Storia della decadenza e caduta dell'impero romano [1-3, Nuova ed.] 8806082019

3 voll. in-8°, pp. XL, 915, (5); IX, (3); 917-1866, (6); X, (2), 1867-2915, (3); legatura editoriale con sovraccoperta.

141 10 96MB

Italian Pages 2915 [1511] Year 1987

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Storia della decadenza e caduta dell'impero romano [1-3, Nuova ed.]
 8806082019

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

Edward Gibbon

STORIA DELLA DECADENZA E CADUTA DELL’IMPERO ROMANO Traduzione di Giuseppe Frizzi Con un saggio di Arnaldo Momigliano

Titolo originale

T h e H is to r y o f th è D e c l i n e a n d F a l l o f t h è R o m a n E m p ir e

© 1967 e 1987 Giulio Einaudi editore s. p. a., Torino Nuova edizione is b n

88-06-08201-9

Giulio Einaudi editore

INDICE

p. xvii

II contributo di Gibbon al metodo storico di Arnaldo Momigliano

xxxiv xxxv

Nota dell’editore Autori antichi usati dal Gibbon

xxxix

Nota alle illustrazioni

Storia della decadenza e caduta dell’impero romano 3 6

Prefazione dell'autore al primo volume dell’edizione in quarto Prefazione dell’autore al quarto volume dell'edizione in quarto

9

Avvertenza alle note

Volume primo ii

Capitolo primo Estensione e forza militare dell’impero nel secolo degli Antonini.

34

Capitolo secondo Unità e prosperità interna dell’impero romano nel secolo degli Antonini.

6i

Capìtolo terzo Costituzione dell’impero romano nel secolo degli Antonini.

82

Capitolo quarto Crudeltà, follie e uccisione di Commodo. Elezione di Pertinace. Suoi tentativi per riformare lo stato. È ucciso dai pretoriani.

100

Capitolo quinto I pretoriani mettono all’asta l ’impero e lo vendono a Didio Giu­ liano. Clodio Albino in Britannia, Pescennio Negro in Siria, e Set­ timio Severo in Pannonia si dichiarano contro gli assassini di Per­ tinace. Guerre e vittoria di Severo sui suoi tre rivali. Rilassamento della disciplina. Nuove massime di governo.

121

Capitolo sesto Morte di Severo. Tirannia di Caracalla. Usurpazione di Macrino. Follie di Eliogabalo. Virtù di Alessandro Severo. Sfrenata licenza dell’esercito. Stato generale delle finanze romane.

V ili

INDICE

p. 15 7

Capitolo settimo

p. 569

Elevazione al trono e tirannia di Massimino. Ribellione in Africa e in Italia autorizzata dal senato. Guerre civili e sedizioni. Morte violenta di Massimino e di suo figlio, di Massimo, Balbino, e dei tre Gordiani. Usurpazione e giochi secolari di Filippo. 182

Capitolo ottavo Stato della Persia dopo la restaurazione della monarchia per opera di Artaserse.

198

Capitolo nono Stato della Germania fino all’invasione dei barbari al tempo del­ l ’imperatore Decio.

220

259

289

Capitolo ventunesimo Persecuzione dell’eresia. Scisma dei donatisti. Controversia aria­ na. Atanasio. Stato della chiesa e dell’impero turbato sotto Co­ stantino e i suoi figli. Tolleranza del paganesimo.

738

Capitolo ventiduesimo Giuliano è acclamato imperatore dalle legioni della Gallia. Sua par­ tenza e vittoria. Morte di Costanzo. Governo civile di Giuliano.

770

Capitolo ventitreesimo Religione di Giuliano. Tolleranza universale. Tenta di ristabilire il culto pagano e di ricostruire il tempio di Gerusalemme. Sua sa­ gace persecuzione dei cristiani. Zelo e ingiustizia delle due parti.

811

Capitolo ventiquattresimo Residenza di Giuliano in Antiochia. Sua vittoriosa spedizione con­ tro i Persiani. Passaggio del Tigri. Ritirata e morte di Giuliano. Elezione di Gioviano. Egli salva l’esercito romano con un vergo­ gnoso trattato.

857

Capitolo venticinquesimo Governo e morte di Gioviano. Elezione di Valentiniano, che as­ socia il fratello Valente, compiendo la definitiva divisione tra l’im­ pero d’Oriente e d’Occidente. Ribellione di Procopio. Governo civile ed ecclesiastico. La Germania. La Britannia. L ’Africa. L ’O­ riente. Il Danubio. Morte di Valentiniano. I suoi due figli Gra­ ziano e Valentiniano II gli succedono nell’impero d’Occidente.

Capitolo quattordicesimo Disordini dopo l ’abdicazione di Diocleziano. Morte di Costanzo. Elevazione di Costantino e Massenzio. Sei imperatori ad un tem­ po. Morte di Massimiano e di Galerio. Vittoria di Costantino su Massenzio e Licinio. Riunificazione dell’impero sotto l’autorità di Costantino.

