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Italian Pages 188 [140] Year 2019
DISSIDENZE collana a cura di Lelio Demichelis
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DIS SI DEN ZE a cura di Lelio Demichelis è una collana di riflessione sociologica, filosofica, antropologica, economica e politica per un pensiero critico su tecnica e capitalismo. La collana accoglie testi di autori italiani e stranieri. Accanto a nuove ricerche e contributi inediti, vengono riproposti “classici” del pensiero contemporaneo.
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Paolo Bartolini, Stefania Consigliere
STRUMENTI DI CATTURA PER UNA CRITICA DELL’IMMAGINARIO TECNO-CAPITALISTA
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© 2019 Editoriale Jaca Book Srl, Milano per l’edizione italiana Prima edizione italiana aprile 2019
Redazione Jaca Book Impaginazione Elisabetta Gioanola eISBN 978-88-16-80057-1 Editoriale Jaca Book via Frua 11, 20146 Milano, tel. 02/48561520 [email protected]; www.jacabook.it Seguici su
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INDICE
ARCHEOLOGIA DELLA DISSOCIAZIONE Stefania Consigliere SOGGETTIVITÀ E INDIVIDUAZIONE. PER UN PENSIERO EUTOPICO TRA FILOSOFIA E PSICOANALISI Paolo Bartolini L’ARTE DEI LEGAMI. UNA CONCLUSIONE PER NON FINIRE Paolo Bartolini, Stefania Consigliere Bibliografia
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RIN GRA ZIA MEN TI
Gli autori, con gratitudine e stima, dedicano il libro a Lelio Demichelis, che ha creato le condizioni migliori per un incontro produttivo tra discipline e mondi diversi. Grazie al suo invito questa esplorazione, che non ha nulla di scontato, è felicemente transitata “dal possibile al reale”.
Stefania «Archeologia della dissociazione» ha cominciato a essere pensato nel contesto di una riflessione sulla critica radicale e la possibilità di rivoluzione nella contemporaneità condotta insieme a Piero Coppo. A lui vanno dunque, ancora una volta, il mio affetto e la mia gratitudine. Carlo Perazzo e Arianna Colombo hanno letto e commentato una versione precedente del testo: a loro, oltre ai ringraziamenti, anche l’invito a portare avanti (e altrove) la critica del presente e la ricerca di altro.
Paolo Il saggio su soggettività e individuazione tenta, nel suo piccolo, di dare coerenza ad anni di ricerche effettuate al confine tra filosofia, psicoanalisi e critica sociale. Ringrazio di cuore Stefania, da cui imparo sempre molto, gli amici Moreno Montanari e Chiara Mirabelli, che hanno letto una prima stesura del lavoro, Romano Màdera, maestro e compagno di analisi filosofica, e infine Roberto Mancini, con il quale intrattengo da tempo un dialogo fecondo su molti dei temi qui affrontati.
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ARCHEOLOGIA DELLA DISSOCIAZIONE Stefania Consigliere
1. L’ipotesi stregonesca L’unico grande testo di demonologia che l’età borghese ha prodotto: così Calasso definisce Il Capitale di Marx1. L’indicazione va presa sul serio. Appare nel commento a un’opera di Wedekind in cui è narrata la giovinezza sospesa e incantata di bellissime fanciulle, a lungo “coltivate” in uno splendido giardino isolato dal mondo. Questo tempo finisce quando esse compaiono infine, come perfetta forma-merce, sui palcoscenici di squallidi teatri e nei bordelli della città. L’esito inevitabile è lo stupro, oppure l’assassinio. Non si comprende la breve e intensa violenza che conclude la vita delle ragazze riferendola alla psicologia dei loro clienti o all’infamia dei bassifondi urbani: essa è già prefigurata in tutta la loro vita precedente, inscritta per intero nei passaggi più eterei della loro educazione, nel profumo dei fiori del giardino. Può essere compresa solo a livello di sistema: il teatro che eccita gli uomini e uccide le donne non è il luogo dove si manifesta un’eterna natura umana o l’immutabile lotta fra i sessi, ma una macchina perversa storicamente prodotta, il cui funzionamento è tanto più efficace quanto più è occulto, misterioso, inafferrabile. Da qui la necessità di farne un arcano: accuratamente macchinati fin dall’inizio, stupro e assassinio si presentano alla fine come sacrificio alle forze oscure e immutabili che fanno girare il mondo. Questa mistificazione è uno dei trucchi più tipici del dominio: ciò che è artificiale deve apparire naturale, ciò che è stato lungamente preparato deve presentarsi come l’ordine stesso delle cose2. La reificazione di un fenomeno consiste appunto nel cancellare le tracce della sua produzione: il sopruso originario viene occultato e i suoi esiti presentati come un’ineludibile necessità cosmica. Non è un’invenzione dei moderni: dalla superiorità maschile nel patriarcato fino alla divinità dei re e alla più recente sociobiologia, l’oblio della violenza nasconde il processo che produce il dominio. Ma è stato senz’altro il capitalismo a perfezionarlo, innestando sopra l’antico dispositivo a due braccia un in7
tero arsenale di tecniche di cattura basate più sulla fascinazione che sull’asservimento, più sulla persuasione che sulla coazione. Le braccia, così, diventano tre: violenza, oblio, fascinazione. La dissociazione raggiunge lo zenit. Non solo siamo tenuti a dimenticare la brutalità della storia da cui veniamo e di quella che abitiamo (fatte di espropri, migrazioni coatte, slums, necroindustria, inquinamento, stragi, schiavismo e fascismi in ogni salsa), ma ora infine, nelle mille delizie del consumo, possiamo scordarci anche di noi stessi: di ciò che ci fa male, delle esperienze illegittime, delle memorie clandestine, di certe improvvise aperture di cuore. Al punto tale che da molto tempo chiamiamo libertà la nostra disempatia e nulla apprezziamo più della possibilità di recidere a nostro piacimento gli attaccamenti a luoghi, persone, idee, collettivi – di separarci, cioè, dalla nostra stessa storia, da ciò che ci ha fatto, da quel che sentiamo. Tutto è dismissibile nella continuità del godimento delle merci: cittadini globalizzati, siamo costruiti in modo da poterci muovere ovunque purché ad attenderci ci sia una bolla di Occidente del tutto simile a quella appena lasciata, fatta di supermercati aperti 24/7, di velocità, di grandi marche, di bancomat, di quartieri bianchi, di schermi, di servizi sessuali in libero accesso. Chi non vorrebbe vivere come noi? Peccato per quei risvegli nel mezzo della notte; per gli attacchi di panico che tagliano le gambe ai più giovani; per i momenti attoniti in cui sentiamo, con terrore, di non sentire più niente; per l’inconsapevolezza di sé che arriva fino a farsi cancro o depressione; per quelli fra i nostri contemporanei che hanno bisogno, per vivere, di continui supplementi psicoattivi. Qualcosa non torna. Il primo indizio del disastro in corso siamo noi stessi, l’angoscia che ci attanaglia, l’incapacità di immaginare un tempo diverso dall’eterno presente che viviamo e che ci soffoca. Indizio misterioso, inspiegabile entro il quadro ufficiale della libertà e del progresso, ma di interpretazione assai semplice in altre cosmovisioni. L’impresa che fa coincidere l’asservimento, la messa a servizio e l’assoggettamento, ovvero la produzione di quelli e quelle che, liberamente, fanno quel che devono fare, ha un nome antico. È qualcosa di cui i popoli più diversi – tranne noi moderni – conoscono la natura temibile, e la necessità di sviluppare mezzi adeguati per difendersene. Il suo nome è stregoneria3.
La parola è forte, fastidiosa. Concettualmente promettente. Nonostante il timbro provocatorio (nessuno può impunemente parlare di stregoneria senza evocare tutti i fantasmi della modernità…), l’ipotesi stregonesca dispone già di una certa sedimentazione disciplinare. Ha una sua tenuta e una sua speciale potenza epistemologica. Si presenta in due declinazioni. Quella più generale ipotizza una connessione fra modernità capitalista e stregoneria: qui si trovano l’analisi del totalitarismo di Hannah Arendt, le ricerche degli storici sul nesso, tradizionalmente percepito come misterioso, fra la caccia alle streghe e l’instaurarsi delle condizioni di produzione capitalistiche, le intuizioni (allora del tutto inattuali) di Parinetto, gli spettri di Marx descritti da Derrida, le ricerche meno note, ma cruciali, condotte in campo antropologico sulla strettissima relazione che 8
ovunque si registra fra l’arrivo della modernità e la diffusione della stregoneria. La seconda declinazione, più forte, legge la modernità stessa come sistematica impresa di assoggettamento costruita sui tre assi elencati sopra: violenza, oblio e cattura. Nel 2005 lo storico del farmaco Philippe Pignarre e l’epistemologa Isabelle Stengers pubblicano in Francia un testo apertamente politico e “movimentista” intitolato La sorcellerie capitaliste, che propone un deciso salto in avanti nell’utilizzo critico della categoria. Oltre a ciò, negli ultimi anni non si contano le interpretazioni, spesso eccellenti, del capitalismo come teologia (a partire dalla riscoperta di un breve testo di Benjamin intitolato La religione del capitale4) e come macchina magica di cattura e distruzione (com’è il caso nei testi di Mark Fisher). Questa messe di testi sarà l’humus di questo scritto, il cui senso è di prolungare nel presente l’impresa di disvelamento a cui Marx dedicò tanta energia. Essa passava, allora, per categorie che suonano lise alle nostre orecchie ma che erano all’epoca veri e propri dispositivi di visione, tanto sorprendenti quanto per noi la stregoneria: alienazione, feticismo, reificazione5. Non è per caso, nota Parinetto, che nel disvelare Marx impiega un vocabolario immaginifico liberamente tratto dall’alchimia, dalla freniatria, dalla tragedia. Se avesse descritto il mondo attorno a sé con il vocabolario degli apologeti del mercato, non sarebbe riuscito a sollevare il velo di Maia che quelle stesse descrizioni “oggettive” gettano sul mondo. Per bucare l’ideologia occorre uno stratagemma: bisogna contro-descrivere il mondo a partire da un punto di osservazione totalmente altro. Spaesarsi. A un secolo e mezzo di distanza possiamo riattualizzare l’operazione marxiana estendendola e approfondendola in più direzioni: dall’enorme rimosso coloniale all’uso della violenza come condizione permanente di possibilità, dai meccanismi di cattura e plasmazione delle soggettività ai fantasmi della vita spicciola. Come all’epoca di Marx, in quest’impresa ne va della nostra possibilità di esistenza al di là della sopravvivenza aumentata in cui galleggiamo (mentre ne va della sopravvivenza stessa per tutti coloro che, fuori dalla fortezza-Occidente, sono investiti dall’espansione del capitale)6. E, come allora, abbiamo bisogno di un punto di osservazione totalmente altro che ci costringa allo straniamento. Qui proveremo a farlo a partire dalle categorie indagate da quella paradossale “scienza dell’altrove” che è l’etnologia. E in effetti non è terrorizzante pensare che, se il nostro nemico non compare mai di persona, non è perché si sta nascondendo, ma perché non è un uomo? Perché non esiste allo stesso modo in cui esiste un uomo. E che, come uno spirito, non dispone di un corpo proprio, ma ha la capacità di fare di ogni corpo un’antenna/relè delle sue intenzioni? E nondimeno, non lo vediamo ogni giorno? Non è innanzitutto uno spirito, uno stato d’animo, a condannare queste folle immense a trascinare nella malinconia l’intera loro vita di schiavi? Cos’altro, se non uno spirito, poteva impadronirsi e nutrirsi delle gioie naturali dei corpi? Per condannarli poi a portare a termine, nel loro lavoro, il processo della loro stessa distruzione? Non abbiamo dunque, nella società capitalista, un caso compiuto e altamente contagioso di possessione? Di possessione collettiva? Un’operazione gigantesca, non già segreta ma a cielo aperto, di manipolazione mentale, d’influenzamento comportamentale attraverso i media, la pubblicità, l’architettura? Non è attraverso lo spirito che siamo in prima istanza incatenati? Le cose che ci impediamo di fare o di pensare, non sono forse strappate alla radice da un condizionamento permanente e devastante del nostro pensiero? Un militante diceva recentemente che l’attuale probleÈ
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ma climatico ed ecologico è, innanzitutto, un problema di ordine psicologico. È tale la discrepanza fra i nostri discorsi, i nostri valori e i nostri atti, da rientrare a buon diritto nella patologia mentale. Quale forza può indurci a una simile negazione e condannarci a una simile impotenza, se non una sorta di affatturazione7?
Superato lo scandalo, l’utilità critica del concetto di stregoneria si rivela notevole. Esso spiega, per cominciare, perché l’apostrofe di Calasso suoni al contempo sorprendente ed esatta: in fondo, tutta la complicata operazione che Marx svolge nel Capitale consiste proprio nello studiare il capitalismo come un enorme dispositivo stregonesco che, con la sua potenza e i suoi trucchi, fa dimenticare la quantità di sangue e sudore che sono serviti per edificarlo e che, da allora, continuamente l’alimentano. Ma soprattutto, permette di affrancarci da uno dei più perniciosi strumenti di cattura della modernità: la pretesa di avere l’ultima parola su ciò che è reale e sulla verità. (Qui è indispensabile un inciso. La modernità è molte cose, spesso anche di segno opposto: il romanticismo è tanto moderno quanto l’illuminismo, Spinoza come Hobbes, l’utopismo rivoluzionario come il totalitarismo. Conteneva e contiene possibilità ben diverse da quelle attualizzate nel nostro presente e alcune di queste sono, per chi scrive, attaccamenti irrinunciabili: la liberazione dalla parte più disperante della fatica del lavoro, un diverso rapporto con il potere, la possibilità della divergenza, soggettiva o collettiva che sia8. Tacitando volta dopo volta le speranze e le emergenze rivoluzionarie, la modernità capitalista si è tuttavia declinata come la civiltà egemone totalizzante e distruttiva che vediamo attorno a noi. Quando in queste pagine si leggerà la parola “modernità”, essa sarà da intendersi come abbreviazione per indicarne la versione egemone, figlia legittima del dominio coloniale, del plusvalore capitalista e dell’ideologia riduzionista. A valle di una lunga erranza antropologica non so più se una modernità noncoloniale, non-capitalista e non-riduzionista sia possibile: quel che è certo, e per me di grande conforto, è che le istanze di liberazione, di lavorazione del potere, di eguaglianza, democrazia e tolleranza – che presuntuosamente abbiamo attribuito al solo Occidente moderno – si ritrovano, mutatis mutandis, anche altrove, presso altri collettivi e in modo particolarmente evidente laddove mondi umani differenti entrino in regime di scambio reciproco)9. E dunque: la modernità egemone s’è fatta gran vanto della sua impresa di disincanto, che relega nella natura, o nell’impostura, tutto ciò che non fa interamente capo alla società degli uomini e al suo campione, il cittadino-individuo, unico ente nel cosmo ad avere un’intenzione e, quindi, una soggettività. Reintroducendo non solo l’incanto, ma anche il pericolo che lo caratterizza, il concetto di stregoneria permette un primo recupero, tutt’altro che ingenuo, di prospettive che parevano perdute. È una questione di poetica politica: stregoneria è il nome di un luogo concettuale dove il conoscere e il sentire si toccano e, nel toccarsi, producono effetti spaesanti. Si apre allora una possibilità di reincantamento del mondo, dopo i barili di acido disincantante che abbiamo dovuto berci negli ultimi cinque secoli. E si può riprendere il vocabolario im10
maginifico di Marx e della rivolta romantica e surrealista – le “fantasmagorie”, i “sogni di una cosa”, l’“alchimia della natura”, le “illuminazioni profane” – come parte di una strategia che, nel criticare il mondo, vorrebbe smettere di inaridirlo ulteriormente.
2. L’immaginario reclaimed Strategia difficile: Marx stesso è stato disincantato, e proprio dai “nostri”, per via di una segreta ed esiziale collusione del pensiero rivoluzionario con quello stesso nemico che intendeva combattere10. Da più di un secolo il campo dell’immaginario è stato abbandonato, ma se i fascisti erano disposti, e notevolmente bravi, a sfruttare questi sogni, ciò non significa che il mito e la fantasia fossero necessariamente reazionari. Proprio al contrario: era la sinistra ad aver abbandonato questo terreno, dove la battaglia avrebbe dovuto svolgersi, le cui immagini contenevano i semi rivoluzionari che il terreno lavorato dalla dialettica marxista avrebbe potuto nutrire e far germogliare11.
Tocca dunque prendere distanza – come già molti hanno fatto – dai marxismi novecenteschi, dalla loro sudditanza all’idea di progresso, dalla loro idea di rivoluzione e dalla loro diffidenza scientista verso l’immaginario. C’è una sottile linea rossa che, da Marx ai nostri giorni, attraversa il pensiero variamente critico-marxista-comunista-libertario-anarchico, che secondo Löwy e Sayre rimanda all’impostazione romantica della critica alla modernità: È qui che il romanticismo ha rivelato tutta la sua forza critica e la sua lucidità, a fronte dell’accecamento delle ideologie del progresso. I critici romantici hanno raggiunto – anche quando l’hanno fatto in modo intuitivo o parziale – quel che era l’impensato del pensiero borghese, hanno visto ciò che stava al di fuori del campo di visibilità della visione liberale individualista del mondo: la reificazione, la quantificazione, la perdita dei valori umani e culturali qualitativi, la solitudine degli individui, lo sradicamento, l’alienazione a opera della merce, la dinamica incontrollabile delle macchine e della tecnologia, la temporalità ridotta a istantaneità, la degradazione della natura. In una parola, hanno descritto la facies hippocratica della civiltà moderna12.
Nella sua versione libertaria questo modo del pensiero – fondato più sul possibile e l’aperto che sulla certezza e il programma, e più sull’organizzazione del pessimismo che sul meccanicismo storico – ha prodotto nell’arco del Novecento tradizioni di pensiero e di azione che sono riuscite, anche nei tempi più cupi, a tenersi in contatto con ciò che continuamente eccede il mondo così com’è; che s’intravede con la coda dell’occhio e fa capolino nelle zone meno illuminate: nei sogni, nelle fantasie, nella paura dei fantasmi, nell’inconscio: quel che c’interessa nel romanticismo è che noi ancora apparteniamo all’epoca che esso ha aperto e che quest’appartenenza, che ci definisce (per mezzo dell’inevitabile scarto della ripetizione), sia proprio ciò che non cessa di negare il nostro tempo. Rintracciabile nella maggior parte dei grandi motivi della nostra “modernità”, c’è oggi un vero e proprio inconscio romantico13.
In questo modo, accettiamo di prestare il fianco al più semplice degli attacchi: la squalifica di ogni discorso che chiami in causa l’immaginario. Possiamo 11
farlo perché abbiamo imparato dall’antropologia che, nei molti mondi umani presenti sul pianeta (incluso il nostro), niente è così tremendamente efficace e così carico di conseguenze come l’immaginario; niente mobilita e potenzia come ciò che è stato solo intravisto e che si vorrebbe far esistere; e niente annichilisce quanto la paura degli spettri, la superstizione, i comandi mitici innestati nel profondo di noi come verità prime. Peraltro, dovrebbe metterci in allerta il fatto che la questione dell’immaginario e delle credenze sia stata riaperta d’urgenza non già dai poeti o dai filosofi, ma dagli analisti delle situazioni di violenza estrema14. Così la maggiore studiosa della violenza geopolitica: Si tratta, innanzitutto, delle credenze (ideologiche, religiose, scientifiche ecc.): sono l’elemento più operativo nell’attivazione degli scambi fra entità umane e non umane. «Bisogna smettere di considerare le credenze come nozioni che permettono di tracciare una demarcazione fra conoscenza ingenua e verità», scrive Josep Rafanell y Orra. La credenza non è affatto una sospensione del giudizio. Ciò che viene detto credenza è un impegno pratico con il mondo, una pragmatica dell’azione15.
Per muoverci nell’immaginario ci servono strumenti affidabili: un po’ perché abbiamo perso consuetudine con questi temi e questo genere di esperienze; un altro po’ perché l’intera traiettoria intellettuale dell’ultimo secolo permette nuovi approcci; ma soprattutto perché, dopo decenni d’abbandono da parte del pensiero critico, queste lande sono ormai battute da mestatori d’ogni genere. Come se non bastasse, si tratta di zone intrinsecamente ambigue, dove abbondano le contraddizioni e dove la stessa cosa può rivelarsi indifferentemente salvifica o letale a seconda dell’uso che ne viene fatto e delle intenzioni che muovono quell’uso. Ci serve una mappa concettuale minima per passare alla larga dagli usi al nero della sua potenza. Partiremo, giustappunto, dalla scienza. A più riprese, fra la fine dell’Ottocento e i giorni nostri, diverse discipline scientifiche si sono trovate a convergere verso una radicale trasformazione dei nostri modelli onto-epistemologici: dapprima le scienze hard, che hanno abbandonato il paradigma newtoniano già all’inizio del Novecento; poi l’onda strutturalista, fra linguistica e antropologia; poi ancora la profonda revisione delle scienze della vita, che hanno abbandonato ogni ipotesi determinista per andare verso un paradigma di complessità aperta16. Queste effervescenze teoriche si sono prodotte in parallelo con le esplorazioni di “mondi altri” – del presente e del passato – fatte da antropologi, archeologi, etnologi, antichisti, etnopsichiatri e “semplici viaggiatori” in centocinquant’anni di peripezie disciplinari, di diplomazia fra culture, di incontri ancora possibili perfino nel mezzo dell’inferno coloniale. L’importanza di queste piste non sta solo nelle analisi accurate e nelle innovazioni concettuali – sebbene proprio queste ci forniranno più avanti materiale prezioso –, quanto nel loro essersi affrancate dalla presunzione di superiorità che caratterizza la modernità fin dai suoi esordi e che è parte del suo dispositivo di cattura. Il quadro che si delinea può essere sbrigativamente riassunto come segue: a partire da un reale che, come avvertono le scienze hard, resta continuamente eccedente, molto più complesso rispetto a qualsiasi interpretazione se ne pos12
sa dare, ciascun collettivo (intendendo con ciò una rete fatta di umani e di non-umani presi in un insieme di relazioni reciproche e in coevoluzione) ritaglia un certo numero di enti e di fenomeni (una ontologia), stabilisce piste di conoscenza adeguate a quel mondo (una epistemologia) e definisce condotte coerenti con l’esistenza di quel mondo e con il suo divenire (un’etica). In questo senso, ogni mondo umano è una “regione” specifica del reale, una declinazione particolare del nesso di ontologia, epistemologia ed etica che sta a fondamento della possibilità stessa di produrre un mondo. Quest’operazione di mondo-poiesi è anche un’operazione integrale di antropo-poiesi e investe ogni piano di consistenza dei soggetti che lo abitano. La bolla culturale, ecologica, storica e bio-sociale nella quale cresciamo plasma il nostro divenire canalizzandone non solo la cosmovisione o la lingua, ma finanche la composizione organica, la regolazione genica, il funzionamento fisiologico, la strutturazione pulsionale, gli schematismi psichici ecc. In altre parole, non c’è in noi nessuna “nuda natura”, nessun “naturale” sviluppo di un programma pre-scritto, nessun dato biologico che non sia stato canalizzato entro una particolare matrice collettiva. Ogni cosmovisione si accompagna a corpi specifici, storici17. Qui, di nuovo, bisognerebbe allargare il discorso notando per esempio che più di metà delle cellule del nostro corpo non sono cellule “nostre” ma appartengono ad altre forme viventi e che quindi l’individuo umano è già sempre un collettivo; che le condizioni della nostra biografia s’inscrivono nella modalità di espressione del nostro genoma, in un incrocio vertiginoso di biologia e storia; che ogni pensiero e ogni sentimento in noi risponde in maniera finissima alle condizioni stesse della sua produzione. Basti dire che tutte queste dinamiche sono comprensibili in termini di attaccamenti: l’insieme delle nostre relazioni al mondo è ciò che, letteralmente, “ci fa”. Questa operazione di messa in forma di un mondo e dei soggetti che lo abitano non è né astratta, né velleitaria, né puramente mentale: il reale esiste, fa resistenza, eccede ogni plasmazione e spesso si manifesta come limite invalicabile o come residuo non lavorabile. In ultima istanza, il reale non è mai completamente appropriabile, lavorabile o conoscibile; ciò che ne sappiamo è quanto il nostro mondo ci ha messo a disposizione come esito di una storia, la regione particolare che abbiamo esplorato – e che siamo. Il tipo di enti che esistono nel nostro mondo, le affezioni che inducono, le relazioni che è possibile stabilire, il sistema di produzione e riproduzione, le pratiche terapeutiche, le vie della conoscenza, il dicibile e il non dicibile, i confini della coscienza e le piste di esplorazione del mare magnum che sta al di là della consapevolezza: tutto questo fa di noi degli umani specifici, relativi a un “qui e ora”, contenuti entro una storia che è sempre, al contempo, il nostro limite e la nostra potenza. Se immaginiamo ciascun mondo umano come un fascio di luce che illumina e tinge del proprio colore una provincia particolare del reale, allora fra la zona in luce e quella che resta buia non c’è una barriera, né una linea precisa 13
di confine. Lo spazio oltremargine non solo non è precluso ma, anzi, è continuamente presente come una penombra che progressivamente s’infittisce, luogo di potenzialità e di negoziazione fra ciò che è noto e ciò che è ignoto, fra gli enti a cui è stato dato un nome e tutti gli altri. Niente di troppo netto o ordinato: questa fascia di penombra è appunto l’immaginario: non già qualcosa che non esiste nella realtà, ma la regione dove si agitano le forze e le possibilità che fondano la parte in luce di quel mondo e la forma umana che lo abita. L’immaginario non è dunque la schiuma del reale, una fantasia a perdere, ma la fascia che media fra il reale, nella sua vastità inafferrabile, e il mondo locale, specifico, che viene portato in esistenza. È la regione dove stanno il possibile, il potenziale, l’inattuale, il represso, i fantasmi, le memorie implicite, i presupposti inconsci che fanno, di un mondo, quel mondo. Nell’immaginario s’incrociano e si scontrano le immaginazioni collettive, i modi di dire, gli affetti, i copioni che imbrigliano le pulsioni, le tracce del potere e del dominio. È quel che Simondon chiamava preindividuale e che alcuni antropologi hanno chiamato myth-dream, un “mito-sogno” che collega e informa di sé coloro che fanno parte di un collettivo, che ne permea i sogni, che si modifica quando questi stessi soggetti cambiano18. Nel mondo immaginario – fra sogni, miti, anticipazioni, intuizioni fulminee, paure improvvise, illuminazioni, ricordi e rimossi – è difficile logicizzare quel che avviene e ogni mondo ha i suoi modi per entrarvi in rapporto: larga parte del lavoro antropopoietico, culturale e terapeutico consiste proprio in una continua negoziazione – attenta o azzardata, esperta o sorpresa – con le forze che vi si incontrano, con le tensioni che vi originano e con gli spettri che continuamente vi vengono ricacciati. Gli “istituti culturali” stessi altro non sono se non la sedimentazione di questi scambi in una configurazione stabile, che permetta la continuità della presa di forma. Nel rapporto fra ciò che è già individuato e il preindividuale ne va di noi, nel senso più intimo e cruciale possibile: poiché fra i viventi nessuna forma è mai stabile o definitiva, il processo d’individuazione è un continuo passo di danza fra ciò che è in atto e la carica di preindividuale che ogni individuo porta con sé e che lo accomuna a tutti gli altri. Qui sta la parte sepolta, inconsapevole e rimossa delle fondamenta culturali di un mondo, le piegature prime che lo preparano e lo rendono possibile, così come tutto ciò che, perché quel mondo esistesse, è stato escluso o eliminato. Fatti, forze e tensioni inquietanti, di cui non si dà alcun sapere definitivo perché, per loro natura, non possono essere osservati in piena luce. È la zona dove si sviluppano i futuri, all’interfaccia fra ciò che già è e ciò che vorremmo far essere; ma è anche la zona dove vivono i fantasmi, le tracce di ciò che è stato escluso o fatto fuori, delle violenze e delle distruzioni, dei pesi che la storia trascina e che zavorrano il presente. Chiamiamo ideologia il bando su ciò che è stato escluso, la svalutazione di tutto ciò che punta verso un qualsiasi altrimenti e che separa ciò che si sente da ciò che si sa. In parole povere: se quel che sento del mondo non corrisponde a quel che penso del mondo, tanto peggio per la percezione. Oscurando quel 14
che potrebbe ferire, l’ideologia impedisce di diventare adulti accedendo alla verità: ovvero all’interezza di un mondo, incluse le sue parti in ombra. Nella sintetica formulazione di Žižek, «il livello fondamentale dell’ideologia […] non è quello di un’illusione che maschera il reale stato delle cose, ma quello di una fantasia (inconscia) che organizza la realtà sociale»19. L’ideologia agisce sull’immaginario con mezzi immaginari, fino a confondervisi. Ma è illusorio pensare che, elidendo l’immaginario, sia tolta di mezzo anche l’ideologia – e anzi, per sua stessa natura, l’elisione dell’immaginario coincide con il culmine dell’ideologia. Il disvelamento sarà allora in primo luogo, marxianamente, il portare a visibilità le fondamenta nascoste (dolorose, ignobili, violente od oscene) di un mondo, l’agnizione di ciò che, nella vita ordinaria, è stato gettato nell’indicibile perché gli apparati di dominio potessero continuare a funzionare. Poi si tratterà di prendere contatto con queste zone e discernere, fra le azioni che hanno luogo nell’immaginario, le operazioni di liberazione (come quando una psicoterapia libera un soggetto da una cattura nevrotica, o come quando, correndo su per le montagne, i partigiani si liberarono del plumbeo trionfo fascista della morte) dalle manovre di cattura e asservimento, di controllo, di possessione. Nonostante tutti i suoi proclami di realismo, pragmaticità, disincanto, oggettività e naturalezza, il modo di produzione capitalista pratica da sempre l’invasione manu militari dell’immaginario; e per liberarsi nell’immaginario servono attrezzi immaginari. Bisogna, ad esempio, ri-raccontare la favola della modernità trionfante, controraccontarla, sfarne il sortilegio. L’argomentazione ci porterà nel lato oscuro e distopico dell’immaginario, prima che in quello aurorale e utopico; in territori inquieti, conoscitivamente paludosi ed esistenzialmente incerti: la stregoneria, le operazioni di cattura, la costruzione di un “corpo tossico” della modernità, i totalitarismi, il paradigma emergenziale, la relazione di dominio nella costituzione dei soggetti. La diagnosi, per quanto sgradevole, è fatta in funzione della guarigione; e mai come oggi è stato chiaro che neanche il più piccolo dei nostri dolori, neanche il più insignificante dei nostri malesseri può essere curato senza affrontare lo stato di cose del nostro mondo; e viceversa.
3. Anatomia della modernità La modernità che abitiamo arriva a valle della storia che attraversa la Grecia, l’ebraismo, Roma, il cristianesimo, la civiltà dei comuni e può essere definita come l’esito storico dell’intersezione, fra Cinquecento e Seicento, di tre grandi fenomeni: il colonialismo, il capitalismo e la scienza. Ciascuno di essi articola una dinamica complessa di esproprio, sfruttamento e cattura, portata a massima potenza dalla loro convergenza (che produce, fra l’altro, la necessità dello stato-nazione, la costruzione dell’individuo come ente monadico e la biopolitica). 15
Ridotto all’osso, il colonialismo consiste nell’appropriazione violenta di nuove terre, espropriate a coloro che le abitavano, cui segue lo sfruttamento delle ricchezze che vi si trovano, che si tratti di beni naturali o di forza-lavoro in regime di schiavitù. In senso stretto il colonialismo si manifesta negli orrori dell’impresa coloniale, ma il movimento che lo caratterizza è lo stesso che, in terra inglese e poi europea, produce le enclosures espropriando le comunità contadine e instaurando con la terra un nuovo rapporto di sfruttamento intensivo. Messo in sospensione nella nuova mentalità protestante del nord Europa, il surplus di ricchezza ottenuto dall’esproprio e dallo sfruttamento delle colonie fa precipitare il circuito del plusvalore e quindi l’economia di tipo capitalistico. Sganciato dai bisogni e dalla logica umana, l’aumento del capitale diventa fine in sé, ragione sufficiente dello sfruttamento. Il sistema capitalista prevede il predominio del valore di scambio sul valore d’uso (il valore delle merci è stabilito dal mercato, non dalla loro utilità per la vita); l’equivalenza generale (tutto ha un prezzo e, in linea di tendenza, niente esiste se non è convertibile in denaro); e il ciclo denaro-merce-denaro (in cui il passaggio intermedio, qualunque forma esso prenda, può risolversi solo nell’accrescimento della quantità di denaro)20. Il terzo grande fenomeno alla radice della modernità è il modo conoscitivo che si fa egemone dopo gli orrori inauditi della Guerra dei Trent’Anni: la scienza. Essa si basa sulla sperimentazione e sull’oggettivazione degli enti conosciuti, ma alle sue fondamenta è innanzitutto una Cosmopolis che offre una visione complessiva del mondo, che si propone di legare le cose in termini tanto «politico-teologici» quanto scientifici o esplicativi. Quelli che hanno ricostruito la società e la cultura europea dopo la guerra dei trent’anni scelsero come princìpi guida la stabilità, entro gli stati-nazione e tra di essi, e la gerarchia, all’interno delle strutture sociali di ogni singolo stato. Per coloro che portarono avanti questo progetto era importante credere che i princìpi di stabilità e gerarchia fossero compresi nella totalità del piano divino, dal cosmo astronomico alla famiglia individuale. Dietro l’idea dell’inerzia della materia essi vedevano nella natura, come nella società, le azioni delle cose «più basse» dipendere dal controllo e dal comando delle creature «più alte» – a cui le inferiori erano subordinate – fino ad arrivare al Creatore stesso. Più ci si affidava alla «subordinazione e all’autorità» in natura, minore ansia si provava per le ineguaglianze sociali. […] Di conseguenza, il sistema complessivo di idee sulla natura e l’umanità che formava l’impalcatura della Modernità era divenuto un congegno sociale e politico, e non solo scientifico: era ritenuto la legittimazione divina dell’ordine politico dello stato-nazione sovrano. Da questo punto di vista, la visione del mondo della scienza moderna – così come si affermò di fatto – si guadagnò intorno al 1700 il sostegno generale non solo per la sua capacità di spiegare il moto dei pianeti o il fenomeno delle maree ma anche per la legittimità che apparentemente concedeva al sistema politico degli stati-nazione21.
Si può estendere l’analisi di Toulmin osservando che la scienza è stata per almeno tre secoli, e continua a essere, la principale giustificazione ideologica dell’impresa coloniale e della superiorità della cultura che la compie. Il ragionamento è più o meno questo: esiste una sola natura oggettiva e universale, regno dei fatti, che si contrappone a una miriade di culture locali, storiche, variabili e transitorie, regno dei valori. Fra tutte, la nostra cultura è la sola che, attraverso la scienza, ha imparato a conoscere la natura nella sua datità, estraendone le leggi che la governano. Per questo, essa è la sola cultura cui sia possibile regolarsi sulle verità universali di natura: la sola, quindi, dotata di 16
fondamento. Per via di questa intrinseca superiorità (del suo essere, per così dire, l’unica “cultura naturale”), la modernità si è sentita in diritto e in dovere di imporre i propri parametri universali a tutti gli altri mondi umani22. Quest’imposizione è ciò che, con un altro vocabolario, chiamiamo progresso. L’intersezione di questi tre assi stabilisce le linee portanti della modernità. L’assetto del mondo che oggi conosciamo, e che ci sembra naturale, ha richiesto un lunghissimo travaglio storico e sacrifici immani; non è l’esito inevitabile di un’universale natura umana, ma il prodotto di una storia – fatta anche, come ogni storia, di assunti inconsapevoli e di rimossi23. Il modo in cui guardiamo al mondo riposa su un insieme di presupposti di lunga durata che sono per noi la trama stessa di tutto ciò che esiste o può esistere: il monismo (l’idea che esista un solo essere – o un solo dio – e che esso sia vero e buono); la separazione fra materia e spirito, o fra natura e cultura (da cui derivano quella fra corpo e mente, fra animali e umani, fra selvaggi e civilizzati); la centratura sull’individuo anziché sulle relazioni o sui collettivi; l’enfasi sulla conoscenza logico-deduttiva; la fiducia nella scienza come unica fonte affidabile di conoscenza; l’accettazione dell’homo homini lupus e quindi della competizione e dell’utilitarismo come forma-base delle relazioni. Nessuno di questi tratti è esclusivo, ma la loro combinazione lo è, e configura una vera e propria antropologia della modernità. Il primo Seicento vide così un restringimento della sfera della libertà di discussione e di immaginazione che aveva operato sul piano sociale, con l’inizio di una nuova insistenza sulla «rispettabilità» nel pensiero e nella condotta, anche sul piano personale. Qui prese la forma di un’alienazione abbastanza familiare al tardo ventesimo secolo, che si espresse come solipsismo nelle questioni intellettuali e come narcisismo nella vita emozionale24.
Quando la congiunzione di colonialismo, capitalismo e scienza comincia a sprigionare tutta la sua potenza di fuoco, in Europa prende forma l’uomo nuovo della modernità. Il suo atto di nascita è scritto nella Favola delle api di Mandeville: la prosperità delle nazioni non dipende più dalle virtù dei loro cittadini, bensì dai loro vizi. Mai, neanche per provocazione, si era visto un rovesciamento tanto drastico di tutto ciò a cui le epoche precedenti avevano dato nome di “etica”. La pazienza, la moderazione, l’equilibrio, il controllo di sé, il senso di giustizia, la capacità di valutare il limite, la resistenza, l’altruismo, il contatto con sé e con il mondo: tutto ciò che permette la buona regolazione dei rapporti, nonché la crescita dei soggetti in vista di maggiori capacità, viene svalutato a vantaggio dell’immediata soddisfazione degli stimoli, resa possibile dalla dinamica proteiforme del denaro. Sono ora l’egoismo, la cupidigia, l’invidia e la competitività a garantire il successo individuale e la prosperità delle nazioni. Questa visione del soggetto e delle relazioni si diffonde insieme al nuovo modo di produzione e, in un tempo relativamente breve, le regolazioni precedenti vengono disarticolate, sostituite con quella nuova e infine dimenticate. La naturalizzazione delle gerarchie sociali imposte dal capitalismo, unita all’oblio della loro origine, produce una situazione che appare fin da subito 17
misteriosa. Questo il busillis: perché il capitale possa prodursi, è necessario che sia già operante il circuito del plusvalore; ma perché il circuito del plusvalore possa avviarsi, è necessario un capitale iniziale (e il proto-capitalista che lo accumula). Senza capitale niente plusvalore, e viceversa. A questo enigma genealogico se ne affiancava un altro, di tipo antropologico: lungo l’intero Settecento gli economisti inglesi, che più di tutti avevano sott’occhio il fenomeno, s’interrogano sul perché la nazione che più di ogni altra accumulava e produceva ricchezza – una ricchezza immane, impensabile fino a quel momento – fosse anche quella per le cui strade si riversavano le più grandi torme di vagabondi e straccioni; uomini, donne e bambini che non erano semplicemente poveri, bensì miseri, avendo perso ogni possibilità di provvedere a se stessi e alle più semplici necessità del vivere. La congiunzione di ricchezza e miseria, entrambe al massimo grado, si presentava come un rompicapo. L’economia classica risolve l’arcano articolando fra loro due spiegazioni mitiche: la prima fa discendere il valore dalle leggi di natura, la seconda mette in relazione la distribuzione delle ricchezze con la distribuzione delle virtù. O piuttosto, a somiglianza della gravità universale nella fisica postnewtoniana, una legge unica, universale e ineluttabile sarebbe stata il centro della nuova dottrina economica. Questa legge «spiegherà» perché i ricchi diventano più ricchi e tanti poveri vanno in miseria. E comporterà così la triade ricchezza-povertà-miseria. Il lettore perspicace avrà riconosciuto questa «legge»: la legge della scarsità25.
È importante capire la logica sottostante perché nelle sue maglie siamo ancora presi. Per quanto riguarda l’origine del valore, gli economisti classici propongono una narrazione singolarmente persuasiva, costruita sopra un’osservazione in apparenza del tutto ragionevole: in natura non esistono beni sufficienti a soddisfare i bisogni di tutti. Quest’avarizia è causa di invidie, miseria, lotte per l’appropriazione, fame e quindi, in ultima analisi, violenza. In quanto soggetti razionali, gli umani dovranno allora decidere come impiegare risorse scarse per massimizzare i loro fini: fini individuali di agio e ricchezza, e fini sociali di felicità e benessere per il più gran numero. L’ingegno s’aguzza: la produzione di beni e lo scambio compensano la scarsità naturale e promettono di dare soddisfazione a tutti i bisogni. È l’atto di nascita dell’economia, intesa tanto come regime degli scambi quanto come disciplina che tali scambi analizza e mira a razionalizzare. La favola della formica e della cicala ne fornisce un’ottima didascalia. C’erano una volta una formica laboriosa, che nei mesi estivi accumulava ricchezze, e una cicala oziosa, che perdeva tempo a cantare. All’arrivo dell’inverno, la prima disponeva di un discreto gruzzoletto, mentre alla seconda era rimasta solo più la capacità di lavorare. Per sopravvivere, la cicala vendette la propria forza-lavoro alla formica la quale, dandole in cambio un salario, salvò la dissoluta dalla morte per fame. Per quasi due secoli, fra Settecento e Ottocento, c’è un rincorrersi di sintomo e razionalizzazione: più s’ingrossano le torme di miserabili, più gli economisti cantano l’umana laboriosità che riempie i forzieri. Quando Marx decide di bucare il velo dell’ideologia, la prima favola che si trova a smontare è pro18
prio quella che naturalizza la disuguaglianza: l’idea secondo cui l’avarizia della natura stabilisce il valore delle cose e la laboriosità personale (unica virtù rimasta) rende giusta la diseguale distribuzione della ricchezza. It’s a wild world, baby…: alla fine ciascuno si sarà meritato il proprio destino. Basta sfogliare un manuale di economia per accorgersi che la bolla antropologica fatta di plusvalore, sfruttamento, feticismo della merce, progresso, straricchi e straccioni, dominio sulla natura è ancora in corso di validità, nonostante le crisi, ripetute e tremende, che nel corso del Novecento hanno mostrato la pochezza dei suoi assunti. Essa configura un mondo: il nostro. Che però, a ben vedere, è solo uno dei molti possibili e che non gode di alcuna intrinseca superiorità rispetto ad altri modi di fare mondo e di fare umanità. La presunzione di superiorità che ci accompagna da oltre quattro secoli non è che presunzione, appunto; una postura arrogante funzionale alla cultura aggressiva che ci ha plasmati. Cosa rende così difficile questo passaggio? Perché facciamo tanta fatica a immaginare di essere una cultura fra tante? Uno dei tratti specifici della modernità è di guardare con disprezzo a tutto ciò che è altro-da-sé, la sistematica svalorizzazione di ogni modo di vivere, pensare, conoscere, entrare in relazione, curare e fare mondo che non sia quello normale definito dal monismo ontologico, dall’individualità non-relazionale, dalla massimizzazione dell’utile, dalla conoscenza logico-deduttiva. È una vera e propria coazione mentale, indotta e continuamente rinforzata dalla maggior parte dei prodotti culturali in circolazione, dai libri di storia delle scuole elementari alle buone intenzioni della cooperazione internazionale. Il punto decisivo è questo: comunque si manifesti, la modernità è un gigantesco processo di riduzione all’uno, che riporta tutto a sé negando la possibilità stessa del molteplice. Un solo modo di produzione anziché molti; un solo regime universale e onninclusivo di governo anziché molte varietà locali; una sola cultura degna del nome; un solo dio; un solo tempo; una sola forma di umanità. In quest’impresa di uniformazione, stato e capitale sono solidali, l’uno non esiste senza l’altro. Affidato alle università, alle scuole e ai musei, il sapere statale s’impone come solo modo valido di conoscenza, squalificando tutti gli altri modi. Pur nelle loro differenze, i processi alle streghe, la medicalizzazione del gesto terapeutico, la repressione delle eresie, l’istituzione di scuole pubbliche vanno tutti nella stessa direzione. Il monismo è un dio geloso e la sua deriva totalitaria può essere espressa in forma deduttiva: se esiste un solo essere (che si manifesta nella materia e nelle leggi di natura) e una sola verità su di esso (che la scienza progressivamente scopre), allora esiste anche un solo mondo umano desiderabile: quello che conosce l’unico vero essere e si adegua alla sua verità. E che, guarda caso, è il nostro. Inoltre, poiché la conoscenza delle leggi di natura è ciò che permette l’unico vero progresso, allora tutti gli esseri umani, per essere degni del nome, dovranno prima o poi diventare come noi.
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La riduzione all’uno porta con sé l’assolutizzazione del bene: i due corni fanno parte di un medesimo dilemma. Un solo essere, una sola natura, una sola verità, un solo bene. Dimenticando il senso stesso del concetto greco di pharmakon, la modernità esige che le cose buone (e solo buone) siano separate dalle cose cattive (e solo cattive); pretende, cioè, di poter fare due sacchi: quello delle cose a cui non fare più attenzione e quello delle cose da distruggere. L’esito è una forma grave di scissione, accompagnata dall’incapacità di gestire tutto ciò che si manifesta sia come positivo che come negativo – e cioè, l’intero della vita. Nessuna negoziazione è più possibile con ciò che può solo essere espulso, distrutto: è la fine della diplomazia fra enti del mondo, la rinuncia alla complessità. È un vero e proprio motore dissociativo, in cui lato in luce e lato in ombra continuamente s’inseguono: ciò che fuoriesce dal visibile è radicalizzato come Male più o meno assoluto, ombra ineludibile dell’Uno/Vero/Bene. Al dio di luce si contrappone il principe delle tenebre: il demoniaco (che era in origine relativo a una pluralità di forze non umane) cristallizza nella figura dell’arcinemico. Particolarmente terribile è l’effetto di questa polarizzazione in terra di conquista, nei luoghi che non prevedevano una separazione univoca di bene e male. Come nel caso del pharmakon, la più parte delle cosmovisioni umane ipotizza che ciascun ente e ciascun fenomeno porti in sé una certa ambivalenza, che ogni potenziale possa essere diretto a buono o a cattivo fine a seconda delle circostanze e delle intenzioni. L’opera missionaria richiedeva invece la decisa separazione fra i due poli e la ristrutturazione dei pantheon locali in termini gerarchici e oppositivi: solitamente, uno degli dei già presente nella cultura da convertire veniva trasformato nel principio monoteistico supremo, unico referente possibile delle richieste e delle preghiere, mentre un altro – solitamente il trickster – andava a prendere la parte del demonio. La disponibilità a negoziare con le diverse forze presenti nel mondo, cercando di moderarne l’ambivalenza, assumeva ipso facto un aspetto sinistro. Da Weber in poi, modernità e disincanto sono pressoché sinonimi: la modernità è (sarebbe) l’epoca della perdita delle illusioni che avevano governato i mondi precedenti. Illusioni sugli dei, sul ruolo degli umani, sull’intenzionalità del creato, sui viventi, sul destino. In effetti, il trionfo della borghesia è stato efficace nel dissolvere le ideologie che giustificavano le forme di dominio precedenti: quello aristocratico, quello teologico, quello clanico. Peccato che in questo movimento dissolvente finissero prese anche tutte le cosmovisioni non conformi, tutti i modi della conoscenza non ufficiali, tutte le forme di umanità non integralmente virate alla produzione in regime di plusvalore. In questo senso, il fascismo e i totalitarismi non sono deviazioni aberranti dalla traiettoria del progresso, ma figli legittimi della modernità. Di fatto, sono i movimenti che con più chiarezza hanno portato alle estreme conseguenze la logica unificante che sottende la cosmovisione moderna: dopo l’unificazione delle forme dell’umanità in nome dell’unico dio, dei modi della sussistenza all’insegna del capitalismo e dei modi della conoscenza sotto la bandiera della 20
scienza, fascismo e totalitarismi tentano (e in parte compiono) la riduzione a uno dei regimi immaginari, colonizzando quindi la zona del reale più decisiva per il divenire e la possibilità di far esistere un futuro. Il risultato è una sorta di paradossale desiderio dell’orrore, un cupio dissolvi che continua a farsi sentire nella contemporaneità così come risuonava nel «viva la muerte!» dei miliziani spagnoli26. Distruggere allo stesso tempo tutto ciò che ci rende estranei al mondo e a noi stessi, questo è veramente rivoluzionario, cioè vitale. L’alternativa altrimenti sarebbe quella già indicata da Benjamin e che rappresenta il cuore del progetto fascista, ovvero l’umanità autoalienata che arriva a «vivere il proprio autoannientamento come un godimento estetico di prim’ordine». Godimento di massa che, chiunque lo può vedere, è attualmente in corso27.
Mito fondativo della modernità, il progresso – come dimostra il suo carattere intoccabile e indiscutibile – appartiene alla categoria del magico. Più propriamente, tuttavia, lo si dovrebbe definire sortilegio: è l’incanto che uccide gli altri incanti. Esso si basa sull’incrementalità: presuppone che l’aumento (di plusvalore, di beni materiali, di felicità, di salute) sia infinitamente perseguibile, che non esistano limiti superiori, che non si diano mutamenti di fase né movimenti antagonisti. In breve: che non esista il limite. Ciò è in contraddizione non solo con tutto ciò che impariamo sul mondo e su noi stessi, ma anche con gli altri modi dell’incanto, che prevedono una linea di confine fra dentro e fuori: il progresso è “senza fuori”. Così, mentre tutto ciò che era nonmoderno veniva spazzato via in nome del disincanto, una “follia magica” particolarmente perniciosa agiva, ben protetta, al cuore stesso della modernità, spingendo all’aumento indefinito di tutto: della produzione, della ricchezza, dell’accumulo, del dominio, della distruzione. È la normalizzazione dell’eccesso, una follia che, nei momenti di massima efficacia, ha disumanizzato non solo le sue vittime ma anche, e soprattutto, i suoi adepti. Che si trattasse di battezzare gli altri per salvare le loro anime, di educarli all’unico vero sapere o di convertirli alla democrazia, le buone intenzioni della modernità hanno sempre giustificato le azioni peggiori, descrivendole come sacrifici necessari in vista di un vantaggio assoluto, indiscutibile: la salvezza e l’infinito progresso di tutti. “Progresso” è dunque una parola stregata, che spegne le facoltà di pensiero e ottunde il sentimento, rendendoci preda facile dello stregone che la brandisce. Non appena viene pronunciata, nessuno trova mai niente da opporre: i dubbi sono tacitati, le esitazioni superate e il costo (qualsiasi costo) diventa sopportabile. Difficile immaginare una formula incantatoria più efficace. Chi mai obietterà alla costruzione di una scuola nel mezzo all’Amazzonia? O all’edificazione di un ospedale nella foresta congolese? La ragione di fondo è semplice e va osservata con equanimità: poiché continuiamo a essere colonialisti, un maestro ci sembra una forma umana intrinsecamente superiore rispetto a un anziano Shipibo e la figura del medico ci appare molto più degna di quella di un guaritore Nande. Il maestro e il medico – così come l’ingegnere, i vestiti, la monogamia e la democrazia rappresentativa – incarnano il progresso: nient’altro conta. Eppure abbiamo a disposizione eccellenti descrizioni degli 21
effetti dello “sviluppo” sulle comunità, dei sistemi di sfruttamento che immediatamente s’insinuano e dei disastri che causano. E senz’altro abbiamo buona conoscenza della nostra stessa profonda infelicità. Niente di tutto questo ci fa vacillare: la cosa migliore resta lo sviluppo capitalista, poco importa se alla fine ciò che dà senso alle vite dei collettivi e dei soggetti viene spazzato via. Un depresso con lo smartphone è meglio di un asceta felice. Poiché l’Illuminismo è totalitario più di qualunque sistema. Non in ciò che gli hanno sempre rimproverato i suoi nemici romantici – metodo analitico, riduzione agli elementi, riflessione dissolvente – è la sua falsità, ma in ciò che per esso il processo è deciso in anticipo28.
Nel variare dei tempi e dei modi, l’enfasi è sempre sull’uno: una sola salvezza, una sola economia, una sola conoscenza, in continua espansione. Tutto il resto è ipso facto squalificato con nomi infamanti: che si tratti di conoscenze (tutto ciò che non è scienza è superstizione), di mondi umani (tutto ciò che non è democrazia statale è barbarie, miseria ogni forma non capitalista di sussistenza), di relazioni (è follia, o romanticheria, ogni sentirsi in relazione profonda con altro e con altri), di pratiche (la sola azione efficace sul mondo è quella tecnica), di posture esistenziali (sono devianti, o folli, tutti coloro che esplorano stati altri dalla razionalità utilitaria – e fra questi i bambini, i mistici, i morenti, i dormienti). In questo movimento di unificazione e squalificazione, la stregoneria gioca un ruolo chiave.
4. I molti nomi della stregoneria Partiamo ancora da noi come sintomo. La stregoneria colpisce la nostra sensibilità come qualcosa che appartiene irrimediabilmente all’altrove, che si tratti del mondo extraoccidentale o delle intemperanze di un passato che da molto tempo ci siamo lasciati alle spalle. Le risonanze che evoca ci risultano scandalose e sarà proprio lo scandalo a fornirci la leva teorica cruciale. Se in generale essa designa un insieme variegato di fenomeni, accomunati all’insegna di un potere nascosto, nero e malevolo, per via della sua fondamentale ambiguità la stregoneria è qualcosa che si dice in molti modi, al punto tale che è impossibile darne una definizione univoca o logicizzarne le manifestazioni. Per questo è così difficile trattare della stregoneria e della sua intrinseca ambiguità: la sua oscillazione non può essere tolta senza entrare, ipso facto, in un regime di rimozione. Per capirne qualcosa, proviamo a procedere per quadri successivi. MODER NI TÀ DEL LA STRE GA . Il primo illustra un curioso dato temporale: contrariamente al pregiudizio diffuso, la caccia alle streghe non ha affatto funestato l’Europa durante il Medioevo, bensì all’inizio della nostra epoca, fra la fine del Quattrocento e la fine del Settecento29. Se i metodi dell’Inquisizione anticipano la modernità di almeno un paio di secoli, essi si applicavano, all’inizio, soprattutto contro gli eretici: catari, fraticelli, dolciniani, valdesi. Bisogna 22
aspettare l’esordio dell’età moderna perché il fenomeno noto come “caccia alle streghe” prenda forma e momento. La stregoneria che viene cacciata è coestensiva alla modernità e alla sua Ragione: non è il residuo ultimo di un passato che non vuole passare, ma il prodotto del progresso, ciò che esso deve espellere da sé per potersi porre come tale. I roghi ne ritmano il travaglio e ne accompagnano l’insediamento: la luce dei Lumi viene anche da quei fuochi. Chiedersi – come hanno fatto fior di storici – come abbiano potuto personalità del calibro di Jean Bodin credere all’esistenza di qualcosa di così contrario alla ragione come le pratiche stregonesche, significa ripulire la modernità del suo lato in ombra, colludere con quello stesso progresso in nome del quale le streghe (da questa parte dell’Atlantico così come dall’altra) venivano bruciate. Nell’ipotesi più estrema, le grandi persecuzioni delle streghe in occidente non sarebbero affatto un orroroso lascito d’un affabulato “buio” medioevo, che inquina la luce del Rinascimento e gli albori dell’età moderna, ma, invece, una consapevole applicazione dei metodi politici di sterminio, in vista della dominazione, sperimentati con successo dal Potere durante le cruente vicende di assoggettamento dei popoli amerindi, da parte dei primi colonizzatori dell’America, ed esportati nella vecchia Europa, sempre in vista dell’imposizione del dominio. L’originario capitale, cioè, streghizza il Vecchio ed il Nuovo mondo, non solo per dominare/annientare ogni tentativo di opposizione o di ribellione, ma, reinventando nel lavoro mal pagato (o addirittura forzato) degli indios (superstiti di un’immane carneficina) lo schema stesso mediante il quale avvierà le masse dei miserabili, dei mendicanti, dei diversi del Vecchio mondo sulla via del cosiddetto “libero mercato del libero lavoro”, che sono il basamento stesso della valorizzazione30.
La caccia alle streghe è dunque fenomeno soprattutto moderno e stregoneria è ciò che il progresso istericamente espelle dalle sue stesse viscere per potersi affermare come intrinsecamente buono. L’IRO NIA DE GLI UMA NI STI . È comprensibile, ma in ultima istanza inutile, opporre a ciò l’esistenza della nozione di strega fin da tempi precedenti: il secondo quadro ci restituisce l’ironico scetticismo degli intellettuali e dei letterati umanisti che, pure, studiavano e praticavano la magia. Erasmo, Pomponazzi, Aretino, Bruno, come un’infinità di savi personaggi del teatro e della letteratura del tardo medioevo e della prima modernità, se la ridono delle accuse di stregoneria che frati e preti lanciano contro le donne, dubitano delle confessioni estorte con la tortura e dissacrano ogni presunta manifestazione di fenomeni che non rispondano alle leggi di natura, che si tratti di miracoli o di diavolerie. Ben altra cosa, per loro, è la magia, che obbedisce a leggi naturali e richiede un lungo percorso di apprendistato31. La linea di discrimine passa fra Cinquecento e Seicento: nel 1610, con la morte di Enrico IV di Navarra, muoiono le speranze di una composizione pacifica del dissidio fra riformati e cattolici. Nel 1618 si apre la Guerra dei Trent’anni, che prova a risolvere i dissidi teologici con la spada e stermina un terzo della popolazione europea. In un clima del genere, altamente polarizzato fra due fazioni, il bonario scetticismo della generazione precedente, rappresentata da Montaigne, secondo cui nessuna definitiva certezza può essere raggiunta in alcun campo e la vita è fatta di saggezza pratica, non può più aver 23
corso: rischia di riaprire questioni teoriche che ora facilmente conducono all’uso delle armi. Il tentativo degli intellettuali è dunque quello di trovare una certezza stabile sulla quale potessero accordarsi tutti, al di qua delle scelte religiose: tale fondamento fu individuato nel razionalismo e nella scienza. La scienza nascente si allea con la teologia razionale ed entrambe hanno come vero nemico l’aristotelismo, con la sua distinzione fra diverse forme di razionalità e la sua insistenza su un’etica fatta più di casi esemplificativi che di teoremi. La distanza critica dei dotti umanisti del Cinquecento, consapevoli dei limiti della ragione e delle ambiguità delle intenzioni, e per i quali “stregoneria” è il nome delle soperchierie del clero sulla credulità popolare, non ha più corso nel secolo successivo, dominato dal fervore integralista in nome dell’unico bene32. DISA NI MA ZIO NE . Una lezione fondamentale viene dai dati etnografici e permette di distinguere fenomeni che di solito gettiamo alla rinfusa in uno stesso sacco e che invece devono essere attentamente separati. Nei collettivi che prevedono l’esistenza di pratiche magiche e di influenzamento, queste non sono mai descritte, nel loro insieme, come “stregonesche”, nell’accezione corrente che noi diamo a questo termine. Semmai, tali pratiche rientrano in un insieme enormemente variegato di tecniche per agire sull’immaginario, la cui flessione etica dipende, volta per volta, dalle intenzioni con le quali vengono messe in atto. Servono a curare i malati, a proteggere chi parte, a difendersi dalle aggressioni, a risolvere i problemi comunitari; in alcuni casi servono anche ad aggredire, a nuocere, a guadagnare potere e ricchezza a spese d’altri. Quando fra questi collettivi si fa riferimento a pratiche stregonesche in senso proprio (ovvero, nella nostra accezione: malevolmente intenzionate a nuocere al prossimo tramite influenzamento), il fattore comune non sta tanto nell’uso della “magia” o dell’influenzamento, quanto nel tipo di effetto che esse producono sulla vittima, descrivibile in modo trasversale come una “cattura dell’anima”, uno stato di dissociazione o disanimazione che strappa il soggetto al suo mondo e lo aliena. Sono questi i sintomi che con più sicurezza permettono di diagnosticare un’azione stregonesca. C’è sospetto di stregoneria quando qualcuno deperisce senza causa apparente, perdendo la sua forza vitale; quando non sa più stare nella pluralità delle relazioni che compongono una vita e taglia tutti i canali di scambio per nutrirne solo uno; quando si lascia catturare da un padrone a cui si vota; quando, pur essendo lì, non è più presente a sé e al mondo. Soggetti mangiati, si dice, affatturati. Cambia il loro statuto ontologico: da vivi a non-morti, da soggetti a oggetti, da aperti a chiusi, da fasci di scambi a luoghi d’estrazione. Cambia la consapevolezza: lo stregato non può più prendere distanza da quel che gli accade, non percepisce il suo stato dimidiato come problematico. La complessità si riduce, l’umano viene semplificato e oggettivato, come nel caso esemplare dello zombie. Stregonesca sensu strictu è dunque l’azione che, indipendentemente dal mezzo utilizzato, svuota gli individui della propria forza vitale, li asserve a una volontà esterna, li canni24
balizza. Stregoneria è il nome di ciò che permette di impossessarsi surrettiziamente delle forze vitali di un individuo. È difficile tenere insieme questi spunti entro un quadro logico – ed è inevitabile che sia così, dal momento che “stregoneria” è il nome che diamo a tutto ciò che, per costruire un quadro logico, va espulso. Essa designa un conglomerato forzoso e piuttosto indigeribile di significati che spesso ci risultano scandalosi. Ma se ora proviamo a guardare, anziché ai contenuti della stregoneria, all’uso linguistico del termine, le cose cominciano a chiarirsi. Quando i rappresentanti della modernità parlano di stregoneria non è mai solo per indicare un fenomeno esistente nel mondo, quanto semmai per squalificarlo; e neanche per squalificarlo relativamente, in confronto con altro, ma per squalificarlo assolutamente, sotto ogni profilo possibile: ontologico, epistemologico, etico. La stregoneria è una specie di summa di ciò che non esiste veramente (gli spiriti, la magia, l’influenzamento, l’azione a distanza); di ciò che per definizione è non vero (le credenze, le superstizioni, le formule di protezione e di attacco); di ciò che è malvagio. La stregoneria è l’arcinemico; è il polo oppositivo del progresso: il punto in cui si concentrano al massimo grado tutte le sue caratteristiche, ma con segno rovesciato. Dapprima alleanza con il male e con il Maligno e impresa di rovesciamento dell’unico vero bene, poi superstizione, insieme di vecchie credenze definitivamente superate dai lumi della ragione: “strega” è il nome infamante di tutti gli oppositori del nuovo regime antropologico della modernità. Come ha mostrato Parinetto, la strega è surdeterminata, il suo nome viaggia fra sessi, continenti, categorie e s’impianta ovunque vi sia un nemico da estirpare, qualcuno che resiste al letto di Procuste della neonata normalità di stato: indios che non praticavano le virtù cristiane o che non volevano dismettere le conoscenze tradizionali; custodi delle comunità rurali spazzate via dalle enclosures; eretici; dissidenti e renitenti alle istituzioni totali (opifici, fabbriche, eserciti, scuole, ospedali); individui marginali e quindi inquietanti; detentori di saperi illegittimi. Non serve a molto, quindi, chiedersi chi sia sociologicamente la strega ed è più proficuo interrogarsi sul processo di streghizzazione, che ogni volta si adatta con grande precisione ed efficacia ai tempi che corrono investendo la categoria di individui che, volta per volta, è conveniente spazzar via. Più che fare riferimento a un fenomeno o a una pratica specifica, chi dice “stregoneria” sta lanciando un’accusa gravissima, che dispone l’accusato e i testimoni a una serie di conseguenze. “Stregoneria” è dunque un vocabolo performativo, agisce sullo stato del mondo compiendo un’azione di lotta e, più spesso, di aggressione. La sua funzione performativa è di aggredire tramite squalificazione infamante, gettando sull’avversario tutta la negatività possibile e al livello più fondamentale possibile (non esistente – non vero – cattivo). Questa performatività isterica, tuttavia, trascina con sé inconsapevolmente una seconda funzione, più sottile e ancora più importante: la stregoneria concentra in un unico luogo tutto ciò a cui consapevolmente la nostra cultura si oppone (l’irrazionale, l’oscuro, il maligno) così come ciò che deve continuare a 25
rimuovere (la violenza strutturale su cui si fonda la nostra forma di vita) per continuare a pensarsi come buona. La stregoneria è la crasi fra il male che non vogliamo e quello che produciamo in questo stesso sforzo di liberazione dal male. È come se la stregoneria fosse uno dei punti di accumulo di tutta l’irrazionalità, l’inconoscibilità, la malevolenza e la perversione di un sistema che si vuole massimamente razionale, trasparente e buono33. Di tutto ciò che, per immaginarsi tale, il sistema continuamente espelle da sé: non è un caso se la strega è sempre associata al demonio, che alla stregoneria sia spesso associata la figura dell’ebreo: si avverte fra le righe dei documenti meno stereotipati della cultura nazista un timore nei confronti dell’ebreo che induce a sospettare, sullo sfondo, l’esistenza di un’immagine mitologica del “popolo eletto” della Bibbia come depositario di qualità e di conoscenze che possono risultare micidiali. Detto in termini un po’ sbrigativi: si ha la netta impressione che l’aspetto meno pubblicizzabile dell’antisemitismo nazista fosse quello di un’ostilità, dettata anche dalla paura, verso una “razza” di frequentatori di forze occulte, di maghi, di inquietanti personaggi-tramite fra l’immediata, sensibile realtà del mondo e le sue presunte radici segrete34.
La seconda, inammissibile funzione performativa della stregoneria è dunque di nominare l’indicibile della modernità, il suo osceno sepolto, l’imponente trauma storico che ci portiamo dietro e che siamo tenuti a non vedere anche quando il nostro posizionamento sia fortemente critico nei confronti del presente. Con Enzo Melandri, e con buona parte dell’etnopsichiatria e dell’antropologia, ipotizziamo che i rimossi, gli indicibili, i traumi e gli scotomi esistano non solo come esito delle biografie individuali, ma anche come portati di lunghissimo corso delle biografie comuni, della storia culturale di un collettivo. Alla “strega”, così come all’“ebreo”, sono state imputate tutte le caratteristiche più oscure e oscene che l’accusatore sospettava in se stesso e che voleva proiettare all’esterno di sé, sopra un capro espiatorio il cui sacrificio permetta la risoluzione delle tensioni tramite purificazione del “corpo sano” della società dall’elemento malato o degenere. La dinamica è nota: per immaginarsi completamente positivo un soggetto non può che proiettare i propri tratti negativi su un parafulmine “esterno-interno”: qualcuno che sia abbastanza vicino da essere noto e designabile, e abbastanza diverso da poter essere espulso dalla collettività senza che questa rischi di disintegrarsi. Nel caso degli ebrei, ciò che ha permesso al meccanismo del capro espiatorio di funzionare senza troppi intoppi era la differenza religiosa. Nel caso della stregoneria, invece, la differenza è stata costruita volta per volta, in modo più mobile, più opportunistico e, inevitabilmente, più labile. E poiché il nostro dispositivo onto-antropologico ha al suo cuore il monismo, esso proietta nella stregoneria soprattutto la molteplicità, che cerca così di controllare. Per questo, come scrive Parinetto, il nome della strega viaggia, attraversando un numero sorprendente di personaggi e di determinazioni: donne povere o marginali, ebrei, zingari, sodomiti, indios. Squalificazione
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pubblica del capro espiatorio e rinforzo dell’osceno sono fra loro solidali, due facce di uno stesso dispositivo. L’“effetto-cloaca” (l’espulsione immaginaria dell’osceno per proiezione su un sottogruppo) è indispensabile al buon funzionamento degli apparati di dominio, articolati in un livello conscio, diurno, ben illuminato, governato da regole condivise che sono percepite come summa del giusto e del buono, e un livello sotterraneo, oscuro, in cui vige una legge oscena, impronunciabile pubblicamente e che, tuttavia, è segretamente solidale con la legge in luce. Funzionano notoriamente secondo questo regime i corpi di polizia e gli eserciti, che affiancano a un ruolo pubblico manifesto e continuamente ribadito di protezione dei cittadini un lato in ombra come strumento di controllo e repressione al servizio degli apparati. Ma funzionano così anche gli stati stessi, i cui segreti non solo occultano i fatti, ma rendono propriamente inconoscibile un intero livello (o più livelli) del loro funzionamento. C’è poi una terza determinazione rivelata dagli usi linguistici. In ultima istanza, la stregoneria è la realizzazione di un’intenzione malevola con mezzi immaginari: una donna sterile fa ammalare il bambino di un’altra; un uomo prospera a scapito dei suoi vicini; un’amante abbandonata si vendica dell’amato mandandogli una serie di eventi sfortunati. Le azioni sono solo vagamente definite: quel che conta, e che scandalizza, è l’intento malevolo che serpeggia al di sotto della superficie sociale, il fatto che gli umani possano albergare in sé una tale forza distruttiva nei confronti dei propri simili. Ora, un luogo immaginario siffatto è il posto ideale dove nascondere le violenze intenzionali che devono essere rimosse nelle loro cause storiche, come abbiamo visto nel commento all’opera di Wedekind. Così, non è l’organizzazione di questo mondo a portare la lotta di tutti contro tutti, ma il naturale egoismo umano; non è il pompaggio ideologico a spingere i diversi gruppi a sgozzarsi a vicenda, ma sono i retaggi etnici. E via dicendo. Perfino l’interpretazione del nazismo come Male Assoluto, astorico, senza possibile spiegazione va in questa direzione. Il fatto è, però, che i roghi delle streghe, i campi di sterminio o le stanze di tortura poco hanno a che fare con la “natura” degli aguzzini, ma sono il necessario complemento di un sistema che si pretende migliore e più progredito di tutti gli altri. L’assolutizzazione del bene ha bisogno della radicalizzazione del male: il senso reale di quest’operazione assume una chiarezza sconcertante se letto con i parametri di una cosmovisione a noi aliena. Nell’interpretazione di molti gruppi africani coloro che si muovono nel mondo secondo i criteri che per noi occidentali sono i più elementari e scontati (badando al proprio vantaggio, accumulando ricchezza e in un’ottica competitiva) sono reputati stregoni. Stregone è chi mette al lavoro gli altri prelevandone i frutti – ovvero, chiunque agisca il meccanismo-base della creazione capitalista di plusvalore. Chi è la strega?
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5. Marx controstregone È noto quale fosse l’impiego dei trattati di demonologia durante la caccia alle streghe: dal Malleus maleficarum in avanti, gli inquisitori si basavano su una letteratura scritta di loro pugno per ritrovare, nelle parole e nei corpi delle vittime, i loro stessi fantasmi. È improbabile che le streghe processate fossero innocue e ignoranti vecchine, come la nostra propensione per le vittime innocenti ci fa credere; semmai, erano rappresentanti di una cultura altra rispetto a quella degli inquisitori e, in quanto tali (in quanto, cioè, renitenti all’unica vera salvezza e poi all’unico progresso), soggette ai sospetti più infamanti. La parafernalia demoniaca che gli inquisitori proiettavano loro addosso è una sorta di rovesciamento spettrale e perverso del bene omogeneo e trionfante previsto dalla loro dottrina. L’omaggio – se di omaggio si tratta – di Calasso al Capitale, dal quale siamo partiti, è al contempo acuto e ambiguo. Nel riconoscere all’impresa di Marx tutta la sua potenza diagnostica e operativa, la accosta senza mezze misure a un’operazione di tipo inquisitorio. Chiarissima la questione in Derrida: Marx non ama i fantasmi più dei suoi avversari. Non vuole credervi. Ma non pensa che a questo. Crede abbastanza a ciò che si suppone li distingua dalla realtà effettiva, dall’effettività vivente. Crede di poterli opporre, come la morte alla vita, come le vane apparenze del simulacro al pensiero reale. Crede abbastanza alla frontiera di questa opposizione da voler denunciare, cacciare o esorcizzare gli spettri, ma con l’analisi critica, non con qualche contro-magia. Ma come distinguere tra l’analisi che se la prende con la magia e la contro-magia che comunque corre il rischio di essere?35
L’accusa di stregoneria ha uno statuto molto particolare: essa espone accusato e accusante a uno stesso pericolo, li unisce e li confonde nell’accesso a conoscenze proibite. Chi dice “stregoneria” sta accusando e, proprio per questo, si mette nella posizione precaria di “chi ne sa qualcosa”, foss’anche solo quel poco che serve per lanciare un’accusa. Lo stregone è sempre un altro ma, nel momento in cui lo indico, indico anche me stesso come abbastanza stregone da riconoscerne un altro. Questa caratteristica apparenta la stregoneria ad altri luoghi che non possono essere avvicinati senza che subito si ponga la questione della collusione: le stanze della tortura, i regimi del terrore, le prigioni, le sette, le organizzazioni criminali. Ma proprio per questo – e cioè, perché costringe a rinunciare alla presunzione di innocenza – la stregoneria impedisce la postura oggettivante della conoscenza scientifica, costringe fin da subito a prendere posizione. Agisce quindi come cartina di tornasole rispetto al posizionamento etico. Marx non è stato l’unico a dare al capitale una connotazione stregonesca. Basti per tutte questa citazione: Il capitale decide dei monopoli, edifica le banche, accaparra le materie prime, dispone della vita e può, se lo vuole, far morire di fame milioni di esseri […] E allora: o il denaro che spadroneggia sulle anime è diabolico, oppure tutto questo è impossibile a spiegarsi36.
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Ben prima che la parola “capitale” venisse a significare l’organizzazione globale del mondo, l’epoca che visse la transizione fra Medioevo e modernità si accorse presto di un nesso oscuro fra l’elemento materiale più significativo nell’avvio del capitalismo e la stregoneria. L’oro viene descritto come veicolo di perdizione e il legame fra incanti e contanti è ampiamente indicato dalla letteratura dell’epoca, da Boccaccio a Shakespeare. Poi succede qualcosa: scrittori e intellettuali spostano altrove le loro preoccupazioni etiche, la modernità s’insedia. Quando Marx torna a riflettere sul potere stregonesco del capitale e della merce, la relazione fra ricchezza e corruzione non va più da sé: è cambiato il modo di produzione e, con esso, anche l’assetto antropologico. Già del tutto moderno, il panorama che Marx osserva presenta una verità di superficie assai semplice, secondo cui esso sarebbe il naturale e benevolo sviluppo dell’homo homini lupus, trionfo dell’industriosità sull’avarizia della natura. A un secondo sguardo, tuttavia, esso rivela di produrre in sé, continuamente, quelle medesime condizioni di miseria e avarizia che proietta sul mondo naturale. L’impresa di Marx consiste, innanzitutto, in uno smascheramento: la sua paziente operazione di decostruzione della macchina toglie plausibilità alla narrazione e naturalezza al panorama. Solo a partire da una visione sgombra sarà possibile mettere a punto lotte efficaci, che non si limitino a circoscrivere la miseria ma puntino a un rovesciamento dell’ontologia sociale. La narrazione di superficie – il quadro bucolico degli economisti classici – si rivela funzionale al macinare spietato e disumano della macchina produttiva, è un’ideologia che strega gli animi, uno stato di possessione a partire dal quale il mondo può essere pensato solo in modo dissociato dalla percezione. Servono a Marx la pazienza dello storico e la passione del rivoluzionario per venire a capo di questa dissociazione. Sotto le apparenze più scontate e triviali, legge un funzionamento segreto, osceno e terribile; ne ricostruisce la storia; ne verifica i nessi. Svela l’azione dei demoni che governano il capitale a partire dall’incantamento che essi stessi gettano per non essere riconosciuti: la fantasmagoria della merce. Che tipo di operazione è mai questa? Nelle lande immaginarie, controstregoneria e demonologia possono arrivare a sfiorarsi, oppure prendere aspetti diversissimi: un’accurata descrizione del regime produttivo capitalista può servire tanto a immaginare nuove piste di sfruttamento quanto a scovare linee di fuga. Il Capitale mette in campo qualcosa più della mera descrizione di uno stato di fatto: esso è già, nel suo andamento e nelle sue intenzioni, operazione di sfacimento dello stato di cose che descrive. L’analisi dell’apparato capitalista non serve solo a comprenderne le sottigliezze, quanto soprattutto a togliere il velo magico che esso proietta e che fa sembrare naturale il mondo che produce, buoni i suoi esiti e desiderabile la forma di umanità a esso associata. Nel Capitale non si tratta tanto di stabilire una verità, quanto di togliere una fattura: esso è quindi, tecnicamente, un’operazione di contro-stregoneria e questa consiste, in primo luogo, in uno svelamento. Ciò che viene svelato è la rimo29
zione della violenza e la potenza della cattura. Nel lessico marxiano: accumulazione primitiva e fantasmagoria della merce. Dire che in molti luoghi l’opera di Marx prende questa piega è riduttivo. Di fatto, è l’intera sua opera a presentarsi come una gigantesca denaturalizzazione del quadro dell’Occidente moderno, un tirarsi su per il bavero della giacca nel tentativo di vedere al di sopra dell’orizzonte storico: un’operazione propriamente impossibile, che tuttavia è anche la più necessaria. Nel far questo, Marx non aveva a disposizione né Foucault, né Melandri, né l’antropologia novecentesca, né… Marx. Aveva a disposizione Hegel, però, e qualcosa di cui noi non disponiamo più: la controcultura del suo secolo (ad esempio quella alchemica che permea il Faust di Goethe e poi quella dei movimenti anarchici e rivoluzionari), nonché la compresenza sul suolo europeo di forme differenti di umanità37. Questi punti di triangolazione gli permettono la messa a fuoco.
6. Genealogia della violenza Il luogo del disvelamento è il capitolo 24 del primo libro del Capitale, dedicato all’accumulazione originaria o primitiva. Le narrazioni dell’economia classica sono plausibili solo in un mondo in cui la macchina capitalista è già impiantata e le relazioni intrise della logica del plusvalore – a tal punto che qualsiasi altro modo di produzione, qualsiasi altra forma di umanità sembri strana e sorprendente, illogica, innaturale. Eppure il capitalismo non è sempre esistito: la società che lo pratica non è la conseguenza oggettiva di leggi iscritte nella natura, ma l’esito di una configurazione storica specifica che, a un certo punto, è riuscita a imporsi sui modi di produzione precedenti. Come ha fatto? Quale processo storico, antropologico, sociale e tecnico ha instaurato il circolo del plusvalore come orizzonte unico? È qui che Marx propone la decostruzione più feroce: alle origini del capitalismo non c’è una legge di natura, ma un’immane violenza storica. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l’idillio. […] Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza38.
All’origine del plusvalore c’è la violenza che produce capitalisti e forza-lavoro tramite la separazione dei soggetti – individuali e collettivi – dai mezzi di produzione, ovvero dalla possibilità di sussistenza autonoma. È la formula che si legge sui testi marxisti. Non la si comprende davvero, però, finché non ci si rende conto di cosa significhi, nella realtà, separare i soggetti dai mezzi di produzione. Questi ultimi non sono solo gli strumenti tecnici per la fabbricazione di beni, come ci fa credere la nostra superstizione economicista, ma ciò che dà continuità a un mondo e ai soggetti che lo abitano: conoscenza dell’ambiente, relazioni stabili con altri umani e non-umani, raffinatezza nel leggere i segni, 30
capacità di risolvere le crisi, una distribuzione accettabile dei ruoli e del potere, astuzia, ironia, esperienza. La produzione non va intesa solo, in senso moderno, come produzione di beni, ma come produzione di mondo e di umanità. L’economia non è separata né egemone: è un pezzo della vita, un’attività fra molte in un orizzonte il cui senso ultimo è la tenuta di un collettivo. Piuttosto che soccorrere il povero, occorre trasformarlo in lavoratore industriale, ecco l’essenza della posizione critica degli economisti. Per arrivarci, occorrerà chiudere il povero in una situazione di non ritorno: separare il lavoro dalle altre attività della vita, cioè screditare e distruggere il lavoro vernacolare, annientare tutte le forme organiche dell’esistenza, e «sostituirle con un diverso tipo di organizzazione atomizzato e individuale». Questo progetto di distruzione dei modi tradizionali di produzione e sussistenza fu presentato come la realizzazione di un ideale di libertà in nome del quale tutte le organizzazioni fondate sul vicinato, la parentela, i mestieri, le devozioni religiose, i lavori comuni dovevano essere liquidati come danni alla libertà individuale. La non ingerenza propugnata dagli economisti liberali richiede la premessa di questo intervento violento. L’imposizione con la forza della libertà economica doveva sfociare nella ricchezza generale promessa dalle macchine39.
Separare i soggetti dai mezzi di produzione significa togliere loro la possibilità di sopravvivere in un orizzonte sensato e questa non dipende dalla quantità di beni materiali a disposizione, ma dalla capacità di non venir meno sui punti fondamentali che garantiscono l’esistenza di quel mondo e di quella forma di umanità. Perché il modo di produzione capitalista possa instaurarsi, è necessario che i mondi nei quali esso s’impianta vengano disarticolati, che coloro che li abitano siano separati da tutto ciò che rende possibile e piacevole la loro esistenza in quanto collettivo. Le enclosures – le recinzioni che privatizzano ciò che prima era comune – sono il dispositivo fondamentale che rende tutti dipendenti dal circolo del plusvalore: la possibilità di sopravvivenza non dipende più dalla tenuta del collettivo di cui si è parte, ma dalla capacità di intercettare per sé un rigagnolo di quattrini. Il capitalismo è il rapporto sociale che crea la dipendenza di tutti da un unico ente astratto: il denaro. Ora, se il capitalismo è un rapporto sociale, allora le prime categorie che ha dovuto creare sono proprio quelle dei ricchi (coloro che detengono più mezzi di produzione di quanti possano utilizzare con le loro sole forze) e dei miseri (coloro che dispongono solo della propria forza-lavoro): categorie solidali, che si oppongono insieme a quella dei poveri40. Comunemente si conviene che una società opulenta è quella in cui tutti i bisogni materiali della gente sono di facile soddisfazione. […] Due sono infatti le vie possibili all’opulenza. Si possono “facilmente soddisfare” i bisogni o producendo molto o chiedendo poco. La concezione tradizionale, il modello di Galbraith, parte da presupposti particolarmente consoni a un’economia di mercato: che i bisogni umani sono grandi, se non infiniti, laddove i mezzi sono, benché perfezionabili, limitati: pertanto, il divario tra mezzi e fini può essere ridotto dalla produttività industriale, perlomeno nei limiti di un’abbondanza di “beni urgenti”. Ma esiste anche una via Zen all’opulenza, sulla base di premesse alquanto differenti dalle nostre: i bisogni materiali dell’uomo sono circoscritti e limitati e i mezzi tecnici immutabili ma nel complesso adeguati. Adottata la strategia Zen, un popolo può, con un basso tenore di vita, assaporare un’incomparabile abbondanza materiale41.
Nelle società che non praticano l’economia di mercato non esiste la miseria: al di fuori dell’economia di mercato esiste la povertà, a volte anche estrema; ma per via dell’unità dei produttori, dei mezzi di produzione e dei prodotti (in 31
termini economici); per via dei vincoli di solidarietà collettiva (in termini etici); e per via della coerenza e autonomia dei mondi umani (in termini antropologici), nessuno si trova mai nella situazione che caratterizza la miseria: uno stato di estremo bisogno materiale unito all’impotenza individuale a risolverlo. Chi sa produrre il proprio cibo può essere reso schiavo, ma non può essere reso misero: nelle società così regolate nessuno rischia di morire di fame, a meno che il rischio non investa tutti. La povertà caratterizza i contesti in cui la sussistenza è garantita a tutti in assenza di ricchezze materiali, mentre miseria e ricchezza sono le due facce inseparabili di una situazione in cui, in presenza di ingenti ricchezze materiali, la sussistenza non è più garantita a nessuno. Questo spiega il paradosso descritto dai primi osservatori del processo di industrializzazione, che si chiedevano angosciati perché mai le più folte torme di miseri s’incontrassero nella nazione fra tutte più ricca; e chiarisce perché nel capitalismo non può mai esservi pace né mai si può tirare il fiato: perché nessuna quantità di beni materiali garantisce dalla miseria. La miseria è l’ombra che la ricchezza è condannata a portarsi dietro. La miseria nasce dunque con quella stessa ricchezza che pretende di guarirla, ovvero con l’economia basata sulla legge della scarsità e sulla produzione di plusvalore. Quest’impianto richiede e produce un tipo umano specifico: un individuo isolato, competitivo, che cura solo il proprio interesse ed è indifferente alle sorti degli altri. Dove la dinamica del plusvalore si autonomizza dalle logiche umane e si fa orizzonte, ciascuno è solo con la propria capacità di stare a quel gioco. C’è voluto un lungo processo storico per separare le comunità organicamente povere nelle due fazioni speculari dei ricchi e dei miseri, e per ottenere il tipo umano previsto. Un processo basato sulla separazione e percepito da chi lo subiva come innaturale: Separare il lavoro dalle altre attività della vita ed assoggettarlo alle leggi del mercato significava annullare tutte le forme organiche di esistenza e sostituirle con un tipo diverso di organizzazione, atomistico e individualistico. Un simile schema distruttivo era ottimamente sostenuto dall’applicazione del principio della libertà di contratto. In pratica questo significava che le organizzazioni non contrattuali della parentela, del vicinato, della professione e del credo dovevano essere liquidate poiché richiedevano l’obbedienza dell’individuo limitandone così la libertà. Rappresentare questo come un principio di non interferenza, così come i liberali erano soliti fare, era semplicemente l’espressione di un pregiudizio incallito a favore di un tipo preciso di interferenza e cioè tale da distruggere i rapporti non contrattuali tra gli individui e da impedirne la spontanea ricostituzione42.
Vanno distrutti i legami non contrattuali, cioè quelli organici. Lo sradicamento degli individui dai loro contesti territoriali e antropologici ottiene un duplice risultato: nell’immediato libera le terre in vista dello sfruttamento agricolo; a termine un po’ più lungo, imponendo la prima forma coatta di mobilità della forza-lavoro, produce masse di mendicanti pronti a convertirsi in operai in regime semischiavistico43. Fin qui la contro-storia economica; ma si può andare oltre.
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Per cominciare, possiamo intrecciare le osservazioni di Marx con la più recente letteratura psicologica sulla violenza intenzionale44. Contro la nostra lettura della violenza come scoppio occasionale di irrazionalità nei singoli, o come pratica propria delle situazioni di guerra, essa andrebbe letta, piuttosto, come consapevole organizzazione di uno stato di cose. La violenza intenzionale è quella che viene usata in modo deliberato, sistematico e del tutto consapevole come mezzo di asservimento e di dominio. Ci torneremo. Qui basti notare che il disvelamento marxiano si configura, in primo luogo, come rivelazione della violenza sistematica e senza pari che ha istituito il circuito del plusvalore distruggendo tutte le regolazioni precedenti. Inoltre è noto, ancora dalla letteratura psicologica, che la violenza tende nel tempo a generare altra violenza. La trasformazione dei soggetti precapitalisti in galoppini del capitale comporta non solo l’impiego originario della forza e dell’aggressione, ma anche il diffondersi ubiquo di un tipo di violenza molto particolare che, per poter funzionare al meglio, deve intridere di sé tutte le relazioni. È l’innesto nella psicologia individuale delle condizioni imposte dal sistema, la violenza implicita nella proposizione: nell’altro, non ne va di me. La relazione con l’altro – dove l’altro può anche essere il mondo, demartinianamente inteso – è estrinseca, accessoria: qualsiasi cosa accada al prossimo, non mi chiama in causa, non mi modifica, non mi trasforma. Tutt’al più, lo stato dell’altro può indurmi a “fare qualcosa” (tipicamente, a sganciare dei soldi), ma non modifica il mio rapporto con l’esistente. Questo genere di violenza, così come la propensione all’accumulo di ricchezze, non appare col capitalismo: esisteva prima ed esiste altrove. La specificità del capitalismo è che, prima e altrove, essa non era mai stata ammessa, e men che mai praticata, come principio regolativo positivo delle faccende umane. È qualcosa che s’impara, e “al nero”. Come caso esemplare si può fare riferimento al processo antropopoietico che costruisce i torturatori: La disempatia consegue a una vera e propria prova iniziatica. Ci sono un “prima” e un “dopo” nella vita dei torturatori. La loro separazione dalla consueta coscienza umana li ha preparati a pensarsi così come un altro – un sistema o un padrone – li ha pensati, e cioè con il cuore spento. Secondo Hannah Arendt, «non c’è […] alcun dubbio che serviranno qualsiasi sistema faccia tacitamente appello alla loro capacità di non capire mai a che cosa sono impegnati»45.
Non capire mai a cosa siamo impegnati. Se lo capissimo, molte delle nostre
azioni quotidiane si farebbero impossibili: dal pieno di benzina all’acquisto di obbligazioni, la catena degli effetti è tanto spaventosa quanto il karma dei buddhisti. Oltre all’estensione, l’intensione: la presa del nuovo regime nel corpo materiale e immaginario dei soggetti, una precoce ed efficacissima espropriazione. Il nuovo patriarcato capitalista si basa sull’esclusione delle donne dal lavoro salariato tramite una divisione sessuale del lavoro che prevede la meccanizzazione del corpo maschile nella disciplina di fabbrica e la subordinazione di quello femminile alla riproduzione della forza-lavoro. Espropriati dalle collet-
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tività cui appartenevano, corpo maschile e corpo femminile sono stati le prime vere macchine produttive del capitale46. Questo processo richiese la trasformazione del corpo in una macchina da lavoro e l’assoggettamento delle donne alla riproduzione della forza-lavoro. E in primo luogo, richiese la distruzione del potere delle donne che, in Europa così come in America, fu ottenuta tramite lo sterminio delle “streghe”. […] L’accumulazione primitiva, allora, non fu semplicemente l’accumulazione e la concentrazione di capitale e di lavoratori sfruttabili. Fu anche un’accumulazione di differenze e di divisioni all’interno della classe operaia, in cui le gerarchie di genere, di “razza” e di età divennero fondamentali nel dominio di classe e nella formazione del moderno proletariato47.
Perché ciò fosse possibile, era indispensabile distruggere i precedenti rapporti degli umani fra di loro e quindi anche gli istituti che li mediavano, nonché la memoria di un’organizzazione differente del mondo, dei corpi, delle relazioni. Indispensabile, pertanto, la disarticolazione delle istituzioni comunitarie che, nel regolare le faccende secondo criteri locali, producevano umani troppo specifici, e troppo radicati, per poter essere impiegati come generica forza-lavoro. È in questo contesto che possiamo leggere la caccia alle streghe come operazione di guerra contro coloro che, all’interno delle comunità in corso di transizione, esprimevano qualche forma di resistenza alla diffusione della logica mercantile e all’oblio delle forme di vita precedenti: donne, prevalentemente, perché furono loro a subire i danni maggiori dai processi di esproprio. Anche fra le classi privilegiate, nella ridefinizione quantitativa dei valori operata dalla modernità, le donne, indipendentemente dalla loro origine di classe e in quanto scrittrici, lettrici di romanzi, militanti di movimenti femministi (e cioè a un tempo in quanto creatrici, consumatrici e portatrici) intrattengono fin dall’inizio un rapporto privilegiato col romanticismo. Questo legame si spiega senza dubbio col fatto che, storicamente, le donne furono escluse dalla creazione dei principali valori della modernità (dagli scienziati, gli imprenditori, gli industriali, i politici) e che il loro ruolo sociale fu definito come incentrato su valori qualitativi: la famiglia, i sentimenti, l’amore, la cultura48.
Proprio per via dell’integralità dell’esproprio, le donne resistono un po’ più a lungo alla tempesta del progresso, pagandone le conseguenze come categoria: vengono accusate quelle povere che, contravvenendo alla nuova etica della ricchezza, maledicevano chi non faceva l’elemosina; le guaritrici che detenevano conoscenze terapeutiche fastidiose per la corporazione dei medici; quelle che non soggiacevano alla nuova disciplina erotica dei corpi, fatta per garantire alla macchina produttiva per eccellenza (il corpo maschile) lo spazio della propria riproduzione (il lavoro e il corpo femminili). In quest’impresa titanica di disarticolazione dei mondi una strategia fondamentale è la streghizzazione della dissidenza: la squalificazione (e poi l’eliminazione) di ciò che non rientra nello schema unitario e totalizzante della modernità. La “carne da cannone”, il corpo-operaio, il corpo-riproduttivo non sono solo l’esito dell’enorme, capillare processo di disciplinamento sul quale Foucault ci ha aperto gli occhi. Essi portano iscritta in sé anche la storia di tutti coloro che hanno provato a resistere e che, prima di essere tollerati ai margini
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della società, quand’ancora il loro numero faceva paura sono stati letteralmente tolti di mezzo. La ricostruzione marxiana dell’accumulazione primitiva privilegia, comprensibilmente, quanto avvenuto sul suolo europeo. Studi successivi hanno esteso l’analisi ai nuovi mondi colonizzati, nelle terre “senza dio e senza legge” dove, ben più e ben prima che in Gran Bretagna, la modernità ha fatto il suo travaglio49. Contro l’eurocentrismo della nostra storia, lo sfondo generale della dinamica del progresso è quello globale del colonialismo. Il capitale originario – che si presentava come arcano – piove sull’Europa e riempie i forzieri delle monarchie coloniali a partire dall’assoggettamento dei nuovi mondi, che fin da subito si rivelano ai coloni come pozzi senza fondo di minerali preziosi, di varietà botaniche e animali, di forza-lavoro a bassissimo costo. È questo il quantum di ricchezza mobile che, entrando in reazione chimica con la nuova mentalità protestante, permette l’innesco del circolo del plusvalore. Non sono dunque solo le popolazioni rurali inglesi ad assaggiare per prime i prodromi del mondo nuovo ed è ancora nelle colonie che vengono sperimentate per la prima volta la coltivazione intensiva e le tecniche di fabbrica in un secolo, il XVII , a lungo considerato come “preindustriale”. Al giorno d’oggi si tende sempre più a considerare la piantagione di canna da zucchero come un’insolita combinazione di forme agricole e forme industriali costituendo così quella che io credo sia stata nel XVII secolo la cosa più vicina a una fabbrica. […] Ciò che in primo luogo rese la piantagione un sistema agroindustriale fu il combinarsi di agricoltura e di processi di trasformazione sotto un’unica direzione: di cui la disciplina fu forse l’aspetto più importante. […] Le piantagioni erano poi imprese industriali sotto almeno altri due punti di vista: uno era la separazione netta della produzione dal consumo, l’altro la separazione del lavoratore dai suoi utensili50.
Inutile dettagliare le condizioni di lavoro in queste “fabbriche prima della fabbrica”: basti dire che, accanto alle macine, era sempre presente un’accetta, per poter prontamente soccorrere i lavoratori le cui braccia finissero fra gli ingranaggi. Qui vengono sperimentate, su piccola e grande scala, le tecniche di controllo della popolazione: l’atroce disciplina dei primi opifici europei discende in via diretta dalla disciplina schiavistica d’oltreoceano. In parallelo a questa enorme violenza originaria prendeva forma la sua giustificazione: è rispetto alle colonie che gli europei cominciano a sentirsi tali, a percepirsi come civiltà unitaria anziché come una costellazione di regni in lotta fra di loro. Il termine europeo apparve nella letteratura inglese intorno al 1603-1607, in Francia solo nel XVIII secolo (Larousse). Il significato e l’uso del termine «europeo» e «razza» coincisero con i picchi più alti del colonialismo. Per distinguersi dai conquistati, spogliati, segregati o massacrati «nativi» africani, americani e asiatici, l’Europa era necessaria ai colonizzatori non solo come una terra comune. Essi «scoprirono» non solo l’America, ma, cosa più importante, che loro, gli spagnoli, olandesi, francesi, britannici e altri colonialisti, erano di nazioni diverse ma della stessa razza, la cosiddetta razza bianca europea. In questo modo le scoperte europee scoprirono gli «europei»51.
Ed è ancora rispetto alle colonie che la modernità comincia a teorizzare la sua assoluta superiorità e desiderabilità: È
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È nondimeno innegabile che l’idea della superiorità su un mondo di pelli scure, e del dominio sulle medesime, era genuinamente popolare, e quindi giovava alla politica dell’imperialismo. Nelle sue grandi Esposizioni Internazionali la civiltà borghese si era sempre gloriata del triplice trionfo della scienza, della tecnologia e dell’industria. Nell’età imperiale essa si gloriava anche delle sue colonie52.
Un processo di questa portata aveva i suoi costi. Si stima che l’impresa coloniale abbia prodotto, sull’arco di quattro secoli e mezzo, un totale di 350.000.000 di morti fra genocidi, tratta schiavista, malattie e instaurazione di regimi del terrore a bassa o alta intensità53. Cifre quasi impensabili, che nella nostra coscienza collettiva hanno conosciuto un curioso destino: quello della rimozione. È raro che i numeri siano noti, raro che siano pronunciati; ma è ancor più raro che vengano accolti con lo stesso orrore che si riserva ad altri eventi storici. La ragione, ancora una volta, è il progresso, che trasforma il sangue versato in una triste necessità a servizio del maggior bene per tutti, propellente di una ragione ultima di portata trascendente e indiscutibile. Nel corso del XX secolo, lo sviluppo ha preso più strade di tutte le guerre dichiarate e di tutti i grandi genocidi fondati sul razzismo; anche persone dalle idee politiche più aperte possono essere sorprese a dichiarare che, alla fin fine, le vittime dello sviluppo sono il prezzo da pagare affinché le nazioni arretrate possano salire la scala del progresso54.
Nel 1945, di fronte all’evidenza dei campi di sterminio, l’Europa subisce una sorta di trauma. Per molti la subitanea trasformazione di una delle culture europee più raffinate, idealiste e propulsive in un regime di terrore totale è del tutto inspiegabile. La banalità del male viene travestita da Male Assoluto, comincia la retorica che fa dei campi un mistero senza precedenti. È una strategia più che comprensibile, data la portata dei fatti e il peculiare orrore di cui erano carichi; ma è anche evidente, a questa distanza, che il trauma dei campi era possibile solo sullo sfondo della più completa rimozione degli orrori coloniali; e anzi, si può perfino ipotizzare che esso derivi dall’improvviso ritorno alla coscienza di verità sepolte e insopportabili. Ci vuole il sangue freddo di Hannah Arendt per collegare, in un’unica e magistrale arcata storica, il colonialismo e i campi, il progresso imposto altrove e la barbarie subita a casa nostra55. Aimé Césaire e Frantz Fanon lo diranno in modo ancor più chiaro: il nazismo è il colonialismo dell’uomo bianco sull’uomo bianco56. È una lezione che rimane ampiamente inascoltata: l’impatto del colonialismo sui mondi colonizzati, nonché su quello dei colonizzatori, è il primo e maggiore rimosso della modernità.
7. L’accumulazione originaria in presa diretta L’antropologia novecentesca ha prodotto alcune fra le più sorprendenti conferme dello scenario marxiano dell’accumulazione primitiva. I resoconti etnografici di quanto avviene quando il capitalismo comincia a impiantarsi in mondi umani regolati da altre logiche sono sbalorditivi, vere e proprie narrazioni in presa diretta che danno un’idea assai precisa della quantità di violenza 36
necessaria a preparare il terreno del plusvalore. Evidenziano inoltre che la questione non è mai solo economica, non si esaurisce nella materialità degli eventi: il capitalismo è un’intera antropologia e l’immaginario che si forma nei processi di accumulazione primitiva chiama in causa la stregoneria. A partire da un’interpretazione piuttosto unilaterale del classico di EvansPritchard sulla stregoneria fra gli Azande, l’antropologia postbellica ha letto la stregoneria come un complesso meccanismo di controllo sociale mirante al mantenimento dello status quo e alla regolazione delle tensioni che potrebbero altrimenti dividere la comunità. L’accusa di stregoneria, minaccia costante sopra tutti coloro che eccedono il ruolo e la parte loro assegnata, sarebbe un efficace dispositivo di controllo per evitare l’accumulo di potere o ricchezze nelle mani di uno solo e assicurare l’equa circolazione dei beni57. Questa interpretazione si accompagnava alla certezza, espressa da più parti, che la diffusione della modernità (stato, scolarizzazione, economia di mercato ecc.) avrebbe posto termine alla necessità di ricorrere all’accusa di stregoneria per mantenere la pace sociale dei villaggi. Questa previsione, tuttavia, è andata ampiamente disattesa nei decenni seguenti. La decolonizzazione, con la sua promessa di sviluppo e di libero accesso ai beni, ha prodotto un drastico aumento non solo delle accuse, ma anche della rilevanza della stregoneria nei discorsi e nelle pratiche sociali58. Al cuore del problema sta l’implosione della meta-narrazione della “modernizzazione”, in cui simili rappresentazioni [scil., la stregoneria] potevano essere messe da parte come relitti “tradizionali”, che sarebbero spariti più o meno automaticamente con l’inizio della modernizzazione. Quest’ipotesi non è di alcun aiuto a chi voglia occuparsi delle preoccupazioni popolari in larga parte dell’Africa contemporanea. Come già hanno mostrato i Comaroff […] anziché essere l’opposto della modernità, la “stregoneria” è diventata parte integrante della visione che le persone hanno della modernità stessa. La dinamica di queste rappresentazioni è spesso sconcertante proprio nei settori più moderni della vita – nuove forme di imprenditorialità, servizi di salute, politica – e mostra che esse esprimono non tanto una resistenza alla modernità, quanto piuttosto uno sforzo per interpretare i cambiamenti moderni e per ottenervi accesso59.
Lungi dal relegare la stregoneria a vecchia superstizione, la diffusione della modernità e del suo immaginario l’ha resa pervasiva ed estremamente attiva, fino a porre questioni spinose agli apparati di giustizia nazionale60. Non è stato facile per gli antropologi affrontare il tema: un po’ per il carattere ambiguo e circolare del discorso, un altro po’ perché le loro osservazioni rischiavano di riconfermare la vecchia e perniciosa interpretazione della stregoneria (e in particolare di quella africana) come aberrante superstizione dei popoli non civilizzati61. Superata l’impasse del politically correct, a partire dal testo di Jean e John Comaroff intitolato Modernity and its Discontents (ovvero, con evidente assonanza freudiana, “Il disagio della modernità”), l’antropologia ha lavorato a un’ipotesi più inquietante: quella secondo cui la stregoneria è intrinsecamente legata alla modernità. Perché la modernità, una visione eurocentrica di teleologia universale, porta con sé la sua ironia storica, il suo ossimoro cosmico: quanto più i termini in cui viene presentata agli “altri” sono razionalisti e disincantanti, tanto più magici, impenetrabili, imperscrutabili, incontrollabili e oscuramente pericoloÈ
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si paiono i suoi segni, le sue merci e le sue pratiche. È in questa fenditura fra razionalità risoluta e magie percepite che si accumula il disagio, dando origine a sforzi rituali per penetrare l’impenetrabile, dischiudere l’inscrutabile e ricatturare le forze sospette di deviare il flusso di potere nel mondo. Queste forze, inoltre, creano enormi abissi fra le lusinghe materiali e i costi, spesso diabolici, delle nuove forme di capitale culturale transnazionale; o, come vogliono taluni, fra desiderio e (im) possibilità. In queste circostanze, la pratica rituale appare di solito, ai suoi accoliti, come un modo del tutto pragmatico e secolare per superare quegli abissi e sondare le magie della modernità62.
A considerazioni analoghe giungevano, nel frattempo, anche gli storici dell’età moderna europea. La modernità della stregoneria permette di storicizzarla, strappandola all’esotismo delle “superstizioni dei selvaggi” – a partire dalla parola stessa (witchcraft in inglese, sorcellerie in francese), importata nei vocabolari coloniali dalle lingue europee e che ricopre, sotto uno stesso nome, fenomeni diversissimi. Possiamo solo congetturare che cosa fosse ciò che oggi chiamiamo “stregoneria” prima che la modernità si costruisse e si legittimasse sul suo rifiuto. Disponiamo però di qualche immagine di ciò che accade all’avvento di un modo di sussistenza che colpisce innanzitutto per la sua tremenda innaturalità e che richiede, per sopravvivere, il ricorso a trucchi pericolosi, la manipolazione di forze tanto potenti e cattive quanto quelle che regolano le relazioni fra colonizzati e colonizzatori. Nell’esperienza del mondo dei contadini, e ancor più in quella dei cacciatori-raccoglitori, c’è un’incrollabile proporzione fra ciò che si prende e ciò che si dà. Le ore di lavoro necessarie a garantire la sussistenza (una “sussistenza Zen”, direbbe Sahlins) sono poche e senz’altro inferiori alle ore di lavoro nell’agroindustria o alla scrivania di un ufficio. La civiltà dei raccolti non permette grandi accumuli, dà poco per volta ma dà sempre, in modo continuo e affidabile. Per contro la circolazione dei soldi, che ignora ogni affidabilità, ciclicità, reciprocità e proporzione, appare truccata: i soldi dei ricchi tornano sempre indietro aumentati, quelli dei poveri non ritornano mai. L’economia monetaria è dunque alterata da pesi invisibili che fanno rotolare la ricchezza sempre nelle stesse mani. Nel momento in cui essa diventa egemone, bisognerà usare analoghe astuzie per garantirsene una quota. Nella valle del Cauca meridionale, secondo la credenza nel bautizo del billete (battesimo della banconota), durante il battesimo di un bambino celebrato da un prete cattolico, il futuro padrino nasconde nella mano una banconota da un peso. Si crede così che la banconota venga battezzata al posto del bambino. Una volta entrata nella circolazione monetaria, si dice, la banconota battezzata continuerà a tornare al suo proprietario, insieme agli interessi, arricchendo il proprietario e impoverendo le altre parti coinvolte nei suoi affari. Il proprietario è ora il padrino della banconota da un peso. Il bambino rimane sbattezzato, cosa che, se scoperta dai genitori o da chiunque altro, causerebbe gravi preoccupazioni perché, senza il riconoscimento sovrannaturale della sua anima, il bambino non potrà sfuggire al limbo o al purgatorio, a seconda dell’età della morte. Questa pratica è punita severamente dalla Chiesa e dal governo63.
