui darvi fino a quei pensieri arcaici, archetipici, che ancora dureranno, così come le montagne primigenie che hanno visto passare innumerevoli generazioni umane, quando saranno completamente dispersi tanti di quei pensieri che non risalgono che a ieri ( Schelling, 1 9 9 9 , p. 29 ) ' .
La funzione di pensiero archetipico, preliminare a ogni riflessione teorica, spiega bene la reazione di Schelling all 'emancipazione dello studio della mitologia dalle sue amiche matrici filosofiche, alle pretese dei filologi di costituirlo in scienza : La mitologia in generale è stata considerata fino ad oggi come oggetto di indagine semplicemente storico-empirica, in cui la filosofia poteva aver solo quella parte che comunque è doveroso riservarle in qualsivoglia ricerca puramente empirica ( ivi, p. 7).
Non è la prima volta che l'antico enfont prodige di Tubinga si occupa di mitologia, ma è qui che egli enuncia, in polemica con l'approccio storico filologico, la necessità di una grande sistemazione teorica del significato del mito. In queste pagine si ha, con la ripresa dell ' impostazione univer salistica di Creuzer, una trasposizione del mito e della religione in figure concettuali del pensiero. Gli interessi storici e le ampie conoscenze lin guistiche gli permettono di spaziare in tutto l'ambito del Vicino Oriente antico - dall ' Egitto alla Fenicia, a Babilonia, all' Iran e fino all' India - e di contrappuntare le sue osservazioni con le doverose citazioni bibliche. Schelling delinea così una successione storica obbediente a un grande paradigma teorico, scandito in tre momenti cardinali. Il primo è quello di una religione astrale, di un' indistinta divinità ce leste : Non fu un caso che la più antica umanità servisse le forze celesti, non fu un caso che come morta e totalmente alienata rispetto alla vita interiore cadde preda di quello spirito esterno, meramente astrale, cosmico. Una forza superiore la trat teneva sotto la legge di questa religione; era l'epoca in cui secondo la grandiosa espressione dell 'Antico Testamento il Signore aveva istituito l'esercito celeste per
1. Nel libro sono compresi i due cicli di lezioni dedicati alla mitologia negli anni 184• e 184;-46.
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tutti i popoli, ossia per l'umanità indivisa. Nel culto del cielo, come prima religione dell'umanità, si conservò la coscienza religiosa in generale, con cui fu dato il signi ficato religioso dell ' intero processo seguente (ivi, p. 53).
È l ' immagine di un unico dio celeste, ancora del tutto indifferenziato, che Erodoto già spiegava come proprio della religione persiana, analogica mente riconoscendolo nello Zeus greco, e che lo stesso Schelling preferisce identificare con Urano. Per intendere il secondo momento è necessario ricordare la polarità concettuale che si riflette nella sessualità divina: il maschile segna la pa dronanza di sé, il femminile la capacità di essere altro. Perciò la svolta fon damentale è segnata dal passaggio dal dio maschio a una grande divinità femminile nella quale si compendiano le diverse figure della fecondità ma terna, l 'Afrodite celeste (Urania) del mito greco nata, secondo il racconto esiodeo, dai genitali dell'evirato Urano. Al posto del signore celeste, di quel re del cielo che solo era venerato nella pri ma religione, subentrò quindi la regina celeste, Melaekaeth baschamain, come è espressamente denominata nell'Antico Testamento, e perciò quel passaggio alla potenzialità relativa o esteriore è connotato in tutte le mitologie più antiche tra mite una divinità femminile che subentra al posto del sovrano celeste e che fu venerata da così tanti popoli sotto diversi appellativi, come Militta, Astarte, Ura nia. Secondo questa descrizione Urania non è che Urano in figura femminile, l ' Urano fattosi donna, ossia il dio reale che ha rinunciato alla tensione contro il dio superiore e relativamente spirituale, come lo abbiamo già denominato ( i vi, pp. 6 o s.}.
Tra divinità maschile e divinità femminile l 'opposizione è tuttavia debole : Questa divinità non può essere pensata come originariamente femminile, ma come una divinità maschile femminilizzatasi. Tutti gli usi introdotti da ultimi non sono altro che imitazioni, ripetizioni di quel passaggio dalla mascolinità alla femminilità; parimenti essi esprimono che quella femminilità è puramente relativa, e che lo stesso che rispetto a un superiore si atteggia a femminile è in sé maschile e viceversa. Infatti presto al posto delle divinità femminili appariranno di nuovo divinità maschili ( ivi, p. 113).
Determinante è piuttosto il passaggio dall'unità alla molteplicità, dalla re ligione astrale al politeismo :
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Così è posto il politeismo successivo. Urania dunque è il punto di svolta tra il tempo astorico e il tempo storico della mitologia (ivi, p. 66).
Schelling cita Erodoto e lo assume quasi a propria guida storica e, in effet ti, non è difficile riconoscere nella successione religione astrale-politeismo antropomorfico il passaggio dalla Persia alla Grecia. Testo della riflessione mitologica di Schelling è la Teogonia esiodea e il suo racconto della genesi degli dei olimpi, il racconto di Crono e dei suoi tre figli: Certo vi è una differenza d'età, e Zeus rispetto a Poseidone e Ade è detto il più anziano, ma solo in quanto egli ha aiutato entrambi a venire alla luce, all'esistenza separata e particolare; sebbene nella Teogonia egli sia il più giovane dei figli di Crono, in Omero è il più anziano, perché è il primo a sfuggire all ' inghiottimen to in cui Crono conserva gli altri, ossia perché per la prima volta con lui Crono si presenta scisso in questa triplicità; perciò egli si chiama « generato prima e di superiore sapienza >> . Perché i tre figli di Crono s i presuppongono reciprocamente - Crono è Ade solo in quanto è anche Zeus, ed è Zeus in quanto è anche Ade - poiché tutti e tre i momenti hanno pari peso nella coscienza greca, non poteva aver luogo tra i tre dei alcuna distinzione temporale ma solo una ditferenza spaziale ( ivi, pp. 416 s.}.
È qui chiaro che quel che per Esiodo era successione temporale diventa per Schelling puro quadro dialettico, astratto dal succedersi degli avvenimen ti: «l tre dei sono solo il Crono scisso, così come Crono è solo il dio che stava al loro posto >> (ibid. ). Il mito si propone dunque nella concezione trascendentale schellinghiana come rappresentazione del percorso dello spirito umano ; la mitologia, la mitologia greca in particolare, si rivela la sintesi oltre che la necessaria premessa storica e teorica dello sviluppo della riflessione filosofica. Ciò è possibile perché la mitologia greca comprende in sé la propria storia : Nella grande confusione di rappresentazioni e fenomeni, che non solo la singola mitologia ma le diverse mitologie presentano, non ci hanno mai abbandonato i principi stabiliti all' inizio. Posso ben aggiungere che fin qui non esiste alcuna teoria della mitologia, per cui questa sia spiegata così definitamente non solo in generale ma fin in tutte le diramazioni e i tratti. Se devo dire ancora una parola riguardo a come ciò sia stato possibile, mi posso esprimere così: il segreto semplice del nostro procedere è il presupposto che la mitologia contenga la sua propria storia, che non abbisogni di alcun altro presupposto al di fuori di sé (ad esempio filosofie cosmogoniche e simili} ma si spieghi pienamente da se stessa, che dunque
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gli stessi principi che presi materialmente esauriscono il suo contenuto sarebbero anche le cause formali della sua prima formazione o nascita (ivi, pp. 492 s.).
Cassirer così compendia: « Il processo mitologico è un processo teogoni co: un processo in cui Dio stesso d i v i e n e , in cui egli stesso si genera per gradi» ( Cassirer, 1 9 64, p. 1 1 ) ; e Schelling conclude la sua lunga trattazione rifiutando con energia la visione dell'ortodossia ecclesiastica che vedeva nel politeismo della Grecia classica una corruzione del primigenio mono teismo affermato nella Bibbia: Se ora a ciò aggiungo che i principi che propriamente contengono la chiave del l' intera mitologia si trovano nel modo più definito e puro nella mitologia greca, non mi è ignoto che in tal modo affermo qualcosa che si discosta molto dalle opinioni in voga in quanto quasi universalmente si vuole vedere nella mitologia ellenica solo la corruzione e la falsificazione di una dottrina e di una conoscenza originaria più pura. Ma io ho mostrato che per una tale più pura dottrina non vi era spazio nelle epoche più remote e che proprio il puro politeismo ellenico, pie namente libero dal suo opposto, fu il passaggio necessario alla conoscenza vera mente migliore, più pura e superiore. Se perciò tra tutte le dottrine degli dei quella ellenica contiene i principi ultimi di tutta la mitologia nella purezza massima, ciò è così appunto perché essa è la più recente, quindi è pervenuta al massimo di con sapevolezza e coscienza, dunque mostra nella più pura distinzione e separazione anche i principi che agivano ancora ciecamente confusi nei momenti precedenti, che si oscuravano e si combattevano reciprocamente (Schelling, 1999, pp. 493 s.).
I "concetti arcaici" e gli archetipi delineati da Schelling restano, però, nell'ombra della teoresi; la sua pretesa di fondare una filosofia della mi tologia, nonostante la grande ricchezza di riferimenti storici, non si rivela alla fine particolarmente feconda per le indagini che filologi ed etnologi vanno sviluppando in quegli stessi decenni. Diversa sarà l ' incidenza di due opere che, accolte freddamente al loro apparire, contribuirono a suscitare dopo qualche decennio appassionate discussioni, accesi entusiasmi e fero ci critiche : Il matriarcato di Jacob Bachofen e La nascita della tragedia di Friedrich Nietzsche•. 2. La pubblicazione del Mutterrecht (propriamente quindi "il diritto materno") di Ba chofen è del 1861, quella di Die Geburt der Tragodie aus dem Geiste der Musik di Nietzsche del 187>; l'ultima edizione (1886) varia il titolo in Die Geburt der Tragodie. Griechentum und Pessimismus.
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Molto diverse le opere come molto diversi i loro autori. Bachofen, quando pubblica Il matriarcato ( 1 8 6 1 ) , ha passato la quarantina, è noto storico del diritto e da più di quindici anni è titolare di questa disciplina nell ' Università di Basilea, la sua città natale; Nietzsche, all 'apparire della Nascita della tragedia nel 1 8 72, non ha ancora compiuto i ventotto anni ed è sulla cattedra basilese di filologia classica dal 1 8 68, chiamatovi quando ancora non aveva concluso il dottorato. A differenza che per il suo più anziano collega, per lui si tratta del primo libro. Basilea presenta in quegli anni caratteri contradditori: vi persiste l 'ege monia di un colto patriziato mercantile, fedele alla tradizione della città Stato aperta ai traffici, ma gelosa della propria identità ; il rapido sviluppo delle comunicazioni e dei mercati induce, tuttavia, un forte incremento del!' industria che coinvolge tra i nuovi imprenditori un numero significati vo di non cittadini. La sua università, pur restando orgogliosamente gestita secondo il criterio svizzero di integrazione in un unico sistema scolastico, è ben inserita nel quadro delle università tedesche. Bachofen e Nietzsche ne sono la prova : il primo ha svolto gran parte dei suoi studi a Berlino, allievo del giurista Friedrich Cari von Savigny e dello storico Leopold von Ranke, il secondo è stato allievo a Bonn e a Lipsia di Friedrich Ritschl, uno dei più famosi filologi tedeschi del tempo. A Basilea insegna dal 1 844 Jacob Burckhardt, che, nonostante la dif ferenza d'età, è uno dei pochi colleghi per il quale il giovane Nietzsche dimostra qualche simpatia; così egli scrive all 'amico Erwin Rohde nel maggio 1 8 6 9 : Fin d a principio h o avuto relazioni più strette con Jacob Burckhardt, uomo di spirito non comune; e questo mi fa sinceramente piacere, perché scopriamo una meravigliosa concordanza nei nostri paradossi estetici (Nietzsche, 1976, pp. 12 s.).
Burckhardt, sia pur per ragioni diverse, condivide in effetti con Nietzsche un distacco critico dall'originaria educazione religiosa ricevuta, entrambi essendo figli di pastori: È questo infatti il modo come sogliono morire le religioni: muoiono, cioè, quan do i presupposti mitici di una religione, esaminati dall 'occhio rigido e critico di un dogmatismo ortodosso, vengono sistematizzati come una somma completa di avvenimenti storici; quando s' incomincia perciò a difendere affannosamente la credibilità dei miti, ma si ripugna a ogni loro naturale accrescimento e sviluppo;
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quando dunque il sentimento del mito si estingue e ne prende il posto la pretesa della religione a far valere le sue basi storiche (Nietzsche, 1969, p. 104)'.
Bachofen, a ventisei anni, conclusi gli studi di filologia e di storia a Berlino, torna nel 1841 a Basilea, la sua città, e vi ottiene l' insegnamento di diritto romano. Ben presto abbandona ogni impegno pubblico, cui pure la tradi zione familiare avrebbe consigliato, perché si fa sempre più insofferente verso i movimenti di rinnovamento che percorrono in quegli anni Basilea come altre città svizzere. Il suo atteggiamento è sempre più quello del con servatore diffidente di ogni novità. Nietzsche, nel 1 8 69, è chiamato ancora molto giovane come professore di filologia classica a Basilea; viene da Lipsia, uno dei centri culturalmen te più vivi della Germania, e trova sulla riva del Reno un ambiente più tranquillo, particolarmente adatto all'elaborazione della sua prima opera di grande respiro. I due, come colleghi nella stessa università, malgrado la differenza d'e tà, dovevano sicuramente conoscersi, ma non si frequentavano ; tuttavia, sappiamo che Nietzsche lesse nei primi anni basilesi il libro di Bachofen sul simbolismo funerario romano, Versuch uber die Grabersymbolik der Alten, e che questi, stando alla testimonianza della moglie, stimò molto il giovane collega, almeno per tutto il decennio da lui trascorso a Basilea (cfr. Gossman, 1 9 84, p. 1 40 e nota 1 3 ) . Pur nella diversità di oggetti e di linguaggio, i loro due libri mostrano entrambi una comune implicita insofferenza per i termini della disciplina accademica alla quale si dovrebbero rispettivamente riportare : né Il ma triarcato è definibile opera strettamente di storia del diritto, né La nascita della tragedia è riconducibile ai consueti studi filologici sugli inizi dei ge neri poetici antichi. L' insofferenza che li percorre è talvolta esplicitamente dichiarata e si rivela anche nella lingua usata che prescinde da ogni espres sione rigorosamente tecnica e gergale, comprensibile ai soli specialisti. La stessa insofferenza per le regole della disciplina si scopre nell ' impostazione 3· Così, per parte sua, il giovane Burckhardt, ancora studente di teologia, scrive del suo maestro De Wette, nel 1838, all'amico Riggenbach: «Il sistema di Dewette si fa ogni gior no più imponente davanti ai miei occhi; lo si deve seguire, non è possibile altrimenti, ma al tempo stesso, sotto le sue mani si dissolve giorno dopo giorno un pezzo della corrente dottrina religiosa. Oggi sono giunto finalmente a capire che egli reputa la nascita di Cristo propriamente un mito - ed io con lui» (Burckhardt, 1993. p. 6o ) .
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e nello svolgimento dei temi: non appare possibile fare storia del diritto senza considerare l 'organizzazione del potere nelle diverse configurazioni sociali, non è possibile compiere un' indagine filologica senza tracciare un più ampio quadro dell'estetica che la guida. Tutto questo si rivela motivo di forte contrasto con il comune senso della ricerca accademica sempre più specialistica diffusosi nelle università europee, particolarmente in quelle tedesche, nella seconda metà del secolo. Entrambi gli autori condividono, inoltre, un pungente scetticismo per la grande fiducia nel progresso che permea l 'operare scientifico del tempo ; anche se non esplicitamente enunciato, questo scetticismo costituisce la nota fondamentale dei loro discorsi. La trattazione di Nietzsche, così come la sua scrittura, è dunque pro vocatoriamente antidisciplinare ; pur usando tutto il sapere che la filologia aveva accumulato, essa si presenta come discorso ispirato, distaccato da qualsiasi preoccupazione documentaria. Non così Bachofen, che nella sua monumentale opera esplora con ab bondanza di indicazioni filologiche e archeologiche i miti delle diverse regioni greche e del Vicino Oriente antico. Ma anche dal Matriarcato ap pare chiaro il rifiuto dei limiti di una predefinita scienza del diritto ; il suo discorso intreccia la storia delle istituzioni giuridiche a quella della reli gione in una visione complessiva di storia della cultura. È quindi la storia, nelle sue molteplici e indistricabili manifestazioni, l 'oggetto della ricerca bachofeniana alla scoperta degli inizi della società umana. Il suo rifiuto colpisce anche tutta la fiducia illuministica in un diritto naturale fondato sulla ragione e tale rifiuto si coniuga con la diffidenza del moderno, a cui anche Nietzsche partecipa. Il loro rivolgersi al mito non è perciò casuale, né episodico : il mito costituisce la garanzia simbolica di una persistente identità, ma è anche vissuto, almeno soggettivamente, come principio, ori gine prima della storia e perciò, in senso forte, storia esso stesso•. È in grazia di questa pretesa storicità originaria che matriarcato e dioni sismo sono evocati. I miti a essi connessi ne costituiscono in qualche modo delle reliquie, sulle tracce delle quali il moderno può conoscere l 'antico. Per Bachofen la ginecocrazia e la figura della dea madre segnano le prime fasi del!' umanità e ne costituiscono l ' immagine più felice, pacifica e fecon4· Bachofen aveva già respinto le critiche di Niebuhr e di Mommsen alla sua Geschichte der Romer (Storia dei Romani) (cfr. Gossman, 1984, p. 169).
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da; per Nietzsche il canto che precedette ogni disciplinato genere poetico è l 'espressione più pura dell'uomo, della capacità dell'arte di esprimere la contraddittoria natura dello spirito umano. Non si tratta di epoche stori che, seppure come tali esse siano trattate, ma di età mitiche, che appunto dal mito sono ricavate. Il mito diventa così lo strumento primario che en trambi, Bachofen e Nietzsche, usano per la costruzione di un passato che deve sapersi presentare come storico. Per Bachofen la grande figura sim bolica è Demetra, la dea madre che garantisce giustizia e saggezza; sotto il suo dominio l 'umanità abbandona la promiscuità sessuale, l 'eterismo, e apprende la monogamia: Le leggi di Demetra implicano il diritto agrario, e ad esso subordinano il diritto matrimoniale. Il mistero del grano che si unisce diventa anche il mistero dell'u nione matrimoniale fra uomo e donna. L'agricoltura e il rapporto sessuale attuato esclusivamente nell'ambito del matrimonio costituiscono i due cardini di uno sta dio della civiltà la cui intera conformazione giuridica è intimamente connessa con l 'elemento materno rappresentato da Demetra-Cerere. È in questo senso quanto mai vasto che la dea viene detta 6eO"f!Ocjl6poç e Legiftra [legislatrice] (Bachofen, 1988, p. 322).
Demetra è la dea della terra e della sua coltivazione; la figlia Kore il segno della linea matrilineare che governa la trasmissione del potere : In tale concezione si basano inoltre le forme statali e civili della ginecocrazia, l'e sclusivo diritto ereditario delle figlie, l 'esclusiva considerazione della condizione di madre e, infine, la discendenza esclusivamente matrilineare. Tutto il sistema è l 'espressione fedele dell' idea religiosa demetrica. Cosl come quest 'ultima stabi lisce connessioni tra la madre e la figlia senza considerare né il padre né il figlio maschio, analogamente si comporta anche il diritto concernente la famiglia; e, inoltre, mentre la superiore speranza è connessa soltanto a Core e al suo ritorno dall'Ade, la potenza fecondatrice maschile per contro, si identifica con l'oscura legge di morte (ivi, p. 897).
Le due dee sopravvivono nel culto e tuttavia non appaiono più dominan ti nell' Olimpo greco perché il matriarcato appartiene ormai al passato. Il trapasso dal potere femminile a quello maschile è per Bachofen efficace mente rappresentato nel mito di Oreste : Il numero dei voti che condannano il matricida è pari a quello dei voti che lo assol vono. Secondo il principio materno delle Erinni, egli è destinato alla punizione,
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ed è invece innocente secondo l'apollineo diritto luminoso della superiore virili tà. Le due concezioni si contrappongono con uguale numero di voti. Ma Atena depone a favore di Oreste la sua pietra nell'urna. [ ... ] La donna stessa riconosce il superiore diritto dell 'uomo (ivi, pp. 1 3 1 s.).
L' indagine di Nietzsche appare muoversi da differenti premesse1• La prima figura mitica che incontriamo nel suo libro è il satiro, che nel suo ebbro entusiasmo di vita rappresenta l' « uomo originario » ( Urmensch). Il dio dei satiri è Dioniso, che ne guida il coro e la danza e in cui essi si rispec chiano e s ' identificano; Dioniso è anche divinità irenica : al suo carro sono pacificamente legate tigri e pantere, al suo seguito si mescolano liberi e schiavi, la sua ebbrezza nasconde la vera saggezza ; perciò l'antico Sileno perennemente ebbro custodisce nondimeno in sé il melanconico segreto senso della vita : Racconta la favola antica che il re Mida inseguì a lungo nella selva il savio Sileno, il compagno di Dioniso, senza poterlo prendere. Quando finalmente gli cadde nelle mani, gli domandò il re quale fosse per gli uomini la cosa migliore e la più eccellente di tutte. Il demone taceva, rigido e immoto; finché, sforzato dal re, rup pe in un riso sibilante con queste parole : stirpe misera e caduca, figlia del caso e dell 'ansia, perché mi costringi a dirti ciò che per te è il meno profittevole a udire ? Ciò che è per te la cosa migliore di tutte, ti è affatto irraggiungibile : non essere nato, non essere, essere niente. Ma, dopo questa impossibile, la cosa migliore per te, ecco, è morir subito (Nietzsche, 1969, p. S7 ) '.
Anche Nietzsche richiama due miti tragici: Prometeo ed Edipo. Il Prome teo eschileo, rivisitato con l 'aiuto del Prometeo di Goethe rappresenta la ribellione dell' individuo all'ordine coercitivo dell' istituzione ; l ' Edipo so focleo, considerato nella sua intera parabola mitica, è il reietto sottoposto al massimo del dolore e dell'abiezione (Edipo re), che alla sua morte tuttaL'opposizione maschio/femmina non è tuttavia estranea alla Nascita della tragedia: «Il mito di Prometeo è originariamente un'eredità comune della razza ariana, ed è un documento della sua attitudine alla profondità tragica; anzi si direbbe, non senza verosi miglianza, che esso rispetto al genio ario possiede congenita proprio la stessa caratteristica importanza che per la stirpe semitica ha il peccato originale; e che tra i due miti corre il medesimo grado di parentela che tra fratello e sorella. [ .. ] Perciò gli ari i concepiscono il delitto come maschio, i semiti il peccato come femmina » {Nietzsche, 1969, pp. 97 s.). 6. Nietzsche traduce qui, con qualche compiaciuta insistenza, il testo del fr. 6 Ross dell' Eudemo aristotelico {cfr. Plutarco, Consolazione ad Apollonia, 11 s d-e). S·
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via si rivela portatore di pace e di prosperità (Edipo a Colono). Nietzsche guarda le due tragedie non in quanto sequenza drammaturgica, ma in quanto parti complementari di un'unica parabola narrativa, non diversa mente da come una più recente antropologia è venuta documentando. La figura mitica al centro dell'attenzione di Nietzsche è, tuttavia, Dioniso. Già Schelling aveva annotato : È uno dei grandi meriti di Creuzer di aver ripescato, per primo tra i moderni, Dioniso dal dimenticatoio e di averlo rimesso al posto che gli spetta e di aver ge nericamente intuito come nella dottrina di Dioniso vi sia una chiave di tutta la mitologia greca (Schelling, 1999, p. ns).
A Dioniso Nietzsche dedica in questi anni un saggio a ragione considerato uno degli scritti preparatori della Nascita della tragedia, La visione dioni siaca del mondo, che così si apre : I Greci, che esprimono e al tempo stesso nascondono la dottrina segreta della loro visione del mondo nei loro dei, hanno stabilito come duplice fonte della loro arte due divinità, Apollo e Dioniso (Nietzsche, 1973, p. 49 ).
Rappresentanti rispettivamente del sogno e dell'ebbrezza, della forma e del suono, i due dei, rivali e complementari, sono a fondamento della crea zione artistica, perché la loro conflittualità si sublima dialetticamente in una sintesi: Ora non sembrerà più incomprensibile che quella medesima volontà, la quale in quanto apollinea dava un ordinamento al mondo greco, accogliesse in sé l'altra sua forma di manifestazione, la volontà dionisiaca. La lotta fra le due forme in cui appare la volontà aveva uno scopo straordinario, quello cioè di creare una pos sibilita più alta di esistenza, e di giungere poi in questa a una glorificazione anco ra superiore (attraverso l'arte). La forma di tale glorificazione non era più l'arte dell' illusione, bensì l'arte tragica: in quest 'ultima peraltro viene completamente assorbita quell'arte dell' illusione. Apollo e Dioniso si sono riuniti (ivi, p. 69).
Si è detto che La visione dionisiaca è preparatoria e in una certa misura confluisce nell'opera maggiore, dove la priorità di Dioniso s' impone sul coro tragico che è, per Nietzsche, il vero protagonista della tragedia: Questo coro nella sua visione contempla il suo signore e maestro Dioniso, e perciò è eternamente il coro servente: esso vede come il dio soffre e si glorifica, e quin-
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di per proprio conto non agisce. Nonostante questa condizione affatto servile d i fronte a l dio, esso peraltro è l'espressione suprema, vale a dire dionisiaca, della natura, e, come questa, pronunzia nell'entusiasmo detti oracolari e proverbi di sa pienza: come compaziente esso è, insieme, il savio che annunzia la verità dal cuore del mondo (Nietzsche, 1969, p. 90 ) .
In Dioniso si mescolano esaltazione e sofferenza, ebbrezza e saggezza; questa onnipotenza, come mostra la tragedia, è solo temperata dalla pre senza di Apollo : Se abbiamo dimostrato con la nostra analisi che lo spirito apollineo nella tragedia ha, in virtù della sua illusione, riportato piena vittoria sull 'elemento originario dionisiaco della musica, e che questa a sua volta ha giovato ai fini apollinei, vale a dire ha giovato a conferire al dramma la massima chiarezza, certamente però biso gna apportare a questa reciprocità una restrizione molto importante; ed è che nel punto più essenziale l ' illusione apollinea è rotta ed annullata. Il dramma, che col sussidio della musica ci si svolge davanti con chiarezza, così intimamente illumi nata, di tutti i movimenti e figure, come se vedessimo nascere il tessuto sul telaio nell' andarivieni della spola, raggiunge come totalità un effetto che è riposto di la da tutti gli effetti artiJtici apollinei. Lo spirito dionisiaco nell'effetto totale della tragedia riprende la prevalenza: essa si chiude con una risonanza che non potreb be mai scaturire dal dominio dell'arte apollinea ( ivi, p. 177).
La lettura essenzialmente musicale della tragedia è almeno in parte dovu ta all'entusiasmo che il giovane Nietzsche ha per l 'opera wagneriana e abi tare a Basilea favorisce questo entusiasmo, permettendogli di andare spes so a visitare Wagner nella sua casa sul lago di Lucerna. Il progetto di una nuova estetica proposto dalla Nascita della tragedia appare chiaramente influenzato dall' ideale dell ' « opera d'arte complessiva » ( Gesamtkunst werk), cui mirava la composizione wagneriana, nella quale musica, parola e spettacolo si potenziano reciprocamente. Era un'estetica che negava la frantumazione specialistica dell'artista, e non meno antispecialistica si presenta l ' indagine del filologo, tesa a ricostruire l 'unità originaria della tragedia greca7• Le figure simboliche non sono proposte da Bachofen e da Nietzsche come figure isolate, ma ciascuna come termine di una polarità dialettica: a 7· Sulla stretta affinità di prospettiva estetica tra Wagner e Nietzsche negli anni di Basilea, cfr. Grottanelli (1997, pp. 8 s.).
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Demetra si contrappone Zeus, di fronte a Dioniso sta Apollo, come al flut tuare della musica si oppone la stabilità della pittura, all 'emotività dell 'u dito la riflessività della vista. Così il mito da simbolo tende a trasformarsi in archetipo : prius temporale, è anche prius logico. Se Nietzsche riconosce nel satiro l 'essenza originaria dell 'uomo, Bachofen vede nel mito il princi pio esplicativo della storia : Il sapere diviene comprendere solo se coglie simultaneamente l'origine, il progres so e la fine. Ma il principio di ogni sviluppo giace nel mito. Al mito, dunque, deve riferirsi irrimediabilmente ogni indagine profonda dell 'antichità. Il mito porta in sé le origini, ed esso solo potrà rivelarle. Le origini, d'altronde determinano gli sviluppi successivi e ne indicano sempre la direzione. Senza la conoscenza delle origini il sapere storico non giungerà mai a un' interna conclusione (Bachofen, 1 967, p. u ) .
Entrambe queste potenti sintesi non riscossero al loro apparire grande in teresse tra i contemporanei; esse caddero nell ' indifferenza quando non nel fastidio di un mondo di specialisti più attenti ai positivi risultati di inda gini particolari perché convinti che solo dal loro metodico accumularsi il sapere umano avrebbe potuto trarre vantaggio. Il matriarcato cadde al suo apparire nella generale indifferenza, La na scita della tragedia suscitò, invece, un vero e proprio astioso rifiuto. L'an cor giovane Wilamowitz gli rivolse un violento pamphlet in cui metteva in dubbio la stessa competenza professionale del filologo : « Peccato che il signor Nietzsche abbia pratica troppo scarsa con la letteratura greca » (Serpa, 1 9 7 2., p. 2.19). Inutile si rivelò la replica di Erwin Rohde, l'amico fraterno di Nietzsche, che offrì al pubblico filologico le indicazioni testua li e bibliografiche che il testo nietzschiano deliberatamente aveva omesso8• Molto severe furono anche le parole di Herrmann Usener, lo studioso che qualche anno prima aveva avuto a Bonn Nietzsche tra i suoi più stimati studenti: «Sono vere e proprie assurdità, che non servono a nulla; uno che ha scritto queste cose è morto per la scienza >> 9. Ritschl. il maestro cui Nietzsche continua a rivolgersi con la massima reverenza, da parte sua non intervenne in alcun modo a difesa del proprio allievo, né gli mostrò alcun apprezzamento per il libro che l 'autore si era affrettato a mandargli. 8. Per i termini della polemica e i relativi testi, è tuttora fondamentale Serpa ( 1972). 9· Lettera di Nietzsche a Rohde (Nietzsche, 1976, p. 374).
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Diversa naturalmente la reazione di Wagner: Non avevo ancora letto niente di più bello del Suo libro ! Tutto è magnifico ! [ ... ] Ella pubblica un lavoro che non ha eguali. Ogni influenza che potrebbe essere stata esercitata su di Lei è ridotta quasi a nulla dali' intero carattere di questo la voro : ciò che contraddistingue il Suo libro rispetto a tutti gli altri è la compiuta sicurezza con cui si manifesta un carattere estremamente profondo (Nietzsche, 1 9 59, pp. 57 s.).
La consueta enfasi teatrale wagneriana è sicuramente accresciuta dali' in tensa amicizia esistente a quel tempo tra il famoso musicista e il giovane filologo, devoto entusiasta della sua musica ; ma c 'è forse anche un'altra ra gione. Siamo nel 1 8 7 2, Wagner sta compiendo la sua tetralogia con la quale si consacra il grande cantore dello spirito germanico ; Nietzsche non è soli to indulgere, è vero, ai miti del germanesimo e ama piuttosto riconoscersi nella più alta tradizione letteraria - Lessing, Goethe, Schiller -, ma nel 1844 è apparsa la prima edizione di un libro che diventa presto per tutta la cultura tedesca il prezioso archivio dell' identità nazionale, la Deutsche Mythologie (Mitologia tedesca) di Jacob Grimm'0• La sistemazione orga nica della multiforme memoria dei miti delle violente origini tedesche dovette costituire un punto di riferimento importante anche per chi non si riconosceva nell' ideale di germanesimo celebrato dopo la costituzione dell' impero per tutta l 'età guglielmina. Alcuni decenni dopo, Gustav Jung, riflettendo sull'esaltazione giova nile che si accompagnava a questo germanesimo, ne indica in Wotan la riscoperta mi tic a divinità : Com'è noto, quel dio nacque nel Movimento giovanile tedesco e fu onorato, fin dali' inizio della sua resurrezione, con sacrifici cruenti di pecore. Erano quei gio vanotti biondi (talvolta anche ragazze) che, armati di zaino e di chitarra, si vede-
10. «È a proposito delle tradizioni orali del folklore che gli storici e i folkloristi han no parlato più volentieri di "mitologia": nel 1835 [sic], la Deutsche Mythologie dei fratelli [sic] Grimm dette l'esempio e nel 1949, più di un secolo dopo, fece loro eco la Mytholo gieftançaise di Henri Donreville. Ereditando dalla "scuola celtica': quest'ultimo ricolle ga all'eroe di Rabelais, Gargantua, tutti i grandi personaggi leggendari del Medioevo: re Artù, la fata Morgana, il mago Merlino, la donna-serpente Mélusine, il cavallo Baiardo, la Tarasque, ecc. » (Schmitt, 1988, p. 62).
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vano aggirarsi instancabili su tutte le strade d' Europa. dal Capo Nord alla Sicilia, i fedeli seguaci del dio errabondo.
Essi non furono, tuttavia, gli unici a sognare il dio primordiale del ritorno dell 'uomo alla natura : I giovani che celebravano il solstizio non furono i soli a percepire quel frusciare nella foresta primigenia dell' inconscio ; esso era già stato intuito profeticamente anche da Nietzsche, Schuler, Scefan George e Klages.
Ma per il classicista Nietzsche, come per il grecizzante poeta Stefan Geor ge, il « dio errabondo >> Wotan si celava dietro la più nota immagine del greco Dioniso : Senza dubbio alcuno ciò è più corrispondente alla mentalità classica di quanto non sia Wotan, il quale però costituirebbe un riferimento più esatto. Egli è infatti un dio d' impeto e di bufera, un infuriare di passioni e di ardore guerresco; è per di più un potente incantatore e illusionista, versato in tutti i segreti della natura occulta11•
Probabilmente l'affermazione di Jung suona troppo recisa, ma la sua in dicazione può essere importante : il nuovo interesse per la mitologia ger manica, che ha nell 'opera di Jacob Grimm uno straordinario mezzo di diffusione e in Wagner il proprio epico cantore, non poté non influenzare anche gli studiosi tedeschi del mito classico, soprattutto se si considera il già ricordato quadro ideologico che faceva del popolo tedesco l'erede mo derno della grecità. Nelle ultime pagine della Nascita della tragedia appare l'esaltazione, inconsueta per Nietzsche, della germanità : Fuori di codesto abisso balzò la Riforma germanica, e nei corali della Riforma echeggiarono la prima volta le armonie germaniche della musica dell'avvenire. Il corale di Lucera risuonò profondo, ardimentoso, sgorgato dall 'anima, infini tamente umano e soave, così come il primo richiamo dionisiaco che si levò dal folto degli intricati cespugli all'approssimarsi della primavera. Gli rispose a gara il frastuono del festoso corteo sacramente protervo di quei tripudiatori dionisiaci,
11. I passaggi citati sono di Jung { 1998, pp. S9 ss.); ne devo la conoscenza a un saggio di Andrea Damascelli, Il dio del vento, che tempo fa l'autore gentilmente mi concesse di leg gere in manoscritto e di cui purtroppo ignoro l'esito editoriale.
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ai quali noi dobbiamo la musica tedesca, ai quali noi dovremo la r i n a s c i t a d e l m i t o g e r m a n i c o ! ( Nietzsche, 1969, p. 187).
Perciò il Dioniso di Nietzsche può forse riuscire meglio comprensibile nella sua doppiezza se si ricorda la contraddittoria molteplicità della fi gura di Odino-Wotan, dio errante, violento e sofferente, ingannatore e profeta. Tra le due divinità c 'è indubbiamente qualche tratto originario di analogia, ma quanto della loro somiglianza non è dovuto all 'accostamento prodottosi nell'Ottocento ? È incontestabile tradizione che la tragedia greca nella sua forma più antica aveva per oggetto esclusivo i dolori di Dioniso, e che per un lunghissimo corso di tempo il solo personaggio scenico esistente fosse appunto Dioniso. Solo che con pari sicurezza è lecito affermare che fino ad Euripide Dioniso non ha mai cessato di essere l'eroe tragico, ma che tutte le figure famose della scena greca, Prometeo, Edipo e via dicendo, non furono più che maschere dell 'eroe originario Dioniso ( ivi, p. 1 0 1 ) .
L'esegesi nietzschiana del mito si fa, dunque, essa stessa mitopoiesi: il mito di Dioniso si dilata ben al di là dei termini conosciuti nell'antichità fino a porre l' intera Grecia sotto il proprio segno. Ma, quando il mito si tra sforma in archetipo, sparisce come mito perché perde il suo carattere di racconto e si trasforma nel prisma attraverso cui scoprire un mondo igno to ; non c 'è più alterità tra il racconto e chi lo ascolta, che pensa di farlo proprio, che s' illude di esserne parte.
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Poco più di quindici anni dopo la pubblicazione del Matriarcato, così a Bachofen scrive dall'America l'antropologo Lewis H. Morgan : Il Suo metodo e il mio sono stati pressappoco eguali, con questa differenza, che Lei incomincia con l ' istituzione matura e risale da questa all'embrione, mentre io ho cercato di cominciare con l' istituzione nella sua forma arcaica e discendere quindi alla sua maturità. Abitare nella terra degli aborigeni americani mi offriva questo vantaggio (Bachofen, 1967, p. 481).
Morgan non era un accademico, ma un proprietario terriero erede di un'a giata famiglia gallese emigrata due secoli prima in America; fu anche im pegnato, per un certo periodo, in iniziative industriali d'avanguardia come la realizzazione di un'efficiente rete ferroviaria, necessaria al decollo econo mico degli Stati Uniti. Si era reso noto, a poco più di trent 'anni, nel i 8 5 1, con uno scritto sulla confederazione irochese. Morgan conosceva bene gli lrochesi perché li frequentava e li avrebbe assistiti giuridicamente nella causa aperta per la fraudolenta espropriazione delle loro terre. Il vantaggio ricordato da Morgan a Bachofen è, dunque, quello di poter descrivere dal vivo ciò che per lo studioso svizzero appariva solo come un remoto passato. Con Bachofen e, si può dire, con gran parte degli studiosi del tempo, Mor gan condivide la convinzione di un unico, seppur non sincronico, sviluppo di tutti i popoli attraverso le diverse fasi evolutive della civiltà. Questo qua dro generale è lucidamente definito nella premessa della sua opera maggio re apparsa nel 1 877• La società antica, che porta come sottotitolo Ricerche
sulle linee delprogresso umano dallo stato selvaggio attraverso la barbarie alla civiltà. Il libro contiene un'esauriente classificazione di tutte le popolazio ni dei nativi americani alla luce delle comuni regole di aggregazione fami liare, secondo i diversi principi di discendenza matrilineare e patrilineare. L'organizzazione gentilizia degli Indiani, che Morgan aveva potuto vedere
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operante, è confrontata con le diverse aggregazioni di parentela del mon do antico - il genos, la fratria e la tribù greca, la gens romana - e mostra le forme funzionali di una società che precede la sua organizzazione politica. Di qui, il grande interesse suscitato dall'opera di Morgan nell'elaborazione engelsiana della teoria dello sviluppo dal clan primitivo all'affermarsi della proprietà privata e alla costituzione dello Stato'. La società antica sarà considerata, insieme con Primitive Culture di Edward B. Tylor, l' inizio della moderna indagine antropologica. Al pari di Morgan, neppure Tylor aveva dietro di sé una carriera accademica : in terrotti gli studi per ristrettezze economiche, aveva viaggiato nel Centro America dove aveva cominciato a studiare le antiche civiltà messicane, cui dedicò i suoi primi scritti, con una visione assai più ampia del tradizionale confronto di somiglianza/dissimiglianza con l ' Europa. Primitive Culture si apre con un' innovatoria definizione del concetto di cultura : Cultura o civiltà, presa nel suo ampio senso antropologico, è quell ' insieme com prendente conoscenze, pensiero, arte, morale, diritto, usanze e tutte le altre facol tà e abitudini acquisite dall'uomo in quanto membro di una società (Tylor, 1958, p. I).