398

681

Capitolo tredicesimo Regno di Diocleziano e dei suoi tre colleghi, Massimiano, Galerio e Costanzo. Ristabilimento generale dell’ordine e della tranquilli­ tà. Guerra persiana, vittoria e trionfo. Nuova forma di governo. Abdicazione di Diocleziano e Massimiano.

356

Capitolo ventesimo Motivi, progressi ed effetti della conversione di Costantino. Rico­ noscimento legale e costituzione della chiesa cristiana, o cattolica.

Capitolo dodicesimo Condotta dell’esercito e del senato dopo la morte di Aureliano. Regni di Tacito, di Probo, di Caro e dei suoi figli.

318

644

Capitolo undicesimo Regno di Claudio. Sconfitta dei Goti. Vittorie, trionfo e morte di Aureliano.

Capitolo quindicesimo Progressi della religione cristiana, sentimenti, costumi, numero e condizione dei primi fedeli.

459

Capitolo sedicesimo Condotta del governo romano verso i cristiani, dal regno di Nero­ ne a quello di Costantino.

519

Capitolo diciassettesimo Fondazione di Costantinopoli. Sistema politico di Costantino e dei suoi successori. Disciplina militare, corte e finanze.

Capitolo diciottesimo Carattere di Costantino. Guerra gotica. Morte di Costantino. Di* visione dell’impero fra i suoi tre figli. Guerra con la Persia. Tragi­ ca fine di Costantino il Giovane e di Costante. Usurpazione di Magnenzio. Guerra civile. Vittoria di Costanzo.

606 · Capitolo diciannovesimo Costanzo solo imperatore. Elevazione e morte di Gallo. Pericolo ed elevazione di Giuliano. Guerre contro Sarmati e Persiani. Vit­ torie di Giuliano nella Gallia.

Capitolo decimo G l’imperatori Decio, Gallo, Emiliano, Valeriano e Gallieno. Inva­ sione generale dei barbari. I trenta tiranni.

IX

INDICE

Volume secondo 917

Capitolo ventiseiesimo Costumi dei popoli pastori. Avanzata degli Unni dalla Cina in Europa. Fuga dei Goti. Passano il Danubio. Guerra gotica. Scon­ fitta e morte di Valente. Graziano investe Teodosio dell’impero orientale: suo carattere e successo. Pace e stanziamento dei Goti.

X

INDICE

Ρ· 973

Capitolo ventisettesimo

p. 132 7

Morte di Graziano. Rovina dell’arianesimo. Sant’Ambrogio. Pritna guerra civile, contro Massimo. Carattere, governo e penitenza ai Teodosio. Morte di Valentiniano II. Seconda guerra civile contro Eugenio. Morte di Teodosio. 1022

Capitolo ventottesimo

1067

1363

Capitolo ventinovesimo Definitiva divisione dell’impero romano tra i figli di Teodosio. c*1 Arcadio e di Onorio. Governo di Rufino e di Stilicone Ribellione e disfatta di Gildone in Africa.

1415

Osservazioni generali sulla caduta dell’impero romano d’Occidente.

Capitolo trentesimo

1424

Capitolo trentanovesimo Zenone e Anastasio, imperatori d’Oriente. Nascita, educazione, e prime imprese di Teodorico. Sua invasione e conquista dell’Italia. Il regno gotico d’Italia. Stato dell’Occidente. Governo militare e civile. Il senatore Boezio. Ultime azioni e morte di Teodorico.

Capitolo trentunesimo

1453

Alarico invade 1 Italia. Costumi del senato e del popolo romano Roma assediata tre volte e infine saccheggiata dai Goti. Morte di Alarico. I Goti si ritirano dall’Italia. Caduta di Costantino. La Gallia e la Spagna occupate dai barbari. Indipendenza della Britannia. 1170

1510

Capitolo trentatreesimo

Capitolo trentaquattresimo

1574

Capitolo trentacinquesimo Attila invade la Gallia. È respinto da Ezio e dai Visigoti. Invade e abbandona l ’Italia. Morte di Attila, di Ezio e di Valentiniano III.

1278

Capitolo trentaseiesimo Genserico saccheggia Roma. Sue depredazioni navali. Successione degli ultimi imperatori d ’Occidente: Massimo, Avito, Maioriano Severo, Antemio, Olibrio, Glicerio, Giulio Nepote e Romolo Augustolo. Fine dell’impero romano d ’Occidente. Regno di Odoacre, primo re d’Italia.

Capitolo quarantaduesimo Stato del mondo barbarico. Stanziamento dei Longobardi sul Da­ nubio. Tribù e scorrerie degli Slavi. Origine, impero e ambasce­ rie dei Turchi. Fuga degli Avari. Cosroe I, o Nushirvan, re di Per­ sia. Suo prospero regno e sue guerre contro i Romani. La guerra Colchica, o Lazica. G li Etiopi.

Carattere, conquiste e corte di Attila, re degli Unni. Morte di Teo­ dosio il Giovane. Elevazione di Marciano all’impero d’Oriente.

I247

Capitolo quarantunesimo Conquiste di Giustiniano in Occidente. Carattere e prime campa­ gne di Belisario. Invade e soggioga il regno vandalico in Africa. