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Italian Pages 353 [353] [353] Year 2012
I libri di Viella 144
Gennaro Sasso
Storiografia e decadenza
viella
Copyright © 2012 - Viella s.r.l. Tutti i diritti riservati Prima edizione: settembre 2012 ISBN 978-88-8334-931-7 (carta) ISBN 978-88-6728-104-6 (e-book)
viella
libreria editrice via delle Alpi, 32 I-00198 ROMA tel. 06 84 17 758 fax 06 85 35 39 60 www.viella.it
Indice
Prefazione
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1. Guerra civile e storiografia
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2. La storia come «arte» e l’Olocausto (Croce, Gentile, Hayden White e Carlo Ginzburg)
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3. Chabod e il fascismo. Riflessioni e ricordi
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4. Gentiliana et Cantimoriana
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5. Santo Mazzarino: la decadenza, il tempo. Appunti e riflessioni
251
6. Riflessioni sulla decadenza
297
Indice dei nomi
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Prefazione
In questo volume ho raccolto sei saggi, nei quali, sotto vari punti di vista, sono affrontati temi che, in modo implicito e anche, talvolta, esplicito, si intrecciano nel nostro presente, storiografico e etico politico. Da un lato, in relazione a due storici (Federico Chabod e Delio Cantimori) e a due filosofi (Benedetto Croce e Giovanni Gentile), ho studiato la varia fenomenologia del revisionismo che, da destra e anche da sinistra, esercita sé stesso su momenti e figure del ventennio fascista, producendo sfasature, alterazioni e varie deformazioni della realtà culturale e politica del nostro paese in un momento più che difficile della sua problematica storia unitaria. Da un altro, affrontata in uno storico del mondo antico di eccezionale dottrina e sensibilità (Santo Mazzarino), ho trattato dell’idea della decadenza, alla quale è stato anche dedicato un breve scritto, che, più che un saggio, è forse lo schema di un saggio possibile. Ho insistito su questo punto, non per dare una mano ai narcisisti della catastrofe, con i quali non ho nulla in comune. Ma perché il tema è imposto dalle cose, e quanto più sia difficile e disperante il tentativo di venirne a capo in termini che non siano di pura constatazione, tanto più s’impone e dev’essere affrontato. Sono intervenuto nella polemica che da tempo si è accesa su Cantimori, e in questi ultimi anni, anche su Chabod, perché mi è sembrato che in molti casi a prevalere sull’intelligenza delle cose fosse stata, e sia, la passione politica e, alla luce di questa, o piuttosto nel buio che ne è derivato, una compiaciuta tendenza a condannare, che offende, se non altro, il senso della gratitudine che si deve a chi molto, direttamente o no, abbia impegnato il suo tempo nell’arte difficile della ricerca e dell’insegnamento. Non credo, d’altra parte, che la gratitudine abbia prevalso sul rigore della considerazione, e che, dove mi apparissero tali, limiti e contraddizioni non siano stati notati e messi in rilievo. Se qualcuno mi dimostrerà
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che, nei casi in questione, la gratitudine ha prevalso sul rigore, cercherò di correggermi, fortuna adiuvante. Sebbene siano prevalentemente dedicati a questioni di natura storiografica, ho l’impressione che questi saggi risentano fin troppo della filosofia che sta nella mia testa e che, in effetti, se anche volessi, non potrei eliminare. Ma mi pare che altresì risentano delle passioni del presente, anche se guardano al passato. Ne è autore infatti uno che, senza essere e voler essere un addetto a esercizi storiografici, alla regione in cui questi si realizzano è passato talvolta abbastanza vicino, tanto da averne ricavata una conforme mentalità. Possiede quindi una certa disposizione storiografica. Ma, per un altro verso, non è invece un politologo (anche se a lungo, anzi proprio perché a lungo, ha studiato Machiavelli), non è un giurista (anche se molto dal mondo delle leggi si senta attratto), non è un economista. Se, come tutti, avverte che il mondo si sta facendo sempre più piccolo a misura che le sue parti si richiamano e, per converso, i suoi problemi si ingrandiscono e si complicano, non per questo ritiene che la semplice constatazione di questi fatti valga a orientarlo nella diagnosi e nella prognosi. Nemmeno, del resto, se fosse eseguita nel modo più profondo, la prima garantirebbe la seconda: figuriamoci se possa garantirla o, almeno, avviarla a un esito soddisfacente, chi, provando a farsene autore, non sia tuttavia in grado di vedere in che modo si potrebbe ovviare alla crisi sempre più evidente sia dei sistemi democratici, che stentano a conservare sé stessi e appaiono esposti a varie degenerazioni autoritarie, sia del capitalismo. Il quale, mostrando di essere sempre più posseduto da un’insopprimibile tendenza a vivere attraverso le sue crisi e a divorare sé stesso, sembra confermare alcune parti dell’analisi che Marx ne aveva fatta nella seconda metà del diciannovesimo secolo. Il desiderio di capire e di trovare la via è tanto più grande quanto più estesa è l’ignoranza di chi pure è in condizione di avvertilo in sé. Una cosa, tuttavia, questa almeno, l’ignoranza ha di buono, che, a chi ne sia consapevole, impedisce di incamminarsi lungo i sentieri della beata incoscienza e dell’ingegnoso dilettantismo. La discussione che qui si fa di alcuni aspetti del revisionismo contemporaneo nelle sue implicazioni politiche è ben lungi dal fornire criteri utili per la comprensione, e non si dice naturalmente per la risoluzione, dei gravi problemi che travagliano il nostro mondo culturale e politico. L’autore di queste pagine non ha, al riguardo, alcuna pretesa. Quel che ha scritto dovrebbe tuttavia suscitare qualche interesse in chi non sia del tutto sordo alle gravi questioni che si agitano nel fondo oscuro della vita italiana, dove, espressioni di una lunga
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storia, clericalismo e conservatorismo politico si intrecciano, mostrando una perversa attitudine a ripresentarsi, se non nelle vecchie forme, tuttavia con l’antico volto. Dovrebbe altresì fornire un qualche aiuto al chiarimento delle idee, e qualche stimolo alla discussione: anche se, al riguardo, ci sia da farsi poche illusioni. Di qua e di là dell’Atlantico oggi, infatti, si parla molto e si discute poco; e quel che si legge a proposito delle tendenze fondamentali del nostro tempo, e del destino dell’Occidente, è tale da far rimpiangere, non dirò i profeti (Spengler, per esempio, e Toynbee) che, fra le due guerre, scrissero libri che variamente inquietarono, scandalizzandola, la coscienza europea, ma, per restare in Italia, Francesco Saverio Nitti e persino Guglielmo Ferrero. Con questa valutazione si potrà essere o no d’accordo: non pretendo che, in relazione ai profeti della fine della storia, ed è chiaro che qui non sto alludendo a Kojève, tutti pensino quel che ritengo debba pensarsene. Su un punto tuttavia si dovrebbe essere d’accordo. Se, domani (ma anche oggi, perché i tempi sono al riguardo più che maturi), qualcuno volesse cercare di cogliere lo stile culturale dei nostri tempi, fra le altre cose da mettere in rilievo, dovrebbe indicare il «tramonto della recensione» come strumento di pubblica discussione, scientifica e anche civile: ossia di un «genere» che, nel recente passato, fu coltivato da studiosi di diverso orientamento ma, al riguardo, di identica ispirazione e convinzione: studiosi che, per fare solo qualche esempio, si chiamavano Benedetto Croce, Adolfo Omodeo, Gaetano De Sanctis, Delio Cantimori, Arnaldo Momigliano; e non disdegnavano, riguardo al metodo ma, ancor più, alle interpretazioni specifiche, di entrare nell’esame dei risultati raggiunti da questo o da quello. Era un contributo, quello offerto da quei valentuomini, che, svolgeva i suoi effetti nella purificazione del mondo scientifico, nella obiettiva e tendenziale selezione e eliminazione che in tal modo metteva in atto, rispettivamente, dei migliori e dei peggiori: con qualche vantaggio per le Università che, senza essere ottime o anche soltanto buone, non erano, nei passati decenni, quali sono oggi. Ma di questo varrebbe forse la pena di parlare, con diverso impegno, in una diversa sede. Con l’eccezione del quinto, che in attesa di essere pubblicato in un volume dell’Accademia nazionale dei Lincei, destinato a raccogliere gli atti di un Convegno internazionale dedicato a Santo Mazzarino nel 2007, ha intanto visto la luce in «Mediterraneo antico», i saggi che costituiscono questo volume furono tutti pubblicati nella «Cultura»; e tutti sono stati sottoposti a revisione stilistica e a correzioni più o meno consistenti, che non ne hanno tuttavia alterata la originaria fisionomia.
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Nota bibliografica 1. Guerra civile e storiografia, in «La Cultura», 43/1 (2005), pp. 5-42 2. La storia come «arte» e l’Olocausto (Croce, Gentile, Hayden White e Carlo Ginzburg), in «La Cultura», 46/1 (2008), pp. 5-60 3. Chabod e il fascismo (Riflessioni e ricordi), in «La Cultura», 47/1 (2009), pp. 5-60 4. Gentiliana et Cantimoriana, in «La Cultura», 47 /2 (2009), pp. 230-232 5. Santo Mazzarino: la decadenza, il tempo. Appunti e riflessioni, in «Mediterraneo antico», XI/1-2, (2008), pp. 341-358 6. Riflessioni sulla decadenza, in «La Cultura», 49/1 (2011), pp. 5-46
1. Guerra civile e storiografia
οὐκ ἐρίζειν ἀλλὰ διαλέγεσθαι
A Eugenio Di Rienzo, che ha dedicato quasi quattrocentocinquanta pagine 1 a quel che nella storiografia italiana avvenne tra fascismo e antifascismo e, in particolar modo, nel periodo che, a partire dal 1943, arriva ai giorni nostri, occorre innanzi tutto riconoscere passione e dottrina: molta, forse troppa, passione, e molta (non troppa!) dottrina.2 Degli storici che ebbero il grido negli anni da lui studiati Di Rienzo ha letto, com’è ovvio, i libri, con particolare impegno ne ha ricercate le carte, ha ricostruito i carteggi, per questa via e con questi documenti ha illuminato aspetti restati nell’ombra, o che, comunque, illuminati non erano stati a sufficienza. Il suo intento è stato infatti, in primo luogo, di recare un contributo decisivo alla battaglia che, a suo parere, dev’essere combattuta contro la «rimozione» che, da parte di molti, è stata fatta del passato, che pure era il loro e tutti li avvolgeva; nel quale si erano formati e che avevano collaborato, ciascuno con le sue forze, a costituire. Il passato, insomma, del quale erano coautori, e responsabili. Intento da condividere: anche se il risultato conseguito possa e debba essere discusso. È perciò, con qualche preliminare avvertimento, che Di Rienzo forse condividerà nella formulazione genera1. E. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica, Firenze 2004. 2. Sarà per un banale lapsus calami se, a p. 265 n. 217, è citata come di Antonio Labriola la Storia di dieci anni (1899-1909), Milano 1910, che è viceversa opera di Arturo? C’è da dubitarne, perché in questa medesima nota, è ricordato quel che Volpe scrisse di Labriola (Antonio, non Arturo) come uno degli ispiratori della sua storiografia (G. Volpe, Storici e maestri, Firenze 1967, pp. 107-121). Aggiungo che su Arturo Labriola, e sul suo socialismo estremistico di fine secolo, può leggersi G. Volpe, Italia moderna. 1898-1910, II, Firenze 1949, pp. 466 ss.
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le, sebbene gli sia accaduto di averne deviato, e che tanto più perciò richiede di essere ribadito e reso concreto in concreti giudizi. È impossibile passare indenni attraverso una dittatura che, come quella instaurata e imposta dal fascismo, per circa vent’anni esercitò sulla vita sociale, politica, culturale un controllo poliziesco capillare e spietato. E tanto più, naturalmente, questa difficoltà fu tale per coloro che ai loro pensieri dettero forma nella scrittura; per gli intellettuali che, scrivessero di filosofia o di storia o di letteratura, si dedicassero all’invenzione narrativa o, addirittura, alla poesia, dovettero fare sempre molta attenzione a quel che scrivevano e a come lo comunicavano, mettendo in atto «tecniche» di dissimulazione e di mascheramento, e, non di rado, anche di compromesso e di implicita complicità. Della dissimulazione non ci si deve meravigliare. Del cedimento di questo o di quello non è giusto fare materia di scandalo; né sarebbe bello trarne motivo di soddisfazione. Si deve piuttosto, o si dovrebbe, tener fermo che, se la viltà a cui taluni furono costretti assume forma particolare quando a farla insorgere sia il volto minaccioso del potere tirannico, proprio per questo sarebbe ipocrisia la pretesa che quello non fosse il volto della tirannide, che frutto di immaginazione e, appunto, di viltà fossero le minacce che ne provenivano; e che sempre e comunque i cedimenti e i compromessi debbano essere ascritti, non solo alla umana fragilità di chi se ne faceva autore, ma addirittura alla debolezza morale della causa antifascista. Che ospitava anche i deboli e i vili; e, dunque, come poteva essere una nobile causa? L’impressione che, leggendo alcuni fra questi storici, si ricava è proprio questa. È che ai grandi Leviatani e alla loro potenza persecutrice, quanti in cuor loro li avversavano, tutti, e sempre, dovessero rispondere e far fronte con l’intransigenza e il coraggio che, necessariamente, nella loro forma pura, furono di pochi; che cedimenti non fossero ammissibili in coloro che a quelli non avrebbero voluto dar corso; che il coraggio di un giorno, o di una stagione, dovesse essere confermato e ripetuto in tutti i giorni di tutte le stagioni, sfidando carcere, povertà, fame dei figli; che, per giustificare sé stesso e la sua dissidenza, l’antifascismo dovesse essere cosa, non umana, ma divina. È questo, in effetti (e salvo errore), il concetto che si esprime nel pensiero degli storici «revisionisti»; o che opera, almeno, nel fondo della loro coscienza quando negano che l’antifascismo sia stato cosa divina e si compiacciono di trovarvi l’umano e anche il «troppo umano». In questo atto essi non si avvedono di tener conto, non della realtà, ma
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proprio e soltanto della rappresentazione di maniera che ne è stata data in sede, non critica, bensì celebrativa, se non, addirittura, nel vivo dell’azione; e di comportarsi intellettualmente come se, per essere e poter essere apprezzato nei suoi valori, un movimento politico dovesse esser pari a quelli in ciascuno dei suoi rappresentanti, e la debolezza di uno, o di alcuni, o di molti, significasse che quei valori in realtà non esistevano.3 In realtà, al di là, o al di qua, delle debolezze, delle inadeguatezze, persino delle defezioni e dei tradimenti, quei valori esistevano; e ressero alle dure prove a cui le cose li sottoposero. Dell’antifascismo che, giorno dopo giorno, in patria e fuori, costituì sé stesso mentre il fascismo era al potere e non gli risparmiava persecuzioni, – dell’antifascismo tutto si può dire. Si può dire che non una sola idea lo animò, ma che molte e diverse vi confluirono, accendendovi conflitti e rendendo difficile, in certi momenti, il suo cammino. Si può aggiungere che nelle polemiche che le sue parti diressero l’una contro l’altra già si delineava la divisione che, nel dopoguerra, quando il metus hostilis rappresentato dal fascismo non poteva esser più ragione di unità, e le differenze inesorabilmente prevalsero, assunse il carattere di una dolorosa lacerazione. Si può dire questo, e molto altro ancora. Ma certo non potrebbe negarsi che fu per la sua idealità antitotalitaria e antitirannica che, quando il metus hostilis agiva e conferiva unità, l’antifascismo si mantenne integro al di qua delle sue divisioni, potenziali e reali. Il che, se avvenne, e avvenne, la ragione sarà da ritrovare, non solo nella fermezza di coloro che, per riprendere un’immagine di Adolfo Omo deo, non piegarono il ginocchio dinanzi al Faraone, «e furono essi il vero Israele»,4 ma nell’idea di libertà che a quella fermezza consentì di esser tale e alla patria italiana di riemergere con un diverso volto dal baratro in cui il fascismo l’aveva immersa. Con un diverso volto, e, necessariamente, nel segno della discontinuità nei confronti, non solo (ed è o dovrebbe essere ovvio) del fascismo, ma anche dell’Italia che, da ultimo, l’aveva generato e ne era stata travolta. Non è certo per una forma di tardiva (per di più) pruderie antifascista, o per uno qualsiasi degli spiriti della correlativa retorica, ma perché questa mi appare come l’unica opinione che abbia nei fatti e nella ragione il suo sostegno, – non è per questo che ritengo di non poter condividere la tendenza che da tempo è in atto e che consiste nel rendere piccolo il grande, 3. Su questo punto, cfr. la Nota I apposta alla fine di questo articolo. 4. A. Omodeo, Difesa del Risorgimento, Torino 1951, p. 444.
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opaco, anziché terso, il cristallo dell’antifascismo e della sua virtù, con lo scopo evidente di far emergere alla luce quel che a lungo si volle che rimanesse immerso nelle tenebre. E cioè che se del fascismo e dei suoi metodi tutti, o quasi, avevano partecipato, in forma attiva o passiva; se con il Le viatano tutti, o quasi, erano venuti a patti, subendone le minacce e accoglien done, come che fosse, le lusinghe, alla sua condanna non c’era ragione di dar corso se non con molte attenuazioni e nello spirito della comprensione: anche perché, sia pure nella forma dittatoriale che si era data, il fascismo aveva conferito espressione a esigenze profonde della nazione in un momento molto difficile della sua esistenza. L’aveva resa più forte, avviandola lungo la via della modernizzazione e preparandola a sostenere il peso di questa difficile prova. Con il che, come non è difficile vedere, si dava e si dà luogo a un curioso giudizio: in forza e in ragione del quale, per un verso si riprendeva, capovolgendola, anche se soltanto in forma indiretta, la tesi che fu, per esempio, di Fabio Cusin, o di Giulio Colamarino, del fascismo come espressione dell’inferiorità politica e morale dell’Italia (e degli italiani), e per un altro la si capovolgeva senz’altro col dare a essa una connotazione positiva. Lungi dall’essere espressione di vizi da lungo tempo presenti nell’organismo della «nazione» italiana, il fascismo aveva ripreso e rivissuto, secondo il suo nuovo stile, il momento del Risorgimento: con la conseguenza che, a meno che in questo non si fosse inteso cogliere il segno della negatività, anche in quello, anche nel fascismo, ci si doveva abituare a vedere l’aspetto positivo: al di qua, dunque, della catastrofe in cui si era concluso. Che è quello che, se avessero avuto, vivo e non deformato, il senso della storia, gli uomini dell’antifascismo avrebbero dovuto capire. Invece di dar luogo alla condanna senza appello, e indiscriminata, di ogni aspetto del fascismo, di questo avrebbero dovuto salvare e riprendere e potenziare quelli che rappresentavano la sua continuità con il Risorgimento: salvarli, riprenderli e potenziarli valorizzando le sue già ricordate istanze modernizzatrici, e insomma quel che di nuovo, malgrado i suoi limiti e i suoi torti, il fascismo aveva rappresentato nei confronti del chiuso e ottocentesco mondo liberale d’anteguerra. Accadde invece, secondo quel che si legge nel libro di Di Rienzo, tutt’altro. Accadde a opera sia di coloro che antifascisti erano stati sempre e a quest’impresa di superiore giustizia storica erano perciò impreparati, sia dei molti che come tali si erano presentati all’ultima o alla penultima ora; e cioè che su e contro il passato recente della storia italiana si scatenasse la furia della condanna mentre, su quanto d’importante pur vi era stato realizzato, cadeva e si stendeva pesante e com-
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patto il velo nero della rimozione. La guerra civile che da poco si era conclusa, e che pur continuava in forme improprie nelle province del Nord, fu proseguita con armi diverse da quelle impiegate prima: diverse, ma non meno micidiali. E la conseguenza fu che, in un clima saturo di veleni e di odio, invece di dare pace e tranquillità, invece di offrire l’occasione perché tutti si riprendesse a tessere la tela di una storia comune, l’antifascismo mantenne in Italia un clima di vendetta e di rancore, di persecuzione e di ingiustizia, del quale massimi responsabili furono sì, senza dubbio, i comunisti, ma non più degli azionisti, accaniti anch’essi, come del resto lo stesso Benedetto Croce, nel perseguitare, colpire, condannare uomini meritevoli e cose egregie del passato regime.5 «Davvero […] intollerabile» fu, per esempio, a giudizio di Di Rienzo, l’«opera di sistematica denigrazione» che Croce e Omodeo svolsero nei confronti dell’Accademia d’Italia.6 E qui, se l’esposizione delle sue tesi può per un istante essere sospesa, vorrei dire che proprio non si capisce perché Di Rienzo giudichi in questo modo un provvedimento che non solo era ovvio in quel momento, ma necessario altresì in assoluto. Come si sarebbe potuto non criticare (che non è la stessa cosa che denigrare) e, invece, mantenere in vita e sostenere un’istituzione che, a parte il suo ultimo tragico atto, quando a presiederla a Firenze fu chiamato Giovanni Gentile, era stata fin dall’inizio concepita come uno strumento di corruzione politica e di controllo di quanti erano stati chiamati a farne parte? Che poi nell’Accademia d’Italia avessero trovato posto, accanto ad altri di minor pregio (e talvolta di nessun pregio), studiosi di rilievo, non toglie che altamente discutibili fossero il criterio e il metodo della selezione. Quel criterio e quel metodo prevedevano infatti che, all’atto della sua concreta istituzione, la metà dei posti disponibili nelle due classi in cui, allo stesso modo di quella dei Lincei, l’Accademia d’Italia si divideva, fosse assegnata a studiosi e personalità delle scienze e delle arti direttamente scelti dal Capo del governo, e che a quest’ultimo spettasse altresì l’ultima parola sui candidati che, da quel momento, sarebbero stati proposti per la nomina dagli accademici che ne facevano parte.7 Il che, come ben si comprende, metteva per intero l’Accademia nelle mani di Mussolini: con risultati che non potevano essere più mortifi5. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico, pp. 8-31, passim. 6. Ibidem, p. 19. 7. Cfr. A. Capristo, L’esclusione degli ebrei dall’Accademia d’Italia, in «Rassegna mensile di Israele», 57, 3 (2001), p. 3 n. 5.
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canti sia per quanti erano stati scelti da lui, sia per coloro che si fossero in cuor loro disposti a desiderare quel che i primi avevano ottenuto, e cioè, non soltanto la feluca, lo spadino e gli altri ornamenti della divisa accademica, ma anche le notevoli prebende che la carica comportava. Era questa l’istituzione che, per il bene del paese, si sarebbe dovuta rispettare, conservare e mettere al riparo delle polemiche faziose degli antifascisti? E non fu saggia la decisione di abolirla e di riaprire quella dei Lincei? Altrettanto incomprensibile mi riesce il giudizio che Di Rienzo ha formulato sull’articolo che, sotto lo pseudonimo di Carol Botti, Carlo Dionisotti8 scrisse «a nome», dice (p. 20), «dell’ala oltranzista dell’azionismo piemontese», sull’uccisione di Giovanni Gentile. Un articolo aspro, duro, ribollente del furore e delle passioni di quei mesi; e del quale deve dirsi che, certo, come tale va giudicato, come un atto di guerra combattuta con le parole dopo che le armi avevano fatta la loro parte, non come un contributo offerto alla comprensione dell’opera e, sopra tutto, della filosofia di quel pensatore. Se è comprensibile che nel settembre 1943 Gentile sentisse di non potersi sottrarre all’obbligo di essere coerente alla scelta che vent’anni prima aveva fatta del fascismo, altrettanto lo è, e deve essere, che nell’o ra del definitivo confronto fra le due parti nelle quali l’Italia si era irreparabilmente divisa, qualcuno decidesse di colpire in lui il simbolo di ciò che odiava. Quello non era un tempo in cui a qualcuno che stesse vivendone gli attimi e le fasi potesse esser concesso di esercitare una forma qualsiasi di superiore comprensione del nemico contro il quale combatteva con le armi. Odisseo che compiange la triste sorte del suo nemico Aiace, e dice di pensare al destino che l’aveva colpito come se fosse il suo perché «noi tutti quanti viviamo non siamo che fantasmi e ombre vane», appartiene alla poesia, non alla politica e alla guerra; che, sarà ovvio ricordarlo, ma è così, ha le sue leggi crudeli, che sono crudelissime quando a combattersi siano uomini della stessa polis. Nemmeno la storia, del resto, anzi la storia meno ancora della politica e della guerra, potrebbe esser mai scritta nel segno di quell’alto sentimento di pietà; non solo perché gli uomini di cui ricostruisce i pensieri e le azioni non sono fantasmi e vane ombre, ma, sopra tutto, perché, se il suo scopo è di capire, e di scendere alla radice di quel che accadde, come potrebbe non essenzializzare le ragioni del contendere uma8. L’articolo, redatto nel 1944, si può ora leggere in C. Dionisotti, Scritti sul fascismo e sulla Resistenza, a cura di G. Panizza, Torino 2008, pp. 41-54.
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no e tenere quindi ben distinto da sé quello che la politica, e persino la guerra (che conosce le sue tregue e le sue paci), possono ben tendere, dopo i giorni del furore e dell’ira, a ritessere in unità? Perché dunque meravigliarsi che in quei mesi Carol Botti scrivesse con quel tono, e con quella scarsa disposizione a entrare nelle questioni, a lui del resto estranee, della filosofia di Gentile? A destare meraviglia è se mai che, così ragionando, si tenda a inavvertitamente dimenticare quel che pure ben si possiede nel concetto. E cioè che il fascismo non fu un evento estrinseco alla logica dell’Italia unita e della sua storia. Nacque da una crisi profonda del suo sistema sociale e politico: sì che può e deve comprendersi che quanto più profonda e lontana era la sua radice, quanto più violenta era stata l’azione diretta a trarla alla luce e a imporla, altrettanto dovesse essere dura e intransigente la resistenza opposta a quel che ne era derivato. Occorre infatti tener presente, e non dimenticare, che la violenta affermazione che, al suo sorgere, il fascismo fece di sé stesso come l’espressione autentica della nazione, rivendicata e riaffermata contro il suo decadimento nell’Italia liberale degli ultimi decenni, provocò nella coscienza del paese un trauma profondo. Proclamando la sua unità e identità con la nazione, il fascismo produsse, inevitabilmente, il risultato opposto: non l’unità della nazione, ma la sua divisione e, con questa, la lunga crisi che, a partire dalla sua affermazione e poi via via nel tempo, colpì l’idea della patria e dello Stato che, piacesse a Gentile o non piacesse, gli uomini del Risorgimento avevano pensati come indissolubili dalla libertà che ora, invece, con violenza, ne era stata separata. Lentamente, ma con ineluttabile decisione, si venne allora affermando l’idea che già Machiavelli aveva, nelle Istorie fiorentine, attribuita a Rinaldo degli Albizzi quando aveva esortato Filippo Maria Visconti a marciare in armi contro Firenze, perché «patria» significa «libertà», e dove questa manchi o sia stata spenta, segno è che anche la prima non c’è più.9 Quando in un suo scritto, Massimo Mila, un antifascista conseguente e al di sopra di ogni sospetto, osservava che «noi partigiani sentiamo un fratello nel tedesco antihitleriano e un nemico mortale nell’italiano fascista», esprimeva, nel clima di una guerra sentita come una «guerra di religione»,10 un pensiero non diverso da quello del suo 9. Istorie fiorentine, V 8. 10. M. Mila, Introduzione alla vita politica. Per gli italiani cresciuti sotto il fascismo, in Scritti civili, a cura di A. Cavaglion, Torino 1995, pp. 303-304.
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antico progenitore fiorentino. Un pensiero che veniva ripreso e, sia pure con diversità di accenti fatto proprio, da tutti coloro che, da Benedetto Croce 11 a Piero Calamandrei,12 avevano proclamata la necessità che, per riconquistare sé stessa nel suo valore autentico, la «patria» dovesse strapparsi di dosso il fascismo, anche se questo evento, comunque doloroso, dovesse essere provocato da eserciti stranieri. Ebbene, che al di là di quel che di traumatico provocavano nella coscienza di coloro che li delineavano nella loro mente, e li pativano, in questi concetti, o sentimenti o stati d’animo si esprimesse il senso di una crisi che andava ben al di là della soggettività di ciascuno, è evidente. La crisi riguardava l’idea stessa della patria: come si dovesse concepirla, e chi ne fosse il traditore, l’antifascista che su di essa innalzava la libertà, o il fascista che l’aveva spenta. E si ripercuoteva nelle coscienze dei meno avvertiti, nei tanti che, nel clima drammatico di una guerra che s’era via via trasformata in aperta guerra di italiani contro italiani, di quell’aspro dibattito non riuscivano a farsi sul serio partecipi, e pur ne soffrivano in varie forme le conseguenze. A rendere più acuto il conflitto di queste due opposte idee era inoltre l’opposto processo, di semplificazione e involgarimento, da una parte, di complicazione e intellettualizzazione, da un’altra, che il senso della patria, e il relativo «concetto», subivano nella coscienza del paese. Per il fascismo, «patria» aveva significato, e più che mai significava nel suo estremo periodo, grandezza, potenza, conquista, da ottenere con qualsiasi mezzo, contro tutto e contro tutti; e implicava perciò l’esasperazione della retorica nazionalistica, la xenofobia, l’esaltazione acritica del genio italiano (Dante superiore a Shakespeare, Leonardo più grande di Rembrandt, e via di questo passo), il razzismo. Per coloro che lo combattevano, e lo avvertivano come esso stesso un oltraggio recato alla dignità della nazione italiana, questa non poteva significare se non libertà, con i valori che le si connettevano in un concetto che, in quanto tale, non era facile far passare nelle coscienze, trasformandolo altresì in una sorta di mito unificatore. Preso fra questi due diversi, e persino opposti, modi di concepire, di sentire, e di vivere l’esperienza della nazione e della patria, il relativo sentimento si problematizzò, negli anni del fascismo e della guerra, in forme 11. Per Croce, cfr. il mio Per invigilare me stesso. I “Taccuini di lavoro”di Benedetto Croce, Bologna 1989, pp. 220 ss. 12. Per Calamandrei, i luoghi da citare sarebbero moltissimi: cfr., per es., Diario 1939-1945, a cura di G. Agosti, I, Firenze 1982, pp. 155-156, 160-161, 186, passim.
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gravi e forse irrecuperabili; anche perché, mentre l’antifascismo liberale e democratico sublimava la patria nella libertà e nella umanità, e di un sentimento faceva, o tendeva a fare un concetto, di un mito, un’idea, non solo il sentimento e il mito, ma anche il concetto e l’idea erano messi a dura prova dalle potenti istanze internazionalistiche che, agendo all’interno dei movimenti socialista e comunista, invitavano perentoriamente a guardare con altri occhi a quell’insieme di cose. L’umanità, quale, per esempio, era stata concepita da Montesquieu in un celebre aforisma,13 era tutt’altra cosa da quella che stava nella mente di Marx. Donde anche, come conseguenza di questa varia trasformazione degli ideali, un altro modo di guardare al Risorgimento, prima criticato con durezza, poi recuperato, in prospettive diverse, tuttavia, da quelle, non solo della storiografia liberale, ma anche di quella gobettiana. E donde altresì, con le differenze e le complicazioni interne al fronte antifascista, non solo la estrema durezza, ma anche la complessità dello scontro con il fascismo; che, quando poco alla volta si esaurì in seguito alla sconfitta di questo, e alla sua uscita di scena, si ripresentò come conflitto interno all’antifascismo. Da una parte, i comunisti che interpretavano la Resistenza come la premessa di un rinnovamento radicale della società italiana da realizzarsi nel segno della giustizia. Da un’altra, a parte i liberali di superficie, presto confluiti negli schieramenti reazionari, i liberali democratici e gli azionisti che di rinnovamento profondo parlavano anch’essi, ma senza che per questo la libertà politica dovesse essere sacrificata sull’altare della giustizia. Fu uno scontro durissimo che, con diversi accenti, si prolungò nel tempo, segnando il netto declino delle forze liberaldemocratiche e delle connesse ideologie. Il che da nessuno fu compreso meglio che da Rosario Romeo; il quale concluse la sua mirabile biografia di Cavour con l’osservazione, pessimistica ma realistica, che nel suo presente i valori dominanti erano ormai altri da quelli che il Conte aveva contribuito a far vincere; e che altra ormai era la direzione che le cose avevano presa, in Italia, e forse anche in Europa.14 La constatazione della grave crisi dell’idea socialista e comunista, 13. Montesquieu, Cahiers (1716-1755), ed. par B. Grasset, Paris 1942, p. 9 (e cfr. pp. 108, 241). 14. R. Romeo, Cavour e il suo tempo. 1854-1861, III, Bari 1984, pp. 949-950. La conclusione di questo libro è stata spesso equivocata in senso nazionalistico: come se la «totale dissoluzione dell’eredità del Risorgimento» non fosse attribuita, oltre che alle due guerre mondiali, all’«avventura totalitaria» (p. 950), e questa tesi fosse la stessa che era stata sostenuta da
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conseguita al crollo, nel 1989, dell’Unione Sovietica, non toglie nulla alla lucidità e verità di questa analisi: alla quale, se mai, deve ora aggiungersi che la scomparsa di quel potente protagonista della politica mondiale contribuì a far meglio percepire il vuoto che si era formato nella cultura liberale e democratica che, in un momento che poteva esser considerato di vittoria, si rivelava impotente a pensare il presente e, in questo, a ripensare sé stessa. Sono questioni quelle alle quali si allude che richiederebbero più complesse, e competenti, analisi. Ma se è vero che l’idea di nazione aveva conosciuto l’inizio del suo tramonto nella tragedia della prima guerra mondiale e che, come suo esasperato fautore, il fascismo si era presentato con tratti, per questo aspetto, decisamente anacronistici, vero è anche che in un altro senso esso ne decretò la crisi mortale, introducendo ragioni di insanabile frattura nella coscienza nazionale; che, come già si è accennato, risultò scissa in sé stessa fra la libertà perduta e la nazione divenuta sinonimo di tirannide. Fu allora, fra il 1922 e il 1925, che la nazione risorgimentale morì, o, se si preferisce, cominciò a morire. Fu allora: e cioè quando il fascismo spezzò con la violenza della sua azione quel che nel Risorgimento era stato unito, e rese inevitabile che, l’8 settembre 1943, il crollo dell’e sercito e il disfacimento dello Stato conferissero tragica evidenza al senso di vuoto, di sgomento, di identità perduta che allora si fece esplicito, impadronendosi di tanta parte della vita italiana. Se questa, molto sommariamente delineata, fu la premessa del dramma che poi svolse le sue fasi nei successivi decenni, è ben comprensibile che a quelle altre facessero seguito, e che il lungo dopoguerra ne fosse per intero condizionato. In effetti, sarebbe stato strano se così non fosse stato, e l’antica anima faziosa non avesse dato nuovo segno di sé. Accanto al nuovo conflitto che si stava delineando sempre più aspro all’interno del fronte antifascista, anche l’antico perdurava. La sconfitta subita sui campi di battaglia non aveva infatti cancellato il fascismo dalla vita italiana; e non aveva comunque spenta nei vincitori la tentazione di considerarlo più vivo di quanto in effetti non fosse. Per certi aspetti, dunque, le parti in campo erano ancora quelle. A tenerle divise, e a far sì che ancora si combattessero, era l’odio; quello stesso che, come più volte è stato detto, era ed è una delVolpe. Cfr. comunque il mio saggio, Rosario Romeo e l’idea di “nazione”, in Il guardiano della storiografia. Profilo di Federico Chabod e altri saggi, Bologna 2002, pp. 287 ss.
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le componenti della storia d’Italia, e del quale un critico di rara sensibilità e intelligenza, come Cesare Garboli, ha indicato una sorta di archetipo nella stessa Commedia di Dante;15 e non solo nell’Inferno. Carlo Morandi non aveva torto quando nel 1946 scriveva a Sestan che si era tornati ai tempi dei neri e dei bianchi, e che solo lo spirito della vendetta teneva il campo.16 Aveva torto, invece, quando e in quanto di qui non risaliva alla premessa e non si poneva a ricercare, di quell’odio, le radici, lontane e vicine. Assai più penetrante, e consapevole della sua «antichità», era stato perciò, in quello stesso giro di mesi, Carlo Antoni; che allora sulla storia d’Italia e il suo senso compose un breve saggio nel quale, tenendosi lontano dalla tentazione dell’Antistoria alla Cusin, delineò le vicende della sua cronica faziosità, della sua tendenza a produrre scissioni piuttosto che unificazioni, contrasti irrisolti invece che sintesi costruttive.17 Non è vero che in questo saggio Antoni leggesse la storia d’Italia come una metafora della faziosità azionista. Se mai, com’è ovvio, è vero il contrario, che l’azionismo fosse la versione aggiornata, ma non corretta, di una favola antica. Ma sopra tutto è vero che faziosità e litigiosità erano visti come i sintomi di una fragilità, di una precarietà, di una debolezza strutturale, di cui l’ultima catastrofe a veva rivelata l’intima presenza nelle sue fibre. Dell’inevitabilità di questa situazione, che, finita la guerra, subito si determinò, e, se si determinò, c’erano serie ragioni, vicine e lontane, perché si determinasse con quel carattere, deve prendersi atto. Cercare di capirla e, in quanto almeno si tenti di farne la storia, non deplorarla; evitando dunque di assumere nei suoi riguardi atteggiamenti moralistici analoghi a quelli che, nel dopoguerra, furono propri di Gioacchino Volpe. Il quale, come ben ricorda chi visse quegli anni e come, del resto, Di Rienzo largamente documenta nel suo libro,18 contro l’antifascismo scatenò una campagna di straordinaria violenza, definendo vili e opportunisti, nella loro larga maggioranza, i suoi rappresentanti che, dopo essersi gravemente compromessi con il regime, in poche settimane, dal 26 luglio 1943 in poi, si scoprirono antifascisti 15. C. Garboli, Dante e Guido, in Pianura proibita, Milano 2002, pp. 154-156. 16. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico, p. 18. 17. G. Antoni, Della storia d’Italia, in Tre saggi storici, Roma 1947 (lo si veda nella ristampa presso l’Istituto italiano per gli studi storici, Bologna 1997, pp. 22 ss.). Per il modo in cui dev’essere, a parer mio, interpretato, cfr. il mio L’illusione della dialettica. Profilo di Carlo Antoni, Roma 1982, pp. 75 ss. 18. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico, passim.
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e agirono di conseguenza. Leggo nel Di Rienzo che «dopo l’orrore» provato, dinanzi a quel che stava accadendo e al trasformarsi della guerra antitedesca in guerra civile, da un uomo come Benedetto Croce, – dopo l’orrore, ben presto a dominare furono «il silenzio, la rimozione, il funambolismo politico dei più responsabili, dei più coinvolti, di tutti coloro che nel giro di pochi mesi» intrapresero il «“breve viaggio” che li portò a trasfigurarsi da intellettuali organici della dittatura a “intellettuali mediatori” tra questa e le forze dell’opposizione, a protomartiri della Resistenza, infine» (p. 22). E qui, oltre quello del moralismo, c’è il rischio che l’occhio si fermi a contemplare quel che, nel processo delle cose, sta in superficie, senza cercar di discernere quel che sta al di sotto di quella. Che allora, da parte di molti, vi fossero occultamenti della verità, ammissioni parziali, e non autentici esami di coscienza, è vero. Come anche lo è che, da chi non ne aveva il diritto, furono in quei mesi drammatici pronunziati giudizi e emesse sentenze che ad altri giudici sarebbe, se mai, spettato di pronunziare e di emettere. E se è vero, dirlo è giusto. Dirlo o, piuttosto, ribadirlo, perché non è la prima volta che a cose come queste si dà rilievo: come, a prescindere dall’elaborazione storiografica che di questi «fatti» è stata compiuta, ben ricorda chi allora incontrò queste «deplorazioni» sulla peggiore stampa reazionaria e filofascista di quegli anni, dalla monarchica Italia nuova al lutulento Uomo qualunque.19 Ma, anche qui, con cautela, con discrezione, perché, se a molto antifascismo deve essere rimproverata la verbosità volta a nascondere la non avvenuta rivoluzione, ai revisionisti di oggi deve obiettarsi che, riprendendo accuse che allora ebbero largo corso nei suddetti giornali, e in molti altri, si resta dentro la rete della controversia e della polemica. Che non è quel che, nel dibattito storiografico, propriamente si richiede. La questione del modo in cui il fascismo fu ripensato e giudicato nel dopoguerra richiede di essere perseguita e dibattuta in altro modo. Si deve, se ci si riesce, fare la storia, non tanto e non soltanto dei vari opportunismi e trasformismi dell’ultima ora (una storia che, senza dubbio anch’essa va narrata, senza tuttavia che chi se ne assuma il compito indossi le vesti del giudice che rivede la prima sentenza, e, comunque, sul fondamento di prove documentate e accertate 20); quanto piuttosto delle ragioni per le quali dal 19. Sulla vicenda de L’uomo qualunque, cfr. S. Setta, L’uomo qualunque 1944-1948, Bari 1975. 20. Non entro nella questione delle «accuse» variamente rivolte da Di Rienzo agli antifascisti che, o collaborarono a qualche impresa del regime, o cercarono comunque di
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paese che, dopo tutto, aveva per primo messo al mondo il fascismo, non fu prodotto un solo libro in cui fosse, per così dire, il paese stesso a parlare di quella impresa, della responsabilità che ne derivava e della italienische Katastrophe a cui aveva dato luogo. Da Borgese 21 a Cusin, da Perticone (per fare un altro nome) a Colamarino,22 scrittori certamente assai diversi l’uno dall’altro, ma che, per questo aspetto, possono essere messi insieme, le responsabilità furono assegnate, con fare più o meno sprezzante, al popolo italiano, preso come un’entità seminaturalistica anche quando lo si assumesse nella prospettiva delle classi dirigenti che via via lo avevano guidato. E, al di là dei pregi particolari che pur possono essere indicati nei libri che essi dedicarono a questo argomento, il loro limite sta nel carattere intermedio che vi si nota: intermedio, intendo dire, fra l’esame di coscienza che, quando sia condotto con serietà, immette chi lo compia all’interno di un dramma o, addirittura, di una tragedia, e l’invettiva rivolta contro altri, contro i vizi che sono di altri e non nostri, e che ci colloca perciò, noi soli, sullo scranno dei giudici, e a tutti gli altri assegna il ruolo di imputati. Non sopravvivere in patria, facendo concessioni. I casi dovrebbero essere esaminati uno a uno; e non è questo lo scopo che mi sono prefisso. Ho dato comunque un esempio della cautela con cui le «fonti» debbono essere usate nella Nota I posta in fondo a questo articolo. Vorrei tuttavia osservare che non capisco perché Di Rienzo (p. 24) definisca «leggenda aurea» la tesi del «nicodemismo» degli intellettuali sostenuta, si badi, non da Cantimori (che nella Prefazione alla Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1962, p. XII, di Renzo De Felice, aveva piuttosto parlato del «senso di vergogna e di rimorso personale e umano, ma anche civile e personale», provato nei confronti delle proprie responsabilità: che è tutt’altra cosa); ma da E. Garin, Intellettuali e potere nel XX secolo, Roma 1996, pp. XIII-XIV: quasi che quello qui descritto con quell’espressione calviniana non sia un fenomeno tipico dei regimi totalitari. Che poi, anche qui, si debba distinguere fra «nicodemismo» e «nicodemismo», è ovvio. Ma il fatto resta quel che si è detto. 21. Borgese pubblicò Goliath. The March of Fascism nel 1937, negli Stati Uniti; Mondadori lo rese disponibile in italiano nel 1946. A parte il favorevole giudizio che ne dette G. Salvemini, Mussolini diplomatico, Bari 1952, pp. 23-24, non direi che questo libro diventasse mai la Bibbia dell’antifascismo, come lo definisce Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico, p. 27, senza arrecare alcuna prova. Credo che vedesse giusto R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Bari 1969, pp. 174-175, che lo assegnò al filone interpretativo per il quale il fascismo fu una sorta di rivelazione (come diceva Giustino Fortunato) del male antico del l’Italia: ossia a una tesi che ha alle sue origini anche le riflessioni di Gobetti e di Guido Dorso e che, nel dopoguerra, fu variamente presente in Colamarino, Cusin e altri. 22. Si vedano, al riguardo, osservazioni nel saggio di G. Aliberti, L’Italia politica dal Risorgimento al fascismo: un’interpretazione a confronto, in «Storia contemporanea», 26 (1995), pp. 789-815.
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vorrei che il mio ora suonasse come un paradosso. Ma persino la precocità con la quale gli intellettuali italiani presero a farsi storici del fascismo può essere guardata e considerata come una sorta di sublimazione di quel che non si aveva il coraggio di considerare come la storia di ognuno, come la storia in cui ciascuno fosse stato responsabile di quel che era accaduto. Il che è detto non, com’è ovvio, contro il far storia (e nemmeno contro il precoce far storia), ma contro l’uso, se mai, che in quel determinato momento accadde, forse, che se ne facesse. Insomma, l’Italia ebbe i personaggi che qui sono stati citati, e qualche altro che all’elenco potrebbe essere aggiunto. Ma non ebbe né un Mann né uno Jaspers, né un Meinecke e nemmeno un Gerhard Ritter: uomini che, quando scrissero della Germania e della sua «colpa», di questa si dichiararono, nelle forme che a ciascuno erano proprie, corresponsabili, e nella tragedia che ne era derivata si coinvolsero fino in fondo. Soltanto Benedetto Croce, in alcune pagine dei suoi Taccuini di lavoro, dette espressione esplicita al sentimento della grave responsabilità che pesava sulla coscienza di coloro che avevano lavorato perché il fascismo si affermasse e di quanti non erano stati in grado di contrastarne la marcia. Reso esperto dalla tragica lezione che ricavava dall’es sere passato attraverso due guerre mondiali, il suo occhio cercò di scrutare il presente per assicurarsi che nel suo fondo brillasse una luce, pur tenue, che rendesse meno cupa la prospettiva del futuro. E poiché non riusciva a scorgerla, anche per questo non poté non dare rilievo al senso di colpa che, come necessariamente partecipe del destino del suo paese, non poteva non condividere e alimentare dentro di sé. Quando la guerra finì, e i vincitori celebrarono il loro trionfo, si vietò di unirsi spiritualmente a coloro che facevano festa. E ribadì il suo omnes peccavimus.23 L’obiezione principale che credo debba muoversi a Di Rienzo è quella che, per sommi capi, ho cercato di ragionare qui su. Ma di pari passo con questa deve andare l’altra che riguarda la posizione che egli ha assegnata al l’opera di Gioacchino Volpe, o, meglio, al trattamento che questa, e colui che l’aveva edificata, ricevettero nel lungo dopoguerra. Di Volpe Di Rienzo sta scrivendo la biografia; dalla quale tutti, e non solo il sottoscritto, che di storia e storiografia è cultore non più che marginale, avranno molto da imparare. 23. B. Croce, Taccuini di lavoro 1944-1945, V, Napoli 1987 (ma 1992), p. 281; e cfr. la nota Agli amici che cercano il trascendente (1945), in Etica e politica, Bari 19564, pp. 454-456.
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Ma poiché il quadro, ampio e documentato, che per l’intanto egli ha delinea to in questo libro, mi è subito apparso alquanto sfocato, come se a percorrerlo fosse una luce radente che, mentre illumina, altera le proporzioni delle cose, vorrei invitarlo a considerare le ragioni per le quali lo giudico così. Altro infatti è narrare le vicende riguardanti l’epurazione, avvenuta (o anche non avvenuta) di alcuni autorevoli personaggi della cultura fascista; e narrarle, per di più, queste vicende, con animo fortemente polemico. Altro è cercare di capire quel che sul serio avvenne nella cultura e nella storiografia italiana negli anni in cui le istanze epurative rapidamente si esaurirono e, mentre sempre più la situazione politica si andava «normalizzando» nel segno della restaurazione delle vecchie strutture amministrative, la polemica ebbe a protagonisti non gli antifascisti e i fascisti, ma, in primo luogo e sopra tutto, l’antifascismo comunista e quello liberaldemocratico (e anche socialista), che, come ben si sa, includeva in sé partiti, movimenti, uomini diversi fra loro, ma uniti tuttavia nella contrapposizione al comunismo sovietico (e filosovietico). Partiti, movimenti, uomini che, se il vento della guerra fredda non avesse così presto preso a soffiare sulle pianure del mondo, si sarebbero certo contrapposti ai comunisti e li avrebbero combattuti. Ma con diverso animo, e senza impedire a sé stessi di prendere una assai più decisa posizione nei confronti del Partito cattolico al potere, e al clima, a tratti decisamente «controriformistico», che per il suo tramite s’era instaurato nel paese. Nella situazione che, dopo il 1947, con la tragedia cecoslovacca, con l’estromissione del Partito comunista dal governo e con la conseguente rottura dell’unità antifascista, si venne via via determinando, il conflitto non poteva essere se non aspro. E deve riconoscersi che, mentre quello svolgeva le sue fasi, non solo la politica democratica e azionista conobbe una grave sconfitta, ma anche, nelle sue varie e non convergenti forme, la cultura a cui quella attingeva. E fu una sconfitta grave, un netto declino, una forte perdita di consenso al l’interno dei ceti intellettuali che, persino nel campo cattolico, ossia in alcune sue parti, subirono l’influenza della cultura comunista e soggiacquero alla sua «egemonia»; che allora si formò, e per queste vie.24 24. Sull’«egemonia» comunista si seguitano a scrivere, da parti diverse dello schieramento politico e culturale, non poche vacuità e sciocchezze. Chi l’afferma, ne traduce il concetto nella oppressione che la cultura marxista avrebbe esercitata, con mezzi coercitivi, su quella che non lo era. Chi la nega, nega in realtà la coercizione; e non può tuttavia negare l’egemonia (che non è, ed è ovvio, riducibile alla coercizione). La questione degli strumenti coercitivi è, nel caso specifico, di secondario interesse, perché quel che deve essere messo in rilievo e considerato non è che il Partito comunista godesse dell’appoggio di qual-
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Da questa sconfitta, da questo declino, dall’assottigliarsi del consenso di cui un tempo aveva goduto, gravi conseguenze scaturirono. E, fra queste, deve in primo luogo contarsi la consapevolezza sempre meno viva, sempre più pallida, di quel che l’antifascismo e la Resistenza avevano significato anche per quanti ne fossero stati protagonisti, su posizioni democratiche e non comuniste. Deve contarsi anche la tendenza a considerare esaurito, non l’antifascismo storico che la caduta del suo avversario necessariamente aveva reso inattuale, ma l’idealità che gli stava dentro, e che inattuale non era affatto, se il suo significato era da ritrovare nella volontà di instaurare una società nuova, sorretta e guidata da uno Stato capace di interpretarne le esigenze e ritradurle nelle sue forme. Deve contarsi infine la convinzione, che i migliori di questa schiera non arrivarono mai a confessare come la loro: la convinzione, intendo dire, in forza della quale la battaglia anticomunista era più importante di quell’ideale, sì che, per combatterla e per vincerla, il fronte non avrebbe mai potuto essere ristretto ai soli che la sentissero, in cuor loro, come un’autentica e schietta battaglia di libertà, ma doveva essere arricchito di altre forze, senza troppo sottilizzare sulla loro provenienza e sulle loro idee. La rinunzia all’antifascismo fu il risultato di quella convinzione; che, a differenza di quel che con cattiva coscienza, allora qualche volta si pretese, non aveva niente di scientifico, o di storiografico. Era solo politica, mediocremente politica. E l’ultima conseguenza che ne derivò fu l’abbandono, non soltanto dell’antifascismo storico, ma della sua idealità. Fu il tacito trasferimento del suo patrimonio ai comunisti che, per loro conto, sempre erano stati inclini a considerarsi come i veri e conseguenti antifascisti, tanto che molto per tempo avevano teorizzata l’identità del fascismo e dell’anticomunismo (Lucio Lombardo Radice sostenne in modo esplicito questa tesi, che non era stata escogitata da lui, in un libretto del 1947 25). E fu anche il primo delinearsi del revisioche importante editore; e non è nemmeno che i suoi intellettuali formassero un gruppo relativamente omogeneo, tenuto insieme, al di là delle differenze, delle provenienze, dei dissensi, dalla consapevolezza di quel che tuttavia avevano in comune. Ma è bensì, da un lato, il «fatto» di quell’egemonia; che fu conquistata, non con strumenti estrinseci, ma con la forza di idee, di pensieri e «parole» che in quel particolare momento suscitarono consensi, ebbero risonanze nelle coscienze anche di studiosi che ne furono persuasi a passare dalle loro alle nuove posizioni. Da un altro, la rapidità e la facilità della vittoria conseguita su avversari che, all’improvviso, si trovarono impreparati a sostenere quella sfida e, per la verità, di rado l’accolsero sul serio, e per lo più la subirono. 25. II libro è Fascismo e anticomunismo, Torino 1947.
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nismo. In un senso e in modi diversi da quelli che poi prevalsero, e senza che gli si desse questo nome, esso fu messo al mondo e avviato da Delio Cantimori 26 quando sostenne la necessità che nel fascismo si distinguessero i vari fascismi che vi erano, per dir così, confluiti; e quindi da Renzo De Felice 27 che, da comunista, aveva condivisa quell’identificazione e ora, dopo la crisi che l’aveva condotto fuori del Partito, la scioglieva e, quanto meno, al fascismo contribuiva a togliere di dosso il peso della particolare negatività di cui prima l’aveva imputato. Dopo di che, deve riconoscersi che egli aveva ragione quando, di fronte al tanto parlare che si seguitava a fare di fascismo e all’abitudine invalsa di definire con quel nome ogni fenomeno di politica reazionaria, o conservatrice, protestava che, nella realtà, quello era stato un «ente» specifico, il cui significato non poteva essere dilatato oltre i suoi confini storici. Ma anche non l’aveva, e aveva invece torto, quando da questa premessa consentiva, a sé stesso e agli altri, le conseguenze che sempre più di frequente cominciarono a esserne dedotte. In realtà, altra la premessa, altra, ossia di difforme qualità, la conseguenza. E se è vero che nella prima si nascondeva il rischio della seconda, tanto più, ossia con tanto maggior rigore, si sarebbe dovuto cercar di capire se quello stesse prendendo forma; se nell’esigenza che di fronte al fascismo ci si ponesse con l’atteggiamento che è proprio dello studioso di storia non si celasse una tutt’altra tendenza, consistente nel togliere legittimità al l’antifascismo e a quel che ne era nato. Chi, in tempi recenti, ha parlato del l’antifascismo come di un «mito incapacitante» ha poco da invidiare all’altro personaggio che ha definito come «sovietica» la costituzione della Repubblica italiana. Entrambi si sono richiamati alla storia, non facendo se non politica neozdanovista, e richiamandosi all’idea della «memoria condivisa» che, absit iniuria, non è un’idea, ma una sciocchezza. C’è infatti, perché non può non esserci, una memoria «comune», il ricordo di eventi che accaddero nel passato e che condizionano il presente esistere con i loro diversi e opposti «valori». Ma la memoria «comune» è sempre, e necessariamente, memoria «divisa», non «condivisa»: o tale è, se si vuole sottilizzare, nel senso che a essere «condivise» sono proprio le «divisioni», come necessariamente «condivisa» è, da questo punto di vista, la stessa guerra, che è «comune» infatti a coloro che su fronti opposti la combattono, e rappresenta tuttavia in sé stessa 26. Si veda il suo Conversando di storia, Bari 1967, pp. 132 ss. 27. Gli interventi di De Felice sono, al riguardo, numerosi. Ma basterà forse il rinvio alla sua Intervista sul fascismo, a cura di M.A. Ledeen, Bari 1975.
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il momento supremo della divisione e della lacerazione. Per queste alquanto ovvie ragioni, mi sono trovato più volte in questi ultimi tempi a osservare che la così detta «memoria condivisa», sulla quale non poca retorica è in corso nel nostro paese, è in realtà nient’altro che una forma voluta di oblio: a cui può esser utile dar corso quando la politica imponga di riavvicinare le parti che si combatterono e perciò lavora, non a tener vivi i ricordi, ma a scolorirli fino a farli scomparire. Non però quando si voglia sul serio conoscere e capire. Se si vuole far ricorso a una formula ad effetto, può dirsi che, in questo suo aspetto, la politica è un’arte o una tecnica del dimenticare. Mentre la storia non lo è, perché, le piaccia o no, l’umanità ricorda anche quel che decide di dimenticare; e non ricorderebbe nel segno della verità, della quale si dice che è testis, se di quel che accadde non serbasse in sé la forma e il significato. È la politica a decidere che la morte di uno vale quanto la morte di chi lo combatté e gli fu nemico. Ma è la storia ad ammonire che, per usare la bella espressione di un giovane storico, «quel che conta non è l’eguaglianza della morte, ma la diseguaglianza nella vita».28 Il ritratto che Di Rienzo ha delineato di Volpe non è privo di interesse: anche se già noti erano alcuni dei tratti che lo compongono. Restituisce la fisionomia complessa di un intellettuale che nei momenti decisivi della sua vita, durante il fascismo, e, poi, negli anni che gli restarono da vivere dopo la sua caduta, non giunse mai a conciliarsi fino in fondo con la realtà. Non vi era giunto durante il fascismo, che egli accettò bensì nel suo tratto essenziale, convinto che, sotto quel regime, il «cammino» dell’Italia avrebbe proceduto più rapido e spedito, ma non fino al punto di chiudere gli occhi su alcuni dei suoi aspetti più deplorevoli, e senza mai sacrificare al mito del duce la sua fedeltà alla monarchia sabauda, che fu infatti da lui ribadita quando, dopo l’8 settembre 1943, rifiutò di aderire alla Repubblica sociale, e, a differenza di Gentile, preferì rimanersene in disparte. Non durante il fascismo, quando, come storico e direttore della Scuola di Palazzo Antici Mattei, rivendicò la libertà della ricerca e più volte entrò in conflitto con Cesare Maria de Vecchi di Val Cismon e il suo autoritarismo, fatto di grettezza e ignoranza. Non durante il fascismo, che, sopra tutto negli ultimi tempi, egli criticò per le gravi sconfitte patite dall’esercito italiano nel corso della guerra, la cui conduzione disse apertamente che doveva passare, da quelle di Mussolini, nelle mani del Re. Meno che mai Volpe ebbe modo 28. S. Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, Torino 2004, p. 41.
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di conciliarsi con la realtà dopo che il fascismo fu definitivamente caduto e durante il lungo dopoguerra, quando cominciò per lui, e per lui in particolare, l’epoca della «persecuzione».29 Come Di Rienzo largamente documenta, in quel dopoguerra, per lui così amaro, il riconoscimento che durante il ventennio Volpe aveva fatto di quel che nel fascismo non andava, e avrebbe dovuto essere corretto, subì un deciso arresto. Il processo s’interruppe, si capovolse: prese cioè ad andare nella direzione opposta a quella che, sia pure timidamente, aveva intrapresa: con la conseguenza che, in quel clima di rancore e di esasperazione, di furore e di odio, che egli stesso aveva contribuito a potenziare facendosene come circondare, del fascismo finì con l’accettare tutto, anche quel che prima aveva condannato. È questo il personaggio del quale Di Rienzo ha delineato i contrastanti aspetti, l’animo non pacificato. E certo sarebbe interessante poter scendere più a fondo nelle ragioni che determinarono l’atteggiamento critico da lui assunto durante il fascismo e la rabbiosa incoerenza nella quale, nei confronti di sé stesso, si chiuse nel dopoguerra: quella stessa che fece sì che egli si confondesse con i reduci e i nostalgici della Repubblica sociale, alla quale aveva di fatto negato il suo consenso. Ma, questo essendo impossibile, converrà invece seguire il discorso intessuto da Di Rienzo, nei punti nei quali egli fa questione, non della discutibile purezza antifascista di coloro che in Volpe condannarono quel che ad altri era stato largamente condonato, ma dell’opera storiografica e della continua denigrazione di cui sarebbe stata fatta oggetto negli anni del dopoguerra. In realtà, leggendo il libro, si ricava materia per un giudizio assai diverso da quello che Di Rienzo vi ha formulato e drammatizzato. Non si ricava, per esempio, che il maggiore sforzo che la storiografia comunista e quella da lui definita azionista allora compissero fosse diretto a demolire la reputazione intellettuale e morale di Gioacchino Volpe, o a rimuoverne e cancellarne la memoria. Ingiustissimo fu, certamente il giudizio di Gabriele Pepe;30 ingiusto quello di Omodeo 29. Cfr. al riguardo Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico, pp. 203 ss. Ma si veda anche, in merito alla decisione del Consiglio della Facoltà di Lettere e Filosofia del l’Università di Roma, dove Volpe era stato «chiamato» nel 1943, di ridiscutere la questione, V. Roghi, A. Vittoria, Un “santuario della scienza”: tradizione e rotture nella Facoltà di Lettere e Filosofia dalla Liberazione al 1966, in Storia della Facoltà di Lettere e filosofia de “La Sapienza”, a cura di L. Capo e M.R. Di Simone, Roma 2000, pp. 571-574. 30. G. Pepe, Gli studi di storia medievale, in Cinquant’anni di vita intellettuale italiana. 1896-1946. Scritti in onore di Benedetto Croce per il suo ottantesimo anniversario, I, Napoli 1950, pp. 119-120. E cfr. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico, p. 321, il quale
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quando fra Volpe e Francesco Ercole non distinse. Venato di forte passionalità quello di altri che, come Venturi, Valiani, Garosci, avevano conosciuto la galera, il confino di polizia, l’esilio, e in Volpe vedevano sopra tutto lo storico nazionalista della nazione, lo scrittore fascista esaltatore di valori che, in quella forma, non potevano essere da loro condivisi. Al di là del modo in cui il giudizio si atteggiava negli scritti di questi studiosi, resta che, nel fondo, la questione che ne era agitata aveva carattere innanzi tutto storiografico. Riguardava il modo in cui la crisi delle nazioni europee, che il secondo conflitto mondiale aveva rivelata nei suoi crudi termini, si rifletteva nella coscienza e nella mente di questi storici che, necessariamente, alla storia guardavano con occhi assai diversi da quelli di Volpe (e anche, per conseguenza, alle sue scelte politiche). Ma altro è giudicare come quegli studiosi allora giudicarono, altro è perseguitare. Altro è dissentire dal metodo, dallo stile e da gran parte delle tesi del Volpe modernista, altro mettere in atto la damnatio memoriae. Il punto importante del dissenso e delle critiasserisce che in seguito, ossia di lì a poco, Pepe si sarebbe convertito a un «coriaceo stalinismo». Ma non so proprio da che cosa questo «stalinismo» risulti e se il suo avvicinamento al Partito comunista possa essere definito con quel termine. Il volumetto che Pepe intitolò Antifascismo perenne (Roma 1946), e che in questo momento non ho sottomano, era diretto, se mal non ricordo, a rivendicare i valori laici della scuola e della cultura contro le tentazioni clericali del ministro della Pubblica Istruzione, Guido Gonella, non a esaltare Stalin; e vorrei perciò aggiungere che se l’«antifascismo perenne» (che è un’evidente iperbole polemica) viene assunto come prova di «stalinismo», e per di più «coriaceo», segno è che qui si è proceduto a una identificazione di stile zdanovista, in tutto e per tutto coincidente con quella che, a parti invertite, concerne il fascismo e l’anticomunismo. Non so inoltre, sulla base di quale «fonte», Di Rienzo opini (p. 318 n. 389) che l’«assenza» del nome di Chabod nella lista dei collaboratori della Miscellanea Croce, da Antoni sottoposta al filosofo il 23 febbraio 1946 (Carteggio Croce-Antoni, a cura di M. Musté, Napoli 1996, p. 69) significhi «esclusione» e che questa, per giunta, sia indicativa della volontà di rottura «con la tradizione storiografica del ventennio e in particolare con Volpe, all’insegna dell’‘heri dicebamus’ crociano». Mi pare evidente che qui si dia corpo ai fantasmi dell’immaginazione. In realtà, sebbene con ottimismo Antoni la ritenesse «definitiva», la lista era, a quella data, largamente incompleta: vi mancavano i nomi di Guido de Ruggiero, Guido Calogero, Bruno Nardi, Adelchi Attisani, Ettore Paratore, Giulio Marzot, Francesco Flora, Giovanni Becatti, Luigi Einaudi, Alda Croce, Bruno Paradisi, Alfredo Schiaffini, Ernesto Sestan. L’«assenza» non significava affatto «esclusione» (fu del resto Chabod a battersi, nella Facoltà di Lettere e Filosofia del l’Università di Roma, perché Antoni vi fosse chiamato a insegnare Filosofia della storia: Carteggio Croce-Antoni, p. 70); e non ha alcun fondamento l’ipotesi del Di Rienzo secondo cui l’«esclusione» fosse da mettere in relazione con la decisione chabodiana di non partecipare, nel 1930, agli Studi crociani progettati da Domenico Petrini.
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che, anche delle più aspre, è da ricercare là dove l’uno e le altre si determinarono e presero forma: nell’idea della storia, che fu di Volpe e, come ho detto, non poté essere la loro. Fu, sopra tutto, nelle tesi che incontrarono nei suoi libri: nel diverso concetto della nazione e dei suoi compiti. È un tema, questo relativo alla nazione e, sopra tutto, alla sua crisi, al quale già si è accennato; e che, per esempio, si rende visibile persino nello studioso che con più cura si dedicò a «salvare» il suo aspetto positivo da quelli che poi prevalsero e la fecero degenerare nel nazionalismo. In Chabod la riflessione sull’idea di nazione era nata, con quella relativa all’idea d’Europa, negli anni del secondo conflitto mondiale, o, almeno, in quel tempo si era fatta più acuta e sofferta. Per mettersi in salvo dalle degenerazioni che ormai erano, nelle loro conseguenze, sotto gli occhi di tutti, e perché, nel suo ambito specifico, la sua «idea» si separasse dalle interpretazioni che ne erano state date dai fascisti, la nazione in lui si era trasformata in Europa; e questa, illuministicamente, significava umanità. Si era trasformata fino al punto di perdere quel che di meineckiano egli vi aveva messo in rilievo, interpretando il libro sullo Historismus alla luce di quello sulla Staatsräson, – l’individualità, il suo senso e il suo diritto di affermarsi nella storia. Ma, nella cultura liberale e antifascista, la svolta era stata determinata, nel 1931, dalla Storia d’Europa di Croce: un libro che, se lo si legge nella sua filigrana e persino, forse, al di là della stessa consapevolezza del suo autore, svela la vera ragione per la quale, tra il filosofo che l’aveva scritto e Volpe, la frattura intervenuta nel modo di concepire la storia moderna (e, in questa, quella stessa dell’Italia) non era più in alcun modo ricomponibile. Non che così, necessariamente, avvenisse nelle intenzioni. Nei fatti, tuttavia, la ragione profonda per la quale, fra Croce e Volpe, la frattura prodottasi nel modo d’intendere la storia d’Italia non era sanabile, stava, non in quel che questi avrebbe reso esplicito nella celebre Prefazione alla terza edizione dell’Italia in cammino, ma nella Storia d’Europa che già urgeva nella mente e nella coscienza del primo. Stava nel pensiero da cui Croce era indotto a guardare ben al di là del confine di una storia nazionale. Che la Storia d’Italia si fosse fermata al 1915 e avesse perciò evitato il diretto confronto con le conseguenze della prima guerra mondiale, era un fatto che in più d’un modo poteva, e può, ricevere spiegazione. Ma una delle ragioni, la più immediata forse, la più passionale e che meno perciò si sarebbe prestata a trapassare e, secondo il suo modo d’intendere, a purificarsi nel giudizio, stava nel peso che quelle conseguenze (la perdita della libertà, il fascismo) gli facevano gravare sull’anima. Stava
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altresì nella consapevolezza, che sempre più netta si era fatta in lui, della natura di quel che era accaduto dopo il 1918. E che doveva essere prospettato in un contesto assai più ampio di quello formato dagli accadimenti interni a un quadro nazionale, perché a caratterizzarlo era una crisi profonda dell’intera coscienza europea, era anzi una fase drammatica della storia mondiale, che richiedeva un radicale approfondimento dei criteri interpretativi. In Croce insomma, e nei settori più consapevoli della cultura liberale, fu questa consapevolezza, che importava la crisi definitiva della Staats geschichte, a determinare il superamento dell’idea ottocentesca della patria in quello della patria comune europea. E se la speranza di realizzarla, quella idea, fosse un’illusione, nessuno, nemmeno oggi, potrebbe dirlo con certezza. Ma certo è che questa idea importava quella crisi, e la consapevolezza della sua irreversibilità. Non così, ma in modo profondamente diverso, la crisi fu vissuta da Volpe; che, malgrado le molte intuizioni che si trovano nei libri da lui dedicati all’età moderna, malgrado la potenza di tante e tante sue pagine di storia sociale, a quella consapevolezza rimase del tutto estraneo e, se così potesse dirsi, ostile: una volta almeno che l’avesse delineata dentro di sé o incontrata in altri. La sua visione rimase in effetti chiusa entro i confini di una nazione, di una «patria», che, quanto più cercava di penetrarvi dentro per captare i segni del loro esser vive, di altrettanto si persuadeva che in realtà erano morte. Morte, certo, non come lo erano, per esempio, per Alexandre Kojève: ossia per le complesse ragioni in forza delle quali, presso questo singolare hegeliano, prese forma l’ulteriore idea che morta, conclusa, fosse la storia che, delle nazioni e degli Stati, era stata fin lì la storia.31 Morte, invece, come potevano essere per uno storico che a quelle aveva sempre diretto lo sguardo e, dalla vitalità che vi aveva colta in momenti determinati, aveva ricavata l’ispirazione con cui le studiava e ne riviveva le fasi. Il vitalismo volpiano incontrava qui, nella lucida percezione di una fine, il suo più spietato contrappasso. Era come se dalla ostile potenza di una natura crudele un grande albero fosse stato sradicato; e al suo posto non fosse 31. A. Kojève, Il silenzio della tirannide, a cura e con una nota di A. Gnoli, Milano 2004, pp. 113-115, passim. Ma cfr. naturalmente, Introduction a la lecture de Hegel. Leçons sur la phenomenologie de l’esprit, Paris 1947, pp. 559 ss. e la discussione con Leo Strauss in appendice al libro di quest’ultimo su Tirannie et sagesse, Paris 1956. Cito Kojève perché non vorrei che queste, comunque colte e interessanti considerazioni fossero confuse con quelle di altri, assai meno colti, e che hanno infatti tutt’altro rilievo.
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rimasta che la cupa voragine nella quale anche colui che aveva creduto di vederlo crescere e vigoreggiare era come destinato a sparire. Di qui, se questa ricostruzione non è errata, la profonda inconseguenza che si nota nei suoi scritti, oltre che nei suoi atteggiamenti politici, del secondo dopoguerra. Da quelli stessi che, avendo (secondo lui) indebolito con l’antifascismo lo sforzo che l’Italia aveva compiuto per diventare grande, avevano contribuito a farla morire e anch’essi, in ultima analisi, erano morti con lei, Volpe pretendeva, o era come se per un altro verso pretendesse, che fossero vivi abbastanza da riprendere il filo spezzato della concordia nazionale, vincendo e superando in sé stessi faziosità, spirito di vendetta e altro del genere. Pretendeva, o era come se pretendesse, che, rifacendosi allo spirito del Risorgimento quale era stato inteso da lui, conferissero alla storia d’Italia il suo nuovo inizio. Era un atteggiamento passionale, comprensibile nell’uomo che, resosi ormai estraneo al presente e alla sua intelligenza, riproponeva in sostanza agli uomini di buona volontà la tesi che nel giugno 1943 era stata delineata da Gentile nel Discorso agli Italiani. Era un atteggiamento che, anche per questo, presentava alcune non trascurabili affinità con le «tesi» presentate da Dino Grandi nella famosa notte del Gran Consiglio. Ma, concettualmente, era un’assurdità. E non solo per la contraddizione interna al ragionamento di uno che, per un verso, riteneva chiusa e persa una partita, e per un altro voleva tuttavia seguitare a giocarla anche con coloro che, si chiamassero vincitori oppure vinti, tutti l’avevano in qualche modo perduta. In realtà, la continuità che, con il secondo di questi due atteggiamenti, Volpe riteneva possibile ad opera dei non meglio definiti uomini di buona volontà, si era realizzata in Italia e, giorno dopo giorno, stava consolidando sé stessa. Ma riguardava non il Risorgimento al quale Volpe pensava, non il proposito di tornare in Africa che, se pure sul serio esisteva da qualche parte, era coltivato presso piccole minoranze nostalgiche. Riguardava il vecchio Stato che, come ho detto, non era stato abbattuto e seguitava a costituire la spina dorsale di quello nuovo. Occorre aggiungere, perché le cose non stanno proprio come, leggendo il libro di Di Rienzo, si ha l’impressione che, per lui, stiano, che nessuna convergenza, nemmeno parziale, si determinò allora, negli anni del dopoguerra, fra il pensiero di Volpe e, in tema di nazione, quello di Chabod. Convergenza che viceversa, sebbene la giudichi parziale, Di Rienzo considera evidente (pp. 25 ss.) nel giudizio che, sul fascismo e la sua affermazione nel primo dopoguerra, Chabod delineò nelle lezioni che tenne alla Sorbona nel 1950 e negli scritti volpiani che dall’Italia in cammino vanno
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fino al Memoriale apologetico del 1946. Convergenza che, infine, sarebbe evidente anche nella volontà chabodiana di riannodare i superstiti fili della vita nazionale «nello spazio del vivere civile e in quello degli studi» (p. 29). Ossia nella volontà che altresì sarebbe stata la vera causa del «complotto» che alcuni condirettori della «Rivista storica italiana» ordirono contro di lui per dare a quel periodico un diverso indirizzo, caratterizzato non, come Chabod aveva voluto quando nel 1948, gli aveva ridato vita, dalla continui tà con il passato, bensì piuttosto dalla discontinuità e dalla frattura.32 Ma non direi proprio che questa convergenza sia mai stata cosa reale: e che scorgerla non sia il frutto di un’illusione, determinata dal desiderio che così, almeno in un caso, le cose fossero andate. La concordanza che, per esempio (ma si tratta del punto essenziale), Di Rienzo ha ritrovata e indicata fra quel che Volpe pensava del fascismo e il giudizio che, nelle lezioni parigine, Chabod aveva dato della sua genesi e del «consenso» che, nel l’immediato dopoguerra, ne aveva favorita l’ascesa fino alla conquista del potere, – questa concordanza non ha nella realtà dei rispettivi testi alcun riscontro. Non è infatti il riconoscimento del consenso ottenuto dal movimento mussoliniano in strati abbastanza larghi della piccola, media e alta borghesia italiana, che per sé possa bastare a metterla fuori questione e ad affermarla. In realtà, se si confrontano i due passi che, traendo l’uno dal Memoriale volpiano del 1946, l’altro dalla chabodiana Italia contemporanea, Di Rienzo ha citati, subito salta agli occhi che non la stessa tesi vi era sostenuta, ma due tesi, assai diverse l’una dall’altra. Nel Memoriale Volpe aveva asserito che, per capire il fascismo, e per dare una veritiera rappresentazione delle ragioni che lo avevano determinato, occorreva considerarlo non tanto come qualcosa di imposto dal di fuori agli Italiani, con semplice atto di violenza, ma come uno spontaneo, sufficientemente spontaneo atteggiarsi della nazione, in un momento difficile della sua storia: sia pure sotto l’impulso di una minoranza, ma una minoranza tanto grande quanto in nessun’altra epoca della recente storia nostra, neppure del Risorgimento, si era avuta (p. 28).
E il suo era perciò il più positivo dei giudizi. Per spiegare quell’evento, egli evocava infatti non già questa o quella circostanza, ma la «nazione» che, in un momento difficile della sua storia, aveva trovata in sé l’energia bastante a superare la crisi e a riprendere il cammino. Era un giudizio, que32. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico, pp. 345 ss.
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sto, che non avrebbe potuto essere più caratteristico del suo «metodo», del modo, fra naturalistico e vitalistico, in cui sempre, anche negli studi sul Medioevo, egli aveva rappresentato l’Italia nei suoi momenti creativi. E il suo risvolto apologetico era anch’esso chiaro, perché presupponeva la tesi secondo cui non certo a colpa, ma al contrario della colpa, poteva essere ascritto il consenso che al fascismo era stato dato. Aperta apologia del fascismo, dunque, in Volpe; e piena, orgogliosa, apologia di sé stesso come fascista. Niente di tutto questo, invece, in Chabod; che nel suo libro aveva parlato bensì dell’insufficienza della violenza fascista a spiegare la conquista del potere, e quindi la sua conservazione, da parte di Mussolini e dei suoi; aveva bensì insistito sul consenso ricevuto al l’inizio e poi variamente ribadito nel tempo. Ma in modo, tuttavia, assai diverso da quello tenuto da Volpe. Il consenso del quale Chabod parlava era qualcosa di costruito dal fascismo stesso che, all’inizio, lo aveva ricevuto e poi, via via, imposto come una sorta di abitudine. «Ci si abitua», infatti, «e la forza dell’abitudine è grande: essa porta ad accettare quel che non si può distruggere».33 Era un consenso, per dir così, passivo, come quello che si dà a quel che si sente come non modificabile, una sorta di delega che si concede a chi, in momenti difficili, si presenti come colui che può restaurare l’ordine e garantire la tranquillità del vivere, e che poi gli viene confermata bensì, ma, come Chabod diceva, per «abitudine», per una sorta di interna coazione a ripetere il gesto iniziale, per la convinzione di non potere «agire» se non così. Era, per concludere, un consenso ben diverso da quello descritto da Volpe come nascente da un moto profondo della nazione che, attraverso Mussolini, si faceva essa il soggetto del suo agire. E profondamente diversi erano i due storici che se ne facevano interpreti, e lo giudicavano. Da una parte, un fascista convinto. Da un’altra, un antifascista, alieno dagli estremisti verbali, ma a pieno consapevole di sé. Questa discussione si è protratta già per molte, forse per troppe pagine. E poiché è sulle ragioni del dissenso che più è utile insistere, non mi soffermerò sul riconoscimento che in questo libro si propone, non solo dei meriti intrinseci al lavoro storiografico di Volpe, ma anche di quelli da lui conseguiti nella costante rivendicazione dell’autonomia della ricerca, nella polemica condotta contro la vanità e la vacuità del «precursorismo», e si33. F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948). Lezioni alla Sorbona, Roma 1964, p. 85.
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mili. Su molti di questi giudizi convengo non da oggi; e credo che Di Rien zo lo sappia. Vorrei perciò toccare in breve due punti che entrambi, se ho ben visto, emergono dal libro e che non mi sembra si compongano in un quadro coerente. Leggendo, si ha per un verso l’impressione che, nella contrapposizione della storiografia di Volpe a quella schiettamente fascista degli Ercole e dei De Vecchi e di altri vari, nella delineazione altresì del l’autore dell’Italia in cammino come di uno «storico storico» estraneo, non solo alla filosofia, ma anche alle deteriori mitologie del fascismo, Di Rienzo abbia cercato di restituire la verità contro le denigrazioni, la complessità contro i giudizi sommari; e anche, nello stesso tempo, di rendere chiaro a sé stesso e agli altri che del fascismo egli è giudice equanime ma severo: un giudice presso il quale certo non trovano alcuna giustificazione la dittatura, la persecuzione degli avversari, lo spegnimento delle libertà civili, il razzismo. Ma, per un altro verso, l’impressione è che, lo voglia o no, se ne renda o no conto accogliendo nella sostanza l’interpretazione del fascismo come di un fenomeno nato dal cuore stesso della nazione e volto a farla grande e moderna, egli vada al di là, molto al di là, di quel che aveva concesso quando, per esempio, aveva delineata la continua dissidenza del suo autore nei confronti del regime e dei suoi aspetti peggiori. Vada al di là, e sia quindi in qualche modo costretto ad accogliere anche quel che non avrebbe forse voluto e, data la premessa, potuto; e cioè il fascismo nella sua interezza, completo di dittatura e conseguente oppressione. Se il fascismo nacque perché, in quel momento, costituiva l’unica risposta possibile che le cose consentissero alla crisi della classe dirigente liberale e alla sua manifesta incapacità di guidare il paese in momenti eccezionali; se, insomma, proprio lo schmittiano «stato d’eccezione» s’era allora prodotto, e cioè la situazione in cui sovrano autentico è colui che prende su di sé il peso della «decisione» e agisce; se era niente meno di un’ἀνάγκη quella che imponeva di riannodare con quel filo il presente al passato, e questo a quello, ecco che l’accettazione del fascismo si rivelava inevitabile. Con una conseguenza anch’essa, direi, inevitabile, e che riguardava, non il passato, non il mondo di ieri in cui il fascismo si affermò e corse la sua avventura, ma quello di oggi, nato dall’antifascismo nel segno non positivo della discontinuità. Da una volontà, dunque, che, in modo quasi blasfemo, sfidava l’ἀνάγκη: ossia, fuori di metafora, agiva con violenza sul e contro il «senso» della storia d’Italia, ne spezzava il corso, ne spegneva i valori essenziali, a questi sostituendo niente che li eguagliasse. Attraverso il fascismo, era il Risorgimento che doveva essere salvato. Con la distruzione del fascismo
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e dei valori che vi si erano affermati, l’antifascismo operò, nei fatti, il distacco dell’Italia dal movimento che l’aveva costituita a nazione. Così, senza che se lo proponesse e subendo le conseguenze della sua impostazione, in Di Rienzo la historia rerum trapassava nelle res gestae, ossia nel diretto giudizio politico. E lo si capisce se si considera che è sul serio difficile ricavare dai suoi ragionamenti un solo motivo per il quale al l’antifascismo debba essere riconosciuto un consistente merito. Lo si vede bene, un caso fra molti, nella valutazione che Di Rienzo dà della dura polemica che, nel 1931, Adolfo Omodeo diresse contro il libro volpiano sulla rotta di Caporetto. Ribadisco il mio non essere uno storico, e tanto meno uno storico militare, capace di giudicare una questione che ancor oggi è controversa e produttiva di accese polemiche. E arriverei a concedere (perché non dovrei?) che Volpe non avesse torto quando indicava le «cause» (o una delle cause) del disastro nell’impreparazione dei quadri intermedi del l’esercito italiano:34 ossia negli ufficiali di complemento, mandati al fronte senza seria preparazione militare (il che chiamava comunque in causa la responsabilità degli alti gradi) e senza adeguata consapevolezza politica (il che evocava la responsabilità storica della classe dirigente). Senza dimenticare che la polemica si svolse nel 1931, non, per esempio, nel 1945, e che ci voleva dunque del coraggio, in quell’anno del Signore, ad attaccare con simile, frontale veemenza, il libro di uno storico che non aveva il suo posto fra gli oppositori del regime,35 può senz’altro concedersi che, ufficiale di complemento e combattente valoroso in quella guerra, Omodeo avesse torto nel giudicare come li giudicava quei suoi compagni d’armi. Resta che nella guerra del 1915/1918, egli vide l’atto conclusivo del Risorgimento, la prima grande prova che l’Italia divenuta nazione aveva affrontata impegnandovi uomini di tutte le classi sociali, dai colti e intellettuali agli umili contadini analfabeti. Resta che, per queste idee che ne costituirono la trama, il libro che, uscito a puntate nella «Critica» a partire dal 1929, vide la luce nel 1934 con il titolo Momenti della vita di guerra, fu duramente criticato in anni recenti come se a dominarlo non fosse stata se non l’esaltazione della 34. G. Volpe, Ottobre 1917. Dall’Isonzo al Piave, Roma s.d., pp. 38-39 (ma si veda l’intero secondo capitolo, dov’e il nocciolo della tesi volpiana). E cfr., per contro, sugli ufficiali di complemento A. Omodeo, Momenti della vita di guerra, Bari 1934, pp. 17-18. 35. La recensione di Omodeo provocò la violenta replica di Volpe, in «La Nuova Italia», 1930, pp. 730 ss., una risposta di Luigi Russo e una controreplica di Omodeo (questi due ultimi testi possono leggersi in A. Omodeo, Libertà e storia, Torino 1960, pp. 57-60).
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guerra in quanto guerra con il corollario di un pesante spirito classistico:36 quasi che, per la sua ricostruzione, Omodeo si fosse affidato a tesi come quelle, per esempio, di Camillo de Meis sulla nazione «sensitiva» sempre e comunque destinata a non essere se non la «materia» di quella «intellettuale», e, torto o ragione che avesse nel giudicare così, nella guerra non avesse vista l’occasione di un decisivo allargamento della coscienza nazionale e, in questa, di un innalzamento degli umili.37 Non entro nella disputa che allora si accese, né nelle questioni che furono agitate circa la necessità di superare ogni retorica, di negare alla guerra ogni «poesia», di guardarvi dentro con realismo, rivelando la disumanità, non solo generica ma specifica, della sua condotta, la brutalità e talvolta il cinismo degli alti comandi, la spietatezza repressiva, i plotoni d’esecuzione. E, convenendo sul punto che molte cose giuste allora furono dette e che assai di più Omodeo avrebbe dovuto insistere sulle diseguaglianze e le ingiustizie della società italiana delle quali l’esercito era in ultima analisi espressione, credo tuttavia che se si perseguisse solo questa via, e nella guerra del 1915 si rifiutasse di vedere anche altro, dalla storia si passerebbe, senza controllo critico e senza alcuna protezione, nel fuoco vivo dell’ideologia. In questa sede, per altro, il punto non è questo. Il punto è che, giudicando il libro di Omodeo come l’espressione di idee legate «al vecchio modello dell’Italia liberale in quanto Italia dei notabili legati al popolo basso da vincoli di patronato e di egemonia morale», e su quelle elevando il volpiano Ottobre 1917, interpretato come il risultato di un’assai diversa idea della nazione, orientata «alla modernizzazione delle […] strutture sociali» e «alla creazione di quadri dirigenti intellettuali, professionali, tecnici, in grado di stabilire un organico rapporto di indirizzo e di comando con le masse del paese» (p. 126), Di Rienzo non poteva non avvertire in questa concezione una nota profonda di autentica positività. Sullo slancio di questa contrapposizione, sull’onda lunga di questo giudizio, egli infatti aggiungeva anche che «quelle masse che, proprio in occasione del conflitto, erano passate dal ruolo di antica plebe cattolica e controriformistica, di “vinti del Risorgimento” (così li ritraeva Malaparte nel suo La rivolta dei santi maledetti del 1921, motivando la disfatta di Caporetto) a quello dei cittadini impegnati a parte intera nella nuova dimensione della 36. Cfr., su questo punto, la Nota II in fondo all’articolo. 37. Cfr. comunque nei Momenti della vita di guerra (Dai diari e dalle lettere dei caduti), Bari 1934, il capitolo su Gli umili, posto in Appendice (pp. 393-409).
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guerra come “attività totalitaria”» (pp. 126-127), avevano realizzato, per sé stesse e per il paese, un decisivo progresso. Dove, a parte quel che ci sarebbe da dire nel commento di queste linee sconcertanti, il nocciolo della questione sta in ciò: che, nel quadro delineato da Di Rienzo, per le ragioni dell’antifascismo non c’era spazio, perché, in ciascuna delle sue dimensioni, da quella liberale alle altre, azionistiche e comuniste, la sua opera si risolse nell’interrompere la continuità della storia d’Italia, facendone il teatro di lacerazioni, scissioni, lotte implacabili. Che è, nella sostanza, la tesi che tante volte Volpe aveva riproposta nel secondo dopoguerra; e che, come tuttavia per certi versi anche Di Rienzo riconosce,38 fu espressione di un animo ferito ed esacerbato al punto che, per conseguenza, anche la mente ne risentì, e si rese incapace di comprendere il senso di quel che la guerra del 1939/1945 aveva significato per le nazioni europee: non solo per quelle che furono sconfitte sul campo di battaglia e che necessariamente risorsero con valori indeboliti e, per dir così, perplessi, ma anche per le vincitrici, che furono via via costrette a liquidare il loro patrimonio imperiale, declassandosi a potenze di secondo piano. A rivelarsi uomo del l’Ottocento, legato a prospettive crispine o mussoliniane ormai, comunque le si dovesse giudicare per quel che furono, del tutto velleitarie e anacronistiche, fu perciò proprio Volpe. Lo fu nel 1946; e lo era stato già prima, quando si era acceso d’entusiasmo per la politica coloniale che il fascismo aveva ripresa proprio nel momento in cui le sue ragioni storiche stavano per dimostrare il declino a cui erano condannate. E di questo ritengo che si debba prendere atto: al di là, dunque, dei valori in cui si crede e ai quali si vorrebbe che fosse ispirata la nostra polis. Non fu colpa di nessuno in particolare, perché era la forza delle cose che imponeva la sua legge, se la storia prese quella direzione e determinò la scissione della «nazione» dalla potenza politica e militare; che, in effetti, mentre il sentimento della prima in Europa e sopra tutto in Italia declinava, si trasferì altrove, fuori del vecchio continente, e divenne possesso di «nazioni» imperiali che, per cinquant’anni, dominarono il mondo, e ancora, malgrado la sconfitta e il declino di una di esse, sembrano destinate a essere protagoniste nei decenni a venire: in un segno che ai nostalgici dei vecchi universi nazionali lascia sul serio poche speranze. E questo sia, fra parentesi, detto con buona pace di chi ha parlato di fine della storia, senza mostrare di capire o di temere che la mondializzazione dei con38. Cfr., per es., Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico, pp. 252-253, passim.
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flitti potrebbe domani condurre al tramonto le democrazie liberali (e socialiste) dell’Occidente. A guardare le cose dall’alto, o cercando quanto meno di farlo, si scorge tuttavia con sufficiente chiarezza che se la più evoluta cultura antifascista comprese per tempo che quello della nazione era un mito al tramonto, la tragedia delle forze politiche che vi si ispiravano fu di non avere, di volta in volta, avuta la capacità e la possibilità di agire nel segno e nella logica di questa consapevolezza: con la conseguenza del ricorso, da parte loro, a valori indeboliti, che esse non furono in grado di ripensare e rinnovare perché la non trascendibilità degli ambiti nazionali toglieva energia al pensiero non meno che all’azione, e induceva alla mediocrità. Ma con questo si va molto di là delle questioni poste dal libro di Di Rienzo, e si rischia comunque di avventurarsi in una regione che non potrebbe essere percorsa senza che al gusto delle costruzioni filosofico/politiche si accompagnasse la tendenza, che allo scrivente non appartiene, a proporre profezie. Ho detto che, per Di Rienzo, il carattere che deve riconoscersi nel dopoguerra, politico e storiografico, è la colpevole rimozione, o, se preferisce, la «memoria imperfetta» del recente passato fascista, il mancato confronto con esso; e che emblematici di questo atteggiamento furono, da un lato la persecuzione a cui fu sottoposta la persona di Gioacchino Volpe, privato della cattedra come di ogni grado accademico, da un altro il sostanziale oblio della sua opera storiografica, interrotto, a tratti, soltanto da giudizi sprezzanti e sommari. Autrice dell’oblio, la cultura storiografica nel suo complesso, e con poche eccezioni. Autori dei giudizi sprezzanti e sommari, studiosi che con Volpe e il suo pensiero avevano pur contratto debiti, e che ora ne rinnegavano la persona e l’opera, e pronunziavano condanne che non avevano il diritto di pronunziare perché, con poche eccezioni, anch’essi si erano compromessi col regime, e puri e candidi comunque non erano stati. Di qui, nelle pagine di Di Rienzo, e già si è avuto occasione di notarlo, le accuse di ipocrisie, di conformismo, di mancato coraggio nel dichiarare la fede politica un tempo condivisa: accuse e, se non proprio accuse, sospetti, tuttavia, avanzati sulla falsariga di consimili giudizi dello stesso Volpe, sul conto di uomini come Omodeo e De Ruggiero, Calamandrei e Salvatorelli e Galante Garrone. Accuse che (questo mi pare essere il punto serio della questione), quand’anche fossero provate (e non lo sono), non per questo nel giudizio relativo al fascismo si sarebbe sul serio fatto registrare un significativo progresso: a meno che progresso non voglia con-
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siderarsi l’osservazione che al riguardo viene spontanea, e secondo la quale il cedimento di questo o di quello dev’essere messo bensì in conto della virtù di chi se ne fece autore, ma sopra tutto dev’essere posto in relazione al potere che, con lo strumento della violenza, faceva sì che anche i migliori avessero i loro momenti di debolezza. In realtà, improduttivo di autentica comprensione è il criterio seguito nel mettere in rilievo la indegnità, vera o presunta, di chi, giudicando e mandando, indossava la veste del giudice virtuoso, legittimato da un passato senza ombre e senza macchie. Questo criterio è improduttivo, è sterile e moralistico, perché chi se ne serve non considera che, a un passaggio così duro e violento come quello che si determinò dal fascismo alla Repubblica democratica, era impossibile che a giudicarlo non insorgessero anche coloro che, puri o meno che fossero stati, per vent’anni erano stati condannati a non aver diritto di parola e di libero pensiero in un libero Stato. E poi, anche questa considerazione dev’essere aggiunta; che sarà astratta, e qualcuno potrà giudicarla persino capziosa, ma s’impone di fronte al moralismo di chi guarda con questi occhi alla storia, tragica e dolorosa, dell’Italia in quegli anni. Quand’anche, potrebbe dirsi con un paradosso, tutti fossero stati, o si fossero considerati, responsabili del fascismo e variamente compromessi con il potere che ne fu esercitato; quand’anche tutti avessero uccisa in sé la παρρησία per dare spazio alla sola voce del tiranno, risuonante perciò in un deserto abitato da schiavi; quand’anche nessuno, per conseguenza, alla caduta del fascismo avesse avuto il diritto, storico e politico, di pronunziarne la condanna, ebbene non per questo sarebbe stato giusto argomentare e sostenere che quel regime non era condannabile, perché condannarlo sarebbe stato come condannare un’intera comunità umana. In realtà, la colpevolezza di tutti non comporta affatto che tutti perciò debbano essere assolti. Ma implica invece una tutt’altra conclusione: e cioè che, nell’assenza di giudici legittimati a emettere sentenze, queste appartengono alla storia del mondo, che è essa il vero tribunale e il vero giudice. Questa, naturalmente, è un’ipotesi astratta, la cui logica obbliga a ripetere il solenne adagio, Die Weltgeschichte ist das Weltgericht, troppo solenne, in effetti, per essere ricantato senza qualche imbarazzo. È un paradosso al quale induce il gioco che da anni è in voga nel nostro paese, e che, come ho detto, consiste nel legittimare attraverso la delegittimazione. Il fascismo gravò, con peso insopportabile, sulle coscienze, le violentò e mortificò, costrinse, per esempio, i professori delle Università e i soci delle Accademie scientifiche a giurare anche quando, in cuor loro, non avrebbero voluto su-
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bire quell’umiliazione? Certo, è così. Ma quanti furono, fra i professori che, sentendo come un’onta quel giuramento imposto con la forza, rifiutarono di prestarlo? Pochi, com’è noto.39 Non perciò ne discende che nessuno, o solo quei pochi, avrebbe dovuto arrogarsi il diritto di giudicare quanti con il fascismo avessero stretto particolari rapporti, ottenendone vantaggi e privilegi. Le leggi per la difesa della razza (alludo ad un argomento che, non presente nel libro di Di Rienzo, ha avuto largo corso qualche tempo fa) costituiscono un’onta incancellabile per il regime che le promulgò facendone un odioso e terribile strumento di discriminazione e persecuzione? Certo, ma perché, si è detto da qualche parte, a questa autentica infamia ci si adattò e, per esempio, un uomo come Benedetto Croce non organizzò lui in Senato, mentre il regnante pontefice taceva, l’opposizione a quelle leggi? Argomento che, Croce incluso o non incluso, accade che sia ripetuto spesso da settori diversi e persino opposti dello schieramento culturale e politico; e che, da qualunque parte sia proposto, è o pretestuoso (perché il Senato, per esempio, non era una libera camera e la piccola opposizione che tuttavia vi sedeva era discriminata e isolata40), o astratto (perché il rifiuto popolare della legge avrebbe richiesto atti rivoluzionari, per i quali non si dava, nel 1938, alcuna concreta possibilità). Resta da svolgere, in breve, un’ultima considerazione, che, forse (e anzi, senza forse), è la più importante. L’assoluta preminenza che, nella prospettiva costruita da Di Rienzo, è stata attribuita alla vicenda di Gioacchino Volpe, non ha riscontro nella realtà, della quale altera, come più volte ho dovuto osservare, e deforma il profilo. Quella vicenda occupa senza 39. Cfr. su questo punto, da ultimo, Luzzatto, La crisi dell’antifascismo, p. 51, il quale scrive che il rifiuto del giuramento di soltanto dodici su milleduecento professori universitari dimostra, e contrario, il «servilismo storicamente diffuso nell’intellighenzia italiana». Sulla parte avuta da Gentile nella questione del giuramento, mi intrattenni anni fa, in un articolo, Visitando una mostra. Considerazioni, ricordi, polemiche (1986), in Filosofia e idealismo, II, Giovanni Gentile, Napoli 1995, pp. 37 ss., che probabilmente Luzzatto non conosce. Ma il punto non riguarda ora la responsabilità di Gentile, e neppure l’analisi che pur dovrebbe tentarsi delle ragioni per le quali, anche da parte di chi non avrebbe voluto, quel giuramento fu prestato. Riguarda la tendenza denigratoria, dell’antifascismo in primo luogo, ma, in casi determinati, dell’intero paese, che sta alla radice di molto «revisionismo» (una tendenza che, com’è ovvio, non riguarda il Luzzatto che, infatti, la combatte). 40. E. Gentile, Il totalitarismo alla conquista della Camera alta, Soveria Mannelli 2002, passim; e dello stesso autore, Fascismo e antifascismo. I partiti italiani fra le due guerre, Firenze 2000, pp. 234-236.
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dubbio, nella vita politica e culturale del secondo dopoguerra, un posto importante: ma non centrale. Volpe non fu allora le dieu, o magari, se si preferisce, le diable caché nella coscienza culturale della nazione che, quanto più ne fosse ossessionata, tanto più lo ricacciava nelle sue parti più profonde e oscure. Altre erano allora, negli anni del dopoguerra, le questioni che urgevano, altre le passioni, altre le polemiche che, per conseguenza, ne nacquero. Il fascismo, che era ormai diventato il predicato di altri soggetti (era la «reazione», e questa era fascista), interessava, quando interessava come tale, assai più dei fascisti in carne e ossa, ancora attivi in qualche caso, ma chiusi ormai, sebbene presenti, nel cerchio del passato. A rendere inattuale il più importante di loro, e cioè Volpe, fu proprio il modo, largamente illustrato da Di Rienzo, in cui egli cercò di non esserlo: quel modo rabbioso che, mentre lo conduceva a accettare del fascismo anche quel che prima aveva criticato in esso, lo chiudeva alla comprensione dei suoi stessi vecchi allievi, rimastigli fedeli per quel che avevano appreso da lui. Penso, naturalmente, a Chabod, a Maturi, a Sestan, a Morandi, presto per altro scomparso, che in quel suo delirio certo non potevano entrare, e preferivano non ascoltarlo.41 Donde il suo isolamento, che egli appunto ribadiva e rendeva più profondo attraverso il modo in cui cercava di romperlo; e che fu bensì, questo è ovvio, determinato dalle cose e dagli uomini, ma perché, con quelle, questi andavano in un’altra direzione, che non conduceva là dove egli coltivava le sue stanche passioni. Anche dell’oblio, comunque parziale, della sua storiografia, deve dirsi che, per esempio, quello che riguardò la sua insigne opera medievistica ebbe le sue ragioni specifiche; che non furono politiche, ossia legate al l’immediatezza politica, ma culturali, e da ricondursi infatti alla diversa sensibilità con la quale, dopo la stagione che fu, oltre che sua, di Salvemini, di Caggese, di Ottokar, e di altri di consimile indirizzo, ci si volse al Medioevo. Che fu non quello che questi studiosi avevano indagato e ricostruito; e nemmeno l’altro, «barbarico», che, come trasparente metafora del fascismo, era stato delineato in un libro comunque importante del 1941 da Gabriele Pepe; ma fu piuttosto quello di Giorgio Falco e di Raffaello 41. Cfr., per es., la lettera che il 1° ottobre 1947 Sestan inviò a Chabod (parzialmente pubblicata in Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico, p. 260): «io gli ho scritto come e perché non mi pareva di poter condividere le sue idee. Spero di non avere ferito la sua suscettibilità. Ma voler rifiutare la lezione delle cose, mi pare rasenti l’ostinazione». Sull’influsso che, in questi anni, poté avere su Volpe il figlio Giovanni, cfr. Di Rienzo, pp. 260 ss.
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Morghen. Fu la Santa romana repubblica del primo; fu il Medioevo cristiano del secondo: due libri che, usciti l’uno dopo l’altro nell’arco di un decennio, mutarono profondamente, qualunque cosa se ne pensi, l’immagine della così detta età di mezzo. La distanza che questi libri segnarono nei confronti di quelli di Volpe, ma anche degli altri storici menzionati qui su, è, in effetti, grandissima. E la si tocca, per dir così, con mano, leggendo il saggio di Morghen sulle eresie medievali: lontanissimo dal libro di Felice Tocco, e non meno, appunto, da quello di Volpe, che allo studio dei movimenti ereticali si era volto per coglierne la radice sociale: sebbene a spingere i suoi interessi in quella direzione fosse stata anche la curiosità intellettuale con la quale, nella Milano d’inizio secolo, aveva seguito il dibattito pro e contro il modernismo.42 Non una rimozione, dunque, ma un mutamento di clima, per riprendere l’espressione cara a Lucien Febvre. Uno spostamento di interessi culturali; che, quando a loro volta, per ragioni che ora non interessa indagare, ricondussero alle questioni che Volpe in particolar modo aveva sollevate e studiate, alla sua opera si tornò a guardare con vivo interesse e grande attenzione. Per iniziativa, sopra tutto, di Cinzio Violante, i suoi libri rividero la luce in nuove edizioni: compreso, fra questi, quel superbo Lombardi e Romani, che Volpe non aveva mai voluto ristampare a causa di un punto nel quale era certo di non aver visto giusto 43 e che, premuto da altri interessi, non era stato in grado di rivedere e ristudiare. Il centro del quadro, quello al quale deve guardarsi se si vuole che la prospettiva risulti netta, e non deformata, fu costituito e occupato, a partire dalla metà circa degli anni quaranta, dalla crisi, in un mondo che si stava dividendo in due, dell’antifascismo; che patì e riprodusse in sé quella divisione, la quale segnò il destino dei successivi decenni. Fosse inevitabile o 42. Cfr. in proposito l’Introduzione premessa da C. Violante alla ristampa dei Movimenti religiosi e sette ereticali nella società medievale italiana. Secoli XI-XIV, Firenze 1997; e anche I. Cervelli, Gioacchino Volpe, Napoli 1977, pp. 596 ss. Ma cfr. anche G. Volpe, Storici e maestri, Firenze 1967. 43. L’ampio saggio al quale mi riferisco fu pubblicato negli «Studi storici» del Crivellucci, 13 (1904), in varie puntate, ed è ora leggibile in Origine e primo svolgimento dei Comuni nell’Italia longobarda, a cura di G. Rossetti, Roma 1976. Volpe non si decise mai a ripubblicarlo per non essere riuscito a liberarsi «dall’impressione vivissima che gli aveva suscitato una recensione di Nino Tamassia, nettamente critica» (così C. Violante, Presentazione, ibidem).
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no, è un fatto che quella divisione si produsse. E la durezza del conflitto in cui si rese concreta fece sì che il maggior partito di governo accentuasse il tema della continuità del nuovo con il vecchio Stato, a questo aggiungendo l’altro rappresentabile nella pesante coltre clericale che allora fece gravare sull’Italia, per molti anni. A patire le conseguenze di questa situazione furono in particolar modo le forze che, nella stagione dell’antifascismo, avevano rappresentate e tenute vive le esigenze della giustizia sociale nel quadro di una società laica e liberale. Furono queste, infatti, che ulteriormente si divisero, convinti alcuni degli uomini che le rappresentavano della necessità di collaborare con il Partito cattolico, altrettanto persuasi, altri, della necessità opposta, ossia del dovere di mantenere a ogni costo la propria autonomia, cercando di farla valere sul fronte di un’opposizione democratica. La quale aveva comunque poco spazio, ed era destinata a una vita grama e stentata, alimentata da una vena di nobile, ma velleitario moralismo, ed esposta alla tentazione di passare nello schieramento che non era conforme alle sue idealità; mentre sull’altro fronte la prassi collaborativa determinava un’abitudine, e, con l’abitudine, la tendenza a considerare immodificabile la situazione che l’aveva determinata e ora la volgeva, in alcuni, verso esiti schiettamente reazionari. Sul piano culturale, furono quelli gli anni dell’AntiCroce: ossia, come già era emerso con chiarezza in certi interventi di Palmiro Togliatti al tempo dei governi di Brindisi, del progetto, che Gramsci aveva delineato nei Quaderni del carcere, di una cultura capace di sostituire all’egemonia idealistica una cultura nuova, fondata sul marxismo. Il progetto che Togliatti riprendeva da Gramsci, e nella cui attuazione deve forse scorgersi il suo capolavoro politico, occupò per almeno due decenni la cultura che si raccoglieva intorno al Partito comunista; ed ebbe successi tanto più rapidi, e grandi, quanto più la crisi era penetrata da tempo nella cultura che si definiva idealistica, i cui rappresentanti, giovani e meno giovani, l’avevano vissuta e non risolta, sì che ora accoglievano volentieri parole nuove. Assai alto è il numero di coloro che in quegli anni passarono sull’altra sponda. E per valutarne il significato, occorrerebbe che lo sguardo si spingesse a fondo, non solo nella cultura idealistica che allora tramontò, ma anche in quella che dette l’impressione di sostituirla, che per un periodo non breve la sostituì sul serio: sebbene abbastanza per tempo le accadesse di essere come attraversata da altri temi, provenienti da altre correnti di pensiero, e il quadro si arricchisse e complicasse in modo tale che lo stesso marxismo ne risentì, la sua impronta gramsciana rimanendo visibile,
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nel suo carattere originario, sopra tutto nella storiografia e nella critica letteraria. Per qualche tempo soltanto, per altro; perché anche in questi campi ad affermarsi e poi a prevalere furono via via indirizzi diversi, pensieri nuovi che, comunque si voglia giudicarli, con Gramsci condussero al tramonto quanto di crociano era rimasto in lui e in coloro che l’avevano preso a maestro. Su quel che accadde negli anni in cui la cultura idealistica subì attacchi e critiche veementi, e velocemente declinò, il discorso non può certo esaurirsi nelle poche battute che precedono. E da tempo, infatti, auspico che, assistito dal dio della spregiudicatezza, e anche della pazienza, qualcuno, che perciò sappia scendere alla radice e sia forte di conoscenze specifiche e non di luoghi comuni, faccia la storia di questo momento della cultura italiana, lo studi nelle sue connessioni con quel che accadeva altrove, facendo capire perché, quel che avvenne, avvenne in quelle forme e con quei caratteri. Nell’attesa, qui basterà ribadire quel che è certo. E cioè che il declino nettissimo che, inteso come filosofia, e anche, se non sopra tutto, come cultura, l’idealismo subì, fu presto ribadito dall’ignoranza che, come una nebbia impenetrabile, gli si sovrappose e lo oscurò. E su questo deve insistersi: sull’ignoranza che, se la si considera in quel che presto ne derivò, forse consente di spiegare perché agli studiosi più giovani tenda a sfuggire quel che a noi, che vivemmo quegli anni, è ben presente. L’ignoranza genera ignoranza; e da questa sua interna moltiplicazione a ulteriormente generarsi fu allora la convinzione che quel che si nascondeva sotto il suo velo non avesse più niente che valesse la pena di studiare e cercar di capire; e innanzi tutto, ovviamente di conoscere. Era come se, poiché l’idealismo era ignorato, fosse giusto che si seguitasse a ignorarlo, circondandolo a ogni buon conto di commiserazione e di disprezzo. Vale la pena di aggiungere che la crisi dell’idealismo coincise, in quegli anni, con la precoce crisi dell’antifascismo, che allora (come si è detto qui su) perse la sua unità e, per le note ragioni, si divise in due schiere contrapposte: con le conseguenze che, come già qui su si osservava, resero grama e difficile la vita democratica del nostro paese. Fu questa polemica, non l’altra che investì Volpe e la sua opera, a costituire il centro del quadro. E quale che sia la sua importanza, quale che sia il suo significato, quella che la riguarda è una storia per intero da scrivere.
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Nota I Non intendo (l’ho già detto) discutere intorno alle accuse di compromissione con il regime fascista rivolte, nel libro di Di Rienzo, a studiosi antifascisti, in ripresa di quelle che, fra il 1944 e il 1945, organi di stampa dell’estrema destra, monarchica e neofascista, formularono per offrirle a chi ne avrebbe tratto motivo di compiacimento. Ritengo infatti che non sia questo il punto. La debolezza di alcuni antifascisti non conferisce certo motivo per il quale al fascismo, che la provocava, debba guardarsi con più indulgenza e comprensione; né toglie qualcosa alle ragioni dell’antifascismo che restano ciò che sono, e in quanto tali vanno giudicate e apprezzate, anche se, ripeto, vario fu il modo in cui da questo o da quello furono tradotte nella pratica dei comportamenti. A proposito di Omodeo, e dell’episodio relativo alla sua iscrizione, nel 1941, al Partito nazionale fascista, del quale fino a quel punto non aveva mai richiesta la tessera, vorrei tuttavia fare qualche piccola osservazione, relativa al modo in cui le «fonti» debbono essere lette e interpretate. Non mi pare infatti che il modo seguito da Di Rienzo (p. 229 e n. 82) sia stato, in proposito, quello del rigore e dell’obiet tività; e nemmeno che, nell’avanzare i suoi «sospetti», egli abbia proceduto sul fondamento di una sufficiente informazione: essendosi in realtà limitato a sfumare un’affermazione che si trova nel Memoriale volpiano del 1946 (p. 225). Va ricordato innanzi tutto, e di questo nel suo libro non si trova alcuna traccia, che per Omodeo la questione si pose nel 1941 quando i dirigenti del Partito nazionale fascista riaprirono le iscrizioni agli ex-combattenti nella prima guerra mondiale, che fin lì a quel partito non avessero data la propria adesione. Nel 1941, e non nel 1940, come invece si trova scritto nel libro di Di Rienzo che, per questa sua datazione, si avvale di un passo del Diario di Calamandrei, sul quale tornerò alla fine di questa Nota, e avrebbe invece dovuto tener presente la lettera che, «in difesa di un amico calunniato», Croce inviò il 28 marzo 1945 al Risorgimento liberale di Roma, che la pubblicò, e dalla quale si ricavano notizie di alta autorevolezza documentaria. Aggiungerò che Di Rienzo non è accurato quando, nel passo citato, scrive che la notizia dell’iscrizione di Omodeo al partito è «negata» da E. Omodeo Zona, Ricordi su Adolfo Omodeo, Catania 1968, p. 35. Né in questa pagina, infatti, né, se ho ben visto, nelle altre che compongono questo piccolo libro, si fa accenno alla questione; che, non essendo stata richiamata, nemmeno, per conseguenza, fu smentita. Allo stesso modo, Di Rienzo non è accurato nella citazione archivistica (n. 82): dopo aver dichiarato che fino al 1938 Omodeo non risultava iscritto al Partito, avrebbe dovuto aggiungere che di una sua iscrizione non c’è traccia, nelle carte del Ministero, nemmeno dopo quella data: sì che sulla presunta iscrizione del 1941 si sarebbe dovuto, quanto meno, procedere a un supplemento d’indagine. Aggiungerò ancora che il volume di M. Musté, Adolfo Omodeo. Pensiero politico e storiografia, Napoli 1990, di cui Di Rienzo cita le pp. 225-226, è ricordato e,
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appunto, citato, ma non utilizzato, e discusso, per quel che vi si afferma, e che, poiché in sostanza concorda con la lettera di Croce, avrebbe dovuto indurre a prendere contatto con questa e con le informazioni che forniva. Di questa lettera conviene, a questo punto, riferire per disteso il passo in cui Croce spiegò come effettivamente fossero andate le cose e come si dovesse interpretarle: Veniamo alla seconda accusa. Nel 1941 l’Omodeo ebbe la tessera fascista: nel 1941, cioè dopo diciannove anni che non l’aveva voluta. Ma si deve rammentare che in quel l’anno il regime fece esortazione, ossia ingiunzione con chiara sottintesa minaccia, a tutti gli ex-combattenti della guerra del 1915-18, a dar prova di solidarietà patriottica nella nuova guerra in cui l’Italia si era impegnata, col prendere la tessera del partito, al che tutti si doverono acconciare. Un suo collega, costante e attivissimo antifascista, che fu perfino imprigionato, il quale come lui si trovava in questa condizione di ex-combattente, venne apposta a Napoli e, me presente per caso ma non partecipante, discusse con l’Omodeo della situazione, concludendo che in quella congiuntura non si poteva non accettare la tessera. Ma il cielo, che par protegga talora gli uomini degni o gli innocenti, fece sì che quella tessera fosse all’Omodeo conferita e poco dopo rapidamente ritolta, perché quelli del partito, esaminati i precedenti di lui, si avvidero di aver commesso una grossa e quasi ridicola gaffe, tesserando, per troppo zelo, nientemeno che il mio fedele e persistente collaboratore nella rivista La Critica.
Poiché della testimonianza resa da Croce in questa lettera (e cfr. anche Taccuini di lavoro, V, 268) sarebbe assurdo dubitare, deve concludersi che questi sono i fatti, che così andarono le cose; e che può perciò ben comprendersi come il gesto al quale Omodeo fu allora costretto, in una circostanza del tutto particolare, da un partito il cui capo esercitava su consenzienti e dissenzienti una capillare attività di controllo e di intimidazione, fosse ben presto compensato da quella che, ironicamente, Croce definiva come giustizia del cielo e tornasse perciò a conferma del suo netto e limpido antifascismo. Debbo aggiungere, e spero che non sia presa per quel che non vuol essere, e cioè per una notazione moralistica, che, in tempi torbidi e violenti, quando l’elementarità del sentimento di sopravvivenza sembra aver ragione di ogni spirito di giustizia, sono gli uomini migliori, i più duri nell’eser citare la difficile arte dell’intransigenza, a attirare gli odi più funesti e a essere l’oggetto delle più feroci denigrazioni. Chi è giovane, con difficoltà, anche se legga i superstiti documenti di quel tempo con spirito di obiettività, può immaginare la violenza e la volgarità degli attacchi a cui in particolare Adolfo Omodeo fu allora sottoposto, di quante e quali ingiurie fu fatto oggetto. Persino un uomo come Ernesto Buonaiuti, per tante e tante ragioni degno di stima anche da chi si fosse trovato, e si trovi, a non poter consentire con le sue idee storiografiche, non solo, non esitò a entrare in quella trista storia di calunnie. Non solo non evitò che l’inimicizia che, ricambiata, nutriva per Omodeo, alimentasse un sordo spirito di vendetta. Ma, cosa che ha del grottesco, giunse al punto di chiedere che l’autore delle Origini cristiane fosse sottoposto al procedimento dell’epurazione! Il che si ricorda per ribadire che quelli furono sul serio tempi terribili; e non soltanto perché a
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renderli tali fosse l’intransigenza antifascista di questo o di quello. Lo furono per la ragione, spesso non considerata a sufficienza, o non considerata affatto, che a contrapporsi a quella fu la rabbiosa ostilità di una parte non piccola della borghesia, alta e meno alta; una borghesia che si sentiva giudicata, minacciata, colpita nel suo patrimonio economico e culturale; che in generale temeva e disprezzava la politica, e che, per difendersene, non badava ai mezzi, non rifuggiva dalla calunnia, dall’insulto sanguinoso, dalla denigrazione. Resta da considerare la discrepanza che, rispetto alla data, deve notarsi fra la testimonianza resa da Croce nel marzo 1945, e quella di Calamandrei, che, come già detto, risale al 27 gennaio 1940, a un periodo quindi anteriore all’entrata in guerra dell’Italia. Converrà riferirla nella sua interezza: Ieri è venuto a cercarmi a Roma il prof. De Ruggiero, per chiedermi consiglio sulla iscrizione al partito. M’ha detto che egli è il solo professore a Roma in quelle condizioni: che il rettore De Francisci gli ha scritto chiedendogli che cosa intende fare e spiegazioni sui motivi della sua decisione … Omodeo, pare, «ha già saltato il fosso». Muti, il segretario del partito, avrebbe detto in un salotto a proposito di quelli che non si iscriveranno: «li vogliamo vedere in faccia queste pecore rognose». De Ruggiero è in dubbio: teme soprattutto le rappresaglie fisiche: bastonature, olio di ricino (Diario, I, 128).
Da questo testo si deduce che già all’inizio del 1940 erano in atto pressioni, da parte del governo e del partito, esercitate su personaggi che, sebbene ricoprissero pubblici uffici, erano privi di tessera. Si trattava, evidentemente, di un’iniziativa che, dopo la dichiarazione di guerra, si fece, non solo più intensa e minacciosa, ma anche, per dir così, più determinata, dal momento che, come si è accennato, era ora rivolta agli ex-combattenti della guerra 1915/1918, i quali, con l’adesione al Partito, avrebbero dovuto dimostrare che quella voluta dal fascismo era sentita e condivisa come patriottica al modo stesso in cui sentita e condivisa era stata l’altra. È più che probabile (ma non ho trovato al riguardo utili riscontri) che l’iniziativa che, nel 1941, riguardò anche Omodeo, fosse già iniziata, forse senza riferimento specifico agli ex-combattenti, al principio dell’anno precedente. Ma, e con questo può passarsi a una più ravvicinata analisi del passo che compare nel Diario di Calamandrei, è certo che da quel che vi si legge a risultare è un quadro non chiaro e, anzi, alquanto sfocato. Che, fra le minacce, formulate in stile eletto, da Ettore Muti e la richiesta del Rettore De Francisci, vi fosse un nesso, è evidente. O, quanto meno, più che probabile. Non si dimentichi che, divenuto da poco segretario generale del Partito dopo la destituzione di Starace, Muti era atteso con interesse all’opera da quanti, a cominciare da Galeazze Ciano, avevano contribuito alla sua ascesa. E, nello stile che gli era proprio, e con le idee che aveva nella testa, non è improbabile che i suoi primi atti fossero ispirati dall’intento di far pagare cara, alle «pecore rognose» dell’antifascismo, la loro volontà di non piegarsi alla disciplina. Ma, se è così, è anche vero che, in questo testo, il riferimento a Omodeo è più che generico. Calamandrei non fa se non riferire una voce che, a sua
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volta, De Ruggiero aveva, con ogni verisimiglianza, ricevuta da altri, e non aveva controllata alla fonte. Ne consegue che se, com’è certo, la vicenda dell’iscrizione ebbe luogo, nei modi paradossali in cui cominciò e finì, nel 1941, nel 1940 Omodeo non aveva «saltato» nessun fosso.
Nota II Nell’analisi complessiva che, sopra tutto nel secondo capitolo di Ottobre 1917, Volpe aveva condotta delle ragioni che furono alla radice del disastro di Caporetto, vi erano, senza dubbio, osservazioni importanti. E innegabile è che, nello stringere il nesso fra la situazione politica e sociale del paese, da una parte, la condizione del l’esercito, da un’altra, anche qui le sue qualità eccellessero. Altrettanto indubitabile, per converso, è che, riletta oggi, la recensione di Omodeo appaia alquanto sfocata: come se le sue osservazioni nascessero da un presupposto non con chiarezza reso esplicito, e incapace perciò di collocarsi con forza nel suo centro. A guardare bene, la ragione del contrasto appare, tuttavia, evidente. E risiede nel diverso concetto che i due studiosi avevano, non solo della guerra, ma, in primo luogo, della vita politica e civile della nazione, nel diverso modo in cui giudicavano della sua positività e del suo valore. Per Volpe, la guerra, anche la guerra, questa anzi al grado più alto, era uno dei mezzi con i quali la nazione era chiamata a realizzare sé stessa: e cioè la sua potenza, la sua espansione, la conquista; e quanto più fosse apparsa compatta, fusa nei suoi elementi, concorde e consapevole, di altrettanto i mezzi avrebbero corrisposto a tale sua natura, e fra questi e quella si sarebbe realizzata la convergenza e, quindi, l’identità. Per Omodeo, la guerra era un evento complesso, oscuro, diversamente reale nella forma che assumeva nelle coscienze. Un evento che si trattava di rendere chiaro e trasparente nella coscienza, appunto, che se ne avesse e nell’elaborazione che si fosse stati capaci di darne: in modo che fosse la nazione, intesa come vita morale e religiosa, non come conquista e acquisizione, a darle senso, facendone uno strumento, al di là del dolore e della morte, di elevazione morale. Quella di Volpe era la guerra sentita da un nazionalista. Quella di Omodeo era la guerra quale, dopo esser stata vissuta e sofferta nelle trincee alpine, poteva essere ripensata da un idealista, assai più vicino in questo a Gentile che non a Croce, che l’aveva rappresentata come un evento funesto della natura, e come un barbarico «giudizio di Dio», da interpretare e, con fatica, da ricondurre nel quadro della razionalità (si pensi alle Pagine sulla guerra). Fu il senso religioso della guerra, fu il modo in cui l’aveva vissuta e che ora cercava di interpretare leggendo i diari e le lettere dei caduti, fu il sentimento di solidarietà umana che aveva reso vivo e partecipe il suo animo e che, al ritorno, gli aveva dettata la dedica del terzo volume delle Origini cristiane, – fu insomma tutto quello che Omodeo chiudeva in sé e non ritrovava in Volpe, a determinare il
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duro, e per certi versi ingiusto giudizio formulato su Ottobre 1917. Per capirne la genesi, e valutarne l’asprezza, molte sarebbero le pagine dei Momenti della vita di guerra, che potrebbero essere sottoposte all’attenzione del lettore di oggi. Basterà, in questa sede, citarne una, dedicata a Scipio Slataper e al Mio Carso: Per lo slavo egli non aveva antipatia, e ne dava segno palese nel Mio Carso, con l’allocuzione al pastore sloveno. Il trionfo dell’italianità egli lo sentiva sicuro quando italianità fosse stato rigoglio di miglior vita spirituale. Non nutriva avversione per i socialisti, perché sosteneva che l’elevazione delle classi inferiori, favorita dal socialismo triestino, portava all’irrobustimento dell’italianità. Ma quest’espansione della nazionalità era per lui cosa ben diversa da quella vagheggiata dai nazionalisti su modelli tedeschi. Non sopraffazione delle minoranze, ma auto-controllo della maggioranza in una più liberale giustizia, documento di una forza che non ha bisogno d’esser violenta. Vagheggiava un possibile accordo con la nazionalità slava meridionale in formazione colla tranquillità calma di chi è sicuro. Questa forza matura doveva attenuare anche la nervosità degl’italiani di Trieste. Italiani, prima che triestini, dovevano accettare qualunque politica estera, anche triplicistica, avesse irrobustito l’Italia. Trieste sarebbe stata più sicuramente italiana: l’irridentisimo non doveva essere una piaga debilitante della patria (p. 233).
Dal diverso modo d’intendere la nazione, e la storia, dipendeva la valutazione della «debolezza» italiana, nella quale era per altro impossibile che, sia Volpe sia Omodeo, non cogliessero la radice della tragedia di Caporetto. La «debolezza» italiana derivava, per Volpe, dalla mediocrità dell’educazione, non solo politica, ma anche e sopra tutto militare, che le classi dirigenti avevano impartita al paese, dal cinismo e dall’assenza di autentiche idealità, da tutto ciò insomma che aveva caratterizzata, per lui, la politica di Giolitti e aveva trovata la sua espressione nel neutralismo e nel pacifismo. La «debolezza» italiana non era invece, per Omodeo, una causa dalla quale far dipendere conseguenze, materialmente considerate. Ma era se mai da ritrovare (e da intendere perciò in altro modo) nell’inevitabile fragilità di una «creatura» da poco venuta al mondo e che le cose avevano investita con una violenza di troppo superiore alla sua capacità di resistere a esse. Era qualcosa che non poteva essere isolato e posto al vertice, o alla base, di una scala ascendente o discendente. Era qualcosa che, per essere inteso sul serio, richiedeva un diverso concetto e rendeva inevitabile, fra i due studiosi, lo scontro e, se si vuole, la reciproca incomprensione.
2. La storia come «arte» e l’Olocausto (Croce, Gentile, Hayden White e Carlo Ginzburg)
La questione se la storia, o storiografia, si distingua dal romanzo, o non se ne distingua, provi a distinguersene e non ci riesca, venendo nei fatti a fare tutt’uno con questo, è stata molto dibattuta negli ultimi anni. E lo è ancora. Per quanto la rivendicazione del racconto, e la riduzione della storia alla sua misura, risalgano forse, per quanto concerne gli ultimi tre decenni del passato secolo, sia a filosofi analitici come, per esempio, William B. Gallie e Arthur C. Danto, sia a filosofi, pur assai diversi fra loro, come Paul Ricoeur e Michel Foucault, o all’opera di Roland Barthes e alla Grammatologie di Jacques Derrida,1 sia a storici come, per esempio, Lawrence Stone, il documento forse più importante di questa tendenza è stato indicato nella Metahistory di Hayden White,2 e in quello che, come era inevitabile, vista l’importanza della posta in gioco, ne è seguito di discussioni, di dibattiti, di polemiche. Discussioni, dibattiti, polemiche, che hanno finito per coinvolgere anche chi, per suo conto, volentieri, forse, avrebbe fatto a meno di parteciparvi, lasciandole ai filosofi e agli storici non insensibili alla 1. Mi riferisco in particolare a W.B. Gallie, Philosophy and Historical Understanding, New York 1964, a A.C. Danto, Analitical Philosophy and History, London 1965, a R. Barthes, Le discours de l’histoire, in «Informations sur les sciences sociales», VI (1967), pp. 65-75, a J. Derrida, De la grammatologie, Paris 1967, e, per quel che concerne Foucault, non solo all’Archeologia del sapere, ma anche a Les mots et les choses, Paris 1966. 2. H. White, Metahistory. The historical Imagination in Nineteenth Century, Baltimore 1973; e si vedano i saggi, alcuni dei quali molto importanti, raccolti in The Content of the Form. Narrative Discourse and historical Representation, Baltimore 1987. Una raccolta di suoi saggi è stata ora pubblicata in italiano con il titolo Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, a cura di E. Tortarolo, Roma 2007. Il pensiero di White è stato molto discusso, e lo è ancora, nei paesi anglosassoni. Un intero fascicolo di «History and Theory» gli è stato dedicato nel 1980.
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filosofia (a quella filosofia), se non fosse stato per qualcosa di assai grave che nel frattempo era accaduto, e che nel primato accordato al linguaggio nei confronti dell’episteme poteva trovare ben più che un appiglio. Si parla, com’è ovvio, della «negazione» che, da parte di alcuni, si è fatta dell’Olocausto, ossia della «realtà» e della verità dei Lager, in cui, durante la seconda guerra mondiale, i nazisti germanici sterminarono milioni di ebrei; e del sostegno, certo involontario, che a queste tesi aberranti potrebbe venire dai nuovi teorici della narrazione. Fra le teorizzazioni storiografiche che sono state ricordate qui su e le «negazioni» dell’Olocausto non c’è, beninteso, niente di comune. Ma la prevalente importanza concessa al racconto, e, se per intanto è lecito semplificare, la riduzione della realtà al linguaggio, hanno fatto, o potrebbero far insorgere, quanto meno, il sospetto che, indebolendo il primato del «fatto», senza, si ripete, in nessun modo volerlo e proporselo, i nuovi teorici della storia abbiano dato e diano una mano ai «negazionisti: sì che può essere considerato sintomatico che, nei suoi scritti più recenti, White, per esempio, che non è un «negazionista», sia tornato spesso su quella «tragedia» senza riuscire a fugare l’impressione che, nel discuterne alla luce della sua teoria tropologica, si fosse trovato, e si trovasse, in qualche difficoltà. Per parte loro, i negatori dei campi di sterminio non la «filano», come una volta disse Niccolò Machiavelli, «così sottile». L’oggetto della loro negazione è non il «fatto», ma che un fatto realmente accaduto sia lo sterminio degli Ebrei nei campi tedeschi durante la seconda guerra mondiale. L’unica malattia che non li affligge è la raffinatezza della mente, la «sofistificazione» intellettuale; tanto che, nell’esercizio negazionistico e revisionistico, il loro predecessore potrebbe forse essere indicato in Hermann Göring che, a quel che si dice, quando, durante il processo di Norimberga, a edificazione sua e dei suoi colleghi, furono proiettati alcuni documentari girati nei campi di sterminio subito dopo la liberazione dei prigionieri superstiti, avrebbe esclamato che erano dei «falsi», costruiti dai cineasti americani. Gli storici negazionisti non mettono in dubbio la verità obiettiva delle cose e la sua raggiungibilità: dal momento che non è se non un «fatto» specifico, e cioè, a loro giudizio, un’invenzione, quel che essi negano, nell’atto, dunque, in cui «affermano» la realtà obiettiva del diverso «fatto», del fatto vero, al quale quello falso sarebbe stato sovrapposto, per perfide ragioni di propaganda, dai malvagi sionisti. In breve, persino i «negazionisti» potrebbero esser messi in difficoltà dai novelli teorici della «storia come linguaggio e come narrazione»: non meno, comunque, di quanto lo siano, o lo siano stati, quanti, per parte loro, ritengano che com-
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pito della storia (o della storiografia) sia di accertare la verità dei fatti; e ad essi potrebbe ben riconoscersi il possesso di un’anima rankiana, mentre anche li si immaginasse impegnati a fare sacrifici dinanzi all’altare della «cosa in sé», se «anima» e «cosa in sé» non fossero cose troppo serie per essere attribuite con tanta levità a personaggi come quelli. In realtà, è vero che fra «narrativismo» e «negazionismo» non si dà niente che li accomuni, e che in ogni senso diversa è la loro genesi. Ma che dalla teoria della riducibilità della storia alla narrazione non possano non esser resi inquieti quanti, essendo in qualche modo attratti dall’idea che la storia si risolva nella narrazione, non siano tuttavia disposti a transigere sulla «verità» di quel che accadde nei Lager tedeschi, è evidente, e non può essere negato. Sia pure infatti che la storia sia reale nella narrazione che se ne fa. Ma gli storici, tuttavia, sono storici. Se non «credessero» a quella, se, al di là dell’ars narrandi, non ne possedessero un’altra, relativa all’accertamento di quel che nella narrazione avesse perciò il diritto di essere accolto, come potrebbero definirsi con quel nome? Come potrebbero ritenersi scriptores rerum gestarum? Anche quando ostentino sentimenti di sufficienza, di indifferenza e, magari, di dispregio nei confronti della realtà, come si suole definirla, obiettiva, delle cose; anche quando si fossero persuasi che questa è comunque assai più complessa di quanto non sia quella immediatamente attestata dal documento, e che dal soggetto, sia che giudichi, sia che narri, affrancarla non è possibile, gli storici, tutti gli storici, avvertono, nel profondo di sé, con disagio più o meno grande, l’impossibilità di farne a meno. Di farne a meno, s’intende, nella sua forma più semplice: al di qua di ogni complicazione con cui altri si diverta, o comunque s’ingegni, a rendere più difficile quel che già di per sé non potrebbe esser detto semplice. Non solo P. Vidal-Naquet, che ha scritto Les assassins de la mémoire, e ha ricordato il wie es eigentlich gewesen di Ranke. Non solo Arnaldo Momigliano, che su questo punto sempre fece cadere l’accento, anche da giovane, quando la condivisione dell’idealismo non toglieva spazio all’idea che i «fatti» venissero «prima» dell’interpretazione, e che, per «poco filosofica»3 che fosse o la si ritenesse, alla distinzione fra questa e quelli non fosse possibile rinunziare. Ma, appunto, tutti gli storici; che non farebbero il mestiere che fanno, non scriverebbero libri che, quand’anche non fossero in grado di distinguerli dai romanzi, romanzi non sono, se, nel 3. A. Momigliano, Avvertenza a Filippo il Macedone. Saggio sulla storia greca del IV secolo a.C., Firenze 1934.
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profondo di sé stessi, non fossero disposti ad ammettere che, alla radice di ogni giudizio, alla radice di ogni narrazione, c’è un grumo ineliminabile di realtà: qualcosa che permetta di non dubitare, per fare l’esempio che piaceva a Leibniz quando ragionava delle «verità di fatto», e le distingueva da quelle di ragione, che in un certo anno Cesare varcò il Rubicone, marciò in armi alla volta di Roma e, comunque se ne giudichi, mise fine alla Repubblica e alla libertà. Al «rozzo materialismo», come Vidal-Naquet lo definì in una sua lettera a Luce Giard,4 di Robert Faurisson, del «negatore» per eccellenza dei campi di sterminio, di colui che, «in nome della realtà più tangibile, toglie realtà a tutto ciò che tocca», si può ben dire che a contrapporsi saranno sempre, prima ancora che la coscienza morale dell’umanità, testimonianze, documenti, ricordi, e che di quell’evento terribile a dubitare sarà soltanto chi abbia interesse a rinverdire le più funeste leggende relative alla grande congiura ordita dall’ebraismo internazionale contro il restante genere umano per il dominio del mondo. Eppure, se si prescindesse da questo esempio, troppo drammatico (e sono stati in molti a notarlo) perché possa parlarsene come di qualcosa da addurre in discorsi concernenti la teoria o la metodologia della storia, e a oggetto dell’esercizio gnoseologico si assumesse invece una qualsiasi altra, meno sconvolgente, realtà del passato, remoto o prossimo, sarebbe difficile non riconoscere che chi si proponesse di attingere il grado estremo della sua conoscibilità avrebbe dalla sua parte qualche buona ragione per dubitare che a questo grado potesse mai pervenirsi. Questa ragione consiste infatti, non in perverse passioni politiche, ma (e non lo si deve prendere come un paradosso) in qualcosa che in ogni teoria della conoscenza storica, anzi in ogni gnoseologia, è presente, e, pena l’eliminazione di questa, non può essere disconosciuto: in qualcosa che ha a che fare, non con lo scetticismo in ciascuna delle sue forme e nella sospensione del giudizio che conseguirebbe alla (comunque autocontraddittoria) condivisione del suo «criterio», ma con il modo stesso in cui la teoria del conoscere non può non configurare e rappresentare sé stessa. Piaccia o non piaccia, se si dice gnoseologia, si dice soggetto e poi oggetto: un soggetto che, quand’anche dichiarasse che l’oggetto gli è interno e non costituisce perciò, rispetto a lui, elemento di dualità, persino nel caso, 4. La lettera si può leggere in Michel de Certeau, a cura di L. Giard, Paris 1987, pp. 71-72. Se ne veda il passo citato, e tradotto, in C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano 2006, p. 211.
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dunque che lo assumesse come «posto» e creato da lui, persino in questo caso estremo la sua alterità di fronte e di contro all’atto creatore non potrebbe non esserne ammessa. Se si assume che il soggetto ponga un oggetto (il mondo, per esempio) come non coincidente con sé, ma come «altro», e che in questo appunto, nel dare spazio all’alterità, l’atto creatore consista, di tale atto si disconoscerebbe il carattere specifico se si asserisse che quello creato è bensì un oggetto, ma non è «altro». L’atto è creatore di un oggetto, non di sé stesso; e se, in quanto creato da lui, l’oggetto gli appartenesse senza, come si dice, alcun residuo, sarebbe allora soggetto, non oggetto, e verrebbe a non essere vero quello che si era assunto: ossia che creazione di un oggetto si ha quando, e soltanto quando, a essere creato sia, non l’atto, che creato non può essere, se crea, ma, appunto, un oggetto. Se invece si tiene fermo al punto che l’oggetto sia stato creato come «altro», e che, come «altro» sussista dinanzi al creatore, anche deve ammettersi che, nei suoi riguardi, il creatore non possa non trovarsi nella situazione di chi, dato un oggetto, per arrivare a conoscerlo provi a infrangere il confine della sua alterità e a collocarlo dentro quello della conoscenza. Al pari dello storico, anche un soggetto al quale attribuissimo la capacità di «creare» avrebbe dinanzi a sé una distanza che, sebbene, anzi, proprio perché creata da lui nell’atto della creazione dell’oggetto, è una distanza che non può eliminare e della quale deve tentare di venire a capo; come accade che si debba nei confronti di cose che ci siano estranee e richiedano perciò di essere conquistate alla nostra conoscenza. Deve, e non può. Non può in una misura che sia, e possa mai essere, pari all’ambizione gnoseologica; che in tanto si configura così, come un’ambizione, appunto, un’aspirazione, un desiderio, in quanto, a determinarla secondo questi caratteri, è la struttura inevitabilmente dualistica dell’atto conoscitivo, il suo necessario essere il soggetto di un oggetto e, perciò, il testimone di una dualità che permane e non può esser tolta. Permane perché, come il soggetto è il soggetto, altrettanto deve dirsi dell’oggetto e del suo esser tale, del suo essere oggetto. Per quanto lo si sia afferrato, penetrato, scomposto nelle sue parti, e ricomposto nella sua unità, quello resta pur sempre un oggetto, qualcosa che sta dinanzi e contro il soggetto; che molto, senza dubbio, può conoscerne, ma non, per dir così, quanto basti a farlo sparire nella conoscenza. Persino nel caso, infatti, in cui si potesse esser certi che niente più rimanesse da conoscerne, persino in questo caso, nella conoscenza che se ne avesse come di un oggetto, quello, appunto, rimarrebbe un oggetto. E con lui rimarrebbero la differenza e la distanza: con queste, ineliminabile, rimarrebbe il dubbio che qualcosa da conoscere ancora sussistesse al di là di ogni
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conseguito traguardo, di ogni oltrepassata «quinta di sabbia». Rimarrebbe il dubbio e, anzi, la certezza che, poiché sta lì, «contro», poiché l’oggetto è un Gegentand, la conoscenza che se ne abbia è essa a alimentare l’esigenza che il processo conoscitivo non abbia fine e prosegua. Non potrebbe dirsi infatti che, se vale per lo storico empirico che, incluso nel tempo e nello spazio, partecipa di questo limite insuperabile, questa considerazione non riguardi il dio creatore che, per definizione, di un limite siffatto, e di nessun altro, potrebbe mai essere predicato. Si è già visto che non è così. Se lo si intende come il creatore di un oggetto, si direbbe cosa contraria alla premessa, se si assumesse che quello creato non possedesse il carattere che a un oggetto compete di necessità in quanto sia un oggetto e sia contrapposto a un soggetto. Se la distanza non esistesse per il creatore, se non esistesse perciò l’alterità dell’oggetto, non sarebbe vero quel che si assume: e cioè che, creando, Dio ha creato, non il suo eterno sé stesso, che creato non potrebbe mai essere, ma il mondo; che deve essergli diverso, se, pur essendo stato creato da lui, quello è il mondo, e non Dio. Se l’atto creatore è lui a porre differenze e a stabilire distanze, se queste differenze e distanze necessariamente gli sono esterne tanto quanto lo è l’oggetto, fra Dio e mondo, come fra lo storico e il suo oggetto, a delinearsi non può, come si è detto, non essere una terra di nessuno che, mentre rivela il fascino dell’impresa, non riesce a vincere il rischio, se non dello scetticismo, dell’incompiutezza, dell’imperfezione e della sconfitta che questa infligge alla pretesa che si fosse nutrita di cogliere la realtà per quel che è fin nel suo ultimo significato. Insomma il rischio dell’incompiutezza e dell’imperfezione non può essere vinto tanto che queste non risorgano, di tempo in tempo, dalle loro stesse ceneri. La sua radice, deve ribadirsi, è infatti nella stessa gnoseologia che, in quanto presuppone un soggetto e un oggetto, e, per dir così, si colloca fra l’uno e l’altro, pone una differenza e stabilisce una distanza che, poiché esigono l’esercizio ermeneutico in tutte le sue forme, proprio per questo rivelano di non poterne esserne annullate. Su questo punto, dovrebbe insistersi perché la posta in gioco è molto alta. Riguarda il fatto, il significato del fatto e la mente che li indaga come altrettanti oggetti, che sfuggono alla sua presa nel momento stesso in cui ne sono afferrati. Riguarda anche, e in primo luogo, la verità, che non può non esser detta in due modi non coincidenti e non esser presa in due accezioni diverse. Non è infatti la stessa verità quella che lo storico indaga, persegue e poco alla volta dispone nella forma della sua propria completezza, e l’altra che, lungi dal poter essere indagata e posta perciò nella posizione di un qualsiasi oggetto, coincide invece con sé stessa e
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con il suo non essere l’opposto di sé stessa. Altra la verità, che si ricerca, che si deve ricercare, e che si raggiunge senza esser mai sicuri, tuttavia, di averla raggiunta e di averne colto l’ultimo aspetto. Altra la verità che appartiene a sé stessa, e che non è, né può essere, oggetto di indagine, perché, se lo fosse, non sarebbe appunto se non un oggetto e, se fosse un oggetto, non sarebbe allora la verità. E questo è il punto che dev’essere individuato e tenuto fermo; con la consapevolezza, per altro, che l’alternativa in cui le due verità sono poste non le oppone l’una all’altra e non le ricomprende in una dimensione unitaria, come, per usare il linguaggio leibniziano, avviene per le verità di ragione che si distinguono bensì da quelle di fatto, ma all’interno tuttavia del medesimo orizzonte logico. Al senso che deve darsi a questa alternativa, e alle ragioni per le quali è impossibile considerarla così, varia attenzione è stata dedicata in altre sedi,5 alle quali il lettore che fosse interessato a questo genere di discorsi, e al perché di quell’ἀδύνατον, potrebbe rivolgersi per appagare qualche sua curiosità. Qui, per altro, deve tenersi fermo al punto che la verità che, in sé stessa, è negazione dell’errore, come l’essere lo è del non essere, non è quella che, non diversi in questo dagli indagatori della natura, gli storici ricercano, ricostruiscono sul fondamento di prove e poi raccontano. Questa, lo si è detto, si presenta nella forma di un oggetto, che deve essere indagato, penetrato, capito nelle sue interne dimensioni e strutture; e che, tuttavia resta un oggetto e sta lì, rispetto a chi lo indaga mantiene la sua distanza anche quando grande sia il grado della comprensione che ne sia stata raggiunta. Resta un oggetto, con un suo «in sé» che, proprio perché è tale, fa sì che non possa non essere empirica la conoscenza che si riesca a conseguirne. In un caso, dunque, si ha a che fare con la filosofia, nell’altro con l’ermeneutica della realtà che accade con le domande che le si rivolgono. In un caso, con la filosofia, la quale coincide con il senso stesso della verità, e, come questa non è un oggetto, così quella, la filosofia, non si atteggia nelle forme, sempre di necessità empiriche, del conoscere. In un altro con la teoria del conoscere, che sempre dispone sé stessa in forme empiriche e può, per questo, assumere il volto di un’ermeneutica. Se è così, deve riconoscersi che, per il modo stesso in cui è congegnata, la teoria del conoscere, l’orgogliosa gnoseologia, non appartiene all’area della verità, e non è, si ripete, che una «scienza» empirica. E questa è, senza dubbio, una dichiarazione impegnativa, che, detta così, rischia di assumere il sembiante del paradosso: una 5. Ne ho trattato in particolar modo ne La verità, l’opinione, Bologna 1999, ne Il principio, le cose, Torino 2005, e ne Il logo, la morte, Napoli 2010.
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dichiarazione che non sarebbe stata perciò proposta in questa forma se, in un’altra sede, non avesse ricevuto il sostegno di più compiuti argomenti. Se, per altro, si riuscisse nell’impresa di non lasciarsene scandalizzare, apparirà chiaro che, se «la verità che appartiene a sé stessa» non ha a che fare con quella di cui si parla in storiografia e, in genere, nel mondo, a questa si può bensì accedere in modo imperfetto, e perciò perfettibile: senza che questa asserzione possa essere invocata se non per confermare quel che dovrebbe essere ovvio; e cioè che il possesso del fatto e del suo significato non è mai così pieno da non richiedere che si lavori per possederlo meglio, in vista di ulteriori indagini relative alla sua «realtà». In un saggio del 1992, Unus testis. Lo sterminio degli ebrei e il principio di realtà,6 Carlo Ginzburg ha ricordato, insieme a varie altre, la questione alla quale si è accennato. Con molta intelligenza e dottrina vi ha proposte varie connessioni, che converrà il più brevemente possibile, discutere, perché in effetti richiedono di esserlo. Una in particolare: quella che, in re, e quindi nell’interpretazione che egli ne dà, concerne il rapporto di Hayden White con Croce, e anche con Gentile. Non, beninteso, che questa connessione, con il primo e, forse indirettamente, anche con il secondo, non sia stata affermata con buone ragioni; che sono tali, per altro, più in relazione a White e alle sue soggettive, iniziali, convinzioni, che non a Croce e, sopra tutto, a Gentile. La traduzione che lo studioso americano pubblicò nel 1959 dei saggi che, nel 1940, Carlo Antoni aveva raccolti in Dallo storicismo alla sociologia, costituisce, senza dubbio, la prova di un interesse per i temi dell’idealismo, e dello storicismo crociano nella sua netta differenza da quello tedesco, che non poteva non presupporre la previa conoscenza di quelli e l’interesse che avevano suscitato in lui. Occorre tener conto, tuttavia, di un elemento, che non è, e non potrebbe esser considerato come, soltanto estrinseco, perché riguarda il modo in cui i documenti filosofici dell’idealismo erano stati interpretati da lui. I sei saggi che, avendoli composti nel corso degli anni trenta, Antoni aveva raccolti in quel volume, riguardavano, con l’eccezione di Huizinga, autori tedeschi o (Woelfflin) di lingua tedesca, ai quali Croce costituiva l’alternativa teorica, l’angolo visuale da cui quelli erano giudicati e, talvolta, «mandati». Salvo che questa alternativa era costituita dalla teoria della storia elaborata nella Logica del 1909, riesposta nella Teoria e storia della storiografia (1915/1917), approfondita (se si vuole) nel libro su La 6. Lo si veda in Ginzburg, Il filo e le tracce, pp. 205-224.
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storia come pensiero e come azione (1936/1938); non certo dalla lontana teorizzazione che nel 1893, quando era giovane, era stata da lui delineata ne La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, ossia nel saggio al quale, nel 1959, White attribuiva invece tanta importanza da fare di colui che l’aveva scritto il precursore del pensiero con il quale egli guardava alle questioni della storia. Di quel saggio, giudicandolo «superato» dalla forma matura della Logica del 1909 e quindi dalla Teoria e storia della storiografia, nel suo libro Antoni non faceva alcun conto. White invece ne era stato colpito al punto di giudicarlo «rivoluzionario». Ma, a questo riguardo, su due punti occorre intendersi. In primo luogo, deve decidersi se, leggendolo nella prospettiva tropologica che era intento a elaborare, White avesse interpretato in modo adeguato l’impianto categoriale all’interno del quale Croce aveva esposta la sua tesi del 1893, o se, non essendo riuscito a coglierne il punto problematico, fosse invece rimasto nell’estrinseco; se avesse visto giusto quando, anche nel periodo in cui l’entusiasmo per quello scritto si era alquanto attenuato, tendeva a ricondurlo per intero entro l’orizzonte linguistico che per lui costituiva l’ambito specifico della storiografia; se infine il linguaggio significasse per lui allo stesso modo che per l’autore della memoria sulla storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. In secondo luogo, deve decidersi se Ginzburg avesse ragione quando interpretava sia il pensiero esposto da Croce nel saggio del 1893, sia il pensiero di White, in termini di «soggettivismo» storiografico, e lasciava perciò intendere che il filosofo italiano fosse stato, sotto quel riguardo, bene interpretato dal pensatore statunitense. Altro infatti era, ed è, riconoscere in Whitye la presenza di temi idealistici e crociani. Altro era, ed è, supporre che idealismo significasse, in Croce, e più ancora in Gentile, «soggettivismo», meno radicale nel primo, più radicale nel secondo. Per quel che concerne il primo punto, si può dire che quando, dopo averla, nel 1959, definita «rivoluzionaria»,7 di molto attenuando il suo entusiasmo di un tempo White tornò sulla «memoria» giovanile di Croce, ne dette bensì un’esposizione fedele. Ma non ne colse tuttavia il tratto essenziale, quello che gli avrebbe altrimenti consentito di comprendere perché, in quel testo agissero già, in forma implicita, le ragioni che, a misura che la «filosofia dello spirito» veniva definendo il suo carattere, avrebbero condotto al capovolgimento della tesi che vi era stata sostenuta. Il che avvenne, nella Logica del 7. H. White, On History and Historicism, in C. Antoni, From History to Sociology, Detroit 1959, pp. xxv-xxvi.
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1909, attraverso la riforma della teoria del giudizio che era stata delineata nei Lineamenti del 1905 e che ancora era presente, per certi aspetti, nella Filosofia della pratica del 1908. E White non se ne accorse: non solo per la scarsa attenzione da lui dedicata, in generale, alle questioni strutturali del pensiero crociano, interpretato, in Metahistory, in modo fra il rapsodico e l’impressionistico; non solo per la presunzione, che è di certi storici delle idee, di poter cogliere i significati ultimi senza passare attraverso le asperità dei concetti. Ma anche per la circostanza, tanto curiosa quanto (salvo errore) non rilevata, che, per White, la Logica è bensì, nella Bibliografia8 che chiude il volume, quella del 1909, ma è nel testo la precedente e, in alcuni punti essenziali, assai diversa, del 1905:9 sì che, per non aver prestata attenzione al passaggio concettuale dalla prima alla seconda, e alle sue ragioni, il quadro complessivo risultò sfocato, fatto di concetti piuttosto giustapposti che non mediati, e l’aspetto autenticamente problematico dello «storicismo» crociano, che consiste, a parere di chi scrive, nel non poter essere uno «storicismo», gli sfuggì per intero. Che, nell’interpretazione del saggio del 1893 White non fosse andato abbastanza a fondo, risulta, fra l’altro, dalla pagina di Metahistory in cui, come si potrebbe dire in breve, Croce fu da lui criticato per avere, non ridotto la «rappresentazione» alla «narrazione», ma per avere interpretata questa alla luce di quella, rendendola correlativa a una specifica e unitaria idea della realtà: a tal punto che il suo concetto dell’arte «isolated the historian as artist from the most recent – and increasingly dominant – advances made in representing the different levels of consciousness by the Symbolists and post-Impressionists all over Europe».10 Osservazione curiosa in effetti, ma rivelativa, perché lasciava intendere che White ritenesse possibile, anzi necessario, quel che, già nel 1893, per Croce non lo era affatto: e cioè che, lasciandosene modificare, l’idea dell’arte dovesse e potesse accogliere in sé quel che intanto avveniva nelle concrete opere di questo o quell’artista, poeta letterato o pittore che fosse. Tanto più, potrebbe aggiungersi, questa osservazione avrebbe dovuto apparire sconcertante in quanto, nella stessa pagina, White ne formulava un’altra, di segno completamente opposto. Scriveva infatti che era difficile non pensare che la «rivoluzione» compiuta da Croce «in 8. White, Metahistory, p. 436, dov’è citata la terza edizione (1917). 9. Ibidem, p. 378. Aggiungo che, nel capitolo in questione, si incontrano citazioni dalla Logica e dai Lineamenti: sì che particolarmente sfocati appaiono i rifermenti alla Teoria e storia della storiografia. 10. White, Metahistory, p. 385.
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historical sensibility» fosse stata in realtà una «retrogression», dal momento che «its effect was to sever historiography from any participation in effort […] to construct a general science of society». Osservazioni contrastanti, relative a due diverse istanze critiche, combinate insieme nel segno di un tal quale eclettismo. Ma rivelative del modo piuttosto strumentale, che non sul serio critico, tenuto da White nella lettura della «memoria» crociana; della quale esponeva bensì i concetti, ma, come si è detto, senza guardarvi dentro per cogliervi, in profondità, il punto problematico e, in questo, la ragione dalla quale il suo autore fu, negli anni successivi, indotto a corrodere la sua tesi fino al rovesciamento del 1909. Nella sua ricostruzione, White ragionò sulle «fonti» che allora avevano agito nel pensiero del giovane Croce. Citò Windelband e la distinzione fra scienze idiografiche e scienze nomotetiche, Dilthey e quella tra le Geisteswissenschaften e le Naturwissenschaften; e fece consistere il proprium della tesi di Croce nell’interpretazione, in chiave estetica e non scientifica, delle prime, delle scienze dello spirito. Ma non considerò con sufficiente attenzione, o non considerò affatto, la forte tendenza, se non l’istinto, categoriale che già allora si rivelava in quell’esordio filosofico; e che era una forma di kantismo, sì che era a un «soggetto», perciò, non soggettivo perché categorialmente costituito, che Croce si ispirava nella sua istanza costruttiva. La conoscenza che allora egli aveva di Kant, e della prima Critica, era quale poteva essere quella che un giovane studioso, non professionalmente dedito agli studi filosofici, si era procurata, oltre che di prima mano, attraverso le letture di Dilthey, di Windelband, di Simmel, di Lazarus, di Eduard von Hartmann, di Schopenhauer, e anche, deve aggiungersi, di Droysen. La categoria all’interno della quale, con la sua logica di allora, Croce individuava il posto della storia, facendone la specie di un genere, era quella della «rappresentazione», ossia, come in seguito l’avrebbe definita, dell’intuizione. E sia pure che il relativo concetto gli servisse per affermare l’individualità delle cose, rivendicata di contro all’astratta oggettività delineata dalla «scienza» positivistica. La rivendicazione andava tuttavia nel senso, non dell’interna mutevolezza soggettiva, quasi che potesse dirsi che, senza coincidere con sé, la «rappresentazione» si risolvesse nelle infinite rappresentazioni che, con il loro stesso essere, i soggetti proiettano al di fuori di sé, intessendone così la varia trama del mondo. Ma nel senso, al contrario, dell’identità strutturale nella quale ogni rappresentazione riconosce il suo immutabile carattere. Essendo tante, le arti non erano, tuttavia, se non l’arte. Essendo tante e diverse, le storie non erano se non la storia. La quale riguardava dunque non le contrapposte realtà
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degli individui empirici, ma l’individualità delle opere assumibili nel suo segno, e fra queste le stesse narrazioni storiche; che dalle opere di pura fantasia non si distinguevano se non perché il loro contenuto era stato accertato con i metodi indicati, per esempio, da Bernheim nel suo Lehrbuch. Ed era come si sa, non il possibile, ma il realmente accaduto. Fortissima fin dall’inizio, fu dunque, nella nascente riflessione filosofica di Croce, quella che potrebbe essere definita la disposizione categoriale: quella stessa che si riscontrerà al fondo delle sue riflessioni di cinque o sei anni più tardi sull’economia e il marxismo, e che, con infastidita, dolorosa sorpresa, Labriola si trovò di fronte quando lesse le Tesi fondamentali e poi il libro consacrato all’Estetica.11 Se è così, non, genericamente, di esteticità, e di soggettivismo, deve parlarsi a proposito di queste prime, incerte, riflessioni sulla storia, e sull’arte che la include nel suo concetto. Ma, come si è detto, di disposizione strutturale, o, meglio, categoriale. Sul che non dovrebbe cadere alcun dubbio, almeno quando si tenesse presente che Croce non avrebbe potuto orientare il suo discorso nel senso della distinzione dell’arte/storia dalla filosofia/scienza se a queste realtà non avesse riconosciuta innanzi tutto la capacità di consistere in sé stesse nella fermezza, strutturale, appunto, e categoriale, del loro essere. E nessun dubbio, del pari, dovrebbe cadere sulla natura del fine che Croce si era proposto scrivendo quel saggio. Che, in effetti, fu bensì diretto contro la pretesa positivistica che la storia fosse ascrivibile alla scienza della natura, e avesse a che fare con leggi e con tipi, invece che con «individui»: senza per altro che, per le ragioni che si sono dette, alla considerazione del particolare in quanto particolare egli facesse alcuna concessione, perché riteneva che, in tanto si potesse definirlo così, in quanto pur sempre sotto il segno di una categoria lo si assumeva. Dove lo scienziato positivista, e con lui il filosofo che nella scienza e nelle sue leggi indicava il modello della filosofia, avevano l’occhio alla regolare uniformità dei fenomeni, nella storia egli indicava l’individuale, non però l’estemporaneo e il rapsodico. Indicava, a guardar bene, una diversa regolarità, ma regolarità: quella dello spirito che, attraverso la categoria dell’arte, e la narrazione in cui trovava la sua espressione, elaborava sé stesso come libertà da quelle leggi e, in questo senso, come spontaneità: strutturata, tuttavia, non rapsodica e eslege. 11. A. Labriola a B. Croce, 3 e 5 giugno 1900, 2 gennaio 1904, in A. Labriola, Carteggio, V, 1899-1904, a cura di S. Miccolis, Napoli 2006, pp. 139-40, 341-43.
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Nel leggere il saggio del 1893 occorre perciò fare attenzione; e non lasciarsi sfuggire il punto che, al di là dell’astratta contrapposizione di soggettivismo e realismo, si rivela, per l’intelligenza autentica di quel che allora Croce aveva in mente, come sul serio essenziale. Quel punto consisteva, non tanto nella contrapposizione di soggettivismo e realismo, ma, come anche White fu a un certo punto costretto a constatare, nel concetto della «rappresentazione»; che, consentendo di restare, senza scetticismi, sul terreno della conoscenza, offriva un criterio ritenuto idoneo a far intendere come e perché «verità» fosse, non soltanto quella della scienza, alla quale la filosofia era allora considerata identica, o nella quale, se si preferisce, si risolveva, ma anche l’altra che pur si conseguiva nella rappresentazione/narrazione dell’accaduto. Al di là di ogni specifica incertezza concettuale e argomentativa, un punto, per Croce, era fuori discussione; e cioè che due erano le forme della conoscenza. Due, e di pari dignità, perché entrambe appartenenti allo spirito umano; che, «innanzi a un oggetto qualsiasi – a un personaggio, a un’azione, a un avvenimento», non avrebbe infatti potuto compiere se non «queste due operazioni conoscitive». O «domandarsi: che cosa è?», e «raffigurarsi quell’oggetto nella sua concretezza». O «voler intenderlo, o semplicemente contemplarlo». E, insomma, o «sottometterlo a un’elaborazione scientifica, ovvero a quella che si suol chiamare elaborazione artistica». Sì che, «o si fa scienza, o si fa arte. Sempre che si assume il particolare sotto il generale, si fa scienza; sempre che si rappresenta il particolare come tale, si fa arte».12 Poiché l’arte era conoscenza di individui, e non, si badi, un individuo che cerca di conoscere un individuo; poiché era, o si avviava a essere, una forma costitutiva della realtà, la questione che le stava dentro era destinata a manifestarsi nella sua gravità quando, per esempio, si fosse chiesto quale rapporto, perché era a un rapporto che per quella via si dava forma, potesse e dovesse sussistere fra l’individualità della categoria che, di per sé non poteva non avere il carattere della immutabilità, e i «fatti», i concreti e molteplici «individui», che con il criterio offerto da quella avrebbero, di volta in volta, costituito l’oggetto della rappresentazione/narrazione. Sebbene questioni di questa natura restassero nascoste, in quell’esordio filosofico, nelle proposizioni che le chiudevano in sé e non le rivelavano a quello stesso che le formulava, che tuttavia vi stessero dentro è innegabile: con la conseguenza che il punto critico della questione non consisteva in 12. B. Croce, La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, in Primi saggi, Bari 1927, p. 23.
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quel che tanto spesso si disse durante il dibattito13 nel quale, contribuendo ad alimentarlo, la «memoria» crociana si era inserita: e cioè che, con quella «riduzione», il suo autore avesse inferto un colpo mortale alla serietà scientifica, nonché alla razionalità, della conoscenza, perché la storia era stata messa nelle mani irresponsabili degli artisti. Se si guarda bene, e cioè leggendo le proposizioni crociane per quel che in quel testo erano, ma guardandovi dentro, tuttavia, per trovarvi quel che richiedeva di essere proseguito in ulteriori concetti, la questione che vi restava irrisolta e la difficoltà che ne conseguiva si rivelavano piuttosto nella giustapposizione, a cui Croce dava luogo, di due temi diversi. Da una parte, a prender forma, nel suo scritto, e a delinearsi, era una categoria dello spirito: non, come già s’è detto, un qualsiasi punto di vista soggettivo, ma una struttura, contrassegnata dal carattere della permanenza, della necessità e dunque, rispetto a ciò alla cui nascita pur presiedeva, dell’oggettività. Da un’altra, a sussistere nella loro positiva natura erano i «fatti». Che certo, in tanto avrebbero costituito la sostanza della storia, e dato luogo alla storiografia, in quanto fossero stati «narrati»; «la storia ha un solo ufficio: narrare fatti»: «la storia narra». Ma non prima, per altro, che questi fossero stati «raccolti e mostrati quali» erano «realmente accaduti»; non prima, inoltre che li si fosse «ricondotti alle loro cause»14 invece di essere «esposti» in modo estrinseco, come accade a chi li guardi con occhio inesperto. Dove, se ci si fa attenzione, a giustapporsi non erano, in effetti, se non i due concetti che, in quello scorcio di secolo, si erano affrontati e ancora si affrontavano nella disputa concernente il carattere scientifico o artistico della storia. In che altro, infatti, consisteva il così detto carattere scientifico di quest’ultima se non nel ricondurre i fatti accaduti alle cause che, come si diceva, li avevano prodotti, e perciò nell’assumere come fondamentale criterio quello della gnoseologia positivistica? Fra Croce, che nel «narrare» indicava il carattere specifico per il quale la storia era irriducibile alla scienza, e quanti a questa intendevano che dovesse invece esserne ispirato il criterio, il punto serio della distinzione stava, non nel rifiuto di questo che, permanendo come il presupposto ineliminabile del narrare, come il momento della ricerca e dell’accertamento, non pativa di alcuna menomazione e stava, anche per il teorico della storia come arte, ben saldo sul suo trono filologico. Ma stava bensì in quel suo concetto gno13. E anche dopo, per la verità: cfr., per es., G. Lukács, La distruzione della ragione, tr. it., Torino 1959, pp. 19-20. 14. Croce, La storia ridotta, pp. 18-19.
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seologico della «rappresentazione» che al fatto accertato, e in quanto tale, semplicemente descritto, avrebbe conferito la sua specifica verità di fatto individuale. Stava perciò, se ci si pensa, nel rifiuto, non già delle opere di storia scritte con i criteri elaborati dalla «scuola storica», ossia di opere che, anch’esse, si attenevano, per lo più, al metodo, oltre che dell’accertamento, della narrazione, ma della tendenza piuttosto che fosse insorta ad atteggiare quest’ultima nella forma della «filosofia della storia», e cioè della subordinazione dei fatti, e dell’individualità dei fatti, a leggi obiettive, determinanti ex origine, secondo necessità, il corso della storia. Se, quando scriveva quel saggio e cercava di trovare la sua strada filosofica, a Croce si fosse chiesto perché, convinto com’era che la filosofia consistesse nel ricondurre l’individuale sotto il «generale» e sotto, perciò, la legge, egli rifiutasse tuttavia la filosofia della storia, forse avrebbe risposto che altro è l’individuazione di una legge, o, per meglio dire, di una, di volta in volta specifica, legalità causale dell’accadere, altro è la teleologia. Avrebbe, con qualche anno di anticipo, delineata una distinzione sulla quale gli sarebbe accaduto di insistere nel corso dei suoi studi sul materialismo storico, nella libera conversazione intrecciata con Antonio Labriola e anche con Giovanni Gentile, quando all’idea del marxismo inteso come «filosofia della storia» contrappose quella, la sua, che vi vedeva un canone empirico per l’interpretazione dell’accaduto. Fissato questo punto, non tutto, per altro, sarebbe apparso chiaro. Se ci si fa attenzione, e il saggio del 1893 sia letto controluce, non solo in quel che colloca in primo piano, ma anche in ciò che tiene celato, non dovrebbe sfuggire il punto che vi si rivela essenziale, e che non sembra sia stato colto. Il comprendere e lo spiegare per causas, che Croce lasciava sussistere sullo sfondo, e non mancava tuttavia di far emergere in parole esplicite («quando si dice narrare fatti, s’intende altresì che i fatti debbono essere esattamente raccolti e mostrati quali sono realmente accaduti, ossia ricondotti alle loro cause e non già esposti come estrinsecamente appaiono all’occhio inesperto»),15 delineava un momento che, per un verso apparteneva alla categoria dell’arte alla quale la storia si «riduceva», ma per un altro era impossibile che vi fosse contenuto.16 Ricondurre alle cause non era impresa che potesse essere 15. Ibidem. 16. Che, in questo punto, lo scritto del ’92 lasciasse trasparire il volto della tesi che vi era combattuta, è evidente. E può ricordarsi, a questo riguardo, quel che Croce confidò, in un’intervista da lui rilasciata a Luigi Ambrosini che la pubblicò nel «Marzocco» dell’11 ottobre 1908, e cioè che, avendo preparata e mandata in tipografia una memoria nella quale, in sostanziale accordo con Pasquale Villari, sosteneva che la storia era scienza, non s ne sentiva
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considerata compatibile con il rappresentare narrando. Implicava infatti il ricorso a un criterio che, palesemente, aveva a che fare con il metodo della scienza, alla quale, per questo aspetto, assai più che non all’arte, la storia finiva col mostrarsi affine. E la conseguenza era che la categoria dell’arte sotto la quale la storia era stata «ridotta» si mostrava, per un verso, troppo stretta per poter ospitare quel che palesemente andava oltre il suo confine; e, per un altro, troppo larga, ossia tale che a esserne messa in crisi era proprio la sua specificità categoriale. Si determinava infatti, in questo luogo problematico del saggio giovanile di Croce, un curioso paradosso. Per rendere plausibile la «riduzione» della storia sotto la categoria generale dell’arte, occorreva che, con Aristotele, ma anche con Leibniz, il possibile fosse considerato come più esteso del reale, e in grado perciò di accoglierlo come il genere accoglie e include la specie. Ma, in quanto conoscenza del reale accaduto, al di qua della narrazione la storia implicava un metodo che andava oltre il piano specifico dell’arte, perché apparteneva alla scienza. Secondo la definizione che Croce ne dava, la storia era inclusa nella categoria dell’arte. Ma nella realtà del suo pensiero era la categoria dell’arte che, dilatandosi, veniva essa a essere inclusa in ambito ulteriore, che non era, tout court, il suo, non era quello dell’arte, perché, oltre che da questa, anche dalla scienza era costituito. Se si guarda a fondo, e, al di là delle parole che definiscono, si cerca il contatto con il pensiero, che non necessariamente ne era espresso, si coglie qui la ragione per la quale era impossibile che in quella tesi Croce permanesse a lungo. Quando nella Postilla che, nella seconda edizione della Logica, aggiunse al capitolo dedicato all’identità della storia e della filosofia,17 Croce indicò nella intuitività del «soggetto» l’elemento di continuità fra il suo pensiero di ieri e quello al quale era infine approdato, non disse tutto quel che avrebbe dovuto. E cioè che già nella trama meno evidente, e più nascosta, del saggio del 1893 era percepibile la crisi della tesi che vi era sostenuta. Di tutto questo, in cui sta per altro il significato di quella giovanile scrittura, non sembra (ma lo si vedrà meglio in seguito) che si siano resi conto tuttavia soddisfatto: finché all’improvviso gli «scoppiò nella mente la soluzione nuova del problema, in un lampo di luce. La storia non può essere scienza, ma dev’essere arte ». «Corsi in tipografia. Scomponete: Era tutto il mio passato che scomponevo» (Pagine sparse, I, Bari 1960, p. 275). A questo episodio, che non fu menzionato nel Contributo alla critica di me stesso (1915), ci si può riferire come al documento comprovante l’estrema vicinanza temporale delle due tesi, e quindi la possibilità che la prima lasciasse il suo segno nella seconda. 17. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari 1920, pp. 210-11.
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coloro che, a distanza di decenni, l’hanno riscoperta, indicandovi una sorta di archetipo dei loro nuovi pensieri e decretandone una sorta di postuma fortuna.18 Ciascuno, beninteso, può trarre ispirazione donde più gli aggrada; e sarebbe pedanteria negargli questo diritto. Ma sarebbe senza dubbio in errore chi ritenesse che, nello scrivere il saggio sulla storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, Croce fosse stato animato dal proposito di combattere la battaglia antipositivistica, nella quale per certo si sentiva impegnato, sostituendo il soggetto all’oggetto e interpretando i «fatti» come reali solo nel vivo della narrazione che ne veniva fatta. In realtà, deve dirsi il contrario. Non solo, come si è visto, il momento positivistico dell’accertamento e, addirittura, dell’individuazione delle cause,19 era presente e operante nella sua mente insieme a quello rankiano della narrazione di ciò che propriamente era accaduto. Ma, contro le letture impressionistiche di questo scritto, deve ribadirsi che a garantire realtà e sicurezza al racconto era, secondo la sua opinione di allora, proprio la presenza, alla radice del «fare storia», dell’idea della «rappresentazione», ossia del concetto categoriale20 dell’arte, nel cui interno la storia e la storiografia trovavano la loro dimensione obiettiva; che, se era diversa da quella generalizzante della scienza e della filosofia, che allora era da lui intesa come la stessa cosa di quella e altrettanto perciò generalizzante, non avrebbe invece potuto esser mai confusa con una forma qualsiasi di soggettivismo narrativo. E qui, a costo di riuscire pedanti, la necessità di un chiarimento si impone. Con tanta insistenza, e così a lungo, in tempi recenti, si è parlato di soggettivismo e di idealismo21 come se fossero stati e fossero la stessa cosa, e l’asserzione del primo di necessità recasse con sé quella del secondo in una delle sue molte forme; con tanta energia e autentica forza d’intimidazione, non solo si è divulgata la leggenda del nesso fatale di quei due termini, ma anche si è fatta menzione dell’altro che per fermo si riteneva che ne conseguisse, e cioè dell’irrazionalismo e delle sue varie e tristi «figure», che non si è considerato che il primo a respingere il plauso che White tributava al suo saggio «rivoluzionario» del 1893 sarebbe stato proprio Croce. E, a guardar 18. Potrebbe essere interessante ricostruire la storia della fortuna, e anche della sfortuna, di questo saggio crociano nel pensiero degli ultimi decenni. Non mi risulta infatti che sia stata scritta. 19. Croce, Primi saggi, pp. 39-40. 20. Ibidem, p. 14. 21. Come un esempio di irrazionalismo soggettivistico fu interpretato, per esempio, il saggio crociano del 1893 da G. Lukács: cfr. qui su n. 13.
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bene, nel nome, non della disposizione realistica che, come spesso si è ripetuto, e si ripete, differenziandolo fortemente da quello della tradizione spaventiana e gentiliana, aveva reso atipico il suo idealismo, ma proprio di questo, dell’idealismo. Che, certo, per essere stato elaborato da un pensatore che, oltre quello filosofico, possedeva vari talenti e li esprimeva in forme diverse, aveva il suo particolare carattere, segnato, nel fondo, più da Kant che non da Hegel. Ma era idealismo, tuttavia, e proprio perché lo era, preservava il suo autore da ogni forma di banale soggettivismo, relativismo e scetticismo. Il che, se fosse stato meglio capito, avrebbe impedito che a quel suo saggio giovanile si guardasse come a una sorta di archetipo della teoria whitiana dei tropi o del ritorno alla «narrazione», assicurandogli, come si è detto, una fama (postuma) fondata, in sostanza, su un equivoco.22 In quale pagina di quel saggio si potrebbe trovare qualcosa di paragonabile alla tesi, o a una delle tesi, di White, secondo cui compito della storia è non tanto di narrare il vero (questo è un antefatto), quanto piuttosto di «persuadere» qualcuno di qualcosa, e, insomma, di riuscire «efficaci»?23 Se lo si legge con l’occhio rivolto a quel che propriamente vi si trova,24 a varie considerazioni si potrebbe, in aggiunta a quelle già svolte, darsi seguito. Quali che fossero gli autori che fino a quell’anno aveva letti, e che in qualche modo, mentre in superficie il suo tempo si consumava in ricerche di minuta erudizione, contribuivano, nel profondo, a orientare il suo pensiero; fossero, oltre e in aggiunta a quelli già citati (Herbart, Rickert, Windeband, Simmel, Schopenhauer), il Labriola «antipositivista ed antievoluzionista e acuto concettualista»,25 herbartiano e non ancora marxista, da lui conosciuto e frequentato nelle aule dell’Università di Roma, e, prima ancora Francesco de Sanctis, il saggio che, con improvvisa decisione, egli scrisse nel 1893, dovette, anche per lui, essere come una rivelazione. Vi prese infatti la sua prima forma quella che qui su è stata definita la sua net22. La storia della postuma fortuna di questo saggio crociano meriterebbe di essere ricostruita; e costituirebbe un capitolo di quella, assai più ampia, concernente la fortuna, e, sopra tutto, la sfortuna del suo pensiero. 23. H. White, The Politics of historical Interpretation (1982), in The Content of the Form, Baltimore 1987, p. 80; e cfr. il commento di Ginzburg, Il filo e le tracce, pp. 220-221. 24. Sul significato di questo saggio, che all’improvviso accese la luce filosofica nella sua mente, ma non tanto che, poco dopo, quella tendesse di nuovo a spegnersi, cfr. quel che Croce scrisse nel Contributo alla critica di me stesso, Bari 1926, pp. 32-33. 25. Croce, Primi saggi, p. x.
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ta disposizione categoriale; e perciò, in questo senso, idealistica, segnata dalla convinzione che la fermezza del mondo e il criterio per entrare, senza disperdervisi, nella sua molteplicità, non si darebbero senza la fermezza di fondamentali e inalterabili categorie conoscitive, che erano allora l’arte e la scienza/filosofia. Categorie delineate in modo sommario: con una nettezza, tuttavia, tanto più sorprendente quanto minore, appunto, fosse la perizia filosofica con la quale in quei mesi del ’93 Croce ne approfondiva l’analisi; e con quell’ansia di pervenire al punto essenziale, di conquistarlo, di possederlo, e di farsene in qualche modo guidare e rassicurare, che, nell’ambito psicologico prima ancora che teoretico, costituì, sempre, uno dei tratti suoi più caratteristici. Categorie, si è detto, delineate in forma sommaria, e con l’ansia di pervenire alla mèta. Ma, si ripete, categorie, criteri assoluti che, profondamente rielaborati, avrebbero costituito il tema conduttore di tutta la sua indagine successiva. A cominciare, si può dire, da un tema, quello dell’economico, che ben presto a Croce s’impose mentre studiava Marx e affrontava, non, come poi Gentile, le Glosse a Feuerbach, ma Il capitale; e che non sarebbe stato individuato e messo al centro del suo interesse se, appunto, al pari dell’arte e della scienza/filosofia, l’economia non gli fosse apparsa come la dimensione fondamentale della prassi umana, e, nelle grandi linee, con quelle tre, appunto, dimensioni, il suo idealismo non fosse venuto al mondo nella forma di una «filosofia dello spirito». Si dice per solito, e lo si ripete come cosa ovvia, che, se non fosse stato per la presenza nella sua vita intellettuale di Giovanni Gentile, e dell’influsso che questo giovane allievo degli allievi di Bertrando Spaventa esercitò su di lui, all’idealismo Croce non sarebbe approdato. Ma, e non certo perché lo scopo sia la rivendicazione retorica di autonomie e originalità, che, nel campo del pensiero, non avrebbe alcun senso, deve osservarsi che, presentata così, questa è una leggenda. È una tesi che, atteggiandosi nella forma della serietà filosofica e storiografica, tiene in realtà intrecciati in sé due fondamentali pregiudizi di scuola: da una parte, quello del primato di Gentile e della guida filosofica da lui offerta al suo meno giovane amico, da un’altra, l’altro, di segno opposto, della resistenza che, nel segno e nel nome di una originaria disposizione empiristica, pur subendolo, nel profondo di sé quest’ultimo avrebbe opposta al canto delle sirene idealistiche, al cui ascolto l’amico lo incitava. In realtà, non è così. Che Gentile abbia contribuito alla migliore definizione di tesi crociane, delle quali, in questo atto, riconosceva tuttavia l’importanza, è indubbio; e non giova insistervi. Ma la disposizione categoriale, e, con questa, quella a costruire una filosofia come «scienza dello
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spirito», Croce le scoprì in sé, all’improvviso, in quel saggio, fin che si vuole immaturo, del 1893; un saggio che, rimanendone colpito,26 Gentile lesse quando ancora non era entrato in rapporto con lui. L’influenza (indubbia) che egli esercitò su Croce non sarebbe dunque capita per il giusto verso, e verrebbe fraintesa nel modo, sul serio sciagurato, che fu di Ugo Spirito nella sua famosa «lettera aperta» del 1950,27 se la si riferisse, non, come si deve, a una «filosofia dello spirito» in via di delineazione, ma a una che, senza per sé esservi disposta, solo da quell’influenza avrebbe preso l’avvio a diventare quel che poi fu. Non sarebbe capita per il giusto verso, e sarebbe fraintesa, se, per conseguenza, fosse prospettata come tale che si determinò attraverso, non un vivace dibattito su temi presenti e operanti nelle loro rispettive teste, ma l’insegnamento che l’uno impartiva all’altro per avviarlo ad intendere le bellezze, e il rigore, dell’idealismo, o, addirittura, della filosofia. Sarebbe fraintesa, e capita in modo distorto, perché, lungo quella via, non ci si renderebbe conto di quel che pur avrebbe dovuto, e dovrebbe, apparire come ovvio. E cioè che quello intrecciato dai due filosofi fu, fin dall’inizio, un rapporto tanto più stretto quanto più conflittuale: o forse, a termini invertiti, tanto più conflittuale quanto più i due mettessero alla prova della diversa interpretazione che ne davano quel che avevano in comune: una concordia discors, come a ragione Gentile ebbe a definirla quando, nel 1917, dedicò a Croce la seconda edizione della Teoria generale dello spirito come atto puro. A ragione, perché, come altrove fu dimostrato,28 non c’è divergenza che, essendosi prodotta nel tempo tra la filosofia di Croce e quella di Gentile, non consenta di osservare la loro forte convergenza strutturale in punti nevralgici che, né l’uno, né l’altro, sarebbero per altro stati disposti a considerare comuni a entrambi. E si può capirlo, se si considera che quelli sono altresì i luoghi nei quali con maggiore asprezza si rivelano le difficoltà; 26. Gentile recensì la «memoria» crociana, negli «Studi storici» del Crivellucci, 6 (1897), pp. 137-152, quando fu ristampata nel volume Il concetto della storia nelle sue relazioni col concetto dell’arte, Roma 1896: cfr. ora G. Gentile, Frammenti di estetica e di teoria della storia, a cura di H.A. Cavallera, II, Firenze 1992, pp. 121-135. 27. La lettera fu pubblicata nel «Giornale critico della filosofia italiana», 1950, pp. 1-11, e provocò la durissima replica di Croce, in «Quaderni della “Critica”», 16 (1950), pp. 97-100. Fu da ultimo edita in U. Spirito, Giovanni Gentile, Firenze 1969, pp. 75-93; la replica di Croce in Terze pagine sparse, II, Bari 1955, pp. 86-91. Si veda quel che di questa lettera, e della sua assurdità storiografica, scrissi anni fa in Filosofia e idealismo, I, Benedetto Croce, Napoli 1994, pp. 584-588. 28. Sono costretto a rinviare, per questa parte, al mio Filosofia e idealismo, II, Giovanni Gentile, Napoli 1995.
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laddove assai di meno si capisce che questa convergenza non sia per solito colta da chi, sottraendosi alla rappresentazione che i due filosofi dettero del loro contrasto, al pensiero dell’uno e dell’altro dovrebbe guardare ormai al di fuori dei pregiudizi che, per varie ragioni, si resero pressoché impenetrabili quando troppo vive erano ancora le passioni che li avevano generati. La discordia si manifestò negli studi sul marxismo, che li videro divisi sul punto, vivissimo in Labriola, se la concezione materialistica della storia dovesse essere intesa, come Gentile teneva per fermo, alla stregua di una filosofia della storia, o, secondo la tesi di Croce, come un canone empirico di interpretazione. Si manifestò nella questione dell’arte (e a testimoniarlo sono, oltre gli scritti con i quali Gentile accompagnava, commentava e stimolava il cammino di Croce in questo campo, le lettere che al riguardo i due si scambiarono29). A essere discusso fu in particolare il nesso, che Gentile interpretava con particolare drasticità, della materia e della forma. Fu, in modo più o meno diretto, la questione del sentimento;30 cruciale per Croce, e non meno tuttavia, per Gentile, che fino all’ultimo tornò a meditarla, mettendovi a rischio la sua idea dell’anteriorità ideale della forma e dell’atto. Era una questione, sia pure in modo diverso, vitale per entrambi: ricca di svolgimenti teoretici e di altrettante difficoltà. Ed era, inoltre, nata assai per tempo nella mente di Croce, che di continuo, del resto, la incontrava nella storia dell’Estetica, al cui studio, fin dal 1893 si era tenacemente dedicato. Nelle Tesi di estetica del 1900 l’aveva affrontata e discussa da molteplici punti di vista, sempre tenendo fermo il concetto che la forma è attività che si contrappone alla passività e la vince.31 Di questo, se si vuol capire, ma sul serio e non a orecchio, deve farsi conto. Il contributo che, prima del 1900 e fin circa il 1907, Gentile dette allo svolgimento delle idee crociane sull’arte, è stato varie volte sottolineato nella sua importanza, e documentato, anche da chi scrive,32 con tale insistenza, che non è necessario tornare a parlarne nei particolari. Ma furono le idee di Croce a ricevere quell’influsso, non fu 29. Cfr., per questo (e sopra tutto per gli scambi epistolari), F. Audisio, Croce, Gentile e la genesi dell’Estetica (2002), in Filologia e filosofia. Sull’Estetica di Benedetto Croce e altri saggi, Napoli 2003, pp. 15-84. 30. Si veda ora, in proposito, il mio saggio Gentile: la questione del sentimento, in «La Cultura», 45/2 (2007), pp. 211-245. 31. Cfr. B. Croce, Tesi fondamentali di un’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Ristampa anastatica dell’edizione del 1900 a cura di F. Audisio, Napoli 2006, pp. 7-8 32. Sasso, Filosofia e idealismo, I, 217-272.
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questo a generare quelle. E l’influsso fu certamente reciproco. Il rapporto, che i due filosofi allora stabilirono così stretto, non si spiegherebbe nel suo carattere, se, in Croce, che per suo conto traeva giovamento dal suo radicalismo, Gentile non avesse intuita e colta, non solo la direzione idealistica lungo la quale si muoveva, ma anche lo forzo sistematico nel quale lo vedeva impegnato. Insomma, se Gentile assunse per sé quel ruolo di collaboratore e, quasi, di confidente teorico, e al servizio dell’amico mise la sua migliore «tecnica» filosofica, la ragione andrà cercata, e ritrovata, nell’interesse che il lavoro di Croce gli suscitava dentro, nell’impressione che su di lui di volta in volta era prodotta dalla sua «inventività»,33 e, per converso, nel fondo, dalla persuasione che doveva essersi formata in lui, che neppure a sé stesso per altro la confessava, dell’esaurimento di cui la scuola spaventiana dava ormai segno, non solo nel tedioso, querulo e talvolta meschino Sebastiano Maturi, ma anche nel suo diretto maestro, in quel Donato Jaja, che se non meritava l’epiteto feroce con il quale Antonio Labriola non mancava mai di appellarlo, nemmeno però avrebbe potuto essere considerato qualcosa di meglio del modesto epigono che, invece, fu. Era l’ingegno di Croce che lo attraeva, l’«agilità della sua dialettica», la «perspicuità cristallina del suo ragionare».34 Ma era anche quel che nel suo pensiero avvertiva di consonante con il suo; erano le difficoltà che egli rinveniva in Croce e che, non potendole considerare estranee al suo stesso orizzonte di pensiero, tanto più richiedevano il confronto serrato, la critica e il superamento, quanto più, nel profondo di sé Gentile fosse in qualche modo convinto che, nel superare, e nell’andar oltre, conservasse, e, nell’archivio della propria mente, egli tuttavia continuasse a possedere, un’esperienza pur sempre fondamentale. Nel saggio, che già è stato citato, Ginzburg ha invece parlato di una «fase più nettamente idealistica del pensiero di Croce», e l’ha ricondotta, al «forte influsso esercitato su di lui da Giovanni Gentile, a lui legato per due decenni da uno strettissimo sodalizio intellettuale».35 Per le ragioni che si sono dette, formulata così, l’osservazione è inaccettabile. Innanzi tutto perché, informa33. Cfr., per esempio, quel che gli scrisse il 13 giugno 1907, dell’impressione suscitata dalla sua memoria sul diritto (1907) in Amato Pojero, «meravigliato» che Croce entrasse «da gran signore in ogni campo nuovo della filosofia» (G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, III, Firenze l976, p. 78). 34. G. Gentile, La filosofia italiana contemporanea (1941), in Frammenti filosofici, cura di H.A. Cavallera, Firenze 1994, p. 81. 35. Ginzburg, Il filo e le tracce, p. 213.
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to che nel pensiero di Croce ci sia stata una «fase più nettamente idealistica», determinata dal forte influsso esercitato sul suo dal pensiero di Gentile, il lettore potrebbe esserne indotto a ritenere che nella sua lunga vita ce ne fossero state altre improntate a un meno netto idealismo. Con la conseguenza che, per questa sua disposizione a prendere le distanze da ciò da cui pure, in un determinato momento, era stato influenzato, quello di Croce sarebbe stato un idealismo alquanto «paradossale»: tanto che a caratterizzarlo varrebbe, secondo Ginzburg, la formula («positivismo critico») proposta nell’ormai lontano 1934, da Eugenio Colorni.36 Si può aggiungere che, quattro anni prima, una formula simile, «assoluto realismo» e «assoluto laicismo», era stata usata da Guido Calogero37 che, a differenza di Colorni,38 non era orientato, attraverso Leibniz, verso la filosofia della scienza, ma era invece un giovane seguace eterodosso dell’idealismo di ispirazione attualistica: un seguace eterodosso e inquieto, il quale riteneva che la filosofia dell’atto si risolvesse in un unico tema, e non fosse perciò da considerare se non come una «grande prefazione critica» al crocianesimo, come la sua «fondazione polemica»:39 una prefazione intesa a dare migliore rilievo, attraverso il suo più stringente rigore, alle tante teorie particolari che il cosmo crociano chiudeva in sé. Come che sia, fra il critico di oggi e quelli di ieri, si dà una differenza fondamentale. Ginzburg parlava di «fasi»; e dava adito a intendere che, a suo parere, il pensiero di Croce ne avesse conosciute almeno due, caratterizzate rispettivamente, da un più netto e da un meno netto, oppure da un meno netto e da un più netto, idealismo. All’interno di un sistema giudicato inaccettabile nel suo impianto generale, Colorni e, prima di lui, Calogero avevano invece indicata la presenza di temi concreti di notevole significato e valore, che da quell’impianto richiedevano di essere, in qualche modo, messi in salvo, e valorizzati. Parlavano non tanto di «fasi», quanto piuttosto della compresenza di temi diversi, fra i quali occorreva scegliere. Sia la prima tesi (quella di Ginzburg), sia l’altra (di Colorni e di Calogero), sono inaccettabili. Ma per ragioni, se non diverse, non del tutto coincidenti. Perché lo sia la prima, è stato, almeno in parte, già detto. L’altra è inaccettabile perché, nel pensiero di Croce, e in ogni pensiero che, essendo tale, abbia perciò costruito sé stesso 36. E. Colorni, L’estetica di Benedetto Croce, Milano 1934, pp. vii-viii, 2-4, passim. 37. G. Calogero, Studi crociani (1930), in La conclusione della filosofia del conoscere, Firenze 1938, pp. 54 e 55. Ma a p. 48, aveva parlato addirittura di «positivismo assoluto». 38. Si veda la raccolta dei suoi Scritti, con un’Introduzione di N. Bobbio, Firenze 1975. 39. Calogero, La conclusione, p. 53.
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nel segno della responsabilità concettuale, le «parti» sono così poco isolabili dal quadro generale, che ogni tentativo che si compia di realizzare questo isolamento apre la via alla deformazione, e quindi, se non all’incomprensione e alla banalizzazione, all’uso non filosofico, ma, nel migliore dei casi, soltanto «culturale» della filosofia (che è la peggiore sciagura che a questa, se è una filosofia, possa capitare): come del resto si comprende se solo si consideri che il così detto «sistema», la totalità, non è, in concreto, se non l’accordo e il disaccordo delle parti, la coerenza e l’incoerenza delle proposizioni che lo costituiscono, e che il «tutto» non sta a sé rispetto a queste, perché non è se non quell’accordo e disaccordo, quella coerenza e incoerenza. Prendere le parti senza il tutto è perciò impossibile: sarebbe come prendere le parti senza le parti, dal momento che, necessariamente, se si parla di «parte», si parla di connessione, e se non si coglie questa, nemmeno quella si coglie. Discendono di qui due conseguenze, che espongono, chi inviti a considerarle, e a condividerle, all’accusa di antistoricismo, e di metafisica: insomma, nel lessico degli accusanti, dei peggiori fra i vizi che possano essere coltivati in questo campo . La prima è che, in un quadro concettuale degno del nome, non si dà mutamento che, in luogo della dimostrazione del perché quel che un tempo si era condiviso condivisibile, in tutto o in parte, ora non sia più, si presenti nella forma del puro e semplice abbandono di tesi che si erano ritenute vere, o, quanto meno, accettabili. La seconda è che nessun interprete può credere di avere assolto al suo compito se, da filosofo, non sia entrato nelle ragioni che da una posizione hanno condotto a un’altra; se, da filosofo, non abbia preso su di sé la responsabilità di quei pensieri, di quelli vecchi e dei nuovi, assumendoli come propri, misurandone la coerenza, sorprendendone il limite e, persino, la contraddittorietà. Se non è un semplice dossografo, e non faccia comunque consistere il suo impegno nel dipingere ambienti intellettuali, lo storico del pensiero è sempre il personaggio di un dramma. La storia dei pensieri non si fa, infatti, trattandoli come se fossero parole d’ordine, ideologie, semplici idee. Un pensiero è filosofico se in esso sia, in qualche modo, immanente la filosofia; che ha il suo primo, più o meno intenso, riflesso nella coerenza delle proposizioni con la quale si presenta al mondo. Se non si persegue questo telos, la storia della filosofia non sarà mai scritta. E questa è la ragione per la quale scriverla è, sul serio, così difficile, e scriverla come una «storia» addirittura impossibile. Queste poche linee non sono, dio scampi, introduttive a un discorso sul metodo della storia della filosofia; e nemmeno a un altro, che del resto è stato svolto in altra sede, sul rapporto (che a rigore non
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è un rapporto) della filosofia con la verità. Hanno il solo scopo di aiutare il lettore, e naturalmente, lo scrivente, a entrare in una delle dimensioni del saggio di Ginzburg, che ha dato origine a queste considerazioni. Un saggio più che notevole, costruito con abilità pari all’eleganza, e che, nel fondo, presenta tuttavia, nei confronti dell’idealismo italiano, ma non soltanto, un tratto irrisolto, il segno di una persistente perplessità. Richiede perciò uno sforzo interpretativo che vada al di là delle sue pagine, alle quali si dovrà comunque tornare. Ma, innanzi tutto, valga una premessa. Ginzburg è uno studioso, uno storico, un erudito, uno scrittore, di non comune talento; ed è, in sé stesso, più di ciascuna di queste cose, di per sé prese. Non ce n’é un altro, in Italia e, probabilmente, fuori d’Italia, che, come lui, abbia la capacità di percepire le «distanze» e poi di ridurle, di maneggiare testi antichi e moderni, facendone emergere connessioni inconsuete, di trattare di storiografia e di romanzo, di ragionare della Retorica di Aristotele e di turbare il sonno degli storici dell’arte scrivendo le Ipotesi su Piero, di consentirsi avventure nei territori della filosofia e di servirsi, per un suo ragionamento, persino del Traghelaphos (Roma 1980) di Giovanna Sillitti: che, occorre riconoscere, è cosa non consueta, perché, scritto alla scuola di Guido Calogero, quello è, senza dubbio, un saggio sottile ed elegante, che, dedicato a un argomento ultraspecialistico di logica antica, e pubblicato in una collana essa stessa specialistica, non si sarebbe creduto che potesse essergli noto.40 Se si chiede quale sia, come storico, la sua «specialità», e si risponde: la storia religiosa del sedicesimo e, in parte del diciassettesimo secolo, basterà aprire la Storia notturna per avvertire che la risposta è quanto meno parziale: come del resto risulta con piena evidenza dai suoi ultimi libri, nei quali le barriere dello «specialismo», inteso come oggi si suole, sono state in ogni senso travolte. Detto questo, dall’«elogio» occorre tornare ai problemi: suoi, in primo luogo, e, poi, del suo lettore. Per quanto concerne Ginzburg, il problema che lo tormenta è quello della testimonianza e della prova, della verità che debba e possa riconoscersi a quel che i documenti attestano dei «fatti»; e consiste, altresì, nella considerazione dello scetticismo che di volta in volta può insorgere e che incontra tuttavia lo scoglio oltre il quale non può andare, perché, dice, la «cosa in sé» esiste, e dubitarne è impossibile.41 Per quanto riguarda il lettore di Ginzburg, consiste invece, come si sta vedendo, nell’uso che egli 40. C. Ginzburg, Occhiacci di legno. Nove riflessioni sulla distanza, Milano 1998, pp. 71 e 132. 41. Ginzburg, Il filo e le tracce, p. 223.
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ha fatto dei testi, di alcuni testi, crociani e gentiliani, e della connessone, ora più ora meno stretta, in cui, pur accennando alle differenze, li ha posti con le tesi della Metahistory di Hayden White e di alcuni fra i suoi scritti successivi. Un uso e una connessione che, sia per Croce sia per Gentile, sia per lo stesso White, lasciano perplessi e, sollecitando più di una considerazione, costringono innanzi tutto a chiedersi quale (deformata) immagine di sé questi due filosofi presentino oggi ai più se persino uno studioso come lui a quella immagine si è in sostanza attenuto, lasciando intendere, anzi dicendo in modo esplicito, che, senza di loro, Metahistory non sarebbe stata scritta nel modo in cui fu scritta. Il punto di vista, al quale Ginzburg si è attenuto, e che non ha creduto di dover discutere, è che, fondamentalmente, idealismo è soggettivismo, e che, poiché, più di Croce, soggettivista e quindi idealista fu Gentile, è a quest’ultimo che, in re, malgrado ogni altra differenza, il soggettivismo e l’estremismo «tropologico» di White sono sopra tutto debitori, o si rivelano, comunque, fortemente affini. La sua affermazione […] sul discorso che crea i propri oggetti sembra riecheggiare – con una differenza sostanziale cui accennerò subito – l’insistenza di Croce sull’espressione e sulla linguistica generale combinata col soggettivismo radicale di Gentile, secondo cui la storiografia (historia rerun gestarum) crea il proprio oggetto (res gestae). «Le fait n’a jamais qu’une existence linguistique»: queste parole di Barthes, usate da White come epigrafe della raccolta The Content of the Form (1987) potrebbero essere attribuite all’immaginaria combinazione di Croce e di Gentile che ho evocato. Anche la lettura di Barthes fatta da White all’inizio degli anni ottanta (in Tropics of Discourse Barthes era appena nominato) rafforzò uno schema preesistente.42
Si è detto che le connessioni proposte in queste linee presuppongono un concetto dell’idealismo italiano che non può essere condiviso: per le ragioni che, esposte in altre sedi, sono state velocemente accennate quando, a proposito del saggio crociano del 1893, si è osservato che, nei suoi limiti e nella sua interna problematicità, tutto può dirsene fuor che sia un documento di semplice «soggettivismo». Deve anche aggiungersi, infatti, che, malgrado alcune buone ragioni che le stanno alla radice, anche l’interpretazione che Ginzburg ha fornita del pensiero di White non esaurisce il suo significato e non riesce in ogni senso persuasiva. Non si può dire, infatti, che la sua «tropologia» si risolva in una forma di soggettivismo; e che per lui, 42. Ibidem, p. 226.
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come per Barthes, il «fatto» sia una creazione linguistica. A leggere Metahistory, e i molti saggi che ne sono derivati, quel che, al di là di incertezze e ambiguità, sembra doversene ricavare, è che la storia non consiste nel procurare «informazioni sul passato», perché questo è un «prerequisito», una condizione senza la quale scriverne una sarebbe impossibile; e quel che conta è infatti il «modo» in cui lo si interpreta, il taglio che si dà alla materia, lo stile che si impiega nel disporre l’accaduto in forma narrativa. Sono questi «modi» che fanno sì che il «fatto», il documento, la notizia attestata, acquistino il carattere e la forma di ciò che si chiama «storia».43 Può ben darsi che Arnaldo Momigliano cogliesse nel segno quando, in White, notava indifferenza nei confronti dell’accertamento e delle tecniche che lo rendono possibile;44 e che a ragione perciò lo criticasse.45 Ma questo non significa che per White la questione non esistesse. Esisteva, invece. E in qualche modo egli se la poneva, anche se gli accadesse di non aver ragione nel ritenere che sempre e comunque la «verità» del fatto fosse stata messa fuori questione e, sul suo fondamento, potesse procedersi a costruire la vera storia. Se è così, si può forse confermare quel che già è stato detto, e cioè che se White non penetrò il senso autentico del saggio crociano del ’93, quando, ignorandone le pur evidenti implicazioni categoriali, dette perciò l’impressione di averlo interpretato come un documento di soggettivismo narrativo, anche a lui accadde di essere, se non frainteso, semplificato e, quanto meno, inteso con alquanta unilateralità da chi lo accusò di avere sacrificata la realtà alla narrazione, la verità al linguaggio. Ma su questo, e di quel che si legge nel saggio di Ginzburg, dovrà discutersi ancora. Non rientra nei propositi di questo scritto una discussione esauriente delle tesi di Metahistory e di quel che ne è derivato. Lo scopo è soltanto di fissarne alcuni punti per far vedere come sia impossibile condividere la tesi 43. ���������� H. White, Literary Theory and Historical Writing, in Figural Realism. Studies in the Mimesis Effect, Baltimore 1999, p. 2 (lo si veda, tradotto in italiano, in Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, a cura di E. Tortarolo, Roma 2006, p. 62). 44. A. Momigliano, The Rhetoric of History and the History of Rhetoric: on Hayden White’s Tropes (1981), in Settimo Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1984, pp. 49-59. 45. Ibidem, p. 51: «Hayden White olympically brusches aside all […] questions about evidence, or rather treats them as specific aspects of his rhetorical positions which do not deserve independent treatment». Ma la storia è un’altra cosa: «history is no epic, history is no novel, history is not propaganda because in these literary genres control of the evidence is optional, not compulsory».
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secondo cui l’avvio alle sue tesi fondamentali White lo avesse ricevuto dagli scritti degli idealisti italiani: non solo da Croce, al quale egli si è riferito spesso anche dopo avergli dedicato, nel suo libro principale, un capitolo di cinquanta pagine,46 ma anche da Gentile, che non risulta abbia mai avuto da lui l’onore di una citazione che non fosse generica, e andasse oltre il ricordo del suo nome. Hans Kellner ha osservato che «Metahistory is a book with no dedication or personal acknowledgment» e che, a causa anche dei pochi riferimenti che il suo autore fa al suo precedente lavoro, «the result is to obscure the relation of the book both to an intellectual tradition and professional career».47 È verissimo: sulla sua formazione, White è stato, fin qui, avaro di particolari. E poco, per conseguenza, è quel che può dirsene. Si sa che cominciò come storico della Chiesa medievale; che, in Italia, studiò alla scuola del paleografo Giulio Battelli, entrando quindi in contatto con Arsenio Frugoni e Raffaello Morghen prima di scoprire, tornato in America, la traduzione tedesca di Dallo storicismo alla sociologia di Carlo Antoni, che fece forse in tempo a incontrare,48 a Roma, quando di quel libro progettava la traduzione inglese, che poi realizzò. Ma se si può supporre che da Antoni fosse avviato alla conoscenza di alcuni aspetti dell’idealismo italiano, e che l’Arnaldo da Brescia di Frugoni lo colpisse, forse, per l’uso sapiente che vi era fatto delle «fonti», studiate, ciascuna, nella sua specifica individualità, è invece indiscutibile che, come teorico della storia, la sua formazione fu determinata essenzialmente da scrittori di area anglosassone, fossero critici e teorici della letteratura, come Northrop Frye, dal quale derivò l’interesse per i «tropi», o filosofi. Appare perciò quanto meno ardita, e lascia comunque perplessi, la tesi secondo cui le sue idee si formassero nel punto di confluenza di tradizioni diverse, quella della filosofia analitica anglosassone, l’altra della (lo si dica in breve) «narratologia» con le sue varie implicazioni e differenze, l’altra, infine, dell’idealismo italiano. Sull’influsso che White subì dagli autori delle prime due tendenze, nessun dubbio, come si è detto, è possibile: anche se è difficile, alla radice di un pensiero come il suo, individuare i modi specifici 46. ������� White, Metahistory, pp. 375-425. 47. ������������ H. Kellner, A Bedrock of Order: Hayden White linguistic Humanism, in «History and Theory», 19 (1980), p. 3. 48. Dico così perché, com’è noto, Antoni scomparve nell’agosto 1959, nell’anno stesso in cui il suo libro usciva in America tradotto da White. È quindi probabile che con lui lo studioso statunitense entrasse in contatto, e magari lo visitasse a Roma, quando già Antoni era malato o avviato a esserlo. Fra le carte del fondo Antoni, conservate nella Biblioteca della Facoltà di Filosofia dell’Università di Roma La Sapienza, non ho trovato lettere di White.
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in cui tale influenza si determinò. Ma a giudicare da quel che si legge in Metahistory e, più che mai, da quel che è venuto dopo, è lecito invece dubitare che dell’idealismo italiano egli si fosse procurata la conoscenza bastante a far sì che, nel subirlo o nel criticarlo, fosse in grado di entrare in contatto con le sue autentiche radici teoretiche; che gli rimasero estranee persino quando più, come in Metahistory, provò ad avvicinarsi a esse. Come si è detto, lo scopo non è qui di render conto del modo in cui White svolse i problemi connessi all’interpretazione di quel che debba intendersi per storia. Non si farà perciò riferimento specifico alla distinzione della storia dalla cronaca e al passaggio da questa, che mette insieme fatti ai quali non può assegnare alcun specifico significato, alla storia che, viceversa, lo ritrova nell’includerli entro un ambito narrativo, al quale conferisce rilievo disponendolo secondo i tre modi da lui indicati per la loro connessione: l’intreccio, l’argomento, l’implicazione ideologica. Tre modi che, rispettivamente, si specificano come, il primo, romantico, tragico, comico, satirico; il secondo, formale, meccanico, organicistico e contestualistico; il terzo, anarchico, radicale, conservatore, liberale;49 e che rinviano, per altro, a uno strato più profondo nel quale, dichiarando il debito contratto, per questa parte, con le opere di Claude Lévi-Strauss, di Roman Jakobson e di Jacques Lacan, White ha individuata la presenza di tropi, ossia di modi strutturali profondi che condizionano le scelte stilistiche, e si definiscono come metafora, metonimia, sineddoche, ironia.50 Nella forma in cui è assunta da lui, la teoria dei tropi rivela legami evidenti con la retorica tardoantica e medievale, che White ha genericamente indicati aggiungendovi quelli con la linguistica moderna;51 e poiché, come deve ribadirsi, l’ha reinterpretata alla luce dello strutturalismo, dovrebbe cominciarsi a nutrire qualche dubbio sul punto che sia lo scetticismo il dio che, dal profondo, ispira le sue scelte. Quando in uno scrittore moderno, anzi contemporaneo, si incontra la riproposizione di una teoria tropologica, la mente va subito allo scetticismo antico, e, magari, al memorabile saggio che, da giovane, Hegel dedicò ai sui temi; e ci si meraviglia che quello scrittore abbia ignorato un così illustre precedente e il suo vario ritorno nell’età moderna. Ma se è innegabile che White avrebbe contribuito a rendere più chiaro il suo intento, dichiarando in modo esplicito 49. ������� White, Metahistory, pp. 29-31. 50. Ibidem, pp. 31-38. Una rapida, ma assai lucida, esposizione delle tesi di White, in M. Mustè, La storia: teoria e metodi, Roma 2005, pp. 82-87. 51. ������� White, Metahistory, p. 31. Ma il suo riferimento specifico è a Pietro Ramo (p. 32).
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la sua estraneità alle suggestioni scettiche, anche lo è che a tentazioni di questa qualità sarebbe stato ben strano che egli avesse ceduto nel momento in cui alla radice delle scelte narrative individuava, non l’arbitrio di questo o di quello, ma strutture tropologiche permanenti, operanti, parrebbe, con una loro intrinseca necessità nell’animo umano. Se non s’interpretasse così, non si comprenderebbe perché fra le sue «fonti» dirette, egli avrebbe indicato Lacan e, sopra tutto, Lévi-Strauss; il quale, è vero che criticò i concetti di «archetipo» e di «incoscient collectif», ma unicamente perché «seules les formes peuvent être communes», non «les contenus».52 È tuttavia anche vero che chi, su questo punto, intendesse attenderlo al varco della coerenza, si troverebbe lui in difficoltà. Salvo errore, le due alternative dell’oggettivismo deterministico e del soggettivismo non furono discusse da White, che le lasciò sussistere l’una accanto all’altro come se al riguardo non si desse alcun problema. Che quindi, in questo intreccio, tutto fosse chiaro, non si direbbe. Sarà bene, infatti, che siano i tropi a determinare e delineare l’ambito entro il quale la narrazione propriamente detta ha luogo, sì che questa ne è nell’intrinseco condizionata. Ma altro è dir questo, e intendere che il tropo costituisca l’ambito entro il quale la narrazione svolge sé stessa; altro è intendere che questa ne dipenda come un effetto dipende da una causa. In realtà, l’impressione che si ricava dalla lettura del suo libro è che se uno storico narra secondo il tipo della sineddoche o della metonimia, della metafora o dell’ironia, questo dipenderà non dalla scelta che quel determinato tropo, o, se si preferisce, quella determinata disposizione tropologica, abbia fatta di lui, decidendo del suo «modo narrativo», ma da quella che lo storico avrà fatta lui del tropo corrispondente al suo modo di intendere, per ragioni innanzi tutto storiche, e non originate da una struttura, la storia che si accinge a narrare. Il che, se è così, salvo errore, dimostra che alla strutturalità inconscia o preconscia dei tropi White non poteva, e mai avrebbe potuto, essere fedele fino in fondo nel segno della coerenza; e che se, nel suo complicato percorso, si trovò a essere esposto al duplice rischio del determinismo delle strutture, da una parte, del soggettivismo della scelta, da un’altra, non dette l’impressione di esserne accorto. In un saggio di una decina d’anni posteriore a Metahistory, egli discusse, più che in quel libro non avesse fatto, delle idee di Lévi-Strauss.53 Ma del punto che qui è stato messo in rilievo nella sua problematicità, nemmeno in quel caso mostrò di essersi avvisto. 52. ����������������� C. Lévi-Strauss, La pensée sauvage, Paris 1962, p. 88. 53. H. White, La questione della narrazione nella teoria contemporanea della storiografia, in Aa. Vv., La teoria della storiografia oggi, a cura di P. Rossi, Milano 1983, pp. 46-48.
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Che cosa, in tutto questo, ci sia di crociano e, in generale, di idealistico, non si riesce, francamente, a vedere. Non certo la relazione che White stabilì tra i «fatti», di per sé stessi scevri di «storia», e la narrazione che, assumendoli nella prospettiva tropologica, li dispone nel senso della storicità. Non la previa distinzione fra evento e fatto; che è in realtà la stessa che intercorre tra quest’ultimo e la narrazione, quando per «evento» non si intenda altro che un «fatto» assunto nella sua immediata materialità di cosa accaduta e non elaborata in una qualsiasi forma, e l’altro, il fatto, sia inteso invece come una costruzione narrativa.54 Non la distinzione della cronaca dalla storia; che ricorre spesso nei suoi scritti, e che, essa proprio, dà la misura della distanza che, su questo punto, lo separa da Croce e dal modo in cui questa distinzione fu elaborata, da quest’ultimo, nella parte teorica della Teoria e storia della storiografia. A White, che per questo riguardo rinviava a Collingwood, sembrava che lo storico si distinguesse dal cronista per una «capacità», che quello possiede e questo no, di «far emergere una storia plausibile da una congerie di fatti che, nel loro stato primitivo, non hanno alcun senso».55 Ma a Croce questa distinzione non avrebbe potuto non suonare estrinseca; e se l’avesse incontrata l’avrebbe forse respinta con fastidio, come una banalità. Il suo era infatti un assai diverso concetto, irriducibile a quello proposto da White. Per lui la storia «balzava» direttamente dalla vita: da un «interesse della vita presente», che esso solo «ci può muovere a indagare un fatto passato: il quale, dunque, in quanto si unifica con un interesse della vita presente, non risponde a un interesse passato, ma presente».56 Per questo, come si sa, la storia, ogni storia, era, per lui, «storia contemporanea». Il che importava che per storia dovesse intendersi il nesso indissolubile della vita con il pensiero, e che, come il vivo precede il morto, prima perciò venisse la storia, poi la cronaca, dalla quale era per conseguenza inconcepibile che si partisse per pervenire a quella. Sarà impossibile intendere mai nulla del processo effettivo del pensare storico se non si muove dal principio che lo spirito stesso è storia, e in ogni suo momento fattore di storia e risultato insieme di tutta la storia anteriore; cosicché lo spirito reca in sé tutta la sua storia, che coincide poi col sé stesso.57 54. White, Forme di storia, p. 78. 55. Ibidem, p. 18. 56. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1943, p. 4. 57. Ibidem, p. 16.
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Non occorre che queste proposizioni siano indagate nel loro fondamento, per comprendere che fra questa idea dello spirito che è storia, e della storia che è spirito, e quella proposta da White, corre un abisso. In breve si può dire che, mentre Croce studiava e indicava le ragioni per le quali ci si volge al passato, White si limitava a constatare che tra la «congerie dei fatti» e la narrazione passa la stessa differenza che corre fra un contenuto senza forma e, appunto, la forma. Perché mai uno storico si facesse storico di qualcosa, – questo non era detto. Se a queste differenze si fosse prestata la dovuta attenzione, e, al di là del consenso dato nel 1959 alla tesi crociana della storia come arte, il pensiero di White fosse stato considerato nella fisionomia che ben presto sarebbe stata quella che assunse in Metahistory, il quadro sarebbe riuscito più chiaro, il rischio dell’equivoco sarebbe stato cancellato alla radice. Ma una persistente incertezza percorre la linea dell’interpretazione che Ginzburg ha fornita di Croce, dell’idealismo italiano e dei rapporti intercorsi tra la filosofia dello spirito e l’attualismo. Dal modo in cui le sue parole sono connesse nel § 4 del suo saggio, si deduce che, come sarebbe provata dalla famosa, e già ricordata, Postilla58 che, per riconoscere il suo debito, Croce collocò alla fine del capitolo quarto, parte seconda della Logica, l’influenza di Gentile si affermò nel periodo culminato nella composizione (1908/1909) di quel libro, per subire una forte riduzione già quattro o cinque anni più tardi, quando, nella Teoria e storia della storiografia egli interpretò la filosofia come «metodologia della storiografia» e, secondo Ginzburg, sembrò che avesse dissolta la prima nella seconda. Ma non è così. A parte la formula («filosofia come metodologia della storia»), che ha dato e seguita a dare luogo a molti fraintendimenti, e che si avrebbe perciò qualche difficoltà a considerare felice, il concetto che ne fu espresso non era, con altre parole, se non quello che, nella Logica del 1909, era stato esposto nelle pagine concernenti l’identità del giudizio definitorio e del giudizio individuale. Che restano quelle in cui Croce tentò di pensare la «filosofia dello spirito» come storicismo assoluto: senza riuscirci, per altro, dal momento che, essendo «assoluto», quello era non uno storicismo, ma una «filosofia dello spirito», costruita, secondo la legge dell’unità/distinzione, dal nesso e dall’intreccio necessario delle eterne categorie del reale. Che del resto, per tutta la vita, prima, dunque, e dopo il 1909, Croce avesse fatto consistere il suo maggiore impegno filosofico 58. B. Croce, Logica come scienza del concetto puro, Bari 1920, pp. 210-11.
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nell’esigenza di questo nesso, è, se si sta ai concetti, quel che risulta dalla più elementare considerazione dei suoi scritti. E per quanto riguarda l’influenza che Gentile esercitò, agli inizi, su di lui, se è vero che c’è influenza e influenza, vero è anche che c’è pensatore e pensatore. Ci sono quelli che non vivono che di influenze; e ci sono, per contro, quelli che in qualche modo sono essi a determinarle, traendole dal passato o dal presente, dai filosofi di ieri o da quelli di oggi, secondo che la loro mente richiede. Per parte sua, Croce non fu del numero dei primi. Fu di quelli che non ricevono e accolgono se non le influenze che essi stessi in qualche modo abbiano richieste e sollecitate. Chi perciò lo ha presentato come un pensatore delle «particolarità», e ha creduto che l’abbandono della forma sistematica che fin lì aveva conferita al suo pensiero, stesse a significare, con la nascita di un nuovo stile filosofico, l’avvento di un pensiero più duttile, meno rigido, più pieghevole e disposto a prendere su di sé le forme sempre diverse del reale, si è ingannato. Si è lasciato coinvolgere in un equivoco, non avendo capito che il qualsiasi progresso che fosse stato conseguito in un punto di quello, presupponeva, non il suo abbandono, ma per poterlo modificare, il ribadimento della sua centralità. Sempre, alla mente di Croce, il sistema fu presente come il luogo stesso della pensabilità di quel che appunto occorresse pensare; e nelle linee essenziali rimase infatti immutato, con i distinti e la loro relazione, con gli opposti e la loro dialettica, con il problematico legame che, in qualche modo, stringeva insieme queste due diverse dimensioni della realtà. Il che, del resto, dev’essere ribadito, persino per l’ultima fase del suo pensiero, per i pochi anni nel corso dei quali, radicalizzando il tema della vitalità, Croce andò vicino a rivoluzionare il sistema, quel sistema, e sul serio vi introdusse elementi dirompenti, salvo che anche allora salda rimase la «tavola» dei distinti «ulteriori» a quello, resosi massimamente problematico, della vitalità. Se perciò subì una crisi, il sistema fu lui a subirla; e, per subirla e poterla subire, dovette innanzi tutto esserci e esser fermo nel suo riconoscibile carattere. Insomma, a chi chiedesse dove debba essere indicato il tema conduttore, o, se si preferisce, il protagonista assoluto del pensiero di Croce, la risposa non potrebbe non indicarlo nella questione dei distinti, e in quella concernente la dialettica degli opposti, nella questione del concetto e in quella dello pseudoconcetto, nella quale, a partire dai Lineamenti di logica del 1904/1905, e forse anche all’Estetica del 1902, si trasfigurò la tesi che già nel saggio sulla storia del 1893 aveva cominciato a dar segno di sé. A questa risposta si aggiunga l’altra che, per molti fili essendo legata alla precedente, potrebbe essere indicata nel ritmo e nel rapporto hegeliano della logica e della feno-
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menologia: un ritmo e un rapporto che in Croce non riuscirono a stringersi, e restarono infatti sconnessi, perché al tempo interiore, che non è tempo, del concetto, corrispose, ma nella separazione, il tempo dello pseudoconcetto, che non è infatti se non scissione e esteriorità. A osservarlo nell’autentico carattere con cui si presentò nella filosofia di Croce, il problema della storia sta qui; e in questo intreccio problematico deve essere ricercato, in questo deve essere affrontato, come in qualche altra occasione accadde che si facesse vedere. Altrimenti, non si farebbe, anche se le intenzioni fossero le migliori, se non retorica storicistica. Resta, in ogni caso, che se, alle questioni che si sono indicate, e al modo in cui le trattò, si vuol dare il nome di «idealismo», allora deve dirsi che idealista Croce fu sempre: dal 1893 al 1952: con il suo carattere, certo, con il suo stile, con la preferenza accordata alle goethiane «frazioni» rispetto all’«uno», ma con la precisa, e anche sofferta, consapevolezza che le frazioni sono frazioni dell’uno, e lo presuppongono: non sono disiecta membra della realtà, ma la realtà nelle sue articolate e necessarie connessioni. Se del termine «idealismo» Croce fece, in ultima analisi, un uso alquanto moderato, fu perché gli sembrava che quello troppo poco includesse e troppo escludesse. E se, nel 1941, addirittura preferì che la «denominazione»59 di idealismo, e di idealista, non gli fosse riferita, la ragione fu essenzialmente polemica. Dopo la rottura del 1924, drammaticamente ribadita nel 1928, niente desiderava di avere in comune con Gentile. Non per questo, beninteso, avrebbe ammesso che altri potesse ritenere che il distacco dall’idealismo, ossia dal nome dell’idealismo, implicasse che quella innalzata da lui non fosse una costruzione categoriale, e che le frazioni dell’uno fossero diventate le parti scisse di un intero empiristico. Se, in questo punto, la linea interpretativa del pensiero di Croce era tracciata da Ginzburg con mano non a sufficienza ferma, non si può dire che, per il resto, l’implicita contrapposizione dell’idealismo derivato dall’influsso di Gentile alla «dissoluzione» della filosofia nella «metodologia» della storia fosse indicata in atteggiamenti concreti di pensiero, in specifiche teorie, riconoscibili per il loro contrapporsi alla loro prima delineazione. Alla tesi secondo cui quello di Croce fu, in sostanza, un idealismo temperato e moderato, non faceva riscontro la dimostrazione di questo suo carattere. E, in effetti, 59. B. Croce, Una denominazione filosofica da abbandonare: l’idealismo, in Discorsi di varia filosofia, II, Bari 1945, pp. 15-17.
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il discorso suonava alquanto deludente. Se non è una semplice frase, quella che ritrae la «dissoluzione» della filosofia nella storia è infatti un’asserzione alla quale ci si aspetterebbe che si aggiungesse quel che contribuisse a chiarirla; che si spiegasse in che senso, e con quale significato, una filosofia si dissolva, e, per giunta, nella storia, rimanendo filosofia. Ci si aspetterebbe che il fatto avesse la sua ragione; che questa fosse indicata e che, per il suo tramite, si arrivasse a capire il perché di quell’evento che, lieto o infausto che lo si consideri, è pur sempre l’evento di una dissoluzione. Della quale, in effetti, non risulta proprio che, né nella Teoria e storia della storiografia, né altrove, Croce parlasse mai: al modo, per esempio, in cui aveva parlato di «dissoluzione» della filosofia della storia.60 E si comprende bene che sia così; si comprende che non ne parlasse. Se mai infatti si fosse cimentato nell’impresa, le difficoltà lo avrebbero stretto, per usare un’espressione che gli piaceva, come in una «morsa». Se della dissoluzione della filosofia, questa, cioè la filosofia, fosse stata dichiarata autrice, l’assunto sarebbe apparso subito contraddittorio. Se il soggetto della dissoluzione non può, mentre dissolve, dissolvere sé stesso, a risultare non dissolta sarebbe stata, infatti, proprio la filosofia che si fosse fatta autrice dell’operazione dissolvitrice. Nemmeno nella storia potrebbe del resto indicarsi l’agente dissolutivo della filosofia. Dissolvere significa che, per effetto di una «causa», qualcosa sia, di grado in grado, consumato, fino, come si dice con incontrollata espressione, a toccare il traguardo del nulla, di nulla, del suo nulla, del suo non essere più. Ma, a parte che, se fosse così, lungo questo processo, la filosofia dovrebbe esser tenuta in vita quanto bastasse perché dicibile fosse il suo dissolversi nel nulla, resta che, posto il nulla come traguardo del dissolvimento, questo sarebbe un traguardo, e non nulla: di modo che, asserita così, di nuovo la dissoluzione della filosofia sarebbe stata se non contraddittoriamente asserita. Non è forse evidente che se il nulla fosse il traguardo della dissoluzione, in quello questa troverebbe il suo culmine, e sarebbe la pienezza dell’atto dissolutivo, che non è dissolutivo dell’atto? Si dirà: quella era un’espressione icastica, che non pretendeva a particolare rigore. Era un’espressione suggestiva. E questa, viceversa, è una pedanteria filosofica, non priva di qualche tratto demagogico. Sia pure. Resta tuttavia che a prendere il sopravvento, ossia a occupare il campo, in questo punto dell’analisi, fu il pensiero di Gentile, al quale per altro, quello di Croce finì per essere avvicinato: non fosse che per quel che si dice nel passo in cui anche quest’ultimo è contato, evidentemente 60. Croce, Teoria e storia della storiografia, pp. 53-69.
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come idealista e soggettivista, fra gli ispiratori della teoria tropologica di Hayden White.61 Dal saggio di Ginzburg emerge un Croce perplesso, diviso fra le tendenze realistiche e empirizzanti, che vi furono colte da Colorni, e l’idealismo maturato negli anni della quasi trentennale collaborazione con Gentile. La perplessità che si nota nel personaggio rappresentato nel suo saggio è la stessa, o è assai simile a quella, che si coglie nell’autore del personaggio. In parole semplici. Poiché l’indicazione ricavata dal saggio di Colorni non è stata specificata in giudizi concreti, ed è rimasta generica, è difficile dire quale sia la valutazione che Ginzburg dà di Croce come teorico della storia, e quindi come filosofo. Eppure, l’impressione che si ricava dalla lettura delle sue pagine, e dalla citazione che vi si fa del giudizio che, in margine alla memoria Storia, cronache e false storie, andata poi a costitui re, con modifiche, i primi tre capitoli della Teoria e storia, fu formulato da Renato Serra, è che egli, in ultima analisi, concordasse con le preoccupazioni manifestate da quest’ultimo, in tema di obiettività e «cosa in sé», e ne condividesse l’ispirazione antidealistica. Sebbene il libro in questione fosse stato da lui considerato come quello in cui l’idealismo aveva attenuato i suoi rigori e la filosofia aveva dato segno di volersi «dissolvere» nella storia,62 quello che vi era sostenuto era pur sempre idealismo, una forma di idealismo. Soggettivismo, quindi, e perciò, secondo un ricorrente modulo critico, tendenzialmente, irrazionalismo. Si sa come, di scorcio, Serra avesse delineato il problema della storia, nell’articolo che nel 1912 aveva dedicato alla Partenza di un gruppo di soldati per la Libia; nel quale, sempre di scorcio, aveva fatto a tempo a prendere posizione nei confronti della «memoria» crociana, Storia, cronaca e false storie, che aveva, in quello stesso anno, ricevuta dalle mani stesse del suo autore. Nella lettera che inviò a Croce l’11 novembre, si era definito uno «schiavo della cosa in sé». A lui che, in quell’articolo, aveva anticipato molti dei temi del più famoso Esame di coscienza di un letterato, la partenza di quei soldati suggeriva, «in uno stile audacemente sperimentale che ricorda», come Ginzburg finemente rileva, «i quadri futuristi dipinti da Boccioni in quelli stessi anni»,63 un’idea d’incomunicabilità, di estraneità reciproca, di 61. Ginzburg, Il filo e le tracce, p. 216. 62. Ibidem, p. 213. 63. Ibidem, p. 222.
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impossibilità di capire, che era sua, dei suoi e di quanti poi si sarebbero dedicati al compito di cogliere il significato della guerra che quei giovani cesenati andavano a combattere in una terra lontana. La «cosa in sé» non aveva, qui, nulla a che fare con l’oggetto trascendentale che, in Kant, affiziert la sensibilità, la forma pura e a priori della sensibilità, che deve sua volta esser disposta (e occorrerà passare attraverso la prova del fuoco dello schematismo, perché l’incontro si realizzi) a ricevere l’intervento delle categorie dell’intelletto, soltanto su quel fondamento essendo possibile la costruzione dell’esperienza. Era stata evocata in modo non più che suggestivo, ma fortemente suggestivo, per segnare, in margine al passo in cui Croce aveva criticato Tolstoj e la sua idea della non conoscibilità di una battaglia nemmeno da chi l’avesse disegnata sulla carta e quindi attuata sul terreno, il dubbio che il critico avesse ragione quando sosteneva che la battaglia si conosce via via che si svolge; e che poi, col tumulto di essa, si dissipa anche il tumulto di quella conoscenza, solo importando la nuova situazione di fatto e la nuova disposizione d’animo che si è prodotta e che si esprime nelle poetiche leggende o si aiuta con le artificiose finzioni;
e che in realtà avesse torto, e sfuggisse al problema, là dove concludeva che «noi, a ogni istante, conosciamo tutta la storia che c’importa conoscere; e della restante, poiché non c’importa, non possediamo le condizioni del conoscerla, o le possederemo quando c’importerà».64 Ma sebbene, senza nominarlo, ne evocasse l’autore, quella di Serra (che del resto parlava di «cose»,65 non di «cosa in sé») non era la «cosa in sé» di Kant. Inattingibile dall’intelletto, la «cosa in sé» era infatti, nella filosofia critica, condizione del processo costitutivo dell’esperienza che, senza l’originario contatto di quella con la sensibilità, non avrebbe potuto avere il suo inizio. Nel discorso di Serra, che pure di Kant era in qualche modo studioso,66 essa si dirompeva, invece, in tante «cose in sé» quante erano, e potevano essere, le passioni, le pulsioni, le intelligenze, le volontà di quei soldati che, alla stazione di Cesena, vivevano quel particolare momento delle loro esistenze, e si accingevano a viverne altri, ciascuno dei quali sarebbe rimasto chiuso in sé, impenetrabile, o non più che parzialmente penetrabile. Non la «cosa in sé», ma tante cose in sé. E come ognuna chiudeva, nella profondità di sé stessa, una più 64. Croce, Teoria e storia della storiografia, pp. 44-45. 65. R. Serra, Scritti, a cura di G. De Robertis e A. Grilli, II, Firenze 1958, p. 534. 66. Serra, Emanuele Kant (1912/1914), in Scritti, II, 565-585.
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profonda, inattingibile «cosa in sé», così Serra poteva contrapporre a Croce la sua diversa idea della storia; nella quale tutto si conservava, niente si perdeva, perché ogni cosa aveva la sua radice nell’«eterno», e in questo era eterna. Salvo che in quella loro dimora eterna non erano raggiungibili; e nel tempo erano invece soggette alla vicenda del ricordare e del dimenticare, e alla sua discontinuità. Da Croce questa vicenda era ricondotta all’interesse in forza del quale si ricorda e si dimentica. A lui, Serra, sembrava invece che da quella non conseguissero, per la storia, se non la precarietà, e, nel profondo, la sua incomprensibilità. Per dirla in breve. In Kant, essendo inconoscibile, la «cosa in sé» svolgeva un’essenziale funzione conoscitiva. In Croce, come per gli idealisti postkantiani, era risolta nel processo dello spirito, che è storia e si conosce come storia. In Serra, che, per dir così, ne venerava l’oggettività, non era funzione del conoscere e della costruzione, secondo leggi dettate dalle categorie ai fenomeni, dell’esperienza. Era il segno, o il simbolo, della inconoscibilità di ciò che costituisce la parte profonda delle cose, al di là o al di qua del gioco vano delle apparenze. Il devoto, anzi lo «schiavo», della «cosa in sé»67 era perciò posseduto dal demone dello scetticismo. E correva il rischio di inclinare al misticismo, con le conseguenze che potevano derivarne in tema di ragione e di razionalità. Sebbene dichiarasse di condividere la persuasione di Serra, che, rispetto a questo modo crociano di risolvere la questione dell’oggettività della conoscenza storica, le cose fossero «più complicate», non potrebbe dirsi che perciò Ginzburg ne condividesse lo scetticismo. Conoscitore attento delle teorie narratologiche, e consapevole della vis conoscitiva presente in certi romanzi (Stendhal, Balzac, Manzoni), non immemore della lezione che, quand’era giovane normalista a Pisa, Arsenio Frugoni gli aveva impartita con il suo Arnaldo da Brescia (1954),68 temeva la possibilità di una deriva scettica, nella quale della certezza e della verità della storia niente si salvasse, e, per dirla in breve, Pierre Vidal-Naquet non valesse necessariamente di più di Robert Faurisson. Convinto che il necessario controllo filologico delle testimonianze sia indispensabile a tenere lontane le suggestioni deformanti delle ideologie, era anche consapevole dell’importanza di queste nel dare l’avvio alla ricerca, e quindi dell’impossibilità di perve67. R. Serra a B. Croce, 11 novembre 1912, in R. Serra, Epistolario, a cura di L. Ambrosini, G. de Robertis e A. Grilli, Firenze 1953, p. 459. 68. Ginzburg, Il filo e le tracce, pp. 263-264, 312-313.
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nire a una totale purificazione del campo.69 Ma, nei confronti di Croce, il giudizio non fu, se non in parte, espresso con la necessaria chiarezza. Si può forse ritenere che, ai suoi occhi, Croce apparisse come uno che dava per risolto quel che risolto non era e si trattava invece di risolvere; come uno che non diceva con sufficiente chiarezza se e quale fosse il rapporto che, a suo parere, legava insieme il momento del certo e quello del vero, la filologia e la filosofia; come uno che non lasciava intendere se, in un ultima analisi, malgrado le sue propensioni per le «cose», la sua fosse una teoria soggettivistica della conoscenza storica, diversa da quella che sarebbe in seguito stata elaborata da Giovanni Gentile, ma pur sempre, malgrado tutto, soggettivistica. A questo punto, è agli scritti di Croce, e poi (perché anche lui è chiamato in causa) a quelli di Gentile, che, il più brevemente che sia possibile, occorrerà rivolgersi. Può darsi che, per questa via, anche delle perplessità di Ginzburg, e di quel che nella sua tesi non appare persuasivo, si arrivi a capire meglio la natura e la ragione. Che, pungente per Croce e anche, come vedremo, per Gentile, la questione delle «fonti» o, che si dica, dei «documenti», non sia risolubile nel modo in cui, con non grandi diversità, e l’uno e l’altro la risolvevano, risulta chiaro se, lasciando da parte i fantasmi del loro presunto soggettivismo, la si consideri con qualche attenzione: nella non lieve difficoltà, innanzi tutto, in cui il primo dei due incorreva quando, dopo aver dichiarata la piena coincidenza di spirito e storia, era costretto a chiedersi come mai allo spirito questa non fosse sempre tutta presente, e una parte ne ricordasse, un’altra ne dimenticasse, a seconda delle sue interne necessità. La domanda avrebbe in realtà dovuto essere più radicale, più radicale avrebbe dovuto essere la risposta. Se, con rigore, spirito e storia fossero stati concepiti come «lo stesso», se lo spirito non avesse potuto non essere, sempre, la pienezza di sé stesso e la sua propria «totalità», a essere inconcepibile sarebbe stata non solo la vicenda del dimenticare e del ricordare, ma la storia e l’idea della storia. A renderne inconcepibile il concetto sarebbe stata proprio la sua coincidenza con lo spirito; che, se, e quand’anche fosse stato concepito come storia, sarebbe stata proprio questa coincidenza a dimostrare impossibile il pensiero che entrambi pensavano. Se infatti la storia fosse stata dichiarata identica allo spirito, la coincidenza non avrebbe potuto non essere sottratta alla vicenda del mutamento e del divenire, pena altrimenti l’impossibilità di parlarne 69. Ibidem , pp. 309-310.
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come della coincidenza di cui invece si parlava. Ma se a questa vicenda fosse stata sottratta, e in essa spirito e storia avessero trovato il punto dell’incontro, non è evidente che, come coincidenti con essa, sarebbero stati identici, e che, a causa proprio del loro coincidere, parlarne come dello spirito e della storia sarebbe stato impossibile? Se, d’altra parte, ai fini della sua concepibilità, si fosse inteso che la storia avesse risolto in sé lo spirito, e il divenire avesse avuto ragione dell’essere, parlare con coerenza della loro «identità» non si sarebbe potuto, una volta che si fosse tenuto fermo al punto che la storia «diviene», ma lo spirito «è» lo spirito. Insomma, se la storia fosse essa intesa come spirito, sarebbe totalità: sarebbe spirito, ma non storia. Se lo spirito fosse inteso come storia, sarebbe storia, ma non spirito, perché non potrebbe essere, e non sarebbe, totalità. Ma lo spirito è «totalità». Se, quindi, per «totalità» si fosse inteso quel che questo concetto esige e, per «storia», quel che si muove, si svolge e sempre va oltre il limite di volta in volta raggiunto, l’incompatibilità dei due termini avrebbe dovuto essere dichiarata senza mezze misure. E con radicalità si sarebbe dovuto dire che, in ragione del suo impianto categoriale e del modo in cui Croce ne intendeva il funzionamento, la «filosofia dello spirito» non era passibile di essere reinterpretata come una forma, anche se peculiare, di storicismo. La ritraduzione della «totalità» in termini fenomenologici importava, in effetti, un’operazione concettuale che, nella «filosofia dello spirito» (e non meno in quella dell’atto puro), era stata bensì dichiarata, ma non sul serio eseguita. Ma c’erano anche altre, e ancor più pungenti, difficoltà; che, dopo essere state trattate a lungo in una precedente occasione,70 possono essere riprese qui aggiungendo e osservando che quel che allora si argomentò non fu avvertito e considerato come il punto sul serio critico del pensiero di Croce, come l’impossibilità che dalla teoria del giudizio, quale si era configurata nelle sue indagini logiche, si svolgesse la tesi della filosofia come «storicismo». Non si faceva, in quell’analisi, questione del contrasto che, nella filosofia di Croce si era aperto fra l’inclinazione «metafisica» e quella «storicistica»: si faceva questione, bensì, dell’impossibilità che, lungi dal risolvervisi, il giudizio individuale fosse altra cosa dal giudizio definitorio. Se, com’era necessario, la si fosse interpretata, non come una formula, e, per così dire, un imperativo della volontà storicistica, ma per quel che era in sé, la tesi 70. Cfr. il mio Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975, pp. 354 ss., e anche il mio saggio Intorno alla teoria crociana del giudizio e ad alcune altre questioni (1993), in Filosofia e idealismo, I, 129-197.
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della coincidenza di spirito e storia avrebbe importato che se ne fosse tratta l’inevitabile conseguenza, e si fosse perciò messo in chiaro che, in quanto coincidenti in quel punto, non poteva dirsi né che la storia fosse spirito, né che lo spirito fosse storia, perché entrambi non erano che quel punto, in ogni senso immobile, nella sua pura coincidenza con sé. Se questa implicazione fosse stata colta e resa esplicita nelle sua conseguenza, a emergerne sarebbe stata la consapevolezza dell’irriducibilità della «filosofia dello spirito» allo storicismo. Ma a questa conseguenza Croce non pervenne. Egli si chiese (lo si è visto) come e perché accadesse che, onnipresente com’era a sé stesso, oltre la memoria, lo spirito conoscesse l’oblio, e alcune cose le ricordasse, altre invece le dimenticasse, per tornare eventualmente a ricordarle quando di ricordarle avesse avvertita la necessità. Se lo chiese, e rispose che questo alterno ritmo era la conseguenza della legge a cui sempre lo spirito obbediva, realizzandovi la sua libertà: la legge per la quale l’unità della teoria e della pratica importava che questa si realizzasse attraverso la distinzione, e sullo schermo della teoria o della prassi di volta in volta apparissero o sparissero cose che, non perché ne fossero uscite, sarebbe stato giusto concluderne che a ricoprirle fosse stato il freddo manto del nulla. Il che era certo argomentato con molta sottigliezza e ingegnosità: anche se il punto che avrebbe dovuto, e, invece, non fu trattato, riguardava la temporalizzazione estrinseca che, con la sua presa, l’oblio introduceva in un rapporto che, fondato sul ritmo implicativo di categorie eterne, a questo esito non poteva essere esposto. Riguardava questa temporalizzazione, questo alterno ritmo del ricordare e del dimenticare, del dimenticare e del ricordare; e riguardava, come si è detto, la sua possibilità, che non avrebbe invece dovuto essere ammessa. Per essere fino in fondo coerente al suo pensiero, Croce non avrebbe infatti dovuto conoscere esitazioni, e dire, chiaro e tondo, che il soggetto della storia, quello che la pensa e la agisce, è non il determinato soggetto umano che si fa autore di libri nei quali narra quel che, in un determinato tempo, è accaduto. Non questo soggetto empirico che, in uno spazio/tempo pseudoncettualmente costruito, è esso stesso, in termini di logica crociana, una costruzione pratica e pseudoconcettuale. Ma il soggetto che, nel giudizio non può stare senza il predicato e, comunque il loro nesso si determini,71 non è concepibile se non in quel rapporto, al quale ogni dimensione temporale è rigorosamente estranea. Questo soggetto non è insomma quel soggetto; e dovrebbe prendersene atto, per tenere la discussione sul piano che le appar71. Debbo rinviare, per brevità, al mio saggio, qui su, n. 70
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tiene e al quale essa appartiene. Se la conoscenza del pensiero idealistico non si fosse, nel tempo, tanto illanguidita e a sopravviverne non fossero, per lo più, se non proposizioni slegate e, nel loro isolamento, alquanto deformate, è a questi paradossi, e a queste difficoltà, che lo sguardo dovrebbe dirigersi. Non tanto, o non solo, alla presunta onnipotenza dello spirito assoluto, al quale, chi a queste filosofie, guarda con occhio empirizzante attribuisce tutte le astrattezze, e ogni altro guaio. Ma, invece, alla non piena capacità, e si dica pure all’incapacità, di mantenersi, nel sistema, all’altezza richiesta dalla sua coerenza: quali che fossero i paradossi e le offese che potessero provenirne al comune senso del pudore storiografico, o essere avvertite per tali. Per la scarsa attenzione prestata al tema speculativo che costituisce il centro della riflessione crociana e gentiliana, anche la questione delle fonti, dei documenti, delle evidences, non è stata considerata nel suo vero carattere, nel suo autentico nucleo problematico. Che non è, per esempio, quello, o non si riduce a quello, che, in polemica con White, Momigliano indicava quando osservava che, superata la barriera che teneva separate la storia e la filosofia, Croce venne a disporre di una teoria dello spirito (mind) «which seemed to assure him that at any given moment any human mind possessed all the evidence it needed»: con la conseguenza che non si dava, a suo parere, differenza fra la mente intrinseca a «the universal Spirit and a mind of a mortal individual».72 Che questa idea compaia in un capitolo della Teoria e storia della storiografia,73 è, naturalmente, vero: come lo è che nel successivo libro sulla Storia come pensiero e come azione, messosi di fronte al problema dei documenti falsi, Croce ritenne di averlo risolto con l’osservazione che il falso «imita» il vero e, come a questo non aggiunge nulla, così nemmeno potrebbe mai togliergli qualcosa.74 Ma, ancora una volta, significherebbe semplificare quel che in questi termini non potrebbe mai esserlo, se queste tesi, così schiettamente idealistiche, fossero fatte convergere in un segno comune con quelle di White e di quanti pensano come lui. In realtà, il punto che emerge da questo modo di impostare la questione è proprio quello che più allontana la posizione di Croce, e, come fra breve vedremo, anche quella di Gentile, dalla teoria di quel pensatore. Presso di lui è il racconto che stori72. ������������ Momigliano, The Rhetoric of History, p. 55. 73. Croce, Teoria e storia della storiografia, pp. 42-45. 74. B. Croce, La Storia come pensiero e come azione, Bari 1943, pp. 105-12. Momigliano, The Rhetoric of History, p. 56.
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cizza il documento da cui deriva: una tesi che, se mai l’avessero conosciuta, i due filosofi italiani avrebbero criticata come quella che, nel suo estremo soggettivismo, non eliminava, ma, al massimo grado, rivelava il dualismo. Il racconto, al quale, attraverso i «tropi», White assegnava la produzione retorica dei documenti, e con ciò la loro disposizione nella forma di «una» storia, non ha niente a che vedere con lo «spirito» quale, sia Croce sia Gentile, lo intendevano: con lo spirito che è la storicizzazione di sé stesso. I documenti, di cui, secondo White, lo storico si serve, appartengono all’essenza del racconto solo in quanto di narrarli egli prenda la decisione, e questa sia identificata, non nella necessità della vita che impone di rivolgersi a essi, ma appunto in una decisione, in una volontà che potrebbero non determinarsi in un «soggetto», e la storia allora non sarebbe scritta. Non sono la memoria dello spirito. Sì che la differenza che, a guardar bene, si rivela sussistente fra la teoria dei tropi e le concezioni degli idealisti italiani potrebbe essere espressa in questa forma, paradossale, ma veritiera. Per White la storia si narra deducendola da documenti che, disposti secondo diverse esigenze di spiegazione, sono sottoposti a un controllo che, come Momigliano avrebbe detto, è, non «compulsory», ma «optional». Per Croce, e poi, sia pure con diversa accentuazione, per Gentile, la storia non deriva dai documenti, perché è essa stessa il documento. Il documento e la critica, la vita e il pensiero, sono le vere fonti della storia, cioè i due elementi della sintesi storica: e, come tali, non stanno innanzi alla storia, ossia innanzi alla sintesi, al modo che s’immaginano le fontane innanzi a colui o a colei che vi attinga col secchio, ma entro la storia medesima, entro la sintesi, costitutive di essa e costituite da essa.75
Il lettore che, avendo cominciato a leggere queste linee, intendesse proseguire nella lettura, non troverebbe nel testo di Croce niente da cui questa tesi fosse attenuata nelle sue conseguenze; che, certamente, sono paradossali, perché invertono il versus del rapporto intercorrente fra il documento e la storia, mettendo questa innanzi a quelli. Eppure, è notevole che delle questioni che ne nascono nemmeno si riesce più ad avvertire, nel quadro stesso della «filosofia dello spirito», l’importanza, la gravità, il tratto peculiare: se è vero che non si è incontrata alcuna sostanziale difficoltà a riconoscervi una delle «fonti» a cui White avrebbe attinto per la delineazione della sua teoria. 75. Croce, Teoria e storia della storiografia, p. 14.
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È, dunque, la scarsa attenzione prestata alla sostanza concettuale delle tesi idealistiche che, in questo quadro, sorprende e sconcerta. C’è un passo, alla fine del capitolo, che è il primo, nel quale, a conclusione del ragionamento relativo al dimenticare e al ricordare, Croce scrisse che lo spirito rivivrebbe, per così dire, la sua storia anche senza quelle cose esterne che si dicono narrazioni e documenti; ma quelle cose esterne sono strumenti ch’egli si foggia, ed atti preparatorii ch’egli compie, per attuare quella vitale evocazione interiore, nel cui processo si risolvono. E a tal uso lo spirito asserisce e gelosamente serba le “memorie del passato”.76
E, nello scriverlo, sembrò che egli stesso si lasciasse persuadere da una delle definizioni che più volte, da quando aveva cominciato a teorizzarlo, in forma sistematica, nei Lineamenti di logica del 1904/1905, aveva data dello pseudoconcetto; che, se è uno strumento che lo spirito foggia per la sua propria utilità, perché allora non dovrebbe vedersene il volto anche nei documenti e nelle testimonianze, in tutto ciò, insomma, che esso deposita là dove la memoria possa essere preservata contro l’opposta potenza dell’oblio? Questa riduzione del documento allo pseudoconcetto può essere considerata paradossale; e lo è, se si esce dal sistema, non lo è, invece, se, rimanendo all’interno del quadro teoretico delineato da Croce, lo s’interpreta con coerenza. Non lo è perché, come lo pseudoconcetto è la scissione del concetto, la separazione, nella sua sintesi, del soggetto dal predicato, altrettanto può e deve dirsi del documento, una volta che lo si sia distaccato dal nesso in cui sta con il pensiero e, da vita che era in quello, lo si sia di nuovo ridotto a un semplice insieme di segni o di figure. Eppure di scrivere quel che si legge nelle linee citate qui su Croce, a rigore, non aveva il diritto. Non lo aveva perché, come imitazione (e falsificazione) del concetto, lo pseudoconcetto viene dopo, non prima del concetto. Con la conseguenza che se quello intrattenuto con lo pseudoconcetto fosse, e potesse essere, un rapporto, in questo il concetto dovrebbe tenere la parte del «primo»: e mai, perciò, quello vi troverebbe posto, se è vero quel che, coerentemente, Croce aveva asserito quando aveva affermato che prima sta la storia, e poi la cronaca, «prima il vivente, poi il cadavere», dal quale come si pretenderebbe che potesse mai nascere la vita? Che questo fosse il punto in cui il concetto crociano della storia veniva al paragone, e non riusciva a sostenerne il peso, è evidente: almeno se si abbia la pazienza di spingere lo 76. Ibidem, p. 16.
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sguardo nel luogo in cui i suoi concetti si intrecciano e fanno insorgere gli autentici problemi che la sua filosofia pone a chi la ripercorra. Per un verso, era la storia che, avendo in sé il documento con il quale coincideva, e che coincideva con lei, veniva prima di questo, quando lo si fosse preso nella sua «astratta materialità» pseudoconcettuale. Ma per un altro era il documento inteso in questo secondo senso che, invece di venire dopo, in qualche modo veniva prima; ed era infatti da e attraverso l’ausilio che lo spirito ne ricavava, e ne riceveva, che il processo storiografico era messo in atto e spinto verso la sua conclusione. Non scriveva forse Croce di «atti preparatorii» che lo spirito compiva per «attuare quella vitale evocazione interiore»; e cioè la storia che, coincidendo con lui, avrebbe dovuto stare essa all’inizio del suo proprio processo, senza bisogno che questo fosse avviato con l’ausilio di ciò di cui si era pur dichiarata l’impossibilità che stesse alla sua radice? Che in questa vicenda concettuale, e nello scambio a cui Croce qui dava luogo, ad agire, e a mostrare il suo ambiguo volto, fosse proprio lo pseudoconcetto che, come a suo tempo fu chiarito,77 era tale che, inevitabilmente distinguendosi fra attività schematizzante e schema pratico, per un verso era categoria e sintesi e per un altro analisi, per un verso unità e per un altro scissione, e veniva perciò insieme prima e dopo di sé stesso, non dovrebbe sfuggire, una volta che si fosse avviata la discesa verso la radice. Ma è comunque evidente che in questo scambio si esprimevano, da una parte il capovolgimento che Croce aveva operato del tradizionale rapporto, per il quale è il certo che viene prima del vero, che ne è reso possibile, e, da un’altra, il capovolgimento di questo capovolgimento, con la restituzione al certo, al documento, alla filologia, del posto che, in forza dell’altra tesi, era andato perduto. Per Croce, basti così, perché il resto dev’esser dato per noto. Si tratta ora di dire qualcosa di Gentile, e del modo in cui, parlandone in relazione a White, Ginzburg ne ha interpretato il pensiero. Se Croce era stato, a suo parere, un idealista temperato, e perciò un soggettivista bensì, ma non immemore del «principio di realtà», Gentile fu al contrario un idealista estremista, e così conseguente da lasciar cadere ogni distinzione che si fosse preteso di mantenere fra le res gestae e la historia rerum gestarum; un idealista così radicale da sostenere, senza mezzi termini, che la storia non è se non una «creazione» del pensiero; che, in tanto la crea, in quanto, per la legge che gli è intrinseca, è impossibile che la presupponga e non vi coincida. I «fatti», ai quali la vol77. Cfr. il mio Benedetto Croce, pp. 57 ss., passim.
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gare immaginazione suole assegnare il carattere della realtà, erano, per lui, il «momento oggettivo dell’autocoscienza». La storia, che è vera filosofia tanto quanto questa è vera storia, era perciò, non tempo, ma superamento del tempo, – del tempo «astratto» in cui, astratti anch’essi, i «fatti» si dispongono nel senso estrinseco della serie numerica e, per non averlo in sé, si sottraggono a ogni criterio di intelligenza. Ginzburg non ha prove che White conoscesse Gentile per lettura diretta: in tutta la sua opera non ha trovato che una sola citazione del suo nome.78 Ma, per un verso, potrebbe sostenersi che a mantenere il silenzio su di esso, White fosse stato indotto dall’imbarazzo in cui, accogliendone la teoria della storia, si sarebbe venuto a trovare nei confronti di quella concernente i princìpi dell’attualismo e della politica, e della violenza, che ne erano parte: la sua scelta era infatti per la tolleranza, non per la violenza.79 Per un altro, potrebbe proporsi che, se non in forma diretta, Gentile avesse tuttavia esercitata influenza su di lui attraverso Collingwood: in quanto autore, per altro, non di The Idea of History, ma dello Speculum mentis, un libro pubblicato nel 1924, nel quale Gentile era presente, e che per questo provocò la reazione di Croce, cordiale nei confronti dell’autore amico, ma netta nel rifiuto delle idee che vi erano sostenute.80 Come che sia, resta che, fra il soggettivismo estremo di Gentile e il pensiero di White, la convergenza è, per Ginzburg, tanto indiscutibile quanto lo è la divergenza che i due pensatori fecero registrare nel campo politico e della teoria politica. Non è per altro su quest’ultimo punto che qui interessa discutere. Ma sul primo: a cominciare dalla questione del «soggettivismo» che, deve ripetersi, se i testi fossero considerati con l’agio necessario, non potrebbe essergli attribuito se non in un senso in tutto e per tutto specifico; che certo non è quello per il quale quel termine necessariamente rinvia a un universo popolato di soggetti, a partire dalla cui particolarità si intesse la trama del vario cogitare e opinare 78. Ginzburg, Il filo e le tracce, pp. 216, 221. La citazione del nome di Gentile, genericamente avvicinato a quello di Heidegger, si trova in White, The content of Form, p. 74. Ma cfr. anche nell’Introduzione a Forme di storia, p. 11, dove Gentile è citato, con Croce, insieme a «modernisti» come Collingwood, Dawson, Benjamin, Spengler, Rosenzweig, e Heidegger. A parte il modo, alquanto sommario, con cui questi personaggi furono messi insieme, non direi che né nel primo, né nel secondo caso, la citazione di Gentile assumesse particolare significato, e che, come Ginzburg (Il filo e le tracce, p. 216) invece asserisce, la sua «familiarità con l’opera di Gentile» possa essere «tranquillamente presupposta». 79. Ibidem, p. 219. 80. B. Croce, Unità reale e unità panlogistica (1924), in Ultimi saggi, Bari 1936, pp. 332-339.
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umani. Un universo così concepito è, senza dubbio, presente nel pensiero di Gentile. Ma in un senso, per altro, estremamente specifico. Altro, infatti, era, per lui, parlare di Io, e intenderlo come la stessa cosa della realtà che, ponendo sé innanzi a sé, sdoppiandosi e riappropriandosi del sé alienato, si realizza come autocoscienza. Altro era parlarne nel senso per il quale, nel comune discorrere, si dice «io», si dice «soggetto», e al proprio «sé stesso» empirico si assegna l’io, si assegna il pensiero. Che, nella filosofia di Gentile, la distinzione a cui si è accennato, e che non si spiega se non nel quadro costituito dalle due logiche, quella dell’astratto e l’altra del concreto, sia fonte di complesse questioni e di altrettanto acute difficoltà, è vero.81 Ma le difficoltà che il suo quadro presenta sono quelle che nascono dall’intento di assegnare all’Io, che era, per lui, il fondamento stesso del mondo, il suo significato autentico; che, per critiche che possa sollevare, e insoddisfazioni che possa far nascere, non è quello che si attribuisce all’io inteso immediatamente come «io». E non è nemmeno quello che al suo concetto si assegnò da quanti, nel nome dell’attualismo tuttavia, intesero far crollare la distinzione dell’io empirico da quello trascendentale, riguadagnando così, di contro all’astrattezza della metafisica idealistica e la retorica, magari, dello spirito assoluto, la concretezza dei soggetti e della responsabilità morale. Chi argomentava così, non si accorgeva infatti che, per essere una struttura onnipresente e insuscettibile di variazione interna, l’io, che ero io, non si differenziava dall’Io e, con il carattere strutturale che si seguitava ad attribuirgli, riproduceva in sé le difficoltà che s’intendeva potessero esserne superate. Occorre andar piano, dunque, quando, a proposito di Gentile, si parla di soggetto, di Io, e infine, cogliendo in questo il punto della maggiore vicinanza di White a lui, di «creazione». Per dare l’avvio al discorso, si cominci di qui. E si osservi che se la «creazione» fosse intesa nel senso per il quale si dice che Dio conferisce l’esistenza alle cose e, nel conferirgliela, dà forma allo spazio e al tempo, con i quali segna la sua distanza dal mondo, e di questo da lui, quel che di qui emergerebbe è, o dovrebbe essere, chiaro. Se, da una parte, si pone Dio, da un’altra i fatti del mondo che ne sono creati, e che tanto ne sono diversi che trascenderli, per tornare al creatore, è impossibile, allora è chiaro che una visione siffatta potrà, forse, esser presente nell’idea che White si fece del rapporto intercorrente tra il racconto che crea i documenti e questi che ne dipendono, ma in quella di Gentile no. È evidente, 81. Cfr., al riguardo, il mio saggio Gentile: le due logiche e il loro rapporto, in «La Cultura», 45/3 (2007), pp. 367-401.
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infatti, che, per questa via, si sarebbero poste le premesse del più sconsolato e inguaribile scetticismo, essendosi, fra Dio e mondo, aperto l’abisso del dualismo: ossia della figura concettuale che più di ogni altra Gentile aborriva e dalla quale si ritraeva con autentico orrore. Altra da questa, ben altra, da questa, era, sempre che al termine si credesse di dover concedere diritto di cittadinanza nel suo universo, l’idea che egli proponeva del «creare»; che consisteva, non già nel far essere quel che prima non ci fosse stato e a cui, come segno di onnipotenza, si intendeva conferire realtà e esistenza, ma in tutt’altro. Non nella creazione di qualcosa, ma nella «posizione» che l’Io faceva del suo proprio «sé» nella forma dell’oggetto, in modo tale che, per un verso, questa era bensì un’alienazione, una Entfremdung, ma anche era, per un altro, pur sempre un «sé», al quale era necessario, oltre che possibile che si ritornasse per il miglior possesso della sua essenza. Di creazione, e di creazionismo, nel senso teologico dell’espressione e del concetto, qui non c’era alcun segno. E c’era invece il contrario. Per sé stesso, posto il dualismo con il creatore, a questo il mondo creato non può tornare. E in Gentile, al contrario, proprio quel che qui era assunto come impossibile, proprio questo avveniva. Avveniva che l’energia, mediante la quale lo spirito si alienava nell’oggetto, era la stessa che guidava il ritorno all’origine, nel segno, al massimo potenziato, dell’autocoscienza. Se, perciò, in ossequio allo stile di questa filosofia, e anche del suo modello hegeliano, si volesse indulgere a qualche metafora, e, nell’Io che si aliena per dar vita al suo sé obiettivo, si intendesse indicare il dio, ebbene, come non vedere allora che a esser creato da lui sarebbe qui, non il mondo, ma lui stesso, il dio che, nella seconda battuta, si realizza nella forma dell’autocoscienza, ed è un più pieno e potente Dio? Potrebbe cogliersi qui, se a questo tema piacesse di conferire qualche svolgimento, il tratto di un’oltranza teologica, nel cui fondo a intrecciarsi sono hegelismo e, sopra tutto, spinozismo. In questa confluenza potrebbe indicarsi quel che più è gentiliano in Gentile, la vera essenza del suo pensiero. Ma queste proiezioni metastoriche, ed essenzializzanti, non appartengono al gusto di colui che sta conducendo questa analisi. E per restare ai concetti, e alla loro sintassi, conviene insistere su quel che, per non cadere nell’equivoco del soggettivismo, qui più importa tener presente: e cioè che niente di arbitrario, niente che potrebbe non essere, si dà in questa strutturale vicenda dell’alienarsi del soggetto e del suo tornare al suo potenziato «sé» autocosciente. Conviene tenerlo presente e, a costo di riuscire fastidiosi, chiedere di nuovo: se è così, che cosa c’è di comune fra Hayden White e Giovanni Gentile?
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Niente, per la verità. E, volendo serbare il termine, dovrà allora dirsi che c’è soggetto e soggetto, soggettivismo e soggettivismo;82 che c’è Gentile e c’è Hayden White. Il quale potrà essere, o non essere, preferito al primo, che potrebbe infatti essergli, o non essergli, a sua volta preferito, mentre la duplice vicenda della preferenza accordata all’uno o all’altro potrebbe essere spezzata, conforme ai gusti dello scrivente, a svantaggio di entrambi. Ma, o l’uno o l’altro: insieme no, nemmeno se si assumesse il concetto della «simiglianza» e dell’«aria di famiglia»; che forse può stare al suo giusto posto quando si faccia storia di «idee», non certo quando si affrontino concetti. Fra l’uno e l’altro occorre scegliere prima, se così paia giusto, che siano respinti entrambi. E poiché è a Gentile che, in questa sede, essenzialmente si deve restituire quel che gli appartiene, ed è altresì su quel che già si è detto del processo di alienazione e riappropriazione in cui il pensiero vive la sua via, che si dovrà ritornare, si cominci allora col ricordare che nell’attualismo si intrecciano, e variamente si condizionano, due logiche. Realizzandovisi il ritmo obiettivo del pensiero, l’unica logica si scinde infatti in due; e da una parte c’è la logica del concreto, o del pensiero in atto come pensiero pensante, da un’altra, alla prima strettamente connessa, e con essa tuttavia non coincidente, quella dell’astratto, o del pensiero, non pensante, ma pensato. La ragione per la quale le logiche sono due, e richiedono di essere separatamente trattate, deriva non già dall’aggiunta che dell’una si sia fatta, e si faccia, all’altra. Ma dalla natura stessa del pensiero, quale Gentile la concepì; e perciò, sia dalla sua intrinseca attitudine mediatrice della sua propria immediatezza, dalla paradossale (e anche aporetica) situazione per la quale la potenza della mediazione deve stare innanzi all’immediatezza che, se è immediatezza e, nella sua espressione più schietta, addirittura, «natura», dovrebbe stare essa nella posizione del primo; sia dalla stratificata, e niente affatto univoca, struttura dell’astratto. Che se, nella sua compiuta natura, è un «è» semovente83 che in 82. G. Gentile, Sistema di logica come teoria del conoscere, II, Firenze 1959, pp. 286287: «la soggettività della storia eterna è […] la massima oggettività che possa competere alla verità storica, poiché è l’oggettività della verità stessa. Dell’unica verità che si possa affermare con la maggior possibile sicurezza. Poiché c’è soggettività e soggettività. C’è la soggettività del soggetto che ha fuori di sé l’oggetto: e una cognizione soggettiva di una verità siffatta dà ragione allo scetticismo, poiché non può darci neppure un sentore della verità [….] E c’è la soggettività del soggetto che non ha fuori, ma dentro di sé l’oggetto, e che si ha fondato motivo di ritenere crei esso l’oggetto, ogni oggetto di cui si sia mai potuto e si possa ragionevolmente parlare». 83. Ibidem, p. 17.
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eterno ritorna là donde aveva avuto inizio il processo del suo allontanamento dal punto in cui si trovava; se, per questa sua natura, potrebbe essere definito come una mediazione immediata e immobile, e cioè riflessa e esaurita in sé stessa; se, conforme al modo in cui fu pensato dalla logica antica, l’astratto, ossia la verità astrattamente concepita, «è concetto essendo giudizio, ed è giudizio essendo sillogismo: circolo chiuso, dentro il quale infatti ogni mente che vi si affacci è costretta fatalmente a chiudersi»,84 per un altro verso è anche vero che l’astratto richiedeva almeno un’altra definizione. Quella a cui si è accennato quando si osservò che se, per un verso, l’astratto è il circolo della sua propria mediazione e non è A senza essere = A, ossia senza differenziarsi e poi eguagliarsi, per un altro è pur vero che si dà quel che non si dovrebbe. si dà A senza il suo riflettersi in A ed essere = A, si dà il puro A in cui il pensiero sta come la immota natura inconsapevole di sé: come la natura che occorre interrogare perché si riveli in lei la vita del pensiero, e che a rigore interrogabile non è, e non dovrebbe essere, perché questa operazione presuppone il pensiero, ossia il soggetto dell’interrogazione; che, alla natura, come potrebbe infatti essere rivolta se l’interrogazione è pensiero e, in questa situazione, il pensiero è natura, e, come pensiero, ancora non c’è?85 Si è accennato, con queste parole, a uno degli aspetti fondamentali del pensiero di Gentile. Chi, essendo riuscito a oltrepassare il limite costitui to dall’astrusità del linguaggio e dall’inattualità dei pensieri che vi sono pensati, anche fosse riuscito a coglierne il significato, dinanzi a sé avrebbe visto delinearsi una situazione non troppo dissimile da quella che, a proposito della storia e della sua teoria, gli era stata offerta da Croce. Fra le altre cose, avrebbe percepito il profilo della difficoltà costituita dal riemergere in primo piano, e nella posizione del primo, di quel che, nella logica delle rispettive teorie, avrebbe, se mai, dovuto, e dovrebbe, venire dopo: gli strumenti mnemonici (documenti, monumenti, «resti», come venivano definiti nei vecchi manuali di Istorica), dei quali lo spirito si dotava per intessere il filo della sua storia, in Croce; l’astratto e il pensato, nelle sue varie forme, in Gentile. Avrebbe percepito questo profilo; e se, anche senza aver letto White, fosse stato assistito da una forma qualsiasi di ironia, avrebbe potuto confidare a sé stesso che la vecchia logica positivistica (prima il documento, poi la storia e la sua narrazione) aveva preso la sua rivincita su quella 84. Ibidem, p. 4. 85. Cfr., più ampiamente, per questo, il mio Filosofia e idealismo, II, 191 ss., passim.
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idealistica (prima la storia, poi il documento, che le è interno, prima il concreto, poi l’astratto), quasi che, persino nei momenti della più pura esaltazione attualistica, Gentile avesse reincontrato in sé, e ascoltato, il discepolo normalista di Alessandro D’Ancona. Può darsi che sia così, e che queste eredità si siano, a un certo punto, fatte sentire. Ma la questione è, e resta, teoretica. Per pervenire, sia pure per le vie le più brevi possibili, alla sua radice, è perciò sul sentiero della teoria che occorre camminare per qualche tratto, tenendo ben fermo che, sia pure che il concreto venga idealmente prima dell’astratto, e non possa esserne condizionato alla maniera di un effetto che consegua alla sua causa, ma certo è di necessità che l’astratto, il fatto, tiene dietro al suo atto, questa essendo, appunto, una necessità alla quale è impossibile che proprio l’atto non dia il pieno riconoscimento. Se di questa premessa, che è o dovrebbe essere, ovvia, non ci si dimentica, e, svolgendola nelle sue, anch’esse ovvie, conseguenze, se ne conclude che, non il soggetto, astrattamente inteso, è il cuore di questa filosofia, ma l’ananke, il ferreo nesso che stringe insieme i suoi momenti ideali, allora ci si deve meravigliare di quel che si legge in un capitolo, del resto fondamentale, del Sistema di logica: il settimo della terza parte. La meraviglia nasce, non tanto dal vedervi asserito che «concetto è il pensamento della verità oggettivamente considerata come indipendente dall’atto del pensarla» e come, pertanto, essa stessa «un pensiero antecedente al pensiero che pensi la verità e da questo pensiero indipendente», laddove «autoconcetto invece è il pensamento della verità che si costituisce nell’atto stesso del pensiero che pensa».86 Ma nasce dal dover constatare che, essendo stata posta per evidenti, e esclusive, ragioni di chiarezza didascalica, questa distinzione fu poi affidata a qualcosa come alla decisione di eseguirla e di porla in essere: tanto che l’astratto poteva, e anche non poteva, essere considerato al di qua del concreto, al quale pure era a tal punto necessario che, nel segno dell’ananke, non poteva, nel quadro dell’intero, esserne disgiunto. Si vada al capitolo settimo di questa terza parte, e si legga: L’astratto come astratto non è dialettizzabile; e come tale infatti non si dialettizza. Fissate il concetto della natura; e non vedrete più la possibilità che da quel concetto si torni allo spirito, come non è possibile che palpiti più un cuore che l’anatomico abbia separato dall’organismo per veder com’è fatto. Ma il logo astratto può esser mantenuto nella sua astrattezza, e può essere risoluto 86. Ibidem, p. 153.
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nella concretezza dell’autosintesi, del cui organismo infatti esso veramente partecipa. In quanto si risolve, il logo astratto si dialettizza, perché coincide col logo concreto; ma non è più il logo di prima: il logo astratto astrattamente concepito; sì il logo astratto ricalato e mantenuto nella sua originaria e incancellabile concretezza.
Si legge, e ci si chiede come Gentile possa aver scritto quel che si legge qui, come, dopo aver detto nella pagina precedente, e poi anche, per un verso, ribadito, in questa, che il «dialettizzamento è la celebrazione dello stesso dialettismo, dell’atto spirituale, che solo empiricamente considerato può apparire alienato da sé e bisognoso perciò di un ritorno a sé stesso»,87 egli lasciasse intendere che a questa considerazione empirica, che pure non dovrebbe essere se non «apparenza», l’autonomia doveva pur essere riconosciuta: come se, appunto, il riconoscerla o non riconoscerla, il concederla o il non concederla, dipendessero, non dalla struttura obiettiva dello spirito, dalla sua interna ananke, ma dalla decisione e dalla scelta di qualcuno, e come se, deve aggiungersi, la disposizione dello spirito, o del pensiero, potesse essere decisa dal di fuori, da un qualsiasi «soggetto» empirico. Questioni tecniche, appartenenti al nucleo concettuale più profondo dell’attualismo, e alle difficoltà che gli stanno dentro. A quella, in primo luogo, che, da una parte, concerne la possibilità che al pensamento concreto dell’astratto si affianchi il pensamento astratto dell’astratto, e che anche questo sia possibile. E, a quella, da un’altra, che, fermo restando che il pensamento astratto dell’astratto non è pensabile se non come pensamento concreto del pensamento astratto dell’astratto, riguarda lo stesso pensamento concreto dell’astratto. Che certo implica la precedenza ideale del concreto rispetto all’astratto, e dunque, sul piano della storiografia, del pensiero nei confronti del documento. Ma anche implica e richiede che, nell’esserne pensato, l’astratto stia, inevitabilmente, come astratto nel concreto. Vi stia per esserne risolto, ma intanto vi stia come condizione dell’atto che lo toglie e lo supera. Vi stia dunque in modo che a questa dualità di fondo, che si ripresenta in tutte le espressioni nelle quali, e con le quali, si cerca di dichiararla insussistente e, quasi, di esorcizzarla, è impossibile, con la contraddizione che ne risulta, non concedere lo spazio che esige per sé. 87. Ibidem, p. 150.
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Questioni tecniche; che altrove sono state trattate per esteso,88 e alle quali era tuttavia necessario accennare, perché solo così sarebbe stato possibile indicare il punto che, per capire la tesi di Gentile sulla storia, è indispensabile cogliere e tener presente. Il punto è che, dalla natura stessa del pensiero e dell’Io, Gentile era costretto a porre come «non Io», e cioè come oggetto o, se si preferisce, come «fatto», quel che, non poteva non esserlo: pena, altrimenti, l’impossibilità, per l’Io, non solo di uscire dalla cieca prigione della natura, ma di chiudere entro i limiti della determinatezza l’infinità del suo atto. Donde l’ambiguità irresolubile del risultato, constatabile in ciò, che il «fatto» era, nello stesso tempo, tanto la perdita dell’attualità, e perciò della concretezza, quanto il conseguito traguardo del «determinato»: con l’ulteriore conseguenza che il concetto del concreto subiva in sé stesso una sorta di sfasatura o di interna dislocazione. Concreta, per eccellenza, non poteva infatti non essere l’attualità dell’atto, salvo che, in quanto determinato, concreto doveva di necessità essere considerato anche il «fatto», che pure, in sé stesso, apparteneva all’astratto e, per dir così, ne realizzava il principio. Questa è la ragione per la quale, nel saggio del 1936 sul «superamento del tempo», e poi in seguito sempre, e con pari convinzione, Gentile assegnò alla logica dell’astratto la questione del fatto, che, rispetto alla concretezza dell’atto, e, come diceva non senza enfasi, al suo essere in atto, gli appariva perciò come appartenente al «regno delle morte ombre inafferrabili».89 Ma questa è altresì la ragione per la quale dire questo, e non aggiungere altro, sarebbe stato, da parte sua, tradire un aspetto essenziale del suo pensiero; per il quale il primato dell’atto non relegava il fatto nel regno dei morti, perché di continuo vi si risolveva, e non vi moriva in forza della sua interna necessità. Se, andando al di là delle formule, si cerca di scendere verso la radice, a risultarne è che le due logiche vi si intrecciavano generando una forte instabilità, una invincibile tensione, una, per dirla alla maniera di Hegel, tiefe Unruhe. Ricorrendo a una formula, che semplifica, certo, ma non stravolge, l’atto è infatti superamento eterno di ciò che pone, e posizione, essa pure, eterna, di ciò che supera: in modo che né il superamento può sul serio essere tale, né la posizione può sul serio essere una posizione. Ne derivava che, se il «fatto» era da Gen88. Cfr. Sasso, Filosofia e idealismo, II, 293 ss., e anche il mio Gentile: le due logiche e il loro rapporto, pp. 367-401. 89. G. Gentile, Il superamento del tempo nella storia, in Memorie italiane e problemi della filosofia e della vita, Firenze 1937, p. 314, e ora in Frammenti di estetica, II, 13.
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tile interpretato come un «presupposto», e dunque come qualcosa che era impensabile potesse stare alla radice dello spirito, che è libertà, l’atto a sua volta era pensato come tale che, non potendo non dar luogo al fatto, aveva in sé questa «presupposizione» a porlo; e da sé stesso era perciò condizionato a non poterne prescindere. Riconoscimento del fatto da parte dell’atto, dell’astratto da parte del concreto; e qui era la logica del concreto, non, si badi, quella dell’astratto in sé stessa considerata, a concedere l’onore delle armi al momento rankiano della storiografia. La quale, se, conforme alla logica del concreto, si fosse per intero risolta nell’attualità dell’atto; se, per dir così, si fosse mantenuta al di qua del suo necessario risolversi nel «fatto», avrebbe coinciso con la sua parte, non con il tutto; che, senza ora entrare nelle difficili e irrisolte questioni che presenta, sta nell’unità delle due logiche, e non consente all’una di stare senza l’altra. Unità che, per altro, e qui è il tratto caratteristico (e fortemente problematico) della posizione di Gentile, non poteva essere conseguita nel senso della immobile compresenza dei due momenti, dell’astratto e del concreto, oppure, come anche si sarebbe potuto e dovuto dire, del concreto e dell’astratto. Se così la questione fosse stata intesa, e questa ne fosse stata la soluzione, l’astratto e il concreto avrebbero dovuto entrare in un terzo; che sarebbe stato esso il vero concreto, e l’altro niente più che un termine della sintesi, non la sintesi. Donde il disagio interno alla concezione dell’atto; che, in quanto sintesi, non poteva non essere inteso come perfezione, anche, se, per un altro verso, Gentile insistesse sul suo fieri e non sul suo esse, senza che perciò gli fosse dato di intendere non altrimenti che come esse il fieri in cui l’esse avrebbe dovuto superare la sua intellettualistica astrattezza. E che sia così, che così dovesse essere, si comprende, se ci si pensa. Forse che il fieri era in sé stesso un fieri, e non invece l’identità con sé stessa di questa sua intrascendibile natura? E se anche lo fosse stato, forse che il fieri del fieri non avrebbe, in ultima analisi, dimostrata la consistenza con sé di ciò che non è ulteriormente trascendibile? L’atto dell’atto è forse qualcosa di diverso dall’atto e di ulteriore a esso? Di qui anche, nella riflessione sulla storia, il disagio per il quale, strettamente coincidendo con la struttura stessa della logica e non essendo pensabile al di fuori di essa, l’atto storiografico veniva a rivelarsi come lo stesso atto del pensiero e questo come il farsi in atto della realtà; che storia poteva esser detta solo in modo equivoco, perché non era in effetti se non l’instabile struttura dell’atto che, per la sua interna costituzione, si rende oggettivo nel fatto. Nel fatto; che era insieme la sua concretezza (determinatezza) e la sua astrattezza (perché non è che astrattezza quel che,
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sia pure per intrinseca necessità, abbia perduto il contatto con l’atto): senza che perciò fosse dato di capire come nel fatto così dedotto potesse vedersi il molteplice spazio-temporale nella cui dimensione, come Gentile diceva, l’individuo empirico prospetta e concepisce il mondo. L’aspetto paradossale della concezione che Gentile aveva delineata della storia non stava dunque nel conflitto, che potrebbe, come si è visto, esser fatto risalire alla complessità della sua prima formazione culturale, divisa fra il magistero degli allievi di Bertrando Spaventa e degli storici e letterati appartenenti alla «scuola storica», tra la vocazione filosofica e quella storiografica e filologica. Stava bensì nell’essersi, questo conflitto, idealmente trasferito all’interno della sua teoria dell’atto; che, nell’essere eterno trascendimento del «fatto», non poteva, in eterno, non porlo dinanzi a sé e, senza che perciò dovesse di nuovo trascenderlo, risolvervisi. Insomma, per un verso la storia non era se non l’atto del pensiero che, nella sua struttura, era eterno, e alla dimensione della storia non poteva perciò non sottrarre sé stesso. Per un altro, era il «fatto» che, nel suo per altro impossibile isolamento, era il passato, che è passato e non ritorna, il passato, come a Gentile piaceva dire, di Francesca da Rimini e di Ermengarda. A prevalere, senza che di questa prevalenza potesse riconoscersi il diritto, era tuttavia l’idea che nell’atto, e nella sua attualità, la storia fosse sul serio la storia, la storia eterna che, sottraendosi alla dimensione del tempo, anche si sottraeva alla sua «inattualità».90 C’è una pagina, nella quarta parte, capitolo sesto, del Sistema di logica, nella quale, trattando della storia e della sua «individualità», Gentile esasperò, ma senza perciò deformarli, i tratti della sua concezione. Una pagina che, per concludere, converrà ripercorrere nei suoi momenti essenziali, senza indugiare nel commento minuto di ciascuna delle sue proposizioni. «Il pensiero storico è positivo in quanto è atto determinato di pensiero: non pensiero che si possa pensare, ma pensiero che si pensa: autoconcetto nella sua attualità». E qui, per esempio, non si rileverà che l’«atto determinato di pensiero» è l’atto, non, appunto, una sua ulteriore determinazione: è l’atto in atto, o, altrimenti detto, l’«autoconcetto nella sua attualità». Si rileverà bensì che l’autentica individualità era, per Gentile, non quella dell’individuo empirico, o dei fatti conchiusi e contenuti nella cornice dello spazio/tempo, ma quella che 90. Gentile, Il superamento del tempo nella storia, p. 314 (= Frammenti di estetica, II, 13).
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«può esser data solo dalla logica dell’autoconcetto»91 e dal pensiero che, nel penetrarne il significato, concepisce l’individuo non pensandolo col pensiero, ma realizzandolo come pensiero: in modo che, per richiamare il suo esempio, in tanto si «afferra» il Socrate della storia «con la sua positiva individualità», in quanto lo «si costruisce come personalità che rivive nella nostra, ed è attualmente la nostra».92 Dove potrebbe osservarsi il singolare fenomeno della coerenza logica che si infrange sullo scoglio della retorica: dal momento che non si dovrebbe, in un quadro come questo, parlare di personalità di Socrate e di personalità nostra, l’unico individuo essendo pensabile secondo la logica, non delle individualità, ma della individualità, questa non essendo altro che l’autoconcetto.93 Se non è stata condotta in modo futile, questa discussione dovrebbe aver dimostrato che, con quella svolta da Hayden White in Metahistory e oltre, le concezioni di Croce (anche quella del 1893) e di Gentile non hanno in comune che vaghe assonanze; e che, nei concetti, divergono fortemente. Si sarebbe naturalmente dovuto dire, non solo meglio, ma di più. Quel che si è detto dovrebbe tuttavia essere sufficiente a far intendere perché a quella divergenza occorra tener fermo. Dopo di che non resta che da aggiungere alcune considerazioni; a cui si darà forma apodittica perché, se le si dovesse prospettare nella loro ampiezza e discutere nelle conseguenze che ne derivano, occorrerebbe poter disporre di uno spazio che la natura di questo saggio non può concedere. Si dica, dunque, in breve, così. Con le sottili e suggestive indagini svolte in Unus testis, Ginzburg è tornato a percorrere gli insidiosi sentieri della realtà e verità della storia con impegno tanto maggiore quanto più, sensibile alle ragioni del racconto, fosse d’altra parte convinto, e non solo per ragioni etiche, che «la «cosa in sé esiste»; e che la si può attingere se, con pazienza, impegno e sagacia, si faccia un buon uso degli strumenti che la ricerca stessa richiede e fornisce. Che milioni di ebrei siano stati sterminati nei Lager tedeschi nel corso della seconda guerra mondiale, non è un convincimento etico. È un fatto, documentato dall’incrocio, e dall’uso, di molteplici strumenti d’indagine. Che a negarlo siano individui che, in ragione del cieco antisemitismo da cui sono posseduti, dovrebbero compiacersi dell’impresa brillantemente messa in opera dagli 91. Gentile, Sistema di logica, II, 290. 92. Ibidem, p. 293. 93. Ibidem.
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ingegneri nazisti del massacro, è la riprova del loro essere equamente divisi fra ipocrisia e incoerenza. Ma di questo non occorre parlare. Converrà invece almeno riprendere in breve una questione, che, accennata all’inizio di questo saggio, con qualche maggiore ampiezza è stata svolta in un’altra sede. È la questione della gnoseologia, a proposito della quale si è osservato che l’esito, o, se si preferisce, il residuo scettico che resiste alla «potenza» del conoscere, appaiono come una sua conseguenza necessaria quando l’occhio si diriga al suo impianto inevitabilmente dualistico, al suo essere, piaccia o no, costituita in modo che a un soggetto che indaga intorno a un oggetto, inevitabilmente questo si presenta nella dimensione dell’alterità, come qualcosa di cui, perdurando questa situazione, non solo è lecito dubitare del suo significato, ma, a rigore, della stessa sua esistenza. L’intervallo che divide il soggetto dall’oggetto, e che della gnoseologia costituisce il paradossale, quanto necessario, fondamento, non ha, né nel soggetto, se è un soggetto, né nell’oggetto, se è un oggetto, il criterio in forza del quale possa essere controllato in modo che, sparendo la distanza, l’incontro del primo con il secondo abbia luogo nel segno della conseguita conoscenza. Che, in realtà, nemmeno così potrebbe mai esserlo. L’intervallo e la distanza non sono infatti se non la rappresentazione spaziale di un rapporto che resterebbe fondato sulla dualità, anche se i termini si fossero avvicinati tanto da toccarsi, o, addirittura, l’uno fosse penetrato nell’altro e, dal di dentro, lo abitasse. Insomma, la conoscenza, e la sua teoria, presuppongono che, per conoscerlo, il soggetto stia dinanzi all’oggetto e lavori per acquisire il suo «in sé». E questa non è se non la definizione del limite empirico della conoscenza, e di ogni teoria che la prospetti in questi termini. È la situazione che nessuno ha chiarito con la lucidità e la nettezza che Kant raggiunse nel § 9 dei Prolegomeni, quando alla dimensione dell’empirico, e quindi del controvertibile, consegnò ogni teoria nella quale si fosse preteso che l’intuizione fosse di natura tale «da rappresentare le cose come sono in sé stesse». Egli vide benissimo che un’intuizione siffatta non avrebbe potuto essere se non empirica perché, diceva, «che cosa contenga l’oggetto in sé stesso, io posso saperlo solo quando mi è presente e mi è dato». E, anzi, nemmeno in questo caso, perché di per sé l’intuizione non possiede l’energia che le consenta di andare oltre l’«apparenza» delle cose; e occorrerebbe che «ihre Eigenschaften», le loro proprietà, «in meine Vorstellungskraft hinüber wandern können», potessero trasferirsi nella «mia facoltà di rappresentazione».94 Il che, se anche fosse concesso, 94. ��������� I. Kant, Werke, hrsg. von W. Weischedel, III, Wiesbaden 1958, p. 144.
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resterebbe che all’intuizione l’oggetto non sarebbe dato se non dal di fuori, e quella non potrebbe dunque essere se non empirica. Si sa bene in che modo, convinto che a costruire la teoria della conoscenza la filosofia non potesse rinunziare, Kant provvide a uscire dall’impasse del soggetto e dell’oggetto. E non certo questa è la sede nella quale possa parlarsi della sensibilità e dell’intelletto che, entrambi essendo dati a priori, l’una è recettiva, l’altro spontaneo, sì che è necessario il ricorso alle complesse operazioni della deduzione e dello schematismo per rendere possibile un incontro, che possibile altrimenti non sarebbe; e quindi della verità, del fondamento, della ragione, della dialettica, dell’illusione trascendentale: di tutto ciò, insomma, che costituisce il complesso intreccio delle teorie che costituiscono il corpus della filosofia critica, e, quale che sia il grado della loro persuasività, sono la ragione della sua grandezza. Scusandosi della semplificazione, ci si dovrà restringere a dire che se le difficoltà interne a questa filosofia dovessero indurci a ritenere che nemmeno nel suo quadro il dualismo è stato sul serio superato, sì che, ancora e sempre, questo ci si para dinanzi come un insuperabile scoglio, l’unica via da seguire, per evitarlo, sarebbe, non la risoluzione della filosofia nelle scienze umane, e nelle procedure empiriche che le costituiscono; non il suo indebolimento, che rende incerti i suoi contorni, e non rigorose le sue procedure, conservandone tuttavia i caratteri fondamentali e patendone le conseguenze aporetiche che ne derivano; non il ritorno a una forma qualsiasi di empirismo, dal momento che è sul suo terreno che il dualismo del soggetto e dell’oggetto raggiunge una delle punte più alte della sua drammaticità. Ma tutt’altro. E cioè la restituzione della filosofia al suo carattere esclusivo, che consiste, non nella ricerca della verità e dell’essere, ma nell’esposizione del loro senso; e, in via subordinata, nel riconoscimento che la filosofia non può mai essere filosofia di una qualsiasi «attività»: non dell’arte, non del diritto, non della politica o dell’economia, non della storia, e nemmeno della filosofia. Definite da quella e dalla sua verità, queste «attività» sarebbero, o verità, e perciò, senz’altro, filosofia, o diverse dalla verità; che non sarebbe dunque, essa pure, se non un «diverso», destinato, poiché i diversi non possono non essere tutti allo stesso modo diversi, e perciò identici, a rivelare l’identità dalla quale è impossibile che essa esca mai. All’obiezione secondo cui, seguendo questa via, si perverrebbe a una filosofia (verità) senza mondo e a un mondo senza filosofia (verità), la risposta è che l’obiezione sarebbe valida se, sia pure nella forma dell’esclusione
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o della scissione, fra questi due mondi esistesse tuttavia un rapporto, fondato sulla steresis, sulla privazione che, nella prima figura, si avrebbe del mondo e, nella seconda, della verità. Ma, per quanto difficile sia non pensare in termini di rapporto e sottrarsi perciò alle suggestioni imperiose del linguaggio che, persino nel negare che un rapporto vi sia e si dia, lo ripropone attraverso le connessioni, e dunque i rapporti, che sono stabiliti dal suo stesso svolgersi, resta che la verità e l’opinione, la verità e il mondo, non entrano in un quadro: nemmeno per escludersi l’una dall’altro. Questa esclusione avrebbe luogo infatti, sempre e soltanto, nel quadro, che potrebbe dilatarsi in relazione alla violenza dell’esclusione che l’una facesse dell’altra e della conseguita distanza, senza perciò poter mai escludere sé stesso, e ribadendo così il carattere relazionale, e totalizzante, della stessa esclusione o scissione. E, sebbene, in questo caso, sembri che il linguaggio si metta d’impegno a rendere difficile l’espressione del pensiero che si sta cercando di pensare, deve invece dirsi che fra la verità e le opinioni non si dà rapporto, che queste non si definiscono attraverso quella, né viceversa. La verità non è assenza di opinione. L’opinione non è assenza di verità. Se fosse l’assenza della verità nell’opinione, e dell’opinione nella verità, a segnare il carattere dell’una e dell’altra, ciascuna sarebbe definita per mezzo dell’altra che, nel sottrarsi, lascerebbe libero il campo: come un deuteragonista che, uscendo di scena per far posto al primo attore, gli consentisse di recitare il suo monologo. Ma, in questo modo, la verità sarebbe definita dall’opinione in virtù del sottrarvisi di questa. E lo stesso sarebbe dell’opinione; che tanto poco riuscirebbe a essere quel che si assume che sia, quanto, per il suo verso, vi riuscirebbe la verità. Con lo strumento che il linguaggio mette a disposizione, e che occorre controllare nella sua tendenza irresistibile alla deriva relazionale e metafisica, deve perciò dirsi che la verità non ha alcun rapporto con le opinioni; che queste non hanno alcun rapporto con la verità. Ne consegue che ozioso sarebbe chiedere se dunque la verità abbia o no posto nel mondo, se serva e sia di guida all’umanità, come la stella polare agli antichi naviganti. Questione oziosa, e che meglio sarebbe da definire di origine teologica, non filosofica, essendo comunque orientata a ricevere una risposta relativa alla salvezza, – una risposta, dunque, della quale la religione, non certo la filosofia, «s’arroga il vanto». In effetti, alla natura della verità non appartiene di stare né nel mondo, né fuori di esso, perché è la verità l’unica sede della verità. Del mondo delle doxai non può dirsi qui (altrove qualche suo carattere è stato meglio discusso) se non che, essendo costituito di eventi, la
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cui necessità non può essere constatata se non ex post, per quel che ora più interessa, il suo tratto essenziale è di essere un mondo sempre soggetto alla prova e alla «contraria prova». Che anch’essa naturalmente è un evento, proveniente, ma non di necessità, dall’oscuro grembo nel quale, per emergerne di tanto intanto, stanno nascoste fasi del tempo che lì giacevano inerti, e che, risvegliatesi per qualche ragione connessa al ricercare storiografico o ad altro, insorgono a modificare e alterare il profilo di uno dei tanti quadri in cui il mondo consiste. Con il suo continuo riproporsi, o potersi riproporre, la prova e la «contraria prova» sono una possibilità immanente nel modo doxastico in ciascuno dei suoi aspetti; e, in nessuno con altrettanta forza ed evidenza come in quello che concerne la ricerca delle cose accadute. Non c’è opinione che, accadendo, e formandosi nel mondo, possa evitare di trovarsi, nei confronti del passato, nella posizione dualistica che, per un verso, quanto più sia drastica e netta, di altrettanto spinge alla ricerca della verità delle cose, e, per un altro, accende dentro la fiamma, se non dello scetticismo, della scontentezza che si colora di tentazioni scettiche. Non c’è perciò opinione che non cerchi di rafforzare sé stessa, alle prove aggiungendo le prove e, il più che sia possibile, mettendosi al riparo dalla «contraria prova» che da qualche parte sempre potrebbe intervenire a turbare la serenità e la tranquillità dell’animo. E qui, lasciando alla sua estrema provvisorietà questa parte del discorso, è tempo ormai di concluderlo con due rapide considerazioni. La prima è che, se la «natura» della gnoseologia è di presupporre, e non poter superare, il dualismo che tiene il ricercante lontano dall’oggetto che pur abbia tentato di avvicinare a sé, resta che è proprio questo dualismo a costituire la ragione della ricerca e del continuo risollevarsi della vis storiografica dalla cenere a cui qualche precedente tentativo si fosse ridotto. La seconda è che, se indiscutibili sono il «fatto» e l’estensione dello sterminio degli ebrei nei Lager tedeschi durante la seconda guerra mondiale, molte sono tuttavia le cose che, al riguardo, richiederebbero, e richiedono, di essere ancora ricercate e meditate. Da una parte, la straordinaria capacità degli ebrei di ribadire la loro unità, e il loro essere un popolo, dopo una prova così terribile. Da un’altra, quel che per gli uomini della mia generazione, e della cultura alla quale sento di appartenere, è non meno terribile: come sia stato possibile che dal cuore dell’Europa, in terre dove si erano udite, per tacere di altro, le note del Flauto magico e dell’op. 131, si svolgesse la forza demoniaca che accese il fuoco dei forni. Qualcuno dice, e scrive, che questa è una domanda retorica. Se fosse così, che altro ci sarebbe da chiedere?
3. Chabod e il fascismo. Riflessioni e ricordi
1. Il revisionismo che, occupando le pagine delle riviste e, sopra tutto, dei giornali, imperversa nella «contemporaneistica» dei nostri giorni, si presenta con due volti distinti, ma con un oggetto comune. C’è un revisionismo interno alla cultura antifascista, e a quella, soprattutto, che si riconosce, per lo più, nella sinistra politica. Il suo oggetto è rivelato e determinato dalla domanda relativa alla coerenza antifascista di personaggi che, presentatisi in quel segno dopo la caduta del regime, non si sarebbero, nei fatti concreti della vita vissuta al tempo del fascismo, rivelati quali pretendevano di essere stati, – antifascisti intransigenti in ogni momento e in ogni atto della loro vita. L’esempio di maggior rilievo è costituito, al riguardo, dal caso di Benedetto Croce, ossia dal pensatore che più di ogni altro aveva dato vita, nel ventennio fascista, all’opposizione intellettuale e culturale al regime imperante, e che, quando ancora l’Italia era «tagliata in due», dovette affrontare l’accusa di chi addirittura pretendeva che, in cambio della libertà che gli era stata garantita di indirizzare al regime, dalle pagine della sua rivista, «qualche timida frecciolina», a quello egli avesse fatto il dono della polemica antimarxista e anticomunista, legandovisi perciò in una sorta di «santa alleanza».1 Era un’accusa che il filosofo respinse con sferzante ironia, ottenendo che in quella forma, e in quel momento, fosse ritirata. Ma l’accusa era stata formulata; e questo importava. Essenziale, per chi l’aveva avanzata, era che fosse stata messa al mondo, che avesse vista la luce, che fosse stata letta dal maggior numero possibile di uomini, e soprattutto di intellettuali. Poiché, a torto o a ragione, si riteneva che quella di Croce fosse una filosofia egemone, e a quella egemonia un’altra dovesse essere sostituita, la demolizione del suo antifascismo 1. Cfr. B. Croce, Taccuini di lavoro, VI, Napoli 1987 [ma 1992], pp. 123-128.
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era la prima impresa a cui occorreva dar mano. L’accusa di tiepido e ambiguo antifascismo non era stata mossa senza un’intenzione specifica, e senza un calcolo sapiente degli effetti che inesorabilmente ne sarebbero conseguiti. Sebbene ambiguamente ritrattata, la tesi, come ho detto, era lì. Era stata formulata e non poteva farsi che non lo fosse stata. Rimaneva perciò a disposizione di chi avesse voluto servirsene. Rimaneva a fondamento del giudizio che sulla filosofia di Croce, e sul suo carattere borghese e reazionario, fu mille volte formulato, di lì in poi, nella seconda metà dello scorso secolo. E fu ribadita e confermata quando ci si volse a indagare l’atteggiamento da lui tenuto, non durante il fascismo, quanto piuttosto al momento del suo affermarsi, nei primi anni del dopoguerra. Alle esitazioni e alle incertezze del suo giudizio, all’idea, certamente infelice, che il fascismo avrebbe potuto contribuire, per via indiretta, alla rinascita del debole liberalismo postbellico, si dette allora risalto; ed era giusto che lo si desse. Quelle esitazioni infatti ci furono, ci fu l’incertezza del giudizio sulla natura del fascismo, ci fu soprattutto quell’infelice idea del movimento delle camice nere come energica cura ricostituente da somministrare a un organismo malato, che, come proprio Croce ebbe in seguito a riconoscere, non sarebbe mai venuta al mondo se chi la formulava avesse avuta, della fine di un regime liberale, un’esperienza che non fosse stata soltanto libresca.2 A ragione, dunque, a quei limiti si dette risalto. Ma si trattò, tuttavia, di un risalto che assumeva il suo senso all’interno di una tesi fortemente ideologica: della tesi, cioè, secondo cui, in tanto Croce e molti della classe dirigente liberale si erano mostrati disarmati di fronte al fascismo che si stava affermando, in quanto, in realtà, non c’era se non un antifascismo, le altre sue forme non essendo che maschere della sostanziale adesione data al nemico che, a parole, si pretendeva di combattere. Nella stessa filosofia politica di Croce, nella sua idea dell’autonomia della politica e del momento della forza, che, dopo tutto, era nata dalla meditazione, non soltanto di Machiavelli, ma anche di Marx, si volle indicare l’«obiettiva» sua adesione ai movimenti reazionari europei, all’ideologia borghese nella stagione dell’imperialismo; e così a fondo questa idea penetrò nelle coscienze, consolidandovisi nella forma del più stolto pregiudizio, che essa è di recente ricomparsa nel libro di una 2. B. Croce, Intorno alle condizioni presenti della storiografia in Italia (1929), in Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, II, Bari 1947, p. 168, che leggo come una critica implicita delle illusioni nutrite, fra il 1922 e il 1924, sulla funzione che il fascismo avrebbe potuto svolgere per il rinvigorimento della classe politica liberale.
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scrittrice che nella Politica in “nuce”, pubblicata nella «Critica» del 1924, arrivò a leggere, controluce, una sorta di dedica ideale a Benito Mussolini che, dal saggio del filosofo idealista, avrebbe dovuto essere meglio educato e fortificato nelle sue idee. La scrittrice, certo, era sprovveduta, e dava una buona conferma di quel che, nel commentare l’adagio hegeliano secondo cui gli eventi della storia si presentano sempre due volte, Marx disse definendolo vero, con la precisazione però che la prima volta la loro forma era quella della tragedia, la seconda quella della farsa. La scrittrice era sprovveduta. Ma aveva avuto i suoi maestri; che, avendo allestita una tragedia, non sapevano che, a tempo debito, si sarebbe rivelata una farsa.3 2. Quello di Croce è il caso più significativo di un «revisionismo» esercitato, da sinistra, per ragioni politiche. Il revisionismo che si esercita da destra obbedisce anch’esso a un’analoga, anche se diversa, ispirazione politica;4 e, come tende alla riabilitazione di alcuni personaggi eccellenti (Gentile, Volpe) che dettero la loro adesione al fascismo, così per converso, si distingue per la cura che mette nello scoprire gli aspetti meno lineari dei comportamenti tenuti da non pochi intellettuali antifascisti. La scure revisionistica è così caduta su uomini insigni, dei quali sembrava, e in realtà sembra, difficile contestare la coerenza antifascista mantenuta durante il ventennio. È caduta su Calamandrei, per la sua collaborazione alla scrittura dei codici; su Salvatorelli, per alcune frasi che si leggono in qualche suo libro di storia contemporanea; su Omodeo, per la sua chiamata, voluta da Gentile, che allora era ministro, alla cattedra napoletana di storia del Cristianesimo,5 su Cantimori che, diventato comunista dopo essere stato fascista, è stato spesso accusato, negli ultimi tempi, di avere dato la sua adesione, ideale s’intende, anche al 3. Si veda, al riguardo, il mio articolo, Croce aspirante consigliere di Mussolini?, in «La Cultura», 44/2 (2006), pp. 327-350. Per il giudizio di Marx, cfr. K. Marx, Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, in K. Marx, F. Engels, Il 1948 in Germania e in Francia, tr. it., Roma 1948, p. 257. 4. Ne ho discusso nel mio articolo, Guerra civile e storiografia, in «La Cultura», 43/1 (2005), pp. 5-41, e in questo volume, pp. 11-51. 5. Converrà tuttavia quanto meno ricordare che, quando, avvalendosi dei poteri conferitigli dalla legge, Gentile lo nominò a Napoli, Omodeo era già, dopo regolare concorse, professore a Catania, dove insegnava la Storia antica: si veda l’inizio della sua prolusione napoletana, Il valore umano della storia cristiana (1923), in Tradizioni morali e disciplina storica, Bari 1929, p. 9: «con profonda trepidazione salgo questa cattedra a cui mi ha chiamato il ministro, togliendomi dalla serena quiete dell’Aeaneo catanese».
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nazionalsocialismo tedesco.6 In modo meno clamoroso, e all’incirca negli stessi anni in cui presero corpo le accuse rivolte a Cantimori, la suddetta scure si è abbattuta anche su Federico Chabod: a opera però, di studiosi che, diversamente da quelli che, per «demitizzarli», si erano rivolti ai suddetti personaggi, avevano tutt’altre intenzioni e non nascondevano la loro ispirazione antifascista.7 Il ritardo ha varie ragioni. La più importante è che né Cantimori né Chabod furono uomini pubblici, direttamente legati alla politica; in particolare il secondo, che, a differenza del primo, non scriveva sui giornali, non collaborava a riviste di partito o che fossero vicine a un partito, e, dopo i due anni, 1944/1946, della battaglia combattuta per l’autonomia della Valle d’Aosta nel quadro dell’unità nazionale, era rientrato nel recinto degli studi, dal quale non uscì più, in nessuna occasione. Già nel 1983, nel convegno milanese dedicatogli da Brunello Vigezzi, si era avvertito che il clima stava mutando e che l’immagine del suo antifascismo era sul punto di incrinarsi. A muovere le acque e a proporre dubbi fu Renzo de Felice che, nella sua ampia relazione, non mise in dubbio l’ispirazione non fascista di Chabod negli anni del fascismo, ma non poté non dare rilievo a alcune iniziative e collaborazioni nelle quali egli fu impegnato, e che recavano il sigillo esplicito del regime. Ricordò lo stretto rapporto intrattenuto con Volpe, la collaborazione ai «Nuovi studi di diritto economia e politica» di Ugo Spirito, Arnaldo e Luigi Volpicelli, nei quali, a parte una recensione, vide la luce il suo Giovanni Botero, l’altra, che si concretò in due «voci», Grandi potenze e Mediterraneo (fino al 1914), al Dizionario di politica. Ricordò il contributo dato, per la parte riguardante l’Umanesimo e il Rinascimento, all’organizzazione della Mostra della Civiltà italiana con la quale, nel 1942, avrebbe dovuto essere inaugurata l’Esposizione universale di Roma.8 Ma non pretese che fosse stato fascista. Chabod rimaneva per lui uno studioso che, certo, nei 6. Cfr. per questo il mio Gentiliana et Cantimoriana, in «La Cultura», 47/2 (2009), pp. 230-232, passim, e in questo volume, pp. 183-249. 7. Ma cfr. già i rilievi di G. Turi, Il fascismo e il consenso degli intellettuali, Bologna 1980, pp. 97-99, passim. 8. R. De Felice, Gli storici italiani nel periodo fascista, in Federico Chabod e la «nuova storiografia» italiana, 1919-1950, a cura di B. Vigezzi, Milano 1983, pp. 589 ss. Sulla collaborazione che, quasi per intero, la migliore cultura italiana dette all’organizzazione della Mostra, e della parte avuta in essa, specificamente, da Federico Chabod e Delio Cantimori, cfr. E. Garin, La civiltà italiana nell’Esposizione del 1942, in E 42. L’Esposizione Universale di Roma. Utopia e scenario del regime, I, Ideologia e programmi dell’“Olimpiade della civiltà”, a cura di T. Gregory e A. Tartaro, Venezia 1987, pp. 3-16 (ma 13).
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confronti del regime non aveva assunto mai atteggiamenti di recisa opposizione; aveva ispirato il suo il comportamento alla regola della prudenza. Quando, per esempio, avendo progettato con Guido Calogero un volume di Studi crociani che si sarebbe nei fatti contrapposto al Benedetto Croce di Spirito e dei due Volpicelli, Domenico Petrini gli chiese di parteciparvi, Chabod prima disse di sì e poi lasciò cadere la cosa.9 La prudenza, il desiderio di tenersi, il più che fosse possibile, in disparte avevano alla fine prevalso sull’iniziale generosità. Ma proprio per questo non avrebbe mai potuto esser considerato un fascista. A farne fede è non soltanto l’iniziale consenso, ma la richiesta stessa che gli fu rivolta e che, certo, non avrebbe avuto luogo se Petrini e Calogero, che lo conoscevano bene, non avessero giudicato che rivolgergliela era possibile. È vero che entrambi era giovani e, il secondo in particolar modo, alquanto imprudenti. Ma non c’era ottimismo che avrebbe consentito loro di rivolgere un simile invito a uno che fosse stato di dichiarati sentimenti fascisti e che, per di più, lavorava a stretto contatto con Gentile nell’ambiente dell’Enciclopedia italiana. Che poi, vinto con pieno merito il concorso universitario per la Storia moderna, Chabod fosse stato chiamato a insegnarla nella Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Perugia,10 giudicata fascistissima, e lì tenesse conferenze, significa poco o niente nei riguardi del suo sentire politico. La Facoltà di scienze politiche di Perugia sarà stata, più di altre, fascista. Ma se Chabod vi fu chiamato anche per l’interessamento di un personaggio autorevole come Gioacchino Volpe, dovrà pur ammettersi che i suoi titoli scientifici vi avessero contato per qualcosa; e sarà su questi, come sul contenuto delle conferenze, nel caso che di queste resti il testo o, quanto meno, una traccia, che dovrà giudicarsi dei suoi sentimenti nei riguardi del regime al potere, nonché della sua disponibilità a lasciarsene compromettere. Sui rapporti, poi, che, all’interno dell’Istituto per la storia moderna e contemporanea, Chabod intrattenne con Nello Rosselli, molto è stato detto, e con equilibrio, da De Felice;11 e non ho al riguardo niente da aggiungere. Non ho infatti fra le mani documenti che comprovino o smentiscano quello che su questo punto, assai delicato è stato scritto da lui 9. Cfr. per questo il mio saggio Dalla biografia giovanile di Guido Calogero. La vicenda degli «Studi crociani», in Filosofia e idealismo, IV, Paralipomeni, Napoli 2000, p. 247. 10. Cfr., al riguardo, M.C. Giuntella, La Facoltà di Scienze politiche di Perugia e la formazione della classe dirigente fascista, in Anatomia e nazionalizzazione dell’Università. Il fascismo e l’inquadramento degli Atenei, Roma 1992. 11. De Felice, Gli storici italiani, pp. 587 ss.
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(il racconto di Volpe è certamente tendenzioso).12 Ma su un punto vorrei richiamare l’attenzione. Nel suo intervento (epistolare) al Convegno milanese, Aldo Garosci asserì (e del valore della sua testimonianza non può dubitarsi) che, mentre Renato Chabod, il fratello minore di Federico, era di sentimenti «blandamente fascisti», lo storico era invece «antifascista di sentimenti espliciti»;13 e disse di saperlo da buona fonte. Anche, in quell’occasione, Garosci affermò che «gli anni dell’“egemonia” furono per Chabod di solitudine feconda», e che, poiché «l’albero si conosce dai frutti», sarebbe stato «indiscreto andar cercando col lumicino» se, sempre conservando la sua dignità morale, avesse tuttavia dovuto pagare qualche prezzo.14 Venendo da un uomo che, per ragioni di antifascismo, era stato undici anni in esilio, e poi, rientrato in Italia nel dicembre 1943, aveva partecipato alla Resistenza, queste parole valgono, non solo per la generosità, ma anche per la testimonianza. Non so invece da quale fonte, se orale o scritta, De Felice avesse ricavato che, negli anni successivi al fascismo, Chabod avesse detto di sé: primus peccavi. Sarei tuttavia propenso a credere che, se quella frase fu da lui pronunziata, la confessione del peccato riguardasse, non l’essere stato fascista, ma, non essendolo, di non esser stato nei comportamenti tanto antifascista quanto i suoi convincimenti politici e culturali avrebbero richiesto. Il che gli farebbe onore nel primo caso, e ancor più, forse, nel secondo. Quando si ripensa a quelli che ai tempi del fascismo scelsero la galera, l’esilio, la povertà, e poi ci si guarda dentro, si prova un brivido di vergogna, anche se, per ragioni di età 12. G. Volpe, Storici e maestri, n. ed. accresciuta, Firenze 1967, pp. 492-505. 13. A. Garosci, in Federico Chabod e la «nuova storiografia», p. 620. Merita di non essere dimenticata la testimonianza resa da B. Paradisi, ibidem, p. 526, a proposito del giudizio che, sul finire del 1932, Chabod esprimeva circa la possibilità che la Repubblica di Weimar potesse «resistere all’ondata nazista» e alla fiducia che perciò riponeva nel generale von Schleicher. Sarebbe difficile ricavare da questa scarna testimonianza indizi relativi all’antifascismo, in quegli anni, di Chabod; che, per certo, era invece assai preoccupato della piega che, per effetto della forte presenza di Hitler e del suo partito, le cose stavano prendendo in Germania. L’atteggiamento del governo italiano di fronte al dramma politico di Weimar era, in quel momento, pur se talvolta ondeggiante, sostanzialmente cauto (cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936, Torino 1974, pp. 418 ss. ) Ma sul credito politico che, per la difesa della Repubblica, accordava a quel generale, che fu l’ultimo cancelliere di Weimar, e, in accordo col suo nome, che questo significa in tedesco, era soprattutto un «intrigante», Chabod s’ingannava, anche se, a giudicare dalla testimonianza di Paradisi, affidava all’«impoderabile» la possibilità che la marea nazionalsocialista si fermasse: cfr., comunque, sul generale von Schleicher, W.L. Shirer, Storia del terzo Reich, tr. it., Torino 1962, pp. 190-201, e E. Eyck, Storia della Repubblica di Weimar. 1918-1933, tr. it., Torino 1966, pp. 772 ss. 14. A. Garosci, in Federico Chabod e la «nuova storiografia», p. 621.
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(sto parlando infatti degli uomini della mia generazione), quella strada non avrebbe mai potuto essere seguita se non in casi di assoluta eccezione e in circostanze del tutto particolari. Non ci si può tuttavia non chiedere che cosa sarebbe stato di noi se, avendo qualche anno in più, ci fossimo trovati dinanzi a quelle scelte. Chabod era uomo di poche parole; e pochissime erano quelle che dedicava ai casi della sua vita privata. Chi lo ha conosciuto bene, e per lunghi anni lo frequentò, non colse mai sulle sue labbra allusioni alle sue passate esperienze (nemmeno a quelle vissute nella sua Valle d’Aosta fra il 1944 e il 1946); e del resto anche sui suoi orientamenti politici presenti egli preferiva non parlare. Il riserbo era la sua regola. Tanto più, dunque, se veramente pronunziò quella frase, merita la nostra ammirazione. 3. Solo in rari casi, nel suo saggio, De Felice ha fatto riferimento a testi scritti. A questi si sono invece rivolti Pier Giorgio Zunino15 e, in tempi recentissimi, Gaspare e Roberto De Caro;16 il primo per cogliere in quel che Chabod scrisse dal 1924 al 1943 (ma non solo) tonalità proprie dei tempi, i secondi due per riprendere questo giudizio e per lamentare la netta sua sottovalutazione, evidente soprattutto nell’Italie contemporaine e poi, molti anni dopo, nel dibattito epistolare con Arnaldo Momigliano,17 del razzismo fascista. Sotto inchiesta sono dunque, in questo caso, non tanto il suo comportamento pratico, il suo rapporto con Volpe e, nell’Enciclopedia, con Gentile, la sua collaborazione alle già ricordate iniziative culturali del regime, ma la sua opera, il suo pensiero, il suo modo di intendere i grandi eventi della storia moderna, la sua idea della politica e della forza, l’ascendenza meineckiana dei suoi concetti direttivi, il rapporto con Croce. Il nesso con il fascismo è perciò studiato dall’interno; e la sua presenza è colta nel vivo della sua opera, nella scelta degli argomenti e, beninteso, nel modo di trattarli. E qui occorre fermarsi un istante, e riflettere. Quando, nel luglio del 1943, il fascismo cadde, Chabod aveva quarantadue anni. Era nel pieno della sua vigoria intellettuale. Aveva prodotto le sue opere più importanti, dagli studi 15. Si veda la sua relazione, Tra Stato autoritario e coscienza nazionale. Chabod e il contesto della sua opera, in Nazione, nazionalismi e Europa nell’opera di Federico Chabod, Atti del Convegno, Aosta, 5-6 maggio 2000, a cura di P.G. Zunino e M. Herling, Firenze 2002, pp. 107-140. 16. G. e R. De Caro, Storia senza memoria. Rossellini, Chabod e il Portico d’Ottavia e altri saggi, Milano 2008, pp. 7-72. 17. Se ne veda l’edizione in F. Chabod, A. Momigliano, Un carteggio del 1959, a cura e con introduzione di G. Sasso, postfazione di R. Di Donato, Napoli 2003.
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su Machiavelli ai saggi su Milano e Carlo V; la stessa Politica estera, che poi vide la luce nel 1951, dopo un lungo lavoro di rifinitura e di ampliamento, esisteva già nel suo nucleo centrale, chiari essendone stati, fin dagli inizi, i concetti direttivi. Se perciò si assume quel che è ovvio, e cioè che la vita, si badi, la vita, di Chabod si divise tra gli anni vissuti nell’età fascista e quelli trascorsi nell’Italia uscita dalla Liberazione, sarà possibile distinguere in due periodi altrettanto netti anche la sua opera? Si dovrà assegnarla tutta al periodo in cui Chabod fu, secondo la tesi di Zunino, fascista o filofascista o, comunque, vicino al fascismo, oppure dovrà decidersi quando in essa, il fascismo essendo ancora al potere, si determinò la svolta antifascista? Può sembrare una domanda capziosa. Ma è, per chi assuma quella tesi, una domanda soprattutto imbarazzante. Poiché sembra difficile poterla evitare, chi pensa che Chabod fu prima fascista e poi antifascista, dovrà porsela e cercare a essa una risposta, indicando, nella sua storiografia, la revisione dei concetti che, prima della svolta, avevano risentito dei suoi diversi convincimenti e al clima dei tempi avevano pagato il loro tributo. Che se negli scritti composti dopo la caduta del fascismo il segno di questa revisione non fosse rinvenibile, cosa dovrebbe concludersene? Che la premessa era errata, e mai la storiografia di Chabod aveva risentito in sé la suggestione del fascismo? Oppure, e al contrario, che seguitò a esserne succube anche quando il fascismo non c’era più? Il dilemma è nelle cose. Evitarlo è impossibile; fra le due ipotesi occorre scegliere, guardando ai testi e cercando di non capirli a rovescio. Che, per parte sua, Chabod collocasse sotto il segno, non positivo, ma negativo del fascismo le sue giovanili riflessioni machiavelliane, ossia (e non si fraintenda) le giudicasse dettate dall’avversione che provava per il fascismo, è provato, fra le altre cose, anche dalla singolare ripresa che ne fece verso la fine delle Premesse che costituiscono il primo e, purtroppo, anche l’unico volume della Storia della politica estera. Nel ritratto che disegnò del Robilant dette forte rilievo al pessimismo che gli faceva vagheggiare l’intervento dell’uomo forte, anzi di una serie di uomini forti che, costituendo la continuità dell’azione politica, traessero l’Italia fuori del gorgo della corruzione in cui, precocemente, il suo sistema parlamentare aveva cominciato a sprofondare. Aiutato da una forte inclinazione al pessimismo, ma, evidentemente non a torto, Robilant vedeva un popolo, al quale per atavica consuetudine sembrava maggiore l’uomo che calpesta dell’uomo che cammina, un popolo che nel periodo più splendido della sua storia civile aveva abbandonato le libertà comunali con le sue lotte di parte per affidare le sue sorti alla virtù dei condottieri di antica e fresca
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prosapia, e il cui maggiore pensatore politico aveva racchiuso la lezione delle cose del suo tempo nell’appello al principe redentore.18
Era un pensiero, questo del Robilant, che anche altri allora condividevano, preoccupati della persistente apatia politica del popolo italiano; e non significava tuttavia, né implicava, l’auspicio di una dittatura che risolvesse in sé il sistema parlamentare e liberale. Per parte sua, trovatosi di fronte a questa situazione, che gli richiamava alla mente quella, assai più grave, che si era delineata nei primi anni venti del secolo ventesimo mentre era intento allo studio delle Signorie settentrionali e del pensiero di Machiavelli, la rea zione di Chabod fu, alla lettera, la stessa. Con una movenza stilistica che, e lo vedremo, richiamava la prosa del giovanile saggio machiavelliano, a quei pensieri del Robilant e di chi, il Marselli, Vittorio Emanuele Orlando, e altri, li condivideva, Chabod oppose la stessa obiezione che anni prima aveva rivolta a Machiavelli e alla sua idea del principe redentore. Pretendere di sanare i mali, innegabili, della vita politica italiana d’allora con il ricorso ad un grande uomo, credere di aver trovato il toccasana per i difetti, non contestabili, della vita parlamentare, mediante l’improvviso intervento di un deus ex machina che indirizzasse le cose nel verso giusto, guarisse le piaghe interne quasi con un tocco di bacchetta magica e imprimesse saggio e fermo orientamento alla politica estera, senza alterare in nulla lo spirito della libertà: questa era un’illusione, pericolosa illusione, che rischiava di preparare il terreno ad esperimenti di autoritarismo pratico, se non ancora dottrinale, del genere di quelli che in effetti si ebbero poco più tardi.19
Così parlava Chabod nel 1951. Così aveva parlato nel 1925. Se era filofascista nel 1925, lo era dunque anche nel 1951? Oppure, malgrado la prudenza, la reticenza, qualche cedimento al compromesso, deve dirsi che nella sostanza fascista non fu mai? Poiché, d’altra parte, come già si è accennato, in ogni tempo della sua vita il suo riserbo fu, su questo punto, assoluto, occorre leggere controluce i suoi scritti. Se, nel leggerli con questo accorgimento, non ci si lascia abbagliare dalla falsa luce che può derivare da una pratica malaccorta, definirli esposti all’influsso del fascismo, è impossibile. Ma, appunto, occorre leggerli per quello che dicono: non per gli argomenti (Stato, nazione, politica estera, Realpolitik), che non si vede per altro perché mai chi 18. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, I, Le Premesse, Bari 1951, p. 643. 19. Ibidem, p. 645.
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li tratta dovrebbe di necessità essere fascista, ma, e dovrebbe essere ovvio, per il modo in cui li trattò. Quello di Zunino è un contributo serio, ricco di indicazioni e suggestioni. Sulle cose che vi condivido mi soffermerò tuttavia meno che sulle altre, che non condivido e ritengo che debbano, comunque, essere discusse: a partire, com’è necessario, da quel che Chabod scrisse di Machiavelli, il primo dei grandi temi da lui affrontati nel corso della sua vita, per terminare con le pagine dedicate all’idea della nazione. 4. Il libro che nel 1924 Chabod dedicò al Principe di Niccolò Machiavelli non è di semplice interpretazione. È in realtà un libro complesso nel quale, senza forse riuscire a trovare il punto dell’equilibrio, s’intrecciano spunti interpretativi di diversa origine, che si tratta di bene individuare perché la sua tonalità risulti con la migliore possibile chiarezza. Si sa, e a più riprese mi è occorso di sottolinearlo, che, sebbene assai alta fosse la sua qualità storiografica, e Chabod vi si rivelasse, per molti riguardi, un interprete senza paragone più dotto e penetrante di quanti, dopo il Tommasini, si fossero cimentati, e dopo di lui si cimentarono, in quel campo di studi, il libro non ebbe, nella coeva letteratura machiavelliana, la fortuna che avrebbe meritata e che avrebbe ottenuta se, come ho detto, quella fosse stata capace di riceverlo e di discuterlo. Rimase invece al margine, ignorato da chi preferiva o dissertare sul precorrimento nazionale del Principe, o discutere sul tema della politica e della morale, se si distinguessero o non si distinguessero, se la seconda accogliesse in sé la prima o ne fosse respinta. Temi, presi così, l’uno e l’altro estrinseci: nel senso della più insulsa retorica il primo, della filosofia malamente sovrapposta al testo, da chi per di più non la possedeva se non in modo indiretto, il secondo. Non fu senza una ragione, tuttavia, se il libro di Chabod rimase al margine; e la cosa singolare è che questa ragione risultò oscura anche a lui che, di quel che era accaduto al suo libro, e cioè del suo essere rimasto al margine, mostrò di essersi reso ben conto quando, nei secondi anni quaranta, scrisse, degli studi sul Rinascimento e, nel quadro di questi, delle ricerche dedicate a Machiavelli, ma non del perché quel fenomeno si fosse verificato. In quell’occasione Chabod ammise che il suo libro non aveva inciso sulla letteratura machiavelliana.20 Ne spiegò tuttavia 20. In realtà, avrebbe dovuto dire che non era stato capito, e che il sottile intreccio tematico che, con molta sapienza, vi aveva realizzato, ai più era sfuggito. Sul fronte dei critici nazionalisti (Cian, Carli) era soprattutto la negazione del carattere nazionale (in senso ottocentesco) del Principe che, provocando indignazione, precludeva la comprensione del quadro in cui era inserita. Ma anche Russo non mostrava di averne bene inteso il pensiero quando, concentrando
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la ragione osservando che, fondato com’era sul nesso teoria/pratica, la sua analisi si era avviata per una via diversa da quella battuta dei più.21 Il che era vero. Ma la ragione addotta era generica. Il nesso teoria/pratica suonava come una formula attraverso la quale Chabod intendeva sottolineare come, a differenza di quel che era accaduto negli scritti di Francesco Ercole e, in forma diversa, in quelli di Luigi Russo, nel suo saggio egli avesse badato a far convergere insieme l’interesse per il pensiero e la rappresentazione storica dell’età in cui quello aveva preso forma nel Principe, a leggere il primo a riscontro della seconda. In realtà, quel che col suo saggio era accaduto, e sul serio vi era caratteristico, era ben altro. A caratterizzarlo nel profondo era, non il modo concreto, per intero storico, in cui il nesso che la teoria intratteneva con la realtà delle cose si era realizzato. Era bensì la qualità di quel nesso. Presentando il Principe come la sintesi concettuale di due secoli di storia italiana, il suo intento era stato infatti, non solo e non tanto di chiudere quel libro nel quadro di un’età definita e di togliere di mezzo l’idea che, con quell’opera, Machiavelli avesse precorso e auspicato quel che si sarebbe realizzato con il patrio Risorgimento; ma era altresì, e piuttosto, di avvertire che, lungi dall’anticipare i tempi nuovi, il Principe chiudeva, nel segno dell’illusione, quelli vecchi. Nella sua prosa secca e stringata a prender forma era stata infatti, non una speranza, era stato un fallimento. Il fallimento di un’età che, nel corso degli ultimi due secoli, aveva visto il progressivo inaridimento della sua vita politica e morale, il trasformarsi del popolo in folla anonima e priva di forza interiore, il progressivo disgregamento delle compagini statuali, con le borghesie comunali ridotte a difendere i loro interessi economici mercé la consegna del potere a personaggi esterni alla concreta dialettica della vita sociale e politica, e resi potenti, da questa delega, nell’atto in cui dai deleganti erano isolati e ridotti alla precarietà della loro personale esistenza. Agiva, nella ricostruzione che Chabod eseguiva del rapporto in cui il Principe si poneva con la realtà politica e sociale, quanto da tempo era stato messo in chiaro da una lunga tradizione di studi storici e giuridici, nei quali il passaggio, e le ragioni del passaggio, dal comune al principato era stato indagato nelle situazioni concrete offerte dalle diverse città dell’Italia centrosettentrionale. E del resto si sa che l’interesse per Machiavelli e, in l’attenzione sulla questione della milizia, osservava che quanto, nel trattarla, Chabod era stato «fedele storico delle istituzioni militari», altrettanto era stato «ingeneroso interprete della posizione polemica dello scrittore» (Machiavelli, Bari 1957, p. 51 n. 40), e sul resto taceva. 21. F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Torino 1967, pp. 171-172.
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particolare, per il Principe, era nato all’interno dello studio che egli aveva condotto delle Signorie settentrionali, che, preso poi da altri interessi, non aveva condotto al traguardo.22 Ma la sua originalità consistette nel modo in cui questa vicenda della storia italiana era da lui vista nella filigrana storica del Principe, nel quale, senza la pretesa «di far lo storico»,23 ma con potente intuizione, Machiavelli l’aveva essenzializzata. Essenzializzata, ma anche subìta. Il capitolo centrale del libro, quello che dava senso all’intero processo interpretativo e ne segnava la direzione, era il secondo, machiavellianamente intitolato L’“esperienza delle cose” offerta dalla storia d’Italia. Vi era svolto il concetto con il quale si era concluso il precedente: alla Repubblica succedeva il Principato; al popolo, capace di dettare i suoi voleri e d’imprimere nello Stato la propria orma, l’uomo solo con la sua individuale energia e con le risorse della sua abilità; alla considerazione, velata di nostalgico rimpianto, della gloria passata, il prospetto teorico della fortuna politica d’Italia.24
Ed era il concetto di una storia che, nello svolgersi, accennava non a un progresso, ma a una decadenza: analoga, deve aggiungersi, a quella che la classe politica liberale aveva mostrata in sé quando, in modo ora più ora meno esplicito, aveva accettato di essere sostituita dal fascismo. Per un verso, infatti, Chabod sottolineava «la costituzione di una burocrazia, a volte veramente notevole per la sua forte struttura»; faceva cadere l’accento sulle «riforme economiche, giuridiche, fiscali, a cui tutti i Signori attendevano, con varia abilità e misura, ispirandosi a criteri abbastanza generali e atti a riordinare veramente il complesso del dominio»; sottolineava «il rifluire, sempre più intenso, dei poteri e delle prerogative nelle mani dell’amministrazione centrale»; e insisteva perciò su quel che «per vero» costituiva «i primi inizi di un organamento politico unitario, che veniva in special modo rafforzato con l’estendere le leggi da una città all’altra, col promulgare decreti, sempre più numerosi, le cui norme erano applicate ovunque, formandosi così un corpo di diritto comune al di sopra dei vari diritti municipali tuttora imperanti nelle singole località».25 Ma, per 22. Cfr. S. Pizzetti, Federico Chabod storico delle Signorie, in «Nuova Rivista storica», 61 (1977), pp. 555-598. 23. F. Chabod, Del “Principe” di Niccolò Machiavelli, Milano-Roma-Napoli 1926, p. 24 (= Scritti su Machiavelli, Torino 1964, p. 56). 24. Ibidem, p. 9 (= p. 39). 25. Ibidem, p. 12 (= p. 43).
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un altro, questa tendenza unitaria gli appariva contrastata da qualcosa che, nel profondo, le si opponeva, resisteva al suo slancio e non se ne faceva vincere. Chabod lo diceva senza mezzi termini: «un tale movimento, che, riuscendo, avrebbe effettivamente condotto allo Stato unitario nel senso moderno, era destinato a fallire per buona parte» a causa del persistere dello spirito cittadino, radicato a tal segno, da insorgere alla minima scossa: quello spirito esclusivistico, contessuto di motivi economici e sentimentali, fondato sul contrastare di interessi artigiani o commerciali o agricoli, sull’odio persistente contro i nemici di ieri, sul ricordo tenace della pristina autonomia, che non doveva svanire se non in età molto recente.26
Il particolarismo che si opponeva alla tendenza unitaria, e la imbrigliava nelle sue mille contraddizioni, significava d’altra parte la stessa cosa della mancanza di unità morale, dell’assenza di una spiritualità profonda, di una religiosità autentica e non estrinseca. Significava la mancanza di quel che viceversa aveva nei secoli resa grande la monarchia di Francia, la Grant’ Monarchie, come l’avrebbe definita, nell’età stessa del Principe e dei Discorsi, Claude de Seyssel, – la mancanza di «una viva forza spirituale, che potesse conciliare in sé gli animi divisi sul terreno pratico, una fede profonda in cui gli uomini potessero rinvenire un motivo non precario di concordia e di comunanza».27 Tale era appunto l’anima profonda della monarchia francese, creata “nelle proprie viscere” dei popoli: di quella monarchia che recava in sé le stimmate della passione nazionale, vivificatasi la prima volta nel mondo cavalleresco e nella Chanson de Roland. Il re era il sacro discendente di coloro che avevano guidato la Francia nelle lotte antichissime; era l’anello di una lunga catena; era il custode anzitutto delle memorie e della gloria francese: e la sua persona si faceva innanzi in uno sfondo animato ancora dalle figure del passato. Egli scompariva nella Royauté.28
«Tale forza spirituale non ebbero le Signorie italiane», nelle quali, potrebbe dirsi, era la Royauté a scomparire nel principe, unica forza superstite di un popolo che non era più, o non era ancora un popolo, perché, come Chabod osservava, «una grande tradizione, una grande anima per lo Stato, 26. Ibidem, p. 13 (= pp. 43-45). 27. Ibidem, p. 15 (= p. 46). 28. Ibidem, pp. 15-16 (= p. 46).
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il Medioevo italiano non l’aveva potuta offrire».29 A misura che il processo signorile si compiva, e tendeva ad andare oltre sé stesso, in quel medesimo atto si verificava, infatti, l’indebolimento della virtù politica delle classi dirigenti comunali, e dei più forti gruppi sociali che, per conservare potere economico e privilegi, rinunciavano alla politica, rimettendola nelle mani del signore che, nello sfacelo generale, rimaneva perciò l’unica cosa viva, l’unica ancora di salvezza. Viva e unica; e perciò intrinsecamente precaria, votata alla sconfitta. Delineando con forti colori e, a volte, con toni persino concitati, questo quadro di decadenza, Chabod insisteva sul disfacimento dello spirito pubblico, sul vuoto delle coscienze, sulla sopravvivenza di «gruppi sociali, l’uno ostile all’altro, profondamente scissi dal tradizionale spregio dei borghesi verso la plebe, dall’odio di questa verso i ricchi, dalla beffarda asprezza, infine, dei cittadini di qualunque condizione verso i rozzi villici».30 Rimaneva un popolo disperso e indebolito, che al lettore di queste pagine rievocava quello compianto da Manzoni nel primo coro dell’Adelchi, e nelle pagine del Discorso sulla storia dei Longobardi: «un volgo disperso che volto non ha», e che, mentre «la vita di Corte e la civiltà umanistica ammaestravano gli animi ad una serena indifferenza per tutto quanto fosse violenza di passione», non chiedeva se non pace e tranquillità nell’atto in cui, giorno dopo giorno, si distaccava dai doveri civili e militari e, come si è detto, metteva nelle mani del principe il suo destino. «La figura individuata del Principe si faceva» perciò «sempre più innanzi sulla scena: di vivo, nell’Italia, non rimaneva che lui solo. […] Sotto di lui, non v’era forza di popolo che potesse trionfare del calcolo individuale».31 Fu «questo mondo, vuoto di profondi motivi morali e politici, senza forza di masse, vivente solo nella isolata virtù di individui sparsi, i quali imprimono la loro orma in una materia fiacca e senza coesione», fu questo il mondo che prese la sua forma nel Principe; nel quale, per dirla in breve, tanto più alla virtù del capo era affidato il compito della rigenerazione politica, quanto più Machiavelli avvertiva la sua solitudine, e cercava di compensarla esagerandone, se così potesse dirsi, la virtù. Fu questa, a giudizio di Chabod, la sua grandezza, un pensiero che, sotto lo stimolo della passione e della fantasia, andava, o cercava di andare, oltre il limite offerto dalle cose. Ma fu anche il suo errore, fu la sua illusione. 29. Ibidem, p. 17 (= p. 46). 30. Ibidem, p. 22 (= p. 53). 31. Ibidem, pp. 23-24 (= p. 55).
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Teorizzando […] e proponendo con inusitata chiarezza i risultati della storia italiana, il Machiavelli ne accetta anche i presupposti; creando il Principato, come espressione di virtù singola, estranea alla vita della massa, egli sottoscrive alla condanna di morte della società del suo tempo, posta fuori, come forza politica capace di rinnovamenti, dalla ricostruzione dello Stato. Tutto si riduce alla sottile energia del condottiero solitario.32
Che era un’energia reale, se e quando fosse riuscita a esserlo; dalla quale non poteva tuttavia scaturire il miracolo della rigenerazione di un popolo che aveva cessato di esser tale, e che proprio perché aveva fuori di sé il principio della sua salvezza, non poteva realizzarla con quello strumento. L’insistenza su questo, che è il vero tema della sua interpretazione di Machiavelli, è, nelle pagine di questo saggio chabodiano, addirittura ossessiva. Lo si avverte, con particolare nettezza, in quelle dedicate alla questione delle milizie cittadine da sostituire a quelle mercenarie:33 pagine notevoli, fra le più acute di questo saggio. Lo si avverte nell’analisi dedicata alla religione.34 Lo si avverte in quest’altra, tanto elaborata nella sua tessitura letteraria, quanto imperiosa nel presentare, in una sintesi vibrante, le ragioni del fallimento del Principe e del personaggio che avrebbe dovuto realizzarne la teoria: Egli è il redentore, che riparerà i peccati degli antichi signori con la gloria sua di Principe nuovo. E non s’accorse il Machiavelli come anche un siffatto ricostruire fosse vano; come questa fosse la grande, l’ultima illusione sua. Credere che, là ove erano venute sfasciandosi tutte le forze vive della nazione, e nessuna nuova era per anco apparsa; nella terra in cui più non era la borghesia comunale a reggere con la sua energia il governo, e non era sorta una nuova coscienza e una nuova classe capace di sostituirla; in questi dominii ancora disuniti e frammentari, indeboliti ogni giorno più, politicamente ed economicamente, dalla pressione dei grandi Stati occidentali; tra una gente che aveva smarrito, nella letteratura e nell’umanesimo, il senso della vita morale e delle necessità sociali, ma serbava tuttora le suscettibilità particolaristiche; credere, diciamo, che potesse un condottiero di armati risuscitare la fortuna declinante d’Italia, e ordinar quello Stato, che non erano riusciti a mettere insieme né la prepotente vitalità dei Comuni, né la volontà unitaria dei grandi Signori del Trecento; immaginarsi che bastasse solo riformare l’uomo e la milizia, e fossero per ciò sufficienti atti di un volere singolo e percezione acuta degli eventi e abilità di mosse e severità di condotta di un Signore isolato a tenere 32. Ibidem, p. 37 (= p. 70). 33. Ibidem, pp. 41 ss. (= pp. 74 ss. ). 34. Ibidem, pp. 47 ss. (= pp. 80 ss. ).
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in piedi, anzi a ricostruire ciò che doveva crollare per necessità di cose, per la giusta conclusione di tutta una vicenda storica: era un sogno bello, audace, formidabile, ma era un sogno!35
Ebbene, dopo aver ricordato che è questa la pagina che Chabod riecheggiò nell’altra, di tanti anni posteriore delle Premesse, deve avvertirsi che non è certo questa la sede nella quale, vestendo i panni del machiavellista, si possa indugiare nel far vedere quel che di giusto fosse nell’interpretazione che, in questi termini, egli forniva del Principe, e quel che di inadeguato tuttavia vi si intrecciasse; come egli avesse ragione di insistere sulla realtà all’interno della quale il suo progetto si era costituito, e torto invece nel non avvedersi che quella che Machiavelli aveva messa a fondamento della sua opera era una consapevolezza non diversa, nel suo nucleo, da quella da lui, Chabod, realizzata in termini storiografici; e che proprio perché aveva capito e non s’illudeva, e da politico assumeva quel che la realtà gli offriva, o piuttosto gli opponeva, come l’inevitabile «materia» di ogni possibile azione politica, proprio per questo dal principe aveva preteso che possedesse una virtù «estraordinaria» e comportamenti esenti da errori. Per la forza di questa consapevolezza, che implicava l’eccezionalità dell’impresa, il Principe riuscì, nel suo fondo, piuttosto un dramma, o una tragedia, della volontà politica impegnata nella rischiosa lotta contro la fortuna, che non il trattato che, esteriormente considerato, senza dubbio è. Ma questa è un’interpretazione che, perfezionandola nelle varie edizioni della mia monografia machiavelliana, fin dal 1958 ho proposta agli studiosi, non senza che negli anni precedenti, quando assai stretto era il rapporto che intrattenevo con lui, avesse costituita la materia del vivace dissenso che su questo punto si era formato fra noi. A queste cose, che risalgono a più di mezzo secolo fa penso spesso con malinconia, e con il vivo rimpianto di quel tempo perduto; tanto che non ho potuto non rievocarle anche in questa sede, dove a parlare di nuovo di Chabod, della sua opera, dei suoi sentimenti politici, sono stato spinto dall’esigenza, che ho avvertita con forza, di ristabilire, su questo punto, quella che a me pare la verità. Zunino si è chiesto in quali forme, e attraverso quali accenni, il fascismo facesse avvertire la sua presenza nelle pagine dedicate da Chabod a Machiavelli. E ha chiaramente lasciato intendere che dal fascismo quelle pagine furono condizionate. Ho mostrato perché su questo punto si sia gravemente ingannato. Ma vorrei aggiungere, al riguardo, un rilievo cronologico, che 35. Ibidem, pp. 51-52 (= pp. 84-85).
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merita di essere considerato con attenzione. Faccio notare che, pubblicato nel 1925 nella «Nuova rivista storica», e come libro a sé l’anno successivo, il saggio sul Principe era nato negli anni precedenti, quando Chabod lavorava intorno alla storia delle Signorie e di lì, dalla riflessione che conduceva indagando quella storia, aveva tratta l’esigenza di vedere più da vicino come quel processo si fosse atteggiato nel pensatore politico che da quell’esperienza politica aveva ricavata la materia della sua indagine. Nacque quindi nel momento in cui alle tensioni, ai contrasti, ai conflitti sociali del dopoguerra con sempre maggiore determinazione, in un quadro di generale disorientamento, le squadre fasciste stavano aggiungendo la nota dell’esplicita violenza e nel 1922 Mussolini assumeva la presidenza del Consiglio dei ministri. Nacque quindi in un momento in cui le forme del regime liberale e parlamentare erano agonizzanti, ma sussistevano; e giunse a compimento quando ancora non era stata proclamata la dittatura, che era invece un fatto ormai compiuto quando il saggio prese a uscire, a puntate, nella suddetta rivista. Ebbene, che nella filigrana della riflessione che in quel piccolo libro Chabod dedicava al momento storico che si può dire culminasse nella composizione del Principe, il volto del fascismo sia riconoscibile, è certamente vero; e sarebbe ben strano se così non fosse. Ma nella trama del suo saggio quel volto è presente e riconoscibile, non nel senso che, avendo l’occhio a quel che stava accadendo intorno a lui, e meditando sulla crisi, allora in atto, delle istituzioni liberali e della relativa cultura, Chabod nascondesse nel discorso storico un giudizio in qualche modo positivo su quel che accadeva intorno a lui. È vero il contrario. Non positivo, ma negativo era il giudizio: come, se altro non si fosse in grado di leggervi, dovrebbe pur risultare chiaro da ciò, che del Principe si proclamava la grandezza nell’atto stesso in cui se ne segnava il limite politico, se ne indicava l’errore, e del progetto che vi era delineato si sottolineava l’astrattezza e il necessario fallimento. Quel che sarebbe stato necessario per rigenerare la società e lo Stato era, allora come negli anni in cui il fascismo era all’opera per la conquista del potere, non che un solitario principe o duce sorgesse per rifondare l’una e l’altra, all’una e all’altra restituendo la perduta energia, ma che protagonista della rigenerazione fosse il popolo; che non aveva tuttavia quella capacità, e per questo, affidato a un’individuale virtù, il progetto era destinato a fallire nel presente come era fallito nel passato. Se, malgrado la sua disposizione all’oggettivismo rankiano e alla purezza del discorso storico, la politica aveva fatto irruzione nella storiografia di Chabod, turbando la superiore serenità del suo giudizio, sarebbe dunque sul serio lontano dall’aver capito quel che
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in questo libro avveniva chi, per esempio, dopo aver colto nella descrizione dei contrasti politici e sociali dell’Italia tardocomunale e signorile una metafora delle agitazioni postbelliche, nell’intervento del principe pacificatore ne avesse colta un’altra, positiva, questa volta, quanto la prima era negativa, dell’azione mussoliniana. Basta aver letto con attenzione questo saggio per avvedersi che il tono dominante del giudizio vi era, in entrambe le direzioni, schiettamente negativo. Era negativo nei confronti di quel che stava allora avvenendo nella vita politica e sociale dell’Italia trequattrocentesca, descritta da lui in termini di decadenza e di «annientamento» della virtù morale e politica. Negativo era anche nei confronti del principe che, quale che fosse stata la sua virtù, e posto che nella realtà delle cose avesse mai corrisposto al ritratto ideale tracciatone da Machiavelli, restava il simbolo di una situazione di decadenza, ed era votato al disastro. Negativo era perciò anche nei confronti di quel che, mentre scriveva, stava accadendo, ai suoi giorni, in Italia. Negativo e pessimistico: in modo tale che, con l’accentuazione della sua negatività, il pessimismo alludeva a qualcosa come una deficienza strutturale della storia italiana, all’essere il fascismo, secondo la formula di Gobetti, l’«autobiografia» dell’Italia, e alle conseguenze che potevano scaturirne per chi, essendo stato messo nella condizione di doverlo comunque subire, perché quello aveva vinto, anche avesse dovuto scegliere fra la rassegnazione e la resistenza. Ce n’era abbastanza, per chi allora avesse capito quali fossero i pensieri di Chabod, e in quale direzione si stesse muovendo, perché i paladini del principe di ieri e di quello, soprattutto di oggi, dovessero censurare l’insensibilità con la quale il giovane storico si poneva all’ascolto della musica nazionale proveniente, secondo loro, dalle pagine del Principe; e qui basterà pensare agli attacchi che, nel «Giornale storico della letteratura italiana», non gli furono risparmiati da Plinio Carli e anche dallo stesso Vittorio Cian, che dell’«inveramento» nazionalfascistico di Machiavelli si erano fatti sostenitori intransigenti,36 e di quel che il giovane storico chiudeva nel suo petto si erano accorti con più perspicacia di quanto non sia accaduto a interpreti dei giorni nostri. L’odio talvolta acuisce l’ingegno; e non sempre l’esercizio di quella che si crede sia spregiudicatezza ne mette in giro una di buona lega. 36. Rinvio, per brevità, alla recensione che della raccolta degli scritti machiavelliani di Chabod feci nella «Cultura», 2 (1964), pp. 649-659, dove sono indicati gli scritti di Plinio Carli, e si parla di Vittorio Cian. La durezza del giudizio che allora espressi mi provocò varia inimicizia; ma di questo è inutile parlare qui.
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In realtà, nel saggio sul Principe evidente era, dissimulata ma non troppo, l’avversione con la quale Chabod guardava allora al fascismo; che gli si configurava come una soluzione data alla decadenza con strumenti appartenenti a questa e incapaci quindi, radicalmente, di superarla. Se poi la valutazione negativa che, attraverso l’Italia di ieri, egli dava dell’Italia di oggi, fosse dettata da un’idea liberale della vita politica e della storia, e da questa fosse caratterizzata l’avversione che mostrava nei confronti del fascismo, è difficile dire. Fra i diversi temi storiografici che, come fossero colori, egli impastava insieme nel suo saggio, individuare e isolare quello liberale, o, meglio, etico/politico, non è agevole: non solo perché si tratterrebbe allora di determinare il senso del suo liberalismo, ma anche perché, a rigore, in senso specifico quel motivo non vi era presente e a predominare era piuttosto l’idea secondo cui, nei momenti della maggior vigoria e della più alta salute morale, lo Stato, e il popolo che ne costituisce il maggior sostegno, danno luogo a un organismo spirituale, fondato sul senso dell’appartenenza e della solidarietà. Un’idea che sarebbe per altro fortemente fraintesa se vi si cogliesse qualcosa come il consenso dato da Chabod al concetto hegeliano, spaventiano e gentiliano dello Stato etico: un concetto che sempre gli rimase estraneo e per il quale non mostrò mai nessun interesse, storiografico o filosofico. Più agevole, invece, individuare gli altri temi. Accanto all’influenza che su di lui fu esercitata dagli storici del Comune,37 si sente chiara nella sua pagina quella di De Sanctis e altresì di Gentile interprete dell’Umanesimo e del Rinascimento: non da altri infatti potevano dipendere le battute polemiche sull’umanesimo che, mentre indicava le vie della bellezza, contribuiva ad allevare sudditi piuttosto che cittadini. Più difficile invece, come dicevo, il rapporto con la storiografia etico/politica. Quando Chabod scriveva il suo saggio, Croce non aveva ancora raccolto in volume le parti della Storia del regno di Napoli che avevano incominciato ad apparire nella «Critica» fra il 1923 e il 1924; né ancora era apparso il saggio in cui egli avrebbe teorizzato il concetto della storia etico/politica di cui quella sua Storia era la prima realizzazione. Quell’idea si presentava perciò in Chabod, che di Croce citava, in quei suoi scritti machiavelliani, oltre la Teoria e storia della storiografia, gli Elementi di politica nell’edizione del 1925,38 piuttosto che nel suo segno, 37. Pizzetti, Federico Chabod storico delle Signorie, pp. 559 ss. 38. M. Fubini, Federico Chabod studente di lettere (1960), in Saggi e ricordi, MilanoNapoli 1971, p. 220, ha osservato che, quando scriveva la sua tesi di laurea, Chabod non era a conoscenza né degli Elementi di politica di Croce né della Staatsräson di Meinecke.
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in quello del valore riconosciuto alla tradizione, al lungo radicamento istituzionale, alla sacralità connessa alle figure del potere, che, come si è visto, egli ammirava nella storia di Francia. E questo allora spiega perché (la testimonianza fu resa al riguardo dal suo coetaneo Mario Fubini39) non avesse potuto non tributare il suo consenso alla recensione con cui, nel 1926, Adolfo Omodeo aveva criticato il Risorgimento senza eroi di Piero Gobetti. Si tocca qui, se aprire una breve parentesi è lecito, un punto di estrema delicatezza, qual è quello che concerne il rapporto che Chabod intrattenne con Piero Gobetti e il suo ambiente; al quale egli fu vicino (il Baretti annunziò un suo scritto, che poi non fu pubblicato) senza svolgervi tuttavia la parte che, per esempio, vi fu sostenuta da Natalino Sapegno, suo amico e coetaneo. Rapporto certamente non semplice perché, a suscitare il distacco con cui guardava a quell’esperienza, sarà stata certo la sua prudenza, sarà stata la decisione che aveva presa di condurre una vita per intero dedicata agli studi, o altro del genere. Ma anche era quel che in Gobetti restava del modo orianesco di concepire la storia; era la tendenza, che fin dall’inizio forse lo rese perplesso e esitante, piuttosto a giudicare che a cercar di comprendere, con tutto quel che ne seguiva sul piano delle scelte, non solo culturali, ma politiche; era il gusto delle sintesi astratte, delle antitesi radicali, dei paradossi interpretativi, che, poiché forzavano l’interpretazione delle cose, disturbavano il suo senso, assai più pacato e comprensivo, della loro lentezza e complessità. A tenerlo lontano da Gobetti sarà stata, dunque anche la sua «impazienza», con la tendenza che implicava a considerare fallito un movimento di cose e di coscienze che avrebbe dovuto seguitare, negli anni, ad approfondire sé stesso e a estendere il suo ambito, con la debole o la nessuna attenzione dedicata perciò al tema delle minoranze che avevano avviato il processo risorgimentale, e con la mancata consapevolezza che, come Omodeo aveva scritto in una pagina memorabile, e di rara suggestione, i pochi che, di quel processo si erano resi protagonisti, «si adattarono a esser loro la nazione, come i settemila Israeliti, che ai tempi d’Elia non avevano piegato il ginocchio a Baal, costituivano essi il vero Israele».40 Eppure, l’insistenza che Gobetti aveva messo nel rilevare il vuoto della coscienza italiana nei secoli È probabile tuttavia che, se non dell’opera meineckiana, che uscì comunque nel 1924, Chabod avesse fatto a tempo a leggere quella di Croce, che era stata anticipata nella Critica del 1924, e quindi a citarla nell’edizione del 1925. 39. Fubini, Federico Chabod, pp. 216-218. 40. A. Omodeo, Risorgimento senza eroi (1926), in Difesa del Risorgimento, Torino 1951, p. 444.
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che avevano preceduto il riscatto unitario, e di questo avevano compromessa la radicalità; l’accento che aveva fatto battere sulla povertà del sentimento religioso, rimasto a tal punto nell’estrinseco che anche i tentativi che fra Quattro e Cinquecento si erano compiuti per avviare la Riforma della Chiesa erano tutti regolarmente falliti, restando nelle élites senza penetrare nelle masse; il pessimismo sostanziale della considerazione storica, – tutto questo non potrebbe dirsi che non fosse passato in Chabod e che, per questo verso, egli non avesse qualcosa in comune con quel giovane geniale. La nostra crisi rivoluzionaria non ha avuto una soluzione integrale e conclusiva. Il problema del nostro Risorgimento: costruire un’unità che fosse di popolo, rimane insoluto perché la conquista dell’indipendenza non è stata sentita tanto da diventare vita intima della nazione stessa, non è stata opera faticosa e autonoma di formazione attivamente spontanea.41
Sono parole di Gobetti; e non dico che tutte avrebbero potuto esser pronunziate e sottoscritte anche da Chabod; che di «crisi rivoluzionaria» forse non avrebbe parlato, ma della unità di popolo non divenuta «vita intima» della nazione, sì, perché, trattasse di Machiavelli e della sua Italia, di Milano al tempo di Carlo V, o dell’Italia unita, fu questo il suo tema dominante. A parte dunque quel che distingueva lui, storico di mestiere e tenace esploratore di archivi, dalle «improvvisazioni» gobettiane, il tratto che ulteriormente segnava la distanza era dato proprio da quello che, per un altro verso, tendeva a farla sparire. Era dato dal diverso modo in cui, condividendo una concezione pessimistica della storia italiana, essi vi reagivano: Gobetti trascendendola nella progettualità politica e nell’esperimento intellettuale diretto all’azione, Chabod traendone la lezione della prudenza, della lentezza, convinto, con Omodeo, che a fondare uno Stato che avesse la sua radice nelle coscienze occorrevano le «tradizioni secolari».42 5. Che assai vivo fosse in Chabod il senso dello Stato si capisce bene seguendo il filo delle precedenti considerazioni. Stato significava per lui la stessa cosa della nazione italiana, significava la sua unità da riaffermare al di là dei persistenti particolarismi, e di tutto quanto potesse corroderne dall’interno la compattezza; che, comunque egli la giudicasse da «politico», come studioso di storia, che aveva rivolto il suo sguardo al Medioevo e alla prima 41. P. Gobetti, La libertà d’insegnamento in Piemonte (1921), in Risorgimento senza eroi e altri scritti storici, a cura di F. Venturi, Torino 1976, p. 145. 42. Omodeo, Risorgimento senza eroi, p. 444.
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età moderna, sapeva bene quanto fosse fragile e in continuo pericolo di essere perduta. L’analisi che, per il tramite indiretto di Machiavelli e della storia delle Signorie italiane, aveva eseguita delle condizioni presenti dell’Italia, lo aveva reso consapevole della necessità di studiare e di capire, non solo, con i suoi contrasti interni, con i ritardi e le contraddizioni, la formazione, ma anche il funzionamento dello Stato moderno; che, come dimostrano le minute analisi eseguite su quello di Milano nell’età e durante il dominio di Carlo V, fu visto da lui, non come l’etica che si faceva sostanza e si rendeva obiettiva nelle sue strutture, ma come il nesso oggettivo di queste. Il suo carattere fondamentale fu colto perciò nel conflitto che le prerogative a cui Carlo V non intendeva rinunziare suscitavano con la burocrazia, e cioè con una classe di funzionari che, mentre lo Stato di cui erano al servizio si rendeva autonomo in sé stesso e si slegava perciò dall’identificazione con il sovrano, anch’essi guadagnavano la loro autonomia e entravano, per questo aspetto, nella modernità. Nella burocrazia il suddito diventava un funzionario; assumeva un suo status obiettivo che, essendo una articolazione del potere, costituiva altresì una garanzia contro ogni tendenza che quello avesse avuta alla sopraffazione e all’arbitrio. Dalla crisi di ogni altro potere, il principe rinascimentale aveva ricevuto il dono dello Stato, che, poiché si identificava con la sua persona, non era perciò quello moderno, come Chabod lo intendeva. Perché questo nascesse, era necessario che lo Stato si distinguesse dal sovrano, e che la sovranità diventasse perciò un affare assai più complesso di quella che il principe rinascimentale esercitava, o al di là delle leggi, o servendosene come di altrettanti strumenti del suo potere. Le pagine che, nel libro su Lo Stato di Milano nell’impero di Carlo V, pubblicato in una brutta edizione provvisoria, nel 1934, dedicò a questo tema sono tra le più fini, suggestive e illuminanti che mai a Chabod riuscisse di scrivere. Il conflitto fra la concezione «cavalleresca», che fu propria di Carlo V, e che prevedeva che ogni uomo del governo, dal più elevato in grado al più umile, fosse legato a lui da un diretto rapporto di fedeltà, e l’altra che si andava impetuosamente formando nel ceto dirigente e, in particolare, negli uomini preposti all’amministrazione dello Stato, vi era descritto come, insieme, il lento declino della vecchia idea e il laborioso atto di nascita della nuova, che meglio si definirebbe «moderna». Negli uomini che si erano «insediati ai posti di comando dell’amministrazione milanese» era ben radicato il convincimento di essere al proprio posto non per grazia di Sua Maestà, ma per ragioni di ufficio, cioè in virtù di una carica, non personaliter creata, ma statuita nella costituzione dello Stato, indipendente quindi in
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sé dalla benevolenza di questo o quel principe, e che importava determinati obblighi e determinati compensi, senza impegnare totalmente, in tutta la sua coscienza, l’uomo chiamato a disimpegnarla.43
E qui seguiva un’osservazione importante, per la quale, con una punta di paradosso, potrebbe persino parlarsi di qualcosa come una genesi burocratica del liberalismo. «In ufficio, sì,» chi lavorava nella burocrazia statuale «era tenuto a rispondere sino all’ultimo al volere del capo dello Stato, ma solo in ufficio: rimanendo, invece, in quanto uomo privato, non legato da particolari vincoli verso il sovrano che non fossero quelli generali e comuni a tutti i sudditi». Non che qui si rivendicasse l’autonomia della coscienza, e l’indipendenza di questa dalla coercizione statuale nelle cose che appunto la riguardavano e soltanto a quella appartenevano. Ma l’aver riservato all’individuo in quanto individuo una sfera personale inaccessibile all’invadenza del principe contribuiva, per riflesso, al determinarsi di una concezione dello Stato come un insieme oggettivo di leggi e di strutture, o, se si preferisce, come un congegno che, se per un verso obbligava, per un altro concedeva autonomia e libertà senza che per questo gli si dovesse riconoscere una qualsiasi superiorità etica. La questione teorica che, se Chabod avesse avuto mente giuridica, e si fosse dilettato nella costruzione di una teoria generale della politica e dello Stato, avrebbe potuto svolgersi a partire da queste analisi, e dall’intuizione che le sorreggeva e guidava, concerneva, com’è evidente, l’idea della sovranità; e si delineava come un’assai interessante, e anche paradossale, questione. Se l’analisi di Chabod fosse stata tradotta in teoria politica, si sarebbe infatti dovuto dire che, per un verso, la sovranità apparteneva al «principe», e tanto più gli sarebbe appartenuta quanto più lo si fosse considerato legibus solutus, mentre, per un altro, e nello stesso tempo, apparteneva allo Stato e alle leggi che lo articolavano nella sua struttura unitaria: in modo tale che era quest’ultimo, era lo Stato, a presentarsi come lo scudo dietro il quale, non dirò i sudditi, ma certo i funzionari, potevano difendere e garantire la loro libertà di servirlo persino in contrasto con la volontà del capo. Non so quali letture, in quegli anni, Chabod avesse fatte nel campo delle teorie giuridiche; anche perché, se è vero che ciascuno legge più libri di quanti ne siano contenuti nella sua propria personale biblioteca, vero è anche che di libri che le concernessero in questa non c’è traccia. Ignoro, 43. F. Chabod, Lo Stato di Milano nell’Impero di Carlo V, I, Roma 1934, p. 172.