La necessità dell’azione stregonesca, che sacrifica la salvezza dell’anima del bambino al proprio profitto, discende dal comportamento stesso della moneta, dal suo esorbitare rispetto alle logiche umane, dal suo sovrano disprezzo per i bisogni fondamentali. A differenza dei raccolti, i soldi non sono lì per so38
stentare la vita, ma rispondono a una logica tutta loro di accumulo. La storia sociale ed economica della Valle del Cauca, ben ricostruita da Michael Taussig, racconta dell’oppressione esercitata dai grandi proprietari terrieri sui contadini, delle rivolte e dell’occupazione delle terre, dei mille tentativi per convertire i contadini in braccianti, fino alle ultime “politiche di sviluppo” che hanno finito col trasformare una valle fiorente in una discarica tossica, distruggendo ogni resistenza prima con l’utilizzo della forza e poi con le sirene dell’arricchimento facile. Oggi, quando cammino nei posti dove bazzicavo allora, posso vedere il biancore delle sostanze chimiche seppellite nel terreno e ne sento l’odore in gola. Un agronomo specializzato in tossine, venuto in città nel 1992, in una conferenza pubblica dichiarò che il terreno era ormai così contaminato che il cibo che vi cresceva non doveva essere usato nemmeno per nutrire gli animali! […] La fattoria media si è talmente ridotta – fino a un quarto di acro di terreno, o anche meno – che ormai restano possibili solo gesti disperati, un ultimo tentativo delirante di afferrare soldi vendendo buona terra per fabbricare mattoni. C’è chi la vende a uomini che arrivano con i camion dalla città vicina, che si è arricchita con la cocaina ed è in massiccia espansione. Il prezzo di mercato, in questo momento, è di sei dollari americani per ogni carico di camion, una cifra da confrontare con il salario giornaliero che è di circa tre dollari. Se vendío para hueco (venduto per un buco), dicono, più laconicamente di quanto la traduzione lasci intendere. Altri costruiscono i loro forni per mattoni nei pressi della fattoria e poi scavano il terreno vicino. Questo, naturalmente, richiede grandi quantità di legna da ardere, il che aumenta la domanda di ridimensionamento dell’agricoltura tradizionale. Una fattoria da un quarto di acro organizzata in questo modo, con un buco profondo sette metri scavato con un’escavatrice in affitto, dura circa quattro anni prima che non resti più nulla. Scomparsa la fattoria, rimane soltanto il buco. La terra di qui è famosa per i mattoni: non ha bisogno di paglia, basta il fango che i vulcani hanno sparso in forma di cenere sul lago, reso cremoso come l’argilla del vasaio64.
Si racconta anche, nella valle del Cauca, che i braccianti maschi dell’agroindustria stipulino talora un patto col diavolo che permette loro di lavorare a un ritmo più alto e, quindi, di guadagnare di più. Il patto richiede la mediazione di uno stregone, che prepara una figurina da seppellire ritualmente e in gran segreto in un punto strategico della piantagione. Il denaro così ottenuto, tuttavia, è intrinsecamente sterile: non può essere capitalizzato, né investito, né impiegato per le necessità della famiglia. Finisce in beni di lusso e voluttuari – camicie colorate, orologi, macchine fotografiche, liquori – finché l’anima del lavoratore non sia perduta e non arrivi la morte, invariabilmente prematura e dolorosa. Qui i racconti dei braccianti inseriscono, matter of fact, una nota infinitamente poetica, richiamo potente all’incanto del mondo. Dicono dunque questi raccoglitori a cottimo che il patto non è per tutti. Esso riguarda solo alcune categorie di lavoratori e, in particolare, quella dei giovani uomini scapoli che abitano lontano dalla famiglia d’origine. L’arricchimento che il patto permette è destinato a chi è povero di legami. I contadini e le madri, anche quando lavorino nelle grandi piantagioni come braccianti, non lo stringono mai. La credenza ha una sua logica: poiché il denaro così ottenuto induce sterilità e morte, chiunque sia impegnato ad accompagnare processi di crescita (di piante, di bambini, di gruppi) non può farvi ricorso. È notevole la precisione analitica di una cultura che, nel pieno della transizione, deve darsi ragione dello scontro in atto e della vittoria delle condizioni, fra tutte, meno umane:
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La questione è espressa con chiarezza. Nel cuore di una società che sta subendo la transizione da un ordine precapitalistico a uno capitalistico c’è un olocausto morale. E in questa transizione devono essere rielaborati tanto il codice morale quanto il modo di vedere il mondo. Mentre la nuova forma di società lotta per imporsi sulla vecchia, e mentre la classe dirigente cerca di consolidare i principi dominanti in una nuova tradizione, la preesistente cosmogonia dei lavoratori diventa un fronte critico di resistenza, di mediazione, o di entrambe le cose insieme. […] Il destino del contadino che viene catturato dall’agricoltura commercializzata, specie dove ciò comporta la produzione agroindustriale intensiva, è di diventare testimone dello scontro tra queste due forme di feticismo. La credenza nel contratto proletario col diavolo, così come altri esempi di feticismo, è l’esito di questo scontro. Il diavolo è ben più che un simbolo della nuova economia: egli media gli opposti significati e sentimenti generati dallo sviluppo di questa economia. Se la prospettiva del valore d’uso o quella contadina fossero state sostituite dalla cultura di mercato, non ci sarebbero le condizioni per fabulazioni come quella del contratto col diavolo. la comparsa di questo tropo dipende dal significato che una cultura di valore d’uso attribuisce ai tropi generati dall’organizzazione mercantile della società, della produzione e dello scambio. Il contratto col diavolo registra il significato umano di questo tipo di organizzazione e lo bolla come malvagio e distruttivo, anziché come risultato di forze moralmente neutre connaturate a cose socialmente disincarnate65.
Le osservazioni di Taussig, dei Comaroff e di Geschiere sono praticamente in presa diretta. Già oggi, a pochi decenni di distanza, il panorama risulterebbe mutato: la globalizzazione è anche il processo attraverso cui il capitalismo si naturalizza nei luoghi che occupa. La violenza di cui sono carichi i suoi inizi, tuttavia, lascia tracce di lunga durata che uno spirito d’osservazione attento e ben affinato può cogliere anche molto tempo dopo. Così scrive Rosalind Shaw sulla cosmovisione delle comunità di lingua Temne della Sierra Leone: Ho sentito spesso raccontare di un’invisibile regione dello spazio, detta “Posto delle Streghe” (ro-seron). Questa regione, descritta come tutt’attorno a noi ma nascosta ai nostri occhi, connette le città e i villaggi Temne a un infinito mondo urbano di ricchezza e mobilità globale. Insieme al “Posto dei Morti” (ro-karfi) e al “Posto degli Spiriti” (ro-saki), è una delle tre regioni invisibili della cosmologia Temne che intersecano il mondo visibile degli esseri umani comuni (no-ru). Nessuno a cui ho domandato mi ha mai fornito descrizioni particolarmente precise del Posto dei Morti o del Posto degli Spiriti, ma il Posto delle Streghe era diverso: le persone a cui facevo domande sulla stregoneria – fossero contadini di campagna o membri della classe media urbana, musulmani o cristiani, uomini o donne – di solito ne fornivano immagini vivide e notevolmente coerenti. Spesso descrivevano una città prospera, dove i grattacieli crescono accanto a case d’oro e diamanti; dove le Mercedes-Benz scivolano lungo belle strade; dove i venditori di strada cuociono bistecche (kebab) di carne umana; dove le boutique vendono eleganti “abiti da strega” che trasformano chi li indossa in un predatore animale entro il mondo umano (noru); dove i negozi di elettronica vendono registratori a nastro e televisioni (e, più di recente, videoregistratori e computer); e dove l’aeroporto delle streghe fa partire aeroplani stregoneschi per tutte le destinazioni della terra – aeroplani così veloci, mi hanno detto una volta, che “in un’ora possono volare fino a Londra e ritorno”66.
Shaw riporta anche che, all’epoca delle sue ricerche, la Sierra Leone univa uno fra i più alti tassi mondiali di mortalità infantile a una delle più alte percentuali di possesso pro-capite di Mercedes-Benz. Il Posto delle Streghe ha per noi un carattere al contempo familiare e inquietante: mescola in parti uguali la geografia materiale delle nostre metropoli, immagini tratte dalle nostre fantasie del paese di cuccagna e improvvisi dettagli da incubo. Il Posto delle Streghe fornisce una spiegazione del fenomeno fra tutti più incomprensibile nel quadro dei legami comunitari di solidarietà: la compresenza di miseria estrema ed estrema ricchezza, la separazione indotta dal dispositivo del plusvalore (che si manifestava in Sierra Leone, tra l’altro, anche come drenaggio del patrimonio minerario nazionale nei conti all’estero dei po40
litici, sempre sospetti, per via della loro stessa posizione di potere, di avere potenti stregoni al loro servizio). Lo spazio globale del capitale – coi suoi mezzi ultrarapidi, la completa assenza di vincoli e confini e l’infinita seduzione delle merci – non è posto per gli umani normali: la sua atmosfera raffinata e piena di profumi è respirabile solo per coloro che rinuncino alla personalità morale e ai legami comunitari, a tutto ciò che impone un limite ai desideri perseguibili. Per poter agire in questo mondo slimitato il ricorso alla stregoneria è indispensabile. Ma c’è altro. I cleptocrati dello stato postcoloniale sono solo gli ultimi rappresentanti di una dinamica di dominio che ha un’ascendenza molto più lunga, profondamente sedimentata nell’immaginario locale: l’invisibile città delle streghe può essere vista come “presenza” di un processo transregionale temporalmente lontano che trasformava le persone in beni commerciali perché fossero “consumati” in numeri enormi: la tratta atlantica degli schiavi67.
In quest’ipotesi la stregoneria come attualmente la conosciamo – così come molti altri fenomeni che attribuiamo spensieratamente alle “tradizioni senza tempo” dei popoli colonizzati – è conseguente al contatto coi bianchi e con la loro economia di predazione. La concezione della stregoneria africana alla stregua di un ambiguo attributo del potere è spesso presentata in termini astorici, come un riverbero senza tempo della tensione fra i valori comunitari, l’individualismo egoista e l’angoscia per le minacce naturali alla sopravvivenza. I nostri dati sulla credenza nelle streghe, tuttavia, sono tutti relativamente recenti; con poche eccezioni, sono tratti da società che hanno una lunga storia di scambi col mondo esterno islamico o europeo. Ed è notevole come diverse cosmologie dell’Africa centro-occidentale connettano la stregoneria con lo spiegamento di vittime in un “secondo universo” notturno e/o distante, facendo eco, in termini più o meno espliciti, all’esperienza della tratta atlantica degli schiavi68.
Nei resoconti scritti alla fine del XV secolo sui popoli che abitavano l’attuale Sierra Leone compare una panoplia di altari, idoli, spiriti, antenati, sacrifici, riti di divinazione e di guarigione. La divinazione, in particolare, vi è descritta come strumento per comprendere le cause intangibili delle malattie e delle morti: era dunque un processo di mediazione rituale fra spiriti e comunità e non è fatta alcuna menzione di un suo impiego nell’identificazione delle streghe. Poi succede qualcosa. Nella seconda metà del XVI secolo una popolazione di lingua Mande, denominata “Mane”, s’impone sui popoli della costa e, come prodotto collaterale delle attività belliche di conquista, comincia a vendere i prigionieri come schiavi agli europei. All’inizio del secolo successivo la tratta degli schiavi è diventata un fine in sé e i Mane hanno assunto stabilmente il ruolo di intermediari nel business atlantico. Per mantenere questa lucrosa posizione, tuttavia, devono continuamente procurarsi nuovi prigionieri. Dapprima intensificano le guerre e le catture; poi integrano questi mezzi tradizionali con un sistema di rastrellamento nuovo e meno rischioso: trasformano la pratica che serviva a comprendere le cause delle afflizioni in una tecnica per l’identificazione dei colpevoli, che potevano poi essere liberamente venduti sul mercato degli schiavi.
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Ho sostenuto che nella visione della modernità globale materializzata dalla città delle streghe è “rammemorata” l’economia politica che un tempo legava i rituali di divinazione, le relazioni sociali e le rappresentazioni co-smo-logiche dei villaggi della Sierra Leone a un sistema commerciale esteso su tre continenti. Durante i secoli della tratta degli schiavi, in larga parte della costa della Guinea Superiore, stregoneria e divinazione erano parte di un mondo atlantico in espansione, in cui gli afflussi di ricchezze e merci europee erano legati al più grande processo di migrazione forzata della storia mondiale. La divinazione per identificare le streghe si sviluppò in una serie di pratiche fondamentali e persuasive che, come altri rituali in altri contesti, crearono la realtà “riplasmando attivamente i significati in accordo con una differente percezione dell’universo” (Comaroff & Comaroff 1993, p. XXI). Queste forme di divinazione, dunque, erano qualcosa di più che “modi di conoscere” il mondo (Peek 1991): hanno attivamente contribuito alla sua costituzione. Legittimando una delle principali maniere in cui le persone veniva trasformate in schiavi, coloro che controllavano le divinazioni per identificare le streghe accusavano quelli che, alla fine, erano riconosciuti colpevoli di un invisibile “mangiare” gli altri, analogo a quello nel quale erano essi stessi coinvolti. Allo stesso tempo, tuttavia, la loro partecipazione a un “mangiare” nel quale la comparsa e l’accumulazione di nuova ricchezza erano generate dalla sparizione e dall’oblio di altre persone era oggetto di commenti sotto forma di immagini popolari, storie e dicerie che rovesciavano la direzione dell’accusa emessa dal rito della divinazione69.
Nell’interpretazione di Shaw, la stregoneria è lo specchio del colonialismo: uno specchio al contempo deformato e veritiero, che rimanda la sua immagine vera al latore di una falsa sembianza. La conquista dell’America […] è una specie di alchimia impazzita […], un modo alienato per accumulare oro materiale, di fabbricarlo dal sangue umano, che uccide l’autentica dialettica dell’alchimia e si trasforma letteralmente in magia nera. La magia nera è quella precisamente della nascita del capitale anche sul genocidio degli indios70.
E sul sangue della tratta atlantica: nelle regioni d’Africa dove le conchiglie cauri erano usate come moneta, si diceva che esse si trovassero sui cadaveri degli schiavi gettati a mare dalle navi negriere – lavoro morto, in una forma al contempo allegorica e letterale71. Queste storie di diavoli, di stregoneria, di cannibalismo, di corpi umani che concimano la moneta, dicono l’indicibile della modernità. I loro chiasmi terrificanti sono più carichi di verità di qualsiasi trionfale parabola coloniale. Una verità non letterale (la ricerca della letteralità è una manovra difensiva per proteggerci da ciò che non vogliamo sentire), la sola che può approssimare ciò che sta sotto, il rimosso, il dimenticato.
8. Spazi della morte Sulla continuità fra modernità e totalitarismo non c’è bisogno di insistere. Nella lettura che ne dà Hannah Arendt, il totalitarismo novecentesco è la manifestazione dispiegata, in terra europea, di forze, dispositivi e atteggiamenti che hanno una storia più lunga, coincidente grosso modo con quella della modernità. Ma gli effetti di questo gigantesco esperimento sull’umano e sulla possibilità di asservirlo interamente a un unico progetto hanno più di qualche somiglianza con quelli della stregoneria. Non è per sbaglio che ancora adesso le immagini dei raduni oceanici, gli spasmi dei dittatori e le estasi delle masse evocano ombre di stregamento, zombizzazione, fattura. 42
Da un certo punto di vista è come se, con il totalitarismo e poi con i campi, la violenza lungamente sperimentata nelle colonie arrivasse all’interno dei nostri confini. Fra i fondamenti psichici dei regimi totalitari c’è, ancora, la pragmatica incrementale, quella normalizzazione dell’eccesso che arriva fino all’assurdo della distruzione totale. Quanto più il sostegno delle masse divenne essenziale al potere di Hitler, tanto più pericolosa si rivelò la prospettiva di perderlo. Egli, perciò, divenne profondamente allergico a tutto ciò che poteva sminuire la sua posizione agli occhi della gente o danneggiare il suo prestigio, ed espresse più volte il timore dei danni connessi a un eventuale calo della sua popolarità. Consapevole di come l’«entusiasmo politico» fosse seriamente minacciato dalla «grigia routine quotidiana», egli fu costretto a cercare un successo dopo l’altro per mantenere viva la fiducia delle masse nella sua persona e per produrre la necessaria mobilitazione psicologica. In caso contrario, il Regime si sarebbe insterilito e sarebbero «necessariamente nati disordini di carattere sociale». La legittimazione fondata sul consenso plebiscitario, insomma, poteva riprodursi solo grazie al ripetersi dei successi – secondo uno dei tratti distintivi del «potere carismatico» già messo in evidenza da Max Weber. L’impossibilità a rallentare la sua marcia travolgente era, sotto tale punto di vista, un dato intrinseco all’essenza più profonda di quel potere72.
Michael Taussig li chiama spazi del terrore, o spazi della morte (Taussig 1987). Li si è visti nei campi, nei totalitarismi, nelle colonie; sono presenti nelle sale di tortura e in tutti i posti dove la violenza sistematica crea un contesto allucinatorio in cui il normale funzionamento del mondo è sospeso. Conviene vincere la ripulsa e osservarli con attenzione: sono il rovescio del bene assoluto; non la sua sospensione, come ci piace credere, ma l’altro lato del medesimo dispositivo. La creazione della realtà coloniale nel Nuovo Mondo resterà oggetto di immensa curiosità e studio – il Nuovo Mondo dove irracionales indiani e africani si adattarono alla ragione di un piccolo numero di cristiani bianchi. Qualsiasi conclusione si tragga su come quell’egemonia fu, con tanta rapidità, ottenuta, sarebbe sciocco trascurare il ruolo del terrore. E con questo intendo che dovremmo pensareattraverso-il-terrore che, oltre a essere uno stato fisiologico, è anche uno stato sociale le cui particolari caratteristiche gli permettono di agire come mediatore par excellence dell’egemonia coloniale: lo spazio della morte dove Indiani, Africani e bianchi diedero origine a un Nuovo Mondo73.
Se, come abbiamo visto, il compito primo a cui ciascun collettivo deve far fronte è di garantire ai soggetti che ne fanno parte una certa presenza e una certa abitabilità del mondo – e cioè un ordine affidabile delle cose – gli spazi della morte agiscono tramite sistematica destrutturazione dei limiti, delle soglie, dei differenziali. Sospendono la corrispondenza fra parole e cose; recidono gli attaccamenti che sostengono le soggettività e violano tutti i limiti che garantiscono l’ordinario funzionamento. I confini sfumano: non c’è più distinzione certa fra sé e il mondo, fra ieri e domani, fra vita e morte, fra lecito e illecito, fra vero e falso. Negli spazi della morte la soggettività è immediatamente in pericolo e spesso svapora: il bíos lungamente appreso e coltivato residua a malapena, la vita si riduce, nel vocabolario di Agamben, a nuda vita, zoé. Lo “spazio della morte” è la zona crepuscolare di un mondo definitivamente uscito non solo dall’ordine ma dalla possibilità stessa del riordinamento, non ha storia documentabile, non ha narrazione progressiva, non ha testimoni74.
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Le pressanti esigenze umanitarie che guidano le raccolte di dati richiedono un modo discorsivo considerato credibile e legittimo da governi, mezzi d’informazione e agenzie internazionali. Questo modo discorsivo deve minimizzare l’ambiguità, la complicità, l’immaginazione e la surrealtà che necessariamente caratterizzano il teatro del terrore75.
Per questo la testimonianza dei reduci dai campi era al contempo così cruciale e così impossibile. Ciò che possiamo aggiungere a valle di due decenni di ricerca storiografica sui campi e sui regimi totalitari e di analisi psicologiche della tortura è che gli spazi della morte non si aprono per caso o per un improvviso cedimento dei parametri della civiltà: essi sono sempre intenzionalmente costruiti all’interno di un progetto politico. Non sono esempi di barbarie, intesa come la condizione di chi non è (più) civilizzato, ma i prodotti consapevoli di una civiltà specifica nel suo farsi dominio. Normalizzando l’eccesso, gli spazi della morte permettono un esercizio illimitato del dominio. Lo scopo a cui esso è volto importa relativamente: che si tratti di ottenere informazioni; di sterminare un gruppo; di terrorizzare quelli che resistono al modello egemone; di far confessare reati reali o immaginari; di ottenere l’acquiescenza di una popolazione; di estrarre plusvalore dal sangue degli asserviti, in questi spazi l’assolutezza della “ragione pubblica” si converte nell’assolutezza dell’orrore, così come richiesto dalla dinamica descritta sopra. Se, come sostiene Hannah Arendt, [l]’ideologia totalitaria non mira alla trasformazione delle condizioni esterne dell’esistenza umana né al riassetto rivoluzionario dell’ordinamento sociale, bensì alla trasformazione della natura umana che, così com’è, si oppone al processo totalitario. I Lager sono i laboratori dove si sperimenta tale trasformazione, e la loro infamia riguarda tutti gli uomini, non soltanto gli internati e i guardiani. Non è in gioco la sofferenza, di cui ce n’è stata sempre troppa sulla terra, né il numero delle vittime. È in gioco la natura umana in quanto tale; e anche se gli esperimenti compiuti, lungi dal cambiare l’uomo, sono riusciti soltanto a distruggerlo, non si devono dimenticare le limitazioni di tali esperimenti, che richiederebbero il controllo dell’intero globo terrestre per produrre risultati conclusivi76.
allora si deve ammettere che il paradigma totalitario è dotato di una sinistra durevolezza. Non solo, come alcuni hanno cominciato a notare, i nostri anni presentano diverse analogie con gli anni Trenta del Novecento, ma è possibile che dalla forma mentis totalitaria non siamo mai davvero usciti. La presa delle narrazioni tossiche, che attribuiscono la violenza sempre e solo a un nemico preciso identificato nella sua “natura” (zingaro, ebreo, rumeno, anarco-insurrezionalista, fascista), ad esempio, ha qualcosa del déjà-vu. Instaurando una scissione psichica difficile da reggere fra percezioni complesse e spiegazioni semplici, esse fanno del presente una sequenza di traumatismi sempre nuovi, privi di cause e pertanto incomprensibili77. L’effetto patogeno è immediato. Allo stesso modo dovrebbe mettere in allerta la facilità con cui si ammette che solo nelle condizioni estreme (quelle prossime all’annientamento) la natura umana emerga nella sua verità. Le serie tv sono piuttosto chiare: medici e poliziotti ne sono protagonisti assoluti perché si suppone che solo nella liminalità fra vita e morte si manifesti il vero. Allo stesso modo, una parte della ri44
cerca psicologica trabocca di test che ipotizzano situazioni da cui è impossibile uscire senza ferire o ferirsi, e pretende di studiare le profondità della psiche a partire da questo voyeurismo horror – tanto più osceno in quanto larga parte del lavoro dei collettivi umani è rivolto a far sì che situazioni di questo genere non si diano (quando si danno si parla, demartinianamente, di fine del mondo). Script di questo tipo, onnipresenti nel nostro discorso pubblico, generano un disagio psichico ed emotivo profondo. Utili lezioni vengono poi dall’analisi degli spazi della morte. La prima è la loro intenzionalità, dimostrata per i campi nazisti come per la tortura, per gli stupri etnici come per il terrore khmer, per la filiera delle migrazioni come per il reclutamento dei persecutori. Recentemente tutto ciò ha preso il nome di necropolitica. Non è necessario che chi partecipa a imprese necropolitiche sia cattivo, sadico, perverso o crudele: si può essere catturati o aderire – magari anche per ottime ragioni – ai circuiti logici ed emotivi dell’assolutizzazione (del bene, della giustizia sociale, del progresso, del sapere, della vendetta) e ritrovarsi a compiere atti estremi che sarebbero del tutto impensabili nella normalità del mondo ordinario. Notissimi, e continuamente ignorati, sono gli effetti della propaganda, della paura indotta e degli innesti ideologici nel discorso comune. Come ben sapeva il ministro della propaganda del Reich, una bugia continuamente ripetuta diventa una verità accettabile e comincia a iniettare il suo principio tossico nell’immaginario. Così, se fino a qualche tempo fa era legittimo interrogarsi su perché intere nazioni avessero potuto idolatrare un Mussolini o un Hitler, o tollerare l’esistenza dei campi, l’ultimo paio di decenni ha ben chiarito cosa può uno Stato, quanti e quali investimenti in paura, coazione, intossicamento e scissione siano necessari per insegnare agli umani l’alienazione da sé e dal mondo. Processi lenti, di lunga durata, accanto ai quali ne esistono anche di brevi e intensi. Uno dei fatti più sostanziali rilevato dagli psicoterapeuti che lavorano con vittime di tortura è che non solo le vittime sono costruite come tali (ad esempio tramite un sistematico processo di svalutazione, de-culturazione, ridicolizzazione e aggressione), ma che anche i carnefici, per poter agire, devono prima subire un processo sistematico di de-culturazione e de-umanizzazione. Si constata assai spesso che prima di cominciare a de-umanizzare, a torturare e a uccidere, un autore di crimini contro l’umanità è già stato a sua volta de-umanizzato in diverse maniere. Non necessariamente ne è consapevole dacché questo genere di esperienze di vita ha una forte carica traumatica e, di conseguenza, è oggetto di massiccia rimozione78.
Né sadici, né mostri, i torturatori sono individui del tutto normali selezionati in base alla fragilità dei loro legami (caratteristica che li accomuna a coloro che stringono il patto col diavolo nelle piantagioni colombiane…) e poi preparati al loro compito attraverso una serie di passaggi iniziatici che culminano con la violazione collettiva di un tabù culturale. L’addestramento serve a renderli atti a operare in un mondo la cui principale caratteristica è l’assurdità: allontanati dal contesto usuale di vita, i futuri aguzzini vengono fatti sentire eletti, sottoposti a regole rigide e arbitrarie e, a loro volta, violati. Chiave di 45
volta di questo processo è la rottura dei legami fra fatti psicologici e universi di riferimento, assurdo artificiale che prepara l’assurdo ben più grave, e realissimo, della tortura. Il soggetto ideale del regime totalitario non è né il nazista convinto, né il comunista convinto, ma l’uomo per il quale la distinzione fra fatto e finzione (la realtà dell’esperienza) e la distinzione fra vero e falso (le regole del pensiero) non esistono più79.
È una lezione politica: se gli spazi della morte non sono l’esito di una défaillance della civiltà ma il risultato di un progetto, si tratta allora di capire quali assunti e quali circostanze portino gli umani a trovare ragionevoli progetti di questo tipo. Cui prodest? La seconda lezione impartita dagli spazi della morte è epistemologica e si può enunciare così: vero e falso, soggettivo e oggettivo hanno corso solo all’interno di un mondo ben strutturato, entro un ordine riconosciuto e abbastanza stabile delle cose. In situazioni estreme, dove un ordine debba ancora formarsi o dove la violenza abbia disintegrato ogni punto di riferimento, l’esperienza non è più logicizzabile, le catene causali si spezzano e la conoscenza può procedere solo per analogia, per associazione, per salti laterali. Nessuna visione assiale è possibile là dove non c’è asse o dove non c’è soggetto. Questo non significa che del non-ordinario non si dia conoscenza; significa però che la conoscenza che se ne dà è radicalmente diversa da quella logico-discorsiva a cui siamo abituati. È fatta di intuizioni, anticipazioni, salti; è più una verifica sulla propria pelle che una dimostrazione e si apparenta quindi ai modi attraverso cui conosciamo l’immaginario. Per questo gli spazi della morte hanno in comune una strana qualità allucinatoria. Quello che vi accade non è dicibile nel linguaggio ordinario perché eccede e nega ogni categoria quotidiana. Se il mondo come contesto di presenza soggettiva è costruito sulla regolazione attentissima dei confini, dei passaggi e delle relazioni, gli spazi della morte sono costruiti sulla violazione sistematica di ogni ordine e di ogni confine. Essi sono quindi mondi a sé, autistici, concentrazionari, in cui la normalità coincide con l’eccesso80. Spazi ben poco comunicabili nelle forme consuete: la ricostruzione del numero dei morti, degli scomparsi e dei torturati, tipica delle commissioni d’inchiesta e indispensabile al diritto, si trova comunque a «minimizzare l’ambiguità, la complicità, l’immaginazione e la surrealtà che necessariamente caratterizzano il teatro del terrore»81. La conoscenza di questi spazi passa più per l’accennare che per il dire, più per l’ellissi che per la statistica, più per la mimesi narrativa che per la saggistica. Tutte le società vivono di racconti presi per veri. Ciò che distingue le culture del terrore è che il problema epistemologico, ontologico, o comunque filosofico, della rappresentazione – realtà e illusione, certezza e dubbio – diventa infinitamente più che un “mero” problema filosofico di epistemologia, ermeneutica o decostruttivismo. Diventa un potentissimo mezzo di dominio82.
Non ci si avvicina incautamente o senza rispetto a queste zone perché si rischia che il dolore e la follia che vi aleggiano s’impadroniscano di noi. Laddove il dolore e la violenza siano imparlabili, saranno i non detti a intramare le 46
vite. La catastrofe coloniale ha lasciato sui colonizzati traumi di lunga durata che discendono il filo delle generazioni per continuare la loro azione anche nel presente. È possibile che la nostra posizione di colonizzatori non abbia lasciato alcun segno?
9. Condizione di possibilità Questa ignavia che chiamiamo disincanto e nella quale abbiamo riposto tutto il nostro onore etico e conoscitivo è il meccanismo fondamentale della rimozione, nonché la ragione prima che ci porta ad agire sempre di nuovo la stessa violenza degli inizi, senza avvederci che essa non è solo l’evento storico che ha permesso l’instaurarsi del capitalismo, ma è la sua condizione di possibilità. La violenza è permanente. Studi recenti di area marxista vanno in questa direzione e interpretano l’accumulazione originaria come al contempo evento storico e condizione di possibilità: qualcosa che non smette di avvenire, che deve continuamente ripetersi perché il processo possa continuare83. Oggi, ancora una volta, le recinzioni sono il denominatore comune dell’esperienza proletaria a livello globale. Nella più grande diaspora del secolo, in ogni continente milioni di donne e uomini vengono sradicati dalle loro terre, dai loro lavori, dalle loro case da guerre, carestie, epidemie e svalutazioni disposte dal Fondo Monetario Internazionale (i quattro cavalieri dell’Apocalisse moderna) e vengono dispersi ai quattro angoli del pianeta. […] Le Nuove Recinzioni sono il nome della riorganizzazione su larga scala dell’accumulazione avviata a partire dalla metà degli anni Settanta. L’obiettivo fondamentale di questo processo è consistito nello sradicare i lavoratori e le lavoratrici dal terreno su cui erano stati costruiti il loro potere e la loro organizzazione, in modo che, come gli schiavi africani trapiantati in America, essi fossero costretti a lavorare e lottare in un ambiente estraneo, dove le forme di resistenza possibili a casa non sono più disponibili. Ancora una volta dunque, come all’alba del capitalismo, la fisionomia del proletariato mondiale è quella dell’indigente, del vagabondo, del criminale, del mendicante, del venditore ambulante, del rifugiato che lavora in uno sweatshop, del mercenario, del povero84.
Anche in questo caso, la violenza del movimento capitalista è sistematicamente occultata o spostata e nelle nostre condizioni di privilegiati della terra è difficile identificarla chiaramente. Tuttavia, una volta ammesso che l’accumulazione originaria (e la violenza di cui è carica) è condizione di possibilità del capitalismo, molti eventi della contemporaneità acquisiscono un nuovo senso. Il ritorno degli aspetti più violenti dell’accumulazione primitiva ha accompagnato ogni fase della globalizzazione capitalista, inclusa quella attualmente in corso, dimostrando che la continua espulsione dei contadini dalla terra, la guerra e il saccheggio su scala globale, e la degradazione delle donne sono in tutti i tempi condizioni necessarie all’esistenza del capitalismo85.
In astratto, le enclosures sembrerebbero uno strumento antiquato di esproprio, sorta di rito di passaggio per un sistema che, divenuto adulto, disporrebbe oggi di altri mezzi, altrettanto criminali ma del tutto legalizzati. Questo è vero solo in parte. Quanto sta accadendo in Messico, ad esempio, mostra chiaramente come, oltre agli strumenti istituzionali, il capitalismo continui a far ricorso, ora come allora, alla violenza estrema delle recinzioni. Così, nelle wild 47
zone della frontiera capitalista si diffonde un vero e proprio “necrolavoro”, quello che produce morte per sterminio al fine di aumentare i profitti delle corporations globali86. La strategia di molte multinazionali del petrolio consiste nel sostenere governi autoritari in paesi ricchi di risorse energetiche. I governi devono impegnarsi a lasciare che nelle zone fondamentali per le risorse energetiche si crei o si diffonda un elevato livello di violenza e di terrore, che include omicidi e sparizioni; questo per agevolare il trasferimento forzato delle popolazioni che vi risiedono. […] Nelle zone di conflitto dove c’è violenza e petrolio, la sparizione forzata di persone è una delle strategie più efficaci per seminare terrore tra la popolazione. Insieme all’omicidio di massa, alla tortura o alle decapitazioni, è uno degli elementi più sicuri per fare in modo che la gente lasci le proprie case e le città dando luogo a ingenti migrazioni87.
Un discorso analogo si può fare sulle frontiere, luogo di una battaglia tanto reale quanto simbolica in vista della mobilità del lavoro, che arriva fino alla riproduzione di condizioni semischiavistiche88. I miserabili che si affollavano senz’arte né parte per le strade di Manchester hanno più di qualche analogia con le masse di umani che oggi premono sulle frontiere e che domani saranno carne da macello per la ripresa economica delle nazioni più forti. È la dinamica savage/salvage descritta da Anne Tsing89: l’accumulazione originaria istituisce negli spazi che investe condizioni di frontiera – di una frontiera che si pone al tempo stesso come frontiera selvaggia (savage) nella misura in cui la sua prima legge è quella della violenza, e come frontiera “di salvataggio” (salvage frontier) nella misura in cui la distruzione delle condizioni sociali “tradizionali” finisce per presentare il capitalismo (specifici capitalisti) come gli unici agenti possibili di uno sviluppo dai caratteri di emergenza90.
Dove le condizioni esterne alla fabbrica sono a tutti gli effetti mortifere, la necessità del salvage fa sembrare meno indegna la vita degli operai. Il regime semi-schiavistico del lavoro delle maquilladoras e la bolla di terrore che le circonda è ciò che ci permette, a Natale, di comprare enormi giocattoli di plastica che andranno a riempire le stanze dei nostri bambini, ciechi al fatto che il loro costo può essere così basso solo perché qualcun altro ne ha già pagato il prezzo91. Eppure, quando lo sviluppo economico dell’America latina (o di qualsiasi altro luogo del pianeta) viene descritto come unica salvezza possibile, nessuno trova in sé profonde ragioni di dissenso. Non solo: la dissociazione dei fenomeni permette di giocare partite truccate su più fronti. Sganciato dal sistema delle maquilladoras, il femminicidio messicano diventa un’astratta questione di genere; la funzione di filtro della manodopera delle frontiere diventa una questione di autodifesa nazionale; e uno strumento tanto distruttivo dei gruppi umani come il microcredito può essere spacciato per “sociale” (concedendo prestiti solo a gruppi di donne, responsabili in solido dei pagamenti, esso trasforma quelle che erano relazioni di mutuo aiuto in un sistema sbirresco di controllo di tutti su tutti). A questo punto è perfino pleonastico menzionare i macro-strumenti di violenza istituzionale che, dal debito fino alle riforme scolastiche, sanitarie e pensionistiche, mirano alla distruzione di ogni resistenza e di ogni regolazione alternativa dell’esistente, replicando il movimento che, all’epoca delle enclosu48
res, ha distrutto le istituzioni locali a vantaggio di una regola unica stabilita a
livello sovra-locale. Su tutto questo siamo tenuti alla rimozione: la violenza che imperversa sotto forma di omicidi, sparizioni, stupri, bombe, devastazioni ecologiche e genocidi dev’essere attribuita a qualsiasi causa prossima, fuorché alla logica di espansione del capitale che percorre e lega tutti questi fenomeni.
10. Sugar on my tongue La violenza originaria è condizione di possibilità perché il regime del plusvalore richiede un continuo prelievo sulla vita e questa continuamente cerca di sottrarsi. Le piccole mani sono davvero vittime, ma vittime di tipo molto particolare, prodotte da un’operazione che è ora importante identificare. […] La fabbrica delle piccole mani è una produzione permanente. Può essere “organizzata” – come nel caso dello “sverginamento” dei consulenti – ma più spesso è diffusa. Ha sempre qualcosa di simile a un’iniziazione, al reclutamento nel gruppo di coloro che “sanno”. Ma è un’iniziazione “nera”, l’adesione a un sapere che separa le persone da ciò che esse, spesso, continuano a sentire, e che ormai devono rispedire nel regno del sogno o del sentimentalismo da cui bisogna difendersi92.
Se è vero che gli umani sono storicamente costruiti dalle relazioni che li attraversano, dal fascio di attaccamenti nei quali hanno preso forma, allora non dev’essere facilissimo separarli dal mondo che li ha resi tali93. Si dovrà dapprima isolarli, recidendone i legami primi, e poi mantenerli separati, ossia impedire che i legami si ricostituiscano a partire dalle situazioni nelle quali gli individui si trovano. Applicata dapprima per disarticolare i mondi esistenti, la violenza della separazione originaria viene poi impiegata per evitare la ricomposizione degli umani in collettivi che abbiano la pretesa di autodeterminarsi (le fasi di crisi del lavoro sono, da questo punto di vista, esemplari): l’unica dipendenza legittima e desiderabile deve restare quella dal plusvalore. E poiché gli umani tendono spontaneamente a stabilire relazioni, bisognerà che quelle che si creano non possano farsi troppo forti. L’efficacia totalitaria del capitalismo sta nel fatto che esso non conosce normalità, ma solo normalizzazione: in queste circostanze, la violenza diventa la forza maggiormente produttiva. Oltre a queste misure di tipo quasi militare, un’ulteriore linea di separazione divide la vita da se stessa: è quella che passa all’interno dei soggetti moderni e che li rende monadi scisse dal mondo, separate in se stesse – e cioè, letteralmente, in-dividui, che vivono la loro stessa vita come qualcosa di esteriore. Il soggetto moderno è costruito come individuo chiuso, compiuto, autosufficiente nelle sue prerogative soggettive, libero e indipendente dagli altri se non per la soddisfazione dei bisogni che derivano dall’animalità in noi; siamo dunque tenuti a essere individui sostanziali, che trovano in sé – e non nel mondo, o nelle relazioni, o nel clan, o nel cosmo, o negli dei – la propria ragion d’essere.
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Considero la schizofrenia quasi incurabile, non perché essa sia dovuta a fattori organici, ma perché i suoi sintomi principali sono sistematicamente mantenuti in vita da taluni dei valori più caratteristici, più potenti – ma anche più insensati e disfunzionali – della nostra civiltà. Inoltre, dal momento stesso in cui lo psicoterapeuta accetta i valori e i modelli di comportamento proposti dalla sua cultura, diventa incapace di accostare con un vero spirito di oggettività il problema della schizofrenia e quello del suo trattamento94.
(Fra gli strumenti di inoculazione del modello schizoide Devereux elenca poi il distacco, la riservatezza, l’iporeattività, l’assenza di affettività nella vita sessuale, la frammentazione e il coinvolgimento solo parziale che essa porta con sé, la deformazione della realtà per costringerla ad adattarsi a un modello fittizio, la cancellazione della frontiera fra realtà e fantasia, l’infantilismo, la fissazione, la regressione, la depersonalizzazione.) Anche così, però, non è facile tenere a bada le connessioni che continuamente s’instaurano e che aprono il guscio degli individui-monade facendoli accedere a imprevedibili processi di co-divenire. È quello che succede nelle insurrezioni, nelle esplorazioni cognitive ed emotive di zone ignote, nell’apertura ad altri mondi umani, nell’esperienza del sacro, nell’innamoramento: tutte le volte che i legami ci richiamano a un destino. Si potrebbe identificare la sofferenza esistenziale ponendola a confronto con il sentimento tragico della vita, e la sofferenza patologica con ciò che viene vissuto come “grave”. Il tragico risulta dall’esistenza di legami che collegano l’individuo al suo ambiente naturale, alla sua famiglia, alla sua cultura e, soprattutto, a una capacità individuale di essere scossi da eventi non necessariamente vicini, una continuità senza contiguità. […] Al contrario, il “grave” implica la serializzazione: ciò che è grave lo è sempre per qualcuno (o per un gruppo)95.
Come evitare che la potenza dell’incontro con altro (con l’Altro, con altri umani, con mondi differenti, con enti insospettati) fletta le traiettorie dei soggetti, mettendo la loro potenza a servizio di un progetto differente? Qui entra in scena il trucco più proprio della modernità, quello che più la distingue da qualsiasi altra forma di regime antropologico. I soggetti possono essere mantenuti nel loro isolamento fornendo loro, in cambio, qualcosa di estremamente potente e subdolo: “immagini di sogno” e godimento. Questa sorta di affatturazione si affianca alla violenza nel controllo globale e capillare della popolazione: è l’aura della merce descritta da Marx, lo stato semi-ipnotico dei clienti dei supermercati, il richiamo dei touchscreen. L’ipotesi stregonesca va dunque integrata con l’ipotesi tossicologica, secondo cui una delle leve fondamentali nell’estrazione di plusvalore è la dipendenza tossica dei soggetti. Sofisticata e autoimposta, la cattura non impiega più frusta e catene, ma un complesso sistema di gratificazioni rapide e a basso costo96. Non dappertutto allo stesso modo o con gli stessi mezzi: nei luoghi della terra destinati al mero sfruttamento quantitativo, la cattura tossica – così come la violenza originaria – si manifesta in termini più brutali. Dove invece c’è bisogno di estrarre anche innovazione, la cattura tossica non può essere eccessivamente distruttiva: più che ottundere, deve fornire un godimento immediato, attivante e continuamente disponibile. Si pensi al caso esemplare, e storicamente rilevantissimo, dello zucchero. 50
Dal punto di vista fisiologico, il consumo di zucchero ha molte controindicazioni: dalle carie all’obesità passando per la sregolazione degli elementi nutritivi. Eppure oggi in Europa se ne consumano 27 chili pro capite all’anno, e negli Stati Uniti il doppio. Le campagne per diminuirne l’uso hanno avuto poco successo, un po’ per via del loro approccio riduzionista e moraleggiante, ma soprattutto per via di ciò che queste campagne omettono di spiegare: la funzione sociale del consumo di zucchero, la necessità della sua circolazione, il suo ruolo nell’insieme della produzione capitalista. A lungo impiegato solo come elemento della farmacopea, la diffusione dello zucchero nella dieta europea comincia nel XVI secolo e aumenta in parallelo con l’industrializzazione, fino a raggiungere, a inizio Novecento, livelli paragonabili a quelli attuali. L’incremento assolveva a due funzioni principali: la prima era di includere le masse nel sogno del progresso, permettendo loro l’accesso a sostanze che, fino a poco prima, erano riservate alle élites: Il consumo di prodotti come il tabacco, il tè e lo zucchero può esser stato uno dei pochi modi in cui i lavoratori britannici della metà del XIX secolo riuscivano a giovarsi delle promesse implicite nella filosofia politica del secolo precedente. Per le classi lavoratrici povere, in particolare, mangiare sempre più cibi con quantità sostanziali di saccarosio, era una risposta appropriata a ciò che la società britannica era diventata. […] Man mano che beni di lusso si trasformavano in beni alla portata dei proletari, lo zucchero divenne uno dei narcotici del popolo e il suo consumo divenne una dimostrazione simbolica che il sistema che lo produceva aveva successo97.
La seconda, e più cruciale, era quella compensatoria: l’ipotesi che qui si propone è che lo zucchero e altri prodotti coloniali, rifornendo e saziando – e sicuramente drogando – operai di fattorie e fabbriche, ridusse il costo generale della formazione e della riproduzione del proletariato metropolitano. […] La mia tesi è che gli accresciuti consumi di beni come il saccarosio siano stati la diretta conseguenza di profonde alterazioni nella vita dei ceti lavoratori, i quali resero accettabili e «naturali» nuove forme di cibo e di alimentazione così come accadde anche per i nuovi orari di lavoro, i nuovi tipi di attività e le nuove condizioni della vita quotidiana98.
Prima droga di massa, lo zucchero è anche un induttore di sogni: la sua disponibilità massiccia e a buon mercato comunicava l’idea che si potesse diventare diversi consumando in modo diverso; che si potesse accedere al regno del progresso e dei consumi illimitati a partire da uno shot di zucchero, ripetibile a piacimento. Considerazioni analoghe si possono fare per moltissime altre droghe coloniali: tabacco, caffè, tè, cacao, sostanze che appagano rapidamente un bisogno, inducono una certa dipendenza e causano sul breve, medio e lungo termine una serie di effetti fisiologici, patologici e sociali. I lavoratori europei sapevano che stavano comprando prodotti che provenivano dal lavoro degli schiavi e, se sì, si sono opposti? […] Quel che è certo è che la storia del tè, dello zucchero, del rum, del tabacco e del cotone è molto più significativa di quanto possiamo dedurre dal contributo di queste sostanze, come materiale grezzo o come mezzo di scambio nella tratta degli schiavi, nella nascita del sistema delle fabbriche. Perché quel che viaggiava con queste “esportazioni” non era solo il sangue degli schiavi, ma i semi di una nuova scienza dello sfruttamento e una nuova divisione della classe lavoratrice in cui il lavoro salariato, anziché essere un’alternativa alla schiavitù, fu fatto dipendere da essa, in quanto mezzo (come il lavoro femminile non retribuito) per l’espansione della parte non retribuita della giornata di lavoro99.
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Anche nella sua espansione in territori che fino a quel momento erano rimasti ostinatamente chiusi, il capitalismo occidentale farà volentieri ricorso a droghe e stupefacenti: La grande ricetta dell’invasione civilizzatrice dell’Occidente è sempre consistita nell’incoraggiare, presso i popoli considerati meno civili, l’alcolismo o la dipendenza da qualche altra droga o prodotto di consumo. Per i San del Sudafrica, sono stati l’acqua corrente, la birra, il tabacco, il lavoro salariato e la scuola obbligatoria; per i Cinesi l’oppio e per gli Indiani il tweed inglese. In ogni caso, il pacchetto di droghe e beni iniettati è un insieme di saperi oscuri che, se non sono respinti con risolutezza, saranno pronti a suscitare sogni di potere sugli altri100.
Quando il consumo di zucchero era quasi arrivato a quello attuale, il sistema delle merci aveva già imparato fin troppo bene a trasformare quella che Benjamin chiamava aura e descriveva come una promessa di felicità, in una scarica fisiologica immediata. Queste lezioni saranno messe a frutto nell’arco del Novecento con l’ampio e capillare utilizzo di strumenti tossicologici impiegati a volte per rendere sopportabili le condizioni di vita (ansiolitici, movide, maxischermi, connessione veloce, disponibilità della merce 24/7), altre volte per fermare i movimenti dissidenti (come quando, alla fine degli anni Settanta, le strade italiane furono invase dall’eroina). Due fra le sue manifestazioni contemporanee, narcosi e pornografia, meritano qualche parola in più. Come hanno notato diversi analisti, la quantità e varietà di narcotici a disposizione sta cambiando la materialità stessa delle nostre vite. A partire dalla profonda trasformazione del fenomeno “tossicodipendenza” negli anni Novanta, con la sparizione dell’eroinomane e la comparsa del poli-assuntore, oggi è la quotidianità stessa a dipendere dalla disponibilità di sostanze: sostanze per lavorare, per studiare, per divertirsi, per fare sesso, per riprodursi o non riprodursi, per dormire, per svegliarsi e via dicendo. Un po’ farmaco, un po’ droga e un po’ supplemento, l’elemento più notevole delle sostanze oggi in circolazione è proprio la loro ordinarietà: la loro assunzione ha perso gli aspetti sacrali, trasformativi o iniziatici che aveva presso la gran parte delle società storiche, e non conserva nulla del valore di dissidenza esistenziale e politica che aveva nelle sottoculture dell’eroina. Non allarga la coscienza, non apre paradisi artificiali, non scuote le fondamenta del soggetto, non richiede alcuna iniziazione e non comporta alcuna appartenenza a movimenti contestatari; al contrario, è ciò che permette il funzionamento ordinario, e ordinariamente produttivo, dei soggetti. Ancora una volta, la demonizzazione delle sostanze nel discorso pubblico è l’altra faccia di un uso diffuso, capillare, banalizzato e che non conserva più niente di trasformativo. Dal suo canto, la pornografia è tanto imparlabile quanto la stregoneria, salvo ricorrere al vocabolario (questo sì, esorcistico) della medicina. Veicolo di un immaginario violento e patriarcale, la sua presa sulle soggettività contemporanee ha qualcosa di estremo: per come spiana, uniforma e mette a profitto una delle zone più cruciali e delicate dell’immaginario; per la coincidenza immediata di piacere e consumo; per la costruzione dell’intimità come zona di abuso anziché come spazio protetto; e infine, ironicamente, per le pretese libe52
ratorie di cui s’ammanta. Il problema si fa politicamente assai chiaro osservando quanto accaduto in Africa con l’arrivo dei satelliti di Google e, con essi, la pornografia di stampo occidentale, che ha contribuito alla distruzione delle regolazioni locali fra sessi e ha imposto ovunque un medesimo immaginario fatto di sessismo, riduzione a oggetto, pars pro toto, autismo e scarica fisiologica. Anche in questo caso, moralismo di facciata e infiltrazione capillare dell’osceno (mai espressione fu più appropriata) vanno a braccetto, esautorando la potenza dell’erotismo: quanto di più lontano si possa immaginare dalla lavorazione che altri luoghi e altri tempi hanno fatto della sua potenza relazionale e trasformativa101. La costruzione tossica dell’individuo-monade nella contemporaneità non ha più nulla a che fare con gli accidenti, le asperità e le divergenze che punteggiano le biografie, né con ciò che è comune agli umani o con ciò che è destino soggettivo. Ciascuno è tenuto ad aderire a una forma individuale rilevabile in base alle nostre azioni estrinseche, la cui desiderabilità si misura in base all’accesso illimitato a una forma piacere anestetico. È uno strumento efficacissimo per sganciare i soggetti dal preindividuale che portano in sé: bisogna riempire tutti i silenzi, evitare tutte le imprevedibilità, espandere il tempo in un eterno presente, eliminare tutte le relazioni. Niente di meglio, in quest’impresa, che legare i soggetti all’infinita ripetizione della medesima azione che, la prima volta, ha procurato un piacere102. Ciò che va perduto è il senso stesso del destino individuale, e insieme a esso le aperture immaginarie, il sacro, il tragico, il confronto con il limite. È impossibile per lui [scil., l’individuo moderno] comprendere che il suo piacere non ha nulla a che vedere con i suoi desideri, ovvero con il suo destino. Quest’ultimo inteso non come fatalità, ma come insieme di tropismi, di affinità elettive ben territorializzate che configurano l’“essere-nel-mondo” di una persona. Seguendo il nostro “destino”, forse otteniamo piacere, forse ne ricaviamo una qualche utilità: in tutti i casi, sarà un effetto collaterale. Perché l’importante, come diceva Nietzsche, è “diventare ciò che si è”103.
Nella coazione alle sostanze e alla pornografia si può leggere anche una sorta di residuo, una “nostalgia dell’iniziazione” che fa cenno a tutt’altro, ma sviata, inconclusa, messa al servizio di asservimento anziché di un potenziamento: Da un lato, tatuaggi, pornografia, droghe, esperienze estreme, ci parlano di una richiesta di iniziazione, vale a dire, di una necessità di fare esperienza della dimensione sacra dell’esistere. Dall’altro, però, le forme con cui queste esperienze vengono oggi vissute spesso non consentono la crescita simbolica; in qualche modo, il rito di passaggio non viene completato. È come se i soggetti rimanessero imprigionati in un incantesimo, in una sorta di rito aperto, non controllato: il rischio è quello di equivocare la dimensione del sacro con quella di un rito senza fine che, nella peggiore delle ipotesi, blocca i soggetti in una forma distruttiva di coazione: la dipendenza104.
«Rito senza fine» che rimanda all’analisi benjaminiana del capitalismo come mostruosa religione solo cultuale, senza dottrina e quindi senza eresia possibile.
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Culto che sembra raggiungere nei nostri giorni il suo apogeo, totalizzando l’intero dell’esistente e colonizzando ogni piega pulsionale dei soggetti: la dissociazione (o, con vocabolo più classico, l’alienazione) è completa. Mai, nella storia mondiale, il circuito stimolo-risposta dell’appagamento fisiologico è stato così fondamentale per il mantenimento dello status quo. Mai il prelievo sulla vita era passato, in modo così massiccio, per l’autoasservimento di milioni di cavie che, ligie ai comandi, riversano la loro vita, in versione digitally enhanced, nel cloud che ha preso il posto della memoria e, quindi, dell’esperienza e della possibilità stessa della presenza. C’è poco da stupirsi se i nostri bambini – la cui crescita è fatta di presenza, contatto e relazione, ben più che di calorie o di oggetti – danno di matto come non mai105.
11. Vedere la violenza Mentre ci trastulliamo con dolciumi, narcotici, film porno e selfie, il pianeta rotola verso un collasso ecologico che alcuni chiamano Antropocene e altri, più precisi, Capitalocene. Niente – né lo scioglimento dei ghiacciai, né l’avanzata dei fascismi, né la necropolitica – è tanto disperante quanto l’infantilismo dei cittadini dei paesi ricchi: niente testimonia più a fondo la temibilità dei nostri tempi, la loro capacità di colonizzare l’immaginario fino alla lobotomia. L’urgenza sarà invece quella di accettare la situazione altamente probabile in cui saremo noi, popoli del “Centro”, con le nostre società tecnologicamente “avanzate”, popolate da automi obesi, teleguidati mediaticamente, stabilizzati psicofarmacologicamente, dipendenti da un consumo (da uno spreco) monumentale d’energia, simili a pazienti assistiti in modo eteronomo da apparecchiature che richiedono una delicata e costosa manutenzione – noi, insomma, che dovremo velocemente darci una calmata e ridurre la scala dei nostri confortevoli modi di vita. In effetti, se c’è qualcuno che deve “essere pronto” per qualcosa, questo qualcuno siamo noi, la gente ammassata nelle “gigantesche metropoli tecniche”106.
Eppure. Eppure anche qui, tra i morti-viventi che siamo tenuti a essere, a volte arrivano rivelazioni, sorprese; si creano legami; s’impara che il dolore è sintomo. Ci servono altre narrazioni – incantate, dure: le due cose non si oppongono – che permettano di ricostruire una mappa realista dell’epoca, della sua struttura e del suo immaginario, di ciò che vieta di vedere e della sua presa su di noi. Il disvelamento di Marx era fatto per liberare. Richiedeva coraggio e sopportazione: la verità fa male, ma poi permette di muoversi. Imparare a vedere la violenza: ecco una storia. Negli anni Sessanta padre Eric de Rosny, gesuita, è insegnante presso il Collège Liberman di Duala, in Camerun. I suoi studenti raccontano a mezze parole di guaritori, di stregoneria; parlano di un mondo occulto, di combattimenti invisibili, di attacchi e protezioni immateriali. Il gesuita è incuriosito, fa domande, vuole capire. Superando il sospetto della Chiesa cattolica verso le pratiche tradizionali, si avvicina a Din, uno stimato nganga (guaritore) locale, e comincia a seguirne i passi fino a chiedergli di essere iniziato al “mondo di sot54
to” dei guaritori duala. De Rosny vuole vedere. Il maestro gli domanda se desidera la visione per operare nel mondo occulto, oppure solo per osservarlo. All’uomo di chiesa è possibile soltanto quest’ultima scelta: sarà sentinella contro le malefatte degli stregoni evitando però l’ambiguità etica nella quale, ineludibilmente, si trova chi agisce. Il processo dura diversi anni e de Rosny avrà bisogno, per portarlo a termine, del sostegno dei confratelli di un monastero francese, che lo accompagneranno per via epistolare. Il momento cruciale arriva quando, un’estate, Din acconsente ad “aprire gli occhi” al gesuita e comincia il percorso rituale che trasmetterà all’allievo una parte dei poteri del maestro. Lungo le settimane cruciali che precedono l’evento, de Rosny fa tre diverse ipotesi in merito a ciò che infine vedrà. Nella prima, la visione non dà niente: l’iniziazione del candidato […] consiste nel rivelargli che non c’è niente da vedere, che queste famose realtà invisibili, alle quali ha ragione di credere, in ultima istanza sfuggono alla vista. Esistono, ma nessuno le percepisce. Scoperta che può essere traumatica. La progressiva iniziazione aiuta il candidato a sopportare una simile disillusione e gli impedisce di desumerne superficialmente l’irrealtà dell’altro mondo107.
Nella seconda la visione è provocata da piante allucinogene: Sulla costa, la visione viene data versando negli occhi delle gocce di un estratto vegetale. Su questo punto i miei informatori sono unanimi. Mi chiedo se le scorze e le erbe usate per fare l’estratto non abbiano proprietà allucinogene. […] L’operazione potrebbe allora apparentarsi alle esperienze di estasi praticate dappertutto nel mondo108.
Nella terza, infine, la visione rivela l’immaginario: Per immaginario intendo quei sogni e quei fantasmi ingiustamente relegati nell’ombra, tutte quelle immagini apparentemente folli e inutili riabilitate da Freud. E sono nondimeno queste correnti potenti di pulsioni e di desideri che orientano sotterraneamente le relazioni degli uomini. Una volta tolte dall’ombra, costituiscono un tesoro di indicazioni, troppo raramente sfruttato. L’iniziazione consiste nel rivelare al soggetto la serietà dell’immaginario, aiutandolo a trattenere e a selezionare sogni e immagini, fornendogli un codice di interpretazione109.
Tutte ipotesi plausibili a un orecchio eurocolto: quel che accade, però, è del tutto inaspettato. Nelle ore piccole di una mattina d’agosto, dopo un incubo, de Rosny si sveglia e, come previsto, inghiotte le erbe prescritte dal maestro. E d’improvviso l’istante tanto atteso arriva: i miei occhi si aprono, gli umani si uccidono fra loro [s’entre-tuent]. Ne ho la sensazione visiva. Tutto quello che Din mi ripete già da molto tempo si srotola davanti ai miei occhi come un film: la visione è innanzitutto la rivelazione della violenza fra gli uomini. – Ci vuole una grande forza di carattere per guardare in faccia la realtà bruta. – Senza iniziazione, senza pedagogia, questa visione rende nevrastenici o precipita nel cerchio della violenza. – La società è organizzata per nascondere ai suoi membri la violenza che può scatenarsi fra loro in ogni momento. – È per questo che i sogni ne parlano così tanto. – Rivelazione pericolosa per la società, ecco perché il nganga è una personalità inquietante110.
Né gioco psicologico, né fantasmagoria sconnessa, né scavo nell’inconscio individuale, la visione rivela le fondamenta violente della strutturazione sociale111. 55
De Rosny è coraggioso nell’andare a vedere; nel sostenere i passaggi più duri dell’iniziazione; e infine anche nel raccontare. Quel che ricava dalla sua esperienza è prezioso. Per poterlo accogliere, occorre innanzitutto posizionarsi rispetto all’interpretazione della violenza che fa da sfondo al suo testo112. Secondo de Rosny essa è fra gli umani una sorta di fatto primo, universale, invariante. Se è così, prosegue coerentemente l’autore, allora il “mondo di sotto” della stregoneria douala è un modo efficace di canalizzare le pulsioni più distruttive, convogliandole in una zona dove interferiscano il meno possibile con la vita quotidiana; e una lavorazione ancor più efficace è quella proposta dal cristianesimo, che la rende palese per disattivarla e poi eradicarla. Essa è quindi, per l’autore, un a priori delle umane faccende, ed è qui che non possiamo seguirlo. Anche ammettendo che la possibilità della violenza sia inscritta nella struttura stessa delle relazioni fra umani, ciò ne fa un rischio inevitabile, non un fatto primo dell’umano divenire. Inoltre, essa va storicizzata: è proprio nella modernità cristiana che la violenza si fa talmente originaria e pervasiva da permeare ogni aspetto della vita comune e delle relazioni, restando peraltro del tutto invisibile. Non a caso allo stesso de Rosny è stato necessario affrontare la fatica e i rischi di un’iniziazione entro un altro mondo umano per ottenere quell’evidenza visiva che tutto, qui, rende irraggiungibile. Altri tempi e altri collettivi hanno lavorato in maniere diversissime la possibilità che essa si dia. Il nucleo cruciale della storia del gesuita-guaritore, tuttavia, non cambia: l’azione sul mondo – fosse pure quella di sentinella – richiede di saper riconoscere la violenza. Senza questa capacità, propriamente adulta, non si combina niente. È una posizione che richiede coraggio, perché equivale all’uscita dall’innocenza. La grande paura del futuro iniziato viene dall’anomalia della sua situazione sociale, anomalia che gli procura degli incubi. È un uomo solo. Sollevando il mantello della violenza, va controcorrente rispetto a tutte le tendenze della vita pubblica e a ritroso della sua educazione. Controstregone per definizione, sarà sempre il sospettato di divenire il suo contrario, perché percepisce la violenza e gioca con essa113.
Possiamo estendere questa considerazione a tutti coloro che, del proprio presente, sanno leggere il lato oscuro; a quelli che, come i controstregoni descritti dall’etnografia, sanno percepire la violenza senza chiudere gli occhi. Ai contemporanei, ovvero, come ha scritto Agamben, coloro che ricevono in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal loro tempo114. Riconoscere la violenza che fonda la nostra forma di vita, tornare in contatto con ciò che è stato scotomizzato, significa reimpossessarsi della storia, e quindi del presente. Così come c’era continuità fra la nuda vita prodotta dal colonialismo e quella prodotta dai campi, c’è continuità fra i campi e i centri di detenzione e tortura; fra i morti di allora e la continua, invisibile strage dei migranti; fra le leggi razziali e il discorso razzista115. Dal paradigma totalitario non siamo ancora usciti: sarà possibile farlo solo disattivando (fuori di noi e in noi) le dinamiche della modernità egemone, ricucendo le dissociazioni che ha prodotto, rifiutando le coazioni che induce. 56
Non è solo un’operazione intellettuale, non si tratta solo di conoscere, studiare, analizzare. Si tratta, innanzitutto, di sentire, di continuare a credere alle proprie percezioni anziché ottunderle o ignorarle. Il lavoro analitico viene dopo, a sostegno e spiegazione di ciò che ci ha attraversati e che, lì per lì, non abbiamo potuto dire, riconoscere. Con cui non abbiamo potuto negoziare, per tema di esser presi per pazzi o, ancor peggio, di cadere davvero nella follia.
12. Haunting Appartiene alla follia ciò che non supera la prova di realtà, il confronto con la banale, ordinaria realtà quotidiana. Così si dice, e non c’è motivo di dubitarne. Il fatto è, però, che quella stessa realtà che fa pietra di paragone non è qualcosa di già dato una volta per tutte e indiscutibile, ma è, a sua volta, una narrazione, un filo teso nella complessità del mondo e delle vite per cercarvi un senso. Questo fatto non dovrebbe mai essere perso di vista. Nel 1997 Avery Gordon, sociologa statunitense vicina al Black Marxism e alla corrente benjaminiana del pensiero critico, pubblica un testo folgorante intitolato Ghostly Matters. Vi sviluppa una teoria del fantasma che supera d’un balzo esitazioni epistemologiche e tentazioni esorcistiche, situandosi sul margine incerto fra le grandi descrizioni del sistema-capitalismo e la miriade di esperienze individuali – sempre frammentarie, parziali, ambigue – che della sua violenza vengono fatte. Il testo approfondisce l’analisi del dominio moderno osservando gli effetti dei soprusi ordinari e della crudeltà spicciola sulla vita quotidiana dei soggetti. Per far ciò impiega come strumento analitico la persistenza del fantasma116. Gordon chiama questa persistenza haunting (hantise in francese), vocabolo malamente traducibile in italiano e che quindi conserveremo in originale: quello speciale stato del mondo in cui, oltre alle presenze attese e ordinarie (la sedia, il cielo, il muro della fabbrica, il bar all’angolo, l’albero del giardinetto), se ne avvertono anche altre, che tuttavia non possono essere viste in luce diretta o in prospettiva frontale, ma solo nei chiaroscuri e con la coda dell’occhio. Non corrisponde all’“infestazione” del vocabolario italiano, con il suo valore negativo e immediatamente esorcistico. L’haunting è, semmai, una sospensione della tessitura ordinaria che lascia emergere altro: qualcosa che, come nel perturbante di Freud, è al contempo familiare e pauroso, intimo e sconcertante. C’è un elemento poetico, nei fantasmi dello haunting, che l’italiano al momento non riesce ad accogliere. Gordon comincia affermando a chiare lettere la contemporaneità dello haunting: «elemento costitutivo della vita sociale moderna […] il fantasma non è solo una persona morta o scomparsa: è una figura sociale»117, e poi collega risolutamente la sua esistenza alla violenza sociale e alle tracce che essa lascia. Secondo copione, questa dovrebbe essere dimenticata, repressa e naturalizzata. Capita però che essa si manifesti come ricordo inassegnabile, terrore 57
improvviso, sovvertimento innaturale dell’ordine del mondo. Come fantasma, appunto. L’haunting non coincide con l’essere sfruttati, traumatizzati o oppressi, sebbene di solito implichi queste esperienze o sia da esse prodotto. La peculiarità dello haunting è il suo essere uno stato di animazione in cui una violenza sociale repressa o irrisolta si rende nota, a volte in modo molto diretto, altre volte in modo più obliquo118.
Freud aveva già dimostrato che – per quanto strano e alieno possa sembrare – il perturbante è sempre qualcosa che ci riguarda, ha a che fare con noi, con le nostre esperienze, con il mondo che abitiamo, con i segreti che si tramandano senza parole di generazione in generazione. Il fantasma è un’archeologia della dissociazione: arriva, lacero, da un passato dimenticato a rivelare l’azione di una violenza distruttiva che gli ha sottratto la possibilità di esistere nel mondo in luce, relegandolo nello spazio ambiguo di ciò che si può vedere solo in tralice. Testimonia della violenza e della vergogna racchiuse in un evento iniziale talmente orribile, talmente carico di abominio da non poter essere integrato nella vita psichica del soggetto: l’abiezione delle streghe che bruciavano sui roghi e quella degli inquisitori che li accendevano; l’onta dell’esser schiavi e quella del ridurre altri in schiavitù; l’infamia dell’essere carne da bordello e quella dell’essere carne da cannone; la vergogna dei sopravvissuti ai lager e quella dei carnefici – situazioni talmente catastrofiche da cancellare la possibilità stessa di discernere fra bene e male, fra sé e mondo, fra realtà e allucinazione. Il fantasma, col perturbante di cui è carico, dà corpo allo spazio intermedio fra una logica di sistema che si può in qualche modo nominare e descrivere (“capitalismo”, “colonialismo”, “razzismo”, “patriarcato”, “totalitarismo”) e l’esperienza che di queste strutture fanno coloro che vi transitano o ne sono presi, «esperienze che, la più parte delle volte, sono parziali, in codice, sintomatiche, contraddittorie, ambigue»119 e che quindi finiscono nell’indicibile, relegate alla mera soggettività. Nel rivelare la violenza quotidiana, intima, che pervade il funzionamento del mondo, il fantasma smonta la narrazione ideologica che la nascondeva, lasciandoci alle prese con un reale aspro, con il nostro dolore e la nostra collusione (per quanto involontaria) e con la necessità di narrarlo altrimenti. È per questo, forse, che nello haunting talvolta l’inquietudine si mescola alla sorpresa, la sorpresa a un improvviso senso di liberazione. Il fantasma ci spaventa e ci libera. La sua esistenza toglie il rischio di follia che è sempre dietro l’angolo per chi “sente il mondo” in modo diverso da come il mondo viene descritto. Qualcosa è successo, di cui il fantasma testimonia, che spiega la dissonanza e che ci dà ragione: non eravamo matti o ipersensibili o paranoici a pensare che quell’angolo di strada avesse qualcosa di sinistro; a sentire odore di cimitero in certi appartamenti di lusso; a vedere zombie nei grattacieli della city. Ci libera dall’oppressione di dover aderire a una verità pubblica che fa a pugni con ciò che percepiamo – il che significa che ci rimette in contatto con 58
ciò che è e con noi stessi. Il fantasma è il tremolio del mondo quando viene tolta una dissociazione. Ecco spiegata l’ossessione romantica per i castelli abbandonati, gli spettri, i cimiteri, i revenant di ogni sorta: cercavano parole per l’esito terrificante di una violenza sociale originaria che era già stata naturalizzata e dimenticata, e che pure da qualche parte si faceva sentire. Sappiamo dai romanzi gotici che, una volta preso possesso di un maniero, i fantasmi continuano a lungo ad abitarne le soffitte, a fare rumore in cantina, a trascinare mestamente le loro catene quando fuori è primavera. È un’indicazione fenomenologica importante, traducibile nei termini della sociologia e della psicologia. Secondo Raymond Williams quando spieghiamo le forme sociali tendiamo inconsapevolmente ad aderire alla loro descrizione ufficiale e pre-scritta, ad analizzare la logica di sistema omettendo di descrivere come ci si vive dentro, quale forma di esperienza esse prescrivano, quali “strutture di sentimento” imprimano sulle soggettività, gli assoggettamenti che esse impongono. La coscienza pratica è quasi sempre differente dalla coscienza ufficiale e non è solo una questione di libertà relativa o relativo controllo: la coscienza pratica è ciò che viene effettivamente vissuto, e non ciò che si suppone venga vissuto. Nondimeno, la vera alternativa alle forme fisse ricevute e prodotte non è il silenzio […]. È un tipo di emozione e di pensiero che è a tutti gli effetti sociale e materiale, ma in entrambi i casi in una fase embrionale, non ancora fattasi pienamente articolata e definita. Le sue relazioni con ciò che è già articolato e definito sono quindi straordinariamente complesse120.
Le esperienze apparentemente più “private” sono a tutti gli effetti sociali: non dipendono dalle specificità individuali ma vengono impresse su intere generazioni dalla strutturazione di un collettivo; e tuttavia non hanno posto nell’ideologia ufficiale e spesso neanche nel pensiero dei rivoluzionari, che tende a focalizzarsi soprattutto su questioni strutturali, più facili da analizzare. Transitano lungo il filo del tempo legate tanto alla stabilità delle forme sociali quanto a ciò che passa da una generazione all’altra sotto forma di mezze parole, di luoghi comuni, di segreti, di racconti, di non detti, di malumori improvvisi. L’angolo scuro del giardino dietro la scuola, dove nessuno s’infilava giocando a nascondino, resta inavvicinabile per interi decenni: il fantasma che lo abita vive nei movimenti dei bambini più grandi, è incorporato nella geografia del luogo. Finché qualcuno, superando la paura, non andrà a vedere, o finché una ruspa non abbatterà l’albero insieme all’ombra che esso gettava. I fatti, naturalmente, possono essere gravi ad libitum. I figli e i nipoti di coloro che hanno subito violenze intenzionali – deportazione, tortura, espropriazione, schiavitù, abuso sessuale ecc. – manifestano forme secondarie di traumatismo, ereditato per vie complesse dalla prima generazione, che si presentano come sofferenza, impossibilità della presenza e anche, di nuovo, come violenza, spesso di tipo autodistruttivo121. La psicopatologia legata alle violenze collettive ci insegna che tutte le imprese di deculturazione inducono inevitabilmente violenza. Presto o tardi si assiste a un effetto boomerang. Il rimbalzo può essere immediato ma, più spesso, è tardivo e transgenerazionale. Può essere diretto contro gli altri, individui o culture, oppure ritorto contro se stessi122.
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Detto altrimenti: la violenza intenzionale ha effetti a lungo termine sui collettivi e sui singoli che a tali collettivi appartengono. Ampiamente utilizzato negli studi sulla psicologia postcoloniale degli indiani americani, il concetto di trauma storico ha permesso di riaprire la dimensione politica di questioni che, a lungo, erano state considerate come personali o tutt’al più etniche. Ma c’è un’altra domanda che ci si può porre: se la violenza intenzionale lascia tracce non solo su chi la subisce, ma anche sulle generazioni seguenti, che tipo di traccia lascia quella stessa violenza su chi la compie e sui suoi discendenti? Fra gli effetti a lungo termine della violenza c’è anche quello di legare chi la compie e chi la subisce. Abbiamo visto sopra come la propensione moderna a occuparsi solo di sé, in dissociazione dal destino del prossimo, possa essere letta come conseguenza della violenza (originaria e continua) dell’accumulazione. Quali altri effetti meno eclatanti può aver avuto questa ristrutturazione del mondo su coloro che l’hanno compiuta, trasformando innanzitutto se stessi in moderni? Effetti che magari si manifestano come tristezza, senso di perdita, malinconia; come ricerca di una scarica che riempia il vuoto; come non vissuto. Lo spleen del pensiero utopico-rivoluzionario viene da qui: chi è in grado di vedere i fantasmi che la modernità ha prodotto sa che non ci saranno domani che cantano senza dar loro ciò che loro spetta: perché questi fantasmi sono i nostri, la parte più intima di noi, tutte quelle piste di vita che sono state imprigionate e messe a servizio del regime del plusvalore. Dacché i fantasmi della modernità sono intere legioni, il lavoro sarà lungo. E indispensabile: forse è inevitabile che i mondi umani producano, nel loro incedere, un certo tasso di violenza e che questo, a sua volta, produca fantasmi; ma se anche fosse così, c’è modo e modo di entrare in relazione con questi enti e il rapporto che ciascun mondo umano stabilisce con questa parte incerta e smarginata del reale ha conseguenze decisive. I collettivi che sanno onorare ciò che è stato escluso e restano in contatto con le forze dell’altrimenti hanno molte più chances di essere vivibili. Qui Gordon propone un’indicazione operativa semplicissima e dirompente. Per come lo intendo, il fantasma non è l’invisibile o un qualche altro eccesso ineffabile. Tutta l’essenza – se si può usare questa parola – di un fantasma sta nel fatto che ha una presenza reale e richiede ciò che gli è dovuto: la tua attenzione. Lo haunting, con l’apparizione di spettri e fantasmi, è uno dei modi […] in cui veniamo a sapere che ciò che è stato nascosto è ancora ben vivo e presente, e interferisce appunto con le forme, sempre incomplete, di contenimento e repressione a cui incessantemente siamo sottoposti. Lo haunting è un’esperienza terrorizzante. Esso registra il male inflitto da una violenza sociale perpetrata nel passato o nel presente, segnala le perdite subite. Ma, a differenza del trauma, lo haunting è caratterizzato dal fatto di produrre “qualcosa-che-si-deve-fare”. Mi pareva in effetti che lo haunting fosse proprio quella zona di subbuglio e di disordine, quel momento (anche di lunga durata) in cui le cose non si trovano nel posto a esse assegnato, quando le crepe e i trucchi si mostrano, quando le persone che dovrebbero essere invisibili appaiono e non danno cenno di andarsene, quando non si può zittire il turbamento dei sentimenti, quando sembra che qualcos’altro, qualcosa di diverso da prima, debba essere fatto. È a questo stato sociopolitico e psicologico che lo haunting faceva riferimento123.
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Il fantasma reclama quel che gli è dovuto. Ancor più: il fantasma è la rivelazione stessa che “c’è da fare qualcosa”, qualcosa che non sapevamo fosse da fare. Come si comincia a fare questo qualcosa? Come si negozia con i morti della «tempesta che chiamiamo progresso»? Alcuni non esiterebbero a chiamarla meditazione; altri, come Simone Weil, la chiamano semplicemente attenzione: L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità. A pochissimi spiriti è dato scoprire che le cose e gli esseri esistono. […] È questo, ai miei occhi, l’unico fondamento legittimo di ogni morale; le cattive azioni sono quelle che velano la realtà delle cose e degli esseri oppure quelle che assolutamente non commetteremmo mai se sapessimo veramente che le cose e gli esseri esistono124.
La prima cosa è dunque fare attenzione ai fantasmi: non scappare, non negarli, non dimenticarli, non chiudere gli occhi. Non ottundere quello che ci fanno sentire. Ammettere che la loro figura sociale dice, dei nostri tempi, cose che non possono essere dette in altra maniera. Arrivare fino in fondo a quello che hanno da dire. L’attenzione ai fantasmi è attenzione a noi stessi: ai segni che i nostri tempi, la nostra storia, i corpi che abbiamo attraversato e che ci hanno transitati, hanno lasciato su di noi. Significa permettersi di sentire come i luoghi, le parole casuali, i gesti occasionali s’imprimono in noi; come gli eventi si stampano sui luoghi; come lavorino la memoria, il lutto, l’utopia. Parlare coi fantasmi significa conoscere il mondo in un’altra maniera, uscire dalla presunzione di superiorità che caratterizza la cosmovisione moderna: La via del fantasma è lo haunting, e lo haunting è un modo assai particolare di conoscere quel che è successo o che sta succedendo. Stare nello haunting ci trascina affettivamente, a volte controvoglia e sempre in modo un po’ magico, nella struttura di sentimento di una realtà che arriviamo a esperire non più come fredda conoscenza, ma come riconoscimento trasformativo125.
Si fa difficile squalificare le conoscenze di tipo non logico-discorsive nel momento in cui le si vive come esperienza irriducibile del mondo. È possibile che questo passaggio sia, per molti di noi, estremamente faticoso, a volte terrorizzante. Se serve, possiamo aggrapparci all’empirismo radicale di William James e al profondo realismo che lo anima: nient’altro che l’esperienza, va bene, ma allora tutta l’esperienza. Per essere radicale, un empirismo non deve né ammettere nelle sue costruzioni alcun elemento che non sia direttamente sperimentato, né escludere da esse alcun elemento che sia direttamente sperimentato. Per una simile filosofia, le relazioni che connettono le esperienze devono esse stesse essere state sperimentate, e qualsiasi tipo di relazione sperimentata dev’essere computata come tanto “reale” quanto qualsiasi altro elemento del sistema126.
Se abbiamo sperimentato l’haunting, allora l’haunting andrà computato come uno stato reale del mondo. C’è da chiedersi, peraltro, se la conoscenza solo intellettuale e discorsiva che privilegiamo non sia una maniera sofisticata per disattivare ogni relazione operativa fra quel che sappiamo (per averlo sperimentato, patito e goduto) e la possibilità di modificare lo stato del mondo.
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Seguire i fantasmi significa stabilire un contatto che ti cambia e ristruttura le relazioni sociali nelle quali sei preso. Significa rimettere vita dove solo una vaga memoria o una traccia spoglia erano ancora visibili a chi si prendeva la briga di guardare. A volte significa scrivere storie di fantasmi, storie che non solo aggiustano gli errori di rappresentazione, ma cercano anche di capire le condizioni in cui una memoria è stata innanzitutto prodotta, in vista di una contro-memoria per il futuro127.
Non siamo completamente sprovveduti: in qualche zona del nostro mondo sono stati sperimentati modi intelligenti di relazione con lo haunting. Nella letteratura e nell’arte, soprattutto, che gli ultimi due secoli hanno cercato di relegare nei musei; l’antropologia ne sa qualcosa mentre la psicoanalisi ha molto da dire in merito, ed è un peccato che la portata politica del suo discorso finisca quasi sempre gettata alle ortiche. Poi servirà inventiva. Il fantasma mostra quel che è stato e che non si deve vedere, ma anche quel che nel passato non è stato e avrebbe potuto essere. Nonché ciò che nel presente potrebbe essere e che continuamente, attivamente e violentemente, viene impedito. Rivela gli effetti spiccioli del dominio, gli innumerevoli rivoli di violenza in cui si frange l’onda iniziale. Ma la sua stessa presenza sospesa, malinconica, dice che in un altro corso del tempo, fatto diversamente, la vita si sarebbe declinata (e si declinerà) altrimenti. Lo spettro di una ferita è anche lo spettro di una guarigione possibile: Stare nello haunting in nome di una volontà di guarigione significa lasciare che il fantasma ci aiuti a immaginare ciò che è andato perduto senza essere mai davvero esistito. Questa è la sua grazia utopica: incoraggia un rimpianto d’acciaio, temperato dalla delizia per ciò che abbiamo perso senza mai averlo avuto; ci fa desiderare l’intuizione dell’istante in cui, come nell’illuminazione profana di Benjamin, riconosceremo che poteva, e può, andare altrimenti128.
Apre a quella possibilità che il nostro mondo, lungo l’intera sua storia, ha cercato con ogni mezzo di sopprimere: quella del molteplice, della compresenza di modi diversi di essere e fare umanità, di una miriade di piste di conoscenza, di tempi differenti. Lo haunting è uno straniamento che ripara la dissociazione, al contempo perturbante e illuminazione profana. R. Calasso (1975), Déesses entretenues, in Id., I quarantanove gradini, Adelphi, Milano 1991, p. 259. Sulla mistificazione come strategia di dominio R. Barthes (1957), Miti d’oggi, Einaudi, Torino 1994 è ancora illuminante. 3 P. Pignarre, I. Stengers (2004), Stregoneria capitalista. Pratiche di uscita dal sortilegio, IPOC, Milano 2016, p. 48. 4 Sulla teologia del capitale a partire da W. Benjamin (1921), Capitalismo come religione, Il Melangolo, Genova 2013, cfr. M. Pezzella, Insorgenze, Jaca Book, Milano 2014 e E. Stimilli, Debito e colpa, Ediesse, Roma 2015. 5 Il tema della Darstellung in Marx è legato a doppia mandata alla possibilità di costruire una “macchina per vedere”: L. Althusser, É. Balibar (1968), Leggere Il capitale, Feltrinelli, Milano 1971; P. D’Alessandro, Darstellung e soggettività. Saggio su Althusser, La Nuova Italia, Firenze 1980. 6 Sulle condizioni di sopravvivenza nella contemporaneità, M. Fisher (2007), Realismo capitalista, Nero, Roma 2018; B.-C. Han (2014), Psicopolitica. Il neoliberalismo e le nuove tecniche del potere, Nottetempo, Roma 2016; B.-C. Han (2016), L’espulsione dell’Altro, Nottetempo, Roma 2017; Z. Steel et al., The global prevalence of common mental disorders: a systematic review and meta-analysis 1980-2013, in «International Journal of Epidemiology», 43 (2) (2014), pp. 476-493; G. Monbiot, Esiste una cosa chiamata società, in «The Guardian», 12/10/2016. 7 «Lundi matin», 1/12/2015. 1 2
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Per un’interpretazione abissale e illuminante della compresenza, sullo stesso terreno e nello stesso tempo, di istanze radicalmente differenti di “modernità” si veda senz’altro L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, monumentale opera in sei volumi curata da Pier Paolo Poggio (il quinto volume non è ancora stato pubblicato). 9 David Graeber, ad esempio, argomenta da par suo l’origine non moderna della democrazia: D. Graeber (2004), Frammenti di antropologia anarchica, Elèuthera, Milano 2011 e Id. (2007), Critica della democrazia occidentale, Elèuthera, Milano 2012. 10 Sulla collusione fra marxismi novecenteschi e capitalismo, P.P Poggio, Tecnica e natura: contro il destino della crisi, in M. Cappitti, M. Pezzella, P.P. Poggio (a cura di), L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. VI, Alle frontiere del capitale, Jaca Book, Milano 2018, pp. 3-18. 11 M. Taussig, History as sorcery, in «Representations», 7 (1984), p. 89. 12 M. Löwy, R. Sayre (1992), Révolte et mélancolie. Le romantisme à contre-courant de la modernité, Payot, Paris 1992, pp. 297-298. 13 P. Lacoue-Labarthe, J.-L. Nancy, L’absolu littéraire. Théorie de la littérature du romantisme allemande, Seuil, Paris 1978, p. 26. 14 La natura storica dell’immaginario alla base di ciascun mondo umano ha qualcosa a che fare con la successione di epistemi di cui ha scritto Foucault; cfr. in particolare M. Foucault (1966), Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967 e Id. (1969), L’archeologia del sapere, Rizzoli, Milano 1999. 15 F. Sironi, Comment devient-on tortionnaire? Psychologie des criminels contre l’humanité, La Découverte, Paris 2017, p. 595. 16 L’emergere di un nuovo paradigma scientifico, che non separa più i fatti dai valori, è descritto in I. Stengers, Pour en finir avec la tolérance. Cosmopolitiques VII , La Découverte / Les Empêcheurs de penser en ronde, Paris 1997. Imprescindibili per tutto questo paragrafo sono G. Simondon (1964), L’individuation à la lumière des notions de forme et d’information, Millon, Grenoble 2005 e E. Melandri (1968), La linea e il circolo. Studio logico-filosofico sull’analogia, Quodlibet, Macerata 2004. 17 La messa in forma bioculturale degli umani è trattata in T.J. Csordas, Embodiment as a Paradigm for Anthropology, in «Ethos», 18 (1) (1990), pp. 5-47; C. McCallum, The body that knows. From Cashinahua epistemology to a medical anthropology of Lowland South America, in «Medical Anthropology Quarterly», New Series, 10 (3) (1996), pp. 347-372; F. Remotti (a cura di), Forme di umanità, Bruno Mondadori, Milano 2002; P. Coppo, Tra psiche e culture. Elementi di etnopsichiatria, Bollati Boringhieri, Torino 2003; T. Ingold, G. Pallson (a cura di), Biosocial Becomings. Integrating Social and Biological Anthropology, Cambridge University Press, Cambridge 2013; S. Consigliere, Antropo-logiche. Mondi e modi dell’umano, Colibrì, Paderno Dugnano (Mi) 2014. 18 K.O.L. Burridge, Mambu. A Melanesian Millennium, Methuen & Co., London 1960 e R. Bastide (1975), Il sacro selvaggio, Jaca Book, Milano 2010. Piste non ireniche di reincanto del mondo si trovano in W. Benjamin (1928), Il surrealismo, in Id., Ombre corte. Scritti 1928-1929, Einaudi, Torino 1993, pp. 253-268; in M. Löwy, R. Sayre, Révolte et mélancolie, cit.; in M. Taussig, Shamanism, Colonialism and the Wild Man. A Study in Terror and Healing, University of Chicago Press, Chicago 1987. 19 S. Žižek (1989), L’oggetto sublime dell’ideologia, Ponte alle Grazie, Milano 2014, p. 57. 20 Il ciclo D-M-D’ è un luogo classico del Capitale: si trova nel Libro I, cap. 4. 21 S. Toulmin, Cosmopolis. The Hidden Agenda of Modernity, Free Press, New York 1990, p. 182. La rivoluzione scientifica prende un aspetto meno ieratico, e molto più comprensibile, anche in I. Prigogine, I. Stengers, La nouvelle alliance, Gallimard, Paris 1979. 22 La grande pensatrice dell’atteggiamento squalificante della modernità scientifica è Isabelle Stengers: I. Stengers (1994), La Grande partizione, in «I Fogli di ORISS», 29-30 (2008), pp. 47-61; Ead., La vierge et le neutrino. Les scientifiques dans la tourmente, Les Empêcheurs de penser en rond, Paris 2006. 23 Oltre agli autori citati nel testo, le origini della modernità sono trattate, secondo luci differenti, anche in E. Melandri, La linea e il circolo, cit. e C. Sini, Del viver bene. Filosofia ed economia, Jaca Book, Milano 2011. 24 S. Toulmin, Cosmopolis, cit., p. 68. 25 M. Rahnema, J. Robert (2008), La potenza dei poveri, Jaca Book, Milano 2010, p. 59. 26 Il cupio dissolvi è interpretato da Freud come pulsione di morte: S. Freud (1920), Al di là del principio di piacere, in Id., Opere. Vol. 9. 1917-1923. L’Io e l’Es e altri scritti, Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 187-249; il limite della sua analisi sta nella naturalizzazione di un fenomeno storico. 27 M. Tarì, Non esiste la rivoluzione infelice. Il comunismo della destituzione, DeriveApprodi, Roma 2017, p. 82. 28 M. Horkheimer, T.W. Adorno (1944), Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 32.
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Una buona analisi storica della stregoneria europea si trova in N. Cohn (1975), I demoni dentro. Le origini del sabba e la grande caccia alle streghe, Unicopli, Milano 1994. 30 L. Parinetto, Streghe e potere. Il capitale e la persecuzione dei diversi, Rusconi, Milano 1998, p. 21. Au29
tore di riferimento per i temi di questo paragrafo e di quello seguente, l’intera sua opera andrebbe infine riscoperta: oltre a Streghe e potere, cfr. anche L. Parinetto (1989), Faust e Marx, Mimesis, Milano-Udine 2004; Id., Marx e l’alchimia: per una lettura non convenzionale. Intervista a Luciano Parinetto a cura di Carlo Amore, in «La balena bianca» I (1) (1990), pp. 63-68. 31 Sul rapporto fra gli umanisti e la magia, cfr. soprattutto la prima parte di L. Parinetto, Streghe e potere, cit. 32 Utile per approssimare i fenomeni in questione è anche M. de Certeau (1970), La possession de Loudun, Gallimard-Julliard, Paris 1980. 33 La struttura socio-psicologica del capro espiatorio è descritta in R. Girard (1972), La violenza e il sacro, Adelphi, Milano 1992; le conclusioni dell’autore sulla superiorità del cristianesimo, tuttavia, sono per chi scrive irricevibili. 34 F. Jesi (1979), Cultura di destra, Nottetempo, Roma 2011, p. 81. 35 J. Derrida (1993), Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994, p. 63. 36 J.-K. Huysmans (1891), Là-bas, Garnier-Flammarion, Paris 1978, p. 43. 37 Un buon numero di testi recenti permettono una riappropriazione non ingenua di Marx: M. Abensour (2004), La democrazia contro lo Stato. Marx e il momento machiavelliano, Cronopio, Napoli 2008; R. Finelli, Un parricidio mancato. Hegel e il giovane Marx, Bollati Boringhieri, Torino 2004 e Id., Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Jaca Book, Milano 2014; M. Musto, L’ultimo Marx 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale, Donzelli, Roma 2016. 38 K. Marx (1867), La cosiddetta accumulazione originaria, in Id., Il Capitale. Critica dell’economia economica, vol. I, cap. XXIV, Editori Riuniti, Roma 1994, p. 778. 39 M. Rahnema, J. Robert, La potenza dei poveri, cit., p. 190. 40 La dialettica miseria-ricchezza è analizzata in K. Polanyi (1944), La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974; M. Sahlins (1972), L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980; I. Illich (2005), I fiumi a nord del futuro. Testamento raccolto da David Cayley, Quodlibet, Macerata 2009. 41 M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra, cit., pp. 13-14. 42 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit., p. 210. 43 Sulla società disciplinare, ancora i testi classici di Foucault: M. Foucault (1975), Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 1993; “Il faut défendre la société”. Cours au Collège de France, 1976, Gallimard-Seuil, Paris 1997; Naissance de la biopolitique. Cours au Collège de France, 1978-1979, Gallimard-Seuil, Paris 2004. 44 L’espressione è nata nel contesto della psicologia geopolitica clinica: F. Sironi, Psychopathologie des violences collectives, Odile Jacob, Paris 2007; Id., Comment devient-on tortionnaire?, cit. 45 F. Sironi, Comment devient-on tortionnaire?, cit., p. 282. 46 Sulle relazioni fra capitale, corpo, generi c’è un filone estremamente interessante di contro-storia femminista: M. Mies, Patriarchy and Accumulation on a World Scale, Zed Books, London-New York 1986; S. Federici (2003), Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l’accumulazione originaria, Mimesis, MilanoUdine 2015. 47 S. Federici, Calibano e la strega, cit., pp. 63-64. 48 M. Löwy, R. Sayre, Révolte et mélancolie, cit., p. 120. 49 Un’eccellente analisi del contesto mondiale in cui il capitale prende forma si trova in C.J. Robinson (1983), Black Marxism. The Making of the Black Radical Tradition, The University of North Carolina Press, Chapel Hill-London 2000. Cfr. anche, per la dinamica “noi-altro”, T. Todorov (1982), La conquista dell’America: il problema dell’“altro”, Einaudi, Torino 1984. 50 S.W. Mintz (1985), Storia dello zucchero. Tra politica e cultura, Einaudi, Torino 1990, pp. 49-52. 51 L. Vasapollo, H. Jaffe, H. Galarza, Introduzione alla storia e alla logica dell’imperialismo, Jaca Book, Milano 2005, p. 26. 52 E.J. Hobsbawm (1987), L’Età degli imperi (1875-1914), Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 59-60. 53 Il computo è proposto in L. Vasapollo, H. Jaffe, H. Galarza, Introduzione alla storia e alla logica dell’imperialismo, cit. 54 V. Lal, A. Nandy, The Future of Knowledge and Culture. A Dictionary for the 21st Century, VikingPenguin, New Dehli 2005, p. XXI.
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H. Arendt (1966), Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Torino 1999. A. Césaire (1950), Discorso sul colonialismo, Ombre corte, Verona 2010; F. Fanon (1952), Pelle nera maschere bianche, Marco Tropea Editore, Milano 1996 e Id. (1961), I dannati della terra, Einaudi, Torino 2000. Per provare a sentire il colonialismo, E. Galeano (1982), Memoria del fuoco, Rizzoli, Milano 2005. 57 Sull’interpretazione classica della stregoneria come mezzo di mantenimento dell’uguaglianza sociale E. Evans-Pritchard (1937), Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande, Raffaello Cortina, Milano 2002; M. Douglas (1970), Introduzione. Trent’anni dopo «Witchcraft, Oracles and Magic», in Id. (a cura di), La stregoneria. Confessioni e accuse nell’analisi di storici e antropologi, Einaudi, Torino 1980, pp. 3-31; P. Geschiere (1995), The Modernity of Witchcraft. Politics and the Occult in Postcolonial Africa, University Press of Virginia, Charlottesville-London 1997. 58 La connessione fra stregoneria e modernità è analizzata in M. Taussig (1980), Il diavolo e il feticismo della merce. Antropologia dell’alienazione nel «patto col diavolo», DeriveApprodi, Roma 2017; Id., Shamanism, Colonialism and the Wild Man, cit.; J. Comaroff, J. Comaroff, Introduction, in Modernity and Its Malcontents. Ritual and Power in Postcolonial Africa, The University of Chicago Press, Chicago 1993, pp. XI-XX X VII; J. Comaroff, J. Comaroff, Occult Economies and the Violence of Abstraction. Notes from the South African Postcolony, in «American Ethnologist», 26 (2) (1999), pp. 279-303 e in P. Geschiere, The Modernity of Witchcraft, cit.; Id., Sorcellerie et modernité: retour sur une étrange complicité, in «Politique africaine», 3 (79) (2000), pp. 17-32; Id., Regard académique, sorcellerie et schizophrénie (commentaire), in «Annales. Histoire, Sciences Sociales», 56 (3) (2001), pp. 643-649. 59 P. Geschiere, The State, Witchcraft and the Limits of the Law – Cameroon and South Africa, in E. de Rosny (a cura di), Justice et sorcellerie. Colloque international de Yaoundé (17-19 mars 2005), Karthala, Paris / Presses de l’UCAC, Yaoundé 2006, pp. 87-120, p. 91. 60 I difficili rapporti fra stregoneria e apparati di giustizia sono trattati in P. Geschiere, Sorcellerie et modernité, cit.; E. de Rosny, Justice et sorcellerie, cit.; K. Ramsey, The Spirits and the Law. Vodou and Power in Haiti, The University of Chicago Press, Chicago 2011. 61 Un’altra presunta “tradizione immemore” – quella delle caste indiane – è analizzata e smontata in N.B. Dirks, Castes of Mind, in «Representations», 37 (1992), Special Issue: Imperial Fantasies and Postcolonial Histories, pp. 56-78. 62 J. Comaroff, J. Comaroff, Introduction, cit., p. XXX. 63 M. Taussig, Il diavolo e il feticismo della merce, cit., p. 163. 64 M. Taussig, Il sole dà senza mai ricevere: una reinterpretazione delle storie sul diavolo, in Id., Il diavolo e il feticismo della merce, cit., pp. 294-295. 65 M. Taussig, Il diavolo e il feticismo della merce, cit., pp. 134 e 162-162. 66 R. Shaw, The Production of Witchcraft/Witchcraft as Production. Memory, Modernity, and the Slave Trade in Sierra Leone, in «American Ethnologist» 24 (4) (1997), pp. 856-857. 67 Ibid., p. 857. 68 R.A. Austen, The Moral Economy of Witchcraft: An Essay in Comparative History, in J. Comaroff, J. Comaroff (a cura di), Modernity and its Malcontents, cit., p. 92. 69 R. Shaw, The Production of Witchcraft/Witchcraft as Production, cit., p. 868. 70 L. Parinetto, Streghe e potere, cit., p. 269. 71 Ancora sulla stregoneria in contesto etnografico, J.-P. Chaumeil, Voir, savoir, pouvoir. Le chamanisme chez les Yagua de l’Amazonie péruvienne, Georg, Génève 2000; B. Kapferer (a cura di), Beyond Rationalism: Rethinking Magic, Witchcraft and Sorcery, Berghahn Books, New York 2002, pp. 1-30; N.L. Whitehead, R. Wright (a cura di), In Darkness and Secrecy: The Anthropology of Assault Sorcery and Witchcraft in Amazonia, The Duke Press, Durham-London 2004; P. Coppo, Negoziare con il male. Stregoneria e controstregoneria dogon, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 72 I. Kershaw (1991), Hitler e l’enigma del consenso, Laterza, Roma-Bari 2000, p. 137. 73 M. Taussig, Shamanism, Colonialism and the Wild Man, cit., p. 5. Cuore di tenebra di Joseph Conrad è una pioneristica descrizione letteraria di uno spazio della morte, da affiancare alla sua trasposizione filmica in Apocalypse Now di Coppola. 74 Ottimi strumenti per pensare questa forma di impensabile sono S. Forti (a cura di), La filosofia di fronte all’estremo. Totalitarismo e riflessione filosofica, Einaudi, Torino 2004; S. Forti, M. Revelli (a cura di), Paranoia e politica, Bollati Boringhieri, Torino 2007; M. Recalcati (a cura di), Forme contemporanee del totalitarismo, Bollati Boringhieri, Torino 2007. 75 A. Gordon, Ghostly Matters. Haunting and the Sociological Imagination, University of Minneesota Press, Minneapolis 1997, p. 79. 76 H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 628. 55 56
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Per l’Italia, un’officina di smontaggio delle narrazioni tossiche dei nostri giorni è «Giap», il blog di Wu Ming (https://www.wumingfoundation.com/giap/ – ultimo accesso febbraio 2019); un ottimo esempio è poi anche D. Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Nottetempo, Roma 2014. 78 F. Sironi, Comment devient-on tortionnaire?, cit., p. 9. 79 H. Arendt, Le Système totalitaire, p. 197, cit. in F. Sironi, Comment devient-on tortionnaire?, cit., pp. 567-568. 80 Sulla particolare logica degli spazi di morte, e sul modo in cui legano carnefici e vittime in uno stesso orizzonte di assurdo, G. Sereny (1974), In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1975; M. Taussig, Shamanism, Colonialism and the Wild Man, cit.; C.R. Browning (1992), Uomini comuni. Polizia tedesca e “soluzione finale” in Polonia, Einaudi, Torino 1995; F. Sironi (1999), Persecutori e vittime. Strategie di violenza, Feltrinelli, Milano 2001. 81 A. Gordon, Ghostly Matters, cit., p. 79. La testimonianza impossibile è oggetto di riflessione da parte dei sopravvissuti ai campi: cfr. soprattutto Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati di Primo Levi e G. Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995. 82 M. Taussig, Shamanism, Colonialism and the Wild Man, cit., p. 121. 83 Il testo di riferimento per tutto questo paragrafo è S. Mezzadra, Attualità della preistoria. Per una rilettura del capitolo 24 del primo libro del Capitale, «La cosiddetta accumulazione originaria», in Id., La condizione postcoloniale. Storia e politica nel presente globale, Ombre corte, Verona 2008. 84 «Midnight notes» n. 10, pp. 1 e 3, cit. in S. Mezzadra, Attualità della preistoria, cit. 85 S. Federici, Calibano e la strega, cit., pp. 12-13. 86 F. Berardi, Lavoro bunkerizzato e necro-lavoro: note sulla composizione di classe globale, http://commonware.org/index.php/neetwork/517-lavoro-bunkerizzato (2014 – ultimo accesso febbraio 2019). 87 F. Mastrogiovanni, Ni vivos ni muertos. La sparizione forzata in Messico come strategia del terrore, DeriveApprodi, Roma 2015, p. 26. 88 L. Rastello, La frontiera addosso. Così si deportano i diritti umani, Laterza, Roma-Bari 2010. 89 A.L. Tsing, Friction: An Ethnography of Global Connection, Princeton University Press, Princeton 2005, tratta del dispositivo savage/salvage ma l’intera sua opera è un ottimo esempio di “ragionamento sul limite” – dove il limite è, ancora una volta, quello imposto dalla catastrofe: cfr. Id., The Mushroom at the End of the World. On the Possibility of Life in Capitalist Ruins, Princeton University Press, Princeton 2015. 90 S. Mezzadra, Attualità della preistoria, cit., p. 2. 91 Sul Messico come esempio di accumulazione primitiva in corso d’opera S. González Rodríguez (2002), Ossa nel deserto, Adelphi, Milano 2006 e F. Mastrogiovanni, Ni vivos ni muertos, cit. 92 P. Pignarre, I. Stengers, Stregoneria capitalista, cit., pp. 52-53. 93 La teoria degli attaccamenti, al plurale, si trova in B. Latour (2000), Fatture/fratture: dalla nozione di rete a quella di attaccamento, in «I Fogli di ORISS», 25 (2006), pp. 11-32; T. Nathan (2001), Non siamo soli al mondo, Bollati Boringhieri, Torino 2003; si può integrare con M. Sahlins (2013), La parentela. Cos’è e cosa non è, Elèuthera, Milano 2015, per un caso specifico ed estremamente potente: quello della parentela. 94 G. Devereux (1965), La schizofrenia, psicosi etnica o la schizofrenia senza lacrime, in Id., Saggi di etnopsichiatria generale, Armando Editore, Roma 2007, pp. 245-268. 95 M. Benasayag (2015), Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa, Feltrinelli, Milano 2016, p. 23. 96 Sulla costruzione del soggetto nella contemporaneità, M. Benasayag (1998), Le mythe de l’individu, La Découverte, Paris 2004; P. Dardot, C. Laval, La nouvelle raison du monde. Essai sur la société néolibérale, La Découverte, Paris 2010; J. Crary, 24/7. Late Capitalism and the Ends of Sleep, Verso, New York 2013; D. Balicco, La fine del mondo. Capitalismo e mutazione, http://www.sinistrainrete.info/societa/6362-daniele-balicco-la-fine-del-mondo-capitalismo (2015 – ultimo accesso febbraio 2019); R. Curcio, L’impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, Sensibili alle foglie, Roma 2015; G. Eisenberg, Zwischen Amok und Alzheimer: Zur Sozialpsychologie des entfesselten Kapitalismus, Brandes & Apsel Verlag, Frankfurt am Main 2015. 97 S.W. Mintz, Storia dello zucchero, cit., p. 172 e p. 183. 98 Ibid., p. 189. 99 S. Federici, Calibano e la strega, cit., pp. 103-104. 100 M. Rahnema, J. Robert, La potenza dei poveri, cit., p. 88. 101 Un’ottima analisi dell’impero della pornografia è sviluppata in P.B. Preciado (2008), Testo tossico. Sesso, droghe e biopolitiche nell’era farmacopornografica, Fandango, Roma 2015, che tuttavia impiega un
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vocabolario reattivo piuttosto disagevole (che rischia, peraltro, di essere collusivo col sistema pornografico stesso); sulla dipendenza dal sesso prestazionale si veda poi Shame, del regista Steve McQueen; B.-C. Han (2012), Eros in agonia, Nottetempo, Roma 2013 argomenta la distanza abissale di queste pratiche coattive dall’erotismo, mentre la sacralità del piacere è trattata in R. Eisler (1996), Il piacere è sacro. Il piacere e la sacralità del corpo dalla preistoria a oggi, Forum, Udine 2012. 102 I meccanismi della colonizzazione pulsionale dei soggetti sono ben descritti in un certo numero di testi recenti, fra cui B.-C. Han, Psicopolitica, cit.; P. Bartolini, La vocazione terapeutica della filosofia. Cura del senso e critica radicale, Mimesis, Milano-Udine 2016; L. Demichelis, La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, Jaca Book, Milano 2018 – e nel secondo capitolo di questo libro. J. Baschet, Défaire la tyrannie du présent. Temporalités émergentes et futurs inédits, La Découverte, Paris 2018 analizza la temporalità moderna incentrata su un “eterno presente” come dispositivo del dominio capitalista. 103 M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, cit., p. 32. 104 D. Balicco, Nostalgia dell’iniziazione. Su alcuni consumi simbolici di massa, in M. Cappitti, M. Pezzella, P.P. Poggio (a cura di), L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. VI, Alle frontiere del capitale, cit., p. 164. 105 La crescita esponenziale del disagio psichico fra i più giovani è trattata scientificamente in D. Campbell, S. Marsh, Quarter of a million children receiving mental health care in England, in «The Guardian» 3/12/2016, ma si veda anche G. Monbiot, Esiste una cosa chiamata società, cit. 106 D. Danowski, E. Viveiros De Castro (2014), Esiste un mondo a venire? Saggio sulle paure della fine, Nottetempo, Roma 2017, pp. 201-202. 107 E. de Rosny, Les yeux de ma chèvre. Sur le pas des maîtres de la nuit en pays douala (Cameroun), Plon, Paris 1981, p. 338. 108 Ibid., p. 339. 109 Ibid., p. 340. 110 Ibid., pp. 354-355. 111 Il seguito dell’avventura del gesuita-guaritore è raccontato in E. de Rosny, La nuit, les yeux ouvert, Seuil, Paris 1996. 112 Si tratta della celebre teoria sviluppata da René Girard in La violenza e il sacro, cit. (cfr. supra p. 36, nota 33). 113 E. de Rosny, Les yeux de ma chèvre, cit., p. 362. 114 G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, in Id., Nudità, Nottetempo, Roma 2008, pp. 24-25. 115 Sulla continuità fra totalitarismo ed epoca contemporanea, Z. Bauman (1989), Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna 1992; G. Agamben, Homo sacer, cit.; Id., Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino 1996; P. Di Vittorio, A. Manna, E. Mastropierro, A. Russo, L’uniforme e l’anima. Indagine sul vecchio e nuovo fascismo, Action30, Bari 2009. 116 Sulla relazione coi fantasmi si vedano anche S. Freud (1919), Il perturbante, in Id., Opere. Vol. 9. 1917-1923. L’Io e l’Es e altri scritti, cit., pp. 77-118: A. Le Brun, Les châteaux de la subversion, J.J. Pauvert aux Éditions Garnier, Paris 1982: M. Löwy, R. Sayre, Révolte et mélancolie, cit.; poi, naturalmente, la letteratura: i romanzi gotici, i Racconti di fantasmi di Henry James, Beloved di Toni Morrison. 117 A. Gordon, Ghostly Matters, cit., pp. 7-8. 118 Ibid., p. XVI. 119 Ibid., p. 24. 120 R. Williams, Marxism and Literature, Oxford University Press, Oxford 1977, pp. 130-131. 121 Il passaggio transgenerazionale del trauma è trattato in N. Abrahams, M. Torok, L’écorce et le noyau, Flammarion, Paris 1987; E. Duran, B. Duran, Native American Postcolonial Psychology, State University of New York Press, New York 1995; A.A. Schützenberger (1998), La sindrome degli antenati, Di Renzo Editore, Roma 2004; C. Grandsard, Juifs d’un côté. Portraits de descendants de mariages entre juifs et chrétiens, Les empêcheurs de penser en ronde, Paris 2005; G. Schwab, Haunting Legacies: Violent Histories and Transgenerational Trauma, Columbia University Press, New York 2010 e, per quanto riguarda interi gruppi, F. Sironi, Comment devient-on tortionnaire?, cit. 122 F. Sironi, Comment devient-on tortionnaire?, cit., p. 396. 123 A. Gordon, Ghostly Matters, cit., p. XVI. 124 S. Weil (1942), Lettera a Joe Bousquet, http://www.darsipace.it/2011/02/24/il-fondamento-legittimodi-ogni-morale-simone-weil/ (ultimo accesso febbraio 2019). 125 A. Gordon, Ghostly Matters, cit., p. 8.