Ogni individuo è espressione della società cui appartiene e della quale condivide la morale e i comportamenti, e ogni società ha una propria coe renza e completezza. Se, allora, c 'è un processo evolutivo dai selvaggi agli uomini civili - Tylor lo ritiene quanto mai certo -, quest 'evoluzione non ha un carattere rettilineo e unitario, ma si rivela discontinua e non di rado contraddittoria: Il selvaggio che adotta qualcosa della cultura straniera troppo spesso perde le sue più rozze virtù senza acquistarne di equivalenti (i vi, p. 29 }.
Il progresso civile, l'allargamento delle conoscenze naturalistiche e matema tiche, dunque, non costituiscono necessariamente anche un'evoluzione eti ca. Né il confronto tra differenti civiltà può limitarsi a un particolare aspet1. « Morgan, infatti, aveva riscoperto a modo suo in America quella concezione materia· listica della storia che quarant'anni prima era stata scoperta da Marx e che, nel raffronto tra barbarie e civiltà, l'aveva portato, nei punti principali, agli stessi risultati di Marx » (Engels, 1970, p. n).
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to ; Tylor considera le molte componenti della vita sociale: le tecniche, il linguaggio, la musica, il mito. Al mito, in quanto testimonianza etnologica (ethnological evidence), sono dedicati tre importanti capitoli del libro. Qui l'autore sente il bisogno di chiarire subito i termini della propria indagine : Non ci si propone qui di indagare specialmente la mitologia ariana, della quale hanno trattato canti eminenti scudi osi, ma di confrontare la generale relazione dei miei delle tribù selvagge con i miei delle nazioni civilizzate (ivi, p. 283).
La sfera celeste gli permette una serie di confronti: la coppia sole-luna de gli Inca richiama quella egizia Osiride-lside e la credenza degli astri come esseri animati si estende dagli aborigeni australiani fino all 'astronomia di Origene e ali ' astrologia di Xavier de Maistre. Anche nell 'uso della lingua Tylor nota ricorrenze utili a comprendere la nascita dei miti. Come già l' indianista Max Mi.iller e prima di lui, come già si è visto, Christian Gotdob Heyne, Tylor insiste sull'ambiguo potere della metafora che, prima di diventare mero ornamento retorico, è effica ce strumento conoscitivo'. Senza indulgere, come Mi.iller, a considerare il mito vero e proprio "disturbo" del linguaggio, Tylor insiste sulle potenzia lità della lingua a condizionare la considerazione della realtà. Ne è esempio la differenza di genere di alcune lingue indiane : La distinzione era un genere animato e uno inanimato appare con particolare im portanza in una famiglia delle lingue degli Indiani nordamericani, gli Algonchini. Qui non solo cucci gli animali appartengono al genere animato, ma anche il sole, la luna e le stelle, il tuono e il lampo, in quanto sono esseri personificati. Il genere animato inoltre comprende non solo alberi e frucci, ma alcuni eccezionali oggetti privi di vita che sembrano dovere questa distinzione alla loro particolare santità o potenza: la pietra che serve da altare di sacrificio agli spiriti (manitu), l 'arco, la penna del! ' aquila, la pipa del tabacco, il tamburo. Mentre I' intero animale appar tiene al genere animato, possono essere inanimate parti del suo corpo considerate separacamente: la mano, il piede, il becco, l'ala. Per ragioni speciali inoltre speciali oggetti sono craccati come genere animato, così gli artigli dell'aquila, le unghie dell'orso, le deiezioni del castoro, le unghie dell 'uomo e altre cose cui è accribuito un peculiare o mistico potere. Se a qualcuno appare sorprendente che il pensiero selvaggio possa essere completamente imbevuto di mitologia, consideri il signi-
Su Max Miiller e sullo stretto rapporto era linguaggio e mito, cfr. Cocchiara {1971, pp. 313 ss.}.
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ficato implicito di una grammatica d i questa natura. U n tale linguaggio è il vero rispecchiamento di un mondo mitico ( ivi, pp. 3 0 2. s. ) .
Tylor analizza diverse funzioni del mito, distinguendo tra miti esplicativi, eponimici, eziologici ecc.; la sua rassegna spazia dall 'antichità classica ai popoli di più recente conoscenza e approda a due punti conclusivi che egli definisce così: La prima osservazione è che una leggenda, quando è documentata in misura suf ficiente, mostra una regolarità di sviluppo che non può essere spiegata dalla no zione di fantasia immotivata, ma che è da attribuire a delle leggi di composizione per le quali ogni storia, vecchia e nuova, si è prodotta da una sua determinata origine e da una causa sufficiente. Un tale sviluppo è davvero così uniforme che diventa possibile considerare il mito un organico prodotto dell 'umanità, nel qua le le distinzioni individuali, nazionali e persino razziali sono secondarie rispetto al carattere universale della mente umana. La seconda osservazione riguarda la relazione del mito con la storia. È vero che la ricerca di tradizioni mutilate e mistificate di avvenimenti reali che ha occupato una così estesa parte delle vecchie ricerche mitologiche sembra estendere senza speranza il tempo dello studio delle leggende. Persino i frammenti di resoconti di fatti inseriti nella struttura mitica si trovano per lo più in uno stato così corrotto che, !ungi dallo spiegare la storia, devono essi essere spiegati dalla storia; tuttavia, inconsapevolmente e quasi fosse a loro dispetto, i creatori e i trasmettitori di una leggenda poetica ci hanno conservato una quantità di notizie storicamente valide. Essi hanno dato forma nelle mitiche vite degli dei e degli eroi alle loro ancestrali eredità di pensiero e di parola, hanno esposto nella struttura delle loro leggende le operazioni della loro mente, hanno collocato nel ricordo gli usi e i costumi, la filosofia e la religione dei loro tempi, tempi dei quali la storia vera e propria ha spesso perduto l 'esatta memoria. Il mito è la storia dei suoi autori, non dei soggetti trattati; esso è memoria della vita non di eroi superumani, ma di nazioni poetiche ( ivi, pp. 4 1 5 s. ) .
Queste conclusioni sono importanti. Pongono due questioni cruciali, una sulla forma, l'altra sul contenuto dei miti, e cioè come sia possibile cono scerli e classificarli e su che cosa, per intenderne la funzione, debba appun tarsi soprattutto l'attenzione dello studioso : sul narrato o sul narratore ? Si vedrà come lo studio del mito non potrà d'ora in poi eludere questi due interrogativi. Non meno importante quanto scrive negli stessi anni Wilhelm Mann hardt nelle pagine introduttive al secondo volume del suo libro T#tld und
Feldkulte (l culti delleforeste e dei campi) :
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Grazie alle grandi scoperte nell'ambito dell'orientalistica, soprattutto delle anti chità egizie e assire e i ritrovamenti del! ' archeologia preistorica non meno che allo studio comparato delle lingue, la scoria della cultura greca ha cessato di esser facca iniziare da Omero. Essa appartiene a una fase intermedia iniziata già da alcuni millenni e divenuta una linea di sviluppo che sempre più emerge dal buio (Mann hardt, 1 9 0 4 - 0 5 , vol. Il, p. XXIII ) .
Queste osservazioni, che potrebbero apparire oggi banali, non lo erano certo nel clima culturale della Germania, e in particolare del regno di Prus sia, dove dominava in quel tempo il grande credo classicistico in una Gre cia primigenia e autarchica, unico principio della civiltà europea. Il libro di Mannhardt propone un amplissimo panorama dei diversi riti agresti allora ancora vitali nella Germania del Nord e nelle terre baltiche ; la ri cerca si estende, però, anche alle tradizioni celtiche e slave, per risalire fino alle numerose attestazioni di analoghi rituali dell'antica Grecia, di Roma e del Vicino Oriente antico. L'autore, infatti, ha ottima conoscenza del le letterature antiche e diretta esperienza di usanze, credenze e leggende dell' Europa settentrionale. Egli non è un accademico, o, almeno, non può diventarlo perché la malattia, che lo aveva accompagnato fin dali' infanzia, lo costringe ancor giovane a ritornare in famiglia a Danzica, dove trova l' impiego di bibliotecario che terrà fino alla prematura morte. Le vicende biografiche s' intrecciano così nella sua memoria con la sua attività di studioso. Egli ricorda l' inizio del suo precoce interesse per il mito che doveva condurlo poi allo studio del rito : Se mi permetto inoltre di chiarire alcune relazioni personali è perché i lavori di cui si parla sono concresciuci così streccamente con la mia vita e nel modo del loro sviluppo sono così influenzati dalle sue vicende, che un correcco giudizio appare difficilmente possibile senza una conoscenza dei fattori soggettivi che hanno con corso a realizzarli (ivi, p. v).
Figlio di un predicatore mennonita, Mannhardt rimane sempre sensibile alle differenze tra le diverse tradizioni religiose e alle loro manifestazioni popolari; trova perciò particolare interesse nella grande sintesi di Jacob Grimm - " ben attrezzato genio" - sulla mitologia tedesca : Jacob Grimm h a compiuto i l grande passo d' intendere la mitologia n o n più come prodotto di una speculazione consapevole, ma come creazione, analoga alla lingua, dell ' inconsapevole spirito poetico del popolo. Con questo egli ha
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stabilito ilfondamento per una comprensione scientifica non solo della mitologia gennanica, ma anche di quella greca, di quella romana e di ogni altra. Nella sua impresa tuttavia egli non ha facto una rigorosa distinzione era gli aspecci che si trovano nel mito in quanto realtà e quelli appartenenti spesso alla trasforma zione di metafore e personificazioni della soggeccivicà dei poeti. Egli resta estra neo alla visione cui già Heyne ma ancor più David Scrauss hanno aperto la sera da, che cioè il mito riposa su una precisa concezione o forma di pensiero della quale ogni popolo a un cerco grado di sviluppo deve necessariamente valersi (i vi, pp. VIli s.)'.
Queste osservazioni non sminuiscono naturalmente la rilevanza nazionale della già citata Deutsche Mythologie, della quale Mannhardt vuole patriot ticamente essere il continuatore : Così nel i851 misi il piede nell'università con il desiderio, grazie allo studio delle antichità del nostro popolo, di penetrare nella sua più intima essenza e di diventa re capace anzitutto di proseguire la ricerca mitologica di Grimm ( ivi, p. VI).
Danzica, la città dove Mannhardt trascorse la maggior parte della sua vita, era luogo di incrocio e di mescolanza di tradizioni culturali diverse : tede sche, baltiche, slave, kasciube - ne è testimone, un secolo dopo, Giinter Grass ; a questo già ampio campionario, Mannhardt può aggiungere molte altre testimonianze dirette desunte dalle sue inchieste svolte tra i prigio nieri della Guerra austro-prussiana (1864- 7 0) e della successiva franco prussiana (I8?0-?I). L a sua opera maggiore, finita di pubblicare quattro anni prima della morte, esamina analiticamente l ' ingente patrimonio di riti e di leggende legati al ciclo della vegetazione domestica e selvatica. Comune era la cre denza che ogni pianta fosse dotata di un'anima, alla quale erano rivolte ammonizioni e preghiere ; di qui il prender consistenza degli spiriti, geni e demoni e delle loro genealogie, che permeano l' intero mondo vegeta le, protagonisti in tutti i paesi delle ricorrenze festive che scandiscono il calendario contadino. Driadi, ninfe, fauni, silvani ecc. sono la personifi cazione antropomorfica che questi demoni assunsero nel mondo antico, dando luogo a veri e propri racconti, spesso con funzione eziologica. 3· I riferimenti che qui appaiono sono importanti: di Heyne si è già parlato; per Scrauss, cfr. CAP. 7·
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Un buon esempio di tale personificazione è quello di Adone, il bel lissimo giovane amante di Afrodite, di cui ogni anno le donne ateniesi piangevano la morte per rallegrarsi poi della sua resurrezione. Già il nome - Adone da Adonai, il Signore - ne indica l 'origine semitica•; la sua festa è legata al rigoglio e alla morte della pianta, destinata poi a rinascere, e il rito ateniese di costruire i precari "giardini di Adone': di piantare cioè verdure in vasi che erano poi collocati sui tetti ed esposti così ai raggi solari che li disseccavano non è, secondo Mannhardt, che la rappresentazione simboli ca del ciclo annuale del mondo vegetale: Le piante del giardino di Adone erano una seconda espressione dello stesso Ado ne. L' idolo e le verdure erano reciprocamente pertinenti come l' immagine e la firma, o, meglio, come due metà nelle quali si articolava il percepihile manifestarsi dell'unico concetto di nume della vegetazione. Il fantoccio antropomorfo mo strava il dio o demone come apotropaico che indicava contemporaneamente il piantare e il maturare, conformemente alla loro medesima essenza, come anima o animatore del mondo vegetale (ivi, p. 28o).
Così si può quindi riassumere schematicamente il significato della festa : la vegetazione rifiorente con la bella stagione è personificata in un bel gio vane ; egli arriva con la primavera, amante o sposo della dea innamorata ed essi vivono il loro amore per tutto il tempo della stagione ; al culmine dell'estate lo sposo scompare per restare tutto l'autunno e l ' inverno nel regno della morte ; la sua scomparsa è celebrata con un grande compianto, la sua riapparizione festeggiata con giubilo ; l' immagine del demone e le piante che lo rappresentano sono bagnate in una fonte o gettate in mare ; la divina coppia primaverile è replicata nell 'usanza mistica dell'unione tem poranea di un uomo e di una donna. Il percorso di Mannhardt è dal rito al mito, ed è questa la garanzia per la costituzione di una mitologia che possa aspirare a costruirsi come scienza rigorosa (streng wissenschatliches Aujbau der Mythologie). Ma, si è ricordato, Mannhardt non è un antichista, né la sua indagine soltanto archeologica, 4· Il compianto per il giovane dio Tammuz che muore e risuscita ogni anno era diffuso in Medio Oriente e presente anche in Israele: «E mi menò all' ingresso della porta della casa dell' Eterno, che è verso il settentrione; ed ecco quivi sedevano delle donne che pian gevano Tammuz. Ed egli mi disse: "Hai tu visto, figliuol d'uomo ? Tu vedrai ancora delle abominazioni più grandi di queste"» (Ez, 8, 14 s.).
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legata ai testi che ci conservano la memoria degli antichi culti; essa è rivolta anche, soprattutto, alle tradizioni ancora attive nella pratica o nella memo ria dei viventi. Come etnologo, interessato al mondo in cui vive, Mann hardt si mostra tuttavia sempre sensibile alla diacronia, prudentemente attento ai mutamenti prodotti dal trascorrere del tempo, distinguendosi in ciò dall' indifferenza della maggioranza, Grimm compreso, troppo impe gnata nella conquista di un' identità nazionale. Egli avverte : Anzitutto si deve considerare la cronologia delle testimonianze. Lo studioso del mito non dimenticherà tuttavia che, attraverso mutamenti, un 'informazione recente può portare alla luce la forma più antica e più vera della tradizione ( ivi, p. xxvu ) .
Felice la similitudine con la quale paragona il lavoro dello studioso della memoria popolare con quello del geologo : Come in una montagna i residui organici di differenti periodi di formazione della terra sono distesi gli uni sugli altri, la memoria popolare conserva inconsapevol mente giacimenti delle diverse epoche culturali precedentemente trascorse insie me con molti influssi estranei. La collocazione degli strati tuttavia è stata più volte spostata e attraversata, e il contenuto di ciascuno si è più volte rimodellato per disgregazione, rimescolamento o connessione del tutto estrinseca con prodotti alieni ( ivi, p. XXVIII).
Negli anni in cui apparvero le importanti opere di Morgan, Tylor e Mann hardt, James Frazer aveva vent 'anni o poco più; studiò filologia classica nella natia Glasgow per trasferirsi presto a Cambridge, dove finì i suoi stu di e tenne poi per tutta la sua lunga vita l' insegnamento di Classics, pro ducendo opere fondamentali come l'edizione della Periegesi di Pausania e della Biblioteca di Apollodoro. Frazer, dunque, appartiene interamente ali' istituzione universitaria, non è un outsider accettato solo tardi nel mondo accademico come Tylor; egli passa - si può dire - la sua intera vita nel Trinity College di Cambridge. Le sue conoscenze etnologiche, tuttavia, si estendono a numerose popola zioni della terra e nelle sue trattazioni non solo riferisce sui più diversi miti e rituali, ma ama indulgere anche a minute descrizioni paesistiche di terre la cui conoscenza deve solo alle sue moltissime letture. La sua opera maggiore, Il ramo d 'oro, esce in due volumi nel 1 89o, ma dieci anni più tardi riappare ampliata a tre volumi e tra il i 9 I I e il 1 9 1 5 si
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espande fino a dodici volumi, finché lo stesso autore nel 1922 ne redige una sintesi di un migliaio di pagine, che è quella più diffusa, letta e tradotta in diverse lingue. Il ramo d'oro prende titolo e avvio dali 'episodio narrato n eli ' Eneide vir giliana della discesa di Enea all 'Ade. Di qui si dipana un lungo percorso di richiami e di vere e proprie narrazioni dei riti e delle credenze legati al cul to degli alberi e delle divinità propizie alla fecondità agricola, con ampie digressioni sui sacrifici, le pratiche di magia, l 'organizzazione del potere, i rituali funerari, le storie tramandate presso moltissimi popoli assai diversi e lontani gli uni dagli altri. Frazer estende l ' indagine intrapresa da Mann hardt oltre i confini dell' Europa e del Mediterraneo : dalle celebrazioni dell'Adone fenicio e greco ai rituali dei Bagobo nelle Filippine, ai sacrifici umani per il raccolto degli indigeni ecuadoregni, alle pratiche di mutila zione dei Lhota Naga del Brahmaputra ecc., perché dietro i diversi riti egli riconosce la comune propiziazione dello spirito del grano. Così, infatti, spiega il mito di Lityerse: Vi sono ragioni per credere che in queste storie di Lityerse sia descritta un 'usanza frigia della mietitura, secondo la quale certe persone, specialmente stranieri, che fossero capitati a passare pel campo della mietitura, venissero regolarmente con siderati come incarnazioni dello spirito del grano e come tali acciuffati dai mieti tori, avvolti in fasci di grano e decapitati e i loro corpi legati con gli steli del grano e gettati nell'acqua come incantesimo per la pioggia. Le ragioni per queste sup posizioni sono: primo, la somiglianza della storia di Lityerse con le usanze della mietitura dei contadini europei; e, secondo, la frequenza dei sacrifici umani offerti dalle razze selvagge per promuovere la fertilità dei campi (Frazer, 1965, pp. 673-4).
Il ramo d'oro finisce così col costituire una vera e propria enciclopedia et nologica, nella quale la memoria della classicità e dei suoi miti si confronta continuamente con le registrazioni più recenti degli antropologi e con le usanze ancora presenti nel folklore europeo. Così, ad esempio, per il rac conto della nascita di Apollo e Artemide sotto la palma di Delo : Il potere di assicurare alle donne un parto felice viene infine ascritto agli alberi in Svezia e in Africa. In alcuni distretti v'era, nei tempi passati, un batdtr:id o albero custode (tiglio, frassino od olmo) nella vicinanza d'ogni fattoria. Nessuno avreb be osato strappare una foglia dall'albero sacro, e ogni danno arrecatogli veniva punito da disgrazie o da malattie. Le donne incinte usavano abbracciare l 'albero sacro per assicurarsi un facile parto. In alcune tribù negre del Congo le donne si
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fanno degli indumenti con la corteccia di certi alberi sacri, perché credono che questi alberi le liberino dai pericoli del parto. La storia di Latona che abbracciò una palma e un ulivo, o due lauri, quando stava per dare alla luce i due divini ge melli, Apollo e Artemide, indica forse in Grecia una simile credenza nell'efficacia di certi alberi di facilitare il parto ( ivi, pp. 190 ss.}.
Al termine della sua lunga peregrinazione, quando Frazer ritorna alle rive del lago di Nemi, così conclude : Eccoci alla fine delle nostre ricerche, ma, come accade quando si cerca la verità, se abbiamo risposto a una domanda, molte altre ne abbiam sollevate; e se abbiamo seguito fino in fondo il nostro sentiero, abbiamo dovuto trascurarne parecchi altri che uscivano da esso e conducevano o sembravano condurre a mète ben lontane dal sacro bosco di Nemi. Taluni di questi sentieri abbiamo per alcun poco se guito; altri, se la fortuna ci sarà benevola, potremo forse un giorno percorrere in compagnia dei nostri lettori. Per ora abbiamo insieme viaggiato abbastanza ed è giunta l'ora della separazione. Ma prima possiamo rivolgerei una domanda. Non vi sarà forse ancora qualche conclusione, qualche insegnamento e, chissà ? qualche speranza e qualche incoraggiamento, nella triste istoria degli errori e delle follie umane di cui in questo libro ci siamo occupati ? ( ivi, p. 1093)
Non può non attrarre l'attenzione in questo brano la contrapposizione che vi si pone tra la « verità >> cercata dallo studioso e gli «errori >> e le « follie >> in cui la ricerca si è dovuta imbattere. Ma quali sono questi er rori ? Nell 'Introduzione alla sua già citata edizione di Apollodoro, Frazer non esita a definire con chiarezza che cosa siano per lui mito, leggenda e racconto tradizionale : Per i miti io intendo spiegazioni errate di fenomeni sia della vita umana sia della natura esterna. Tali spiegazioni hanno origine in quella istintiva curiosità delle cause delle cose che un più avanzato stadio di conoscenza soddisfa nella filosofia e nella scienza, ma che, essendo fondate sull' ignoranza e sul fraintendimento, sono sempre false, perché se fossero vere cesserebbero di essere miti {Frazer, 1 9 6 1 , p . XXVII ) . Per leggende io intendo tradizioni, orali o scritte, che raccontano le vicende di gente realmente esistita nel passato, di cui descrive eventi non necessariamente umani che si dice siano avvenuti in luoghi realmente esistenti. Tali leggende con tengono un misto di verità e di falsità, perché se fossero interamente vere non sarebbero leggende ma storie (ivi, pp. XXVI II-XXIX ) .
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Per racconti tradizionali io intendo narrazioni inventate d a ignoti e tramandate dapprincipio oralmente di generazione in generazione; narrazioni che, nonostan te pretendano di descrivere cose reali, sono di facto puramente immaginarie e non hanno al ero scopo che quello di incraccenere I' ascoltatore senza far caso alla sua credulità. In breve, essi sono pure e semplici invenzioni, facce non per istruire o edificare l'ascolcacore, ma solo per divertirlo ( ivi, p. XXIX).
Naturalmente queste tre espressioni della falsità talvolta appaiono conta minate, sì che non è facile una loro rigorosa catalogazione ; tuttavia, ben distinte rimangono le sfere mentali cui ciascuno appartiene : Se si acceccano queste definizioni, possiamo dire che il mito ha la sua origine nella ragione, la leggenda nella memoria, il racconto tradizionale nell' immaginazione e che i ere più maturi prodocci della mente umana corrispondenti a queste acerbe creazioni sono la scienza, la scoria e il romanzo. Ma, mentre gli uomini educaci e riflessivi possono distinguere chiaramente era miei, leggende e racconti tradizio nali, sarebbe un errore supporre che la gente in mezzo alla quale comunemente circolano queste diverse narrazioni e che ne soddisfano i desideri, possano sempre o abicualmence distinguere era di esse ( ivi, p. XXXI).
L'opposizione tra verità ed errore è, si può dire, replicata nella nuova contrapposizione tra uomini istruiti e intelligenti (educated and rejlective men) e la gente comune (people), tra gentleman e "primitivo� un primitivo che persiste nell' indistinta e disprezzata populace. Sembra che la distanza sia incolmabile, la reciproca estraneità assoluta, nessun rapporto possibile. Ma come si spiegherebbe, allora, l' interesse nutrito dall'uomo colto per i prodotti di una grossolana credulità ? Nel I909 apparve un breve libro di Frazer, Psyche 's Task, che, con qual che variazione verrà ripubblicato col diverso titolo di L 'avvocato del dia volo, un provocatorio elogio della superstizione. In esso si dimostra che le credenze degli antichi e dei selvaggi che oggi siamo pronti a condannare senza riserve come assurde e derivate dalla superstizione, furono alla base e servirono a garantire la conservazione di alcune istituzioni eticamente necessarie a ogni forma di convivenza umana: Ma il governo, la proprietà privata, il matrimonio e il rispecco per la vita umana sono i pilastri su cui si basa I' incero edificio della società civile. Scuocerli significa scuotere la società profondamente. Pertanto, se il governo, la proprietà privata, il matrimonio e il rispetto per la vita umana sono cucci buoni ed essenziali per l'esi stenza della società civile, allora ne consegue che, rafforzando ciascuno di essi, la superstizione ha reso un grande servigio all 'umanità (Frazer, 2 0 0 2 , p. I77).
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Non è difficile riconoscere nei valori qui elencati i cardini stessi della socie tà vittoriana nella quale l'autore è cresciuto e nelle cui certezze si è sempre riconosciuto. Si vedono bene anche i limiti dell'antropologia da tavolino di Frazer: come non si muove da Cambridge, così si mantiene imperturba to e non si lascia coinvolgere emotivamente dalle esperienze che altri han no direttamente conosciuto e delle quali egli scrupolosamente registra le nozioni acquisite, senza che mai la sua identità venga posta in discussione. Antichi e selvaggi restano estranei all'equilibrata, avveduta ragione che di stingue lo studioso, indifferente ai turbamenti della diversità che percorre in quei decenni gran parte dell' Europa. Comparare è scoprire il simile nel diverso o il diverso nel simile. Noi e i primitivi sono i termini della comparazione degli inizi dell'antropologia e dello studio del mito, il riconoscimento di analogie dove fino a quel mo mento si era considerata soltanto l'alterità. Nel selvaggio si riconoscono tratti che possono apparire simili a quelli del passato dell'uomo civile; il confronto, prima ritenuto impossibile, è dunque tra noi e loro. Diversa la visione che si apre grazie alle scoperte della scienza della lin gua. Come le specie animali e vegetali, anche i linguaggi umani diventano classificabili in famiglie e se ne evidenziano le affinità. L' indoeuropeistica, che riconosce convenzionalmente in Franz Bopp il proprio fondatore, di mostra il legame familiare che unisce un gruppo di lingue distinguendolo da altri gruppi; si scoprono strette affinità tra il greco, le lingue latine, ger maniche e slave, mentre se ne separa l'ebraico, fino ad allora unito al latino e al greco nel comune patrimonio religioso. Ma, se il comparativismo linguistico apre nuovi orizzonti, esso è anche causa incolpevole di alcuni equivoci. L'affinità linguistica, che riposa su una remota comune origine, diventa per non pochi studiosi indice di una presunta analogia più ampiamente culturale ; si fa strada sempre più pre potentemente la credenza di una permanente civiltà indoeuropea, di una perdurante analogia culturale tra tutti i popoli parlanti lingue di questa famiglia, a dispetto delle differenti vicende storiche e delle differenti con figurazioni sociali di ciascuno. Una civiltà indoeuropea e, naturalmente, una religione indoeuropea. Hermann Usener, uno tra i maggiori filologi classici dell' Ottocento a occuparsi di mito, che ci ha lasciato imponenti opere tra le quali quella fondamentale sull'onomastica divina, I nomi degli dei (1896), sgombra il campo da ogni possibile equivoco :
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Parole simili nell'ambito religioso non possono che essere casi eccezionali e sono stati provati solo di rado in modo più persuasivo. Cade, in questo modo, il pre supposto essenziale della mitologia comparata, quale è stata esercitata fino ad ora. Il metodo che in modo così convincente può tracciare un'immagine della situazione storica a partire dalle concordanze del patrimonio linguistico, al quale gli Indoeuropei erano giunti prima della separazione, non poteva essere trasferito precipitosamente ai concetti della mitologia ( Usener, 2008, p. 3 6 2).
Quando poi scrive Le storie del diluvio, nel 1 899, pur insistendo sui rac conti greci che lo ricordano, egli delinea l' intero quadro della diffusione del mito nel mondo del Mediterraneo e del Vicino Oriente antico dalle prime attestazioni in cuneiforme di Ninive alla rielaborazione biblica. Il sopravvissuto alla distruzione del mondo voluta da una divinità avversa è sempre il fondatore di una nuova umanità, quando, esauritosi il diluvio e ritiratesi le acque, l' imbarcazione che gli ha permesso di salvarsi è restitui ta alla terra. Che si tratti del caldeo �it-napi5tim o del greco Deucalione, il suo statuto di uomo-dio appare incerto perché segna il passaggio tra un'e poca e un'altra e il mutare del rapporto tra l'uomo e la divinità ; ed è questo mutamento che si mantiene, pur nella versione necessariamente adattata al contesto monoteistico della narrazione biblica. Come si è detto, Usener non è né un antropologo, né uno storico delle religioni, bensì un filologo ; egli, però, non confonde mai contiguità lin guistica e affinità culturale, né si accontenta di descrivere la rappresenta zione delle diverse divinità, ma intende interpretarne il significato. C 'è chi ha visto negli interessi teorici di Usener il riflesso della sua vicinanza intel lettuale a Wilhelm Dilthey, del quale era cognato e a cui è dedicata la sua opera di maggiore impegno speculativo. In essa i grandi nodi teorici sono già presenti nella stessa proposta del tema della denominazione del divino. Con questa ricerca, maturata in parecchi decenni, Usener intende mo strare come dallo studio linguistico si possa ricavare una più piena com prensione storica del politeismo degli antichi, documentando come dalle prime indistinte forme di timore religioso la civiltà umana sia giunta alla definizione di un coerente pantheon, premessa dell ' intuizione razionale di un unico dio. Egli risponde così al grande quesito che aveva percorso la prima metà del secolo, se il politeismo dovesse considerarsi una corruzione dell 'originario monoteismo attestato dalla Bibbia, o questo, al termine di un processo evolutivo, la conquista di una ragione compiutamente matu ra. Il lavoro di Usener appare perciò senza dubbio in ritardo : la doman-
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da, ancora viva nei decenni dell'elaborazione della ricerca, non è più alla moda al tempo della sua pubblicazione. I nomi degli dei è tuttavia un libro importante per altre ragioni. Con l'esame dell'onomastica divina nell' intero ambito delle lingue indoeuropee, dall'avestico al lituano, dal greco e dal latino all'antico germanico, viene messa in luce una ricca pluralità di livelli di credenze e di pratiche religiose dalla più remota antichità fino alla sopravvivenza contemporanea nelle diverse manifestazioni del folklore. Ad alcune sue ipotesi etimologiche sono state rivolte non poche critiche, ma quello che importa, soprattutto allo studioso del mito, è il lavoro di scavo che, par tendo dall 'evidenza linguistica del nome, giunge a suggerire, e talvolta a dimostrare con grande efficacia, le implicazioni culturali che ne derivano. Dagli dei conosciuti con i loro nomi ed epiteti, Usener giunge a rico struire un numero di gran lunga maggiore di divinità decadute o tradizio nalmente assimilate. Gli epiteti attribuiti a un unico dio, illustranti le sue diverse prerogative e la sua collocazione geografica, nascondono spesso la conversione in attributo di quello che era l'originario nome di una divi nità autonoma. È questo il caso di Atena Nike, di Afrodite Peitho, di De metra Kourotrophos, di Artemide Kalligeneia, di Hermes Psychopompos, di Poseidone Ennosigaios, di Zeus Keraunios ecc. Questa folla di divini tà, che l'organizzazione di un pantheon tradizionalmente definito ridus se a un insieme coerente di dei e dee fisiognomicamente riconoscibili, uniti da rapporti parentali e talvolta provvisti di precisi tratti biografici, questa moltitudine di divinità, nel nome di ciascuna delle quali è dichia rata una specifica prerogativa di azione sull 'uomo, è da Usener definita Sondergotter, dei speciali o particolari, perché la loro presenza e la loro azione efficace si manifesta solo in un particolare momento o aspetto del la vita dell 'uomo. Così, spiega Usener, non hanno un ruolo diverso da quello esercitato dai santi del calendario cristiano, molti dei quali specia lizzati ad aiutare i fedeli in una specifica circostanza: Antonio protegge gli animali domestici, Barbara i combattenti, Clara la salute degli occhi, Apollonia quella dei denti ecc. I lunghi elenchi di santi che vengono invocati nelle litanie della chiesa cattolica non potevano certo restare meri nomi. Proprio come un tempo nei formulari di preghiera dei ponti.fices si passava in rassegna davanti ai fedeli tutta la serie dei sin goli concetti divini, in cui si faceva in modo che l'azione raccomandata alla prote zione divina si distribuisse in tanti differenti aspetti, così ora si cercavano in quei
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santi i rappresentanti di tutte quelle singole necessità che animavano la preghiera dei fedeli. I nomi dei santi, già presenti, risparmiavano dall' incombenza di dover ne inventare di nuovi per esprimerne i concetti: accorrevano soltanto concetti in grado di proseguire il loro corso, fosse per dati provenienti da un'ispirazione, da racconti o immagini della chiesa, fosse da un loro arbitrario trasferimento in singole figure di santi ( ivi, p. 161).
L'epiteto divino si rivela, dunque, il segno della fluidità tra il dio speciale e il dio personale, una fluidità che aiuta a comprendere il processo di for mazione della coscienza religiosa. Una traccia significativa delle divinità particolari è offerta da Varrone negli elenchi degli dei che dovevano essere invocati nella Roma arcaica perché assistessero l'uomo nei momenti cru ciali della sua esistenza e del suo lavoro ; i loro nomi indicano chiaramente la loro funzione : Partula, che assiste la partoriente, Cunina, il bambino nella culla, Limentinus, la soglia della casa ecc. Ma prima, in quello che si potrebbe archeologicamente definire uno strato ancora più profondo degli dei speciali, che già segnano un ricorrere della medesima divinità, si trovano gli dei che Usener definisce istantanei
(Augenblicksgotter) : Prima dei concetti particolari dovevano farsi valere quelli momentanei o singo lari. Se la sensazione momentanea assegna a quel che ci sta dinanzi, che risveglia la coscienza facendoci percepire la prossimità di una divinità alla situazione nella quale ci troviamo, alla forza efficace che ci riempie di stupore, il valore e la facoltà propri di una divinità, allora quel che è stato percepito e creato è il dio momenta neo. È entro una piena immediatezza che il singolo fenomeno viene divinizzato, tanto da non entrarvi in gioco neppure un qualche concetto più puntuale di ge nere : quell'unica cosa che tu vedi dinnanzi a te, questa stessa cosa, e non altro, è il dio ( ivi, p. 315).
Questi sono gli eventi naturali nel loro stesso immediato accadere : il ful mine che si abbatte e incendia, il vento che percuote e trascina, il terremo to che distrugge. La presenza del divino è avvertita dall'uomo primitivo nel fenomeno naturale, come può anche rivelarsi nel compimento di un suo lavoro : Come si debba comprendere questo fenomeno, lo insegnano dentro e fuori della Germania, usanze molto diffuse intorno al raccolto, che l ' impegno costante di W. Mannhardt ha posto chiaramente in luce. Ovunque si mostrano chiari segni su perstiti della rappresentazione secondo cui in ogni campo fecondo di frutti abita
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una divinità benedicente, pensata nelle forme più diverse, ora come essere umano, ora come animale. Quando si incominciano a staccare i frutti occorre un'azione di riconciliazione. Ogni falciata d'erba che cade ad ogni colpo di falcetto o di falce respinge sempre più indietro lo spirito, finché non gli resta come rifugio che l'ultima spiga. L'ultimo covone, nel quale lo spirito è prigioniero e tutto legato, viene quindi ritenuto sacro ovunque ( ivi, p. 3 1 6).
Usener viene così definendo una linea di sviluppo che dal dio istantaneo porta al riconoscimento di un pantheon composto di dei e di dee personal mente riconoscibili. Questo sviluppo è governato da una legge : È una legge semplice e comprensibile quella che ora ci apprestiamo a presentare. La condizione che rende possibile la nascita di dei personali è rappresentata da un processo di tipo storico-linguistico. Nel momento in cui la denominazione di un dio particolare più importante, a causa di un chiaro mutamento oppure della caduta della radice verbale corrispondente, smarrisce il legame con il vivo patrimonio linguistico, e perde la sua autonomia, diventa un nome proprio. Solo in quanto connesso a un nome proprio il concetto del dio mantiene anche una vita in se stesso, nella misura in cui s' impone sempre di nuovo all'uomo, viene spontaneamente rinnovato: nascono così nuovi dei particolari che sono destinati a sostituire come nomi propri la denominazione eliminata ( ivi, p. 350 ).
Usener non affronta, tuttavia, una questione che in Grecia appare crucia le: in assenza di una scrittura sacra e di un controllo sacerdotale, quale ruo lo ha avuto l 'elaborazione poetica nella compiuta definizione delle figure divine ? Lo Zeus, l'Apollo, l'Atena che così bene noi riconosciamo, hanno un riscontro templare, sono cioè immagini di culto, o non corrispondono piuttosto alle rappresentazioni date da O mero e da tutta la tradizione poe tica arcaica? È dovuta proprio alla libera elaborazione dei poeti la pluralità di immagini che lo stesso Usener rileva trattando, ad esempio, del mito di Perseo ? Non bisogna credere che il confronto tra miti si eserciti solo da un popolo ali ' al tro. Ciascun popolo notevolmente evoluto, innanzitutto quello greco, possiede nelle tradizioni delle sue origini e dei suoi luoghi, il che vale spesso già solo per una stessa regione, innumerevoli variazioni della stessa rappresentazione mitica. E non solo le stesse immagini si ripetono in impieghi differenti: quanto più una rap presentazione era importante per un popolo, tanto più certamente esso ha fatto in tempi diversi tentativi diversi di dare nuova forma alla stessa immagine (Usener, 2o1o, p. 101 ).
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La mitologia greca è quanto mai ricca di varianti alternative, ma che fun zione assume in questo caso un criterio comparativo ? Usener condivide il paradigma fondamentale degli ottocenteschi studiosi del mito : un grande processo evolutivo che conduce tutti i popoli, sia pure a differenti veloci tà, dalle prime manifestazioni di stupore religioso alla rappresentazione di divinità razionali, razionalmente gerarchizzate. È questa la condizione necessaria all'acquisizione della credenza in un'unica divinità; in altri ter mini un politeismo maturo è la premessa di una fede monoteistica: È dunque connessa con la necessità naturale che domina nelle leggi dello svilup po, anche dello sviluppo spirituale, che si passasse ovunque dal politeismo ad una rappresentazione religiosa di tipo monoteistico ( Usener, 2008, p. 382). Il passaggio non appare tuttavia agevole, o almeno, fedele alla propria reli giosità; Usener non può ammetterlo : L' impulso monoteistico, che a partire dai tempi di Senofane non aveva cessato di far breccia, non riusciva a raggiungere il suo scopo ali' interno del culto pagano, ma veniva sempre di nuovo stornato dai suoi propositi e virato in senso politeistico. Solo una rivelazione impostasi nel frattempo sarebbe stata in grado di elimi nare gli ostacoli che impedivano al politeismo di costituirsi conseguentemente in monoteismo. [ ... ] Solo dall'esterno poteva venire al mondo antico questa rivelazione chiarifica trice. Venne dalla Galilea, ed il battesimo di sangue che essa conobbe a Gerusa lemme conferì all'evangelo dei deboli e degli oppressi uno slancio capace di por tarla in tutti gli angoli della terra e di attecchire nel nucleo centrale della religione pagana ( ivi, pp. 382 s.).
Il percorso di Usener si mantiene rigorosamente linguistico ; ma la sua ope ra resta di non piccola importanza anche per lo studio del folklore alla cui conoscenza egli ha saputo attingere con dovizia ; essa è servita non meno all'elaborazione teorica. Cognato e amico di Dilthey, Usener è consape vole del fervore per la costruzione di una psicologia comparativa a fonda mento delle scienze dello spirito. Influssi della sua opera si vedono bene nel secondo volume della Filosofia delleforme simboliche ( 1 9 2.5) di Ernst Cassirer e nella sua coeva sintesi Linguaggio e mito. Contributo alproblema dei nomi degli dei. Nel quadro teorico neokantiano di Cassirer la ricerca di Usener acquista un particolare spessore gnoseologico, sommando l'aspet to espressivo della lingua a quello rappresentativo del mito.
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L'Ottocento, che si apre con l 'Antigone sofoclea, si chiude sotto il segno di Edipo. Diverso il ruolo delle due figure - la prima nel sistema filosofico di Hegel, la seconda nella terapia psicoanalitica di Freud -, analogo tut tavia l 'uso che entrambi fanno del mito, in virtù della loro familiarità con gli autori greci acquisita negli anni del gymnasium. In entrambi i casi, in fatti, il mito è usato, non indagato : sia Hegel sia Freud lo presuppongono ben noto a chi li legge e se ne servono perciò per rendere più perspicua e persuasiva l'argomentazione. Per essi il mito è un explicans non un expli
candum. Freud ricorre a Edipo per spiegare il meccanismo psichico del desiderio e della rimozione : Forse a noi tutti era dato in sorte di rivolgere il primo impulso sessuale alla madre, il primo odio e il primo desiderio di violenza contro il padre : i nostri sogni ce ne danno la convinzione. Il re Edipo, che ha ucciso suo padre Laio e sposato sua ma dre Giocasta, è soltanto I' appagamento di un desiderio della nostra infanzia. Ma, più fortunatamente di lui, siamo riusciti in seguito - nella misura in cui non sia mo diventati psiconevrotici - a staccare i nostri impulsi sessuali da nostra madre, a dimenticare la nostra gelosia nei confronti di nostro padre. Davanti alla persona in cui si è adempiuto quel desiderio primordiale dell' infanzia, indietreggiamo inorriditi, con tutta la forza della rimozione che questi desideri hanno subito da allora nel nostro intimo. Portando alla luce nella sua analisi la colpa di Edipo, il poeta ci costringe a prender conoscenza del nostro intimo, nel quale quegli impul si, anche se repressi, sono pur sempre presenti {Freud, 1 9 7 3 . p. 255).
Perché la tragedia di Sofocle è utile a questa spiegazione ? Perché nella co struzione del dramma Freud ritrova un procedere che gli è abituale : L'azione della tragedia non consiste in altro che nella rivelazione gradualmente approfondita e ritardata ad arte - paragonabile al lavoro di una psicoanalisi - che
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Edipo stesso è l 'assassino di Laio, m a anche il figlio dell'assassinato e di Giocasta ( ivi, p. 254).
L'analogia con l'attività dello psicoanalista è accennata qui solo parenteti camente, ma è meglio ribadita quasi vent 'anni dopo n eli ' Introduzione alla
psicoanalisi: L'opera del poeta attico mostra come il misfatto di Edipo, commesso molto tem po prima, venga a poco a poco svelato con un' indagine artisticamente rallentata e attizzata da sempre nuovi indizi; sotto quest 'aspetto essa ha una certa somiglianza con il procedere di una psicoanalisi ( Freud, 1969, p. 299 ) .
L'Edipo re si svolge secondo una logica che è quella stessa della terapia freudiana, dal dopo al prima, alla ricerca del trauma che segna l' inizio di tutta la storia. Ma è questa una particolarità propria dell ' Edipo sofocleo o non piuttosto la struttura chiusa del dramma, nel quale, a differenza della narrazione, è sempre il poi a spiegare il prima e il tempo può essere percorso in entrambe le direzioni ? Il racconto mitico, la cui conclusio ne è la parte più importante perché dà il senso al tutto, sembra dunque trovare nella struttura tragica la sua espressione più persuasiva ; si pensi ai cosiddetti "miti eziologici" nei quali l'effetto è noto e ne sono da spie gare le cause. Non è tuttavia soltanto questa la ragione dell' importanza per Freud dell' Edipo re e del mito in esso rappresentato. Dieci anni dopo l'appari zione dell 'Interpretazione dei sogni, nel 1 909, è pubblicato un libro di Otto Rank, un allievo di Freud, segretario per oltre un decennio dell'associazio ne psicoanalitica viennese e persona di precedente preparazione filologica, Il mito della nascita degli eroi. Esso tratta l 'argomento che : quasi tutti i popoli civili ai loro albori hanno esaltato nella leggenda e nella poesia i loro eroi, mitici prìncipi e re, fondatori di religioni, di dinastie, imperi o città, in breve i loro eroi nazionali. La storia della loro nascita e dei loro primi anni è specialmente arricchita di tratti fantastici: la sorprendente somiglianza, per non dire letterale identità di tali racconti, anche se si riferiscono a persone diverse, completamente indipendenti, spesso geograficamente remote, è ben nota, e ha colpito molti ricercatori ( Freud, 1952, p. 25).
Così lo ricorda Freud, citandolo, senza peraltro dimenticarsi di annotare che l'opera fu scritta sotto la sua diretta influenza. Il libro è diviso in due
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parti: la prima consta in una vasta rassegna delle figure mitiche o in qual che modo mitizzate, nella cui biografia appaiono elementi comuni parti colarmente significativi: Sargon, Ciro, Mosè, Romolo, Zoroastro, Sigfrido e molti altri; nella seconda parte l'autore sviluppa la sua vera e propria indagine psicoanalitica. Il grande paradigma tracciato da Rank è così sin tetizzato da Freud: L'eroe è figlio di genitori del più alto lignaggio, nella maggior parte dei casi fi glio di re. Il suo concepimento è ostacolato da difficoltà, come astinenza o lunga sterilità; ovvero i genitori convengono in segreto, a causa di proibizioni o di altri ostacoli esterni. Durante la gravidanza della madre, o prima, un oracolo o un so gno preannuncia al padre che la nascita del figlio gli tornerà di grave pericolo. Di conseguenza il padre (o chi per lui} ordina che il neonato venga ucciso, o esposto; di regola l ' infante viene posto in un cofanetto e consegnato alle acque. Il fanciullo viene quindi salvato da animali o da povera gente, come pastori, e allattato da un animale o da una donna di umile condizione. Adulto, egli rintraccia i suoi nobili genitori dopo molte strane avventure, si vendica sul padre e, riconosciuto dal po polo, raggiunge fama e grandezza (ivi, p. 26).
Molti temi s' intrecciano in queste storie, ma quello che interessa soprat tutto a Freud è naturalmente il rapporto col padre. Poco appresso, infatti, scrive : Eroe è colui che si erge virilmente contro il padre e alla fine vittorioso lo sopraf fà. Tale mito fa risalire questa lotta fino all'alba della vita dell 'eroe, facendolo
nascere contro la volontà e salvare a dispetto delle malvagie intenzioni del padre (ivi, p. 27).
Edipo, parricida seppure involontario, mostra dunque di condividere la sorte di molti altri personaggi. Gli eroi sono esempi famosi, ma anche Freud, nell'autoanalisi che precede e accompagna l'Interpretazione dei so gni, riconosce di potersi inscrivere nel medesimo paradigma : Non è una cosa facile. Essere interamente onesti con s e stessi è u n buon esercizio. Una sola idea di valore generale mi è sorta. Ho trovato amore per la madre e gelo sia verso il padre anche nel mio caso, ed ora ritengo che questo sia un fenomeno generale della prima infanzia, anche se non si manifesta sempre tanto presto come nei bambini divenuti isterici (Freud, 1961, p. 192).
Così egli scrive all'amico Wilhelm Fliess nell'ottobre 1 897, e aggiunge :
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È passata per l a m i a mente l' idea che la stessa cosa s i a alle radici di Amleto. Non alludo a una intenzione deliberata di Shakespeare, ma ritengo piuttosto che un reale avvenimento lo abbia spinto a scrivere, mentre il suo inconscio capiva l' in conscio dell'eroe (ivi, p. 193).
La critica ispirata alla psicoanalisi sviluppatasi nel Novecento ha talvolta indorro a qualche confusione pretendendo di sottoporre le figure del miro a una vera e propria inchiesta psicoanalitica, quasi si trarrasse di pazienti viventi, arrribuendo a Edipo il complesso che da lui prende il nome. Il miro di Edipo non è un caso clinico, ma la rappresentazione di una sindrome, il dispiegamento di un groviglio psicologico che raffigura perspicuamente le ombre della nostra psiche. Il miro, come già si è detto, è per Freud un explicans non un explicandum: Che la leggenda di Edipo sia tratta da un primordiale materiale onirico, che ha per contenuto il penoso turbamento suscitato dal rapporto con i genitori a causa dei primi impulsi sessuali, si trova indicato in modo inequivoco nel testo della trage dia sofoclea. Giocasta consola Edipo, non ancora consapevole, ma reso tuttavia inquieto dal ricordo dei responsi dell'oracolo, accennando a un sogno comune sì a molti uomini ma, secondo lei, senza significato alcuno: Quanti prima di te, nei sogni loro giacquero con la madre ! Ma la vita per chi vede in quest 'ombre il nulla vano è solamente lievissimo peso. Come allora, anche oggi il sogno di avere rapporti sessuali con la madre è frequen te in molti uomini, che lo raccontano indignati e sorpresi. Esso è, come si può ben comprendere, la chiave della tragedia e il complemento del sogno della morte del padre (Freud, 1973, p. 256).
Ma quanto del sogno appartiene in realtà alla memoria della veglia e fino a che punto la razionalità della veglia conferisce durata e consequenzialità alle fantasmatiche immagini oniriche ? L'indeterminatezza onirica somiglia alla vanità del miro in sé, al di là cioè delle sue diverse formulazioni narrative : I miti non sarebbero allora diversi dall 'esperienza onirica: se non è possibile attingere ad un sogno puro e incontaminato - perché ricordare un sogno, rac contarlo significa sempre sottoporlo ad una elaborazione secondaria e di fatto interpretarlo - allo stesso modo non può esistere « alcun mito privo di imer-
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pretazione » poiché sempre « la scelta stessa delle parole con cui narrarlo» dà avvio al processo ermeneutico, decidendo una prospettiva e una costellazione di implicazioni'.
Il racconto ordina e disciplina le apparizioni, le colloca in una catena nar rativa nella quale esse si danno reciproco senso, in una parola le spiega. Così, per mezzo della narrazione, il sogno, passando da immagine a paro la, esce dalla propria acronia e acquisisce una durata, perché la diacronia è indispensabile alla comunicazione verbale. L'acronia del sogno è la medesima dell' immagine : nella memoria del sognato prevalgono alcune figure che ne riassumono il senso. Non diverse le rappresentazioni visive del mito, quelle trasmesse da scultura e pittura ; per intenderle occorre aver presente il racconto nella sua interezza, perché è l' intero racconto che di solito in esse emblematicamente si concentra, con una serie di particolari apparentemente superflui, se non addirittura assurdi, se l' illustrazione cogliesse un singolo momento della storia. La lettura delle immagini per il riconoscimento del mito è, dunque, meno facile di quanto possa apparire. Ne è del tutto convintaJane Ellen Harrison, una studiosa che imprime una svolta determinante alla riflessione moderna sul mito greco. Così iniziano le pagine introduttive di Themis, il libro che l'autrice pub blica nel 1909, a seguito e a conclusione dei precedenti Prolegomena (1903) : Nei Prolegmnena m i ero soprattutto preoccupata d i mostrare che l a religione di Omero non era più antica del suo linguaggio. Gli dei olimpi - cioè gli dei antro pomorfi di Omero, di Fidia e dei mitografi - mi apparivano come un bouquet di fiori recisi la cui fioritura è breve perché essi sono stati staccati dalle loro radici. [ ... ] Quando nel 1907 fu richiesta una seconda edizione del mio libro la sua tesi mi apparve nuovamente. La mia sensazione della superficialità degli dei di Omero si approfondì fino alla convinzione che questi Olimpi non erano primitivi se non in un senso non religioso (Harrison, 1963, p. XI).
La studiosa contrappone alla rappresentazione degli dei che troviamo in O mero quella che intende come la vera religiosità dei Greci, la quale va cer cata altrove che nelle narrazioni celebrative dei poeti, perché la religione 1. Susanetti (2005, p. 18); la citazione è da W. Doniger, Other Peoples ' Myths [I miti degli altri], Chicago 1995· Sul rapporto tra mito e sogno nella tradizione freudiana, cfr. Graf (1997, pp. 29 s.).
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è un fenomeno sociale, che si deve considerare sempre nel contesto della società di cui è espressione, dei comportamenti collettivi che la definisco no, non dalle credenze e dalle figurazioni individuali•. È evidente in que sta impostazione l ' influsso del pensiero di É m ile Durkheim, da Harrison apertamente indicato come uno dei pensatori che più hanno contribuito alla sua formazione intellettuale. Nel 1 9 1 2 Durkheim aveva scritto, nella Conclusion delle Formes élémen
taires de la vie religieuse: In effetti chiunque abbia praticato una religione sa bene che è il culto a suscitare queste impressioni di gioia, di pace interiore, di serenità, di entusiasmo, che sono per il fedele la prova d'esperienza di quel che crede. Il culto non è semplicemente un sistema di segni grazie ai quali si esterna la fede, è la serie dei mezzi grazie a cui essa si crea e si ricrea periodicamente. [ ... ] Ora è ciò che noi abbiamo tentato di fare e abbiamo visco che questa realtà, che le mitologie si sono rappresentate sotto canee forme differenti, ma la causa oggecciva, universale ed eterna di queste sensazioni sui generis di cui è facca l'esperienza religio sa è la società. Abbiamo mostrato quali forze morali essa sviluppa e come desta que sto sentimento di sostegno, di salvaguardia, di dipendenza tutelare che lega il fedele al suo culto. È essa che lo eleva al di sopra di lui stesso: è anch'essa che lo fa. Perché ciò che fa l'uomo è questo insieme di beni intellettuali che costituisce la civiltà, e la civiltà è opera della società. Così si spiega il ruolo preponderance del culto in cucce le religioni, quali che esse siano. La società non può far sentire la propria influenza se non è in ateo, ed essa non è in acco se gli individui che la compongono non sono aggregaci e non agiscono in comune. È nell'azione comune che essa prende coscien za di sé e si pone; essa è anzi cucco una cooperazione attiva. Ma le idee e i sentimenti colleccivi non sono possibili se non grazie a movimenti esterni che li simbolizzano come li abbiamo definici. È dunque l'azione a dominare la vita religiosa per il solo facto che la società ne è l'origine (Durkheim, 1994, pp. 596 ss.).
Anche per Harrison è la pratica sociale, il rito, a definire una religione; nel considerare la Grecia la sua attenzione va perciò alle pratiche misteriche 1. Nel 1934 uno studioso tedesco d' impronta heideggeriana dichiara ancora l' immagina rio religioso omerico l'autentica essenza della Grecia e pretende di riconoscerne nel genio di O mero la fedele rappresentazione: «È un brutto pregiudizio dei nostri tempi il credere che i pensieri universali sorgono dai bisogni dei molti, onde acquistare nella mente dei pochi una solitaria altezza. Vengono partoriti invece dagli spiriti elecci e forti - siano essi gruppi od individui - per poi calare lentamente nelle bassure, dove si fanno poveri stanchi e rozzi e s' irrigidiscono>> (Otto, 1941, p. 13).
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dei culti dionisiaci e orfici più che all 'astrattezza intellettuale degli dei per fettamente antropomorfizzati deli 'Olimpo. Ma chi è questa prima figura femminile di antichista importante, di originale formazione intellettuale - Harrison indica Bergson oltre a Durkheim come fondamentale alla sua formazione - e manifestamente insofferente alle ovvietà condivise, come ad esempio il supposto concetto di religione ? Polemico è necessariamente il suo misurarsi con il mondo culturale maschile dell 'età vittoriana, ancora molto ostile - la sua presenza appare significativa nelle lotte femministe per la conquista del suffragio -, ma polemico, perché nuovo, è anche il percorso che la conduce allo studio della religione greca. Nel generale quadro della rigorosa filologia anglosas sone, rimasta per lo più impermeabile alle contaminazioni della più ampia e complessiva "scienza dell'antichità� Harrison si presenta con una forma zione essenzialmente archeologica. I Prolegomena appaiono, infatti, dopo quasi un ventennio di attività di storica dell'arte antica, numerose pubbli cazioni e partecipazioni a campagne di scavo. Ciò le permette di affrontare diversamente lo studio della religione : in esso la considerazione dei testi aveva sempre dominato su quella delle immagini, che fungevano da mero supporto della documentazione letteraria. Le indagini di Harrison si muo vono assai spesso nella direzione opposta: l' iconografia, non di rado seri al e, la guida, attraverso la riscoperta del rito, fino al mito eziologico che ne de riva. Perché sono i riti, di cui la letteratura non offre testimonianze se non sporadiche, a costituire il sommerso che Harrison vuole riportare alla luce. Ormai intorno alla cinquantina, Harrison diventa il punto di riferimen to di un piccolo gruppo di grecisti, legati da rapporti di amicizia, tra i quali lo studioso della tragedia Gilbert Murray e Francis MacDonald Cornford, che sarà poi autore di un importante, anche se trascurato, libro sulle origini della commedia. Essi sono definiti, non senza un po' d' ironia, "i ritualisti di Cambridge" e, nonostante e forse proprio a causa della novità della loro impostazione, restano ai margini del mondo filologico britannico\ 3· Così annota polemicamente Moses I. Finley, nelle sue considerazioni sui rapporti tra antropologia e antichistica: « Quando Jane Harrison sbagliava, il che certamente accade va quando insisteva nel sostenere che tutti i miti si fondano sul rituale, era perché usava erroneamente la documentazione greca e non perché aveva dedicato tanto tempo alla let tura delle noiose azioni dei selvaggi, fatto, questo, che riguarda piuttosto la psicobiografia di Jane Harrison, e non i classici. Questo è il punto metodologico. Quello storico è che l'ostilità suscitata dalla leggendaria Cambridge School, derivante da errori di ragionamen-
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I Prolegomena si aprono con la descrizione della festa ateniese delle Antesterie ; festa primaverile del vino nuovo, con l'apertura dei tini della vendemmia autunnale e la rituale bevuta, essa può apparire gioiosamente dionisiaca, concludendosi con le nozze della moglie del sacerdote di Dio niso con l' icona del dio. H arriso n ne mostra però l'altra faccia: dagli otri aperti si diffondono per la città gli spettri dei defunti e alla fine del triduo essi sono cacciati al grido ripetuto "Via, Keres, le Antesterie sono finite': Le Keres sono gli spiriti dei morti che pretendono di riappropriarsi della città dei vivi, ma il termine può anche denominare una serie di demoni in fernali femminili dei quali Harrison offre quasi un vero e proprio catalogo : gorgoni, sfingi, arpie, sirene, erinni. Themis ( 1 9 1 1 ) si apre con l'analisi del cosiddetto Inno ai Cureti, sco perto qualche anno prima a Paleocastro (Creta) e pubblicato da Gilbert Murray. Si raccontava che, alla sua nascita, Zeus era stato sottratto dalla madre Rea al padre Crono, che l'avrebbe altrimenti divorato, come già aveva fatto con gli altri suoi figli, e nascosto a Creta in una grotta del mon te Dite. Qui i Cureti, guerrieri danzatori, furono incaricati di coprire i va giti dell' infante con lo strepito dei loro canti e delle armi agitate nella dan za. Questo il mito, cui i versi incisi sulla pietra furono collegati. A Creta, tuttavia, l'esaltazione di Zeus bambino si sovrappone e si confonde, come mostra Harrison, con il culto del divino fanciullo (kouros, dal quale i Cu reti traggono il loro stesso nome), divinità annuale della rinascita e della prosperità, che s' invoca per ottenere un abbondante raccolto. Il canto è dunque rivolto al dio primaverile, che con il suo rigenerarsi accompagna il ciclo della natura ; è un canto liturgico : I fedeli che cantano l ' inno invocano un Kouros che ovviamente altro non è se non il riflesso o la personificazione del corpo dei Cureti. Essi "allegano come loro ragione" un mito eziologico. Questo mito, se lo esaminiamo, si rivela essere la rap presentazione mitica di un rito di mimesi di morte e resurrezione praticato come una cerimonia di iniziazione. Ora, il Kouros e i Cureti sono figure che apparten gono al culto ; essi sono ciò che nel gergo comune sarebbe chiamato religioso. Noi ci troviamo di fronte al fatto, abbastanza sorprendente, che queste figure religiose
to e forti reazioni emotive, fu un fauore, se non il fattore, che portò a un' interruzione pressoché totale del dialogo fra l'antropologia e i classici, verificatasi, almeno per quanto riguarda il filone principale degli studi classici, non soltanto in Inghilterra, ma dappertut· to » (Finley, 1981, p. 1;2).
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sorgono non da qualche "istinto religioso", non da qualche tendenza innata all'a dorazione e alla preghiera, ma Jànno completamente parte di un comportamento sociale. Themis e Dike invocate dai Cureti stanno nell' indifferenziato principio delle cose, se sociale significa religioso. Esse non sono astrazioni, ma realtà e santi tà originarie (Harrison, 1963, pp. 27 s.).
Il dio che rinasce è lo spirito della vegetazione che annualmente si rinnova dalla terra e che è anche spesso rappresentato in forma di serpente, l'essere che dalla terra, secondo l'antica credenza, trae origine : Il serpente per i Greci era pieno di mana, era fortemente sacro, non perché come alimento sosteneva la vita, ma perché era esso stesso un daimon della vita, uno spirito della generazione, addirittura di immortalità ( ivi, p. 271).
Mentre la terra madre si definisce sotto il segno della femminilità, il kouros rappresenta il maschile. Harrison sottolinea la differenza sessuale delle di vinità che l 'antropomorfismo olimpico conferma e pare accentuare. Tut tavia nella rappresentazione omerica la società divina appare organizzata secondo regole che riflettono abbastanza fedelmente i rapporti vigenti nella società degli uomini: il patriarca Zeus domina indiscusso e a lui sono sottoposti sia i fratelli, sia la moglie, sia tutti gli altri dei, che gli devono obbedienza come figli. La realtà religiosa appare, invece, piuttosto diversa : Ma, se passiamo ad esaminare i culti locali, troviamo che, se essi rispecchiano la civiltà dei fedeli, questa civiltà è del tutto diversa da quella patriarcale. Hera, su bordinata nell'Olimpo omerico, regna da sola ad Argo; ad Atene Atena non è moglie di un dio : è associata sì in un certo modo a Poseidone, ma la sua relazione è di rivalità e di volontà di conquista, non di dipendenza. A Eleusi due dee regna no supreme, Demetra e Kore, la Madre e la Vergine; né Ade né Trittolemo, loro beniamini, mettono in discussione il loro dominio ( ivi, p. 26o ) .
L'opposizione maschile/femminile gioca un ruolo importante nell ' inda gine di Harrison ; nei Prolegomena si succedono due importanti capitoli intitolati rispettivamente The Making ofa Goddess e The Making ofa God e la studiosa, attenta alle indicazioni di Bachofen, non manca di sottolinea re l ' importanza della primitiva discendenza matrilineare nell 'ambito del culto dionisiaco. Importante, come già si è visto, è anche la sua riflessione del rapporto tra rito e mito, tra ciò che è agito (òpwf!evov) e ciò che è detto (Àey6(levov) .
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Harrison ricorda la testimonianza di un indiano iowa che non capisce la ragione di narrare il mito al di fuori di un contesto liturgico : qualsiasi racconto sacro può e deve essere evocato solo nella pratica rituale che lo giustifica; al di fuori di essa ce se ne deve astenere. Non diverso, spiega Harrison, doveva essere in origine, anche in Grecia, il rapporto tra mito e rito : Precedentemente abbiamo analizzato particolareggiatamente il motore o l 'ele mento attivo di un rito, il opwf!EVov; abbiamo visco che nel suo senso religioso non è semplicemente qualche cosa di dato, ma qualche cosa di ri-dato o pre-daco. Esso era commemorativo o magico di entrambi. Abbiamo anche notato che si trattava di qualche cosa di dato in una force eccitazione emozionale e di dato collettiva mente. Tutto questo vale ugualmente per l'altro fattore del rito, il mito. In senso religioso un mito non è soltanto una parola detta, è una riaffermazione o una preaffermazione, è il centro del!'emozione, dichiarata, come abbiamo visco collet tivamente o almeno con una ratifica collettiva. È la ratifica collettiva e l' intenzio ne solenne che distinguono il mito dalla narrazione storica, dal semplice racconto e dalla fiaba: un mito diventa praticamente una scoria di intento e potenza magici ( ivi, p. 330).
Già nella Grecia arcaica, tuttavia, il mito appare emancipato dal rito. Har rison ricostruisce il graduale passaggio dalle presenze che considera anco ra demoniche ai veri e propri dei olimpici, membri di una società celeste costruita a imitazione di quella terrestre, divinità che non esita a definire objet d'art. Oggetti artistici, cioè artefatti, gli dei di Omero devono la loro riconoscibile fisionomia alla fantasia dei poeti piuttosto che alla pratica cultuale dei fedeli. Quasi al termine della sua lunga trattazione Harrison annota : Ci si è detto a saziecà che i Greci sono un popolo di artisti. Per questo noi pen siamo qualcosa, ma che cosa ? È chiaro che i loro dei, Apollo, Artemide, Atena, sono opere d'arce in un senso che non è il nostro. Noi istintivamente sentiamo per quanto ci accingiamo a indagare l'origine della religione greca, a tentare di ricoscruirla e a vedere la sua influenza sulla vita e sulla letteratura, il facto evidente è che la potenza del temperamento greco sta nell'arte piuttosto che nella religione ( ivi, p. 478).
Qui l'accorta indagatrice della religione cede e cerca la spiegazione della vittoria dell' Olimpo nel ripetuto « a sazietà » primato greco della poesia; ma forse accetta di scambiare la causa con l'effetto. Il primato riconosciuto
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alla poesia nell'elaborazione delle immagini della divinità non è forse un effetto più che una causa del deperimento del controllo sacerdotale sul sa cro e sulla sua tradizione ? La lettura delle immagini per la ricostruzione dei miti è parte impor tante anche dell'opera di Salomon Reinach. Renano di lontane origini svizzere, Reinach apparteneva a un'agiata famiglia ebraica che aveva do vuto seguire le alterne vicende della regione, gravitando ora sulla Germa nia, ora sulla Francia. È a Parigi, tuttavia, che egli compie i suoi studi fino all ' École Normale, da dove esce nel 1 8 8 o per intraprendere un' intensa stagione di viaggi e di partecipazione ad alcune campagne di scavo avviate dagli archeologi francesi nell' Egeo. Dalla varietà degli studi - filologici, grammaticali, storici, archeologici - gli deriva l'ampiezza delle conoscenze - dalla semitistica al mondo classico e alle antichità celtiche - che permet te esplorazioni inconsuete alla voracità dello studioso. La sua amplissima produzione, disseminata in centinaia di articoli oltre ai numerosi manuali e cataloghi, è rimasta purtroppo nell'ombra, ma merita una particolare at tenzione almeno per un paio di questioni cruciali. Egli riprende quanto già aveva affermato nel 188o l'orientalista Char les Clermont-Ganneau : «Non si tratta più di riconoscere la traduzione del mito nell ' immagine, ma la traduzione dell' immagine nel mito >> (Rei nach, 1996, p. 707). L' immagine non è talvolta la rappresentazione di un mito, ma la sua stessa origine, la storia è cioè narrata come spiegazione di una figurazione divenuta enigmatica. Compito dello studioso può essere allora risalire a un diverso contesto di significazione che il mito, volendo spiegare, ha offuscato. Un ampio contributo, compreso nella raccolta Mythologie.figurée, è de dicato al catalogo virgiliano dei puniti nell'Ade che Enea non può vedere direttamente, ma solo sentir ricordare dalla Sibilla che lo accompagna. Sal monco è rappresentato su una quadriga attraversare con grande strepito la città, imitando col frastuono il tuono e, con le scintille provocate ad arte, il fulmine di Zeus. Si tratta, dunque, della rappresentazione del suo tormen to eterno o del momento supremo della sua vita prima di essere abbattuto dall' indignato padre degli dei ? Secondo Reinach, Virgilio trae ispirazione da un dipinto riproducente un rito di magia : per sollecitare la pioggia si imitava lo scatenarsi del temporale: Così il mim di Salmoneo, come tanti miti, non è se non un atto rituale mal com preso. L' Elide, paese consacram al culm di Zeus, aveva conservam il ricordo di
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una pratica magica, d'origine tessala, associata forse al culto di un eroe locale chiamato Salmoneo, che consisteva nel provocare il temporale con il rumore di un carro e senza dubbio anche con lo sprigionarsi delle scintille ( Reinach, 1996, p. 721).
Non meno interessante un altro caso, ricordato questo nel catalogo infer nale di Ulisse ( Odissea, n ) . La sorte di Sisifo è ben nota e passata persino in proverbio : la vana fatica di spingere su, fino alla cima di un monte, un mas so che inesorabilmente gli sfugge e ogni volta ricade giù, ai piedi dell'erta. Sisifo tuttavia non ha nel resto della tradizione mitologica alcun carattere negativo : uomo astutissimo, che riesce a eludere persino la morte, è sem pre presentato come campione di intelligenza e ricordato talvolta come padre dello stesso Ulisse. Da Strabone si ricava, poi, che il suo culto era attestato intorno al golfo Saronico ; non lontano inoltre, sull'Acrocorinzio dove si narrava che Sisifo avesse regnato e dove ancora al tempo di Pausa nia se ne mostrava il sepolcro, sopravvivevano i resti di un grande edificio di marmo bianco, il cosiddetto "Sisypheion": L'accorto Sisifo era stato uno di questi costruttori dei quali le generazioni suc cessive ammiravano il lavoro, senza comprendere come si fosse potuto eseguire. Sull'alto di un colle ripido e scosceso che dominava la città da lui fondata, Sisi fo aveva trovato il mezzo di trasportare i blocchi formidabili per costruire la sua fortezza e il suo palazzo, il Sisypheion. È da Sisypheion che deriva, se non tutta la leggenda, almeno quella che abbiamo chiamato l' immagine funeraria di Sisifo ( Reinach, 1996, p. 728).
L' immagine dell 'eroe che spinge il grande masso è dunque certamente an tica, che non subisce però alcuna pena, lo rappresenta, al contrario, nella veste di costruttore del grandioso edificio che ne portava il nome. Già i Greci e dopo di loro i moderni non hanno mancato di fare ag giunte all'antico equivoco : Sisifo, ci hanno detto, è il simbolo dell 'orgo glio umano che, nella fiducia illimitata nelle sue risorse, tenta impossibili imprese e soccombe sotto una potenza superiore a quella umana. Queste sono idee filosofiche molto belle, ma che sul terreno della mitologia ri mangono sterili, che non hanno prodotto alcun racconto. L'esegesi mo rale di una fiaba non può essere il suo punto di partenza, che è sempre qualche cosa di semplice e di concreto. Se si ammette la spiegazione grafica della punizione di Sisifo, bisognerà smettere di portare questo esempio come prova dell'alta portata filosofica dei miti greci.
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L' interpretazione suggerita dal non accademico Reinach non fu tut tavia stimata degna, nell'ambito degli antichisti titolati, neppure di una contestazione : la filologia, si sa, non può nulla contro il senso comune dei filologi. L'occhio critico dello studioso indaga anche gli equivoci nei quali cad dero gli antichi, posti davanti a usanze e immagini divenute per loro di difficile decifrazione. Un episodio, diventato celebre per i significati sim bolici di cui fu presto caricato, è quello raccontato da Plutarco (De defectu oraculorum, cap. 1 7 ) : al tramonto di una tranquilla giornata, i passeggeri di una nave che incrocia nello Ionio, nei pressi dell ' isola di Paxos, odono levarsi una voce che annuncia la morte del grande dio Pan. L'annuncio è preceduto da un triplice richiamo al pilota egizio della nave, Tammuz, cui si ordina di diffondere la notizia e a esso segue un vasto lamento corale. Plutarco dice di aver udito quanto ne riferiva un testimone del fatto di cui fa il nome, Epiterse, persona da lui ben conosciuta ; aggiunge anche che l'episodio ebbe un seguito a Roma, dove l ' imperatore Tiberio si interessò del caso e volle interrogare personalmente il pilota Tammuz. Voci miste riose non erano rare, ma quel che stupiva era il contenuto del messaggio, l'annuncio della morte di un dio ; stupiva più gli antichi dei moderni che lo interpretarono come una sorta di profezia del prossimo crepuscolo degli dei pagani. L'analisi di Reinach non può perciò non deluderli. Tammuz, egli ricorda, oltre a essere un nome diffuso in Egitto, era anche la variante siriaca del nome babilonese di Dumuzi, l'Adone di cui anche i Greci com piangevano ogni anno la morte. Non è dunque un appello al pilota ciò che ode chi è sulla nave, ma una formula liturgica : Pan non c 'entra, è Tammuz, il gran dio (7rctv flÉyctç) che è morto, per il quale è celebrato ritualmente il lutto. La conservazione del nome semitico poteva dipendere dal fatto che a invocarlo fossero i membri di una comunità di Siri ellenizzati non rari a quel tempo nel Mediterraneo. Eliminare simboli consolidati non è però di solito operazione di successo ; perciò è comprensibile che la spiegazione proposta da Reinach (1996, pp. 326 ss.), pur linguisticamente ineccepibile, resti si può dire ignorata dalla generalità dei classicisti. Come già si è detto, gli studi mitologici di Reinach spaziano su tutto il mondo antico, orientale e classico, senza trascurare la mitopoiesi suc cessiva, fino a quella del suo tempo. Nato nello stesso anno, 1 8 5 8, delle ap parizioni della Madonna a Bernadette Soubirous, la giovane contadina di Lourdes, egli ne considera con attenzione le circostanze dell'avvenimento che aveva sollevato tanti entusiasmi e tante polemiche. Ricorda che appe-
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na quattro anni prima era stato stabilito il dogma dell ' immacolata conce zione della Vergine Maria e che, per l'occasione, erano state diffuse le sacre immaginette che riproducevano un dipinto di Murillo, acquistato proprio in quegli anni dal Museo del Louvre. In questo dipinto, come nei numero si altri dello stesso pittore sparsi tra il Prado e l' Ermitage, si ritrovano alcu ni importanti tratti della figura della Vergine quale la piccola Bernadette riferì di aver visto nella grotta dell'apparizione : la nuvola dorata, i piedi scalzi, la veste candida e il mantello azzurro poggiante sulla spalla sinistra, le mani incrociate sul petto, lo sguardo rivolto al cielo. Anche il dialogo suggerisce a Reinach qualche perplessità: La Santa Vergine avrebbe potuto rispondere a Bernadette : «lo sono Maria, con cepita senza peccato >> ; al posto di questa risposta teologicamente corretta, la pic cola contadina ha creduto di sentir dire : «lo sono l' Immacolata concezione >> . Qualificarsi dal nome di u n dogm a non h a senso comune, m a ciò stabilisce l a buo na fede di Bernadette e permette di metter da parte tutte le spiegazioni evemeri ste. [ . .. ] Essa aveva visto un'immagine sacra, di quelle distribuite a migliaia, che rap presentavano a vivaci colori la Vergine di Murillo che si trova al Louvre o una di quelle rimaste a Madrid. Non sapendo leggere, aveva domandato che cosa rappre sentasse quell'immagine e naturalmente le era stato risposto, decifrando la dicitu ra stampata sotto : L'Immacolata Concezione (ivi, pp. 714 s.).
Reinach non pone l'accento né sulla fragilità psichica della ragazza e sulle sue precarie condizioni fam iliari, né sulla sempre più massiccia parteci pazione popolare all'avvenimento (si arriva a migliaia di persone che ac compagnano quotidianamente Bernadette alla grotta delle apparizioni) e neppure sul generale clima di revanche di certo cattolicesimo francese del tempo, ma si attiene rigorosamente all ' iconografia della Vergine. Al di là di ogni possibile giudizio dei fatti, quel che gli interessa è dimostrare la for za di suggestione che un' immagine può avere in un esercizio mitopoietico.
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l1 23 dicembre 1 9 5 1 a Digione, dopo esser stato impiccato a una grata della cattedrale, fu solennemente dato alle fiamme sul sagrato, qualche secolo dopo streghe ed eretici, Babbo Natale. In una nota dedicata all 'avveni mento, che riporta anche brani del servizio di "France Soir� Lévi-Strauss osserva quanto fosse erronea l' idea che il benevolo vecchio elargitore di doni ai bambini fosse un prodotto della moderna paganizzazione della società (cfr. Lévi-Strauss, 1 9 66a, pp. 245 ss.). Una considerazione storica mostra non solo che quella di Babbo Natale può essere ricondotta per più di un motivo a figure tradizionali sopravvissute nel folklore europeo, ma anche che è piuttosto la celebrazione della natività di Gesù a essersi so vrapposta alle celebrazioni pagane del solstizio d ' inverno, che segnava la fine dei Saturnalia, e che la Chiesa cristiana non ebbe scrupoli nell ' impa dronirsi di una parte rilevante delle feste già in vigore : il solstizio d'estate diviene San Giovanni, le Feriae Augusti il giorno dell'Assunta, il ritorno degli antenati la ricorrenza di Ognissanti. Il cristianesimo del primo con solidamento istituzionale non poteva non essere inclusivo, facendo pro prie e risemantizzandole molte festività già esistenti nella società nella quale si veniva sviluppando. L'atto d' insofferenza del clero digionese, che fu, ricorda Lévi-Strauss, severamente criticato dalla stampa del tempo, ap pare invece timoroso di qualsiasi contaminazione e impegnato a cancellare ogni possibile pericolo di confusione con miti estranei. Se, però, il ricorso al rito del rogo dovette apparire decisamente ec cessivo, l ' insofferenza ad ammettere qualsiasi interferenza mitica risulta atteggiamento tuttora in genere condiviso dagli studiosi della storia sa cra. O, almeno, è necessaria una distinzione ; assai diverso è, infatti, l'ap proccio dell'esegesi moderna all 'Antico e al Nuovo Testamento. Anche la tradizione teologica protestante, che pure non ha mai trascurato l'Antico Testamento, ha prodotto una serie di analisi esegetiche veterotestamen-
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tarie nelle quali il carattere sacro della Scrittura appare in qualche modo sospeso di fronte a regole di lettura provenienti da altre discipline'. Seppur messe a confronto, la narrazione biblica e la ricostruzione della più antica storia di Israele risultano chiaramente distinte e la preoccupazione è quella di separare ciò che si deve considerare "storico" da quel che il racconto porta con sé, coerente con le proprie regole compositive. Di qui le analisi non solo linguistiche, ma più ampiamente narratologiche di innumerevoli episodi, da Mosè ad Abramo, da Davide a Ezra, figure in instabile equili brio tra la pretesa di storicità e la valenza simbolica a ciascuna assegnata. Così l' interesse per la scrittura dell'Amico Testamento è andato progres sivamente offuscando e ponendo in secondo piano la preoccupazione di un'ortodossia teologica. Giovanni Garbini, uno dei pochi biblisti italiani non inseriti in alcuna struttura religiosa, affrontando il problema delle presenze mitiche nella storia di Israele, conclude il suo libro con un breve capitolo intitolato si gnificativamente Lafine del mito: Nei libri poetici della Bibbia non mancano allusioni ali' antico patrimonio mito logico cananeo e in particolare al rapporto che univa il dio Yahweh ad animali mostruosi quali il Leviatano, Rahab e Tannin. Si trattava di figure mitologiche che personificavano il caos primordiale e che venivano vinte e domate da Yahweh, il dio dell'ordine. Di tutto ciò la Bibbia non conserva che qualche debole eco, resa ancora più flebile dali 'opera dei revisori del testo biblico che hanno proseguito il processo di demitologizzazione iniziato dagli autori biblici ( Garbini, 2 0 0 3 , pp. 195 s. ) .
Assai più difficile il confronto con il Nuovo Testamento. Si sa che la sua composizione non fu semplice : controversa la costituzione di un canone che definisse con certezza quali fossero i testi accettabili e di questi quali potessero essere inclusi nella liturgia. La discussione resta aperta almeno fino alla fine del v secolo, ben dopo cioè la definizione teologica della confessione di fede nel simbolo di Nicea. La distinzione tra le scritture definite canoniche e quelle apocrife o pseudoepigrafe non dipende, però, dal diverso creduto grado di valore storico documentale, ma dal contesto dottrinario che ciascuna trasmette, sì che non di rado accade che raccon ti canonicamente rifiutati depositino nella memoria comune dei cristiani personaggi ed episodi destinati a diventare parte importante del patrimo1. Cfr., ad esempio, i diversi approcci narratologici messi in opera in Licht (1992).