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per esempio, se, quando attendeva alla stesura del libro sullo Stato di Milano, egli avesse fatto a tempo a leggere Carl Schmitt, che poi gli fu noto almeno negli scritti tradotti da Cantimori, e quale impressione, eventualmente, avesse ricevuta dalla sua teoria della sovranità. Non so, ma credo di poterlo escludere, che sapesse per diretta lettura del positivismo giuridico, e la kelseniana teoria pura del diritto fosse stata da lui conosciuta sui testi. Ma mentre dai suoi stessi riferimenti bibliografici risulta che, per quanto riguarda la concezione cavalleresca di Carlo V, sollecitazioni a procedere sulla via che s’è detta gli provenivano, non dai giuristi, ma da Johan Huizinga,44 certo è che questa idea dello Stato, della quale si era impegnato a ricostruire storia e caratteri, non aveva niente a che fare con quanto, in quegli stessi anni, accadeva nel campo della contemporanea filosofia del diritto italiana di ispirazione fascista. L’idea dello Stato che Chabod delineava nelle sue indagini concernenti Milano al tempo di Carlo V, non aveva niente a che fare con la tradizione idealistica dello Stato etico che da Hegel era passata in Spaventa e da questo a Gentile, non senza che una forte opposizione fosse stata, rispetto a essa, messa in atto da Benedetto Croce. In tanto, si direbbe, la sua simpatia andava ai lontani amministratori milanesi che, nei confronti dell’Imperatore si dichiaravano leali, ma non servi, in quanto, nei fatti, lo Stato era stato da lui spogliato di ogni sacralità, era stato ridotto a un organismo di funzioni coerenti, e la moralità dei «singoli», come a lui piaceva dire, era stata, nel contempo, messa al riparo delle sue possibili ingerenze. Che cosa aveva a che fare, questa idea, che allo Stato dava rilievo in quanto lo si fosse trasferito dal cielo alla terra, e se ne fosse fatta una sorta di macchina efficiente e concreta, con la sua risacralizzazione nelle forme teorizzate dai giuristi e dai filosofi fascisti o filofascisti, proprio non si riesce a vedere. Se quello dei giuristi e, come oggi si direbbe, dei politologi fascisti non era il suo mondo, non tanto perché quelli fossero fascisti ma perché erano giuristi e politologi, Chabod non poteva tuttavia non conoscere le formule che allora erano di dominio comune e circolavano anche negli ambienti che egli frequentava; e non poteva perciò non sapere dello Stato che coincide con l’individuo che, per il suo verso, si essenzializza nello Stato e simili. Non poteva non conoscerle, queste formule, e alle conseguenze che ne derivavano sul piano politico immediato certo non chiudeva gli occhi. Bastava, perché di tutto questo sapesse, che, nei «Nuovi Studi», ai quali aveva egli stesso collaborato, avesse letto quel 44. Chabod, Lo Stato di Milano, p. 168 n. 58.
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che Spirito e Arnaldo Volpicelli venivano scrivendo e teorizzando. Basta che anche noi si sappia quel che a lui allora non era ignoto, per capire che di quella temperie intellettuale egli non era partecipe: come bene è provato da queste sue pagine di storia milanese del sedicesimo secolo. Dire che Chabod fu non estraneo a suggestioni fasciste, e che per questo il suo problema fu quello dello Stato, significa perciò non essersi avveduti che, non se si disserta intorno allo Stato si è fascisti o non estranei al fascismo, ma lo si è nel caso che se ne disserti in un certo modo e con determinati accenti. Se si studia la storia d’Italia, e soprattutto se, nello studiarla, l’accento sia fatto cadere sulle tendenze disgregatrici che ne rappresentano lo spirito profondo, porsi quel problema è inevitabile: quali che fossero gli orientamenti ideologici, e qualunque cosa si ritenesse di dover pensare sia del Risorgimento e dell’idea che guidò gli uomini che lo realizzarono nel modo in cui lo realizzarono, sia di quel che si attuò o non si attuò nell’Italia unita fino al 1915 e al drammatico dopoguerra. Non porselo significa, non essere antifascisti o non inclini al fascismo. Significa semplicemente non capire che, in tanto il fascismo conquistò il potere nel dopoguerra in quanto in Italia non si era riusciti, nel periodo unitario, a porre rimedio alle tante cose negative che si erano intrecciate nel corso della sua storia, e a far sì che lo Stato non fosse estraneo alla nazione, e questa, come Chabod amava dire ripetendo Renan,45 fosse invece il «plebiscito di ogni giorno». 6. Se queste sono, o dovrebbero essere, cose ovvie, la domanda che ci si deve porre è perché non lo siano agli occhi dei tanti che, oggi, nella nazione e nello Stato vedono soltanto i simboli della negatività politica, nella storia dell’Europa moderna soltanto sopraffazione e colonialismo e, attraverso la scelta di altri oggetti di studio e la pratica, quindi, di una diversa storiografia, esprimono la loro condanna dell’Occidente e della sua cultura; che, se ha elaborato essa le essenziali categorie del pensare e dell’agire politico, è giusto che paghi le conseguenze di un giudizio così negativo. È in atto da tempo, nella storiografia e nel pensiero dell’Occidente una sorta di autoprocesso culturale e politico, al quale, da posizioni diverse, non solo gli storici hanno dato inizio, ma filosofi (Heidegger, in primis), pensatori politici, etnologi e antropologi (basti, per fare un solo nome, pensare a Claude Levi-Strauss e ai Tristi Tropici, ma anche, in termini per altro assai diversi, all’ultimo De 45. Per l’interpretazione della formula di Renan, cfr. F. Chabod, L’idea di nazione, a cura di A. Saitta e E. Sestan, Bari 1961, pp. 61 ss.
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Martino, quello delle apocalissi culturali e della «fine del mondo», anche Faucault e quanti ne ripetono i modi): un autoprocesso attraverso il quale persino il marxismo ha subìto una sorta di singolare transvalutazione moralistica. Di qui, anche nella storiografia italiana del dopoguerra, o meglio, in settori importanti di essa, il formarsi di una tendenza rivolta a criticare, se non l’idea stessa che l’Italia avesse avuto nel passato, e avesse nel presente, una politica estera, chi tuttavia, in sede storiografica, ne avesse fatto e ne facesse oggetto di indagine senza perciò trasformare il suo discorso in un’invettiva anticolonialistica. Di qui, per conseguenza, la profonda revisione, a cui abbiamo assistito, degli oggetti storiografici; e un rivolgimento assai più profondo di quello che si produsse intorno agli anni venti dello scorso secolo quando, in Italia, la storia economica e sociale fu sacrificata a quella politica, e, per conseguenza, il basso Medioevo delle città e dei comuni cedette il campo allo studio dell’età moderna. Il rivolgimento degli anni venti consistette in un mutamento della prospettiva che, da sociale e economica, si faceva politica (in qualche caso etico-politica), restando tuttavia sostanzialmente intatto, nel mutare dell’angolo visuale, l’oggetto a cui si guardava. Il rivolgimento intervenuto nei nostri giorni è stato assai più profondo. È consistito infatti nell’invito a rivolgere lo sguardo oltre la superficie, ossia al di sotto di questa, nel luogo profondo in cui, fra le altre cose, l’interesse politico delle classi dominanti si intreccia con il pregiudizio religioso rafforzando così i suoi strumenti di oppressione e di dominio. I criteri e i valori della precedente tradizione storiografica che, malgrado le sue differenze, anche profonde, aveva tuttavia conservata una sostanziale unità, hanno conosciuto perciò una crisi radicale, hanno subito un processo di netta trasformazione, e si sono atteggiati in modo che ben poco dei precedenti valori e criteri è riconoscibile in quelli che li hanno sostituiti. La politica non è che oppressione, dominio, cancellazione violenta del diverso, al punto che sarebbe impossibile indicarvi un indizio qualsiasi di positività. L’attitudine, che fu di tanti storici a intessere nel racconto la potenza e la cultura, studiandone l’accordo o il disaccordo, ma sempre restando nel loro ambito, – questa attitudine oggi sembra essere tramontata; e gli storici sperimentano altre vie, costruiscono altre prospettive. Non nella politica degli Stati ricercano (se pur la ricercano) la positività della storia, perché il senso della loro indagine si realizza nello scoprire continenti sommersi, nel dar voce a quel che fosse rimasto muto e incompreso, o che, essendo emerso, avesse subìta la violenza dell’oppressione e della persecuzione, insomma nel raccontare storie di uomini e situazioni in cui fosse urgente la potenzialità
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della liberazione. Da storici di questa qualità, che, è talvolta un’alta qualità, Chabod certo era molto diverso: come diversi erano gli altri della sua o della precedente generazione. Ma non perché fosse stato, nei suoi pensieri, condizionato dal fascismo. Era diverso perché, per un uomo della sua formazione e della sua cultura, l’unica via che gli fosse consentito di percorrere nella critica del mondo moderno, e dell’idea della potenza su cui si fondava, era quella indicata dal pessimismo burckhardtiano, con il vagheggiamento del Kleinstaat. Era, di fronte all’antitesi della potenza e della cultura, la scelta di quest’ultima. Si spiega quindi perché, nel clima storiografico e politico dei nostri giorni, anche la sua storiografia non abbia trovato adeguata comprensione e sia stata assegnata a un passato, nel quale non è vero che egli si fosse trovato a suo agio. Si spiega perché quello di Chabod sia un esempio non seguito, una lezione non appresa; e i suoi siano libri poco e male letti. Tanto meglio si spiega in quanto persino in chi l’ha conosciuto bene, l’ha letto e l’ha studiato come si legge e si studia una pagina del passato che aiuti a capirne altre, persino in uomini della mia generazione si avverte, quando lo rileggono, e nella interpretazione che ne danno, il segno degli anni che sono passati, e delle tante cose che non si scriverebbero più come lui, Chabod, le scriveva.. Ma occorre anche dire che si verrebbe meno a ogni senso di responsabilità se, per capire il senso di questa distanza, si facesse intervenire la categoria del fascismo, o della subdola compromissione con questo. 7. Zunino ritiene che soprattutto nella questione del rapporto fra etica e politica si manifesterebbe la compromissione intellettuale di Chabod con il fascismo. Nel trattare di Machiavelli e nell’assegnargli il merito di aver distinto tra l’etica e la politica in modo che di questa fosse affermata l’autonomia e l’indipendenza da quella, Chabod si rifaceva, com’è noto, alla tesi di Croce; che non solo, come anche è noto, quella distinzione aveva elaborata e prospettata nel quadro della complessa questione dei distinti e degli opposti, nella quale avrebbe dovuto essere considerata per non essere fraintesa, ma, sia pure allo stato germinale, l’aveva ritrovata in Machiavelli, indicandola come la sua vera gloria concettuale. Nel riprenderla, nel suo saggio sul Principe, Chabod aveva contrapposta questa «scoperta», che lui pure considerava un «acquisto per sempre» nel campo della filosofia politica, agli «errori» che Machiavelli aveva, secondo lui, compiuti nella considerazione storica delle «cose d’Italia»; e, nel sovrapporla e contrapporla a quella, introduceva nel suo discorso uno jato, una frattura, che non potevano essere ricomposti perché di quell’idea non aveva colta la genesi nel processo della sua formazione
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e nelle questioni che l’avevano determinata. Il punto, per altro, che qui interessa, non è questo, che da me fu discusso in sede di analisi machiavelliana e anche nel saggio che nel lontano 1961 dedicai a Chabod. Quel che qui interessa è piuttosto il modo in cui Zunino ha interpretata la presenza, in Chabod, di questa tesi. Egli l’ha connessa al fascismo che allora era sul punto di assumere, o aveva ormai assunta, forma dittatoriale; e ha posto una questione che converrà delineare con le sue stesse parole; che sono chiare infatti, e non danno luogo a equivoci. «Negli anni ’25-27 era forse possibile» si è chiesto, «plaudire a una risoluzione del rapporto etica-politica, nel senso di una affermata autonomia della seconda rispetto alla prima, e si poteva porre l’accento sulla potenza dello Stato senza implicitamente e consapevolmente esprimere un giudizio favorevole circa gli esiti della crisi postbellica in Italia?».46 Era, come si vede, una domanda chiara, ma retorica. La risposta era infatti già implicita nel modo in cui Zunino mostrava di ritenere che, nel suo nucleo, e al di qua degli aggiustamenti che avrebbe subiti nel tempo, la tesi crociana dell’autonomia della politica dovesse essere interpretata. E se assumeva, essa stessa, la forma di una domanda, sulla natura della risposta dubbi, ancora una volta, non erano ammissibili: «vista la esilità del fondamento documentario su cui si sta argomentando», non potrà tuttavia non dirsi che «è assai improbabile che Chabod intorno alla metà degli anni venti dovesse guardare in termini assolutamente negativi agli esiti politico-istituzionali a cui era approdato il regime fascista».47 Insomma, se riteneva che la politica e la morale fossero attività distinte, e che la prima niente dovesse alla seconda, come poteva non pensarsi che non fosse di sentimenti fascisti? Quando nel 1927 scrisse un articolo sulla Staatsräson di Meinecke, osservò che, in tanto fra le ragioni del kratos e quelle dell’ethos il suo maestro berlinese si era mostrato drammaticamente esitante, in quanto impensata era rimasta in lui la distinzione concettuale operata da Croce, fra quei due momenti della realtà: senza avvedersi, secondo Zunino, che, a quella data, proprio nel filosofo al quale si riferiva la distinzione era entrata in crisi e aveva subita, o stava subendo, una forte revisione. Questa l’argomentazione di Zunino, che, nel procedere così, ha messo insieme due pregiudizi. Il primo che, in quanto tale, la distinzione categoriale della politica dalla morale contenesse in sé qualcosa come il germe del fascismo, o, quanto meno, dei regimi autoritari fondati sulla forza e non sulla legge; e che, per conseguenza, come tante volte fu detto e ripetuto 46. Zunino, Tra Stato autoritario e coscienza nazionale, p. 120. 47. Ibidem.
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nei più svariati ambienti politici e intellettuali, proprio a Croce, che a quella distinzione aveva dato rilievo filosofico e, in nome di Machiavelli, di Marx e della «forza» da essi teorizzata, aveva ammonito a non cedere alle «alcinesche seduzioni» della libertà e della giustizia, risalirebbe la responsabilità di essere stato il vero antesignano del fascismo. Il secondo che, se nel passaggio all’antifascismo, Croce aveva fortemente modificato il quadro, da lui in precedenza dipinto, dei rapporti intercorrenti fra etica e politica, chi di quelle modificazioni non si fosse avvisto e non avesse tenuto conto, doveva per ciò stesso essere considerato simpatizzante del regime che, dopo l’esordio parlamentare del 1922, si era fatto, a partire dal gennaio 1925, aperta dittatura: simpatizzante, deve aggiungersi, del regime quanto inidoneo a tenere in pugno il filo dei ragionamenti crociani e della loro interna evoluzione. Alla tesi secondo cui, con la sua teoria della politica come forza, Croce sarebbe stato il vero precursore del fascismo, – a questa tesi che, primo o fra i primi, fu sostenuta nel 1925 da Gentile,48 che aveva tutto l’interesse a mettere in difficoltà l’amico di un tempo appena trascorso col ricordargli quel che non molti anni prima aveva sostenuto in tema di politica e diritto, sarebbe ingiusto dire che, nelle pagine che qui sono in discussione, Zunino abbia dato il suo consenso. Ma non perciò potrebbe escludersi che a questo approdo debba pervenire chi, argomentando come lui, faccia coincidere l’antifascismo di Croce con il sostanziale abbandono, da parte sua, della distinzione della politica dalla morale e della conseguente autonomia della prima, e assegni al campo fascista chi di quell’abbandono non si sia, o non si fosse, fatto autore. Ebbene, con cortesia ma con fermezza, deve dirsi che questa è la via non dell’autentica comprensione di questo, che è un non facile problema, ma dell’estrema semplificazione dei suoi termini; che sono, nella filosofia di Croce, interni a un orizzonte categoriale, quello dei distinti/opposti, del quale tutto potrà dirsi, – che non riuscì a costituirsi, che suscita difficoltà, che richiede di essere criticato insieme al suo fondamento, non però che si sia formato a partire dalla convinzione che autonomia non significhi relazione, e che, dove si parli di autonomia della politica, proprio lì l’etica non sia presente e, attraverso la distinzione, non si realizzi l’unità. Quella secondo cui Croce avrebbe concepito l’attività economica, e la politica che ne è una specificazione, come separate dall’etica e indipendenti da essa, e, soltanto negli anni in cui le istituzioni liberali entrarono in crisi, l’avrebbe tempera48. G. Gentile, Il liberalismo di Benedetto Croce (1925), in Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, I, Firenze 1990, pp. 144-152.
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ta e addolcita, è bensì un’idea di alcuni critici (e fra questi anche Zunino). Non però di Croce, che a un gioco così scopertamente ingenuo mai avrebbe potuto piegare sé stesso. Se nella Filosofia della pratica, che è del 1908, il concetto della relazione era ancora pensato in modo che il primo grado (arte e economia) fosse idealmente assumibile senza il secondo (logica e moralità) a differenza di questo che non poteva stare senza quello, già nella Logica dell’anno successivo la relazione era prospettata nei termini dell’implicazione reciproca, ossia in modo che, nel circolo, quella fosse non solo dell’inferiore da parte del superiore, ma anche di questo da parte di quello: come era in effetti richiesto dalla logica interna a quell’idea, non potendosi ammettere una relazione che, quale era per un verso, tale non fosse per un altro. Anche nella prima, tuttavia, e più unilaterale idea della relazione, era presente un concetto che, se fosse stato considerato con qualche maggiore cura, avrebbe impedito di parlare di separazione e di indipendenza. L’anteriorità della politica rispetto all’etica avrebbe configurato un rapporto di attività indipendenti e separate se, nella sua autonomia, quella non avesse comunque costituito il fondamento di questa, come l’arte costituiva quello della filosofia. Avrebbe altresì configurato un rapporto di quella natura se questo fosse stato prospettato in termini di tempo, e se ne fosse perciò dato uno della politica che non era quello dell’etica, e uno dell’etica che non era quello della politica. Ma il rapporto non era pensato, da Croce, in termini di tempo. Era pensato in termini ideali. Se si parlava di anteriorità di una forma era perché a quel che veniva prima era intrinseca la necessità di ciò che sarebbe venuto dopo: in modo tale che a quei due avverbi di tempo doveva di necessità darsi, in quel contesto, un tutt’altro significato. Donde l’inevitabilità che, a misura che si fosse approfondita e fosse pervenuta al necessario traguardo, l’indagine che egli eseguiva intorno alle forme dello spirito lo avrebbe necessariamente condotto all’idea della relazione che, a pochi mesi di distanza, sarebbe stata affermata nella Logica.49 Del resto, che già nella Pratica le cose fossero orientate in quel senso, è provato da quel che, per esempio, Croce scriveva nel capitolo quarto della parte seconda. All’insistenza messa nel sottolineare l’impossibilità che, in un mondo conseguentemente trasformato in una sorta di feroce convento, il piacere e l’utile fossero sottomessi al dovere morale concepito nel modo più estrinseco, corrispondeva, in quel capitolo, l’affermazione secondo cui, 49. Sulla composizione della Pratica e della Logica, e sul loro rapporto, cfr. il mio Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975, pp. 127-135.
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se «la moralità non ha imperio alcuno sulle forme e categorie dello spirito, e come non può distruggere e modificare sé medesima, così non può distruggere o modificare le altre forme spirituali, che le sono necessario sostegno e presupposto», altrettanto è vero che essa «ha imperio assoluto sulla vita, e non c’è atto di vita, piccolo che si pensi, che essa non regoli e non debba regolare».50 Non che la questione fosse semplice, e non corresse il rischio di fraintenderla chi si fosse trovato a non disporre di strumenti adeguati per comprenderne la natura. Non che, anche in questo caso, non sorgessero complicazioni quando, passando dal piano della pura considerazione ideale, doveva pur constatarsi che il nesso dei distinti pratici si esistenzializzava e, sia pure per una via impropria, segnata dall’indebito prevalere, su quella logica, dell’istanza antropologica, questi tendevano a separasi l’uno dall’altro, occupando momenti diversi della realtà. Non che l’affermazione della forza, che svolge nella realtà il suo ruolo necessario e impedisce che lo Stato sia idealizzato e innalzato alla sfera dell’etica, non mostrasse il suo volto problematico nel momento in cui anche si parlava del diritto che si doveva riconoscerle di schiacciare gli individui. Ma per quante difficoltà s’incontrino, e Croce per primo incontrasse, nello stringere in modo persuasivo il nesso dei distinti, deve osservarsi, e tenersi ben fermo, che a quella in sé cruda concezione della politica egli tenne fede fino all’ultimo dei suoi giorni, e che proprio per questo, proprio perché al riguardo non aveva mutato pensiero, poteva accadere e accadeva che il contatto con le cose fosse reso più aspro dalla consapevolezza che egli aveva della sua intrinseca natura economica. Si aggiunga che nel rivendicare la superiorità «morale» della concezione della politica come forza sulle vaghezze giusnaturalistiche,51 il suo intento era stato di dare il giusto riconoscimento a quel che, essendo un momento costitutivo della realtà, non avrebbe comunque potuto essere negato per la via della disapprovazione etica. Se infatti per questa via lo si fosse negato, si sarebbe aperto il varco alle vaporose illusioni, per non dire alle ipocrisie, dei moralisti, pronti eventualmente a far dipendere dalla teoria della politica come forza la forza che è nella politica, e a esporre così, indifeso, il loro vacuo «dover essere» alle crudeli repliche della realtà. Non c’era modo, secondo Croce, di spogliare la politica dell’ipocrita ammanto dell’ideologia che la proclamasse strumento del bene, al di fuori di quello per il cui tramite 50. B. Croce, Filosofia della pratica. Economica e etica, Bari 1923, p. 235. 51. Pagine energiche Croce scrisse su questo punto in un saggio del 1916: lo si veda in L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari 1950, pp. 90-91
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si constatasse che a perseguire la forza sono, non solo gli Stati assoluti o le tirannidi, ma anche gli Stati democratici che, al loro interno, predicano, e non sempre realizzano, i cosiddetti diritti umani e altre consimili idealità. Se c’è un elemento per il quale gli Stati democratici si distinguono dagli assoluti e tirannici, questo è non la forza o il συμφέρον, che solo in questi sarebbero presenti e negli altri no, ma il diverso spazio che concedono alle libertà civili, all’autonomia della coscienza, al diritto di vivere e di morire secondo che questa comandi. La distinzione seria, per lui, era qui. Era nella qualità delle leggi positive che si intrecciano a costituire l’ordinamento giuridico. Per il resto la politica è la politica, e cioè forza: come può vedersi persino nella immaginaria monarchia dantesca, all’interno della quale è ben vero che l’Imperatore niente più desidera perché tutto possiede: salvo che quel che vale per lui non necessariamente vale per chi, principe o semplice cittadino, essendogli sottoposto, da quel sentimento può ben essere visitato, sì che spetta a colui che non nutre più alcuna invidia di reprimere con la forza chi appunto se ne lasci pervadere e possedere. E, sia chiaro. Se la teoria dei distinti può e deve essere criticata, con le armi della filosofia, per altro, e non con quelle del facile moralismo, questo non toglie che, nel riferirvisi, si deve intenderla e tener presente per ciò che è; e che a Croce debba darsi il merito di aver tenuto fermo al punto che, piaccia o no, la politica è cosa dura, e certo non la rende più mite chi a essa contrapponga le parole dell’«umanità», che è vacua non in sé stessa, dato che significa etica e impegno etico, ma, appunto, nelle parole che la proclamano in quel modo, fra untuoso e ipocrita. In realtà, la pretesa che la politica non godesse di alcuna autonomia e non dovesse esistere se non come un capitolo dell’etica, in tanto gli appariva come una pretesa, in quanto, concepite così, l’una e l’altra sarebbero state entrambe ridotte alla misura di un codice costituito da norme astratte ed estrinseche, destinato, il primo, a essere ridotto sotto il controllo dell’altro. In tal modo, da cosa viva, la politica e l’etica sarebbero entrambe scadute al grado della più piatta precettistica, l’una e l’altra perdendo quello che di entrambe è il carattere preminente, l’autonomia, la responsabilità, la forza della decisione; per non dire della conseguenza più grave e, insieme, ridicola, che da questa premessa sarebbe scaturita, e cioè la sostanziale riduzione della politica ad affare del demonio ogni volta che, eludendo le disposizioni del codice morale, essa si fosse volta ad affermare sé stessa e la sua regola fondamentale. Il che, se a questi concetti si tenesse fermo lo sguardo e li si considerasse per quel che sono nel contesto che li tiene insieme, di nuovo dovrebbe concludersene che il concetto dell’autono-
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mia della politica era, per Croce, corrispettivo, non ai regimi in cui la libertà politica sia assente e manchino perciò istituzioni atte a garantirla, ma a tutti i regimi; che tutti, infatti, ne sono informati e la realizzano, in quanto sia l’interesse economico a costituirne la sostanza ultima, alle leggi e alla istituzioni appartenendo di esprimerla in forme diverse a seconda degli ideali pratici che stanno alla radice degli ordinamenti e, di volta in volta, prevalgono. Potrà piacere o no. Potrà ritenersi che questa concezione della politica debba assai più a Machiavelli e a Marx che non alla parola dei Vangeli, o a quelle dei monarcomani, di Locke, di Montesquieu, di Kant di Constant, del Federalist e di Stuart Mill, ossia degli scrittori dei quali Bobbio avrebbe consigliato la lettura a chi avesse desiderato andare a scuola di liberalismo.52 Ma non perciò deve credersi che, al pari di quel che fu proprio del fascismo italiano e poi tedesco, ci fosse in Croce, in qualsiasi forma, l’esaltazione, per esempio, della guerra. Altro infatti è dire che il mondo si muove attraverso i suoi contrasti e le sue lotte, altro è predicare che queste debbano assumere la forma specifica della guerra, che diventava così, per un verso, un fatto di natura, per un altro un’idealità. In realtà, fra i tanti princìpi che pongono Croce e il fascismo nelle sue varie forme agli antipodi, la valutazione della guerra, e sorprende che non vi si sia fatta e non vi si faccia attenzione, non è il meno importante; della guerra che fu da lui paragonata a un episodio della cieca natura, della pura irrazionalità, a qualcosa di simile ai terremoti e agli altri cataclismi naturali, a un evento funesto, a un «castigo di Dio»53 che, interrompendo il filo della normale operosità umana, in effetti la colpiva e offendeva in quel che aveva di più nobile. Per questo, o anche per questo, nel 1914 era stato fra coloro che avevano optato per la neutralità dell’Italia nel conflitto che si preparava e che, riteneva, le sarebbe stato fatale se vi si fosse fatta coinvolgere. «La lunghezza e lentezza del suo decorso», aveva scritto nel 1926, scava come un abisso tra l’uomo della vita ordinaria e quello delle trincee, e fa, il primo, dimentico dell’altro, una creatura diversa. L’enorme moltitudine che si richiede di combattenti trasporta nel nuovo modo di vita uomini di mente affinata e di animo delicato, che prima vi capitavano in assai scarso numero. La comunanza delle origini spirituali dei vari popoli combattenti fa sentire sé 52. N. Bobbio, Benedetto Croce e il liberalismo (1955), in Politica e cultura, Torino 1955, p. 226. 53. Croce, L’Italia dal 1914 al 1918, p. 91.
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medesimo nel nemico, sottoposto alla stessa legge e alla stessa necessità; fa sentire la guerra come cosa orribile, quantunque di “sacro orrore”.54
Una pagina notevole, alla quale molte altre potrebbero aggiungersi: una pagina nella quale, se fossimo in sede di interpretazione filosofica del suo pensiero, e in particolare della irrequieta categoria dell’utile, potrebbe cogliersi il lontano preannunzio della crisi che vi si rese manifesta negli ultimi anni quando, interpretandola come la stessa cosa della vitalità, Croce vi indicò l’irrisolta tensione che vi aveva luogo fra l’utile economico e il male. Non si potrà, dunque, e così può riprendersi il filo principale del discorso, trascurare l’elementare considerazione che i regimi di libertà erano per lui pur sempre costruzioni pratiche e che la scelta che si fosse fatta di essi implicava bensì il giudizio politico non meno che la decisione morale, non però l’illusione che in essi la logica dell’interesse fosse, o sarebbe, stata vinta da quella dell’amore, o anche soltanto che la forza delle cose nulla avrebbe potuto contro le tecniche e gli equilibri costituzionali attraverso i quali gli stati liberi preservano la loro vita. Se per Croce era così, può ben comprendersi quanto fallace sia la tesi di chi pretese di collocare fra il 1924 e il 1925 il passaggio, la metabasis, che nel suo pensiero si sarebbe determinato dalla idea della politica come forza al liberalismo. In realtà, non vi fu, per questo riguardo, nessuna metabasis, meno che mai vi fu una Kehre. Se l’esperienza che in quegli anni egli aveva fatta della fine del sistema liberale e dell’avvento di un regime autoritario che offendeva il suo più profondo modo di sentire, lo indussero a riesaminare i fondamenti del primo per meglio fondarne il concetto, questo non significa che liberale egli non fosse stato anche prima, e che teorico della politica come forza non avesse seguitato a essere anche dopo; e meno che mai significa che, per giungere al concetto della distinzione/unità delle due forme pratiche egli dovesse attendere gli eventi che, nel dopoguerra, avevano condotto alla fine delle istituzioni liberali. La rifondazione del liberalismo, alla quale mise mano negli anni del fascismo, introdusse senza dubbio nel suo pensiero elementi nuovi, e nuovi problemi. Ma il «superamento» che allora egli eseguì dell’idea liberale come realizzantesi nelle istituzioni che a loro volta ne garantivano l’esistenza, significò soltanto che a dover essere superato era per lui l’ideologia delle vecchie classi dirigenti dell’Italia prefascista, quel liberalismo che anch’egli aveva condiviso perché in quello era stato alleva54. Ibidem, p. 328.
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to ed era cresciuto; e che certo non metteva in discussione nel modo in cui allora lo si intendeva, sebbene, quando di quel modo faceva l’oggetto della considerazione storica, non potesse non rilevarvi i tratti della meschinità con cui allora lo si intendeva. Basta leggere il decimo capitolo della Storia d’Italia per aver chiari dinanzi agli occhi i termini del problema.55 Basta aver letto sul serio la Politica “in nuce”, ossia proprio il testo della presunta Kehre, per capire che se della politica si considerava la forma pura, non poteva non cogliervisi il tratto economico e utilitario che sempre, come si è detto, è dato riscontrare in essa quando, appunto la si studi per sé. Sono cose, queste, che dovrebbero essere ritenute per ovvie da chi, leggendo i testi senza pregiudizi, si mostrasse in grado di capire quel che vi si trova. Ma è nella natura del pregiudizio di essere difficilmente estirpabile; e di resistere tanto più quanto più si aggiri nei bassifondi della volgarità. Che poi quello della politica, e della forza che, comunque la si intenda, è la sua regola fondamentale, non potesse non porre problemi anche a chi, come Croce appunto, avesse per altra via tentato di immetterla nel compiuto circuito delle attività umana, è cosa che si comprende da sé. Ma lungi dal configurare come un fascista, o un simpatizzante del fascismo, chi, per averne affrontato il problema, si fosse rifiutato di nascondersi fra le nebbie del «dover essere» e di incontrare lì la vera politica, la considerazione che Croce, e con lui Chabod, facevano dell’autonomia che occorreva riconoscerle nella sfera dell’utile, aveva per conseguenza diretta la desacralizzazione dello Stato; che, ridotto a un «processo di azioni utili»,56 non eccedeva l’ambito di queste e non aveva voce in capitolo nelle cose che erano, e dovevano rimanere, di pertinenza dell’etica. Non è un paradosso affermare che la ragione più profonda dell’antifascismo di Croce è, per quanto attiene non al sentimento ma alla teoria, proprio questa che, ritraendo la politica come forza e potenza, non etica ma economica, ne impedisce ogni spuria e equivoca sublimazione. Fu questa idea della politica come forza economica e non etica a dettare a Croce le Pagine sulla guerra e a assegnare a esse un significato particolare fra le tante che allora si produssero in Europa. Fu quello un libro fortemente frainteso da chi, per pura incapacità concettuale, non riuscì a coglierne il punto essenziale, e ancora oggi ripete che, al riguardo, Croce fu costretto a autocriticarsi.57 Un libro che non era l’esaltazione della guerra; che, lo si è 55. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1942, pp. 264-265, passim. 56. B. Croce, Politica “in nuce” (1924), in Etica e politica, Bari 1931, p. 216. 57. Zunino, Tra Stato autoritario e coscienza nazionale, pp. 119-120.
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già detto, era da lui concepita come un evento naturale al quale non si può, quando non sia stato possibile prevenirlo e lo si abbia di fronte nel suo atto, opporre resistenza, e che perciò sarebbe assurdo se se ne facesse un oggetto di esaltazione o di esecrazione. Il compito di chi vi fosse stato coinvolto era di compiere il suo dovere nelle circostanze specifiche in cui quello l’aveva collocato. Ma era altresì di non sacrificare a essa la sua anima, di lavorare perché svolgesse la sua furia e passasse, senza mai, per altro, sottomettere la verità alle ragioni del conflitto, senza mai indulgere alla propaganda e farsi «un animo di guerra».58 Che era, a guardar bene, una forma, se non di pacifismo, di amore della pace, assai più concreta e realistica dell’altra che si restringeva alla sterile condanna della violenza, e intanto, a ogni buon conto, non vedeva che quella del nemico. Nella verità che doveva dirsi sempre, e in qualunque situazione ci si fosse trovati, dopo essersi combattuti, gli uomini e i popoli avrebbero infatti potuto infine ritrovare sé stessi.59 Certo, in Chabod, che alla questione dell’autonomia della politica accennava non più che in un rapido passaggio, le cose non erano altrettanto complesse che in Croce, dal quale, nella sua pagina, riprendeva piuttosto la formula che non i pensieri che vi si intrecciavano e anche vi si nascondevano. Ma di filofascista nell’accoglimento da parte sua della formula crociana non c’era proprio niente: come di fascista, o di prefascista, non c’era stato niente nella precedente teorizzazione crociana dell’unità/distinzione delle forme pratiche, che tornava negli scritti del 1924/1925, con un volto sostanzialmente immutato. Non è vero, perciò, semplicemente non è vero, che, riprendendo la formula e non cogliendo nella Politica “in nuce” del 1924 le oscillazioni che Zunino vi ha sorprese,60 Chabod non sapesse che in quel quadro di pensiero, distinzione significava unità. Non c’era in effetti pagina, negli Elementi di politica, in cui non gli fosse stato dato di incontrare quel concetto: a cominciare da quelle che compongono il primo paragrafo per finire con le altre che, trattando, in modo specifico di Machiavelli e di Vico, presentavano quest’ultimo, in termini espliciti, come colui che al crudo universo del primo aggiunse la dimensione dell’etica. Di tutto questo non si 58. È un’espressione che, riassumendo il suo pensiero in proposito, Croce usò in una lettera del 2 settembre 1919 a Vossler (B. Croce, K. Vossler, Carteggio, Bari 1983, p. 227 = ed. naz., a cura di E. Cutinelli Rendina, Napoli 1991, p. 228). Per le Pagine sulla guerra, cfr. il mio Benedetto Croce. La ricerca della dialettica, Napoli 1975, pp. 481 ss. 59. Cfr. la Prefazione, in forma di lettera a E. Fueter, della Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, I, Bari 1946, p. iv. 60. Zunino, Tra Stato autoritario e coscienza nazionale, pp. 118-119, passim.
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direbbe che Zunino si sia reso conto. Se travaglio vi fu nella riflessione crociana di quegli anni, la sua natura fu del tutto diversa da quella immaginata da lui. Zunino parlò di presa di distanza, via via che la crisi si faceva più acuta e lo stato forte si rivestiva «dei panni dello stato etico», non solo dalla posizioni di Gentile, ma anche dalle sue stesse di un tempo;61 parlò di oscillazioni, di dubbi, di ethos e di kratos che, così si espresse, stavano perdendo «definizione».62 E non solo non si avvide che situazioni come queste, dubbi, oscillazioni, prese di distanza, possono essere documento bensì di una crisi, e di un travaglio, ma solo se protagonista ne sia comunque il pensiero che, appunto, le «definisce». Non solo non avvertì che, posto che di questo si tratti, il superamento di una tesi filosofica non si ottiene se non per via filosofica, e che, l’assenza di «definizione» non essendo se non confusione e buio, non sarebbe mai a questi che ci si potrebbe rivolgere per trarne luce e possibilità di migliore orientamento. Ma nemmeno si accorse che, in ogni caso, l’unico testo dal quale Chabod aveva tratto il concetto dell’autonomia della politica era proprio e soltanto quello in cui, a suo parere, si erano prodotte le anzidette oscillazioni e esitazioni e prese di distanza: con la conseguenza che quel che allora si sarebbe dovuto rimproverargli era, addirittura, di non essersi accorto di quel che gli stava sotto gli occhi, di non aver capito quel che pure aveva letto. In realtà, duplice è l’equivoco in cui Zunino è caduto. Per un verso, egli ha immaginato (così almeno deve supporsi) che quella sua idea dell’autonomia della politica Chabod l’avesse ricavata da un testo anteriore agli Elementi di politica in cui Croce avesse pensato un pensiero diverso da quello delineato lì; e, per esempio, avesse sostenuto che, essendo indipendente dalla morale, la politica si svolge in un orizzonte di immoralità, ossia di consapevole e inevitabile ostilità ai princìpi dell’etica. Per un verso, ha immaginato così: senza accorgersi che una simile tesi Croce non l’aveva sostenuta mai, e certo non nella Filosofia della pratica o in scritti che a questa si riferissero. Per un altro, parlò di travaglio. Ma, ritenendo che consistesse e fosse avvertibile nelle oscillazioni che pensava di avere individuate nelle pagine crociane, e nei dubbi che suscitavano nel lettore di quegli anni, non si accorse che, posto che fosse cosa reale, esso era implicito fin dall’inizio nella struttura stessa della filosofia dello spirito; che, proprio perché era confermata nelle sue linee essenziali, per questo poneva problemi e produceva 61. Ibidem, p. 118. 62. Ibidem, p. 119.
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sofferenza. Il travaglio che anche in questo punto, e per questo aspetto, può e deve cogliersi in Croce avrà riguardato, senza dubbio, la necessità e anche l’urgenza che, di fronte al precipitare degli eventi, egli avvertiva di mettere in chiaro che la «forza» πολλαχῶς λέγεται, «si dice in molti modi», e che il modo in cui la diceva lui solo a un orecchio filosoficamente inesperto avrebbe potuto far pensare che fosse lo stesso dei fascisti. In realtà, e conviene che su questo punto, tanti essendo al riguardo i fraintendimenti, ci si fermi ancora, di due ordini erano le difficoltà che Croce incontrò in quel momento della sua vita. La prima si era determinata quando, entrando in diretta competizione con gli scrittori fascisti che, a orecchio, a cominciare da Mussolini, parlavano di forza e consenso, autorità e libertà, egli assunse il compito di ritradurre in termini direttamente attinenti alle questioni della scienza politica quel che, quindici anni prima, aveva teorizzato nella Filosofia della pratica. La seconda, e lo si è accennato, si determinò in relazione al nesso dei distinti nella sua formulazione logica. La si può riassumere dicendo che, se altro è «autonomia», altro «subordinazione», l’incertezza sussistente fra questi due termini, e il loro esser presenti entrambi nello stesso contesto, stava a indicare il disagio che Croce avvertiva quando ritornava sulla relazione dei distinti e sul difficile passaggio che dall’uno conduceva all’altro. Ma si trattava di una difficoltà che, essendo interna al nesso costitutivo dei distinti, così teoretici come pratici, non avrebbe contribuito al suo chiarimento chi l’avesse posta in particolare relazione con la crisi delle istituzioni liberali fattasi acuta e irreversibile nell’anno, il 1924, in cui, sulla «Critica», la Politica in “nuce” vedeva la luce a puntate. Era insomma una difficoltà che valeva di per sé, e per la questione filosofica che le era intrinseca, a prescindere dalle condizioni storiche e politiche in cui si fosse trovato chi avesse da affrontarla in questi termini: anche se è innegabile che quanto più le cose storiche avessero inclinato al dramma, tanto più la difficoltà sarebbe venuta alla luce. Ma di questo si è già parlato nelle precedenti pagine; e non gioverebbe ripetere il già detto. Di natura teoretica è, dunque, la difficoltà che, guardando a fondo, è possibile scorgere alla radice della crociana Politica in “nuce”. Che, in quanto tale, non avesse a che fare con quella che è stata indicata e sottolineata da chi, avendola colta in qualcosa come un desiderio di sopire, di addolcire, di pervenire a un compromesso rispetto alle più drastiche posizioni di un tempo, ha poi ritenuto che di tutto questo Chabod non si fosse accorto, e fosse rimasto, lui, su posizioni che Croce aveva ormai superate, è evidente. Di quel che Croce aveva scritto nella Politica “in nuce”, pur senza entrare in que-
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stioni che non gli erano congeniali, Chabod aveva tuttavia colto l’essenziale. Quando, contro la drammatizzante antitesi meineckiana di kratos e di ethos invocava, in uno scritto del 1927,63 la ricomposizione unitaria teorizzata da Croce, è ben vero che, in questo atto, egli si appellava a un sistema di pensiero del quale non affrontava le più spinose, e autentiche, questioni. Ma altrettanto lo è che, poiché, alla luce della «filosofia dello spirito», la politica non poteva non essere connessa all’etica nel vincolo dell’unità/distinzione, non era alla sua ferinità che il suo pensiero metteva capo, non era alla sua autonomia interpretata come non-relazione e separazione che, in linea teorica, egli concedeva il suo consenso. Era, al contrario, alla purificazione che essa riceveva dal contatto con quest’ultima che, nel distinguersene, la reincludeva in sé. In realtà, se mai, in quel suo saggio meineckiano, Chabod avesse interpretata la tesi crociana dell’unità/distinzione della politica e dell’etica nel senso della assoluta separazione della prima dalla seconda, non a quella tesi avrebbe avuto il diritto di richiamarsi, e nemmeno, a rigore, a quella dello storico tedesco; ai cui occhi la politica rivelava infatti bensì, a tratti, il suo volto demoniaco, il tratto ferino che non riusciva a esser vinto, ma non senza che a contrastarlo si elevasse l’universalità della legge di ragione e del diritto di natura. È un punto, questo, sul quale sarebbe necessario che, sia pure in breve, ci si fermasse. Ma qui basterà considerare il modo in cui, per il tramite della tesi di Meinecke, Chabod cercò di penetrare più a fondo in quel che il mondo moderno chiudeva in sé. Quella che, in tema di Staatsräson, Meinecke aveva delineata era una tesi, non monistica nel senso del primato della politica, non monistica in quello del primato dell’etica, ma dualistica, e fortemente, perciò, conflittuale. Era infatti rivelativa di un dualismo nel quale il termine segnato dalla politica tendeva a far valere, nei confronti dell’altro, la sua maggiore potenza: non spegnendolo, infatti, ma comprimendolo al punto da rendere evidente la lacerazione che in tal modo si produceva nell’unità e farne nascere il dramma. Era lo stesso dramma che, da storico, Chabod osservava irrisolto nel mondo moderno nato dalla crisi di quello medievale e dei suoi valori, con l’individualità degli Stati che, ciascuno realizzando anche con la forza la sua propria sovranità, la contrapponeva all’altra sovranità, e in questo atto recava un colpo mortale alla vecchia idea dell’universalità. La quale resisteva e obliquamente cercava di sopravvivere alimentando il sogno dell’equilibrio delle potenze e della pace che avrebbe dovuto conseguirne, 63. Lo si veda in F. Chabod, Lezioni di metodo storico, a cura di L. Firpo, Bari 1971, pp. 257-278.
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ma senza perciò riuscire a riprendere posto sul suo alto trono. La cultura della Ragion di Stato poneva così le condizioni indispensabili alla nascita dello storicismo, inteso come teoria dell’individualità contrapposta all’astratta ratio medievale. E con questa visione, in historicis, Chabod concordava assai più profondamente di quanto, in philosophicis, non condividesse la tesi di Croce, che pure per altri rispetti condivideva. Respinta in sede teoretica, la tesi di Meinecke veniva recuperata in sede storiografica. Ma era una tesi che implicava il conflitto, la scissione, la lacerazione, il dramma, se si vuole, che soprattutto nel libro sulla Staatsräson, trovava accenti espliciti: non certo l’unilaterale primato della politica nella sua separazione dall’etica. E come avrebbe potuto, se è così, indurre Chabod a concedere il suo consenso al fascismo, che non costituiva, ai suoi occhi, un beato approdo, perché era, al contrario, un elemento del dramma? 8. Zunino ritiene che tracce evidenti della politica e del linguaggio contemporanei si avvertano in alcuni saggi relativi alla politica estera italiana quale si svolse fra Otto e Novecento, che Chabod compose nel periodo che dal 1927 va al 1940: saggi che non furono considerati come sarebbe stato giusto e necessario da chi, nel passato, aveva scritto di lui. Essendo fra questi, accolgo il rimprovero. E sarei ben lieto di condividere l’idea che più complesso di quel che mi era apparso fu il cammino di Chabod, se non fossi invece costretto ad avvertire che l’analisi di Zunino non mi ha convinto. Il suo giudizio è che, scrivendo intorno a questo tema, Chabod non avrebbe inciso sul suo discorso il segno che invece vi si nota, e si deve notare, se non avesse condiviso molto di quel che intanto accadeva nella politica estera condotta dal fascismo: tanto che non lo si comprenderebbe, quel suo discorso, se a questa, appunto, non si risalisse come al criterio fondamentale del suo giudizio. E qui, poiché si sta trattando di Chabod e del suo modo di intendere la storiografia, che si accrebbe nel tempo di vari elementi, si rese via via più complesso nel mentre i suoi criteri si affinavano e si facevano più acuti e comprensivi, ma, nel suo tratto fondamentale, fu, alla fine, qual era stata all’inizio, occorrerà proporre una considerazione che, a questo punto, sembra che sul serio si sia resa necessaria. Che Chabod fosse attratto dalla storia diplomatica, alla quale, forse, il suo interesse si era rivolto prima ancora che avesse ricevuto l’incarico di trattarla, è evidente. Gli piaceva il mondo dei diplomatici, di questi uomini che, con pazienza, equilibrio, senso acuto dei particolari e della complessità dei problemi, tessono la loro tela. Gli piacevano il loro riserbo, le parole dette a propo-
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sito per ottenere cose concrete, il controllo dei sentimenti e delle passioni. Ma l’idea che, per trattarne adeguatamente, dovesse innanzi tutto aversi presente quel che accadeva all’interno degli Stati protagonisti del gioco politico internazionale, e che la storia della politica estera presupponesse perciò, a ogni suo passo, quella, non solo della politica interna, ma altresì della cultura nelle sue varie forme, – questa idea fu sempre ben salda nella sua mente. Fermo fu in lui il concetto dell’intreccio di queste due diverse storie e dell’impossibilità che praticare la prima si potesse prescindendo dalla seconda. Quando, nel 1927, scrisse di Meinecke e della Staatsräson, fra le tante osservazioni notevoli che gli occorse di proporre, una in particolare merita qui di essere notata; ed è quella secondo cui, mentre la dottrina della Ragion di Stato, la quale ha espresso le leggi di vita, le necessità e le aspirazioni del potere centrale, ed è rimasta pertanto dottrina di governi assolutistici o dittatoriali e di partiti nazionalistici, ha determinato, almeno in parte, correnti storiografiche, fondate sui rapporti di potenza, e spesso anche sul criterio di pura forza materiale,
per un altro verso e per contro le dottrine politiche, che […] hanno espresso, nel corso della storia europea, le necessità e le aspirazioni e le volontà degli altri elementi della vita nazionale – sudditi o cittadini, individui o gruppi – hanno invece suscitato correnti storiografiche fondate su criteri molto diversi.
«Per essere precisi», aggiungeva, lo svolgersi delle dottrine liberali ha dato vita, nell’Europa moderna, ad una storiografia che muove da criteri di analisi, da visuali molto diverse da quelle che ispirano gli storici ricollegati ai precetti politici che nell’assieme si ricoverano sempre sotto la egida della Ragion di Stato.64
E, a riscontro e come esempio, citava due storici francesi e due opere insigni, Tocqueville L’Ancien régime et la Révolution, Albert Sorel L’Europe et la Révolution française. Due storici di diverso sentire, liberale l’uno, «diplomatico e conservatore» l’altro; e due opere di opposta ispirazione, alle quali, essendo vicino più al primo che non al secondo, egli guardava come a due esempi dai quali non si poteva comunque prescindere e che occorreva cercar di utilizzare entrambi. 64. F. Chabod, Uno storico tedesco contemporaneo, in Lezioni di metodo storico, a cura di L. Firpo, Bari 1969, p. 271.
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Era, questa che si è letta, un’osservazione assai interessante; della quale non si forza il senso e non si sollecita il significato se si intende che, posta la irriducibilità di quelle due opposte concezioni, per Chabod non si desse in natura storico liberale che, rimanendo liberale e ai connessi valori dirigendo il suo sguardo, nel ricostruire le trame della politica estera potesse esimersi dall’assumere a oggetto della sua considerazione e narrazione i criteri costitutivi di quella, e dal parlare perciò di interessi degli Stati, del gioco delle potenze, della pace e della guerra, prospettate, non come valori o disvalori ideologici, ma come realtà che accadono e con le quali non si può non prendere contatto. Chi, aetatis ratione, ebbe occasione di ascoltarlo, più di una volta lo avrà sentito proclamare che, quale che fosse il suo orientamento ideologico o la sua filosofia, ogni storico obbediva, e doveva obbedire, a questo criterio, che era quello del riconoscimento della realtà: sempre che, nel fare storia delle trame politiche e diplomatiche, non avesse deciso di vestire i panni del moralista o dell’ideologo del pacifismo, e di considerare perciò degni di rispetto soltanto gli Stati che, rinunziando al gioco della potenza, avessero coltivato il giardino della moralità. Comunque fossero stati ideologicamente orientati coloro che li governavano, gli Stati di cui si aveva notizia avevano interessi e li perseguivano, badavano alla loro conservazione e cercavano di garantirla, perseguivano il loro sviluppo ed entravano perciò in varie relazioni di potenza e di forza con altri Stati. E il problema che, se mai, nasceva di qui era quello del rapporto, problematico rapporto, che le due «potenze» burckhardtiane, la cultura e la politica, stringevano di volta in volta nella storia, e quale autonomia la seconda potesse vantare nei confronti della prima e della sua brutale prepotenza. Era, se si fosse tenuto conto della realtà, e non della «immaginazione di essa», di decidere se quel che era accaduto nel campo di quella a cui diamo il nome di «civiltà» avesse di volta in volta ricevuto dall’azione politica, interna e esterna, un positivo incremento o non piuttosto vi avesse incontrato un ostacolo. Che, segnato com’era dall’insegnamento crociano e dall’ideale della storia etico-politica, Chabod avvertisse la necessità di non mettere in contrasto il momento politico e quello culturale e di tendere piuttosto alla loro sintesi, è indiscutibile; ed è prova, anche questa, che alla politica egli non concedeva il primato, sì che di nuovo sarebbe in errore chi lo ritenesse un devoto della Realpolitik e un fautore della logica della potenza per la potenza. In realtà, l’elementare concetto che, da storico e non da politico, egli raccomandava di non smarrire, riguardava la distinzione che ai suoi occhi era netta fra la constatazione e l’idealizzazione: dal momento che constatare
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la presenza nel mondo della forza significava tutt’altra cosa che apprezzarla alla maniera dei Callicle e dei Trasimaco antichi e dei moderni distruttori dei regimi parlamentari e liberali. Agli aspetti ferini della politica non si concede il consenso, e se ne rileva l’angustia, anche se si disperi che nella storia essa possa cedere alla diversa e opposta «potenza» della cultura o, che si dica, della civiltà; e, a proposito del conflitto in cui quella si pone con questa, si sia costretti ad avvertire piuttosto il suo tenace persistere in quel carattere che non la tendenza a risolversi nell’altra superandovisi in una sintesi pacificatrice. Fedele all’insegnamento di Croce, Chabod non dimenticò mai la lezione meineckiana della Staatsräson, fino a rilevare, negli ultimi anni, una forte inclinazione burckhardtiana. Non dubito perciò che, se lo avesse rivolto a sé stesso, non avrebbe dato risposta positiva al quesito che nel 1941 Adolfo Omodeo aveva posto a proposito della Storia di Tucidice; nella quale gli era sembrato che il concetto della civiltà, mirabilmente espresso, per esempio, nel famoso λόγος ἐπιτάφιος, fosse entrato in conflitto con la sua «intuizione, coerente e rigida, della politica come svolgimento di forza»,65 e che si dovesse perciò cercar di andar oltre quel dualismo, pur dopo aver accolto l’idea che, in quanto tale, è la forza che regola il conflitto elementare degli Stati e ne determina il destino. Non che la via indicata da Omodeo, e che è poi, con un suo inconfondibile accento, quella della storia etico/politica, fosse facile da seguire, e facile fosse l’orientamento della storia diplomatica nella direzione della storia della civiltà. Ma questo era quel che, con le sue caratteristiche e con il suo stile, anche Chabod aveva in mente, e poi realizzò nel primo (e unico) volume della sua Politica estera, che è infatti di Premesse. Nelle quali, «prima di tessere l’ordito minuto di quella politica, prima di immergersi nella parte più specifica», e «più tecnica» del suo assunto, gli era sembrato indispensabile chiarire quali fossero le basi, materiali e morali su cui quella parte specifica e tecnica necessariamente posava, quali il complesso di forze e di sentimenti ond’era avvolta ed entro cui doveva muoversi, in quel momento storico, anche l’iniziativa diplomatica. Vale a dire, passioni e affetti, idee e ideologie, situazione del paese e uomini, tutto ciò in una parola che fa della politica estera nient’altro che un momento, un aspetto di un processo storico assai più ampio e complesso, abbracciante tutta quanta la vita di una nazione.66 65. A. Omodeo, Il concetto tucidideo di civiltà, in Il senso della storia, Torino 1955, p. 41. 66. Chabod, Storia della politica estera, pp. xi-xii.
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È vero, senza dubbio, che Omodeo parlava di «civiltà», e che nel passo chabodiano né il termine ricorreva, né, forse, il concetto. È vero che da questa assenza potrebbe persino ricavarsi la diversa convinzione dei due studiosi, il primo dei quali nella storia perseguiva la formazione di idealità e di valori che all’occhio dell’altro non si presentavano se non nella forma di passioni e idee, da constatare, non, necessariamente, da condividere. Se questa differenza si dava sul serio nella loro geistige Situation, e dipendeva non solo dal diverso accento dei loro convincimenti teorici, ma anche dal pessimismo che il secondo dei due non era più in grado di contrastare con l’energia che ancora era presente nel primo, non per questo avrebbe senso dire che a quest’ultimo sentimento corrispondesse in Chabod una disposizione a dare più attento ascolto alle idee del fascismo e a subirne, comunque, l’influenza. Allo stesso modo, non perché, nel saggio pubblicato nel 1940 su La politica estera dell’Italia dal 1870 al 1914, una conferenza, in origine, tenuta nell’Università per stranieri di Perugia,67 egli si fosse disposto a parlare, per esempio, degli «interessi» mediterranei, balcanici e coloniali dell’Italia, e del conflitto in cui questa di volta in volta era entrata con le potenze europee; non perché avesse accennato alla guerra di Libia e alla politica dell’Italia nel Mediterraneo orientale; non per questo potrebbe dirsi che al racconto di quelle vicende Chabod sottendesse i sentimenti e le passioni del suo presente, e che questo si presentasse, nella sua prosa, caratterizzato in un senso che non era, nelle grandi linee, se non quello del fascismo. In realtà, chi conosce Chabod, avverte lo sforzo di obiettività che qui egli compiva perché il complesso gioco delle diplomazie europee risultasse con chiarezza nel conflitto o nel contrasto degli interessi contrapposti. Sarà per mancanza di fantasia e di una tal quale sordità. Sarà per la forza di un preconcetto favorevole alla tesi del suo antifascismo. Ma una musica ispirata a quei convincimenti non si riesce proprio a percepirla nel fondo del suo discorso, malgrado gli sforzi e la buona volontà. Del saggio che venne fuori da quella conferenza quel che si può dire è che, risentendo della limitazione, imposta dall’argomento, e non certo da ragioni ideologiche e politiche, alla sola storia diplomatica, è più noioso che interessante:68 67. Lo si veda nel «Bollettino della Regia Università italiana per stranieri di Perugia», 19-20 (1940), pp. 419-436. Il saggio deve tuttavia risalire al 1936 o 1937. Nel 1938 Chabod era stato infatti chiamato all’Università statale di Milano, dove anche si era trasferito. 68. Non che nel saggio, sia pure appena accennati, non fossero presenti i temi ai quali, nel volume delle Premesse, Chabod avrebbe dato ampio sviluppo, e che già qui superano i confini della pura storia diplomatica: si pensi alla questione della Comune di Parigi e della
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come certo, anche agli occhi di chi, come lo scrivente, tiene a dire di non essere uno storico, non sarebbe stato se Chabod avesse potuto disporre dello spazio necessario a tessere la tela delle trame diplomatiche e queste avesse potuto intrecciare con le passioni e le idee; se, nella sede in cui si trovava, per la storia diplomatica avesse potuto fare quel che, nel tracciare quella delle strutture burocratiche e dell’economia era stato bene in grado di realizzare nel libro su Lo Stato di Milano, nel quale mirabile era risultata la risoluzione di quelle nella storia etico/politica. Che è quello che, sia pure su scala ridotta, invece gli riuscì nella prolusione con la quale, nel 1935, nelle Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Perugia, inaugurò il suo insegnamento della Storia moderna. Luisa Azzolini,69 che a quel saggio dedicò anni fa equilibrate e non «riduttive» considerazioni, ne ha sottolineata l’importanza anche politica, cogliendola nella passione con cui, da storico, Chabod ricostruiva il concetto della politica dell’equilibrio, ne individuava le complesse componenti, non solo politico-diplomatiche, ma culturali e anche religiose, e senza disconoscere, anzi, le difficoltà che si opponevano al suo funzionamento, lo collocava di nuovo, come principio regolatore, al centro della politica europea. Che, fra le righe del saggio, fosse possibile cogliere la sfiducia che Chabod nutriva nei confronti della Società delle nazioni e della capacità sua di garantire e mantenere la pacifica coesistenza dei popoli, è innegabile. Ma la sfiducia riguardava questa capacità, ed era probabilmente alimentata dalla persuasione che, mentre forti, e pronti a manifestarsi, restavano nel fondo della vita europea i contrasti e le tensioni, l’ordine internazionale avesse dislocato altrove il suo centro, e per il vecchio continente l’ora del primato stesse ormai trascorrendo. Letta oggi, a distanza di tanti anni, e con la prospettiva di un mondo così diverso da quello che allora stava dinanzi agli occhi del giovane «lotta sociale» che, dopo essersi affacciata già nel 1848, ora si ripresentava come uno «spettro minaccioso» (p. 420); si pensi al «riacutizzarsi» nell’estate del 1881 della questione romana e alla spinta che l’Italia ne ricevette per un avvicinamento, allo scopo di sfuggire al pericolo dell’isolamento, agli Imperi centrali (p. 424); si pensi anche al rapido, ma netto, giudizio su Crispi che, «personalità vivacissima, uomo tutto preso da ideali di grandezza per il proprio paese, ma anche, come ministro degli esteri, troppo facilmente eccitabile», agisce «con soverchio nervosismo: cosa, questa, che gli rende assai difficile l’accordo con un uomo dal temperamento diametralmente opposto qual era il ministro inglese Salisbury» (pp. 428-429). Ma, sebbene indicassero che, nel concepire la storia della politica estera, Chabod si muoveva nella direzione che avrebbe condotto al libro del 1951, gli accenni per allora rimasero accenni. 69. L. Azzolini, Introduzione, a F. Chabod, Idea di Europa e politica dell’equilibrio, Bologna 1995, pp. xxiii ss.
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storico che iniziava la sua carriera di professore, assai più della conferenza del 1940 la prolusione rivela le qualità della sua storiografia nel suo nesso non estrinseco con i problemi del presente: la capacità, innanzi tutto, di cogliere, nelle trame della politica estera e negli articoli dei trattati, la sostanza culturale della vita europea, ma poi, e per un altro verso, la speranza, se non la fiducia, che attraverso il vecchio principio dell’equilibrio le cancellerie europee fossero ancora in grado di garantire la pace. Su Mussolini quale garante dell’equilibrio europeo, e quindi della pace, certo Chabod s’ingannava: sia che a quel riconoscimento avesse dato corso perché non darlo sarebbe stato, in quella sede, impossibile, sia che sul serio (si era nel 1935 e la campagna di Etiopia non aveva ancora avuto inizio) credesse in una politica estera fascista fondata sui valori del vecchio principio. Certo è che se, nelle due pagine conclusive della prolusione, suona eloquente, l’elogio del «duce» tanto più lo era quanto meno fosse e risultasse ispirato al riconoscimento di quel che già allora si faceva sentire nella propaganda del regime. Non sulla guerra batteva il discorso di Chabod, ma sulla pace. Non sullo spirito d’avventura, costituzionalmente estraneo al temperamento di questo storico che, quando rivolgeva il suo elogio alla sapienza dimostrata, nella politica estera, della diplomazia francese, soleva dire che a Parigi ogni funzionario del Quai d’Orsay aveva nel cassetto del suo tavolo una copia del trattato di Westfalia, ma, appunto, sulla diplomazia, rivolta a tessere le difficili arti della pace. Piuttosto che a una fascistizzazione della diplomazia, che avrebbe perduto in quella metabasis il suo carattere proprio, Chabod dava luogo, in quel contesto, a una diplomatizzazione del fascismo: il che significava, in concreto, toglierlo dalle mani dei suoi uomini e rifondarlo nei vecchi termini dell’Italia qual era stata innanzi al suo avvento. Era un’ingenuità? Senza dubbio, sarebbe stata un’ingenuità se a quel che diceva Chabod avesse creduto fino in fondo, e nel fascismo avesse visto un solido e convinto garante del principio dell’equilibrio. Sarebbe stata un’ingenuità, e tanto più, se a quel che diceva non avesse creduto fino in fondo, e avesse voluto illudere sé stesso, perché, in cose come queste, chi si illude non può andar esente da colpe. Ma la speranza che il fascismo diplomatizzasse sé stesso nella prospettiva che più gli stava a cuore, e nella quale credeva, era forse connessa all’altra che, via via che le cose facevano il loro corso, la diplomatizzazione desse luogo a un esito ulteriore, e il regime perdesse i suoi caratteri meno accettabili, in modo che, anche a chi non ne avesse condivisi e non ne condividesse gli originari princìpi fosse dato di viverci senza eccessive sofferenze? Può darsi che in qualche momento
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di quel tragitto, nell’anno in cui la prolusione fu pronunziata, e in quelli che, a far tempo dal 1927, l’avevano preceduto, la speranza nella normalizzazione di nuovo tornasse a sorridere a chi preferiva non pensare al peggio. Se fosse così, sarebbe facile oggi dire che, in quel caso, la speranza, e le ragioni dell’ottimismo, avevano di molto prevalso sull’intelligenza delle cose, e sul pessimismo che di necessità avrebbe dovuto conseguirne. Non solo i nemici della Realpolitik, talvolta anche coloro che ne riconoscono la ineluttabilità, indulgono all’ottimismo, coltivano illusioni. Resta che quelli che Chabod allora coltivava non erano i pensieri di un fascista: nemmeno quelli di un fascista, tiepido bensì nel suo consenso, ma, infine, consenziente. La preoccupazione della pace era già allora, come sempre sarebbe stata, al vertice delle sue preoccupazioni. Persuaso che non il diritto di natura è in grado di garantirla, ma la buona volontà politica, consapevole di quel che non si sarebbe potuto dimenticare, e cioè che, se gli Stati europei si erano a lungo dilaniati in guerre sanguinose che a ogni momento potevano riprodurre sé stesse con effetti sempre più disastrosi, era tuttavia nel loro quadro che si era costituita la grande e unica civiltà europea, come storico dell’età moderna negli anni del fascismo Chabod tenne fermo il filo di questo tema della pace, che a ogni costo doveva essere salvata, e cercò di stringerlo a quello della cultura. Connessa alla speranza, si dava tuttavia in lui, e si deve ribadirlo, la preoccupazione che le ostili «potenze» burckhardtiane alla fine prevalessero, tutto travolgendo nella catastrofe. 9. Se quella nutrita nel 1935 a proposito della politica estera fascista era stata una speranza fondata su un’illusione, l’una e l’altra risultarono ben tramontate quando, subito dopo il 1939, Chabod scrisse il saggio al quale è stato apposto il titolo (ne era infatti privo) Principio dell’equilibrio e aspirazione alla pace fra Settecento e Ottocento. Il saggio che, essendo rimasto dattiloscritto, con varie correzioni, fra le sue carte, solo nel 1995 vide la luce, meriterebbe un’analisi ben più compiuta di quella che possa essergli dedicata qui; dove dovrà tuttavia almeno notarsi che dalla crisi patita dal principio dell’equilibrio inteso come garanzia di pace, o almeno di non guerra, si svolsero, a partire già dalla seconda metà del secolo sedicesimo, vari progetti tendenti ad assicurare la concordia internazionale, a legalizzare, come Chabod scriveva, la vita politica, a trasformare «in una sorta di statuto fisso e rigido quel che era stato sin allora principio politico sempre vivo sì, ma pur sempre mutevole, fluido», nobilitando cioè «un meccanico e arido gioco ad altalena di forze» per farlo «servire al fine
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superiore della tranquillità europea»: che «fu l’illusione dei giuristi del primo Settecento soprattutto che si occuparono della teoria dell’equilibrio».70 Erano le istanze che, quanto più trasformavano in progetto politico e giuridico le aspirazioni dei popoli stanchi delle sempre più incomprensibili guerre che erano condannati a combattere, di altrettanto, con Federico II in testa, suscitavano le sferzanti ironie dei realisti. Erano le istanze che, certo, sulle ironie non ebbero la meglio, perché le guerre continuarono e i popoli seguitarono a esservi coinvolti senza scampo; e che tuttavia resistettero, e furono condivise anche da un personaggio come Alessandro I di Russia che, certo, non sarebbe stato disposto a rinunziare alle sue ambizioni territoriali e alle sue conquiste, e non di meno non poteva impedire che nel suo animo affiorassero idee e sentimenti di diversa natura. Suo, per esempio, era l’auspicio che, come scriveva nelle istruzioni date al suo inviato a Londra Nicolaj Novosil’cev, terminata la guerra contro Napoleone, i diritti positivi dei singoli Stati fossero sottoposti al diritto universale delle genti e, su questa base, la pace si stabilisse, se non per sempre, per lunghi periodi. Sua era questa utopia.71 Alessandro I era un misto di cinismo e di idealismo, una natura che Chabod definiva torbida per questi motivi diversi, che gli s’intrecciavano dentro. Ma il suo caso era tanto più significativo, trattandosi di un sovrano, in quanto documentava l’ampiezza e la forza raggiunti da quel sentimento, che non si fermava sulla soglia delle dimore regali, ma la oltrepassava, nel mentre cercava di diventare qualcosa di più e di meglio di un sentimento, e di un’astratta aspirazione dell’anima. In realtà, com’era dimostrato dai tanti progetti che allora, dall’abate di Saint Pierre a Kant, si delinearono per la pace perpetua, fra la politica e la cultura venne a stabilirsi, o meglio a consolidarsi, un conflitto rappresentabile nelle antitesi della realtà e del sogno, del dover essere e dell’essere;72 conflitto radicale e inconciliabile, e, in questo suo carattere, fondamentale nella moderna storia europea, perché «da allora progetti di riformatori, utopie dottrinarie e pacifistiche hanno continuato, sempre, a cozzare contro la realtà politica di ogni giorno». Nello svolgimento di questi pensieri, che nel conflitto del kratos e dell’ethos avevano la loro materia e la atteggiavano in forme meineckiane, trovò progressiva conferma un tema che, a misura che la riflessione esercitata da Chabod sulla storia dell’Europa moderna si appro70. Chabod, Idea di Europa e politica dell’equilibrio, p. 44. 71. Ibidem, pp. 55-56. 72. Ibidem, p. 51.
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fondiva e particolareggiava, non si andrebbe lontano al vero se di nuovo lo si definisse pessimistico. Lo si è già detto, ma conviene ribadirlo. La stessa riflessione esercitata sull’idea di nazione, intorno alla quale proprio non può consentirsi con quel che Zunino ne ha detto, contribuì, a guardar bene, a determinarlo approfondendolo e aprendo nel suo animo un sotterraneo conflitto. Per un verso, interpretata alla maniera che era stata propria dell’idea francese e, in larga parte, italiana, la nazione costituiva agli occhi di Chabod, un valore; che, per un altro, e non solo in quanto la considerasse nella rappresentazione che ne era stata data da Herder e da quanti in Germania ne avevano condiviso l’idea, tendeva a trapassare nel suo contrario, trasformandosi in fonte di varia inquietudine. La s’intendesse come il frutto della libera scelta morale, e come il prodotto del modo in cui questa si era determinata nella storia, o la si concepisse invece come il frutto della natura, del sangue e del suolo, certo è che queste due diverse idee si unificavano in un punto che, in quanto tale, non consentiva che quella distinzione non subisse in sé una sorta di contrappasso, e non rivelasse il suo volto minaccioso. Storica o naturale che la sua genesi fosse considerata, «nazione» significava individualità, dunque contrapposizione e potenziale conflitto; significava il definitivo tramonto, sul continente europeo, del diritto naturale delle genti. E certo, a salvarne il concetto, non bastava svolgere la nazionalità in umanità, come avveniva in certe formulazioni di Mazzini, che pure al tema herderiano non era stato insensibile: non bastava perché nazionalità significava «parte», e umanità, invece, significava «tutto», e si giocava con le parole, e con il significato delle parole, quando si pretendeva che, essendo parte, questa fosse anche il tutto, ed essendo il tutto, questo vivesse nella parte. Per questo, senza soluzione di continuità, dall’idea di nazione Chabod cercò il passaggio che conduceva a quella di Europa. Sempre di più, infatti, l’idea della nazione gli mostrava le sue potenzialità negative, che la sua prospettazione in termini di volontà, e non di natura, non bastava a trasformare in positive. Per un verso, quell’idea lo poneva dinanzi alle contrapposizioni di cui questo continente aveva, nei secoli, alimentata la sua storia. Lo poneva dinanzi all’irreparabile conflitto della politica e della morale, dello Historismus e, nel più puro stile meineckiano, del giusnaturalismo. Per un altro lo spingeva a cercare nell’idea del Kleinstaat, cara a Burckhardt come a Adam Müller, a Schlegel, a Haller, una via di fuga dalle antitesi brucianti della modernità. Non che Chabod non s’avvedesse che se, per un verso, con gli altri piccoli stati costituiva una garanzia di pluralità e di libertà, il Kleinstaat era, per un altro, la radice di ogni contesa
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e di ogni conflitto. Per evitare quei rischi, e impedire che si ripresentassero minacciosi all’orizzonte, di nuovo si sarebbe dovuto ricorrere al principio dell’equilibrio senza che perciò si fosse trovato alcun criterio che per sempre lo rendesse stabile e evitasse la sua rottura; e in un periodo, per di più, nel quale, essendosi fatto mondiale, la sua ricerca era ormai affidata a potenze diverse da quelle dell’Europa, avviata sul sentiero della decadenza. L’idea della nazione recava comunque con sé quella del conflitto. Lo disse con chiarezza quando, per esempio, indicò in Rousseau, nemico del grande stato e fautore del piccolo, uno dei teorizzatori, e forse il più conseguente, della particolarità, dell’egoismo politico, inevitabile prodotto dello spirito di nazione.73 E, dal suo punto di vista, ne indicò la contraddizione. 10. Se oggi, a distanza di anni, si torna sui molti sentieri che, nella sua ricerca, Chabod percorse, e si cerca di intrecciare insieme i fili, assai diversi l’uno dall’altro, con i quali egli intessé la sua ampia tela storiografica, ci si trova dinanzi a un personaggio più complesso, e più tormentato, di quello che in due diverse occasioni, ci apparve all’inizio degli anni sessanta e poi degli ottanta; e anche di recente, forse, quando, in occasione del centenario della sua nascita, il discorso condusse al paragone con Delio Cantimori, e in questo inquieto scrittore indicò un più sensibile interprete dei «disagi della civiltà moderna».74 Se, percorrendo le sue vie particolari, Cantimori fu precocemente consapevole, della crisi della politica e del mondo moderni, di questa consapevole a suo modo fu anche Chabod; che, a differenza del suo di poco più giovane collega e amico, si trovò ad analizzare molti dei concetti direttivi del mondo moderno, e di tutti mostrò a sé stesso la fragilità, la debole difesa che garantivano di contro alle tempeste della storia che stava vivendo. Così fu per il concetto dell’equilibrio politico nelle varie sue forme e trasfigurazioni. Così fu per quello della politica che, mentre, per un verso egli accoglieva nella formulazione datane da Croce, quando poi discendeva sul terreno concreto dei fatti, dei duri fatti, gli appariva con il volto drammatico che Machiavelli aveva scolpito, nell’atto in cui le idealità universalistiche che tenacemente, malgrado tutto, resistevano anche nell’animo di chi aveva scritta la Staatsräson, non riuscivano a discendere dal loro cielo e prender posto sulla terra. Così fu 73. Ibidem, p. 170. 74. Cfr. il mio Ripensando Federico Chabod (2002), in Il guardiano della storiografia. Profilo di Federico Chabod e altri saggi, Napoli 2003, pp. 197-210.
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per i concetti della nazione, dell’Europa, del piccolo e del grande Stato, in un crescendo pessimistico nel quale, senza che altro le sostituisse, le idee politiche che avevano costituita la tradizione del pensiero liberale e, in parte, democratico dell’Occidente, tutte mostravano ai suoi occhi la loro inadeguatezza, anzi la loro inettitudine a dare forma a un mondo che andava per strade diverse. Per questo, ridisceso in pianura dai monti dove aveva combattuto per l’italianità e insieme l’autonomia della sua Valle d’Aosta, Chabod non volle più sapere della politica, e ostinatamente si chiuse negli studi, respingendo con fermezza ogni tentativo che altri facesse per trarlo fuori della sua solitudine e impegnarlo in una disputa o in un dibattito. Quando, nel 1947, a Roma tenne la sua splendida prolusione sull’idea di Europa, l’impressione sui giovani che la ascoltarono fu grande. Ma quelli erano giovani, molto giovani, e il senso del discorso, con quel finale malinconico e, insieme, drammatico, certamente sfuggì ai più. Sfuggì il senso della citazione che egli aveva fatta delle parole che Burckhardt aveva pronunciate una sera del 1870 quando, messo da parte il libro che stava leggendo, sentenziò circa il dissidio irreparabile della potenza politica e della cultura e, profeticamente, previde che la Germania ne avrebbe pagate le conseguenze.75 Ma sfuggì forse ai più, certamente sfuggì a noi suoi potenziali discepoli, che il pensiero di Burckhadt era il suo stesso pensiero, e che, nella persuasione che i destini del mondo si giocassero ormai lontano dall’Europa in decadenza, a lui, a noi, non restava ormai se non di difendere il patrimonio della sua cultura. Chabod non era uomo che, nella sua proverbiale riservatezza, inclinasse mai alla retorica di circostanza. Ma quella volta si permise di rivolgere un breve, sommesso appello ai «chierici», che tenessero «fede al loro compito».76 Implicava, questo modo di pensare, il moderato consenso dato a suo tempo al fascismo? O significava invece un rifiuto di esso, che, nella sostanza, era stato così radicale da coinvolgervi molte tra le forme della modernità che ne avevano favorita l’affermazione? Non sembra dubbio che, come alla prima domanda deve rispondersi di no, di sì invece alla seconda, la conseguenza che deve trarsene riguarda il suo liberalismo; che, poiché si era formato nella consapevolezza del conflitto meineckiano dell’ethos e del kratos, cercava spazi nei quali la sua potenza potesse essere contenuta, la qualità 75. ���������� W. Kaegi, Der Kleinstaat im europäischen Denken, in Historische Meditationen, I, Zürich 1942, pp. 284-285, 313; e Chabod, Idea di Europa e politica dell’equilibrio, p. 198. 76. �������� Chabod, Idea di Europa e politica dell’equilibrio, p. 203.
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non dovesse cedere alla quantità, e la democrazia non avesse a risolvere in sé, uccidendolo, lo spirito della libertà. Nella persuasione, fattasi via via più penetrante e consapevole della decadenza dell’Europa politica, e in quella altresì dell’indomabilità e inevitabilità della Realpolitik, sua preoccupazione costante fu quella della pace; e, se non fu soltanto atto formale, il consenso dato alla politica estera di Mussolini nel 1935 implicava tuttavia, come si è visto, l’accettazione non, per dirla con le parole di Benjamin Constant, dello spirito della conquista e dell’usurpazione, ma di quello della diplomazia, fatta di abilità e pazienza, e volta, appunto, a mantenere la pace. Zunino ritiene che il consenso dato al fascismo si spingesse fino «all’incirca all’ultimo atto della storia dell’Italia fascista».77 Ma, dopo tutto quel che si è detto a proposito del modo in cui l’esperienza che veniva facendo di quel regime si atteggiava nel suo pensiero storico, è chiaro perché, nella sua genericità, questo giudizio non possa essere accettato. A parte la testimonianza resa da Gioacchino Volpe sull’entusiasmo patriottico da cui anche Chabod fu contagiato la sera che, da Palazzo Venezia, Mussolini proclamò che l’Impero era tornato «sui colli fatali di Roma»,78 non se ne conoscono altre che riguardino, 77. Zunino, Tra Stato nazionale e coscienza nazionale, p. 123. 78. Desidero ricordare che quando ebbe vista la recensione di Storici e maestri che avevo pubblicata nella «Cultura», 8 (1968), pp. 520-526, con mia grande sorpresa una mattina Volpe mi telefonò per dirmi che l’aveva letta e che sarebbe stato lieto se fossi andato a trovarlo nella sua abitazione: desiderava conoscermi, conversare un po’ con me di varie cose, e anche di quella famosa «adunata» di Piazza Venezia (ricordo bene che usò questo termine, che non mi piaceva perché rievocativo di troppi sabati perduti in inutili marcie) il giorno che Mussolini aveva annunziato che l’impero era tornato sui «colli fatali di Roma». Rimasi molto colpito, e anche un po’ preoccupato, perché, sebbene il tono dell’invito fosse stato cordiale, restava che, in quel punto, la mia recensione era stata invece alquanto «impertinente» nel non concedere incondizionato credito alla circostanza che Volpe aveva descritta. Donde il mio imbarazzo. Restava altresì la sorpresa, che non sapevo definire, di quell’invito, rivolto a uno che era stato allievo di un suo allievo, e che niente aveva da opporre alla sua autorevolezza. Non l’avevo mai incontrato; e una sola volta l’avevo visto, ma da lontano, la sera in cui, iniziando il suo insegnamento romano alla Facoltà di Magistero, Nino Valeri aveva commemorato Pietro Silva. Quando fui introdotto nel suo studio, mi accolse con la stessa cordialità che mi aveva mostrata al telefono; e io restai anche colpito dalla vigoria che traspariva da quell’uomo vecchio, ma dritto e pieno di vitalità, che sedeva, davanti a un grande scrittoio, su una sedia, che non era una poltrona, bensì, mi parve di capire, uno sgabello senza schienale. Ricordo che la circostanza mi fece venire in mente quel che da qualche parte avevo letto di Eric von Stroheim che, come poltrona per il suo scrittoio, usava addirittura una sontuosa sella da cavallo a testimonianza della sua fedeltà alla tradizione militare prussiana. Il che confermava soltanto l’imbarazzo con il quale mi trovavo lì, e il desiderio di vincerlo pensando, irresistibilmente, ad altro. Ma Volpe non mi dette il tempo di seguitare nella mia difensiva fantasticazione. Mi
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per esempio, la guerra di Spagna, nella quale è ben probabile che un uomo come lui non dovesse cogliere auspici favorevoli alla possibilità che la pace durasse in Europa. Testimonianze raccolte in ambienti che egli frequentò durante gli anni trascorsi a Roma inducono a credere che all’estrema prudenza che caratterizzava il suo atteggiamento pubblico corrispondesse, nel suo intimo, un sentimento di avversione per quel che sempre più il fascismo andava rivelando di sé. Ma sono testimonianze orali, rese nel tempo da persone che, essendo della sua generazione, o di poco più giovani, oggi non ci sono più; sì che non sarebbe corretto se, da parte mia, si andasse oltre e si traessero ulteriori conclusioni. Sarebbe, d’altra parte, fare inutili sacrifici rituali sull’altare, non della correttezza storiografia, ma della sua esagerazione scettica, se da quella communis opinio ci si rifiutasse di trarre quel che è doveroso perché, innanzi tutto, è necessario; e cioè che, come fu avversario della decisione mussoliniana di gettare l’Italia nella «fornace» della seconda guerra mondiale, così non poté non esserlo degli atti che a quella conducevano come a cosa necessaria e ineluttabile. Sia come sia. Ma poiché Zunino, e altri con lui, ritengono che la compromissione con il fascismo avvenisse sul piano delle idee,79 occorrerà ripetere quel che qui sopra si è detto: in nessun momento della sua vita, non quando da giovane studiava Machiavelli, non dopo, quando, nell’età matura, i suoi interessi si rivolsero alla storia di Milano al tempo di Carlo V e quindi a quella della politica estera italiana e europea quale si parlò a lungo di sé, delle sue vicende culturali e politiche, di Croce, di Salvemini, della Scuola storica di Palazzo Antici Mattei, di Chabod e del dolore che gli era stato causato dalla sua morte, ingiustamente (disse così) avvenuta prima della sua. Poi volle sapere dei miei studi e di che cosa insegnassi all’Università di Urbino. «Ma allora lei è un filosofo», disse quando gli ebbi spiegato quel che stessi facendo. E si compiacque nell’apprendere che con Chabod avevo tuttavia mantenuto stretti rapporti fino all’ultimo dei suoi giorni. Poi disse che quegli abbracci a Piazza Venezia c’erano stati davvero, e che dovevo credergli, sebbene fosse possibile che la grande emozione che attanagliava l’enorme folla che riempiva Piazza Venezia e che arrivava fin quasi al Colosseo, avesse contagiato chi, interessato ai grandi eventi, si trovava lì malgrado il diverso giudizio che, a mente fredda, avrebbe dato di quello che intanto lo coinvolgeva. Mi venne in mente, ricordo, quel che Sartre scrive nelle Questions de methode, che vanno innanzi alla Critique de la raison dialectique, degli individui, uomini e donne, riuniti dinanzi alla Bastiglia il giorno che le dettero l’assalto, e delle emozioni che, passando dall’uno all’altro, facevano sì che tutti partecipassero del medesimo sentimento e quello fosse un «group en fusion». Di questo, ovviamente, non gli parlai. Ma gli risposi che di quel che diceva ora, e che ieri aveva scritto, non avevo mai pensato che potesse non essere vero. Non aggiunsi tuttavia, perché sarebbe stata un’ulteriore, anche inutile, impertinenza, che anche la sua testimonianza richiedeva tuttavia di essere interpretata. 79. Zunino, Tra Stato nazionale e coscienza nazionale, p. 123.
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svolse fra Sette e Ottocento, Chabod fu, nel suo pensiero, succube del fascismo e dei suoi temi. Altra dall’accettazione di quello e di questi deve infatti considerarsi l’attenzione con cui ne seguiva lo svolgimento nell’età che era la sua, e che impegnava in modo non casuale la sua stessa esistenza. 11. Gaspare e Roberto De Caro hanno dedicato alla Storia senza memoria una serie di saggi, nel primo dei quali, a proposito della persecuzione degli ebrei nel periodo fascista, prima e dopo il 25 luglio 1943, con accoppiamento inconsueto hanno messo insieme Federico Chabod e Roberto Rossellini, lo storico e il regista cinematografico, elevati entrambi, nei loro diversi campi, a simboli dell’incapacità di ricordare, del sacrificio della memoria. Non è frequente, per lo meno a mia conoscenza, che storici e registi cinematografici siano avvicinati in modo che la vicenda dell’uno getti luce su quella dell’altro, e la riceva; in un nesso, deve aggiungersi, il cui carattere è in questo caso costituito da una sorta di rimozione operata dalla coscienza, da una cattiva e anzi pessima coscienza, di contenuti non sopportabili, e perciò fatti cadere giù nel buio profondo della dimenticanza. I due casi, quello di Chabod e l’altro di Rossellini, dovrebbero insomma spiegarsi a vicenda nell’atto, direi, in cui anche furono e sono simbolici di un atteggiamento generale dell’opinione pubblica italiana, che, quando non era antisemita, ebbe tuttavia la tendenza a considerare, non solo come il frutto di un momento di follia la promulgazione delle leggi per la difesa della razza, e poi la loro «applicazione», ma fece forse anche di peggio, o di più. Di fronte a quell’evento chiuse gli occhi perché, nel fondo di sé stessa, non trovava ragioni che la inducessero a considerare come una tragedia senza nome quella che si stava preparando; e in tanto permise che questo avvenisse in quanto, malgrado la loro antica presenza nella società italiana, ai suoi occhi gli ebrei erano pur sempre ebrei, erano il popolo deicida sul quale pesanti erano caduti, e cadevano, il giudizio e la condanna della Chiesa. Di qui una tendenza per un verso a minimizzare, per un altro a concedere bensì aiuti, ma come li si dà a chi, per non più che una qualsiasi malignità della sorte, abbia subìta o stia subendo una sventura, e richieda di essere soccorso. È sempre difficile per chi faccia storia e anche possegga gli strumenti indispensabili alla sua scrittura (figuriamoci poi quando non li possegga), penetrare nella massa senza nome che, per questo verso, è la opinione pubblica, o quella preponderante parte di essa che, vivendo giorno dopo giorno la sua vita, non scrive, non lascia testimonianza, e, se parla, rivolge il discorso a chi, a sua volta, non consegna la sua memoria a docu-
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menti e non consente discorsi che su questi siano controllabili. Ma certo è che sulla questione del razzismo italiano, che, esemplificandola con i casi di Rossellini e di Chabod, i De Caro hanno sollevata con forza, occorre fermarsi e riflettere, cercando di pervenire a qualche utile chiarimento. Non senza, tuttavia, aver premesso che poiché, nel capitolo dedicato alla storiografia di Chabod, i due autori hanno ripresa in sostanza e estremizzata l’interpretazione di Zunino, conviene, non ripetere gli argomenti che qui sopra le sono stati contrapposti, ma considerare chiusa per questa parte, la questione. E aprirne, subito dopo, un’altra, che è sgradevole, perché coinvolge chiunque possegga il coraggio di dire e di dirsi la verità, senza infingimenti e abbellimenti, e tanto più perciò richiede di essere posta. Ci si deve infatti chiedere se la questione dell’antisemitismo possa considerarsi positivamente risolta nella coscienza di chi abbia scelto e percorso la via dell’antifascismo; se essere antifascisti significhi sul serio, e fino in fondo, avere spento dentro di sé il pregiudizio antiebraico coltivato per secoli e secoli dalla cultura cristiana; e, soprattutto, se, nel tempo in cui la persecuzione degli ebrei da parte del governo nazionalsocialista e di quello fascista non aveva ancora dato tutti i suoi frutti, o non era nota nelle sue reali proporzioni, essere antifascisti bastasse a far sì che la questione fosse avvertita nella sua gravità e, soprattutto, nella sua eccezionalità. E c’è poi l’altra questione, quella posta dal silenzio pressoché assoluto che, non si dice il popolo italiano nel suo complesso, perché questo è un soggetto storiograficamente inassumibile quando la dittatura precluda a esso ogni forma di espressione, ma, con l’eccezione rilevante di Benedetto Croce,80 le figure più rappresentative della cultura italiana allora mantennero nei confronti delle leggi del 1938. Una questione grave; che, tanto più lo è in quanto a definirla debba farsi intervenire, non soltanto la paura e ciò che ne conseguiva, ma un serpeggiante sentimento di sottovalutazione di quel che stava accadendo, il desiderio di non riconoscere con la mente e con la coscienza quel che gli occhi, tuttavia, non potevano non vedere all’opera negli uffici, nelle scuole, nelle Università, nelle Accademie, nei luoghi insomma dai quali gli ebrei erano allontanati. Una questione che dev’essere posta, a proposito di coloro che, non essendo antifascisti e non credendo tuttavia al mito della razza, o delle razze, trovarono comodo sotto80. Cfr. al riguardo il mio “Per invigilare me stesso”. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna 1989, pp. 145 ss., 179 ss., e A. Capristo, “Oltre i limiti”. Benedetto Croce e un appello svedese in favore degli ebrei perseguitati, in «Quaderni di storia», 70 (2009), pp. 145-173.
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valutare quanto stava accadendo con la legislazione razziale del 1938, persuasi, come accadeva, per esempio, a Giovanni Gentile, che presto non se ne sarebbe parlato più e tutto sarebbe tornato allo status quo ante81 in modo che, sbrigata quella pratica certamente incresciosa, gli uomini di buona volontà avrebbero potuto proseguire il loro lodevole lavoro senza doversi preoccupare, come a lui era accaduto, di spendere le loro energie nella difesa di qualche professore ebreo, italiano o tedesco che fosse.82 Ma anche deve esserlo a proposito di molti antifascisti, o di non fascisti, che, o per paura o per l’inconscia presenza di qualche pregiudizio antiebraico,83 condannarono sì le leggi del 1938, ma senza condurre la loro indignazione allo stesso livello a cui avevano innalzata e tenevano quella riguardante il regime mussoliniano. Certo, e si deve ripeterlo, il silenzio di chi avrebbe avuto il dovere di parlare, e invece tacque, non può, per le ragioni che si sono dette e sono del resto ovvie, esser fatto ricadere come una colpa inespiabile sull’intero popolo italiano. Ma altrettanto certo è che le minimizzazioni e gli occultamenti di chi ben avrebbe potuto non minimizzare e non occultare, non potrebbero mai, senza colpa, essere a loro volta, e le une e gli altri, minimizzati e occultati.84 Si deve, piuttosto, per cercar di comprenderli, farli risalire a due diverse disposizioni psicologiche: a quella di chi, provandone un troppo grande orrore, tendeva tuttavia a persuadersi che la cosa fosse, nella realtà, meno grave di quanto sembrasse, e all’atto pratico la accettava per quel che era adattandovisi, o all’altra di chi quell’orrore non provava in egual misura perché al problema non aveva pensato abbastanza e, o non ne valutava a 81. Cfr. per questo il mio Gentiliana et Cantimoriana, in «La Cultura», 47/2 (2009), ppp. 198 ss., e, in questo volume, pp. 183-249. 82. Cfr., per un esempio di questa disposizione psicologica, quel che, a proposito di Kristeller, da lui del resto protetto finché fu possibile, Gentile scrisse a Ernesto Codignola il 21 settembre 1938 a proposito del nuovo lettore di tedesco che ne avrebbe preso il posto alla Normale di Pisa, e che egli si augurava «né israelita né antinazista». «Mi premerebbe», scriveva, «avere un altro Kristeller, ma senza il punto nero che mi dette sempre tanto da fare» (la lettera è citata in G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995, p. 477). La stima e, con questa, l’affetto non impedivano evidentemente a Gentile di considerare il suo essere ebreo un «punto nero», e il provvedimento che colpiva quello studioso come opportunamente risolutivo delle difficoltà che, per quella ragione, gli aveva procurate. 83. Cfr., al riguardo, R. Finzi, L’Università italiana e le leggi antiebraiche, Roma 2003, p. 37. 84. È in relazione a questi che può accogliersi la nota tesi di R. Hilberg, Perpetrators Victims Bystanders. The Jewish Catastrophe, New York 1992, relativa all’obiettiva responsabilità dei bystanders, ossia dei muti astanti.
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sufficienza, o non voleva valutarne ora che le cose lo imponevano, la gravità. Si spiega così la facilità con la quale, quando ricevettero il questionario relativo al censimento razziale, molti che in quella sede avrebbero dovuto ribellarsi si adattarono invece a compilarlo, badando a mettere fuori discussione la loro pura origine ariana; e anche in questo caso a distinguersi per il loro coraggio fu, oltre Croce, Attilio Cabiati,85 che insegnava politica economica e finanziaria all’Università di Genova. Lo stesso atteggiamento, o uno assai simile, si determinò allora anche fra gli ebrei, molti dei quali non vollero credere che potesse accadere quel che poi ineluttabilmente accadde. Si sa, per esempio, che il fascismo aveva fatto non pochi proseliti fra gli ebrei italiani, che per varie ragioni vi avevano aderito, ma anche perché convinti, in alcuni casi, che, nell’aderirvi, avrebbero mostrata a sé stessi la profondità del loro sentimento nazionale. Chi ha letto i romanzi e i racconti di Giorgio Bassani sa, per esempio, come, fra gli ebrei di Ferrara, molti rimanessero sorpresi e talvolta persino non credessero e non volessero credere che sul serio stesse accadendo quel che nei fatti accadeva, non essendo disposti a dar ragione a chi, con altra lucidità e preveggenza, li esortava a non chiudere gli occhi dinanzi alla realtà e a non nutrire rovinose illusioni. Michele Sarfatti che, come si sa, è convinto che l’antisemitismo fascista avesse cominciato a manifestarsi ben prima del 1938, e cioè già a partire dal 1922,86 fin dall’anno dunque in cui Mussolini prese il potere, non ha potuto, d’altra parte, non constatare che quell’illusione era stata di molti, e che, se prima della promulgazione delle leggi per la difesa della razza, non erano mancati quelli che le avevano previste, i più si erano convinti che a tanto, in Italia, non si sarebbe arrivati mai. Certo, altra, ossia nascente da un’altra fonte, era l’incredulità degli ebrei; altra quella dei cristiani o dei non ebrei. Ma la tendenza alla minimizzazione, che allora fu comune agli uni e agli altri, era fatta della stessa qualità di quella che, a tragedia avvenuta, spinse molti a registrare il fatto, a condannarlo e, quindi, a pensarci il meno possibile. Che è quanto probabilmente accadde a Roberto Rossellini; il quale, quando girò Roma città aperta e Paisà, fra le tragedie che vi descriveva non trovò uno spazio per includervi quella degli ebrei e per ricordare, per esempio, la terribile giornata del 16 ottobre 1943, che fu 85. G. Fabre, L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Torino 1998, p. 255, e A. Capristo, Gli intellettuali italiani di fronte alla cacciata dei colleghi ebrei da Università e Accademie, in L’intellettuale antisemita, a cura di R. Chiarini, Venezia 2008, p. 95. 86. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzioni, Torino 2007, p. 119.
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rievocata da Giacomo Debenedetti in un memorabile saggio;87 e altresì a Federico Chabod che, quando nel 1950 andò a Parigi, alla Sorbonne, per parlarvi dell’Italie contemporaine, non poté evitare che l’accento cadesse bensì su quell’ignominia, ma con particolare energia insistette sull’estraneità degli italiani al «pensiero» che l’aveva determinata. Non saprei dire di Rossellini, che in tanto, forse, alla tragedia degli ebrei, in quei due films, non accennò, e nemmeno, se mal non ricordo, in Germania anno zero, in quanto altra era la linea del racconto che intendeva svolgere: sì che intentare un processo al suo silenzio ben potrebbe essere giudicato assurdo. Ma Chabod era uno storico che, nel narrare le vicende dell’Italia contemporanea, si era trovato di fronte a quella tragedia, e doveva scriverne, e, ne scrisse: in modo, tuttavia, che, ferma e alta restando l’affermazione delle responsabilità del fascismo, di molto attenuate risultassero quelle del popolo italiano. Inconscio desiderio di elusione, di rimozione? Oppure non adeguata, e comunque incompleta, conoscenza, allora, di quel che sul serio, a parte la Germania, dal 1938 era avvenuto in Italia? Oppure, ancora, desiderio di pronunziare di fronte a un pubblico francese, che non poteva aver dimenticato il 10 giugno 1940, un’autocritica dell’Italia contemporanea che nel contempo rendesse tuttavia giustizia ai tanti che, quando le leggi razziali furono promulgate dal fascismo, si erano soggettivamente dissociati?88 Tutte e tre queste cose, forse: alle quali può aggiungersi che, parlando a Parigi ad un pubblico francese, Chabod forse preferì non insistere su una questione che anche per la Francia si poneva, visto e considerato come le cose erano andate durante il periodo di Pétain e del governo di Vichy. Di quelle tre cose 87. G. Debenedetti, 16 ottobre 1943, in 16 ottobre 1943. Otto ebrei, Milano 1973, pp. 21-62. 88. Che all’origine delle lezioni parigine sull’Italie contemporaine vi fosse anche, e forse soprattutto, questo intento, fra storiografico e diplomatico, e che Chabod si fosse disposto a intraprendere quella fatica anche per recare una testimonianza di amicizia nei confronti della Francia dopo le vicende della Valle d’Aosta, credo sia molto probabile. Ma debbo anche aggiungere che di quelle lezioni, e soprattutto delle «dispense» che le contenevano, egli non fece mai parola con noi, che della loro esistenza venimmo a sapere solo dopo la sua morte quando, nella sua casa romana, cercammo di mettere ordine fra le sue carte e di rinvenirvi il manoscritto della Storia di Milano nella parte che gli era stata affidata e che concerneva l’età di Carlo V (la trovammo e la rendemmo pubblicabile) e della parte iniziale del secondo volume della Politica estera, che invece cercammo invano perché non era lì, ma altrove. Il libro sull’Italia contemporanea fu pubblicato postumo; ma non per volontà di Chabod, che non aveva, al riguardo, lasciato alcuna disposizione, e dubito che, per suo conto, avrebbe preso l’iniziativa di darlo a un editore in quella forma.
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la prima, che non è meno importante della seconda e della terza, e anzi lo è di più, è anche la meno giustificabile. Dinanzi a una tragedia come quella dello sterminio degli ebrei, il non avere avute responsabilità dirette non rende meno partecipi, nel profondo, del senso di colpa che coinvolge tutti, e tanto più quanto più si appartenga all’alta cultura e si faccia professione di studi, storici o no che siano; anche se, per un altro verso, sia proprio da quello, sia proprio dal senso di colpa, che, rilevarlo è persino banale, si origina lo spirito dell’attenuazione, in certi casi addirittura della rimozione e della negazione, che, soprattutto in Italia, non può non avere un forte legame con la presenza dell’antico antigiudaismo cattolico. Ossia con un veleno che così profondamente era penetrato nelle coscienze e negli animi, che ogni ceto sociale ne fu condizionato, e molti ne furono contaminati, anche gli spiriti più forti, più critici, e meno disposti a soggiacere alla sua insinuante potenza. Non è il caso, dopo che tanti (Sartre, per esempio, Adorno, Hannah Arendt) si sono cimentatati nell’impresa, che qui si provi a definire che cosa fosse ieri e sia oggi l’antisemitismo, che cosa nella loro obiettiva diversità, gli ebrei rappresentassero ieri e rappresentino oggi agli occhi di quanti, piacesse loro o non piacesse, sono stati allevati e nutriti in terre cristiane. E nemmeno lo è di dissertare, in questa sede, sulla questione della maggiore o minore precocità dell’antisemitismo fascista, decidendo se la promulgazione delle leggi razziali derivasse dalla necessità, che Mussolini a un certo punto avvertì come irrimandabile, di allineare il fascismo sulle posizioni del nazionalsocialismo tedesco, o, ferma restando questa necessità, implicasse e richiamasse sue precedenti convinzioni antiebraiche che, in passato, si erano alternate con altre di diverso segno e, alla fine, avevano prevalso. Certo è che, agendo su piani diversi, dall’antigiudaismo cattolico sono nate le leggende le più svariate; che anche quando non hanno trovato ascolto presso chi ai pregiudizi resisteva e a essi opponeva le sue illuminate convinzioni, hanno lasciato tuttavia nelle coscienze un segno sottile. Sottile, eppure difficilmente cancellabile. Ricordo che quando, nel 1946, preparavo l’esame di Storia moderna, e ascoltavo le sue lezioni introduttive, dedicate al «metodo», e al capitolo delle «falsificazioni», fui colpito dell’esempio che Chabod vi faceva dei cosiddetti Protocolli dei savi di Sion:89 un testo del quale non avevo mai sentito parlare, ma di 89. Si sa che la memoria scolorisce, e altera, i ricordi, ed è spesso fonte di inganni. Mentre sono certo che di quel testo sentii parlare da lui per la prima volta a lezione, ricevendo grandissima impressione, avrei giurato che l’esempio fosse stato registrato a stampa nel Sommario metodologico che, quell’anno, era abbinato al corso su L’idea di nazione, Roma 1946, le cui dispense ancora posseggo. Ma non è così: l’esempio fatto a lezione non fu ri-
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cui seppi poi che in molte case borghesi era presente, nell’edizione introdotta da Julius Evola, ed era ovviamente considerato autentico. Trasferendosi in menti ben disposte ad accoglierle, e a dare talvolta a esse una qualche forma razionale, quelle leggende contribuirono infatti ad alimentare nel tempo il mito di una diversità che, quanto più era minacciata e aggredita, di altrettanto era considerata minacciosa e aggressiva; che, se era vista come una virtù, tanto più doveva vedervisi una minaccia, dalla quale occorreva guardarsi. Non dirò che sia in cose come queste, o in queste soltanto, ossia in un rapporto con gli ebrei non fino in fondo chiarito, nell’inconsapevole diffidenza stratificatasi nei gradi più profondi e meno controllabili della coscienza, che debba cercarsi la ragione della non grande attenzione che, in sede storiografica, fu data, nel recente passato, alla presenza in Italia dell’antisemitismo e del razzismo. A determinarla sarà stata anche il modo in cui la dottrina del fascismo era stata delineata sia da Gentile, che al razzismo certo non aveva alluso e a quello non lo giudicava intrinseco,90 sia dallo stesso Mussolini che, nell’aggiunta alla «voce» redatta da quest’ultimo nell’Enciclopedia italiana, di alcune sue pagine dirette a presentare il suo movimento in termini di iniziativa e di azione politica, non di teoria, delle questione razziale anche lui aveva taciuto. Sarà stata la marginalità, nei primi tempi del fascismo, di personaggi come Preziosi, Interlandi, Julius Evola e altri che soltanto in seguito riuscirono a conquistare il centro della scena e a imporre le loro idee, e che tuttavia già alla metà degli anni trenta avevano scritto, sui giornali, articoli violenti contro gli ebrei.91 Sarà stato per questo, e perché il razzismo fece presa soprattutto sui giovani, desiderosi, come ha scritto De Felice, che, preso per iscritto: come può vedersi anche nell’edizione che di quel Sommario che via via, rispetto all’edizione del ’46, si accrebbe di esempi, fu poi fatta da Luigi Firpo per Laterza: F. Chabod, Lezioni di metodo storico, Bari 1969, pp. 67 ss. 90. Non direi comunque che l’esito razzistico fosse necessariamente intrinseco alla «dottrina» del fascismo, come fu sostenuto, per es., da A. Ventura, La svolta antiebraica nella storia del fascismo italiano, in Antisemitismo in Europa negli anni Trenta. Legislazioni a confronto, a cura di R. Capelli e R. Broggini, Milano 2001, pp. 216-217. Che il fascismo abbia rappresentato una sorta di regressione culturale e politica e ricondotto perciò, per dirla in breve e sommariamente, al di qua della Rivoluzione francese, è vero, e tante volte è stato detto. Ma questa consequenzialità regressiva e reazionaria non può essere considerata come la nota unitaria di tutti i temi che vi s’intrecciarono; e insomma, non perché era reazionario, il fascismo doveva, per questa sua interna necessità, essere antisemita. 91. E. Mondello, «Tre, cinque, dieci volte mamme». Dal sessismo del primo Novecento alla procreazione della razza italiana, in Leggi del 1938 e cultura del razzismo. Storia, memoria, rimozione, a cura di M. Beer, A. Foa e I. Iannuzzi, Roma 2010, p. 67.
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con quello strumento, al fascismo fosse restituita la (presunta) purezza delle origini,92 e, in quella forma, non penetrò in altre zone della cultura italiana: anche se, deve aggiungersi e ribadirsi, il conformismo a cui le leggi del 1938 indussero non pochi scrittori e giornalisti a farsi paladini dell’antisemitismo avesse in più di un caso la sua radice in qualcosa di più profondo, in un pregiudizio cristiano che, rimasto fin lì nascosto e inoperante, ne era stato all’improvviso risvegliato (si pensi al caso di uno scrittore raffinatissimo, di grande intelligenza e sensibilissimo ai mutamento di clima, come Guido Piovene).93 È comunque innegabile che nella storiografia relativa a quel momento della storia italiana la tendenza fu, fino a qualche tempo fa, a non dare rilievo a quanto di razzistico e antisemitico vi fosse nella cultura italiana, a disegnare i contorni di quest’ultima come se a essa sentimenti di quella qualità fossero sostanzialmente estranei e Gramsci avesse visto giusto quando da questi l’aveva giudicata immune.94 Persino nel Profilo ideologico del Novecento di Norberto Bobbio fu indicata la sottovalutazione del fenomeno, che pure aveva dato segno di sé in varie sedi, e, non ultima, in quella, che più avrebbe dovuto attrarre la sua attenzione, degli studi giuridici.95 92. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1993, pp. 139 ss., passim. E cfr. ora A. Osti Guerrazzi, Il nemico perfetto. Il Guf di Roma e l’antisemitismo, in Le radici storiche dell’antisemitismo. Nuove fonti e ricerche, Roma 2010, pp. 159-187. 93. Si veda, al riguardo, il bel libro di S. Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra. Guido Piovene e Eugenio Colorni, Torino 1999, pp. 88 ss. (e si veda, in appendice, pp. 291-293, l’articolo, dallo stesso titolo, che G. Piovene pubblicò nel «Corriere della sera» del 1° novembre 1938, a proposito del libello Contra Judaeos di Telesio Interlandi. L’articolo di Piovene può leggersi anche in Giornalismo italiano, II, 1901-1939, a cura e con Introduzione di F. Contorbia, Milano 2007, pp. 1672-1675. 94. A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, II, Torino 1975, p. 1081. Per il suo giudizio, secondo il quale, partecipando del processo di unificazione nazionale e, perciò, del superamento, che vi si realizzava, del municipalismo e del cosmopolitismo cattolico, agli ebrei doveva accadere di nazionalizzarsi e, perciò, di «disebreizzarsi», Gramsci era partito dalla recensione che Arnaldo Momigliano aveva fatta del libro di Cecil Roth su Gli Ebrei in Venezia, Roma 1933, nella quale lo trovava formulato. Su questa recensione, e anche sul giudizio di Gramsci, mi sono intrattenuto nel mio “Per invigilare me stesso”, pp. 197-198, nel quadro di una ricostruzione del pensiero di Croce sulla «questione ebraica» che fu, a suo tempo, variamente discussa da parte di molti che di quel pensiero erano critici, e che, nell’assimilarvi il mio, non si avvidero che, per parte mia, lo consideravo, e l’avevo giudicato, anacronistico. Ma di questo non occorre parlare in questa sede; dove non posso tuttavia non notare che la conoscenza di quel libro potrebbe riuscire non inutile ai più giovani studiosi e alle più giovani studiose di questa non semplice pagina della nostra storia. 95. M. Beer, La memoria del danno. Le leggi del 1938 nella storia della letteratura italiana, in Leggi del 1938, p. 135.
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L’altra ragione che qui è stata richiamata non è, con ogni probabilità, senza collegamenti con la prima. La documentazione di cui Chabod era in possesso non era, per questa parte, tale da consentirgli un discorso meglio intonato alla complessità della questione. E certo, la cosa sorprende in uno studioso come lui. Della completezza documentaria egli aveva il culto e, talvolta, persino la superstizione: donde, appunto, la sorpresa che, per pronunziare quelle lezioni e metterle su carta, non avesse avvertita la necessità di procurarsene una migliore e più ampia. La velocità difensiva, con la quale la questione fu sbrigata, induce a proporre quello che solo in apparenza potrebbe esser definito come un paradosso. Per un verso, la legislazione razziale del 1938 era presentata come talmente infame che, quando ne ebbe notizia, nella sua gran maggioranza il popolo italiano ritirò il consenso che prima aveva dato al fascismo, dando inizio al suo irreversibile declino. Per un altro, la velocità con cui la relativa questione era trattata sembrava implicare la volontà di farla sparire dalla scena il più presto possibile, senza indagare se il fenomeno del razzismo fascista fosse più profondo di quanto non risultasse da quel che se ne diceva. Fu questa la ragione del duro confronto, che, su questo tema, Chabod ebbe con Arnaldo Momigliano; che, come si sa, tendeva ad anticipare di molto l’antisemitismo fascista, parlava di precoce «nazificazione» dell’Italia e provocava, su questo punto, la veemente protesta del suo interlocutore.96 Che questa duplicità di trattamento fosse espressiva di un disagio, sembra evidente. Nessuno certo ha il diritto di sentenziare su quel che nelle profondità della coscienza di Chabod si agitasse in fatto di ebraismo e antiebraismo, di semitismo e antisemitismo; e sarebbe semplicemente odioso il tentativo che altri facesse di insinuare dubbi sulla forza con cui la politica razziale del fascismo fu da lui condannata. Non per questo potrebbe concedersi che egli avesse ragione nell’assolvere con tanta fretta il popolo italiano dal sospetto di avere, nel fondo, condiviso, se non tutti i temi della legislazione razziale del fascismo, almeno qualcuno di quelli; e che avesse ragione nel dire che in Italia un problema razziale non era mai esistito, e non esisteva, solo perché quel paese non era stato terra di persecuzioni; che, ancora, avesse ragione, nel non concedere nessuna attenzione al serpeggiante antisemitismo (e antiebraismo) che, come si è detto, si era manifestato in alcuni 96. I documenti della polemica sono stati pubblicati e introdotti da me in Chabod, Momigliano, Un carteggio del 1959, pp. 87-149. L’Introduzione si legge alle pp. 3-80. Lo si veda anche, con alcune modifiche, nel mio Filosofia e idealismo, IV, pp. 443-86.
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settori del fascismo ben prima della promulgazione delle leggi per la difesa della razza, e che infine l’avesse nell’asserire che l’«opinione pubblica» allora insorse, e che la Chiesa fece sentire alta e solenne la sua voce.97 In realtà, la voce della Chiesa non risuonò mai così alta e solenne come in questa pagina Chabod diceva. Una condanna pubblica dell’antisemitismo (e antiebraismo) nazista e fascista da parte di Pio XI era attesa, ma non ci fu: anche perché quel papa all’improvviso morì e il suo discusso successore non riprese il tema e, per varie e complesse ragioni, tacque. Non è dato ancora oggi sapere se all’enciclica nella quale aveva in animo di condurre alle conseguenze estreme quel che aveva cominciato a dire con la precedente Mit brennender Sorge, e di pronunziarvi la definitiva condanna del razzismo nazionalsocialista, Pio XI avrebbe data l’ultima mano se a tanto la vita gli fosse bastata. Si sa che l’irrigidirsi delle sue posizioni sul nazismo e anche, di riflesso, sul fascismo italiano, avevano provocato molta preoccupazione in alcuni ambienti della Curia, oltre che nei vescovi tedeschi; e che lo stesso segretario di Stato, monsignor Pacelli, ritraduceva in cauta diplomazia i suoi sdegni impetuosi. Sta di fatto che, quando il papa Ratti morì, il testo dell’enciclica giaceva incompleto sul suo scrittorio, e che, divenuto papa con il nome di Pio XII, Pacelli né riprese l’abbozzo dell’enciclica che il suo predecessore aveva affidata, perché la redigesse, al gesuita americano John La Farge,98 né provvide a scriverne una sua, nella quale il razzismo antiebraico ricevesse un’esplicita e ferma condanna.99 Sono questioni che, sul fondamento di una documentazione pur sempre incompleta a causa della persistente inaccessibilità di quel che al riguardo è contenuto negli Archivi vaticani, sono state molto studiate negli ultimi decenni; e che, certo, si presentano oggi in modo diverso da quello in cui apparivano a Chabod che, oltre tutto, nello scrivere un testo che non destinava alla stampa, obbediva, come si è detto, all’esigenza, non solo di chiarire a sé stesso il cammino compiuto dall’Italia dal primo al secondo dopoguerra, ma anche di prospettarlo al pubblico francese nel modo meno sfavorevole che il rispetto della verità comunque consentisse. Da quali fonti Chabod deducesse che la voce della Chiesa era risuonata alta e solenne nella condanna del razzismo, non è dato sapere. Della Mit brennender Sorge avrà letto il testo e, altresì, il commento che Luigi Salvatorelli ne aveva dato nel suo libro del 97. F. Chabod, L’Italia contemporanea, Torino 1964, p. 103. 98. G. Miccoli, I silenzi e i dilemmi di Pio XII, Milano 2000, p. 162. 99. Ibidem, pp. 314 ss.