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W. James (1912), Essays in Radical Empiricism, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1976, p. 22. 127 A. Gordon, Ghostly Matters, cit., p. 22. 128 Ibid., p. 57. 126
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SOGGETTIVITÀ E INDIVIDUAZIONE. PER UN PENSIERO EUTOPICO TRA FILOSOFIA E PSICOANALISI1 Paolo Bartolini
La fraternità (insieme riconoscimento della differenza e dell’essere comune con l’altro) è il limite necessario della libertà e una difesa contro un’uguaglianza fusionale e amorfa. […] Un mistico ha osato dire che un moscerino e un angelo hanno pari dignità al cospetto di Dio: purché Dio riconosca in questa eguaglianza la loro irripetibile e insostituibile singolarità. (Mario Pezzella) La biopolitica è la tecnica di governo della società disciplinare. Essa, però, non è affatto adeguata al regime neoliberale, che sfrutta soprattutto la psiche. […] Disturbi psichici come depressione e burnout sono espressione di una profonda crisi della libertà: sono indicatori patologici del fatto che spesso oggi essa si rovescia in costrizione. Il soggetto di prestazione, che si crede libero, è in realtà un servo: è un servo assoluto nella misura in cui sfrutta se stesso senza un padrone. (Byung-Chul Han) La fantasmagoria delle merci e l’incessante riproporsi degli stimoli che ingombrano la superficie dello spazio massmediatico e pubblicitario potrebbero dare, a un primo sguardo ingenuo, l’impressione di un inarrestabile moltiplicarsi delle opportunità di scelta, delle alternative comportamentali e di pensiero. Il molteplice, in altre parole, trionferebbe sulle pretese unificanti dei vecchi sistemi di organizzazione sociale, quelli autoritari e totalizzanti che hanno rivelato il loro volto di morte nella prima metà del Novecento. Questo suggerisce la narrazione neoliberale e “democratica”, da sempre attenta a coniugare il pervasivo controllo dei singoli e dei loro desideri con l’enfasi moderna sull’ampliarsi delle possibilità di vita, dei margini di libertà, delle vie autorealizzative percorribili da ciascuno2. Eppure, dietro lo smalto cangiante di queste promesse, tutte all’insegna del processo di autonomizzazione dell’individuo rispetto ai contesti di apparte69
nenza, rimane il nodo insoluto dei reali rapporti di forza che intercorrono tra l’Uno e i Molti (sul piano ontologico, ma anche su quello etico e politico). Contro ogni evidenza fittizia potremmo scoprire, ad esempio, che il culto della quantità, di ciò che è misurabile, contabilizzabile e soggetto a scambi contrattuali, ci consegna senza scampo al regno uniforme dell’utile. L’immaginario tecno-capitalista3, lungi dal generare opportunità concrete di individuazione e differenziazione per gli umani che si trovano immersi nella sua matrice traumatica, nasconde, sotto la scintillante retorica dell’originalità e del desiderio polimorfo, la vocazione a ridurre ogni esperienza vitale alla logica totalitaria del profitto e alla razionalità strumentale che la sostiene e diffonde. Tutto ruota intorno alla capacità del sistema di neutralizzare il dissenso e gli eventi creativi non assimilabili, al fine di ricondurre l’uno e gli altri nell’alveo omologante del processo di valorizzazione economica. La filosofia, che da sempre si interroga sulla relazione tra essere e divenire, sulla nostra possibilità di conoscere la realtà e di porci eticamente nei confronti di essa, viene dunque chiamata in causa dalla tendenza odierna a recludere prepotentemente l’esistenza singolare dentro schemi di comprensione e azione semplicistici, privi di spessore, unidimensionali. Per riportare alle dinamiche del plusvalore e all’equivalente generale del denaro la quasi interezza della vita umana, si è dovuta imporre nell’arco di alcuni secoli, con una particolare accelerazione nel corso degli ultimi decenni, un’idea di soggettività conforme alle esigenze delle classi dominanti. L’individualismo borghese, passato gradualmente dall’ascetismo intramondano di origine protestante alla liberazione delle pulsioni appropriative necessaria all’affermarsi del consumismo di massa, poggia, come ogni fenomeno, su basi ideologiche specifiche e storicamente determinate. Nella sua ultima mutazione il capitalismo ha dimostrato di essere in grado di forgiare in anticipo i desideri degli individui e renderli così tra sé uguali, imponendo modelli di comportamento e di esperienza validi per tutti e non negoziabili. […] Il capitale, nella testa dei suoi sudditi, pretende di costituire l’ultima parola della e sulla storia, non più un fenomeno storico, destinato, quindi, a svanire, ma piuttosto uno stato di fatto insuperabile, fuori dal tempo, con la medesima perentorietà dei fenomeni naturali e ancor meno scalfibile dall’azione umana. Ne deriva la colonizzazione del quotidiano e del nostro inconscio, dove si affollano parole e immagini, continuamente somministrate da ogni sorta di dispositivo. Naturalizzare l’esistente significa impedire l’irruzione del possibile, di ciò che può rinnovare la storia4.
Procedere a una disamina critica della soggettività contemporanea ci appare dunque indispensabile se vogliamo, in un’ottica psicopolitica, cogliere con esattezza i meccanismi di manipolazione che il potere utilizza al fine di plasmare umani arrendevoli, incapaci di ribellarsi e di prendere in mano il loro destino. Ne va di noi, della vita comune e della possibilità di ripensare da capo quei concetti filosofici e politici che fanno parte dei nostri attaccamenti culturali più qualificanti: universale, singolare, identità, libertà, dialogo, rivoluzione.
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1. Pensare il processo di individuazione In un’epoca “estrema” come la nostra, posta sulla soglia di una transizione storica e antropologica di portata globale, ci pare urgente sondare il legame, sottile e tenace, che tiene insieme pensiero filosofico, psicologie del profondo e critica sociale. L’emergere nelle scienze, nella filosofia e nella teoria politica di un paradigma della complessità sistemico e antiriduzionista5 denota l’urgenza di una nuova presa in cura della vita che, unendo conoscenza e premura, sapere e sapienza, possa permettere alle diverse culture umane non solo di dialogare fra loro, ma anche di individuare azioni concertate per resistere alla deriva del presente e promuovere inedite forme di giustizia sociale e ambientale. La sfida che ci attende è multidimensionale e ha risvolti ecologici, economici, politici e spirituali che chiedono di essere considerati insieme. Uno dei vettori che contraddistinguono il passaggio in corso è, sicuramente, il transito necessario dall’attuale iperconsumo delle risorse naturali e delle fonti energetiche non rinnovabili a una configurazione socioeconomica ecocompatibile6. Se invece volgiamo l’attenzione al piano intellettuale, al mondo delle idee e della conoscenza, osserviamo come il meccanicismo e l’atomismo epistemologico promossi dalla scienza moderna, pur mantenendo una posizione egemone nell’immaginario di massa, risultino sempre meno credibili e lascino il campo a concetti e pratiche incentrati sull’interdipendenza dei fenomeni studiati. A tutti i livelli del vivente l’interconnessione tra sistemi dinamici innesca cicli di feedback continui che coinvolgono gli organismi e i contesti naturali-culturali che li accolgono. Si registra quindi un interesse promettente, soprattutto nei segmenti più curiosi e sensibili della società, per le modalità concrete con le quali umani e non umani coevolvono insieme, in accoppiamento strutturale, inaugurando nuovi equilibri più o meno sostenibili7. Ciò non toglie il fatto che l’abitudine ad analizzare gli enti osservati secondo una logica scompositiva e specialistica, la fiducia nel potere come precondizione per dominare l’imprevedibilità della natura e controllarne i processi, e infine la tendenza a privilegiare l’astrazione razionale a danno della sensibilità e dell’intuizione, continuino ad affermarsi nello spazio pubblico nonostante gli anticorpi del pensiero complesso siano già in circolo da mezzo secolo. Questo non dovrebbe stupirci: più il mondo si rivela sfuggente, imprevedibile e dunque perturbante, più si consolidano reazioni dettate da una logica riduzionistica che punta a semplificare il caos e a imbrigliare la spinta indomita del divenire. L’essere umano, d’altronde, è creatura fragile che necessita di coesione e di regolarità ricorrenti per dare una forma provvisoria al processo della realtà e alla sua creatività inarrestabile. Sarebbe quindi vano, e in fondo controproducente, disconoscere l’universale bisogno, per noi tutti, di rintracciare delle coordinate di senso, collettive e individuali, capaci di attenuare l’angoscia e di
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rendere il mondo abitabile ritagliando in esso delle nicchie ecoculturali relativamente stabili. È per questo che ci pare interessante sollevare, per l’ennesima volta ma senza la pretesa di esaurirne la fecondità, la questione ineludibile del soggetto e del processo di individuazione che lo vede protagonista. Gli interrogativi che da tempo ci poniamo sono: come liberare il concetto di identità dalle sabbie mobili dell’identico8? È vero che la psiche e i fenomeni collettivi-culturali-politici sono facce di una stessa medaglia? Quale cosmovisione può maturare l’Occidente una volta che si sia compresa la debolezza costitutiva della religione e della scienza come fonti di senso ultimo per l’uomo contemporaneo9? E infine, quale etica per il futuro può aiutarci a trascendere la situazione drammatica in cui viviamo, quella che ha tradito il “sogno di una cosa” per sprofondarci nell’incubo delle cose? Sono domande impegnative, che non possono essere avvicinate senza avviare una riflessione approfondita sulla costruzione della soggettività umana. “Costruzione” perché la soggettività non va pensata come originaria e immutabile. Ciò che è all’origine, piuttosto, è la relazione. Non si viene al mondo completi, già fatti, perfettamente individuati. Sebbene nei primi mesi di vita siano già presenti alcune disposizioni biopsichiche innate, nonché la capacità di apprendere rapidamente dagli adulti, i bambini restano creature altamente potenziali, genericamente attrezzate per la socializzazione, ma totalmente incapaci di sopravvivere senza l’aiuto di altri membri della loro specie. L’essere umano è originariamente aperto, a lungo dipendente dalle cure dei suoi simili e destinato a scoprire se stesso partecipando a dinamiche familiari e sociali che ne plasmano ampiamente la personalità. Sbaglieremmo però se pensassimo il sé individuale come il risultato di una messa in forma, operata dal gruppo umano di appartenenza, che si effettua su una materia inerte, illimitatamente docile e manipolabile. Questa materia malleabile può infatti rivelarsi ostica e recalcitrante ad assumere determinate forme. L’educazione protratta, la disciplina imposta e le regole apprese vengono comunque filtrate da umani in via di sviluppo che sono portatori di particolarità e inclinazioni non completamente governabili. Crediamo che ciascuno di noi, grazie alla sua specifica eredità filogenetica, sia dotato di un nucleo di personalità unico e irripetibile, quello che lo psicoanalista Christopher Bollas chiama idioma: Bollas usa il termine idioma per far riferimento a questo nocciolo del Sé. Esattamente come la nostra impronta, costituisce parte della nostra identità dall’origine. Non possiamo modificarlo né perderlo, e nessun altro lo avrà mai. Questo “nucleo di logica” genera la particolare estetica che guida il nostro rapporto idiosincratico con il mondo: il modo in cui inconsciamente affrontiamo le nostre esperienze. […] Bollas descrive lo sviluppo dell’idioma nella primissima fase della vita. A questo stadio, la realtà del bambino è governata principalmente dal modo in cui l’ambiente circostante risponde a lui, e, in particolare, la capacità di sintonizzazione materna10.
La nostra unicità personale non va comunque pensata come qualcosa di sostanziale, separato e autosufficiente. Difendiamo piuttosto l’idea che l’espe72
rienza umana sia sempre quella di un sé-con-l’altro, identità relativa che si definisce solo per co-istituzione con le altre forme di vita che ad essa si relazionano. A ben vedere il concetto stesso di idioma comporta un fattore relazionale implicito: come potrebbe un individuo scoprire le coordinate effettive del suo «nucleo di logica» senza relazionarsi con i propri simili e con il mondo a cui prende parte? Bollas, a tal proposito, sottolinea il valore decisivo della responsività materna, che permette all’infante di incontrare oggetti significativi con i quali interagire creativamente ed entrare in risonanza emotiva. È solo l’amore di chi ci accoglie a liberare in noi le potenzialità più proprie di un’esistenza singolare11. Il filosofo e psicoanalista Miguel Benasayag riassume bene la nostra posizione quando afferma che «il “soggetto” […] non costituisce un’unità esistente per se stessa», dichiarando altresì che la sfida oggi «consiste nel non cadere nel nichilismo […] di un “puro molteplice”, ovvero nell’idea di una molteplicità senza alcuna unità intrinseca»12. Se è vero che «l’io non è mai “uno”, l’io è “molti”»13, non possiamo nemmeno rinunciare a una coerenza capace di organizzare il molteplice e a una relativa stabilità nel mutamento. [Va detto che] la coerenza è graduata: ci può essere tanta coerenza o poca coerenza, ci si può sforzare per raggiungere un elevato grado di coerenza (qualcosa che si avvicina di più all’unità) o, al contrario, ci si può accontentare di un grado basso di coerenza, in corrispondenza del quale la molteplicità risulta meno organizzata. Ciò che stiamo descrivendo con il concetto di coerenza è qualcosa che si situa tra due estremi: da un lato l’unità che annulla la molteplicità, dall’altro la molteplicità senza alcun elemento unificante; da un lato una concrezione monolitica, dall’altro la dispersione. La virtù sta nel mezzo, un mezzo che però non coincide con un punto dato (un punto di equilibrio perfetto), bensì con una banda di posizioni entro cui il soggetto – a seconda dei momenti, delle attività, dei livelli – tende ad oscillare. La molteplicità di cui è fatto un io, però, non si dispiega soltanto in una dimensione sincronica: la coerenza di cui si tratta non riguarda unicamente un insieme di elementi compresenti. Se l’io è una costruzione sociale, ciò significa che vi è anche una dimensione diacronica da prendere in considerazione. Che rapporto c’è tra il mio “io” di oggi e quello di ieri, oppure dell’altro ieri, di un anno fa, dieci anni fa, cinquant’anni fa? Qui la coerenza riveste l’aspetto della stabilità. […] Anche qui è bene introdurre fin da subito una concezione gradualistica. È indubbio che per un soggetto – anzi, per la costruzione di un soggetto – c’è bisogno di coerenza e stabilità. Ma quanta coerenza e quanta stabilità14?
L’ipotesi che intendiamo proporre in questo scritto è allora la seguente: un’idea efficace di soggettività, preziosa anche in vista di una critica dell’immaginario tecno-capitalista e dei suoi strumenti di cattura, potrà emergere solo abbandonando le convinzioni, segretamente complici, di chi oppone rigidamente il soggetto all’oggetto e di chi, al contrario, considera inesistente e superfluo qualsiasi centro di responsabilità che faccia di una persona un agente coerente, stabile e coeso. Il nuovo statuto della soggettività, per quanto ci riguarda, va rintracciato in una eco-logica che tenga conto delle pratiche culturali/tecniche che ci consentono di operare nel mondo e di farlo partendo da un basilare senso di agency e di intenzionalità che ci viene dal corpo e dalle predisposizioni singolari del nostro idioma. I corpi, tuttavia, non si muovono nel vuoto come atomi, ma incarnano le tendenze e i tropismi dell’epoca a cui appartengono. 73
Noi siamo sempre materialmente e oggettivamente situati. Siamo sempre all’interno di situazioni organizzate e determinate da molteplicità contraddittorie. […] Noi siamo punti di vista oggettivi. Il che non significa che sia la nostra soggettività a fondare il punto di vista: al contrario è il punto di vista a consentire l’emergere di ciò che più tardi riconosceremo come la nostra soggettività. L’emergere del soggetto umano è sempre preceduto dall’evento di un punto di vista, e l’oggettività di quel punto di vista è ciò che struttura e determina quanto riconosceremo a cose fatte come la dimensione dell’umano15.
Ci interessa, insomma, il carattere mediale del soggetto, ovvero la sua natura necessariamente situata; riteniamo, infatti, che essa permetta di illuminare le dinamiche che costituiscono mondo e soggetto come due poli di un medesimo campo. Stiamo evidentemente parlando di qualcosa di ben diverso dall’attivismo innato del soggetto moderno borghese, esito esemplare di un processo storico culminato, fra il diciassettesimo e diciottesimo secolo, nel patto d’acciaio tra scienza e capitalismo. Altrettanto distante ci sembra la cultura postmoderna e la sua attitudine, che si nutre di confusi echi nietzschiani, a dissolvere qualsiasi principio di unità nel gioco mutevole dei ruoli e delle multiple rappresentazioni di sé. Dove si posiziona, dunque, il nostro soggetto incarnato e situazionale, se rifiutiamo tanto la dittatura dell’identico quanto il fascino spettrale di un corpo senz’organi attraversato da forze in competizione tra di loro? Il filosofo Carlo Sini ci aiuta ad abbozzare una prima e parziale risposta: «oggetti e soggetti si stagliano sempre all’interno di un intreccio di pratiche, i cui confini sfumano in un limite indefinibile, cioè in un rinvio che continuamente si riapre, idealmente all’infinito. Quindi non abbiamo mai a che fare con soggetti o oggetti assoluti, cioè sciolti dall’intreccio di pratiche che li costituisce e li supporta»16. Il soggetto, in altre parole, è intrinsecamente relazionale, preso da sempre dentro una rete di pratiche, discorsi, obblighi e saperi che ne tracciano i contorni e ne delimitano i margini d’azione. Si diventa soggetti gradualmente, come risultato di un’instaurazione complessa che accompagna il singolo essere umano nel suo lento e travagliato processo di individuazione. Il filosofo Roberto Mancini ha potuto così parlare di un’antropologia «genetico-relazionale»: la visione che ci propone «è genetica, perché considera l’essere umano come un divenire aperto. Ed è relazionale, perché ne vede l’identità sempre implicata dall’interno e all’esterno in relazioni essenziali: con se stesso, con gli altri, con la natura, con la vita e con il suo senso […]»17. Alla luce di quanto detto è possibile mettere in chiaro un aspetto centrale della nostra argomentazione. Ciascun umano nasce con un temperamento e delle singolarità peculiari (è davvero impossibile trovare un bambino che sia uguale a un altro, anche i gemelli si differenziano per caratteristiche e preferenze personali), tuttavia la presenza di una soggettività vera e propria è solo in potenza. Essa matura col tempo, è sottoposta ai rischi del percorso di individuazione, può incrinarsi e regredire a forme frammentarie e prive di integrazione. Non è difficile constatarlo se, ad esempio, ci si interroga seriamente sui fenomeni di massa che hanno caratterizzato i grandi totalitarismi e segnano og74
gi, con un taglio diverso, la cosiddetta società dello spettacolo. Come spiegare l’adesione al potere senza interrogare le dinamiche che sorgono al confine tra soggettivazione e assoggettamento? Michel Foucault ha dedicato molti anni di ricerca alla critica dei dispositivi disciplinari – politici, tecnologici, educativi, economici ecc. – che incidono direttamente sulla stabilizzazione del nostro senso di identità (personale, sociale, di genere). Attorno al soggetto, e dentro di esso, si addensano forti tensioni che riguardano il rapporto esistente tra ciò che nella persona è individuato e ciò che, latente, rappresenta il suo potenziale ancora privo di realizzazione. Sospesa fra libertà e necessità, vicenda biologica e vita simbolica, la natura dell’essere umano è anfibia per definizione (la locuzione “sé-con-l’altro” non esprime già l’impossibilità di accedere a un senso di unità monolitico, semplicistico? Non è forse l’interezza psicofisica una conquista “complessa” che armonizza il molteplice dando coerenza a processi paralleli che potrebbero scindersi tra di loro, come accade puntualmente nelle situazioni di disagio e malattia?). Tale duplicità18 è stata esplorata, in modo originale e pertinente, da un filosofo che annoveriamo volentieri tra i grandi del Novecento: stiamo parlando di Gilbert Simondon e della sua visionaria teoria sull’individuazione psichica e collettiva19. Giorgio Agamben riesce in poche righe a cogliere l’essenza del pensiero del filosofo francese: «In un libro importante, Simondon ha scritto che l’uomo è, per così dire, un essere a due fasi, che risulta dalla relazione fra una parte non individuata e impersonale e una parte individuale e personale. Il preindividuale non è un passato cronologico che, a un certo punto, si realizza e risolve nell’individuo: esso coesiste con questo e gli resta irriducibile»20. L’antropologia filosofica ci restituisce l’immagine di un essere umano “aperto per natura”, coinvolto in un processo di unificazione dell’esperienza che è destinato a non potersi mai chiudere definitivamente. Anche sul piano metafisico il processo di totalizzazione rimane insaturo, poiché la vita è presa in un dinamismo continuo che si nutre del contributo originale di ogni singolo essere per spingersi “oltre”, lasciandosi alle spalle i precedenti punti di equilibrio raggiunti. Lo ha spiegato bene Alfred North Whitehead mediante il concetto di “prensione”. Se la natura della realtà è eminentemente relazionale, da questo segue che non esistono vere e proprie cose isolate. Le pieghe dell’Essere non assumono, dunque, l’aspetto di enti separati, sconnessi, a sé stanti, bensì di eventi prensivi che evolvono in mutuo sviluppo con gli altri organismi. Ciò che si constata è una specie di continuum in cui le cose appaiono avvinghiate. Per descrivere il processo, possiamo parlare d’una singola ‘cosa’ (meglio usare il termine whiteheadiano di ‘evento’), a patto però di comprendere che essa ‘diviene-uno’ tramite altri – laddove lo stesso ‘diventar uno’ non comporta peraltro l’indipendenza dal processo. […] Qualcosa si fa uno, ma non perde il contatto con l’insieme. Ciò che si può constatare è la presenza di un’interazione, di qualcosa che è stato assimilato, còlto, ‘preso’ nella terminologia whiteheadiana. Le cose non sono mattoni, ma coesistono, interagendo, l’una accanto all’altra, oppure, meglio ancora, l’una nell’altra, nel processo sottostante. […] Le cose sono organismi, o, il che è lo stesso, sono ‘prensioni’ di attività che accadonointeragiscono correlativamente. Ogni prensione è ciò che è, ed è nel contempo il processo di cui fa parte […]. La prensione assimila la totalità, nel suo farsi una. Ogni prensione comporta un processo di unifica-
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zione, che si inscrive nella totalità dell’universo. Quest’ultimo va sempre-oltre, si espande indefinitamente nelle sue prensioni e per loro tramite21.
Processo ed eventi, diventare-uno e coesistenza multipla, differenza e totalità: dualità generative che si presentano come poli in tensione di una realtà/campo che oscilla creativamente tra indeterminazione e determinazione. Il Tao e i poli Yin-Yang che traducono senza posa la sua potenza informe nel corteo magnifico delle “diecimila creature”, la Sostanza spinoziana e gli infiniti attributi che le consentono di ri-prodursi nei modi finiti esistenti22, il concetto indiano di advaita (a-dualità) rielaborato da Raimon Panikkar in una prospettiva cosmosteandrica e trinitaria23, la coppia possibile/reale nella filosofia occidentale24, questi sono solo alcuni riferimenti filosofici che amiamo evocare per avvicinarci alla natura duplice e problematica dell’esistenza umana. Anche la soggettività, inevitabilmente, è frutto di una creazione progressiva e mai conclusa, il risultato sintetico e aperto di un dialogo che fonda il soggetto come varco, slancio verso il compimento, impossibilità di porsi fuori dalle relazioni vitali che lo tengono al mondo. L’antropologo britannico Tim Ingold illustra con precisione quale sia lo statuto del singolo organismo che partecipa, in contesti storicogeografici sempre determinati, al dinamismo della vita: [Dobbiamo] immaginare il mondo dal punto di vista di un essere coinvolto in esso, come un campo totale di relazioni il cui dispiegamento non è altro che il processo della vita stessa. Ogni essere emerge, con la sua forma particolare, disposizioni e capacità, come un locus di crescita […] all’interno di questo campo. La mente, dunque, non è aggiunta alla vita ma è immanente al coinvolgimento intenzionale, alla percezione e all’azione degli esseri viventi con i costituenti dei loro ambienti. Il mondo non è quindi il dominio esterno di oggetti a cui io guardo o su cui intervengo, quanto piuttosto qualcosa che va incontro a una continua generazione, con me e attorno a me25.
Dopo un piccolo passo di lato torniamo ora a Simondon: Due sono [state] le [principali] vie per affrontare la realtà dell’essere individuale: una via sostanzialista, secondo la quale l’essere consiste nella sua unità, è dato a sé stesso, fondato su di sé, ingenerato, refrattario a ciò che è altro da sé; e una via ilomorfica, secondo la quale l’individuo è generato dalla combinazione di una forma e di una materia. […] questi due modi di affrontare la realtà dell’individuo hanno qualcosa in comune: entrambi ipotizzano l’esistenza di un principio di individuazione anteriore all’individuazione stessa26.
Alla rigida alternativa tra Parmenide e Aristotele il pensatore francese non intende cedere. Ecco allora che suggerisce, coerentemente con le innovazioni maturate nel campo della fisica quantistica, una terza via più attenta al processo di individuazione e al suo divenire. Per pensare l’individuazione, occorre considerare l’essere non già come sostanza o materia o forma, ma come sistema teso, sovrasaturo, al di sopra dell’unità, che non consiste solo in sé stesso né può essere pensato adeguatamente in base al principio del terzo escluso; l’essere concreto, o essere completo, ossia l’essere preindividuale, è un essere che è più che unità. L’unità, caratteristica dell’essere individuato, e l’identità, che autorizza l’impiego del terzo escluso, non si applicano all’essere preindividuale […]. L’unità e l’identità si applicano soltanto a una delle fasi dell’essere, posteriore all’operazione di individuazione; queste nozioni non aiutano a trovare il principio di individuazione; esse non
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si applicano all’ontogenesi nel senso pieno del termine, cioè al divenire dell’essere in quanto essere che, individuandosi, si sdoppia e si sfasa27.
L’essere preindividuale, privo di forma in sé ma carico di potenziali metastabili (esposti dunque a tensioni trasformative continue), si «sdoppia» dando vita a realtà fisiche che abitano spazi-tempi determinati conservando, al loro interno, una carica preindividuale inesauribile. I sistemi viventi tendono poi a complessificarsi, introducendo oltre al livello fisico quello organico-biologico, quello psichico e quello collettivo-transindividuale. Ciò che è fondamentale cogliere è la coesistenza strutturale di piani dell’essere differenti, embricati gli uni negli altri, sempre in accoppiamento con l’ambiente circostante (il contesto esterno con il quale l’organismo interagisce fin dalla nascita) e con l’ambiente interno (la componente preindividuale che permane in ognuno di noi e si fa portatrice di potenziali di vita che attendono di tradursi in atto). La peculiarità dell’umano è quella di far convivere da subito, fin dalla nascita, tutti i livelli sopra ricordati (fisico-chimico, organico, psichico e transindividuale) con continue interazioni e cicli di feedback tra di essi. Pensiamo a una madre che dà alla luce sua figlia: la piccola, appena nata, si trova espulsa dall’utero e dal liquido amniotico che l’hanno avvolta e protetta per nove mesi, eppure il passaggio dall’elemento liquido a quello aereo/terrestre non le impedisce di sentirsi subito immersa in un’ulteriore e più complessa atmosfera relazionale e collettiva, come ben dimostrano le cure delle prime figure di accudimento che le permetteranno, gradualmente, di entrare a far parte di una certa cultura, di impararne la lingua e le logiche portanti. La messa in forma dei nuovi nati28 consiste nell’individuare ciò che originariamente è connotato da una notevole plasticità cerebrale e dalla presenza di potenzialità generiche ancora indefinite. Ogni bambino viene al mondo con il bisogno di essere accolto, di definire gradualmente una sua coerenza interna, di prendere parte a una prassi collettiva che, nel dare forma al soggetto, non gli impedisca di continuare a individuarsi attingendo alla carica di potenziali insita nell’essere preindividuale. Il programma di sviluppo del cucciolo d’uomo, in altre parole, si denota per un’apertura mai completamente saturabile. Quanto detto fin qui crediamo renda bene l’idea di un divenire del singolo che si nutre della compresenza di due poli: una tendenza alla differenziazione (il farsi-uno dell’evento prensivo e la spinta a diventare se stessi studiata, fra gli altri, da Carl Gustav Jung) e una ricerca ekstatica di simbiosi e partecipazione alla vita comune (con relativo trascendimento del senso di separazione dagli altri). In questo testo, quando parleremo di simbiosi, ci riferiremo talora agli aspetti negativi del termine – abolizione totale di sé nella confluenza; regressione a stati della psiche indifferenziati e annichilenti –, ma più spesso alla perdita momentanea di confini che prelude a un senso di unione intimo e vitale con l’Altro. Se essere in simbiosi con qualcuno o qualcosa significa, nel linguaggio psicologico corrente, non poter sviluppare una propria relativa auto77
nomia, cercare con passione l’esuberanza di un “sentimento oceanico” vuol dire uscire dall’incapsulamento egoico e riscoprire un contatto profondo con la Realtà. Lo psicoanalista Elvio Fachinelli ha cartografato i territori della mente estatica giungendo a conclusioni importanti sulle esperienze non patologiche che ineriscono a tale ricerca. Esse non implicherebbero affatto il ritorno a una condizione primordiale (quella appunto “simbiotica” tra madre e neonato), bensì una ripresa variata e ampliata degli stati di fusione originari. È lo sviluppo di una potenzialità antropologica comune; non caduta in un’unità informe, ma sbocciare di varie esperienze di unione, differenziate tra loro. Ad esse si accompagna un senso esaltante di sicurezza creativa, generativa […]. Si può pensare che questo movimento corrisponda, nel campo perinatale, a un senso di crescita e di acquisizione da parte del bambino, e a un senso di compimento diadico per ciò che riguarda la madre. […] Il senso di potenza derivante dall’esperienza estatica «piena», che si esplica poi in numerosi àmbiti, non è assimilabile all’onnipotenza autistica, che cerca illusoriamente di negare l’esistenza di un mondo esterno indipendente29.
I popoli di ogni tempo e latitudine hanno sempre frequentato, con i dovuti accorgimenti, le regioni periferiche dell’estasi; è dunque una necessità insopprimibile, per l’uomo, quella di accedere a stati di coscienza che permettano di dilatare il senso di comunanza con il Tutto infrangendo le barriere che dividono gli enti. È comunque fondamentale, a nostro avviso, integrare le prospettive di differenziazione e simbiosi armonizzando queste tendenze fra loro. In mancanza di un esercizio consapevole finalizzato a trovare dei punti di equilibrio tra di esse, è probabile che le patologie individuali e collettive siano destinate a moltiplicarsi e a diffondersi in maniera pandemica. Il filosofo Leonardo V. Arena, nella sua ottima introduzione al pensiero di Whitehead30, ci offre altre considerazioni preziose sull’individuazione, sul nostro essere soggetti emergenti: noi siamo io, in quanto eventi prensivi, cioè elementi che unificano il proprio mondo, e pervengono all’individualità; nel contempo, siamo anche la totalità medesima, poiché senza il suo apporto, senza la collaborazione corroborante degli altri eventi dell’universo non esisteremmo nemmeno. Nella fase del magma non c’è ancora sentore dell’io; poi, comincia timidamente a farsi strada un vago senso di separazione tra me e l’altro; successivamente, ancora, emerge la coscienza e tale separazione è sancita definitivamente. I vari momenti dell’esperienza sono tutti necessari, tuttavia […] la coscienza non è solo l’elemento che può distaccarci dalla realtà concreta, tramite la sua sostituzione con un mondo di fredde astrazioni; esso può anche, mediante la sua stessa attività, tornare a questo mondo, comprendendo finalmente che i dettagli isolati presentano in realtà una connessione essenziale, facendo parte di una totalità da cui sono stati soltanto provvisoriamente separati31. Quel che dovrebbe essere ormai chiaro, sul piano ontologico, è che l’individuazione è parte di un più ampio processo creativo (a tutti gli effetti transper78
sonale) che necessita dei singoli e delle loro iniziative per darsi forma, ma che non contempla la possibilità che un ente qualsiasi si isoli davvero separandosi dall’ordito delle relazioni cosmiche. La realtà storica a cui apparteniamo è costituita da innumerevoli prassi locali connesse fra loro da una metaprassi avvolgente che le unifica senza mai approdare a un sistema totale compiuto. Sartre ha parlato di «totalizzazione di avviluppo» per definire il processo aperto e inclusivo che vibra all’unisono con le pratiche locali messe in opera dai soggetti umani32. Come l’universale si singolarizzi, come il comune si individui, questi sono i quesiti centrali da sollevare per entrare a fondo nel tema della soggettivazione. Se in natura compaiono dei soggetti capaci di definirsi tali, caratterizzati da un senso di agency attribuito riflessivamente a “sé”, è perché l’attività prensiva, con la sua vocazione a incorporare alcuni aspetti del campo di immanenza in direzione di uno sviluppo originale dell’organismo, evolve negli esseri umani fino allo stadio della coscienza, la quale si caratterizza per la propensione a unificare e ad auto-riferire l’esperienza pura emersa dall’intreccio transindividuale e anonimo delle pratiche. In altre parole potremmo dire che una spinta preverbale alla differenziazione incontra le facoltà “neocorticali” del linguaggio, dell’attenzione e dell’immaginazione incarnandosi storicamente all’interno di àmbiti culturali sempre diversi, che retroagiscono sulla dotazione innata dei singoli influenzandola a loro volta. L’autoriflessione resa possibile dalla coalescenza dei processi linguistici e di memoria dà vita a un animale parlante, consapevole tanto di essere “se stesso” quanto di appartenere alla vasta matrice relazionale che lo circonda e lo compenetra. L’affiorare del linguaggio e del pensiero simbolico, resi disponibili al singolo solo mediante l’incontro con i propri simili, fa sì che la propriocezione del corpo come nucleo primario d’identità si complessifichi attraverso la riflessività cosciente e la possibilità – straordinaria ma anche pericolosa – di dire “io”. Ecco allora che, tramite la sfera del comune (il linguaggio non si apprende se il bambino non sente parlare altri adulti della propria specie), il singolo comincia a possedersi un po’ di più, fino a poter credere di essere de-situato e, di conseguenza, mettersi al riparo dagli influssi molteplici del proprio tempo. Come vedremo in seguito i dispositivi psicopolitici messi in campo dal potere tecno-capitalista incrementano fattivamente l’illusione, per l’uomo contemporaneo, di potersi sottrarre alle relazioni che lo tengono in vita. Che davvero si possa vivere senza sentirsi toccati dal proprio contesto culturale, dalle situazioni concrete di ogni giorno e dai doveri morali che esse sollevano, è il grande inganno che permette all’individuo atomistico, chiuso nel guscio delle sue difese, di sopportare parzialmente il vuoto di un’esistenza insensata. Un inganno che fa leva, va detto chiaramente, su un fatto antropologico basilare, ricordato fra gli altri da Roberto Mancini: il dolore, la paura della perdita e l’angoscia abbandonica sono tre componenti che sclerotizzano il principium individuationis e costringono quindi il soggetto, per motivi di autoprotezione, 79
a ripiegarsi sempre più su se stesso (venendo a coincidere con il suo “arido Io”, direbbe Hegel), percependosi acutamente proprio in ragione del dolore che lo individua. Dolore, chiusura e rifiuto si avvitano intorno al centro di un sé intimamente frammentato, che si crede isolato e che vorrebbe tagliare i ponti con la realtà33. L’invito quotidiano a “connettersi”, accedendo istantaneamente a piattaforme online, social networks e servizi multimediali, si rivela, sotto questa luce, un’atroce beffa per chi, ormai da tempo, teme il prossimo suo come se stesso. L’originario moto di apertura che caratterizza il piacere, la comunione con il vivente e il processo di soggettivazione nel suo libero fluire34, in condizioni di sofferenza protratta inverte la direzione di marcia e si solidifica in un autoriferimento dolente, che a sua volta alimenta un senso di identità rigido e aggressivo. Ma i bastioni che si ergono con lo scopo di esorcizzare la paura della morte35 (perché dolore, perdita e abbandono sono anticipazioni della morte), alla lunga soffocano il soggetto e lo imprigionano nella fortezza delle difese psicologiche più arcaiche. L’odio stesso, come ricorda Benasayag36, mirerebbe a «compattarci» nella nostra identità vissuta in contrapposizione a quella degli altri: c’è sempre bisogno di nemici, insomma, per sentirsi “qualcuno”. In questi casi diventa impossibile ragionare per somiglianze e differenze37. Solo gli estremi – Noi contro Loro – magnetizzano l’attenzione, con le conseguenze catastrofiche che è facile immaginare.
2. Suggestioni psicoanalitiche Vediamo ora come il sapere psicologico contemporaneo può aiutarci a superare il pregiudizio che oppone radicalmente soggetto e oggetto, andando in direzione di una comprensione adeguata della soggettività umana. Soggettività, come si è visto, che viene alla luce come esito di una prassi dinamica che fornisce ai corpi, con il loro elementare e primario senso di intenzionalità, la possibilità di sperimentare nuove forme di unificazione dell’esperienza senza tagliare il legame con gli altri nodi della rete vivente che li sostiene. Daniel Stern, uno dei più importanti ricercatori nel campo degli studi sull’età evolutiva, ha parlato delle varie tappe che conducono l’individuo a consolidare un senso sufficientemente stabile di sé. Stern dichiara: «Possiamo affermare che durante i primi due mesi di vita il bambino è attivamente impegnato a costruirsi il senso di un Sé emergente. È il senso di un’organizzazione in via di formazione, e rimarrà attivo per il resto della vita. In questo periodo un senso globale del Sé non è ancora pienamente raggiunto, ma il processo è già avviato»38. Il processo, durante il corso dei primi anni di vita, porterà, in presenza di adulti accoglienti e capaci di sintonizzarsi sulle frequenze emotive del piccolo, alla costituzione graduale di un Sé “nucleare” e solo in ultimo “verbale” e au80
tocosciente. Il Sé, inteso come sistema riflessivo integrato, non è dunque originario e si costituisce un po’ alla volta a partire dalle relazioni con i propri simili. Ciò non toglie che esista un impulso, per quanto inconsapevole, a farsiuno, come abbiamo visto in precedenza muovendo dalla filosofia dell’organismo di Whitehead e dal concetto di idioma di Bollas (che noi intendiamo come un nucleo di personalità in potenza, che può attualizzarsi solo mediante la relazione con gli altri). Altrettanto evidente, soprattutto per chi si occupa di salute mentale, è la necessità di una coerenza interna che permetta al singolo di viversi in modo abbastanza unitario concertando tra loro le molte anime che lo abitano. La dimensione psichica individuale appare così caratterizzata da una fluttuazione che coinvolge stati dell’essere differenti e complementari. Lo psichiatra e arte-terapeuta Maurizio Peciccia, insieme allo psicoanalista Gaetano Benedetti, ha esplorato in maniera articolata e originale proprio le caratteristiche di questa fluttuazione nella prima infanzia. Vogliamo ora proporre alcuni passi tratti da un suo saggio39 al fine di mettere meglio a fuoco la questione. Forse gli esseri umani hanno un pensiero simbolico e associativo in quanto possiedono sia funzioni psichiche che uniscono, sia funzioni che separano. Tutti i legami associativi si basano sull’oscillazione tra unione e separazione che sono come il codice binario che fonda l’intera vita psichica inconscia. È possibile che l’attitudine della psiche umana a unire e separare in modo organizzato le rappresentazioni, disponendole in legami associativi, sia il riflesso del fatto che la nostra identità si è formata in campi, in spazi psichici, inizialmente non collegati. Con Benedetti, ho formulato l’ipotesi secondo cui l’identità del neonato si formerebbe in un campo intrapsichico che separa e delimita nettamente il Sé dagli oggetti e, contemporaneamente, in un campo intersoggettivo, nella relazione simbiotica con la madre, dove il Sé e l’altro sono un tutt’uno. Noi chiamiamo la prima area, che differenzia il Sé dall’oggetto, campo di separazione del Sé, mentre denominiamo la seconda area, che non distingue il Sé dall’oggetto, campo di simbiosi del Sé. Le funzioni psichiche che separano e distinguono deriverebbero dal campo del Sé separato. Tutte le funzioni psichiche che uniscono e condensano risalirebbero al nucleo di identità che si è formato nel campo del Sé simbiotico. La nostra ipotesi si fonda sul classico concetto psicoanalitico che ipotizza, nello sviluppo infantile, una fase simbiotica, dove Sé e oggetti sono indistinti, e una fase di separazione, dove il Sé è differenziato dagli oggetti. Generalmente si pensa, con la Mahler (1952) per esempio, che la fase di simbiosi e di separazione siano in successione cronologica, mentre invece con Benedetti sostengo l’idea che simbiosi e separazione siano stati del Sé contemporaneamente presenti durante tutta la vita. Nelle fasi precoci dello sviluppo infantile, i due campi del Sé, separato e simbiotico, non sono collegati e l’identità del neonato oscilla tra un essere81
Sé-nell’altro e un essere-Sé-in-se-stesso. La ripetizione di oscillazioni piacevoli e non ansiogene tra separazione e simbiosi (SEP← →SIM) e il loro prevalere sulle inevitabili oscillazioni spiacevoli e ansiogene, determina un’integrazione tra i due stati separati e simbiotici del Sé. Per arrivare a un senso coerente e continuo del Sé è necessario ripetere molte volte in forma positiva e piacevole il passaggio SEP← →SIM. In questo modo i due Sé, inizialmente alieni, possono rispecchiarsi e riconoscersi come unico Sé40. Questa lunga e suggestiva citazione consente, riprendendo il linguaggio di Simondon, di evidenziare quanto il livello psichico del processo di individuazione sia “metastabile”. L’oscillazione tra tendenze alla differenziazione e tendenze alla fusione/simbiosi (nonostante le prime siano, per il neonato che dipende dagli adulti per la sua sopravvivenza, meno cogenti rispetto alle seconde) ci offre, sul versante psicologico, un ottimo punto di appoggio per comprendere perché il soggetto sia sempre esposto al pericolo della scissione, al dolore esistenziale, al rischio di naufragare. Qualcosa ci sovrasta, ci attrae e minaccia di travolgere i confini del sé che aiutano a distinguerci dagli altri. La dimensione simbiotica, ben oltre la relazione primaria tra madre e bambino, è rinvenibile, sul piano filosofico e spirituale, nell’esperienza numinosa (affascinante e tremenda) del sacro. Aprirsi al sacro significa, dunque, sostare sulla soglia che mette in comunicazione possibile e reale, accettando di essere parte di una realtà che eccede gli usuali schemi di comprensione e si dà come durata creatrice che non si risolve in nessuna delle sue metamorfiche espressioni. È normale che una certa inquietudine accompagni la percezione, più o meno confusa, di essere immersi in una tale sovrabbondanza di vita. Fachinelli ne ha dato efficace testimonianza: Il tempo, mi sembra, non passa. Dilatazione e febbre insieme. Un tempo senza centro, vibrante. […] Angoscia oltre l’angoscia, fino al terrore dell’annichilimento: e così gioia oltre il godimento. […] Nelle situazioni estatiche, il vuoto è un campo di tensioni da attraversare; non una posizione inerte. E il riempimento del vuoto, per così dire, avviene in un attimo che sembra comprendere in sé, insieme, massima accelerazione e totale immobilità. E che brucia in un colpo solo il tempo che lo precede – tempo morto dell’accumulazione, dei tentativi, delle erranze41.
Troviamo intuizioni affini nell’opera di Ignacio Matte Blanco. L’analista cileno, riprendendo e rilanciando in modo originalissimo le scoperte freudiane sulla logica paradossale dell’inconscio, ritiene che l’essere umano sia abitato da una tensione profonda tra due modi di percepire-conoscere la realtà apparentemente inconciliabili. Il presupposto da cui Matte Blanco è partito, è che la nostra visione del mondo sia intrinsecamente duplice perché determinata dalla compresenza di due modi di essere incompatibili: l’uno asimmetrico, che tratta la realtà come se fosse divisibile ed eterogenea, formata da parti, l’altro simmetrico che la considera una e indivisibile. Da questa antinomia costitutiva dell’essere umano, scaturisce l’abisso fra pensiero e sentimento, esperienza in cui risulta tangibile l’utilizzazione costante di due principi logici contrapposti derivanti dall’intrinseca bi-modalità della mente42.
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L’ipotesi di Matte Blanco è che alla logica bivalente (quella della coscienza, incardinata nei tre principi aristotelici di identità, non contraddizione e terzo escluso) si affianchi una logica simmetrica governata da processi peculiari che stravolgono le coordinate abituali del pensiero razionale/discorsivo. L’inconscio – con le sue caratteristiche individuate da Freud: spostamento, condensazione, assenza di tempo e di negazione, sostituzione della realtà esterna con quella psichica – sarebbe anch’esso regolato da un particolarissimo sistema logico a due “teste”. Il principio di generalizzazione fa sì che l’inconscio tratti persone, oggetti e concetti come se fossero membri o elementi di classi che contengono altri membri uguali. Ogni classe rappresenta una sottoclasse di una classe più generale, e così via (la ragazza che ha da poco partorito fa parte della classe “madri” che a sua volta è una sottoclasse dell’insieme “donne”, che a sua volta è una sottoclasse della classe generale “esseri umani” ecc.). Il principio di simmetria, invece, tratta tutte le relazioni come se fossero simmetriche. Il padre e il figlio, in un sogno, possono essere inspiegabilmente la stessa persona; la vittima è il carnefice, una parte del corpo sta per l’intera persona (la sineddoche è una figura retorica che esemplifica bene la logica simmetrica). Non esistendo, in quest’ottica, relazioni asimmetriche, ogni relazione appare dunque identica al suo inverso. Se davvero la logica bivalente e quella simmetrica fossero totalmente estranee l’una all’altra, sarebbe impossibile per noi condurre la nostra vita orientandoci e rintracciando un senso che ci guidi nel fare esperienza del mondo. Eppure, e questa è un’altra acquisizione matteblanchiana di grande portata, ogni essere umano opera in realtà attraverso una bi-logica che integra fra loro le due logiche sopra ricordate, rendendo possibile un progressivo lavoro di riequilibrio tra di esse. La mente coincide, dunque, con una stratificazione di livelli grazie ai quali il modo di essere dividente-eterogeneo e quello indivisibile cooperano alla creazione complessa del nostro rapporto con il mondo. Nonostante la simmetria descritta dall’autore cileno evochi uno stato dell’Essere molto simile a quello parmenideo, abbiamo suggerito altrove come l’essere preindividuale di Simondon descriva ancor meglio le potenzialità della vita (inconscio/simmetria/simbiosi/statoquantistico-indeterminato) che necessitano di un dispiegamento tridimensionale per tramutarsi in atti concreti localizzati nello spazio e nel tempo (coscienza/asimmetria/distinzione-tra-elementi-differenti)43. Anche Carl Gustav Jung, fondatore della psicologia analitica, ha parlato di due forme di pensiero che convivono nell’uomo nonostante possano sembrare antinomiche: il pensiero indirizzato (razionale, discorsivo, calcolante e astratto) e quello non indirizzato o fantasticante (creativo, ambivalente, figurale e intriso di affettività). Romano Màdera, uno degli eredi più originali di Jung in Italia, ha ideato il neologismo simbologica per sottolineare l’importanza di una cooperazione consapevole tra queste due forme di pensiero, in direzione di un trascendi83
mento delle scissioni che lacerano l’uomo e lo condannano a una esistenza priva di interezza. Lo stesso autore ci offre alcune considerazioni terapeutiche che, a nostro avviso, confermano la lettura che stiamo tentando rispetto alle oscillazioni tra differenziazione e simbiosi. Oscillazioni che, insieme alla presenza transculturale del processo antropopoietico e di alcune disposizioni specie-specifiche, rappresentano delle costanti antropiche capaci di accomunare fra loro tutti gli umani che abitano il pianeta Terra. Màdera, in un breve scritto sulla vocazione psicoanalitica, si avvale dell’immagine degli assi cartesiani per descrivere il suo metodo “diagnostico”: Perché ho parlato di asse verticale e, tra poco, mi rivolgerò all’asse orizzontale, insomma ad ascisse e ordinate, come se si trattasse di una sorta di geometria dell’anima? Perché così cerco di orientarmi nelle nebulose delle patologie vecchie e nuove. Il punto di intersezione, il centro, rappresenterebbe il criterio ideale dell’equilibrio tra energie volte verso il potenziamento o verso il ripiegamento riflessivo (alto e basso), tra avvicinamento agli altri e rifugio in se stessi (destra e sinistra). Maniacalità e idee di grandezza, disturbi narcisistici di personalità, segnalano una distanza che fugge verso l’alto, la depressione sprofonda verso il basso. Sull’asse orizzontale si misura invece il grado di fusionalità (che riguarda stati simbiotici, disturbi di panico e sintomi isterici) o, all’opposto, il grado di isolamento (ossessioni, fobie, stati paranoidei, disturbi dello spettro autistico). Le forme schizofreniche rappresenterebbero invece la frattura stessa del punto di intersezione, o di equilibrio, delle diverse tensioni verso le quattro direzioni: in un certo senso rappresenterebbero il collasso dello schema. L’organizzazione borderline e il disturbo borderline di personalità potrebbero anch’essi, in modo attenuato, segnalare non solo una distanza dal punto centrale su tutte e quattro le direzioni, ma una linea di frattura interna al centro44.