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nio di conoscenza dei fedeli: Gioacchino e Anna, i genitori di Maria, la sua presentazione al tempio, la grotta della natività con il bue e l'asinello. Una rara lettura dei Vangeli appare perciò quella comparsa nella secon da edizione del Ramo d 'oro di Frazer e che fu omessa nelle edizioni suc cessive. In queste pagine Frazer riconduce la passione e la morte del Cristo alla celebrazione della festa ebraica di Purim e a quella sorta di dramma sacro sulla persecuzione e liberazione del popolo ebraico che in quell'oc casione si recitava, il cui racconto si legge nel libro di Ester. La condanna e l 'esecuzione del persecutore Aman corrispondono in molti particolari al racconto evangelico del supplizio e della morte del Cristo : la finta in tronizzazione, la derisione, la flagellazione. Il rito ebraico a propria volta, spiegava Frazer, doveva risalire alla memoria dell'annuale celebrazione in Babilonia di Ishtar e Marduk, le divinità dalle quali i personaggi biblici avevano tratto i loro nomi: Ester e Mardocheo'. Frazer, si è detto, quasi pentito di queste pagine, le elimina nelle suc cessive edizioni del suo libro. Rimane il dubbio se la cautela fosse dovuta, com'egli afferma, all 'opinabilità dell' ipotesi comparativa o piuttosto alla spregiudicatezza cui veniva sottoposta la lettura del brano neotestamenta rio. L'esegesi moderna, infatti, era soprattutto impegnata nella ricerca di quello che fu definito il "Gesù storico"; indagine che non tardò a creare un vero e proprio genere esegetico-narrativo'. Il famoso teologo e studioso di lingue orientali Joachim Jeremias, in apertura di uno scritto del r96o espressamente dedicato a questo tema, si richiama a un saggio di Martin Kahler risalente a circa settant 'anni prima, che stabiliva già nel titolo i termini di un'antitesi, che cosa cioè dovesse contrapporsi alla definizione di Gesù storico. Scrive Jeremias : Si deve considerare molto attentamente in se stesso il titolo di questo scritto [Der sogennante historische jesus und der geschichtliche, biblische Christus ], se si vuole capire il proposito del Kahler. Questi distingue da un lato tra "Gesù" e "Cristo", e dall 'altro tra "storico historisch" e "storico geschichtlich� Con "Gesù" egli intende l'uomo di Nazareth come l' indagine sulla vita di Gesù lo aveva descritto; e designa, invece, con "Cristo" il salvatore predicato dalla 2. Cfr. Frazer (2007 ); il volume comprende anche La crocifissione di Aman di Edgar Wind e Purim e passione di Andrea Damascelli (Damascelli, 2007 ) . 3· «Non c'è neppure un teologo significativo di questo periodo che non abbia scritto un libro su GesÙ >> (Kuschel, 1996, p. 157 ) .
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chiesa. C o l termine hi.stori.sch egli indica i puri e semplici fatti del passato, con geschichtlich ciò che racchiude un significato duraturo. E dunque egli contrappo ne il cosiddetto Gesù hi.stori.sch, cioè storico reale, cosl come l' indagine sulla vita di Gesù aveva cercato di ricostruirlo, al Cristo geschichtlich, il Cristo storico-bibli co, come gli Apostoli l' hanno predicato. Questa la sua tesi : solo il Cristo biblico è comprensibile per noi, ed Egli solo ha significato durevole per la fede (Jeremias, 1964, pp. 14 s.).
Come si vede, i due termini cruciali sono mantenuti in tedesco dal tra duttore, perché, annota esplicitamente, non gli è facile trovare una per suasiva corrispondenza in italiano. In effetti, historisch e geschichtlich sono in sostanza sinonimi; si distinguono solo, come altre non rare coppie di sinonimi tedeschi, dalle radici, rispettivamente latina (greca) e germanica. La differenza è quindi suggerita piuttosto da un gioco tutto connotati vo : Historie appare qualche cosa che si apprende leggendo, Geschichte il vissuto, il complesso degli avvenimenti nei quali ci possiamo riconoscere. Tale era, difatti, la distinzione di Kahler tra il Gesù vissuto e morto e il Cristo, il Signore risorto : « Il signore risorto non è il Gesù storico (histo risch) che sta dietro i Vangeli, ma il Cristo della predicazione apostolica, di tutto il Nuovo Testamento » (Kahler, 1 892., p. 3 6). Tuttavia in Kahler si cela un'ambiguità che la tradizione successiva, Jeremias compreso, non è riuscita o non ha voluto chiarire : una volta intrapreso l'esame della Scrit tura, le vicende biografiche di Gesù e i contenuti della sua predicazione risultano strettamente intrecciati. Probabilmente perciò Jeremias, tre anni dopo il saggio citato, estende il panorama della predicazione di Gesù al di là della scrittura dei Vangeli. Il personaggio storico per consistere ha bisogno, infatti, di imporre con tangibile spessore la propria fisionomia di predicatore, ha bisogno della memoria dei suoi detti•. Una vera e propria raccolta di espressioni da ricondurre alla predica zione di Gesù è quella offerta in un agile libretto, Detti segreti di Gesù, pubblicato nel 1 9 75 dal biblista italiano Luigi Moraldi. I testi, come di consuetudine, sono corredati da un confronto filologico tra le diverse fon ti neotestamentarie, ma lo studioso procede anche a una classificazione del 4· Il libro, Unbekannte jesusworte, ha ricevuto in italiano un titolo diverso, Gli agrapha di Gesu (Jeremias, 196;), dove agrapha vuoi significare "non compresi nei Vangeli� cioè nella Scrittura. Il lavoro dell'autore è, infatti, sugli apocrifi e sulla tradizione cristiana posteriore.
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materiale selezionato e a una sua organizzazione i n cinque ambiti teorici: sentenze o apoftegmi, detti sapienziali, detti profetici o apocalittici, "detti io': detti normativi per la comunità. Il più interessante è forse il quarto che raggruppa i cosiddetti "detti io� le parole cioè attribuite a Gesù per la propria autoaffermazione e la definizione della novità della propria predi cazione. Moraldi si preoccupa tuttavia di avvertire : Come più volte è stato qui ricordato, la tradizione ha compreso e trasmesso le parole di Gesù non solo come parole del passato, ma assai più come parole di colui che è salito in cielo ed è sempre presente ( Moraldi, 1975, p. 171 ) .
Il discorso non appare filologicamente chiaro : i detti che dovrebbero as severare una figura storica appaiono per così dire in bilico tra lo statuto di ipsissima verba e quello di asserzioni legittimate solo dalla tradizione dei fedeli. Ancor meno chiaro quanto egli afferma poco appresso : Si osserva inoltre come alcuni decci siano palesemente retrodatati in quanto riferi ti al Gesù terrestre mentre appartengono eventualmente al Risorto. Ad esempio: «Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi.. . >> ( Mc 10,1 6); « ... dove due o ere sono riuniti nel mio nome ... >> ( Mc 18, 20); «Voi poi siete quelli che siete rimasti costantemente con me ... >> (Le 22, 28) ( i vi, pp. 173 s. ) .
Riaffiora qui la distinzione historisch-geschichtlich, tra lo storicamente do cumentato e il significato di una memoria che si conserva e si arricchisce nella coscienza collettiva dei posteri. Così aveva scritto, un secolo prima, David Strauss nell 'ampia introdu zione al suo Leben]esu (La vita di Gesu), un libro, già pubblicato nel 1 83 s, che riappare ampliato nel 186z ed è forse l'opera più importante del suo genere, sviluppatosi, come si è già ricordato, nell'ambito esegetico della critica storica : Il progresso che effeccivamente negli ultimi tempi h a facto l a scienza della mi· cologia è di aver compreso come il mito nella sua forma originaria non è la con sapevole, intenzionale produzione di un singolo, ma il risultato della coscien za comune di un popolo o di un gruppo religioso, che dapprima viene espresso da un singolo ma che crova fede perché costui è soltanto lo strumento della persua sione generale. Non un involucro nel quale un uomo d' ingegno cela un' idea che gli è venuta per l'utilità e l 'edificazione della massa ignorante; ma soltanto con il
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racconto e nella forma del racconto narrato, egli diventa consapevole del!' idea che non era in grado di afferrare con sicurezza (Strauss, 1895. p. 195)1•
Il mito non è più invenzione o favola, ma persuasione condivisa, non stru mento dell'attrezzatura poetica, ma elemento di aggregazione sociale. All' Università di Berlino Strauss aveva ascoltato Hegel e Schleierma cher, che nel 1 832 vi tenne un corso sulla vita di Gesù, nel quale svolse un puntiglioso confronto delle testimonianze neotestamentarie metten done in discussione l'attendibilità storica, soprattutto per i racconti della nascita e della resurrezione (cfr. Schleiermacher, 1 8 64)6• Schleiermacher, tuttavia, non usa mai il termine "mito" per indicare quelli che egli ritiene racconti inverosimili e preferisce parlare di invenzione (Erdichtung) . L' indagine di Strauss è più ampia e si estende all ' intera Bibbia, mo strando come gli episodi miracolosi della vita di Gesù risultino sempre conferme di profezie veterotestamentarie e siano perciò da riportare, come tutta la scrittura dei Vangeli, al quadro escatologico della società ebraica del tempo. In Strauss la contrapposizione di m ito e storia è netta e i toni della sua polemica lo pongono presto fuori dell' istituzione ecclesiastica, come accade poi a tutti gli studiosi che leggono il Nuovo Testamento per ri cavarne una biografia di Gesù con un occhio vigile all 'attendibilità sto rica della narrazione, seppur distanti dallo sprezzo razionalistico di un approccio positivistico. All'emarginazione delle Chiese evangeliche cor rispose per gli studiosi cattolici l'aperta condanna della gerarchia. Così fu per Ernest Renan, così, assai più duramente, per Alfred Loisy, giovane brillante sacerdote, cui toccò in un primo tempo la rimozione dali ' inse gnamento, poi la messa all ' indice delle sue opere più importanti e, infine, la scomunica. Egli subì l 'ondata repressiva più energica dell ' antimoder nismo del principio del secolo, ma ciò accadde nella Francia laica, se non apertamente anticlericale del tempo e gli favorì la chiamata al prestigio so Collège de France dove rimase fino al suo pensionamento, nel 1932. S· I l primitivo titolo, Das Leben jesu kritisch bearbeitet, nella successiva edizione appare significativamente mutato: l'autore non insiste più sul proprio atteggiamente critico, ma, secondo una precisa ideologia, sul destinatario dell'opera, il popolo tedesco: Das Leben jesufor das deutsche Volk bearbeitet. 6. Tutca allegorica in chiave kantiana la lettura dei Vangeli nella giovanile Vita di Gesù di Hegel (1971).
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Autore di molte opere esegetiche, Loisy compendiò i risultati delle sue ricerche nel libro successivo al suo ritiro dall' insegnamento, Le origini
del cristianesimo. Il titolo è già di per sé rivelatore : a differenza della maggior parte degli studiosi che l ' hanno preceduto, Loisy non parte dalla figura di Gesù de lineata nei Vangeli per sceverarne la credibilità storica, perché il definirsi di tale figura non appartiene all'elaborazione delle originarie comunità cristiane. Gli scritti neotestamentari, inoltre, non furono redatti con pre occupazioni documentarie, perciò la critica delle fonti deve risalire più a monte : In un certo senso, profondamente vero, la storia del cristianesimo primitivo è una specie di preistoria, da ricostruire sulla base di testi che la rifle ttono, ma che non furono ideati e composti per narrarla. Il compito della critica è, quindi, indispen sabile, ma tanto più delicato in quanto l'esame scientifico di tali fonti è ben lonta no dall'aver detto la sua ultima parola (Loisy, 1964, p. 25).
Ricostruire la storia del primo cristianesimo significa perciò valutare volta per volta la funzione catechetica del racconto, per riportarlo al contesto ideologico cronologicamente determinato ; così anzitutto il mutante rap porto tra la primitiva setta cristiana e l' insieme istituzionale del giudai smo. Per quest'aspetto di particolare importanza si rivela il rapporto di Gesù con Giovanni Battista : Non è credibile che Giovanni abbia in antecedenza screditato il proprio battesi mo e accreditato il battesimo cristiano, dichiarando che il proprio battesimo era semplicemente un simbolo, e che il battesimo vero, il solo efficace, sarebbe stato quello amministrato dal Cristo nello Spirito santo. La tradizione evangelica fa dire questo a Giovanni per non confessare che i cristiani derivarono il loro rito dalla setta battista (ivi, p. 93).
Il battesimo cristiano può presto rivendicare la propria importanza li turgica : Il racconto del battesimo di Gesù da parte di Giovanni non è altro che il mito d' istituzione del battesimo cristiano e mira a far valere come una disposizione d'ordine provvidenziale l 'autonomia del cristianesimo quale istituto di salvezza nei confronti delle altre sette battiste e del giudaismo. Di tale autonomia attesta una consapevolezza che può essersi affermata soltanto dopo il 70. I nostri stessi te sti mostrano che tale racconto subì, nella tradizione, continui ritocchi (i vi, p. 99 }.
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La definizione del rapporto tra cristiani e giudei ortodossi è uno dei temi centrali delle molte ricostruzioni della vita di Gesù ; storicamente esso andò mutando col mutare dei loro rispettivi rapporti con Roma ed è per ciò da considerare volta per volta nelle diverse condizioni della Giudea suddita dell ' Impero romano : Se la cronologia della passione è stata ritoccata in modo da differenziare e separare nettamente la Pasqua cristiana dalla Pasqua ebraica, come già era stata differenzia ca e separata nel suo oggecco, la relazione del processo è stata elaborata in modo da far ricadere l' iniziativa e la responsabilità della condanna di Gesù sui Giudei. Donde il duplice processo e, nei Sin ottici, l' inverosimile seduca notturna del Si nedrio nella nocce sacra della Pasqua ( ivi, p. us).
Ma c 'è qualche cosa che dovette modificare ancor più in profondo lo spi rito delle comunità cristiane nei loro primi decenni di vita. Il progressivo allontanarsi, fino a dileguare, della fede nella parusia, nell' imminente ri torno del messia che avrebbe segnato la fine di questi tempi, comporta una vera e propria mutazione catechetica: L'insegnamento accribuico dalla tradizione a Gesù può darci soltanto un' idea ap prossimativa di quella che fu realmente la sua predicazione. Il suo insegnamento, si può ben dirlo senza paradosso, non fu mai raccolto. Né il predicatore né i suoi più fedeli ascoltatori pensavano a fissarne il contenuto per tramandar!o ai posteri; la prospettiva imminente del regno di Dio impediva qualsiasi preoccupazione di cal sorta. Dopo la morte di Gesù, i primi apostoli continuarono ad annunciare il prossimo avvento, che doveva essere quello del Cristo nella sua gloria. Solo dopo un cerco tempo, quando i gruppi dei fedeli si furono organizzati in comunità per manenti, sorse l'esigenza di un' istruzione più completa, nella quale l' insegnamen to di Gesù e l'insegnamento su Gesù, già singolarmente cresciuto e modificato, si trovarono sempre più commisti insieme per formare i libri di catechesi liturgica, a cui si conservò il nome di vangelo ( ivi, p. 1 0 2 ) .
La figura soteriologica di Gesù e gli ammaestramenti delle prime comu nità cristiane vengono trasmessi, conformemente alla tradizione biblica, nella persuasiva forma del racconto ; un racconto che, al di là della spesso pretestuosa determinazione cronologica, acquista una stabile valenza di rivelazione. L'analisi di Loisy è lucida, scevra di preoccupazioni istituzionali e di limitazioni dogmatiche, e nel contempo appassionata nel cercar di com prendere il costruirsi della fede cristiana. Assai diverso nelle premesse sog-
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gettive l'approccio ai medesimi terni di un teologo protestante poco più giovane, formatosi anch'egli nella ternperie intellettuale degli anni prece denti la Grande guerra, RudolfBultrnann. Bultrnann fece parte di quella frazione della Chiesa luterana tedesca che, dopo l'avvento del nazisrno, rifiutò senza esitazioni ogni tentativo di ingerenza del potere e nel gennaio 1 9 3 4, riunitasi nel sinodo di Barrnen, pronunciò la propria solenne confessione di fede nella quale erano ribaditi i principi costitutivi della Riforma. Il saggio di Bultrnann nel 1 941, Nuovo Testamento e mitologia, può sembrare di primo acchito evasivamente ana cronistico : siamo nei primi anni di guerra, la Germania, nazificata, appare protesa alla conquista dell' intera Europa ; non sono perciò tempi propizi a indagini filologiche ; non si tratta, tuttavia, di un esame specialistico di te sti biblici, ma della riafferrnazione della libertà della Chiesa nel necessario mutamento del suo modo di esprimersi, che, quale è, non può non apparire ormai desueto. All'edificante lettura consolatoria del Nuovo Testamento, Bultrnann oppone la constatazione del!' inadeguatezza, che l'uomo moder no non può non avvertire di fronte a molti passi del testo biblico : La raffigurazione neotestamentaria dell'universo e mitica. Si considera il mondo anicolaco in tre piani. Al centro si trova la terra, sopra di essa il cielo, e sotto gli inferi. Il cielo è l'abitazione di Dio e delle figure celesti, gli angeli; il mondo sotter raneo è I' inferno, il luogo dei tormenti. Ma non perciò la terra è il luogo del!' avve nimento naturale-quotidiano, delle sollecitudini, cioè, e del lavoro, dove regnino l'ordine e la regola: è anche il teatro d'azione delle potenze soprannaturali, di Dio e dei suoi angeli, di Satana e dei suoi demoni. Le forze soprannaturali agiscono sugli avvenimenti naturali, sul pensiero, sulla volontà e sull 'operare dell'uomo; i miracoli non hanno nulla d' insolito. L'uomo non è padrone di se stesso; i demoni possono impadronirsi di lui; Satana gli può ispirare cattivi pensieri; ma anche Dio può guidarne il pensiero e la volontà, può fargli contemplare visioni celesti, fargli udire la sua parola che comanda e consola, può donargli la forza soprannaturale del suo Spirito (Bultmann, 1 970, pp. 103 s.}.
Tuttavia, se è ormai impossibile condividere questa visione, precisa Bult rnann, vi si possono scoprire tratti di verità ; torna perciò utile, seppur con diverso lessico, la distinzione di Kahler tra historisch e geschichtlich. Ciò è evidente nella considerazione delle pagine evangeliche dedicate alla resur rezione di Gesù : Ma la risurrezione di Cristo non è un evento puramente mitico ? In ogni caso, non è ceno un evento che appartenga alla storia e che come tale vada compreso nella sua
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porcata. Quanto si dice sulla risurrezione di Cristo può esprimere qualcos'alcro che non sia il significato della croce? Dice qualcosa di diverso da ciò che la morte di Gesù in croce va considerata non come il decesso d 'un qualsiasi uomo, ma come il giudizio liberatore pronunciato da Dio sul mondo, il giudizio di Dio che in quan to cale coglie ogni potere alla morte ? Non è precisamente questa la verità che si vuole esprimere, quando si dice che il crocifisso non sarebbe rimasco nella morte, ma sarebbe risorto ? (i vi, p. 165).
Che cosa significa d'altronde per Bultmann "mito� qual è il valore che egli gli attribuisce ? Adopero il concetto di mito secondo I' accezione in uso nelle scienze storiche e religiose. Mito è il racconto di un facto o di un evento, in cui intervengono forze o persone soprannaturali, sovrumane (e spesso, quindi, il racconto viene definito semplicemente come scoria di dei [ Gottergeschichte]. Pensiero mitico è il concetto opposto a quello di pensiero scientifico (i vi, p. 180 ).
In breve : il mito oggettivizza l'aldilà nell'aldiqua, e quindi anche nel di sponibile ; e la cosa si fa evidente nel fatto che il culto diventa sempre più un'attività intesa a influire sulla condotta della divinità, a stornarne le ire, a ottenerne i favori. La demitizzazione vuoi meccere in risalto I' autentica intenzione del mi co, cioè quella di parlare dell'esistenza umana, del suo essere fondata e limitata da una potenza del!' aldilà non mondana, una potenza che non è percepibile dal pensiero oggeccivance ( ivi, pp. 187 s.).
Come si vede, la definizione bultmanniana di mito è inadeguata. Anzitut to perché nel tempo in cui egli scrive non esiste un'accezione del termine, ma intorno alla categoria di mito è aperto un esteso dibattito antropologi co, in secondo luogo perché la scelta di Wilhelm Nestle come autore di ri ferimento è probabilmente la meno felice. Infatti, per Nestle, filologo clas sico fedele ali'eredità classicistica, come ben spiega il suo libro Vom Mythos zum Logos, il mito non è intrecciato con il sacro, ma si risolve in una sorta di filosofia primitiva che si esprime per immagini perché non ha ancora scoperto il rigore dei concetti. Essa non corrisponde all 'uso che egli ne fa. Allo "storico': al verosimile, per Bultmann non si contrappone il ma gico, l ' inverosimile, ma piuttosto il significato manifestato dal racconto a chi lo legge con una determ inata intenzione. La resurrezione non è, perciò, il miracolo sul quale si costruisce una fede, come una banale interpretazio-
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n e può suggerire ; essa è l'oggetto stesso della fede perché è l 'oggetto della rivelazione in cui è coinvolto il fedele : La risurrezione è piuttosto l'oggetto medesimo dellafide; e non si può fondare una fede (quella nella portata salvifica della croce) per mezzo di un'altra (quella nella risurrezione). La risurrezione di Cristo è l'oggetto della fede perché significa assai di più del ritorno di un morto a questa vita, perché è un evento escatologico. Pro prio per questo non è un miracolo, sia esso incredibile o no per noi, non certifica affatto quella realtà escatologica che consiste nell 'annientamento del potere della morte; il che, del resto, non sarebbe niente d' inaudito nell 'ambito del pensiero mitico (ivi, p. 167).
Qui, forse, si tocca quasi inavvertitamente una questione essenziale : se il racconto delle Marie al sepolcro è la rappresentazione stessa della fede, ciò significa che il mito è la configurazione comunicabile, narrabile e/o rappre sentabile di una memoria profondamente significativa. Se Bultmann non parla di mito è perché esso è qui perfettamente interiorizzato : la resurrezio ne non è più un evento che deve essere provato (historisch ) , ma il significa to acquisito permanentemente di una personale esperienza (geschichtlich). Qualsiasi critica storica risulta a questo punto inadeguata e vana: Sarebbe certo un'aberrazione risollevare il problema d'accertare storicamente le origini dell'annuncio come se fosse possibile provarne il buon diritto. Ciò signifi cherebbe pretendere di dar fondamento alla fede nella parola di Dio per mezzo di una ricerca storica ( ivi, p. 170).
Il ricorso al mito, nonostante il moltiplicarsi dei titoli, resta peraltro in Bultmann piuttosto vago : il mondo del pressappoco, cui esso era legato e del quale era espressione, è ormai tramontato ; il mito è, può perciò essere per noi solo un involucro per un diverso messaggio che ci coinvolge e cui, nonostante tutto, riconosciamo lo statuto di storicità: Ma in ogni caso una mitologia del genere non è mitologia nell'antico significa to del termine che è tramontato insieme alla visione mitica del mondo. L'evento salvifico di cui parliamo, infatti, non è un evento miracoloso, soprannaturale; è qualcosa di storicamente accaduto nello spazio e nel tempo. Presentandolo come tale, spogliato del suo rivestimento mitologico, riteniamo di restar fedeli all 'in tenzione che risulta dal Nuovo Testamento e di dar pieno riconoscimento alla paradossalità dell'annuncio neo testamentario; alla paradossalità, cioè, di un in viato escatologico di Dio, il quale è un uomo concreto e storico, d'un intervento escatologico di Dio che si compie, in quanto escatologico, non può essere provato con una legittimazione intramondana (i vi, p. 173 ).
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Poco meno di cinquant 'anni dopo il primo intervento di Bultmann sul mito, un teologo cattolico, Karl-Joseph Kuschel, pubblica un ponderoso volume dedicato a quella che può sembrare una specialistica controversia ermeneutica ma che in realtà coinvolge il fondamento stesso della teologia cristiana : la formulazione del simbolo di Nicea « generato prima di tutti i secoli>> . L'espressione cela, in effetti, la cruciale questione dello statuto della seconda persona del dogma trinitario, la questione cioè della pree sistenza del Cristo al mondo, della sua consustanzialità al padre, in breve della sua essenza divina. Kuschel ricorda l' importanza della "demitologizzazione" di Bult mann e indulge per parecchie pagine del suo libro a richiamare le pole miche anche aspre seguite all 'apparizione del saggio : la testimonianza di dissenso di Dietrich Bonhoeffer, che pur riconosceva all'autore il merito dell ' "onestà intellettuale� e l' infastidita reazione di Karl Barth che non solo ne rifiutava il metodo, ma dichiarava che non l'avrebbe tenuto in al cun conto. Nonostante la già notata imprecisione della categoria di mito, l ' intervento di Bultmann, annota Kuschel, spazzava via come infondati non pochi tratti della convenzionale rappresentazione di Gesù : la nascita verginale, i miracoli, la discesa agli inferi, l'ascensione al cielo. Kuschel, inoltre, non manca di ricordare che già nel suo commento al Vangelo di Giovanni, Bultmann aveva notato come la preesistenza del figlio al mon do rivelasse l ' inserzione di un mitologema gnostico nella costruzione del la teologia cristiana. Affrontando il tema della demitologizzazione, Bultmann si mantiene però assai più cauto : la mitologia pagana appartiene al passato e deve es sere quindi tenuta ben separata. Il mito, così com'egli lo riconosce nella scrittura del Nuovo Testamento, finisce perciò con l'essere assolutamente subalterno, si potrebbe dire poco più di un mero linguaggio del quale non riesce difficile immaginare la traduzione : Questa demitologizzazione può essere osservata in un caso particolare. Nelle at tese apocalittiche ebraiche I' attesa del Regno messianico ha giocato un ruolo. Il Regno messianico è, per così dire, un interregnum tra l'opera antica (ovToç aiwv) e il tempo nuovo (é fLEÀÀwv aiwv). Paolo interpreta quest ' idea apocalittica e mi tologica dell' interregnum messianico, alla fine del quale Cristo renderà al Padre il Regno di Dio, come il tempo presente che va dalla resurrezione del Cristo alla sua futura parusia (1 Cor. 15-24). Questo significa che il tempo attuale della predica zione dell ' Evangelo è realmente il tempo, una volta atteso, del Regno del Messia. Gesù è ora il Messia, il Signore.
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Dopo Paolo, Giovanni ha demitologizzato in modo radicale l'escatologia. Per Giovanni la venuta e la dipartita di Gesù costituiscono l'evento escatologico : I i giudizio è questo : la luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce perché le loro opere erano malvage » (Gv, 3, 19). È ora il giudi zio di questo mondo : ora il principe di questo mondo sarà cacciato via » (Gv, 12, 31). Per Giovanni la resurrezione di Gesù, la Pentecoste e la parusia di Gesù sono un solo e medesimo avvenimento, e coloro che credono hanno già la vita eterna (Bultmann, 1958, p. n). «
«
Bultmann identifica il mito come il linguaggio proprio dell'attesa della prossima fine del mondo dominante nei numerosi movimenti apocalittici, tra i quali il cristianesimo delle origini, che percorrono in quel tempo Israe le, e traduce i testi di Paolo e di Giovanni nel più consueto linguaggio della moderna istituzione cristiana. Alcune sue osservazioni restano, tuttavia, importanti: il mito si rivela necessario alla fede, perché in qualche modo ne è la rappresentazione ; il racconto, narrando, persuade, ha cioè una de terminante funzione catechetica, talvolta può acquisire, come racconto sa cro, una funzione liturgica. Dal suo molteplice ruolo è comunque esclusa la determinazione della dottrina, che è competenza della dogmatica, sempre meno Auida a mano a mano che l'organizzazione ecclesiastica si sviluppa e si consolidano i suoi rapporti con il potere politico, come ben mostra nel 3 1 3 d.C. il concilio di Nicea e, dopo, nel 3 80 d.C., quello di Costantinopoli. L' indagine di Bultmann pretende di proseguire un'opera già presente nella stessa Scrittura : Questi esempi mostrano, mi pare, che la demitologizzazione è stata cominciata nel Nuovo Testamento e che, di conseguenza, oggi il nostro impegno di demitolo gizzazione è giustificato (ibid. ).
Egli si mantiene sempre in un difficile equilibrio attento all'osservanza dell'esegesi dogmatica; ciò tuttavia forse non si deve solo a timidezza in terpretativa, dipende dal! 'equilibrio che governa la reciproca indistricabile connessione di mito e religione, alla necessità della loro interdipendenza. Mitico e storico appaiono allo storico delle religioni piuttosto comple mentari che opposti. Osservava felicemente Loisy: Se volesse sostituire Gesù con un mito, la critica s'impegnerebbe in una via senza uscita e in sottigliezze senza fine. Nondimeno, è vero che Gesù è vissuto nel mito, e che il mito lo ha innalzato sino ai fastigi della storia (Loisy, 1964, p. 97 ).
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Strutture e specchi
Nei decenni centrali del Novecento in Europa, soprattutto in Francia, l'at tenzione degli studiosi del mito va, più che a quel che è raccontato, a come lo si racconta e a quanto esso riflette della vita sociale. Si tratta di un esercizio di astrazione formale e di una contemplazione che si può definire speculare. Nel dicembre 1 949 Georges Dumézil, accolto al Collège de France, vi tiene la sua lezione inaugurale: Che l' idea di una tripartizione della società, e anche del mondo, in un livello sa cerdotale, un livello guerriero e un livello produttore non sia il monopolio degli Indoiranici e dei Romani è certo ; ma non è tuttavia un fatto universale. Per quello che si sa in particolare del mondo antico - comprese le grandi radiose società, gli Egizi, i Semi ti occidentali, i Babilonesi e, giudicando dalla loro influenza sui Greci storici, i Preelleni e i lontani Cinesi - una tale tripartizione, teorica o pratica, non è attestata che presso i popoli indoeuropei, o alcuni altri, ma dopo dei precisi do cumentati contatti con gli Indoeuropei ( Dumézil, 1992, p. 23).
In questa prolusione, se non è enunciato un vero e proprio programma di lavoro, ne è tuttavia delineato in maniera molto chiara il carattere : lo studio della più antica mitologia dei popoli indoeuropei attraverso l'ana lisi archeologica delle testimonianze storicamente sopravvissute. Questa mitologia rivela, agli occhi di Dumézil, un'omologia religiosa, specchio di una più profonda omologia dell 'organizzazione della società e del suo sistema di potere. Ciò appare evidente nella tripartizione, si potrebbe dire cascale, della società. È a questa tripartizione che il nome stesso dello studioso francese, che fu autore molto prolifico ( 6o libri e più di 300 ar ticoli), resta poi sempre strettamente legato, in un modo probabilmente eccessivo. Egli, infatti, qui e altrove, si mantiene sempre assai cauto nelle sue affermazioni, rifiutando troppo facili semplificazioni e ostentando la massima attenzione per la documentabilità dei suoi asserti:
12.2.
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Non ci sono archivi, non ci sono documenti letterari, non ci sono monumenti. O almeno, dei realia indoeuropei che forse sopravvivono, non si può, non si vede neppure come si potrebbe un giorno affermare che essi provengano dal gruppo umano che pressappoco cinquemila anni fa parlava la lingua comune dalla quale le lingue dette indoeuropee sono derivate, come, più tardi, le lingue romanze do vevano nascere dal latino ( ivi, p. 14).
Dumézil prende così le distanze dalla visione ottocentesca che intendeva stabilire un' illusoria stabile corrispondenza tra identità linguistica e iden tità culturale, indifferente al trascorrere del tempo. Il suo procedere è più articolato ; anch'egli muove dall'affinità linguistica, ma della scienza del linguaggio fa tesoro di un fondamentale criterio d' indagine : riconoscere alle aree marginali del sistema le zone più tenacemente conservative. Di qui la particolare attenzione rivolta alla mitologia nordica e a quella del le disperse popolazioni caucasiche come gli Osseti. Le sue straordinarie competenze linguistiche gli permettono sempre un approccio diretto del le fonti e i prolungati soggiorni prima a lstanbul ( 1 9 2. 5 -30 ), poi a Uppsala ( 1 9 3 1 -33) gli offrono le occasioni per una sicura conoscenza dei luoghi. Ma è solo al 1 9 3 8, a due conferenze il cui testo fu poi pubblicato sulla "Revue d'histoire des religions� che Dumézil fa risalire l'acquisita sicu rezza di una vera e propria concezione indoeuropea della tripartizione: da una parte la triade Giove-Marte-Quirino, dall'altra il mito avestico dell'o riginaria organizzazione del mondo : Da Fretòn nacquero tre figli; i loro nomi erano Salm, Toz ed Eric. Egli li convocò per dire a ciascuno di essi: «Dividerò il mondo tra di voi, che ciascuno mi dica che cosa egli preferisce perché io gliela dia » . Salm domandò grandi ricchezze, Toz il valore ed Eric, sul quale era la gloria di Kavi (cioè il segno miracoloso che con traddistingue il sovrano scelto da Dio) la legge e la religione. Fretòn disse: «Che ciascuno di voi abbia quel che ha domandato>>, e dette la terra di Roma a Salm, il Turkestan e il deserto a Toz, l' Iran e la sovranità sui suoi fratelli a Eric (i vi, p. 107 ).
Dumézil è di formazione un linguista e la sorprendente affinità lessicale tra le lingue indoiraniche e il latino è senza dubbio motivo di grande sug gestione nella sua indagine : Già ho ricordato in precedenza rex ( vedico raj(an), gallico rig- ), cui molto pro babilmente bisognerebbe aggiungere il nome del sacerdote jlamen, maschile di forma neutra (vedico brdhman, neutro, e brahmdn maschile; cfr. -pers. brazman,
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neutro). Molte parole - ed è un' indicazione preziosa circa l'evoluzione precoce del pensiero romano - sono passate dall'ambito religioso a quello giuridico, na turalmente tinto pur esso di religione, e hanno conservato fin nei particolari le sfumature e le accezioni che ritroviamo in indo-iranico (Dumézil, 1977. p. 84).
Non sono tuttavia importanti le corrispondenze lessicali quanto quel che esse rivelano ; alle tre divinità iraniche fa riscontro nella Roma arcaica la triade precapitolina'. Le tre divinità e i miti a esse relativi rispecchiano un assetto sociale anch'esso tripartito : il re-sacerdote ( il governo), i guerrie ri (la difesa), i contadini (la produzione di ricchezza). Gran parte delle molte indagini di Dumézil - sulla mitologia dei popoli caucasici, degli Scandinavi, dei Celti ecc. - ribadisce questa tripartizione, che egli arriva a definire come vera e propria "ideologia" degli Indoeuropei. La tesi di Dumézil trova in Francia ampio consenso e diventa in bre ve certezza condivisa non solo tra orientalisti e linguisti, ma anche, si po trebbe dire soprattutto, tra i medioevisti; essa, infatti, dà eccellentemente conto dell'organizzazione sociale della società feudale, che è in quegli anni uno dei più importanti oggetti di riflessione della storiografìa delle ''Anna lesO: Meno efficace risulta, però, nell ' interpretazione del mondo classico. È lo stesso Dumézil a riconoscerlo ; nello stabilire una rigorosa corrispon denza tra Romani e Indoiranici, nota : Ma se noi lasciamo perdere la Grecia, dove l 'eredità indoeuropea è sicuramente scarsa, senza dubbio schiacciata sotto l'apporto delle brillanti civiltà preelleniche del mare Egeo, se lasciando perdere la Grecia e, lasciando perdere i nomi propri che, in fatto di materia religiosa, di teologia comparata, non hanno l' importanza che le viene solitamente attribuita, confrontiamo il sistema teologico dei più an tichi Romani a quello degli Indoiraniani, le analogie che si notano tra le più alte divinità degli uni e degli altri s'iscrivono in un unico contesto (Dumézil, 1992, pp. 21 s.).
L'esclusione della Grecia non può essere tuttavia così semplice. A essere estromessa è tutta la civiltà, estremamente coesa e omologa nel sistema palaziale, dell 'antico Mediterraneo e Vicino Oriente antico : Babilonesi, Egizi, Ittiri. Di questi ultimi già nel 1 9 1 7 Bedric Hrozny aveva decifrato la scrittura cuneiforme e riconosciuta l ' indoeuropeicità della lingua. 1. La triade dà anche il titolo a uno dei suoi libri più importanti, pubblicato nel 1942; cfr. anche il capitolo a essa dedicato in Dumézil (1977o pp. 143 ss.).
12.4
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All'esclusione degli antichi imperi e della polis greca dall' indagine di Dumézil si aggiunge la meno comprensibile indifferenza con la quale egli accenna alla formulazione teorica certamente più esplicita della triparti zione funzionale di una società, quella formulata nella Repubblica platoni ca, dove sotto i re-filosofi governanti stanno i guerrieri difensori della città e il popolo, contadini e artigiani produttori dei mezzi di sussistenza. Per ché Dumézil trascura Platone ? Forse perché il disegno platonico s' ispira ad altrove (Egitto ?) e non corrisponde all'organizzazione della città greca, ne è anzi l 'esatto opposto ? Ma non solo Platone, l ' intero mondo greco, tradizionalmente ritenuto portatore di una parte significativa del patrimo nio culturale dei popoli indoeuropei, è rimosso dal pur sovrabbondante catalogo duméziliano•. L'organizzazione del potere nel mondo antico non è dipendente dall'e redità razziale, ma varia a seconda delle specificità geografiche e delle ne cessità ambientali: talvolta il governo spetta al re-sacerdote, talvolta al re guerriero, talvolta a un'oligarchia di proprietari. Sulla base dell"'ideologia" indoeuropea della tripartizione funzionale si sostiene una corrispondenza dei racconti mitici alla struttura della società, quasi il mito ne fosse il riflesso e il rispecchiamento. Ma la moltitudine di questi racconti appare disomogenea e presenta non infrequenti contrad dizioni dovute, come già molti studiosi avevano notato, alla diacronicità della loro composizione e alla pluralità di scambi e contaminazioni. Dumézil preferisce, invece, evitare le commistioni, le situazioni sto riche nelle quali tende a offuscarsi il criterio discriminante della stirpe. Se è rifiutata l ' ingenua visione ottocentesca che faceva discendere ogni differenza e specificità dali' appartenenza linguistica, ciò che, attraver so l 'accattivante narrazione dei miti è costantemente ribadito è il valore dell 'appartenenza a una stirpe. Il suo accertamento definitivo della conce zione tripartita degli Indoeuropei è posto dallo stesso Dumézil nel 1 9 3 8, fondandosi sul riconoscimento della religione di Roma arcaica. l1 1 9 3 8 è 2. Il contrastato rapporto di Dumézil con Platone è analizzato da Pinotti {1998); più in generale si può dire che il rapporto di Dumézil con i Greci, troppo permeabili alle solleci· tazioni dei popoli mediterranei anari, non doveva essere di particolare empatia; si consi· deri, infatti, come egli fa cenno all'ellenizzazione di Roma: «All'epoca in cui venne fissato nella letteratura, il pantheon romano si trovava per gran parte in via di dissoluzione. La marea greca aveva sommerso tutto, distrutto il gusto e la conoscenza delle spiegazioni tradizionali » {Dumézil, 1977o p. s8 ) .
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l'anno nel quale il governo fascista, celebrando i fasti della Roma caput mundi, scopre l'arianesimo della "razza italiana': Si tratta probabilmente solo di una felice coincidenza fortuita; meno fortuita era stata nel primo dopoguerra la simpatia del giovane Dumézil per il movimento filofascista di Action Française e del grato ricordo che egli serba in vecchiaia per il suo leader Charles Maurras, cui era stato presentato dal compagno di Nor male, Pierre Gaxotte. Come negli studi così nella sua condotta personale, Dumézil seppe però sempre mostrare grande prudenza : simpatizzò sì per Action Française e per le sue manifestazioni revansciste e antidreyfusarde, ma non vi aderì formalmente ; allo stesso modo, durante la Seconda guerra mondiale, nutrì simpatia per i governanti di Vichy, ma senza prendere mai esplicita posizione. La sua eminente figura poté così perdere ogni pale se connotazione politica; ciò permise l 'esteso consenso di cui godette lo schema tripartito presso la maggior parte del mondo accademico francese, che trascurò, o finse di trascurare, ! ' anacronistica corrispondenza stabilita tra stirpe, lingua e religione che ne è il fondamento e su cui già Franz Boas aveva invitato a riflettere : Supporre che tipo, lingua e cultura siano stati in origine strettamente correlati porterebbe a supporre anche che queste tre caratteristiche si siano sviluppate più o meno nello stesso periodo e che si siano poi evolute di pari passo per un conside revole lasso di tempo. Questa ipotesi non sembra minimamente credibile (Boas, 1979. p. 28)•.
Nel 1 949 si pubblica a Parigi il Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade. L'autore è da poco stabilito in Francia e il libro, che esce con l' au torevole Prefazione di Georges Dumézil, è tradotto dall 'originale rumeno. Rumeno è, infatti, ! 'autore che, completati gli studi universitari a Bucarest, prima di diventare assistente di Nae lonescu, si reca in India per i suoi stu di sullo yoga, oggetto del suo primo libro. Coinvolto poi nel movimento delle guardie di ferro, riveste, durante la guerra, incarichi ufficiali presso le 3· Per parte sua, Saussure così annota: «L'unità di razza non può essere, in sé, che un fattore secondario e in nessun modo necessario di comunità linguistica; ma vi è un'altra unità, infinitamente più importante, la sola essenziale, che è costituita dal legame sociale: noi la chiameremo etnismo. Intendiamo con ciò un'unità poggiante su molteplici rappor ti di religione, di civiltà, di difesa comune ecc., che possono stabilirsi anche tra popoli di razza differente ed in assenza di ogni legame politico» (Saussure, 1970, p. 272).