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1939 su Pio XI.100 Ma sia questa enciclica sia l’altra, che rimase allo stato di abbozzo, erano opera di quel papa, non del suo successore che, invece di alzare il tono della sua voce nell’esplicita condanna del razzismo nazista e fascista, preferì abbassarlo al punto che quella si rese impercettibile, ed egli cominciò da più parti a esserne rimproverato. Chabod, che nella storia apprezzava l’antichità dei temi e la loro continuità attraverso i secoli, che non disdegnava di impreziosire le pagine sue di storico delle età più recenti con parole tratte da testi appartenenti alle più antiche,101 diceva talvolta che, come nei tempi più bui dell’Alto Medio Evo, declinando il potere civile, gli uomini avevano rivolto il loro sguardo al vescovo, e questo aveva fatto pervenire la sua voce confortatrice ai popoli, così era accaduto a quello di Roma, che, nei giorni del pericolo, aveva guardato ai sacri palazzi e al loro sovrano, come al luogo e all’autore della sua salvezza. Ma, anche qui, furono le emozioni ancora vive di un’età tragica della storia italiana a prevalere sulla realistica valutazione dei fatti e a impedire l’ascolto delle voci assai contrastanti che si erano intrecciate in quei palazzi. Ai quali certo, a Roma, nel tempo della guerra, si guardava con l’ansia che le circostanze giustificavano; salvo che la speranza era che a riceverne protezione fossero, non tanto gli ebrei, quanto piuttosto, in genere, gli abitanti della città. La speranza era, soprattutto, che il prestigio della Chiesa l’avrebbe tenuta al riparo delle bombe; che, invece, a partire dal 19 luglio 1943 a più riprese caddero anche sulle sue case, sì che l’idea che il centro della cristianità sarebbe stato risparmiato anch’essa si incrinò alquanto. Anche nel caso, comunque, che veramente, nella prassi, la Chiesa romana si fosse schierata tutta con decisione, e senza riserve, a difesa degli ebrei, resta che una condanna esplicita e formale, dell’antiebraismo allora non ci fu. Il soccorso e la protezione che, nei conventi e altrove, fu data in quei mesi a molti di essi, furono atti di umanità e di pietà che non toccavano e non mettevano in questione antichi convincimenti; e resta anche che, non unanime fu il sentimento che a Roma e altrove gli italiani nutrirono nei loro confronti nel periodo in cui più cruda e spietata fu, anche da noi, la loro persecuzione. La tendenza ad assolvere l’opinione pubblica, e il popolo, dal peccato di avere acconsentito alle leggi e alle persecuzioni, e, con le 100. L. Salvatorelli, Pio XI, Torino 1939, pp. 192-193. Più largamente, Miccoli, I silenzi e i dilemmi di Pio XII, pp. 153-159. 101. Cfr., per esempio, la citazione di Umberto da Silva Candida (la Chiesa di Roma «hedificata […] super Christum petram per Petrum et Paulum») tratta da P.E. Schramm, Kaiser, Rom und Renovatio, II, Leipzig-Berlin 1929, p. 129, in Storia della politica estera italiana dal 1870 al al 1896, Bari 1951, p. 235.
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eccezioni che potrebbero esser prodotte, di essersi, nel peggiore dei casi, rifugiato nella «zona grigia» dell’elusione e dell’indifferenza, non ha riscontro nella realtà delle cose. E soltanto retorica, non critica e aderente alla realtà, è l’idea di un popolo che, a partire dal 1938, abbandona il fascismo e si dispone a distribuire altrove il suo consenso. Una tendenza discutibile e un’assoluzione troppo facile. Se, come deve ribadirsi, l’idea di popolo e, quando non sia possibile studiarla sui documenti, anche di opinione pubblica, è in storiografia di difficile determinazione, è comunque un fatto che dell’uno e dell’altra facevano parte, non solo coloro che a quelle leggi avevano dato mano, le avevano scritte e ne avevano teorizzato il fondamento, ma anche gli altri che, più o meno convinti, tuttavia o le approvarono o dettero segno di non disapprovarle, e, a protezione di sé stessi, tacquero. Restavano, certo, i dissenzienti. Restavano quelli che, senza poter prendere posizioni pubbliche, condannarono in silenzio le leggi del ‘38 e ne trassero occasione per uscire dal fascismo; per non parlare di coloro che lodevolmente si impegnarono e, per proteggere i perseguitati nelle forme e con i mezzi che la situazione, fattasi con gli anni sempre più difficile, consentiva, accettarono di correre rischi, anche gravi. Restavano, infine, coloro che ebbero il coraggio di far conoscere il loro avverso pensiero, e apertamente sfidarono i pericoli che questa scelta comportava. Ma furono pochi, perché se non fu, come si legge in Zunino, un totalitarismo terroristico, il fascismo possedeva tuttavia una polizia politica efficientissima, alla quale sfuggire era assai difficile. Sta di fatto che l’unico che, al momento della promulgazione delle leggi razziali, ebbe il coraggio di sfruttare la sua fama internazionale per esprimere la sua condanna dei provvedimenti razziali, emanati dal governo fascista fu, che si sappia e come si è accennato, Benedetto Croce; che, al riguardo, disse il suo parere su un giornale svedese e fu violentemente attaccato sulla stampa fascista, che lo definì antitaliano.102 A rendere comunque il rifiuto delle leggi del 1938 meno netto di come Chabod lo presentava, contribuì forse, per linee oblique e in forme indirette, un altro elemento che, per quel che consti, non si suole mettere in campo, e che può indicarsi nella persistente divisione degli italiani dopo l’unità, in quel loro non sentirsi un popolo, che, nel perdurare di antiche rivalità e incomprensioni campanilistiche, faceva sì che paradossalmente l’avver102. Cfr., per questo, il mio “Per invigilare me stesso”, pp. 148-149 e n. 21. Sulla questione, altra documentazine in A. Capristo, “Oltre il limite”. Benedetto Croce e un appello svedese in favore degli ebrei perseguitati, in «Quaderni di storia», 2008, pp. 145-173.
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sione esercitata nei confronti degli ebrei si inscrivesse in quel contesto e lì stemperasse alquanto, per questa parte, il tratto originario dell’«odio antico», alimentato dalla Chiesa cattolica. È quello che potrebbe definirsi come il «razzismo regionale» che, a partire dal 1860 o, se si preferisce, dal 1870, gli italiani dovettero sperimentare in sé, ed esercitarono gli uni nei confronti degli altri. Fu il senso di superiorità che gli uomini del Nord, nel quale il Risorgimento aveva avuto il suo inizio, mostrarono nei confronti delle più arretrate popolazioni meridionali, il cui ceto dirigente, e non solo quello, non mancò tuttavia di ricambiare, talvolta con gli interessi, quel che riceveva. A favorire questo stato di cose fu, del resto, per decenni, non solo la ignoranza che gli uomini del Nord mostrarono del Sud, e quelli del Sud degli uomini del Nord; con le diffidenze, i pregiudizi, le incomprensioni che il reciproco contatto provocava e che durarono a lungo, tanto che nemmeno ai giorni nostri si può dire che siano venuti meno (e non solo perché da parte di molti si lavori a restaurarle in una prospettiva della quale si dimentica talvolta, o si vuol dimenticare, l’ispirazione cupamente clericale e reazionaria). Fu altresì la questione della lingua, dalla quale Alessandro Manzoni fu angustiato negli ultimi suoi anni, e intorno alla quale non mancò di spendere il suo ingegno e di mettere per iscritto il suo parere;103 che si potrà, in questo campo, apprezzare più o meno a seconda che il linguaggio sia o no considerato come un sistema astratto di segni o come invece l’organo vivente dalla fantasia, ma che in un punto fondamentale non potrà essere sottovalutato o messo da parte: in quello che concerne il fatto indiscutibile che, alla resa dei conti, la lingua è uno strumento di comprensione e, se non la si possegga, un ostacolo, e che gli italiani non si capivano l’un l’altro ed erano come stranieri abitanti nella stessa terra. L’italiano non era allora la lingua di tutti, lo strumento della reciproca comprensione e conoscenza; e i dialetti erano altrettante barriere, che era impossibile abbattere o anche aggirare. Erano, nella loro peculiarità, strumenti potenti che, nell’impedire la comunicazione, alimentavano i pregiudizi, le ostilità, fra le quali anche quella provata nei confronti degli ebrei poteva accadere, come si è detto, che, nell’assimilarsi alle altre, per un verso perdesse la sua originaria virulenza religiosa, ma, per un altro, tuttavia si conservasse. In questa situazione, anche dopo che i ghetti furono aperti e, come a liberi cittadini, agli ebrei fu consentito di stabilire le loro abitazioni dove potessero e più a loro piacesse, il sentimento che li riguardava fu dun103. A. Manzoni, Della lingua italiana (1852), in Opere, III, a cura di M. Barbi e F. Ghisalberti, Milano 1950, pp. 223-224.
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que, per certi versi, analogo a quello per il quale le popolazioni delle regioni italiane si contrapponevano le une alle altre nel segno della diffidenza e di malcelate ostilità, favorite da una lingua che restava estranea al quotidiano modo di parlare. Quando e dove si fossero perpetuate, l’avversione e la diffidenza avevano perduta ormai la loro più antica radice, e, piuttosto che nell’odio e nel fanatismo religioso alimentanti il razzismo, si esprimevano in un senso, vago e medio, di estraneità. Quell’antico odio si era infatti come stemperato e decantato in una sorta di abitudine, nella estrinseca ripetizione di formule e di modi di dire, che solo di rado passavano dentro riattingendovi l’antico vigore. E tuttavia, non per questo era diventato meno pericoloso. Se, per un verso si era depotenziato, per un altro si era come cronicizzato in uno strato profondo delle coscienze, da cui era possibile che, nella forma dell’odio o dell’atonia morale, risorgesse ogni volta che si fossero determinate circostanze che avessero contribuito a risvegliarlo e a renderlo attivo. Che è appunto quel che accadde nel 1938 e nei successivi anni. Certo, chi, in un momento della storia di un paese complesso e variegato come l’Italia, studia cose come queste, non può permettersi voli sintetici. Deve stare sulla terra e considerare, nelle singole regioni e città, l’atteggiamento degli italiani nei confronti degli ebrei; che fu certamente diverso a Trieste o a Ferrara rispetto, per esempio, a Roma, dove la presenza del papa e del suo governo avevano fatto sì che, ribaditi nella loro colpevole diversità, gli ebrei fossero tuttavia tollerati alla stregua di una stravaganza della storia e della natura nell’atto in cui, per esempio, divenivano talvolta l’oggetto di una benevolenza feroce, e decisamente sgradevole: quella, per esempio, che trovò la sua espressione in Giuseppe Gioacchino Belli. Ma per un altro verso, questo significava che, per popolazioni a cui da secoli era stato comunque insegnato che gli ebrei erano loro i responsabili della morte di Cristo, e che, quanto meno, nei loro confronti si dovesse pur sempre stare in guardia, la diffidenza, che non era stata vinta, era sempre, come ho detto, passibile di essere riconvertita in odio, – in odio religioso, e assai diverso, quindi, dall’ostilità regionale e campanilistica a cui, per un altro verso e in altre situazione, poteva essere, sia pure con cautela, paragonato. Se questa riconversione, in Italia, avvenne in proporzioni assai più modeste che altrove, e coinvolgendo un numero assai più limitato di persone, le ragioni sono certamente tante; e, dopo aver richiamata l’attenzione su quella che si è esposta nelle precedenti linee, deve riconoscersi che ci vorrebbe tuttavia uno storico autentico per individuarle e disporle nella giusta prospettiva. Anche chi,
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come lo scrivente, non abbia queste caratteristiche e alla storia guardi, talvolta, soltanto attraverso la storiografia, il pensiero politico e la stessa filosofia, crede tuttavia di potere e dover insistere su quel che del resto è, o gli sembra, ovvio. E cioè sull’estrema complessità dei sentimenti nutriti dagli italiani, e naturalmente non da questi soltanto, nei confronti degli ebrei. Quanto più, talvolta, questi sentimenti furono e sono benevoli, solidali, ispirati al criterio dell’ammirazione, con stento tanto più grande riuscirono e riescono a nascondere il loro diverso segno: come sempre, del resto, accade con le cose esagerate, che hanno in sé stesse la loro punizione e rivelano quel che vorrebbero nascondere. E non parliamo poi delle elusioni messe in atto da chi distingue fra ebraismo e sionismo, fra la solidarietà e la comprensione che si debbono agli ebrei e quelle che non si debbono, se non di volta in volta, al loro Stato, e mai comunque al pensiero che ha condotto alla sua ricostituzione in Palestina. Che, come ogni altro, lo Stato d’Israele meriti di essere criticato quando criticarlo sia giusto, è altrettanto ovvio del fatto che non sempre e comunque deve esserlo, che la critica può e deve riguardare i suoi determinati comportamenti, non la sua esistenza in quella parte del mondo, che nell’esercitarla si dovrebbe, non fosse che per ragioni di buon gusto storiografico e politico, evitare lo slogan dei «perseguitati che si fanno persecutori», perché altrimenti è alla presunta sostanza demoniaca presente nella decisione di tornare nella terra dei padri, che si seguita, lo si sappia o no, a far riferimento, ed è difficile poi sostenere che non sia stata una forma ambigua e latente di antisemitismo e antiebraismo a dettare quel giudizio critico e negativo. Se è così, l’opinione corrente sulla relativa estraneità all’antisemitismo e antiebraismo dell’Italia postunitaria dev’essere dunque accolto con cautela. Si dà infatti un antisemitismo strisciante che, formatosi nei secoli, ha costituito, e ancora costituisce, una sorta di seconda coscienza, nella quale si è depositato, più o meno trasfigurandosi, l’insegnamento della Chiesa; e basti, fra questi, considerare il pregiudizio che si rivela e prende forma, non solo nella scarsa attenzione che, per un tratto assai lungo del secolo scorso, si è dedicata alla cultura ebraica nei suoi aspetti più significativi, ma anche nell’idea della superiorità del cristianesimo, intervenuto, nel migliore dei casi, a inverare quel che nella religione degli ebrei non si era ancora aperto alla luce del sole. Si pensi, per esempio, al modo in cui anche nella storiografia laica sulle origini cristiane fu spesso impostata, nella prima metà dello scorso secolo, e in ripresa del resto di una lunga tradizione di pensiero, la questione del rapporto del cristianesimo
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con l’ebraismo, e come quello fosse appunto considerato alla stregua del perfezionamento e dell’inveramento di questo. Ma si lasci questo discorso, che è materia per specialisti. E, del resto, è tempo ormai di concludere. 12. La conclusione può essere schematizzata in due punti. In nessun momento della sua vita, Chabod fu, nel senso autentico della parola, fascista.104 Non lo fu nemmeno quando forse, per qualche momento, pensò, se mai sul serio lo pensò, che, se avesse data la sua opera al mantenimento della pace fra le nazioni, lo si sarebbe potuto tollerare. In nessun momento, e nemmeno, fra l’altro, nel secondo dopoguerra, a libertà politica riconquistata, egli poté allontanarsi dai suoi temi e dai suoi argomenti, che, in una prospettiva diversa dalla sua, anche al fascismo appartenevano, sì che trattarli implicava, necessariamente, che il contatto non poteva essere evitato. Chabod studiò il problema dello Stato e della sua assenza, in Italia, per tutto l’arco della così detta storia moderna. E questo era un tema suo come lo era del fascismo, che pretendeva di aver restaurato lo Stato e di averlo restituito, intero e vitale, alla nazione secondo il vero spirito del Risorgimento. Era un tema suo, come anche degli uomini che gli erano stati maestri e degli altri che gli furono compagni nella ricerca. Ma la comunanza del tema non implicava la comunanza né dei criteri né delle conclusioni: contribuiva, se mai, a far risaltare le differenze (sempre che si avesse avuta attenzione sufficiente a non lasciarsele sfuggire). Chabod studiava la questione della Realpolitik e della sua inesorabile tendenza a infrangere gli equilibri che si fossero in precedenza stabiliti: la studiava, e di questo suo carattere prendeva atto. Ma con non minore passione studiava il tema dell’equilibrio e delle varie idealità pacifistiche che si erano succedute lungo il corso dei secoli moderni. L’ideale del fascismo era la conquista, e la potenza come premessa indispensabile alla sua realizzazione. L’ideale di Chabod era la pace, l’equilibrio delle forze in un sistema nel quale ciascuno avesse il suo e che soprattutto, perciò, sapesse garantirla. Sapeva che un equilibrio siffatto non poteva essere conseguito per sempre. Tanto più, perciò, lo auspicava. Chabod era uomo di frontiera: stando sul confine, aveva scelto la parte italiana, e a questa intendeva restare fedele, perché la nazione era stata da lui voluta, non gli era stata imposta dalla natura. Sapeva che l’idea della nazione aveva in sé stessa il suo rischio degenerativo, perché non era in grado di garantire una sintesi che fosse inclusiva anche dell’altro termine, l’uma104. Giudica ora in modo analogo anche G. Galasso, Storici italiani del Novecento, Bologna 2008, p. 101.
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nità, al quale, nei casi migliori, si dirigeva per realizzarvisi al più alto grado. Ma per questo, proprio perché, meineckianamente, era consapevole che la produzione della sintesi costituiva un problema forse insolubile, tanto più si teneva lontano dai fascisti che la sintesi indicavano senz’altro in un termine dell’antitesi: nella nazione, dilatata a principio di imperialismo. Che poi, in un atteggiamento come il suo, il desiderio della pace si esprimesse in forme di cautela e, in ultima analisi, di conservatorismo politico, è vero. Ma il suo fu un conservatorismo alla Burckhardt: quanto di più lontano possa immaginarsi da ogni forma di fascismo. Il secondo punto è costituito dalla sottovalutazione dell’antisemitismo e antiebraismo105 fascista, ossia dalla troppo semplice proclamazione della sua estraneità sostanziale all’anima profonda della nazione italiana. Si è detto che la sua era una sottovalutazione, e si è cercato di spiegarne la genesi, nell’atto in cui si è escluso che, soggettivamente, Chabod avesse qualcosa a che vedere con l’antisemitismo e con il razzismo. Le argomentazioni che precedono aprono un delicato problema; che certo non ci metteremmo in grado di risolvere se pretendessimo, quella sottovalutazione, di farla dipendere da sue antiche inclinazioni filofasciste. Se fosse così, e sul serio Chabod fosse stato filofascista, chi, per contro, si percepisse come antifascista senza peccato, ossia senza soluzioni di continuità nella sua esistenza, potrebbe sentirsi a posto con la sua propria coscienza. La colpa sarebbe assegnata; e anche il merito. E invece non è così. In quel modo non si sarebbe dato se non un contributo all’ipocrisia. Mantenendo salda la capacità del giudizio, possiamo sentirci e dirci estranei all’ebraismo come al cristianesimo, come a tutte le religioni rivelate. Ma questo non significa che, nel guardare a fondo nella coscienza nostra di uomini dell’Occidente, non dobbiamo cercare di sorprendere la presenza dei pregiudizi che, lasciati senza controllo e senza critica, potrebbero alimentare nuove tragedie.
105. Sulla tendenza, prevalente già nel diciannovesimo secolo, a confondere queste due espressioni, che a rigore non hanno significano (la Chiesa cattolica fu ferocemente antiebraica o antigiudaica, ma non antisemita, chi fa professione di antiebraismo può benissimo non essere antisemita, basti pensare ai filopalestinesi che, se sono tali, antisemiti non possono essere) cfr., per es., S. Timpanaro, La “fobia romana” e altri scritti su Freud e Meringer, Pisa 1992, p. 85
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1. Nello studio che ho dedicato al tema del rapporto intrattenuto da Giovanni Gentile con l’ideologia razzistica del nazionalsocialismo, ho sostenuto: a) che era impossibile che questa fosse condivisa da lui che, teorico dell’atto puro e sostenitore perciò di una filosofia intrinsecamente avversa a ogni forma di naturalismo, e, a fortiori, di razzismo, infatti non la condivise; b) che alle convinzioni teoretiche, esplicite nel sistema, corrispose, nel comportamento politico, un atteggiamento non conforme a quelle premesse, un comportamento timido, reticente, che o rinviava al domani la decisione relativa a quel che, oggi, lo feriva e lo offendeva, o lo affidava a qualche suo intervento al vertice, che non sortì mai gli effetti sperati; c) che, ad assolverlo dal peccato di timidezza e di reticenza, non basta l’opera che egli spese nel tentativo di proteggere i molti ebrei, tedeschi e italiani, che, a partire dal 1933 e, quindi, dal 1938, si rivolgevano a lui per esserne in qualche modo aiutati a sopravvivere; d) che, di fronte allo scempio delle legislazioni razziali, per il rispetto che doveva, innanzi tutto alle sue convinzioni, il suo avrebbe dovuto essere un deciso gesto di rottura che, apertis verbis, comportasse l’uscita dal fascismo. Queste cose, che possono leggersi in varie sedi: ne La fedeltà e l’esperimento,1 in almeno due (il primo e il quinto) dei saggi raccolti in Filosofia e idea lismo, II, Giovanni Gentile (1996), ne Le due Italie di Giovanni Gentile (1998), presuppongono la distinta valutazione, da una parte del pensiero, da un’altra del comportamento pratico; da una pare della «teoria generale dello spirito come atto puro» e delle sue varie, ulteriori implicazioni, da un’altra dell’uomo che, oltre che in quelle, viveva e agiva nella politica, 1. Bologna 1993, pp. 103-105.
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nella scuola, nelle varie istituzioni culturali alle quali presiedeva. Dedurne, come si è fatto, che il discorso da me condotto si sia aggirato prevalentemente nell’ambito della teoria, e, oltre che sul filosofo, non si sia soffermato, com’è stato scritto, su «Giovanni Gentile 1875-1944»,2 avrebbe perciò dovuto essere impossibile. Allo stesso modo, direi, che impossibile, una volta che si fosse riconosciuta la verità di quanto qui su ho schematizzato, avrebbe dovuto riuscire la formulazione del rilievo secondo cui, nei miei scritti, all’antirazzismo di Gentile sarebbe stata conferita un’intensità e drammaticità che gli furono invece estranei, non avendo altrettanto rilievo nel suo pratico comportamento. Ma, sia pure in modo non sempre chiaro, è quel che, presso alcuni, è avvenuto. È necessario richiamare in breve quel che, per intendere il rapporto che legò Gentile al fascismo, è essenziale. Per dirla in breve, e per riprendere, senza però condividerla, un’espressione usata da Croce nella sua polemica con lui: non credo che, in Gentile, il «sermon prisco» nascondesse nelle sue pieghe il «parlar de’ moderni»,3 ossia che fra il 1911 (anno della memoria su L’atto del pensare come atto puro) e il 1924 (anno della pubblicazione del secondo volume del Sistema di logica) il germe del fascismo si fosse già insinuato nella sua filosofia e che, com’è stato immaginosamente detto, l’incontro con Mussolini fosse scritto nelle «essenze»4 che si rendono esplicite, secondo necessità, nella storia degli uomini. Ritengo che fra attualismo e fascismo non vi sia alcun rapporto, e che, per quest’ultimo, al contrario di quel che concerne il naturalismo e il razzismo, il ricorso alla teoria non valga. Se la si studia, ci si accorge che, in tanto la teoria dell’atto deduce da sé stessa l’esclusione della «immedia natura» in tutte le sue forme e conseguenze, in quanto, per escluderla, la include, e proprio perché la include, la esclude. Ne consegue che, comunque poi in sede teoretica si giudichi intorno a questa modalità concettuale, del naturalismo (e del razzismo, che ne è la forma degenerata) l’attualismo può e deve essere definito come la negazione. Il caso del fascismo invece è diverso. Nella teoria dell’atto puro non se ne trova né l’affermazione (come se si dicesse: «attualismo e fascismo sono lo stesso») né la negazione (come avverrebbe se, per affermare sé stes2. G. Rota, Il filosofo Gentile e le leggi razziali, in «Rivista di storia della filosofia», n. s., 42 (2007), p. 270. 3. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1942, p. 259. 4. A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per un’interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna 1990, pp. 13-14, 283 ss., passim. E cfr. Il suicidio della rivoluzione, Milano 1989.
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so, l’atto dovesse, appunto, negarlo). Fra attualismo e naturalismo si dà un nesso fondato sull’inclusione/esclusione. Fra attualismo e fascismo non si dà, invece, nessun nesso: non si dà se non disparità. Sono due cose diverse, anzi, come ho detto, disparate; e il loro incontro nella persona empirica di Giovanni Gentile si determinò in forza di ragioni non riferibili alla teoria: – a una teoria che, oltre tutto, non era, per la logica che chiudeva in sé, tale da poter essere svolta in una filosofia politica.5 Del resto, Gentile fu sempre estremamente cauto nel definire come fascista, o orientata nella direzione del fascismo, la sua filosofia dell’atto puro. Dal proclamare le identificazioni che, nella sua scuola, ebbero corso soprattutto, direi, a opera di Ugo Spirito, si tenne in sostanza lontano. Se diventò fascista, e tale rimase fino alla morte, la ragione dev’essere ricercata altrove. Non nella indistinzione della teoria e della pratica, e in ciò che ne sarebbe derivato, nell’attivismo, nell’irrazionalismo, nella presunta risoluzione dell’atto del pensiero nell’oscuro spasimo vitale; che sarebbero conseguenze necessarie della teoria, se, poniamo, il suo assunto fosse stato non che, tanto il pensiero è volontà quanto la volontà è pensiero, ma che questo si risolva in quella, intesa perciò come inadeguatezza, come fremito, appunto, e come cieco spasimo vitale. Non nelle «essenze» che determinano il destino degli incontri epocali: quello, cioè, per il quale, fin dall’inizio, la teoria dell’atto puro era attesa dal fascismo, e Gentile da Mussolini. Non, infine, nella teoria del diritto alla quale, solo nel 1931 e nel 1937, Gentile aggiunse la trattazione specifica dello Stato, senza riuscire a dimostrare la pertinenza di questa a quella: ossia alla teoria del diritto che, in quanto tale, nella memoria che, nel 1915, le dedicò, si presentava, per dirla in breve, come l’eterna dissoluzione del suo oggetto;6 alla quale, nemmeno, nel suo ultimo libro, in Genesi e struttura della società, l’idea dallo Stato riuscì a sottrarre sé stessa. Per sforzi che, nel tempo, Gentile possa aver compiuti per trovare nella teoria la radice della sua adesione al fascismo, resta che, in senso teoretico, questa radice non c’è, e che, posto che fosse idonea a dar luogo a una teoria della politica e dello Stato, per trovarne una, si deve ricercarla, e trovarla, 5. Cfr., per questo, che è un punto assai delicato, sul quale non posso fermarmi qui, quel che ho scritto ne Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna 1998, pp. 273-315. Obiezioni come quelle che mi sono state rivolte da F. Perfetti, Giovanni Gentile: una filosofia per lo Stato etico, premesso a G. Gentile, Discorsi parlamentari, Bologna 2004, p. 45 n. 79, appartengono alla retorica, non alla critica. 6. Mi riferisco ai Fondamenti della filosofia del diritto (1915). Debbo rinviare ancora, al riguardo, a Le due Italie di Giovanni Gentile, pp. 263-315.
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nell’idea che egli s’era fatta della storia d’Italia e della cultura che, a partire dalla età dell’Umanesimo, o da quella, addirittura, del Petrarca, aveva segnato il suo svolgimento. Se la differenza che passa fra l’assegnazione dell’antinaturalismo e dell’antirazzismo alla teoria dell’atto, e la non assegnazione a questa del consenso dato al fascismo, è chiara, e fra queste due asserzioni non c’è né contrasto né, meno che mai, contraddizione, allora deve evitarsi di rimanere succubi delle facili identificazioni, e di scorgere il segno del pensiero dove non c’è, in effetti, se non assonanza di parole. Ricordo che quando il mio libro su Le due Italie fu presentato a Roma nella sala Igea dell’Enciclopedia italiana, Emilio Gentile, che era fra i relatori, osservò che una certa affinità di tono,7 una tal quale «aria di famiglia», fra la «teoria generale» e l’attivismo, tra l’atto puro e il primato dell’azione rivendicato da certo fascismo delle origini, poteva e doveva essere notato da chi si fosse disposto a tracciare, nelle sue linee generali, il quadro geistesgeschichtlich di quell’età. E, nel rispondergli, io gli osservai che della finezza con la quale 7. Cfr., per es., quel che E. Gentile aveva scritto ne Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), Bologna 1996, pp. 405 ss., dando un’equilibrata interpretazione dell’incontro tra l’attualismo e il fascismo, ma non rinunziando ad attribuire al primo il «misticismo dell’azione» (p. 407) e a cogliere in questo la ragione dell’incontro. Aggiungo che in un suo libro più recente, Fascismo. Storia e interpretazione, Bari 2002, pp. 286-287, Gentile ha scritto che «nel caso di Giovanni Gentile […] si può certamente contestare la tesi che definisce l’attualismo una filosofia «fascista» o destinata a diventare «fascista»: ma ci sembra difficile negare che l’adesione di Gentile al fascismo e la sua partecipazione alla definizione dell’ideologia totalitaria avvenne in piena coerenza con il suo modo di concepire attualisticamente la vita, la politica e il destino dell’Italia». Poiché non lo cita, non so se Gentile avesse qui presente, e di mira, il libro su Le due Italie. Mi sembra comunque che al fondo della sua tesi vi sia una qualche esitazione, perché, dopo aver ammesso che sia contestabile la tesi che definisce «fascista», o destinata al fascismo, la filosofia dell’atto puro, il nesso tra fascismo e attualismo è affermato, subito dopo, nelle linee in cui egli dice che l’adesione del filosofo al fascismo avvenne in piena coerenza con il suo modo di concepire «attualisticamente» la vita. Non so se, per E. Gentile, concepire «attualisticamente» la vita sia la stessa cosa, o sia meno, che teorizzare la filosofia dell’atto. In questo secondo caso, e cioè se, con quell’avverbio, egli avesse inteso dire che c’è uno stile nell’attualismo che, non avendo in senso stretto a che fare con la sua strutturazione teoretica, lo si può intendere come il suo colore culturale, il suo accento, e così via, potrei anche dirmi d’accordo con lui. Ma a patto che, appunto, si distingua, e si consideri che, certo, Gentile potrà sì aver piegato il suo «sermon prisco» al «parlar de’ moderni», ma non già risolto il primo nel secondo: allo stesso modo che non ci fu, nell’intrinseco, attualismo in quanti allora parlassero al modo dei «moderni», ossia degli «intellettuali» fascisti, che, anzi, furono spesso, come si leggerà fra breve in un bel libro di Alessandra Tarquini, accaniti nemici del filosofo. [Il libro è stato nel frattempo pubblicato: A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti, Bologna 2009].
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aveva dipinto, e sarebbe eventualmente tornato a dipingere, quel quadro non avevo alcuna ragione di dubitare, perché conoscevo bene il talento con il quale aveva composti i suoi scritti sull’ideologia del fascismo: salvo, però, che il tono è il tono, il pensiero è il pensiero, e che comunque, a differenza di quanti, a cominciare da Faust, sostennero che im Anfang war die Tat, per parte sua Giovanni Gentile aveva invece delineata la tesi opposta, e con tale radicalità che, per lui, si sarebbe dovuto dire, non che all’inizio stava il pensiero, ma addirittura che l’inizio era esso il pensiero. Con il che, da una parte avrebbe dovuto cadere la tesi di chi nell’attualismo avesse preteso di riconoscere il volto filosofico del futurismo, dell’irrazionalismo, del vitalismo, e, da un’altra, prendere vigore quella dei futuristi veri, dei Carli, per esempio, e dei Settimelli,8 che, non senza buone ragioni, dal loro punto di vista, in lui vedevano un discepolo dell’odiato idealismo germanico, e un nemico perciò, tanto più subdolo, quanto più ostentante amicizia. Per quante affinità di tono si vogliano e si possano trovare tra i futuristi e Gentile, le differenze concettuali rimanevano non meno grandi del disprezzo che i primi ostentavano nei confronti del secondo.9 2. In quel che ho scritto, se capisco bene, Rota ha apprezzato l’importanza data alla questione del nazionalsocialismo, avendo altresì trovato che le «riflessioni» svolte da me nel libro in cui ho ripercorso la mia «esperienza intellettuale» sono «tanto più interessanti in quanto assai tormentate, avendo per oggetto un filosofo e una corrente di pensiero» da me «frequentati con passione».10 Il nesso che egli stabilisce fra il tormento e la passione è a tal punto suggestivo, che, certo, se non l’avesse riscontrato in me, che di esserne considerato il soggetto non sono meritevole, varrebbe forse la pena che mi ci soffermassi per delineare il carattere, non della mia, ma della sua storiografia, così aperta, in certi casi, alla messa in scena di simili drammi intellettuali, e così chiusa, in certi altri, a riconoscerli là dove (in Gentile, per esempio) avessero, quanto meno, accennato a prodursi. La tentazione di intraprendere questa via non avrebbe d’altra parte nessuna ragion d’essere, e apparirebbe come il frutto di un equivoco, se non fosse vero che questo riconoscimento non ha impedito a Rota di aggiungere quel che, a suo giudi8. Su Carli e Settimelli, cfr. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista (1918-1925), pp. 171-172, 343-345, passim. 9. Sui futuristi in politica, cfr. ora il libro di E. Gentile, “La nostra sfida alle stelle”. Futuristi in politica, Bari 2009. 10. Rota, Il filosofo Gentile, p. 266.
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zio, riveste importanza essenziale; e cioè, che, avendo io proceduto soltanto per linee interne, e avendo perciò ricavata la conseguenza dell’antinazismo e antirazzismo gentiliano dalla premessa teoretica dell’antinaturalismo, a me sarebbero mancate la possibilità, la capacità e, magari, la volontà di verificare questa disposizione intellettuale sul piano della prassi e del concreto comportamento. Un giudizio, questo, che, lasciandomi perplesso, mi ha ancora una volta indotto a dubitare della mia capacità di esporre in modo comprensibile le tesi che mi sono proprie, e, nella fattispecie, quella che, ieri come oggi, si enunzia rilevando la difficoltà, da Gentile sempre incontrata, nel trasferire la sua «passione» antinaturalistica e antirazzistica dal piano della teoresi a quello della prassi e della pubblica testimonianza politica. Di non essere stato capito in questo non troppo arduo passaggio avrei, del resto, tanto più ragione di meravigliarmi, in quanto, dicendo del mio modo, tutto interno, e attento soltanto alle teorie, di trattare la questione del nazionalsocialismo, Rota sembra non aver tenuto conto del pensiero che, a ragione questa volta, egli stesso mi attribuiva là dove parlava del «fermo biasimo» (io, per la verità, nel passo da lui citato, avevo detto: «ferma e drastica condanna») da me pronunziato a proposito di questa mancata metabasis. Quel biasimo, e quella condanna, non si saprebbe in effetti a che cosa si dovrebbe riferirli se il loro oggetto non consistesse, e non fosse, perciò, individuabile, nell’incapacità, di cui Gentile dette continua prova, di essere, nel pratico comportamento, in linea con quel che gli occhi della mente ben discernevano nel suo carattere. Insomma, certamente a ragione, Rota constata che Gentile non s’impegnò in pubblico a sostenere tesi antirazzistiche e antinazionalsocialistiche, non scrisse libri o articoli nei quali le conseguenze politiche del suo antinaturalismo fossero tratte senza ambiguità, non testimoniò le sue convinzioni. Insomma, non si decise mai, anche quando forse ne ebbe la tentazione, a mandare al diavolo il fascismo che, essendo secondo lui, nelle sue ragioni più autentiche, cosa diversa dal, e anzi opposta al, razzismo, aveva tradito sé stesso quando si era collocato sulle aberranti posizioni del nazionalsocialismo. Ma io che cosa avevo scritto di diverso da questo? La differenza che sembra tuttavia sussistere, fra quel che scrissi io e quel che ora scrive il mio interlocutore, è che io parlavo di incoerenza pratica rispetto alla premessa teorica, ed egli dà invece l’impressione di voler ricavare, dalla timidezza e dall’indecisione pratica, il dubbio sulla qualità della premessa, senza, d’altra parte, fornire, e poter fornire, alcuna prova che le cose stessero, nel pensiero, in modo diverso da come, con tanti altri, io ho ritenuto che stiano.
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Anche, perciò, mi è sembrato sorprendente, che Rota si sia tanto impegnato a impartirmi una bella lezione sulla profonda differenza che, a questo riguardo, divise, da quella di Gentile, la condotta di Croce. Tanto poco, per la verità, almeno in questo campo, avevo bisogno della sua lezione, che molte delle cose che egli scrive per delineare i tempi e i modi di quella condotta erano state messe insieme da me in un capitolo del libro Per invigilare me stesso, dedicato quasi vent’anni fa ai crociani Taccuini di lavoro, che, con l’eccezione di quelli pubblicati dallo stesso autore con il titolo Quando l’Italia era tagliata in due (1946) e di alcuni passi, riguardanti La filosofia di Giambattista Vico e la Storia d’Italia, e resi noti da Fausto Nicolini,11 giacevano inediti nei sei grossi volumi manoscritti che li contengono. In lunghi mesi di lavoro, svolto in una sala della Biblioteca Croce a Palazzo Filomarino, li lessi tutti, ricavandone quel libro, dove, con le altre cose che le si connettono, la questione ebraica fu studiata e ricostruita in relazione a quel che allora quel filosofo ebbe il coraggio civile di fare, meritandosi contumelie e pubbliche minacce. Tanto poco, per conseguenza, avevo bisogno che mi si ricordasse il modo con cui Croce dette pubblica testimonianza della sua civile protesta che fui io (mi dispiace di darmi questo riconoscimento, ma le cose stanno così) il primo a documentarla.12 E, al riguardo, mi torna in mente quel che accadde qualche anno fa, quando, avendo qualcuno sollevata, per l’ennesima volta, la questione dell’atteggiamento tenuto da Pio XII di fronte alla persecuzione degli ebrei conseguita alla promulgazione, in Italia, delle leggi sulla difesa della razza, qualche autorevole uomo politico, noto per la sua tetragona capacità di resistere e di durare e di passare indenne fra le tempeste, prese la penna per scrivere: «e allora Benedetto Croce?», con ciò intendendo che, se il papa aveva taciuto, al filosofo, che era senatore del Regno, sarebbe spettato di organizzare in Senato la resistenza e l’opposizione, che invece non vennero perché anche lui tacque in quella sede, sì che prendersela con Pio XII non era giusto. La provocazione non era delle più felici, dal momento che il comportamento non coraggioso di x non si riscatta confrontandolo con il comportamento, giudicato non coraggioso anch’esso, di y, al quale, se mai, 11. F. Nicolini, L’“editio ne varietur” delle opere di Benedetto Croce, Napoli 1960, pp. 440-443, per il Vico, e Il Croce minore, Milano-Napoli 1963, pp. 164-167 (ancora sul Vico), 167-169 (per la Storia d’Italia). 12. “Per invigilare me stesso”. I Taccuini di lavoro di Benedetto Croce, Bologna 1989, pp. 179 ss.
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mestamente si aggiunge. Ma il punto sul serio deprimente dell’aneddoto è che allora, da parte di uno che non godeva del beneficio della giovinezza, del Senato fascista si parlasse come di una libera Camera, e da parte di non pochi, in là con gli anni anch’essi, si desse ragione all’autorevole obiettante e torto a me, che ero intervenuto, su un giornale, nel tentativo di rimettere le cose in ordine, e di assegnare a ciascuno il suo. Dunque, quelle di Croce e di Gentile sono al riguardo, come scrive il Rota,13 due storie diverse? Certo che lo sono. Ma, mi creda, questo lo sapevo anch’io che, avendo dato risalto al coraggio di Croce, non ho mai mancato, da quando per la prima volta scrissi di Gentile, di «condannarne», in lui, che sulla questione della razza non pensava in modo diverso,14 l’assenza.15 A chiunque dell’attualismo abbia qualche conoscenza, questa asserzione suonerà ovvia. Non vedo, quindi, perché Rota abbia tratto motivo di stupore dalle pagine nelle quali ho mostrato la convergenza di alcune tesi storiografiche svolte da Gentile in un saggio, Filosofia italiana e tedesca, nato, nel 1941, come una conferenza da tenersi in un ciclo organizzato da Jolanda de Blasi per il Lycaeum di Firenze, con tesi di Benedetto Croce. Contrariamente a quel Rota pretende, criticare, come qui Gentile fece, l’idea romantica della nazione significava criticare l’idea tedesca; e non in modo generico, ma in modo specifico. Furono infatti pensatori tedeschi quelli che la misero al mondo e la connotarono in termini naturalistici, la legarono al suolo e al sangue, facendo sì che essa si ponesse in obiettivo contrasto con quella che fu teorizzata in Francia, e anche, come si sa, in Italia. Da una parte Herder, se è lecito semplificare, da un’altra Renan, Mazzini, Pasquale Stanislao Mancini; da una parte la tradizione tedesca, da un’altra, con l’eccezione di Francesco Crispi, quella franco-italiana, come Federico Chabod ebbe a far vedere in pagine che non dovrebbero essere 13. Rota, Il filosofo Gentile, p. 278. 14. Poiché il Rota rileva che essenzialmente da premesse filosofiche io avrei ricavato l’antirazzismo di Gentile, vorrei ricordare che molte sono le testimonianze orali che potrei addurre a conferma dell’avversione che egli provava per questo aspetto della politica del fascismo. Ma preferisco citare la testimonianza di E. Garin, Intervista sull’intellettuale, a cura di M. Ajello, Bari 1997, p. 39, il quale parla, non solo dell’aiuto da lui dato a «dotti tedeschi come P.O. Kristeller», ma anche della sua profonda avversione al razzismo fascista». Ma vedi, comunque, infra. 15. Cfr. La fedeltà e l’esperimento, Bologna 1993, pp. 104-105. In Visitando una mostra. Considerazioni, ricordi, polemiche, in Filosofia e idealismo, II, 30 ss., la questione è anticipata al 1924, ossia al tempo dell’assassinio di Giacomo Matteotti.
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dimenticate,16 anche se il quadro che egli allora tracciò potrebbe oggi essere arricchito, in qualche caso complicato e reso più complesso.17 Rota dice che nelle pagine di Gentile non è presente la «consapevolezza», nella cultura tedesca, «della strutturalità del razzismo e dell’antisemitismo»,18 e che questa consapevolezza è prerogativa di Croce, del quale io, dice con espressione non proprio elegante, lo avrei messo «a rimorchio». Ma, confermando quel che ho sempre pensato e detto, e cioè la coraggiosa nettezza con la quale Croce colse quel nesso e, sulla «Critica», colpì, con parole esplicite, la «degenerazione razzistica» della cultura tedesca; ribadendo che, nell’alludere senza consenso a quel fenomeno, Gentile fu, senza confronto, meno audace, da una parte, e, da un’altra, non coerente nel non trarne le conseguenze sul piano politico, sarebbe segno di pura faziosità non riconoscere che la convergenza dei loro pensieri su questo punto ci fu.19 Ci fu, debbo ribadire, perché non poteva non esserci, perché era espressione di quel che i due filosofi avevano, e seguitarono ad avere, in comune; mentre resta comunque notevole che si desse a vedere in uno scritto che, nato da una conferenza rivolta a un pubblico dove non tutti saranno stati lettori delle sue pagine e esperti della sua storia intellettuale, aveva dapprima visto la luce in un volume di vari autori,20 messo insieme per dare la prova che fra cultura tedesca e cultura italiana non c’era soltanto disaccordo e 16. F. Chabod, L’idea di nazione, a cura di E. Sestan e A. Saitta, Bari 1961, pp. 35-39, 61 ss. Sull’idea gentiliana della nazione, cfr. anche E. Gentile, La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Milano 1997, pp. 166 ss. 17. Cfr., per es., il mio saggio, Rosario Romeo e l’idea di nazione. Appunti e considerazioni, in Il guardiano della storiografia. Profilo di Federico Chabod e altri saggi, Napoli 2002, pp. 287-333. 18. Rota, Il filosofo Gentile, p. 277. 19. Mi preme di notare che il Rota non ha interpretato nel modo giusto il passo in cui (Filosofia e idealismo, II, 421 e n. 35) scrissi che Gentile «riecheggiò» la tesi condivisa da Croce circa la genesi luterana dell’«apoliticismo» germanico. Egli mi fa osservarere che il saggio crociano da me citato in nota è di due anni posteriore allo scritto di Gentile; e non ha notato che quel saggio io l’avevo citato come in qualche modo riassuntivo di un pensiero che già era stato espresso: altrimenti, se avessi ritenuto che per la prima volta lo si incontrava lì, non avrei potuto scrivere che, per conoscere quel pensiero, «bastava» citarlo. In forma compiuta quel pensiero era stato esposto, nel 1931, nella Storia d’Europa nel secolo decimonono (Bari 1943, p. 77); e lo si trova espresso anche in precedenza: per es., nella recensione della quinta edizione, 1924, dello Historismus und seine Ueberwindung (1924) di Ernst Troeltsch («Critica», 24 (1927), pp. 130-131, poi in Conversazioni critiche, IV, Bari 1932, p. 131). 20. Romanità e Germanesimo, a cura di J. de Blasi, Firenze 1941.
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contrasto e che, comunque, l’alleanza politica e militare stretta dalle due nazioni avrebbe rifuso in unità ogni passata incomprensione, perché era dal presente fascista e nazionalsocialista che, come diceva Giuseppe Bottai, doveva guardarsi al passato.21 La convergenza ci fu, anche se vive restarono le differenze che, sul piano della teoria politica, si erano accentuate quando, alla luce dei «tempi nuovi», Gentile reinterpretò l’idea hegeliana e spaventiana dello Stato etico, che, prima del 1925, era rimasta come sullo sfondo del suo pensiero, e non era infatti entrata nei Fondamenti della filosofia del diritto. 3. Dovrei meravigliarmi di quel che il Rota scrive nel luogo in cui,22 riferendosi alla p. 104 de La fedeltà e l’esperimento, asserisce che, secondo me, «Gentile avrebbe dovuto, per intima e filosofica consequenzialità, evitare di far incontrare attualismo e fascismo», per aggiungere tuttavia che, «a maggior ragione», questo avrebbe dovuto valere per attualismo e razzismo, che sono, per me, «termini repugnanti e incompossibili». Dovrei meravigliarmene a causa della forte ambiguità che è presente nelle sue parole, dalle quali, se, per qualche ragione, si trovasse nella impossibilità di riscontare i testi e di risalire alle autentiche tesi che vi sono sostenute, il lettore potrebbe facilmente esser tratto in un equivoco. A giudicare dal modo in cui il Rota ha congegnato il suo argomento, e dal periodo in cui l’ha esposto, parrebbe infatti che, come attualismo e fascismo sono termini incompatibili che Gentile ebbe il torto (filosofico, politico, morale, o tutte queste cose insieme) di prendere come se non lo fossero, altrettanto dovesse valere, e a fortiori, per attualismo e razzismo, anch’essi incompatibili e anch’essi assunti, invece, da lui, in unità. Rota dirà che non è così, perché egli sa bene, e lo ha scritto, che per me Gentile fu bensì fascista, e incline a ripensare in termini filosofici il suo esserlo, ma razzista (e nazionalsocialista) non fu. E se dicesse così avrebbe tanto più ragione quanto più fosse, per conseguenza, disposto a riconoscere che nel periodo citato le sue parole sono invece congegnate in modo tale da lasciar intendere che, in tema di attualismo, fascismo, razzismo, era a una doppia identificazione che, in sostanza, Gentile aveva messo mano: all’identificazione dell’attualismo, non solo con il fascismo, ma anche con il razzismo, e che, per conseguenza, la dissociazione fu opera mia, non sua. 21. Rota, Il filosofo Gentile, p. 274 n. 40. 22. Ibidem, p. 270.
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Ebbene, da questa poco felice espressione quale conseguenza deve trarsi? Forse che si è trattato solo di un innocente lapsus stilistico, di un poco felice giro sintattico, dal quale chi lo ha prodotto è stato infine tradito? Oppure che la questione non è, nella sua mente, chiara quanto basta a non consentire che insorgano ambiguità? Valga la prima ipotesi. Resta tuttavia che al Rota non possono concedersi attenuanti per la tesi secondo la quale l’incompatibilità di attualismo e razzismo spiega «qualcosa» fin tanto che «in Gentile si vede l’attualista fatto e finito, la personificazione del sistema dello spirito come atto puro», ma è altrimenti sterile di risultati perché «non offre strumenti fecondi per comprendere la vicenda storica (politica e eventualmente psicologica)»23 del personaggio che visse nel mondo sublunare, si nutrì e vestì panni. Non gli si possono concedere attenuanti perché proprio non si vede quali siano, o dovrebbero essere, questi «strumenti concreti», al di fuori di quelli che, in effetti, egli non usa per comprendere la «vicenda storica» e che, con vantaggio di tutti, avrebbe invece potuto dispiegare e rendere noti per farci capire quel che nel suo discorso resta poco chiaro: e cioè se, innanzi tutto, alla dissociazione da me prodotta fra attualismo e razzismo egli creda, o se, in tanto il comportamento di Gentile fu, a suo giudizio, reticente e poco coraggioso, in quanto quella dissociazione in lui non era così netta e forte e convinta quale parve a me: non era tale, sopra tutto, da produrre le necessarie conseguenze pratiche. La questione riguarda insomma quel «qualcosa» che, alla luce della teoria dell’atto, anche per il Rota sarebbe spiegabile come antirazzismo: se fosse cosa da poco perché non tradotto in azione politica e coraggiosa testimonianza, o se tale fosse perché in sé stesso, ossia anche come teoria, era incerto e ambiguo. In realtà, dalla mancanza di coraggio nel testimoniare, con proprio pericolo, di fronte a un giudice minaccioso un’idea sgradita al potere politico o ecclesiastico, non si deduce la debolezza della tesi. Si deduce la debolezza del coraggio. E di questo, come si sa, ci sono esempi illustri. 4. Fra le critiche che il Rota mi rivolge, la più singolare, forse, è quella della drammatizzazione, diciamo così, nobilitante che io avrei eseguita della vicenda di Gentile, – dell’uomo che, nella sua coscienza avvertiva la difficoltà in cui le cose lo avevano messo, costringendolo a patire con intimo tormento le conseguenze di questa scissione. Per parte sua, Rota non dice in che modo si debba interpretare questo che, quanto meno, fu, per 23. Ibidem.
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Gentile, un passaggio difficile, e certo non più facile di quello che egli si trovò di fronte nel 1924 quando, dopo l’assassinio di Matteotti, sembrò per un momento che Mussolini e il fascismo fossero sul punto di essere travolti. Accenna bensì, in un punto, alla necessità, o, quanto meno, alla possibilità di un’interpretazione psicologica, alla quale la mia, soltanto filosofica, avrebbe preclusa la strada; e poi, tuttavia, non la tenta, lasciando intendere che il personaggio era meno sensibile ai drammi dell’anima, era più legato alla terra e ai mondani interessi, di quanto altri non abbia supposto, era uno che, di fronte a quel che lo turbava, taceva e solo di tanto in tanto rompeva il silenzio: uno che, dunque, non era, in ultima analisi, meritevole di essere sottoposto a troppo sottili indagini (che se fosse un avvio all’auspicata interpretazione psicologica, si dovrebbe, tale avvio, giudicarlo non eccelso). 5. Per la verità, se non nel saggio su Gentile e il nazionalsocialismo, nel quale un’interpretazione psicologica del personaggio non mi pareva, e non mi pare, che fosse richiesta, un tentativo di guardare dentro di lui fu, sul fondamento dei documenti disponibili, e per quanto era in me, eseguito ne La fedeltà e l’esperimento. Con cautela, tuttavia, anche perché, a differenza, per esempio, di Croce, a scrivere di sé Gentile fu a tal punto restio che, con l’eccezione della lettera che nell’ottobre 1943 inviò alla figlia Teresa24 per 24. La si veda in B. Gentile, Giovanni Gentile. Dal Discorso agli Italiani alla morte. 24 giugno1943-15 aprile 1944, Firenze 1954, pp. 39-40. Poiché mi capita di citare questo scritto biografico di Benedetto Gentile, ne traggo occasione per due precisazioni. La prima riguarda Teresa Gentile, che non era la sorella del filosofo, come leggo in F. Perfetti, Assassinio di un filosofo. Anatomia di un omicidio politico, Firenze 2004, p. 33, ma la figlia. La seconda riguarda quel che il Perfetti scrive (p. 114) della congettura da me avanzata, a proposito dell’uccisione di Gentile, in La fedeltà e l’esperimento, pp. 90-91. Lì avevo proposto che in quel tragico evento potesse sospettarsi, dietro quella degli esecutori materiali, la mano dei servizi segreti inglesi, e, al di sopra di tutto, la volontà del governo di Sua Maestà di non dover acconsentire, a guerra finita, a una Norimberga italiana. All’origine della congettura relativa ai servizi segreti inglesi, per la quale, con dubbia signorilità, il Perfetti ammette, senza per altro concederla, la mia buona fede, ma giudica una stravaganza, stava in realtà quella, analoga, formulata da Benedetto Gentile nel suo saggio (cfr. p. 50: «avvenuto per mano dei gappisti fiorentini, il fatto ha naturalmente radici più lontane. Notizie attendibili pervenuteci dopo l’arrivo delle truppe “alleate” in Firenze accennarono ad istruzioni esplicite fatte giungere da ufficiali di collegamento italiani presso il Servizio Informazioni delle truppe britanniche operanti in Italia ai centri della Resistenza partigiana in Toscana. Personalmente ho sempre avuto l’impressione che quelle segnalazioni potessero avere fondamento di verità»). All’origine dell’altra, relativa all’inopportunità politica di una Norimberga italiana, sta, come è detto in La fedeltà e l’esperimento, p. 91, una con-
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dichiarare le ragioni che lo avevano deciso a essere fino in fondo fedele al fascismo e a Mussolini, documenti suoi di natura autobiografica, che aiutino a capire, non ce n’è, che si sappia: sì che occorre prudenza per non incorrere, fingendosi indagatori delle anime, nella banalità e nella grossolanità. A quel che, in proposito, ebbi a osservare alle pp. 106-107 di quel libro, vorrei aggiungere che, forse, un indizio di quel che Gentile fu in sé stesso potrebbe essere fornito proprio dal divieto, che dalle parti più profonde del suo «sé», egli subì a scrivere, anche in privato e per sé stesso, di sé stesso, delle sue esitazioni, dei suoi tormenti, delle sue angosce; che gli saranno appartenuti come a tutti, più o meno, appartengono, e a lui non meno, ma più forse che ad altri, considerando i difficili momenti di una vita che, nell’intrinseco, non fu facile. Lungo l’intero arco del fascismo, il potere conseguito nel regime lo espose infatti all’odio, non soltanto di quanti erano rimasti sull’altra sponda e lo consideravano un traditore, ma anche di quelli che stavano dalla stessa sua parte, e in lui vedevano, non il fascista autentico, ma il profittatore del fascismo, il liberale che era passato nel partito di Mussolini rimanendo liberale e costituendo in atto un antidoto alle sue istanze rivoluzionarie. Questa scarsa, anzi inesistente, disposizione all’analisi e all’autoanalisi, il rifiuto, in ogni caso, di avviarla, erano come un muro che, a protezione delle sue scelte, egli elevava perché altri non penetrasse, con i suoi occhi, nella sua anima, e, con i suoi argomenti, nella sua mente. Ma anche era un muro che egli aveva innalzato all’interno della prima, nell’anima, perché le sue parti ne fossero divise, e l’una, quella più critica, non potesse accedere all’altra che chiudeva in sé le più ostinate certezze. Questa tetragona impermeabilità, non dirò alle critiche, ma ai consigli, ai suggerimenti, talvolta alle drammatiche implorazioni di amici e discepoli, dette prova di sé nelle settimane che seguirono all’assassinio di Giacomo Matteotti, quando quel muro difensivo egli innalzò per proteggersi, si direbbe, dalle parole di un amico fraterno come Giuseppe Lombardo Radice e di un discepolo come Adolfo Omodeo. L’argomento che allora egli oppose ai loro argomenti fu che a sapere come sul serio le cose stessero era lui, non loro, che le guardavano dal di fuori ed era perciò inevitabile che se versazione da me avuta con Renzo de Felice, che mi fece intravvedere questa possibilità. Il Perfetti può certamente considerarla come, appunto, una congettura, perché tale è, e così, del resto, l’avevo considerata anch’io; ma non può invece assegnarla alla «filosofia della storia», che non è una congettura, non appartiene al mio qualsiasi modo di pensare, ed è comunque qualcosa di cui egli mostra di non sapere che cosa sia, in nessuna delle sue forme possibili.
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ne lasciassero sfuggire il senso.25 Mettiamo da parte, qui, la questione della violenza, del manganello, e altro del genere, su cui molto fu detto e ancora si dice; e sulla quale anch’io dissi qualcosa quando cercai di individuare, non nella teoria dello spirito come atto puro, ma nella sua interpretazione della storia d’Italia, resa più acuta dalle torbide passioni del dopoguerra, la genesi della sua adesione al fascismo. Mettiamole da parte perché il ricorso che si fa all’idea della necessità, o della provvidenza, per dar conto di quel che allora, e poi, accadde, può essere, non un argomento, ma un espediente; e Gentile era pur convinto, e più volte lo disse, che nei movimenti politici che si proclamano rivoluzionari e sovversivi potessero esserci fior di delinquenti. Ma il ricorso alla provvidenza, alla logica più profonda delle cose, alla loro intrinseca necessità e razionalità, – tutto questo faceva parte del muro che, di fronte a certe realtà, che pur avrebbero dovuto apparirgli inequivocabili, egli elevava, dinanzi a sé e dentro di sé, per non vederle per quel che erano, per non vedere, se si preferisce, quel che lui pure vedeva, essendo convinto, tuttavia, che il suo compito e la sua missione fossero di cambiare quel che c’era da cambiare per far andare le cose per il verso giusto e dall’estrinseca accidentalità (negativa) far emergere la vera e positiva necessità. E questa non era una teoria, o era molto di più, o molto di meno, di una teoria. Era lo spirito indomabile dell’elusione, il convincimento che il non vedere e voler vedere quel che altri considerava essenziale fosse il segno della sua migliore comprensione delle cose del mondo, del momento storico del quale era parte. Era, se si può dire così, la sigla del suo senso di onnipotenza che, guardato in sé stesso, poteva ben rivelarsi come, se non il contrario di sé stesso, lo strumento atto a tenere insieme convincimenti che pur conoscevano, e subivano, il rischio della disintegrazione. Senso di onnipotenza, e, nel fondo, dubbi e esitazioni; che, con ostinazione tanto più grande Gentile ricacciava indietro, quanto più quelli tendessero a riproporre sé stessi e a rischiare di prendere il sopravvento. Ingenuità, – l’atteggiamento psicologico del quale molti hanno parlato; e che poteva non andar disgiunto persino da qualche forma di cinismo quando egli si fosse trovato di fronte a comportamenti di amici e di allievi che mettevano a rischio sé stessi, e la loro carriera, per testimoniare, con i fatti, la loro avversione al regime politico al quale lui, Gentile, si manteneva fedele. Chi ha sulle spalle gli anni di una vita ormai lunga ha raccolto, in proposito, aneddoti di varia natura che, se fossero narrati, potrebbero restituire 25. Filosofia e idealismo, II, 30 ss.
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con vivacità questo groviglio di sentimenti, dei quali l’anima gentiliana si intesseva. È un peccato, per esempio, che, avendo messo per iscritto i suoi ricordi di Benedetto Croce, Guido Calogero non abbia fatto altrettanto per quelli di Giovanni Gentile. Di quello che era indiscutibilmente stato il maestro della sua giovinezza universitaria non parlava volentieri; e se qualcuno gliene chiedeva cercava di non rispondere, come quella volta che alla domanda se di Gentile desse, in sostanza lo stesso giudizio che si legge nei Fantasmi ritrovati di Giorgio Levi Della Vida,26 rispose di sì, che quello forse sarebbe stato il suo giudizio, ma era evidente che non intendeva andar oltre quell’estrinseca affermazione. Una volta tuttavia ricordò, per iscritto,27 che quando sua moglie, Maria Comandini, andò da Gentile per ringraziarlo di quanto aveva fatto per suo marito, che era stato arrestato e chiuso nel carcere fiorentino delle Murate, rimase meravigliata e turbata nel sentirsi dire che sì, aveva cercato di far qualcosa, e che tuttavia proprio non capiva come, per cose come quelle, si potesse mettere a rischio una carriera accademica, così brillantemente iniziata. Possibile che un uomo come Gentile non capisse, o volesse non prendere atto, che per «cose come quelle» si poteva ben sacrificare una brillante carriera e, eventualmente, qualcosa di più? Eppure, si ha l’impressione che, capendo benissimo quel che dichiarava di non riuscire a capire, Gentile in realtà alludesse ad altro; e provasse irritazione nel dover constatare che l’opera che aveva intrapresa di «normalizzazione delle coscienze», e perseguita anche attraverso l’imposizione ai professori e agli accademici del famigerato giuramento, non era servita a normalizzarle tutte. Invece che a testimonianze orali, mie o di altri, preferisco tuttavia far ricorso a un testo scritto, e edito, che conviene tener presente, perché, opera di un grande giurista che era anche un finissimo letterato, costituisce il documento prezioso di un mondo intellettuale, del quale anche Gentile era parte. 6. Mi riferisco al Diario 1939/1945 di Piero Calamandrei, ossia a un testo che, non senza ostilità, lo ritrasse nel variare delle opinioni, dei giudizi, degli stato d’animo, e che, ciò non ostante, consente di cogliere in lui la presenza del tormento che tanto più agiva nella sua coscienza quanto più egli cercasse di renderlo domestico, banalizzandolo nel vivere quotidiano, 26. G. Levi Della Vida, Fantasmi ritrovati, Venezia 1966, p. 229, dov’è ripresa, in tono semiserio, una definizione di Cesare de Lollis. 27. G. Calogero, Una lunga amicizia, in Aa. Vv., L’ipotesi di Ugo Spirito, Roma 1973, pp. 15-16.
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dove i buoni sentimenti si intrecciavano, a volte, con un «realismo» spinto fino al limite del cinismo, e quel sentimento doloroso, il dubbio di non essere dalla parte giusta e di dover sopportare quel che non avrebbe dovuto, la nostalgia, forse ricorrente, delle amicizie perdute, – tutto questo veniva ricacciato indietro dall’orgogliosa censura imposta a quel che non si voleva vedere, alle conseguenze che ci si rifiutava di trarre, e che tuttavia stavano lì, nette dinanzi agli occhi. A venir fuori dalle pagine di Calamandrei è qualcosa che, pur senza dargli rilievo, il Rota ha consegnato a una nota del suo saggio. Converrà soffermarvisi, perché le notazioni di Calamandrei sono bensì intessute con il filo di una forte passione antifascista. Ma appartengono, come ho detto, all’elegante penna di un giurista che era anche un finissimo letterato, a un uomo che era bene in grado di sapere chi fosse Giovanni Gentile, e come dovesse tenersi conto di quel che diceva, non solo negli scritti, ma anche nelle conversazioni con amici che sapeva essere, talvolta, di diverso parere. E si aggiunga, prima di commentare le note di Calamandrei, la testimonianza di Manara Valgimigli. A proposito della, come l’ha definita «sostanziale estraneità di Gentile alle correnti intellettuali germaniche contemporanee»,28 Rota ha citata una lettera che il grande grecista ed elegante letterato inviò alla figlia Erse l’11 maggio 1940, a un mese, quindi, dall’entrata dell’Italia nella seconda guerra mondiale; e ne ha tratto un passo, che converrà riferire anche qui: a Firenze, un momento che mi trovai solo con Giovanni Gentile, e si parlava di una penetrazione e imposizione tedesca anche nel campo degli studi, nelle università, nel costume ecc., mi disse: «caro amico, i giovani sono duttili e si potranno adattare: per noi sarà meglio morire».29
Queste linee sono rivelatrici, anche, se mi si permette il bisticcio, per quell’«anche» che, riferito alle cose, non solo della cultura, ma della scuola e del costume, non si va dunque lontani dal vero se vi coglie un accenno alla legislazione razziale; linee importanti che ancor più si rivelano tali se, come ho detto, le si mette a confronto con alcune annotazioni di Calamandrei del 24 maggio 1940. «I germanofili», vi si legge, via via che la Germania vince, aumentano. I fatti sono maschi e gli italiani sono femmine: anzi pederasti. Gentile, che un mese fa, a Pancrazi che gli 28. Rota, Il filosofo Gentile, p. 275 n. 42. 29. Lettere familiari di Manara Valgimigli (1927/1964), a cura di M.V. Grezzo, I, 1927-1940, in «Nuova Antologia 122 (1987), p. 33.
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faceva considerare i pericoli di una vittoria tedesca, disse: «meglio morire», ora, da qualche giorno, va dicendo a tutti, anche a Calogero, anche a Pancrazi, che questa è la storia, e che chi si lamenta è un sentimentale.30
Le date in cui queste espressioni ebbero luogo sono molto vicine l’una all’altra; quasi coincidenti, se si considera che, scritte il 24 maggio, le note di Calamandrei si riferiscono a un periodo compreso fra il 19 e il 24; e indicano la presenza in Gentile di una preoccupazione tenace, se è vero che, dette il 10 maggio a Valgimigli, espressioni come quelle, o analoghe a quelle, furono, nei giorni successivi, ripetute a Pancrazi, a Calogero e, forse, anche ad altri. Come dicevo, e sembra difficile negarlo facendo ricorso alla mediocre arte della minimizzazione, quelle parole stanno a indicare la presenza di un sentimento, e di una preoccupazione, di cui soltanto il pregiudizoo più miope potrebbe indurre a sottovalutare la profondità. Ma, nello stesso tempo, ecco che, dopo aver dato voce, e una voce drammatica, a una preoccupazione che non poteva non essere profonda e rivelativa di varia sofferenza, a riemergere e infine a prevalere era l’opposto e contrastante tema della consolazione, dell’autopersuasione che quel che stava accadendo oggi, e sarebbe potuto accadere domani, apparteneva alla logica delle cose, che, se è una logica, si deve accettarla. Ecco che, dopo essersi spinto fin sull’orlo del baratro che gli si stava aprendo dentro e davanti, Gentile se ne ritraeva e a sé stesso diceva parole ispirate a un ottimismo per il quale, quasi imponendoselo, si compiaceva di definirsi rude, e non sentimentale. Ecco che quando, nella tarda estate del 1938, le conseguenze delle da poco promulgate leggi sulla difesa della razza cominciarono a prendere forma concreta e la «marea» a montare fino al punto che neanche più «la circolazione di libri di autori ebraici» sarebbe stata, a quanto si diceva, consentita, Gentile se ne mostrò preoccupatissimo;31 e si propose di far qualcosa, deciso a parlarne con Mussolini, al quale chiese un colloquio. «Sono molto preoccupato per questa faccenda», scriveva a Gaetano Chiavacci. «Bisognerà pur difendere la verità».32 La «verità» che Gentile proclamava di voler difendere non poteva, nel caso specifico, non essere quella secondo cui, non la razza, ma lo «spirito» e il logo sono ciò per cui 30. P. Calamandrei, Diario 1939/1945, a cura di G. Agosti, I, 1939-1941, Firenze 1982, p. 172. 31. Gentile a Chiavacci, 21 agosto 1938, Carteggio Gentile-Chiavacci, a cura di P. Simoncelli, Firenze 1996, pp. 332-333. 32. Ibidem, p. 333.
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l’uomo è uomo. E tanto più Chiavacci lo confortava in questo atteggiamento, in quanto, come vicedirettore della Scuola Normale, a lui, dopo Gentile, sarebbe spettato di rendere esecutive le deliberazioni delle autorità competenti nei confronti sia dei professori sia degli studenti ebrei. Il 24 agosto gli scriveva di aver letto l’articolo che Telesio Interlandi aveva pubblicato sul secondo numero de «La difesa della Razza», e che il «Corriere della sera» aveva ripreso per farne il fondo del giorno 22, e di averlo trovato «semplicemente turpe».33 Il colloquio con Mussolini ebbe luogo il 29 agosto; e a quanto risulta dal poco, o pochissimo, che Gentile ne riferì a Chiavacci il 31 di quel mese, non dovette sortire nessun risultato concreto di ordine generale, dal momento che, a qualche generica assicurazione datagli circa la sorte di Kristeller, non seguì niente di confortante: come risulta dal laconico post scriptum: «Sciaky e gli altri ebrei insegnanti – salvo eccezioni nelle università – saltano».34 Per quanto concerne questo carteggio, la cosa finì lì. In quegli stessi giorni Chiavacci, che anche per l’interessamento di Gentile, aveva ottenuto il trasferimento all’Università di Firenze, lasciò la vicedirezione della Scuola, nella quale fu sostituito da Vladimiro Arangio Ruiz. E della «questione ebraica» non si parlò più nelle poche lettere che, da allora in poi, i due si scambiarono. 7. Atteggiamenti non diversi vengono fuori del carteggio che, nella sua qualità di vicepresidente della Università Bocconi, dal 1930 al 1938, Gentile intrattenne con Girolamo Palazzina che con lui collaborò, in quegli anni, nel governo di quell’istituzione.35 Quando, nel 1938, furono promul33. Ibidem, p. 336. 34. Ibidem, p. 339. Isacco Sciaky, professore nel Liceo Galileo di Firenze, autore fra l’altro, di un libro su Rousseau, pubblicato presso Sansoni, Firenze 1936, e filosoficamente legato a Gentile, collaborò a Civiltà moderna di Ernesto Codignola e a La Nuova Italia di Luigi Russo (cfr., per es., la sua lettera a Gentile del 7 settembre 1928, Carteggio L. Russo/ G. Gentile, a cura di R. Pertici e A. Resta, Pisa 1997, p. 199). Varie lettere sue a Gentile sono conservate in AFG, Carteggi/Isacco Sciaky. Sulla sua attività di sionista revisionista in Italia fra il l936 e il 1937, qualche notizia in R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Torino 1988, pp. 168, 173-174. Riparò poi in Palestina; e da una lettera del 22 gennaio 1946 di A. Omodeo a Luigi Russo, Lettere 1910/1946, Torino 1963, p. 780, si apprende che in quel periodo si trovava a Tel Aviv. 35. Che fin dal 1932 Gentile sapesse del veto che, sia pure ufficiosamente (cfr. G. Belardelli, L’antisemitismo nell’ideologia fascista, in L’intellettuale antisemita, a cura di R. Chiarini, Venezia 2008, pp. 75-76), l’Accademia d’Italia opponeva alla cooptazione di studiosi ebrei, risulta, fra l’altro, da lettere a lui inviate dal direttore amministrativo della
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gate le leggi per la difesa della razza, nelle lettere che gli inviava, Palazzina non nascondeva la sua forte avversione, la pietà che gli suscitava la sorte dei professori ebrei che ne subivano le conseguenze, l’indignazione, la rabbia; e, per parte sua, ai sentimenti del suo collaboratore Gentile faceva corrispondere i suoi che, gli assicurava, non erano, nel fondo, diversi. Il 5 settembre 1938 aveva parole di comprensione e di rammarico per «i poveri colleghi condannati all’ostracismo».36 Tre giorni dopo, nel retro della lettera che Palazzina gli aveva inviata per informarlo di quel che stava accadendo, e di quanto Gustavo Del Vecchio aveva aggiunto alle risposte date alle domande contenute nella scheda di censimento che gli era stata inviata («vedere assassinati i figli senza poter reagire è il peggior supplizio che possa toccare ad un uomo»), Gentile aveva annotato: «Povero D[el] V[ecchio]! Gli scrivo oggi stesso per esprimergli i miei personali sentimenti. Non credo neanch’io alla razza; e l’ho detto ben forte a chi di ragione. Ma non si tratta di credere o non credere, pur troppo. Bisogna aspettare infatti le decisioni del Gran Consiglio».37 A chi avesse detto «ben forte» quel che aveva in animo, non si sa. Nel retro della lettera di Palazzina del 21 agosto aveva annotato che sarebbe andato a Roma, sperando di «sentire in alto» quali fossero i «reali propositi». Non si faceva illusioni, per altro. E, anche in quella circostanza, la cosa finì lì. Né il proposito di dimostrare il suo dissenso dalle leggi razziali ebbe modo di rendersi concreto quando, per esempio, si era agli inizi del settembre 1938, Giovanni Treccani gli scrisse per informarlo che, su un giornale francese, si era rilevato come nell’articolo Antisemitismo, Alberto Pincherle avesse sostenuto tesi del tutto difformi da quelle che, anni dopo, avrebbero trovata espressione nella legislazione razziale, e che sarebbe stato perciò il caso di rettificare e di correggere in un nuovo articolo quel che lì era stato affermato.38 Il che, vale la pena di notare, non avvenne nella prima Appendice dell’Enciclopedia, uscita nel 1938, e che non reca al riguardo alcun articolo. Ma avvenne bensì con la voce Razza, nella quale Virginio Gayda ebbe modo, eccome, Università Bocconi, Girolamo Palazzina: cfr., per esempio, A. Capristo, Tullio Levi-Civita e l’Accademia d’Italia, in «Rassegna mensile d’Israel», 69 (2003), p. 253. 36. G. Gentile a G. Palazzina, Faremo grande Università, in G. Palazzina, G. Gentile, Un epistolario (1930-1938), a cura di M.A. Romani, Milano 1999, p. 527. 37. Ibidem, p. 528. 38. Giovanni Treccani a Gentile, AFG, Terzi a Gentile: G. Treccani: «non ti sembra necessario nel volume di appendice introdurre un articolo aggiornato a proposito di questa voce?».
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di correggere in senso fascista, razzista e antsemita quel che in precedenza, sotto lo stesso titolo, era stato argomentato da Gioacchino Sera. Sollecitato in questo senso anche da Umberto Bosco, che si riferiva per altro all’articolo del Sera,39 alla fine Gentile aveva ancora una volta dovuto piegare il capo, e adeguarsi a direttive alle quali non avrebbe potuto comunque potuto resistere se non distinguendo le responsabilità e dimettendosi. 8. Per quello che si sa, e come del resto altri suoi carteggi dimostrano (quello, per esempio, particolarmente drammatico con Attilio Momigliano),40 Gentile, certo, seguitò a interessarsi degli ebrei che gli si rivolgevano per aiuto. Ma, come era accaduto (debbo ripetere) al tempo dell’assassinio di Giacomo Matteotti, da una «questione», che sempre più si rivelava per quel che era, e che in nessun modo avrebbe potuto essere minimizzata o affidata alla saggezza del tempo, non trasse la conseguenza che sarebbe stata necessaria. E rimase nel fascismo. Ebbene, che cosa deve vedersi in tutto ciò? Chi si dispone a rendere piccoli i personaggi che studia, e più piccoli, comunque, di quanto non siano, delle due tendenze che fino alla fine si contesero il primato nell’anima di Gentile, farà prevalere la seconda, darà ascolto esclusivo alla nota dell’autoconsolazione, della «rimozione», dell’ottimismo ad ogni costo, della meschina difesa, se si preferisce, di meschini interessi; e darà vita a un personaggio mediocre, diviso fra l’opportunismo e il non voler vedere e capire: a un personaggio che non significa niente per lui al di fuori del piacere provocatogli dal poterlo ridurre a quella misera statura. Chi non senta così, e se studia un personaggio è perché qualcosa lo ha spinto a studiarlo e a capirlo, e, per capirlo, a criticarlo, per criticarlo a considerarlo degno di esserlo, non chiuderà gli occhi dinanzi allo spirito dell’elusione, ma altresì li terrà aperti sulle incertezze, sui dubbi, sulle angosce che, talvolta, magari per un istante, fanno desiderare la morte: anche e, anzi, sopra tutto, perché dubbi, incertezze, angosce provenivano a Gentile dalla melior pars della sua anima e della sua mente, da quella che aveva elaborato la teoria dello spirito come libertà, non dall’altra che da un’idea della storia d’Italia aveva ricavata la convinzione che al fascismo si dovesse aderire. Gentile non fu un campione dell’antisemitismo, di cui certo non condivideva la miserabile «teoria»; e 39. G. Turi, Il mecenate, il filosofo, il gesuita. L’“Enciclopedia italiana” specchio della nazione, Bologna 2002, pp. 172-173. 40. È conservato, per la parte concernente Momigliano, in AFG, Carteggi/Terzi a Gentile: Attilio Momigliano.
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non si batté, tuttavia, in pubblico contro chi lo aveva trasformato in una legge dello Stato. L’aiuto che egli dette a molti ebrei, tedeschi e italiani, non basta ad assolverlo dalla colpa di essere rimasto fra coloro che li perseguitavano. Questo è vero, e fu detto, da me e da altri, ben prima che il Rota scrivesse il suo articolo. Ma di qui, da questo groviglio di contrastanti sentimenti, a emergere era anche il senso che diversa da quella germanica, naturalistica e razzistica, era, nel suo accordo di base, la sua visione delle cose; che l’antinaturalismo aveva costituito, e ancora costituiva, la prima passione della sua vita, sì che non poteva andare nel segno della letizia spirituale, e della tranquillità dell’animo, la constatazione che, nel campo che aveva scelto come il suo, troppe cose contraddicessero la sua teoria della realtà come spirito, e la calpestassero. Del resto, fra gli atteggiamenti che si assumono nei confronti delle cose e di sé stessi, la minimizzazione è sempre rivelativa, per vie oblique, della presenza nell’animo di quel che si nega e che, prima o poi, emerge e si prende le sue vendette. Che a tratti l’idea della morte si delineasse sull’orizzonte di questo filosofo, che con tutte le forze repugnava a essa, sarà pur l’indizio di qualcosa: come anche che, fin dai tempi della Teoria generale, egli ne avesse fatto un tema costante, e non pacificato, della sua riflessione filosofica.41 9. Prendendo lo spunto dal libro di Rosella Faraone, Rota dedica un paragrafo del suo articolo al «caso» di un attualista razzista, ossia di Giulio Cogni, fortemente avversato da Calogero e difeso da Gentile che, contro il parere del suo giovane collaboratore, desideroso che la stampa dei suoi Studi hegeliani fosse prorogata per far posto a un saggio cassireriano di Heinrich Levy, impose che fossero pubblicati nel fascicolo del «Giornale critico» che si stava allora mettendo insieme. La difesa che, nel 1934, Gentile fece degli articoli di questo studioso è stata interpretata da Rota come la prova dello scarso vigore con cui egli dibatteva dentro di sé, e fuori di sé, la questione del razzismo e dell’antisemitismo. Cogni, ha argomentato, non era infatti soltanto un fervente gentiliano che, per esempio, aveva entusiasticamente recensita La filosofia dell’arte, che, anche a prescindere dalla durissima nota di Croce,42 era stata, nel complesso, accolta con freddezza. Ma era anche un 41. Cfr. il mio saggio L’atto, il tempo, la morte, in Filosofia e idealismo, II, Giovanni Gentile, Napoli 1995, pp. 53-164. 42. La si veda ora nelle Conversazioni critiche, IV, Bari 1924, pp. 336-341. La nota era stata pubblicata, con il titolo, A proposito di una “Filosofia dell’arte”, era stata pubblicata nella «Critica», 290 (1931), pp. 58-60.
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razzista convinto, legato all’ideologia del nazionalsocialismo germanico e ai suoi uomini. Dalla difesa che Gentile ne faceva contro il diverso parere di uno che, come Calogero, fin dal 1926, era legatissimo, attraverso Klibansky, all’ambiente cassireriano, al Warburg Institut e ai molti studiosi ebrei che lo frequentavano e ne provenivano, gli parve perciò che, senza sforzo, potesse trarsi la conclusione della debolezza delle sue convinzioni filoebraiche, o antiantisemitiche: non solo nella prassi, dunque, ma anche nella teoria. Temo, tuttavia, che la difesa che, contro il Cogni hegelista, Calogero faceva del saggio di Levy e la ferma dichiarazione antirazzistica e antinazista che si legge nella lettera da lui inviata da Cortina a Gentile il 17 agosto 1934,43 abbiano messo il Rota fuori strada, inducendolo a credere che, a paragone del fermo filosemitismo e antinazismo del suo collaboratore, quello del maestro fosse stato assai più blando, debole ed equivoco. Non è forse vero che egli difendeva il buon diritto che un razzista, sia pure alquanto forsennato, aveva di essere apprezzato come un giovane, sì «frondoso» nella prosa, ma di ingegno comunque vivace? In realtà, a parte che in quelle sue idee Calogero era assai più netto ed energico di quanto Gentile non fosse, e potesse essere, nelle sue, la disputa fra i due si svolgeva, in questo scambio epistolare, su un terreno diverso da quello del razzismo e dell’antirazzismo, del filo- e dell’antisemitismo; che vi entravano, in effetti, soltanto di scorcio, tanto che, ripeto, fu il forte accenno che il primo aveva fatto, nella sua lettera, alla «barbarie ritornata», e al «dovere di civiltà» che si aveva nei confronti degli ebrei, a far ritenere che il richiesto rinvio ad altro numero dell’articolo del Cogni avesse a che fare con il suo essere un razzista che, in quanto tale, era giusto che cedesse il passo a uno studioso ebreo. Non è questo, infatti, quel che si ricava dalla lettera di Calogero; nella quale, fermo restando il «dovere di civiltà» proclamato nei confronti degli ebrei perseguitati, dell’articolo del Cogni si diceva che poteva ben essere rimandato a un altro fascicolo della rivista, non perché, per diretta lettura, l’avesse giudicato mediocre o, addirittura, pessimo (l’articolo era stato consegnato a Federico Gentile che lo aveva passato al padre, presso il quale si trovava), ma perché tale glielo faceva ritenere quel che «quel poveretto» aveva scritto fin lì. Ma che cosa aveva scritto, fino a quella data, quel «poveretto»? Occorre, in effetti, badare alle date. Lo scam43. Allusioni polemiche al nazionalsocialismo sono anche nella memorabile recensione che Calogero fece del I volume di Paideia di Werner Jaeger nel «Giornale critico della filosofia italiana», 14 (1934), pp. 358-371, ristampata, da ultimo, in Scritti minori di filosofia antica, Napoli 1984, pp. 522-543 (cfr., particolarmente, pp. 541-542).
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bio epistolare di cui si sta parlando si svolse fra il 17 agosto e il 25 novembre 1934. Alla lettera di Calogero Gentile rispose il 23 novembre; e, oltre a quel che vi era scritto, anche alluse a cose e giudizi che, non essendovi contenuti, deve pensarsi, o che al suo interlocutore egli attribuisse quel che aveva ricevuto da altra fonte, o (ma la cosa non sembra probabile) che fra i due fosse, nel frattempo, intervenuto un incontro, nel quale anche si fosse accennato al saggio hegeliano del Cogni. È più che probabile, e direi, anzi, certo, che quel che aveva indotto alcuni a ridere delle cose scritte dal Cogni avesse, a quella data, a che fare, non tanto, in modo specifico con il suo razzismo, quanto piuttosto con il suo Saggio sull’amore come nuovo principio d’immortalità, pubblicato a Torino, da Bocca, nel 1933, e recensito con irridente durezza da De Ruggiero che, nella «Critica», era arrivato a parlarne come se vi si fosse determinata la metabasis dell’attualismo in antropofagia.44 Era a questi suoi scritti, e a questi soltanto, che Calogero si riferiva, sia che li avesse letti, sia che ne avesse avuta notizia dalla recensione di De Ruggiero, sia che ne avesse sentito parlare nell’ambiente dell’Enciclopedia italiana, dove non mancavano, allora, personaggi capaci di cogliere il lato comico delle situazioni e, appunto, di riderne: a questi articoli, e non a quelli sulla razza, che, come qui sotto si dirà, o non erano ancora venuti al mondo, o non avevano comunque preso il rilievo che poi, con l’aiuto delle circostanze, finirono con l’assumere. Preoccupato del ridicolo che, dalle pagine del Cogni, avrebbe potuto cadere sul suo idealismo, al quale quello apertamente si richiamava, furibondo contro De Ruggiero e Croce, dei quali, per altro, nella sua lettera, Calogero non aveva, in alcun modo, fatto cenno, Gentile si sentì costretto, da una parte, ad assicurarlo che dell’erotismo del Cogni egli aveva fatta una severa critica per aiutarlo ad uscire dalla relativa «mistica», e da un’altra, ad avvertirlo che gli Studi hegeliani contenevano cose buone, tanto che, pubblicandoli, si sarebbe fatto del bene a un giovane che, di essere protetto da sé stesso, per altre sue doti meritava. La questione, e in parte, senza perciò pervenire, su questo punto, alla piena chiarezza, Rota se ne è avvisto, riguardava dunque la filosofia dell’amore; non il razzismo che, forse, a quella data, si era appena profilato in un paio di articoli pubblicati sui «Nuovi studi» di Spirito e dei Volpicelli, e, come ho detto, non costituiva l’argomento per il quale il personaggio aveva acquisita notorietà. Il libro che lo avrebbe innalzato a campione di 44. G. De Ruggiero, in «Critica», 31 (1933), pp. 40-41. All’antropofagia del Cogni alluse poi anche E. Garin, Cronache di filosofi italiana (1900-1943), Bari 1955, p. 505 n. 20.
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quel credo il Cogni lo pubblicò, sempre presso Bocca, tre anni più tardi; e indirettamente Gentile prese posizione contro di esso, ospitando nel «Giornale critico» una recensione, non feroce, ma assai dura, di Bruno Brunello,45 che Rota ha giustamente citata senza tuttavia, pur dopo averne colto il punto essenziale, e cioè la netta contrapposizione del fascismo al nazionalsocialismo, valutarne a pieno l’importanza. Non so, ed ecco che così si viene a quel che si è accennato qui su, se, quando inviava a Calogero la sua lettera, Gentile conoscesse il primo pronunciamento razzistico del Cogni. Né so se quel pronunciamento fosse noto a Calogero. Neppure so se Gentile e Calogero avessero letto qualche prosa razzistica del Cogni su giornali ai quali egli collaborasse, o se fossero quanto meno al corrente che con le tendenze antisioniste (il che voleva dire anche antisemite) che già nel 1934 avevano cominciato a delinearsi all’interno del fascismo, quel personaggio simpatizzava.46 Ma ritengo improbabile sia la prima sia la seconda ipotesi; e anche la terza. Ritengo improbabile quest’ultima, perché nell’Archivio Calogero non c’è alcuna traccia di una sua personale conoscenza, a quella data, del Cogni, e di un qualsiasi rapporto intrattenuto con lui. Ritengo improbabile la seconda perché una ricerca da me compiuta nell’Archivio della Fondazione Gentile ha messo in chiaro che il Cogni scrisse, in quel periodo, varie lettere al «maestro», al quale dette altresì in lettura il dattiloscritto di un saggio su Richard Wagner, conservato anch’esso in quell’Archivio, senza tuttavia fare alcun cenno, fino al 1934, alla questione della razza. Debbo aggiungere che il risultato deludente della ricerca è costituito dall’assenza delle lettere che Gentile inviò al Cogni, e che non è stato infatti fin qui possibile rintracciare a causa delle difficoltà che spesso, in casi come questi, si determinano. Per quanto altresì concerne la seconda ipotesi, la ritengo, come ho detto, improbabile anch’essa, perché, posto che qualche pronunciamento razzistico e antisemita del Cogni ci fosse stato da qualche parte, dubito che fosse noto a Gentile e, sopra tutto a Calogero. Resta che i due articoli che, in sede «scientifica», inaugurarono la sua stagione razzistica uscirono, il primo, dedicato a Il mito del sangue nordico e Rosenberg, nella seconda parte dell’anno 1934, numeri 5 e 6, dei «Nuovi studi», il secondo su La nuova religione tedesca, nei numeri 4-6 della medesima rivista, dell’anno successivo: troppo tardi, anche il primo, perché, nella disputa concernente il Cogni, entrasse la questione della razza. A con45. B. Brunello, in «Giornale critico della filosofia italiana», 18 (1937), pp. 202-205. 46. Cfr. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, pp. 139 ss.
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durre fuori strada il Rota, e anche, debbo dire, la Faraone,47 contribuì certamente il fatto che, al rilievo rivolto da Gentile a Calogero di essere troppo severo e troppo poco incoraggiante nei confronti dei giovani, nella sua puntigliosa risposta, alla quale non era estraneo un filo di ironia, il secondo rispondeva ricordando l’aiuto che, negli ultimi tempi, aveva dato ai tanti che gli si erano rivolti; e questi, che tutti, oltre che giovani, erano ebrei, non per questo venivano contrapposti al Cogni, ma perché, a differenza di lui, che si produceva in «vaniloqui»,48 erano studiosi seri. Insomma, né la difesa che Gentile faceva degli Studi hegeliani del Cogni, così severamente giudicati da Calogero, né quella che quest’ultimo istruiva dei suoi giovani amici ebrei, aveva, nella fattispecie, diretto rapporto con la questione del razzismo, che non entrò mai esplicitamente nella discussione. Non capisco quindi perché, concludendo il paragrafo sul Cogni, Rota mi avverta che la mia asserzione secondo cui «Calogero (parole mie) sapeva benissimo che sul tema del razzismo e dell’antisemitismo le idee di Gentile non differivano dalle sue» non si «adatta a questo scambio di lettere» (p. 286). Debbo dire che, avendo torto, il Rota è riuscito tuttavia ad avere ragione. Quell’asserzione non si riferiva, infatti, nel mio articolo, a questo scambio di lettere, ma all’altro dell’anno successivo, relativo al saggio della Nadler su Mussolini. Un saggio che, malgrado contenesse un entusiastico, e anche encomiabile, a suo parere, apprezzamento dell’attualismo, Calogero aveva giudicato, «dal punto di vista politico», «ultrafascista, tedescamen47. R. Faraone, Gentile e la “questione ebraica”, Soveria Mannelli 2003, p. 88. La Faraone afferma che il Cogni fu un assiduo collaboratore de «Il Tevere» di Telesio Interlandi, che per altro definisce «famigerata rivista», a ragione per quanto riguarda l’aggettivo, a torto per quel che concerne il sostantivo, perché «Il Tevere» fu un quotidiano. «Rivista» può essere definita «La difesa della razza» che ebbe periodicità quindicinale, ma non uscì se non a partire dal 1938. Non dà tuttavia, al riguardo, alcun elemento di fatto, e non precisa quando questa collaborazione cominciasse. 48. Calogero a Gentile, 25 novembre 1934, Carteggio Gentile-Calogero (1926-1942), a cura di C. Farnetti, Firenze 1998, p. 124. Varrà la pena di riferire per intero il passo relativo al Cogni, sia perché vi si deduce che, alludendo alla necessità che egli imparasse a «lavorare in tutt’altro modo», Calogero pensava al suo lavoro scientifico e non a quello «ideologico» e politico (razzismo, nazionalsocialismo, etc. ), sia per dar rilievo all’ironica sottigliezza che egli si permetteva nei confronti di Gentile: «se, quindi ritengo più salutare per lo stesso Cogni ferirlo facendolo accorto dei suoi vaniloqui e indurlo così a lavorare in tutt’altro modo, piuttosto che illuderlo pubblicandoglieli, credo di poter essere sicuro che ciò non dipenda da una mia cattiva volontà. Dipenderà bensì, giacché Lei me lo dice, da una mia incomprensione».
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te fascista»,49 e Gentile, dopo averlo letto, aveva deciso che fosse da non pubblicare: con soddisfazione tanto più grande in quanto «più nazista che fascista».50 10. Il libro del Cogni sul razzismo fu recensito da Delio Cantimori, sul Leonardo del 1937, insieme alla Vita di Mussolini di Yvon de Begnac e ad altre pubblicazioni recenti; e, come tutto quel che, fra il 1927 il 1942, egli scrisse sulla pubblicistica tedesca concernente il nazionalsocialismo, e su quella italiana relativa sia a questo movimento sia al fascismo, richiede, per non essere frainteso, non meno cautela che spregiudicatezza. Richiede, in ultima analisi, la molta attenzione che deve mettersi nel tentativo di non passare il segno imposto dalla intelligenza storica nelle opposte direzioni della difesa a oltranza e della postuma denigrazione. Con questa attitudine, e come sua condizione, anche richiede la capacità di leggere fra le righe, una volta che si sia messo in chiaro che, quali che fossero e potessero, di volta in volta, essere le passioni politiche e civili che il personaggio chiudeva dentro di sé, e tenuto per fermo che per lui il cosmo liberalcapitalistico dell’Occidente europeo era in irreversibile declino, il suo metodo fu allora ispirato al criterio della comprensione obiettiva dei fenomeni della vita politica e culturale, ai quali, come scrisse in un «appunto» che si trova fra le sue carte, si deve guardare con «interesse, ma con freddezza».51 Proprio a proposito del Cogni del quale si è discusso qui su in relazione a Gentile e a Calogero, Cantimori aveva ribadito in pubblico questa sua convinzione. Che il libro avesse suscitato polemiche, avesse riscosso «vivaci consensi» e «critiche variamente negative» spinte fino alla «stroncatura a mezzo del lazzo e dello scandalo»,52 Cantimori lo sapeva bene. E proprio per questo, poiché riteneva che il ricorso all’indignazione e allo scandalo non fossero per dare «buona prova» e, per esempio, non l’avessero data in Germania, così gli sembrava che, se «confutazioni scientifiche» e critiche di quei fenomeni non erano possibili, possibile, oltre che auspicabile, fosse invece un’«analisi del sostrato psicologico e sociale di questi tipici miti di tante parti delle classi moderne», da eseguirsi, se era un’analisi, «senza passione politica o religiosa immediatamente 49. Calogero a Gentile, 6 settembre 1935, ibidem, p. 152. 50. Gentile a Calogero, 16 novembre 1935, ibidem, p. 156. 51. L’«appunto» è pubblicato in N. D’Elia, Delio Cantimori e la cultura politica tedesca (1927-1940), Roma 2007, p. 129. 52. D. Cantimori, Politica e storia contemporanea. Scritti 1927-1942, a cura di L. Mangoni, Torino 1991, p. 636.
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rivelantesi».53 Che, proprio in virtù di questo, come si potrebbe definirlo, precoce weberismo, di questa aspirazione a spiegare con atteggiamento, non morale, ma scientifico, Cantimori corresse il rischio di essere interpretato nell’una o nell’altra delle direzioni dalle quali intendeva tenersi lontano, è ben comprensibile. Non solo il suo animo era tutt’altro che privo di passioni politiche; che trasparivano, infatti, e si muovevano sotto il velo imposto a esse dallo spirito dell’avalutatività etica. Ma se l’adesione data al fascismo non diventò mai, in lui, che restava, in quegli anni, legato alle posizioni dell’idealismo italiano, accettazione politica del nazionalsocialismo, vero è anche che alla critica e alla dissoluzione della civitas liberale, che, come ho detto, egli non sentiva in nessun modo come sua, anche il nuovo movimento tedesco contribuiva con energia; sì che, almeno in termini molto generali e, se si vuole, sotterranei, un punto obiettivo d’incontro con quello non poteva, quasi praeter intentionem, non determinarsi. Il che, per un verso, deve essere sottolineato e riconosciuto, senza che, per un altro, il riconoscimento che si dà a questa obiettiva convergenza significhi che, dunque, come, fino a una certa data, fu fascista, così, a partire da un’altra, Cantimori fu nazionalsocialista, o, quanto meno, simpatizzante con il movimento hitleriano e con la parte di esso che era stata, agli inizi, rappresentata, per esempio, da Gregor e Otto Strasser. 11. La difficoltà che s’incontra a tenere in equilibrio queste diverse tendenze e a dissipare l’ambiguità che le circonda, è una non lieve difficoltà; che lascia infatti il suo segno sia nell’analisi che, assumendola a suo proprio oggetto, rischia di esserne contaminata e, per troppa vicinanza, di risultare ambigua, sia in quella che altri faccia di questa analisi, per valutarla e giudicarla. In parole più semplici e dirette: questa difficoltà ha il suo riscontro nelle pagine scritte da me, che ho cercato di delinearla nei suoi termini, e di interpretarla; e in quelle altresì di qualche mio critico, che l’ha subìta, mi pare, e non dominata. Nicola D’Elia, per esempio, ha osservato che, avendo da una parte negato che Cantimori avesse mai dato il suo consenso al nazionalsocialismo, sono stato, da un’altra, costretto a riconoscere che il suo «interesse» per il nazionalsocialismo nascondeva «nel fondo un qualche consenso, una tentazione, se si preferisce, di consenso».54 E ha 53. Ibidem, p. 636. 54. Sono parole mie, tratte da Delio Cantimori. Filosofia e storiografia, Pisa 2005, p. 56.
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parlato di «evidente contraddizione», ponendo a raffronto e, secondo lui, a contrasto, la p. 63 del mio libro, con la p. 56. È frequente, quando si è accusati di contraddizione, che a propria difesa, si invochi il contesto che restituirebbe coerenza, se fosse considerato per quel che è, alle parole giudicate discordanti. È una procedura difensiva che produce noia, e spesso irritazione. Ma ricorrervi è talvolta, e quando appunto il contesto sia stato mal interpretato, inevitabile. Lo è anche in questo caso, perché, in effetti, la contraddizione, ma io preferirei parlare, di non piena coincidenza, di sfasatura, di ambiguità, di oscillazione, di incertezza era in Cantimori: come, in modo esplicito, mi era accaduto di notare e far notare. Era in Cantimori; che del nazionalsocialismo non accoglieva l’ideologia fondamentale, non era lui stesso un teorico della razza e del sangue, che considerava «miti» politici, e di tutto quello che ne conseguiva; ma con il nazionalsocialismo almeno in un punto era «costretto» a convergere: nella persuasione che, come ho detto, la civiltà liberale e borghese fosse giunta al termine della sua parabola, e che della realtà occorresse prendere atto, anche se in sé stessa, contenesse cose sgradite, non solo agli abitanti del «nobile castello» huizinghiano, ma anche a lui. Si determinava in Cantimori una situazione per certi versi analoga a quella che acutamente Thomas Mann avrebbe diagnosticata nel capitolo del Doktor Faustus in cui, descrivendo le riunioni che, subito dopo la conclusione della prima guerra mondiale e nel torbido clima che ne seguì, si tenevano nella casa di Sixtus Kridwiss, e esponendo i sinistri pensieri che vi avevano corso, osservò che «in der leidenschaftslosen Erkenntnis des Wircklichen, eben aus Freude an der Erkenntnis, immer etwas von Gutheissung liegt».55 Di qui, con ogni probabilità, l’irritazione con la quale (si pensi al giudizio dato nel 1936 su La crisi della civiltà di Huizinga, e reiterato nel 1964) Cantimori guardava a coloro che, chiusi nel nobile castello e inconsapevoli delle troppe crepe che ormai preludevano al suo crollo, si rivolgevano con degnazione, e ostentando superiorità e dispregio, a quel che accadeva al di fuori delle sue mura. In quel dispregio gli accadeva di cogliere, non soltanto le ragioni serie di una diversa convinzione politica e il profilo di un’opposta ideologia, ma anche, il più delle volte, ignoranza, superficialità, e, quel che è peggio, rifiuto di informarsi e di conoscere. Che era quel che più lo offendeva. C’è un testo, appartenente agli ultimi anni della sua vita, sul quale, per illustrare questo suo atteggiamento, conviene fermarsi per qualche tratto. È un testo 55. ���������� Th. Mann, Doktor Faustus, Frankfurt am Main 1965, pp. 484-485.
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di raffinata complessità, allusivo, incline alla malinconia e al disincanto, ma pur deciso nel dichiarare ferma avversione alla presuntuosa ignoranza ideo logica. È anche, forse, un testo sottilmente, per un verso, autopologetico, e pure schietto e autentico, per un altro. Accingendosi a parlare del libro che Gerhard Ritter aveva dedicato a Goerdeler e ai cospiratori del 20 luglio 1944, Cantimori rievocava il Congresso internazionale di scienze storiche che si era tenuto a Zurigo del 1938, e alla relazione che l’autore di quel libro vi aveva dedicata a Lutero. Ritter era, come si sa, un assai autorevole studioso della Riforma protestante, nonché, in particolare, del suo protagonista tedesco; e la sua relazione era stata pari alla sua fama. Ma, in quell’anno fatale, mentre sull’animo dei congressisti incombeva ancora «il ricordo della crisi di Monaco» e «in Italia si annunziavano le leggi razziste»,56 il clima era troppo turbato perché il discorso di Ritter potesse essere apprezzato per quel che era. Sta di fatto che, sebbene avesse appartenuto alla scuola di Hermann Oncken e discendesse perciò da Ranke e da Droysen, nella sua relazione si colse l’intento di presentare un Lutero nazionalsocialista. E non si considerò che, mentre «Lutero non era identificabile con Calvino o con Melantone» e che il discorso che era stato pronunziato dallo storico tedesco «era fondato su dati di fatto», interpretarlo come espressione di nazionalsocialismo era un imperdonabile errore. Ritter era «un conservatore, un luterano di saldi fondamenti», un nemico, non un amico della dittatura di Adolf Hitler. Ma di lui i congressisti «sapevano troppo poco». «Sempre abbastanza», tale l’amaro commento di Cantimori, «per l’indignazione morale, naturalmente, e per la decisione etico-politica; ma insomma il vecchio detto che bisogna conoscere, studiare bene, criticamente, con lucidità, i propri nemici, veniva dimenticato per l’orrore di tutto quel che si sapeva dei nazionalsocialisti, e che gli storici tedeschi in apparenza ignoravano»; non abbastanza per sapere quel che in effetti «pensassero i nazionalsocialisti; ma guai a cercare di informarli! Uno correva il rischio di esser considerato reprobo e traditore».57 Dopo di che, la verità fu in qualche modo, ossia per vie oblique, ristabilita quando, nel pomeriggio, giovani storici tedeschi di netta ispirazione nazionalsocialista aggredirono «Ritter, per aver presentato un Lutero non veramente tedesco, non antisemita, non precursore di Hitler, troppo cristiano, e così via…».58 56. D. Cantimori, Gerhard Ritter, in Storici e storia. Metodo, caratteristiche e significato del lavoro storiografico, Torino 1971, pp. 364-365. 57. Ibidem, p. 365. 58. Ibidem.
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Può darsi che, delineando il sé stesso del 1938 come, nello stesso tempo, bene informato di quel che i nazionalsocialisti pensassero e non solidale con loro, Cantimori ci tenesse a far sapere che, appunto, se essere informati non significa essere solidali, non essere solidali non significa non essere informati e, per questa via, suggerisse la giusta direzione a quanti, in futuro, avessero preso a considerare la sua vicenda intellettuale e politica negli anni del fascismo e del nazionalsocialismo. Del resto, c’era, nelle pagine dedicate al libro di Ritter sui cospiratori del 20 luglio 1944, qualcosa di più; che, per questo aspetto, tracciava nel segno della continuità l’evoluzione del suo pensiero. Basti pensare al rapporto che, sottilmente, nel suo stile più puro, Cantimori vi stabiliva fra l’antinazismo conservatore del Goerdeler, e di quanti con lui avevano attentato alla vita di Hitler, e quello di un personaggio come Ernst Niekisch, che già aveva attratta la sua attenzione quando studiava la Germania che aveva prodotto il nazionalsocialismo. Non è, questo, un passaggio che possa essere illustrato qui nella sua interezza. Ma certo è che, rievocando l’attività del Niekisch, che anche Ritter aveva ricordato nel suo libro per dichiarargli il suo rispetto nell’atto in cui giudicava da non prendere tuttavia sul serio la confusa stravaganza dei suoi pensieri, Cantimori faceva notare che, se questi erano stravaganti, vecchia era l’idea della congiura ordita da pochi contro il tiranno. Pensata come l’azione di un piccolo gruppo di aristocratici rappresentanti del vecchio ordine prenazista, quella congiura fallì non solo perché, aiutato dalla fortuna, Hitler riuscì a non soccombervi, ma anche per l’angustia del quadro entro il quale quell’atto era stato pensato, per l’isolamento in cui i suoi protagonisti avevano deciso di mantenersi rispetto ad altre forze dell’opposizione tedesca, e anche, per esempio, a Niekisch, che era stravagante con i suoi miti e i suoi simboli, ma contro il tiranno lottava anche lui onorevolmente, e, comunque, nella realtà c’era anche lui. Così, faticosamente, ma in spirito di verità, Cantimori cercava di individuare il filo della sua vita; che, certo, aveva conosciuto nel tempo vari aggrovigliamenti, si era più volte annodato in modo che non in ogni suo segmento avrebbe potuto essere restituito alla linearità della piena coerenza. Ma era pur sempre il simbolo dell’inquieto pensiero di un uomo che poiché, per conoscere, si era immerso nel sottosuolo, non aveva potuto impedire che di quella immersione le sue vesti risentissero alquanto, e che, ai tanti dubbi che non potevano non sorgergli dentro via via che osservava e studiava, una certezza tuttavia si opponeva e restava ferma: e cioè che, come quello dei Croce, degli Huizinga, dei Thomas Mann e dei tanti signor Settembrini
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che li simboleggiavano, anche il mondo di Karl Fr. Goerdeler e di Gerhard Ritter era giunto al tramonto. 12. Fu questa la fisionomia intellettuale che, avendo riflettuto sui suoi scritti fin dai tempi lontani in cui sedevo sui banchi della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’allora unica Università di Roma e, fra gli altri, ascoltavo Carlo Antoni, lentamente assegnai a Cantimori per delinearla quindi in modo compiuto nel libro del 2005. La si potrebbe certo arricchire di nuovi particolari, rilevarne, con più nettezza, certi tratti: anche e sopra tutto se nuovi documenti intervenissero a chiarire meglio la storia delle sue amicizie e persino delle sue letture. La si potrebbe anche cancellare per delinearne un’altra che con più intelligenza e profondità si sapesse dedurre dai documenti della sua vita e del suo pensiero. Cantimori fu scrittore complicato, talvolta criptico; molto intelligente, in ogni caso, e tale che, se si torna leggerlo, qualcosa che prima era sfuggito è destinato a imporsi. Ma dubito che arriverà mai a intenderlo chi nei suoi scritti e nelle vicende a sua biografia non ricerchi se non la prova del suo esser stato diverso dal personaggio idealizzato dai suoi ammiratori e seguaci, e ogni suo sforzo ponga nel cercargli complicità imbarazzanti con pensieri perversi. Della complessità, anche psicologica, che era in lui, e anche della convergenza che, in re, talvolta si determinava con quel che studiava tentando di non farsene coinvolgere, ho cercato, nell’interpretare questo aspetto del suo pensiero, di tenere il massimo conto. Per questo, negando che al nazionalsocialismo Cantimori fosse mai giunto a convertirsi, ho scritto quel che si legge alle pp. 64-65 del mio libro, che prego chi fosse interessato alla questione di andare a riscontrare là dove stanno, per consentirmi di essere, nell’autocitazione, il più stringato possibile. Occorrerebbe infatti riferirle per intero. Al D’Elia, e a quanti si fossero trovati a concordare con il suo giudizio, basterà perciò far notare che, se sono stato io a scrivere che «i sentimenti antiborghesi e antiliberali che, in qualche modo», Cantimori «era costretto a condividere con il nazionalsocialismo, erano destinati a rivelarsi tutt’altra cosa quando fossero stati chiamati a far parte di un contesto intellettuale caratterizzato dall’idealismo di Giovanni Gentile»,59 non a me, che l’avevo rilevata, poteva attribuirsi quella che egli ha definita «contraddizione». Ma, se piaccia usare questo termine, a Cantimori; al quale, «in quegli anni», quei due temi 59. Sasso, Delio Cantimori, p. 64.
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erano entrambi presenti senza che a lui, come ad altri, fosse possibile farli coesistere nel segno dell’armonia. Per questo ho aggiunto che forse già allora, in un angolo oscuro della sua coscienza, la domanda se il momento erasmiano, weberiano, crociano dello studio indipendente, “disinteressato”, eventualmente sereno, sarebbe stato, anche se lo si fosse consentito, sufficiente a trarre in salvo le anime, era già stata formulata: senza che tuttavia egli fosse in grado di darle una positiva, confortante, risposta.60
Ma, se è così, ripeto, dov’è la contraddizione nella quale sarei incorso? 13. Non direi che il D’Elia abbia più fortuna nell’analisi da lui dedicata a un luogo del libro nel quale, delineando il tema di questa sua giovanile duplicità, accennavo alla difficoltà che, da giovane, Cantimori incontrava a tenere drasticamente separate la valutazione del fascismo italiano e quella del nazionalsocialismo germanico, nati entrambi dalla crisi politica e sociale del dopoguerra con finalità, per certi aspetti, simili. Il D’Elia mi obietta, anzi mi «ricorda», che Cantimori non considerava né il nazionalsocialismo né il fascismo semplicemente come gli effetti della crisi politica, sociale e morale prodotta dalla Grande Guerra»; che, «a suo giudizio, essi rappresentavano, piuttosto, lo sbocco di movimenti spirituali che avevano radici profonde nella storia e nella cultura italiana e tedesca»; e che, sopra tutto, sarebbe stato necessario considerare che la sua posizione nei confronti del nazionalsocialismo ebbe a subire «significativi mutamenti nel corso degli anni Trenta».61 Ma, nel dire così, non mi sembra che, nella prima asserzione, egli esca dal generico, e sia felice, perché l’invocazione delle «radici profonde» ha sapore retorico, e non critico, se non è determinata e resa concreta dalla loro individuazione: senza dire che è almeno in parte contraddetta dall’assegnazione a me, o anche a me, che l’avrei negata, della tesi, del resto non peregrina, secondo cui il «movimento hitleriano» raccolse l’«eredità del pangermanesimo».62 Salvo errore, a parte un breve e anche generico accenno che si trova in uno scritto del 1927, nel quale il fascismo è gentilianamente considerato erede del Risorgimento, la cui radice è, a sua volta, indicata nell’età dei Comuni, non direi che, prima e dopo la seconda guerra mondiale, Cantimori si producesse in analisi concernenti le «lontane» origini del 60. Ibidem, p. 65. 61. N. D’Elia, Delio Cantimori e la cultura politica tedesca (1927-1940), Roma 2007, p. 117. 62. Ibidem, p. 118.
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fascismo e del nazionalsocialismo. Per quel che concerne il primo, né allora né poi, egli partecipò alla discussione e alle polemiche, che si fecero acute nel secondo dopoguerra, sul punto se il fascismo fosse stato una «parentesi» o non, piuttosto, in luogo della «rivoluzione» che altri vi vedeva, la «rivelazione» di antichi mali della società, o, meglio, delle società italiane; e non può considerarsi un caso che il nome di Gobetti ricorresse una sola volta,63 e quasi incidentalmente, negli scritti giovanili, e pochissime, e mai in modo specifico, fosse ricordato in quelli composti nel secondo dopoguerra. In riferimento alla genesi del nazionalsocialismo, Cantimori si limitò ad accennare al pangermanesimo nella sua riedizione novecentesca e al culto di Hutten nei giovani «conservatori rivoluzionari»;64 e per quanto concerne il secondo dopoguerra, basterà ricordare le critiche mosse al Viereck e alla sua Metapolitics,65 molto apprezzata invece da Carlo Antoni.66 14. Il punto delicato è tuttavia l’altro, relativo ai «significativi mutamenti» che, nei confronti del nazionalsocialismo, la posizione cantimoriana avrebbe subiti «nel corso degli anni Trenta». Quei mutamenti sarebbero stati determinati dalla consapevolezza che, mentre era sulla via di diventare comunista, egli acquisì dell’importanza, non solo di alcuni aspetti della legislazione sociale nazionalsocialista (organizzazione del lavoro, questione agraria), ma anche, e per conseguenza, del formarsi dell’opinione secondo la quale bolscevismo e nazismo, l’estremismo di sinistra e quello di destra avrebbero costituito un fronte unico rivoluzionario per la distruzione delle democrazie liberali dell’Occidente. Di qui, secondo il D’Elia,67 la 63. Cantimori, Politica e storia contemporanea, p. 589. 64. Cfr. il mio Delio Cantimori, pp. 37-47, passim. 65. D. Cantimori, La «Metapolitica» (1945), in Studi di storia, Torino 1959, pp. 727744 (particolarmente pp. 729-730). 66. C. Antoni, in «La città libera», 22 febbraio 1945, p. 10. E cfr. anche Il nazismo: fenomeno culturale (1946), in Tre scritti storici, n. ed., Napoli 1997, pp. 46-57. 67. E anche, vedo, F. Vander, Delio Cantimori fra fascismo e comunismo, in «Teoria politica», 22 (2006), p. 125. Poiché, nel condividere questa tesi (e polemizzare, per conseguenza, con me), il Vander non arreca nuovi documenti, e, piuttosto, fra le altre cose, ci informa che le responsabilità degli intellettuali precedono e sono più gravi di quelle dei politici, credo che, per quanto è del primo punto, possa valere anche per lui quel che dico in genere della tesi che egli condivide; mentre, per quanto è del secondo, lascio a lui la decisione, perché la quantificazione delle responsabilità non è esercizio che mi appassioni. Vorrei solo avvertirlo che ho letto con sorpresa il passo in cui scrive della «liquidazione» che avrei fatta della testimonianza di Garosci circa il fascismo-trotzkismo cantimoriano
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verisimiglianza e la plausibilità della tesi, proposta da Paolo Simoncelli, di una convergenza, che in Cantimori si sarebbe determinata fra alcuni aspetti del nazionalsocialismo, da una parte, e del marxismo/leninismo, da un’altra; una convergenza che sembrò aver trovata la sua conferma politica nel patto di non aggressione sottoscritto, nel 1939, dalla Germania nazista e dall’Unione Sovietica. In quell’accordo che, sebbene si estendesse l’anno dopo a patto di amicizia, fu, all’inizio, non di alleanza, ma di non aggressione, e tenesse ferma perciò, sullo sfondo, l’ostilità reciproca di due potenze che, per ragioni politiche e militari, sceglievano intanto di non aggredirsi, – in quell’accordo che sconvolse la coscienza di non pochi comunisti, che se ne sentirono traditi nei loro più profondi convincimenti ideologici, Cantimori avrebbe invece visto l’avverarsi di quel che per lui si era venuto poco alla volta chiarendo nel corso degli anni: e, potrebbe dirsi, il concretarsi dell’idea secondo cui, al di là delle differenze, c’era, fra i due sistemi totalitari, qualcosa che li univa nell’avversione profonda che li spingeva entrambi a combattere contro le democrazie capitalistiche e liberali dell’Occidente europeo. Insomma, si potrebbe dire con una formula riassuntiva della tesi che il D’Elia ha ripresa, Cantimori divenne comunista dopo essere passato attraverso lo studio, e, per certi aspetti, l’apprezzamento, anzi il persistente apprezzamento, del nazionalsocialismo. Senza spingersi fino a dire che non lo sarebbe diventato se quel passaggio non fosse avvenuto, per intanto, secondo il D’Elia, conviene prendere coscienza del fatto che quel passaggio vi fu ed ebbe conseguenze. Si inscriverebbe perciò in questo quadro l’accoglimento della proposta, fattagli da Gioacchino Volpe, di un libro antologico con Introduzione generale e note introduttive alle varie sezioni documentarie, che Cantimori avrebbe dovuto mettere insieme sul nazionalsocialismo; e che poi non realizzò, perché, da quando, nel 1939, ne aveva preso l’impegno, tante cose erano accadute, e stavano accadendo, che lo tennero lontano dall’onorarlo e lo indussero a non pensarci più.68 degli anni trenta, essendomi io, nel luogo in cui ne parlo, limitato a chiedere in forza di quali letture e informazioni lo si fosse, allora, definito così. Era, se mai, quella che formulavo, una domanda che, non potendo ricevere risposta da parte di colui che aveva reso la sua testimonianza, implicava che nemmeno io sapessi dargliene una, positiva o negativa. Sono troppo poco esperto del pensiero di Trockjii, per poter decidere se qualcosa di lui, in quegli anni, fosse passato in Cantimori; che, per parte sua, non ne ha parlato tanto da rendere chiaro quale fosse al riguardo il pensiero suo. 68. Cfr., al riguardo, quel che ho scritto in Delio Cantimori, pp. 62-63.
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Nel riassunto della relazione tenuta da Simoncelli al Convegno cantimoriano della Luiss, la tesi era presentata con brevità, ma con chiarezza. «Avviato», vi si leggeva, «al tempo in cui il patto Ribbentrop-Molotov era in vigore», il libro «non rispondeva più – nell’autunno ’41 –alla nuova drammatica svolta del conflitto, dopo l’aggressione tedesca all’Unione sovietica»; sì che «non sorprende che Cantimori abbia atteso e procrastinato vieppiù la pubblicazione del suo lavoro». Formulata così, la tesi avrebbe presto mostrata, almeno in un punto, la sua debolezza: se cioè si fosse considerato che fra l’accettazione cantimoriana della proposta fattagli da Volpe e i patti tedesco-sovietici del 1939 il nesso era assai meno stretto di quanto, nella prima formulazione della sua tesi, il Simoncelli aveva lasciato intendere: anzi, non era affatto un nesso. Il patto di non aggressione tedesco-sovietico fu firmato fra il 23 e il 24 agosto l939. La lettera con cui Volpe invitava Cantimori a comporre il volume antologico sul nazionalsocialismo era stata scritta il 5 luglio; la risposta, positiva, il giorno successivo. È evidente che, niente lasciando prevedere che quel patto sarebbe stato sottoscritto dalla Germania nazionalsocialista e dalla Russia sovietica, la ragione per la quale prima Cantimori accolse l’invito di Volpe, e poi non lo realizzò, non fu quella alla quale, in un primo momento, il Simoncelli aveva pensato.69 L’accettazione dipese non dal nuovo clima politico che poteva ritenersi fosse stato inaugurato dal patto sovietico/tedesco, ma, con ogni probabilità, dell’interesse che Cantimori provava a raccogliere in un volume, fatto di pagine sue e di documenti, tutto quel che, da più di un decennio, aveva studiato e pensato in tema di nazionalsocialismo: da un interesse che, com’è ovvio, si volgeva alle tante cose da cui il nazionalsocialismo aveva tratto alimento e che poi erano state sacrificate da Hitler sull’altare dei suoi convincimenti più profondi e della più pura Realpolitik. La non realizzazione, o la soltanto parziale realizzazione, del progetto, non dipesero dal fallimento dei patti e dall’attacco militare sferrato nel giugno del 1941 dalla Germania contro l’Unione Sovietica. Ma da altro. 15. Se la tesi secondo cui, all’origine del libro antologico che Cantimori avrebbe dovuto comporre sul nazionalsocialismo, agì la suggestione esercitata su di lui dal patto di non aggressione tedesco-sovietico, incontra 69. La successione delle date è ora stabilita con precisione, e le precedenze sono perciò fissate con nettezza, proprio da P. Simoncelli, Cantimori e il libro mai edito. Il Movimento nazionalsocialista dal 1919 al 1933, Firenze 2008, p. 26.