Lo schema che incrocia un asse verticale e uno orizzontale per descrivere il periglioso cammino di individuazione dell’essere umano tornerà decisamente utile quando parleremo dell’intersezione tra vita collettiva e individuale, appartenenza e libertà, politica ed etica. Quello che vogliamo sottolineare, a proposito delle considerazioni di Màdera, è che esse rimarcano la necessità, per ciascuno di noi, di vivere in continua ricerca di un baricentro, di un equilibrio esistenziale dinamico. La soggettività, sarà ormai chiaro al lettore, non è un punto di partenza già dato, ma il risultato in divenire di relazioni che, pur affondando le radici nel corpo vivente del singolo, si posizionano tra lui e gli altri, dove soggetto e oggetto convergono senza distinguersi o coincidere completamente. Anche la psiche, d’altronde, può essere intesa come un’interfaccia sensibile tra le disposizioni biologiche ereditate filogeneticamente e il mondo storico-culturale che ci accoglie e plasma fin dalla nascita45. Il rapporto stesso tra coscienza e inconscio va concepito, dentro queste coordinate, come una partnership in senso forte, più collaborativa che antagonistica. La coscienza ritaglia nel continuum del reale unità discrete (percettive e concettuali) seguendo una logica sequenziale, mentre la dimensione inconscia – che attinge alle risorse nascoste della persona, al rimosso individuale e culturale, e alle immagini archetipiche condivise da un determinato collettivo – integra processi che operano in parallelo schiudendo possibilità di contatto con la sfera del sacro-possibile, là dove, come suggeriva Bateson, “anche gli angeli esitano”. 84
3. Immaginario e strumenti di cattura Vogliamo riassumere in poche righe quanto è emerso fin qui, per verificarne la tenuta. Parlare del carattere situazionale del soggetto significa, per una filosofia e una psicologia attente alla prassi e alla complessità delle relazioni, uscire definitivamente dall’illusione di avere a che fare con soggetti e oggetti assoluti. Vivere, per riprendere un concetto molto bello proposto dal monaco buddhista Thich Nhat Hanh, è questione di «inter-essere»46. Raimon Panikkar parla di “interindipendenza” per sottolineare, secondo la sua prospettiva advaitica, la coesistenza del legame con gli altri e della propria unicità. Il filosofo Silvano Tagliagambe, impiegando il termine “unidualità”, promuove da anni un’epistemologia del confine attenta allo spazio intermedio che separa-unisce individuo e comunità, visibile e invisibile. In chiave metafisica ci pare ancora efficace l’analogia con il mare. La realtà è relazionalità pura, totalizzazione di avviluppo, e i singoli eventi (gli organismi con le loro prassi sempre locali) sono le onde senza le quali il mare non potrebbe essere ciò che è e diviene continuamente. L’Uno e i Molti sono radicalmente interdipendenti. La particolarità degli umani, tuttavia, è quella di essere creature autocoscienti coinvolte in un parziale sfasamento rispetto all’esperienza pura dovuto alla mediazione simbolico-linguistica che ci fa conoscere il mondo. Diciamo “parziale” perché nessuno può separarsi fino in fondo dal processo dell’universo. La natura umana, alla luce di queste considerazioni, si conferma ancora una volta duplice, perché alimentata da due impulsi profondi e talora confliggenti: la tendenza alla fusione/simbiosi e la spinta a differenziarsi, spinta che appartiene tanto alla Vita quanto agli individui che ne dispiegano la potenza47. Il processo di individuazione è, letteralmente, quel cammino costellato di pericoli e scoperte che vede il singolo avventurarsi all’incrocio tra queste tensioni di base, con la speranza di trovare un giorno un centro dinamico che gli permetta di consolidare una “presenza” sufficientemente stabile per vivere la propria avventura esistenziale nel migliore dei modi. Il concetto di presenza è un’eredità feconda che dobbiamo all’antropologo e studioso di storia delle religioni Ernesto de Martino. La presenza, individuale e collettiva, consiste nella capacità, da parte di un umano immerso in un mondo storico in divenire, di conservare, nonostante l’insuperabile impermanenza della realtà, delle coordinate esistenziali affidabili senza per questo frenare il movimento di soggettivazione che lo apre a esperienze nuove e rivelative. Quando la presenza entra in crisi, perché si sclerotizza soffocando l’emergere del possibile o si fa troppo labile producendo un senso perturbante di dispersione e disorientamento, ciò che vacilla è la possibilità stessa di continuare a fare mondo48. Noi siamo esseri instabili, oscillanti tra separazione e simbiosi, logica bivalente e logica simmetrica, pensiero ed emozione, essere preindividuale e con85
cretizzazioni determinate. Tale natura, intimamente segnata dalla minaccia della scissione e del dolore, è anche la fonte della nostra creatività, della generatività insita nell’animale paradossale che chiamiamo homo sapiens. Solo accettando questa complessità costitutiva possiamo renderci conto di quanto il potere, per sua vocazione, si avvalga di semplificazioni, banalizzazioni e violenze pur di neutralizzare gli effetti imprevedibili della libertà umana. I sistemi economici e politici, a nostro avviso, quasi sempre si impegnano a trasformare lo spazio pubblico e quello psichico in campi privi di tensione, appiattiti alternativamente su uno dei due poli che stiamo discutendo in questo scritto. Troviamo allora, pensando ai modelli totalitari di destra che si sono imposti nella prima metà del Novecento, un’organizzazione collettiva che promuove l’identificazione con il corpo della madre-patria o con l’immagine affettivamente investita del capo-padre. Eppure, anche la soggettività promossa dal comunismo storico e dai marxismi ortodossi risulta altrettanto fusionale e indifferenziata (il collettivismo forzato abolisce le distinzioni o quantomeno le scoraggia sul nascere). Questi scenari rifiutano la diversità, coartano la libertà dei singoli e tendono a instaurare regimi regressivi e repressivi fondati sul controllo pulsionale e sulla proiezione dei fantasmi di gruppo all’esterno, seguendo la logica sacrificale del capro espiatorio. L’odierno tecno-capitalismo di matrice neoliberista, in controtendenza rispetto ai modelli appena citati, polverizza la compagine sociale e la costringe a ripiegarsi sul polo dell’isolamento, dell’individualismo, della separazione da sé e dagli altri. La soggettività contemporanea, funzionale all’accumulazione economica e allo sviluppo ipertrofico dell’apparato tecnico, è imprigionata nella gabbia del calcolo economico, della razionalità astratta, della competizione e dell’utilitarismo. Ciò non toglie che, nei fenomeni di massa e nel consumismo eretto sulle fondamenta del feticismo della merce, si registrino esperienze di fusione perlopiù regressive, mirate a sciogliere nell’indifferenziato la separatezza dolorosa avvertita da un soggetto ormai svuotato e alienato. L’immaginario spettacolare centrato sul godimento, l’invito a superare ogni limite, il piacere ridotto agli schemi primitivi di stimolo-risposta, dicono di una disperata ricerca, da parte di persone sempre più isolate dal fiume della vita, di momenti di fuoriuscita da sé a buon mercato. La frustrazione che puntualmente fa seguito a questi tentativi denuncia la natura insoddisfacente e fantasmatica delle promesse consumistiche. Da non sottovalutare, a tal proposito, è la questione della centralità assunta dalle immagini in movimento nell’odierna società digitale/ multimediale. Riprendiamo allora la cassetta degli attrezzi dove abbiamo riposto gli strumenti psicoanalitici e tentiamo di descrivere questo territorio inospitale, crocevia di interessi dove si gioca gran parte della riproduzione delle logiche di fondo del tecno-capitalismo. Grazie alle esplorazioni cliniche e teoriche di Wilfred R. Bion49, possiamo dire che la visione del profondo di Freud, a parte alcuni punti fermi di innegabile importanza (la rilevanza del setting, la centralità dei 86
sogni, della sessualità e dell’inconscio), risulti oggi quantomeno incompleta. L’inconscio stesso, a quasi centoventi anni dalla sua scoperta, non va pensato come un luogo psichico, oscuro ricettacolo di desideri rimossi, ma come una funzione della personalità, una dimensione attiva capace di operare sortendo concreti effetti di realtà. Bion, soprattutto mediante la nozione di “pensiero onirico della veglia”, ha dischiuso negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso la possibilità di effettuare un vero e proprio salto quantico nella comprensione della psiche e delle relazioni umane. La novità rivoluzionaria del pensiero bioniano può essere così sintetizzata. Se per Freud il sogno era solo quello notturno, via regia per accedere al mondo sotterraneo dell’inconscio svelandone faticosamente il linguaggio cifrato, per Bion noi sogniamo non solo di notte ma anche durante lo stato di veglia, sebbene questo lavorio incessante passi inosservato. Freud e Bion, e con loro molti altri, condividono comunque una cosa: le immagini sono, per la mente umana, indispensabili. Le emozioni, i vissuti più intensi e le fantasie messe in moto dal desiderio hanno bisogno, per generare coerenza, di esprimersi per immagini. Quest’ultime si configurano come una tappa intermedia nel processo di simbolizzazione che dagli affetti conduce alla parola e all’espressione verbale. La salute mentale dipende largamente da questo lavoro di graduale messa in forma, dalla capacità di personalizzare l’incontro con la realtà (interiore ed esterna) attivando un processo di metabolizzazione che consenta di comunicare ciò che proviamo ad almeno un altro essere umano, producendo dunque un significato condivisibile. L’attività mentale è quindi composta di passaggi che rendono operativa l’elaborazione dell’esperienza, la sua “digestione” sul piano simbolico e la possibilità di trasformarla in qualcosa di creativo. Vedremo tra poco che questi temi, lungi dal riguardare solo la vita dei singoli, hanno ricadute importanti sulla natura sistemica del vivere associato e sulla qualità della nostra partecipazione alla dimensione politica dell’esistenza. Prima però proviamo a descrivere, in modo necessariamente ultrasintetico, le coordinate delle riflessioni bioniane sul pensiero onirico. La prospettiva che stiamo discutendo è intimamente relazionale. È stato detto, e con buone ragioni, che per fare una mente ce ne vogliono due, ma aggiungeremmo che per fare una persona ce ne vogliono molte di più. Ciò significa – come abbiamo visto nelle pagine precedenti – che la soggettività si costruisce attraverso un lungo processo di individuazione che vede funzionare la nostra mente in sintonia con altre menti umane. Possiamo cominciare a pensare solo perché acquisiamo una lingua storicamente determinata e perché i nostri simili ci insegnano, sul versante emotivo, a trasformare gli stimoli più informi in simboli e pensieri organizzati. Secondo questo modello il neonato apprenderebbe dalla madre, e dalle figure di cura che esercitano una funzione affine, a contenere e riconoscere gradualmente quelle protosensazioni ed emozioni grezze (i cosiddetti elementi beta) che sono, per defini87
zione, ingestibili, inesprimibili, non ancora pronte per essere tradotte in simboli che consentano l’autocomprensione. Esisterebbe allora in ogni madre una misteriosa e fondamentale funzione psicologica che le consente di intuire e accogliere i contenuti emotivi che il bambino non riesce da solo ad assimilare e governare, per poi restituirglieli in una forma digeribile, meno indeterminata e minacciosa. La funzione alfa – questo il nome scelto da Bion per definire la capacità mentale di trasformare l’impensato, di “convertire” gli elementi beta in elementi alfa – si sviluppa nel piccolo d’uomo solo dopo che un membro della stessa specie ha accolto mentalmente i suoi malesseri, le paure, le angosce, ma anche i moti di gioia più intensi, e li ha metabolizzati per poi rimandarli al bambino che, un po’ alla volta, imparerà a padroneggiarli. Questo processo di sintonizzazione e trasformazione è prevalentemente inconscio e presuppone la capacità dell’adulto di sognare in stato di veglia, di fantasticare, cogliendo a livello viscerale cosa sta provando il bambino e come può essere aiutato a farne esperienza. In parole semplici: non è possibile regolare il proprio mondo interiore, soggetto a continui stimoli endogeni ed esterni, senza il contributo di una o più persone amorevoli che sappiano mettersi sulla nostra stessa lunghezza d’onda. Ora, però, consideriamo la funzione alfa e il suo ruolo decisivo nella costruzione del pensiero. Tale funzione assolve un compito ben preciso: trasformare ininterrottamente gli stimoli sensoriali ed emozionali, suscitati dall’impatto con la realtà, in pittogrammi, cioè in immagini singole (visive, auditive, cenestesiche ecc.) che danno una prima forma, certo rudimentale, a ciò che è indefinito e perturbante ovvero alle proto-sensazioni e proto-emozioni prive di coerenza per il soggetto che le patisce. Questi pittogrammi, che lo psicoanalista Antonino Ferro chiama “i mattoncini Lego” del pensiero50, vengono combinati e trasposti in pseudo-ordini narrativi grazie al pensiero onirico diurno. Ciò significa che, mentre siamo svegli e la nostra attenzione si dirige verso le normali incombenze quotidiane, la mente profonda continua ad associare e connettere fra loro tutti i pittogrammi che la funzione alfa produce istante dopo istante. Questo lavoro silenzioso e invisibile rende possibile l’elaborazione di quel che ci accade, liberando risorse cognitive e spazio psichico. Il sogno notturno, recuperando memorie e altri frammenti di immagini affettivamente investite, ricombinerà creativamente le sequenze del giorno in cerca di soluzioni ai problemi della vita, operando un vero e proprio montaggio di secondo livello, finalizzato alla narrazione complessa delle esperienze e dei vissuti. Siamo quindi presi da un continuo processo di assemblaggio di immagini interne suscitate dalle cause più disparate, immagini che vengono disposte in trame di senso capaci di fornire un ordine minimo al caos che sconvolge e perturba. Seguendo questo modello, si capisce subito che i disturbi psichici e comportamentali hanno spesso a che fare con l’incapacità di sognare la nostra esperienza, di trasformarla in narrazioni implicite ed esplicite (cioè accessibili 88
alla coscienza) indispensabili per orientarci nella vita e ampliare la nostra facoltà di “immaginare altrimenti” e di «metabolizzare la brutalità del reale»51. Prima che approdi in qualche misura alla sfera cosciente, noi siamo – come ricorda Ferro – trascinati da «quel nastro di pensiero onirico della veglia che si va formando nella nostra mente senza che lo sappiamo»52. In noi «c’è un processo che continuamente trasforma i dati che ci arrivano dalla realtà, cosicché quest’ultima viene continuamente trasformata in una sequenza filmica all’interno della nostra mente»53. Il cambio di paradigma nella psicoanalisi attuale riguarda soprattutto la necessità, per il terapeuta, di lavorare con il paziente a questo livello, avvalendosi in modo consapevole e strategico del proprio pensiero onirico diurno (rêverie)54. Al dogma classico, che si incentrava sul rendere conscio l’inconscio, segue un’indicazione diversa: la salute mentale si promuove rendendo inconscio ciò che percepiamo da svegli, al fine di metabolizzarlo, riconfigurarlo e portarlo alla coscienza come esito, più ricco e significativo, di un processo di narrazione che affiora al crocevia tra processi corporei e psichici. I pittogrammi generati dalla misteriosa funzione alfa sono, come abbiamo detto, i mattoncini con cui costruiamo le nostre storie. Qui arriviamo a una questione che è (im)mediatamente culturale e politica. Ci domandiamo se e quanto gli operatori attivi nel campo clinico e in quello formativo/educativo siano consapevoli del fatto che, nella società dello spettacolo e dell’ipermedialità, la funzione alfa adibita alla creazione dei pittogrammi necessari per pensare viene esercitata per noi proprio dai poteri che controllano e plasmano l’immaginario collettivo. Ferro ha parlato di una «sequenza filmica» nella nostra mente e Maurizio Peciccia, che abbiamo già incontrato discutendo le oscillazioni del sé tra separazione e simbiosi, ha paragonato esplicitamente il lavoro onirico inconscio, caratterizzato dai processi di condensazione e spostamento, al morphing e alle tecniche di montaggio che si utilizzano nel cinema, in televisione e nella realizzazione di altri prodotti multimediali. Quello che sogniamo (in veglia o durante il sonno) è dunque influenzato enormemente dalle immagini in movimento che riceviamo pre-ordinate dai mass media e dal sistema di intrattenimento globale. Non utilizziamo forse spezzoni di film, immagini pubblicitarie e altri frammenti iconici pop per esprimere nei nostri sogni le emozioni che ci agitano, i desideri trattenuti, le speranze deluse e le nuove possibilità di azione che potremmo attualizzare nella realtà condivisa? Se gli eventi storici – come una guerra, una crisi economica che si ripercuote sulla vita di molte persone, un disastro ecologico, una contesa politica, un’innovazione tecnologica che porta con sé non solo benefici ma anche rischi ecc. – sono immediatamente filtrati dalla funzione alfa del potere, che crea pittogrammi e script narrativi accuratamente preconfezionati (cioè montati intenzionalmente da una regia esterna); se insomma vediamo un po’ tutti il medesimo film che racconta la realtà secondo le direttive del pensiero unico (quello neoliberista al servizio del tecno-capitalismo), come potremo sognare creativa89
mente la realtà, mettere in discussione le norme imposte e le cronache del mainstream? Non finiamo così per sognare sogni già sognati da altri? I problemi epocali che stiamo vivendo – l’entrata della politica mondiale in una nuova e complessa fase multipolare, l’emergenza climatica e ambientale già oltre i livelli di guardia, la crescente disuguaglianza tra ricchi e poveri, l’epidemia del disagio esistenziale e delle malattie mentali, la difficile domesticazione delle tecnologie digitali che stanno alterando i nostri modi di vivere, pensare, emozionarci – non richiedono forse lo sviluppo di una creatività inedita? Purtroppo la capacità collettiva di sognare (dunque di generare alternative allo stato di cose presenti) risulta profondamente inibita, mentre quasi ovunque si afferma l’unica narrazione consentita, quella del totalitarismo economico e tecnoscientifico: esito ultimo del progetto modernista. Questa resa diffusa – sintetizzata dallo slogan “TINA” There is no alternative – è dovuta certo a motivi strutturali e di classe, ma non possiamo trascurare la conquista dell’immaginario collettivo come banco di prova per qualsiasi potere che ambisca non solo a dominare, ma a farsi desiderare. L’immaginario, diversamente da quanto credettero i marxisti ortodossi, è intensamente e immediatamente produttivo. Esso veicola e riproduce, in ogni mondo umano, le logiche culturali che lo sorreggono. Attraverso le immagini si mobilitano aspirazioni, valori, emozioni e difese psicologiche più o meno primitive. Ecco perché dobbiamo aver cura del pensiero e conoscerne i funzionamenti di base. L’educazione/formazione al linguaggio dei media, l’attenta analisi dei dispositivi di controllo istituiti dai centri di potere della società dello spettacolo, una produzione artistica gioiosamente critica, sono forme di azione politica tanto più necessarie per decolonizzare l’immaginario contemporaneo e, su un piano psicologico, liberare la funzione alfa e il pensiero onirico dai codici culturali che li mettono subito al servizio dell’accumulazione economica, del conformismo di massa, del consumismo e del culto della forza. Una rivoluzione culturale, che preceda e affianchi la resistenza quotidiana al tecno-capitalismo e alla sua necropolitica, non può trascurare l’inconscio e le sue matrici di comprensione e creazione del reale. Ecco perché la lotta per la democratizzazione del web e degli spazi televisivi, insieme a un ripensamento accurato del nostro modo di abitare l’era digitale, rappresentano gli avamposti per mettere in discussione il discorso dominante, quello che circola nell’infosfera portando con sé implicazioni psichiche profonde e pervasive. Lo scontro decisivo non si gioca tanto nelle sezioni di partito, e ancor meno nelle adunate virtuali 2.0, ma là dove individui, coppie, famiglie e collettivi lavorano per riconoscere le emozioni del proprio tempo imparando a trasformarle consapevolmente. Una passiva ricezione del verbo tecno-capitalista rappresenta oggi l’ostacolo principale che impedisce di mettere in moto nuove forme di partecipazione alla vita sociale. 90
Siamo infatti, come ricorda in più occasioni Miguel Benasayag, continuamente separati dalla nostra potenza di agire. A tal proposito, dopo un lungo giro, ci sentiamo finalmente pronti a commentare i meccanismi psicopolitici che rendono efficace il controllo delle persone marginalizzando qualsiasi tentativo di “vivere altrimenti”. È giunto il momento, dunque, di prendere coscienza delle dinamiche implicate nella colonizzazione dell’immaginario contemporaneo. Mancare questo appuntamento significa, per qualsiasi progetto collettivo di liberazione, naufragare nel mare delle false speranze. Stefania Consigliere, coautrice di questo libro, ha scritto altrove, dibattendo dell’odierna fase del capitalismo globale: siamo la punta più avanzata di un colossale esperimento di cattura delle anime, che non passa più solo per l’imposizione violenta, come avveniva nel dominio classico, ma per l’adesione – rassegnata o entusiasta – a un regime pulsionale e concettuale molto soft, che si presenta come la quintessenza della libertà stessa e che viene instaurato attraverso due passaggi. Il primo […] consiste nella sostituzione di qualsiasi valore, qualsiasi qualità, qualsiasi relazione e qualsiasi virtù con il valore unico, astratto e onnipotente dell’equivalente generale, il denaro, e della sua incarnazione fantasmagorica, la merce. Finché perfino gli umani e i loro desideri diventano merce, valore di scambio: moneta vivente. Il ciclo del valore, del plusvalore e della merce perde così i suoi connotati storici e comincia a presentarsi come qualcosa di naturale, come nelle favole degli economisti classici che Marx, puntualmente, smonta. Il secondo passaggio consiste in un’accurata costruzione della dipendenza – e perfino della tossicodipendenza – dei soggetti tramite l’accesso garantito a godimenti immediati, primari: godimenti ad arco riflesso, per così dire. Si tratta di gratificazioni facilmente disponibili, che non richiedono nessun allenamento e nessuna conoscenza di sé e del mondo per poter essere godute55.
Questa citazione permette di evidenziare, a nostra volta, degli aspetti della questione che ci sembrano di primaria importanza: il primo riguarda la tendenza, propria del capitalismo e delle scienze moderne, a confinare il vivente e le sue metamorfosi dentro la logica soffocante dell’astrazione e della quantificazione. La psicoanalista Letizia Oddo, interrogandosi sul mutamento antropologico indotto dalla diffusione capillare della comunicazione informatica e digitale, coglie bene cosa significhi disinnescare il molteplice dell’esperienza umana imponendo un principio di razionalità modellato sul funzionamento degli algoritmi: La scomposizione e ricomposizione della realtà tramite segni astratti, convenzionali, inanimati, […] porta a un doppio [ingannevole] potenziamento: svincola dal corpo, dall’organico, dalla dimensione affettiva e istintiva, e immette in una dimensione allucinatoria, rarefatta. L’individuazione umana è la formazione, al tempo stesso, biologica, psicologica e sociale dell’individuo, che è comunque sempre incompiuta. […] La complessità umana intesa come individualità, si declina nel senso della storia e del divenire. Il calcolo astratto, proprio alle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione, permette un processo di commutazione che si basa sull’equivalenza, sull’omogeneità dell’ordinamento numerico, dove l’eterogeneità, la molteplicità, l’irriducibilità dell’individualità, è ridotta all’unità del numero, alla combinazione degli elementi. Il processo 91
di computazione digitale tende a livellare le distinzioni, le differenze: le coesistenze, le incoerenze, tutte espressioni del nostro essere umani. La formulazione astratta algoritmica, su cui si basa il calcolo informatico e che ispira i suoi modelli di esecuzione, richiede proprietà quali la non ambiguità, l’esecutività, la finitezza, proprietà che non è possibile coniugare con la dimensione psichica dell’esistenza, né con la storia umana intesa come patrimonio culturale, che si esprime e costruisce attraverso lotte, utopie, afflati ideali, lasciti morali56. A queste parole l’autrice fa seguire una fulminante considerazione del filosofo Bernard Stiegler: La forza delle tecnologie di governance neoliberale è quella di essere riuscite a privare l’individuo della propria individuazione, in nome della sua stessa individualità. L’individualismo è un regime di equivalenza generale in cui, nell’uguaglianza generalizzata, tutto si equivale, al contrario, l’individuazione richiede una filosofia in cui niente si equivale57.
Tale contrazione dell’umano e delle sue potenzialità non sarebbe tollerabile se il sistema non prevedesse una paradossale panacea per i mali che ha scatenato. L’invito costante all’autopotenziamento, a rendere profittevoli i propri talenti, a ottimizzare le risorse in vista di un vantaggio competitivo e di prestazioni sempre più spettacolari e redditizie, contribuisce a scollegare uomini e donne da loro stessi, dalla complessa singolarità organica e spirituale che li costituisce, per farli coincidere con la sola funzione dell’io e con le sue smanie di possesso58. Nel clima di dispersione e frammentazione in cui ci ha gettato il domino tecno-capitalista, questa identificazione con la dimensione egoica sembra garantire una stentata ma irrinunciabile forma di stabilità identitaria. La chiusura “in sé”, suscitata soprattutto dal dolore, dalla paura degli altri, dalla precarietà e da un futuro percepito come minaccia, rafforza difensivamente l’ambizione e l’autoaffermazione performante. Finché saremo tra i vincitori nella gara della vita potremo rimandare il confronto con la negatività che ci pervade. Ma, ce lo ricorda Byung-Chul Han in maniera netta, l’auto-ottimizzazione permanente come tecnica neoliberale del sé non è altro che una forma più efficace di dominio e di sfruttamento. Il soggetto di prestazione neoliberale, come “imprenditore di se stesso”, sfrutta volontariamente ed entusiasticamente se stesso. […] L’imperativo neoliberale dell’auto-ottimizzazione serve a un perfetto funzionamento all’interno del sistema. Blocchi, debolezze ed errori devono essere risanati, al fine di incrementare l’efficienza e la capacità di prestazione. […] Si tollera unicamente il dolore che si può sfruttare al fine dell’ottimizzazione. […] Con la sua industria della coscienza, la psicopolitica neoliberale annienta l’anima umana, che non è affatto una macchina positiva59.
Il senso di dissociazione dai processi vitali e dalle situazioni concrete, nonché la separazione avvertita dentro di sé e nelle relazioni con gli altri, produrrebbero un collasso psichico e collettivo immediato se il potere non offrisse all’uomo contemporaneo i suoi due farmaci (e qui farmaco va inteso etimologicamente come cura/veleno): la centratura ripetuta sul proprio ego, da pro92
muovere e valorizzare come un capitale da accrescere infinitamente, e la possibilità di aggirare parzialmente l’isolamento tornando in seno all’Uno della rete, della connessione permanente e dell’immaginario edonistico veicolato dai mercati. Lelio Demichelis ha discusso con lucidità questa finta soluzione promossa dall’apparato tecnico nelle forme dei social networks e dei mezzi di intrattenimento di massa. L’ha fatto parlando di una vera e propria religione tecno-capitalista, con i suoi culti e con i suoi peccati da espiare. Obiettivo del tecno-capitalismo: ricomporre ogni due e ogni pluralità e diversità nell’Uno totale e totalitario del gregge e della religione. Perché è vero che il tecno-capitalismo produce innovazione, alterazione, modificazione, moltiplicazione, eccitazione, caos e distruzione creatrice. Ma in realtà, più della moltiplicazione e dell’alterazione e perfino dell’innovazione prevale l’omologazione, l’unificazione delle differenze, la standardizzazione (che segue ad ogni innovazione distruttrice del precedente apparato) e soprattutto l’integrazione. Subordina – in tipico senso teologico-politico divenuto teologico-tecnico – le parti alla prevalenza dell’Uno, di ogni parte alla totalizzazione nel Tutto/Uno. [Eppure] la totalizzazione si serve della suddivisione per realizzarsi. […] Separazione dei tempi della vita, suddivisione del lavoro e incorporazione quindi nell’Uno funzionale. Quell’Uno funzionale che è appunto il tecno-capitalismo, che come ogni totalitarismo/potere pastorale separa per massificare e aggregare/integrare al meglio (ciascuno è singolo, ma nella massa), che come ogni gregge separa e individualizza per aggregare e controllare al meglio, che come ogni apparato organizzativo prima separa e gerarchizza e poi integra nel sistema facendo in modo che ciascuno viva l’organizzazione (il Tutto, l’Uno) come cosa propria e personale60.
Il fattore compulsivo del godimento, sopra evocato da Consigliere, merita altrettanta attenzione se vogliamo comprendere le conseguenze più profonde del rapporto tra produzione, consumo, immaginario e soggettivazione/assoggettamento. Quando si parla di piacere in un’epoca permissiva come la nostra, si rimane sconvolti da un fatto spesso sottovalutato: la differenza tra tempo libero e tempo di lavoro è ormai saltata e il piacere, che ha bisogno di crescere senza fretta, sembra preso in un processo di accelerazione inarrestabile. Non c’è tempo, appunto, per assaporare le sensazioni, l’attesa di un incontro romantico, della realizzazione di un desiderio accarezzato a lungo. Non c’è tempo per “oziare” e coltivare passioni che non siano immediatamente produttive. Il presente, che come ricorda Màdera è il tempo sensato dell’azione e non un punto geometrico nella sequenza degli attimi che irrimediabilmente si susseguono, si contrae nell’istantaneità degli scambi di mercato, degli investimenti finanziari e dei godimenti coatti. Godimenti intensi, ma dopanti, capaci di incatenare cuore e cervello a forme di dipendenza assai dannose. L’individuo ipermoderno, che prima di essere persona è consum-attore fedele al copione scritto dagli sceneggiatori del capitalismo spettacolare integrato, tenta di fuggire dagli effetti alienanti della divisione del lavoro e dello sfruttamento, ma può farlo – in assenza di visioni alternative della realtà – solo cadendo nella trappola del narcisismo di massa e dei piaceri tossici: dipendenza da dispositivi digitali di intrattenimento, cibo spazzatura, abuso di immagini sessuali, violente e prive di spessore simbolico, assunzione di sostanze chimiche studiate per potenziare il soggetto prestazionale, consumismo e culto del nuovo a ogni costo. 93
L’universo delle merci non potrebbe riprodursi ed espandersi senza l’invito quotidiano ad abbandonare il vecchio per inseguire l’ultima novità che si affaccia sul palcoscenico della società dello spettacolo. La passione per il nuovo, per l’innovazione continua, si traduce in godimento coatto ovvero in ripetizione. Il tecno-capitalismo mima e stravolge così il dinamismo della realtà, che non è mai ripetizione bensì creazione di possibilità inedite, riducendo il divenire a una sequenza di accadimenti tutti uguali perché dominati dalla medesima logica astratta di accumulazione uniforme. La vita, tuttavia, non si dà come «ricorrenza, cioè [come] ripetersi di un valore d’identità», bensì come «variazione dinamica» e ritmo61. Whitehead ha scritto: Nella natura stessa delle cose sono insiti due princìpi che si ripresentano in singole realizzazioni qualunque sia il campo di indagine: il cambiamento e la conservazione. Non può esservi nulla di reale senza che sussistano entrambi. Il puro cambiamento senza conservazione è un passare dal nulla al nulla. Il suo compimento finale non è altro che una fugace non-entità. La pura conservazione senza cambiamento non può conservare nulla62.
Il sortilegio tecno-capitalista rende la nostra esistenza un incessante «passare dal nulla al nulla» e livella i caratteri differenziali del reale negando la creatività degli eventi al fine di rendere tutto prevedibile e controllabile. La retorica del nuovo opera, in definitiva, con lo scopo di conservare un cambiamento inteso esclusivamente come iterazione di uno schema sempre uguale. Per questo nessuna vera novità può irrompere nello spazio-tempo liscio e omogeneo che il sistema ha instaurato e difende strenuamente. Il non-evento non è quello dove non succede nulla. È piuttosto il regno del cambiamento perpetuo, di un’attualizzazione ininterrotta, di una successione incessante in tempo reale, da cui risulta quell’equivalenza generale, quell’indifferenza, quella banalità che caratterizza il grado zero dell’evento. […] Invece di succedersi sul filo di una storia, le cose prendono a succedersi nel vuoto. Profusione di discorsi e di immagini di fronte alle quali siamo senza difesa, ridotti alla stessa impotenza e alla stessa attonita aspettativa in cui cadiamo nell’imminenza della guerra63.
Parallelamente la scarica meccanica delle tensioni accumulate, e i piaceri ripetitivi che sollecitano i circuiti dopaminici di ricompensa, inibiscono in modo micidiale il desiderio di trasformazione individuale e collettiva, scardinando nel singolo essere umano l’integrazione sana tra emozioni, pensieri, fantasie creative e processi fisiologici. La cadenza del tecno-capitalismo è frenetica – l’accumulazione economica e il funzionamento del relativo apparato tecnico non possono mai fermarsi – e questa velocizzazione patologica dell’esistenza non può che indebolire le capacità di ascolto, di scelta e di azione degli umani64. Siamo infatti animali culturali che, nello iato tra stimolo e risposta, e nel disaccoppiamento tra azioni e istinti, trovano la fonte di ogni libertà: quella di immaginare altrimenti la realtà e di modificare le condizioni di fatto in direzione di inediti sviluppi65. Velocità, astrazione, dominio del principio quantitativo su quello qualitativo, semplificazione brutale del piacere e rifiuto della negatività ritenuta inaccettabile per un’organizzazione che deve innanzitutto “funzionare”: questi sono gli ingredienti di una gigantesca operazione di controllo volta a farci oblia94
re la nostra condizione di esseri «potenti e limitati»66, partecipi di una vita che non può mai essere una totalità conchiusa, rigidamente identica a se stessa e, per questo, incapace di amare. Mauro Magatti, in un interessante volume dedicato alla società tecnica e alle sue contraddizioni, ricorda che la logica espansiva della crescita maturata al crocevia tra scienza, capitalismo e promozione della soggettività moderna si traduce in tre direttrici: quella dell’accrescimento dimensionale (gigantismo delle imprese, delle infrastrutture tecnologiche, delle forme di organizzazione), della frammentazione (parcellizzazione, decontestualizzazione, separazione della persona dai suoi legami fondanti) e dell’accelerazione (aumento della velocità a cui si svolgono i processi di scambio, conoscenza e innovazione). Sono tendenze che, nonostante contribuiscano ad ampliare la nostra capacità di agire sul mondo, sconvolgono le leggi profonde della vita organica e rendono gli umani passivi esecutori dei comandi inscritti nel codice del biopotere. L’etica prevalente, in queste condizioni, può essere solo quella efficientista della performance. «La perfezione dell’efficienza significa, in effetti, corrispondere agli standard più avanzati, correggere gli errori commessi, combattere le sacche di malfunzionamento, raggiungere il completo dominio di sé, diventando così perfettamente prevedibili»67. L’immaginario tecno-capitalista non può tollerare fragilità, legami territorializzanti, passioni improduttive, atti gratuiti ed esitazioni (inevitabili per noi, esseri mortali dotati di linguaggio e di etica, ma non per macchine programmate ad eseguire comandi precisi senza porsi domande). Tuttavia, il sistema di separazione che stiamo descrivendo, per conquistare la collaborazione degli individui e limitare i rischi di rivolta, deve sedurli e innalzarsi a Bene assoluto per tutti e per ciascuno. Esso, come ha intuito Mancini, è anche un diabolico “sistema di sostituzione”. Il male dell’ingiustizia, dell’indifferenza verso gli equilibri ecologici, dell’involgarimento della politica, delle guerre e della crescente disuguaglianza si presenta come condizione di ogni bene possibile, chance di affermazione per chi piangeva nell’ombra, riduzione di complessità in tempi difficili da governare, promessa di riscatto per i nuovi fedeli devoti al dio Mercato. Detto questo, forse il lettore avrà compreso il perché della lunga trattazione che abbiamo dedicato al processo di individuazione, per noi uno snodo teorico decisivo che travalica le frontiere disciplinari. Crediamo, infatti, che gli strumenti psicosociali di cattura impiegati dal sistema rivelino qui l’arcano del dominio contemporaneo: il potere tecno-capitalista e il suo immaginario specifico, oltre a separare i singoli dai contesti che li includono, tagliano di netto il filo che interiormente collega i poli della vita psichica in ciascuno di noi, per poi riannodarli in maniera strumentale facendoli operare secondo le loro logiche divisive. In altre parole, il punto di inserzione che consente ai dispositivi di controllo sociale di penetrare nel tessuto psichico individuale si troverebbe proprio là dove l’identità personale prende forma nell’alternanza ritmica tra differenzia95
zione e simbiosi (alternanza decisiva non solo durante gli anni dell’infanzia, ma lungo il corso di tutta l’esistenza). Al singolo vengono così preclusi tanto un autentico cammino di conoscenza di sé, quanto l’accesso a un senso di appartenenza che ridimensioni le pretese narcisistiche dell’io-mio. Il soggetto diventa mero individuo, un insieme inconsistente di preferenze e avversioni che fatica sia a centrarsi che a trascendersi. Per rendere possibile questa insidiosa opera di desoggettivazione anche i bisogni e gli affetti devono diventare territori di conquista per gli agenti pubblici e privati che detengono le chiavi della psicopolitica neoliberale. In particolare ogni desiderio deve essere normalizzato, inquadrato in un profilo, riportato sotto l’equivalente generale del Significante dispotico. È infatti pericoloso e da scongiurare, per il sistema, l’accesso incontrollato a un desiderio che si sottrae alla logica della tecnica e dell’economia politica: Il desiderio non sa cosa vuole, è un atto infondato che trova insopportabile ogni gesto della ripetizione volto a confermare se stesso […], il desiderio rende impossibile l’adeguamento a un modello. […] Tra il desiderio e il sistema non c’è un dualismo, ma se mai una dissoluzione di tutto ciò che pretende di porsi come unico, come esemplare, come subordinante la ricchezza del molteplice. […] Il desiderio è […] ciò che rompe la macchina del discorso, la sua grammatica, la sua sintassi; è ciò che nel discorso fa problema. […] il desiderio, che ignora il valore di scambio, non conosce che il furto e il dono. Di qui la necessità per la logica del capitale di estinguere i desideri che ogni società codificata teme come il suo negativo più profondo, o di deviarli nella finzione dell’immaginario, come si deviano le forze temute di un fiume scavandogli un letto artificiale o derivandone mille rigagnoli che si disperdono nella terra68.
I rimandi fantasmatici che l’oggetto-merce evoca a livello psichico possono nutrire solo un’insoddisfazione cronica che, impedendo al desiderio di riposare nella sua apertura infinita, lo rinvia a un futuro appagamento sempre promesso e inevitabilmente frustrato. Il fenomeno ha assunto una dimensione generalizzata per cui, ad esempio, si compra la “fedeltà” nella musica stereo, l’“evasione” nei grandi viaggi, lo “spazio” e il “tempo” nelle fotografie che si riportano da questi viaggi, la nostra “identità” negli oggetti che si lasciano “personalizzare”. In questo modo, attraverso la sua immagine, il suo doppio, l’oggetto fa illusoriamente afferrare l’universo delle significazioni a esso legate, e attraverso l’impiego di quella figura retorica che è la metonimia, dove si indica il tutto attraverso la parte, lo spettacolo messo in scena sul registro dell’immaginario fa di un oggetto uno specchio perfetto, perché non rimanda immagini reali, ma solo immagini desiderate. Come fa notare Guillaume: «Il soggetto guarda, al di là dell’oggetto, ciò che la sua immagine rappresenta. Ma dietro l’oggetto e la sua immagine non esiste nulla, e allora orienta il desiderio verso altre immagini. Il desiderio rinnovato e intrappolato continuamente è una delle molle della crescita della domanda». Accade così che, sul registro dell’immaginario, il codice dello spettacolo subordina il desiderio al codice della merce controllato dal codice del valore (di scambio)69.
Il tipo umano promosso dalla configurazione culturale ipermoderna è, in definitiva, quello schiacciato sui vertici opposti del campo esperienziale che compenetra il processo di individuazione. Per riprodursi il tecno-capitalismo ha bisogno di individui “corazzati”, isolati nel proprio egocentrismo, e di individui fusionali in cerca di una confluenza rassicurante e deresponsabilizzante con l’Uno dell’apparato tecno-economico. In effetti, pur di adeguarsi alle leggi non scritte della megamacchina, le persone finiscono per oscillare di continuo tra questi estremi ormai separati, pre96
cipitando nell’egotismo di massa che le distingue narcisisticamente le une dalle altre solo per renderle identiche, equivalenti, numeri tra numeri. Il soggetto sano, portatore di un senso di unità che non si contrappone al molteplice ma lo integra e assume nella varietà delle situazioni che lo vedono coinvolto, può essere solo quello che si muove liberamente da un polo all’altro dell’esperienza psichica vivendo in profondità la coesistenza di queste tendenze, entrambe indispensabili per coniugare riconoscimento e libertà, innovazione e continuità culturale, individuazione e socializzazione. Il movimento libero di cui stiamo parlando ha, tra i suoi effetti più sorprendenti, quello di espandere il senso di sé, riportando l’Io all’interno di qualcosa di più grande di noi, che superandoci ci accoglie e trascende al tempo stesso. Nonostante il tecno-capitalismo tenti incessantemente di ridurre l’uomo a una congerie di componenti giustapposte, a un banale artefatto, catturando parti di esso per metterle al servizio di ibridi sovrapersonali come la macroeconomia e le tecnologie digitali, la vita organica continua a riproporre il nesso originario tra comune e singolare, potenza e atto, limiti e libertà. «Io sono vivo» implica sperimentare un «me» di questa vita, perché la vita succede, esiste, e passa per le parti che la vivono. I ricercatori e gli esperti della vita e della coscienza artificiale dimenticano semplicemente il fatto fondamentale che concerne qualunque fenomeno organico: la partecipazione, vale a dire che la singolarità esiste come una manifestazione del comune, mentre il comune deve essere concepito come la singolarità in potenza. Ciò che avvolge la mia singolarità implica la storia, l’evoluzione della vita, la cultura, la geografia, ecc. Nessun organismo vivente può emergere da un’aggregazione «intelligente» di parti, poiché la vita è sempre manifestazione singolare di ciò che è più universale e profondamente comune70.
4. L’impatto del trauma su psiche e politica Abbiamo appena visto che l’impianto di cattura del sistema si fonda sulla possibilità, sempre presente, di separare le persone dagli altri e dalla propria potenza di agire. Una volta operata questa frattura esse vengono riunificate fittiziamente su uno o entrambi i poli dell’esperienza psichica, purché divisi ed estremizzati. Così il campo che tiene in tensione creativa individuazione e socializzazione perde la sua vitalità. L’individuo scisso finisce, di conseguenza, per essere arbitrariamente riconnesso: 1) alla sfera dell’io e dell’autoriferimento compulsivo (dove la differenziazione sana degenera in individualismo e autismo relazionale); 2) a quella del web, della massa indifferenziata, dell’Uno totalizzante dell’apparato tecno-capitalista (dove la simbiosi estatica che apre al comune e all’essere preindividuale precipita in conformismo e passiva adesione all’immaginario dominante). L’effetto, sul versante del Sé, è quello di promuovere identità sclerotizzate, incapaci di accogliere il dono dell’alterità, ma anche liquide quanto basta per adattarsi ai cicli simmetrici di produzione e consumo mutando gusti e preferenze al ritmo delle mode; sul versante del Noi, invece, guadagnano terreno le forme più reazionarie di comunitarismo, come i localismi esclusivi e i nazionalismi aggressivi, mentre ovunque assistiamo a un livellamento impressionante 97
che rende anonimi e indistinguibili i contributi dei singoli alla vita della collettività71. Ha dunque ragione il filosofo Roberto Finelli, studioso di Hegel, di Marx e delle psicologie del profondo, quando invoca il superamento di queste dicotomie incrociate in nome di un’etica del riconoscimento che si può definire compiutamente “post-liberale” e “postcomunista”72. Un’etica siffatta, e una conseguente politica di liberazione che ci conduca oltre l’economia di mercato e i collettivismi forzati, vanno considerate premesse irrinunciabili per dare vita a un’auspicata “Comunità di Liberi Individui”73 che si riconoscano come membri inseparabili di ecosistemi e collettivi umani/non-umani in coevoluzione reciproca. Una pia illusione? La solita utopia priva di riscontri fattuali nella realtà? O forse un desiderio che illumina il cammino per aiutarci a non ripetere gli errori e gli orrori del secolo scorso, quelli che pesano sul cuore e lo serrano nella morsa del rimpianto e della disperazione? In ambito clinico è ben nota la dinamica familiare per la quale i traumi non elaborati vengono trasmessi alle generazioni successive. Quest’ultime si trovano così prive di strumenti adeguati per dare un senso a vissuti e sofferenze che affondano le radici nelle esperienze non mentalizzate di chi le precede. È importante comprendere che la stessa cosa accade sul piano storico e collettivo. Un’originale terapeutica sociale appare dunque necessaria, tanto più per coloro che, eredi della critica al capitalismo, avvertono confusamente gli effetti di una sconfitta radicale. Il naufragio delle lotte politiche degli anni Sessanta e Settanta, l’esito rovinoso dell’esperimento socialista nell’Unione Sovietica, l’affermarsi incontrastato delle logiche neoliberiste, l’aggravarsi della crisi ecologica e la progressiva distruzione dei diritti del lavoro sono all’origine di un crollo psicosociale che si prolunga fino ai giorni nostri. Nonostante questo, il fallimento dei principali progetti di emancipazione del Novecento e il conseguente sopravvento preso dal tecno-capitalismo su larga parte del pianeta non sono ancora annoverati dagli studiosi tra i cosiddetti traumi sociali massivi – guerre, olocausti, genocidi… –; essi però rappresentano, a nostro parere, indicatori preziosi per dare ragione dell’epidemia di sofferenze psicologiche ed esistenziali che registriamo ormai su vasta scala (senso di impotenza, depressione, insicurezza cronica, ansia da prestazione, narcisismo, disturbi borderline, isolamento, sfiducia nel futuro e così via). Nei fatti ci troviamo di fronte, ma senza clamore, a un fenomeno di violenza psicosociale che sta generando un pericoloso indebolimento delle capacità di resilienza individuali e collettive. È dunque possibile tentare un parallelo con le scienze psicologiche e ipotizzare che le generazioni coinvolte nelle contestazioni della seconda metà del secolo scorso (ma con loro anche una parte di quelle sinceramente riformiste, che credevano di poter tenere insieme sviluppo economico, tutele del lavoro e ridistribuzione della ricchezza verso il basso) abbiano attraversato un passaggio critico mai sondato fino in fondo74. 98
Lo dimostrano in modo esemplare, sul piano politico, tanto il meccanismo dell’identificazione con l’aggressore sviluppato dai partiti progressisti in Italia – coinvolti, dagli anni Novanta fino ad oggi, nelle principali operazioni di svendita del patrimonio pubblico, di precarizzazione del lavoro, di subalternità alle politiche imperialiste americane e di adesione acritica ai diktat dei mercati finanziari – quanto la chiusura settaria di gruppi ultraminoritari incapaci di incidere sullo scacchiere politico del nuovo millennio. Le ragioni opportunistiche e il cinismo delle classi dirigenti della cosiddetta “sinistra” non possono spiegare, da sole, la portata epocale di una siffatta rivoluzione passiva. In quest’ottica la domanda che segue, tratta da un libro di Clara Mucci sull’esperienza del trauma, si carica di massima urgenza per chiunque abbia a cuore le sorti della nostra convivenza civile: «Se perfino la persona che è stata esposta al trauma diretto, devastante, ha difficoltà nel ricordare e nell’attribuire significato all’accaduto, come possono le generazioni future rendere giustizia all’inconosciuto del trauma, che tuttavia si trovano a fronteggiare nella loro vita psichica e che, almeno in alcuni casi, la domina?»75. Dobbiamo quindi augurarci che si sviluppi, tra coloro che coltivano ancora sogni di giustizia sociale e ambientale, una lucidità comune, base indispensabile per elaborare il trauma subìto o ereditato e aprire un nuovo fronte di resistenza al disastro che incombe. D’altra parte, solo l’elaborazione delle ferite collettive può donare una “seconda vita” al nostro desiderio di trasformazione dell’esistente: Non basta passare esperienze negative per divenire lucidi, ci [vuole] la collaborazione del soggetto che deve lasciarle entrare nel campo della propria riflessione. […] la lucidità alla quale allora si perviene non spinge al pessimismo o al dolorismo […]. Essa non è fatta di rassegnazione e rinuncia, e nemmeno di acquietamento […] dal momento che sfocia sulla seconda vita […]. La seconda vita va più in profondità e si vive maggiormente, più rigorosamente, come una sfida (il contrario del “ripiegamento” […]). Dal momento che accede a una maggiore radicalità e non ha più nulla da perdere, essa può più rigorosamente osare, in maniera meno esuberante ma più calibrata76.
Non sappiamo se l’avvento di questa seconda vita sia prossimo, ma continuiamo a sperarlo e a lavorare per strappare all’impensato la natura essenzialmente traumatica del fenomeno tecno-capitalista. Gli studi sul trauma in psicologia, se interrogati da un’angolazione filosofica e sociologica, ci forniscono spunti sorprendenti per cogliere il senso di una crisi d’epoca che investe tanto i soggetti quanto le istituzioni e la società civile. I ricercatori ci insegnano che ciò che viene compromesso, nelle situazioni infantili segnate da shock precoci (violenze fisiche e verbali, abusi sessuali, trascuratezza…), è lo spazio psichico in quanto tale. Ascoltiamo a questo proposito l’analista Donald Kalsched: Comunemente la psiche è quell’organo dell’esperienza che crea i nessi e le associazioni fra elementi della personalità ai fini dell’integrazione, della totalità e dell’integrità personale. Nel trauma, però, vediamo la psiche operare non per connettere ma per disconnettere – scindere o dissociare. […] Collochiamo dunque la psiche in quello che Winnicott chiamava lo “spazio transizionale”. La persona che soffre di una scissione mente/corpo dopo un trauma è malata in questo terzo spazio – nella sua psiche – non necessariamente nella mente o nel corpo. L’individuo post-traumatico può avere un’ottima “mente”. Può essere una persona molto dotata e intellettualmente valida […]. Allo stesso modo l’individuo post-traumatico può avere un corpo sano. Una persona del genere può spingere il proprio
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corpo a prodezze straordinarie – affrontando maratone, gare di decatlon, body-building e cose simili. Ma un esame più attento rivela che c’è qualcosa che manca nell’esperienza corporea di queste persone, qualcosa che possiamo solo descrivere come la mancanza di uno spirito personale, un senso di animazione, di intimità e vulnerabilità, che ci lascia compulsivamente insoddisfatti e bisognosi di sempre maggiore stimolazione. Ciò che questi individui di rado ricercano è la psiche, o anima – il luogo dove il corpo incontra la mente e i due s’innamorano. Se si potesse reggere questa tensione, sarebbe possibile una nascita reale dello spirito personale, ma prima è necessaria la psiche, o anima77.
Quando il trauma irrompe nella vita di una persona, tanto più se essa è immatura e largamente dipendente dall’ambiente circostante, si mettono in moto delle difese psicologiche arcaiche che scindono tra loro gli elementi somatici e mentali dell’esperienza pur di proteggere il soggetto da vissuti insopportabili e deflagranti. Sollecitato dalla brutalità del trauma, entra in azione un sistema di allarme, spietato e intransigente, che non può [p]ermettere che tutti gli elementi dell’intera esperienza siano presenti contemporaneamente, e […] la conseguenza di questo è un attacco contro i legami tra le componenti somatiche e mentali dell’esperienza. Poiché gli elementi somatici e mentali sono “diversi”, potremmo dire che la difesa di autocura sfrutta l’incommensurabilità fra la mente e il corpo e divide l’esperienza di conseguenza. Gli aspetti emozionali e sensoriali dell’esperienza restano con il corpo e l’aspetto di rappresentazione mentale rimane scisso nella “mente”78.