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ambasciate di Londra prima, poi di Lisbona, dove scrive un libro di esalta zione del regime di Salazar•. Un intellettuale dal passato filonazista trova dunque riparo nella Parigi del dopoguerra e vi riceve prestigiosi riconoscimenti accademici. Anche se il suo spessore e la sua originalità di studioso sono indiscutibili, certo non dovette riuscire indifferente l'appoggio ricevuto dal suo potente prefatore. Il Trattato è per molti aspetti un libro importante, una vivace sintesi che attinge a un vastissimo patrimonio di conoscenze etnologiche e miti che, dalla simbologia astrale e vegetale alle cerimonie funerarie dell ' Estre mo Oriente, dai riti carnevaleschi alle genealogie divine greche e romane, in un quadro teorico rigorosamente definito. Eliade muove dal motivo del suo precedente saggio Le mythe de l'éter nel retour. Archétypes et répétition, scritto in rumeno tra il 1940 e il 1 945 e pubblicato in traduzione francese a Parigi nel 1949. L'eterno ritorno, la ciclicità della storia umana, cara a una lunga tradizione di pensiero, si disegna nella trattazione di Eliade essenzialmente come eliminazione del tempo e il fronteggiarsi di due grandi modelli : quello consueto della no stra quotidianità moderna e quello dell 'uomo "primitivo" che ne è in tutto l 'opposto. Al primitivo, infatti, Eliade attribuisce l 'unità primigenia, che è unità di corpo e anima, di materialità e spiritualità, di profano e di sacro ; unità a noi ormai sconosciuta e recuperabile soltanto con l ' immaginazio ne. Egli riprende i temi della riflessione di Lucien Lévy-Bruhl presenti nel la Mentalita primitiva1, ma per Eliade il primitivo non è soltanto l'alterità alla ragione, finisce col rappresentare la vera essenza celata dell'uomo, l 'u nico possibile modello di armonia universale. Al di là (o al di qua) di ogni distinzione, il primitivo si salda tutto e trova la propria spiegazione in una dimensione trascendente : 4· Sul fascismo di Eliade, dapprima ostentato poi dissimulato in un falso oblio, cfr. la documentazione in Laignel-Lavastine {2oo8). 5· « il valore eccezionale di certe opere o di certi procedimenti dei primitivi, che contrasta così fortemente con la grossolanità e il carattere rudimentale del resto della loro cultura, non è il frutto della riflessione né del ragionamento. Se così fosse, non si constaterebbero simili disparità e questo strumento universale avrebbe reso loro lo stesso servizio più di una volta. È una specie d' intuizione che ha guidato la loro mano, sorretta essa stessa da un'osservazione acuta di oggetti che presentavano per loro particolare interesse >> {Lévy Bruhl, 1966, pp. 437 s.). Sedici anni dopo tuttavia, l'autore, rimeditando sulle categorie allora impiegate, giunge a mettere in crisi la descrizione prelogica del primitivo, dettata da « un bisogno di simmetria >> {Lévy-Bruhl, 1952, p. 94).
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Mangiando o facendo l'amore, il primitivo si inserisce in un piano che non è, in ogni caso, quello della nutrizione o della sessualicà. Questo avviene canto nelle esperienze iniziali (primizie, primo acco sessuale}, come nel corso dell' incera at tività sessuale o alimentare. Possiamo dire che in queste circostanze si cracca di esperienza religiosa indistinta, scruccuralmence diversa dalle esperienze discinte rappresentate dalle ierofanie dell' insolito, dello straordinario, del mana ecc. Ma la parte rappresentata da questa esperienza nella vita dell'uomo arcaico non è per questo minore, quantunque, per la sua stessa natura, sia un'esperienza che sfugge agli osservatori (Eliade, 1976, p. 39 ).
Ciò è possibile perché la realtà vissuta non è che l ' iterazione di un modello posto fuori da ogni contingenza temporale e a cui è da riportare il senso di ogni azione. L'ateo ha un cerco senso solo nella misura in cui ripete un modello trascendente, un archetipo. Quindi lo scopo della ripetizione è di raggiungere la n o r m a l i c à dell'ateo, di legalizzarlo conferendogli così uno stato oncologico, poiché se di venta re a l e, ciò accade unicamente i n q u a n c o r i p e c e un archetipo (i vi, pp. 40 s.}.
In questo contesto, il mito assume un' importante funzione: esso è il ne cessario tramite tra la quotidianità ripetitiva e l 'evento originario, conven zionalmente collocato in un remoto passato. È ciò che trasfigura l' avve nimento in categoria; il m ito cioè spiega, nell'unicità che gli è propria, le vicende temporali che si vanno ripetendo : Ogni mi co, indipendentemente dalla sua natura, enuncia un avvenimento che av venne in ilio tempore e per questo costituisce un precedente esemplare per cucce le azioni e "situazioni" che, in seguito, ripeteranno l'avvenimento. Ogni ritua le, ogni azione che abbia un senso, eseguici dagli uomini, ripetono un archetipo micico; ora abbiamo visco che la ripetizione ha per conseguenza l 'abolizione del tempo profano e la proiezione dell'uomo in un tempo magico-religioso che non ha nulla a che vedere con la durata propriamente detta, ma costituisce !'"eterno presente" del tempo micico (ivi, p. 446).
Il mito, tuttavia, segna anche gli invalicabili limiti dell'agire umano, è il perimetro entro cui l'uomo agisce; gli è preclusa, infatti, ogni invenzione che dia un diverso senso alle sue azioni. Nel mito si rispecchia l ' incapacità di innovare, di mutare radicalmente il carattere della sua esistenza :
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Il mito ha rivelato la condizione di tutte le "creazioni" che richiedono, per com piersi, una "animazione", cioè la comunicazione diretta della vita da parte di una creatura che già la possiede; rivela nello stesso tempo l ' i m p o t e n z a d e l i ' u o m o a c r e a r e all 'infuori della propria riproduzione, che del resto in moltissime società è attribuita a forze religiose estranee all'uomo (figli venuti da alberi, sassi, acque, "antenati" ecc.) (ivi, p. 443).
C 'è qui un'estensione concettuale importante : il mito è senza alcuna re mora riconosciuto come espressione significativa della religione o, per essere più precisi, di una mistica che imprigiona la storia, ridotta a rnera sequenza di atti rnirnetici di ciò che è già stato : Nella prospettiva dello spirito moderno, il mito (e con esso tutte le altre esperien ze religiose) abolisce la "storia". [ ... ] L a s t o r i a c h e è s t a t a i n o r i g i n e deve ripetersi, perché ogni epifania primordiale è r i c c a, in altre parole non si lascia esaurire da una sola manifesta zione (i vi, p. 447 ).
Che cosa resta, dunque, dell'uomo "moderno" se non il rimpianto del pri mitivo, capace, lui sì, di vivere, indifferente allo scorrere del tempo, l 'unità indistinta dell 'atto originario ? Di fronte all 'assoluto, un termine che Elia de non può non prediligere, la modernità, che ha irrirnediabilrnente per duto l ' identità dell 'armonia universale, può serbare soltanto la nostalgia con la quale s' ingegna a foggiare le proprie presunte innovazioni: La nostalgia del Paradiso si lascia scoprire negli atti più banali dell'uomo moder no. L'a s s o l u t o non si può estirpare, può soltanto degradarsi. E la spiritualità arcaica sopravvive, a suo modo, non come a t t o, non come possibilità di reale conseguimento per l 'uomo, ma come una n o s t a l g i a creatrice di valori auto nomi: arte, scienze, mistica sociale, ecc. (ivi, p. 451).
Eliade pare riprendere nella sua argomentazione la nozione di sacro qual era stata definita trent 'anni prima da Rudolf Otto, ma opera una forte distorsione. La riflessione protestante di Otto era una risposta allo storici srno della teologia liberale del volgere del secolo; il sacro è dunque dimen sione intima della personalità del credente. In Eliade il rigore !merano si trasforma in nostalgia dell'origine, in rifiuto del nuovo, in insofferenza per ogni mediazione sociale e politica e, di conseguenza, per ogni diversità ; la rivelazione del divino, la teofania, diventa mistica dell ' irrazionale, dell'oc cultisrno e della magia, e il mito l 'estrinsecarsi di questa mistica.
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Ma sotto la mite apparenza del misticismo traspaiono una sprezzante violenza intellettuale e un reciso rifiuto di ogni dialettica pluralista che spiega il grande seguito raccolto tra i dispersi ma ben conservati ambienti dell'estrema destra europea nella seconda metà del secolo, quando il clima della Guerra fredda ridà spazio e voce al più rigido tradizionalismo (cfr. Jesi, 1 9 9 3 ; su Eliade, in particolare pp. 3 8 ss.). La nostalgia dell 'assoluto ri schia così di confondersi con quella dell 'assolutismo totalitario che aveva tentato di soggiogare l ' Europa. Nel 1 9 5 8, solo dieci anni dopo il Trattato di Eliade, è pubblicata un'ope ra che segna una svolta decisiva anche nello studio del mito, l'Antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss. Con essa lo schema dicotomico di bipo larità strutturale, che aveva rinnovato radicalmente la linguistica, è esteso all' indagine antropologica. Le unità costitutive del mito, i mitemi, sono riconosciute in fasci di relazione isolabili, ma è nella forma della loro com binazione che esse, come i fonemi, acquisiscono una funzione significante. Tre anni prima, Lévi-Strauss aveva pubblicato il racconto delle sue gio vanili esplorazioni in Brasile, Tristi tropici, in cui troviamo una riflessione sulla contraddittoria posizione dell'antropologo : Sarebbe stato meglio arrivare a Rio nel XVI I I secolo con Bougainville, o nel XVI con Léry e Thevec ? Ogni lustro ali' indietro permette di salvare un 'usanza, guada gnare una festa, partecipare a una credenza di più. Ma conosco troppo i cesti per non sapere che, cogliendomi un secolo, rinunzio nello stesso momento a informa zioni e curiosità che arricchiscono il mio pensiero. Ed ecco davanti a me il cerchio chiuso : meno culture umane erano in grado di comunicare fra loro, e quindi di corrompersi a vicenda, meno i loro rispettivi emissari potevano accorgersi della ricchezza e del significato di quelle differenze (Lévi-Scrauss, 1988, p. so).
Tristi tropici è insieme un diario di viaggio, un taccuino di riflessioni e uno squarcio di autobiografia, un libro nel quale, alla già sicura competenza dell'antropologo si aggiunge la vigile attenzione dell'osservatore e scopri core dello spessore storico dei paesaggi esotici visitati e delle condizioni umane (disumane ?) delle popolazioni oggetto delle indagini6• Tristi tro6. «Si considerano generalmente i viaggi come degli sposcamenti nello spazio. È troppo poco. Un viaggio s' inserisce simultaneamente nello spazio, nel tempo e nella gerarchia sociale » (Lévi-Scrauss, 1988, p. 97). Una lettura particolarmente interessante del libro è quella di Geertz, Il mondo in un testo. Come leggere "Tristi tropici "(Geertz, 1990, pp. 33 ss.).
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pici sembra essere per molti versi un efficace controcanto al rigore quasi geometrico degli scherni e delle tabelle ai quali Lévi-Strauss amerà ridurre i miti studiati. Si rilegga anche solo questo breve appunto, segnato di notte, egli ricorda, al lume di una lampadina tascabile : Il visitatore che per la prima volta si accampa nella boscaglia con gli indios è pre so dall 'angoscia e dalla pietà di fronte allo spettacolo di questa umanità così to talmente indifesa; schiacciata, sembra, contro la superficie di una terra ostile da qualche implacabile cataclisma, nuda e rabbrividente accanto a fuochi vacillanti. Egli circola a tastoni fra la sterpaglia, evitando di urtare una mano, un braccio, un torso di cui s' indovinano i caldi riflessi al chiarore dei fuochi. Ma questa miseria è animata da bisbigli e da risa. Le coppie si stringono nella nostalgia di una unità perduta; le carezze non s'interrompono al passaggio dello straniero. S ' indovina in tutti una immensa gentilezza, una profonda indifferenza, una ingenua e deli ziosa soddisfazione animale, e, mettendo insieme tutti questi sentimenti diversi, qualche cosa che somiglia all 'espressione più commovente della tenerezza umana ( ivi, p. 3 1 6).
Nella primavera del 196o all'eminente antropologo, accolto da un anno nel Collège de France, tocca un imprevisto incontro : nei "Cahiers de l ' Ins titut de Science éconornique appliquée" appare un suo saggio, La strut tura e laforma, sottotitolato Riflessioni su un 'opera di Vladimirfa. Propp. Propp. professore di etnologia all ' Università di Leningrado, non è a quel tempo molto noto, almeno in Occidente. La sua Morfologia della fiaba, infatti, pubblicata a Leningrado nel 1 92.8, non aveva goduto di particolare fortuna al suo apparire. Concepito nell 'acceso clima del formalismo slavo degli anni Venti, il libro appare in un ambiente culturale completamente mutato, di insofferenza del regime staliniano per ogni divergente novità culturale; ha, perciò, scarsa diffusione e non sarà tradotto in alcuna lingua straniera fino alla versione inglese di una casa editrice accademica america na nel 1 9 5 8, la versione appunto che può leggere Lévi-Strauss. Per il maestro dello strutturalismo il libro di Propp è una sorpresa : Ciò che colpisce innanzitutto nell'opera di Propp è il vigore delle anticipazioni sugli sviluppi che dovevano prodursi. Quelli di noi che hanno intrapreso l'anali si strutturale della letteratura orale intorno al 1950, senza conoscenza diretta del tentativo di Propp. anteriore di un quarto di secolo, vi ritroveranno non senza stupore formule, talvolta persino intere frasi, che tuttavia sanno di non aver preso da lui {Lévi-Strauss, 1966b, p. 179 ).
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Lévi-Strauss non si limita a quest 'omaggio, ma espone con attenta preci sione i passaggi della ricerca di Propp. prima di notare come l'approccio meramente formale alla fiaba finisca col limitare le possibilità euristiche, impedendo di comprenderne compiutamente il significato. Lo scritto di Lévi-Strauss viene a propria volta tradotto per essere pubblicato qualche anno dopo dall'editore italiano in appendice alla traduzione del libro di Propp, ed è lo stesso Propp, su richiesta dell'editore, ad accettarne l' inclu sione nel volume e a farla seguire da una propria replica. Si giunge così a una vera disputa tra i due studiosi. Il Propp che replica a Lévi-Strauss non è però il semisconosciuto autore del libro del 192.8, ma uno studioso or mai ben noto in Occidente grazie all' impetuoso sviluppo della linguistica strutturale e della narratologia dei tardi anni Sessanta. Più della polemica teorica, che rischia di risolversi in un astratto gioco di definizioni, giova tuttavia considerare i modi effettivi della loro ricerca. E la partita si può giocare ancora sul mito di Edipo. Nel capitolo La struttura dei miti dell ' Antropologia strutturale, prima di analizzare la struttura dei miti dei Pueblo, Lévi-Strauss si concede una quasi digressione esplicativa, nella quale non è difficile scorgere un ammic camento al dettato freudiano : Prendiamo come esempio il mito di Edipo, che offre il vantaggio di esser noto a cucci e quindi dispensa dal racconcarlo. Cerco questo esempio non si presta bene a una dimostrazione. Il mito di Edipo ci è giunto in redazioni frammentarie e tardive, che sono cucce crasposizioni letterarie, più ispirate da un intento estetico o morale che dalla tradizione religiosa o dall'usanza rituale, seppure simili preoc cupazioni siano mai esistite in proposito. Ma non si cracca per noi di interpretare il mito di Edipo in maniera verosimile, e meno ancora di offrirne una spiegazione accettabile per lo specialista. Vogliamo solo servircene per illustrare - senza trarre conclusione alcuna per quel che lo concerne - una cerca tecnica, il cui impiego non è probabilmente legiccimo in questo caso particolare, a causa delle incertezze che abbiamo menzionato. La "dimostrazione" va dunque incesa, non nel senso che lo scienziato dà al termine, ma al massimo nel senso del venditore ambulante, il cui scopo non è quello di ottenere un risultato, ma di spiegare, il più rapidamen te possibile, il funzionamento della macchinetta che cerca di vendere ai babbei (Lévi-Scrauss, 1966a, pp. 2.38 s.)'.
7· Non meno ironica la conclusione: « Quale significato finisce dunque con l'avere il mito di Edipo così interpretato "all'americana"?» (Lévi-Scrauss, 1966a, p. 2.42.).
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La lettura, anzi la « manipolazione >> che egli ne fa è simile a quella di una «parti tura d'orchestra >> : i segmenti del racconto vengono disposti su una pluralità di righe che ne segnano la successione narrativa, ma sono inco lonnati a seconda dei diversi caratteri, producendo un effetto di spartito. Sono proprio i caratteri che interessano a Lévi-Strauss, il quale ne indivi dua quattro fondamentali: « i rapporti di parentela sopravvalutati >> ( ince sto, amore sororale), «i rapporti di parentela sottovalutati >> (parricidio, fratricidio), i mostri (drago, sfinge), le deformità fisiche (zoppia di Lab daco, deformazione dei piedi di Edipo). I quattro caratteri si dispongono secondo due coppie oppositive, più evidente la prima (sopravvalutazione vs sottovalutazione dei vincoli parentali), meno evidente la seconda ; Lévi Strauss tuttavia stabilisce una corrispondenza oppositiva tra la « negazio ne di autoctonia >> (mostri vinti dagli uomini) e la «persistenza dell'au toctonia >> (la deformità). Ed è proprio in questa seconda opposizione che egli riconosce il significato del mito di Edipo: Esso esprimerebbe l' impossibilità, in cui si trova una società che professa di cre dere nell'autoctonia dell'uomo (si veda ad esempio Pausania VIII, X X I X , 4: il ve getale è il modello dell'uomo), di passare da questa teoria al riconoscimento del fatto che ciascuno di noi è realmente nato dall 'unione di un uomo e di una donna ( ivi, p. 242).
Come si vede, per Lévi-Strauss il mito di Edipo non è solo quello rappre sentato nella tragedia di Sofocle, ma si estende a tutta la saga tebana a noi tramandata, da Cadmo a Eteocle e Polinice. A esso non è posto alcun limite : Il metodo ci libera quindi da una difficoltà che ha costituito sin ora uno dei prin cipali ostacoli al progresso degli studi mitologici, ossia la ricerca della versione autentica o primitiva (i vi, p. 243 ).
Un ampliamento, seppur diverso, lo troviamo nell' indagine di Propp. che s' imbatte in Edipo nel corso della sua riflessione narratologica tra la Mor fologia dellafiaba e le Radici storiche dei racconti difate ( 1 946)8• Il saggio è pubblicato nel 1 944 e rilegge l ' Edipo, anzi gli Edipi sofoclei, in un ampio quadro etnologico : «Nella tradizione europea >> , egli annota, « si ha non soltanto l'Edipo re, ma anche l'Edipo a Colono >> (Propp. 1 9 75· p. 8 9 ) . 8 . Sono quattro saggi riuniti con i l consenso dell'aurore nella traduzione italiana (Propp. '97s).
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L a vicenda del parricida incestuoso ricorre, infatti, più volte nella nar rativa medioevale con finali contrastanti: Giuda espia la sua colpa seguen do Gesù, ma poi il tradimento lo conduce a una morte infame ; le vicende di Andrea di Creta, note a tutte le popolazioni slave orientali, portano in vece alla finale santificazione, e così è anche per papa Gregorio, protagoni sta della leggenda occidentale ripresa nell'Eletto di Thomas Mann. Questi confronti ci inducono a non considerare Edipo re una storia in sé conclusa, ma la drammatizzazione di un segmento di una vicenda più complessa che può condurre il reietto ad acquistare fisionomia e statura di nume tutelare. Come Lévi-Strauss, anche Propp scompone il racconto in diversi mo menti. Egli, tuttavia, non dà assoluta preminenza all' incesto : incestuoso è Edipo. non incestuosi però, ma frutti di un incesto, sono alcuni degli altri personaggi considerati (Gregorio, Albano); l 'esposizione del bambino tro va riscontro in molti altri racconti di eroi fondatori (Mosè, Ciro, Romo lo) : essa segna l'allontanamento iniziatico del giovane che prelude al suo reingresso nella società che dominerà ; il mostruoso avversario che egli deve battere ed eliminare, la sfinge, è anch'esso ricorrente perché costituisce la prova che l'eroe deve superare per giustificare la propria affermazione. Per Freud il parricidio è strumentale all' incesto : il bambino desidera eliminare il rivale per prendere il suo posto e unirsi alla madre ; per Propp il vero fuoco della narrazione è, invece, proprio l 'uccisione del padre. I numerosi confronti che egli stabilisce con la tradizione fiabesca e soprat tutto il paradigma evolutivo della vicenda possono essere discutibili, ma la priorità data al parricidio trova diretto riscontro nella teogonia greca. Da Urano a Crono e a Zeus, la successione del potere avviene sempre con l 'eliminazione violenta del genitore. Anche quella di Laio non è solo l'uc cisione di un padre, ma quella di un re ; tutta la storia di Edipo è una storia regale, fa esplicito riferimento alla trasmissione del potere : Giocasta è la regina e chi possiede lei possiede il regno. Propp non manca di richiamare le ricerche di Frazer che hanno fatto chiara luce sui meccanismi anche cruenti della successione regale, ma distin gue due « apoteosi >> di Edipo : la prima, temporanea, con l'acquisizione del regno di Tebe, la seconda, definitiva, che segue lo « smascheramento >> , con la sua consacrazione a nume tutelare dell'Attica che lo ha accolto e protetto (Propp. 1975, pp. 12.6 ss.). Due tratti importanti sono comuni alle ricerche dei due studiosi: la sud divisione della storia in una molteplicità di segmenti - i mitemi in Lévi-
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Strauss, le funzioni in Propp -, e uno spettro molto ampio di confronti, che oltrepassa i limiti del!' ambiente culturale dal quale il mito è tratto. Lévi-Strauss si dichiara d'accordo con Propp anche su un altro pun to, che ha contraddittoriamente appassionato non pochi cacciatori di de finizioni: Propp ha ragione. Non v 'è alcun motivo fondato per isolare le fiabe dai miti, benché una differenza tra i due generi sia avvertita soggettivamente da un gran numero di società; benché questa differenza si esprima obiettivamente median te termini speciali impiegati per distinguere i due generi; benché infine venga no talora collegati all'uno e non all'altra prescrizioni e divieti (recitazione dei miti a ore determinate o solo in una data stagione, mentre le favole, per la loro natura "profana", possono essere narrate in qualsiasi momento) (Lévi-Strauss, I966b, P· 1 8 0 ).
Propp tuttavia non è perfettamente d'accordo con Lévi-Strauss; vi è un processo evolutivo di cui occorre tener conto : Là dove favola e mito si fondano su un identico sistema, questo è sempre più an tico di quella, come può essere dimostrato ad esempio dalla storia dell' intreccio dell' Edipo sofocleo. Neii' EIIade questo è un mito ma nel medioevo l' intreccio acquista un carattere sacrale cristiano e il protagonista ne diventa il grande pecca tore Giuda o uno dei santi quali Gregorio o Andrea di Creta o Albano, che con la loro virtù si redimono da una grande colpa. Ma quando l'eroe perde il suo nome e il racconto perde il suo carattere sacrale, mito e leggenda si trasformano in favola (Propp. 1966, pp. u4 s.).
In un breve articolo, pubblicato nel 1 946 in una miscellanea accademica, aveva scritto : Tutto quello che siam venuti fin qui dicendo ci permette di riassumere le nostre tesi e di dire : per folclore s' intende la creazione degli strati sociali inferiori di tutti i popoli, a qualunque livello di sviluppo essi si trovino. Per quel che riguarda i popoli anteriori alla divisione in classi, per folclore s' intende la creazione di tutto il loro insieme (Propp. 1975, pp. 144 s.).
Il mito si degrada a fiaba, venendo ad appartenere al folklore, quando la società diventa complessa e si divide in classi, stabilendosi di conseguenza una differenza culturale tra una classe superiore e una subalterna; la fiaba può dunque considerarsi la memoria e quasi la nostalgia del mito.
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È, questo, un discorso assai diverso da quello cui ci ha assuefatti la considerazione di un Propp imprigionato dalle letture strutturalistiche in un'asettica acronia. Importante è la distinzione tra società semplici, nelle quali le differenze non danno luogo a insanabili contraddizioni, e società complesse, articolate in forti stratificazioni sociali; tendenzialmente stati che le prime, dinamiche le seconde, nelle quali anche le medesime storie tradizionali possono variare di significato secondo il mutare dell'assetto della società. Un occhio non di rado attento a queste variazioni è quello di Jean Pierre Vernant, il cui percorso intellettuale, nella vivacissima Parigi dei primi decenni seguenti alla Seconda guerra mondiale, si rivela di parti colare interesse. Nell'ampio lavoro con il quale egli, già ben affermato, conclude la sua terza raccolta di saggi dedicata al mito, rende pieno riconoscimento al ma gistero di Dumézil e di Lévi-Strauss, e ne offre sinteticamente quello che a suo parere è il valore essenziale : Con G. Dumézil il terreno è dunque libero per un'analisi che rispetti a tutti i livel li la specificità del mito, che l'affronti dali' interno, prendendo in considerazione il corpus dei testi come un universo oggettivo che bisogna trattare in sé e per sé, poiché i riferimenti al contesto hanno la funzione d'individuare o d' illuminare i valori semantici di certi elementi del racconto, non di ridurre l' insieme del mito a un ordine di realtà che gli sarebbe esterno ed estraneo, che si tratti di pulsioni affettive, di pratiche rituali, di fatti storici, di strutture sociali o di un'esperienza dell'assoluto (Vernant, 1981, pp. 236 s.). Che si accetti o si respinga questo punto di vista mettendo in dubbio la perti nenza, nel caso del mito, del modello strutturalista dei due assi paradigmatico e sintagmatico - o più generalmente la validità di un trasferimento puro e semplice degli schemi linguistici alle strutture del mito (che non è una lingua ma un modo di usare un linguaggio già costituito) -, si sarà d'accordo nel riconoscere che né sul piano della teoria né su quello del lavoro concreto di decifrazione la situa zione è rimasta, dopo Lévi-Strauss, quella ch'era precedentemente. Il suo lavoro segna una svolta e un punto di partenza. Per i suoi avversari come per i discepoli e per coloro che lavorano su una strada parallela, la ricerca mitologica non si trova confrontata soltanto con nuove questioni; non è più possibile porre negli stessi termini i vecchi problemi ( ivi, p. 243).
Il giudizio di Vernant, in procinto di entrare anch'egli al Collège de Fran ce, appare particolarmente significativo proprio perché la sua formazione
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intellettuale e professionale aveva percorso altre strade. Dopo l ' impor tante esperienza di comandante partigiano, il trentenne Vernant, finita la guerra, è a Parigi e unisce ali' insegnamento liceale il lavoro con Ignace Meyerson alla redazione della "Revue de Psychologie': Di Meyerson, Ver nant si riconoscerà sempre allievo e continuatore nello studio della psi cologia storica, ma accanto alla sua figura è da ricordare quella di Louis Gernet, un inconsueto ellenista amico di Meyerson, attento all' intreccio dei diversi piani che costituiscono la vita sociale di un popolo9. L'approccio di Vernant, filosofo di formazione, all'antica Grecia si svolge all'ombra di questi due maestri ed è un approccio del tutto origi nale, che sa scoprire le tracce della psicologia storica nel mito. I suoi primi studi sulla Grecia ruotano intorno a una precisa questione storica: quale valore aveva per i Greci il lavoro ? Gli studi che compongono la quarta sezione (l/ lavoro e il pensiero tec nico) di Mito e pensiero presso i Greci sono, in realtà, i primi di tutto il vo lume e risalgono alla metà degli anni Cinquanta. La scelta del tema e della figura mitica che meglio lo definisce, Prometeo, per il giovane intellettuale di sinistra, era, si può dire, quasi obbligata: Prometeo, secondo una conso lidata tradizione culturale, rappresenta l 'eroe del progresso, il portatore di civiltà, l'uomo libero in rivolta contro l 'assolutismo del potere. Ma l 'esito delle riflessioni di Vernant non sembra confortare le attese : Dall 'agricoltura al commercio, non troviamo, in Grecia, un tipo di condotta unico, il lavoro, ma delle forme d'attività che ci so n parse organizzarsi secondo rapporti quasi dialettici. Già ali' interno dell 'agricoltura si delinea un 'opposizione tra l'effetto della fecondità naturale della terra e lo sforzo umano dell 'agricoltore. Ma, prese nel loro insieme, le attività agricole contrastano con le operazioni degli artigiani come una produzione naturale con la fabbricazione tecnica. A loro volta, le opere fabbricate dagli artigiani s'allineano con i prodotti del suolo in questa economia naturale conforme all'ordine immutabile dei bisogni: contrariamente alle manipolazioni del denaro, che hanno solo valore di convenzione, I' operazio ne artigianale fa anch'essa parte della natura. Dunque, nelle attività degli agricoltori e degli artigiani I' aspetto umano del la voro si trova più o meno delineato, ma mai interamente individuato. In generale :
9· Alle figure dei due studiosi e ai rapporti con essi di Vernant è dedicato l'utilissimo libro di Riccardo Di Donato, Per una antropologia storica del mondo antico (Di Donato, 1990 }, completato documentariamente dal successivo Per una storia culturale dell'antico (Di Donato, 1013).
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I 'uomo non h a l a sensazione d i trasformare l a natura, m a piuttosto d i conformarsi ad essa ( Vernant, 1978, pp. 307 s. ) .
Altrettanto problematiche le conclusioni cui egli arriva nella considera zione degli dei olimpici, i grandi protagonisti della mitologia greca. De finiti "dei personali� essi mantengono tuttavia una funzionalità primitiva che impedisce di considerarli persone nel senso che noi diamo al termine : Il pantheon greco s'è costituito in un'età del pensiero che ignorava l'opposizione tra soggetto umano e forza naturale, che non aveva ancora elaborato la nozione d 'u na forma d'esistenza puramente spirituale, d'una dimensione interiore dell'uomo: gli dei ellenici sono delle Potenze, non delle persone. Il pensiero religioso risponde ai problemi d'organizzazione e di classificazione delle Potenze : distingue diversi tipi di poteri soprannaturali, con la loro dinamica propria, il loro modo d'azione, i loro campi, i loro limiti; ne considera il gioco complesso: gerarchia, equilibrio, opposizione, complementarità. Esso non s'interroga sul loro aspetto personale o non personale. Certo, il mondo divino non è composto di forze vaghe ed anonime, fa posto a figure ben delineate, ciascuna delle quali ha un nome, uno stato civile, i suoi attributi, le sue avventure caratteristiche; ma questo non basta a costituirlo in un insieme di soggetti singolari, di centri autonomi d'esistenza e d'azione, di unità ontologiche, nel senso che diamo noi alla parola "persona" ( ivi, p. 3 6 9 ) .
L' indagine di Vernant parte dalla rivisitazione del mito e passa alla con siderazione dell'organizzazione sociale, della quale il mito fu in qualche modo specchio. Lo studioso non rifiuta, infatti, il modello tradizionale di successione riassunto nella formula Vom Mythos zum Logos; il mito deve perciò apparire provvisto di una propria importante concettualità e la sua interpretazione illuminare la struttura originaria della società, le dinami che che, sottendendola, continuano a regolarla. Su questa memoria antropologica del racconto mitico si costruisce il complesso percorso della ricerca vernantiana ; così, nella coppia oppositiva Hermes/Hestia non gli è difficile riconoscere la complementarità opposi tiva di maschio/femmina, sfera sociale/sfera domestica: Né Hermes né Hestia, infatti, possono essere posti isolatamente. Essi assumono le loro funzioni sotto forma di una coppia: l'esistenza dell 'uno implica l'esisten za dell 'altro, alla quale essa rinvia come alla sua necessaria contropartita. Di più: questa complementarità stessa delle due divinità presuppone, in ciascuna di esse, un'opposizione o una tensione interna che conferisce al loro personaggio divino un carattere fondamentale di ambiguità ( ivi, p. 170 ) .
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Lo spessore concettuale non toglie tuttavia alla narrazione del mito il suo fascino dell'essere appunto narrazione. Vernant non separa il mito dall'e spressione poetica che lo trasmette, non distingue cioè tra la vicenda in sé, quale si può immaginare essa fosse primitivamente ricordata, e l 'elabora zione narrativa di chi ce la racconta. Così l'ambiguità dell ' interdipenden za di Hermes e Hestia è riportata al mito, come le innumerevoli ambigui tà, che l'attenta lettura vernantiana dell'Edipo re mette in luce, tendono a scivolare dalla composizione drammaturgica di Sofocle alla figura stessa di Edipo e alla più remota struttura del racconto, sì che, a dispetto delle precisazioni filologiche dello stesso Vernant, l ' incestuoso parricida della tradizione e il raziocinante sovrano sofocleo finiscono col sovrapporsi e identificarsi. È questa la potenza dell ' interprete che sa immedesimarsi nell 'antico racconto e farlo proprio. Un fascino e una potenza che erano anche dell'uomo ; straordinaria, in fatti, fu la sua energia di promotore e di organizzatore : il centro da lui fon dato, intitolato dopo alcuni anni a Louis Gernet, cui tra gli altri dettero il loro prezioso contributo Pierre Vidal-Naquet, Marcel Detienne e Nicole Loraux, costituì un insostituibile punto di riferimento per tutti coloro, non solo in Francia, che tentarono nuovi percorsi nello studio dell ' imma ginario degli antichi Greci.
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Scrittori e mito
Il titolo del saggio di Camus - Il mito di Sisifo. Saggio sull'assurdo - non lascia dubbi, a tutti è nota la sorte di Sisifo, il suo vano sforzo di trascinare in cima all'erta la grossa pietra che ogni volta gli ricade indietro. Simbolo dell' inanità dell'azione lo intende anche lo scrittore, sebbene scopra in que sto testardo impegno la coerenza dello spirito e, quindi, un motivo di sod disfazione pur nel vano tentativo. In realtà un vero e proprio mito, una sto ria di Sisifo, i Greci non ce l 'hanno lasciata. In Omero il suo nome compare nell'elenco dei condannati all'Ade, ma senza che sia fatto cenno alla colpa che questa pena dovrebbe espiare ; al contrario, Sisifo è ricordato tra i più antichi uomini di grande ingegno e, come Dedalo, maestro dell' intelligen za umana. Perciò non sembra inverosimile l ' interpretazione già considerata di Reinach: la pena infernale, errata spiegazione, affermatasi già in tarda età arcaica, di un' immagine ricorrente quanto enigmatica. L'uomo che spin ge sul monte la grossa pietra non era, come si è già notato, che la rappre sentazione dell'eroe costruttore impegnato nell'erezione del Sisypheion, il grande edificio che avrebbe perpetuato lo splendore del personaggio e i cui ruderi restavano ancora in epoca storica presso l'Acrocorinzio. Il ricorso di Camus al nome di Sisifo non è strano. La m itologia, la m itologia greca in particolare, ritorna non di rado anche nella lettera tura del Novecento ; i nomi degli dei - Apollo, Afrodite, Atena - e de gli eroi - Edipo, Achille, Medea - noti fin dall ' infanzia, si propongono come sicuro termine di riferimento per un discorso persuasivo ; in questo il loro uso non appare molto differente dal travestimento in costumi mi tici dei personaggi da celebrare nella pittura e nella scultura del Sei e del Settecento'. 1. Una rassegna della riproposizione nella letteratura europea di alcune tra le più note ligure del mito greco è offerta da Susanetti (2oo;).
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Ma il mito greco più noto, che fino a pochi anni fa muoveva la fantasia degli scolari di seconda media, è senza dubbio quello della Guerra di Troia. Oltre alla galleria di figure diventate presto familiari - Achille, Ettore, Agamennone, Enea - la guerra offre molti tratti che facilmente si presta no a un'attualizzazione, a una sua lettura simbolica. Considererò qui in breve due opere che ne rappresentano le vicende e i personaggi: La guerra di Troia non sifarà di Jean Giraudoux e Cassandra di Christa Wolf. A se parar! e c 'è circa mezzo secolo e, soprattutto, la Seconda guerra mondiale, che ne è il comune termine di riferimento. Giraudoux rappresenta il suo dramma alla fine del 1 9 3 5 , quando l'affer mazione del nazismo in Germania fa intendere come immanente, se non imminente, lo spettro di una nuova guerra paneuropea. La Troia rappre sentata appare divisa : dopo il ratto di Elena c 'è chi, come Paride e il vecchio Priamo, respirano già l 'aria tonificante della battaglia e chi - Ettore e tutti i personaggi femminili - paventano nuove inutili stragi. L'anacronismo è evidente, ma a Giraudoux, persona direttamente impegnata nei difficili giochi diplomatici, non importa certo una scrupolosa ricostruzione stori ca; il titolo stesso del dramma può intendersi come disperata invocazione di fronte al pericolo incombente. Il clima europeo del resto, che ha già fa vorito l 'aggressione italiana all ' Etiopia, le turbolenze spagnole e, sei mesi dopo, favorirà la costituzione del fronte popolare in Francia, non appare certo promettere la pace, ma induce ad avvertire nuovi più gravi sconvol gimenti. Nel dramma di Giraudoux, invece, il partito della guerra a Troia sembra essere sconfitto : Ulisse, il plenipotenziario dei Greci a trattare la restituzione di Elena, è propenso alla pace ; non dai capi però dipendono le sorti dei popoli. È egli stesso a spiegarlo nell 'ultimo colloquio con Ettore : Siete giovane, Ettore ! ... È cosa nota che alla vigilia di una guerra i due capi dei popoli in lizza si incontrino soli in un villaggio innocente, su una terrazza prospi ciente un lago o nel cantuccio di un giardino. Ed essi concordano nel dire che la guerra è il peggiore dei flagelli; e tutti e due, seguendo con gli occhi i riflessi e le increspature delle acque, ricevendo sulle spalle i petali delle magnolie, si sentono pacifici, modesti, leali. E si studiano. Si guardano. E penetrati dal sole, inteneriti da un vinello chiaro, non riscontrano nel viso a fronte un sol tratto che susciti odio, o che anzi non riscuota l'amore; e neppure nulla d' incompatibile scorgono nei loro idiomi differenti, o nel loro modo di grattarsi il naso o di bere. E sono veramente ricolmi di pace; di desideri di pace. E si lasciano stringendosi le mani e sentendosi fratelli. E si rigirano ancora dai loro calessi per sorridersi... E tuttavia il domani scoppia la guerra. Così siamo noi due in questo momento ... Attorno al
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colloquio i nostri popoli si sono scostati e tacciono; ma questo non significa che essi attendano da noi la vittoria sull ' ineluttabile. Essi ci hanno conferito pieni poteri, ci hanno isolati, ma soltanto affinché, di sopra alla catastrofe, gustassimo meglio la nostra fraternità di nemici. Gustiamola: è un piatto da ricchi. Assaporia mola ... Di più non possiamo. È privilegio dei grandi mirare le catastrofi dall'alto di una terrazza ( Giraudoux, 1945, p. 78).
Anacronistica, certo, la rievocazione di Giraudoux ; ma anacronistiche già erano state, a ben considerare, non poche rappresentazioni di grande effetto degli stessi antichi, come ad esempio le Troiane euripidee con la spartizione delle donne troiane trascinate in schiavitù. Più intenso è certo il lavoro sul mito di Christa Wolf. Siamo nel 1 9 83, in un anno di particolare tensione della Guerra fredda e del conseguente irrigidimento del regime della D D R. Come spiega la stessa scrittrice nella terza delle cinque conferenze tenute a Francoforte e in seguito pubblicate con il titolo Voraussetzungen einer Erzahlung: Kassandra, il suo approccio al mito non è semplice. La ricerca di Cassandra inizia con un viaggio in Grecia, nella Grecia del 1 98o, cinque anni dopo la fine della dittatura dei colonnelli. Ciò non può sorprendere perché la ricerca di Cassandra ha tut ti i caratteri di un' indagine storica: Cassandra visse tra due catastrofi: l'eruzione vulcanica di Tera/Santorini intorno al 1500 e l ' invasione dei Dori ( popoli nordici e del mare ) intorno al 1 200. In que sto periodo, circa alla metà del dodicesimo [sic] secolo la sua catastrofe personale : la caduta di Troia ( Wolf, 2008, p. 142).