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nelle date il suo limite invalicabile, non per questo sarebbe giusto fare come se non fosse mai stata formulata. Nata dall’intento di dimostrare coinvolto in torbide esperienze politiche chi, nel recente passato, fu indicato come il maestro di un diverso pensiero, fra le altre cose quella tesi implicava un’idea del rapporto che, nel 1939, dopo la guerra di Spagna e alla vigilia del secondo conflitto mondiale, nella mente di Cantimori si era stabilito fra nazionalsocialismo e comunismo, che richiede comunque di essere discussa: e non solo perché il D’Elia la ritennesse «meno inverosimile»70 di quanto non fosse apparsa a me che l’avevo infatti giudicata «non credibile». Deve perciò tornarsi a distinguere. Si sa bene, e lo si può leggere anche nel libro che gli ho dedicato, che nella sua esplorazione del sottosuolo culturale tedesco del prima dopoguerra, la curiosità di Cantimori era stata attratta dalla convergenza che allora si era manifestata da varie parti fra i conati ideologici del deutscher Sozialismus e il bolscevismo sovietico; che non solo gli Strasser erano stati al centro della sua attenzione, ma anche personaggi della destra conservatrice come i conti Reventlow e BrockdorffRantzau, per non parlare di Ernst Jünger; e che netta era stata la differenza che egli aveva notata e sottolineata fra il nazionalsocialismo delle origini, o i vari movimenti politico-ideologici che furono alla sua origine, e la definizione e normalizzazione che progressivamente esso subì quando diventò un partito. Non era dunque necessario che, lasciando per altro sbalordito e incredulo il mondo intero, Hitler e Stalin sottoscrivessero, attraverso i loro ministri, quell’accordo, perché dinanzi a Cantimori si rivelasse la segreta corrispondenza esistente, in re, per certi aspetti, fra il nazionalsocialismo e il comunismo sovietico, ed egli ne fosse indotto a accelerare la sua piena conversione a quest’ultimo. Quel che, se mai, occorre dire, e anzi ripetere,71 è che, come varie suggestioni «comuniste» gli vennero dagli ambienti del già ricordato deutscher Sozialismus e, per esempio, dagli scritti di Jünger, fra le altre vie che Cantimori percorse per arrivare al comunismo, una gli fu indicata dai «Nuovi Studi» di Spirito e dei Volpicelli, i cui scrittori non avevano atteso il patto tedesco-sovietico per rivolgere il loro interesse all’esperimento che si stava compiendo in Russia.72 70. D’Elia, Delio Cantimori, p. 118. 71. Sasso, Delio Cantimori, pp. 32, 65-66. 72. Il rapporto che Cantimori intrattenne con Ugo Spirito, con la sua critica dell’economia e con la sua idea della corporazione proprietaria, meriterebbe di essere sistematicamente studiato. Qualche osservazione in M. Ciliberto, Intellettuali e fascismo. Saggio su
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Anche in questa rivista, che era attenta a quel che avveniva, non solo in Germania, ma anche nell’Unione Sovietica, Cantimori trovò infatti molto su cui riflettere e da cui trarre informazioni: sì che non è arbitrario dire che, se il passaggio al comunismo è difficile da determinare nel momento del suo effettivo essersi prodotto, tanto più la frequentazione intellettuale dei problemi e dei pensieri dibattuti in quella rivista dev’essere considerata e contata fra le cose che contribuirono a determinarlo. Detto e ripetuto questo, è necessario, come dicevo, distinguere. L’interesse per la convergenza ideologica che, in alcuni settori del movimento nazionalsocialista, si era determinata nei confronti dell’esperimento bolscevico, nacque presto, come si sa, nella Germania inquieta e turbata del primo dopoguerra e, per conseguenza, in Cantimori che ne studiava e osservava le passioni. Nacque assai prima comunque che i ministri degli esteri della Germania nazionalsocialista e dell’Unione Sovietica sottoscrivessero i patti del 1939. In quell’anno, tuttavia, la convergenza avveniva, non sul piano ideologico e a opera di intellettuali impegnati nella politica, ma su quello della più schietta Realpolitik, in nome della quale, passando sopra le differenze ideologiche che le opponevano e che tre anni prima, in Spagna, le avevano viste schierate, l’una contro l’altra, su fronti opposti, la Germania nazista e l’Unione Sovietica badavano, ciascuna, al proprio immediato interesse. Per questo nel mio libro esclusi che la sottoscrizione di quel patto potesse aver persuaso Cantimori che il nazionalsocialismo era tornato a certe sue origini, e che una nuova era ideologica si stesse dischiudendo. A prescindere dalla date, senza troppo preoccuparsi che in questo modo gli si attribuivano un candore e una ingenuità che non si erano mai conosciuti in lui, il D’Elia mi ha opposto che, comunque, «non soltanto di questo si trattava». E, a riprova, ricordò quel che Cantimori aveva scritto nel 1940 sul fallimento della politica del «fronte popolare», sulla scissione avvenuta fra il comunismo della III Internazionale e i partiti socialisti e radicali, sulla svolta autoritaria e antidemocratica dell’Unione Sovietica, per asserire che, in seguito a questi eventi, i concetti di «sinistra» e «democrazia» indicavano non più l’«”estremismo comunistico”, bensì il “liberalismo sociale” rappresentato dalle “correnti dominanti” in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti».73 Questa brusca metabasis non è fatta per arrecare Delio Cantimori, Bari 1977, pp. 28 ss., passim, e in G. Santomassimo, La terza via fascista. Il mito del corporativismo, Roma 2006, pp. 200-201. 73. D’Elia, Delio Cantimori, p. 119.
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chiarezza. Se «non soltanto di questo si trattava», è evidente che anche di questo si trattava: sì che la questione se fra i patti tedesco-sovietici e l’accettazione cantimoriana della proposta di Volpe si fosse stabilito o no un nesso, restava al centro del suo quadro. Detto questo, debbo aggiungere che non capisco la forza logica di quel «non soltanto»: ossia quale rilievo abbiano, per la questione che egli aveva posta a proposito del convergere del nazionalsocialismo e del bolscevismo a opera rispettivamente del governo tedesco e di quello sovietico, le metamorfosi del termine «sinistra» nei diversi contesti politici. La riappropriazione che i partiti di ispirazione liberaldemocratica, o in alcuni settori di essi, ne era stata fatta stava forse a indicare che l’Unione Sovietica era passata ormai nel campo della Germania, o questa nel campo occupato dalla grande potenza comunista? Posto che questa sia l’opinione del D’Elia, non direi proprio che lo fosse anche di Cantimori. Nell’articolo Sinistra del Dizionario di politica egli aveva bensì osservato che motivi di sinistra erano stati agitati, negli ultimi anni, e «adoperati occasionalmente anche dalla propaganda dei movimenti di “destra”, e più da quella del nazionalsocialismo (dove la “sinistra” era rappresentata dal “nazionalcomunismo”) che da quella del Fascismo, dove alcuni motivi di “sinistra” sono stati ripresi dalle correnti del “corporativismo”». Aveva bensì aggiunto che «dalla politica del “fronte popolare” s’è svolto negli ultimi due anni il movimento di rivalutazione del principio democratico, in Francia, Inghilterra e Stati Uniti soprattutto»; e quindi specificato che «lo spostamento della polemica dal piano delle competizioni interne a quello della lotta fra le grandi potenze ha condotto allo spostamento delle idee di “sinistra” e di “democrazia” non più verso l’estremismo comunista, ma verso un liberalismo sociale rappresentato dalle correnti dominanti nei tre stati suddetti».74 Che qui, nelle ultime linee, si alludesse al mutamento degli equilibri che si era determinato con i patti tedesco-sovietici del 1939, è evidente: quanto lo è che di qui il D’Elia ha tratto informazione e giudizio. Ma in queste linee non c’è tuttavia niente che lasci pensare a un capovolgimento delle alleanze che fosse tale da riassorbire le antiche inimicizie; niente che autorizzi a credere che, per Cantimori, alla mobilità delle parole («sinistra», «democrazia», etc. ) e alle loro trasmigrazioni corrispondesse un’analoga mobilità ideologica: senza dire che se questa fosse stata invece la sua opinione, a motivarla sarebbe stato allora l’incontro del nazionalsocialismo e del comunismo nel segno, non della sinistra e delle 74. Cantimori, Politica e storia contemporanea, p. 666.
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sua ideologia, ma della più pura politica di potenza; non del deutscher Sozialismus, ma del sacrificio, sull’altare della Realpolitik, delle sue aspirazioni «comuniste», del resto da tempo sconfitte. Non vedo dunque, se è così, come il D’Elia abbia potuto scrivere che «nello stesso momento in cui registrava il mutamento della collocazione dell’Unione Sovietica nel quadro della “lotta internazionale fra le grandi potenze”», Cantimori, «coglieva nell’attività legislativa del nazionalsocialismo la presenza di tracce significative della sua “volontà di rivoluzione totale” in una forma nuova». In realtà, né i nazionalsocialisti avevano aspettato di stringere un patto di non aggressione con l’Unione Sovietica per dar corso ai loro programmi di politica sociale, né datava dal 1939 l’interesse di Cantimori per questi aspetti della nuova legislazione sociale tedesca. Già nel 1934, nelle Note sul nazionalsocialismo forte era stata l’insistenza su questi aspetti della politica sociale nazista, sugli uomini che se ne erano fatti protagonisti, sulle forti resistenze che incontravano presso i circoli conservatori e della grande industria; e l’interpretazione che, in extremis, e in nota, egli fece in tempo a dare della famosa notte del 30 giugno 1934,75 sta a testimoniare che la relativa questione era viva in lui come, sebbene contrastata, lo era nelle cose. Che poi alla fine degli anni trenta la politica sociale del Partito avesse trovata la sua definizione, e, senza darle tuttavia particolare rilievo, Cantimori la registrasse, è vero, ovviamente. Ma egli si guardava bene dal metterla in relazione con la situazione internazionale determinata dai patti del 1939: senza dire che la «forma nuova» che le era stata conferita era, nelle sue parole, «quella dello Arbeitsdienst, soldatescamente organizzato, a carattere militare-educativo». La «rivoluzione totale» che ne era definita era cosa certo assai diversa da quella che Cantimori poteva intendere realizzata in una società autenticamente comunista, e anche dall’altra che egli aveva incontrata negli scritti degli Strasser o di Jünger, che, se non il suo consenso, avevano tuttavia suscitato il suo interesse. Non c’è prova, come si è detto, che Cantimori avesse mai pensato che il patto di non aggressione tedesco-sovietico preludesse a un’alleanza politica-militare in ragione della quale l’Unione Sovietica si sarebbe unita alla Germania nazionalsocialista e all’Italia fascista in un fronte ostile alle democrazie liberali e democratiche dell’Occidente nella guerra che nell’agosto 1939 era avvertita da tutti come inevitabile e imminente. Sebbene, che si sappia, non ne parlasse mai per iscritto (anche perché, per il falangismo 75. Ibidem, p. 191 n. 42.
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di Francisco Franco, non provava alcuna simpatia76), sembra difficile che la guerra di Spagna non si fosse imposta alla sua attenzione, chiarendo in modo definitivo quale sarebbe stato, nel prossimo futuro, lo schieramento delle potenze nella guerra che si annunziava imminente. Sembra difficile pensare che sul serio egli credesse che la delineazione delle forze che lì era avvenuta potesse essere messa in discussione dal patto di non aggressione tedesco-sovietico, e che, dopo essersi affrontate e scontrate in Spagna, la Unione Sovietica e la Germania nazionalsocialista fossero destinate a trovare un’intesa stabile nel segno dell’ostilità che le opponeva entrambe alle democrazie dell’Occidente. Altrettanto difficile è credere che nella sottoscrizione di quel patto egli potesse vedere l’occasione e il segno della rivincita che gli antichi fautori dell’ideologica alleanza del nazionalsocialismo e del bolscevismo si sarebbero presa sulla normalizzazione hitleriana. In realtà, Cantimori sapeva benissimo che, quali che fossero le differenze che ciascuno faceva registrare nei confronti degli altri, l’ora politica degli Strasser, dei Rosenberg, dei von Reventlow, degli Jünger e Schmitt, di questi uomini che al nazionalsocialismo erano giunti con idee che non erano riuscite a imporgli e ne erano state sconfitte, era tramontata da tempo: tanto che, quando scrisse l’articolo sul Nazionalsocialismo, uscito nel 1940 nel Dizionario di Politica, lo disse senza mezzi termini.77 «Nel suo svolgimento», scrisse nel paragrafo dedicato alla dottrina nazionalsocialista, questo movimento ha convogliato dottrine politiche, sociali, economiche, filosofiche, spesso molto lontane fra di loro, anzi opposte. Seguire i motivi dello Strasser, p. es., da una parte, e quelli del Rosenberg e del von Reventlow, oppure quelli di uno Jünger o di un Carl Schimtt, dalle altre parti, avrebbe avuto una utilità mentre la rivoluzione nazionalsocialista era ancora in corso, e mentre le sue tendenze erano appariscenti nella vita del partito e nei suoi contrasti; ora invece importa esaminare ed esporre le principali dottrine nazionalsocialiste come risultano in atto, cessate le discussioni ideologiche e dottrinali e rivoltasi tutta l’attenzione alla attuazione dei principi nazionalsocialistici generali e alla propagazione di essi in estensione e profondità in tutta la Germania.78
76. Un accenno, nettamente critico, al falangismo è in Politica e storia contemporanea, p. 737 (cfr. R. Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l’itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943), in «Storia della storiografia», 31 (1997), p. 121). 77. Cantimori, Politica e storia contemporanea, p. 467. 78. Ibidem.
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E a questo proposito può notarsi, ora che dal libro testé uscito del Simoncelli può dedursi la linea tracciata da Cantimori nell’incompiuto e non pubblicato libro antologico sul nazionalsocialismo, che l’interesse che era tornato a manifestarvi nei confronti di quelle dottrine, e del vario fermento che avevano prodotto nel movimento e poi nel Partito, derivava non dal loro essere tornate di attualità nel periodo in cui la sua stesura e composizione erano in atto, ma da tutt’altro. La loro attualità era infatti, per dir così, storiografica e non politica; e nasceva dall’intenzione storicizzante di Cantimori che, partendo da lontano, ne era spinto a dar rilievo anche a uomini che, dopo aver svolto la loro qualsiasi funzione, erano stati via via vinti, eliminati, o messi da parte. Con tutto questo i patti tedesco/sovietici non c’entrano proprio niente. Non so quali reazioni provocasse in Cantimori e in Emma Mezzomonti, una coraggiosa comunista, operante nel soccorso rosso e in altre attività clandestine, che egli aveva sposata nel 1936,79 la notizia del patto di non aggressione tedesco-sovietico del 1939. Malgrado la fedeltà che ogni comunista sentiva di dovere alla linea imposta da Mosca anche quando questa fosse stata di difficile comprensione politica e morale, è ben noto che, prima di rifluire nel grande fiume dell’ortodossia, le reazioni dei militanti furono di sconcerto, di sgomento, di incredulità.80 Fascismo e nazionalsocialismo erano i nemici giurati del comunismo sovietico: proprio come questo lo era del fascismo e del nazionalsocialismo. Nessuno, a tacer d’altro, poteva dimenticare quel che del comunismo russo Hitler aveva scritto in Mein Kampf. Nessuno poteva dimenticare come nazisti e comunisti si fossero combattuti 79. Non riprenderò qui la questione relativa al momento in cui si determinò, o, per meglio dire, si concluse il passaggio di Cantimori al comunismo, che certo richiese tempo ed ebbe radici lontane, rimaste per lungo tempo a lui stesso nascoste. Lo si può, d’accordo con altri, ritenere sostanzialmente avvenuto nel 1938: anche se, per quello che ho detto a proposito della lenta evoluzione che lo condusse a quella sponda, non darei importanza decisiva a colloqui avvenuti con questo o con quello (altra cosa, naturalmente, l’influenza esercitata da Emma Mezzomonti): cfr. comunque S. Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del PCI 1936-1948, Milano 1980, p. 316, a proposito di un colloquio avvenuto a Parigi, presumibilmente nel 1938, con Ambrogio Donini (e cfr. Pertici, Mazzinianesimo, p. 126). Vorrei osservare, per altro, che se a Parigi, nel 1938, un personaggio come Cantimori incontrava un fuoriuscito comunista militante, l’incontro non sarà stato determinato dal caso, ma da un pregresso interesse per quel personaggio e per quel che rappresentava. 80. P. Spriano, I comunisti europei e Stalin, Torino 1983, pp. 92-116, e anche Storia del Partito comunista italiano, III, I fronti popolari, Stalin, la guerra, Torino 1970, pp. 313 ss.
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al tempo di Weimar, e quale fosse stato l’esito della lotta. Se, nell’anno e mezzo che il patto di non aggressione, e poi d’amicizia, durò, la stampa e la propaganda sovietica preferirono parlare, non di fascismo, ma di «circoli reazionari»,81 e i polacchi furono addirittura definiti «fascisti antinazi»,82 il gioco di prestigio mostrava il suo punto debole, non tanto, o non soltanto, nella disinvoltura della definizione, quanto piuttosto nella difficile collocazione che quel linguaggio riservava al fascismo italiano. Il quale, paradossalmente, si trovava nello stesso tempo a condividere il filonazismo con l’Unione Sovietica e il «fascismo» con le potenze definite reazionarie: con la conseguenza che, se si fosse stati al gioco di queste definizioni propagandistiche, e le si fosse prese come verità, la conseguenza sarebbe stata che il comunismo russo avrebbe dovuto dichiararsi nemico dell’Italia perché antifascista, ma suo amico in quanto solidale con lei nell’amicizia che, l’uno e l’altra, li legava alla Germania nazionalsocialista. Giochi del linguaggio, si dirà, deduzioni puramente verbali, che non potrebbero mai, a loro volta, costituire la seria premessa di serie conseguenze politiche. Ed è così, senza dubbio: anche se la violenta deformazione linguistica della realtà sia uno dei tratti costitutivi delle dittature totalitarie del secolo ventesimo, e da ogni parte se ne siano pagate le conseguenze. Proprio, d’altra parte, perché era il linguaggio della propaganda a definire strumentalmente le forze in campo e a collocarle sulla carta senza riguardo alla posizione che occupavano nella realtà, di qui doveva dedursi che nessuno che avesse avuta la testa sulle spalle avrebbe potuto farsi illusioni sulla realtà di quel che era accaduto: meno di ogni altro un uomo come Cantimori che, quale che fosse allora il grado di maturazione raggiunto dalla sua, comunque avvenuta, adesione al comunismo, della propaganda e del suo linguaggio era (e sempre sarebbe stato) studioso attento e sensibilissimo. L’intesa che le rispettive diplomazie avevano realizzata fra la Germania e l’Unione Sovietica nasceva da, e perseguiva, scopi politici e militari immediati;83 e come nessuno poteva credere che la Gran Bretagna e la Francia fossero, tout court, definibili come «fasciste» o reazionarie, così, del pari, nessuno avrebbe potuto ritenere che il comunismo avesse cessato di 81. J. Ehrenburg, Uomini, anni e vita, IV, Roma 1963, p. 305. 82. G. Herling, Un mondo a parte, tr. it., Milano 1993, p. 200. 83. Sul patto tedesco/sovietico, cfr. W.L. Shirer, Storia del terzo Reich, tr. it., Torino 1962, pp. 559-592, e A. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica 1914-1945, Bologna 2007, pp. 447-464. Ma cfr. anche l’analisi di L. Salvatorelli, Un cinquantennio di rivolgimenti mondiali, II, Dalle guerre di Hitler alla coesistenza competitiva, Firenze 1976, pp. 92-96.
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essere il nemico mortale della Germania nazista e dell’Italia fascista, e che, a loro volta, queste non fossero considerate come capitali nemiche dall’Unione Sovietica. Quel che di lì a poco accadde quando, all’improvviso, Hitler si sentì forte abbastanza da attaccare l’Unione Sovietica e combattere sul fronte orientale mentre la Gran Bretagna era ancora saldamente in piedi, dimostrò che in tanto l’ideologia e la connessa passione vevano prevalso sulla prudenza in quanto quello comunista era per lui un nemico non meno mortale di quanto lo fossero le democrazie borghesi dell’Occidente, con le quali era in guerra da circa due anni. La convergenza della Germania nazionalsocialista e dell’Unione sovietica era stata provocata da ragioni politiche e militari che potevano nascondere, ma non certo far sparire, le fortissime divergenze ideologiche sussistenti fra i relativi regimi; che permanevano gravi, infatti, e irreparabili anche se, comune a entrambi, fosse l’ostilità nutrita nei confronti delle democrazie liberalcapitalistiche. Del resto, che l’attacco all’Unione Sovietica fosse nel destino della Germania, decisa a far crollare il suo impero e con questo a metter fine al «dominio ebraico», era stato detto da Hitler, con la massima chiarezza, già in Mein Kampf; e non c’era alcuna ragione di credere che, su un punto di simile rilievo, potesse aver cambiato idea. Alla fine del 1936, l’ottavo Congresso nazionale del Partito nazionalsocialista aveva proclamato, come proprio Cantimori aveva ricordato nel suo articolo sul Nazionalsocialismo, «la crociata internazionale contro il comunismo e contro l’U.R.S.S».84 L’idea che alcuni personaggi confluiti nel movimento nazionalsocialista avevano, nel primo dopoguerra, delineata del fronte unico russo-tedesco che avrebbe dovuto costituirsi contro le potenze imperialistiche dell’Intesa, era tramontata quando il Partito aveva definita e imposta la sua linea e anche ad altre, che avevano contribuito alla sua formazione, aveva tolta ogni legittimità. Sarebbe stato perciò ben singolare che un uomo come Cantimori che fin dall’inizio aveva seguito quelle vicende intellettuali e politiche, e che della storia del movimento e del Partito nazionalsocialista era esperto come pochi, avesse ritenuto, nel 1939, che la sottoscrizione da parte della Germania e dell’Unione Sovietica di quei patti di non aggressione e poi di amicizia potesse essere ricondotta a un tema ideologico, che, essendo sempre stato estraneo al pensiero di Hitler e dei suoi uomini, politicamente era tramontato da ben più che un decennio. Se mai, di fronte alla notizia di quell’accordo diplomatico, gli accadde di riandare col pensiero al nazionalbolscevismo, fu forse per notare come quel vecchio tema ideologico 84. Cantimori, Politica e storia contemporanea, p. 466.
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avesse conosciuto la sua morte e trasfigurazione in un accordo politico diplomatico stipulato in nome della più schietta Realpolitik, e niente dello spirito di quello fosse rimasto nella cruda realtà di questo. Non sappiamo, deve ripetersi, quali reazioni la notizia dei patti tedesco/sovietici del 1939 provocasse in Cantimori, quali pensieri mettesse in movimento nella sua testa. Ma che l’alleanza della Germania nazionalsocialista con l’Unione Sovietica stesse a significare, per lui, l’avvio di un nuovo corso della storia europea e di un’inedita alleanza avente per scopo l’abbattimento dei regimi di democrazia borghese, è ipotesi alla quale si stenta a credere: non perché di lui voglia farsi uno che a quei regimi non guardasse con ostilità, e non li giudicasse ormai al tramonto (da parte mia, qui e altrove, si è sostenuto proprio il contrario), ma perché sembra sul serio inverosimile che un conoscitore suo pari delle rispettive ideologie, nazionalsocialista e comunista, giudicasse possibile che un metus hostilis, ossia, in questo caso, sia il reciproco timore, sia la comune ostilità nei confronti delle democrazie occidentali, bastassero a far crollare la forte avversione che le caratterizzava, l’una nei confronti dell’altra, e le predisponeva allo scontro. Si deve tuttavia, a questo riguardo, aggiungere un’altra, elementare, considerazione, suggerita sia dalla complessità dei tempi che egli ebbe in sorte di vivere, sia dal senso suo della complessità e dagli stimoli che riceveva dal suo esercizio. È difficile, e anzi, allo stato della documentazione, è impossibile, dire se, nei primi mesi del conflitto che per intanto aveva coinvolto la Germania, da una parte, la Francia e l’Inghilterra, da un’altra, Cantimori ritenesse inevitabile che, ripetendosi in Europa quanto era accaduto in Spagna, di nuovo l’Unione Sovietica scendesse in campo dalla parte delle potenze occidentali, o se al contrario, se ne stesse in disparte a osservare il corso delle cose in attesa dell’occasione che meglio corrispondesse ai suoi interessi. Se quel che era accaduto in Spagna rendeva anche per lui impensabile l’ipotesi di un rovesciamento delle alleanze, non perciò autorizzava a considerare inevitabile la sua ripetizione, in tempi brevi, su più ampia scala. Si sa che, quando i patti sottoscritti da Molotov e da von Ribbentrop erano in vigore, Stalin riteneva inevitabile che, prima o poi, l’Unione Sovietica e la Germania si scontrassero sui campi di battaglia.85 Ma Stalin riteneva anche che, mentre la difesa di un governo democratico come quello spagnolo poteva essere inevitabile in tempi normali, ossia non di guerra, non altrettanto lo sarebbe stata quando 85. Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin, p. 448.
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ad affrontarsi in guerra fossero stati paesi capitalistici: il che rendeva di secondario interesse che da una parte combattessero democratici, dall’altra fascisti e nazionalsocialisti.86 Fermo restando quel che anche Stalin sapeva, e cioè che la inevitabile guerra del suo paese contro la Germania avrebbe di nuovo collocata l’Unione Sovietica nel campo capitalistico, era chiaro che, a quanti si fossero allora posti a studiare la situazione internazionale di quei mesi cruciali, la questione posta dall’Unione Sovietica non poteva non apparire tanto complessa quanto, per alcuni riguardi, oscura. E agli occhi acuti di Cantimori più complessa, forse, che a quelli di altri. L’Unione Sovietica non era infatti, soltanto una grande potenza politica e, presumibilmente, a quella data, anche militare. Era anche una grande potenza ideologica, il centro a cui era rivolto lo sguardo di tutti i comunisti del mondo. Studiarla sotto il profilo della sola politica di potenza non sarebbe stato realistico qualora se ne fosse ignorato il fondamento ideologico; che poteva, senza dubbio, essere di volta in volta messo da parte per l’urgenza di determinate questioni, non però cancellato e dimenticato. La tesi staliniana della necessità che il socialismo fosse realizzato paese per paese, aveva bensì posto un limite all’altra della rivoluzione mondiale, sostenuta da Trockij, che parlò infatti, in un libro famoso, che vide la luce nel 1937, di «rivoluzione tradita». Ma, in prospettiva, non l’aveva affatto cancellata: come proprio Stalin confermava quando irrideva Hitler che, indebolendo la potenza capitalistica della Francia e dell’Inghilterra, faceva, senza volerlo e saperlo, il gioco del comunismo internazionale. In realtà, con la sua stessa esistenza, il grande paese del comunismo, e lo Stato che lo aveva realizzato, simboleggiavano la necessità che, in una prospettiva più o meno lontana, gli Stati e i regimi capitalistici dell’Occidente, e cioè non soltanto la Gran Bretagna, la Francia e gli stessi Stati Uniti d’America, ma anche la Germania nazionalsocialista e l’Italia fascista, che del capitalismo erano l’espressione la più radicale e violenta, fossero afferrati e quindi travolti dalla crisi che nasceva dalle loro interne contraddizioni. Il che significava che, in potenza, e al di là delle convenienze politiche dei singoli momenti, l’Unione Sovietica era ostile sia ai regimi democratici sia a quelli fascisti e nazionalsocialisti, dai quali, sempre in potenza, riceveva pari ostilità. Se quindi la profezia di Carlo Rosselli, «oggi in Spagna, domani in Europa», si stava avviando, nell’agosto 1939, a ricevere la sua conferma nella guerra che era sul punto di scoppiare, non per questo si sarebbe potuto allora esser 86. Ibidem, p. 449.
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certi che la profezia fosse nel giusto per ciò che riguardava il completo schieramento delle forze sui due fronti opposti, e che, come in Spagna, a esserne coinvolta dalla parte delle democrazie occidentali sarebbe stata, fin dall’inizio, anche l’Unione Sovietica. Di questa complessità, che la presenza nel quadro dell’elemento ideologico elevava di grado, Cantimori fu certo fra i primi a rendersi conto. Se da qualche tempo aveva scelto la parte comunista, e, con circospezione, se si vuole, ma con nettezza, aveva collocato sé stesso nel campo antifascista, che anche le democrazie liberali dell’Occidente includeva in posizione preminente, non per questo in lui era venuta meno l’avversione che, nei confronti di queste, ieri era stata alimentata dalla sua fede fascista e ora lo era da quella comunista. Doveva perciò in sé stesso avvertire il disagio logico di questa situazione. Se fosse stato un uomo d’azione, lo avrebbe per intanto messo da parte perché quella non ne fosse disturbata e resa meno certa di quel che era necessario che fosse. Ma, se mai ce ne fu uno, Cantimori era uomo di studio, non di azione. Era abituato a guardare la realtà da ogni possibile punto di vista, a scomporla e ricomporla in nuove prospettive; e non poteva perciò non avvertire il peso che le cose gli imponevano quando egli si faceva a considerare la forte differenza che, con la futura acquisizione dell’Unione Sovietica al campo antinazionalsocialista, si sarebbe determinato in questo, e in lui che ormai ne faceva parte. Non avrebbe potuto allora non avvertire che, nella realtà delle cose, le esigenze della comune difesa, avevano determinata, fra le democrazie liberali dell’Occidente e l’Unione Sovietica, una sorta di simmetria asimmetrica, una convergenza che, sotto il velo di un interesse primario, nascondeva la divergenza che presto sarebbe emersa. Se e quando si fosse determinata, la convergenza fra l’Unione Sovietica e le potenze democratiche occidentali avrebbe infatti avuto, come poi ebbe, un significato piuttosto militare che politico: dal momento che gli interessi comuni, coincidenti con lo spirito di sopravvivenza, avrebbero ben potuto cedere, una volta che quella fosse stata garantita dalla vittoria sul campo, alle spinte provenienti dalle opposte ideologie. Era una situazione, questa, che, a prescindere da quel che, forse, produceva nella parte più profonda della coscienza cantimoriana, gettava un’ombra oscura sull’antifascismo internazionale e sulle dimensioni che esso assumeva nei singoli paesi; in Italia sopra tutto, ma anche nella stessa Germania. Se in Spagna il fronte antifascista aveva sostenuto, e superato a fatica, una difficile prova unitaria, non perciò poteva dirsi che, diviso com’era fra quello di coloro che non intendevano rinunziare alle libertà
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che i comunisti definivano borghesi e formali, e questi ultimi che miravano invece al traguardo estremo della rivoluzione nei vari paesi europei, fosse un unico antifascismo, un antifascismo ideologicamente compatto, quello che si era costituito contro il comune nemico. Non lo era affatto, in realtà. Se si leggono i saggi, le rassegne, le note che Cantimori scrisse quando ormai la guerra era in atto, si ha netta l’impressione che di molte cose, dal suo particolare punto di vista, e nel suo stile, si fosse reso conto. E che ne soffrisse: non perché temesse il comunismo, che era ormai la sua ideologia, ma perché sulle democrazie liberali dell’Occidente non aveva cambiato parere. Non troppo diversi da quelli che qui sono stati delineati, furono, con ogni probabilità, i pensieri che egli aveva nella testa quando, per Critica fascista, scrisse il suo commento della prima Enciclica, Summi Pontificatus, di Pio XII: un commento cauto, redatto con una prudenza che sfiorava, a tratti, la reticenza, ma la cui tesi centrale non era, in ultima analisi, così criptica che un lettore esperto non potesse, con relativa facilità, farla emergere. In un ampia rassegna di testi anticomunisti, pubblicata nel Leonardo del 1938, Cantimori aveva analizzato, con la consueta obiettività, lo stile «concettuale» dell’anticomunismo fascista e di quello, non in tutto coincidente con il primo, dei polemisti cattolici; e in particolare si era soffermato su un paio di libelli del padre gesuita Giuseppe Ledit, ossia dell’autorevole professore dell’Istituto orientale, che, fra il 1935 e il 1939 aveva curato la pubblicazione in Italia delle Lettres de Rome sur l’athéisme moderne. Queste Lettres erano state promosse dal padre Wladimir Ledochowski, generale della Compagnia di Gesù, per combattere l’espansione comunista;87 e, fra le molte cose che avevano attratto i suoi interessi di studioso della propaganda e dell’argomentazione propagandistica, Cantimori non aveva mancato di rilevare l’elevazione che vi si compiva del fascismo e nazionalsocialismo a baluardi antisovietici. Nella recensione dell’Enciclica c’era, tuttavia, qualcosa di più. Lì Cantimori era andato oltre. Posto che in altri tempi, e in determinati ambienti, avesse avuto in sé un minimo di concretezza politica, l’ipotesi che fascismo, nazionalsocialismo, comunismo sovietico potessero rappresentare, nelle cose, quel che si trovava scritto nelle loro ideologie antiliberali, si dimostrava fittizia ora che, pur di preservare la Chiesa cattolica e il cristianesimo dalla minaccia comunista, il nuovo pontefice lasciava intendere che, non solo il fascismo, ma anche l’anticristiano nazionalsocialismo potevano essere utilizzati nella 87. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, pp. 203-204.
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costruzione della grande muraglia antisovietica. In realtà, non erano temi nuovi questi, ai quali Pio XII conferiva nuovo e convinto vigore. Anche il suo predecessore, che pure al nazionalsocialismo aveva guardato con preoccupazione e ostilità ben più grandi delle sue, li aveva condivisi. Fin da quando il successo della Rivoluzione d’Ottobre aveva fatto nascere in Occidente la preoccupazione che il comunismo potesse espandersi al di là del luogo in cui si era prodotto, nella Chiesa cattolica la preoccupazione era stata grande: al punto che quando in Italia, e poi in Germania, il potere fu conquistato dai fascisti e dai nazionalsocialisti, autorevoli personaggi del cattolicesimo sostennero la tesi secondo cui, fra i due mali che il comunismo e il nazionalsocialismo rappresentavano per il mondo cristiano, il minore era il secondo, che poteva perciò ben essere utilizzato contro il primo, per fermarne l’avanzata. Di tutto questo Cantimori non mancava di prendere atto: non senza malizia antioccidentale, si direbbe. Se nazionalsocialismo e comunismo gli apparivano ormai nettamente consegnati a campi opposti, le democrazie dell’Occidente erano invece colte nell’atto di rinunziare a sé stesse e ai loro princìpi per prender posto, nella grande arca, al di qua del muro da esse innalzate, sotto la guida della Chiesa. Non aveva forse, il pontefice romano, ribadito che il peggior nemico restava, in sostanza, il liberalismo, pervertitore, a compimento della perfida azione intrapresa dalla Riforma, della modernità?88 Ed ecco allora il malizioso commento: si potrebbe dire che di fronte alla realtà dei fatti politici e dei movimenti anticristiani, così vasti e vigorosi, liberali e democratici ripieghino su sé stessi e acquistino coscienza di quelle comuni origini cristiane alle quali sembrano richiamare tante parole dell’Enciclica, e preparino così, attraverso la obliterazione dell’anticlericalismo e delle loro idee sullo Stato laico e sull’autonomia dello Stato, il ritorno nel seno della Chiesa.89
A prescindere dalla malizia, il commento esprimeva una ben radicata ostilità. Coglieva in parte nel segno, ma soltanto in parte; e di questo dovrebbe naturalmente discutersi. Allo stesso modo, deve dirsi che, con l’attacco sferrato di lì a poco dalla Germania contro l’Unione Sovietica, le cose si sarebbero incaricate di dimostrare parzialmente errata la previsione di Cantimori. Soltanto in parte, però: come sarebbe stato dimostrato dalle vicende 88. Cantimori, Politica e storia contemporanea, pp. 734 e741. 89. Ibidem, p. 752.
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del dopoguerra, dalla divisione del mondo in due, e dalla lunga guerra, per fortuna soltanto fredda, che sulla Europa e sul mondo fece per decenni gravare la sua cupa ombra, determinandovi un clima di grave decadenza. 16. Fino a contraria prova, non c’è, dunque alcuna ragione che induca a credere, e nessun documento che suggerisca, che, sul reale significato del patto di non aggressione sottoscritto nel 1939 da Molotov e da von Ribbentrop, Cantimori si fosse fatta qualche illusione, e vi avesse colto il prodromo di un’alleanza ideologica fra le due potenze anticapitalistiche. Non ce n’è una per credere che all’illusione seguisse, nel giugno 1941, il disappunto di averla alimentata in sé e di essersene fatto sedurre, e che per questo egli lasciasse a metà, e comunque inconcluso, il libro antologico sul nazionalsocialismo che si era impegnato a comporre: anche in quello del Simoncelli, che ora ha visto la luce, questa tesi appare decisamente tramontata. Se Cantimori non lo condusse a termine, le ragioni saranno certamente da ritrovare in altro, nell’evolversi della situazione politica e militare, nonché nella catastrofe che, per l’Italia in particolare, poteva ormai prevedersi prossima; persino, e perché no, potranno essere ricercate e ritrovate in sue private preoccupazioni, nel clima di incertezza e di pericolo che sempre più si stava determinando nel paese. Se invece, da parte di qualcuno, ancora si pensasse che, lo scopo del libro essendo stato di dare evidenza alla sotterranea affinità dell’ideologia nazista e di quella comunista, la guerra scatenata dalla Germania contro l’Unione Sovietica ne aveva rivelata la vanità, e per questo, o anche per questo, Cantimori decise di non concluderlo, a questa idea non potrebbe darsi il consenso. Lo scopo del libro era di informare attraverso i documenti, e di spiegare attraverso l’illustrazione dei medesimi, la storia del movimento nazionalsocialista dalle origini fino al 1933 (e da questo punto di vista, è un vero peccato che il libro non sia stato concluso e pubblicato, perché avrebbe consentito l’orientamento in una materia assai più complessa di quanto, da parte dei non specialisti, si ritenesse e ancora si ritenga). Che, dedicato a questo arco cronologico, nel libro che incominciò, fece progredire per un bel tratto e poi non terminò, Cantimori dovesse dare particolare rilievo alle diverse componenti dell’ideologia nazionalsocialista, è stato già detto, e, anche in considerazione dei suoi interessi e dei suoi giusti storiografici, era ovvio. Detto questo, deve ribadirsi che non ci sono, o, se ci sono, non sono noti a me, documenti che possano illuminarci sul modo in cui, nel 1939, egli visse la vicenda del patto; e nemmeno ce ne sono che ritraggano il suo
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stato d’animo nel momento dell’aggressione tedesca all’Unione Sovietica. Quando, nel 1940, recensì due volumi antologici, messi insieme da Wolf Giusti, uno di Documenti intorno alla rivoluzione russa, l’altro su Il pensiero politico russo dal decabrismo alla guerra mondiale, usciti entrambi in quel medesimo anno, nel luogo in cui, fra le altre cose, accennò brevemente agli «accordi tedesco-sovietici» dell’estate e autunno 1939 il suo tono, in riferimento a questi eventi, fu, come sempre, impassibile. Soltanto nelle linee dedicate al non sufficiente rilievo che dal Giusti sarebbe stato dato ai processi staliniani del 1938, si può forse scorgere un’inclinazione filocomunista, scevra del resto di implicazioni nazionalsocialiste: come se (ma è una congettura) non tutte le ragioni obiettive che il capo sovietico avrebbe potuto addurre, e adduceva, per giustificarli, fossero state valutate in sé stesse e al di là delle contrapposte interpretazioni propagandistiche, e di qui avesse origine il desiderio di poter disporre, al riguardo, di «maggiori informazioni da chi conosce anche le lingue slave».90 Dopo di che, a dimostrazione della sofferenza che lo stile descrittivo non riusciva a compiutamente dominare, può valere l’osservazione relativa al vantaggio (psicologico), ossia al conforto morale che a tutti sarebbe derivato se la documentazione non si fosse spinta tanto avanti da toccare il presente; e anche, e ancor più, può valere quel che Cantimori scrisse subito dopo, confessando che «lo studioso libresco trae un sospiro di sollievo» nell’uscire «da questo scottante e scabroso terreno».91 Quando scriveva intorno a queste antologie di documenti, il passaggio al comunismo si era ormai compiuto. Ma, a proposito del suo essere avvenuto anche per il tramite di un personale e diretto e convinto coinvolgimento ideologico nell’esperienza nazionalsocialista non c’è, ripeto, prova che consenta di andare al di là di quel che già ebbi a rilevare nel 2005. Quel che in lui rimase fermo, prima e dopo il passaggio al comunismo, fu il convincimento che, come aveva scritto quattro anni prima (1936) recensendo Huizinga,92 per il nobile castello dei «begli spiriti» e delle «anime belle» in rotta con il mondo, le ore erano contate. 17. Ancora un’osservazione. Non so se, sottolineando il rilievo dato da Cantimori all’attività legislatrice del nazionalsocialismo e polemizzando con quanti lo «derubricarono» a «mero interesse intellettuale di un osservatore 90. Ibidem, p. 677. 91. Ibidem. 92. Ibidem, p. 315.
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distaccato»,93 il D’Elia abbia inteso comprendere anche me nel numero di costoro, quale che sia il loro nome e cognome. Se fosse così, dovrei protestare, perché tutto potrà dirsi del modo in cui ho delineato il passaggio di Cantimori attraverso le esperienze tedesche del dopoguerra; ma non che corrisponda a quell’intento. Se ho scritto, e tengo per fermo, che, nello svolgimento delle analisi dedicate al movimento nazionalsocialista, Cantimori andò così vicino al suo oggetto da coinvolgervisi, non era certo perché intendessi «derubricare» (adopero l’orribile verbo del D’Elia) la passione e far prevalere quel «mero» interesse. Ma questo, ripeto ancora una volta, non significa che Cantimori diventasse mai un nazionalsocialista. Non significa che per quel torbido mondo che pure attraeva fortemente il suo interesse e nei confronti del quale riteneva che del tutto insufficienti fossero le sdegnose ripulse delle «anime belle» liberali, non provasse lui pure, in un’altra parte di sé, il suo netto dissenso. Non starò a ripetere quel che altrove ho documentato. Ma poiché, a riprova delle inclinazioni e delle simpatie nazionalsocialiste di Cantimori, anche il D’Elia ha citato la «voce» Onore del Dizionario di Politica, che non fu riprodotta dalla Mangoni nella sua edizione degli Scritti 1927-1942, vorrei, da una parte, osservare che in quelle pagine non c’è veramente nulla che riveli quelle inclinazioni e simpatie, nulla che nella codificazione germanica di quel concetto indichi «un tratto di superiorità» rispetto a quella italiana e fascista.94 E aggiungere, da un’altra, il ricordo di una recensione del 1935, anch’essa non compresa nei suddetti Scritti. Dedicato a un libro di Massime sulla guerra di R. Quinton, questo scritto restituisce con grande nettezza un tratto della sua«cultura», o «civiltà», che, quando fosse considerato con attenzione, renderebbe impossibile a chiunque, non solo la sua annessione al nazionalsocialismo, ma persino al fascismo quando, nella sua condivisione di esso, non si sapesse cogliere il segno profondo della cultura idealistica. La recensione è veramente notevole, non solo per quel che vi si dice della mentalità dannunziana e decadente che «sopravvive ancora nella nostra epoca, e ai superficiali osservatori può apparire vigorosa e forte, tale da potere essere assunta come tipica e come manifestazione di caratteristiche essenziali del periodo di tempo nel quale ci troviamo a vivere», ma per quel che vi si aggiunge, in termini assai crudi, sulla Germania nazionalsocialista, nella quale «celebra i suoi trionfi proprio una pseudofilosofia naturalistica, esaltatrice degli istinti più incomposti e degenerati degli uomini, con un mi93. D’Elia, Delio Cantimori, p. 119. 94. Ibidem, p. 116.
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sticismo cupo del sangue e della terra».95 Parole esplicite; che sarebbe bene fossero tenute presenti quando ci si trovasse di fronte a quel che, in forma descrittiva e obiettiva, di questa ideologia Cantimori diceva negli scritti di maggiore impegno storiografico, composti in quegli anni. Tanto più che, subito dopo, proseguendo, egli aggiungeva che il fracasso che fanno queste pseudoidee, le vittime degne e indegne sacrificate a questi idoli, non debbono, non possono ipnotizzare gli uomini di coscienza vigile e di occhio chiaro, e non vanno in nessun modo considerati come le cose più importanti e significative di quanto van maturando questi anni. Per quanto rumorosi, per quanto sanguinosi, per quanto terribili questi idoli, questi miti hanno soltanto importanza negativa, e sono destituiti d’ogni valore positivo: non è in nome della natura biologicamente e astrattamente intesa, non è in nome del sangue, non è in nome di una voluttà non virile se pur ammantata di frasi eroiche che si combatteranno le lotte future.96
A quali future lotte Cantimori qui alludesse, non è difficile intendere, quando si pensa che in quello, che era l’anno della guerra d’Africa, l’orizzonte internazionale cominciava a farsi cupo e denso di pericoli; e che non certo per caso egli alludeva, nella parte finale dello scritto, alle «ore gravi che viviamo»,97 e di cui uno scrittore per il quale, dove non c’era rischio, non c’era voluttà, e la guerra era «in un certo senso identificata con l’adulterio», poteva ben essere considerato espressione. A leggerlo, si capivano, secondo Cantimori, «molte cose della guerra e del dopoguerra»; e parlarne, sebbene non vi si ravvisassero la novità, il pregio letterario, «una seria concezione della vita», era necessario. «Bisogna pure ogni tanto compiere l’increscioso dovere di aprire gli occhi su di esse»; così com’è necessario coglierle, queste tonalità e dimensioni della diagnosi cantimoriana del presente, nella ricchezza delle sfumature, delle allusioni, degli atteggiamenti a volte contrastanti fra loro e non riducibili alle formule. In queste battute, suggerite dalla traduzione italiana del libro di René Quinton, un ex combattente francese, mediocre, ma che giudicava tuttavia espressivo di una grave geistige Situation, sembra quasi di avvertire l’eco di quel che Croce aveva scritto fin dal 190798 e poi ripreso nella Storia d’Italia, dove aveva 95. ������������������������������ «Leonardo», 6 (1935), p. 439. 96. Ibidem. 97. Ibidem, p. 441 a. 98. B. Croce, Di un carattere della più recente letteratura italiana, in La letteratura della nuova Italia, IV, Bari 1922, pp. 187-204.
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delineato il convertirsi del «sensualismo letterario» di D’Annunzio e dei dannunziani in «interventismo» e, a proposito di uno scrittore ben altro, e cioè di Renato Serra, aveva parlato della riduzione che, in certe sue pagine, la guerra pativa a «cosa poco diversa da un fremito voluttuoso».99 18. Qualche veloce considerazione è richiesta dalle recensioni che Paolo Simoncelli100 e Eugenio Di Rienzo101 hanno dedicate al mio libro cantimoriano. Sono documento, l’una e l’altra, della polemica revisionistica che da anni entrambi questi studiosi conducono contro le deformazioni, le ingiustizie, gli occultamenti della verità di cui la cultura di sinistra, comunista e azionista, si sarebbe, negli anni, resa protagonista. Di qui, per esempio, l’animosa rivendicazione dei meriti acquisiti da Giovanni Gentile nella difesa di studiosi ebrei minacciati dalle leggi razziali; di qui quella, altrettanto, se non più animosa, della figura di Gioacchino Volpe. Ho discusso recentemente di questi problemi con Eugenio Di Rienzo in un articolo pubblicato su questa rivista,102 al quale egli ha risposto ribadendo nella sostanza i suoi punti di vista specifici e il suo atteggiamento generale.103 E non ho la minima intenzione di riprendere la polemica. Dovrei, ribadendo il mio punto di vista, ripetere i miei argomenti: senza nessuna utilità né per me, né per lui, né per i lettori. Su un punto, tuttavia, che riguarda entrambi i miei interlocutori, e in particolar modo il Simoncelli, desidero fermarmi per ristabilire la verità. Nel suo articolo, che non so se da lui o dai redattori del giornale sul quale apparve, ha ricevuto come titolo la domanda Ma Cantimori il rosso fu nazista oppure no?, si sostiene in sintesi che il mio «ponderoso saggio […] rivede i trascorsi “fascisti” dello storico, ma glissa sul marxismo». E nel testo si sostiene che il saggio, ora definito «denso», e anche di «difficile lettura», è cronologicamente sproporzionato a tutto vantaggio di un’attenta analisi concentrata sugli anni ’30 (laddove [sic] cioè maggiore è stata l’urticazione “politicamente scorretta“), trascurando il secondo dopoguerra che invece, avendo visto Cantimori militare nella cultura marxista e nello stesso Pci (fu iscritto 99. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Bari 1942, p. 296. 100. Ne «L’Avvenire», 16 dicembre 2005. 101. Ne «Il Giornale», 1° dicembre 2005. 102. Guerra civile e storiografia, in «La Cultura», 43/1 (2005), pp. 5-41, e in questo volume pp. 11-51. 103. E. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico. Due o tre cose che so di lui, in «Nuova storia contemporanea», 9 (2005), pp. 131-155.
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dal 1948 al ’56), non necessita di chiarimenti o giustificazioni, fatta salva la sua uscita dal partito, che va allora analizzata in dettaglio, alla ricerca di motivazioni che possano andare oltre l’aggressione sovietica dell’Ungheria: ad esempio nei difficili rapporti con l’organizzazione culturale comunista.
In questo passo vi sono varie inesattezze e, insieme, direi, all’incertezza logica che lo caratterizza, un’insinuazione che mi sembra giusto controbattere. Se, come il Simoncelli sembra ritenere, particolarmente necessaria era la ricostruzione del percorso compiuto da Cantimori attraverso il fascismo e lo studio del nazionalsocialismo, era inevitabile che su questa parte della sua vita, e sugli scritti che la documentano, l’indugio fosse adeguato all’importanza dell’impresa: sì che, per questo verso, dato l’assunto, da quell’indugio egli avrebbe dovuto trarre motivo di soddisfazione, compiacersene, e non cogliere, a torto del resto, la sproporzione che avrebbe determinata con il resto, ossia con l’analisi consacrata al marxismo e al comunismo, sulla quale, come dice il sottotitolo del suo articolo, avrei invece «glissato». Poiché con la sua osservazione relativa alla milizia di Cantimori nella cultura marxista del dopoguerra, che non necessiterebbe di chiarimenti e giustificazioni, il Simoncelli mi costringe lui a un chiarimento, dirò quel che, al riguardo, si deve. Ma non prima di aver osservato qualcosa in merito alla sproporzione da lui riscontrata fra la parte dedicata, nel mio libro, al fascismo e nazionalsocialismo, e quella riservata al marxismo e al comunismo. Che sproporzione fra queste due parti vi sia, non direi proprio. Del marxismo si parla, infatti, nel mio libro, lungo l’intero suo corso, dalla prima pagina, si può dire, fino all’ultima, nel tentativo di cogliere il modo specifico in cui Cantimori lo intese e lo praticò nella ricerca storica. E, per quanto riguarda la militanza nel Partito comunista, è vero che vi ho appena accennato; non però per la ragione, già vista, che il Simoncelli sembra suggerire, non perché, in ossequio alla cultura di sinistra, l’abbia ritenuta, e la ritenga, meno bisognosa di «giustificazioni», ma per il diverso motivo che la trattazione di quell’argomento, riguardante il modo in cui Cantimori stette nel Partito, o si risolve nell’esame di scritti che, dagli Appunti sullo storicismo alla polemica con Furio Diaz, non credo proprio di aver trascurati, o suppone la conoscenza di vicende sulle quali, in assenza di documenti, non avrei potuto dir niente che valesse la pena di esser detto, e che comunque non suscitavano in me il minimo interesse. Se non ho parlato della polemica intrapresa da Cantimori con i giovani storici marxisti che nel 1955 avevano partecipato a Roma al Congresso internazionale di scienze storiche, la ragione sta nel tanto che se n’è detto,
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da allora, nel corso degli anni; e di quella polemica poteva parlarsi, indirettamente, discutendo del bisogno di libertà e di indipendenza che Cantimori avvertiva, e che fu la principale delle ragioni che lo condussero, nel 1956, fuori del Partito comunista. E vengo al chiarimento a cui il Simoncelli mi costringe. Non riesco a capire perché proprio a me si rivolga il rilievo, se non l’accusa, di esser stato reticente nei confronti della non breve stagione comunista di Cantimori: come se, avendo condiviso le esperienze politiche che lo coinvolsero, avessi avuto interesse a giustificare lui per assolvere me o la mia «parte», presentandolo come meno comunista di quel che nella realtà non fosse stato, e comunque sorvolando (Simoncelli ha preferito usare, come s’è visto, il verbo «glissare») su quel capitolo della sua biografia. Debbo dire con la massima fermezza che, senza averne l’intenzione, il Simoncelli ha detto, al riguardo, cosa non vera. Per quanto concerne la cultura comunista, credo di poter dire, senza temere smentite, che, non avendo mai rinnegato l’antifascismo e l’azionismo, e proprio, anzi, perché non li avevo rinnegati e li tenevo vivi dentro di me, di quella cultura non feci mai parte. Lo studio che dedicai all’idealismo italiano si svolse negli anni in cui, se non era egemone, la cultura marxista godeva tuttavia di un largo consenso; e fu condotto in assoluta indipendenza da essa, dai suoi criteri di giudizio e da suoi metodi. Il che importò come conseguenza sia il silenzio che, da quella parte, si mantenne su quel che scrivevo, sia, nell’Università e fuori, una lunga solitudine che, dal campo culturale si estese, senza sforzo, ma la cosa ora non interessa, a quello politico. D’altra parte, se non ero comunista e marxista, anche ero lontanissimo, per non dire della cultura cattolica, dalle ortodossie crociane e gentiliane: come dovrebbe, o avrebbe dovuto, esser chiaro a quelli che, poiché leggono per capire, non hanno, per conseguenza, l’abitudine di dedurre le convinzioni, filosofiche e storiografiche di un interprete dall’autore e dall’argomento che costituisce l’oggetto del suo studio. Il sospetto è tuttavia che, ripetendo, suo malgrado, un «luogo d’oro» dello zdanovismo, qualcuno pretenda di ricavare il mio «filocomunismo» dal mio antifascismo e dalla perfida suggestione azionistica. Ma è un sospetto che vorrei non alimentare, per non dover credere a quel che di continuo, tuttavia, ci torna dinanzi, e cioè che, sia pure con segno cambiato e con opposta valutazione, qualcuno ritenga sul serio che antifascismo non possa darsi al di fuori del comunismo, e, se non si sia comunisti, sul fascismo debba perciò formularsi un ben più positivo e benevolo giudizio. Non sarebbe ora di uscire da queste angustie che hanno, per decenni, avvelenato la nostra vita?
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Con Cantimori che, per qualche sua ragione, mi mostrò sempre simpatia e, in qualche circostanza, solidarietà, ebbi pochi incontri, tutti, debbo dire, molto singolari e affascinanti. Ma questo è tutto: così che anche il rapporto personale che ebbi con lui non fu di quelli che possano indurre, magari involontariamente, a non dar rilievo alle cose che non si vorrebbe mai dover riscontrare in coloro che abbiano suscitata la nostra ammirazione. Se nel trattare delle sue «esperienze» politiche ho, per quanto era nelle mie possibilità, cercato di mettermi in ascolto delle molte «voci» che s’intrecciarono nel suo discorso, escludendo che una sola bastasse a definirlo, la ragione è da ricercare, non nella reticenza, ma nella consapevolezza che non è l’accetta lo strumento più adatto all’impresa di chi si sia votato a penetrare in quella che, come mi disse una volta Arnaldo Momigliano, quand’era giovane, lui e i suoi amici amavano definire, scherzosamente, la cantimorische Frage. E anche è da ricercare in un’ossessione che, per fortuna, questa almeno, non mi tormenta: quella da cui viceversa sono agitati coloro che ritengono che la nostra storia più recente sia stata oggetto di deformazioni, rimozioni, falsificazioni, occultamenti, e che insomma l’Italia sia stata tenuta in ostaggio da chi ha ordito la grande congiura antifascista. E qui si deve essere chiari. Che deformazioni, rimozioni, falsificazioni siano state compiute in vari parti dello schieramento politico e culturale, è vero: come lo è che i fatti debbano essere ricercati senza pregiudizi e restituiti senza reticenze. Ma credo anche che quella delle responsabilità individuali, delle condanne, delle coperture, sia, in quanto tale, una storia che non può essere narrata e ricostruita se non la si intreccia con l’altra che, comunque si sia svolta, fu guidata dalla politica e dalle idee; e che a contare sia questa, sia la storia della politica, dei pensieri, delle passioni autentiche. Non sono infatti le nefandezze, le viltà, i crimini, che possano riscontrarsi nelle fasi critiche e drammatiche di una storia, a definirne il carattere. È il senso di questa che, al di là degli aneddoti, consente di cogliere il carattere di quelli, di spiegarli, non di giustificarli. Non sono, d’altra parte, le debolezze che possano trovarsi nella biografia di un personaggio a rendere piccolo quel che, per altro verso, in lui fosse stato grande, o fosse andato vicino a esserlo. Anche qui, è nella prospettiva di ciò che è grande o, comunque, importante, che ciò che è piccolo acquista il suo senso e prende il suo rilievo. La ricerca esclusiva delle debolezze, vere o presunte, e l’interesse messo nello scoprirle, e recarle alla luce, sono il segno che deboli sono l’animo e l’intelletto di chi le ricerca, le trova e, dopo la scoperta, vera o presunta, che ne abbia fatta, se ne compiaccia, e a quelle riduca ogni
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altra questione. Rendere piccolo ciò che non lo è, o guardare soltanto a quello, – questa non è che propaganda svolta a favore di una tesi e di una parte politica; proprio il contrario, per esser chiari, di quel che si ritiene di aver operato, o di stare operando, nel nome della verità. 19. Basti così; e riprendiamo il discorso. Interessante era, senza dubbio, e importante, cercar di capire le ragioni che, nel 1956, condussero Cantimori fuori del Partito comunista. Ma chiunque abbia dato uno sguardo al libro sa che, dell’argomento, ho parlato quanto i documenti a me noti consentivano che ne parlassi, nell’Appendice posta alla fine del sesto capitolo (pp. 198-204). Vi ho sostenuto che se l’uscita di Cantimori dal Partito si determinò in concomitanza con i fatti di Ungheria, le sue ragioni risalivano indietro nel tempo: tanto che si sarebbero rese concrete in una decisione anche se, per avventura, quei tragici eventi non si fossero prodotti. Era proprio necessario, lo ripeto ancora una volta, che, al riguardo, citassi gli Epiloghi congressuali e la polemica con i giovani storici marxisti, una volta che avessi messo in chiaro che l’uscita dal Partito comunista avveniva sì per i fatti d’Ungheria e per il XX Congresso del Pcus, ma, sopra tutto, a causa della «”burocratica” mancanza di libertà»,104 dalla quale Cantimori si sentiva soffocare? E a questo punto, poiché è bene che, presa la via della discussione minuta, tutto sia detto, vorrei aggiungere che non saprei a quali «elementi di analisi, forniti personalmente da Cantimori negli ultimi anni», il Simoncelli si riferisca per dire che io li abbia sottovalutati. Alle lettere, forse, scritte al direttore di Itinerari e lì pubblicate prima di essere riunite in Conversando di storia (1967)? Al rapporto di lui con Renzo de Felice, da Simoncelli interpretato, non senza audacia, come «una sorta di interposta persona», di «mediatore psicanalitico, attraverso cui ricostruire scientificamente non solo il “fascismo di sinistra”», ma anche l’ambiente romagnolo in cui il giovane Cantimori si formò? Strano, per la verità, che il Simoncelli dica così. Non mi sono servito dell’«interposta persona» defeliciana perché non mi è venuto in mente che Cantimori ne avesse avuto bisogno per scrivere la pagina autocritica alla quale ho accennato. E posto che, ignaro del profondo, nella mia semplicità d’animo e di mente mi sia sbagliato, mi resta tuttavia la curiosità di sapere che cosa, dell’autocritica cantimoriana, mi sarei lasciato sfuggire. Proprio dalle lettere inviate al Rossi e alla sua rivista, alle quali più volte mi sono riferito nel mio libro, 104. Sasso, Delio Cantimori, p. 201.
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ricavai il passo forse più significativo dell’autocritica che, con delicatezza e per accenni, Cantimori vi svolse. Mi riferisco alla pagina in cui egli fece l’elenco delle riviste italiane e tedesche alle quali era abbonato, ai personaggi che le scrivevano e che, diceva, gli producevano nella testa grande confusione. Ma non direi, e anzi recisamente escluderei, che di lì, o da altri luoghi, potesse mai trarsi quel che il Simoncelli dice: e cioè la «vicenda amara dell’antisemitismo italiano che vide Cantimori difendere la cultura tedesca dall’accusa generica di essere generatrice di antisemitismo». Non sono riuscito a capire che cosa significhi questa frase oscura, e quale senso debba trarsene. Se il mio critico avesse inteso dire che Cantimori difese la cultura tedesca dall’accusa di avere, in quanto tale, tutta e senza eccezioni, generato il mostro dell’antisemitismo, e che questa difesa la svolse durante la «vicenda amara dell’antisemitismo italiano», due meriti dovrebbero allora essergli riconosciuti: il primo di aver escluso che cultura tedesca, antisemitismo, razzismo facessero da sempre una sola cosa, il secondo di avere messo in discussione quel nesso nel momento in cui non erano certo i fascisti italiani e i nazionalsocialisti tedeschi a dichiararlo fallace. Ma se invece, e come temo, il Simoncelli avesse inteso dire tutt’altro, e cioè che Cantimori fu lui pure partecipe dell’antisemitismo e dell’antiebraismo italiani, chiederei che per mia istruzione mi si mostrasse il testo, e comunque il documento dal quale risultasse che lo fu. Non posso credere infatti che, per esempio, egli abbia interpretato in questo senso quel che si legge alle pp. 29-30 del mio libro, nelle quali, a proposito dell’argomento usato da Cantimori, nel 1927, per spiegare perché, senza essere razzisticamente antisemiti, si potesse, per ragioni economiche e sociali, essere antiebrei, è detto che si sarebbe desiderato che egli non se ne fosse servito. Tanto più infatti si doveva desiderare che quell’argomento non fosse stato usato, in quanto era parte di un contesto nel quale fermo era il rifiuto del razzismo; che sarebbe stato ribadito l’anno successivo in un articolo scritto per Vita nova, la rivista di Giuseppe Saitta, in una pagina nella quale si parlava della «non mai abbastanza deprecata mentalità “razzista», diffusissima in Germania, ma anche in Inghilterra e in Francia (Chamberlain e Gobineau), e lontanissima dall’idea dello Stato qual era stato teorizzato da Hegel e da Trietschke.105 Per parte mia, posso ricordare anche la breve «nota» che, a sua firma, apparve nel «Giornale critico» del 1935, e nella quale egli volle fornire il documento del disorientamento del pensiero contemporaneo 105. Cantimori, Politica e storia contemporanea, pp. 50 e 51.
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di fronte a quel che stava accadendo in Europa dopo la fine della prima guerra mondiale. È, nella sua brevità, un testo notevole, caratteristico dello stile di Cantimori, e del suo senso, come l’ho definito, «antitetico», della complessità obiettiva delle cose. Da una parte, vi si dava notizia dell’uscita, presso «l’austera casa editrice Mohr di Tubinga» di una raccolta includente un libello razzistico, Luthers Kampf gegen die Juden, dovuto alla penna di un Privatdozent di Königsberg, di nome Vogelsang, e scritto a uso dei «Deutsche Christen», per mostrar loro che il sangue di Cristo sarebbe ricaduto sugli ebrei e che questo era il convincimento di Lutero. Da un’altra, si annunziava l’uscita de Le racisme et l’orchestre universel di un fisiologo, S. Lakhowsky, che combatteva l’antisemitismo con argomenti desunti da una dottrina della razza del tutto coincidente con quella degli antisemiti, e «con ragionamenti che» stavano «sullo stesso piano naturalistico e semplicistico del razzismo naturalistico-positivistico tedesco». Cantimori ne traeva la conseguenza che questo modo di uscire della cultura e dal rigore scientifico per polemizzare con un corpo di pensamenti e di dottrine che avrà a che fare con la politica e con la sociologia, se si vuole, ma non riguarda la vita intellettuale nel suo senso preciso di vita etica e spirituale, è una delle cose più preoccupanti, uno dei sintomi più evidenti della incertezza del pensiero di fronte ai fenomeni del dopoguerra europeo.106
20. Convinto che, nel secondo dopoguerra, si sia determinato un complesso fenomeno, nel quale alla cancellazione delle colpe e delle responsabilità attribuibili ai vincitori ha fatto riscontro la durezza con cui colpe e responsabilità non diverse sono state assegnate ai vinti, Eugenio Di Rienzo si è dedicato a leggere il mio libro con in testa il criterio conseguente a questa sua convinzione. E ha composto un articolo che definirei singolare. Per un verso vi ha asserito che, con quello scritto da me, «siamo di fronte a un libro importate, con il quale, […], dopo i profili dedicati a Croce, a Gentile, a Chabod», avrei «collocato un altro tassello di una» mia «personalissima storia del nostro Novecento intellettuale. Una storia», così il Di Rienzo la giudica, «mai scolastica, sempre originale, sempre ricca di sollecitazioni e di stimoli, sempre, vorrei aggiungere, ideologicamente spregiudicata e mai obbediente alle ragioni di parte e di partito, che in questo caso analizza con grande raffinatezza i vasti campi d’interesse di Cantimori». Per un altro, ha 106. Ibidem, pp. 313-314.
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ritenuto che spregiudicatezza e indipendenza di spirito a volte si siano «appannate», altre volte siano venute meno, nell’analisi del pensiero politico che egli delineò nel periodo che va dal 1927 al 1942: un periodo drammatico, nel quale il personaggio ricostruito da me «scelse di non scegliere», e se ne stette seduto sulla riva del fiume per «osservare le limacciose acque del Novecento», come se «fascismo, nazionalsocialismo e poi stalinismo» non fossero stati, per lui, se non «esperienze intellettuali da classificare in contenitori sterili come fossili provenienti da un’altra era». È un giudizio, questo, che contrasta nettamente con quello espresso dal Simoncelli, che, se non l’ho capito male, giudicava esauriente questa parte e non l’altra relativa alla vicenda cantimoriana del secondo dopoguerra. Come che sia, debbo ringraziare il Di Rienzo per l’apprezzamento, che va certamente al di là dei miei meriti, quali che siano. Ma debbo avvertirlo che tanto meno mi sembra che debba essermi attribuito in quanto, che spregiudicatezza e indipendenza intellettuale potrebbero mai riconoscersi a uno studioso che, là proprio dove avrebbe dovuto esibirle al più alto grado, ha dato invece luogo al loro appannamento? Una spregiudicatezza che, al momento del bisogno, si appanna, in realtà non si appanna affatto: perché non era quel che si diceva che fosse. Con questa logica elementare è necessario che i conti tornino. Dopo di che vorrei avvertire il lettore degli scritti, miei e del mio critico, che se nel Cantimori delineato da me il Di Rienzo ha colto quei caratteri, delle due l’una: o io non ho saputo esprimere quel che avevo in mente, o lui non è stato, questa volta, sufficientemente attento nella lettura di quel che avevo scritto. Ritengo infatti di avere, a ragione o a torto, delineato, un personaggio intimamente scisso, e comunque complesso, che era fascista ma anche idealista, non condivideva l’ideologia della razza e del sangue, ed era pur costretto a riconoscere che l’affermazione del fascismo italiano, del nazionalsocialismo tedesco e del comunismo sovietico significavano, al di là delle loro differenze, la fine della civiltà liberale, borghese, capitalistica dell’Occidente: di una civiltà della quale, da fascista rivoluzionario quale era, non apprezzava i «valori», e che non gli era tuttavia estranea (non fosse che per il legame che intratteneva con l’idealismo). Sul solare Settembrini, egli era incline a far prevalere il notturno Nafta; sebbene anche del primo si sentisse partecipe, come, per fare un esempio tratto dall’aneddotica della sua biografia, è provato dal rapporto, fatto di amore e di avversione, che, negli anni trascorsi insieme presso l’Istituto di Villa Sciarra, lo legò di amicizia a Carlo Antoni, ossia allo studioso, come lui, di cose germaniche, al quale egli era solito assegnare il nome del primo
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dei due personaggi manniani107 senza poter «negare» che della cultura di quello lui pure, in una parte di sé, aveva ricevuto il segno. Se, in quegli anni, Cantimori manifestò più volte il suo rifiuto del torbido irrazionalismo che Mann aveva sintetizzato nella figura del piccolo gesuita comunista, nel cui pensiero la «destra» e la «sinistra» si intrecciavano formando figure alquanto raccapriccianti, disse anche che quelle figure tuttavia esistevano, possedevano la nota della realtà, e che vincerle non si sarebbe potuto mai se in primo luogo non le si fosse studiate, se, senza conoscerle, semplicemente le si fosse deplorate e detestate. Era, senza dubbio, un atteggiamento pericoloso, che, mentre atteggiava sé stesso nel segno della complessità, in chi se lo trovava di fronte poteva provocare reazioni non ispirate, certo, alla comprensione. Era un atteggiamento che, in un certo senso, aveva il suo pregio nel suo difetto. Se dalla consapevolezza della complessità ricavava il rifiuto delle condanne eseguite al di qua di adeguate conoscenze, è anche vero che, dinanzi ai gravi contrasti che segnavano e dividevano il mondo, presupponeva e quasi confessava una elaborazione incompiuta. Per questo, o anche per questo, quella di Cantimori mi apparve una dialettica senza sintesi; che, kantianamente, ho perciò preferito definire un’«antitetica». Chi non la coglie, questa antitetica e non capisce che tanto più per Cantimori fu necessario indossare l’abito dell’osservatore che descrive e, mentre descrive, non giudica, in quanto il conflitto che gli stava dentro non era tale che a lui fosse dato di risolverlo e non esserne, invece, dominato, semplicemente non coglie il tratto più peculiare del suo atteggiamento e, debbo ripeterlo, non riconosce in lui il personaggio drammatico e inconciliato che sempre, pur nel variare dei tempi e delle situazioni, egli fu. Semplicemente, non lo capisce: a cominciare dal libro sugli Eretici, che è scritto nel segno, o anche nel segno, di questo conflitto, che a tratti si rese più che visibile nella sua trama. Di Rienzo ricorda che, negli anni in cui analizzava i testi del nazionalsocialismo, ci furono uomini che seppero parlarne come di una barbarie, e che Cantimori non fu di questi. Diamine, e chi lo nega!108 Ci mancherebbe che lo si negasse. Posto che qualcuno ab107. D. Cantimori, Carlo Antoni, in «Nuova rivista storica», 44 (1960), pp. 174-178. 108. Sia ricordata anche qui la testimonianza resa da Alessandro Natta sugli anni in cui, alla Normale di Pisa, ascoltava Cantimori e Calogero e paragonava l’estrema cautela del primo con la intensa attività politica clandestinamente condotta dal secondo: «Calogero era un agitatore […]. Infatti nel ’42 fu arrestato, mentre nessuno di questi altri grandi intellettuali ha avuto questa sorte» (A. Natta, Da Imperia alla Normale. Un percorso antifascista, testimonianza resa a M. Del Lungo e M. Doria il 29 giugno 1995, in «Storia e
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bia preteso di fare di lui un eroe dell’antinazismo, quello non ero certo io; che, delineando il quadro che ho provato a riassumere, ho tuttavia escluso che potesse farsene, per quegli anni, un nazista. Il passo che Di Rienzo cita all’inizio del suo articolo si trova alla p. 468 degli Scritti 1927-1942, e descrive e riassume concetti nazionalsocialisti all’incirca con le parole che Cantimori incontrava nei testi e secondo gli intendimenti di questi. Attribuire alla sua convinzione l’aberrante idea secondo cui, «da quando l’umanità ha una storia, è la razza ariana quella che ha compiuto le più grandi imprese», è cosa tanto arbitraria quanto lo sarebbe l’attribuzione a uno studioso che, per quella che è, descrivesse la cosmologia tolemaica, il convincimento della sua verità. C’è poi il caso, già ricordato, della «voce» Onore, nella quale il Di Rienzo è giunto a cogliere «un’apologia abbastanza trasparente delle leggi di Norimberga del 1935, che costituivano il nocciolo duro dell’apparato repressivo antiebraico instaurato dal nazismo». Ma, come ho già detto nella discussione con il D’Elia, di questa apologia non riesco proprio a vedere, in questa «voce», la minima traccia; né mi sembra che, dal modo descrittivo, qui, come altrove, tenuto da Cantimori nel delineare la sua «voce», possa dedursi quale, in tema di onore, fosse il suo personale convincimento. Trarre da questi scritti la prova che, «in perfetta sintonia con la svolta antisemita del regime fascista e con la sigla del “Patto d’acciaio”, Cantimori abbandonava […] il suo precedente rifiuto del razzismo a base biologica»,109 e che al regime nazionalsocialista egli guardava con crescente consenso proprio negli anni in cui già era avvenuta la sua conversione al comunismo, è proprio impossibile. Come si osservò a proposito della tesi del Simoncelli, il nazionalbolscevismo, che aveva dato segno di sé agli inizi del movimento nazionalsocialista, non aveva più alcuna attualità negli anni in cui Cantimori scriveva; e, posto che avesse mai costituito argomento di convinzione e condivisione politica, in quegli anni non rivestiva per lui se non un interesse storiografico. Metterei perciò fine a questa lunga discussione se non mi sembrasse giusto rettificare l’osservazione che memoria», 4 (1995), pp. 131-132. La testimonianza di Natta fu messa in rilievo da Pertici, Mazzinianesimo, p. 132, e quindi, con varie inesattezze relative alla vicenda politica di Calogero, da C. Dionisotti, Ricordo di Delio Cantimori (1998), in Ricordi della scuola italiana, Roma 1998, pp. 574-75. 109. E. Di Rienzo, Delio Cantimori e il “dopoguerra storiografico”, in Delio Cantimori e la cultura politica del Novecento, a cura di F. Perfetti e E. Di Rienzo, Firenze 2009, pp. 83-84.
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Di Rienzo ha dedicata alla scelta che, com’è stato inteso e rappresentato da me, Cantimori avrebbe fatta di non scegliere e di rimanersene in disparte sulla riva del fiume a contemplare, senza mai immergervisi, la sua corsa tumultuosa. Eh no, caro Di Rienzo. Non è questo quel che emerge dalle analisi che ho dedicate agli scritti del periodo che va dal 1927 al 1942. E non è questa l’immagine di lui che racchiudo dentro di me e ho cercato di delineare nel mio libro. Non fu infatti a quel criterio che l’ho ispirato. Forse non mi sono fatto capire, forse non sono stato capito. Ma, per come è stato ricostruito da me, in tanto Cantimori si dedicò allo studio, il più che fosse possibile, scientifico e distaccato delle vicende della Germania e dell’Europa di quegli anni, in quanto era una forte passione politica quella che egli chiudeva in sé e con la quale entrava di continuo in contatto. Era la sfida della complessità e della problematicità dei suoi pensieri, e dei drammatici oggetti ai quali li indirizzava, quella che egli subiva e che, per non esserne travolto, cercava con ogni mezzo di trasferire sul piano alto della riflessione e della critica (e per questo, non per altro, ho detto che sempre il suo marxismo presentò un volto crociano e, ancor più, weberiano). Essendo via via passato dal fascismo rivoluzionario, condiviso in gioventù con l’attualismo, alla crisi di questi suoi convincimenti e al lento maturare delle esperienze che lo condussero a incontrare il comunismo e il marxismo, la complessità della vicenda intellettuale e umana nella quale si era impegnato gli impose di immergere nella fredda acqua dell’analisi il ferro bruciante delle passioni politiche. Può darsi che, intervenendo sulle cose per cercar di capirle e per trovare in esse un sentiero che conducesse in luoghi di più alta certezza, tanto più a Cantimori accadesse di involgervisi. Può darsi che, ferma restando la sua convinzione che il mondo liberale e borghese avesse ormai presa la via della veloce e inarrestabile decadenza, alla sua analitica capacità distruttiva non ne corrispondesse una che la eguagliasse sul piano della costruttività e della sintesi; e che per questo, di questo consapevole, Cantimori si chiudesse nell’analisi. Ma solo se non si sia stati in grado di cogliere la genesi della sua scientificità, solo se non ci si sia messi nella condizione di avvertire quanto di drammatico e di sofferto fosse in quel ricercato distacco, può dire che Cantimori «scelse di non scegliere». Solo se non si sia abbastanza valutata la sua adesione al fascismo e il convincimento antiliberale che lo aveva condotto a quell’approdo, si potrebbe dire che, per me, Cantimori fu uno scrittore «neutrale». In realtà, la mia impressione è, capacità letteraria a parte, di avere attribuito a Cantimori un volto, come quello di Wagner che, nel ritratto delineatone da Thomas
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Mann,110 era segnato da tutte le tragedie del secolo; sì che se qualcuno mi accusasse di averlo addirittura drammatizzato, sappia che agita una questione della quale non sono inconsapevole e solleva un dubbio che anche in me è vivo. Ma non si dica che ho delineato un Cantimori che «sceglie di non scegliere». Appendice Il libro di Paolo Simoncelli, Cantimori e il libro mai edito. Il Movimento nazionalsocialista dal 1919 al 1933, Firenze 2008, ha visto la luce quando questo saggio era pressoché concluso. Ho potuto perciò utilizzarlo in modo marginale, e diverso da come sarebbe accaduto se mi fosse stato noto quando cominciai a scriverlo. Se quindi alla questione dei patti tedesco-sovietici del 1939 ho dato più rilievo di quanto ora il libro del Simoncelli non richiederebbe, e non ho rese più rapide le mie considerazioni in proposito, la ragione è da ritrovarsi sia nella forma in cui la sua tesi era stata anticipata in una pagina resa nota dalla Luiss, presso la quale si era tenuto il Convegno cantimoriano del maggio 2004, sia nel modo in cui, per conseguenza, alcuni studiosi (D’Elia, Di Rienzo, Vander) l’avevano ripresa e accolta. Della relazione tenuta da Simoncelli in quel Convegno il libro è infatti, non solo la rielaborazione e il compimento, ma anche, si direbbe, la revisione critica. Nella relazione tenuta al Convegno Simoncelli aveva sostenuto che, come l’accettazione cantimoriana della proposta che Volpe gli aveva rivolta di un libro antologico sul nazionalsocialismo era da mettere in relazione con quel che era accaduto in Europa in seguito alla sottoscrizione, nel luglio 1939, da parte della Germania nazionalsocialista e dell’Unione Sovietica, di un patto di non aggressione militare, così la rinuncia a concluderlo era da connettere alla rottura di quell’accordo e a quel che ne era seguito sul piano bellico. Nel libro le cose sono presentate in modo diverso. L’accettazione della proposta di Volpe è del luglio 1943, e precedette di circa un mese i patti tedesco-sovietici: con la conseguenza che la tesi che era stata del Simoncelli è stata discussa, non nelle pagine sue, dove non era più presente, ma in quelle degli studiosi che l’avevano ricevuta nella prima formulazione e ne erano stati convinti. Niente di male. Ma la cosa andava notata. Nella sua formulazione originaria, la tesi era subito apparsa audace e, ai miei occhi, improbabile: donde la curiosità di vedere in concreto e da vicino come Simoncelli l’avrebbe ragionata e presentata quando si fosse trovato a svolgerla in una sede adeguata. Anche per un’altra ragione il suo libro era atteso, e teneva desta la curiosità. Si confidava infatti che, incluso nel suo, potesse leggersi quel che restava del libro 110. ���������� Th. Mann, Leiden und Grösse Richard Wagners, in Adel des Geistes, Stockholm 1948, p. 388.
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su Il nazionalsocialismo che Cantimori aveva avviato e non completato, e del quale due parti si trovano, una fra le sue carte conservate nella Scuola Normale Superiore di Pisa, un’altra nella Biblioteca comunale di Santarcangelo di Romagna, in cui è stato ordinato l’archivio di Gioacchino Volpe, al quale ne aveva inviato una parte. Per altre notizie concernenti queste due parti rinvio senz’altro al libro di Simoncelli che, al riguardo, dice l’essenziale. Per quanto invece è delle curiosità alle quali accennavo, debbo dire che, per ragioni diverse, non state appagate. Non la prima, e si è già detto perché. Il rapporto che prima era stato stabilito fra i due eventi, si è dissolto infatti nel corsivo con il quale egli ora sottolinea il verbo «precedere» (p. 26), e, per dir così, ritira la tesi che prima aveva avanzata. Niente di male, ancora una volta; e tutto bene, anzi, dal momento che è sempre una grande soddisfazione, per un autore, poter correggere lui una tesi che, essendogli accaduto di formulare, gli si fosse, nel progresso della ricerca, rivelata fragile o inconsistente (anche se, per la verità, a far riflettere il Simoncelli potrebbero essere state anche le obiezioni ricevute da chi aveva sottolineata l’improbabilità che uno studioso avveduto e competente come Cantimori potesse credere che un accordo diplomatico come quello nascondesse in sé la viva fiamma di un’alleanza ideologica: cfr. il mio Delio Cantimori, p. 65 n. ). E qui, prima di passare alla seconda, non soddisfatta, curiosità, vorrei aggiungere che nemmeno avevo avuto torto (anche se fu fin troppo facile aver avuto ragione) quando avevo congetturato che il libro commissionato a Cantimori fosse, non, come sentivo dire in giro da diverse parti, un vero e proprio libro, ma un’antologia, mista di introduzioni e documenti, com’erano quelle che Volpe dirigeva per l’Ispi di Milano. Il che non significava, per altro, che la mia intenzione fosse di sminuire l’importanza dell’opera che Cantimori aveva accettato di preparare. Cose importanti si possono dire in un’antologia come in un articolo, in una recensione come in un’opera in più volumi; ma in quel caso si trattava di un’antologia. La seconda curiosità rimasta inappagata è quella che genera la più grande delusione. Sempre che a una pubblicazione non ostino ragione di legge (ma di questo nel libro non mi pare che si parli), deve ritenersi che il Simoncelli non ha proceduto a un’edizione del superstite testo cantimoriano perché questo gli si è presentato lacunoso, e a lui non è stato dato fin qui di ritrovare le parti mancanti e di «assemblarle» in modo persuasivo. Ha quindi, se non lo capisco male, atteso tempi migliori: ossia che alla sua tenacia di ricercatore sorrida una migliore fortuna. Non credo che nel procedere così abbia avuto ragione. Le probabilità che le parti che mancano alle parti riservate all’autore siano ritrovate sono assai scarse; mentre non tutti i documenti che dovevano comparire nel volume erano stati per intero selezionati e tradotti. La miglior cosa sarebbe quindi stata di procedere intanto a una pubblicazione diplomatica del testo esistente, tenendo separata quella conservata a Pisa dall’altra conservata a Santarcangelo; e di corredarlo di un’Introduzione generale e di una Nota ai testi. Il lettore avrebbe avuto modo di conoscere il pensiero del Simoncelli e, nello stesso tempo, di avere sott’occhio tutto il materiale cantimoriano. Certo, il volume si sarebbe più che raddoppiato. Ma gli studiosi ne avrebbero tratto gran giovamento.
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Lo scopo che questa Nota si prefiggeva è stato raggiunto; non era infatti nelle intenzioni di far seguire al testo dell’articolo che si legge qui una recensione del libro del Simoncelli. A proposito del quale basterà dire, in modo molto veloce e con la riserva di tornare, eventualmente, sull’argomento, che la sua attuale impostazione risente alquanto di quella che egli aveva data al suo lavoro quando fra il libro sul nazionalsocialismo che Cantimori si era impegnato a scrivere e gli eventi dell’agosto 1939 aveva stabilito il nesso che poi si è rivelato inesistente. Di qui, come se si trattasse di una conseguenza che Cantimori avesse tratta, non dal periodo (1919-1933) che avrebbe dovuto trattare, ma dallo spirito nuovo dei tempi, l’insistenza con la quale il Simoncelli fa battere l’accento sul rilievo che nel libro era stato conferito ai temi sociali del nazionalsocialismo e agli uomini che li aveva agitati. E di qui anche la tesi, che a più riprese è stata da lui proposta nel suo libro, della «fascinazione» che Cantimori avrebbe subìta dai temi sociali del nazionalsocialismo. In realtà che, conforme al suo ingegno e all’interesse che lo inclinava a quel che nella storia era rimasto allo stato di progetto o di proposta, ed era comunque stato sorpassato da ciò che aveva prevalso, Cantimori dovesse mettere in evidenza le tante energie intellettuali e passionali che si erano intrecciate, all’inizio, nel movimento nazionalsocialista, non è cosa che possa sorprendere. Accettando l’invito il 6 luglio 1939, a stretto giro di posta, a Volpe Cantimori aveva confidato che, a differenza di quel che aveva fatto nella «voce» Nazionalsocialismo del Dizionario di Politica, nel nuovo libro avrebbe ripresa la sua storia «da più indietro, dal tempo del Lueger a Vienna» (al quale aveva fatto rapido riferimento all’inizio di quel saggio [pp. 453 e 454]) e, addirittura, avrebbe «accennato», «con un documento o due, al socialismo utopistico tedesco del Weitling». Il che, anche a prescindere dai suoi interessi e dalle sue preferenze storiografiche, tanto meno sorprende in quanto (Weitling forse a parte) una via non dissimile sarebbe stata percorsa da chiunque si fosse proposto di seguire la storia di un movimento politico nato, nel clima di Weimar, dal travaglio della Germania uscita dalla prima guerra mondiale; e tanto più, naturalmente, chi l’avesse intrapresa, non solo alle vicende della politiche fosse stato attento, ma a quelle altresì delle ideologiche e delle connesse passioni. Per spiegare perché, rispetto alla «voce» Nazionalsocialismo, nel nuovo libro Cantimori si fosse proposto di dare, e avesse dato, maggior rilievo a idee e uomini che erano via via usciti di scena, o erano stati messi al margine, non occorre pensare a una sua particolare tensione emotiva, a una forma di coinvolgimento, a una «malcelata passione» (p. 135) che, dato e non concesso che in quella forma questi sentimenti fossero stati da lui provati nei precedenti anni, non si vede da che cosa sarebbero stati riaccesi in un momento in cui nessun indizio autorizzava l’idea che il Partito nazionalsocialista stesse tornando a quei temi. Nel momento in cui Cantimori dava inizio al suo racconto, nonché alla scelta dei documenti previsti dalla collana in cui il suo libro avrebbe dovuto apparire, il tempo di Gregor e di Otto Strasser, dei von Reventlow, dei Brockdorff-Rantzau e degli
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altri che, da sinistra e da destra, avevano auspicato l’incontro tedesco-sovietico in funzione antioccidentale, era ormai tramontato; tramontate erano altresì nel Partito nazionalsocialista le istanze egualitarie che avevano condotto alcuni di quegli uomini a auspicare e teorizzare la soppressione della proprietà privata della terra. L’interesse che Cantimori aveva nutrito nei confronti di questi uomini e delle loro idee poteva trasferirsi in un racconto che a tutto ciò facesse il debito spazio. Ma l’interesse era interesse, non era mai stato adesione e condivisione. Come ho detto, questa Nota non è una recensione del libro del Simoncelli. Ma per quel che interessava il mio discorso, ciò che ne è stato detto è, credo, sufficiente. Del resto, se così non fosse, il discorso potrebbe sempre, con l’aiuto della fortuna, essere ripreso.
5. Santo Mazzarino: la decadenza, il tempo. Appunti e riflessioni
1. Nel libro che nel 1942 dedicò a Stilicone,1 Mazzarino criticò la storiografia illuministica; che, disse, poteva comprendere l’uomo, non il suo tempo, perché «aveva sempre studiato il “basso” impero non già come periodo storico, che avesse in sé giustificazione assoluta (che fosse, hegelianamente, razionale e reale), sibbene come un mondo in funzione di quelli che lo avevano, rispettivamente, o preceduto o seguito».2 L’avvio alla sua comprensione come uomo storico fu dato, se mai, da Amédée Thierry,3 che intese la natura supernazionale e universale dell’Impero, e 1. Mi servo, per lo Stilicone. La crisi imperiale dopo Teodosio, Roma 1942, della ristampa avvenuta nel 1990 presso Rizzoli, Milano, e che è arricchita da un’importante Introduzione di Andrea Giardina. Il riferimento alle pagine della prima edizione è posto fra parentesi, dopo la citazione dell’edizione nuova. 2. Mazzarino, Stilicone, p. 230 (= p. 313). 3. Non mi risulta che su Amédée Thierry, fratello minore (di due anni) dell’assai più celebre Augustin, gli storici della storiografia antica si siano soffermati con particolare attenzione. E. Feueter, Storia della storiografia moderna, tr. it., n. ed., Milano-Napoli 1970, p. 573, raccomandò di non confonderlo con il suo maggior fratello: il che non era molto. Ma non più brillante fu G.P. Gooch, History and Historians in the nineteenth Century, LondonNew York-Toronto 1958, p. 166, che, dopo aver detto che la sua fama fu «overshadowed by that of his elder brother», aggiunse generiche osservazioni sulla sua Histoire de la Gaule sous l’administration romaine (1840). Assai più dettagliato e penetrante il giudizio di A. Momigliano, La moderna storiografia sull’Impero romano (1936), in Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, pp. 150-152, che, apprezzando il suo libro, restò tuttavia lontano dalla valutazione che poi, non senza esagerazione, ne dette Mazzarino, Stilicone, p. 230 (= p. 314) quando scrisse di lui come del «vero scopritore del problema “imperiale” romano». Si ricordi tuttavia quel che di Stilicone aveva scritto nel 1819 Augustin Thierry, recensendo l’Histoire du bas empire di Ségur: «le général que l’empire chargea de sa défence, Stilicon, parut aux pieds des Alpes; il cria aux armes; et personne ne se leva; il promit
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presentò Stilicone come «il difensore ultimo di questa idea universale, che ora tramontava».4 Fu dato da Mommsen che pose la questione della prefettura illirica che Stilicone avrebbe tentato di annettere alla pars occidentale nella speranza, fallita, di una riunificazione delle due partes. La questione era insomma se fosse attuale, politicamente attuale, il tentativo volto a dare concretezza all’universalità di contro alle spinte particolaristiche, o stesse in queste ormai il senso autentico della storia occidentale. Convinti che l’universalità stesse cedendo alla particolarità, e che questo processo fosse inarrestabile, gli storici posteriori a Mommsen, ne ripresero il giudizio negativo, sebbene, si pensi a Ernst Stein, nell’opera politica e militare del generale semibarbaro non potessero esimersi dal riconoscere qualcosa di positivo, malgrado il fallimento dello sforzo compiuto in favore dell’«universalità romana» e dell’unità dell’Impero. Era, quella che, riprendendola da un’illustre tradizione di studi, il giovane storico si poneva, una questione difficile; in realtà, fra le più difficili e complesse. Non meraviglia, perciò, che anche sul punto dell’universalità e della sua tendenza alla disgregazione il suo giudizio non riuscisse a essere, o piuttosto non potesse essere, univoco. Per un verso, egli respingeva l’interpretazione, come la definiva, «naturalistica» che, da Machiavelli a Spengler, aveva delineato il concetto di una decadenza assoluta, spiegata nei termini polibiani dell’anakyklosis, della Zivilisation che si sostituiva alla Kultur,5 e significava morte; e in tanto la respingeva in quanto vi avvertiva proprio l’oblio, al quale induceva, del concetto dell’universalità che era invece, per lui, intrinseca alla storia di Roma, intesa vichianamente come «la storia ideale eterna della cultura europea, nella sua fase di preparazione e di primo consolidamento».6 Per Mazzarino, in altri termini, «la storiografia di oggi» aveva il compito di «superare quel concetto», inserendolo nell’altro, «assai più storicistico e concreto», di «continuità culturale, da intendersi nel quadro della cultura romana, come cultura occidentale»: la liberté aux esclaves, il prodigua les trésors du fisc; et de toute l’immensité de l’empire il ne rassembla que quarante mille hommes, la cinquieme partie des combattans qu’Annibal avait rencontrés au portes de Rome libre. Rome esclave fut prise et saccagée deux fois dans l’espace d’un demi-siècle. Bientôt l’Itqlie fut traversée en tous sens par les hommes du Nord […]; le nom romain fut aboli dans l’Occident» (A. Thierry, Dix ans d’études historiques, Milano 1843, p. 161). 4. Mazzarino, Stilicone, p. 231 (= p. 3159). 5. Ibidem, p. 232 (= pp. 317-318). 6. Ibidem.
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il momento naturalistico, o meglio «causale», non doveva essere «disgiunto, in tale indagine, dal momento universalistico, che la storiografia cattolica e medioevale» aveva «intuito».7 In questo quadro, Stilicone appariva come un vinto, come la vittima di un sogno impossibile; che aveva riguardato la possibilità di mantenere l’unità imperiale nel momento in cui Oriente e Occidente irreparabilmente si dividevano per dare luogo a due contrapposti «stili»: il primo, l’Oriente, che resisté ai barbari e si mantenne compatto, il secondo che si divise alla ricerca di un nuovo e diverso assetto. Il primo, unito nella religione. Il secondo inquieto, scisso, e perciò, assai più che religioso, politico.8 In termini specifici, quel che allora si determinò nel mondo occidentale fu la scissione fra il Senato latifondista e il dittatore che rappresentava lo Stato; fra il Senato che si ritirava in sé stesso, nei suoi interessi di classe, e il potere politico, che restava isolato e sul quale a trionfare era perciò l’economia.9 A questo punto, per un altro verso, la tesi mazzariniana secondo cui le cause estrinseche dovevano essere abbandonate, perché non erano se non le «forme» di volta in volta assunte dallo svolgimento storico, – tendeva a entrare in crisi, o a conoscere, quanto meno, il momento della sua difficoltà: non perché questa scissione, e il conseguente, reciproco, isolamento delle parti non avessero luogo, ma proprio per il loro essersi determinati e perché insoluto restava il problema che stava nel fondo: quello, che sempre fu vivo nel suo pensiero, della positività della storia. Si legga questo passo, assai caratteristico del clima culturale, fondamentalmente idealistico, che ancora caratterizzava, in quegli anni, una parte della cultura italiana, e del modo in cui Mazzarino ne partecipava. «L’unità concreta dello spirito che è storia, in quanto armonia di attività distinte e concordi», scriveva in una pagina emblematica, «è spezzata. Non solo la politica (dittatore) è contrapposta all’economia (latifondi) ma lo Stato stesso è svuotato del suo contenuto etico, è fatto astratto e lontano dalla umana realtà che lo esprime». Lo Stato stiliconiano gli appariva privo di contenuto religioso profondo: avendo dissolto la sua sostanza etica, si era «rifugiato nella sua astratta entità giuridico-militare»; e «proprio in questa rinunzia» a essere Stato nel senso pieno del termine, era «la sua condanna».10 Si legga ancora: «l’armonia dei distinti, cioè la viva 7. Ibidem, pp. 232-233 (= p. 317). 8. Ibidem, p. 235 (= p. 321). 9. Ibidem, p. 238 (= pp. 324-325). 10. Ibidem.
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unità dello spirito in quanto Stato, è spezzata; e Stilicone, nel suo tentativo di rappresentare l’uomo politico, nel senso astratto della parola, cade nella lotta, – e non lascia un’eco di rimpianto in anime in cui egli abbia potuto infondere una fede e affidare una missione».11 Attraverso il riferimento allo Stato etico, nel quale, italiano o no, il lettore avverte l’eco di una tesi gentiliana, e alla filosofia di Benedetto Croce, si coglie, in questo passo, la presenza di un travaglio tendente, addirittura, ad alterare il pensiero che pure veniva esplicitamente richiamato. I distinti entravano in crisi e spezzavano l’armonia in ragione della quale erano, e potevano essere definiti come, distinti. Il che significava che, in quanto tali, e come che questo pensiero potesse essere riferito alla filosofia che qui Mazzarino aveva presente e assumeva come guida, dal positivo passavano al negativo, dall’armonia al suo, appunto, spezzarsi, risolvendosi in disarmonia e conflitto. Significava, in poche parole, che da quello crociano, al quale erano attinti, passavano a un piano che a essi non consentiva di essere quali erano sul primo. Significava che, trasfigurandosi, non riuscivano a mantenere il loro carattere e si facevano simbolo di altro: di un altro concetto, che non riusciva per altro a emergere con riconoscibili caratteri. Nell’orizzonte crociano i distinti erano positività, eterna risoluzione del negativo. Qui, invece, in questo spezzarsi e alterarsi dell’armonia in disarmonia, il positivo, e cioè il distinto stesso, non era se non negatività, pura negatività; e, a differenza di quel che la teoria avrebbe invece richiesto, la crisi che gli insorgeva dentro non lo trasferiva in una diversa positività e non si risolveva in questa. La crisi irrompeva sulla scena della storia con intero il peso della sua negatività. Il positivo si faceva, era e permaneva negativo. E qui, con la particolare tonalità del pensiero che allora Mazzarino pensava, si coglie l’origine del suo faticoso distacco dall’idealismo. Importante, senza dubbio, è avvertire come la transvalutazione dei concetti crociani avvenisse al limite estremo del fraintendimento. Ma ancora di più è comprendere che la crisi dell’idealismo coincise in lui con la crisi del suo stesso sistema concettuale, che vi rimase coinvolto senza trovare in sé la forza bastante ad avviarne la positiva risoluzione. La crisi, insomma, era bensì avvertita. Ma, in primo luogo, era subìta. Il tema pessimistico della storiografia definita illuministica, che Mazzarino riteneva fosse stato risolto nell’idea della necessaria positività della storia, tornava prepotentemente in primo piano, faceva valere i suoi diritti, e, contrariamente a quel che 11. Ibidem, pp. 238-239 (= p. 326).
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egli aveva asserito, non riusciva a essere dissolto. Fra il tramonto dell’assetto statale tardoimperiale e la formazione dei regna romano-barbarici, in cui Mazzarino vedeva, in prospettiva, il fatto nuovo, e positivo-razionale, dell’Occidente, si determinava un lungo momento in cui a predominare era il negativo, e, con la sua positività, il nuovo stentava a prendere il suo avvio. La considerazione storico/fenomenologica si inseriva nel ritmo delle forme pure, e lo alterava senza rimedio. 2. La crisi dell’idealismo si era specificata, negli anni in cui Mazzarino pensava lo Stilicone, come crisi della positività della storia e del suo concetto. Non avrebbe, del resto, potuto essere altrimenti. Lì, infatti, era il punctum dolens, che anche all’interno dell’idealismo, e nell’animo stesso di Croce, era, più o meno intensamente avvertito. Si pensi, per rimanere in questo quadro, a Calogero, a Antoni, alla loro critica del provvidenzialismo; e, sul margine di esso, al primo Lombardi. Erano, d’altra parte, gli anni in cui la filosofia italiana prendeva contatto con la filosofia dell’esistenza. Jaspers e, con lui, Heidegger, erano oggetto dei primi studi e delle prime utilizzazioni, che andavano, fondamentalmente, in senso antidealistico. Hegel era ripensato, alla luce del libro di Jean Wahl, come il filosofo della coscienza infelice, e, letta in questa chiave, offerta da una delle sue figure, la Fenomenologia dello spirito prevaleva sulla Scienza della logica e sull’Enciclopedia, che avevano costituito il fondamento dell’interpretazione idealistica. Ancora pochi anni, ma allora non sembrò che se ne avesse notizia, e per opera di A. Kojève l’autore della Fenomenologia sarebbe apparso con sul volto un forte segno fra marxista e heideggeriano. All’ineluttabilità del progresso si contrapponeva il «rischio» che faceva tutt’uno con quella che Sartre avrebbe chiamata la situation, dalla quale era impossibile che l’uomo potesse mai affrancarsi. A parte, forse, Ernesto de Martino nel campo che fu il suo, nessuno, fra gli storici italiani, visse allora questa crisi con altrettanta passione e altrettanta intelligenza. Difficile, dunque, nel modo per altro improprio che Mazzarino teneva nel riproporre il nesso dei distinti, non cogliere il segno della crisi a cui quel nesso e la filosofia che l’aveva teorizzato stavano andando incontro in quegli anni, che furono, per l’Italia, di sconvolgimento e di imminente catastrofe. E a questo punto, poiché è il testo a offrire lo spunto per una breve riflessione sul modo in cui, in Italia, gli storici, anche i più agguerriti, entrarono, nella prima metà del secolo scorso, in contatto con la filosofia (o le filosofie) dell’idealismo, conviene ricordare di nuovo che, nella «filosofia dello spi-
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rito», quella dei distinti alla quale, in queste pagine, Mazzarino faceva riferimento, era un’armonia necessaria di forme eterne, all’interno delle quali, strutturalmente superato dal positivo, il negativo non avrebbe mai potuto assumere autonomia e consistenza ontologica. Ma, quando parlava di «forme», Mazzarino parlava di forme storiche, non di forme ideali: o di forme ideali che, immediatamente e in sé stesse, erano forme storiche. Senza porsi la tormentosa questione della fenomenologia, della logica e del loro rapporto, la sua potente intuizione dei mutamenti che erano in atto nella realtà lo induceva a ritradurre la logica in fenomenologia e a muoversi sul terreno di questa, non di quella. Se, nell’idealismo hegeliano e posthegeliano, il punctum dolens era costituito dal passaggio dalla fenomenologia alla logica, che non può esso stesso essere né logico (perché allora la fenomenologia sarebbe logica), né fenomenologico (perché, se lo fosse, la logica non sarebbe che fenomenologia), ed era costituito altresì da quello inverso dalla logica alla fenomenologia, nella dimensione puramente storiografica, in cui necessariamente Mazzarino si manteneva e si muoveva, la difficoltà si faceva, se possibile, ancora più acuta. Senza farla ripassare attraverso l’intero dispiegamento dei concetti che la costituivano, egli tuttavia l’avvertiva e la viveva con un’ intensità che, senza retorica, può esser definita drammatica: tanto che può forse ritenersi che nascesse di qui il suo acuto interesse per le questioni della temporalità, che poi avrebbero trovato una complessa, e anche complicata, trattazione, nella famosa nota 555 che, in sostanza, ne costituisce la vera conclusione, de Il pensiero storico classico (1966), e sulla quale si dovrà tornare. 3. Non era dunque soltanto il «momento Stato», anch’esso concepito come armonia di distinti, a esser messo in questione. In questione era messa «l’unità concreta dello spirito che è storia». Non si trattava qui di Stilicone e del momento politico-statuale che egli, fallendo tuttavia, aveva cercato di incarnare. Non si trattava del suo progetto e dei suoi intenti. Si trattava dell’intera realtà politica, sociale, istituzionale, nel tempo (si badi: nel tempo) in cui lo spezzarsi dell’armonia si produsse, e a emergerne fu il negativo; che era, si ripete, negativo, e non poteva perciò essere interpretato come una «diversa» positività. Insomma, nel tempo (una volta che alla sua dimensione si fosse, da storici, deciso di rimanere aderenti), in quel determinato tempo, la decadenza fu decadenza: e caratterizzò un’età, non tanto di trasformazione, nella continuità, degli istituti della vita politica, sociale, morale, intellettuale, quanto piuttosto di arresto, di involuzione, di autentica desolazione. Il tentativo che,
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fedele in questo a un concetto idealistico, che tenacemente resisteva nella sua mente, Mazzarino esperì di salvare la razionalità e la positività della storia, risolvendo in una morfologia l’idea della decadenza, non risolse il problema: se mai, e, in un uomo della sua intelligenza, era inevitabile, lo esasperò. Se, nei termini della «teoria delle forme» che Mazzarino aveva cominciato a delineare, la decadenza aveva «forme», e queste erano le sue forme, erano le forme della decadenza, la coerenza del discorso avrebbe richiesto e importato che, posto lo spezzarsi dell’armonia dei distinti, quelle fossero state assunte come segnate esse stesse dalla decadenza e dalla desolazione. E inesorabilmente dalla morfologia, dalla teoria delle forme, si sarebbe perciò di nuovo passati alla teoria delle cause, o, se si preferisce, alla Dekadenzidee. Il trasferimento della teoria (illuministico-positivistica) delle cause nella teoria moderna delle forme non risolveva dunque il problema. Sostituita alla «eziologia», la morfologia rischiava di finire in un giro di parole. Forma significa infatti «ordine», decadenza «disordine». Forse che si sarebbe potuto dare un ordine del disordine, una forma di ciò che non ha forma? Che, nel pensiero di Mazzarino, questo fosse un punto di particolare difficoltà, si vede, per esempio, nel modo in cui12 egli impostò la questione del rapporto fra la pars orientale dell’Impero che rimase sostanzialmente integra, e quella occidentale, in cui al «semifeudalesimo del Senato» si affiancò «una formula dittatoriale che» sembrava «ancora incerta, ma che» sarebbe stata «ben presto valida e giuridicamente chiara, con le dittature di Costanzo, Aezio e Ricimero». E, a proposito del contrasto fra Oriente e Occidente, si veda ancora: «all’Oriente antibarbarico – come già vedemmo – e burocratico (come ora dobbiamo aggiungere) si oppone un Occidente fondato sulla dittatura barbarica e sull’autorità di un senato a tendenza feudale: ed entrambi, dittatore e senato, sono privi in Occidente di una sensibilità religiosa nuova, cioè cristiana».13 Se si sta a questa definizione, sembra difficile non ammettere, non solo che fra il Senato feudale e il principe si fosse stabilita una divaricazione insanabile, ma che entrambe queste «forme» fossero, ciascuna, segnata da un crisi che, sommandosi alla crisi, produceva una situazione di aperta negatività. 4. La questione della positività e della negatività ricevette dunque, nel libro del 1942, una risoluzione perplessa. Come si è visto, la morfologia non eliminava il problema della decadenza. Non a sufficienza esorcizzato dalla 12. Ibidem, p. 243 (= pp. 331-332). 13. Ibidem.
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filosofia idealistica, che non ne fu, a sua volta, sufficientemente, esorcizzata, quello della decadenza restava un fantasma che seguitava a incombere sull’orizzonte della trattazione e a rendere non serene le notti vegliate da Mazzarino. La cosa non deve sorprendere. Il messaggio che gli proveniva da Croce era, in tema di decadenza, meno univoco di come la lettera della teoria lasciasse pensare, e forse egli pensava. Sulla storiografia crociana Mazzarino si è, che si sappia, soffermato di rado. Ma si stenta a credere che un uomo della sua dottrina e della sua insaziabile curiosità, capace come pochi di leggere fra le righe e di cogliere i mutamenti di clima, non avesse quanto meno intuito che la tendenza a risolvere il negativo in diversa positività era tuttavia contrastata, in Croce, dall’acuta consapevolezza che, per lunghi periodi, il progresso delle cose umane era stato, in Occidente, affidato, per esempio, a popoli diversi da quello italiano che, per la sua parte, restava fermo mentre quelli andavano avanti: come può vedersi, oltre che da alcune brevi delucidazioni teoriche apparse alla metà degli anni trenta, sia nella Conclusione (scritta nel 1913) del libro su La Spagna durante la vita italiana della Rinascenza, sia dalla Storia dell’età barocca in Italia, scritta nel 1925, e pubblicato nel 1929. L’ottimismo razionalistico, per il quale, per usare un’espressione di Kant, la storia è «in costante progresso verso il meglio», era stato messo a dura prova dalla prima guerra mondiale e da quel che ne era seguito in Italia, dove le istituzioni liberali erano state travolte e il fascismo aveva instaurato la sua dittatura. Quanto meno Croce era stato per lungo tempo disposto a rivedere in senso pessimistico la sua teoria della storia, tanto più il riconoscimento che faceva delle età di decadenza assumeva, nel contrasto che apriva nella sua coscienza, un aspetto drammatico. Quel che poi, dopo la conclusione della seconda guerra mondiale, accadde quando, fra il 1949 e il 1951, esplicitamente egli parlò di «crisi della civiltà» e, nel segno dell’utile reinterpretato come «vitalità» andò addirittura vicino a sconvolgere l’ordine delle forme, nasceva da pensieri che in lui erano presenti da molti anni, da domande angosciose che risorgevano intatte dalle assicurazioni con le quali si era, da parte sua, tentato di tenerle a bada. Che pochi, allora e poi, se ne accorgessero, e ne tenessero conto, è un fatto che nasconde in sé la grave questione del rapporto che la cultura italiana intrattenne con la filosofia e, in particolare, con questo pensatore; che fu nel tempo piuttosto amato, da quanti lo amarono, che non capito, e piuttosto vituperato, da quanti non lo amavano, che criticato sul serio. Così, per esempio, non ci si avvide che la questione della decadenza stava al centro della Storia d’Europa nel secolo decimonono: un libro che
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pure è stato, per lo più, letto come un idillio storiografico, come la civitas dei (disse uno storico che non mancava d’ingegno, tutt’altro14) del liberalismo. È impossibile dire che conto Mazzarino facesse di questo e degli altri libri crociani di storia, sui quali, salvo errore, non si incontrano, nei suoi, giudizi espliciti e diretti. Ma, comunque sia di Croce e della sua storiografia, sollecitazioni «pessimistiche» non potevano non provenirgli dalla specifica realtà storica e politica degli anni in cui egli concepì e, sopra tutto, scrisse il libro su Stilicone; che vide la luce nel 1942, ossia nell’anno in cui, a chi avesse avuto occhi per vedere, la catastrofe che l’Italia avrebbe conosciuta nel ’43 si era già profilata in modo inequivocabile. Del resto, proprio nel tempo in cui Mazzarino pubblicava lo Stilicone, era uscito Il Medioevo barbarico d’Italia di Gabriele Pepe: un libro, per tante ragioni non comparabile con il suo, ma che, proponendo, fra le righe, l’equazione «barbarie/ fascismo», rendeva esplicito il concetto secondo cui quella in cui l’Impero romano aveva conosciuto il suo tramonto era stata un’età il cui tratto negativo, fortemente negativo, si era prolungato nel Medio Evo dei primi secoli. Pepe era uno storico singolare che, approdato al crocianesimo dalla sponda marxista, manteneva viva in sé la lezione che gli era stata impartita anche da Gaetano Mosca. Ma il suo era un Medioevo concepito in termini pessimistici. Che fosse stato altamente apprezzato da Croce, che lo recensì nella «Critica»,15 avrebbe pur dovuto dire qualcosa a chi, essendosi procurata una conoscenza soltanto di quarta mano del suo pensiero, da quella presa di posizione, se non da altro, avrebbe potuto essere indotto a passare dalla quarta mano almeno alla seconda. Ma questo di rado avvenne. Fra le poche eccezioni, dev’essere contata quella costituita da Mazzarino, che dei libri filosofici di Croce era stato lettore, non di seconda, ma di prima mano. Che l’apprezzamento del libro di Pepe avesse luogo all’incirca nello stesso tempo in cui, sia pure in una lettera privata resa poi nota dall’autore, Croce mostrava di apprezzare la provvidenzialistica e dolciastra Santa romana repubblica di Giorgio Falco, dovrebbe far comprendere, da una parte, il travaglio che, anche su questo punto, il pensiero di Croce conobbe, da un’altra l’importanza, che a Mazzarino non era sfuggita, di quell’«episo14. W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea (1950), in Storia e storiografia, a cura di M.L. Salvadori e N. Tranfaglia, Torino 2004, p. 597, ripreso e condiviso da F. Chabod, Croce storico (1952), in Lezioni di metodo storico, a cura di L. Firpo, Bari 1969, pp. 231-232. 15. La si veda ora nelle Pagine sparse, III, Bari 1960, pp. 467-471.
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dio». Lettore com’era della Critica, prese nota di quella recensione; e al momento opportuno, la ricordò. 5. Al libro di Pepe Mazzarino accennò infatti in una pagina in corpo minore degli Aspetti sociali del quarto secolo, uscito a Roma nel 1951, per sottolineare il favore con cui, al suo apparire, Croce lo aveva salutato.16 Dalla constatazione non sembrò tuttavia che traesse nessuna particolare conseguenza. Non rilevò, per esempio, che, se il libro di Pepe aveva ricevuto quell’elogio, la ragione non poteva certo essere ristretta al suo quasi esplicito carattere antifascista. Doveva esserci qualcosa di più. La pagina è tuttavia degna di molta considerazione. Espressiva com’è, sia del forte legame onde Mazzarino era ancora avvinto, nel 1951, al pensiero di Croce, sia dello sforzo che egli compiva su sé stesso per allontanarsene e garantirsi la possibilità di aderire alla questione della decadenza senza paralizzanti ipoteche filosofiche,17 quella che egli allora scrisse dimostra che la preoccupazione teorica resisteva allo sforzo compiuto per liberarsene, e che quello della decadenza seguitava a essere per lui un problema molesto, ineliminabile sotto entrambi i profili: quello filosofico per un verso, e, per un altro, quello storiografico. In quella pagina Mazzarino era partito dalla constatazione che, in Italia, e nell’animo sopra tutto di qualche giovane, l’evocazione della decadenza e della sua idea avrebbe suscitato «scandalo» (il termine è suo), perché, come era stato detto da Ranke, ogni epoca della storia è in diretto contatto con Dio. Il che significava che, essendo storico e reale, per ciò stesso anche il Basso Impero aveva in sé la sua propria razionalità, il suo metro e la sua «specifica funzionalità», e che, se lo si fosse assegnato alla negatività e alla decadenza, non solo l’idea della storia sarebbe stata colpita a morte nel suo nucleo più profondo, ma quel suo momento concreto non sarebbe stato capito nel suo significato. Per le ragioni alle quali si è accennato, può dubitarsi se l’attenzione prestata alla decadenza e alla sua idea fosse, in quell’anno 1951, per suscitare scandalo nella coscienza dei giovani studiosi italiani. Per ragioni varie, che qui non 16. S. Mazzarino, Aspetti sociali del quarto secolo. Ricerche di storia tardo-romana, Roma 1951, p. 23. 17. Sarei più cauto quindi di Giardina, Introduzione, p. xxiv, nel valutare la precocità del distacco da Croce. Se per «precocità del distacco» Giardina intende che Mazzarino avvertì per tempo i problemi che la filosofia di Croce gli aveva fatto insorgere nella mente, l’osservazione è ineccepibile. Ma non lo sarebbe altrettanto se la si intendesse nel senso che le difficoltà furono presto superate in una diversa visione della storia. In varie forme, quelle difficoltà restarono aperte in lui fino alla fine.
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è possibile richiamare e analizzare, la cultura crociana aveva già da tempo iniziata la sua parabola discendente, ed era viva sopra tutto nella polemica che, con violenza, da più parti la stava investendo. Ma, si trattasse di un Idealtypus o di un personaggio reale, del giovane da lui evocato Mazzarino condivideva, almeno in parte, i pensieri: se non altro perché, in un tempo non lontano, quei pensieri erano stati i suoi. A Ranke, a Hegel, a Croce, in quel delicato passaggio della sua storiografia, non intendeva e non poteva voltare le spalle, perché, diceva, da quella tradizione di pensiero sentiva di ripetere «il meglio della sua formazione spirituale»:18 salvo che nemmeno all’evidenza delle cose poteva voltarle, e all’evidenza appartenevano anche la decadenza, la sua idea, le sue molte questioni, alle quali, da almeno tre secoli, la migliore storiografia europea aveva rivolto il suo interesse, ricollegandosi alla riflessione degli antichi. Doveva perciò riconoscere che si davano epoche che, «volgarmente», si definiscono «di fioritura», mentre pure se ne davano che prendevano il nome di «decadenza», di «depressione»: sebbene, al di sopra di tutto dovesse restar fermo che «la storia degli uomini, tutta senza eccezione, alla maniera di Ranke “risponde direttamente a Dio” ed è tutta, in questo senso, storia di positive esperienze in cui positivo e negativo sono i necessari momenti di un necessario rapporto dialettico».19 Il senso del discorso era chiaro, anche se, in termini di teoria, la formulazione non fosse altrettanto rigorosa. Ma non è questo quel che conta. Se quel che è stato detto qui su non è frutto di semplice immaginazione, allora occorre trarne la conseguenza; e osservare che, per quel che concerneva Croce, la vicinanza a lui era determinata dall’idea, non solo che nella storia non si desse, in ultima analisi, se non positività, ma anche che quest’ultima potesse essere interrotta dalla decadenza e dalla crisi delle civiltà. Che quindi, al di là delle intenzioni, questa pagina rivelasse la crisi, e se non la crisi, il conflitto che, per questa parte, si era aperto, o si era confermato, al centro della riflessione mazzariniana, sembra evidente: fra l’idea della decadenza e quella della positività della storia non si dava possibilità di mediazione o di accordo, una volta almeno che ai rispettivi ambiti categoriali si fosse deciso di tener fermo con coerenza. Se, per coloro ai quali l’esperienza idealistica era rimasta estranea, anche, di necessità, lo era stata e lo era la preoccupazione che il negativo potesse rendersi autonomo dal positivo e affermare la sua signoria su un’epoca o una stagione della storia 18. Mazzarino, Aspetti sociali del quarto secolo, p. 22. 19. Ibidem, p. 23.