Ne segue che «nel trauma, lo scopo della psiche è la sopravvivenza, non l’individuazione»79. Registriamo, con un brivido, che questa sembra essere la condizione “normale” vissuta da buona parte dei nostri contemporanei. Incapaci di stare nella tensione tra mente e corpo, abituati a scindere emozioni e significato, sono numerosi gli uomini e le donne che combattono solo per sopravvivere (la “sopravvivenza aumentata” del capitalismo spettacolare integrato) e non certo per individuarsi. Il consumismo e le nuove tecnologie digitali aumentano in maniera esponenziale il divario tra emozioni, sentimenti e senso, producendo, come si è detto, pseudo-soggetti «compulsivamente insoddisfatti e bisognosi di sempre maggiore stimolazione». Non stupisce, quindi, che l’uomo medio ipermoderno stenti a riconoscere il valore della propria corporeità (che anzi vorrebbe in tutti i modi correggere e “ottimizzare” avvalendosi dei servigi offerti dalla chimica, dalle biotecnologie e dalla chirurgia estetica) e non sappia affatto quale significato dare a ciò che accade dentro e fuori di lui. Assistiamo, dunque, a un circolo vizioso sfruttato abilmente dal sistema tecno-capitalista: il suo dominio si impone non solo attraverso una forza traumatizzante che invade gli spazi psichici dei soggetti, disanimandoli e scoraggiando ogni forma di opposizione, ma soprattutto grazie alla configurazione sacrificale di una cultura che plasma esseri umani immersi nell’angoscia e votati implacabilmente alla dissociazione. Mentre si aggredisce la possibilità di conservare e sviluppare uno «spirito personale», si promuove, nel caos della lotta di tutti contro tutti e in un clima di crescente irrealtà, l’adozione massiccia di difese che rendono impossibili esperienze integrate. In altre parole: il potere, proprio come il trauma, costrin100
ge la psiche a lavorare contro se stessa (e contro l’organismo umano nel suo complesso) pur di sopravvivere. Nel momento in cui le emozioni e le sensazioni non sono simbolizzabili, e vengono allontanate perché risultano minacciose e intollerabili, ciò che in noi vi è di più umano trapassa in una cupa fase di latenza. «Il prezzo da pagare è terribile: la perdita dello spirito. Quando la mente e il corpo si scindono, il principio animatore della vita psichica, o quello che chiameremmo lo spirito, se ne va»80. L’individualità posttraumatica, con la sua peculiare mistura di impotenza, paura e iperadattamento, rappresenta dunque la forma di (non)vita preferita dal potere e funzionale al suo esercizio. Le difese primitive, che per i soggetti abusati e per le vittime di traumi precoci sono la norma, si diffondono a macchia d’olio in tutti gli strati della società e sembrano porsi come modelli basici di gestione della frustrazione, del conflitto e delle angosce di ogni giorno. Una gestione illusoria poiché, avvalendosi del triplice meccanismo evolutivo di fuga-attacco-congelamento, esse non facilitano lo sviluppo di risorse metacognitive, l’ascolto delle emozioni e la maturazione della personalità. Potremmo dire che l’emergenza è diventata la regola, e questo perché la sofferenza esistenziale causata dalle disuguaglianze, dalla precarietà e dalla rottura delle nostre relazioni vitali impatta su umani intimamente scissi, indotti a reagire alle molteplici crisi del presente senza una percezione piena del nesso corpomente, garantita solo da un paziente e irrinunciabile lavoro interiore. Dobbiamo allora impegnarci per ricostruire «il legame immaginale fra la realtà e la fantasia, non la fantasia come una difesa consolatoria contro la realtà»81. L’immaginario tecno-capitalista che stiamo mettendo in discussione ostacola questo legame, prima svuotando e poi rimarginando lo spazio potenziale della psiche82. Le sue consolazioni durano poco e, in ultima istanza, sono veleno. Al trauma della sconfitta, per chi nutriva speranze rivoluzionarie, si affianca oggi, per tutti senza distinzioni, una traumatizzazione continua che modella in negativo l’adattamento psichico alla realtà, imprigionando in una bolla, tanto evanescente quanto luccicante, gli individui stregati dal sistema. Un suggerimento per pensare la cura di questo disagio sociale profondo viene nuovamente dalla clinica: Raggiungere un luogo in cui “la realtà non è negata” e “la fantasia mantiene la sua vitalità” è lo scopo della psicoterapia con tutti i sopravvissuti a un trauma, perché nel trauma c’è un collasso [del]la tensione dialettica necessaria a generare l’esperienza significativa. […] “La capacità di sostenere una dialettica psicologica” (Ogden) […] richiede quello che Winnicott ha definito lo spazio potenziale. Per spazio potenziale [intendiamo] un’area intermedia dell’esperienza che sta fra la realtà interiore e la realtà esterna. […] È proprio questa area intermedia di “duplicità nell’unità” quello di cui c’è bisogno per poter curare il trauma, sia nel transfert che altrove83.
Siamo chiamati, in altre parole, a rianimare la forza simbolica del sogno e dell’immaginazione creatrice, trovando nuovi modi per tenere vivo il transito fra il possibile e il reale84. 101
5. Dal riconoscimento all’incontro Tornando ora al tema cruciale del riconoscimento, si sarà finalmente capito che una nuova etica risulta impensabile senza dei soggetti dialogici capaci di incarnarla. Questi ultimi vanno pensati come individui promossi a “soggetti” autentici solo grazie al dialogo permanente e consapevole con l’altro-da-sé e l’altro-di-sé: un dialogo che, partendo dall’accettazione gioiosa delle differenze (del molteplice che tiene aperto ogni processo di totalizzazione), si realizza trascendendo la pretesa di difendere un’identità statica, definitiva, chiusa all’alterità sul piano orizzontale e su quello verticale. Eccoci dunque tornati allo schema degli assi cartesiani. La relazione tra asse verticale e asse orizzontale si può assumere costituisca un’invariante, il trascendentale per eccellenza (per dirla con Kant), dell’essere umano. I due assi sono profondamente eterogenei tra di loro, proprio come eterogenee sono le facoltà umane secondo la Critica della ragion pura.
Svolgono infatti una funzione profondamente diversa, data la diversità dei loro contesti di riferimento: che sono rispettivamente l’Altro-di-sé, ossia la propria corporeità emozionale, da un lato, e l’Altroda-sé, ossia il mondo degli altri esseri umani fuori di me, dall’altro. La funzione dell’asse orizzontale è quella del trasmettere e del ricevere contenuti emotivi attraverso la struttura contenitore/contenuto. La funzione dell’asse verticale è quella di trasformare l’emozione in una rappresentazione, ossia di renderla accessibile, nominabile e presente alla coscienza. Ma ovviamente la stessa funzione dell’orizzontalità deve implicare dentro di sé la verticalità, perché il contenitore deve portare dentro di sé il contenuto emotivo, riviverlo e ricongiungerlo con le proprie emozioni già provate ed esperite, per poterlo nominare e identificare85.
Qui Finelli avanza le sue argomentazioni a partire dall’antropologia proposta da Wilfred Bion, per il quale il bambino, privo alla nascita di un apparato per pensare sufficientemente maturo, imparerebbe solo gradualmente a riconoscere e contenere sull’asse verticale pulsioni e affetti mediante una sintonizzazione efficace con la mente della madre (o di chi ne fa le veci). Il genitore, sul piano psicodinamico, contiene grazie alla funzione alfa i vissuti confusi e travolgenti che il bambino avverte dentro di sé, restituendoglieli smorzati di urgenza, finalmente circoscritti, assimilabili e pensabili. La relazione mente-corpo è dunque resa possibile esclusivamente da un preventivo riconoscimento interpersonale mediato dalla capacità del caregiver86 di intercettare, elaborare e digerire al posto del bambino quelle emozioni che lui non potrebbe mai organizzare e inserire nel campo della sua esperienza cosciente. Funzioni umane dunque, quella del verticale e dell’orizzontale, assai diverse. Ma pure intrinsecamente connesse, giacché è solo la loro sintesi che dà vita all’integrità e all’individualità dell’essere umano, quale Io capace di rappresentare e far valere le proprie necessità pulsionali – ovvero il più proprio e irriducibile progetto di esistenza – a fronte e nel confronto con il mondo esterno. […] Ma nello stesso tempo è proprio la dualità e l’eterogeneità dei due assi, con la loro diversità di funzione, a rendere la sintesi un composto estremamente variabile che, nella sua complessità di articolazione, dà conto non solo della moltitudine delle biografie individuali ma anche della molteplicità di patologie di vita, che si danno a seconda dell’atrofia e della mancanza di percorribilità che può affettare uno dei diversi segmenti dell’insieme. […] L’antropologia di verticale e orizzontale ci dice dunque che individuazione e socializzazione non possono che andare insieme, sono due facce di una stessa medaglia, anche perché il formarsi di un singolo con alto tasso di individualizzazione ritorna con effetti profondamente positivi sullo spessore e la qualità della socializzazione. Essere riconosciuto/riconoscersi/riconoscere l’altro finiscono così col formare una struttura circolare intrinsecamente connessa, per la quale l’intensificazione di un segmento del circolo si trasmette e riverbera nell’intensificazione degli altri due.
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[…] Così è in grado di operare un riconoscimento dell’altro solo chi ha già maturato un riconoscimento di sé, in un’intensità di adesione al proprio sentire, che, a sua volta, è stato promosso da un iniziale esser riconosciuto. In tal senso l’antropologia del riconoscimento vale come un moltiplicatore etico, la cui legge […] potrebbe così concepirsi: di tanto gli esseri umani si individualizzano incarnan-
dosi, di tanto danno vita a una socializzazione in cui il riconoscimento reciproco è fondato, non sul «dover-essere», ma sul «lasciar-essere». Un’individualità, che tendenzialmente coincide con la propria emotività e non la riduce a oggetto di censura e manipolazione, non ha necessità di manipolare e ridurre a oggetto l’altro da sé87.
Nelle pagine precedenti abbiamo illustrato la natura potenziale di un soggetto preso in un processo di individuazione continuo, sintesi emergente e mai conclusa di tensioni molteplici e contraddittorie. Possiamo considerarlo il protagonista indiscusso della politica di domani, purché non lo si confonda con le identità nomadiche e fluide idealizzate dalla sensibilità postmoderna. Non stiamo infatti sostenendo, secondo il gusto del tempo, «una concezione evenemenziale dell’individuo, concepito come una serie inesauribile di eventi, di puri avvenimenti»88. Piuttosto pensiamo a una soggettività adulta che sia capace di riconoscersi, mediante la memoria delle vicende attraversate e una crescente consapevolezza di sé, nella storia specifica e irripetibile del suo corpo situazionato, un corpo scolpito dalle esperienze vissute e dalle emozioni che le hanno accompagnate. Se si isola il corpo dall’esistenza, lo si astrae dal suo vissuto individuale, lo si sradica dal suo contesto naturale e culturale, ciò che viene rappresentato è […] una simulazione artificiale. Il corpo vive nello spessore del mondo, nel suo sfondo: l’aria, il sole, l’acqua sono nelle sue vene, nella sua circolazione, pelle. Come scrive Merleau-Ponty, il corpo è l’unico mezzo che abbiamo di andare al cuore delle cose, facendoci mondo e facendolo carne. Ogni manifestazione e attività del vivere ha una tonalità sensoriale, una vibrazione motoria, una intensità affettiva, che la pervade e l’orienta, tutta l’esperienza psichica umana dà a pensare e immaginare al di là di ciò che il concetto può esprimere e comunicare. […] Se il legame di intimità fra esseri umani e mondo si interrompe, se si lacera la relazione di segreta simpatia fra gli esseri viventi, non potremo essere altro che cose morte fra cose morte, soli per sempre89.
Insistiamo su questo punto proponendo un’analogia con l’atto del camminare90. L’uomo, come essere a due fasi, ha bisogno tanto di radicamento quanto di trascendenza (nel senso etimologico di “andare oltre” e non come rimando a una sterile metafisica dell’aldilà). Nel gesto quotidiano del passeggiare percepiamo, se prestiamo la dovuta attenzione alla nostra postura, che un piede rimane ancorato al terreno, fungendo da base stabile, mentre l’altro si alza staccandosi da terra prima di trovare un nuovo, momentaneo appoggio. Fuor di metafora: la nostra corporeità emozionale-pulsionale è il supporto affidabile che può fornirci lo slancio per distanziarci dal già dato, lavorando in modo personale la trama di relazioni, interne ed esterne, che intimamente ci costituisce91. Riteniamo dunque che un soggetto rivoluzionario, capace di partecipare senza fanatismo alla costruzione di un mondo più sostenibile, equo e solidale, possa sorgere solo laddove il paradigma del riconoscimento e l’equilibrio dinamico tra spinte alla differenziazione e alla comunione si affermino sull’odierna antropologia neoliberale 103
dell’homo oeconomicus e su quella forzatamente comunitaria dei fascismi e dei socialismi autoritari. Tutto questo muovendo da un’assunzione responsabile del binomio corpo-mente e dalla cura paziente di Psiche come area creativa intermedia. Proviamo quindi a coronare questa ricognizione sulla duplicità generativa dell’essere umano, e sul suo desiderio ardente di vita vera (una vita intera, integra, armonica), condividendo delle considerazioni che si avvicinano molto alle intenzioni del nostro saggio: «Socializzazione dei mezzi di produzione», era una volta la silloge che compendiava la trasformazione che avrebbe scandito il passaggio dal capitalismo al comunismo. Ma dopo il collasso, per estenuazione interiore, del cosiddetto comunismo realizzato si è ben consapevoli, da parte dei più, che quella parola d’ordine esprime ormai una tipologia di universalizzazione profondamente deficitaria rispetto alla forza di diffusione e di universalizzazione del paradigma del capitale. È, invece, il «paradigma del riconoscimento» che proviamo ora ad avanzare come possibile silloge di una nuova utopia postcapitalista e postcomunista, per la quale e nella quale un massimo grado di socializzazione non confliggerebbe ma anzi sarebbe in armonia con un massimo grado di individuazione. E dove appunto l’endiadi di socializzazione e individuazione inaugurerebbe qualcosa di, finalmente ed epocalmente, nuovo rispetto alla mortificazione dell’individuo che, si badi bene con modalità profondamente diverse, è stata perpetrata sia dal totalitarismo del capitale che dal totalitarismo della collettivizzazione. […] L’individuazione è la ricchezza specifica di una società postliberale e postcomunitaria: un’individuazione (riconoscersi) da opporre, nel suo nesso coll’esser riconosciuto e con il riconoscere, all’individualismo della società capitalista e all’assenza radicale di individualità della società comunista92.
Una cura radicale per la crisi di presenza del nostro tempo, sul piano politico, psicologico e spirituale, potrà essere sognata, progettata e messa in opera solo dedicando energie consapevoli allo sviluppo di un’antropologia critica e di una relativa etica del riconoscimento. Esse, però, non possono bastare in assenza di uno spirito collettivo rigenerato, dove trovino il giusto spazio valori decisivi come l’amore, la creatività, il servizio reciproco e la coralità93. La comprensione concettuale della realtà non è dunque sufficiente: serve anche – e soprattutto – un’educazione al sentire che ci aiuti a intrecciare finalmente un “incontro erotico” con il mondo, che metta in gioco tutto il nostro essere: Mentre la conoscenza mi permette di prevedere il comportamento dell’altro, l’incontro non lo fa: il misterioso altro mantiene la sua capacità di sorprendere. La conoscenza agisce come una chiusura sul futuro, da qui, il controllo, la sicurezza. L’incontro lascia il finale aperto, mette in conto la spontaneità, comporta vulnerabilità. È per questo che l’incontro è erotico. […] dare priorità all’incontro piuttosto che alla conoscenza non è meramente uno scrupolo morale. […] è l’incontro la modalità appropriata per i sé, che si costituiscono attraverso un contatto intersoggettivo con altri soggetti per i quali essi si identificano come sé. È attraverso l’eros, che assume la forma dell’incontro, che questi sé nutrono la loro essenza […], che vanno a servire fedelmente il loro conatus. Se, nel nostro approccio collettivo alla realtà, mettessimo l’incontro al posto della conoscenza e decidessimo di dedicare quel tipo di energia e intelligenza che restano costantemente intrappolate nel progetto della conoscenza, piuttosto, al progetto dell’incontro, ci muoveremmo verso una società basata su un’autorealizzazione collettiva, che si realizzerebbe nella comunicazione con il reale, piuttosto che nel suo sfruttamento. In altre parole, ci staremmo finalmente preparando a seguire la Via – il sentiero dell’accrescimento dell’Uno attraverso la relazione erotica con i Molti – e non a rimanere sulla pista cieca dell’autoestinzione e del genocidio, su cui ci troviamo attualmente94.
Ogni passo in questa direzione anticipa, qui e ora, il buon luogo – l’eutopia – che ci siamo dati come destinazione. Perché solo nell’incontro responsabile 104
con un mondo rianimato, dove l’Uno e i Molti conducono insieme la danza della realtà senza inutili scissioni, è possibile sentire la verità profonda che unisce due affermazioni apparentemente antitetiche come queste: «Il processo di individuazione è quindi accompagnato da una crescente responsabilità individuale […]. Sembra proprio che nei momenti decisivi del suo destino l’uomo venga regolarmente esposto a un conflitto morale, affinché egli, opponendosi a una posizione etica precedente, passi a un ethos più individuale. Non sono pochi coloro che per tutta la vita rimangono presi nelle maglie di un tale conflitto»95; «“La mia vita non sono io”: questa è la conclusione alla quale si arriva quando ci si lascia catturare dai tratti di singolarità che ci attraversano. Più mi dimentico, più esisto, perché l’io è la prigione della vita»96.
6. Sulla soglia Il nostro itinerario tra filosofia, psicoanalisi e critica dell’immaginario giunge così al suo termine provvisorio. Intravediamo, sulla soglia di un passaggio globale ormai irreversibile, la necessità di ripensare profondamente la dimensione etica nelle nostre vite. Il soggetto, che abbiamo scoperto come una risultante complessa delle situazioni che lo avvolgono e co-istituiscono, esito avventuroso di un’individuazione sempre aperta, apporta qualcosa di originale all’intero processo della realtà. La sua flessibilità non implica, ricordiamolo, un sostegno acritico alla retorica delle identità multiple e dell’informe. Sarebbe questo un fraintendimento grave poiché, ai tempi del tecno-capitalismo, «gli individui sono tenuti a rispondere a un’ingiunzione paradossale: da un lato, soddisfare le richieste di coerenza, durezza, saldezza, dall’altro obbedire alla precarietà in nome di una identità mai compiuta ma sempre di là da venire»97. Si tratta piuttosto, per affrancarci dal doppio legame esercitato dall’ideologia corrente, di capovolgere la prospettiva del sistema: solo chi sente bene le proprie radici, e sa porsi consapevolmente nel tracciato storico che lo ha messo in forma, può davvero assaporare la gioia dell’incontro e del divenire. Colui che riconosce il proprio «centro psico-sensoriale interno»98 può aprirsi con fiducia a una vita più-che-personale, avvertendo, oltre il confine della pelle e nell’intimo del proprio essere, la presenza di una realtà eccedente, di una Via che è di tutti e di ciascuno. Questo soggetto, che «non [è] una sostanza, bensì un compito, una funzione di coordinamento e di armonizzazione di una molteplicità»99, vive nel tra che tiene in tensione differenziazione e simbiosi, singolarità e comune, una tensione creativa che ogni potere cerca di neutralizzare e gestire mediante specifiche tecnologie di governance. Possiamo dunque approssimarci alle conclusioni lasciando la parola a François Jullien, un pensatore che, all’incrocio fra due mondi (Europa e Cina), coltiva la sua ricerca promuovendo l’accesso a
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un’alterità irriducibile e mai del tutto assimilabile, dunque alimentando il desiderio dell’incontro. Qui sta il tratto proprio dell’incontro: da una parte, ciascuno conserva un sé, da cui derivano lo choc e la messa in tensione, non vi è dunque fusione, l’io non viene del tutto abolito; ma, d’altra parte, il sé è scalfito nella sua chiusura, spossessato di ciò che lo rassicura e lo chiude in quanto io. L’incontro è questa struttura contraddittoria, problematica, ma allo stesso tempo feconda, che mantiene lo scarto dell’alterità, mettendo l’io in presenza dell’Altro, nel luogo più accanto possibile. […] L’incontro è tanto più reale, effettivo, quanto più, attraverso di esso, si mette in questione e si mette al lavoro (nei due sensi di travail come produzione e fatica) l’appartenenza del soggetto ripiegato su se stesso. In questo senso, l’incontro è etico, è finanche al principio dell’etica. […] È ormai finita l’epoca in cui l’etica è stata pensata dal punto di vista della prescrizione, del comandamento, dell’imperativo categorico. Ora occorre mettere in campo un’etica della promozione e dello sviluppo, che apra sempre nuove possibilità di esistenza per il soggetto, dove ex-istenza è da intendersi letteralmente, come il gesto di tenersi fuori da se stessi. L’esistenza è un movimento contrario alla chiusura, alla limitazione e al possesso. Vi è una distinzione tra soggetto e io: il soggetto ha la capacità di tenersi fuori di sé e di stare al di là dell’io. Il soggetto è, al contempo, immanente, nel senso di im-manere, ossia restare nel mondo, ed ex-istente, poiché sporge fuori da sé. Immanente ed esistente (e non trascendente), questo è il paradosso fecondo dell’umanità100.
Ecco che, infine, rintracciamo la natura più autentica della soggettività proprio là dove il divenire le impone di non coincidere mai con la sfera dell’ego, potendo definire quest’ultima, sul piano etico e psichico, come quella parte di un Intero che si scambia erroneamente e ostinatamente per il tutto101. Riconoscendo invece l’ordito delle relazioni e degli attaccamenti che lo tengono al mondo, il soggetto si fa carico delle parziali discontinuità che può introdurre nel cuore della sua epoca e della possibilità di perturbare strategicamente gli equilibri dati ormai come immodificabili. Offrendo una nuova prospettiva sulla realtà condivisa, grazie alla cooperazione di aspetti consci e inconsci parimenti implicati nel cambiamento, egli compie un gesto creativo ed ecologicamente sensibile, «un atto morale [che] implica una certa informazione interna, che lo situa e lo limita in quanto atto; si sviluppa secondo regole […] che esprimono la sua esistenza come atto in una rete di atti»102. L’atto tipico del tecno-capitalismo è, al contrario, un atto “folle” che inibisce la dialettica tra possibile e reale. Un atto mono-maniacale, chiuso nella sua coazione a ripetere, che mette in scena il mito narcisistico e prometeico della merce e della tecnica lacerando appartenenze e legami di solidarietà. [L]’atto che millanta un’aseità nonostante il carattere genetico della sua emergenza come fase del divenire, l’atto che non ha quella misura insieme stimolante e inibitoria che è insita nella rete degli altri atti, è l’atto folle […]. In un simile atto non è più presente la realtà preindividuale, di solito acclusa all’atto individuato; folle è l’atto che tende a una totale individuazione e ammette come reale solo ciò che è totalmente individuato. Gli atti sono in rete nella misura in cui sono colti su uno sfondo di natura, fonte del divenire mediante una individuazione continuativa. L’atto folle […] consiste in sé stesso e si mantiene nella vertigine di un’esistenza iterativa. Quest’atto assorbe e concentra in sé ogni emozione e ogni azione, fa convergere su di sé le differenti rappresentazioni del soggetto e diventa un punto di vista esclusivo: ogni sollecitazione del soggetto richiede l’iterazione di questo atto; il soggetto si riduce all’individuo in quanto risultato di una sola individuazione, e l’individuo si acconcia alla singolarità di un hic et nunc perpetuamente ricominciante, vagabondando dappertutto come un essere separato dal mondo e dagli altri soggetti103.
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Accogliere la realtà di un determinato momento storico non significa, dunque, accettarla e assumerla passivamente, bensì predisporsi, con mente libera, a intervenire su di essa per renderla più giusta, più vera e più bella, soprattutto se essa risulta inconciliabile con una piena fioritura dell’umano. Lo chiarisce una poetessa che, non a caso, coltiva anche la difficile arte della meditazione104. A lei affidiamo, in completa sintonia, la chiusura di questo scritto. Non cerco un percorso per essere lasciata in pace e, se anche lo conoscessi, non lo insegnerei mai. È meraviglioso lasciarci disturbare dalla vita, dagli altri e nello stesso tempo non restarne schiacciati. Non si tratta di essere imperturbabili, ma imperturbati dal turbamento, accogliere ogni visitatore, e si sa, i più scomodi e molesti hanno grandi doni in tasche nascoste. E accogliere non è accettare, si può accogliere l’inaccettabile, e poi ci si può più efficacemente ribellare, spingere via, scappare, denunciare, quando è necessario. Si è vivi e saper dire o urlare: «No!» è una delle facoltà umane più onorevoli105. 1
Questo saggio rivisita e amplia profondamente un nostro lavoro uscito sul magazine online Megachip nel gennaio 2018 e poi ripreso dal sito Sinistrainrete.info. 2 Con ciò non intendiamo negare che esista un lato luminoso e irrinunciabile della modernità, quello che dice di una progressiva laicizzazione della vita collettiva, di acquisizioni fondamentali nel campo della conoscenza e della creazione di opportunità inedite per gli individui, prima costretti ad aderire per tradizione a vincoli sociali impossibili da negoziare. Il problema, che verrà sondato in queste pagine, riguarda il gigantesco rimosso della modernità stessa, l’ombra nera e densa che getta sull’intero pianeta il suo progetto smisurato di conquista e controllo. È stato Michel Foucault a evidenziare il nesso stringente che lega individualizzazione e totalizzazione. La crescita delle opzioni soggettive, secondo la linea interpretativa del filosofo francese, non può che entrare in collisione con lo sviluppo ipertrofico dell’apparato tecno-economico e con le sue logiche uniformanti. Su questo snodo teorico cfr. M. Magatti, Oltre l’infinito. Storia della potenza dal sacro alla tecnica, Feltrinelli, Milano 2018. 3 Ci avvaliamo di questo neologismo, introdotto nel dibattito politico e sociologico da Lelio Demichelis, per definire il capitalismo ormai giunto a una fase di estensione globale nella quale la sua riproduzione sarebbe impensabile senza il contributo decisivo dell’apparato tecnico che rende possibili transazioni finanziarie istantanee, innovazioni di processo e di prodotto, sperimentazioni militari e pratiche di condizionamento esercitate quotidianamente dal sistema di informazione/intrattenimento di massa. Il tecnocapitalismo è un fenomeno che si denota per la sua vocazione aggressiva e infestante: penetra infatti in tutti i campi dell’esperienza umana. La sfera psichica e quella collettiva, con i relativi mitologemi condivisi all’interno di un medesimo gruppo umano, sono entrambe forgiate da questo agente storico in continua espansione. Cfr. L. Demichelis, La grande alienazione. Narciso, Pigmalione, Prometeo e il tecno-capitalismo, cit. 4 M. Cappitti, M. Pezzella, P.P. Poggio (a cura di), L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. VI, Alle frontiere del capitale, cit., pp. VIII-IX. 5 Per un’attenta ricognizione intorno agli aspetti epistemologici e geopolitici della complessità cfr. P. Fagan, Verso un mondo multipolare. Il gioco di tutti i giochi nell’era Trump, Fazi Editore, Roma 2017. 6 Cfr. G. Cosenza, La transizione. Analisi del processo di transizione a una società postindustriale ecocompatibile, Feltrinelli, Milano 2008. 7 Sul concetto di “sostenibilità” cfr. R. Mancini, Ripensare la sostenibilità. Le conseguenze economiche della democrazia, Franco Angeli, Milano 2015. 8 Nei rapporti tra popoli e culture, purtroppo, l’orgoglio per una presunta identità di gruppo degenera spesso nell’identitarismo. Quest’ultimo alimenta logiche di respingimento e violenza che rendono impossibile l’incontro con la diversità. Se sul piano psicologico, e con le dovute cautele, il senso di identità mantiene un ruolo utile e regolativo (in senso kantiano), su quello sociale esso produce danni irreparabili. Su questo cfr. F. Jullien (2017), L’identità culturale non esiste, Einaudi, Torino 2018 e F. Remotti, Somiglianze. Una via per la convivenza, Laterza, Bari-Roma 2019. Remotti propone senza mezzi termini di superare le nozioni di identità e individuo facendo spazio a un soggetto concepito come con-dividuo, portatore di somiglianze e differenze rispetto a se stesso e agli altri (pensiero del SoDif). Tale soggetto è disposto ad accettare «l’incompletezza del bisogno» (Remotti, ibid., p. 12) come limite costitutivo della natura umana, senza aggrapparsi al concetto di identità in cerca di una problematica e indimostrabile “essenza” (che si vorrebbe completa e autosufficiente).
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L’impatto con altre culture e visioni della realtà, insieme alla crisi ecologica innescata dal dominio sul pianeta della razionalità strumentale, denunciano la necessità di abbandonare l’idealizzazione di quei poteri (religiosi e tecnoscientifici) che non riescono a intercettare le inquietudini del tempo. Ciò, sia chiaro a chi legge, è ben lontano dall’affermare che scienza e religioni non possano contribuire alla rinascita di una sensibilità differente, ecologica e spiritualmente illuminata. Al contrario, entrambe sono chiamate a intraprendere una coraggiosa e profonda revisione che consenta loro di coabitare in nuovi scenari pluralisti e multidimensionali. Abbiamo sviluppato alcune riflessioni sulla cosmovisione occidentale e sull’urgenza di una sua riforma radicale nel nostro Ripensare amore e salvezza all’incrocio tra mondi, in P. Bartolini, R. Mancini (a cura di), L’amore che salva. Il senso della cura come vocazione filosofica, Mursia, Milano 2019. 10 S. Nettleton (2016), La metapsicologia di Christopher Bollas. Un’introduzione, Franco Angeli, Milano 2018, p. 32. 11 Sui temi dell’amore e della cura, affrontati in chiave filosofica, rimandiamo ai saggi inclusi nel volume collettivo a cura di P. Bartolini e R. Mancini, L’amore che salva, cit. 12 M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, cit., pp. 99, 94. 13 F. Remotti, Somiglianze, cit., p. 10. 14 Ibid., pp. 10-11. 15 M. Benasayag, A. Del Rey (2007), Elogio del conflitto, Feltrinelli, Milano 2018, p. 144. 16 C. Sini, Inizio, Jaca Book, Milano 2016, p. 39. 17 R. Mancini, Esperimenti con la libertà. Coscienza di sé e trasformazione dell’esistenza, Franco Angeli, Milano 2017, p. 67. 18 In questo scritto utilizziamo il concetto di duplicità distinguendolo nettamente dal dualismo cartesiano e dalle dicotomie laceranti che hanno segnato per secoli la tradizione occidentale, e che ritroveremo nel cuore dell’impianto psicopolitico contemporaneo. Ciò che è duplice e ambivalente (come il simbolo) non sfocia nell’equivoco e nell’irrazionale. Piuttosto va pensato in un regime di coesistenza tra opposti polari connessi e interdipendenti. La duplicità di cui parliamo è generativa, eraclitea, affine alle intuizioni orientali che non separano gli opposti ma li valorizzano in nome di una com-posizione creativa dei conflitti. 19 G. Simondon (1989), L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi, Roma 2006. 20 G. Agamben, Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista, Neri Pozza, Vicenza 2017, p. 41. 21 L.V. Arena, Comprensione e creatività. La filosofia di Whitehead, Franco Angeli, Milano 1989, pp. 2021. 22 Per un bel saggio sulle affinità tra il taoismo filosofico e il pensiero di Baruch Spinoza si veda G. Pasqualotto (1989), “Tao sive natura: Spinoza e il taoismo”, in Il Tao della filosofia. Corrispondenze tra pensieri d’Oriente e d’Occidente, Nuova Pratica Editrice, Milano 1997, pp. 69-102. Dello stesso autore consigliamo anche il recente Alfabeto filosofico, Marsilio, Venezia 2018. 23 Cfr. R. Panikkar, Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo, vol. VIII dell’Opera omnia, Milano 2010. 24 Cfr. P. Virno, Il ricordo del presente. Saggio sul tempo storico, Bollati Boringhieri, Milano 1999; F. Cimatti, Il possibile e il reale. Il sacro dopo la morte di Dio, Codice Edizioni, Torino 2009; S. Consigliere, Antropo-logiche. Mondi e modi dell’umano, Colibrì, Paderno Dugnano (Mi) 2014. 25 Citato in A. Mancuso, Altre persone. Antropologia, visioni del mondo e ontologie indigene, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 65. 26 G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, cit., p. 25. 27 Ibid., p. 29. 28 Questa costruzione culturale dell’umano ha ricevuto il nome di “antropo-poiesi”. 29 E. Fachinelli (1989), La mente estatica, Adelphi, Milano 2009, p. 153. 30 L.V. Arena, Comprensione e creatività, cit. 31 Ibid., pp. 47, 51. 32 Cfr. F. Cambria, La materia della storia. Prassi e conoscenza in Jean-Paul Sartre, Edizioni ETS, Pisa 2009. 33 Sul tema del dolore si segnalano le riflessioni di grande interesse del filosofo Luigi Vero Tarca in Verità e negazione. Variazioni di pensiero, Libreria Editrice Cafoscarina, Venezia 2016 (in particolare il saggio intitolato La trappola del dolore e le vie della liberazione, pp. 203-219).
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In merito al rapporto stretto tra piacere, felicità e soggettivazione cfr. S. Consigliere, Sul piacere e sul
dolore. Sintomi della mancanza di felicità, DeriveApprodi, Roma 2004. 35
Ovviamente il difendersi dalla morte implica sempre, in qualche grado, un relativo difendersi dalla vita. In ambito psicoterapeutico è stato notato più volte come l’angoscia per la morte vada di pari passo con un mancato affidamento al flusso della vita o, ancor più spesso, con un vero e proprio stallo esistenziale. Su questi temi cfr. I. Yalom (2008), Fissando il sole. Come superare il terrore della morte, Neri Pozza, Vicenza 2017. 36 https://www.youtube.com/watch?v=i19jGQtWB_o (ultimo accesso febbraio 2019). 37 Cfr. F. Remotti, Somiglianze, cit. 38 D. Stern (1985), Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987, pp. 53-54. 39 M. Peciccia, Aspetti cinematografici del sogno e del disegno speculare progressivo terapeutico, in A. Malinconico (a cura di), Il sogno in analisi e i suoi palcoscenici. Drammatizzazioni, gioco e figurazioni, Edizioni Magi, Roma 2011, pp. 247-285. 40 Ibid., pp. 267-268. 41 E. Fachinelli, La mente estatica, cit., pp. 23, 30-31. 42 A. Ginzburg, La stoffa dei sogni, in P. Bria, F. Oneroso (a cura di), Bi-logica e sogno. Sviluppi matteblanchiani sul pensiero onirico, Franco Angeli, Milano 2002, p. 146. 43 Cfr. P. Bartolini, La vocazione terapeutica della filosofia, cit. 44 R. Màdera, Per toccare lo spirito nel quotidiano, in N. Janigro (a cura di), La vocazione della psiche. Undici terapeuti si raccontano, Einaudi, Torino 2015, pp. 114-115. 45 Possiamo dunque inserire la psiche individuale «nel crocevia di interscambio fra la propria percezione del corpo e l’ambiente sociale, storicamente determinato, che ne ha formato i quadri di riferimento. A partire da questa consapevolezza, vissuta in prima persona nella propria corporeità, si dà la possibilità di tracciare una via individuale che, a sua volta, sia in grado, in una qualche misura, anche apparentemente irrilevante, di influenzare il suo contesto di origine», in R. Màdera, La carta del senso. Psicologia del profondo e vita filosofica, Raffaello Cortina, Milano 2012, p. 99. 46 T.N. Hanh (1989), Essere pace, Ubaldini Editore, Roma 1989. 47 Spinoza aveva colto nel segno considerando il conatus delle creature particolari uno sforzo a perseverare nel proprio essere che esprime, a livello dei “modi finiti”, la natura infinitamente creativa di Dio e dei suoi attributi. Il singolo, in altri termini, incarna in forma individuata la “libera necessità” dell’UnoTutto che tende a espandersi differenziandosi nei Molti. L’unicità di ogni essere finito è tanto innegabile quanto la sua co-dipendenza dagli altri e dalla Fonte di vita a cui partecipa senza mai potersene allontanare. Nel taoismo questa prospettiva non-duale è testimoniata dal fatto che ogni vivente percorre la Via comune (Tao) sviluppando la sua virtù specifica (Tê). Scrive Pasqualotto: «Pertanto il Tao non è soltanto ciò che fa essere ogni cosa quella che è, ma è anche il modo d’essere di ogni cosa: esso non è soltanto “il grande Tao”, il Tao come potenza generale, ma è, contemporaneamente, il Tao come potenza particolare […]. Allora appare chiaro che ogni cosa, realizzando se stessa, segue il proprio Tao e, seguendo il proprio Tao, realizza il “grande Tao”», in Id., Il Tao della filosofia, cit., pp. 21-22. 48 I sistemi viventi sono per definizione dinamici e sviluppano un divenire sempre imprevedibile grazie alla conflittualità creativa tra i poli della forma e della potenza. «Quando la forma del sistema prevale sulla potenza, o viceversa la potenza del sistema prevale sulla forma, il sistema stesso inizia a impoverirsi. Lo possiamo verificare in ogni forma di organizzazione dell’esistenza, si tratti di uno stadio particolare della vita di un organismo, di una persona, di un ecosistema, o ancora di una popolazione, di un’istituzione, di una dimensione della vita collettiva economica, religiosa o politica. Mai si dà qualcosa come una buona forma o una buona potenza, quasi che il divenire mirasse al proprio punto di arresto, al proprio esaurimento. Può bensì verificarsi, al contrario, una sclerosi della forma, o un suo divenire informe, rischi opposti ma destinati entrambi a mettere in pericolo la vita del sistema minacciando la molteplicità delle sue dimensioni costitutive», in M. Benasayag, A. Del Rey, Elogio del conflitto, cit., pp. 120-121. 49 Sul pensiero non facile di Bion consigliamo la lettura del testo “illuminante” di J. Grotstein (2007), Un raggio di intensa oscurità. L’eredità di Wilfred Bion, Raffaello Cortina, Milano 2010. 50 A. Ferro, Pensieri di uno psicoanalista irriverente. Guida per analisti e pazienti curiosi, a cura di Luca Nicoli, Raffaello Cortina, Milano 2017. 51 Ibid., p. 119. 52 Ibid., p. 62. 53 Ibid., pp. 65-66. 54 Cfr. T. Ogden (1997), Rêverie e interpretazione, Astrolabio, Roma 1999.
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P. Coppo, S. Consigliere, P. Bartolini, Cose degli altri mondi. Saperi e pratiche del divenire umani, Colibrì, Paderno Dugnano (Mi) 2017, pp. 34-35. 56 L. Oddo, L’Inconscio fra reale e virtuale. Dopo Jung. Visioni della comunicazione informatica, Moretti&Vitali, Bergamo 2018, p. 114. 57 Ibidem. La citazione di B. Stiegler è tratta da Prendersi cura, Orthotes, Napoli 2014, p. 51. 58 Va specificato che la funzione psicologica dell’io – in questo scritto evocata anche con l’iniziale maiuscola (Io) – è quella di dialogare fruttuosamente con gli altri complessi psichici, garantendo un adattamento creativo alla realtà. L’ego, invece, non accetta limitazioni e pretende di occupare con la forza il centro della totalità psichica. Al dialogo sostituisce il dominio e l’unificazione forzata, perdendo di vista, in un colpo solo, sia la molteplicità che la personalità totale. 59 B.-C. Han (2014), Psicopolitica, Nottetempo, Roma 2016, pp. 37, 39, 42. 60 L. Demichelis, La religione tecno-capitalista. Suddividere, connettere e competere. Dalla teologia politica alla teologia tecnica, Mimesis, Milano-Udine 2015, pp. 88-89. 61 Cfr. M. Mazzocchi, Macchina creativa e genesi temporale nella metafisica di A. N. Whitehead, in «Nóema – Rivista online di Filosofia», 5-2, 2014. 62 A.N. Whitehead (1926), La scienza e il mondo moderno, Bollati Boringhieri, Torino 2015, p. 218. 63 J. Baudrillard (2004), Il Patto di lucidità o l’intelligenza del Male, Raffaello Cortina, Milano 2006, pp. 103-104. 64 «Non esistono più interruzioni di tempo, il tempo è anzi mobilitato futuristicamente alla massima produttività possibile e massima produttività significa appunto riduzione dei tempi morti (considerati tali dall’apparato), […] rimozione delle possibili interruzioni nel ciclo di produzione-consumo-connessione. Concentrazione sul fare e deconcentrazione/distrazione/disattenzione su tutto il resto, anche mediante (non è un paradosso, ma è funzionale al sistema) continue interruzioni di ciò che si sta facendo sopraffatti da altre cose da fare, pedagogiche a un’incessante non-interruzione della mobilitazione e ad una pervasiva non attenzione/responsabilità per ciò che si fa. Immersione in una crescente compulsività e naufragio in un eccesso di informazioni che non informano», in L. Demichelis, La religione tecno-capitalista. Suddividere, connettere e competere, cit., p. 202. 65 Cfr. R. Màdera, L’animale visionario. Elogio del radicalismo, il Saggiatore, Milano 1999. 66 M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, cit., p. 23. 67 M. Magatti, Oltre l’infinito, cit., p. 171. 68 U. Galimberti (1983), Il corpo, nuova Edizione, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 411-412, 418. 69 Ibid., pp. 421-422. Il passo di M. Guillaume (1975) è tratto da Il capitale e il suo doppio, Feltrinelli, Milano 1978. 70 M. Benasayag (2015), Il cervello aumentato, l’uomo diminuito, Erickson, Trento 2016, p. 140. 71 Non dobbiamo dimenticare che autoritarismo e neoliberismo sono facce di una stessa medaglia. Mario Pezzella lo spiega bene: «Il “discorso del padrone” e il “discorso del capitalista”, di cui parla Lacan, non sono tanto gli opposti di un’alternativa, ma estremi simultanei di una soggettività scissa. L’euforia pseudo-democratica del consumo è sempre pronta a ricodificarsi in populismo autoritario e fascismo: le due forme sono l’una il supporto e il sostegno dell’altra», Id., Non ancora, non più, in M. Cappitti, M. Pezzella, P.P. Poggio (a cura di), L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. VI, Alle frontiere del capitale, cit., p. 300. 72 R. Finelli, Una libertà post-liberale e post-comunista. Riflessioni sull’etica del riconoscimento, 2012 (http://www.consecutio.org/wp-content/uploads/2012/10/Una-libert%C3%A0-post-liberale-e-post-comunista-1.pdf – ultimo accesso febbraio 2019). 73 Cfr. E. Neumann (1948), Psicologia del profondo e nuova etica, Moretti&Vitali, Bergamo 2005. 74 Tra i rari tentativi degni di nota segnaliamo R. Màdera, Sconfitta e utopia, Mimesis, Milano-Udine 2018. 75 C. Mucci, Trauma e perdono. Una prospettiva psicoanalitica intergenerazionale, Raffaello Cortina, Milano 2014, p. 135. 76 F. Jullien, Una seconda vita. Come cominciare a esistere davvero, Feltrinelli, Milano 2017, pp. 66, 6869, 44. 77 D. Kalsched (1996), Il mondo interiore del trauma, Moretti&Vitali, Bergamo 2001, pp. 120, 118-119. 78 Ibid., p. 119. 79 Ibid., p. 120. 80 Ibidem. 81 Ibid., p. 262. 55
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Secondo lo psicoanalista Donald Winnicott nello “spazio potenziale” si esprimono il gioco e il sogno.
Tra realtà interna e mondo esterno fioriscono le prime capacità immaginative-simboliche. L’infante, se lo
sviluppo non è perturbato, può accettare gradualmente la frustrazione delle mancate sintonizzazioni materne (peraltro inevitabili) e abbandonare il meccanismo di identificazione primaria. Rinunciando un poco alla volta all’illusione di onnipotenza, cresce nel bambino la sensazione di poter tollerare i limiti reali senza rinunciare alla propria vitalità. Tale spazio intermedio, se coltivato, rimane attivo anche da adulti e lo troviamo implicato nei processi artistici e in ogni prassi creativa degna di questo nome. 83 Ibid., pp. 265, 263, 264. 84 Cfr. F. Cimatti, Il possibile e il reale, cit. 85 R. Finelli, Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, cit., pp. 374-375. 86 Caregiver è il termine inglese usato per indicare gli adulti che ricoprono un ruolo di accudimento e protezione nei confronti dei piccoli della loro specie. 87 Ibid., pp. 375-376. 88 R. Finelli, Per un nuovo materialismo. Presupposti antropologici ed etico-politici, Rosenberg & Sellier, Torino 2018, p. 175. In questo libro l’autore evidenzia opportunamente come, dall’estremizzazione ed esasperazione delle filosofie della postmodernità, sia nato infine «un pensiero disincarnato, un pensiero senza corpo, critico di ogni principio extralinguistico del senso. Il quale, mettendo in scena una fenomenologia antropologica tutta risolta e dissolta nella relazione con l’A/altro […] ha rifiutato di coniugare insieme naturale e culturale, biologico e psichico, visti nella loro evidente connessione ma anche nella loro distinzione ed eterogeneità», ibidem. 89 L. Oddo, L’Inconscio fra reale e virtuale, cit., 138. 90 Per proporre quanto segue ci siamo ispirati a un’immagine densa di significato presente nel libro di Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi, Torino 2018. 91 Dalla filosofia antica e dalle pratiche filosofiche contemporanee riceviamo uno stimolo che va proprio in questa direzione. Per non accontentarci di un senso ereditato passivamente, mai sottoposto al vaglio del nostro sentire più profondo, dobbiamo scegliere a un certo punto della vita di fare qualcosa di ciò che gli altri hanno fatto di noi (parafrasando Sartre). Sulla possibilità di considerare la nostra biografia una declinazione, più o meno consapevole, di coordinate storico-mitiche collettive, rinviamo il lettore a P. Bartolini, C. Mirabelli (a cura di), L’analisi filosofica. Avventure del senso e ricerca mito-biografica, Mimesis, Milano-Udine 2019. L’analisi biografica a orientamento filosofico è una proposta nel campo della cura e della ricerca del senso nata agli inizi di questo secolo e ormai praticata in diverse regioni italiane. L’ideatore di questa pratica è il già citato Romano Màdera. 92 R. Finelli, Un parricidio compiuto, cit., pp. 388, 392. 93 Cfr. R. Mancini, Coscienza corale e rinascita della politica, in L. Mortari (a cura di), Spiritualità e politica, Vita e Pensiero, Milano 2018, pp. 49-79. 94 F. Mathews (2003), Per amore della materia. Un panpsichismo contemporaneo, Edizioni Magi, Roma 2018, pp. 152, 166-167. Bisogna osservare che il sistema tecno-capitalista è incapace di promuovere una cultura dell’incontro, perché le sue condizioni di riproduzione esigono una conoscenza senza amore, meramente predittiva, tesa al controllo della realtà e alla configurazione di procedure, profili e statistiche che neutralizzino la libera creatività dei soggetti. L’obiettivo del potere è quello di desoggettivizzare le persone incapsulandole nella ristretta dimensione egoica funzionale ai fini della megamacchina. Per propagare ovunque le sue logiche di conquista, il tecno-capitalismo deve rendere inerte la materia, disanimare i corpi, eccitare lo spirito di appropriazione rendendo ipertrofico l’io-mio. Non c’è spazio, nel regno dell’Uniforme, per un incontro rispettoso e appassionato con il mistero dell’Altro. 95 E. Bernhard (1969), Mitobiografia, Adelphi, Milano 2007, p. 152. 96 M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, cit., p. 120. 97 M. Cappitti, M. Pezzella, P.P. Poggio (a cura di), L’Altronovecento, cit., p. XI. 98 R. Finelli, Per un nuovo materialismo, cit., p. 85. 99 F. Remotti, Somiglianze, cit., p. XXII. 100 F. Jullien, Alterità. Lezioni milanesi per la Cattedra Rotelli, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 82, 6970. 101 In questa prospettiva la domanda di senso più impellente che dovremmo porci non è come diventare ciò che siamo, ma come essere davvero ciò che stiamo diventando. Lo suggerisce con buone ragioni, sulla scia di Romano Màdera, Moreno Montanari nel suo bel libro Il Tao di Nietzsche, Mursia, Milano 2018. È opportuno comunque rimarcare che la de-coincidenza del soggetto rispetto all’ego, e la sua apertura al divenire, devono accompagnarsi alla valorizzazione della dimensione corporea e pulsionale come sfondo dell’agire di ciascuno. Una dimensione che, nell’epoca del tecno-capitalismo e del virtuale, viene metodi-
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camente svuotata di senso e impoverita nella sua concretezza affettiva. Il corpo, come limite e centro di radicamento, permette al singolo individuo di “sentirsi” in situazione, riconoscendo il locus specifico della sua partecipazione alla vita e conservando un indispensabile orientamento. Al contempo, grazie alle capacità immaginative e di linguaggio che gli sono connaturate, il medesimo corpo vivente è chiamato a pro-gettarsi, a meditare nuovi tracciati ed esplorazioni che eccedono il perimetro del qui e ora. Essere dentro-e-fuori la vita presente, in bilico tra forma e potenza: questo significa, in definitiva, esistere. Rinunciando a un’idea di essenza statica e immodificabile è possibile rinvenire la natura più propria dell’umano nel suo caparbio oltre-passare, nella sfida lanciata alle frontiere del conosciuto, in direzione di un avvenire desiderato. Una sfida che, senza radici nel sentire incarnato dei corpi, non potrebbe mai giungere a piena realtà. Anche perché lo svuotamento interiore e la «superficializzazione dell’esperire» tendono a «distrugge[re] il senso della storia, della continuità con le generazioni precedenti, dell’esistenza stessa del passato e genera[no] un narcisismo estenuato, mite, senza passione, estraneo all’idea stessa di lavoro psichico e vòlto, senza profondità, non a vivere ma a meramente registrare la datità del mondo», in R. Finelli, Per un nuovo materialismo, cit., p. 176. 102 G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, cit., p. 232. 103 Ibidem. 104 Dobbiamo qui ricordare, per evitare di confonderla con una banale pratica antistress, che «la meditazione è seminagione di sacro nell’ovvietà quotidiana», in Ch.L. Candiani, Il silenzio è cosa viva, cit., p. 64. 105 Ibid., p. 44.