Il mito è affrontato da Wolf intrecciando la visione marxista del grecista inglese George Thompson con quella, assai diversa, di un grande scritto re colto nel suo dialogo con un antichista, nel carteggio cioè tra Thomas Mann e Karl Kerényi. Scrive Mann in quell'occasione : Per parte mia sono lieto di vedere con quanto zelo e con quanta commozione sono ancora capace di leggere quando mi trovo davvero nel mio elemento; e quale dovrebbe essere ora il mio elemento se non il mito aggiunto alla psicologia? Da un pezzo sono un amico appassionato di questa combinazione poiché di fatto la psicologia è il mezzo per strappar di mano il mito agli oscurantisti fascisti e "tran sfunzionarlo" in umanità ( Kerényi, Mann, 1960, p. 83).
L' incontro di mito e autobiografia non ha, invece, alcuna valenza ironica in Christa Wolf:
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A Troia, ne sono sicura, la gente non era diversa da quel che siamo noi. I loro dei sono i nostri dei, i falsi. Soltanto il nostro ambiente non è il loro (Wolf, 2008, p. 130).
Come Cassandra, la scrittrice si sente dalla parte dei dominati, non dei dominatori; essa vede, inoltre, un' immanente catastrofe nucleare, come la veggente Cassandra vede la fine del suo mondo. In Cassandra la conquista di Troia si è già conclusa e le prigioniere troiane sono state assegnate cia scuna a un diverso padrone greco. La sorte che attende Cassandra è però più crudele : sarà uccisa con Agamennone da Clitennestra a vendetta del sacrificio di Ifigenia. Il racconto si apre proprio con l'attesa della prigionie ra alle porte di Micene : Ecco dove accadde. Lei è stata qui. Questi leoni di pietra, ora senza cesta, l 'hanno fissata. Questa fortezza, una volta inespugnabile, cumulo di pietre ora, fu l'ultima cosa che vide. Un nemico da tempo dimenticato e i secoli, sole, pioggia, vento, l'hanno spianata. Immutato il cielo, un blocco d'azzurro intenso, alto, distante. Vicine, oggi come ieri, le mura ciclopiche che orientano il cammino: verso la por ca dal cui fondo non Aocca più sangue. Nelle tenebre. Nel macello. E sola (Wolf, 1984· P· •9).
È in quest 'attesa che riemerge il suo passato : i luoghi, le azioni, i personag gi. Nel tempo concentrato che precede la morte e che lei, profetessa ina scoltata, rivede dinanzi a sé, si agita una moltitudine di personaggi, alcuni desunti dalla tradizione poetica ed enciclopedica, altri di libera invenzio ne, essenziali tutti a definire col dovuto rilievo la figura della protagonista. Il tempo dell'azione diventa il suo : può apparire più denso o più rarefatto, ma è sempre governato dalla sua inquieta veggenza. Qui si compongono in una coerente rievocazione i segmenti di una narrazione ricostruita dai racconti dispersi nei canti epici e nelle tragedie. Per la veggente Cassandra, tuttavia, non è solo memoria, è visione ricorrente : la diacronia degli eventi pare riassumersi in un'essenziale simultaneità; così suggerisce l'alternarsi di passati e presenti nella scrittura. A rendere più drammatica la rievocazione della fine della città sta l' ac quisita certezza di Cassandra che non Elena, ma, secondo già la variante antica, solo il suo fantasma sia stato rapito da Paride. La promessa di Afro dite si rivela perciò falsa. Ma a far presagire la catastrofe non è tanto l ' in ganno divino, quanto la consapevolezza della profetessa dell ' ininterrotta catena di lutti che ha caratterizzato la storia di Troia:
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Ma come avevano potuto dimenticare così rapidamente ciò che anche loro ave vano appreso in grembo alle madri e alle nucrici: che la catena degli eventi funesti per la nostra città si perdeva nella notte dei tempi, distruzione ed edificazione e nuova distruzione, sotto il governo di re che si avvicendavano, per lo più senza fortuna. Che cosa li induceva, che cosa induceva noi tutti a sperare che proprio questo re, proprio mio padre Priamo avrebbe spezzato la catena delle sventure; proprio lui avrebbe ripristinato per loro, per noi, l'età dell'oro ? Perché proprio i desideri che si fondano su errori, acquistano su di noi tanto potere ? In seguito non se la sono mai tanto presa con me quanto per il mio rifiuto ad abbandonarmi al fatale entusiasmo dei loro desideri. A causa di questo rifiuto, non a causa dei greci, persi padre, madre, fratelli, amici, il mio popolo ( ivi, pp. 5 2 s. ) .
Ma la visione di Cassandra non è soltanto contemplazione, è drammatica partecipazione agli eventi. Così è descritta la sua reazione allo spavaldo annuncio di Paride che, ignaro dell ' inganno della dea, rivendica il dono di Afrodite : Mai prima di allora nel palazzo di Troia aveva regnato un silenzio simile. Ognu no sentì che un limite, rispettato fino ad allora, in quella circostanza fu violato ... A nessun membro della nostra famiglia era mai stato consentito di parlare a quel modo. lo però. lo sola vidi. Ma "vidi"? Come accadde. Sentii. Sperimentai - sì questa è la parola; giacché fu un 'esperienza, e lo è, quando "vedo", quando "vidi": ciò che prese l'avvio in quell'ora, fu la nostra rovina. Arresto del tempo, una cosa che non auguro a nessuno. E gelo di tomba. Estraneazione definitiva, par ve, verso me stessa e verso chiunque. Fino al momento in cui l 'orribile tormen to, in forma di voce, si aprì la strada fuori di me attraversandomi e straziando mi, e allentando infine ogni vincolo. Una vocina d'un sibilo da ultimo respiro, che mi gela il sangue nelle vene e mi fa rizzare i capelli. Che, via via che s' in grossa, si fa più robusta, più terrificante, spinge tutte le membra a dimenarsi, a dibattersi, a scagliarsi via da sé. Ma di questo la voce non si cura. Libera si protende al di là di me e grida, grida, grida. Ahimè, gridò. Ahimè, ahimè. Non fate partire la nave ! Poi mi cadde il sipario davanti ai pensieri. La gola si spalancò. Buio. Precipitai ( ivi, pp. 74 s. ) .
Così il mito diventa tutt 'uno con il delirio della profetessa ritenuta folle, sì che anche gli episodi che essa descrive con maggiore equilibrio concor rono a suggerire di vivere ai margini della realtà, dove l 'evento e la visione si confondono, la causa e l 'effetto appaiono interscambiabili. Il distacco della vicenda mitica non impedisce, tuttavia, l 'ergersi di un verosimile, che è l'appena velato richiamo alla realtà storica.
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Nell 'entusiasmo dei Troiani per il loro re non è difficile riconoscere l ' insorgere del fanatismo che aveva percorso la Germania prima della guer ra e che aveva lasciato traccia anche dopo, nelle cerimonie glorifìcatorie del regime socialista : Il popolo in festa corse per le strade. Vidi una notizia farsi verità. E Priamo ebbe un nuovo titolo "Il nostro potente re". In seguito, man mano che la guerra diventa va sempre più priva di prospettive, lo si dovette chiamare "Il nostro potentissimo re". Innovazioni opportune, disse Pantoo. A ciò che si è detto e ripetuto spesso, alla fine si crede (i vi, p. 8o }.
L'entusiasmo dei sudditi non impedisce l' intelligente freddezza dei go vernanti: Non dire sciocchezze, disse Priamo. Quelli vogliono il nostro oro. E libero acces so ai Dardanelli. - Allora vieni a patti su queste cose ! gli suggerii. - Ci manche rebbe altro. Venire a patti sulle nostre inalienabili proprietà e sul nostro diritto ! ( ivi, p. 8;}.
Né ostacola l'accorto controllo della propaganda : Non era opportuno che s i chiamasse guerra. I l regolamento linguistico suggeriva in modo calzante la voce: aggressione (ivi, p. 86).
La scoperta del cavallo di legno e la sua difficile introduzione nelle mura, come la successiva sortita dal suo ventre dei guerrieri e i conseguenti epi sodi di violenza - mutilazioni, stupri, uccisioni - offrono all'autrice la possibilità di dilatare l' isteria individuale della veggente a paradigma di comportamento collettivo di grande effetto, cui fa da efficace contraltare l'asciutto finale con Cassandra, sola di fronte ai leoni di pietra della porta al di là della quale l'attende la morte. Così si rivolge al transfuga Enea, che ha portato in tempo la sua gente in salvo, lontano dalla distruzione, il solo cui essa fosse rimasta legata affettivamente : Dovevi andare lontano, molto lontano, e non sapevi che cosa sarebbe accaduto. Io resto. Il dolore ci ricorderà di noi. Grazie ad esso, dopo, se ci riincontreremo, e qua lora un Dopo esista, potremo riconoscerei. La luce si spense. Si spegne.
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Vengono. Ecco dove accade. Questi leoni di pietra l'hanno fissata. Al mutar della luce paiono animarsi (ivi, pp. 152 s.).
Il mito rievocato in Wolf si fa scrittura, modo di narrare e di rappresentare. La lunga sperimentazione della lingua dell'autrice, le consente una mani polazione del linguaggio che oscilla tra lo svaporato ricordo del sogno e la dolente memoria del vissuto. L' iterazione, propria del mito, si risolve nella percezione simultanea della veggente. Cassandra si rivela così l'ul timo, probabilmente il più compiuto, dei personaggi autobiografici della scrittrice. Assai diverso l'approccio al mito di Pavese. In un brano di Feria d 'ago sto così egli si mette in guardia dalle rielaborazioni letterarie : Devi guardarti dal confondere il mito con le redazioni poetiche che ne sono state fatte o se ne vanno facendo; esso precede, non è, l'espressione che gli si dà; nel suo caso si può ben parlare di un contenuto distinto dalla forma ( seppure di una forma, anche sommaria, non possa mai fare a meno); e prova ciò il fatto che il vero mito non muta valore, lo si esprima a parole, a segni o a mimica. Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori del tempo e lo consacra rivelazione (Pavese, 1964, p. 166).
Lo scrittore, che un'acquisita consuetudine con gli studi antropologici conduce quasi quotidianamente a interrogarsi, pare abbozzare in queste poche pagine una vera e propria definizione del mito, una spiegazione del la sua origine e della sua funzione : Da bambini il mondo s' impara a conoscerlo non - come parrebbe - con imme diato e originario contatto alle cose, ma attraverso i segni di queste : parole, vignet te, racconti. Se si risale un qualunque momento di commozione estatica davanti a qualcosa del mondo, si trova che ci commoviamo perché ci siamo già commossi; e ci siamo già commossi perché un giorno qualcosa ci apparve trasfigurato, staccato dal resto, per una parola, una favola, una fantasia che vi si riferiva e lo conteneva. Al bambino questo segno si fa simbolo, perché naturalmente a quel tempo la fan tasia gli giunge come realtà, come conoscenza oggettiva e non come invenzione. (Che l'infanzia sia poetica, è soltanto una fantasia dell'età matura.) Ma questo simbolo, nella sua assolutezza, solleva alla sua atmosfera la cosa significata, che col tempo diviene nostra forma immaginativa assoluta. Tale la mitopeia infantile, e in essa si conferma che le cose si scoprono, si battezzano, soltanto attraverso i ricordi
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che se ne hanno. Poiché, rigorosamente, non esiste un "veder le cose la prima vol ta": quella che conta è sempre una seconda (ivi, p. 1 68)'.
La fondazione simbolica della realtà, che Pavese riconosce nell 'esperienza personale, vale anche per i racconti che contengono la spiegazione delle origini di eventi che coinvolsero la collettività : la « mitologia personale >> , com'egli non manca d i annotare i n questa stessa pagina, non è altro, infat ti, che « fievole eco di quell'altra >> ; pertanto, ce se ne può servire come di una persuasiva esplicazione. Pavese, d'altronde, non riscrive il mito, piut tosto lo interroga in modo indiretto o, meglio, interroga l ' intero quadro mitologico apparentemente familiare, il grande paradigma esiodeo : la sto ria delle origini del mondo raccontata come il susseguirsi delle genealogie divine, le divinità più antiche che s' identificano con gli stessi principi na turali - il cielo, la terra, l 'eros - e poi l 'emergere anche violento delle divi nità antropomorfe, con fisionomie e passioni simili a quelle degli umani, ma prive di qualsiasi principio di eticità. I Dialoghi con Leuco, scritti tra il dicembre 1 945 e il marzo 1947, sono a un tempo un'acuta riflessione su questa parabola e un efficace specchio dei sommovimenti che le vicende della guerra avevano prodotto. Pavese è in questo tempo impegnato nell'ambizioso progetto di dare all 'antropologia e alla storia delle religioni lo spazio che loro compete nell'orizzonte edi toriale italiano : l 'einaudiana "Collana viola� creata con la collaborazione di Ernesto De Martino, dà voce a ricerche che la lunga egemonia culturale dell ' idealismo aveva preferito mantenere nel silenziol. I Dialoghi si pre sentano come una sorta di parallelo capriccio letterario : brevi colloqui tra personaggi minori della mitologia classica, spesso poco noti, sì che non raramente l'autore ne ricorda in una nota l ' identità, figure marginali non di rado critiche dello sconvolgimento prodotto dali ' affermarsi di Zeus e delle divinità olimpiche. La scelta dello scrittore è significativa: la ridotta statura di queste divinità le avvicina al mondo degli umani, dei quali esse condividono sorprese, malesseri, timori. 2. Per l'infanzia come "stadio di conoscenza prima" e per l'eredità di questa concezione dalla poesia espressionistica tedesca, cfr. Jesi (1981, pp. 148 ss.). 3· I volumi con la copertina viola escono dal 194S al 19so e comprendono titoli fonda mentali per lo studio del folklore, della storia delle religioni e del mito; l' interesse per quest'iniziativa editoriale è stato ravvivato dall'apparizione nel 1991 del volume di C. Pavese, E. De Martino, La collana viola. Lettere I94S-I9JO, a cura di P. Angelini, Torino.
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Il libro si apre con il dialogo tra Issione, l 'uomo punito perché a più riprese aveva osato sfidare la nuova potenza divina, e la nube che Zeus gli ha dato per compagna, illudendolo che si tratti della sua sposa Era : C 'è una legge, Issione, cui bisogna obbedire. Quassù la legge non arriva, Nefele. Qui la legge è il nevaio, la bufera, la tenebra. E quando viene il giorno chiaro e tu ti accosti leggera alla rupe, è troppo bello per pensarci ancora. LA N U B E : C 'è una legge, Issione, che prima non c 'era. Le nubi le aduna una mano più forte. ISSIONE: Qui non arriva questa mano. Tu stessa, adesso che è sereno, ridi. E quando il cielo s'oscura e urla il vento, che importa la mano che ci sbatte come gòcciole ? Accadeva già ai tempi che non c 'era padrone. Nulla è mutato sopra i monti. Noi siamo avvezzi a tutto questo. LA N U B E : Molte cose sono mutate sui monti. Lo sa il Pelio, lo sa l'Ossa e 1'0limpo. Lo sanno monti più selvaggi ancora. ISSIONE: E che cosa è mutato, Nefele, sui monti ? LA NUBE: Né il sole né l 'acqua, Issione. La sorte dell 'uomo, è mutata. Ci sono dei mostri. Un limite è posto a voi uomini. L'acque, il vento, la rupe e la nuvola non son più cosa vostra, non potete più stringerli a voi generando e vivendo. Altre mani tengono il mondo. C 'è una legge, Issione (Pavese, 1947, p. 1 1 ). LA NUBE: ISSIONE:
C 'è una legge che non è concesso eludere, che ha mutato la sorte umana, imposta da « una mano più forte » , a cui l ' intera natura deve soggiacere. L'avvento del nuovo ordine olimpico non può essere più esplicito : i nuo vi dei si presentano non sotto il segno della tradizionale giustizia, ma di un'arbitraria legislazione tirannica. A Ippoloco, che tenta di rassicurarlo sui tempi mutati e, rievocando la fine della Chimera, afferma: « La nostra terra ora è giusta e pietosa » , il giovane Sarpedonte replica : SARPEDONTE:
A quel tempo eran favole. Oggi invece i destini che tocca diven
tano il suo. E che cosa racconta ? Sono fatti che sai. Ma non sai la freddezza, lo sguardo smarrito, come di chi non è più nulla e sa ogni cosa. Sono storie di Lidia e di Frigia, storie vecchie, senza giustizia né pietà. Conosci quella del Sileno che un dio provocò alla sconfitta sul monte Celene e poi uccise macellandolo, come il beccaio ammazza un capro ? Dalla grotta sgorga ora un torrente come fosse il suo sangue. La storia della madre impietrata, fatta rupe che piange, perché piacque a una dea di ucciderle i figli a uno a uno, a frecciate. E la storia di Aracne, che per l 'odio di Atena inorridì e divenne ragno ? Sono cose che accaddero. Gli dei le hanno fatte (i vi, pp. 19 s.). IPPOLOCO :
SARPED ONTE:
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Le nuove divinità appaiono estranee alla natura e ai suoi ritmi, esse « non sanno ridere né piangere » e alla loro imperturbabilità è pari la loro non autosufficienza : « Sono immortali e non san vivere da soli» ( ivi, p. 1 3) ; nemiche dell'uomo, esse, si può dire, prosperano delle sue sofferenze. D i qui, gli amichi propiziatori sacrifici umani: FIGLI O : lo non voglio pensarci. Sono ingiusti, gli dei. Che bisogno hanno che si bruci gente viva ? PA DRE: Se non fosse così, non sarebbero dei. Chi non lavora come vuoi che passi il tempo ? Quando non c 'erano i padroni e si viveva con giustizia, bisogna va ammazzare ogni tanto qualcuno per farli godere. Sono fatti così. Ma ai nostri tempi non ne han più bisogno. Siamo in tanti a star male, che gli basta guardarci {i vi, p. no ) .
Il trionfo di Zeus, rurravia, se ha cancellato l'antico ordine del cosmo, sostituendo al rinnovarsi dei cicli naturali la volontà della legge, non ha murato molto la condizione umana : Gli dei non ti aggiungono né tolgono nulla. Solamente, d'un tocco leggero, t ' in chiodano dove sei giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino {ivi, p. 98).
Saffo può dunque rispondere alle obiezioni della ninfa Britomarri: SAFFO : Non invidio nessuno. lo ho voluto morire. Essere un'altra non mi basta. Se non posso esser Saffo, preferisco esser nulla. BRITOMART I : Dunque accetti il destino? SAFFO : Non l 'accetto. Lo sono. Nessuno l 'accetta. BRITOMART I : Tranne noi che sappiamo sorridere. SAFFO : Bella forza. È nel vostro destino. Ma che cosa significa ? BRITOM ARTI : Significa accettare e accettarsi {ivi, pp. 51 s.).
"Destino" è termine ricorrente a definire la condizione dell'uomo, che è privo di effettiva autonomia, cui non è concesso olrrepassare lo stabilito, che non può agire se non in conformità a ciò che gli è stato dato come sua natura. Lo ricorda Prometeo, il tirano sopravvissuto alla propria erà e con dannato in eterno dai nuovi sovrani, a Eracle, il suo liberatore : PROMETE O : E tu sarai come un bambino, pieno di calda gratitudine, e scorde rai le iniquità e le fatiche, e vivrai sotto il cielo, lodando gli dei, la loro sapienza e bontà.
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Non ci viene ogni cosa da loro ? Oh Eracle, c 'è una sapienza più antica. Il mondo è vecchio, più di questa rupe. E anche loro lo sanno. Ogni cosa ha un destino. Ma gli dei sono giovani, giovani quasi come te. ERACLE: Non sei uno di loro anche tu ? PROMETE O : Lo sarò ancora. Così vuole il destino. Ma un tempo ero un titano e vissi in un mondo senza dei. Anche questo è accaduto... Non puoi pensarlo un mondo simile ? ERAC L E : Non è il mondo dei mostri e del caos ? PROMETEO : Dei titani e degli uomini, Eracle. Delle belve e dei boschi. Del mare e del cielo. È il mondo di lotta e di sangue, che ti ha fatto chi sei. Fin l'ultimo dio, il più iniquo, era allora un titano. Non c 'è cosa che valga, nel mondo presente o futuro, che non fosse titanica. ERACLE: Era un mondo di rupi. PROMETEO : Tutti avete una rupe, voi uomini. Per questo vi amavo. Ma gli dei sono quelli che non sanno la rupe. Non sanno né ridere né piangere. Sorridono davanti al destino. ERACLE: Sono loro che ti hanno inchiodato. PROMETEO : Oh Eracle, il vittorioso è sempre un dio. Fin che l'uomo-titano combatte e tien duro, può ridere e piangere. E se t' inchiodano, se sali sul monte, quest 'è la vittoria che il destino ti consente. Dobbiamo esserne grati. Che cos'è una vittoria se non pietà che si fa gesto, che salva gli altri a spese sue ? Ciascuno la vora per gli altri, sotto la legge del destino. lo stesso, Eracle, se oggi vengo liberato, lo devo a qualcuno (ivi, pp. 82 s.). ERAC L E :
PROMETEO :
Prometeo è personaggio emblematico. La tradizione romantica ne fa l' ir riducibile ribelle all'autorità, il protagonista di ogni processo di emanci pazione, la sua stessa personificazione. In Pavese il ruolo è differente : a caratterizzarlo non è il rifiuto all'arbitrio dei nuovi dei, ma la memoria delle origini. Prometeo è in qualche modo il trait d 'union dell 'antico e del nuovo, il personaggio che sa confrontarli, la figura che connette le due età del mondo e ne stabilisce perciò l'unità. Il titano sopravvissuto all'elimi nazione dei suoi sa elaborare una morale della storia, la rassegnazione è il segno della sua forza. Condannato per l'eternità, vede la sua pena inter rotta dell' intervento di Eracle, cui è stato concesso di liberarlo ; egli pare accettare la liberazione così come aveva accettato la condanna. Il male non è fuori di noi: PROMETEO : Ma ricòrdati sempre che i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che t 'incutono. Così è degli dei. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dei spariranno.
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Torneranno i titani ? Non ritornano i sassi e le selve. Ci sono. Quel che è stato sarà. ERACLE: Ma foste pure incatenati. Anche tu. PROMETE O : Siamo un nome, non altro. Capiscimi, Eracle. E il mondo ha sta gioni come i campi e la terra. Ritorna l'inverno, ritorna l'estate. Chi può dire che la selva perisca ? O che duri la stessa? Voi sarete i titani, fra poco. ERACLE: Noi mortali ? PROMETE O : Voi mortali - o immortali, non conta ( ivi, p. 84). ERACLE:
PROMETE O :
Il tempo lineare degli dei olimpi, destinati anch'essi a sparire, così come la distinzione tra mortale e immortale perdono d ' importanza, e in questa indifferenza pare doversi collocare anche la sorte degli umani: AMADRIADE:
Strana gente. Loro trattano il destino e l'avvenire, come fosse un
passato. Questo vuoi dire, la speranza. Dare un nome di ricordo al destino. E ti credi che davvero si faranno tronchi e pietre ? SATIRO : Sanno favoleggiare, i mortali. Vivranno nell'avvenire secondo che il terrore di stanotte e di domani li avrà fatti fantasticare. Saran bestie selvatiche e rocce e piante. Saranno dei. Oseranno uccidere gli dei per vederli rinascere. Si daranno un passato per sfuggire alla morte. Non ci sono che queste due cose - la speranza o il destino (i vi, p. 179 ). SATIRO :
AMADRIADE:
Tale la risposta del Satiro all 'Amadriade, che, a conclusione del penultimo dialogo, bene definisce il ruolo dell'uomo nel mondo. Il lavoro di Pavese sul mito, quando sia considerato nel quadro com plessivo della sua attività letteraria, conduce a un duplice ordine di rifles sioni. Da una parte, coerentemente con una ricca tradizione letteraria, il mito appare il momento aurorale della creazione poetica, ! ' "attimo estati co" da cui si sprigiona l 'opera d'arte : Mitico chiamiamo perciò questo stato aurorale; e miti le varie immagini che ba lenano, sempre le stesse per ciascuno di noi, in fondo alla coscienza. Esse vivono in quanto tuttora non risolte ne li 'evidenza poetica o nella chiarezza razionale, ma irradiano tanta vita, tanto calore, tanta promessa di luce, che riescono in definitiva altrettanti fuochi o fari della nostra coscienza. Nel presente discorso questi miti individuali c 'interessano come i germi di ogni poesia (Pavese, 1951, p. 3 18).
La memoria dell ' infanzia gioca in questo un ruolo importante perché il mito si presenta enigmaticamente simbolico come l'apprendimento del
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bambino•. Se d'altra parte la poesia conduce a l "chiarimento del mito': ciò può realizzarsi solo nella scrittura. Nel dialogo con il giovane compagno che si attende di trovare nel racconto il riflesso esplicativo della realtà so ciale, la replica dello scrittore è molto chiara : Masino mi ascoltava e disse a un tratto: - Ma dietro a un libro c 'è una realtà. C 'è una lacca di classe. Ci sono ideologie. - Chi lo nega, Masino? Ma cucco nel libro diventa parole. E ci spiego che devi impararle, nient "altro. Quel che vale sarà la giustezza. la finezza la profondità di queste parole (i vi, p. 230 ).
Ed è nelle parole di La luna e i falò che trova persuasivo compimento il mondo mitico dell' infanzia dello scrittore. La società contadina, già rap presentata in tutta la sua durezza in Paesi tuoi, ritorna nei ricordi dell' io narrante dell 'ultimo romanzo : figura sfuggente, mera voce di chi, dopo aver girato il mondo e fatto fortuna, torna con occhio critico nelle terre dov 'era cresciuto. La sapiente scrittura di Pavese sa rappresentare la memo ria dell' infanzia in una lingua che pare riemergere dal vissuto contadino, ma che ce lo presenta come sospeso fuori del tempo nella sua immutabilità simbolica. Come nel ricordato paradigma esiodeo, tuttavia, al selvaggio delle origini si oppone, non meno violento e crudele, il tempo delle regole imposte da una nuova potenza legislatrice. La lacerazione della modernità si manifesta in questo caso nella devastante furia della guerra, nell'odio che percorre le colline, nella ferocia che sconvolge il ritmo della quotidia nità. Come nei Dialoghi con Leucò, emerge nel racconto un' importante figura di trait d'union, un personaggio che, a somiglianza del titano Pro meteo, appartiene a entrambe le epoche, che è custode della continuità tra i due mondi. Nel romanzo questo è Nuto, Pinolo Scaglione, il falegname musicista, l 'amico maggiore d'età, l ' iniziatore, la guida che tutto ha visto e conosce, e ne conserva la memoria. In lui il mito trova la propria saldatura con la realtàS. 4· Sul valore simbolico del mito e sulle ascendenze letterarie del simbolismo di Pavese, cfr. Jesi (1981, pp. 133 ss.). 5 · «È in collaborazione col Nuca, l'amico falegname, che Cesare, prima di meccersi a tavolino, costruisce la trama de La luna e i folo. lnfacci, nell'estate del ' 49, giungono al Nuca a S. Stefano canee leccere da Torino, come non ha ricevute mai. [ ] Poi non pago delle notizie che Nuca manda puntualmente per lettera, Pavese corna più volte a S. Stefa no. Quasi cucce le nocci le passano seduci al piccolo tavolino che sta sacco un pergolato di ...
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Ricorda Davide Lajolo che Pavese, rientrato dal confino a Torino, dove si vanno consolidando i movimenti dissenzienti, allarga la cerchia delle sue conoscenze. In particolare, uscito dalle riunioni antifasciste della dome nica di casa Guaita, dove si limitava ad ascoltare in silenzio, egli amava vagabondare per la città in compagnia di Paolo Cinanni, impegnandosi in accanite discussioni che si protraevano per ore : Spesso accadeva che improvvisamente, in quelle notti, Pavese arrestasse il suo di scorso politico e invitasse Cinanni a guardare alla luna ed ai riAessi che disegnava sulle strade, tra l'ombre dei palazzi e delle piante. D' incanto, allora, Pavese pren deva a parlare di Thomas Mann, come fosse invasato non soltanto dai romanzi e dallo stile del grande scrittore, ma esaltandone altresì le concezioni politiche, sociali e storiche. Thomas Mann era, in quelle conversazioni, il suo Vangelo (Lajolo, 1964, p. 241 ) .
La testimonianza può apparire strana: le differenze tra i due scrittori sono tali che ci è probabilmente difficile immaginare le ragioni del culto man niano di Pavese. Tuttavia c 'è un grande non consueto interesse che li acco muna. Da più di dieci anni Mann è impegnato nella composizione della monumentale tetralogia Giuseppe e i suoi fratelli, il primo volume della quale appare, anche in Italia, nel 1 9 3 3 . Il m i o interessamento alla storia delle religioni e a l mito è sorto tardi; è per m e u n prodotto degli anni, e mancava del tutto alla m i a età giovanile. Adesso invece è molto vivo e durerà fino al compimento della mia singolare impresa, di quel romanzo, del quale, a quanto pare, Le è capitato tra le mani il primo volume (Ke rényi, Mann, 1960, p. 21 ) '.
Così egli scrive nel gennaio 1 9 3 4 a Karl Kerényi, con il quale intratter rà da allora un importante carteggio. La confidenza è importante perché Mann lega in un unico interesse mito e religione. Rivisitare l'Antico Testaglicine, accanto alla falegnameria dei fratelli Scaglione, di fianco alla strada provinciale >> (Lajolo, 1964, p. 350 ) 6. Già poco meno di due anni prima egli aveva scritto a Bedfich Fucik: «Il nuovo lavoro al quale attendo già da anni e che mi occuperà ancora per molto tempo è un romanzo biblico mitologico intitolato "Giuseppe e i suoi fratelli� Non avrei creduto, una volta, che la storia delle religioni e persino la teologia avrebbero potuto acquistare, per me, un simile interesse. Questa inclinazione sembra un prodotto degli anni, e io mi ci abbandono con la prontezza che si deve a tutto ciò che la vita reca organicamente con sé >> (Mann, 1963, p. 4u}. .
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mento, conosciuto certamente fin dall' infanzia, significa per lo scrittore considerare il nesso tra la rivelazione religiosa e la narrazione che ne è il veicolo primario. Si coglie in questo modo quanto il piacere del racconto sia importante per l'acquisizione o il conservarsi di una fede; è la funzione stessa assolta dai cicli pittorici delle chiese medioevali, a un tempo di felice intrattenimento e di istruttiva memoria. Le storie di Giacobbe appaiono nel 1 9 3 3 ; il mitico, arcaico mondo della Genesi può a posteriori esser visto come il necessario antidoto, il distac co dello scrittore, il suo giudizioso ritrarsi dal precipitare dei mutamenti che segnano l ' Europa e soprattutto la Germania nello scorcio degli ultimi anni Venti; si può intendere come il controcanto del saggio alla pericolosa frenesia che colpisce l ' intera società, la contemplazione concessa a un for tunato osservatorio sottratto alle angosce quotidiane. Mann non si limita al racconto biblico ; in questo primo volume, che funge anche da grande proemio dell ' intera opera, l ' autore si spin ge alla considerazione degli stessi principi della civiltà umana nei quali, mancando una positiva documentazione storica, le figure non di rado si confondono e possono finire col sovrapporsi le une alle altre. È que sto il senso di vertigine che l ' autore attribuisce al proprio personaggio Giuseppe, il giovane amabile e istruito, sapiente conoscitore di lingue e di popoli. È la vertigine provata da chi si affaccia al pozzo senza fondo del passato, l 'enigmatica rappresentazione delle origini dell 'umanità, con la quale si apre, non senza una certa solennità, il dettato manniano : «Profondo è il pozzo del passato. Non dovremmo dirlo insondabile ? » (Mann, 1 9 3 3. p . 9) . La scelta di Giuseppe come protagonista e pernio della narrazione vuoi presentarsi casuale : All 'epoca in cui comincia la nostra storia - un'epoca scelta arbitrariamente, ma da qualche punto bisogna pur cominciare !asciandoci dietro altri punti, altrimenti dovremmo cominciare anche noi "dai giorni di Set" - Giuseppe faceva il pastore come i suoi fratelli, ma in questo godeva di certi riguardi, perché solo quando ne aveva piacere custodiva insieme con essi, sui pascoli di Hebron, le pecore, le capre e i buoi di suo padre (ivi, p. 26).
In realtà nulla è arbitrario nella scelta manniana di Giuseppe ed è interes sante il profilo che di lui abbozza lo scrittore in una lettera a Ernst Berrram verso la fine del 1926:
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Credo che faccio bene a fare di Giuseppe una specie di mitico cavaliere d' indu stria, che comincia assai presto a "identificarsi" e che in questo viene rafforzato anche dal suo ambiente, in genere poco incline a distinguere nettamente tra es sere e significare. Solo tremila anni più tardi si divenne "maturi" per disputare su tale differenza. Ciò che mi attira e ciò che vorrei esprimere è l'attualizzarsi della tradizione come mistero al di fuori del tempo, il sentir se stessi come mito. Ma ciò dev 'esser fatto con mano leggera, in maniera umoristico-intellettuale; non mi lascerò certo portare al pathos e al fervore religioso ( Mann, 1963, p. 346).
Non è difficile, credo, riconoscere sotto queste parole l'ambiguo profilo di Felix Krull, l'allegro avventuriero cui Mann aveva lavorato e poi tempo raneamente lasciato da parte. La vigile accortezza di Giuseppe, la sua ori ginale astuzia, è la lente attraverso cui il narratore ci fa osservare l ' intrico delle vicende e riconoscere nella caligine del mito le diverse figure del pas sato, ci conduce a saper distinguerla dalle figure del presente che rischia no di fagocitarle e di farne scomparire l' identità. La sua precoce sapienza diventa il necessario strumento adoperato dallo scrittore per ricostruire sequenze ordinate e sfuggire all 'effetto di doppio, sempre in agguato nel ripetersi di tratti narrativi comuni: L'esperienza non consistette tanto nel veder ripetersi qualche cosa del passato, quanto nel fatto che quel passato diveniva vivo e presente. Ma poteva divenir pre sente perché le circostanze che l 'avevano originato erano ogni momento presenti ( Mann, 1933, p. 34).
Ma Giuseppe assolve anche un'altra funzione. Averlo assunto non solo come filo conduttore della storia, ma anche come mente che di questa sto ria è quasi onniveggente, sicura padrona, permette allo scrittore di ritrarsi: egli si fa osservatore del! 'osservatore, serbando a sé il margine di considera zione ironica necessaria allo sviluppo dell' interesse per il racconto. Il distacco del narratore dalla narrazione si rivela con chiarezza nel lun go racconto La legge, dovuto, come spiega lo stesso Mann, a un caso im previsto. Nei primi anni della guerra, dopo aver terminato la stesura della monumentale tetralogia biblica, Mann si trova ad assolvere un impegno editoriale : elaborare l ' introduzione a una raccolta di scritti di diversi auto ri, ciascuno dedicato a un comandamento del decalogo mosaico. Anziché un saggio, lo scrittore preferisce comporre un nuovo breve racconto bi blico. Egli narra dunque la missione di Mosè, della sua avventurata infan zia, dell'acquisita responsabilità di dare al suo popolo una nuova fede e di
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guidarlo fuori della terra d' Egitto, dove è trattenuto in schiavitù. Anche in questo caso un personaggio gli permette un certo distacco ironico dalla narrazione. L' ironia si manifesta più esplicitamente nelle pagine dedica te alla stesura del decalogo e della necessaria, complementare, invenzione della scrittura fonetica, destinata, come i comandamenti divini, a divenire universale. Qui Mann inserisce la lucidità dello storico nel mito ; per con tro il mito si pretende storia quando si fa cenno alle dieci piaghe come a fenomeni conformi alla natura dei luoghi, così come naturale è spiegato l'aprirsi del mare al passaggio degli Ebrei e il suo richiudersi ali ' avvento degli Egiziani. Giunto alla conquista della città amalechita di Cadesh, lo scrittore spavaldamente afferma: « La battaglia ebbe luogo : è un fatto sto rico >> (Mann, 1 9 3 3 , p. 547 ) . Nella tetralogia anche la conoscenza storica che i l racconto lascia in tendere è il riflesso del sapere di Giuseppe. Un sapere assai diverso dalla sapienza di Giacobbe, legata ancora all'arcaico ritmo dell' iterazione, alla sovrapposizione e confusione di presente e passato : Non si può dire come il colpevole Ruben fosse rimasto ferito nel più profondo a sentirsi scagliare in faccia il nome infamante di Cam. Giacobbe non era l'uomo da servirsi di quella parola oltraggiosa come di una semplice allusione. Grazie alla forza del suo spirito il presente s' identificava in modo terribile col passato. Ciò che una volta era avvenuto si rinnovava. E lui, Giacobbe, era Noè, il padre spia to, schernito, disonorato dal figlio. Ruben aveva già saputo che sarebbe avvenuto così, egli sarebbe stato realmente e veramente come Cam davanti a Noè; e per questo era stato preso da così profondo terrore per quell' incontro ( ivi, pp. 1 1 1 s. ) .
Nel placido incontro notturno che lo scrittore colloca alla luce di una benevola luna, Giacobbe e Giuseppe si fronteggiano non soltanto come padre e figlio, vecchio e giovane, ma come due figure opposte, personi ficazioni di due diverse concezioni: la fede nella ripetitività ciclica degli avvenimenti nella quale si riconosce il procedere della volontà divina, e l ' intelligenza critica, che conosce indagando, sapendo ogni volta distin guere la memoria tramandata dalla vita che si sta vivendo : «Il comando e le istruzioni, tu lo sai, tu conosci la storia » , rispose Giacobbe con suono sordo, e sedeva là curvo in avanti, la fronte appoggiata alla mano in cui reggeva il bastone. « Io l'ho intesa, quella voce ... È Egli forse meno di Melech, il re-toro dei Baal, a cui, nel bisogno offrono i primogeniti degli uomini e alle cui braccia, durante le feste segrete, consegnano i neonati ? E non può Egli pretendere
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dai suoi quello che Melech pretende d a coloro che credono i n lui ? E d Egli infatti lo pretese e io udii la sua voce e dissi: "Eccomi!� E il mio cuore si fermò, il mio re spiro si sospese. La mattina, di buon'ora, misi il basto al mio asino e ti presi meco. Perché tu eri !sacco, la mia tarda primizia, e il Signore ci aveva dato gran gioia e riso quando ti annunziò, e tu eri il mio uno e il mio tutto, e sul tuo capo posava tutto l 'avvenire » (ivi, pp. 1 23 s.}.
L' identificarsi di Giacobbe con Abramo pare paralizzarne il comporta mento, ma è un' identificazione che Giuseppe, dolcemente quanto risolu tamente, sa distruggere : «Non lo sapevo » disse il vecchio «perché ero come Abraham e la storia non era ancora accaduta » . « Ma come ? Non hai detto d i aver gridato : "Io non sono Abraham" ? » re plicò Giuseppe sorridendo. « Ma se tu non eri Abraham, eri allora Giacobbe, il mio babbino, e la storia era antica e tu ne conoscevi l'esito. Non era nemmeno il fanciullo Jizchak che tu legasti e volevi immolare » aggiunse di nuovo con quel grazioso movimento della testa. « Ma il vantaggio dei giorni posteriori, del venir dopo, è appunto questo : che noi già conosciamo i giri prestabiliti in cui il mondo si svolge e le storie che in esso accadono e a cui i padri dettero inizio e norma. Avresti potuto aver fiducia nella voce e nel montone » ( ivi, p. 1 25).
La sovrapposizione del presente al passato tuttavia continua : dietro Gia cobbe s' indovina costantemente la schiera dei patriarchi, sì che è facile per Giuseppe rievocare l ' intera discendenza di Abele. Tra il vecchio e il giova ne si sviluppa allora una sempre più serrata emulazione dialogica; l'orgo glio di Giacobbe per un figlio così sapiente non gli impedisce, infatti, di interloquire approvando con autorità : «E sai tu perché ? » , «Dici giusta mente >> , « Sì, sì, tu hai detto come fu >> ; e il figlio si mostra consapevole di gareggiare con il padre : «"Tu sai tutto in modo incomparabile" attaccò a sua volta Giuseppe "ma io so ancora altre cose" >> ( ivi, p. 1 40). La conversazione a due sull'orlo del pozzo ravviva così, nella sua sem plicità rievocativa, la memoria familiare, diventa un « bel colloquio >> ; essi si ripetono l 'un l'altro le storie note della loro gente, con la stessa gioia del bambino che ama riascoltare più e più volte il racconto che ben conosce e che proprio per essergli ben noto gli procura piacere : Erano cose note, e nulla di nuovo quel che egli diceva. Ciascuno, nella tribù e nella famiglia, conosceva a menadito, fin da bambino, l' intera serie delle genera zioni e il vecchio approfittava dell 'occasione per ripeter la e, conversandone, farne
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testimonianza. Giuseppe capì che il colloquio doveva diventar " bello", un "bel colloquio" cioè una conversazione che non servisse più soltanto allo scambio utile delle idee, ali ' intesa su questioni pratiche o spirituali, ma semplicemente ali 'espo sizione e al racconto di cose ad ambedue note, al ricordo, alla conferma e alla edificazione, un canto a due voci parlato, come quelli che i garzoni dei pastori scambiavano di notte sul campo, accanto al fuoco, e che cominciavano: «Ne sai tu qualche cosa? lo lo so esattamente >> ( ivi, p. 137).
La genealogia è il filo che guida nella luce crepuscolare del mito, ma è an che il motivo del piacere di chi, già conoscendola, avidamente l'ascolta: Ed ecco, da Eber venne Peleg e generò Serug, il cui figlio fu Nahor, il padre di Te rach, o giubilo ! Costui generò Abraham a Ur, in Caldea, e se ne partì con Abraham suo figlio e con la moglie di suo figlio che si chiamava Sahar, come la luna, ed era sterile, e con Lot, figlio di suo fratello. E li prese e li condusse via da Ur e morì a Charran. Allora venne il comando di Dio ad Abraham di andare avanti con le anime che aveva guadagnato al Signore, avanti, oltre la pianura e il fiume Frat sulla strada che congiunge Sinear e il paese degli Amurru (ibid. ).
Il racconto di Giuseppe ritaglia il tempo e i luoghi della propria discen denza nella moltitudine di nomi e di vicende che popolano la sua mente ; per parte sua Mann, che ha studiato a fondo la materia che tratta, ama cita re secondo le diverse varianti linguistiche le medesime denominazioni, sì che il già intricato universo di popoli pare ogni volta dilatarsi ad accogliere nuovi luoghi e nuove genti. In una lunga lettera al rabbino Jakob Horovitz egli non manca di annotare a propria giustificazione : Che i fatti i n esso narrati s i considerino storici o leggendari, l a forma i n cui c i è pervenuto, comunque, è pur sempre una tarda redazione, il cui autore era immer so nella tradizione letteraria antico-orientale, e non ci sarebbe da meravigliarsi se I' avesse corredata di ogni sorta di allusioni mitiche, introducendovi, con re conditi significati, idee preesistenti. Il mio interesse per la storia delle religioni, che costituisce gran parte del gusto che m'ispira questa storia, me lo fa credere volentieri, ma sono ormai deciso da un pezzo a, per così dire, invertire la faccen da e far sì che siano gli stessi personaggi, gli stessi agenti a far quelle allusioni. Giuseppe, ragazzo Amurru di educazione egizio-babilonese, non ignora, natu ralmente, Gilgamesh, Tammuz, Usiri, e vive secondo il loro esempio. Gli si può attribuire un 'ampia e singolarmente mistificatoria identificazione del suo io con quello di tali eroi, e il riavverarsi del mito, che per sua natura è fuori del tempo, è uno dei tratti principali della psicologia che sono incline a ascrivere a tutto questo mondo ( ivi, p. 3 57).
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L'autore del Giuseppe sa così manifestare la doppia ripetitività che il mito porta con sé : quella dei fatti e delle figure implicita nella sua stessa strut tura narrativa e quella della tradizione che ce lo trasmette e che può pro durre una moltitudine di versioni parallele, di "varianti" secondo il gergo filologico. Se per Pavese a prevalere e alla fine a imporsi è la dimensione psicolo gica - il farsi del mito come svolgimento e dilatazione di un'esperienza individuale, del costruirsi della memoria che accompagna la formazione mentale della prima infanzia all'acquisizione sempre meno fantasmati ca del mondo circostante -, per Mann il mito si presenta sempre come evento necessariamente collettivo, prodotto dallo scambio verbale di un gruppo sociale in sé solidale, come fondamento da tutti riconosciuto della comune credenza religiosa.
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Quesiti e prospettive
Invenzione {e fine) della mitologia
Nel 198 1, al termine di un fecondo decennio di importanti ricerche, Marcel Detienne pubblica L 'invenzione della mitologia, un saggio nel quale al bilancio di un secolo di esegesi del mito si unisce la riflessione teorica sullo statuto della disciplina. Detienne è già affermato studioso che, nel centro di studi parigino diretto da Jean Pierre Vernant, ha saputo autorevolmente portare ed elaborare le novità esegetiche ricavate dall 'opera di Claude Lévi-Strauss. Allievo della studio sa di storia delle religioni Marie Delcourt, egli si è rivelato nei primi anni Settanta la figura di ricercatore più originale e interessante tra gli antichisti francesi, offrendo nelle sue opere un quadro inusitato dei miti greci, che dalla considerazione dei riti si estende alla classificazione degli animali e delle piante, dei colori e degli aromi a essi connessi. A quest'amplissima erudizione, Detienne unisce una sorprendente felicità di scrittura vivace e maliziosa, inconsueta nell'ambito della disciplina. Alle "equivoche frontiere" che pretendono di delimitare il mito e di cui si interrogano le sorti - da Lang a Max Miiller, a Tylor e a molti altri, spingendosi fino a Lafitau e Fontenelle -, Detienne preferisce una nuova proposizione del problema che collochi il racconto mitico nell'ambito de finito dall 'opposizione oralità/scrittura, avvertita particolarmente impor tante anche dagli antichisti del tempo nella determinazione della memoria sociale e della sua conservazione'. C 'è un' importante diversità nel modo di accostarsi al mito : quel che noi oggi leggiamo, i Greci, almeno per tutto il periodo della polis, ascol tavano, perché la comunicazione della cultura cittadina era in prevalenza
1. L'opposizione oralità/scrittura diventa particolarmente importante per gli antichisti dopo la diffusione in Europa, verso la metà degli anni Settanta, del libro di E. Havelock, Prefoce to Plato, Oxford 196�.
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orale. Non è dunque senza ragione l' insistere di Detienne nello stabilire una netta differenza nella trasmissione del mito tra la Greci a arcaica e clas sica e le grandi società imperiali del Vicino Oriente antico. Nei 1 9 8 I non si è ancora spento l 'entusiasmo con il quale la filologia ha scoperto il carattere eminentemente orale della trasmissione della poesia arcaica greca; Detienne punta la sua attenzione sull 'oralità del mito, da una parte cercando di recuperare quanto gli antropologi hanno osserva to sulla comunicazione nelle società senza scrittura, dall 'altra insistendo sull'assenza di controllo censorio della scrittura dove, come nel resto del mondo antico, essa è strumento elitario di governo della società. I racconti greci possono sì assomigliare o qualche volta addirittura corrispondere a racconti presenti nelle letterature delle società palaziali, essi vengono però rielaborati ed esposti non nelle riservate scritture degli scribi, ma nelle pubbliche esecuzioni dei cantori e dei cori. Sono chiarimenti importanti; si deve nondimeno osservare che l'oralità non è del mito in quanto tale, ma del supporto narrativo che lo trasmette e che, se in Grecia esso non è sottoposto ad alcun controllo sacerdotale, deve tuttavia conformarsi alle regole dei diversi generi poetici, tanto più rigorosi quanto più lontani dalla scrittura e dal gioco letterario che essa sollecita'. Lo studioso giustamente si preoccupa di distinguere la narrazione mi tica dalle altre "produzioni memoriali"; meno nitida è invece la necessaria distinzione tra l'uso greco della parola flii9oç e la valenza semantica moder na di "mito': La confusione può ingenerare equivoci; così, ad esempio, nel la considerazione dell'uso aristotelico del termine ricordato da Detienne : E !ungi dal conferire identità alla mitologia, il mito si rivela un significante di sponibile per una varietà di significati diversi. Al punto che Aristotele, verso la metà del quarto secolo, se ne serve nella Poetica per definire I 'anima della tra gedia (Bompaire, 1977): l' intreccio, la «concatenazione sistematica dei fatti di una storia>> (Dupont-Roc e Lallot, 1980, p. 149). Dal punto di vista della poetica aristotelica, il mito non è la storia narrata, ma il prodotto di una costruzione che obbedisce a regole precise (Detienne, 1983, p. 1 6 0 ).
Come ha poi bene chiarito Claude Calarne (1996), filologo che ha sempre unito vivaci interessi antropologici a un singolare rigore di lettura dei testi, Sull'importanza dei generi poetici nella poesia greca restano fondamentali Rossi (1971) e Gentili (199So pp. 42 ss.).
2.
Q_U ESITI E PROSPETTIVE
è evidente che mythos, conformemente all'uso greco del tempo, vale "sto ria': "racconto� e in quanto tale l 'autore della Poetica lo considera l 'elemen to più importante della composizione tragica. Racconto, dunque, che, a differenza del moderno "mito� non richiede particolari implicazioni con cettuali, ma che poté suscitare la critica anche aspra di quanti pretesero di sottoporlo a un criterio di verifica storica: Un filosofo in collera, un logografo che sorride, ma coinvolti entrambi nel processo della prima interpretazione; e la collera di Senofane di fronte alle finzioni antiche non è meno decisiva, per dare alla tradizione memoriale la sua forma caracceriscica, dei sorrisi di Ecaceo che "fabbrica" racconti a tavolino: giacché lungo questo percor so ermeneutico è proprio di scrittura che si cracca. Una scrittura "dall'esterno� quel la del filosofo impegnato a denunciare la violenza rivoluzionaria delle "menzioni" che infestano la memoria dei ciccadini; ma che procede da un sapere già vincolato, in qualche modo, dal rigore della scrittura. Scriccura "dali' interno� invece, nel caso del logografo che parla nella pienezza della tradizione, e la lavora delicatamente col suo stilo, per scalficcure, incidendovi i tatuaggi sottili della verosimiglianza, senza mai cedere al desiderio del caglio o alla brama della mutilazione ( ivi, p. 103).
Detienne ricorda il paradigma, risalente a Vico, del mito come prima forma di pensiero e di conoscenza, sì che si può parlare di « sapere mitologico>> : Il sapere mitologico scopre la propria fecondità, proieccando le sue figure imma ginarie sulla superficie speculare del mito finzione, che mima indifferentemente il discorso osceno della demenza, l' ingenuità fabulacrice di una umanità ancora infantile, oppure l'abisso insondabile di un pensiero primordiale, da cui emerge ranno la filosofia e poi la scienza. Sotto l' incantesimo di queste immagini riflesse, lunghi peripli conducono alla ricerca di un impero dei miei dei quali i greci, se condo la leggenda, avrebbero causato la rovina con la scoperta della verità logica; e la ritrovata Adantide fa approdare sulle nostre cosce le ricchezze favolose di una razionalità dimenticata, ma identica alla nostra: la saggezza superiore di quel con tinente fantasma. In ogni figura che s' inventa, la mitologia subisce una metamor fosi, e il suo sapere si sposta: prende la forma effimera dello spazio di un giorno. Ieri si trattava di idee carnali, della vita selvaggia dei popoli allo stato di natura, della demenza di una società arcaica; domani sarà invece il canto della terra, la pa rola originaria, una sapienza superiore alla stessa metafisica. Ma qualunque ne sia la chiave di lettura, il campo definito della mitologia resta un sito provvisorio, un luogo nomade : esso si sposta di continuo, con la linea di confine da cui lo sguardo dell'antropologo prende possesso, di volta in volta, del suo orizzonte. Né l' incre dibile né l'irrazionale sono, in se stessi, cerri cori reali: essi sono l'ombra proiettata dalla ragione o dalla religione di circostanza. Ogni visione del mondo si costruisce
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una mitologia nuova, misurata s u l proprio sapere, che tuttavia sembra riprodurre fedelmente la vecchia ( ivi, p. 158).
Appare evidente in questa pagina il distaccato scetticismo con il quale si considera ogni facile, e fallace, tentativo di definizione univoca del mito, ogni tentativo di una sua collocazione in un orizzonte categoriale stabile e definitivo. Tanto più precaria ogni ricerca di definizione quanto più ci si avventura in una primitività immaginata più che conosciuta, per la quale l ' investigazione non può contare su alcun fondamento documentale. È soltanto con la scrittura che il mondo mitologico pare organizzarsi, pare acquistare ordine e coerenza : Perché la mitologia, in senso greco - che è poi quello fondamentale e da sempre accolto - si costruisce accraverso il divenire imperioso della scrittura ( i vi, p. 157 ).
Ma, a parte l'esclusività concessa all'antica Grecia per evidenti ragioni storico-culturali estrinseche ali'oggetto in questione, di quale scrittura si sta qui parlando ? E qual è di conseguenza il significato del termine "mito logia" ? La scrittura dei poeti di età arcaica e di gran parte dell'età classica sappiamo non essere che la trascrizione di una comunicazione essenzial mente orale. Mitologia è, sì, il quadro nel quale più racconti trovano una loro reciproca connessione, ma questo quadro può risultare dai richiami occasionali degli stessi poeti compresi dagli ascoltatori, come può essere costruito dalle diligenti compilazioni enciclopediche di eruditi in un'età in cui i miti sono considerati meri strumenti del poetare e la mitologia null 'altro che una collezione di motivi letterari. Su questi, però, è lo stesso Detienne che, pur considerandoli utili ali' investigazione dello studioso moderno, esprime un giudizio di tagliente severità : Per i seguaci di una storia che valorizza soltanto le tracce scritte, il discorso dell'o ralità originaria in terra greca è diventato così poco percettibile da essere quasi illeggibile proprio là dove esso emerge attraverso la scrittura. Della mitologia, or mai inaccessibile, non resta altro che la rigida maschera mortuaria fabbricata dagli oscuri artigiani della mitografia dei manuali, nel! 'età del! 'erudizione alessandrina. Una scrittura di morte, incapace d'altronde di sciogliere le contraddizioni di ciò che ormai è solo un resto, una spoglia ( ivi, pp. 152 s. ) .
Così il mito resta sospeso tra oralità e scrittura e, lasciando aperta ogni contraddizione, l 'ultimo capitolo del libro può a ragione intitolarsi Il mito introvabile. L' invenzione della mitologia, d'altronde, coincide in realtà
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con il suo smarrimento, con l' incapacità di coglierne soddisfacentemente il valore operativo, la funzione sociale, sì che non si può dire se si tratti della sua nascita o della sua morte. La problematicità che percorre tutto il libro non deve sorprendere ; di pende sì dalla consapevolezza dello studioso che conosce abbastanza per non essere indotto a semplificare, ma dipende anche dai tempi in cui è sta to scritto e dall'atmosfera che vi si respirava. Gli inizi degli anni Ottanta sono più propizi ai ripensamenti e ai bilanci che all ' invenzione di nuove vie per la ricerca. Tener conto del contesto storico in cui i libri, soprat tutto quelli importanti, sono stati scritti è quanto ci invita a fare uno dei più importanti antichisti della seconda metà del secolo, Walter Burkert, in occasione della versione italiana del suo Homo necans scritto dieci anni prima a Harvard; egli appare lucidamente consapevole delle circostanze nelle quali aveva allora pensato e scritto il suo libro : Homo necans s i propone al dibattito come u n tentativo d i rendere feconda, per l ' interpretazione di rituali e miti letterariamente traditi, una struttura storica mente cresciuta e mediata e comprensibile in termini funzionali. Che esso offra nel contempo un contributo a un'antropologia generale, è una speranza forse au dace. Di essere nato nell 'epoca della guerra del Vietnam e della rivolta giovanile, il libro non può e non vuole nasconder! o; che i problemi affrontati non si risolvano con la restaurazione e la recessione, è cosa certa ( Burkert, 1981, p. 15).
Ma se con L 'invenzione della mitologia Detienne non pretende di appro dare ad alcuna sicura determinazione concettuale, il libro ha tuttavia il grande merito di offrire un quadro ricco e complesso delle questioni sol levate dallo studio del mito, di suggerire con chiarezza un vero e proprio catalogo di problemi che lo studioso è chiamato ad affrontare alla luce delle esperienze maturate negli ultimi decenni. Per riassumere in quali termini si sia sviluppato, soprattutto alla fine dello scorso secolo, quest 'ampio dibattito, possiamo elencare schematica mente tre punti, che vengono enunciati distinti, ma che sono intrinseca mente connessi : quali sono i modi della trasmissione e della manipolazio ne dei miti; chi ne sono gli autori, quali ne sono cioè le origini; quali le funzioni sociali da essi assolte ?
Udire, vedere, interpretare "Come potete vedere ...� il contastorie sicilia no recitava la sua storia davanti a un piccolo pubblico di spettatori seduti su panche di legno in semicerchio intorno a lui. La sua esibizione poteva
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durare anche due ore e l'unico strumento usato era una spada di legno, « con la quale nei momenti di maggiore drammaticità fa mulinelli nell 'a ria scandendo il suo dire >> (Li Gotti, 1 9 5 7, p. 49). La sua dizione ritmata, i discorsi diretti, che spesso si sostituiscono alla narrazione e lo portano a mutare il registro vocalico, possono forse in qualche modo suggerir ci come si svolgesse la performance spettacolare dell'amico aedo greco. Anch'egli, sembra, teneva in mano un bastone con il quale sottolineava le pause ritmiche della sua dizione. Di sicuro l'aedo non si giovava di un altro aiuto che ricorreva invece nello spettacolo siciliano, il cartellone. Come il puparo con i suoi pupi e il cantastorie con la sua chitarra, anche il conta storie usava uno strumento, abitualmente un grande cartone o telo riqua drato, fissato accanto a lui, sul quale, a colori vivaci, erano rappresentati i momenti salienti della storia narrata. A esso, indicando ogni volta il rela tivo riquadro, si volgeva il narratore all ' inizio di ogni segmento del cuntu, con la formula Comu putiti vidiri. I dipinti nella loro rozza immediatez za avevano l 'ufficio di splanari, spiegare cioè la situazione agli ascoltatori mostrando loro i luoghi e i personaggi dell'episodio che stava per essere raccontato. Vista e udito s ' integravano nel riprodurre l'atmosfera del racconto, ciascuno dei due sensi trasmettendo ciò che era di suo specifico dominio. Spiegava, infatti, Aristotele : Per il necessario la più importante in sé e per sé di queste percezioni è la vista, ma per il pensiero, in modo accidentale, l'udito. La facoltà visiva rivela molte varie distinzioni perché tutti i corpi partecipano del colore, sì che è per mezzo della vista che soprattutto si colgono i percepibili comuni (e per percepibili comuni intendo la dimensione, la figura, il mutamento e il numero) ; l 'udito invece per cepisce soltanto le differenze del suono e per pochi anche la differenza della voce. Ma accidentalmente è l'udito a contribuire per la maggior parte alla ragione. Il parlare, essendo udibile, è causa dell'apprendimento non in sé e per sé, ma acci dentalmente, perché è costituito di parole, e ogni parola è un simbolo (Aristotele, De sensu, 437a 2).
Della ragione fa parte anche la fabulazione e il racconto può essere una forma della spiegazione\ La vista, tuttavia, come giustamente ebbe a os servare Angelo Brelich, seppur disgiuntamente, anche nella Grecia antica 3· «Il racconto è la forma grazie alla quale un'esperienza complessa diventa comunicabi· le» (Burkm, 2003, p. 81).
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ebbe un ruolo importante nella trasmissione dei racconti. Non solo per ché, come spiega Brelich, la raffigurazione di una vicenda può aiutarci a meglio intendere quanto narrato, ma, come mostrò Jane Harrison, perché permette talvolta di riportare alla luce il significato latente che gli antichi le attribuivano. Scultura e pittura dovettero dunque giocare un ruolo non secondario nella conservazione della memoria : Anzitutto si tratta soprattutto di materiale scritto : di testi. Diciamo soprattutto perché non bisogna dimenticare nemmeno le raffigurazioni che in certi casi pos sono aggiungere qualcosa alle nostre cognizioni nel campo della mitologia greca (Brelich, 1 977. p. 6)+.
In un diverso contesto - l ' Europa dei secoli XVI-XVIII - Peter Burke di stingue fra i trasmettitori istituzionali della memoria e i "dilettanti", tut ti coloro cioè che, pur non essendo gente di spettacolo, contribuivano, sebbene inconsapevolmente, alla sopravvivenza degli usi e delle credenze popolari. È questa una trasm issione anonima e collettiva della memoria sociale che costituisce il naturale supporto, si può dire la stessa raison d 'erre, dei professionisti. Nella Grecia antica, anche se dobbiamo pensare che una gran parte della memoria mitica passasse attraverso i racconti domestici dei nonni ricordati da Platone, noi possiamo contare solo su ciò che a suo tempo acquisì, a giudizio degli oculati esegeti alessandri ni, dignità di scrittura. L'oralità, tuttavia, aveva in precedenza costituito la modalità comunicativa culturalmente dominante e il pubblico greco doveva godere del piacere dell 'esecuzione che a noi è totalmente preclu so. Possiamo forse immaginarlo da quanto annota un grande etnologo dell' Ottocento, Giuseppe Pitré, in margine alla sua pratica di raccogli tore di testimonianze sul campo. Ecco come egli descrive i modi della comunicazione di una sua narratrice, quasi fosse una vera professionista della scena : Chi legge, non trova che la fredda, la nuda parola; ma la narrazione della Messia più che nella parola consiste nel muovere irrequieto degli occhi, nell'agitar delle braccia, negli atteggiamenti della persona tutta, che si alza, si gira intorno per la stanza, s' inchina, si solleva, facendo la voce ora piana, ora concitata, ora paurosa,
4· Naturalmente nel rispetto della sincronia rappresentativa dei propri codici (cfr. Snodgrass, 1982).
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ora dolce, ora stridula, ritraente la voce de ' personaggi e l'ateo che essi compiono ( Picré, 187s, vol. I, p. XIX).
Non è facile stabilire quanto questa vivacità dovesse essere strumento an che dell' interprete antico e quanto non fosse spontanea, ma obbedisse a precise regole di comunicazione, a un preciso orizzonte d'attesa dei de stinatari. Si può supporre, infatti, che il mito antico fosse affidato a una disciplinata inventività poetica e non si esaurisse in mera ripetizione del racconto, soggetto alle sole in intenzionali trasformazioni del tempo. Ospite dei Feaci, Ulisse, dopo aver ascoltato il cantore Demodoco, gli si rivolge alla fine del banchetto : Demodoco, ci stimo sopra cucci i mortali, perché eu sei istruito dalle Muse, fi glie di Zeus, e da Apollo. Tu sai cantare con precisione la sorte degli Achei, quel che essi hanno facto e patito e quanto hanno sofferto, come eu stesso fossi stato presente o lo avessi udito da un altro. Ma ora cambia e canea ordinatamente del cavallo di legno fabbricato da Epeo con Atena, che il divino Ulisse introdusse con I' inganno sull'acropoli dopo averlo riempito dei guerrieri che distrussero Ilio ( Odissea, 8, 487-495 ) .
Che cosa chiede Ulisse all'aedo ? Di raccontare un episodio della guerra a lui caro o di eseguire una rapsodia già composta e conosciuta ? E su che cosa si misura la perizia del cantore : sulla mera esecuzione o sull'elaborazione poetica della vicenda ? Una risposta sicura appare difficile. Le domande anzi tendono a moltiplicarsi; ma una cosa è certa: è sempre chi narra, consape vole o inconsapevole, a offrire la prima traccia per l'approccio al racconto, e altrettanto certo è che tale traccia può spesso riuscire fuorviante. Un non comune studioso del mito antico, che intrattenne anche un interessante carteggio con lhomas Mann, Karl Kerényi, simulò perciò un esperimento : immergersi nella grecità che i miti hanno prodotto e dei qua li viveva, fingere di essere un greco che, spassionatamente, narra le storie conosciute, imparate fin da ragazzo, chissà dove e chissà da chi, allo stesso modo che - potremmo noi dire, ma egli non lo dice - per il racconto della cometa che guida i Magi fino alla stalla di Betlemme: Il "noi" in questo libro non è che un espediente del racconto, per mezzo del quale più facilmente si ricolloca la mitologia nel suo medium originario. Ricorrendo a cale espediente, I' autore non pretende per sé un'autorità più alca di quella che gli studiosi con il loro "noi" generalmente si accribuiscono. In nessun modo può es-
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sere evitato il fattore soggettivo. Qualsiasi esposizione della mitologia è una inter pretazione e ogni interpretazione dipende anche dalla sensibilità dell' interprete. Ma si rifl e tta: dalla mancanza di sensibilità per la musica, per la poesia, per la pit tura potrebbe risultare una buona interpretazione delle opere che appartengono a quelle arti ? Il fattore soggettivo non può essere escluso; ma deve essere limitato dalla coscienza dell ' interprete e dalla sua fedeltà alla materia. Qui si è cercato di ottenere la massima fedeltà, seguendo nei racconti, ove sia possibile, letteralmente i testi originali (Kerényi, 1963, vol. I , p. 18).
Il libro di Kerényi ha avuto grande fortuna, ma piuttosto come prontua rio enciclopedico da consultare che come testo narrativo ; ha sostituito, si può dire, non senza vantaggio, la Biblioteca di Apollodoro, fallendo però l ' intento enunciato. Era prevedibile, perché non si può raccontare senza assumersi pienamente la responsabilità del racconto, specialmente se quel che si narra non lo si è appreso da inconsapevoli ascolti infantili, ma da « testi original i >> cui ci si è voluti mostrare fedeJis. Vale per il mitologo quel che Clifford Geertz mostrò valere per l'antro pologo : l ' illusione di essere neutrale registratore e trasmettitore, quasi che la traduzione da un contesto culturale a un altro possa svolgersi senza ef fetti di soggettivo turbamento, talvolta determ inanti, del mediatore, senza la sua, seppur involontaria, sempre invadente intromissione: Gli etnografi hanno bisogno di convincerci (i nostri due esempi ne danno una di mostrazione quanto mai efficace} non soltanto del fatto che sono veramente "stati là'; ma anche del fatto che, come è evidente ancora nei nostri due esempi, benché un po' meno evidente, che se a nostra volta noi fossimo stati là avremmo visto ciò che essi videro, sentito ciò che essi sentirono, concluso ciò che essi conclusero (Geertz, 1990, p. 23)'.
L'osservatore, la sua formazione culturale, la sua personale sensibilità e in telligenza dovrebbero in qualche modo annullarsi davanti all'oggettività dei fatti, ma la verità, concluderà Geertz, è alquanto diversa: S· A proposito di questo libro scrisse Burkert {1980, p. 191}: «Il mito mostra la sua auten ticità nella sua forma genuina, la narrazione; perciò una scrupolosa rinarrazione è la vera e propria interpretazione >>. 6. I due esempi sono gli scritti di R. Firth e di L. Danforth, ma la polemica è assai più ampia e comprende anche la grande figura di Bronislaw Malinowski, di cui Geertz riporta alcune significative pagine del diario pubblicato postumo {cfr. Geertz, 1990, pp. 81 s.}.
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Le pretese sono numerose, ma tutte finiscono per convergere, in un modo o nell'altro, sullo stesso tentativo di eludere ciò che non può essere eluso, e cioè il fatto che tutte le etnografie sono fabbricate, per dire così, a casa propria, poiché sono descrizioni di chi descrive e non di chi è descritto (ivi, p. 153).
Un esempio di mitopoiesi del mitologo, molto interessante perché di grande successo, è la creazione di una vera e propria figura mitica, quella del trickster, che Pau! Radin ricavò nel 1 9 5 6 da una serie di racconti degli Indiani winnebago, una popolazione sioux da lui studiata per trent 'anni, di cui conosceva la lingua e la scrittura. Il padre di Radin, un rabbino di L6dz, verso la fine dell'Ottocento era emigrato con la famiglia in America e qui Radin crebbe e studiò fino a diven tare allievo di Boas. In The Trickster (inJung, Kerényi, Radin, zoo6), pubbli cato nel 1 9 5 6, il saggio dell'autore è preceduto da una serie di racconti degli Indiani winnebago e seguito da un confronto svolto, da Kerényi, con alcuni miti greci e da un saggio di Jung. Nei racconti, la cui silloge fu realizzata da testimoni indiani, Radin pretende di riconoscere un vero e proprio ciclo nar rativo che mostrerebbe un percorso iniziatico di un unico protagonista7• Ma ciò che non convince è la stessa definizione della figura mitica: ingannatore e ingannato, essa è accostata a Hermes e a Prometeo e trova poi in Jung una sublimazione ad archetipo del capovolgimento analogo a quello del Carne vale. In realtà il "briccone" winnebago è impersonato da uomini e da animali (ad esempio, il coyote), che agiscono in un mondo nel quale appare difficile tanto definire l'assurdo quanto stabilire un qualsiasi criterio di verisimiglian za, che appartengono a un contesto completamente diverso, nel quale l'op posizione vero/falso non ha la rilevanza etica alla quale noi siamo abituati. Non sembra perciò avventato ritenere che la figura ambivalente del trickster quale Radin ce la presenta, e che non trova alcun riscontro nella mitologia greca, sia un'astrazione prodotta da una raffinata logica dialettica, ma che assai poco riesce a suggerire della mentalità che ha generato quelle storie. Raccontare, d'altronde, è sempre interpretare, anche solo emotivamen te, quel che si racconta ; lo mostra, distinguendo tra i diversi tipi di narKerényi (Jung, Kerényi, Radin, 2006, p. 148) non nasconde il proprio scetticismo: «Devo confessare di non essere mai riuscito a discernere un'evoluzione interna dell'eroe, sia nei racconti winnebago del Briccone che in qualsiasi altra rappresentazione arcaica, narrativa o puramente drammatica che fosse. Gli dèi e gli esseri primordiali non hanno alcuna dimensione interiore, e così pure gli eroi, che appartengono alla stessa sfera » . 7·
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ratori, Arnold van Gennep, uno studioso ben esperto della trasmissione della memoria popolare8• Nel 1 9IO, un anno appena dopo l'apparizione del suo noto libro I riti di passaggio, Arnold van Gennep pubblica Le origini delle leggende; egli è impegnato nel conciliare in un unico quadro inter pretativo i propri iniziali interessi etnologici con il successivo studio del folklore, e lo studio delle « leggende >> si rivela un significativo banco di prova9. Leggende o miti ? La distinzione dei generi è ricordata da van Gen nep all' inizio della sua indagine, ma solo per venire subito messa da parte : Non solo queste definizioni si sono dimostrate nel loro impiego troppo limitate, ma - di fatto - è impossibile per la grande maggioranza dei casi distinguere a quale categoria appartenga esattamente un determinato racconto ( van Gennep, 1991, p. 37 ). Tutte le definizioni proposte sono dunque esatte e inesatte nello stesso tempo: cia scuna di esse abbraccia un numero più o meno considerevole di fatti, senza tener conto dei casi intermedi, che non sono trascurabili né per numero né per diffusione. E in questo non c 'è nulla di disonorevole per la scienza né di spiacevole, spero, per il lettore (i vi, p. 40 ).
Riferendosi alle leggende, alle storie trasmesse nell 'ambito di quello che noi definiamo folklore, van Gennep distingue tre differenti tipi di narra tori: l ' individuo « medio >> e di buona memoria si limita a ripetere con precisione quanto ha imparato ; l' « intelligente >> tende intenzionalmente ad arricchire e migliorare il racconto tradizionale ; l' « istruito >> , colui che ha viaggiato e ha conosciuto ambienti diversi, porta anch'egli variazioni, spesso non intenzionali, ma per lo più dovute all ' interferenza delle espe rienze occasionalmente acquisite : Così si spiega questo fatto che di primo acchito sembra strano: ciò che è popolare varia poco, tuttavia la letteratura popolare varia moltissimo ( ivi, p. 166).
Nella Grecia arcaica il lavoro sul mito è essenzialmente affidato alla me moria del cantore, che non si manifesta come estro individuale, libero nel8. A lui si deve il monumentale repertorio Lefolk/ore.français, 3 voli., Paris 1943·48. 9· Un breve, ma denso e ricco di suggestioni, profilo di van Gennep è quello tracciato da Cesare Bermani nella Prefazione alla versione italiana dell'opera qui citata: van Gennep (1991, pp. 1 ss.).
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la scelta di terni e di modi, ma secondo le regole della propria funzione sociale, cioè del genere poetico che la tradizione volta a volta richiede. La narrazione dell'aedo, la rnonodia sirnposiale e il canto corale possono es sere forme diverse di trasmissione del medesimo racconto, ma ciascuna inevitabilmente lo rirnodella secondo la propria espressività, accentuando ne diversamente i tratti compositivi e di conseguenza l ' impatto emotivo complessivo. Così puntualizza Calarne: È tempo di ripetere che i racconti greci si realizzano sempre in una forma leccera ria o iconografica specifica. E chi dice forma lecceraria dice funzioni e condizioni enunciative particolari. Rivolgere la propria accenzione alla realizzazione del rac conto significa interrogare la sua messa in discorso, significa mettere in questione l' impacco del genere letterario scelto sull'oggetto considerato come micico ( Ca lame, 1 988b, p. 1 2).
La rnitopoiesi è continua, con mutamenti non definibili in modo univoco. A essa contribuiscono, oltre alle differenze di genere, i diversi ambienti geografici. Talvolta una storia trova una propria precisa localizzazione - è il caso della disputa tra Zeus e Prometeo, che la Teogonia esiodea stabilisce a Metone, o di alcune delle fatiche di Eracle -, talvolta il luogo resta invece indeterminato, talvolta, infine, si va spostando secondo il graduale avan zare della colonizzazione greca ali ' Ovest, così il paese dei Feaci, posto ai termini delle terre che via via si venivano a conoscere. Non diversamente da Ulisse, i Greci che ascoltavano un mito narrato da un rapsodo o cantato da un coro, o, ancora, rappresentato su una scena, conoscevano già tutti la storia nei suoi tratti essenziali, come noi tutti co nosciamo e sappiamo riconoscere nelle pitture delle chiese la predica agli uccelli di San Francesco o la resurrezione di Lazzaro. Né la storia udita restava isolata, ma ne richiamava altre altrettanto note. Non si può tacere, inoltre, l 'aiuto che alla memoria rnitica veniva dall ' i conografia; può esserne buona testimonianza la parodos dello Ione di Euri pide con il coro di ancelle ateniesi che, giunte al tempio delfico di Apollo, ne scoprono i bassorilievi: Ecco qui, guarda: l' idra uccisa con la falce dorata dal figlio di Zeus. Osservalo bene, mia cara. - Lo vedo, e accanto a lui un altro tiene alca una fiaccola. È quel lo di cui si parlava ai celai, lo scudiere Iolao, compagno di fatiche del figlio di Zeus ? - E guarda questo sul cavallo alato che uccide il potente che spira fuoco dai ere corpi. - Seguo cucco con gli occhi per vedere sulla parete marmorea la mischia dei giganti ( Euripide, Ione, 190-207 ).
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È una ridondanza di figure e di racconti che costituiva u n altro mondo, narrato e rappresentato, con il quale si era costantemente indotti a con frontarsi. Le narrazioni poetiche, sovrapponendosi e intrecciandosi, giungono a produrre, infatti, una vera e propria società divina ed eroica nella quale si vanno componendo ordinatamente storie disparate, forse di diverse provenienze e di diversi caratteri originari. Si deve supporre nella maggior parte dei destinatari la capacità di riconoscere non solo la storia raccontata, ma anche le altre cui il narratore poteva fare anche solo fugge vole accenno. Non si capirebbe altrimenti il senso delle allusioni ad altri miti che spesso si trovano in Omero e nella tragedia'0•
Un tempo senza tempo Dalla semplice trasmissione all ' incremento del patrimonio mitico il passo non è lungo. Si può vedere bene in Grecia se si guarda il contributo dei poeti ellenistici, cominciando da Callimaco, all'arricchimento del sistema mitologico nel quale essi inseriscono, con l 'autorità di letterati, episodi e personaggi minori provenienti dalle tradi zioni locali. Questo processo di accumulo ben noto in età storica non illumina però molto la dibattuta questione dell 'origine del racconto mitico. Sono diver se le proposte degli studiosi moderni che si sono susseguite e accavallate : il mito nasce come memoria indistinta di un avvenimento storico di parti colare rilievo, ad esempio la fondazione di una nuova città; come risposta ad aspetti di un rito divenuti enigmatici e bisognosi di una spiegazione che restituisca loro un significato ; come esplicativa celebrazione di fenomeni naturali; come discorso di persuasione catechetica ecc. Ciascuna di queste ipotesi può certo contare su esempi convincenti, ma nessuna riesce a dar conto della moltitudine dei racconti e tanto meno del loro comporsi in un tutto sostanzialmente coerente. Quel che emerge in ogni caso con sufficiente chiarezza è che non si tratta dell ' invenzione di singoli narratori, ma sempre di un processo di elaborazione collettivo di un gruppo sociale coeso che si riconosce nelle proprie storie. Il carattere collettivo dell'elaborazione m itica può indurre, e ha indotto, a qualche equivoco, primo tra tutti di assumere la narrazione che spesso presenta tratti di irrealtà fantastica come carat-
10. Cfr., ad esempio, Niobe (Iliade, 24, 6o2), Meleagro (ivi, 9, 524), Procne (Eschilo, Sup plici, 67; Euripide, Medea, 1282).
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terizzazione di un'epoca nella quale la ragione era assente e gli uomini pensavano e si comportavano come i personaggi delle storie narrate. È quanto sottende la formula "dal mythos al logos" già ricordata e che ebbe un certo successo come erede positivistica di un' interpretazione evolu tiva della società greca. Più efficace di un lungo commento è la concisa critica di Hans Blumenberg : Che il corso delle cose sia proceduto "dal mito al logos" è una costruzione, oltre che falsa, pericolosa, perché ci induce a credere che in qualche punto nella lon tananza del passato sia stato compiuto l' irreversibile balzo in avanti in seguito al quale qualcosa fu definitivamente ricacciato dietro di noi mentre per il futuro restavano da fare solo passi in avanti ( Blumenberg, 1991, p. 52).
Il mito, è vero, pretende di restituire il passato, un tempo nel quale umani e divinità potevano interloquire, l 'uomo rivolgersi al dio, ascoltarne di rettamente i comandi per poi obbedire o disobbedire. Ma questa stagione appartiene davvero all 'anteriorità o non è piuttosto manifestazione di una diversità ? Anzitutto conviene ricordare che le condizioni del "tempo del mito" e i perso naggi mitici in tutte le mitologie sono caratterizzati come diversi da quelli dell'e sistenza quotidiana. Per una cultura tipicamente agraria il "tempo del mito" può configurarsi come quel tempo in cui l'agricoltura non esisteva ancora e in cui si viveva p. es. di caccia e vi erano grandi cacciatori. Anzi è proprio questa valenza mitica della caccia che spiega l'abbondanza dei miti di caccia nella mitologia di una società agraria ( Brelich, 1977, p. 17 ).
Così Angelo Brelich, che riconduce la narrazione m itica alla società che l ' ha prodotta e che in essa dimostra la propria diversità dalla società che l ' ha preceduta e della quale serba ricordo, seppur contraddittorio. La considerazione di Brelich richiama la prospettiva storicistica dell 'ultimo Propp, che è alla base dell' imponente libro Le radici storiche dei racconti
difate: Pertanto vediamo che il racconto di fate ha conservato tutte le specie di divieti che un tempo circondavano la famiglia reale : il divieto della luce, dello sguardo altrui, del cibo, del contatto con la terra, dei rapporti con la gente. La coinci denza tra il racconto di fate e il passato storico è così completa da permetterei di affermare che in questo caso il racconto di fate riflette la realtà storica ( Propp, 1 949. p. 64 ) .
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Il richiamo a una visione storica del mito fu fatto da Brelich in un contesto molto importante, la sua relazione di apertura del convegno internazio nale sul mito greco organizzato da Bruno Gentili a Urbino nel maggio 1973, nel quale furono consapevolmente messi a confronto i due approcci al mito allora più significativi: quello del centro parigino di Jean-Pierre Vernant e Marcel Detienne, il futuro Centre Gernet, sotto l ' ispirazione teorica dello strutturalismo di Claude Lévi-Strauss, e quello della scuola romana di storia delle religioni, formatasi intorno a Raffaele Pettazzoni, di cui appunto Brelich restava la figura di maggior rilievo. L'origine del mito è così indagata da punti di vista in apparenza oppo sti: la sua congruità sociale da una parte, la differenza dall 'altra. L'approccio strutturalista riporta il mito al rito, intendendolo non solo come elemento della pratica rituale, ma quasi sua estrinsecazione e prolun gamento : il mito di Adone non è solo un racconto, ma implica un insieme di pratiche cultuali e narrative e di conoscenze botaniche e zoologiche a queste implicite. Diversamente la prospettiva storicista. Propp parla di « inversione del rito >> . Il racconto della fanciulla consacrata al sacrificio e liberata dall 'eroe protagonista della fiaba - ma non mancano certo esempi anche nell'am bito del mito - presuppone un rito propiziatorio dal quale il liberatore era assente, anzi: Nel racconto di fate compare il protagonista e libera la fanciulla dal mostro al qua le era stata portata perché la divorasse. In realtà all'epoca della esistenza del rito un simile "liberatore" sarebbe stato fatto a pezzi come uno scellerato che metteva a repentaglio il benessere del popolo e del raccolto ( ivi, pp. 39 s.}.