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umana, non così poteva essere per Mazzarino. E per lui, infatti, non fu così. Nel libro su Stilicone, alle tesi di Otto Seek, di Eduard Meyer, di Spengler, e quindi di Ernst Stein, di M. Rostovzev, di Gaetano De Sanctis, aveva dato il massimo rilievo, le aveva discusse, accogliendo respingendo mediando; e se le aveva criticate, la ragione non stava certo nella contrapposizione che a esse, genericamente, avesse fatta, in astratto, delle idee della positività e del progresso. La tesi della continuità, che aveva naturalmente per lui i nomi di Fustel de Coulanges, di Dopsch e di Pirenne, aveva temperata la crudezza della Dekadenzidee mediante l’invito a guardare al nuovo che faticosamente nasceva dalla, e attraverso la, decomposizione dell’antico. Ma, certo, non aveva potuto impedire che, nell’atto in cui si dirigeva a quel che nasceva, l’occhio intanto fosse costretto a contemplare la morte di quel che per sempre era uscito, o stava uscendo, dall’ambito delle cose reali, e mai più sarebbe tornato a far parte di esse. Nel saggio che nel 1951 dedicò a Storia romana e storiografia moderna, aveva insistito sul progresso che si era realizzato negli studi quando, per esempio nella «grande History di Gibbon», si era resa chiara la consapevolezza della «necessità di unificare storia dell’impero e storia della Chiesa» e si era giunti perciò a capire che «una storia dell’impero romano era anche la storia della conversione dell’impero romano nell’impero cristiano: storia dell’impero e del cristianesimo a un tempo».20 E in questo medesimo contesto, non senza drasticità, Mazzarino non mancava di avvertire che «il senso della “Dekadenzidee”» era «tutto qui»;21 con il che dava netta l’impressione di voler far prevalere su di essa la diversa idea della continuità e della risoluzione del negativo in «altro». Eppure, risolta così, la questione era tutt’altro che risolta. L’idea, della quale Mazzarino aveva tentato di mitigare l’asprezza, tornava, nel corso del saggio, a prendere il sopravvento, nella sua crudezza. A Mommsen che, nella Römische Geschichte mai si era rivolto a considerare «il problema della crisi dell’impero romano»,22 egli contrapponeva, non solo Burckhardt, con la sua idea della «demonizzazione» e dell’«autunno del paganesimo», ma anche Seek, con la tesi della Ausrottung der Besten, dell’eliminazione dei migliori;23 e alla sua contrapponeva la tesi che la crisi europea determinata 20. S. Mazzarino, Storia romana e storiografia moderna, Napoli 1954, pp. 8-9. 21. Ibidem, p. 9. 22. Ibidem, p. 44. 23. Importanti precisazioni su questa tesi, la quale prevedeva che la eliminazione dei migliori si fosse determinata innanzi tutto sul piano biologico prima che politico, in M. Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo D.C. , Bari 1973, pp. 63-65,
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dalla prima guerra mondiale, e dalla seconda che ancora era nel suo svolgimento, avrebbe spinto a considerare, in modo sempre più deciso, e sempre più pessimistico, i concetti di decadenza e di fine del mondo antico. Almeno come sentimento e stato d’animo, il pessimismo di Burckhardt era stato infatti potenziato, oltre che dalle cose, da Der Untergang des Abendlandes di Spengler; un’opera che al suo apparire aveva suscitato bensì reazioni contrastanti, ma, da Eduard Meyer, che all’autore aveva dedicato un piccolo libro simpatetico, a Croce, da Heidegger a Theodor Adorno, da Huizinga a Thomas Mann, mai aveva lasciati indifferenti coloro che le si erano avvicinati. E non deve dimenticarsi, né Mazzarino dimenticava, Sorokin e soprattutto A Study of History di Toynbee; un’opera che, almeno in Italia, non riscosse l’interesse, e non suscitò i contrasti che, dopo la prima guerra, erano stati provocati dal libro di Spengler, ma, con i suoi grandi quadri e le sue insistite comparazioni, aveva anch’essa contribuito a diffondere l’idea che, per dirla con le parole di Paul Valery, le civiltà nascono per scomparire e morire.24 Di tutto questo, sebbene la teoria hegeliana e crociana della positività della storia avesse lasciato nel suo animo e nella sua mente un segno profondo, era proprio impossibile che Mazzarino non tenesse conto; e che, anzi, fra quelle tesi, egli stesso prendesse il suo posto e svolgesse i suoi pensieri. Nello stesso anno in cui aveva visto la luce il suo saggio su «storia romana e storiografia moderna», egli dedicava il primo capitolo di una delle sue opere più tecniche e, nello stesso tempo, più importanti (i già ricordati Aspetti sociali del quarto secolo), a passare in rassegna, e a discutere, le principali tesi che la storiografia aveva prodotte, fra Otto e Novecento, sulla storia dell’Impero romano, la sua crisi e la sua fine. E in una nota, polemizzando con il giudizio che, a proposito di Rostovzev e dell’idea di decadenza,25 Arnaldo Momigliano aveva formulato nel 1933, di questa idea riprendeva la difesa che, sia pure in modo perplesso, ne aveva fatta nello Stilicone, per ribadirla contro gli «astrattismi», come li definiva, e «nominalismi», di quello studioso.26 Si era dunque convertito anche lui all’idea che della decadenza, e del negativo che la contrassegna, potesse parlarsi come si parla di ciò che ha un «in sé», che è positivo, reale e razionale? In astratto, è impossibile dare una risposta dove è ben chiarita la sostanziale estraneità di Seek al razzismo presente in molti aspetti del così detto darwinismo sociale. 24. Si veda al riguardo la frase riferita da R. Aron, Mémoires, Paris 1983, p. 117. 25. Momigliano, Contributo alla storia degli studi classici, pp. 327-335. 26. Mazzarino, Aspetti sociali del quarto secolo, pp. 23 e 376.
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a questa domanda; che in un solo caso, infatti gli si sarebbe potuta rivolgere per cercare di ottenerne una risposta, e cioè se, nei suoi scritti, egli avesse posta la premessa necessaria alla sua formulazione. Non è così, come si è visto; e fra la teoria hegelo/crociana della positività e razionalità della storia e quelle che, in vario modo, elaboravano il tema della decadenza e della fine, egli non sceglieva perché, per impossibile che fosse, non poteva, sia pure su piani diversi, non condividerle entrambe. Se, in queste pagine del 1951, a prevalere era la seconda delle due, una considerazione più attenta dei suoi argomenti potrebbe forse produrre qualche sorpresa, ossia, per parlare un più sobrio linguaggio, qualche approfondimento. Conviene, sia pure in breve, fermarsi su questo punto; che non si va lontano dal vero se lo si considera fondamentale. 6. Sia pure, infatti, che, nella ricostruzione della storia, in special modo delle origini, Mazzarino fosse incline a dar luogo a congetture di particolare audacia e, su queste, a costruire interpretazioni. Sia pure: sebbene, a questo riguardo e su questo punto, qualche attenzione debba essere dedicata alla risposta, pubblicata postuma,27 che egli dette alle critiche che gli erano state rivolte da Arnaldo Momigliano nella recensione (1948) di Fra Oriente e Occidente.28 Resta comunque, che, fin dal suo primo libro, e poi sempre, Mazzarino fu un mediatore accanito di tesi diverse, un ricercatore, non meno accanito, dell’equilibrio interpretativo, uno studioso capace di riconoscere quel che fosse da condividere anche in teorie che, per altri e essenziali aspetti, non accettava e respingeva. Il che non solo è evidente nei suoi scritti (basta leggerli); ma è altresì comprensibile che costituisse l’atteggiamento fondamentale di un ingegno come il suo, originalissimo e imprevedibile, inquieto nella ricerca senza fine di conferme attraverso l’apertura di nuove prospet27. In appendice alla ristampa presso Rizzoli di Fra Oriente e Occidente, Milano 1989, pp. 405-415, con il titolo Per un discorso sul metodo. Come si deduce dalla prima riga, lo scritto era destinato alla rivista nella quale era apparsa la recensione: non saprei dire perché non fosse pubblicato né lì né altrove. 28. La recensione, che apparve nella «Rivista storica italiana», 40 (1948), pp. 127132, si può ora leggere in A. Momigliano, Quarto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1969, pp. 581-588. Momigliano aveva due anni prima recensito nel «Journal of Roman Studies», 36 (1946), pp. 197-198 (poi in Terzo Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, II, Roma 1966, pp. 673-676), il libro Dalla monarchia allo stato repubblicano, Catania 1946; e aveva concluso il suo esame con il rilievo secondo cui «Mazzarino, after having magnificently learnt the ars sciendi, must now learn the ars nesciendi» (p. 198 = p. 676).
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tive, non per il gusto narcisistico della novità, ma solo perché seriamente affascinato dalla molteplicità delle cose reali, dalle loro infinite possibilità di reciproca illuminazione e connessione, dalla loro indisponibilità a essere racchiuse, senza pentimenti e eccezioni, nella logica di una specifica teoria, fosse pure la sua. Un esempio, uno solo fra i molti, può essere ricordato qui, prima di passare al punto che s’intende mettere in rilievo. Quando si trovò di fronte Zwischen Antike und Mittelalter (1947) di Fritz Kaphahn, uno storico/medico secondo il quale ad aver avviata la decadenza del mondo antico sarebbe stata, fin dal secondo secolo, una Erkrankung dei nervi, una sorta di nevrosi collettiva, Mazzarino la respinse sia nella sua premessa seekiana sia nei richiami burckhardtiani con i quali quello studioso la aveva decorata. La respinse quasi con fastidio, perché, scrisse con qualche solennità filosofica, «solo nelle esperienze politiche e sociali ed economiche la vicenda degli uomini individui assume predicato universale, e si celebra e si configura come storia»29 (p. 10). Ma, subito dopo, come se nella sua mente quella non accolta teoria avesse suscitato altri pensieri, mantenendosi pur sempre nel quadro che quella aveva evocato, passava a considerare Proust e la sua famosa «degnità», secondo cui «il mondo sarebbe nulla senza i malati di nervi»: una «degnità» che, se non bastava a fargli accogliere la tesi di quello studioso, faceva sì, tuttavia, che egli si volgesse con rinnovato interesse e ancor più viva curiosità alle grandi personalità del basso Impero, Diocleziano e Costantino, e quindi Athanasio Giuliano e Agostino di Ippona. Ma veniamo al punto che ora interessa di più. 7. Non senza aver aperta una breve parentesi. Se si legge il saggio che, riprendendo il titolo di un articolo di André Piganiol, intitolò Qu’est-ce-que l’histoire?,30 e con il quale rispose alla domanda formulata da Franco Lombardi: «è la cultura italiana ancora idealistica?», si ha netta l’impressione che, nel passaggio che vi eseguiva dalla considerazione storica a quella teo rica, Mazzarino non arricchisse il suo discorso, ma lo impoverisse: ossia che, nel ripensare, in una più specifica prospettiva teorica o, quanto meno, metodologica, i suoi consueti pensieri, egli non fosse pari né alla complessità dei problemi che questi chiudevano in sé, né al conflitto che di continuo si rinnovava nella sua mente, e che a questo, invece di radicalizzarlo, cercasse 29. Mazzarino, Aspetti sociali del quarto secolo, p. 10. Su Kaphahn, un cenno in Mazzarino, Storia romana e storiografia moderna, pp. 47-48. 30. Lo si legga nel «De homine», 9-10 (1964), pp. 61-88.
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di dare pace. Conforme a un costume critico che fu di molti in quegli anni, in questo articolo, senza dubbio ricco di dottrina e di acute considerazioni, il discorso restava comunque a metà. Dichiarava la crisi dell’idealismo e della relativa storiografia, ma attraverso il rilevamento delle chiusure che l’uno e l’altra avevano subite dalla tradizione filosofica dalla quale derivavano, delle questioni che in questa erano state o messe a margine o addirittura non pensate, e senza perciò entrare nelle ragioni teoriche che a queste avevano chiuso il varco. Così, per esempio, osservava che l’attardarsi della nostra cultura nel crocianesimo […] ha origine nella particolare natura dello storicismo italiano (natura nel senso aristotelico di physis, che indica il fine, ma presuppone la genesi): storicismo assai più sistematico (dunque meno ricco di nuances), perché originato da un’ascendenza hegeliana, in cui Niebuhr, Carlo Odofredo Müller, creatori della storiografia “storicistica” e tuttavia poveri “filologi” secondo Hegel, erano passati in seconda linea, com’era passato in seconda linea Ranke, troppo interessato, secondo Hegel, ai particolari.
Qui stava, a suo parere, il limite dello storicismo italiano, che troppo, dunque, si era nutrito di filosofia e troppo poco, all’origine, della storiografia dei Niebuhr e dei Ranke, a cui lo Historismus tedesco poteva invece richiamarsi.31 E questa era una critica non soddisfacente. Non perché troppo disconoscesse, o conducesse a disconoscere, i meriti storiografici della tradizione idealistica, ma perché non scendeva al cuore della questione; che, se era filosofica, e in quanto la si fosse considerata tale, non richiedeva di essere trattata, impostata e risolta altrimenti che con la filosofia: non attraverso le conseguenze che ne erano, o piuttosto non ne erano, derivate, ma, innanzi tutto, per quel che era in sé stessa (e posto, senza concedere, che di una storiografia ispirata all’idealismo potesse parlarsi come di un oggetto unitario).32 Su questo, per altro, non occorre insistere: anche perché, se Mazzarino aveva pienamente ragione quando contrapponeva lo storicismo degli storici a quello dei filosofi, la contrapposizione doveva bastare a sé stessa, senza che perciò fosse legittimo immaginare che, restando quale era, lo storicismo di ascendenza hegeliana avrebbe potuto tuttavia essere 31. ����������� Mazzarino, Qu’est-ce-que l’histoire, p. 84. 32. L’unico storico italiano che, nella prima metà del secolo ventesimo, per essersi impegnato a fondo nello studio della filosofia, gentiliana (in primo luogo) e crociana, possa pleno iure essere considerato idealista, è Adolfo Omodeo. Altri furono partecipi dell’idealismo; che è cosa diversa.
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diverso se non avesse collocato in seconda linea Niebuhr, Müller e Leopold von Ranke, e se ne fosse fatto nutrire. Lo stesso va detto per il trattamento che, in una sua parte, la cultura italiana inflisse a Guglielmo Ferrero e a Ettore Ciccotti, che sarebbero stati messi al margine e nella impossibilità quindi di poter esercitare la loro benefica influenza sugli studi ai quali avevano dedicata la vita (o, nel caso del primo, una parte di essa): con grave danno per una cultura che sarebbe stata ben più ricca se avesse saputo ascoltare la loro lezione. Anche di questo aspetto della questione non si può, in questa sede, fare adeguato discorso: sebbene questa idea dell’«assassinio» che, come i barbari di Piganiol distruttori dell’Impero romano, Croce e De Sanctis avrebbero eseguito di Ferrero e Ciccotti, evochi per contrasto l’altra tesi, quella secondo cui esce di scena chi non sia stato in grado di occuparne il centro e se ne sia lasciato estromettere. Del resto, è più che discutibile che Ferrero e Ciccotti non siano stati presenti nella cultura scientifica che, per ciò stesso che li discuteva, li teneva in qualche modo al centro di sé stessa, anche prima che la loro importanza fosse rivendicata, non soltanto da coloro che non perdevano occasione per criticare ogni cosa che sapesse di idealismo, ma anche da chi, essendo altresì passato attraverso la lezione di Croce, aveva formato sé stesso alla scuola di Gaetano De Sanctis. Basti pensare a Piero Treves,33 rivendicatore dotto e appassionato di Ciccotti non meno che di Ferrero, e anche ad altri che, meno appassionati di lui, si sono tuttavia industriati a mettere in rilievo le tesi ferreriane in tema, per esempio, di progresso.34 In ogni caso, e come che sia del «dramma culturale dell’Italia, che perdette Ciccotti e Ferrero, ma ebbe d’altra parte la sua lunga giornata storicistica»,35 quel che non soddisfa in questo saggio, non è tanto il modo filosofico, quanto piuttosto il torto che Mazzarino faceva a sé stesso nel momento in cui dava l’impressione che le questioni che evocava e chiamava al proscenio non fossero innanzi tutto questioni sue, momenti di un conflitto che, nel variare dei toni e degli accenti, non si sarebbe mai risolto e placato. Ha detto molto bene Giarrizzo: fino alla fine Mazzarino 33. P. Treves, L’idea di Roma e la cultura italiana del secolo XIX, Milano-Napoli 1962, pp. 221-260, 261-293. Su Ciccotti Treves tornò a scrivere in una commemorazione tenuta nell’Università di Pavia il 29 marzo 1963, che ora si legge nel suo Tradizione classica e rinnovamento della storiografia, Milano-Napoli 1992, pp. 301-331. 34. Cfr. il mio Tramonto di un mito. L’idea di progresso fra Otto e Novecento, Bologna 1988, pp. 74-99. 35. ����������� Mazzarino, Qu’est-ce-que l’histoire, p. 87.
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pensò i suoi pensieri:36 con una drammaticità, si può aggiungere, di cui quel suo saggio del 1964 non dà pieno conto. La sua storiografia non si spiegherebbe se, per non fare che tre nomi, la sua genesi fosse indicato soltanto in Niebuhr, in Burckhardt37 o in Ranke, e della tradizione hegeliana non si tenesse conto. 8. Si può riprendere ora il filo principale del discorso. Il protagonista delle pagine introduttive agli Aspetti sociali è A. Piganiol, uno storico che, presente già nello Stilicone, sempre più lo sarebbe stato nella successiva meditazione mazzariniana dell’Impero romano e della sua decadenza. Nella rappresentazione che, per questa parte, a più riprese Mazzarino ne dette, Piganiol si presentava tuttavia come uno storico dai due volti, ossia come l’autore di una tesi che, nella sua sostanziale coerenza, presentava tuttavia due aspetti distinti, ottimistico l’uno, pessimistico l’altro. Da una parte, sua era la rappresentazione dell’Impero del quarto secolo come di un soggetto vitale, vigoroso, fiorente, dotato di «un’alta vita intellettuale e artistica», di «una esperienza educativa possente», di «una “civilisation” ricca per esigenze tecniche»; come di un’età che, «nelle case e nelle villae signorili», aveva conosciuto «lo splendore dei metalli preziosi e dei marmi», e che era, dunque, «una grande “civilisation”, possiamo pur dire una grande “culture”, nel senso di Huizinga».38 Né basta. In uno dei suoi excursus geniali, Mazzarino aggiunse infatti queste parole, che converrà ascoltare; anche perché proprio attraverso questa idea della civilitas tardo-imperiale egli giunse a problematizzare la tesi di Piganiol e, infine, a porre le condizioni per il suo distacco da essa: Io vorrei anzi rilevare il fatto che proprio il termine «civilisation” in queso periodo si è formato: essa è la civilitas, per cui si esalta Giuliano, definito dallo storico Eutropio civilis in cunctos; la civilitas, nella cui custodia consisterebbe –secondo la speranza di Cassiodoro – la laus dei Gothi signori del regnum romano-barbarico d’Italia. Il concetto di civilitas sostituisce ora (o, per lo meno, definisce più precisamente) quello di humanitas; e come il circolo degli Scipioni, a metà del 2° secolo a.C. , aveva elaborato il concetto della humanitas contrapposta alla ferocia (della humanitas, insomma, per cui 36. G. Giarrizzo, La scienza della storia. Interpreti e problemi, Napoli 1999, p. 616. 37. Su Niebuhr e Burckhardt, cfr. osservazioni in Storia romana e storiografia moderna, pp. 32 ss. , 42 ss. Ma su Burckhardt cfr. i primi due saggi di Antico, tardoantico ed èra costantiniana, I, Bari 1974, pp. 11-31, 32-50. 38. Mazzarino, Aspetti sociali del quarto secolo, p. 26.
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si è “uomini”, non si è feri), allo stesso modo ora si contrappone l’essere civilis all’essere ferox: per esempio, il vicariato urbano del civilis Ursicinus al vicariato urbano del ferox Maximinus suo predecessore.39
Così, da una parte, le cose andavano. Ma, da un’altra, e non senza conseguire effetti drammatici, il libro di Piganiol introduceva l’idea dei barbari come «assassini» di un corpo fiorente, ricco di potenza e di cultura. Senza per questo smentire la sua tesi relativa alla buona salute di quell’organismo sociale e culturale, e anzi ribadendola in opposizione a quella di Ferdinand Lot, secondo cui «l’Empire» era «mort de maladie interne»,40 Piganiol formulava il suo paradosso; e scriveva che, al contrario, «la civilisation n’est pas morte de sa belle mort. Elle a été assassinée».41 Nella continuità delle cose storiche introduceva, in tal modo, una secca e netta cesura. È vero, infatti, che, morendo, l’Impero romano si avviava tuttavia, a suo giudizio, sulla via che lo avrebbe trasformato nell’Impero cristiano; e che di morte autentica, di fine e di dissoluzione nemmeno per lui si sarebbe perciò, a rigore, potuto parlare. Ma restava tuttavia che, nella prospettiva delle cose storiche, e nel tempo in cui l’assassinio si era prodotto, quella era pur sempre stata una morte, una fine, qualcosa che, nel quadro di una diversa tesi e di un diverso sentimento storiografico, pur concedeva spazio a un pensiero contro il quale l’idea dell’«assassinio» era stata concepita e formulata. Innanzi tutto, e sia pure attraverso un colpo ricevuto dal di fuori, concedeva spazio alla «morte»; e quindi alla tesi secondo cui, non tanto da cause esterne, e perciò dall’urto violento dei barbari invasori, la rovina dell’Impero era stata provocata, quanto piuttosto da quel che di negativo esso chiudeva dentro di sé, dalle sue, come si suol dire, contraddizioni, da una debolezza che, via via accentuatasi, aveva essa reso irresistibile il colpo che proveniva dal di fuori. Così, la tesi di Piganiol pativa in sé stessa un sorta di contrappasso. E della difficoltà che essa presentava, anche se non nelle forme e nei modi in cui è stata delineata qui, Mazzarino si rese ben conto. Se la tesi di Piganiol aveva risvegliato e conferito nuovo vigore a un pensiero (quello della vitalità del tardo Impero) che, per questo aspetto, fin dal tempo in cui scriveva il libro su Stilicone gli stava in mente, per un altro verso l’entrata in scena della «morte» che i barbari avevano provocata non poteva non ricondurlo ai diversi, se non opposti, pensieri della decadenza e della correlativa Idee: a questi pensieri e, dunque, 39. Ibidem, pp. 26-27. 40. F. Lot, La fin du monde antique et le début du Moyen Âge, Paris 1927, p. 275. 41. A. Piganiol, L’Empire chretien, Paris 1947, p. 422.
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persino alla riconsiderazione della plausibilità della tesi che pure aveva suscitato il suo interesse e, sotto vari riguardi, lo spingeva al consenso. Se il corpo dell’Impero era fiorente e vitale quando i barbari lo assalirono, certo è però che dalla prova a cui quelli lo avevano sottoposto era uscito vinto. In che senso, dunque, si poteva definire forte e vitale e fiorente un organismo che, se fosse stato sul serio conforme a queste predicazioni, avrebbe reagito in altro modo alla «sfida» (challenge) che, per dirla alla maniera di Toynbee, i barbari gli avevano lanciata? Di qui, senza che a questo passaggio egli desse particolare rilievo, ma tuttavia con nettezza, Mazzarino fu indotto a far riconvergere l’attenzione sulle «cause» interne. Con un procedimento che ricordava la dicotomia che Francesco De Sanctis aveva stabilita fra lo splendore artistico del Rinascimento e la miseria politica dell’Italia di nuovo invasa, alla fine del quindicesimo secolo, dai nuovi barbari, dichiarò che una cosa era la civilisation, un’altra la salda stabilità di una compagine statale e sociale; una cosa l’orgoglio con cui classi dirigenti (dagli imperatori come Giuliano agli illustri come Ausonio, ai curiali come Ammiano) sono legate alla cultura antica e tenacemente orgogliose di essa – altra cosa l’equilibrio sociale e la connessa solidità dello stato tardo-romano.
Mazzarino teneva infatti per fermo che «in epoche di crisi, la presenza di un’alta forma di “civilisation” non» implicasse «necessariamente che tutta la compagine sociale, in tutte le sue classi», si appagasse «dell’orgoglioso consolidamento della tradizione culturale nelle rispondenti forme sociali e politiche: può anche “decadere”», diceva, «un’organizzazione collettiva, nella quale sia tuttavia conservazione e incremento delle tradizioni culturali (allo stesso modo, fervida è la vita culturale nella grecità del 2° secolo a. C., ma Polybio, ed altri Greci con lui, presuppongono ed esaltano la sottomissione allo stato romano)».42 Gli sembrava infatti che «già il termine di civilitas» dovesse metterci sull’avviso: non più paideia soltanto, non più soltanto humanitas; a questi uomini dell’impero avanzato la tradizione culturale si presenta[va] come “la tradizione delle città“, la civilitas, cui dall’altra parte della barricata, connessa, se si vuole, ma soprattutto contrapposta, risponde[va] la rusticitas (anzi la innocens et quieta rusticitas di imperatori a tendenze “socialiste”) in cui si adagia[va] no i pagani, quei pagani in cui normalmente si arruola[va]no i soldati, per la 42. Mazzarino, Aspetti sociali del quarto secolo, p. 27.
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tradizione che fa del paganus (“contadino”) l’uomo normalmente destinato al servizio militare ed insomma alla militia.43
Così, per linee interne, nel più puro stile mazzariniano, dopo essere stata in parte condivisa, la tesi di Piganiol risultava, alla fine, quasi capovolta. L’Impero «assassinato» si rivelava come un organismo privo di equilibrio interno, diviso fra civilitas e potenza politica, sociale, statuale, e non abbastanza florido e potente, non abbastanza fuso e concorde nelle sue parti, da poter respingere l’assalto dei barbari. E subito a riprendere il centro della scena era la tesi di Rostovzev, che Mazzarino riformulava riproponendo la questione della civilitas e della rusticitas innocens et quieta, sul cui instabile equilibrio lo Stato era costretto a «riposare» nel momento stesso in cui «i conflitti pressoché continui con la Persia sassanide e coi barbari de’ confini» imponevano sia di «costituire un forte esercito» e di sottrarre perciò forze produttive alla rusticitas, sia, «per l’aderazione di questa tassa del sangue», di arruolare «dei barbari».44 9. A questo punto, come si vede, con tale energia la tesi di Piganiol, o almeno quella formulazione della tesi, era stata rielaborata e ripensata, che quasi niente ne restava in piedi. La morte, nei cui pressi l’Impero era stato condotto, non aveva la sua origine nei barbari più di quanto non l’avesse nella situazione economica, sociale, politica, e persino culturale, dell’Impero, le cui parti, come già era stato detto nello Stilicone, erano entrate allora in un conflitto senza soluzione. L’ottimismo con cui Piganiol aveva guardato a quello che, in termini filosofici e aristotelici, potrebbe esser definito l’ὑποκείμενον, il sostrato, che, in tanto costituisce la condizione del divenire in quanto non diviene con ciò che diviene, non consuma sé stesso e si conserva, – questo ottimismo tendeva, nella rielaborazione della tesi operata da Mazzarino, a capovolgersi nel suo contrario. Erano infatti la strutture stesse dell’Impero, era il suo ὑποκείμενον, a mostrare segni evidenti di negatività; a rivelarsi, non come un sostrato che sostiene, ma come un baratro che attrae a sé e travolge. La negatività che in tal nodo veniva in primo piano non era, per allora, riscattabile in una positività diversa da quella di cui aveva preso il posto. E questo è il punto che, lungi l’idea di dissertare in astratto sul senso filosofico che deve darsi alla negatività, richiede tuttavia di essere fermato 43. Ibidem. Sulla rusticitas, in una prospettiva alquanto diversa, cfr. Il pensiero storico classico, III, Bari 1966, pp. 258-259. 44. Mazzarino, Aspetti sociali del quarto secolo, p. 30.
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senza cedere alla tentazione di cogliere subito, nel processo della disgregazione, l’avvio a una nuova forma storica. Se mai in alcun modo i barbari hanno “assassinato” lo stato romano, essi soprattutto in questo senso han compiuto il loro assassinio: costringendolo a uno sforzo militare enorme, tanto più grave in quanto già notevoli forze si richiedevano per la difesa o l’offesa contro i Persiani. Il problema economico era quasi metro e premessa del problema politico militare: o maggiore pressione sulle forze produttive della rusticitas (che era condizione e conseguenza dell’arruolamento dei Romani nella militia), o barbarizzazione dell’esercito (che era conseguenza dell’aderazione della tassa del sangue).45
Di qui la conclusione che, in polemica con il libro (1932) di Gunnar Mickwitz su «denaro e economia nell’impero romano del quarto secolo», Mazzarino traeva dalla sua analisi; che, non potendo perciò concludersi nel segno della positività e dell’ottimismo, lo induceva a isolare, nella tesi di Piganiol, il momento della morte conseguita all’assassinio della civiltà morale e a ridare così vigore alle tesi pessimistiche della decadenza e della fine. 10. Non potrebbe dirsi dunque che, avendo lasciato sul margine, irrisolto, il difficile problema della decadenza e della morte delle civiltà, Mazzarino avesse placato ogni suo tormento, e si fosse adattato a parlare, senza pentimenti, della fine del mondo antico: senza pentimenti, ossia spezzando senz’altro il nesso immediato che altri aveva stabilito tra questa fine e la nascita del Medioevo, e abbandonando alla negatività e alla passività la storia che, con la formazione particolaristica dei regna romano/barbarici, si distende dalla caduta dell’Impero di Occidente nel 476 d.C. all’affermarsi del Medioevo nell’età, secondo la tesi di Pirenne, di Maometto e Carlomagno. Mazzarino era troppo intelligente, troppo criticamente inquieto, troppo disposto a rimettere in discussione ogni prospettiva che avesse aggiunta a altre prospettive che in precedenza avesse delineate, perché potesse essere disposto a siffatti abbandoni. Se aveva vivo il senso della fine era perché vivissimo era in lui quello degli inizi, delle origini; e un inizio e un’origine potevano ben nascondersi, per lui, anche là dove altri non avesse visto che desolazione e miseria. Quando scrisse la Storia dell’Impero romano, che vide la luce nel 1956, e nella quale affrontò la questione del cristianesimo, non poté esimersi dal trattare, a più riprese, ridiscuten45. Ibidem.
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do i momenti salienti della tradizione storiografica moderna, la questione delle questioni, quella concernente la sua fine. La affrontò fin dalle prime pagine, in un lungo paragrafo dedicato all’«alternanza di “problema della decadenza” e “interpretazione positiva” nella storiografia dell’Ottocento e nell’indagine moderna», nel quale riprese il discorso sui protagonisti di quella grande vicenda intellettuale e sulle loro diverse tesi. Dopo averla di nuovo magistralmente delineata, e di nuovo essersi rivolto la domanda con la quale Rostovzev aveva concluso la sua Storia, e cioè se «ogni civiltà non sia destinata a cadere non appena comincia a penetrare nelle masse»,46 concluse intanto che «il compito della storiografia nuova era ormai chiaro: operare una sintesi fra le esigenze» del grande storico russo «e quelle di Burckhardt; evitare l’atomizzazione della storia dell’impero nella storia delle province, che pareva l’ideale a chi guardasse, unilateralmente, al 5° volume mommseniano: configurare la storia dell’impero nel suo processo evolutivo unitario, anche sul piano sociologico».47 Ma poi tornava a chiedersi: «e la decadenza?». Alieno come sempre dalle facili risoluzioni della complessa materia in formule schematiche, giungeva a dar ragione al pessimismo di Burckhardt che, nel suo libro, aveva interpretata l’età costantiniana nel segno dell’«autunno del paganesimo».48 Ma poi ne rilevava l’«incompletezza» richiamando l’attenzione, oltre che sulla «rivoluzione politico-religiosa», su un’altra, grande, rivoluzione, quella economico-sociale e sulla «definitiva vittoria del solidus aureus sul denarius»; per concludere tuttavia, su questo punto, con parole assai nette: «un mondo cade solo se è malato», alle quali faceva tuttavia seguire una considerazione che, come sappiamo, non per la prima volta si affermava nella sua storiografia. «Ma d’altra parte il malato mondo romano ha dato figure luminose, da Marco Aurelio a Diocleziano a Costantino a Giuliano l’Apostata. Ciò si spiega perché quella crisi rimonta a tutta la grande crisi dell’epoca ellenistica e s’inquadra in essa con aspetti e forme nuove». «Questo complesso stato bilingue, questo impero romano di cultura ellenistico-romana ha rivelato, nella “cristallizzazione” tardo-imperiale delle sue forme, i vari riposti motivi della sua complessa vitalità».49 46. S. Mazzarino, L’impero romano, Roma 1956, p. 12: cfr. M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’Impero romano, tr. it., Firenze 1976, p. 619. Cito da questa, che è la prima edizione. La seconda, pubblicata in due volumi da Laterza, non presenta differenze. 47. Ibidem, pp. 12-13. 48. Ibidem, p. 17. 49. Ibidem, pp. 17-18.
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11. Quando giunse alla fine della sua ricostruzione della storia imperiale, nella quale aveva profuso a piene mani i frutti della sua (come l’ha ben definita Andrea Giardina) «meravigliosa erudizione», la complessità delle interpretazioni e delle proposte dovette apparirgli tale da indurlo a formulare, sulla questione che non aveva cessato di tormentarlo, un giudizio quasi di sospensione. «La crisi dell’unità imperiale» era sinteticamente definita come «crisi culturale (religiosa) ed economica». Donde le formule con le quali provò a sintetizzare i risultati della lunga, labirintica analisi che aveva dedicata a essa: «”penetrazione dei sostrati etnici sottomessi (celtico, berbero, egizio, aramaico, ecc. nella cultura ellenistico-romana”; “squilibrio fra produttività ed esigenze di centralizzazione”»; che erano anch’esse formule, tuttavia, che, sebbene tentassero «di riassumere descrittivamente la crisi dell’impero», conservavano «quel tanto di astratto e discutibile, che è proprio delle formule. La storia preferisce la narrazione alle teorie, la concreta ricostruzione all’ipotesi metafisica».50 12. Non c’era tuttavia narrazione nella quale avesse tentato di sistemare il molteplice mondo dei particolari rivelati e rievocati dalle sue analisi, che bastasse a esaurire la sua ansia di conoscenza e di connessione. Pochi altri studiosi di storia sono stati, come lui, posseduti dalla consapevolezza dell’unità, non solo del mondo antico nei suoi vari aspetti, ma anche di questo mondo con quello che, via via, ne era derivato fino a diventare il mondo moderno. E Mazzarino sapeva che un filo tenace legava la riflessione moderna e contemporanea sulla decadenza a quella che gli antichi le avevano dedicata. A questo tema, che già, beninteso, era presente nei suoi precedenti libri, conferì un rilievo eccezionale nel saggio che, nel 1959, dedicò a La fine del mondo antico, rivelando con ciò qualcosa che fino ad allora non era emerso, forse, con simile potenza: e cioè che era il senso acuto della crisi dell’Occidente contemporaneo a tenere viva la riflessione su quella dell’Occidente antico. Il libro nacque da un’occasione esterna; che, quando gli fu presentata, Mazzarino accolse tuttavia senza indugio perché, terminata pochi anni prima, la grande trattazione della storia imperiale aveva confermato che le questioni che vi aveva dibattute in tema di Decline and Fall non appartenevano alla scienza più di quanto non fossero intrinseche al destino suo di uomo moderno. Scendere nel «pozzo del passato» non significava per lui compiere un’operazione mitica, andare 50. Ibidem, pp. 533-534.
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a ritroso nel tempo alla ricerca di un’origine, o, addirittura, dell’origine, svelare il mistero e il segreto del tempo nella regola della ripetizione. Non significava afferrare e svolgere un filo che dal passato, linearmente, conducesse al presente. Se si fece storico di origini (Fra Oriente e Occidente e Dalla monarchia allo stato repubblicano sono i cospicui documenti di questo suo interesse) e quindi di mondi al tramonto, fu perché la nascita e la morte delle civiltà acuivano il suo senso drammatico delle cose storiche, non perché cercasse l’origine delle origini e la fine delle fini. Sempre il suo fu un atteggiamento storiografico e razionale, mai religioso. Si aggiunga che se, come scrisse una volta conferendo al suo dire un accento bergsoniano, la «ragione, tendenzialmente “geometrica”, si rifiuta […] di riconoscere una […] diseguale vicenda di alti e di bassi»51 e, quanto più siano remoti, i fatti tendono a presentarlesi connessi in una serie lineare e progressiva, la ragione storica non procedeva così. Constatava progressi e regressi, «balzi in avanti» e ritorni all’indietro; ed era impegnata perciò a «comparare», non per costruire astratte analogie, ma per decifrare, attraverso lo studio delle varie catastrofi e rinascite che ne segnano il corso, il senso complesso del cammino umano. Detestata dai suoi maestri idealisti, la comparazione delle epoche lo aveva sempre attratto: di qui il suo interesse, non solo per Spengler e Toynbee, ma anche, come si è ricordato, per Guglielmo Ferrero e per Ettore Ciccotti. Nel piccolo, intensissimo libro che Mazzarino dedicò alla fine del mondo antico, lo spirito della «comparazione» dette segno di sé fin dalla prima pagina, anzi dalle prime linee della prima pagina. «La rovina del mondo antico non è, naturalmente, un fatto isolato nella storia: altre volte l’anima degli uomini si è infranta nel travaglio di vicende crepuscolari – lente consunzioni di organismi statali o violente distruzioni». Da questa constatazione, in apparenza semplice, derivò a Mazzarino l’esigenza di «comparare» la crisi che fra il quinto e il settimo secolo dopo Cristo aveva travolto il mondo antico provocando la«frammentazione» dell’unità imperiale romana, con quella che tre millenni prima, nella bassa Mesopotamia, aveva, con moto inverso, condotto le «molte città shumere, che mai avevano concepito l’idea di un impero universale» a entrare, «per questa stessa loro incapacità», in un’«agonia affannosa».52 La comparazione presupponeva, come si è detto, un terreno comune (e, nel caso in oggetto, parimenti sconvolto), dal quale derivavano 51. S. Mazzarino, Vico, l’annalistica e il diritto, Napoli 1971, p. 5. 52. S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano 1988, p. 17.
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conseguenze allo stesso modo tragiche, anche se, nell’intrinseco, diverse: in un caso, il più recente, il crollo di un Impero e, in prospettiva, la lenta nascita di città e regni, nell’altro, il più antico, l’affermarsi di un Impero (la «monarchia universale» dello stato semitico di Akkad) sull’agonia e la rovina delle preesistenti città. Catastrofi di queste proporzioni, che agli uomini suggerivano l’idea che a finire fossero, non solo le loro individuali e particolari esistenze, ma le cose stesse delle quali erano parte, non potevano restare senza conseguenza nel pensiero, così degli antichi come dei moderni. La fine delle civiltà importava la formazione di teorie che la contemplassero nelle ragioni che l’avevano provocata; e queste teorie fornivano la premessa di altre teorie, attraverso le quali i moderni pensavano sia la rovina degli Imperi antichi sia le analisi che le avevano anticipate nel pensiero. Al grande tramonto (si legge in questa pagina iniziale), che occorse in questi due casi, ed ancora in altri paragonabili ad essi, nessuno poteva assistere senza trepidazione: la vita dei contemporanei, quasi spezzata in due tronconi, si muoveva agitata tra il vecchio e il nuovo. Perciò, dinanzi alla vicenda altamente drammatica, che strappa i démoni del passato all’antica venerazione, sempre l’umanità si è chiesta con ansia se per avventura fosse possibile allontanare la dura prova. Qui è la genesi dell’idea di decadenza, che coincide, in un certo senso, con quella di colpa collettiva, di “grande peccato”.53
Ma dire questo non era, per Mazzarino, sufficiente. Nel caso della fine del mondo antico c’era, infatti, di più. Non solo i contemporanei, ma anche i posteri hanno considerato quella crisi come qualcosa di esemplare e paradigmatico: un monito che portava con sé, nello stesso tempo, la chiave per l’interpretazione di tutta la nostra storia. Anche perciò può essere interessante il confronto […] con la crisi degli stati shumerici, anteriore di quasi di tre millenni.54
Da questo intreccio di considerazioni, implicanti il confronto del presente con il passato romano, e di questo con un passato ancora più remoto, derivava l’altro intreccio, al quale pure si è accennato: quello che teneva insieme le teorie della decadenza, antiche e moderne. Una pagina dei libri “Vegoici”, sulla quale Mazzarino si era soffermato in un articolo del 1957, parlava della rovina dei padroni o dei servi, e la connetteva a colpe 53. Ibidem, pp. 17-18. 54. Ibidem, p. 18.
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che essi avessero commesse nel segno della violenza e della prevaricazione. Ma, nella sensibile versione che Mazzarino ne forniva, al testo etrusco facevano riscontro i bellissimi versi di Lucrezio, 2, 1150 ss., con quell’idea delle cose che, mentre si avviano verso il sepolcro, lentamente marciscono, spossate dal lungo cammino (spatio aetatis defessa vetusto). E a Lucrezio teneva dietro Polibio, nella parte del frammentario sesto libro, dedicata alla ἀνακύκλωσις τῶν πολιτειῶν, al ciclo, κατὰ φύσιν, delle costituzioni e al loro inevitabile decadere. La meditazione sulla fine del mondo antico, che sarà, nella storiografia e nel pensiero politico moderni, il più alto degli impegni, derivava dunque dagli antichi, che l’avevano anticipata. Donde anche il filo tenace di malinconia che, dagli antichi trasmettendosi ai moderni, si rendeva visibile in questo libro mazzariniano; che in questo segno era stato scritto, e da questo sentimento, che era, beninteso, ben più che un sentimento, da questa, che Hegel aveva chiamata la «mestizia delle cose finite»,55 ricavava il suo grande fascino. È difficile dire se questa tonalità malinconica, che Mazzarino coglieva negli antichi e che, per suo conto, condivideva, derivasse da un’accentuazione, che in quegli anni si fosse prodotta in lui, del «tramonto dell’Occidente», e della sua idea. Con particolare nettezza, in questo libro egli contrapponeva il senso della decadenza, e il modo in cui era stato vissuto dalla cultura occidentale dell’Ottocento, al senso e al modo che, nel secolo successivo, sarebbe stato caratteristico di Spengler, e non di lui soltanto. Già Wilamowitz aveva detto, nel 1897, che «la civiltà può morire, perché essa è morta già una volta».56 Ma fu sopra tutto la concezione spengleriana dei cicli a rivelare «40 anni or sono un’ansia quasi morbosa di attualizzare fino allo spasimo la fine delle culture scomparse».57 Altri potrà dire, su questo punto, meglio di quanto qui non si sappia. Per il resto, fra le opposte teorie della decadenza per consunzione interna della compagine imperiale, economica, politica, religiosa, e della decadenza provocata dal di fuori, dall’urto violento dei barbari, anche in questo libro, Mazzarino cercò, tenacemente, il punto dell’equilibrio. «L’impero romano è stato colpito a morte dai barbari. Ma solo le strutture cigolanti si abbandonano stanche sotto l’urto che le colpisce con violenza».58 55. �������������� G.W.F. Hegel, Wissenschaft der Logik, hrsg. von G. Lasson, I, Hamburg 1952, p. 48. 56. ������������������� U. von Wilamowitz, Weltperioden (1897), in Reden und Vorträge, Berlin 1901, p. 123. 57. Mazzarino, La fine del mondo antico, p. 180. 58. Ibidem, p. 193.
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13. La Dekadenzidee traversa, dunque, l’intera opera di Mazzarino, convinto che l’«idea che gli stati possono andare incontro alla decadenza e alla morte» si muovesse «attraverso tutta la storia antica».59 Egli la studiò, in effetti, nelle più varie connessioni: non solo con l’idea del progresso, del quale costituisce una sorta di immanente autocritica, ma anche con quelle di ethos e di kratos, di rivoluzione e di profezia, e, quindi, di tempo storico. Sono, per un verso, connessioni ovvie, che non avrebbero potuto non essere proposte. Ma il modo in cui Mazzarino le stabilì, traendone a volte conseguenze imprevedibili o, quanto meno, inconsuete, dimostra e conferma che la questione lo tormentava, non gli dava pace. «Al pensiero storico dei pagani, che vissero intensamente la vicenda delle invasioni barbariche l’idea della decadenza», «si presentò […]», scrisse una volta, «in un modo quasi ossessivo».60 Lo stesso potrebbe esser detto di lui, Mazzarino, che di quell’idea fece uno dei temi conduttori della sua indagine sul mondo antico; e non soltanto, per dirla con Vico, lo pensò, quel tema, con «mente pura», ma lo subì e patì nell’«animo perturbato e commosso», perché sentiva di essere giunto a una fase della storia moderna in cui erano in atto sconvolgimenti e cataclismi paragonabili, forse, a quelli che avevano condotto al tramonto e alla fine il mondo antico. In questo senso, il difficile e indominabile libro che egli dedicò alla storiografia antica costituisce qualcosa come una duplice testimonianza; per un verso, il riconoscimento che si doveva a un tema e a un concetto dei quali avvertiva il minaccioso ritorno e la rinnovata attualità, ma per un altro, la critica a cui era giusto sottoporlo, e che, a differenza di quel che era accaduto a lui in passato, non poteva essere eseguita con lo strumento offerto dalla idealistica dottrina della razionalità della storia. Era infatti un mondo nuovo quello che, senza che se ne potessero intravvedere i lineamenti, stava tuttavia nascendo. E doveva prendersene atto anche nel ripensamento che si fosse proposto della Dekadenzidee. C’è un passo, nel primo volume de Il pensiero storico classico, nel quale, quando la reincontrò nella cultura medievale e sopra tutto moderna, l’idea della decadenza apparve a Mazzarino come un prodotto della riflessione «umanistica sulla classicità degli antichi» e come la conseguente «proiezione di un’esigenza classicistica sul piano della riflessione storica».61 Un passo sul serio illuminante, perché, in forma esplicita, l’«anticlassicismo» 59. S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, Bari 1966, p. 247. 60. Ibidem, p. 252. 61. Mazzarino, Il pensiero storico classico, I, 513.
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di Mazzarino, il suo vedere la cultura antica dell’Occidente nell’ininterrotto rapporto intrattenuto con le culture orientali, la sua meditazione sulla storiografia greca e romana, – tutto questo entrò nella sua idea e nella sua passione della decadenza, ne costituì la ricchezza e l’intima tensione, aggiungendo al concetto una nota che, forse, fin lì, con altrettanta nettezza non si era ancora udita. È difficile, per altro, esser certi che le cose stiano proprio così, e che soltanto durante la composizione del gran libro sulla storiografia antica quella connessione si fosse resa operante nella mente di Mazzarino. La leggenda dice che quando, dall’editore che poi lo avrebbe stampato, ricevette le prime bozze, lavorandovi su Mazzarino ne raddoppiò o triplicò le pagine, rendendo il libro quale è adesso e non era all’inizio. Ma chi aveva seguito la sua attività di professore catanese assicura che il nucleo del libro era già pronto quando Mazzarino non aveva ancora lasciata la sua città per trasferirsi sulla cattedra romana; che il suo concetto della storiografia greca e romana era già stato delineato; il che naturalmente complica non poco il compito di chi, studiandone la genesi, di alcune sue idee fondamentali volesse tracciare la storia e segnare le eventuali differenze. Questa più specifica storia sarà scritta se e quando i documenti soccorreranno. Ma dubbi non possono invece esservi sulla connessione che, con sempre maggiore chiarezza, gli si rivelò sussistente fra l’idea della decadenza e il senso antico della «temporalità» (Mazzarino non amava questo termine, che gli sembrava peccasse di astrattezza e astrattismo, e che tuttavia si rassegnò ad adoperare). Già in effetti nel libro che nel 1945 aveva dedicato al passaggio Dalla monarchia allo stato repubblicano, la questione della temporalità, o, meglio, del tempo e della sua misurazione, si era delineata ai suoi occhi quando, interpretando un’iscrizione di Surrina, aveva dovuto constatare che intorno al 500 a.C. la magistratura repubblicana consisteva in una «carica vitalizia, non annuale».62 Ma in quel libro, che è l’altro dei suoi dedicato a un problema di «origini» (l’altro di questo altro è, come si è detto, Fra Oriente e Occidente), la questione della temporalità non aveva avuto modo di rendersi esplicita nelle varie sue conseguenze storiografiche. Aveva dato segno di sé, in modo soltanto indiretto, nelle pagine in cui, messosi di fronte alla questione del trapasso dalla monarchia alla repubblica, Mazzarino aveva illustrato il contrasto che si era stabilito fra la teoria evoluzionistica di W. Ihne e, quindi, di J. 62. S. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano. Ricerche di storia romana arcaica, Milano 1992, pp. 114-115. E cfr. Id., Il pensiero storico classico, III, 352.
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Beloch («l’evoluzione costituzionale non fa salti»63), e quelle di coloro che, guardando a Mommsen e alla sua idea della originalità delle magistrature romane, l’avevano, negli ultimi tempi, fortemente contestata. Il passaggio dalla monarchia allo stato repubblicano, dal rex ai consoli o praetores, si era realizzato, secondo Ihne e quanti (Beloch, Arangio Ruiz, Kornemann, Franz Leifer) su questa strada l’avevano seguìto, per il tramite di un anello intermedio, ossia di una «collegialità diseguale», la dittatura; e così, in polemica con Mommsen, per il quale, in quanto magistratura straordinaria, la dittatura romana aveva poco o niente a che vedere con quella italica, l’aveva delineato anche Gaetano De Sanctis. Il quale aveva bensì abbandonato l’idea della «collegialità diseguale», ma solo perché a questa aveva sostituito l’altra dei tre praetores, che anch’essi perciò venivano a configurarsi come i soggetti di un graduale passaggio e i testimoni di un’evoluzione costituzionale priva di salti e di brusche rotture. Per quanto non insensibile alla suggestione della filosofia antinaturalistica di Bergson, De Sanctis rimaneva, nella sostanza, fedele allo schema evoluzionistico di Ihne e di Beloch; che, nelle sue pagine, veniva bensì arricchito e reso più duttile, ma dopo, appunto, essere stato confermato nel suo carattere e contrapposto, per conseguenza, alla tesi di Mommsen. La «creatività» non riusciva ad aver ragione dell’evoluzione, e, alla fine, ne era vinta. Per parte sua, Mazzarino che, nel suo libro, aveva dato ascolto alla tesi della continuità e insieme a quella della rivoluzione, e , dopo le complesse e sottili analisi che ne costituiscono la ricca trama, l’aveva concluso con parole che hanno il sapore quasi della massima («la storia non è storia di distruzioni che non ricostruiscano, di conservazioni che non rinnovino. Come lo stato romano, essa ha due volti: la rivoluzione e la continuità: l’eterno rinnovarsi e l’eterno durare»),64 nelle pagine che ci stanno di fronte, non aveva esitato a dichiarare la sua adesione alla tesi del «salto» e della frattura: sebbene il senso della complessità, degli intrecci e delle connessioni lo riconducesse alla fine a una tesi formulabile con le parole che sono state citate qui su. Per un verso, era a Bergson che esplicitamente Mazzarino si richiamava quando affermava che di fronte alla formula di Beloch “l’evoluzione costituzionale non fa salti”, insorge proprio la profonda ma oscura esigenza di concepire la storia come un processo in cui il “nuovo” si contrapponga all’”antico”, non già si deduca 63. Mazzarino, Dalla monarchia allo stato repubblicano, p. 92. 64. Ibidem, p. 210.
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da esso e in esso si risolva: all’incirca come in tutta l’esperienza filosofica contemporanea l’antica sentenza che natura non facit saltus parve sostituita dalla contingenza delle leggi naturali, e dall’opposto concetto che la natura, in sostanza, procede per salti. Ciò che la critica della scienza parve insegnare ai filosofi, la filosofia dell’azione volle insegnare agli storici: lo slancio vitale parve inesplicabile senza questo anelito al nuovo e all’“epoca” che un’altra ne sostituisce, e in certo modo distrugge. Anche la storia, come la natura procederebbe per salti.65
Per un altro, dopo aver esposto questa tesi e aver mostrata la «simpatia» che gli suscitava, si chiedeva tuttavia se, inteso come «come assoluta individualità», l’«“atto” storico» potesse «non risolversi in quel più profondo dialettismo, in cui giudizio definitorio e giudizio individuale coincidono». Che qui Gentile, dal quale era forse mutuata l’idea del «più profondo dialettismo», e Croce, dal quale derivava l’idea dell’identità del giudizio definitorio e del giudizio individuale, fossero interpretati in senso antibergsoniano in quanto ispiratori di un temperato ritorno all’idea dell’evoluzione senza rottura, è certamente notevole come documento e prova dei molti volti che una filosofia può assumere quando sia tratta fuori del suo ambito specifico. Ma il senso del discorso era tuttavia chiaro: «possiamo noi prescindere, nello studio della creazione di una magistratura collegiale in Roma, da quei presupposti che determinarono una tale formazione?». E chiara era la risposta, ispirata al senso della mediazione e della provvisorietà delle formule definitorie, che tante volte abbiamo sorpreso al fondo delle indagini mazzariniane: «Roma non va separata dal comune ambiente culturale italiano: l’originalità romana rispetto a questo può dunque cercarsi proprio nel processo generale attraverso il quale la magistratura repubblicana si è formata, non già in una contrapposizione di Roma all’Italia».66 14. L’idea che continuità e rivoluzione si intrecciano insieme a costituire il corso storico rimase in sostanza ferma al centro del pensiero di Mazzarino, dall’inizio alla fine. La si è vista emergere nel corso dell’analisi che qui su fu condotta delle sue tesi sull’assolutezza e la parzialità del concetto di decadenza. La si ritrova nell’ultima pagina del terzo volume de Il pensiero storico classico, dove si legge:
65. Ibidem, pp. 95-96. 66. Ibidem, p. 97.
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le grandi epoche del pensiero storico hanno, ad un tempo, due virtù: il rispetto della tradizione, e il genio del rinnovamento. Le altre epoche, no: di quelle due virtù ne hanno una, e però la deformano: o il puro classicismo, che arriva a fredda compilazione, come nell’età bizantina; o la pura novazione, che nega ed ignora i classici, come minacciano, nel nostro tempo, parecchi ai quali Mommsen, Marchesi, Piganiol si volsero invano.67
Il nesso di queste idee con quella della «temporalità» tardò alquanto, per altro, a essere trovato. L’accettazione dell’idea secondo cui, al pari della natura reinterpretata dai fisici moderni, anche la storia procede per salti e brusche rotture, non sembrò avere determinata in lui l’esigenza di una più stringente interpretazione del tempo storico. Di tempo ciclico e di tempo lineare allora, salvo errore, Mazzarino non parlava: nemmeno nelle pagine de L’Impero romano dedicate agli «evangelii di Augusto» e all’«evangelio di Gesù», dove pure egli accennò al tempo degli Ebrei e al tempo dei Greci e ne colse la differenza in ciò, che il concetto greco era rivolto essenzialmente al passato, quello ebraico al futuro e all’attesa dell’evento ultimo.68 Perché quella esigenza si determinasse sarebbe stato necessario, non solo che Mazzarino avesse affrontato in modo sistematico l’analisi e l’interpretazione della storiografia antica, ma che a guidarlo nell’indagine fosse stata la questione che, delineata già da Croce fin dal 1912/1913,69 si era resa acuta dopo la pubblicazione dei libri di Cullmann, di Bultmann e di Löwith sulla differenza fra la concezione greca e quella ebraico/cristiana del tempo storico. Deve tuttavia dirsi, con franchezza, che quando la questione fu affrontata e l’analisi delle due opposte Zeitauffassungen ebbe toccato il traguardo, dal nesso che esplicitamente Mazzarino aveva stabilito, fra la concezione del tempo propria del pensiero greco, da una parte, quella ebraico/cristiana, da un’altra, alla sua idea della storia, e alle aspre questioni che teneva chiuse dentro di sé, non provenne alcun sostanziale vantaggio. La polarità, e quindi la convergenza, delle idee del progresso e della decadenza, della rivoluzione e della continuità, della creatività, se si vuole, e della necessità, rimasero quali erano anche dopo che la meditazione condotta sul tempo ciclico e il tempo lineare fu compiuta e, nel 67. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, 471. 68. Mazzarino, L’Impero romano, pp. 100-110 (spec. 103 n. 1, dove Mazzarino discute l’idea del tempo senza tuttavia riprendere da Cullmann la questione del tempo ciclico e del tempo lineare). 69. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1943, pp. 188-189.
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realizzarla, Mazzarino ebbe speso le ingenti risorse del suo acume e della sua sterminata conoscenza, non solo del mondo antico, ma anche di alcuni aspetti del pensiero moderno. E fu se mai la rimeditazione dell’idea del tempo quale si era svolta dall’antichità fino alle più recenti riflessioni relative alla storia delle religioni, che lo indusse a attenuare i contrasti e dar rilievo al senso della continuità. «Il presente libro», scrisse verso la fine della lunga nota 555, «vuol dimostrare che una tale contrapposizione [fra la concezione ciclica e quella lineare] diventa senz’altro impossibile, se ci si prova a ricostruire, in concreto, la formazione del pensiero storico».70 Così a proposito del «tempo sacro» e del «tempo profano», escluse che potessero «contrapporsi o contrastare fra loro nell’ambito di una ricerca sulla storia del pensiero storico in genere». Citando il Trattato di Eliade, aggiunse che «quando lo storico delle religioni afferma che nella mentalità primitiva tempo storico e tempo mitico coincidono (in quanto l’evento coincide con una «ierofania» […]), egli propone una dialettica che lo storico tout court deve dichiarare valida anche all’infuori della mentalità primitiva». E messosi a dissertare sull’«epoca del segno, a cui si richiamano, in ambito di cultura totemica, gli aborigeni australiani», una sopravvivenza totemica fu da lui ritrovata nella «narrazione liviana della battaglia di Sentino»,71 a riprova del fatto che quella «mentalità» sopravviveva, «in modo quasi subconscio, alla scomparsa del totemismo come tale, e può ancora produrre forme di pensiero».72 Potrebbe essere interessante, a questo punto, stabilire un confronto fra queste riflessioni mazzariniane e il modo in cui la questione del tempo e dell’oltrepassamento della mentalità magica (che significava per lui la stessa cosa, in questo senso, della concezione ciclica del tempo) fu avvertita, discussa e risolta da Ernesto de Martino nel periodo che va da Il mondo magico (1948) a La fine del mondo (1977).73 Ma De Martino è, in Mazzarino, un autore poco presente; sì che il confronto che si provasse a istituire fra i temi dell’uno e dell’altro si presenterebbe oltremodo difficile se l’ambizione fosse di procedere, non per accostamenti suggestivi, ma per il tramite di analisi concrete. Lo si lasci dunque da parte. Quel che al riguardo, e per concludere su questo punto si può legittima70. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, 458. 71. Ibidem, III, 460. 72. Ibidem, III, 460 e 461. 73. Mi permetto di rinviare, per questi problemi, al mio Ernesto de Martino. Fra religione e filosofia, Napoli 2001.
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mente dire, è che, mentre, in gioventù, aveva intrecciato la riflessione sulle epoche di decadenza (Stilicone) con quella dedicata alla storia più antica, nella stagione della piena e della tarda maturità Mazzarino concentrò i suoi interessi sull’età della decadenza romana, o, se si preferisce, del basso Impero nell’età di Costantino, al quale egli guardò da molti punti di vista e discutendo, come sempre, con molti storici, fra i quali il primo posto fu, per altro, occupato da Burckhardt.74 15. Malgrado le forti differenze di temperamento, e anche di interessi, nella riflessione eseguita sull’idea, o l’intuizione, del tempo nella storiografia antica, Mazzarino si trovò a sostenere una tesi non diversa da quella argomentata da Arnaldo Momigliano, autore nel 1966 (lo stesso anno de Il pensiero storico classico) di un saggio su Time in ancient Historiography. Entrambi convennero sul punto che la contrapposizione, operata in primo luogo da Cullmann, e quindi da Löwith, fra la concezione del tempo, che i Greci avrebbero pensato in termini ciclici, e quella ebraico/cristiana del tempo lineare, pativa la conseguenza dell’astrattezza e della rigidità, e non poteva essere accolta nella forma del contrassegno di due opposte culture. Come in particolare fu notato da Momigliano, che era «not attracted by the loose terminology which is displayed by our theologians»,75 il dilemma che era stato posto da sant’Agostino76 fra la concezione ciclica dei Greci e la recta via cristiana, orientata alla salvezza, era certamente valido per lui e, forse, «for those pagan philosophers whom he knew»,77 non però per quel che «ordinary Jews, Greeks, and Christians felt in the fifth century A.C.». Malgrado gli errori che gli rimproverava, sembrava a Momigliano che Mircea Eliade non avesse avuto torto quando aveva osservato che l’interpretazione ciclica della storia «has roots in a religious experience which is manifest in Jews as well as in Greeks – not to speak of others peoples»;78 e la citazione sarebbe stata, del resto, ancora più opportuna se si fosse aggiunto che il mito del tempo che non si spezza perché, nel percorrere il suo circolo naturale, relativizza la fine, assolveva a una specifica funzione protettiva. Nel punto stesso della morte coglieva infatti il momento della 74. Cfr. qui su, n. 36. 75. A. Momigliano, Time in ancient Historiography, in Quarto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1969, pp. 16-17. 76. Aug. civ. dei, XII 14 e 15. 77. Momigliano, Time in ancient Historiography, p. 21. 78. Ibidem.
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vita, a quella sottraendo l’assolutezza che nelle concezioni lineari fondate sul processo ad finitum non poteva invece essere sconfitta.79 Di questo aspetto della questione né Momigliano, né Mazzarino, parlarono: sia che non lo cogliessero, sia che (ma in questo caso avrebbero avuto torto) non lo considerassero importante; e questo, sia detto fra parentesi, segna netta la loro distanza dagli interessi specifici di De Martino. Entrambi preferirono richiamare l’attenzione sul modo in cui, in Occidente come in Oriente, il tempo era stato vissuto da quello che Momigliano definiva come gli «ordinary men» delle varie civiltà antiche, e Mazzarino come l’«uomo greco» o «orientale», ai quali, poiché all’uno e all’altro assegnava una sorta di elementare coscienza della temporalità successiva, ne era, anche lui, indotto a non «schematizzare» in termini astratti il contrasto che Cullmann e, con lui, come si è detto, Karl Löwith, avevano posto fra la concezione greca e quella ebraico/cristiana. A differenza, per altro, di Momigliano che, nel suo saggio, non aveva esitato ad asserire che i filosofi non potevano essere «comparated» se non «with philosophers», perché ciò che in Grecia essi pensarono about time fu, rispetto all’intuizione che poterono averne i suddetti «ordinary men», another matter, Mazzarino non si spingeva fino a questo punto. Ma riteneva tuttavia anche lui di dover considerare l’intuizione greca del tempo per come, al di qua delle teorizzazioni, si era atteggiata nella coscienza comune, della quale, per questo aspetto, anche Tucidide e Tacito gli sembrava che partecipassero. Nell’interminabile nota 555 che, in sostanza, concludeva Il pensiero storico classico aveva dedicato importanti osservazioni al Timeo, a Eraclito, a Empedocle,80 a Aristotele, nonché a Plotino che, se Platone era stato «forse il più grande interprete della crisi della polis», a sua volta lo fu della «crisi decisiva di tutto il mondo antico (l’età di Gallieno)» per aver scritto περὶ τοῦ αἰῶνος καὶ χρόνου «le pagine forse più belle di tutta la letteratura antica».81 79. Cfr., fra i molti suoi testi che al riguardo potrebbero citarsi, M. Eliade, Immagini e simboli. Saggi sul simbolismo magico-religioso, tr. it., Milano 1980, pp. 64 ss. (spec. 6769). Per il rapporto con De Martino, cfr. P. Angelini, L’uomo sul tetto. Mircea Eliade e la «storia delle religioni», Torino 2001, pp. 77-102. 80. Cfr:, al riguardo, D. O’ Brien, Empedocles’ Cosmic Cycle. A Reconstruction from the Fragments and secondary Sources, Cambridge 1969, pp. 156 ss., che offre utili indicazioni. È chiaro, del resto, che sull’intera questione sarebbe impossibile fermarsi qui e dare le indicazioni essenziali. 81. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, 455. Ma su Plotino e la sua concezione, né ciclica né lineare del tempo, cfr. ibidem , p. 422.
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La sua tendenza restava tuttavia, senza pentimenti, quella che si è detta. Non diversamente da Momigliano, della «intuizione del tempo» Mazzarino aveva scelto di parlare, non da filosofo, o da interprete dei filosofi, ma da storico. Il che dava luogo a difficoltà. La questione che egli dibatteva dentro di sé, e che per suo conto risolveva nel senso che, nella discussione avviata sulla Zeitauffassung ciclica e lineare ci si dovesse guardare dal «considerare i teologùmeni cristiani press’a poco come una serie di formule filosofiche (e anche con l’esperienza, tutta moderna, delle filosofie di Hegel e di Heidegger)»,82 per questa via si faceva acuta: e ne nasceva la necessità di distinguere, e non confondere, i suoi termini. Intesa come distinzione di ambiti e di competenze, quella che, da una parte avesse collocato il piano storiografico, da un’altra il piano filosofico (e teologico), poteva infatti valere per gli storici e per i filosofi antichi, che avevano, e gli uni e gli altri, lavorato nel loro campo con gli strumenti idonei al raggiungimento del loro fine e al di là di quello non avevano guardato. Non poteva invece valere per lo studioso moderno; che, certo, se doveva vigilare perché non gli accadesse di ritradurre in filosofemi moderni i teologùmeni cristiani o le osservazioni sul tempo contenute negli storici antichi, non avrebbe però dovuto e potuto rinunziare a istituire il paragone degli storici con i filosofi, e nemmeno a far intervenire nell’indagine la consapevolezza delle inquietudini speculative che l’idea del tempo necessariamente recava con sé. Se, tradotto in termini storici e politici, e trasferito in queste realtà, il concetto del ciclo, quale, e non in modo univoco, lo si incontra nei filosofi pitagorici e poi in Empedocle, in Aristotele, nello stoicismo, perdeva molta della sua nettezza, da ciò si sarebbe dovuta trarre, come conseguenza, la consapevolezza della necessità, non di rinunziare al paragone, ma di istituirlo, non essendoci altro modo per misurare quel che, nel passaggio, di quelle teorie si fosse conservato e quel che invece si fosse perduto. Dopo di che, certo, sarebbe stato essenziale che, come, in questo concordi, Momigliano e Mazzarino volevano, si fosse proceduto a far vedere perché, considerata nell’intera estensione della cultura classica, l’idea del tempo non potesse ridursi al concetto del ciclo e dovesse invece essere considerata nelle varie forme che invece avesse assunte. Non meno essenziale avrebbe, d’altra parte, dovuto essere che dalla varietà di queste forme non si deducesse l’idea che ciascuna fosse in sé stessa partecipe dell’altra e non ben distinguibile da questa: come se, in altri termini, il fatto che in un determinato scrittore, o in intero ambito 82. Ibidem , p. 415.
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culturale, l’idea del ciclo si fosse mostrata coesistente con una di diversa natura, avesse implicato, non l’eventuale instabilità concettuale di quello scrittore, o dell’ambito culturale in cui era incluso, ma, all’origine, l’instabilità interna alle teorie. A giudicare dalle pagine, complesse e acute, che da vari punti di vista dedicò alla questione della temporalità classica e cristiana, non si direbbe che, di questa distinzione, e della necessità di tenerne conto, Mazzarino si preoccupasse e mostrasse la consapevolezza. Si ha invece l’impressione che, come per lo più presso gli storici, e in documenti attestanti la comune coscienza della temporalità, questa si era mantenuta sul piano dell’immediatezza, sul medesimo piano avesse voluto tenersi anche lui, che pure, come si è visto, a questo impegno non aveva potuto essere sempre fedele, e ai filosofi antichi e moderni aveva indirizzato ben più che uno sguardo. La sua convinzione era infatti che, per comprenderla nel modo in cui si era effettivamente configurata, non ci fosse altra via al di fuori di questa; che persino i concetti del tempo lineare e del tempo ciclico fossero astrazioni da ricondurre al modo concreto in cui l’«uomo classico» li aveva pensati e vissuti, servendosene, se si vuole, ma senza renderli, in astratto, alternativi l’uno all’altro, e al di fuori, quindi, di ogni troppo esplicita teorizzazione. Era come se, questa almeno è l’impressione, al di sotto delle più elaborate teorie Mazzarino cercasse, o fosse incline a cercare, qualcosa di primigenio, un’intuizione del tempo che, immediatamente, si fosse posta come una delle originarie dimensioni del vivere e dell’operare; e che a questa, non alla sua rielaborazione in termini di linearità e ciclicità, dovesse cercarsi di pervenire per comprendere in che modo l’«uomo classico» avesse pensato e utilizzato il mondo in termini di tempo. Di qui il disagio che, ferma restando l’ammirazione per la dottrina e per il moltiplicarsi delle proposte e dei suggerimenti, qualcuno potrebbe dichiarare nei confronti del modo in cui, tenendo presente la filosofia, Mazzarino dichiarava che dovesse prescindersi anche dalle sue forme meno elaborate. Disagio giustificato. Un antico filosofema insegna che la ricerca dell’inizio è di per sé stessa aporetica. E se era da questo inizio assoluto che, in qualche modo, Mazzarino era attratto, allora deve dirsi che egli si muoveva all’interno di una inestricabile difficoltà. Per quanto lo si ponga come assoluto, non c’è infatti inizio al quale non sia possibile trovare un inizio che lo preceda e, come inizio assoluto, lo neghi. Non c’è primo che, nell’atto in cui lo si ponga come tale, non si riveli secondo: con la conseguenza che, quando si dispone a questa impresa, il pensiero è preso nella vertigine del regresso all’infinito e non riesce più a essere padrone di
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sé stesso. E certo non sarà stato Anassimandro,83 comunque poi si ritenga che egli lo intendesse, il primo a intuire che si dà una τάξις τοῦ χρόνου; e prima di Calcante84 ci sarà ben stato uno che, nemmeno lui essendo il primo, come lui, tuttavia, avvertisse che il presente ha un passato e un futuro: quale che fosse stato il modo in cui gli fosse stato possibile di render conto di questa sua originaria consapevolezza o intuizione. In realtà, anche l’idea che un’originaria, o più originaria, intuizione sottenda il complicarsi del tempo nelle teorie del suo sviluppo lineare o del suo curvarsi nel circolo, implica che, pensabili o no che le si giudichi, a queste rappresentazioni debba guardarsi per quel che contengono in sé e per le esigenze a cui dettero espressione: anche perché il computo degli anni, tentato e avvenuto addirittura prima che per quel concetto vi fosse stato un nome, dimostra che, per rappresentarli, era a una linea prolungantesi dal presente nella direzione del futuro che si era data in qualche modo origine.85 Che quindi, le teorie dello sviluppo lineare o circolare del tempo presupponessero concetti più semplici, e li elaborassero in queste forme, è ovvio. Per chi tuttavia faccia la storia di queste idee, importante è non già che se ne dichiari la parziale o totale astrattezza nei confronti delle intuizioni di cui furono lo svolgimento. Non è nemmeno che si faccia prova della loro interna capacità di essere pari alle esigenze a cui dettero espressione, o, in altre parole, di esaurire in sé il senso del tempo che fu proprio della civiltà classica e di quella ebraico/cristiana. Importante è che se ne studi la coerenza per capire se, in sé stessi, questi concetti riescano a essere privi di contraddizione o di incertezze. Che non è propriamente quel che Mazzarino avvertì come essenziale, o che, semplicemente avvertì. Come nella interpretazione di Momigliano, fondamentale, nella sua, era, e lo si è visto, che i due concetti del tempo lineare e del tempo circolare, del tempo che si inoltra nella direzione del futuro lasciando dietro di sé un presente che si fa passato, e del tempo che non progredisce se non per avvolgersi nel circolo che lo riconduce al punto di partenza, non fossero «schematizzati in astratto». Fondamentale, per lui, era che, sopra tutto quel83. È un peccato che sul celebre, e difficile, frammento di Anassimandro (I DK 89) Mazzarino non si sia soffermato. Sarebbe stato interessante vederlo alle prese, oltre che, naturalmente, con il testo con le principali interpretazioni che ne sono state: non sono con quelle «filologiche», ma anche con quelle filosofiche, e alquanto spericolate, proposte da Nietzsche e soprattutto da Heidegger. 84. Il. A 70. 85. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, 352 ss.
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lo greco dell’«eterno ritorno», fosse presentato nel suo coesistere, all’interno della medesima cultura, e magari in uno stesso testo, con l’altro della successione lineare delle epoche: non altrettanto essenziale, per lui, era invece di poter provare se, come e quando, «fattuale» valesse e significasse anche come «logico» (notevole è, al riguardo, l’assenza di questa domanda in chi della coesistenza, logica e non soltanto fattuale, del tempo ciclico e di quello lineare aveva, a sua volta, senz’altro ammessa la possibilità).86 Come si è detto, più che le teorie e la loro coerenza, a lui interessava che, al di là del loro confine concettuale, potesse pervenirsi al fondo stesso della «temporalità» classica. Nell’interpretazione che egli ne dette, la teoria prima pitagorica e poi stoica dell’eterno ritorno non bastava «a riassumere in sé la “temporalità” dell’uomo classico. Tanto meno» bastava «a contrapporla alla temporalità giudaico/cristiana»: nella seconda lettera di Pietro, si legge in una di queste pagine, «possiamo trovare tracce di una “temporalità” ciclica, ferma restando (naturalmente) l’Attesa del Regno di Dio, essenziale in un testo neotestamentario».87 Ma, a parte la pertinenza del rilievo,88 l’argomentazione non era persuasiva. L’avverbio «naturalmente» che, nel periodo concernente la seconda lettera di Pietro, Mazzarino collocò fra parentesi, non si riferiva in realtà a niente che potesse far pensare a un’eccezione priva d’importanza per la coerente coesistenza della dottrine: fra una teoria ciclica del tempo storico e una fondata sull’attesa del regno di Dio non poteva esserci, infatti, se non contraddizione. Lungi perciò dal significare la «possibilità» che quelle due tesi coesistessero senza contraddizione in un unico testo, la lettera di Pietro indicava proprio il contrario di quel che Mazzarino intendeva: non la possibilità, se quelle due tesi opposte vi erano in effetti presenti entrambe, ma l’impossibilità che vi coesistessero se non per contraddirsi e per escludersi a vicenda. Altro, infatti, era considerare possibile la coesistenza di quelle due idee in un testo del quale si fosse assunto che era ispirato alla coerenza. Altro era considerarla possibile in un ambito culturale; nel quale, in effetti, non è impensabile che tesi diverse, e anche opposte, siano ospitate l’una accanto all’altra senza 86. C. Diano, Il pensiero greco da Anassimandro agli Stoici (1955), in Studi e saggi di filosofia antica, Padova 1973, pp. 2-3. 87. Mazzarino, Il pensiero storico classico, III, p. 350. 88. È probabile che Mazzarino si sia riferito a Petr. 2, 3, 5 ss. L’accenno di Pietro alla catastrofe per inondazione del cosmo implica tuttavia il riferimento non alla legge obiettiva della natura, ma pur sempre al volere di Dio. Il che conferma che, anche su questo piano, la differenza fra le due dottrine era avvertita con nettezza.
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in quel quadro produrre la conseguenza a cui darebbero luogo se, invece, fossero incluse in uno alla cui «logica» entrambe dovessero ubbidire. La prima alternativa indicava un’impossibilità. La seconda una possibilità. Le due situazioni richiedevano perciò di essere perentoriamente distinte, senza che la «possibilità» della seconda fosse estesa alla prima. Il che, deve ripetersi, non si direbbe che nella riflessione mazzariniana avvenisse; e se avveniva, non era con la necessaria chiarezza. Questa inavvertenza della difficoltà è significativa sia della sfasatura che si era insinuata nel pensiero di Mazzarino, sia della necessità che l’analisi della coerenza interna alle due concezioni fosse anticipata ad ogni altro discorso che si fosse proposto circa il significato ultimo che in quelle due teorie della temporalità potesse ritrovarsi. La sfasatura era, del resto, tanto più notevole e degna di essere messa in evidenza, in quanto, nella concretezza della sua argomentazione, a Mazzarino accadeva di non avvertire che nel monito rivolto agli studiosi perché, senza «schematizzare» in astratto le due teorie, si disponessero a considerarle come coesistenti, operava una convinzione contraria a quella che sembrava essere la sua. Proprio perché erano diverse, e logicamente inconciliabili persino nei simboli geometrici scelti per definirle (la linea non è il circolo), – era proprio per questo che Mazzarino poteva parlare del loro fattuale coesistere in un ambito culturale: in modo tale che la loro constatata coesistenza all’interno di una cultura, o di una visione del mondo interpretata come unitaria, importava la conseguenza paradossale del loro dover essere considerate come in sé stesse irriducibili all’altra. 16. Si dava, del resto, al riguardo, ben di più del coesistere fattuale di quel che, assunto in termini logici, recava il segno della contraddizione. Se l’avversione nutrita nei confronti delle brusche antitesi e delle nette lacerazioni non avesse prevalso sull’esigenza di sottoporre il testo alla prova della sua coerenza interna, subito Mazzarino si sarebbe accorto di quel che sarebbe stato necessario mettere in rilievo e che è, in effetti, il più rilevante. Si sarebbe accorto che, specificata come cristiana, la concezione lineare del tempo si rendeva, per un aspetto essenziale, divergente da quella anticotestamentaria. All’idea del tempo lineare essa arrecava infatti una forte complicazione interna: con conseguenze che, queste sì, sarebbe stato necessario sottoporre all’attenzione di quanti avessero ritenuto che, per comprenderne il carattere, bastasse contrapporla a quella del tempo ciclico, questa, a sua volta, contrapponendo a quella e senza perciò avvedersi di ciò che nella concezione cristiana è peculiare. Ci si avvia alla comprensione di questo, che è il
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punctum saliens della questione, se innanzi tutto si considera che per tempo lineare qui si intendeva, non tanto il tempo quale fu concepito dagli storici rimasti estranei all’idea dell’eterno, o del grande, ritorno, non il tempo operante nelle narrazioni di Tucidide o di Tacito, di Erodoto o di Livio, quanto piuttosto quello che, nella tradizione ebraico/cristiana, era pensato come documento dell’attesa del Regno, del suo avvento, della conseguente fine del mondo e della salvezza dei giusti. Il tempo non era qui il semplice procedere del presente verso il futuro che, conseguito, ancora e sempre rinviava, al di là di sé stesso, al futuro; che di per sé non costituisce infatti una mèta perché, non appena sia stato raggiunto, subito allude a ciò che sta oltre e, rispetto a lui, è futuro. Non in questo indifferente scorrere verso una mèta non raggiungibile e mai, infatti, raggiunta, stava il suo significato; che stava bensì nel suo essere atteso da ciò che per intanto determinava il suo svolgersi e gli imprimeva sopra il segno di una necessaria provvidenzialità. Sotto questo riguardo, fra la concezione vetero- e neotestamentaria non c’era differenza, perché in entrambi i casi era a un ἔσχατον che il tempo era diretto, era a quello che si rivolgevano le attese e le speranze. La differenza insorse quando la concezione del tempo lineare si combinò, nel cristianesimo, con l’indicazione dell’ἔσχατον in un evento già accaduto; che, se anche si fosse dovuto attendere che di nuovo accadesse, era tuttavia pur sempre quello che era già accaduto. Lo scandalo che questa idea suscitò fra quanti perciò accusarono i cristiani di presunzione e di arroganza per aver attribuito a un fatto contingente qual era la morte di un uomo un assoluto significato cosmico, fu enorme; e se ne può cogliere l’eco nella polemica di Origene contro Celso.89 Certo è che la differenza che, in relazione all’idea del tempo, quell’evento stabiliva fra la concezione ebraica e quella cristiana non avrebbe potuto essere più netta e drammatica. Mentre, essendo anch’esso destinato a finire con l’avvento del Messia, il tempo degli Ebrei continuava a scorrere verso il suo esito non ancora conseguito, con la morte sulla croce di colui che si era presentato, ed era stato salutato, come il Messia, il tempo cristiano era pervenuto a una assai complessa e paradossale conclusione. Per un verso, poiché costituiva l’evento essenziale e decisivo della storia umana, la croce rappresentava la sua conclusione e la sua vera fine. Per un altro, rappresentava una fine non conclusa, una fine che ancora doveva finire, e che perciò temporaliz89. ����������� K. Löwith, Meaning in History. The Theological Implications of the Philosophy of History, London-Toronto 1949, p. 184.
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zava l’evento che, rappresentando la fine della storia, ne era invece come riafferrato e storicizzato. Ne derivava una prima, singolare conseguenza. Poiché nella croce e nel Golgota la storia cristiana ritrovava il suo senso, e la ragione del suo stesso essersi svolta fin lì, ne conseguiva che il presente e il futuro avevano nel passato, in quel passato, il loro punto di riferimento; lì ritrovavano il loro senso; sebbene, per un altro verso così, o solo così, non potesse essere. Quello che i cristiani stavano vivendo era infatti pur sempre un tempo reale, che doveva perciò ritrovare il suo senso in un nuovo evento che, ripetendo quel che una prima volta era avvenuto, lo compisse e ne dischiudesse il significato ultimo. Alla prima parousia del Cristo doveva perciò seguirne una seconda; che prevedeva, non la ripetizione del dramma della croce, ma la definitiva rivelazione del suo senso. Poiché il Cristo era morto, ed era risuscitato, sul significato dell’evento non sarebbe stato lecito avere dubbi. Ma il tempo che, per un verso, era di continuo ricondotto indietro nella direzione di quell’evento, per un altro invece sarebbe andato avanti finché il figlio di Dio non fosse tornato a compiere quel che ancora restava da compiere, a rivelare quel che ancora richiedesse di esserlo, e a mettere fine perciò a sé stesso. La seconda conseguenza era che, poiché nella e attraverso la prima parousia si era rivelato il senso vero della storia umana, a quel punto ideale e reale era necessario che, nel suo procedere in avanti, sempre, di attimo in attimo, il tempo storico tornasse indietro per riconsacrarvisi: in modo tale che, nel tornare indietro mentre andava avanti, era come se la linea reincludesse ogni suo attimo in un circolo ideale, costituito da quei suoi due opposti momenti. La differenza che in tal modo si produceva fra la linea del tempo cristiano e quella del tempo veterotestamentario non avrebbe potuto essere più netta. Il tempo degli Ebrei manteneva la sua sostanziale semplicità, e i suo carattere sacro era nella tensione che lo segnava nel suo spingersi verso la fine dei tempi e l’avvento del Messia. Il tempo cristiano aveva invece in sé un elemento di forte complicazione. La linea andava avanti e si piegava all’indietro; e le figure geometriche che, prospettata su una superficie piana, essa produceva, non erano riducibili a ciò che semplicemente progredisce. Il futuro che, finché si fosse caratterizzata come tempo, anche per essa costituiva un inevitabile «innanzi a sé», non era soltanto qualcosa che, raggiunto, ancora e sempre avrebbe rinviato sé stesso a un ulteriore futuro. Era un futuro che ripeteva un passato, per realizzarlo in modo che né di passato, né di futuro, potesse parlarsi più. In questo σκάνδαλον, che drasticamente lo contrapponeva al lineare tempo degli Ebrei, deve indicarsi il carattere saliente del tempo
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cristiano; che, nel suo centro, presentava un evento sacro, un luogo della perfezione che, tuttavia, doveva ricevere il suo perfezionamento. Dopo il Dio che si era fatto uomo ed era morto, presentava lo scandalo di una perfezione divina che attendeva di attingere, a un grado più alto, sé stessa. 17. Se è così, la contrapposizione si stabiliva, non soltanto fra la concezione ciclica e quella lineare del tempo, ma, all’interno di quest’ultima, fra la linearità ebraica e quella cristiana. E la conclusione che, ritornando sull’analisi mazzariniana, per questa parte può trarsene, richiede di essere indicata in questi due punti. 1) Finché si rimanga sul piano della costituzione logica delle due dottrine, fra la concezione del tempo ciclico e quella del tempo lineare, non si dà alcuna possibilità di incontro. Nelle concezioni lineari, quando il processo del tempo sia inteso ad finitum, massima è la differenza dalla concezione ciclica; che di per sé implica che il tempo della fine coincida con il tempo del nuovo inizio, e sia perciò inesauribile. Quando invece il processo temporale sia inteso ad infinitum, massima è anche qui la distanza dall’altra concezione: con la quale ha bensì in comune l’eternità, ma non invece la necessità dalla quale il tempo è piegato a ricominciare dal punto stesso della conclusione del ciclo. 2) Le due concezioni possono entrambe sussistere all’interno di un’unitaria dimensione culturale (Tucidide non è Polibio, e Tacito non crede alla successione regolare delle forme politiche e costituzionali). Ma la dimensione culturale (il mondo greco-romano) non è la stessa cosa della dimensione logica; e fra l’una e l’altra deve mantenersi l’ovvia differenza. Mazzarino, che non ritenne di doversi muovere lungo la linea di queste distinzioni, ebbe invece ragione quando, a proposito di una pagina crociana, tratta dal capitolo dedicato, in Teoria e storia della storiografia, alla storiografia medievale, dissentì dall’idea che vi era sostenuta a proposito dell’avvio che, in quest’ultima, sarebbe stato dato all’idea del progresso.90 Ebbe ragione, ma non piena ragione. In effetti, il carattere di quel comunque discutibile capitolo crociano stava, non nell’aver rivendicato alla storiografia medievale il concetto del progresso. Nell’atto in cui era riconosciuto, era infatti negato, perché il tempo storico era pur sempre, in quel quadro, atteso dalla fine che ad esso avrebbe conferito il senso pieno e il significato profondo. Ma stava bensì in due intuizioni che vi predominavano, e che richiedevano di essere distinte. La prima consisteva nello sforzo che, attraverso le sue stesse violenze e 90. Croce, Teoria e storia della storiografia, p. 188.
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esclusioni, il pensiero storico medievale aveva sostenuto per liberare la storiografia antica dal prammatismo e moralismo, che Croce considerava come i caratteri spiccanti di quella greco/romana, e per intendere il corso storico come la sede di un dramma morale agìto e vissuto dall’intera umanità che, essendo, appunto, l’umanità e non un popolo particolare, era essa il soggetto della storia, della storia universale. La seconda, meno esplicita, e operante nel fondo della pagina, sarebbe emersa da questa a condizione che in quel capitolo si fosse colta la presenza di un tema che sempre fu operante nel pensiero di Croce prima che per lui giungesse il momento di renderlo esplicito nel controverso saggio del 1941 sul Perché non possiamo non dirci cristiani. Era il tema della rivoluzione che il cristianesimo aveva rappresentato nella storia dell’umanità, e che, avvolto nelle forme mitiche proprie delle religioni, poco alla volta sarebbe stato depurato di quel carattere e riconosciuto come il momento fondamentale della filosofia e della cultura moderne. E qui stava il punto che avrebbe dovuto, e deve, essere còlto. A parte infatti la difficoltà che nella Filosofia dello spirito riguarda la possibilità che «ciò che segue» (il mito) sia messo innanzi a «ciò che precede» (il pensiero), e che lo schema ideale si rovesci in quello storico e reale; a parte questa difficoltà che, a guardar bene, è una di quelle che insidiano il concetto dell’identità di filosofia (o, meglio, spirito) e storia, rimaneva l’altra, rappresentata proprio dal mito e da ciò che chiudeva in sé; che non era soltanto il preannunzio di quel che si riteneva ne sarebbe nato, ma era innanzi tutto l’alterazione del carattere più radicale che potesse concepirsi del concetto. Alla luce di questo, il progresso doveva essere concepito come l’attuazione stessa dello spirito attraverso le sue opere: non, dunque, lungo la linea progrediente del tempo, e nella coincidenza con questa, ma per la potenza di un’energia spirituale che realizzava sé stessa e che soltanto l’astrazione pseudoconcettuale risolveva poi nella successione del tempo. Il che, se fosse stato tenuto presente, avrebbe sconsigliato di mettere la tesi di Croce sullo stesso piano di quella di Löwith, che, su questo insieme di questioni, scrisse cose molto acute, senza per altro uscire dall’ambiguità; della quale infatti si rese prigioniero quando, per esempio, asserì che [the] true, modern historical consciousness has discarded the Christian faith in a central event of absolute relevance, yet it maintains its logical antecedents and consequences, viz., the past as preparation and the future as consummation, thus reducing the history of salvation to the impersonal teleology of a progressive evolution in which every present stage is the fulfilment of past
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preparation. Transformed into a secular theory of progress, the scheme of the history of salvation could seem to be natural and demonstrable.91
L’ambiguità si rendeva infatti manifesta quando si fosse considerato che, per un verso, in questo passo si parlava della risoluzione della storia della salvezza, e del suo necessario compiersi nel futuro, in un’impersonale teologia dell’evoluzione progressiva che, in quanto tale, non ha, o non dovrebbe avere, una mèta e un punto di fermata; mentre, per un altro, assunto come «consummation», ossia come «compimento», del passato, il futuro era inteso come ciò che, a sua volta essendo privo di futuro, proprio con il carattere della fine si presentava, e della méta non oltrepassabile. Che è cosa comunque assai diversa da quel che si dà a vedere nella concezione di Croce, dove né il futuro è «compimento», né la storia è pensabile secondo le categorie, per lui astratte, della temporalità. Se queste sono le osservazioni, o alcune delle osservazioni, che le analisi contenute nell’ultima parte de Il pensiero storico classico, e in particolare nella famosa nota 555, sollecitano, la questione che ne è posta è naturalmente suscettibile di molteplici sviluppi; che qui non sono stati se non accennati. Non tutto quel che si trova nel gran libro di Mazzarino riesce persuasivo. Ma in nessun altro che sia stato prodotto negli ultimi decenni può trovarsi una simile messe di pensieri, suggestioni, connessioni. Leggerlo, studiarlo, soffermarsi in un punto o in un altro delle sue labirintiche riflessioni è un’esperienza unica, della quale nessuno, storico o filosofo (e soprattutto se filosofo) che sia o ritenga di essere, dovrebbe privarsi. 18. Ἐκ μέροuς μανθάνομεν. Il motto che piaceva a Walter Otto, e che anche Mazzarino aveva adottato,92 può indurre a qualche riflessione sulla storia della storiografia. Quando, per farne la storia e interpretarli, si leggono, o si rileggono, i suoi libri, non di rado (è il caso, almeno, dello scrivente) ci si viene a trovare nella imbarazzante situazione di uno che, avendo indossato l’abito del giudice, non è tuttavia in grado di comprendere se non in piccola parte quel che si trovi dinanzi agli occhi e attenda di ricevere la sentenza. «La narrazione storica», si legge in un suo libro, «non era ignota al mondo orientale, Egiziani, Assiri ed Ebrei hanno raccontato le loro imprese. Chi non conosce l’autobiografia di Chattushilish?».93 Già, chi non conosce l’autobio91. �������� Löwith, Meaning in History, p. 186. 92. S. Mazzarino, Fra Oriente e Occidente, Milano 1989, p. 409. 93. Ibidem, p. 287.
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grafia di Chattishilish? In realtà, se Mazzarino ha mirabilmente imparato dai «particolari» che, con la sua geniale abilità, ha poi intrecciati e inclusi nel quadro, non altrettanto può dirsi del lettore che di questo avesse voluto rendersi conto attraverso la conoscenza e il controllo di quelli. Nella gran parte dei casi, dinanzi ai suoi occhi si compie infatti l’operazione inversa a quella che egli aveva realizzata. I particolari si separano dall’unità da cui erano tenuti insieme. Il quadro trascende i particolari, che pure lo costituiscono: ciascuno per suo conto, questi trascendono il quadro. E, per l’incapacità in cui si trova di ricostituire l’unità che non sa conseguire di nuovo, al lettore non resta che affidarsi a una comprensione «vaga e media» del libro che sta cercando di comprendere, a una comprensione in ogni senso facilior. La storia della storiografia, è stato scritto, è un’impresa sovrumana.94 Intesa, come si dovrebbe, difficiliori sensu, ossia come, per un verso, un’interpretazione di fatti, passioni, pensieri, che richiede, per un altro, di essere interpretata sul fondamento di quei fatti, passioni e pensieri, la storia della storiografia dovrebbe realizzarne l’unità. In realtà, e come si è detto, i due momenti tanto più tendono a separarsi l’uno dall’altro quanto più dovrebbero, invece, procedere nel segno della simultanea convergenza Ma l’impresa volta a tenerli insieme è, come si è detto, sovrumana. Riuscire a concluderla nel senso che s’è detto non è dato, per conseguenza, se non a pochi. In coloro, e sono i più, che viceversa sono costretti a subire il destino della separazione, questa produce un senso acuto di frustrazione che, a sua volta, dà luogo a due atteggiamenti contrastanti: da una parte, se si provi a negarlo, al «delirio della presunzione», da un’altra a un persistente sentimento di sconfitta. Più che in altri campi della ricerca storica, è in questo che si misura, non solo la sua ovvia difficoltà, ma anche l’indifesa solitudine di chi, cercando di condurla a buon fine, sia onesto abbastanza da non cedere alle «alcinesche seduzioni» di qualche rassicurante metodologia.
94. A. Momigliano, Quinto Contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, II, Roma 1975, p. 29.
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Si può non essere convinti di quel che molti filosofi fioriti nella seconda metà del secolo scorso, e ancora viventi e agguerriti nell’incerto inizio del nostro, assicuravano e assicurano, e cioè che quella dell’Occidente è la storia di una lunga decadenza; che Occidente (Abendland) e decadenza sono la stessa cosa, e che il nichilismo è in sostanza la sua autentica cifra concettuale. Per interessante, e suggestivo, che, nelle sue varie tonalità, suoni all’orecchio e alla coscienza degli uomini di questa parte del mondo, il senso delle proporzioni suggerisce infatti che la rivelazione di quel che sul serio debba intendersi per «decadenza» non sia fatta derivare dalla comprensione autentica dell’enigmatico «detto» di Anassimandro, del logos di Eraclito e della Moira di Parmenide, ossia di pensieri che, una volta colti nel loro significato originario, consentirebbero, come per contrasto, di penetrare nelle ragioni profonde che l’hanno determinata determinando altresì il destino dell’Occidente, Land des Abendlandes, terra della sera e dell’oblìo dell’essere. «Il detto di Anassimandro fa vedere il significato di τὸ χρεών attraverso il pensamento dell’esser-presente nel suo esser-presente».1 Contrariamente a quel che i lessici insegnano, τὸ χρεών, significa infatti, non necessità, fato, destino, ma «mantenimento» (Brauch), che è parola dettata (diktiert) «al pensiero nella consapevolezza dell’oblìo dell’essere».2 Se perciò vogliamo pensare il detto di Anassimandro, è necessario, prima di tutto e sempre di nuovo, compiere quel semplice passo in virtù del quale ci traduciamo in ciò che dice la parola ovunque inespressa, ἐόν, ἐόντα, εἶναι. Essa sta 1. M. Heidegger, Il detto di Anassimandro (1946), in Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, Firenze 1968, pp. 344-345. 2. Ibidem, p. 344.
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a dire: esser-presente nel non esser-nascosto. Nel che si cela: l’esser-presente stesso porta con sé il non esser nascosto. Il non esser nascosto stesso è esserpresente. L’uno e l’altro sono il medesimo, ma non l’eguale.3
La complicata e oscura analisi che, in questo punto del suo scritto, Heidegger dedicò all’esser-presente e all’esser-nascosto, questa analisi che certamente richiede qualche perizia per essere ricondotta e ricompresa all’interno del comune modo di definire concetti come «crisi», «decadenza» e simili, implicava che «assieme all’Ἀλήθεια, propria dell’essenza dell’essere, anche la Λήθη» restasse «del tutto impensata e, di conseguenza, anche il “presente” e il “non presente”, cioè l’orizzonte della regione aperta dentro cui giunge ogni essente-presente e in cui ha luogo e si delimita l’esser-presente reciproco dei via via soggiornanti». Le parole, ripeto, sono oscure; e potrebbe essere interpretato come un paradosso che, per renderle più perspicue, si facesse ricorso proprio al detto di Anassimandro, per il quale il luogo da cui le cose nascono è altresì quello in cui ritornano, alternandosi nella «presenza» e così, κατὰ τὴν τοῦ χρόνου τάξιν, pagando il fio della loro propria malvagità. Ma se identico è il luogo del farsi presente e del farsi assente, può comprendersi perché il primo evento sia, da Heidegger, stato interpretato come un esser stato prodotto «nel non esser nascosto», come un esser tratto fuori, e questo come ciò che è prodotto (her-gestellt) dall’uomo.4 Donde l’emergere di due parole, ἔργον e ἐνέργεια, rivelative del senso intrinseco al discorso; che si chiarisce infatti, nella prospettiva heideggeriana, quando si osservi l’epoca dell’essere in cui la ἐνέργεια è tradotta con actualitas. La parola greca è obnubilata, e si presenterà fino ai nostri giorni solo più nella forma romana. L’actualitas diverrà realtà attuale e la realtà attuale oggettività [Objektivität]. Ma questa stessa, per restare nella sua essenza, cioè nella oggettività [Gegenständlichkeit] ha bisogno del carattere dell’esser presente. Essa è così la presenza [Präsenz] nella rappresentazione del porre-innanzi rappresentativo [vor-stellen]. La svolta decisiva nel destino dell’essere come ἐνέργεια consiste nella sua trasformazione in actualitas.5
Il che è, per un verso, conseguenza dell’oblìo dell’essere, consistente nello smarrimento della differenza ontologica,6 e per un altro premessa dello «sconvolgimento del destino attuale del mondo», con l’uomo che 3. Ibidem, pp. 345-346. 4. Ibidem, p. 346. 5. Ibidem, p. 347. 6. Ibidem, pp. 339-340, passim.
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sta per slanciarsi su tutta la terra e sulla sua atmosfera, sta per impadronirsi da usurpatore del regno segreto della natura – ridotto a forze – e per sottoporre il corso della storia ai piani e ai progetti di una dominazione planetaria. Quest’uomo in rivolta non è più in grado di dire semplicemente che cosa è [ist], di dire che cos’è che una cosa è.7
Vive perciò sull’orlo di un abisso, nel quale non ha, per ora, la forza di spingere lo sguardo, attingendone il fondo. L’uomo è ormai preda dell’Abgrund. E questo, per dirla in breve, è la conclusione, se pur di conclusione possa parlarsi, della storia dell’Occidente, rivelantesi come, essa stessa, decadenza. Quando i termini della questione si fanno così ampi da abbracciare l’intera esperienza dell’uomo sulla terra occidentale, e questa stessa sia messa in discussione nel nesso che intrattiene, o piuttosto non intrattiene, con l’essere, l’altro nesso, quello che in un tempo non lontano si cercava tra storia, filosofia, pensiero politico esce dalla riflessione al punto che è raro che, da parte di chi pensa all’interno di quell’orizzonte, si chieda che cosa per lo più, in altri ambienti intellettuali e in altri momenti storici, si sia inteso per decadenza di una civiltà, o magari soltanto di un sistema politico; in che modo la storiografia l’abbia descritta quando se la sia trovata di fronte; quale risposta il pensiero politico sia stato in grado di dare quando, per non venire meno al suo compito, si fosse proposto di darne una. Fra, da una parte, le riflessioni di Heidegger, nella sua seconda maniera, e quella, da un’altra, che la cultura occidentale ha dedicato, nel tempo, al tema della crisi e della caduta dei sistemi politici e delle civiltà, si è determinata una scissione profonda, una differenza così drastica di metodi e di prospettive che riesce difficile pensare che si possa fare molto più che constatarla e riflettervi su. Il tentativo che si compisse di tradurre in termini politici questa o altre consimili analisi heideggeriane sarebbe destinato a un drastico fallimento: della politica e della storia, quali sono state intese dalla riflessione occidentale, non resterebbe nulla. In realtà, l’unico punto che queste due tradizioni abbiano in comune è, a guardar bene, la difficoltà che l’una non meno che l’altra hanno incontrata a spiegare perché la decadenza sia la decadenza, come si sia determinata, quali, di essa, siano state le ragioni. Se all’una e all’altra si chiedesse il perché della decadenza, se a entrambe si rivolgesse la domanda relativa alle ragioni del suo prodursi nella vita delle culture e degli Stati, non si avrebbe infatti risposta. E non per caso. Interrogando sul perché della decadenza, e retrocedendo perciò alle spalle del suo 7. Ibidem, p. 348.
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essersi prodotta, è pur sempre alla decadenza che infatti ci si viene a trovare di fronte. Ma la decadenza non spiega la decadenza, se di essa si chiedono le ragioni. Né, per spiegarla, basterebbe, ed è ovvio, considerarla come coincidente con un momento che il tempo necessariamente incontrasse nel suo avvolgimento ciclico. Questo sarebbe infatti, non un modo razionale e critico di spiegazione, ma il rinvio di questa a un modello astratto: come avviene, per esempio, quando, negli schemi dell’evoluzione costituzionale delineati dai pensatori antichi, si assumeva che essa necessariamente si manifestasse nel punto in cui un regime virtuoso si corrompeva e dava luogo al suo contrario, senza che, non spiegandosi come e perché quel determinato regime si fosse corrotto, potesse evitarsi di fare della decadenza la ragione (e la spiegazione) della decadenza. Anche il rilievo negativo che, in ambito heideggeriano, ma non solo, si è conferito alla tecnica e all’assoluta signoria da essa esercitata sulle cose, tutte perciò abbassate al rango del semplicemente utilizzabile, si è tradotto, nella migliore delle ipotesi, in una constatazione e in una descrizione; e inspiegata è rimasta la ragione per la quale il relativo fenomeno è insorto a un certo punto dell’evoluzione delle società capitalistiche orientandole nel senso della crisi e del declino. Né il trionfo della tecnica spiega la ragione della decadenza, né questa spiega il trionfo della tecnica: i due fenomeni si rinviano l’uno all’altro in un circolo che li rende successivi senza spiegarli. Elevata a inspiegato criterio per l’interpretazione degli esiti fatali del mondo occidentale, la tecnica non produce che prospettive apocalittiche, che non sono infatti spiegazioni. Non è un caso che nel suo nome, fenomeni certamente diversi come, per esempio, il comunismo russo e il capitalismo americano fossero giudicati come se, nell’essenza, significassero lo stesso;8 che assegnabile allo stesso ambito decadente fosse, nello spirito di questa diagnosi, il «dirigismo organizzativo di un popolo concepito come massa vivente e come razza»,9 e cioè il nazionalsocialismo tedesco. L’identificazione si produceva e s’imponeva, non perché immediatamente quei fenomeni fossero la stessa cosa, e differenze fra l’uno e l’altro non fossero rintracciabili. Ma perché a contare, di fronte alla diversità delle forme politiche, era l’essenza; che richiamava in gioco la tecnica, coincideva con la tecnica, e a questa attribuiva la consumazione nichilistica dell’intera storia occidentale. Argomenti che, nella dramma8. Cfr., per es., M. Heidegger, Introduzione alla Metafisica, tr. it., Milano 1968, p. 55. 9. Ibidem, p. 57.
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ticità della rappresentazione, scoprivano il difetto della spiegazione. La «decadenza dello spirito», il suo «depotenziamento» che, in Europa, era tanto più grave in quanto era derivato dall’Europa stessa, erano ricondotti alla «disintegrazione delle forze spirituali», alla «resistenza» opposta «a ogni domandare originario concernente i fondamenti»,10 in un giro nel quale il fatto era nello stesso tempo sé stesso e la spiegazione di sé stesso, senza che da questa vuota identità potesse provenire una luce ulteriore e più penetrante. L’idealismo tedesco era caduto in rovina? La spiegazione era nell’epoca che essa stessa era caduta, non essendosi rivelata «abbastanza forte per mantenersi al’altezza della grandiosità dell’ampiezza, e dell’autenticità originaria di questo mondo dello spirito»:11 con la conseguenza che «l’esserci» aveva «preso a scivolare in un mondi privo di quella profondità dalla quale l’essenziale sempre viene e ritorna all’uomo e gli si propone spingendolo a una superiorità che gli dà una posizione da cui agire». E ancora: «tutto viene così ridotto al medesimo livello, su di uno stesso piano, simile alla superficie appannata di uno specchio che non riflette e non rimanda più alcuna immagine. La dimensione predominante è divenuta quella dell’estensione e del numero». Di rappresentazioni analoghe a questa se ne trova più d’una nella letteratura fiorita in Europa nel breve intervallo che divise la fine della prima guerra mondiale dall’inizio della seconda. La differenza, per ciò che concerneva Heidegger, stava non solo nella qualità filosofica del suo argomentare, ma nella sua, come si potrebbe definirla, ambiziosa preoccupazione dell’originario, e nell’ambigua situazione alla quale a più riprese dette luogo. In un saggio scritto nel 1939, e che non vide la luce se non nel 1958, ragionando intorno al frammento 123 di Eraclito, φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, Heidegger scrisse che, contrariamente a quel che si era per lo più creduto, e cioè che occorressero «grandi sforzi» per trarre l’essere «fuori del suo nascondiglio», non nella tendenza al nascondimento consisteva la sua physis, ma proprio nel contrario. Appartenente alla sua «pre-dilezione» era infatti il velarsi: lì era la sua essenza. Salvo che l’essenza dell’essere era «di svelarsi, di schiudersi e venir fuori nello svelato – φύσις», perché solo ciò che per essenza si s-vela (ent-birgt) e deve svelarsi può amare velarsi. Solo ciò che è svelamento può essere velato. Perciò non si tratta di superare il κρύπτεσθαι della φύσις, e di strapparglielo, ma qualcosa di ben più arduo 10. Ibidem, p. 55. 11. Ibidem, pp. 55-56.
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ci è assegnato: lasciare alla φύσις, in tutta la purezza della sua essenza, il κρύπτεσθαι come appartenente a essa.12
Non era soltanto un gioco di parole, una sottigliezza verbale, un rifiuto della modernità eseguito assumendo qualcosa come l’ascolto della musica dell’essere, che si rende percepibile nel suo velarsi-svelarsi. In realtà, era questo il punto in cui il pensiero di Heidegger perveniva al suo significato più profondo. Era qui che, a guardar bene, si definiva nei termini di una filosofia della storia: ossia di una disposizione al capire storico che nella inevitabilità dei trapassi da un tempo a un altro e, dal penultimo, soprattutto, a quello destinato a concludere il cammino, risolveva la difficoltà che anch’esso incontrava in sé, non a dedurre, ma a spiegare. Certo, Heidegger non delineava un percorso che fosse fenomenologicamente rappresentabile attraverso una successione di epoche e il raggiungimento di un ἔσχατον.13 Non consentiva che fra il velarsi e lo svelarsi intercorresse un tempo in forza del quale quei due eventi fossero distinguibili come il principio e la fine; e in questo si distingueva da ogni altra filosofia della storia (quella hegeliana compresa) che si fosse presentata nella storia dell’Occidente. E non di meno, in tanto richiedeva di essere definito secondo quel carattere, in quanto era pur sempre a qualcosa di non oltrepassabile che metteva capo, a qualcosa in cui si raccoglieva il senso ultimo della storia dell’essere. Sebbene, per sé stessi, lo «svelarsi-velarsi», e, per altro verso, il «velarsi-svelarsi» si ponessero al di fuori della vicenda temporale del Dasein e della sua domanda, essi alludevano tuttavia a qualcosa di non ulteriormente indagabile, che, qualunque cosa significasse, non consentiva che si andasse alle sue spalle, e, al di qua delle modalità specifiche, se ne indicasse e diagnosticasse la genesi. Nei suoi modi peculiari, questa era perciò schietta filosofia della storia. Ogni volta, in effetti, che il processo storico sia essenzializzato in qualcosa che lo concluda e ne decreti il compimento, ivi la storia assume quella forma; che non sarebbe infatti quel che è se a caratterizzarla non fosse questa idea di una fine in cui tutto si consuma, sia che l’ἔσχατον sia, in senso temporale, l’ultimo, sia che, essendolo, sia insieme l’avvio di un nuovo ciclo atteso anch’esso da una conclusione e da una fine. Che, contratta e insieme trasfigurata, questa vicenda 12. M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della φύσις, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Milano 1987, p. 255. 13. Accenni a una scansione delle epoche possono forse ritrovarsi nel saggio su L’epoca dell’immagine del mondo (1938), in Sentieri interrotti, pp. 71-101. Ma si dovrebbe analizzarlo punto per punto.
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della fine, e dell’inizio che consegue al suo essersi conseguita si ritrovi anche nel κρύπτεσθαι heideggeriano, si vede con relativa facilità: anche se non, forse, a occhio nudo. Ma quel che lì restava nascosto appare invece con piena evidenza nel libro che Hannah Arendt dedicò a Le origini del totalitarismo. Libro importante, senza dubbio, costruito sul fondamento di varie conoscenze e di minute ricerche, ricco altresì di analisi spesso penetranti. Libro nel quale può essere interessante notare che se in nessuna pagina il nome di Heidegger è citato, il suo impianto non sarebbe ben capito se la presenza del suo pensiero non fosse avvertita nei punti salienti dell’indagine. Ci sono assenze, in effetti, attraverso le quali ciò che è presente si rivela con forza inversamente proporzionale allo sforzo messo, forse, nel nasconderlo. Heidegger, dopo tutto, era stato ben coinvolto nel processo ideologico che aveva condotto all’affermazione del totalitarismo nazionalsocialista; e nessuno poteva saperlo meglio, e senza maggiore sofferenza, dell’autrice di quel libro. In effetti, la descrizione che la Arendt fece dello «stato del mondo» riuscirebbe incomprensibile se la riflessione heideggeriana sul destino dell’Occidente non le fosse stata dinanzi agli occhi e non avesse operato nella sua mente.14 Caratterizzato com’è dalla tendenza ad assumere il totalitarismo come l’esito fatale di tutta intera la storia dell’Occidente, il suo libro non metteva il lettore nella condizione di capire perché quell’ombra nera e funesta fosse intervenuta a oscurare il cielo di una così significativa parte del mondo. In ogni pagina, si potrebbe dire, lo poneva di fronte alla conclusione del processo: come se, anche qui, la questione della genesi fosse risolta attraverso la semplice esibizione del fatto. L’unica cosa di cui alla fine gli desse la certezza era che, per effetto del totalitarismo, il mondo si era ridotto a questa sola dimensione, perdendo ogni sua ricchezza e trasformando in inautentica ogni sua possibile autenticità. Tradotta in termini politici o, se si preferisce, sociologici, la diagnosi rivelava perciò il suo irriducibile carattere heideggeriano. «La freddezza glaciale del ragionamento», esaltata dai nazionalsocialisti tedeschi, e «il “poderoso tentacolo” della dialettica che “vi afferra come in una morsa”», predicata dai comunisti sovietici, «si presentano», si legge in una delle pagine conclusive del libro, come l’ultimo punto d’appoggio in un mondo dove non ci si può fidare di niente e di nessuno. È l’intima coercizione, il cui unico contenuto consiste 14. Un accenno alla questione è in A. Grunenberg, Hannah Arendt e Martin ������� Heidegger. Storia di un amore, Milano 2009, pp. 327-329.
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nell’evitare rigorosamente le contraddizioni, che sembra confermare l’identità di un uomo al di fuori di ogni rapporto con altri. […] Distruggendo ogni spazio fra gli individui, comprimendoli l’uno contro gli altri, si annientano anche le potenzialità creative dell’isolamento; insegnando e esaltando il ragionamento logico dell’estraneazione, in cui l’uomo sa di essere completamente perduto se lascia andare la prima premessa da cui prende l’avvio l’intero processo, si eliminano le già scarse probabilità di una trasformazione dell’estraneazione in solitudine e della logica in pensiero. Se si confronta questa pratica con quella della tirannide, si ha l’impressione che si sia trovato il modo di mettere in moto il deserto, di scatenare una tempesta di sabbia capace di coprire ogni parte della terra abitata.
L’ulteriore conseguenza era che se, «al pari delle tirannide», il dominio totalitario conteneva in sé i «germi della propria distruzione», non per questo si sarebbe evitato il rischio che, come la paura e l’impotenza conducono gli uomini alla negazione della politica, così «l’estraneazione e la deduzione logico-ideologica del peggio, ad essa legata», dessero luogo a «una situazione antisociale» e contenessero «un principio distruttivo per ogni convivenza umana».15 La distruzione che, per ragioni intrinseche alla sua stessa physis, lo spirito del totalitarismo era, secondo la Arendt, necessitato a eseguire di sé stesso, rivelava, nei suoi tratti apocalittici, che l’analisi era sottesa, non soltanto dall’interpretazione heideggeriana del nichilismo (basti pensare alla contrapposizione della logica al pensiero), ma, sebbene ci siano nei suoi scritti molte dichiarazioni in contrario,16 anche dalla filosofia della storia nella sua accezione più esplicita: da una «storia a disegno», come ai suoi giorni era stata definita da Antonio Labriola, che da un esito inevitabile non può che ricavare un nuovo inizio:17 senza, per altro, che questo prenda il suo senso in un progetto politico. 15. H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it., Milano 1996, p. 655. 16. Cfr., per es., nel suo saggio, Il concetto di storia: nell’antichità e oggi, in Tra passato e futuro, tr. it., Firenze 1970, pp. 84 ss., 95 ss., la critica mossa a Hegel e a Marx. Ma cfr. ibidem, pp. 98-99: «nella situazione di radicale alienazione dal mondo, né storia, né natura sono più concepibili. A questa perdita del mondo sotto due aspetti – della natura e del “manufatto umano”, nel senso più vasto, che include tutta la storia – ha fatto seguito un’umanità che, priva di un mondo comune che insieme metta in relazione e separi gli uomini, li fa vivere o in una disperata solitudine o pigiati insieme in una massa. Giacché la società di massa è appunto quel tipo di organizzazione che si determina automaticamente tra gli esseri umani ancora legati l’uno all’altro, ma privi ormai di quel mondo un tempo comune a tutti». 17. Arendt, Le origini del totalitarismo, p. 656.
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Il punto che, nell’abisso che per il resto le separa, queste due tradizioni hanno in comune è costituito dalla scontentezza dimostrata nei confronti di Der Untergang des Abendlandes di Oswald Spengler. Ma si tratta di una convergenza estrinseca. Da un punto di vista assai diverso da quello a partire dal quale l’avevano, per esempio, giudicato Benedetto Croce18 o Thomas Mann,19 anche Heidegger formulò per tempo un giudizio negativo su questo scrittore, considerato come un cattivo epigono di Nietzsche,20 e incapace di trar fuori da riferimenti storici giudicati estrinseci e, forse, dilettanteschi, la forma pura del problema. Ma, per il resto, la differenza rimase profonda. Per Croce, e anche per Thomas Mann, che al riguardo conobbe tuttavia varie incertezze, l’Occidente era la civiltà, e questa non poteva e non doveva morire. La decadenza era un fenomeno interno alla sua struttura, che non ne era messa in crisi e non ne era condotta nel baratro. Nella prospettiva di Heidegger, al contrario, la decadenza apparteneva, non a un periodo della storia dell’Occidente, ma all’Occidente stesso, che era esso perciò la decadenza, la «terra del tramonto». Anche coloro che l’avevano avvertita, ne erano stati infatti di volta in volta a tal punto coinvolti da dover essere considerati come documenti di essa, medici malati dello stesso male che si impegnavano a rendere esplicito e a combattere: non è forse questo uno dei temi conduttori del suo Nietzsche e degli scritti della sua seconda, o terza, maniera? Lo è, senza dubbio: ma si avrebbe torto se lo si assumesse come il criterio di una autentica spiegazione. L’ampliamento della malattia non contribuiva in alcun modo alla sua spiegazione. Identificato con la decadenza, restava da spiegare, non solo perché mai l’Occidente si fosse manifestato con questo carattere, ma che cosa ci fosse alle spalle di esso, che cosa lo avesse atteggiato in quella forma. L’oblìo dell’essere non costituiva infatti la spiegazione del nesso in forza e in ragione del quale Occidente e decadenza erano presi come lo stesso. Per poter essere obliato l’essere doveva precedere l’oblìo. Ma se, per tentare una spiegazione ci si incamminasse su questo sentiero, ci si verrebbe a trovare involti in due ardue questioni, quella dell’inizio e quella del tempo, impotenti entrambe a risolverle. L’inizio rinvia all’inizio, il tempo al tempo; e la decadenza non ne risulta di necessità. 18. B. Croce, L’Italia dal 1914 al 1918. Pagine sulla guerra, Bari 1950, pp. 312-317. 19. Per il giudizio di Mann su Spengler, rinvio per comodità al mio Tramonto di un mito. L’idea di progresso fra Otto e Novecento, Bologna 1988, p. 39 n. 38, dove sono indicati i testi essenziali. 20. Heidegger, Sentieri interrotti, p. 304.
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D’altra parte, nella prospettiva di quanti della decadenza avevano parlato come di un fenomeno che, senza coincidere con lo stesso Occidente, ne era a un certo punto andato a far parte, la questione del perché restava non meno irrisolta. Per spiegare la decadenza era ancora una volta a questa che, in definiva, lo si sapesse o no, si era costretti a far ricorso. In realtà, qualunque cosa si pensi del modo di Heidegger, e della sua tendenza a includere nella «terra del tramonto» anche le analisi dedicate a essa e alla sua idea, converrà far ricorso a una nozione che, essendo banale, non deve tuttavia essere dimenticata: quella della decadenza è un’antica idea,21 tanto quanto, si direbbe, la difficoltà che s’incontra a darne una spiegazione autentica. Il suo spettro inquieto si aggira per le strade dell’Occidente almeno da quando i pensatori greci cercarono di capire come e perché quella si determinasse, come e perché fosse così difficile, non solo riconoscerne per tempo i sintomi, ma combatterla e vincerla. Inutile, in questa sede, ricordare il Politico di Platone, certe parti della Politica di Aristotele, la più modesta ἀνακύκλωσις τῶν πολιτειῶν di Polibio, perché questi sono testi che stanno nella memoria dei più. E più invece giova ricordare che il pensiero, o il sentimento della decadenza, andò presto ad abitare le notti di poeti e di storici. L’ἀντιλογία dei Meli e degli Ateniesi, se è lecito ricorrere ancora una volta a questo famoso esempio tucidideo, si risolse bensì nel riconoscimento della forza come unica legge della vita politica, ma anche in una mai dichiarata, e tuttavia serpeggiante, profezia di decadenza; come se proprio di quel principio lo storico si fosse servito per farne emergere, indirettamente, il tema della precarietà e della caducità determinate dal sempre possibile insorgere, nella realtà, di una forza più grande della forza di chi ora trionfa. Era nel fondo, e osservato direttamente nelle cose crude della politica, un concetto non diverso da quello che, a ironica e indiretta confutazione dell’argomento di Callicle, Platone avrebbe delineato nel Gorgia, nel luogo in cui osservò che l’oltraggiosa ὗβρις, sia della forza in sé stessa sia dei suoi esaltatori, non avrebbe potuto resistere a quella messa insieme dai più deboli attraverso la somma delle loro risorse il giorno in cui questi ultimi avessero deciso di non vivere più nell’abiezione e nella paura.22 È un pensiero che, a secoli di distanza, si 21. Cfr., per es., S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, I, Bari 1966, pp. 506 ss., 513 ss. 22. Plat. Gorg. 488 A-489 B. Non è possibile, in questa sede, fermarsi su questo punto, né decidere se, critico com’era della filosofia di Platone, pur senza registrarlo e sottoli-
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sarebbe ripresentato in quel punto de La ginestra in cui Leopardi parlò dell’«orror che primo/ contro natura/ strinse i mortali in social catena»: senza che, d’altra parte, nata dalla consapevolezza della fragile condizione umana, tale catena bastasse a riscattarla e a porla sul solido piedistallo di una forza che fosse in grado di resistere alla impassibile e distruggitrice natura. La «social catena»23 non era tale, infatti, da mutare in ottimistica la pessimistica consapevolezza della sorte a cui, dalla sua immane potenza, gli uomini sono destinati. Alla cieca distruttività della natura niente poteva resistere. Di fronte a essa la vicenda delle epoche storiche che gli uomini distinguono in antiche e moderne, i regni che cadono, le genti che passano con i loro linguaggi che, anch’essi, si spengono, tutto questo non aveva, agli occhi di Leopardi, altro valore da quello che gli si rivelava nella forma della sua irrilevanza. C’era la natura, che «al seme/ dell’uom» non ha «più stima o cura/ che alla formica»; e, riflessa nel suo specchio, la decadenza si presentava con un volto così esclusivo che la considerazione di questo suo carattere avrebbe introdotto nel discorso un elemento di falsità se mai, in opposizione a quella, fosse stato considerato felice il momento storico a cui essa teneva dietro. Del resto, tanto più le costruzioni umane recavano ai suoi occhi il contrassegno dell’irrilevanza in quanto la loro vicenda era chiusa nell’«oscuro/ granel di sabbia, il qual di terra ha il nome», in una cornice che essa stessa non era che un punto infinitesimo per entro l’immensità dell’universo. Nel cui quadro i termini umani della questione che aveva attratto l’interesse dello storico antico si erano a tal punto trasfigurati da non conservare più nulla del loro valore. Per tornare a Tucidide e proseguire con lui, l’orientamento del suo pensiero era, su questo punto, chiaro. Quale che fosse il loro nome, i vincinearlo, Leopardi si fosse tuttavia giovato di quell’argomento. Nello Zibaldone, ed. Flora, I, Milano 1939, p. 2672, alla data del 12 febbraio 1823, aveva preso le difese della filosofia di Callicle e degli argomenti da lui esposti nel Gorgia, senza far cenno della «ritorsione» platonica; della quale non mi sembra che facesse cenno S. Timpanaro, Il Leopardi e i filosofi antichi, in Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 1965, p. 211, che in quel luogo vide l’istanza antiplatonica, e non indagò oltre. Sugli argomenti attribuiti a Callicle, si confrontino le osservazioni di E.R. Dodds nel suo commento al Gorgia (Oxford 1959, pp. 284-285: e anche l’Appendice, Socrates, Callicles and Nietzsche, pp. 387-391). 23. La ginestra, v. 49 (e cfr. 130 ss.). Anche nello Zibaldone (alla data del 13 aprile 1827), II, 4279-4280, si alludeva alla «alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti». Ma sulla questione non ci si può fermare qui: cfr. comunque la precedente nota.
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tori di oggi erano anch’essi destinati a cadere, in modo che, domani, i vinti sarebbero stati vendicati, perché era legge delle cose che, come proprio gli Ateniesi avevano insegnato, la forza cedesse alla maggior forza e la vittoria di oggi fosse la sconfitta di domani. La legge non conosceva eccezioni: salvo che non era sempre lo stesso il popolo che se ne giovava, e quello che se n’era giovato in un tempo poteva esserne, in un altro, la vittima. L’argomento dei Meli in sostanza fu che quando la potenza ateniese fosse giunta a toccare il culmine, tutti se ne sarebbero sentiti minacciati, sì che anche i popoli che avevano scelto la neutralità avrebbero alla fine avvertita la necessità di coalizzarsi contro di loro. La prepotenza degli Ateniesi avrebbe conosciuto il declino, come ora toccava a loro di sperimentare l’amarezza della sconfitta. Il significato del celebre dialogo deve ricercarsi in questa profezia, tanto più presente quanto meno lo storico la enunciasse in parole esplicite e la facesse propria: per questo non ha senso né chiedersi a chi vada il suo consenso, se agli Ateniesi, paladini della forza, o ai Meli, paladini della giustizia, né se, nel fondo, Tucidide stesse dalla parte della forza o da quella della giustizia. Chiederselo, significherebbe non aver colto il punto autentico della questione. Se, come gli Ateniesi affermavano, la giustizia e il ricorso agli dèi nelle cose umane non valevano, la forza, che non consuma mai sé stessa e il suo principio, era essa che conduceva al tramonto ogni conquista che fosse stata conseguita per il suo tramite.24 Con qualche enfasi, ma non senza verità, si potrebbe dire che quello della decadenza fu il pensiero che, nel profondo, travagliò la coscienza del mondo antico. Ennio, il quale aveva scritto che moribus antiquis res stat Romana virisque (fr. 305 Valmaggi), sapeva anche che Romanus homo, tamenetsi res bene gesta est, corde suo trepidat (fr. 409); temeva la discordia taetra; e forse avvertiva il segno della crisi e della decadenza intrinseci al mutamento per il quale, come si legge in un suo verso famoso, Nos sumus Romani, qui fuimus ante Rudini.25 Non era, del resto, soltanto alle 24. Non posso perciò condividere la suggestiva considerazione di Mazzarino, Il pensiero storico classico, I, 463-464, il quale, dopo aver osservato che «nessuno saprà mai dire se Tucidide, nel celebre dialogo, parteggi per gli Ateniesi o per i Meli», ha ricondotto questa impossibilità alla insolubile, sebbene apparente, contraddizione dell’«uomo classico», che, per esempio, esaltava le guerre di conquista e, come Tacito, non si nascondeva i lati oscuri dell’imperialismo romano. Non mi sembra che fra questi due ordini di fatti vi sia la connessione che Mazzarino vi vedeva; e, quanto a Tucidide, si può ben dire che, per le ragioni brevemente esposte nel testo, egli si ponesse al di là del semplice parteggiare. 25. Fr. 313 Valmaggi = 483 Baeherens.
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cose della politica e della storia che quel pensiero andava. Il senso della decadenza assunse aspetti impressionanti nella cosmologia epicurea di Lucrezio, con la sua grandiosa rappresentazione della senescenza delle cose, destinate alla morte dopo l’iniziale, irresistibile espansione. «Nam certe fluere atque recedere corpora rebus/ multa manus dandum est; sed plura accedere debent, donec alescendi summum tetigere cacumen» (2, 11281130), con quel che segue fino al luogo in cui, con rara potenza e altrettanta impassibilità, è tratta la conclusione: Sic igitur magni quoque circum moenia mundi expugnata dabunt labem putris‹que› ruinas. Omnia debet enim cibus integrare novando et fulcire cibus, ‹cibus› omnia sustentare, nequiquam, quoniam nec venae perpetiuntur quod satis est neque quantum opus est natura ministrat. Iamque adeo fracta est aetas effetaque tellus vix animalia parva creat quae cuncta creavit saecla deditque ferarum ingentia corpora partu.26
Dalle cose della natura di nuovo passando a quelle della politica, questo pensiero ansioso, questo presagio della fine, si fece avvertire anche nel passo del de republica, 5, 1, in cui Cicerone aveva osservato che, a differenza di quanto accadeva nei passati tempi, nel suo a Roma non nascevano più uomini grandi, sì che il senso della sua crisi si esprimeva nella loro rarità, nella penuria virorum in una, come anche la definiva, inclinata res publica. Alle cose piccole della natura stanca del suo lungo e laborioso generare corrispondeva la parvitas dei personaggi che avrebbero dovuto interrompere la linea discendente della decadenza, e ne erano invece il documento. Non era, d’altra parte, senza nessi con la percezione di quel che si stava preparando nelle profondità della storia di Roma, il pensiero che Sallustio esprimeva con il suo celebre omnia orta intereunt e, se sono sue, ripeteva in una delle due epistole a Cesare, prevedendovi che, poiché tutte le cose sono destinate alla morte, quando l’ora di Roma fosse giunta, i cittadini si sarebbero divisi e avrebbero combattuto gli uni contro gli altri fino a coinvolgere nella loro rovina quella della repubblica, perduto ogni senso di virtù, di dignità e di onore.27 Questo senso della decadenza e della morte si avverte anche nel fondo del poema dedicato a illustrare la gloria 26. Lucr. 2, 1144-1152. 27. S. Mazzarino, La fine del mondo antico, Milano 1988, p. 27.
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dell’Impero romano; e sarebbe stato strano se un poeta così sensibile alla malinconia delle cose, quale Virgilio fu, non l’avesse intuita. A costituire il riscontro negativo, il mesto controcanto della progrediente fortuna romana c’era, nel poema, il ricordo della fine di Troia, simboleggiabile in quella di Priamo ucciso da Pirro: «iacet ingens litore truncus/ avolsumque umeris caput est sine nomine corpus» (2, 557-558); un controcanto che si avverte persino nella tonalità sotterranea che un orecchio esercitato coglie nell’imperium sine fine dedi (1, 279), se è vero che, attraverso la negazione, o la steresis, della fine, è questa che con forza tanto più grande si rende presente e fa risuonare nel profondo la sua nota lugubre. È stato osservato tante volte, ma può ben essere ripetuto qui, che, nel momento in cui la potenza di Roma era al culmine, il pensiero angoscioso della fine si fece avvertire in Livio, che pure scriveva quando il furore delle lotte civili si era placato e si poteva guardare al futuro con la tranquillità assicurata dall’Impero: «res est praetera et immensi operis, ut quae supra septingentesimum annum repetatur, et quae, ab exiguis profecta initiis, eo creverit ut iam magnitudine laboret sua»:28 un pensiero che, ricorrendo anche in un epodo di Orazio: suis et ipsa Roma viribus ruit,29 fu ripreso da Floro30 nel secondo secolo dopo Cristo, e si mantenne costante lungo il corso dei secoli come un’autentica ossessione,31 per assurgere al grado di un’esplicita dottrina della decadenza degli organismi politici in pagine, sottolineate entrambe da Mazzarino,32 l’una di Seneca il Vecchio, l’altra del ad Demetrianum, 3-5 di Cipriano. In quest’ultima è notevole che, per scagionare i cristiani dall’accusa di aver provato la inclinatio dell’Impero, si facesse appello all’inevitabile senescenza del mondo e degli uomini che ora lo abitano, i quali sono vecchi quando ancora sono fanciulli, perché ora «la vita non 28. Praef. 4. 29. ����� Hor. ep. 16, 2. 30. ���������������������������������������������� Annaei Flori 1, 4-5. E ������������������������� cfr., oltre P. Zancan, Livio e Floro, Padova 1942, pp. 13-20, H. Werner, Der Untergang Roms, Stuttgart 1939, Mazzarino, La fine del mondo antico, p. 34, A. Momigliano, Il cristianesimo e la decadenza dell’Impero romano, in Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, saggi a cura di A. Momigliano, Torino 1968, p. 6. 31. Di ossessione romana della fine parlò M. Eliade, Cosmos and History, New York 1959, p. 76. 32. Mazzarino, La fine del mondo antico, pp. 43-44. E cfr. anche, oltre il libro tuttora fondamentale di H. Fuchs, Der geistige Widerstand gegen Rom in die antiken Welt, Berlin 1964, pp. 63-74, 81 n. 83, M. Mazza, Lotte sociali e restaurazione autoritaria nel III secolo d.C., Roma-Bari 1973, pp. 7-8, 519-520.
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finisce, ma comincia con la vecchiaia».33 E notevole è altresì che qui si desse decisa espressione a un tema, quello della senescenza che di necessità, come nella vita degli uomini, così interviene in quella degli Stati, facendo giustizia di ogni vantata eternità. Era un concetto semplice, quello che in tal modo si affermava: per delinearlo bastava osservare con realismo il corso delle cose, senza che perciò lo sguardo richiedesse di essere reso più penetrante e consapevole dalla teorizzazione agostiniana delle due città, e, in questo quadro, dall’assegnazione di Roma alla civitas diaboli. Certo, i sentimenti, con i quali il grande evento della decadenza imperiale fu sentito e vissuto, si presentarono di volta in volta, nei secoli dell’età di mezzo, con diverso volto, e in una complessa vicenda nella quale, a seconda che mutavano gli equilibri politici e le connesse prospettive, il tema della caducità e l’altro dell’eternità si alternavano e l’uno si sostituiva all’altro. È una vicenda alla quale molti e pregevoli studi sono stati dedicati nel tempo, dai quali sarebbe fin troppo facile ricavare il lungo filo delle citazioni che al riguardo potrebbero essere prodotte. Basterà ricordare che il tema agostiniano non fu l’unico; e che, sebbene attenuato da una diversa, inquieta consapevolezza, tanto più il mito della Roma aterna aveva resistito all’attacco agostiniano quanto più, come Beda, per esempio, aveva scritto, si fosse stati persuasi che «quamdiu stat Colysaeus stat et Roma; quando cadet Colysaeus et Roma; quando cadet Roma cadet et mundus».34 L’attenuazione o, se si preferisce, la perplessità si rendevano evidenti nell’allusione al tempo che, introdotto nel quadro, rendeva più che problematica l’affermazione della sua eternità. Affidata ai quandiu e ai quando e all’evocazione di un evento comunque pauroso qual era la fine del mondo, il senso dell’eternità non riusciva a prevalere su quello del tempo, che alla fine vince e conduce le cose alla rovina: che è, del resto, se di lì trasse la sua ispirazione, quel che Beda avrà avvertito nei versi dell’Eneide, nei quali, descrivendo la morte di Eurialo e Niso, Virgilio aveva assegnato al suo canto il compito di garantirne, nel tempo, la fama: «fortunati ambo! Si quid mea carmina possunt,/ nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum/ accolet imperiumque pater Romanus habebit» (9, 446-449). Virgilio aveva scritto dum, Beda quan33. Mazzarino, La fine del mondo antico, pp. 43-44. 34. Beda, Opera, III, Köln 1612, c. 483. Cfr. A. Graf, Roma nella memoria e nelle immaginazioni del Medioevo, I, Torino 1883, p. 190; R. Morghen, La tradizione cristiana e imperiale di Roma, in Medioevo cristiano, Bari 1951, p. 32.
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diu: entrambi avevano reso un indiretto omaggio alla potenza del tempo. In seguito, a prevalere fu, con alterno esito, ora la soddisfazione provata nell’assistere al declino della città che era stata egemone e tiranna, ora la malinconia per la fine della città che era stata detta immortale. E talvolta i due temi si intrecciavano, si confondevano l’uno nell’altro. Il favore accordato alla città cristiana sorta sopra le rovine dell’antica non spegneva il ricordo di questa; e faceva vibrare la pagina di una sotterranea commozione. In un testo famoso, e spesso citato, dinanzi ai Sassoni che avanzavano minacciosi verso Roma, il monaco del Soratte non aveva potuto impedire che quel sentimento desse segno di sé e facesse avvertire la sua presenza al di sotto dell’altro, quello dell’esecrazione di Roma; la quale aveva dominato e calpestato il mondo, e ora era inevitabile che, da madre ridotta a figlia («mater fuisti, nunc facta est filia»), fosse «a Saxone rege expoliata et menstruata fortiter».35 In ogni caso, tanto più il senso della decadenza si insinuava nelle coscienze quanto meno si fosse stati disposti a riconoscere che anche Roma ne sarebbe alla fine stata consumata; tanto più dominava le menti quanto più grande fosse stata la commozione provata di fronte alla catastrofe che si stava consumando. Questo vario sentimento si trasmise, attraverso i secoli dell’Umanesimo e del Rinascimento fino agli storici del Settecento. Non può essere un caso che persino uno scrittore controllato, e alieno dalle esagerazioni sentimentali, come Edward Gibbon concludesse la sua grande History of the Decline and Fall of the Roman Empire con la citazione delle pagine in cui, nel quindicesimo secolo, Poggio Bracciolini aveva espresso, nel de varietate fortunae, la malinconia e il rimpianto che le rovine di Roma gli suggerivano, e avesse ricordato che l’idea di scrivere le vicende del suo declino e del suo crollo gli era insorta, circa vent’anni prima, mentre visitava il Colosseo.36 Sarebbe inutile pedanteria evocare i tanti testi che in gran numero potrebbero essere addotti a questo riguardo, il lamento dei poeti, i racconti degli storici, le diagnosi degli scrittori morali. Si tratta di cose note. E per la stessa ragione inutile sarebbe spingere lo sguardo nei secoli dell’età di mezzo quando, a un vivace filone antiromano, condiviso da giovane anche da Dante,37 35. Il Chronicon di Benedetto di S. Andrea del Soratte e il Libellus de imperatoria potestate in urbe Roma, a cura di G. Zucchetti, in Fonti per la storia d’Italia, Roma 1920, p. 186. 36. E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, tr. it., III, Torino 1967, p. 2847. 37. Monarchia II i 2.
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se ne aggiunse un altro, schiettamente ispirato alla tradizione di Roma e, al rimpianto, in certi casi, della sua scomparsa, o, si pensi a Petrarca in una delle Sine nomine, della sua soltanto debole presenza, tanto più deplorevole in quanto, com’era detto con la consueta ambiguità, se imperatores […] uagi esse possunt, stabile fixumque semper imperium est.38 L’angoscia suscitata dal presagio della decadenza non venne meno nella cultura occidentale nemmeno quando, con il crollo del grande impero di Occidente, il pronostico negativo si era ormai da tempo avverato.39 Quel che era stato presagio divenne poco alla volta tema di meditazione storica. Da Biondo Flavio a Machiavelli, da Montesquieu a Gibbon fino ai grandi storici del diciannovesimo e del ventesimo secolo, la meditazione delle «cause» che avevano provocato la caduta dell’Impero romano d’Occidente rese testimonianza, non solo dell’intelligenza storica degli interroganti, ma anche della vitalità intrinseca ai temi politici e filosofici che la loro interrogazione presupponeva alimentandosene. Non solo di questi, del resto; ma anche della nota angosciosa che, intrinseca com’era alla domanda relativa alla decadenza e alla corruzione dei popoli e degli Stati, non sempre poté essere sostenuta in tutto il suo peso e fece sì che, per contrasto, dal pessimismo rinascesse l’ottimismo, che, di contro all’idea della fine, si affermasse l’idea di un corso delle nazioni guidato dalla mano sapiente e dalla mente preveggente della provvidenza. Se si legge la Scienza nuova, che di questa idea è fra i documenti più alti e eloquenti, e si studia quel che nel tempo la preparò rendendola alla fine possibile, subito si è colpiti dalla metabasis che vi si determinò del pessimismo in ottimismo, dalla riconversione in superiore positività di quel che di negativo l’analisi aveva messo in rilievo nelle cose del mondo. Quando era giovane, Vico aveva composto, a Vatolla, una canzone, Gli affetti di un disperato, che è documento singolare di radicale pessimismo, non solo personale, ma cosmico. Era giunto infatti come si sa, a ritenere «cadente ormai […] ’l ferreo mondo/ e […] già instrutti a farci strazio i fati»;40 e questo pessimismo, che nella canzone non poco doveva a un autore, Lucrezio, che sempre poi sarebbe rimasto presente al suo pensiero,41 fu 38. ������������������������������� Cito dall’edizione di P. Piur, Petrarcas “Buch ohne Namen” und die päpstliche Kurie, Halle 1925, p. 176. 39. È ancora fondamentale il vecchio libro di W. Rehm, Der Untergang Roms in ������ abendländischen Denken, Leipzig 1930. 40. G.B. Vico, L’autobiografia, il carteggio e le poesie varie, a cura di B. Croce e F. Nicolini, Bari 1929, p. 313. 41. Vico, L’autobiografia, pp. 16, 18.
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bensì, in seguito, transvalutato in termini provvidenzialistici, ma non tanto che non desse a tratti segno di essere rimasto ben vivo nel suo pensiero, tanto da costituirne un momento ineliminabile, e forse non a pieno risolto nel quadro in cui avrebbe dovuto esserlo. Nel lungo periodo che la provvidenza impone al circolo delle cose mondane, alla «sapienza civile» e al «valor militare, ch’entrambi sulle rovine di Cartagine stabilirono a Roma felicemente l’imperio del mondo», tennero dietro tempi nei quali, non più contentandosi i cittadini delle ricchezze per farne ordine, ne vollero fare potenza; [e] come furiosi austri il mare, commovendo civili guerre nelle loro repubbliche, le mandarono ad un totale disordine, e, da una perfetta libertà, le fecero cadere sotto una perfetta tirannide (la quale è la peggiore di tutte), ch’è l’anarchia, ovvero la strenua libertà de’ popoli liberi.42
Furono quelli sul serio tempi terribili e orribili, di grave decadenza e corruzione degli ordini e delle coscienze, come si vide nell’eloquenza, che dalla sobrietà antica decadde e si fece veicolo di torbide passioni. Né potrebbe dirsi che, mentre le cose del mondo politico e civile decadevano e andavano in rovina, un occhio avvertito potesse, mentre quella era in atto, scorgere all’opera la mano della provvidenza, intenta a escogitare i modi del loro riscatto, e a far sì che le traversie del presente fossero opportunità per il futuro. Non è certo questa la sede nella quale possa discutersi intorno al modo in cui l’antica teoria dei cicli politici, che Vico incontrava nelle pagine del Politico di Platone e, semplificata, nel sesto libro di Polibio, fosse da lui reinterpretata alla luce del suo concetto, cristiano o no che fosse, della provvidenza. Può, tuttavia, e deve osservarsi che quel che si dava a vedere nelle teorie antiche, anche si rivelava come la sostanza della sua. Nel circolo il tempo è costretto bensì a percorrere la via che dall’alto riconduce al basso, e da questo di nuovo a quello, bruciando nella ripetizione la novità e la libertà. Ma proprio per questo non può far sì che il positivo sottenda il negativo e lo riscatti nell’atto in cui quello tende a riproporre il suo tema di morte. La felicità delle repubbliche è felicità. La loro decadenza infelicità. E l’intervento della provvidenza, che dalla «traversia» trae l’«opportunità», implica un concetto che con quello del ritorno non può avere alcuna congruenza strutturale. Il che potrebbe indurci a ritenere che nella discrasia, che in tal modo si rivelava, anche si rendesse manifesta la difficoltà che Vico incontrava a far riconvergere per intero nella prospettiva provvi42. G.B. Vico, La Scienza nuova seconda, a cura di F Nicolini, II, Bari 1942, p. 161.
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denziale un’intuizione delle cose storiche che manteneva intatto, alla sua radice, il tema pessimistico della decadenza. Quando, dopo aver affermato nella «degnità» 67 degli Elementi che «la natura de’popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta», nel successivo specificò che nel gener umano surgono immani e goffi, qual’i Polifemi, poi magnanimi ed orgogliosi, quali gli Achilli; quindi valorosi e giusti, quali gli Aristidi, gli Scipioni affricani; più a noi [vicini]gli appariscenti con grandi immagini di virtù che s’accompagnano con grandi vizi, ch’appo il volgo fanno strepito di vera gloria, quali gli Alessandri e i Cesari; più oltre i tristi riflessivi, qual’i Tiberi; finalmente i furiosi dissoluti e sfacciati, qual’i Caligola, i Neroni, i Domiziani,
era evidente che lo la decadenza gli era presente nella sua cruda realtà e che il suo spettro era stato tutt’altro che esorcizzato. Concludeva infatti che, con la precedente, la «degnità» che le aveva aggiunta conteneva «una parte de’ princìpi della storia ideal eterna, sulla quale scorrono in tempo tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi, stati, decadenze e fini».43 La «storia ideal eterna» ripeteva il suo tema. Dopo aver raggiunto il punto finale, ricominciava, se era eterna. Ma, in sé stessa, la fine era proprio la fine, e quel che ritornava non era lo stesso che era finito. Per molto pensiero politico occidentale Roma e la caduta del suo impero, basti pensare, non solo alle Considérations di Montesquieu, ma anche all’Esprit sur les moeurs di Voltaire, erano state una sorta di pietra del paragone, indispensabile per chi si chiedeva, non solo come i grandi imperi si fossero formati, ma anche, e soprattutto, perché fossero tramontati dopo che, come Gibbon aveva osservato, si era determinato il miracolo della loro lunga durata. E c’era di più: nelle sue implicazioni la quaestio della decadenza ne coinvolse molte altre. La riflessione che egli esercitò sul suo evento rese testimonianza della vitalità intrinseca all’idea che la riguardava e che, con la negatività che racchiudeva in sé, resisteva all’altra, assai diversa, nata dalla filosofia hegeliana, e sullo storicismo dei filosofi faceva prevalere, per riprendere una definizione di Santo Mazzarino, quello degli storici.44 I quali poterono bensì, di volta in volta, incontrare le più 43. Scienza nuova, I, 97. 44. �������������� S. Mazzarino, Qu’est-ce-que l’histoire?, in «De homine», 9-10 (1966), pp. 61-88. F. Tessitore, Mazzarino e lo storicismo degli storici, Catania 2003; e anche il mio saggio
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grandi difficoltà nell’indicare le ragioni per le quali l’impero d’Occidente era caduto, senza che, per altro, ciò li inducesse a dubitare del fatto che, comunque si fosse prodotta, la decadenza era la decadenza e la fine, la fine, e senza che l’indiscutibilità dell’evento che avevano sotto gli occhi consentisse loro di dare ascolto agli argomenti di chi, almeno in termini di teoria, a quello non era disposto a riconoscere un’altrettanto certa realtà. A tal segno le convinzioni degli storici e quelle dei filosofi di origine hegeliana procedevano su piani diversi, che nemmeno di un contrasto insorto fra le une e le altre sarebbe giusto parlare: non si dà contrasto, infatti, dove non vi sia reciproca conoscenza, e qui, almeno da parte degli storici, non si dimostrava, nei confronti delle tesi hegeliane e neohegeliane, nient’altro che ignoranza, o disinteresse. È un fatto tuttavia che, da Hegel a Croce, coloro che a torto o a ragione si sono, o sono stati, definiti idealisti, incontrarono sempre la più grande difficoltà a render conto della decadenza, a elaborarne l’idea, immettendola pleno iure nel proprio universo concettuale, a fare, del tema negativo che ne costituiva l’essenza, una ragione non di vita, di una più alta vita, ma di morte. Se le davano rilievo, se si disponevano a parlarne e in qualche modo a riconoscerla, era per prospettarla come un momento necessario alla nascita di una nuova e più alta positività, come «l’immane potenza del negativo», come qualcosa il cui significato consisteva nell’essere superato dopo aver contribuito a costituire, dall’interno, l’energia stessa che lo superava e andava oltre, verso l’autentica pienezza del sé. In sé stessa, e per sé, la decadenza non aveva realtà. Questo, almeno, era il tema, imposto dalla teoria. Si pensi, per fare un esempio, alle pagine che, nella Phänomenologie des Geistes, Hegel dedicò all’interpretazione del contrasto, di cui è documento l’Antigone di Sofocle, fra, da una parte, l’ἄγραφος νόμος, che «non è di oggi e di ieri, ma sempre vive e nessuno sa quando sia apparso», e, da un’altra, la legge positiva che s’innalza sulla prima e, conservandola nella negazione, la trasferisce a un più alto significato. La formula del conservare superando, e del superare conservando, non dà, tuttavia, se non una pallida idea, sia della drammaticità del procedimento fenomenologico che Hegel descrisse, sia della fermezza dello sguardo che ritrovò e indicò nel tragico il momento catartico, il significato che esso assumeva nel cammino verso il sapere assoluto. Nel gesto di Creonte che, interpretando e realizSanto Mazzarino, la decadenza, il tempo, in «Mediterraneo antico», 2010, pp. 305-340 (in questo volume pp. 251-296)..
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zando la legge positiva, ordinava, nella tragedia di Sofocle, che il corpo di Polinice fosse dato in pasto ai cani, la morte assumeva il significato di ciò che è universale di contro alla semplice immediatezza della natura.45 Ma la morte avveniva, a sua volta, nell’interno della comunità che, attraverso la famiglia, la innalzava al suo autentico significato. È fin troppo nota la pagina della Prefazione alla Fenomenologia nella quale è detto che la vita che sopporta la morte, e si mantiene in essa, quella è la vera vita dello spirito.46 In realtà, anche questa definizione rivelerebbe la sua parzialità se non la si prospettasse all’interno del movimento che, dalla certezza sensibile, conduceva al sapere assoluto, e al restituirsi di questo all’immediatezza da cui, sebbene da un grado più alto, il suo cammino sarebbe ricominciato. Il Calvario (Schädelstätte) dello spirito assoluto era perciò insieme la sua commemorazione (Erinnerung), che si realizzava nel risultato finale non meno che nei momenti che conducevano a questo.47 Quando giunse alla fine della Philosophie des Rechts e si trovò di fronte i quattro popoli attraverso i quali la storia universale aveva infine rivelato il suo volto, Hegel indicò bensì nel mondo germanico il momento supremo della Weltgeschichte, ma non su questo, malgrado tutto, fece battere l’accento. L’accento batté piuttosto sul concetto secondo cui le idee concrete, gli spiriti nazionali hanno la loro verità e determinazione nell’idea concreta, così come essa è l’universalità assoluta, nello spirito universale, intorno al trono del quale essi stanno come gli esecutori della sua rea lizzazione e come sostanza e ornamento della sua magnificenza (§ 352);48
e anche sull’altro batté, della lacerazione che, in questa prospettiva, sempre di nuovo l’unità era costretta a subire per riottenersi al più alto grado. Non c’era grandezza che non avesse in sé il destino della lacerazione. Ma non c’era lacerazione che, a sua volta, non fosse destinata a essere risanata nel quadro dello spirito assoluto o della Weltgeschichte. «L’attualità ha sfrondato la sua barbarie e il suo arbitrio ingiusto, e la verità il suo al di là 45. �������������� G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, hrsg. von J. Hoffmeister, Hamburg 1952, p. 311. 46. Ibidem, p. 29: «[…] nicht das Leben, das sich vor dem Tode scheut und von der Verwüstung rein bewahrt, sondern das ihn erträgt und ihm sich erhält, ist das Leben des Geistes». 47. Ibidem, p. 564. 48. �������������� G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts (in Sämtliche Werke, Jubiläumausgabe, hrsg. von H. Glockner, Stuttgart 1928, p. 451).
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e il suo potere accidentale» (§ 360).49 Nel problematico rapporto che, nella filosofia di Hegel, lega il momento della fenomenologia a quello della logica, era ben possibile che, allontanando i due termini l’uno dall’altro, da parte di qualcuno si procedesse a dare autonomia al fenomenologico e a contemplare, come se avesse un in sé, il momento della scissione, e perciò della decadenza. Ma la verità del sistema avrebbe comunque imposto che nel momento della scissione l’occhio dello storico/filosofo sapesse affisare e discernere la forza della riconciliazione; nella quale, e non nella scissione per sé presa, stava la vera positività. Quando dalle teorizzazioni, che, se ne avessero tenuto conto, gli storici avrebbero definite e definirebbero astratte, passava a quelle che gli stessi personaggi avrebbero definite concrete, o meno astratte, nel suo discorso Hegel rivelava, non solo la dottrina che lo sosteneva, ma anche il senso vivo della storia che gli era intrinseco. Se tuttavia si considera la descrizione che, nelle Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, egli fece della crisi e della caduta dell’Impero romano, e, per coglierne la peculiarità, la si paragona, per esempio, con le pagine nelle quali, non molti anni prima, nella sua grande History Gibbon aveva delineata la situazione dell’Impero nell’età degli Antonini, la differenza si rivela senza alcuna possibilità di equivoco. A emergere dal confronto sarebbero stati, se lo si fosse eseguito in concreto, due modi di guardare alla storia, e di intenderne il senso, che non avrebbero in effetti potuto essere più diversi: due modi addirittura incommensurabili. Quel che la filosofia era giunta a possedere nella sua pura essenza attraverso un duro cammino aveva il suo puntuale riscontro nella storia del mondo; della quale Hegel offriva il quadro unitario, in questo atto reinterpretando, alla luce e nel linguaggio della sua moderna dialettica, gli antichi schemi della filosofia della storia classica e, soprattutto, cristiana. È questo il punto che occorre considerare con attenzione se si vuole intendere la ragione del dissidio che, nella sostanza molto più che nelle parole, divise, da quella degli storici, l’idea della decadenza che, nel quadro della sua concezione della realtà, Hegel e quanti si ispirarono al suo pensiero, fecero valere nei loro scritti. Sotto alcuni riguardi, infatti, gli elementi del quadro erano gli stessi. Sotto altri, erano diversi: non tanto, tuttavia, per il modo della loro connessione nel quadro interpretativo, quanto piuttosto per la differenza, alla quale qui su si è alluso richiamando il carattere fondamentale delle filosofie della storia, che 49. Ibidem, p. 456.
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anche nelle hegeliane Vorlesungen è presente. In Gibbon, e in genere negli storici, la storia appariva come il prodotto di cause e di eventi che, in quanto quelle avessero agito e questi si fossero determinati, si offrivano nella loro peculiarità a chi avesse dovuto interpretarli. ln Hegel era la storia che, con la ragione che le stava dentro e la costituiva, determinava gli eventi che, a loro volta, la rendevano percepibile, visibile e passibile di interpretazione. In un caso, ad agire erano gli uomini nel vario condizionamento in cui la loro individualità si risolveva. Nell’altro, era il Weltgeist, era lo Spirito del mondo; che per un verso era libertà, perché niente c’era che, essendogli estraneo, fosse in grado di condizionarlo, ma, per un altro, era suprema necessità, perché impensabile era che, nel risultato, la sua ratio potesse riuscire diversa da sé stessa e che i momenti della sua costituzione potessero susseguirsi in un ordine che non fosse quello in cui stavano in lei. Per parte loro, Gibbon, e, prima di lui, Voltaire e Montesquieu,50 avevano insistito sulla decadenza del coraggio e sulla mediocrità che, nello spirito dei Romani, avevano, in quella fase della loro vita, sostituito l’antica virtù nel momento stesso in cui, da creativa che era stata, la cultura si immiseriva nell’imitazione e nella sterile ripetizione dei modelli. Nel dar risalto a questo tema, non aveva trascurato di considerare la perdita della libertà e l’instaurazione del dispotismo; e in quelle aveva indicato la ragione profonda, o una delle ragioni, che avevano avviato l’Impero sulla via della decadenza. Aveva, al riguardo, scritto pagine notevoli per finezza e perspicacia, rilevando che l’antica abitudine dei Romani alla libertà, l’inesperienza in cui si trovavano nei riguardi del dispotismo, ben noto, al contrario, ai popoli dell’Oriente, che solo di questo infatti avevano esperienza, la stessa sterminata estensione dell’Impero, che non consentiva la fuga in un luogo che non fosse compreso nei suoi confini, – tutto questo aveva reso la condizione della loro schiavitù «più misera di quella delle vittime della tirannia in qualsiasi altro tempo o paese».51 Non aveva, d’altro lato, mancato di sottolineare la parte che, nell’opera di distruzione dell’Impero, doveva essere assegnata, per un verso al cristianesimo, per un altro ai barbari. E qui si deve far attenzione, e tenere per fermo che, nella prospettiva di Gibbon, non fu il cristianesimo a determinare la decadenza dell’Impero, ma fu questa, fu la decadenza, che 50. Cfr., per questo, in particolare l’ampia monografia di G. Giarrizzo, Edward Gibbon, Napoli 1954. 51. E. Gibbon, Storia della decadenza e caduta dell’Impero romano, tr. it., I, Torino 1967, p. 79 (e cfr. pp. 80-81).
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aveva cominciato a manifestarsi nel suo complesso organismo, a far sì che il cristianesimo avesse alla fine partita vinta.52 La religione e la filosofia coltivata dai Romani di quell’età non avevano la forza necessaria a costituire un argine bastante a contenere i progressi della nuova religione. Ma era tuttavia soprattutto alla debolezza spirituale subentrata, per effetto della lunga pace, all’originaria fierezza, che egli attribuiva la lenta e sotterranea decadenza dell’Impero, che, se non appariva a chi guardasse dall’esterno e senza intelligenza, non poteva sfuggire a menti esercitate in più attente indagini. Poco alla volta, la statura degli uomini che abitavano l’Impero (fu questa la metafora alla quale ricorse), si abbassò al punto che era una «razza di pigmei» quella che soccombette ai fieri giganti venuti dal Nord, essendone vinta ma anche rinvigorita.53 Nelle forze vitali che avevano contribuito a rendere irreversibile il declino dell’Impero, egli indicò le protagoniste della storia che, lasciandosi alle spalle le sue rovine, andava oltre. Se dalle pagine di Gibbon si torna a quelle di Hegel, non è difficile constatare che la differenza riguardava non tanto gli elementi costitutivi della crisi (la decadenza dei costumi e della pubblica morale, l’esteriorità delle composizioni letterarie e filosofiche, l’insufficienza della religione tradizionale, incapace di sostenere il confronto con il cristianesimo, quest’ultimo, infine, con la sua energia espansiva e distruttiva delle vecchie strutture), ma il significato che essi assumevano nel quadro della storia emergente dalle pagine dell’uno e dell’altro, e che era, nell’uno e nell’altro, un’altra storia. Se si cerca di cogliere il Grundakkord della concezione che Hegel costruì della decadenza romana, questo si rivela con chiarezza quando si considera che, nella crisi e nella grande convulsione che a un certo punto travolsero la repubblica e resero manifesto che il tirannicidio messo in atto da Bruto e da Cassio aveva esso proprio contribuito a far emergere la irrimandabile necessità della soluzione monarchica da essi combattuta, – in questa decadenza l’elemento decisivo fu l’uscita dello spirito da sé stesso, il suo essersi per intero risolto nella esteriorità, nella totale consumazione di un centro intorno al quale la vita romana potesse organizzare sé stessa. Fu, se si vuole, l’estrema conseguenza a cui giunse nella realtà, il principio che la storia di Roma, e in particolare il suo Impero, rappresentavano nel quadro della storia del mondo. «Napoleone disse una volta a Goethe che al posto che nelle tragedie degli an52. Giarrizzo, Edward Gibbon, pp. 384-385; Mazza, Lotte sociali, pp. 28-30. 53. Ibidem, p. 59.
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tichi occupa il fato è subentrata, nelle tragedie del nostro tempo, la politica». Hegel riprese il concetto e scrisse che «l’opera dell’impero romano» era stata la politica, la «forza che ha posto in ceppi ogni individualità etica. Roma ha riunito, paralizzato, e spento nel suo Pantheon l’individualità di tutti gli Dei e di tutti i grandi spiriti: essa ha spezzato il cuore del mondo (es hat das Herz der Welt gebrochen)»: a tal punto che ai suoi occhi, la «differenza tra il principio romano e il principio persiano» stava in ciò, che il primo aveva soffocata «ogni vitalità, mentre il secondo l’aveva lasciata pienamente sussistere». La conseguenza era tratta, con la nettezza che è propria del discorso hegeliano, nei suoi due aspetti contrastanti, e l’uno, tuttavia, necessario all’altro. «Dal fatto che è fine dello stato che gli individui, nella loro vita etica, vengano sacrificati ad esso, il mondo è immerso nel cordoglio (ist die Welt in Trauer versenkt): la sua naturalezza ha ceduto il luogo all’infelicità».54 Ma, per un altro verso, «solo da questa infelicità poteva evolversi lo spirito libero». Nella visione di Hegel, Roma rappresentò infatti il superamento del mondo greco, della sua bellezza, della sua etica spontanea, che non avevano ancora raggiunta «la profondità dello spirito», giacché questo «doveva prima evolversi a quella forma di universalità astratta, che ha esercitato una dura disciplina sugli uomini». «Il rientrare in sé dello spirito» era «allo stesso tempo il sorgere dell’antitesi». Alla universalità astratta, in cui l’individuo si perdeva corrispondeva il permesso che lo Stato gli accordava di essere libero, ma solo di per sé. Per questo, quello romano fu essenzialmente il mondo del diritto, nel quale, da una parte si davano, nella loro astrattezza, lo stato, la politica e l’autorità al di sopra dell’individualità concreta», da un’altra quest’ultima, che anch’essa era astratta, e concreta infatti non poteva essere perché non era che un termine dell’antitesi. Ne conseguiva, per Hegel, che nel mondo romano non si aveva «a che fare con una vita concretamente spirituale, ricca in sé: in questa universalità l’elemento concreto» era «solo il prosaico dominio pratico», sicché qui non era dato trovare «la vita libera, il gusto della teoria, ma solo una vita smorta (ein undelebendiges Leben), che si mantiene sul terreno della pratica».55 In queste premesse, si raccoglie l’essenza dell’interpretazione che, nelle pagine successive, Hegel delineò della decadenza romana; che era un evento 54. G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. di G. Calogero e C. Fatta, III, Firenze 1963, p. 161. E cfr., per il testo tedesco, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, hrsg. von G. Lasson, II, Leipzig 1923, p. 661. 55. Ibidem, p. 163 (= p. 662).
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altrettanto inevitabile, posta la premessa dell’esteriorità, del dominio, della riduzione dell’universo umano alla sola dimensione della politica, del dominio e del diritto, dell’avvento del cristianesimo che, anche nelle sue pagine, fu considerato «come principio di decadenza dello stato romano». Nella loro coerente sudditanza al principio filosofico che le governa dall’interno, sono pagine notevoli quelle che Hegel dedicò all’Impero romano; e potrebbe anche darsi che, rileggendole o, piuttosto, leggendole, a uno storico fosse dato di trarne spunti per una migliore comprensione di punti e aspetti importanti della crisi tardoimperiale. Non è detto infatti che, necessariamente, lo storicismo degli storici debba prevalere sul senso storico dei filosofi che sanno di storia; e che la concretezza si dica in un solo modo. Certo è che, nelle pagine di Hegel, si trova essenzializzato, e volto al filosofico, un fondamentale principio della storiografia di ispirazione repubblicana: quello secondo cui, nell’atto in cui salvava la repubblica risolvendola nella sua forma, l’Impero la configurava in quella della decadenza, perché non altro che decadenza era stato l’Impero, una decadenza durata secoli. Il che, oltre al resto, rendeva palese e comprensibile la differenza che, nei confronti, per esempio, di Gibbon, si determinò nell’interpretazione del cristianesimo, che dal primo era stato indicato come la conseguenza, piuttosto che la causa, della crisi che si era manifestata nella compagine imperiale e ne aveva determinata la fine, e dall’altro, invece, come esso stesso la conseguenza, non del declino, ma dell’essenza stessa della romanità e di ciò che di necessità doveva scaturirne quando fosse pervenuta al fondo di sé stessa. Ne derivava, se dal paragone, e dalla differenza che ne emerge, si provi a trarre il significato che nasconde in sé, un’idea della decadenza che, presente nelle Vorlesungen hegeliane, non aveva riscontro in nessuna di quelle che in passato erano state proposte. La decadenza non era infatti, in questa concezione, che la modalità emergente da un determinato momento del processo obiettivo dello spirito; che era necessario, infatti, e produceva esso quel che, pur prendendo il nome di decadenza, perdeva tuttavia quel tanto (molto o poco che fosse) di estrinseco che lo segnava presso gli storici che ne avevano trattato per rivelare, appunto, questa sua essenziale necessità. È un punto importante, questo; e si dovrebbe conferirgli più rilievo di quello che qui sia possibile concedergli. Basterà tuttavia che, in questa sede, di nuovo emerga il tratto peculiare che la concezione hegeliana rivelava nel nesso che, nell’intrinseco, e nella sua filosofica modernità, stabiliva con le filosofie della storia antiche e soprattutto, come si è detto, cristiane. La frase con la quale Hegel dette inizio alla trattazione specifica
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dell’Impero e della sua decadenza, e nella quale pose gli «elementi dello spirito romano», è al riguardo significativa: «con Roma la storia del mondo ha proceduto verso occidente: essa è rimasta però ancora al di là delle Alpi, e solo più tardi ha avanzato verso nord (Die Weltgeschichte ist mit Rom gegen Abend vorgerückt, sie bleibt aber noch jenseits der Alpen und geht erst später nordwärts)».56 Questa frase interessa non solo perché, mentre per un verso anticipa, per un altro riassume, il senso di una storia che, attraverso, il cristianesimo e la crisi che esso rivelò nell’Impero, conduceva al di là, verso il mondo germanico. Interessa perché con chiarezza mostra che, in Hegel, era la storia che, dal suo principio interno, per intima necessità, determinava i suoi eventi e momenti, non erano questi che, accadendo, determinavano il suo corso e ne stabilivano il senso. Quando, nel canto di Giustiniano, sesto del Paradiso, descrisse il volo che, «contr’al corso del ciel», l’aquila imperiale aveva compiuto per andare da Roma a Costantinopoli, nel suo viaggio Dante riconobbe il segno indelebile della provvidenza: quel volo era, per sua qualità intrinseca, non diverso, ma identico a quello che, procedendo in senso inverso, dalle coste troiane aveva condotto Enea ai lavina litora. Che l’aquila hegeliana potesse invertire il senso del suo volo era invece impossibile. La meta dello spirito, e del suo aspro cammino, era infatti collocata in un luogo e in un tempo dai quali era impossibile che si deviasse. Nella grande differenza che aveva introdotto nel pensiero occidentale, il principio era tuttavia ancora quello per cui i momenti della storia erano interni a questa e non sarebbero apparsi prima che il loro momento fosse giunto. Era altresì quello per cui, in una concezione rigorosamente provvidenzialistica della storia, la decadenza esisteva senza tuttavia esistere sul serio, si affermava nel tempo senza poter spezzare, e anzi confermando, la linea che, appunto, proseguiva sé stessa nella direzione della meta. Acutamente è stato detto che, mentre il pensiero classico, «che esaltava il passato e fremeva all’idea di decadenza», non avrebbe capito Orosio, nemmeno Hegel, o Ranke, avrebbe mai capito.57 Occorre però aggiungere che, se non Ranke, Hegel avrebbe di certo capito Orosio quando, ripensando sé stesso, fosse giunto a convincersi che, considerati in quanto tali, i momenti di decadenza non erano che estrinseca accidentalità, che una più matura riflessione avrebbe saputo ricondurre al loro significato nella storia del tutto. 56. Ibidem, p. 165 (= p. 664). 57. Mazzarino, La fine del mondo antico, p. 63.
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Nella filosofia hegeliana della storia, la questione del perché le cose prendessero a un certo punto la via della decadenza che conduce alla morte era risolta nel momento stesso in cui si avvertiva che era lo Spirito del mondo che, per le necessità interne al suo proprio svolgimento, la produceva, e non metteva fine a qualcosa se non per ricavarne quel che era ormai giunto a maturazione nella forma che, per sé stessa e in quanto tale, aveva invece toccato il traguardo della sua propria interna consumazione. La risposta era dunque nello Spirito del Mondo, nel Weltgeist, nella necessità senza eccezioni della sua interna dialettica; e, chi avesse voluto saperne di più, a quella avrebbe dovuto rivolgere lo sguardo, seguendo il filo che, nella Fenomenologia dello spirito e nella Scienza della logica, conduce dalla certezza sensibile al sapere assoluto e dall’essere indeterminato all’Idea. Lì, e soltanto lì, avrebbe trovato la chiave atta a farlo penetrare nella questione del cristianesimo e del contributo da esso recato alla fine del mondo antico. Lì, e soltanto lì, avrebbe avuto la possibilità di capire perché, stabilendo un nesso che anche in Voltaire, in Montesquieu e in Gibbon era stato presentato come interpretativo del «declino e della decadenza», Hegel lo avesse tuttavia prospettato, non come una causa, ma, al contrario, come un’intrinseca modalità dello svolgimento storico in un suo determinato momento. Non era un’impresa facile quella a cui uno storico si sarebbe votato se il suo scopo fosse stato di spiegare a sé stesso in che senso Hegel avesse parlato di decadenza nel momento in cui, per un altro verso, aveva escluso che potesse parlarsene. E questo spiega perché chi pure fosse giunto in vista di questa domanda preferisse aggirarla piuttosto che affrontarla, passandovi attraverso; spiega altresì perché, in questo punto meno ancora che in altri, quale si atteggiò fra la seconda metà del diciannovesimo secolo e il successivo la storiografia europea non si cimentasse, e non avvertisse la necessità di cimentarsi, con il pensiero di Hegel. Ma nemmeno, deve aggiungersi, con quello di Nietzsche. La ragione del mancato incontro può, se ci si pensa, sorprendere. Nessuno infatti quanto Nietzsche si impegnò, nell’ultimo tratto del diciannovesimo secolo, nell’analisi della decadenza, anzi della décadence, come da un certo momento in poi ebbe a scrivere; della decadenza che ritrovò in tutte le forme della vita tedesca, e non solo in questa, ma in tutta la modernità e in coloro stessi, forse, che, al pari di lui, ne indicavano i pericoli («come si può perdere il proprio gusto a causa di questo décadent, se non si è per caso musicisti, se non si è per caso noi stessi dei décadents?», scrisse nel
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§ 8 de Il caso Wagner).58 «Questo décadent» era infatti lui, era Wagner, il grande commediante, il Cagliostro della musica, come l’aveva definito nella Genealogia della morale, il musicista che era stato tutto per lui e dal quale si era sentito tradito, quando lo aveva visto genuflettersi dinanzi alla Croce e aveva ascoltato il Parsifal, l’artista che, obbedendo alla logica della sua natura corrotta, si era consegnato a Cristo e al cristianesimo, si era rivelato come un maestro della compassione, che è, scriveva ne L’Anticristo, «la praxis del nichilismo» e ciò, dunque, che più è degno di negazione.59 Ossessione wagneriana a parte (ma décadent in grande stile era per lui anche Baudelaire, che con quel termine era stato definito da Paul Bourget),60 si può tuttavia capire perché, se mai posarono lo sguardo su queste o su altre pagine consimili, gli indagatori della decadenza, che del cristianesimo avevano per lo più un tutt’altro concetto, non dovessero ospitare nelle loro pagine quelle in cui Nietzsche ne aveva definito il concetto. In realtà, fu proprio il nesso che anche lui, Nietzsche, aveva stabilito fra il cristianesimo e la decadenza a mettere fuori sintonia con le sue pagine gli storici che intorno a quel nesso, a proposito dell’Impero romano, non avevano mai smesso di riflettere. Per questi ultimi, il cristianesimo era entrato nella compagine imperiale come una potenza rivoluzionaria e dissolvitrice che, esercitandosi su quel gran corpo, aveva preparato il suo trascendimento nella direzione, non soltanto della civitas dei, ma anche della civitas hominum. Era una potenza rivoluzionaria, fondatrice di una nuova civiltà. In modo più o meno elaborato, questa idea divenne per molti un luogo comune, anzi un dogma, che non si poteva discutere e del quale dubitare sarebbe stato sacrilego nei confronti, non solo della fede, ma anche della scienza. Per Nietzsche, tuttavia, proprio il contrario era vero. Il cristianesimo era per lui, non il costruttore di una nuova civiltà, ma il distruttore dell’antica, ossia dell’unica che avesse i titoli per esser considerata tale. È ben comprensibile che una cultura profondamente permeata di cristianesimo, e convinta del suo significato progressivo, dovesse mettere al margine queste sue riflessioni, e, malgrado la fama del loro autore, oscurarle e dimenticarle. La questione del cristianesimo non è argomento che, nella sua opera, possa essere affrontato con disinvoltura e esaurito in una formula. Ma una 58. F. Nietzsche, Opere, VI, 3, a cura di G. Colli e M. Montinari, Milano 1970, pp. 24-25. 59. Ibidem, p. 172. 60. F. Calasso, La folie Baudelaire, Milano 2010, pp. 333-335.
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cosa è certa. Se, inclini per lo più a considerarlo come una potenza che, nell’atto in cui dissolveva, ricostruiva, gli storici non si mostrarono disposti a discutere le sue tesi dissacranti, Nietzsche li ripagò, nei fatti, con la stessa moneta. Poiché nel cristianesimo vedeva la decadenza stessa, nelle sue peggiori e più deplorevoli manifestazioni, era impossibile che si disponesse ad ascoltare i loro discorsi. Si sa che con la storia e con gli storici i suoi rapporti erano sempre stati difficili. La storia era per lui elusione dei veri problemi della vita. E gli storici erano i suoi sacerdoti: basta aver letto la seconda Inattuale per misurare la profondità del dissenso da lui stabilito con chi nella coltivazione del passato, ossia nell’accumulo di morta erudizione e di estrinseche conoscenze, aveva rivelato il sintomo di una vita indebolita. Quando, tuttavia, scriveva quel saggio, non solo Nietzsche aveva mostrato di essere lettore degli storici, ma della decadenza di Roma nell’età dell’Impero aveva, in un rapido accenno, dato un’interpretazione tutt’affatto diversa da quella che avrebbe delineata, più tardi, nel suo ultimo periodo. «L’uomo moderno», aveva scritto, «soffre di una personalità indebolita»; e richiamava l’esempio del «Romano dell’epoca imperiale», che aveva abbandonato «la sua romanità rispetto al mondo che era a lui soggetto», perdendo così sé stesso «sotto l’irrompere delle cose straniere» e, mentre si degradava «in mezzo al cosmopolitico carnevale di dèi, costumi ed arti», era diventato lo «spettatore gaudente e peregrinante» di uno spettacolo immobile, in cui il futuro non riusciva a districarsi dalla presa del passato.61 Di quel «cosmopolitico carnevale» anche il dio cristiano, certo, era entrato a far parte nell’atto in cui, per un altro verso, si proponeva, ed era adorato, come l’unico dio. Ma Nietzsche non gli concedeva tuttavia l’onore di una citazione specifica: senza dire che, nella seconda Inattuale, il cristianesimo era identificato, non tanto con la decadenza, quanto piuttosto con lo schema storiografico in cui si traduceva l’idea della fine del mondo che esso aveva trasmesso al Medioevo con la congiunta e conseguente ossessione che si era determinata nell’umanità. La decadenza non era perciò, in quel testo, un fatto obiettivo e constatabile. Se al genere umano e alla sua storia si fosse guardato con meno angusta disposizione di spirito, si sarebbe infatti capito che esso era «una cosa tenace e perseverante», che richiedeva di essere misurata «in base», non ai millenni, quanto piuttosto «alle centinaia di migliaia di anni»: sì che la sua era meno una realtà che non 61. Nietzsche, Opere, III, 1, 295.
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l’ombra funesta che quell’idea della fine aveva fatto cadere sul mondo,62 era la «considerazione aspra e melanconicamente seria della mancanza di valore di tutto ciò che accade, del fatto che il mondo» era «maturo per la sua condanna» e che conveniva «conoscere tutto l’accaduto, perché» era «troppo tardi per fare qualcosa di meglio».63 Che qui non tutto si lasciasse disporre nel segno della coerenza, è evidente. Per un verso, la vitalità che era nel genere umano resisteva all’assalto della decadenza indotta nel mondo dalla concezione cristiana della vita. Ma per un altro, questa era tuttavia un’energia negativa che tanto poco si era riuscita a contrastare che quel vitalissimo genere umano languiva sotto il peso del pregiudizio religioso, e doveva essere violentemente richiamato a sé stesso. Ancora. Per un verso il cristianesimo era tanto poco, in sé stesso, decadenza che, al contrario, nella sua stessa disposizione fondamentale, stimolava «le forze più profonde e nobili». Ma per un altro «condannava i vivi a vivere nel quinto atto della tragedia», e li persuadeva alla morte. Che, comunque, già qui si stesse delineando la tendenza a considerare il cristianesimo nei suoi aspetti più negativi per la vita e per le sue esigenze, è evidente. Ma la condanna definitiva non era stata ancora pronunziata, le pagine in cui nell’Anticristo, avrebbe dissertato di cristianesimo e Impero romano, Nietzsche non le aveva ancora scritte. E fino a che quel traguardo non fosse stato toccato, il suo pensiero sulla fine dell’Impero romano non si poneva in contrasto con quello degli storici. Il contrasto divenne nell’Anticristo tanto più insanabile (donde, come si è detto, il silenzio mantenuto per lo più sul suo nome) in quanto le sue non erano considerazioni che potessero essere separate dal contesto in cui erano inserite, e tenute a parte dalla visione del mondo che presupponevano nell’atto in cui contribuivano a definirla. In effetti, accettare la tesi di Nietzsche su cristianesimo e Impero romano avrebbe significato, per uno storico, condividere, non una tesi storiografica, ma una filosofia. «Il cristianesimo», si legge ne L’Anticristo, «è chiamato la religione della compassione. La compassione sta in contrasto con gli affetti tonici che elevano l’energia del sentimento vitale: essa agisce in senso depressivo. Si perde forza quando si ha compassione». E ancora: «la compassione intralcia in blocco la legge dello sviluppo che è la legge della selezione. Essa conserva ciò che è maturo per il tramonto, op62. Ibidem, p. 322. 63. Ibidem, p. 323.
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pone resistenza a favore dei diseredati e dei condannati della vita». A torto la si è definita una virtù, e se ne è sottovalutato il potere distruttivo. Ed ecco in che modo, forte di questi concetti, Nietzsche interpretò il peso mortale che, a suo parere, il cristianesimo aveva imposto all’Impero romano. Ciò che esisteva aere perennius, l’imperium romanum, la più grandiosa forma d’organizzazione – in mezzo a difficili condizioni – che sia mai stata raggiunta fino a oggi, a confronto con la quale tutto quanto la precedette, tutto quanto le venne dopo è frammento, abborracciatura, dilettantismo, – quei santi anarchici si sono fatti un “pio dovere” di distruggerla, di distruggere “il mondo”, cioè l’imperium romanum, finché non ne restò pietra su pietra – finché gli stessi Germani e altra gente rozza non poterono diventarne padroni.64
Aggiungeva, quasi quel che aveva detto non fosse bastato a rendere chiaro il suo concetto, che il cristiano e l’anarchico erano essi i décadents, incapaci entrambi «di alcun’altra azione che» non fosse «dissolvere, avvelenare, guastare, succhiare il sangue, entrambi espressioni istintive dell’odio mortale contro tutto ciò che esiste, che è grande, che ha durata, che promette avvenire alla vita». Il cristianesimo fu perciò «il vampiro dell’imperium romanum – nello spazio di una notte ha ridotto in nulla l’enorme impresa, perseguita dai Romani, di conquistare il terreno per una grande civiltà, che ha del tempo dinanzi a sé».65 L’imperium romanum che noi conosciamo, che la storia della provincia romana ci insegna a conoscere sempre meglio, questa del tutto ammirabile opera d’arte in grande stile, era un principio, la sua costruzione era calcolata per dare prova di sé con millenni – fino a oggi non si è mai neppure soltanto sognato di costruire in uguale misura sub specie aeterni. Questa costruzione era abbastanza salda per sopportare cattivi imperatori: le contingenze delle persone non hanno niente a che fare in queste cose – primo principio questo di ogni grande architettura. Ma essa non fu abbastanza salda per la più corrotta specie di corruzione, per il cristiano.66
Parole forti, di cui converrà, non già sottolineare l’intento provocatorio e scendere perciò sul terreno della controversia, ma cogliere il significato estensivo. Al di là della morte a cui aveva condotto la grandiosa costruzione imperiale, il cristianesimo aveva infatti inciso il segno della 64. Nietzsche, Opere, VI, 3, 252. 65. Ibidem. 66. Ibidem, pp. 252-253.
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negatività sull’intera civiltà occidentale, che per intero ne era stata coinvolta e ne partecipava. Decadenza e cristianesimo erano lo stesso. Certo, anche a questo riguardo, si sarebbe potuto far valere la considerazione che fu incontrata nella seconda Inattuale; e dire che la decadenza dell’Occidente non significava la fine del mondo. La sua restava tuttavia l’intuizione che, con altro linguaggio, e andando molto al di là dei limiti storici entro i quali egli aveva, in queste pagine, mantenuta la sua diagnosi, Heidegger avrebbe utilizzata nella sua interpretazione del nichilismo. L’affermazione che nessuno, sullo scorcio del diciannovesimo secolo, s’impegnò più di Nietzsche nell’analisi della decadenza va mantenuta. Ma con una riserva, e non senza aver proposto un’eccezione. Pochi anni prima che l’autore dello Zaratustra desse espressioni ai suoi pensieri sulla decadenza, che anche a lui apparteneva, salvo che (diceva), a differenza di Wagner, egli aveva riconosciuto di esserne affètto, l’aveva diagnosticata in sé stesso e se n’era difeso,67 una diversa, ma non meno intensa riflessione era stata condotta, sull’argomento, da Francesco De Sanctis. Diversa, ma non senza qualche obiettivo punto di contatto, se si pensa alla storia che, per Nietzsche, era un danno per l’azione, e alla scienza che, per De Sanctis, non giovava alla vita perché sorgeva dal suo esaurimento. Scritta alla fine degli anni sessanta, la Storia della letteratura italiana riuscì, dal principio alla fine, una riflessione, ora indiretta ora diretta, su quel tema. La tesi che la dominava e, da un capo all’altro la percorreva, fu l’impossibilità che, a partire dal Petrarca, si rintracciasse, nelle coscienze e nelle cose, l’unità che De Sanctis aveva ritenuto di aver trovato nell’eta comunale, e comunque nella vigorosa coscienza politica di Dante. Sempre più nettamente, con l’eccezione rappresentata da Machiavelli, che la confermava, a partire dal Rinascimento e da quelle che, dai francesi che le iniziarono nel 1494, furono definite le «guerres d’Italie», la regola fu, non l’unità della politica e della cultura, ma il loro permanente dualismo; o, meglio, fu la scomparsa del secondo termine con l’egemonia ottenuta dal primo che, non avendo in sé niente di serio che lo alimentasse e lo tenesse vivo, degenerò in estrinseca letteratura. A venir meno fu la serietà: quali che fossero, di volta in vol67. Ibidem, p. 5. «Io sono, tanto quanto Wagner, il figlio di questo tempo, voglio dire un décadent: solo che io ho compreso ciò, mi sono difeso contro di ciò. Il filosofo, dentro di me, si è difeso da tutto questo». Bizet, come si sa, gli aveva offerto un’alternativa, e lo aveva «reso fecondo».
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ta, sia i temi che le si opposero, sia i tentativi che, da Alfieri in poi, furono compiuti per rimetterla sul trono. È una linea, quella che De Sanctis tracciò in questo libro, che, per la complessità dei quadri a cui dette luogo, richiederebbe un’analisi puntuale e una puntuale discussione: anche perché, non essendo l’unico tema che vi appaia, non sempre, nel suo intrecciarsi e coesistere con gli altri che vi hanno campo, è generatore di coerenza. Ma che quello della decadenza fosse un tema comunque dominante, è innegabile. E che con tanta energia e passione fosse dibattuto in un libro che vedeva la luce nei giorni in cui, con la caduta di Roma e del potere temporale, l’unità dell’Italia toccava il suo traguardo, non è una circostanza sulla quale, in un’altra sede, potrebbe sorvolarsi. La Storia della letteratura italiana vide la luce nel 1871. Il 16 novembre 1872 De Sanctis inaugurò, nell’Università di Napoli, l’anno accademico. Ragionò su La scienza e la vita, un tema che, anche in Italia, era vivo e dibattuto.68 Nel ragionarvi concesse alla scienza il più schietto dei riconoscimenti. Ma si rifiutò di riconoscervi l’energia atta a rigenerare le società decadenti e decadute. Nel tempo in cui scriveva, essendosi da un paio d’anni compiuta, con la conquista di Roma l’unità dell’Italia, la scienza era stata messa come su un trono. «Giunta è», scriveva, «al sommo del suo potere, ed ha i suoi cortigiani e i suoi idolatri, che promettono in suo nome non solo maraviglie, ma miracoli. È lei che rigenera i popoli e che li fa grandi, sento dire». Ma De Sanctis non credeva ai miracoli, e non si adattava a fare panegirici. Alla scienza intendeva dire la verità, «come si dee fare co’ potenti»; voleva «misurare la sua forza, interrogarla: – cosa puoi fare? Conoscere è veramente potere? La scienza è dessa la vita, tutta la vita? Può arrestare il corso della corruzione e della dissoluzione, rinnovare il sangue, rifare la tempra. Sento dire: – le nazioni risorgono per la scienza. – Può la scienza fare questo miracolo?».69 La risposta era intonata a pessimismo. Già, se guardiamo alle antiche istorie, non pare. La scienza greca non poté indugiare la dissoluzione del popolo greco, né sanare la corruttela del mondo latino. Il rinascimento intellettuale in Italia fu insieme il principio della sua decadenza. Maggiore era la coltura, e più vergognosa era la caduta. 68. Cfr. F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Bari 1962, pp. 210-83. 69. F. De Sanctis, La scienza e la vita, in L’arte, la scienza e la vita, a cura di M.T. Lanza, Torino 1972, p. 317.
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Ma De Sanctis andava oltre. Combinando insieme, in una sintesi inconclusa, quel che gli proveniva da Hegel con quel che aveva appreso da Vico, delineò una teoria pessimistica che, fra quei due termini, stabiliva un rapporto diseguale: alla scienza fiorente corrispondeva infatti una vita illanguidita e spenta, mentre, dove questa vigoreggiava, lì la scienza stentava a entrare in possesso di sé stessa. Alla domanda che, in modo ora esplicito ora implicito, non può non incontrarsi nel pensiero di chi, ragionando intorno alla decadenza, chiede il perché del prodursi suo, e del suo contrario, a questa, che è una duplice domanda, De Sanctis, per altro, non dava risposta. Alla domanda relativa alla decadenza della vita la risposta doveva infatti essere indicata nel vigoreggiare della scienza, così come, quella relativa alla decadenza della scienza, nel vigoreggiare della vita. Ma queste non erano risposte; erano il ribadimento del fatto in cui quella scissione, o non concordanza, si rendeva evidente. Si può esser certi che, essendone cosciente, De Sanctis facesse il possibile per pervenire al fondo di una questione che stava sperimentando come insondabile: donde il tono concitato dello stile, l’aggressività, se così può dirsi, manifestata nei confronti del tema, e l’affanno argomentativo, che resero perplesso Bertrando Spaventa e lo inclinarono a un negativo giudizio;70 che non merita tuttavia di essere condiviso, perché concitazione, aggressività, affanno erano da mettere sul conto, non tanto di una teoria che suonava deludente a quello stesso che la delineava, ma della conseguenza politica a cui metteva capo, e che era venata di amarezza. Erano almeno tre secoli che l’Italia era in decadenza; e il dubbio era se scienza e vita fossero forti abbastanza da far sì che l’esperienza del Risorgimento fosse in grado di dare i suoi ulteriori frutti o se questi non fossero destinati a inaridirsi e a morire. Si può, a questo punto, riprendere il discorso sulla concezione di Hegel e degli hegeliani: non senza tuttavia aver osservato che, paragonata a quella di Nietzsche, per il quale in sostanza l’Impero fu come «assassinato» dal cristianesimo e dalla sua irresistibile pulsione di morte, la sua presenta qualche maggiore affinità con quella di chi, come, per esempio, Montesquieu, aveva, nell’interpretazione della decadenza, insistito sulle ragioni interne. Rispetto ai modelli settecenteschi, in Hegel c’era, tuttavia, dell’altro, e di molto diver70. Cfr. la sua lettera a Camillo de Meis, 14 dicembre 1872, in Ricerche e documenti desanctisiani, IX, Napoli 1915, p. 15. S. Landucci, Cultura e ideologia in Francesco De Sanctis, Milano 1964, p. 359.
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so L’idea che i conflitti e le tragedie della storia si superano, come che sia, in un «risultato calmo», andava ben oltre la duplice alternativa dell’assassinio e della malattia interna. Indicava una tutt’altra direzione intellettuale; e costituiva infatti il banco di prova di ogni filosofia che, nei tempi moderni, avesse avuta la sua radice in quella hegeliana: anche del marxismo. La crisi di quell’idea avrebbe infatti significato che quella radice era stata estirpata e non era più la sua. Quando, negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale, Croce scrisse i saggi che andarono a costituire la prima parte del quarto volume della Filosofia dello Spirito, la sua cura principale fu bensì di ribadire, in un più maturo contesto concettuale, l’avversione che fin da giovane aveva nutrita nei confronti della finalistica filosofia della storia, ma il concetto della «positività» di ciò che accade fu affermato con la massima energia e convinzione.71 «Un fatto che sembri meramente cattivo», aveva scritto in quel libro, «un’epoca che sembri di mera decadenza, non può essere altro che un fatto non istorico, vale a dire non ancora storicamente elaborato, non penetrato dal pensiero, e rimasto preda del sentimento e dell’immaginazione». A questo concetto della positività della storia egli rimase fedele anche in seguito, sempre ripetendo quel che già qui aveva affermato con chiarezza, e cioè che «la fenomenologia del male e del bene, del peccare e del riparare, del decadere e del risorgere» non nasce e non si svolge «se non nella coscienza dell’operare, nell’atto che si travaglia a produrre una nuova forma di vita».72 Lì l’altrimenti impensabile idea della decadenza assumeva il suo volto con quello del suo contrario. Convinto che la distinzione del momento teoretico da quello pratico, e di questo da quello, bastasse a dar conto di ciò che né dal primo momento né dal secondo, se fossero stati presi nel loro reciproco isolamento, sarebbe stato spiegato, Croce riteneva che quel punto problematico potesse esserlo in forza della distinzione/unità delle forme teoretiche e di quelle pratiche. Ma, prospettato così, il problema era tutt’altro che risolto. Alla «coscienza dell’operare» Croce attribuiva infatti la contrapposizione, senza distinzione/ unità, di reale e ideale, di essere e dover essere: non avvedendosi, in quel passaggio, che, intesa come categoria, la prassi era costitutiva, non già della contrapposizione senza distinzione/unità, ma dell’unità/distinzione, e che non la prasi nella sua concretezza, bensì soltanto l’intervento dell’intelletto astratto sul corpo vivo della realtà avrebbe potuto produrre le alternative del 71. B. Croce, Teoria e storia della storiografia, Bari 1945, pp. 71-80. 72. Ibidem, p. 75.
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bene e del male, del progresso e del regresso e simili. Insomma, per avere una prassi che, in luogo di implicazioni, avesse prodotto separazioni e contrapposizione, sarebbe stato necessario che la sinteticità della forma pratica fosse stata, pseudoconcettualmente, risolta nella forma di uno pseudogiudizio, qual è quello che, appunto, divide il reale e l’una all’altra contrappone le sue parti scisse. Che è proprio quello che non si potrebbe mai chiedere alla prassi quale Croce la concepiva: alla prassi presa nel suo profilo sintetico e, non contrapposta alla teoresi, ma da quella distinta e con quella unita. Fra le complicate difficoltà che si colgono al fondo della teorizzazione crociana degli peudoconcetti e degli pseudogiudizi non potrebbe mai esser contata quella per la quale la prassi, che con la teoresi costituisce l’unità/ distinzione dello spirito, fosse caratterizzata dal suo essere non sintesi, ma analisi di opposti. Non potrebbe perché, come sarebbe concepibile che l’ambito di ciò che è per eccellenza sintetico fosse, per una sua parte, costituito da ciò che di questo carattere non partecipa? E concepibile, in termini crociani infatti non era. Altro era la prassi nella sua concretezza, altro la prassi schematizzata nelle forme dello pseudoconcetto. Era perciò un passaggio estremamente problematico, destinato a un esito drammatico, questo in cui Croce era venuto a trovarsi. In una filosofia come la sua non era possibile assumere che, se la schematizzazione del reale era prassi, la prassi si risolvesse nella schematizzazione del reale. Occorreva decidere come potesse accadere che la prassi sintetica desse luogo a una prassi analitica, oppure che, essendo sintesi ed esercitandosi come tale, la prassi si risolvesse in analisi, e che nel vivo del suo essere attività e sintesi, fosse ospitata l’idea, per eccellenza pseudoconcettuale, della decadenza. Che era questione diversa da quella che Croce risolveva osservando che «valutazioni pratiche s’introdurranno sempre nei libri composti dagli storici», essendo d’altra parte ben chiaro che «la coscienza storica, in quanto tale, è coscienza logica e non già pratica».73 Si davano qui difficoltà che, riguardando i luoghi critici del sistema, non potevano essere risolte ricorrendo a uno di quelli che delle questioni, e delle difficoltà che le intessevano, facevano parte. Dinanzi alla tragedia della perduta libertà e del crollo delle sue istituzioni, e al rischio che la connessione categoriale delle forme, appunto, temporalizzasse sé stessa e, per dirla alla maniera hegeliana, l’intelletto tenesse prigioniera la ragione, quando, nel 1925, scrisse la Storia dell’età barocca in Italia, Croce tuttavia non esitò a prendere una posizione drastica. Sebbene fosse ben con73. Ibidem, p. 76.
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sapevole dei rischi strutturali a cui, con quel suo passo, andava incontro perché, parlando da storico, era in realtà come politico che si atteggiava, contro i «generici» (come li definì) «della filosofia»,74 si fermò a parlare della decadenza dell’Italia, e al tema dedicò un intero paragrafo dell’Introduzione. Il progresso era affidato alla virtù dei popoli che andavano avanti; la decadenza all’ignavia di quelli che restavano indietro e non avevano altra funzione che non fosse se non di fungere da «sgabello»75 a chi procedeva con consapevolezza nella direzione del futuro. C’era infatti chi restava indietro e lasciava che sul suo capo si depositasse la polvere della rassegnazione e dell’inerzia. Alla lacerazione temporale della sintesi, se ne aggiungeva un’altra, di carattere spaziale: in Italia le cose andavano in un modo, altrove diversamente. Non era una questione semplice quella che ne nasceva. Ma con i «generici della filosofia» niente poteva esserci in comune. Essi giudicavano come progresso quel che a lui appariva con, sul volto, il segno della decadenza e della regressione, verso morte età. I generici della filosofia erano, in quel caso, Gentile e i gentiliani, divenuti fascisti. La filosofia di Hegel non poté impedire che l’idea della decadenza rinascesse più che mai vigorosa, e con tratti assai diversi da quelli che egli le aveva sottesi, nelle pagine degli storici che la indagarono là dove con più forza si era manifestata: nella interpretazione della crisi che travagliò e infine travolse nella rovina l’Impero romano. È improbabile, e comunque non risulta, che, con le eccezioni italiane a cui si accennerà, quegli storici avessero, per loro conto, affrontato la lettura di testi ardui, e talvolta angosciosi, come la Fenomenologia dello spirito e la Filosofia del diritto; che avessero familiarità con le Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, e, insomma, con la filosofia hegeliana avessero tentato di instaurare, su quel tema cruciale, un confronto autentico, che a essa avessero proposto critiche e rivolto obiezioni. Erano, quale più quale meno, intrisi di positivismo, nel quale l’illuminismo del diciottesimo secolo aveva ricevuta 74. B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Bari 1946, p. 48. E cfr. anche Conversazioni critiche, V, Bari 1939, pp. 184-186, dove, facendo battere l’accento sull’impossibilità che il momento della decadenza fosse isolato in sé stesso, e sottratto perciò alla dialettica della realtà, Croce dava espressione al tema del reale che è al di là delle astrazioni del progresso e della decadenza; e diceva tuttavia della «scossa» ricevuta da chi si fosse, nel passato, lasciato vincere dalla «superficiale credenza che vi sia qualcosa di acquisito che non possa tornare in pericolo e, anche, andare smarrito» (p. 186). 75. Croce, Storia dell’età barocca, p. 48.
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una sorta di trasfigurazione scientifica. Non essendo mai giunti a dubitare che la decadenza dell’Impero fosse stata un «fatto» altrettanto reale che negativo, ne rimisero in auge il concetto nell’atto stesso in cui, se non nelle intenzioni, nei fatti, contribuivano al declino e all’abbandono della filosofia hegeliana, collaborando in quella forma alla determinazione di un evento che caratterizzò la seconda metà del secolo diciannovesimo e, per questo aspetto, anche una parte cospicua del ventesimo. Senza che questa fosse l’intenzione, attraverso, non il dubbio ma, si direbbe, la sua assenza, ripresentarono con semplicità e immediatezza il concetto e quindi il fatto della sua realtà; che, se era difficile da definire, e da assegnare a una «causa» che bastasse a spiegarlo, sarebbe stato impossibile tuttavia negare. Ai filosofi dell’idealismo posthegeliano (per esempio a Croce), e agli studiosi di storia che ne erano stati influenzati (a Momigliano, per esempio, e a Mazzarino), proposero in tal modo una questione seria che non poteva essere evitata. E che era pungente, infatti, e per costoro assai impegnativa, perché toccava un luogo critico del pensiero, al quale si erano ispirati. Riguardava, come si è detto, il tempo dell’intelletto, che separava, e della ragione che riunificava: due tempi che avrebbero dovuto intrecciarsi fino a coincidere nel segno della razionalità della storia, e che invece non coincidevano, restavano problematicamente distanti. Se dunque, per queste vie, spesso, per altro, soltanto indirette, gli storici influirono sui filosofi di origine hegeliana, con le eccezioni già viste non si dette dunque, salvo errore, il caso opposto di filosofi di quella tendenza che agissero sugli storici e rendessero problematica la loro idea della decadenza. Nemmeno le varie rinascite hegeliane che, nel segno del marxismo e dell’esistenzialismo, si determinarono nello scorso secolo, a partire, grosso modo, dai suoi anni trenta, ebbero, per quel che consti, effetti sugli storici, che, anche quando non si mostrarono ignari della lezione del grande pensatore di cui si riproponeva l’attualità, non ne tennero conto nell’interpretazione del passato che stava loro dinanzi, non la utilizzarono, non la misero a frutto nella loro prassi concreta, e, senza proporselo, mantennero viva la sfida che, nei fatti, lanciavano alle filosofie sintetiche. Non è il caso di delineare qui, in poco spazio, una vicenda così complessa com’è quella che riguarda l’interpretazione della crisi e della fine dell’Impero romano di Occidente e, in questo quadro, di riprospettare la questione della decadenza. Occorrerebbe ripensare nei suoi vari aspetti, e riscrivere da questo punto di vista, il saggio che Momigliano aveva com-
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posto nel 1936.76 Il che richiederebbe altra competenza, e altre capacità. Alcune, rapide considerazioni possono tuttavia essere proposte. Anche se la si faccia partire dalla morte di Hegel, e non si retroceda ai suoi incunaboli quattrocenteschi, cinquecenteschi, seicenteschi, settecenteschi, quello che concerne la decadenza è il capitolo di una storia complessa, che sarebbe, senza dubbio, semplificata se, per esempio, si dicesse che, come a prevalere sull’autore della Fenomenologia fu, nella seconda metà del secolo decimonono, la storiografia di ispirazione positivistica, così, negli anni immediatamente successivi alla conclusione del primo conflitto mondiale, ad attrarre l’attenzione fu Oswald Spengler che, come si sa, fece grande impressione su Eduard Meyer, e, a tacere di altri, non mancò di esercitare la sua influenza, nel secolo scorso, su Rostovzev e Mazzarino, non senza aver sollecitato la riflessione di Adorno.77 È certo in ogni caso che, se si esclude il penultimo che, essendosi formato a contatto con l’idealismo italiano, soprattutto nel suo esordio ne risentì gli effetti e anche in seguito ne fu indotto a molte e complesse problematizzazioni,78 da Otto Seek a Ernst Stein, da Rostovzev a Piganiol, da quelli, in altri termini, che non fecero in tempo a leggere il libro di Spengler agli altri che lo lessero, gli storici di quel periodo non ebbero nemmeno il sospetto che l’idea della decadenza potesse, da chi era posseduto da un diverso concetto della storia, essere criticata nella sua radice e nella sua stessa possibilità. Accettandola, si divisero bensì a seconda che la caduta dell’Impero romano fosse assegnata a cause interne, oppure, e fu il caso di Piganiol e in parte di Mazzarino, all’urto violento dei barbari, che assassinarono il suo corpo, ancora florido e fiorente di potenza politica e di cultura, ma sulla sua idea non indagarono se non in modo estrinseco, senza chiedersi all’interno di quale orizzonte categoriale, volendo prospettarla en philosophe, la decadenza richiedesse di essere pensata per non esser dichiarata concettualmente impensabile. Non c’è grande pensiero politico che non sorga sul fondamento di un’analisi storica. Ma altra la descrizione, anche la più profonda, altra la prescrizione di comportamenti che abbiano la loro radice in un sistema poli76. Lo si veda in A. Momigliano, Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1956, pp. 107-164. 77. Th.W. Adorno, Spengler dopo il tramonto (1950), in Prismi. Saggi sulla critica della cultura, tr. it., Torino 1972, pp. 39-63. 78. Si veda, al riguardo il mio saggio, Santo Mazzarino, la decadenza, il tempo, ora in questo volume, pp. 251-296.
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tico costruito sul fondamento di quella. Forte la connessione. Ma persistente sempre, inevitabilmente, il divario. Pochi pensatori politici, e forse nessuno, ebbero, come Machiavelli, altrettanto vivo il problema della decadenza delle repubbliche, come e perché si determinasse, come fosse possibile, se era possibile, fermarla e vincerla. Pochi, e forse nessuno, misero con altrettanta forza al centro della loro riflessione sulla storia d’Italia la questione dell’Impero romano d’Occidente e della sua caduta; pochi, e forse nessuno, avvertirono in modo altrettanto acuto e drammatico che in quell’evento fatale era stata travolta non soltanto l’unità, ma, in senso forte, la politica. Fino a pochi decenni fa, e ancora oggi del resto in molti ambienti, Machiavelli era, ed è, considerato come, essenzialmente, l’autore del Principe; che, certo, nessuno, mai, a meno che non fosse posseduto da bigotto moralismo, e in un’opera tragica non sapesse vedere se non un prontuario di massime delinquenziali o di notazioni empiriche tenute insieme da un debole filo, si sognerebbe di espungere dalla sua opera o di considerare come, in essa, soltanto marginale. Ma deve anche dirsi che, a parte la sfida costituita dal Principe, e dal significato che questo piccolo libro assunse nella storia del suo pensiero, e del pensiero, per quel che ora interessa Machiavelli è in primo luogo l’autore dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, e, in quanto tale, il primo, in Occidente, che, con profondità mai prima raggiunta, facesse derivare la sua riflessione politica dall’interpretazione della storia di Roma, in modo che il momento virtuoso delle repubbliche coincidesse con la costituzione e l’espansione di quella romana, e la sua crisi con la perdita della libertà nella risoluzione imperiale, che le cose stesse, per altro, avevano richiesta come inevitabile. In forza di questa intuizione Machiavelli fu, se così potesse dirsi, costretto, non solo a chiedersi quale fosse stata la ragione per la quale, dopo aver conquistato un così ampio dominio su terre e popoli, la repubblica romana non era stata in grado di evitare la sua propria risoluzione nella forma imperiale, ma anche perché, nel suo interno, si fossero determinate le condizioni per le quali, alla fine, la gigantesca mole dell’Impero fu travolta nella rovina. Come altrove fu detto, la Repubblica aveva reso necessario l’Impero. Ma, spegnendo la libertà, l’Impero aveva perduto la Repubblica.79 È un’idea, questa della repubblica schiacciata dal peso delle conquiste e dalla forma politica che queste alla fine richiesero, che, presente, come si è visto, in Livio come in Orazio e in altri, passò poi nelle Considérations di Montesquieu e in 79. Cfr. il mio Niccolò Machiavelli, I, Il pensiero politico, Bologna 1992, pp. 527 ss.
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quanti, dopo di lui, nel nesso fatale che si era stretto fra la grandezza e il peso dell’Impero e le sue istituzioni videro la ragione profonda del suo crollo. Questa idea è presente anche in Machiavelli; che a essa conferì tuttavia un particolare accento. Per spiegare la fine, egli partì dagli inizi dell’età repubblicana; per dar conto della rovina indicò le ragioni della grandezza. E le indicò nelle contese fra i patrizi e i plebei che, appunto, all’inizio della repubblica, avevano costituito la «cagione» che l’aveva fatta grande. Quelle nate dalla legge agraria e la «prolungazione degli imperi» furono invece fra le ragioni per le quali, poco alla volta, prima si determinò la crisi della repubblica e quindi la necessità dell’Impero che, spenta la libertà, aveva in sé la ragione della sua rovina. Le prime contese furono occasione che, per disciplinarle e renderle feconde, nascessero ordini e leggi nei quali, non solo i grandi si riconoscessero, ma anche il popolo, che ebbe infatti nel Tribunato della plebe il suo organo specifico. Le ultime furono l’espressione di una situazione sociale giunta al limite della sua possibilità di sopravvivere entro il quadro dell’antica costituzione, resasi estrinseca al contenuto nuovo che avrebbe dovuto ordinare e contenere, e inadeguata perciò a controllare le tensioni sociali e le passioni particolari che le determinavano. In altri termini, fu il rovesciarsi in negativo di quello che, nella fase dell’espansione, ne aveva determinata la grandezza, a far sì che la costituzione poco alla volta non corrispondesse più al contenuto sociale che ne era stato, all’inizio, imbrigliato e disciplinato. La conflittualità patrizio-plebea che all’inizio della Repubblica aveva condotto al tribunato della plebe e, con i consoli e il Senato, alla sua tripartizione nella forma della mikté, non poté più, a far tempo dall’età dei Gracchi, essere contenuta negli «ordini» ai quali aveva, nella prima fase, impresso il suo carattere dinamico. Le leggi si moltiplicarono via via che le esigenze espresse dal corpo sociale non riuscivano più a essere soddisfatte dall’ordinamento, reso rigido e parziale dalla sopravvenuta sua incapacità di rinnovarsi. Gli ordini, ossia il quadro istituzionale definito dalla costituzione, ne furono sconvolti. Avviatasi sulla via dell’Impero e infine divenuta Impero, la repubblica non fu più in grado di mantenere la sua virtù; il cui abbandono, a differenza di quel che era accaduto in Sallustio, in Livio, in Tacito, fu da Machiavelli interpretato in termini, non moralistici, come corruzione dei costumi, declino della disciplina, inclinazione alle ricchezze e al vizio, rifiuto della rigida disciplina civile e militare, ma politico-costituzionali, e intendendo perciò la loro crisi come la conseguenza dell’essersi, gli ordini, resi inadeguati al contenuto nuovo che urgeva, e non trovava espressione, dentro la loro forma.
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Nella superstite sezione costituzionale del frammentario sesto libro della sua Storia, Polibio aveva interpretato la crisi della costituzione romana, pur giudicata perfetta e inattaccabile dal negativo, come la conseguenza della tendenza che tutte le cose umane, e dunque anche le πολιτείαι, rivelavano a subire la legge del declino e della morte κατὰ φύσιν. La decadenza era perciò assegnata a una causa esterna al quadro costituzionale che di per sé, in quanto misto dei tre elementi, monarchico, aristocratico e popolare, era stato dichiarato idoneo, nel caso di Roma, a vincere ogni pericolo che si fosse delineato al suo interno. Era una soluzione banale. Nella sua perfezione la costituzione mista era in grado di venire a capo di ogni problema che si fosse formato nel suo interno Per sé stessa era inattaccabile da qualcosa che della sua perfezione potesse aver ragione. Perché la sua rovina risultasse spiegabile, occorreva che nel quadro intervenisse, dall’esterno, una potenza che ne rivelasse il limite e, con questo, la contraddizione dell’asserto relativo alla sua perfezione. Questa potenza fu indicata nella φύσις, che entrava perciò in un insanabile conflitto con la πολιτέια, anche con quella mista che pure era stata dichiarata idonea a superare ogni difficoltà. In Machiavelli, che fu il primo in Occidente a leggere e a utilizzare a fondo, in modo critico, i frammenti polibiani del sesto libro,80 le cose andarono diversamente. Non alla natura, e alla legge da essa imposta alle cose, era ricondotta la ragione della crisi e della decadenza delle perfette repubbliche, ma, come si è detto, al progressivo irrigidirsi degli ordini e al loro rendersi estranei al dinamico contenuto sociale che, facendosene per un verso modellare, quelli avevano, per un altro, ridotto alla loro forma e assunto sotto di essa. Messo di fronte alla questione della decadenza dell’Impero romano, che egli affrontò di scorcio nel primo libro delle Istorie fiorentine, Machiavelli la assegnò, per conseguenza, piuttosto a ragioni interne, a queste ragioni interne, che non all’assalto dei barbari. Ed ebbe in mente un quadro politico e sociale che lentamente, per ragioni umane e non naturali, soccombeva alla propria incapacità di esser pari al nuovo compito che le cose gli avevano, via via, imposto. Se si vuole un esempio di che cosa fosse, nella sua mente, e come ai suoi occhi si configurasse, una società giunta all’estremo del disordine politico e sociale determinato dalla crisi del quadro istituzionale, si può 80. Cfr. su questo punto il mio saggio Machiavelli e la teoria dell’anacyclosis, in Machiavelli e gli antichi, I, Milano-Napoli, 1987, pp. 3-65.
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andare al terzo libro delle Istorie e leggervi, nel tredicesimo capitolo, l’impressionante discorso che un anonimo ciompo tenne ai suoi compagni nel momento saliente della rivolta.81 Poiché disperata era la situazione di coloro che erano insorti contro i poteri cittadini per abbattere la potenza dei grandi, ma difficile era anche la condizione di costoro, che molto avevano da temere da quel «tumulto» e dalle sue possibili conseguenze, un capo della sommossa prese la parola per far vedere come, poiché la situazione era giunta all’estremo limite, a lui e alla sua parte convenisse, non attenuare la violenza, ma esasperarla, distruggendo e uccidendo, spogliando le case dei ricchi, allontanando con la violenza di oggi la possibilità di essere, nel giorno della sconfitta, sottoposti alla violenza che comunque, anche se meno decisa fosse stata la loro, per inevitabile reazione, li avrebbe colpiti. A parte la potenza della prosa, che di questa pagina fa una delle più alte che Machiavelli abbia mai composte, nella lucida consapevolezza di colui che lo scrisse il discorso del ciompo è tuttavia, non un programma politico per l’individuazione della crisi e per la sua risoluzione, ma un documento di essa: la testimonianza, se così potesse dirsi, dell’inadeguatezza politica che la società fiorentina di quegli anni rivelava attraverso l’esplosione incontrollata di quella cieca violenza. Il tumulto fallì. La violenza dei vincitori si abbatté implacabile su coloro che l’avevano guidato. Il discorso dell’anonimo ciompo aveva dato espressione alla crisi. Ma, drammaticamente, vi si era incluso, non aveva saputo elaborare strumenti idonei alla sua risoluzione. Di questo Machiavelli fu a pieno consapevole: nel modo in cui l’anonimo ciompo aveva disposti gli elementi della sua analisi era contenuta la ragione del suo fallimento politico. Malgrado il limite che, secondo il suo stesso autore, non aveva saputo oltrepassare, il discorso del ciompo piacque, tuttavia, a Marx,82 che fu evidentemente molto colpito dalla violenza rivoluzionaria di cui Machiavelli aveva, in modo così vivo e drammatico, delineato i caratteri in un’opera, le Istorie fiorentine che, giustamente, giudicava un capolavoro. Dal plauso tributato da Marx all’orazione dell’anonimo ciompo e al discorso che lo contiene, è lecito tuttavia trarre lo spunto per una considerazione più ampia, nella quale le riflessioni consegnate a questo saggio potranno trovare la loro conclusione. 81. Per l’analisi di questo discorso, cfr. il mio Niccolò Machiavelli, II, La storiografia, Bologna 1993, pp. 289 ss. 82. ������������������������������������ L’appunto di Marx si può leggere in Ex libris Karl Marx und Friedrich Engels Schicksal und Verzeichnis einer Bibliothek, Berlin 1967, p. 134.
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Nel 1897, com’è noto, Croce aveva definito Marx come «il Machiavelli del proletariato» e, ancora nel 1927, l’aveva giudicato assai superiore al Mazzini, che si soleva contrapporglisi. Aveva con ciò reso omaggio al suo schietto senso realistico della politica, riscuotendo per altro, su questo punto, la critica di Schumpeter che, nei pensieri dell’autore de Il capitale, vedeva il segno, non solo della realtà, ma, talvolta, del desiderio.83 Come che sia della realtà e del desiderio, e del loro problematico intreccio, resta che Machiavelli non potrebbe, se non in modo retorico, essere definito il Marx del sedicesimo secolo. Per una ragione sostanziale, che può essere addotta osservando il modo assai diverso in cui il concetto della crisi, e quindi della decadenza di un organismo politico e sociale, si era presentato in Marx e, prima di lui, nelle sue pagine. Comunque si voglia giudicare il concetto che ne delineò, e anche se, al di là di ogni altra considerazione, nella sua opera matura voglia vedersi la mano piuttosto dello scienziato sociale che non quella del filosofo della storia, Marx fu, e sempre restò, un pensatore dialettico, presso il quale il massimo della negatività realizzatasi in un organismo sociale, giunto perciò alla sua fine, costituiva la condizione di un rovesciamento positivo e risolutivo della contraddizione che vi si era formata. Alla fine del penultimo capitolo del primo libro de Il capitale aveva scritto, in un passo famoso, che il modo di appropriazione capitalistico che nasce dal modo di produzione capitalistico, e quindi la proprietà privata capitalistica, sono la prima negazione della proprietà privata individuale, fondata sul lavoro personale. Ma la produzione capitalistica genera essa stessa, con l’ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. È la negazione della negazione.84
«Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica», aveva annunziato qualche riga più in alto. «Gli espropriatori saranno espropriati».85 Nel momento più acuto della sofferenza, il dramma del Calvario era atteso, per riprendere l’immagine del suo maestro Hegel, dalla luce (mondana) della redenzione. Se si vuole ricorrere a una formula, Marx fu perciò, senza dubbio, un pensatore drammatico; ma non un pensatore tragico. A differenza di Machiavelli, che, poiché non credeva che le «contraddizioni» contenessero in sé il principio del loro superamento, e che, al di là delle crisi e delle cadute, la storia svolgesse il filo positivo del progresso, proprio questo fu: un pensatore 83. J.A. Schumpeter, Capitalismo socialismo democrazia, tr. it., Milano 1964, pp. 305-306. 84. K. Marx, Il capitale, tr. it., I, Roma 1964, p. 826. 85. Ibidem.
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tragico che, malgrado le forti speranze che di continuo gli si accendevano dentro, nel compiere le sue diagnosi politiche guardava con occhio implacabile la realtà quale era, e sulle possibilità che offriva non s’illudeva. Più che a Marx le sue pagine fanno perciò, se mai, pensare a Shakespeare. Il dramma politico era in realtà una tragedia, la cui logica poteva essere contenuta, ma non vinta. In una situazione politica che fosse giunta al limite delle sue interne contraddizioni, Machiavelli non vedeva la condizione di un rovesciamento che le cose stesse avrebbero indicato, come il loro compito, alle forze rivoluzionarie. La classe politica che tramontava non aveva eredi che fossero preparati a sostituirla. Tutto era stato consumato, gli ordini, le leggi, gli uomini. Poteva sperarsi soltanto nella presenza di un uomo, come egli disse, «particolare», che, in vista del bene comune da restaurare o rifondare, fosse capace di assumere su di sé, essendo «buono», il peso e la responsabilità del male. Chi desideri un riscontro testuale, legga Discorsi I 18 e III 1. Ma perché, quando la crisi investe ogni parte della vita politica e sociale, e la stessa cultura ne risente in modo profondo, – perché dovrebbe darsi l’eccezione degli uomini particolari che, in tempi di crisi, non ne partecipino e compiano il miracolo della redenzione? Rispondere a questa domanda è tanto più difficile in quanto è il modo stesso in cui è presentata a rendere ardua la risposta. La domanda, in realtà, conteneva in sé la risposta; ma poiché la connotava in termini di «miracolo», o, se si preferisce, di eccezione, la escludeva dall’ambito delle cose razionali, con le quali soltanto dovrebbe avere a che fare chi si fosse lasciato coinvolgere da e in questo tormentoso problema della decadenza e della sua soluzione; nell’affrontare il quale gli storici, che descrivono e qualche volta provano a spiegare, si distinguono tuttavia dai pensatori politici che, dopo aver descritto e spiegato, ma spiegato sul serio e a fondo, dovrebbero intervenire sulla prassi e indicare il modo del suo dominio. Dovrebbero cioè cimentarsi in un’impresa assai difficile, che si preferisce non definire disperata per via della sobrietà, il cui limite non si deve oltrepassare: in un’impresa che, nell’atto in cui li investe della più alta responsabilità storiografica, assegna a essi un compito al quale gli storici possono non far fronte. Di tutto questo la ragione è chiara. Al fondo di ogni pensiero politico, che a questa ambizione non abbia rinunziato e seguiti comunque, anche se dissimulandola, a coltivarla, agisce l’idea, non solo dell’ottimo Stato, ma dello Stato altresì perfetto, che resiste alle tempeste della storia, e le vince, risolvendo ogni disarmonia e dissonanza. Ma fra, da una parte, lo Stato perfetto, che sostiene e vince le sfide della storia e, da
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un’altra, la tragedia delle cose, è a questa che deve riconoscersi la maggior forza. Quando sono in difficoltà con il suo concetto, e non c’è causa che li appaghi, dopo aver tentato di far coincidere descrizione e spiegazione, gli storici ripiegano sulla prima e tentano di placare l’ansia del fallimento nella distaccata contemplazione della realtà. È un fatto, dopo tutto, che gli Stati e le civiltà decadono; ed è dei fatti che si fa storia. È un fatto, d’altra parte, che nelle epoche che si dicono di decadenza, non tutto decade, e qualcosa seguita a essere prodotto, se non nella politica, nelle arti: qualcosa che allude all’avvenire e rafforza negli storici la speranza che, comunque, il mondo non morrà. I politici e i pensatori politici non hanno, posto che sia tale, questa risorsa; e di consolazioni di quella qualità non potrebbero mai giovarsi. Si trovano infatti nell’impossibilità di evadere dalla politica; e dinanzi a loro sta il crudo paradosso consistente nella necessità che, poiché li spinge a cercare e a trovare fra le macerie lo strumento che le rimuova e tracci, per il futuro, una via che non conosca interruzioni, tanto più li condanna a scendere nel sottosuolo e a trovare la ragione della crisi. Essi sanno tuttavia che quando le macerie non lascino spazio al tentativo che si compia di riordinarle e di innalzare la nuova città, quando la decadenza abbia immesso il deserto nelle cose e nelle coscienze, l’ultima parola spetta alla virtù. La quale non è tuttavia se non una parola quando, e proprio a causa della sua lunga latitanza, e del vulnus che ha inferto a sé stessa, sia stata essa a produrre lo sfacelo al quale ora dovrebbe porre rimedio. Il paradosso, che è tale per gli storici come per i pensatori politici, il crudo paradosso, della decadenza è che, per spiegarla, ci si trova fra le mani, non il suo concetto, ma il suo fatto; e per spiegarla, non si può se non descriverla, per superarla si deve far appello alla virtù, ossia proprio a ciò che è decaduto e non esiste più. Non vorremo essere più pessimisti e tragici di Shakespeare. Nell’ultima scena dell’Amleto, con l’eccezione di uno che dovrà riferire l’accaduto, muoiono tutti. Ma a Fortebraccio che sopraggiunge, ed è ben vivo, il protagonista assegna il suo voto morente: «he has my dying voice». La storia, quindi, malgrado tutto, continuava. Ma se, come si dovrebbe supporre, Fortebraccio fosse stato non un individuo sopraggiunto a constatare la morte di tutti, bensì, piuttosto, il superstite di una classe politica morente, sarebbe stato allora il protagonista, ossia la vittima, della tragedia, non colui che la risolve. Se, andando al di là di qualche citazione latina e del ricordo di qualche nome illustre, qualcuno avesse sorpreso in questo saggio un’allusione ai
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nostri tempi, sia certo di aver avuto ragione. È così. Il discorso che precede può infatti essere letto come una modesta allegoria. Si sarebbe voluto intrecciarlo con un altro, relativo alla storia d’Italia, nel momento in cui il rischio di una lacerazione del suo fragile tessuto unitario è qualcosa più di un rischio, e richiama alla mente, non senza angoscia, l’intreccio, o piuttosto l’intrigo, dei molti, dei troppi, fili di cui, per mille anni, si è intessuta la sua più che problematica storia. Ma qui provvidenziale è stato che alla già di per sé debole fantasia sia mancata la «possa». Provvidenziale è stata l’ignoranza; che, sia pure nel modo estrinseco che è il suo, ha imposto un freno e un limite al pessimismo, o, quanto meno, alla sua espressione.
Indice dei nomi
Adorno, Th.W., 171, 263, 336 Agostino, Aurelio, 265 Albizzi, Rinaldo degli, 17 Alessandro I di Russia, 160 Aliberti, G., 23 Alighieri, Dante, v. Dante Anassimandro, 290, 297, 299 Angelini, P., 285 Antoni, C., 21, 61, 213, 214, 218, 242, 255 Arangio Ruiz, V., 280 Arendt, H., 171, 303, 304 Aron, R., 263 Athanasio, 265 Attisani, A., 30 Audsio, F., 73 Azzolini, L., 157 Balzac, H. de, 90 Barthes, R., 53, 78 Bassani, G., 169 Becatti, G., 30 Beda, 311 Beer, M., 17 Belardelli, G. 200 Belli, G.G., 179 Beloch, J., 280 Bergson, H., 280 Bernheim, E., 64 Bertelli, S., 223 Biondo Flavio, 213 Bizet, G., 329
Bobbio, N., 145 Borgese, G.A., 23 Bosco, U., 202 Botti, Carol (Carlo Dionisotti), 16, 17 Brockdorff-Rantzau, U. von, 249 Brunello, B., 206 Bulltmann, R., 282 Burckhrdt, J., 169, 182, 268, 273 Cabiati, A., 169 Caggese, R., 43 Calamandrei, P., 18, 40, 47, 48, 49, 115, 197, 198, 199 Calasso, R., 324 Calogero, G., 30, 75, 77, 117, 197, 203-207, 208, 243, 244, 255 Calvino, G., 211 Cantimori, D., 7, 9, 23, 27, 115, 116, 136, 162, 208-249 Capo, L., 29 Capristo, A., 167, 169, 177 Carli, M., 187 Carli, P., 122, 131 Carlo V, 133, 134, 135, 165 Carlomagno, 272 Cavour, C. Benso conte di, 19 Celso, 291 Cervelli, I., 44 Chabod, F., 7, 30, 33, 34, 35, 43, 113-241, 330 Chabod, R., 118
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Chiavacci, G., 199, 200 Cian, V., 122, 130 Ciano, G., 49 Ciccotti, E., 267 Cicerone, Marco Tullio, 309 Ciliberto, M., 21 Cipriano, 310 Cogni, G., 203, 204, 205, 206, 207 Colamarino, G., 13, 23 Collingwood, R.G., 83, 98 Colorni, E., 75, 88 Comandini, M., 197 Constant, B., 145 Costantino, 265 Crivellucci, A., 44 Croce, A., 30 Croce, B., 7, 9, 15, 18, 22, 24, 31, 32, 42, 48, 49, 53, 112, 113, 131, 136, 14148, 155, 167, 168, 177, 184, 189, 190, 191, 197, 212, 241, 255, 259, 260, 261, 263, 267, 280, 281, 294, 305, 316, 332, 333, 334, 335 Cullmann, O., 202, 284 Cusin, F., 13, 21, 23 D’Ancona, A., 103 D’Elia, N., 209-216, 246 Dante, 18, 21, 321, 329 Danto, A.C., 53 De Begnac, Y., 208 De Benedetti, G., 170 De Blasi, J., 190 De Caro, G., 119 De Caro, R., 119, 166 De Felice, R., 23, 27, 118, 119 De Francisci, P., 49 De Martino, E., 137, 138, 255, 283 De Meis, C., 331 De Ruggiero, G., 30, 40, 49, 50, 205 De Sanctis, F., 131, 270, 329, 330, 331 De Sanctis, G., 9, 267 De Vecchi di Val Cismon, C.M., 28, 36 Del Noce, 184 Del Vecchio, G., 201 Derrida, J., 53 Di Rienzo, E., 11-51, 235, 241-246
Di Simone, R.M., 29 Diano, C., 289 Dilthey, W., 63 Diocleziano, 264, 273 Dionisotti, C., 244 Dodds, E.R., 307 Donini, A. 223 Dopsch, A., 262 Dorso, G., 23 Droysen, G., 63, 211 Ehrenburg, J., 224 Einaudi, L., 30 Eliade, M., 283, 285 Empedocle, 286 Eraclito, 285 Ercole, F., 36 Erodoto, 291 Fabvre, G., 167 Falco, G., 43 Faraone, R., 203 Faurisson, R., 56, 90 Febvre, L., 44 Ferrero, G., 9. 267 Finzi, R., 168 Flora, F., 30 Fortunato, G., 23 Foucault, M., 53, 138 Frugoni, A., 90 Fubini, M., 131, 132 Fueter, E., 148, 251 Fustel de Coulanges, D.A., 262 Galante Garrone, A., 40 Galasso, G., 181 Gallie, W.B., 53 Garboli, C., 21 Garin, E., 116, 190, 204 Garosci, A., 118, 214 Gentile, B., 194 Gentile, E., 42, 186 Gentile, G., 7, 15, 16, 17, 28, 33, 53-112, 131, 136, 137, 149, 167, 183-208, 212, 213, 241, 281, 334 Gerbi, S., 173
Indice dei nomi Gerratana, V., 173 Giard, L., 56 Giardina, A., 251, 274 Giarizzo, G., 267, 310, 320 Gibbon, E., 312, 313, 315 Ginzburg. C., 53-112 Giolitti, G., 51 Giuliano l’Apostata, 273 Giuntella, M.C., 117 Giusti, W., 232 Gobetti, P., 23, 132, 215 Goerdeler, C., 211, 212 Goethe, J.W., 30 Gonella, G., 3 Gooch, G.P., 251 Göring, H., 54 Gramsci, A., 45, 46, 173 Grandi, D., 33, Graziosi, A., 224 Gregory, T., 116 Grunenberg, A., 303 Haller, K.L. von, 161 Hartmann, E. von, 63 Hegel, G.W.F., 70, 81, 201, 276, 316, 317, 318, 319, 321, 322, 324 Heidegger, M., 137, 255, 263, 297, 300, 301, 304, 305, 306 Herbart, G.F., 70 Herder, R.J., 161 Herling. G., 224 Hilberg, R., 168 Hitler, A., 211, 218, 225 Huizinga, J., 60, 210, 212, 232, 268 Ihne, W., 279 Interlandi, T., 200, 206 Jaeger, W., 204 Jaja, D., 74 Jakobson, R., 81 Jaspers, K., 24, 255 Jünger, E., 218, 221 Kaegi, W., 163 Kant, I., 63, 70, 109, 110
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Kaphahn, F., 265 Kellner, H., 80 Kojève, A., 32, 255 Korneman, E., 280 Kristeller, P.O, 168 La Farge, J., 175 Labriola, An., 11, 64, 67, 74, 304 Labriola, Ar., 11 Lacan, J., 81 Lakhowsky, S., 241 Landucci, S., 331 Lazarus, M., 63 Ledechowski, W., 229 Leibniz, G.W., 56, 68 Leifer, F., 280 Leonardo da Vinci, 18 Leopardi, G., 307 Levi Della Vida, G., 197 Lévi-Strauss, C., 81, 82, 137 Levy, H., 203 Livio, Tito, 291 Locke, J., 145 Lombardi, F., 255 Lombardo Radice, G., 195 Lombardo Radice, L., 26 Lot, F., 269 Löwith, K., 284 Lucrezio, 277, 309, 313 Lukács, G., 64, 69 Lutero, M. 211 Machiavelli, N., 8, 54, 139, 141, 252, 336, 337, 338, 339, 340 Malaparte, C., 38 Mancini, P.S., 190 Mangoni, L., 233 Mann, Th., 24, 210, 263, 305 Manzoni, A., 90, 126, 174 Maometto, 272 Marchesi, C., 282 Marco Aurelio, 273 Marselli, N., 121 Marx, K., 8, 19, 115, 141, 341, 342 Marzot, G., 30 Matteotti, G., 190, 202
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Storiografia e decadenza
Maturi, W., 43 Mazzarino, S., 7, 251-296, 309, 310, 312, 315, 336 Mazzini, G., 263 Meinecke, F., 24, 151, 153 Melantone, F., 211 Meyer, E., 262, 263, 336 Mezzomonti, E., 223 Miccoli, G., 170 Mickwitz, G., 272 Mila, M., 17 Molotov, V.M., 226 Momigliano, Ar., 9, 53, 79, 173, 174, 263, 264, 285, 286, 288, 2zz96, 335, 336 Momigliano, Att., 202 Mommsen, Th., 252, 282 Montesquieu, 19, 145, 313 Morandi, C., 21 Morghen, R., 43 Mosca, G. 259 Müller, A., 161 Müller, K.O., 266 Mussolini, B., 15, 126, 169, 171, 185 Mustè, M., 47, 81 Muti, E., 49 Nardi, B., 30 Natta, A., 243 Nicolini, F., 189 Niebuhr, B.G., 266, 268 Niekisch, E., 212 Nietzsche, F., 305, 324-329 Nitti, F.S., 9 O’Brien, D., 285 Omodeo, A., 9, 13, 15, 37, 38, 47-51, 115, 132, 133, 195, 263 Onken, H., 211 Orazio, 310 Origene, 290 Orlando, V.E., 121 Osti Guerrazzi, A., 173, Otto, W., 295 Ottokar, N., 43 Pacelli, E. (Pio XII), 175, 219
Palazzina, G., 201 Paradisi, B., 30, 11 Parmenide, 297 Pepe, G., 31, 43, 259, 260 Perfetti, F., 185 Pertici, R., 222, 223 Perticone, G., 23 Petrarca, F., 313 Petrini, D., 30, 117 Pietro, apostolo, 281 Piganiol, A., 265, 269, 282, 336 Pincherle, A., 201 Pio XI, 175, 176 Piovene, G. 173 Pirenne, J., 262 Piur, P., 313 Pizzetti, S., 124, 131 Platone, 285, 306 Plotino, 285 Polibio, 293, 306 Quinton, R., 233 Ranke, L. von, 53, 211, 261, 263, 266, 267 Rehm, W., 313 Rembrandt, 18 Renan, E., 136 Reventlow, E., 222 Ribbentrop, J. von, 226 Ricoeur, P., 53 Ritter, G., 24, 219 Robilant, C.F.N., 121 Roghi, V., 29 Romeo, R., 19 Rosenberg, A., 222 Rosselli, C., 227 Rossellini, R., 167 Rossetti, G., 44 Rostovzev, M., 262, 271, 273, 336 Rota, G., 184-208 Rousseau, J.J., 162 Russo, L., 37, 123 Saitta, G., 240 Sallustio, 309 Salvatorelli, L., 40, 175, 176
Indice dei nomi Salvemini, G., 23 Santomassimo, E., 219 Sarfatti, M., 169 Sartre, J.P., 165 Sasso, G., 42, 59, 337 Schiaffini, A., 30 Schlegel, W., 161 Schleicher, K. von, 118 Schmitt, C., 136, 222 Schramm, P.E., 176 Sciaky, I., 200 Seek, O., 262, 3336 Seneca il Vecchio, 310 Serra, G., 202 Serra, R., 88, 89, 90 Sestan, E., 30, 43 Settimelli, E., 187 Seyssel, Cl. de, 125 Shakespeare, W., 18 Sillitti, G., 187 Simmel, G., 63 Simoncelli, P., 217, 235-239, 246-249 Slataper, S., 51 Sofocle, 316 Sorel, A., 153 Spaventa, B., 71, 107 Spirito, U., 72, 116, 137, 185 Spriano, P., 223 Stalin, 218, 227 Starace, A., 49 Stein, E., 262, 336 Stendhal, 90 Stilicone, 251, 252 Strasser, G., 209, 221, 248 Strasser, O., 209, 221, 248 Stuart Mill, J., 145 Tacito, Cornelio, 291, 293 Tamassia, N., 44 Tartaro, A., 116 Thierry, Am., 251 Thierry, Au., 251, 252 Timpanaro, S., 182 Tocco, F., 44
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Tocqueville, A de., 153 Togliatti, P., 45 Tolstoj, L., 89 Toynbee, A., 9, 263 Treccani, G., 201 Treves, P., 267 Troeltsch, E., 190 Tucidide, 285, 291, 293, 306, 307 Turi, G., 116, 168, 202 Umberto di Silva Candida, 176 Valeri, N., 164 Valgimigli, M., 199 Vander, F., 215, Ventura, A., 172 Vico, G.B., 278, 313, 331 Vidal-Naquet, P., 53, 54, 56, 90 Vierek, P., 215 Vigezzi, B., 116 Villari, P., 67 Violante, C., 44 Virgilio, 310, 311 Visconti, Filippo Maria, 17 Vittoria, A., 29 Vogelsang, 241 Volpe, G., 11, 21, 24, 28, 30-40, 43-45, 50, 51, 115, 117, 118, 164, 165, 214, 246, 24 Volpicelli, A., 137, 218 Volpicelli, L., 218 Voltaire, 319 Vossler, K., 148 Wagner, R., 204, 245, 329 Wahl, J., 255 Warburg, A., 204 White, H., 53-112 Wilamowitz-Moellendorf, U., 277 Windelband, W., 61 Woelfflin, H., 60 Zona Omodeo, E., 60 Zunino, P.G., 119-166
Finito di stampare nel mese di settembre 2012 dalla Grafica Editrice Romana S.r.l. Roma