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L’ARTE DEI LEGAMI. UNA CONCLUSIONE PER NON FINIRE Paolo Bartolini, Stefania Consigliere
L’urgenza delle pagine precedenti viene dal senso di catastrofe incombente che pervade questi anni, che sembrano rotolare senza freni verso il solito disastro: quello moderno e distopico del fascismo, del totalitarismo, dell’annientamento di ciò che è differente, delle identità conformi, della verità senza conseguenze. E dal continuo confronto, nelle nostre vite professionali, con soggetti e gruppi che con ogni evidenza patiscono il mondo per come esso è strutturato, ma che sono rimasti con pochissime parole, e usurate, per spiegarlo. Non a caso abbiamo pensato di affondare il bisturi della critica nel punto di confine che separa/collega l’immaginario collettivo e la costruzione della soggettività nelle sue molteplici espressioni (dunque nelle infinite biografie degli umani). Ciò perché avvertiamo come radicalmente inadeguati tutti quei tentativi, vòlti a promuovere la trasformazione personale oppure quella sociale, che trascurino lo spazio intermedio – la «struttura che connette», secondo Bateson – mediante cui la realtà del possibile si individua nel concreto delle nostre vite di ogni giorno. È lo spazio in cui soggettivo e oggettivo, individuo e società, sé e mondo si intrecciano e si confondono. E poiché siamo fatti di attaccamenti, non esiste felicità che sia solo individuale né rivoluzione che non cambi nel profondo chi la fa. Niente di troppo innovativo, a ben vedere: abbiamo ripreso parole, concetti, strumenti e immagini dalla tradizione marxiana e psicoanalitica, dalla filosofia, dalla sociologia e dall’antropologia, tentando di iniettarli nel presente come anticorpi preziosi per resistere alla disperazione. Così facendo abbiamo constatato che non solo sono ancora utili nella descrizione del nostro tempo, ma che permettono anche di capirlo secondo la linea del possibile. L’attualità di Marx, di Simondon, di Benjamin (per citare solo alcuni degli autori che ci stanno a cuore) non abita solo nei contenuti del loro pensiero, quanto nella felicità a cui quei contenuti tendono – quella che sentiamo bandita dalle nostre 113
vite: uno stato più intenso e più giusto del mondo, l’accesso alla difficile libertà che passa dalla conoscenza di ciò che è vero. Queste ultime considerazioni – necessariamente brevi perché no hay camino, hay que caminar – vogliono essere una rivendicazione della felicità. Non è un paradosso: in un libro dedicato alla critica del presente, sono proprio le conclusioni a offrire un’apertura, a dare respiro dopo la faticosa ricognizione dell’immaginario e delle logiche del dominio. La filosofia, forse con eccessivo compiacimento, ha coltivato negli ultimi decenni un pensiero debole, asistematico, riducendo al minimo i proclami e le promesse rivoluzionarie. La psicologia e le diverse terapeutiche, dal canto loro, si sono troppo spesso occupate del solo soggetto sofferente, senza connetterlo al mondo in cui esso vive e finendo così per diventare meri strumenti di riadattamento, quando non anche balocchi del potere (non è forse vero che le imprese di big data hanno cominciato a offrire ai loro dipendenti persino dei corsi di mindfulness? E la retorica del benessere psicologico in azienda non è funzionale a una crescente estrazione di plusvalore?). I popoli, d’altronde, non sono mai stati tanto interdipendenti, mai tanto preziose le differenze fra di loro, le distanze che – come lucidamente aveva visto Lévi-Strauss – rendono possibili e fecondi gli scambi. Sul versante economico, ecologico e dei sistemi informativi, l’avanzare implacabile e uniformante del capitale ha condotto a un fenomeno inedito nella storia degli umani che abitano la Terra: la nascita di una potenziale comunità di destino planetaria. Avvenuta sotto la spinta dell’economia di mercato, questa unificazione è esattamente di segno inverso rispetto alla necessità di un’epocale presa di consapevolezza dell’umanità nel suo complesso. Insomma, come auspica Bruno Latour, questo è il momento storico giusto per avviare dei negoziati di pace che vedano l’Occidente tra i soggetti culturali-politici coinvolti, finalmente alla pari degli altri e non più come la presunta punta di diamante dell’intera evoluzione umana. Non si tratta (per ora) di azzardare una lista di azioni classicamente “politiche” da mettere in campo per contrastare il tecno-capitalismo: verrà il momento anche per quello, soprattutto se vogliamo evitare di precipitare in un disastro planetario fatto di cambiamenti climatici, alterazioni della biosfera e delle funzioni vitali del sistema Terra, aumento delle disuguaglianze sociali, flussi migratori di massa, esaurimento progressivo delle fonti energetiche non rinnovabili, mercificazione pervasiva dell’esistente e via dicendo. Né si tratta di inventare nuovi lenitivi che rendano sopportabile ciò che sopportabile non è. Il punto, semmai, è di pensare il nesso vitale che lega due movimenti: liberare l’immaginario dai vampiri e cominciare – un passo alla volta – a sperimentare “altro”. Per noi la cautela (lo sapeva bene Spinoza) è un valore prezioso, ma non va scambiata per timidezza. Proveremo allora a tracciare alcune indicazioni che fungano da coordinate per rifondare un nuovo rapporto, al contempo intimo e politico, con l’immaginario, per produrre alternative e scarti rispetto alla logica monovalente del sistema tecno-capitalista. Usiamo il plurale – “alternati114
ve, scarti” – perché la crisi protratta della modernità ci dona una consapevolezza bruciante, definitiva: non può e non potrà esistere un’unica alternativa alla civiltà dell’accumulazione economica e della crescita quantitativa. Dobbiamo fare tesoro del naufragio del comunismo storico e delle pretese (ancora moderne) di chi ha pensato di opporre all’odierno modello di sviluppo un opposto modello di convivenza, totale e senza crepe. Il “molteplice” è, nel campo politico, in quello culturale e in quello spirituale, la parola chiave della contemporaneità. Più esposto al rischio di essere strumentalizzato e banalizzato è il concetto di pluralismo, che altrimenti conserverebbe una certa affinità con quanto stiamo dicendo. La visione della realtà che proponiamo, va specificato, prende accuratamente le distanze dalla deriva culturalista e dal suo relativismo pigro e compiaciuto. Crediamo, infatti, che solo un paziente e appassionato lavoro di confronto, dialogo e ibridazione tra differenti modi di vivere, conoscere e trasformare la realtà possa dare qualche frutto nell’epoca della mondializzazione 2.0. Ci domandiamo allora come individuare e declinare le parole chiave di una nuova logica culturale che consenta di superare la scissione dei singoli dai collettivi, scissione che inibisce l’azione e causa malessere; quali pratiche fare nostre fino a incarnarle, non nella forma depotenziata di convinzioni razionali, ma come illuminazioni improvvise, segnavia emozionali capaci di guidare esplorazioni inedite nel campo dell’immaginario, dei rapporti di produzione, del governo del bene comune, dell’instaurazione di legami affettivi ed elettivi finalmente felici. Parole dense che esigono una prassi, offerte come alternativa ai luoghi comuni del presente, nel cui centro si raccolga l’insieme delle intuizioni che abbiamo sviluppato in queste pagine. Viverle, meditarle e ricomunicarle agli altri è, in senso pieno, un’azione politica, utile a liberarci dalle coazioni che c’intossicano e adatta a trovare una via d’uscita dalla confusione dei tempi che ci sono stati dati in sorte.
1. Felicità Abbiamo visto quanto sia facile, da noi, confondere la felicità, e anche il piacere, con la coazione della scarica fisiologica, in questi anni di doping di massa. Ma né la felicità, né il piacere in senso pieno hanno a che fare con quest’immiserimento della fisiologia e della sua potenza, con la sepoltura dell’individuo in se stesso. Come prima cosa bisogna riprendersi le parole. La felicità, ha detto Edoardo Sanguineti, è nuotare come un pesce nel proprio tempo: sentirne il flusso, navigarne le onde, intuirne le secche e la direzione. La felicità ha a che fare con le relazioni e quindi con il sentimento tragico: Il tragico risulta dall’esistenza di legami che collegano l’individuo al suo ambiente naturale, alla sua famiglia, alla sua cultura e, soprattutto, a una capacità individuale di essere scossi da eventi non necessariamente vicini, una continuità senza contiguità. […] Come diceva il filosofo greco Plotino: “Non c’è un punto in cui si possano fissare i propri limiti in modo da dire fin qui sono io”1.
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È un uso strano del vocabolo, ma efficace: il tragico è il senso di connessione ad altri e ad altro, progressivamente distrutto dalla modernità e dalla sua ambigua pratica di emancipazione. Sono questi legami a imprimere un senso unico ed esemplare a ciascuna esistenza: che si tratti di umani o di non umani, di idee o di luoghi, di miti o di pratiche, di modi della conoscenza o di tecniche di cura, nella nostra relazione al mondo ne va di noi ed è proprio questo insieme di connessioni a legarci a un destino, inteso «non come fatalità, ma come insieme di tropismi, di affinità elettive ben territorializzate che configurano l’“essere-nel-mondo” di una persona»2. Niente a che fare con la figura dell’eroe guerriero, il solitario che supera ogni difficoltà fino a portare al trionfo, e a imporre, un qualche ideale di potenza – mitologema reazionario del quale non sentiremo la mancanza. Sentimento tragico e destino altro non sono se non l’insieme di ciò che, legandoci al mondo, fa di noi dei soggetti individuati, “fatti proprio così”. Ne sprigiona una moltitudine irriducibile di traiettorie soggettive e collettive, modi di essere che comportano conseguenze. Un’infinità di felicità possibili, capaci di rispondere con fiducia alle prove della vita, anche le più difficili. Il piacere, dal canto suo, si dice in almeno due modi radicalmente differenti. Quello contro cui Benasayag se la prende è il piacere coatto, godimento rapido, prestazionale e “a scarica” incontrato sopra nella discussione sulla cattura tossica – ovvero l’intero della nostra idea contemporanea di piacere. Ma il piacere è anche ciò che segnala la bontà delle relazioni, l’aprirsi della corazza che ci isola dal mondo: il profondo “piacere del divenire”, per così dire, che smonta l’esoscheletro e scioglie le fossilizzazioni che la vita, inevitabilmente, produce. Il piacere, quindi, come incontro nel cambiamento e perfino come pratica disciplinata dell’altrove e del possibile – ovvero, esattamente ciò che va perduto col doping, nella riduzione del piacere al meccanismo stimolo-risposta. La ricerca dell’intensificazione della presenza, la sapienza nei contatti, la profondità degli scambi, l’arte del legarsi e la possibilità di slegarsi, la consapevolezza della parte oscura che accompagna la parte in luce: tutto questo è, nella Bildung dell’Occidente attuale, pura fantascienza. Mentre le tradizionali “relazioni fondanti” sono tutte sotto attacco3, ciò che viene proposto in cambio – e spacciato come “libertà” – sono rapporti di pura fungibilità, che non rispondono al modo unico, irriducibile, con il quale un soggetto sta nel mondo, ma a presunti bisogni universali standardizzati: mangiare, socializzare, sentirsi adatti, distrarsi, fare sesso… Agendo come simulacri di relazioni, i rapporti di fungibilità schermano efficacemente la cattura di tutti all’interno di un’unica, profondissima e indiscutibile relazione: quella col sistema di produzione di plusvalore. Per contro, un destino individuale comporta inevitabilmente dei pericoli (sarà un caso se oggi la sicurezza è reputata il bene massimo?). Chi è connesso al mondo ed è mosso da quel che vi accade non agisce sulla base della risibile favoletta filosofica secondo cui per natura l’individuo perseguirebbe l’incremento del proprio utile, ma si trova spesso
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nella situazione spinoziana – altissima e propriamente tragica – in cui libertà e necessità coincidono. Ancora una volta, possiamo dire addio agli eroi più-che-umani: questa condizione va declinata in termini radicalmente quotidiani. I pericoli che inevitabilmente si presentano nello sviluppo di un destino sono quelli legati all’accesso all’età adulta, alla vicinanza con la malattia e la morte, al tradimento, all’incontro col limite, all’eros, alla relazione con le generazioni più giovani e con quelle più vecchie, al potere, alla violenza, alla lotta politica, alla scelta. È nel mero farsi di una vita, di una vita qualsiasi, che s’incontrano teste di Medusa e gorghi abissali, dèi travestiti da tori e aperture estatiche. Ed è la qualità delle relazioni – agli altri, agli oggetti, a sé, ai viventi, al cosmo – a dare la misura di ciò che è, o non è, desiderabile; e nient’altro. Questa riflessione sugli attaccamenti non è un correttivo che si possa aggiungere alla ricetta per la fabbricazione del soggetto occidentale contemporaneo, niente che sia pensato per perfezionarlo nella sua forma o per ovviare a un qualche difetto: pensare gli umani (e, più in generale, gli enti che popolano il mondo) come intrinsecamente relazionali significa rivisitare da capo a fondo l’antropologia, l’ontologia, l’etica e l’epistemologia che soggiacciono alla nostra cosmovisione.
2. L’arte del legame Riprendendo quanto detto poc’anzi, è significativo che nella contemporanea “clinica del malessere” s’incontrino continuamente situazioni di sofferenza acuta che non derivano più dal corpo a corpo con gli attaccamenti e col destino che essi configurano, quanto semmai dall’indigenza e dall’ignoranza delle relazioni. La cura dei nostri scotomi passa innanzitutto per un’operazione di tipo conoscitivo: in questo caso, per la conoscenza degli attaccamenti che siamo. Ignoranza delle relazioni non significa che non ci siano relazioni. Significa semmai che non le si conosce, nella doppia accezione di riconoscerle e di saperne la natura. Riconoscere quelle che ci catturano, che ci dopano, che ci svuotano, ma poi soprattutto conoscenza delle relazioni, spesso inappariscenti, che ci permettono di continuare a esistere. Relazioni con gli altri umani, per cominciare: quelli a cui dobbiamo la lingua che parliamo, la strutturazione affettiva, gli amori, le passioni, i saperi, i passaggi, le guarigioni. Relazioni con gli animali e le piante: quelli che ci compongono (oltre la metà delle cellule del nostro corpo non sono “nostre”: sono batteri, funghi, procarioti ecc.); quelli di cui ci nutriamo; quelli coi quali stabiliamo relazioni intelligenti di co-divenire. Relazioni con l’ambiente fisico: con l’aria che respiriamo, con l’acqua che continuamente ci attraversa, con le stelle che punteggiano la notte. Relazioni con i cicli: quelli delle stagioni, delle biografie, del tempo che viviamo. Relazioni con l’immateriale: le idee che ci fanno agire, i ricordi e le anime che ci abitano, 117
i fantasmi che incontriamo, il divino come creatività inesauribile. Relazione con sé, quella che, secondo Hadot e Foucault, era il fondamento stesso dell’etica antica, cura di noi stessi aperta alla trascendenza della centratura egoica. E infine relazione con ciò che di noi non conosciamo, qualcosa che ci muove e non ha ancora una forma riconoscibile. Tutte queste relazioni vanno coltivate, pazientemente, invalidando nei fatti e nei vissuti la finta percezione di essere atomi isolati destinati all’insignificanza e alla lotta di tutti contro tutti.
3. Sufficienza intensiva Ci sono pratiche quotidiane – minimali, e pertanto spesso irrise – che aiutano a vedere, e a prendere distanza, fuori dal regime concentrazionario e maniacale del capitalismo contemporaneo. Anche in questo caso, niente di nuovo: molte di queste sono già notissime e ampiamente discusse negli ambienti critici verso il sistema. Vale la pena di farne un elenco (incompleto) soprattutto per verificare quanta parte del nostro quotidiano è sotto assedio: preferire i mercati locali agli ipermercati; leggere libri stampati anziché file a schermo; non essere sempre reperibili e ridurre al minimo l’accesso ai servizi e alle applicazioni offerti dagli smartphone; comprare cibo sfuso anziché confezionato; non sprecare acqua; camminare anziché accendere un motore; preparare da sé i propri pasti; rifiutarsi ai veleni dei telegiornali, dei talk-show, degli hashtag; proteggere gli spazi di compresenza fra umani e fra umani e non umani; rifiutare il sistema del turismo di massa; diminuire le necessità energetiche; adottare il riuso e il riciclo; accompagnare gli oggetti fino al termine effettivo del loro ciclo di vita, privilegiando la manutenzione all’acquisto di nuovi beni di consumo; sostenere i distretti dell’economia solidale; rallentare il nostro ritmo di vita. Se il pensiero politico della decrescita esercita poca attrattiva in tempi di recessione e di livellamento dei salari, la sua proposta esistenziale ha il merito di mettere a tema la connessione fra buen vivir, antagonismo ed ecologia. La parola chiave è sufficienza intensiva: uscire dalla logica del consumo infinito, in cui niente è mai abbastanza, e riappropriarsi della “felicità zen” ben descritta dagli antropologi e da coloro che praticano l’askesis. In sostanza, essi dicono, ci sono due modi per arrivare ad avere tutto ciò di cui si ha bisogno: aumentare la produzione oppure ridurre i bisogni indotti4. Il nostro impianto pulsionale, come abbiamo già detto, è talmente plasmato dall’imperativo al godimento che leggiamo ogni diminuzione del consumo come una punizione, incapaci di percepirne la carica liberatoria. La certezza di poter fare a meno di qualcosa è uno dei modi più efficaci per convincersi di essere liberi, quale che sia il nostro gradino nella scala intellettuale o emotiva. […] E una tale rinuncia è necessaria, specialmente nel mondo in cui viviamo5.
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Volenti o nolenti, una parte dei giovani occidentali si sta riappropriando, in questi anni, di modi della conoscenza e della cura che l’avanzata tecnologica sembrava aver destinato alla scomparsa: tecniche terapeutiche tradizionali, conoscenza delle piante, orticultura, pastorizia ecc. Non è la rivoluzione (ancora figlia della modernità) che hanno sognato i marxismi novecenteschi: sono gesti di dissidenza antropologica rispetto al regime neoliberista, in qualche modo imparentati alle resistenze “alla Polanyi” che i popoli colonizzati hanno opposto e oppongono al diffondersi dell’economia capitalista. Questa sufficienza non è privativa, ma intensiva, perché grazie alla riduzione dei consumi inutili diventa finalmente possibile “essere di più con meno”.
4. Sul limite come misura e strumento Un apprendimento fondamentale, connaturato ai riti che in molte società iniziavano i giovani all’età adulta, è la potenza del limite. Canalizzata in modo intelligente, una forza debole diventa una forza sufficiente; ed è solo l’incontro con il limite ciò che permette, volta per volta, di superarlo. In termini filosofici, ciò equivale a dire che l’assenza di limite non coincide affatto con un’infinità di possibilità, bensì con la destrutturazione del reale e delle distanze che esso articola (come mostrano, fin troppo tragicamente, gli spazi del terrore). Ciò non toglie che l’idea stessa di limite sia invisa, faticosa da imparare e difficile anche solo da enuciare nell’epoca del surrealismo di stato e del godimento coatto, il cui effetto è la dispersione delle forze all’insegna di una “libertà” di stampo manicomiale. Anche se è controintuitivo, i limiti sono essenziali alla vita, la condizione per quella “stabilità lontana dall’equilibrio” che la caratterizza […]; è la ragione per cui morte, malattia, impotenza, sofferenza, lungi dal rappresentare un insieme di debolezze, sono parte integrante di quella dinamica di fragilità senza la quale non ci potrebbe essere vita, salute, gioia. Ora il credo postmoderno, scientista ed economicista, si fonda sull’idea di una potenza che non conoscerebbe processi antagonisti e considera ogni limite come un’ingiustizia proveniente dall’esterno. Attarverso un immaginario più o meno fumoso […] non si smette di ripetere all’individuo postmoderno che “tutto è possibile” – dimenticando di menzionare la condizione: “Basta che tu obbedisca”6.
Avere un limita significa “avere un posto”, un centro capace di attenuare il disorientamento e di radicare, un invito continuo a sentire che c’è un luogo nel mondo nel quale è possibile stare e dal quale si può entrare in una relazione civilizzata con la vastità del Tutto. La pratica del limite prende oggi, nel nostro campo, due direzioni prevalenti. Da un lato c’è il rifiuto dello slimitato funzionale al progetto neoliberista (è quanto visto sopra). Dall’altro c’è, soprattutto fra i più giovani o i meno vampirizzati, la ricerca di un limite da passare, di uno stato superiore dell’essere: una nostalgia dell’iniziazione7 che, anche nelle forme più rozze, allude a ciò di cui già i romantici lamentavano la perdita. Nell’ignoranza in cui societariamente versiamo, questa ricerca appassionata di un oltrepassamento assume spesso forme pericolose o estreme: il limite (e la durezza del contraccolpo che 119
esso è in grado di dare) viene a coincidere con “qualcosa di vero”, unico confronto possibile con una realtà che non sia l’estroflessione egotica a cui siamo abituati. Ma non è necessario che le cose vadano così: le conoscenze relative ai processi umani e alla canalizzazione del divenire sono recuperabili, ricostruibili, nuovamente sperimentabili. Rifiutando la dismisura patologica promossa dal tecno-capitalismo, si può immaginare un’esperienza del limite che sappia farsi cultura condivisa – e la conoscenza del limite, del suo fascino e dei suoi rischi, non è qualcosa di cui si possa fare a meno. Ne sanno ancora qualcosa i terapeuti, i facilitatori di percorsi di crescita personale, quel che resta della pedagogia; ma ne sanno fin troppo anche tutti coloro che propagano progetti fascisteggianti usando strumentalmente il bisogno di confronto, di presa di forma e di rigore che i nostri anni lasciano senza risposta. Se “dare forma” agli umani – compito primo e più essenziale di ogni collettivo – comporta segnare un confine fra interno ed esterno, allora riflettere sul limite significa riappropriarsi, politicamente, della sapienza antropopoietica che definisce tutte le culture umane.
5. Interrompere A differenza di ogni altro tempo strutturato dalle collettività umane, quello del tecno-capitalismo è uniforme, liscio, senza pieghe e senza interruzioni. Il circuito della produzione non può arrestarsi, e così pure quello del consumo: i turni di notte si fanno nelle fabbriche, nei grandi supermercati, negli aeroporti, nei call centers. Non ci sono feste, nessuna tregua8. Interrompere volontariamente questo regime da lager è un gesto politico essenziale. L’interruzione non è il tempo dell’attesa, quanto quello che porta con sé la possibilità di prendere posizione contro il presente, sempre, a ogni momento, poiché ciascun istante può essere quello decisivo. La fine dell’apatia. L’impossibile che fa presa sul mondo. È il tempo di un eroismo minore, una forza anonima che non sopporta il calcolo, l’omogeneo, il costante. La si può ascoltare, possiede un ritmo: dapprima impercettibile, comincia a pulsare lentamente, accelera vertiginosamente, si interrompe. La sua improvvisa presa di velocità paradossalmente provoca il rallentamento della Storia, fino a porla in stato d’arresto. Quando tutto si ferma, immobile, «nel presente assurdo – incondizionatamente vero – dunque anche assurdo – dell’avvento messianico», scriveva Furio Jesi. È in quell’attimo di sospensione, nel quale il passato sopraggiunge dentro l’attualità con la violenza di una tempesta stellare, che compare l’immagine di una forma sensibile del divenire, un noi che è allo stesso tempo disperso e insieme, una sorta di solitudine affollata – dai morti e dai viventi –, che è ciò che resta di quel turbinio del tempo, dell’origine sempre a venire di ogni insurrezione. Ed è questa forma – che contorna una vita che eccede tutto ciò che è – a dover apprendere come far andare in mille pezzi il presente9.
Tale sospensione ha un effetto spiazzante, schiude un margine nel quale la tessitura del reale si mostra in modo meno macchinico; rende chiare, ad esempio, amicizie e inimicizie. La qualità del tempo cambia, le ore diventano sufficienti a se stesse: scioperi, manifestazioni, occupazioni; ma anche sottrazione agli scambi obbligati, sospensione dell’acquiescenza; pratiche di consapevolezza, esercizi spirituali, gesti di solidarietà che squarciano il velo dell’indifferenza e della competizione come stile di vita. Della sospensione fa parte anche 120
l’apertura – sempre ipotetica e provvisoria – di spazi dove sia possibile sperimentare relazioni sottratte, per il tempo che dura la sperimentazione, alla competitività; dove i movimenti sono comandati dalla sensibilità anziché dall’utilitarismo; e dove sia possibile tornare a sentire: se stessi, gli altri, i visibili e gli invisibili, lo stato del mondo.
6. Fare attenzione Secondo Simone Weil l’attenzione è l’unico vero fondamento dell’etica: è la qualità rarissima di chi si avvicina alle cose riconoscendone l’esistenza, osservandole prima di giudicarle o di violentarle, lasciandole innanzitutto esistere per come esse sono. Alcuni fanno un passo oltre e dicono che l’attenzione è la forma più semplice, comune e disponibile della meditazione: in questo modo, stabiliscono un legame fra alcune delle più antiche pratiche orientali di centratura della presenza soggettiva e le istanze politiche legate alla possibilità del molteplice. L’attenzione – che agli spiriti tecnico-pratici sembra qualcosa di passivo, molto diverso da un vero fare nel mondo – è di fatto la prima e più intensa forma di azione sugli altri e sul mondo: e anzi, come ha ben visto Bion analizzando la relazione fra neonato e adulti (e in parallelo tra paziente e analista), è l’azione mondo-poietica per eccellenza. Se gli psicologi hanno ben descritto quel che succede ai bambini che crescono nell’indifferenza degli adulti, basta parlare per due minuti con qualcuno che ha in mano un dispositivo elettronico per comprendere, fin dentro le cellule, quanto desolante possa essere la distrazione coltivata come metodo. Prestare attenzione (un’attenzione calma, accogliente e unitiva, come insegnano i maestri vipassana) vuol dire oggi dare importanza a ciò che è piccolo e passa inosservato. Se dovessi ora dire in che cosa io ho messo finalmente le mie speranze e la mia fede, potrei solo confessare a mezza voce: non nel cielo – nell’erba. Nell’erba – in tutte le sue forme, i ciuffi di steli sottili, il trifoglio gentile, il lupino, la portulaca, la borragine, il bucaneve, il tarassaco, la lobelia, la mentuccia, ma anche le gramigne e l’ortica, in tutte le loro sottospecie, e il nobile acanto, che ricopre parte del giardino in cui passeggio ogni giorno. L’erba, l’erba è Dio. Nell’erba – in Dio – sono tutti coloro che ho amato. Per l’erba e nell’erba e come l’erba ho vissuto e vivrò10.
Un filo d’erba umido di rugiada, una nostalgia improvvisa, il volo radente di una gazza, una luce obliqua che scalda un muro abbandonato: sono migliaia le occasioni che ci invitano a porre attenzione a una bellezza che non ha nulla a che spartire con i criteri di utilità e ritorno economico. C’è poesia – ed è la poesia più politica che si possa immaginare – laddove il nostro atteggiamento verso il mondo rinuncia allo spirito di appropriazione per “lasciar essere” la realtà, per darle finalmente parola. Quello che la poesia e la meditazione come tutte le Vie fanno è di scollarci dai luoghi comuni, dal calduccio degli stereotipi condivisi. La meditazione non va utilizzata per pacificare tutto, ma per sentire
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gli strappi, le lacerazioni, le paure di un’epoca e di un individuo che ne fa parte, e trasformarle in punto di partenza per una nuova fiducia e un senso di responsabilità che è capacità di rispondere alle sfide che ogni tempo propone a noi esseri umani sapendo che siamo fatti per farcela. È il concetto di farcela che va riscritto in noi, non più la conquista, la sfida, la crescita all’infinito, ma il sintonizzarsi, l’ascolto umile e attento degli insegnamenti che bussano nei fili d’erba e negli astri, nelle zanzare e negli elefanti, nelle creature che stanno scomparendo e in tutto quello che resta, nella responsabilità di stare svegli e sensibili in questo immenso non-sapere11.
Un’attenzione siffatta, che opera in vista di un nudo reincanto del mondo, esige impegno e disciplina. È il contrario di un modo “svagato” di vivere la realtà. Si interroga sulle nostre intenzioni, rende la critica dell’esistente qualcosa di molto diverso dalla complicità segreta con il proprio avversario. Ha a che fare con una presa di posizione: Non voglio imparare a non aver paura, voglio imparare a tremare. Non voglio imparare a tacere, voglio assaporare il silenzio da cui ogni parola vera nasce. Non voglio imparare a non arrabbiarmi, voglio sentire il fuoco, circondarlo di trasparenza che illumini quello che gli altri mi stanno facendo e quello che posso fare io. Non voglio accettare, voglio accogliere e rispondere. Non voglio essere buona, voglio essere sveglia. […] Non è che voglio così, è che non posso fare altro […]. E l’etica, come la meditazione, è un deciso gesto politico, è cura verso la comunità umana. […] Un’antica favola africana racconta del giorno in cui scoppiò un grande incendio nella foresta. Tutti gli animali abbandonarono le loro tane e scapparono spaventati. Mentre fuggiva veloce come un lampo, il leone vide un colibrì che stava volando nella direzione opposta. «Dove credi di andare? – chiese il Re della Foresta. – C’è un incendio, dobbiamo scappare!» Il colibrì rispose: «Vado al lago, per raccogliere acqua nel becco da buttare sull’incendio». Il leone sbottò: «Sei impazzito? Non crederai di poter spegnere un incendio gigantesco con quattro gocce d’acqua?» Al che, il colibrì concluse: «Io faccio la mia parte»12.
7. Tutta l’esperienza Abbiamo visto come, da quattro secoli, l’appiattimento dei regimi conoscitivi ci costringa a dimenticare tutte le percezioni, le nozioni e le esperienze che non rientrano nello schema utilitaristico previsto. Ciò si traduce in una grave scotomizzazione dell’esperienza: mentre da un lato questo riduzionismo conoscitivo ci intima di “restar fedeli ai fatti”, dall’altro cancella con cura – fin dentro di noi – quelli a cui non si deve dare seguito, condannati come “insensati”. La fuoriuscita da questo regime passerà allora per un’attenzione inflessibile all’intero dell’esperienza che facciamo del mondo, senza censure preventive e senza scotomi; e per la capacità di farcene qualcosa di ciò che, nella relazione con il mondo, impariamo. Quale inusitata “mente collettiva” muove i cortei? Perché alcuni luoghi, senza alcuna ragione apparente, respingono, oppure sembrano carichi di un dolore antico, oppure danno un’immediata sensazione di casa? Perché nell’innamoramento la sincronicità è un fatto quotidiano? Quale potenza si rivela nei sogni, sufficiente a cambiare la luce di intere giornate? Anziché dismettere tutte queste esperienze come “coincidenze”, “casualità” o “stramberie”, bisogna farne tesoro: sono piste di conoscenza in senso pieno, ciascuna con le sue regole e i suoi modi, varchi verso una competenza migliore e più alta delle cose del mondo. Molte di esse, peraltro, ci indicano con evidenza cristallina che siamo presi in reti di relazioni, che il nostro dive122
nire non nasce e non si esaurisce in noi, bensì partecipa al processo della realtà (come ci ha insegnato Whitehead). C’è una saggezza che attraversa la vita e richiede di comporre tra loro le forme della razionalità e dell’intuizione, della speculazione e della creatività, della parola e dell’immaginazione, il sapere della riflessione e quello del corpo13. Porta di necessità a un allargamento del conoscibile e dell’ontologia del mondo – allargamento pericoloso, perché rimette in gioco i fondamenti ontoepistemologici della modernità, ma ormai ineludibile, e da fare con tutta la cautela del caso. Come Melandri ha argomentato una volta per tutte, scendendo alle radici della logica si trova sempre l’analogia; nel campo di forze che le due creano non si tratta di prender parte per uno dei due poli (come se, per comprendere la corrente elettrica, decidessimo di schierarci con il catodo escludendo l’anodo), ma di avere cognizione del fatto che la conoscenza nasce dalla tensione fra le due14. La logica – sulla quale abbiamo sognato di fondare tutto il conoscibile – non è fondamento ma garanzia di tenuta: è ciò che permette a un mondo di continuare a esistere con una certa attendibilità, con un certo grado di coerenza. Ma al fondo, ciò che viene portato in essere è frutto di una scelta originaria, e la scelta è analogia.
8. I molti, il comune, l’universale Il molteplice non può sopportare la tirannia dell’uno e, al contempo, il concetto stesso di molteplicità assume il suo senso solo in relazione a quello di unità. L’appartenenza comune alla specie umana e l’urgenza di trovare risposte credibili alla crisi ecologica e antropologica innescata dal dominio del denaro e della tecnica sono, nonostante tutto, due punti fermi che ci incoraggiano a rilanciare un’idea di universale aperto che finalmente rompa con l’universalismo astratto e con l’opposizione tra Natura e Cultura promossa dai fedeli della scienza e della democrazia liberale. L’universale dev’essere pensato in contrapposizione all’universalismo, che impone la propria egemonia e crede di possedere l’universalità. L’universale che bisogna impegnarsi a sostenere è, al contrario, un universale ribelle, che non è mai appagato; o, potremmo dire, un universale che distrugge la comodità di qualunque positività immobile: che non totalizza (ossia che non satura) ma che invece rende nuovamente consapevoli del fatto che ogni totalità compiuta ha qualche mancanza. Un universale regolatore (nel senso dell’idea kantiana) che, non essendo mai soddisfatto, non smette di spingere più in là l’orizzonte e induce indefinitamente a cercare. Ed è prezioso su un piano non soltanto teorico, ma anche politico: è proprio questo universale che bisognerà rivendicare per il dispiegamento del comune. […] È questo universale che dobbiamo invocare affinché la condivisione del comune resti aperta e non si trasformi in frontiera, non diventi il suo contrario: l’esclusione da cui deriva il comunitarismo15.
Pensare per collettivi, immaginando una coevoluzione costante tra umani e non umani nel corso del divenire storico, è un buon esercizio che può aiutarci, 123
fra le altre cose, a identificare con maggior esattezza delle strategie per non soccombere alla logica delle nuove tecnologie digitali e non perderci nei labirinti della mediasfera. Stabilisco un rapporto con la totalità concreta quando arrivo a una conoscenza del processo, del divenire in cui gli elementi del fenomeno si collegano e non attraverso un sapere enciclopedico su di loro. […] Il capitalismo esiste e può essere combattuto soltanto nelle situazioni contingenti. L’inganno del pensiero astratto consiste nel credere che esista come livello autonomo. Prima di attaccare la globalità chiediamoci dove esiste. La resistenza deve avere di mira il processo. Il processo è l’insieme delle espressioni del neoliberismo nella vita concreta della società. La lotta conosce così un’infinità di luoghi di resistenza. Passa attraverso la difesa di ciò che si è ottenuto, attraverso lo sviluppo di una cultura della solidarietà secondo la quale l’uomo non può essere sfruttato, attraverso esperienze di solidarietà concreta come le economie solidali. […] I militanti confondono i dati economici e il processo. I primi non sono che un elemento del secondo. L’altro errore fondamentale è credere che la resistenza si identifichi con la contestazione. La resistenza riguarda la creazione di pratiche che operano sul processo. La radicalità sta nella creazione e non nello scontro. Solo l’invenzione del nuovo sfugge al sistema16. Qui possiamo evocare il concetto filosofico di «singolarità»: una singolarità è in un certo modo il comune in atto. Vale a dire che qui il comune in senso filosofico è un «tutto», sostanza, materia, dinamica, mondo. Allo stesso modo, allora, possiamo dire che il comune è la singolarità in potenza. Vediamo che, secondo tale definizione, un organismo è una singolarità mentre un aggregato o un artefatto non lo è mai. Che qualcosa funzioni come una singolarità vuol dire, fra le altre cose, che è il suo proprio fine, che è un tutto articolato ad altri tutti17.
Di fatto, a valle di secoli di unificazione coatta di tutti i tipi di funzionamento umano (reductio ad unum economica, politica, statale, immaginaria ecc.) e dei totalitarismi che ne sono derivati, ci sembra che l’unico farmaco capace di trattenerci dal precipitare, una volta ancora, verso “lo stesso bene per tutti” sia proprio una pratica attenta, avveduta, a volte incantata e a volte rischiosa, del molteplice. Un molteplice impossibile da uniformare, che si dà in un regime di coesistenza che non abolisce l’uno ma lo esprime come creatività produttrice di differenze e di inedite linee evolutive18. L’intero non si frammenta, conservando piuttosto la varietà iridescente delle sue articolazioni: unitas multiplex. L’umanità stessa, alla luce di quanto stiamo dicendo, andrebbe pensata come una e molteplice, mai data in modo astratto bensì tutta da fare e “coltivare”19. Perché – a fronte dell’irruzione di Gaia nelle nostre vite (definizione coniata da Isabelle Stengers per descrivere la reazione violenta del sistema Terra alle perturbazioni ecologiche prodotte dall’uomo) – dobbiamo riconoscere che una civiltà plurale e sostenibile potrà sorgere solo rinunciando a imporre su di essa un ordine gerarchico e monoculturale. Il passare dal punto di vista locale al punto di vista globale o mondiale dovrebbe significare che si moltiplicano i punti di vista, che si registra un grandissimo numero di varietà, che si considera un maggior numero di esseri, culture, fenomeni, organismi e popolazioni. Oggi pare proprio che, con mondializzazione, si intenda l’esatto contrario di un simile ampliamento. […] Se si tratta di moltiplicare i punti di vista per complicare ogni punto di vista “provinciale” o “chiuso” per mezzo di nuove varianti, è una battaglia che merita di essere portata avanti; se si tratta invece di ridurre il numero di alternative sull’esistenza e sul corso del mondo, sul valore dei beni e sulle definizioni del Globo, si capisce facilmente che a una tale semplificazione occorre resistere con ogni mezzo. […] A conti fatti, la sola cosa che importa non è sapere se si è a favore o contro la mondializzazione, a favore o contro il locale, ma comprendere se si riesce a registrare, mantenere, amare il più grande numero di alternative
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possibili all’appartenenza al mondo. […] Dobbiamo confrontarci con quello che è letteralmente un problema di dimensioni, di scala e di insediamento: il pianeta è troppo piccolo e limitato per il globo della globalizzazione; ed è troppo grande, infinitamente troppo grande, troppo dinamico e complesso per essere contenuto nelle frontiere ristrette e limitate di una qualsivoglia località. Siamo tutti doppiamente travalicati: dal troppo grande come dal troppo piccolo20. Lasciato a se stesso, l’Occidente non ha gli antidoti per orientare diversamente le sue conoscenze e energie; se mantiene la sua egemonia finirà con il colonizzare le altre culture, sino a forgiarle a sua immagine e somiglianza. È vitale e salutare l’incontro con altre civiltà e popoli, per quello che hanno da offrire, per i saperi di cui sono custodi e portatori. Non a caso le culture tradizionali sono il bersaglio della modernizzazione che vuole imporsi contro l’idea antica che il cosmo costituisca un insieme vivente. Di fronte all’avanzare dell’universalismo occidentale sorgono etnocentrismi militanti, la spirale distruttiva può essere fermata solo da un pluriculturalismo in cui l’unificazione della specie non implichi la distruzione della diversità delle culture, ma la coesistenza, il dialogo, lo scambio, sul presupposto del riconoscimento della pari dignità nella diversità21.
9. Mondi umani altri L’antropologia di questi anni è tornata a discutere con passione dello statuto ontologico, epistemologico ed etico dei “mondi altri” e dei differenti modi di plasmare gli umani e di abitare il pianeta. Non è un tema nuovo, ma questa volta la discussione avviene nel vuoto delle speranze rivoluzionarie che avevano accompagnato i decenni precedenti e, quindi, con un’urgenza dal timbro inconsueto22. Il disastro del nostro mondo ha portato al diapason uno dei punti più caratteristici della disciplina, fra le poche a sapere che l’umanità non inizia e non finisce con la modernità occidentale. È una consapevolezza cruciale in quest’epoca “antropocenica” di ghiacciai che si sciolgono e depressione di massa: a breve potremmo scoprire che molto di quello che abbiamo disprezzato e squalificato come arretrato non solo è infinitamente più ricco di quanto pensavamo, ma è forse anche un mezzo migliore per traghettarci fuori dalle peste in cui ci siamo impantanati. (Senza dimenticare che lo straniamento proprio allo sguardo antropologico è, da sempre, lo strumento principe della critica radicale). Niente resta intatto: i diversi collettivi umani che vivono e sono vissuti sul pianeta hanno elaborato modi profondamenti differenti per strutturare le pulsioni, per accedere alle conoscenze, per stare in rapporto con la sfera nonumana, per lavorare le relazioni; modi differenti di essere soggetto, di accedere all’età adulta, di praticare l’erotismo, la genitorialità, il potere; hanno sviluppato differenti forme di crisi, che vengono lette e prese in carico secondo eziologie e terapeutiche differenti tra loro e profondamente coerenti con la cosmovisione locale. I corpi stessi – nella loro materialità, fisiologia e funzionamento genetico – sono da considerarsi storici, come suggerito dai più recenti sviluppi dell’epigenetica23. Molto si è discusso, e vale la pena un breve accenno, sui modi di costruire la persona e sul concetto di individuo. Il modo individuale di costruire la persona, quello che abbiamo fatto nostro da qualche secolo, prevede che tutto 125
inizi e finisca con il soggetto: è individuo, in senso filosofico-antropologico, chi fa partire le relazioni, il divenire e il senso stesso del mondo da sé e dalla propria interiorità, da un’essenza presente fin dalla nascita e sostanzialmente immodificabile. Per contro, altri mondi umani costruiscono le persone secondo una logica dividuale: essa prevede che il senso dell’individuo sia dato, in primo luogo, dalle relazioni che il suo mondo stabilisce con lui; l’identità non sta quindi in un’essenza presente fin dal concepimento, ma nell’unicità della traiettoria biografica che si costruisce lungo gli anni24. Individualità e dividualità non si comportano come opposti assoluti, ma come poli di un campo: nessun mondo umano costruisce soggetti completamente individuali o completamente dividuali, e tutti si collocano in qualche punto intermedio. Perfino il nostro, che è quello più potentemente virato a una costruzione di tipo individuale, conserva zone di dividualità (la parentela è quella più evidente), dove i confini fra soggetti sono più porosi e il senso stesso d’identità eccede i confini del singolo. Vale la pena di aggiungere che la logica dividuale prevede strutturalmente, per ciascun soggetto, una pluralità di attaccamenti e di relazioni, che dovranno convivere fra loro in base a scambi e attente negoziazioni; per contro, la logica individuale propende verso l’unicità e incomparabilità di una sola relazione fondante: dell’anima con il dio creatore; del bambino con la madre; del cittadino con lo stato. Sospettiamo che l’attuale piega totalitaria della costruzione individuale, rappresentata dall’individualismo e dall’autismo di massa, possa trovare qualche via di salute nella conoscenza e nella pratica di logiche dividuali/relazionali.
10. Sacro Altra parola da riprendersi, e con la massima urgenza. Secondo la stragrande maggioranza dei collettivi umani che hanno vissuto e vivono sul pianeta non tutto si esaurisce nella sfera che definiamo “umana” e le comunità degli umani sono in continui rapporti di scambio con altri enti: acqua, aria, terra, sole, gli altri esseri viventi, le forze geologiche, le coste, le montagne, gli antenati, gli spiriti delle foreste e via dicendo. In questo senso, l’ecologia altro non è se non lo studio dell’insieme di tutte le relazioni che costituiscono un mondo e, mantenendosi in un regime equilibrato di scambio, ne permettono l’esistenza. E sempre secondo costoro, la forma di cui ciascun mondo e ciascuna persona dispone non è data una volta per tutte, granitica e definitiva: è qualcosa che dev’essere periodicamente “riaperto” e lavorato per risolvere le tensioni, gli scotomi, i dolori e i non vissuti che il passare del tempo inevitabilmente porta con sé. La relazione con questa parte del reale prende il nome collettivo di “sacro”. Al sacro, che eccede ampiamente la sfera delle religioni e non coincide necessariamente con essa, compete una prossimità radicale alla dimensione del possibile. Là dove i ritmi e le abitudini profane del giorno vengono me126
no, cresce la percezione sottile di energie e possibilità di vita capaci di sciogliere i nodi dei rapporti di dominio, liberando inediti percorsi di soggettivazione e comunione. Il punto decisivo è forse questo: il sacro non è, di per sé, buono o cattivo; non ha una valenza stabilita a priori (se l’avesse, non sarebbe contiguo al possibile ma apparterrebbe all’attuale, al già determinato e “risolto”). È quanto sanno i gruppi umani che hanno mantenuto viva la relazione con queste zone del reale: ciò che conta in questa sfera è solo l’intenzione di chi vi si avvicina, la sua disponibilità a entrare in un divenire, a renderlo un’opportunità di conoscenza, di salute e di cambiamento anche per altri. Ma non c’è garanzia e il sacro, con tutta la sua potenza, può benissimo esser messo al servizio di progetti di dominio: i fascismi hanno da sempre flirtato con questa sfera per prenderne possesso, per usarla in vista di obiettivi disumani, con gli effetti che ben conosciamo (il culto della violenza, della morte, il mito della forza bruta, l’accento battente sulle radici e sulla terra come “sangue e suolo”). Per molto tempo – un po’ per via di un pregiudizio “scientifico”, un altro po’ per non rischiare di confondersi con gli avversari – i movimenti rivoluzionari hanno abbandonato la sfera del sacro e dell’immaginario agli avversari. In ciò, hanno abdicato alla funzione critica che una parte rilevantissima della nostra tradizione culturale (dai filosofi ionici a Spinoza, dagli albigesi a Benjamin) ha stimato indispensabile al buon funzionamento del mondo e alla possibilità del suo divenire.
11. Un nuovo internazionalismo Anarchici, marxisti e socialisti rivoluzionari se la passavano male quando le dinamiche del capitale richiedevano che la linea di partizione passasse per i confini nazionali anziché per le affinità fra umani, separando le nazioni e mettendole in guerra. Il loro internazionalismo, spesso pagato a caro prezzo, richiamava al fatto che le lotte vere passano altrove: fra oppressori e oppressi, fra sfruttatori e sfruttati, fra ricchi e miseri, fra libertari e amanti delle gerarchie. Un nuovo internazionalismo è oggi possibile e lega tutti coloro i quali, in base a una diversa idea di cosa renda vivibile e desiderabile la vita umana, stanno lottando contro l’estensione geografica e psichica della logica tecno-capitalista, dell’impotenza appresa e del darwinismo sociale. Il contadino andino che non ne vuole sapere di piantare mais transgenico ci è infinitamente più vicino, in questi frangenti oscuri, di un fratello manager; la lingua incomprensibile con cui uno Yanomami esprime la sua preoccupazione per la caduta del cielo molto più prossima al nostro sentire della neolingua dei telegiornali; le lotte delle donne kurde molto più affini del femminismo di facciata delle nostre signore borghesi. Non si tratta più di separare amici e nemici sulla base di caratteristiche intrinseche o di chissà quale “purezza” ideologica, e tantomeno di incapsulare la 127
soggettività umana dentro i confini troppo stretti dell’appartenenza a una “patria” (sebbene la politica e la cultura siano chiamate a sviluppare conflitti generativi anche al livello dei territori e dei singoli stati). Basta riconoscersi in un insieme minimo di intenzioni: il superamento della dinamica del plusvalore; l’attenzione ecologica; il rifiuto delle “gerarchie naturali”; la disponibilità a impegnarsi perché il potere non diventi dominio; la difesa dei più deboli e dei meno garantiti; l’apertura a una spiritualità finalmente ecocentrica. Non molto, ma neanche poco: il resto – l’intelligenza, l’ironia, la diplomazia, l’ingegnosità, la passione – verrà dall’umana capacità di fare mondo non appena questa sarà liberata dai lacci che oggi l’incatenano. Se riusciremo, nei luoghi e nei tempi della vita concreta, a “immaginare altrimenti”, scopriremo che, nonostante ciascuno di noi alberghi in sé i germi della separazione, della servitù volontaria e dell’egoismo, esistono ancora delle energie che si sottraggono all’utilitarismo e che possono convergere in direzione di un’emancipazione inedita: quella di chi, invece di sciogliere i legami che ci tengono in vita, si impegna a instaurarne di nuovi, a disobbedire ai diktat neoliberisti, ad allacciare alleanze e sperimentare modi di connettersi al reale che approfondiscano la nostra potenza di agire. Abbracciando una differente prospettiva filosofica-psicologica-antropologica, che renda ogni istante della vita degno di una scelta di campo (kairos), potremo valutare, anche nelle circostanze più diverse, quali delle nostre idee e azioni concorrono alla creazione di uno spazio politico liberato e quali, invece, rimangono conformi alle leggi non scritte del capitale e del suo apparato di dominio. Questo è un principio guida per definire una nuova etica che tenga insieme, senza illusioni, radicalismo e consapevolezza dei limiti che ci costituiscono. Ci rendiamo conto, inoltre, che le nostre proposte non rispondono alla fretta di un tempo in cui apocalittici e integrati rifiutano tutti insieme di “andare con il passo dell’uomo”. Né crediamo che la forza di volontà possa condurci, da sola, a una trasformazione radicale dell’esistente. Si tratta, al contrario, di “far esistere” il cambiamento, riconoscendo la presenza di un richiamo nascosto che esige la nostra partecipazione per accedere pienamente alla realtà condivisa. Come ha insegnato il filosofo Étienne Souriau nel suo originalissimo trattato sui differenti modi d’esistenza25, dobbiamo imparare a “instaurare” gradualmente le relazioni affettive, politiche e spirituali che sogniamo e ci fanno sognare. Lontani tanto dall’acquiescenza servile quanto dall’accelerazionismo furioso degli adoratori della tecnica, ci posizioniamo dove l’istante presente prefigura il mondo che vorremmo. Per esprimere questa speranza che non è attesa, ma “fiducia nell’invisibile”, abbracciamo la seguente considerazione di Georges Friedmann: Fare il proprio volo ogni giorno. Almeno un momento che può essere breve, purché sia intenso. Ogni giorno un “esercizio spirituale”, da solo o in compagnia di una persona che vuole parimenti migliorare. Uscire dalla durata. Sforzarsi di spogliarsi delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome. Fuggire la maldicenza. Deporre la pietà e l’odio. Amare tutti gli uomini liberi. Questo sforzo su di sé è necessario, questa ambizione giusta. Numerosi sono quelli che si
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immergono interamente nella politica militante, nella preparazione della rivoluzione sociale: rari, rarissimi quelli che, per preparare la rivoluzione, se ne vogliono rendere degni26. M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, cit., p. 24. Ibid., p. 32. 3 Dall’“evaporazione del padre” alla scomparsa della madre nella maternità surrogata, dalla riproducibilità tecnica delle relazioni sentimentali alla scomparsa dei figli in una società fattasi globalmente infertile, dall’indifferenza alle sorti del prossimo all’ecatombe ecologica in corso. 4 K. Polanyi, La grande trasformazione, cit.; M. Sahlins, L’economia dell’età della pietra, cit. 5 I. Illich, I fiumi a nord del futuro, cit., p. 91. 6 M. Benasayag, Oltre le passioni tristi, cit., pp. 22-23. 7 D. Balicco, Nostalgia dell’iniziazione. Su alcuni consumi simbolici di massa, in M. Cappitti, M. Pezzella, P.P. Poggio (a cura di), L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. VI, Alle frontiere del capitale, cit., pp. 157-164. 8 F. Jesi, Il tempo della festa, Nottetempo, Roma 2013. 9 M. Tarì, Non esiste la rivoluzione infelice, cit., pp. 15-16. 10 G. Agamben, Autoritratto nello studio, Nottetempo, Milano 2017, pp. 166-167. 11 Ch.L. Candiani, Il silenzio è cosa viva, cit., pp. 98-99. 12 Ibid., pp. 75, 80-81. 13 Cfr. A. Favole, Vie di fuga. Otto passi per uscire dalla propria cultura, UTET, Milano 2018. 14 E. Melandri, La linea e il circolo, cit. 15 F. Jullien, L’identità culturale non esiste, cit., pp. 23-24. 16 M. Benasayag (2004), Contro il niente. ABC dell’impegno, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 96-97. 17 M. Benasayag, Il cervello aumentato, l’uomo diminuito, cit., p. 101. 18 Cfr. R. Ronchi, Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Feltrinelli, Milano 2017. 19 L’Umanità dei proclami altisonanti non ci convince. Il genere umano va messo in condizione di riconoscersi nello specchio dei suoi molti volti, conservando lo slancio verso una coralità planetaria, ma senza mai dimenticare le traiettorie concrete del divenire storico di ciascun popolo. Tutto questo per evitare la stucchevole retorica dei diritti universali messa puntualmente al servizio dei soliti interessi particolari. 20 B. Latour (2017), Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina, Milano 2018, pp. 2122, 25-26. 21 P.P. Poggio, Tecnica e natura: contro il destino della crisi, cit., p. 16. 22 P. Descola (2005), Oltre natura e cultura, Seid, Firenze 2014; E. Viveiros De Castro (2009), Metafisiche cannibali. Elementi di antropologia post-strutturale, Ombre Corte, Verona 2017. 23 T. Ingold, G. Pallson (a cura di), Biosocial Becomings, cit. 24 S. Consigliere (a cura di), Mondi multipli. Volume 2. Lo splendore dei mondi, Kayak, Napoli 2014; M. Sahlins, La parentela, cit. 25 É. Souriau (2009), I differenti modi d’esistenza. E altri testi sull’ontologia dell’arte, Mimesis, MilanoUdine 2017. 26 Questo passo giustamente famoso è tratto dal libro di G. Friedmann, La Puissance et la Sagesse, Gallimard, Paris 1970, p. 359. 1 2
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C. Sini, C.A. Redi, Lo specchio di Dioniso. Quando un corpo può dirsi umano?, 2018 W. Soyinka, L’uomo è morto? Smurare la libertà, 2018 M. Abensour, La comunità politica, 2017 P. Chiari (a cura di), La via milanese alla psicoanalisi. Cinquant’anni di storia dai pionieri a oggi, 2016 Ippolita, Anime elettriche. Miti e riti social, 2016, ult. ed. 2018 R. Finelli, Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, 2015 K. Polanyi, Una società umana, un’umanità sociale. Scritti 1918-1963, 2015 C. Formenti, Utopie letali, 2013 M. Abensour, Per una filosofia politica critica, 2011 M. Abensour, Hanna Arendt contro la filosofia politica?, 2010 J. Ellul, Il sistema tecnico, 2009 I. Wallerstein, Dopo il liberalismo, 1999, ult. ed. 2017 E. Lévinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’al-tro, 1998, ult. ed. 2016 J. Derrida, La disseminazione. Con La farmacia di Platone, 1989, ult. ed. 2018 P. Ricœur, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, 1989, ult. ed. 2016 P. Ricœur, La semantica dell’azione. Discorso e azione, 1986, ult. ed. 2017 E. Lévinas, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, 1983, ult. ed. 2018 E. Lévinas, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, 1977, ult. ed. 2018 N. Berdjaev, Il senso della storia. Saggio di una filosofia del destino umano, 1971, ult. ed. 2019 V.S. Solov’ëv, Sulla divinumanità e altri scritti, 1971, ult. ed. 2017 M. Mauss, Manuale di etnografia, 1969, ult. ed. 2018 R. Niebuhr, Uomo morale e società immorale, 1968, ult. ed. 2018
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Table of Contents Epigrafe Frontespizio Copyright INDICE RINGRAZIAMENTI ARCHEOLOGIA DELLA DISSOCIAZIONE SOGGETTIVITÀ E INDIVIDUAZIONE. PER UN PENSIERO EUTOPICO TRA FILOSOFIA E PSICOANALISI L’ARTE DEI LEGAMI. UNA CONCLUSIONE PER NON FINIRE Bibliografia
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