Il racconto capovolge in questo caso il significato del rito : Il soggetto non nasce dall'evoluzione del riflesso diretto della realtà ma da un pro cesso di negazione di questa realtà. Il soggetto corrisponde alla realtà per antitesi {ivi, p. 40 ).
Il mito, dunque, è sì riconducibile al rito e ne mantiene in un certo modo la memoria, ma la risemantizza per renderla di nuovo accettabile nelle mutate condizioni storiche. « Questi mutamenti >> , ammonisce tuttavia Propp. « devono essere rilevati e spiegati caso per caso >> ( ivi, pp. 39 s.). Anche Walter Burkert in Homo necans riconduce rituali e racconti di sacrifici cruenti praticati nella Greci a storica alla loro origine preistorica, a
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un'età diversa, nella quale erano diversi i mezzi di sussistenza e l 'organizza zione della società. Così, ad esempio, il m ito arcadico di Licaone o quello di Pelope che viene servito in pasto agli stessi dei riuniti a banchetto : A partire da Pindaro i greci hanno spostato volentieri questo mito del banchetto cannibalico degli dei in Asia Minore, a Sipilo. Mitologi moderni prendono in considerazione l ' ipotesi che i miti di Licaone e di Tantalo si siano reciprocamente influenzati. Tuttavia, il modo in cui entrambi descrivono con chiarezza un'azione sacrificale, nonché i particolari relativi allo smembramento e alla bollitura delle carni nel calderone sino alla caratteristica chiusura della "rianimazione" attraverso la ricomposizione delle ossa, lasciano presumere che entrambi i miti siano radicati nel rituale del loro luogo. Non in Asia Minore, ma a Olimpia si poteva vedere la spalla di Pelope. Se qui recinto di Pelope, altare di Zeus e stadio erano situati I 'uno vicino ali 'altro, la sola donna autorizzata a entrare nello stadio era la sacerdotessa di Demetra Chamyne ( durante i giochi sedeva presso un altare di fronte agli Hel lanodikai) : Pelope, Zeus e Demetra sono connessi nel rituale proprio a Olimpia. Il mito cannibalico di Pelope, che tanto atterriva Pindaro, appartiene ai giochi olimpici ( Burkert, 1981, p. 84).
L'uomo cacciatore, al quale il sacrificio animale è ricondotto, non rappre senta soltanto uno stato più primitivo della storia umana, ma ne segna in qualche modo la contiguità con non pochi tratti della socialità degli ani mali. L' indagine sul rito conduce Burkert alla considerazione dell 'etolo gia, la cui conoscenza, dieci anni dopo, si rivela elemento importante delle riflessioni teoriche che egli svolge sui rapporti tra rito e mito e sulla loro sostanziale complementarità : "Mito" significa narrare un racconto dal riferimento differito, costruito sulla base di un qualche modulo di azione fondamentalmente umano; il rituale è azione ste reotipa ri-diretta a scopo dimostrativo. Entrambi perciò dipendono da programmi di azione, entrambi sono avulsi dalla realtà fattuale, entrambi hanno fini comuni cativi; le strutture del racconto sembrano prefigurate in una serie di imperativi, e I' imperativo è stato altresì definito la forma stabilizzante del rituale. Il rituale è più antico, dal momento che lo si trova anche nel mondo animale; ma ciò non significa che il mito tragga necessariamente le sue origini dal rituale : i racconti sono verba lizzazioni elementari dirette delle azioni umane ( Burkert, 1987, p. 92 ) .
Burkert ricorda anche un'antica storia riferita da uno scrittore vissuto nel secolo d.C., il leggendario racconto della conquista della città di Eritre risalente ai tempi della colonizzazione ionica più di un millennio prima. Cnopo, il condottiero degli Ioni, fa venire in proprio aiuto dalla Tessaglia la n
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sacerdotessa-maga Crisane; questa sceglie un toro di particolare bellezza, gli indora le corna, lo adorna di nastri ricamati e lo nutre di droghe fino a che le sue carni diventino tossiche e possano procurare la follia a chi se ne cibi. Si finge poi un sacrificio, ma l'animale è invece fatto fuggire nel campo ne mico, dove è catturato e sacrificato. La follia si diffonde così nell'esercito ne mico e Cnopo può ottenere una facile vittoria e la conquista della città. La storia richiama il racconto del cavallo di Troia, in cui l'animale del sacrificio è trasformato in un vero e proprio ordigno bellico, ma è anche riconducibi le al rito dell'ariete ittita e della pecora indiana, spediti nel campo avverso come portatori del male, rituali non molto diversi da quello purificatorio del pharmakOs, il capro espiatorio, che libera il popolo da ogni colpa. Tuttavia, ammonisce Burkert, occorre guardarsi da troppo facili sem plificazioni: È vero che il mito può riflettere certe situazioni storiche alle quali è stato applicato il racconto tradizionale, ma è sbagliato concludere che se un mito è usato e ha sen so in una certa situazione, è stato inventato o "creato" espressamente per questo scopo (ivi, p. 1 28).
Il mito si colloca nel passato, ma è anche da considerare com'esso si in tegri in un sistema di credenze religiose e di diverse pratiche cultuali. È in questo partecipare della sfera del sacro che si spiega una sua apparente contraddittorietà, vale a dire essere la memoria di un passato irreversibile e possedere allo stesso tempo una permanente virtualità, pretendere cioè una propria operante extratemporalità : Il mito prende l'avvenimento e lo incorpora al proprio dominio, ove diventa eter no e si produce ora e sempre ; agisce tipicamente. Quel che in natura avviene ogni giorno, ad esempio il sorgere del sole, nel mito avviene una volta sola. È necessario ripeterlo, affinché il fatto rimanga vivo. In questo modo l 'avvenimento mitico è insieme tipico ed esterno; è collocato al di fuori di ogni determinazione tempora le. Se tuttavia si cercasse di fissarvelo, bisognerà porlo sia all ' inizio sia alla fine di tutte le cose, nel tempo primitivo o al termine escatologico, in breve prima o dopo il tempo (van der Leeuw, 1975. p. 3 23).
Così annota Gerardus van der Leeuw, autore di un'analisi fenomenologica della religione e attento indagatore di ogni aspetto istituzionale e psicolo gico dell'atteggiamento umano nei riguardi della divinità. Egli perciò de finisce anche il mito come « tempo senza tempo >> ( ivi, p. 324) e, in quanto
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tale, mezzo essenziale di passaggio dalla sfera dell'umano temporalmente definito a quello dell 'extratemporalità del divino.
I limiti e le occasioni
Ma che cos'è quantitativamente un mito, qual è cioè la sua reale dimensione, i suoi limiti, quali il principio e la fine, che cosa possiamo definire come un mito ? Si è già visto come sia Propp. sia Lévi Strauss dividessero il racconto in una serie di segmenti narrativi in sé signi ficanti, funzioni o mitemi; gli stessi studiosi tuttavia considerano la storia, nel caso la storia di Edipo, una sequenza di eventi ben più ampia di quella della tragedia di Sofocle. Analogamente Detienne riporta l'uccisione di Dioniso a un quadro di racconti assai più complesso : L'assassinio di Dioniso ad opera dei Titani s' iscrive allora in una serie che com prende i miti di Prometeo, le rappresentazioni del!'omofagia dionisiaca, le specu lazioni pitagoree sulla morte del bue aratore, ma deve anche comprendere i diversi racconti elaborati dalla città nel quadro del rituale delle Bufonie, dell 'uccisione del bue, racconti che si connettono essi stessi con altre serie di miti, come per esempio quella centrata sull 'uccisione del primo animale sacrificato (Detienne, 1977o p. 79).
Già i mitografi antichi tendevano a concatenare più storie in una narra zione continua, nella quale la successione era garantita da forti nessi di causa-effetto. Così l'Epitome apollodorea sviluppa in un'unica sequenza narrativa Eris che getta il pomo dorato per vendicare la propria esclusione dalle nozze di Peleo e Teti, la disputa delle tre dee per aggiudicarselo, il giudizio di Paride, il conseguente ratto di Elena concessagli da Afrodite, la chiamata a raccolta degli eroi greci e la spedizione a Troia, la guerra, la conquista della città e i ritorni degli eroi in patria. Sono anche scrupolo samente registrate non poche varianti e digressioni, come la permanenza di Elena in Egitto e la sua sostituzione con un fantasma, gli stratagemmi di Ulisse per sottrarsi ai doveri della guerra, il saccheggio della Misia ecc. È chiaro che siamo qui davanti a una compressione enciclopedica; ma la costruzione della sequenza è opera del tardo compilatore o era già stata compiuta, almeno parzialmente, dall'elaborazione poetica dei racconti ?" u. È questo lo stesso problema della composizione rapsodica di Iliade e Odissea compiu tasi diacronicamente (cfr. West, 1999 ).
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Non sembra facile stabilire i termini di un mito, un suo principio e una sua fine, perché quello che possiamo per comodità definire il mondo del mito pare presentarsi come un tutto, un insieme di storie fittamente intrecciate che finiscono col comporre un unico tessuto. L'antica poesia agisce in due direzioni: aggregando, come ad esempio nell ' Odissea e nelle Eracleidi, storie in origine distinte, o ritagliando, come di regola fanno le tragedie (Aiace, Filottete, Medea), un episodio di una vicenda più comples sa e focalizzandovi gli elementi ritenuti più significativi del! ' intera storia. Il mito ha nell' immaginario comune un significato sociale primario perché evoca una memoria condivisa, ma non sempre gli studiosi moderni del mito greco paiono abbastanza attenti al legarne che connette mito e pratica religiosa. Ciò si deve all'assenza, nella Grecia classica al di fuori dei santuari, di una specifica istituzione preposta al culto e atta a esercitare su di esso un vigile controllo. La proliferazione delle narrazioni poetiche nelle città greche surrogò quindi, nell'amministrazione dei racconti sacri, l 'assenza di un clero professionale. Se ci si sposta dalla Grecia la prospettiva muta : il racconto assolve spes so la funzione di regolare la sfera della sacralità. Così spiega Jean Bottéro, uno dei maggiori studiosi del Vicino Oriente antico : Il 4 di Nissan le stesse abluzioni mattinali del «Grande Fratello » , che doveva poi « tirare il sipario>> che nella cella nascondeva le immagini di Marduk e della sua sposa Zarpanit, ai quali ciascuno separatamente rivolgeva una preghiera, ri cordata come d'abitudine con le prime parole : «0 Signore, il più potente, il più esaltato degli dei. .. >> e «0 potente dea, la più glorificata di tutte ... >> . Dopo di che egli usciva nella grande corte del tempio e come per sottolinearne il significato cosmico nella circostanza interpellava tre volte l' Esagil, chiamandolo « Immagine dell'universo, in alto e in basso >> . Apriva allora le porte perché i diversi offician ti, kalu e cantori, venissero a eseguire i loro riti. Poi, una volta serviti gli dei e concluso il «piccolo pasto della sera >> , recitava integralmente davanti a Marduk l ' Epopea della creazione, ciò che in ogni modo sottolineava ancora il vero senso della festa, universale e cosmogonica ( Bottéro, 1998, pp. 309 s. ) .
La recita integrale dell ' Enuma e/ii, il poema della creazione che si conclu de con il trionfo di Marduk, faceva dunque parte integrante della liturgia della solenne festa commemorativa : Così nell'antica Mesopotamia recitare il Poema della creazione nella festa dell'an no nuovo (akitu) era come ripetere l'atto della creazione, era come se il mondo
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avesse ancora una volta principio, e c o n c i ò l'anno era veramente inaugurato nel modo migliore, come un nuovo ciclo di tempo che si apriva con un nuovo atto creativo (Pettazzoni, 2 0 0 5 , pp. 18 s.).
Qualche cosa di simile doveva accadere nella celebrazione dei misteri eleusi ni, dove l' iniziazione dei misti si compiva anche con l'ascolto di un raccon to, probabilmente quello dell'arrivo e del soggiorno a Eleusi di Demetra, la dea fondatrice del santuario. Ed è nei santuari che Erodoto e Pausania, in epoche diverse, avevano ascoltato alcuni dei racconti che ci riferiscono. Così la lettura del libro di Ester è legata nella tradizione ebraica alla ce lebrazione della festa di Purim e la lettura di alcuni precisi episodi dell'An tico e del Nuovo Testamento, nella ritualità cristiana, cattolica e ortodos sa, dipende dal calendario liturgico. Il racconto risulta così, nello stesso tempo, parte e spiegazione del rito officiato. Una forma di ritualizzazione del mito, sia pure fuori da un quadro isti tuzionale, è riconosciuta da Pettazzoni nell 'uso presso alcune popolazioni indigene dell'Arizona di far seguire pratiche purificatorie all'ascolto del racconto. Annota lo studioso : Lo scrollarsi, il lavarsi, il perder sangue erano tutte operazioni eliminatorie ten denti allo stesso scopo, cioè a liberare l'ascoltatore dagli influssi perniciosi da lui contratti durante l'ascoltazione, ossia durante l'evocazione di quegli eventi impres sionanti o addirittura sinistri, come presso i Yavapai la morte del dio, la quale, così evocata, poteva per virtù simpatica produrre la morte dell'ascoltatore (i vi, p. 20 ).
Ma che cos'è un mito ? Come si può definire nella sua essenza ? Burkert, con la consueta equilibrata prudenza, scrive : Questa sarebbe la mia tesi conclusiva: il mito e un racconto tradizionale con un riftrimento secondario, parziale, a qualcosa che ha importanza collettiva (Burkert, 1987, p. 38).
Jack Goody, dopo assai diverse esperienze, non si esprime in termini molto diversi: Userò quindi il termine "mito" a designare un genere, una lunga recitazione rite nuta centrale per una società o un gruppo particolari (Goody, 2000, p. 1 5 1 ).
C 'è d 'altronde da evitare un equivoco : ritenere che con i suoi racconti l'antica Grecia ci abbia anche trasmesso una definizione del mito. Lo chia-
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risce molto bene Claude Calarne nella riflessione metodologica in apertu ra del suo volume Mito e storia nell'antichità greca: Orbene, a voler guardare più da vicino, i Greci non hanno mai né elaborato un concetto unitario e definito di mito, né riconosciuto nel patrimonio dei loro racconti un insieme che rispondesse in modo preciso ai contorni di questa cate goria. [ . .. ] Si è dunque utilizzato un termine greco per indicare una categoria diversa da quella che esso ricopriva nel suo impiego indigeno (Calarne, I999· pp. II s.).
Lo stesso Calarne, infatti, a premessa di una puntuale analisi lessicale, ave va già precisato : Per quel che concerne l'approccio antropologico alla cultura antica, ciò signifi ca che si è posta sotto un termine greco, ftii9oç, una categoria moderna, propria della cultura occidentale. Ma questo implica che corrispondentemente a questo spostamento dall'antichità al moderno, si è proiettato sull'antichità il significato moderno attribuito a questo termine (Calarne, I996, p. 8s).
!lii9oç significa infatti in greco "racconto� "parola� "chiacchiera� ma non individua di per sé una specifica narrazione di personaggi divini, o una spiegazione eziologica o ancora una saga, come ci ha abituati a credere l'accezione moderna. Non si tratta neppure di un'omonimia stabilitasi per successivi slittamenti semantici, com'è il caso di pathos; mythus è termine latino, inventato da Heyne, che in latino scriveva, per sostituire il troppo generico fabula (favola, fobie) che comprendeva e confondeva i racconti riportabili alle antiche narrazioni degli dei e degli eroi, i miti appunto, e qualsiasi storia ritenuta non vera a cominciare dalle fiabe di magia. Ma proprio questo dissimulato neologismo ha prodotto, già nel corso dell' Ot tocento, e poi via via per tutto il Novecento, una serie di elaborazioni con cettuali proposte come chiave interpretativa di una presunta maturazione naturale della cultura greca. Forse l ' incertezza sulla definizione dipende anche dal fatto che a noi dei miti greci restano, e non è poco, le narrazioni dei poeti. Composizio ni poetiche, cioè testi, ciascuno conforme al genere poetico d'esecuzione che gli era proprio e perciò esaminabile secondo differenti regole d'anali si testuale. È sempre Claude Calarne, che seppe proficuamente coniugare interesse antropologico e competenza narratologica, a offrirei interessanti esempi di lettura miranti alla decifrazione del testo nella prospettiva già
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suggerita da Lévi-Strauss piuttosto che alla sua interpretazione, alla ricerca cioè di un significato riposto : Nell'ottica di Lévi-Scrauss il mito non è da comprendere, ma da decodificare. Non si cracca di decifrare un messaggio a partire da un codice conosciuto per rescicuirne il senso, ma a partire da un messaggio dato, in se stesso insignificante o assurdo, trovare il codice segreto sul quale esso si fonda e che ne ha governato la diffusione ( ivi, p. 245).
Karl Otfried Miiller, nel 182.s, concludeva così la propria trattazione che pretendeva di inaugurare un approccio scientifico al mito : Perciò io oso stabilire come principio fondamentale di questo libro che nella craccazione dei miei la spiegazione vera e propria non deve essere concepita in alcun modo come la prima cosa da fare, ma piuccosco, se mai, l'ultima (Miiller, 1991, p. 197).
L'affermazione, pur collocandosi nella polemica di quegli anni, pone un problema rilevante anche se spesso trascurato nei tempi successivi: che si gnifica cercare il senso di un racconto ? Il narratore ne suggerisce sempre uno ; talvolta addirittura lo dichiara, ma non è detto che questo sia il vero significato che egli gli attribuisce, il motivo che lo ha mosso a raccontarlo. Dovremmo altrimenti credere che tutto l'Edipo re si risolvesse per Sofocle nella gnome finale messa in bocca al coro : Abitanti della patria Tebe, guardate qui Edipo, che conosceva illustri enigmi ed era l 'uomo più potente, del quale non ci fu chi non covò invidia, a qual punto di tremenda sventura è giunco. Nessun mortale perciò che non abbia visco il suo ultimo giorno deve ritenersi felice prima di aver varcato il termine della vi ca senza sofferenza (Sofocle, Edipo re, vv. 1524-1530 ).
L'esperienza insegna che per lo più non è prudente fidarsi dell 'autore, an che quando egli sia in buona fede, perché quel che egli narra non si esauri sce nelle sue intenzioni di narratore ; come poi fidarsi quando il racconto non è suo se non per la formulazione che egli gli conferisce, che è già quin di un intervento esplicativo ? Molte narrazioni aediche sono, in effetti, veri e propri esercizi di risemantizzazione. Chi legge, attento alle smagliature che si delineano nel tessuto narrativo, si rende conto ad esempio che già solo nell'attuale Odissea convivono almeno due distinte figure di Ulis-
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se: da una parte lo scaltro, proteico ingannatore, l 'eroe dei travestimenti, dell'astuzia e dell ' imbroglio, dall'altra l 'eroe bello e saggio, caro alla divi nità e attento esecutore dei suoi consigli, suo docile strumento. I racconti legati a Ulisse e la sua figura mitica mutano quindi non poco nella stessa tradizione antica e hanno indotto molte e ampie ricerche degli studiosi moderni e una copiosa serie di rivisitazioni letterarie. Già nel ristretto ri scontro del!' epos omerico l ' incertezza tocca anche una figura ritenuta assai meno volubile come Achille. Le brevi parole che nell'Ade egli rivolge al visitatore delineano un' immagine diversa dal modello consueto : Non parlarmi della morte, illustre Ulisse. Preferirei lavorare la terra e servire un padrone povero, senza mezzi, piuttosto che essere il signore di questi consunti morti ( Odissea, 1 1 , 488-49 1).
Diversa caratterizzazione psicologica o vera e propria variante ? E, in ogni caso, quanto significativa nell' interpretazione del segmento o dell' intera sequenza mitica ?
La domesticazione del divino
Un secolo e mezzo dopo Miiller, Hans Blu menberg così pone il problema della densità semantica del mito : La qualità da cui ciò dipende può essere designata con un termine mutuato da Dilthey: significativita (Bedeutsamkeit) (Blumenberg, 1991, p. 96).
Di questa "significatività" Blumenberg esplora vari aspetti mostrando come essa possa essere prodotta « sia dall' intensificazione, sia dal depo tenziamento >> ; considera quindi in particolare la storia di Ulisse : La significatività sorge anche dalla rappresentazione del rapporto tra la resistenza che la realtà oppone alla vita e la mobilitazione di energia che mette in grado di affrontarla. Odisseo è una figura dalla qualità mitica non solo perché il suo ritorno in patria è un movimento di restituzione del senso, presentato secondo lo schema della chiusura di un cerchio che garantisce il tenore d'ordine del mondo e della vita contro ogni apparenza di arbitrio e di caso. Lo è anche perché compie il ritorno vin cendo le resistenze più incredibili, non solo quelle delle avversità esterne ma anche quelle dello sviamento interiore e della paralisi di ogni motivazione (ivi, p. 106).
Le storie considerate da Blumenberg non riguardano però gli dei, non sono né racconti cosmogonici, né narrazioni di episodi importanti dello
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sviluppo dell 'umanità. Probabilmente si starebbe più attenti se, anziché vagliare sempre i miti degli altri che, a dispetto di Heyne, continuiamo a considerare pur sempre fobulae, ci si rivolgesse ai miti nostri, di buona parte di noi, quelli che conosciamo si può dire da sempre, che abbiamo ap preso chissà quando e chissà come, i miti di cui abbiamo vissuto e dai quali, nonostante le diverse opzioni intellettuali, tutti ancora necessariamente dipendiamo. La differenza d' importanza ci s' impone allora con immedia ta chiarezza. Il racconto della stella cometa che guida i Magi d' Oriente alla culla del bambino appena nato (cfr. Mt, 2, Io-u), quello del Gesù ra gazzo che disputa nel tempio con i dottori della legge (cfr. Le, 2, 46-47), la trasformazione dell'acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Gv, 2, I-9) si collocano evidentemente su diversi piani di significatività, e tutti in modo diverso dai racconti finali della resurrezione dai morti (cfr. Mt, 28, I-Io; Mc, I 6, I-?; Le, 2 4 , I -9, Gv, 2 0 , I-8), ciascuno dei quali è costruito in modo diverso, a seconda della tradizione da cui dipende. Sulla resurrezione si fonda la certezza di redenzione dell 'uomo, la promessa di vita eterna in cui egli è invitato a confidare. Tutti questi racconti possono perciò entrare in un percorso catechetico, ma è chiaro che devono essere posti a differenti livelli d' importanza. La funzione catechetica, o almeno di ammaestramento morale, è evi dente nelle leggende dei santi che pure mascherano spesso la ripresa di racconti pagani; essa è poi dominante nei due veri e propri miti prodottisi nel contesto di una società già da tempo cristianizzata : quelli di Faust e di don Giovanni. Tali figure si vanno definendo compiutamente nell'età mo derna, quando il cristianesimo occidentale si divide in due schieramenti contrapposti. Le due grandi tentazioni cui soccombono rispettivamente Faust e don Giovanni rappresentano l'esasperazione degli altrettanti at teggiamenti teologici : la conoscenza senza alcuna intermediazione della divinità che caratterizza la Riforma, il rapporto affettivo con la divinità del misticismo cattolico. Entrambi, per la loro presunzione di poter esercitare illimitatamente l'uno la conoscenza l'altro il desiderio, sono puniti, né po trebbe essere altrimenti, con la dannazione eterna. Nel sorgere di queste storie si può vedere bene come gli autori dei primi scritti che ce le tramandano si dissimulino dietro una presunta conoscen za universale degli eventi. La storia di Faust appare manifestamente nella stampa del volume di Johann Spies, ed è presentata come l'ultimo atto di un'estesa anonima tradizione :
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Da molti anni si racconta in Germania una grande saga popolare sul dottor Jo hann Faust, ben noto mago e negromante e sulle sue avventure e perciò molti ri chiesero la storia di Faust, oggetto di tanto interesse, così come era avvenuta nelle case dei suoi ospiti e amici, e come era ricordata dai molti cronisti che descrivono questo mago e le sue arti diaboliche e la sua tremenda fine ; io stesso mi sono stu pito più di una volta del fatto che nessuno avesse raccolto con ordine questa storia tremenda e che avessero perso l 'occasione di comunicare a tutta la cristianità un ammonimento esemplare con la stampa (Spies, 19 80, p. 3).
Non è finzione letteraria di una storia inventata da un autore che gioca a schermirsi. Si sa bene che racconti analoghi, seppure con nomi differenti, circolavano nel corso del Medioevo ; ma l 'opera di Spies, proprio nel mo mento in cui ne fa cenno, li cancella e la sua, grazie alla stampa, diventa l 'unica narrazione del patto dell'uomo con il diavolo cui si rifa tutta la letteratura successiva. Nella prima formulazione letteraria di don Giovanni, quella secentesca di Tirso de Molina, manca il richiamo a una precedente tradizione, che è però possibile riconoscere nella quantità di riscontri, nel teatro spagnolo del tempo, del tema del seduttore che per soddisfare il proprio desiderio è pronto a ingannare. È attestato, peraltro, un insieme di leggende sivigliane che dovettero costituire il materiale per il vero e proprio montaggio della vicenda (cfr. Mena, 1999, pp. 1 55 ss.). Ma la polarizzazione Dio/diavolo rivela un evidente scopo di rassi curazione, riducendo il sovrumano a una dialettica tra bene e male, della quale l 'uomo è il termine di equilibrio e di razionalità. È questo il pro blema affrontato dal teologo e filosofo della religione Rudolf Otto, il cui libro apparso nel 1 9 1 7, Il sacro, si colloca all ' incrocio dell ' intenso dibat tito presente nella tradizione !merana con l 'elaborazione della filosofia fenomenologica: È proprio il meravigliarsi nel più genuino significato che è nel medesimo tempo uno stato d'animo inquadrato nell 'orizzonte del numinoso e che solo in una for ma sbiadita e generica è trasferito come stupore negli altri campi. Se noi andiamo alla ricerca di un'altra espressione per indicare la reazione psichica caratteristi ca al mirum, noi troviamo anche qui soltanto un termine il quale, applicandosi strettamente solamente ad uno stato naturale di spirito, possiede un significato puramente analogico: ed è lo stupor. Il quale è indubbiamente distinto dal tremor ed indica la meraviglia allibita, "il restar senza parole", !' assoluto sconcerto. Si con fronti anche obstuperjàcere. Ancora più esatto è il greco, thambos e thambeisthai (Otto, 1966, pp. 34 s.).
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Otto riconosce nella percezione di un' indistinta dipendenza dal « numi noso » il presupposto trascendentale di ogni atteggiamento e di ogni cre denza religiosa. Il sacro si può perciò definire nella sua essenza «mysterium tremendum >> . Sessant 'anni dopo, Hans Blumenberg ricorda Otto e definisce il mito proprio come risposta a quella percezione terrifica del sacro : Le storie vengono raccontate per scacciare qualcosa. Nel caso più innocuo, che però non è il meno importante, il tempo. In un altro caso, più serio, la paura. Nella paura c 'è sia ignoranza sia, più fondamentalmente, mancanza di familiarità. [ . . . ] Così la primissima forma - e non la meno solida - di familiarità col mondo sta nel trovare i nomi per l' indeterminato. Solo allora e in conseguenza di ciò è possibile raccontare su di esso una storia (Blumenberg, 1991, p. 59).
Dare il nome è, infatti, un segno di potestà : Dio porta all'uomo tutti gli animali della creazione perché questi, dando un nome a ciascuno di essi, se ne assicuri la subordinazione. Il Dio di Adamo, per contro, si sottrae alla nominazione : il nome di Dio, anche se scritto, non è per Israele pronun ciabile e si deve ricorrere alle perifrasi, quali l ' Eterno, il Signore. «L' irruzione del nome >> , per conservare l 'espressione di Blumenberg, è dunque, come già aveva mostrato Erodoto (Storie, n, so-si ) , il principio della domesticazione del divino, della sua riduzione alla misura umana, che trova il proprio compimento nell'elaborazione delle storie, cioè nei miti. Dopo aver ricordato l ' immagine goethiana - il nome come pelle stessa dell' individuo -, Cassirer annota : Ma per il primitivo pensiero mitico il nome è ancor più di questa pelle : esso espri me l ' intimo, l'essenziale dell'uomo, ed "è" anzi addirittura questo intimo. Nome e personalità si fondono qui in una sola cosa. Nei riti di consacrazione virile e in altre simili usanze di iniziazione, l'uomo riceve un nuovo nome, perché è un nuovo io che egli acquista allora. Anzitutto però è il nome del dio che forma una parte reale della sua essenza e del suo agire. Esso indica la sfera del potere entro la quale ogni particolare divinità è ed opera. Quindi nella preghiera, negli inni e in ogni forma di discorso religioso si deve badare con molta cura a che ogni divinità venga chiamata col nome che le spetta; giacché solo se si invoca in modo esatto ella accoglie quanto le si offre (Cassirer, 1964, pp. 6o s.).
Ma chiamare per nome un dio significa aver stabilito con lui un rapporto cui egli non può sottrarsi: seppur si tratti di una preghiera, egli non può
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non ascoltarla. Quest 'atto di domesticazione, riducendo o addirittura an nullando l 'alterità di umano e divino, non raggiunge solo un effetto di consolatoria rassicurazione, ma è spesso l 'origine di un racconto esplicati vo sempre piacevole e, quindi, anche più volte ripetuto e riascoltato. Ciò è, come si è visto, felicemente colto da Mann, che rappresenta Giacobbe e Giuseppe intenti a rievocare a gara le storie del passato, ed è quanto accade nell'antica Grecia, dove i canti dei poeti fin dalle origini furono il più im portante mezzo di conservazione e di trasmissione dei racconti di dei ed eroi. Perciò, nell ' Odissea, Ulisse viene elogiato due volte per aver saputo raccontare con la bravura di un aedo : « Il racconto l ' hai compiuto con la perizia di un cantore » ( Odissea, I I , 3 68 ), dice Alcinoo a Ulisse ; « Com'egli racconta t ' incanterebbe l'animo » , dice Eumeo a Penelope, e aggiunge : «così costui m' incantava » ( ivi, 1 7, 5 18, 5 21). L' incanto del raccontare è l 'arte del poeta-cantore ; ma l ' incanto è frut to della perizia esecutiva della narrazione o degli straordinari eventi nar rati ? Certo, raccontare non è prerogativa dei soli specialisti; raccontare è un atto necessario della comunicazione sociale e il chi racconta a chi è de terminato da condizioni variabili. Non è d'altronde difficile osservare che talvolta chi ascolta conosce già il racconto, ma questo non distoglie la sua attenzione perché nell 'atto di ascoltare è compresa la possibilità di rinno vare il significato di quel che si ascolta. Ciò che noi definiamo mito spesso, dunque, diventa tale per la reazione del destinatario ; è in lui che acquista lo spessore di persuasione che lo fa riconoscere come significativa espres sione della mentalità dominante. Sia esso mezzo esplicativo della memo ria o strumento di esortazione, possiede sempre una primaria funzione di giustificazione della realtà. È questo che ne determina la verisimiglianza, al di fuori, e si può dire al di sopra, dei parametri comunemente accettati, acquistando un grado di concentrazione simbolica sulla quale poggiano la sua persuasività e il suo importante valore sociale. Si può dire, dunque, che sia per il narratore, sia per l 'ascoltatore fun zioni un diverso approccio alla realtà, che entrambi, in luogo di un'argo mentazione improntata alla logica, obbediscano a una presunta mentalità mitica, nella quale prevarrebbero l ' imprevedibilità e l ' inverosimiglianza ? O, altrimenti, in che cosa consisterebbe il "pensiero mitico� evocato da molti studiosi a definire non solo la trasmissione del mito, ma un' intera epoca dell'evolvere umano verso la ragione ? Ma forse il "pensiero mitico" altro non è che l ' inversione speculare di quello che si ritiene il pensiero razionale, regolato anch'esso, come spiegava Lévy-Bruhl, da una propria
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TEM PO SENZA TEMPO
grammatica e che i popoli "primitivi" dimostrano debba essere appartenu to alle età più remote della specie umana. Ma è mai esistito davvero un "pensiero mitico" ? Non di rado i tempi nei quali si sviluppano e si arricchiscono le narrazioni definite mitiche, sono anche tempi di innovazioni tecnologiche, intrinsecamente legate ali' elaborazione di categorie interpretative della realtà, di concreti rappor ti con l 'esperienza. Forse si è un po' frettolosamente trascurato un altro aspetto del narrare, un aspetto proprio di qualsiasi dialogo umano, di qualsiasi uso del discorso : la mutua soddisfazione provata nel raccontare e nell 'ascoltare. Un piacere particolare, forse perché le figure della narrazione spesso parlano anch'esse, sì che l 'esercizio della parola si va dilatando e la narrazione si moltiplica, lasciando intendere che proprio il raccontare in quanto tale non è solo la registrazione verbale di eventi memorabili, ma si propone anche come la fonte di un'autonoma proliferazione di immagini e di conoscenze.
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Cambry]., 41 Camus M., 1 3 9 Cassirer E . , 5 9 , 63, 91, 1 8 4 Cinanni P., 1 5 2 Clermom-Ganneau Ch., 1 0 3 Cocchiara G . , 4 6 n , n n Cook]., 3 1 Cornford F. M., 99 Creuzer F., 46-50, 6 o
Bachofe n J. J., 63-7. 71, 77 Barth K., n 8 Basile G . , 3 7 Bergson H . , 99 Bermani C., 1 6 9n Bertram E., 153 Bettelheim B ., 40n, 41n Blumenberg H., 20, 27, 172, 181, 184 Boas F., 168 Biickh A., 51, 53 Bompaire ]., 1 6 o Bonhoeffer D . , n 8 Bopp F., 86 Bottéro J., 177 Brécy R., 20 Brelich A., 164-5. 172 Bremano C., 45 Brosses Ch. de, 54n Bultmann R., n 5-9 Burcardo, vescovo di Worms, 44 Burckhardt J., 64, 65n Burke P., 42, 1 6 5 Burkert W., 163, 167n, 173-5. 178
Damascelli A . , 7 3 n , 109n Danforth L., 167n David ]., 1 9 d e l a Halle A . , 4 3 Delcourt M . , 1 5 9 De Martino E . , 1 4 6 Detienne M . , 138, 159-63, 173, 1 7 6 De Wette W. M . L . , 6 5 n Di Donato R . , 136n Dilthey W., 87, 9 1 Doniger W., 97n Domeville H., 72n Dulaure J.-A., 41 Dumézil G., 1 21-5, 1 3 5 Dupom-Roc R . , 1 6 0 Durkheim É . , 98-9
Calarne C., 1 6 0, 170, 179 Cambiano G., 5 2n
Eckermann ]. P., 21 EichendorffJ. von, 45
TEM PO SENZA TEM P O
Eliade M., 1 25-9 Engels F., 76n
Ferrai E., sm Fichte J. G., 22, 51 Finley M. 1., 1oon Firth R., 167n Fliess W., 95 Fontenelle B. Le Bouyer de, 36-7, 159 Fornaro S., 3 2n, 49n, so Forster G., nn Forster K. W., 25 Frazer J. G., S2-6, 109 Freud S., 93-6 Fucik B., 1 5 2n
Garbini G., 5 2n, 1oS Gaxotte P., 1 25 Geertz C., 167 Gellert C., 23 Gentili B., 1 6 on, 173 George S., 73 Gerbi A., 36n Gernet L., 136, 1 3 S Ginzburg C . , 4 4 Giraudoux J., 1 40-1 Gliozzi G., 34n, 35n Goethe J. W., 20-4, 6S, 72 Goody J., 17S Gorres J. J. von, 45 Gossman L., 65, 66n Grass G., So Grimm J., 3 S-9, 42-3, 72-3, So, S2 Grimm W., 3 S, 42, 72, So Grottanelli C., 70n Guiomar J.-Y., 41n
Harrison J. E . , 97-102, 1 6 5 HauffW., 39 e n Havelock E., 159n Hegel G. W. F., 15-6, 20-1, 25-S, so, 59· 93· 1 1 2 Heine H . , 46n Herder J. G., 22-4 Heyne Ch. G., 3 2-3, 53-5. sS-9, n. So, 179· l SI Holderlin F., 15, 22, 25-S, 45 Horovitz J., 157 Hrozny (Hrozni) B., 123 Humboldt W. von, 2S, 5 1 lonescu N . , 1 25 Jeremias J., 109-10 Jesi F., 1 29, 157n Jones W., 49 Jung C. G., 72-3, 1 6 S Kahler M . , 109-10, 1 1 5 Kant 1 . , 16, 2 1 , 2 6 Kerényi K . , 1 4 1 , 1 5 2 , 166-S Klages L., 73 Kuschel K.-J., 109n, 11S Lafitau J. F., 36, 159 Laignel-Lavastine A., 1 26n Lajolo D., 152 Lallot J., 160 Lang A., 159 Las Casas B. de, 3 4n, 3 5 Leroy M., 49 Lessing H. E., 72 Lévi-Strauss C., 107, 1 29-35, 159, 173, 176, ISO
197
INDICE DEI NOMI
Lévy-Bruhl L., 12.6 e n, 185 Li Gocci E., 1 64 Loisy A., 1 1 2.-4, 119 Loraux N ., 1 3 8 Liichi M., 37 Maiscre X. de, 77 Malinowski B., 167n Mann Th., 2.4, 133, 141, 152.-8, 166, 185 Mannhardc W., 78-83, 87 Marac J.-P., 2.1 Marx K., 76n Maurras Ch., 1 2.5 Meek R. L., 34n Meillec A., s2.n Mena]. M. de, 183 Meyer M., 41 Meyerson I., 1 3 6 Mommsen Th., 66n Moncesquieu Ch. de Secondac, 33 Moraldi L., 1 10, 118 Morgan L. H., 75, 76 e n, 82. Miiller G s m Miiller K. 0., 5 1 -8, 180-1 Miiller M., n. 159 Murray G., 99-100 .•
Napoleone Bonaparte, 19-2.1, so Nesde W., 1 1 6 Niebuhr B . G . , 66n Nieczsche F., 63-74 Occo R., 98n, 1 2.8, 183-4 Pagden A., 35n Pavese C., 1 45-52. Perraulc Ch., 37, 42.-3
Peccazzoni R., 173, 178 Pinocci P., 12.4n Picré G., 1 6 5-6 Propp V. J., 130-4, 1 72., 176 Radin P., 1 6 8 Rank 0., 94-5 Ranke L. von, 64 Reinach S., 103-6 Reinhardc K., 2.7 Renan E., 1 1 2. RiggenbachJ., 6 s n Ricschl F., 6 4 , 71 Robespierre M., 17-2.0 Rohde E., 64, 71n Romero J. L., 35n Rosenkranz K., 15n, 16 Rossi L. E., 1 6 on Sahlins M., 32. Salazar A., 1 2.6 Sassi M. M., 54n Saussure F. de, 12.5n Savigny F. von, 42., 64 Scaglione P., 151 Schelling F. W. J., 15, 2.1-2. , 59-62., 6 9 Schiller F., 1 6-7, 7 2. Schlegel F., 4 9 Schleiermacher F. D . E . , 1 1 2. Schmicc J.-C., 72.n Schuler A., 73 Senn H., 4m Serpa F., 7 1 Seccis S . , 5 8 Snodgrass A. M . , 1 6 5 Spies J . , 1 82.-3 Scarobinski J., 16, 1 9 Scraparola G. F., 3 7
TEM PO SENZA TEM P O
Strauss D., Bo, 1 1 1-2 Susanetti D., 97n, 139n Thompson G., 141 Thompson S., 37n, 3 9-40 Tirso de Molina, 183 Tylor E. B., 76-8, 82, 159 Usener H., 71, 86-91 van der Leeuw G., 175 van Gennep A., 3 2n, 42, 169
Vernant J.-P., 1 3 5·8, 1 5 9 , 173 Verra V., S4 Vico G. B., nn, 161 Vidal-Naquet P., 19, 138 Wagner R., 70, 72 West M., 176n Wilamowitz-MoellendorffU. von, 71 Wil1 E s3n Winckelmann J. J., 25 Wind E., 109n WolfC., 1 40-s WolfF. A., 23, so, 53, sB .•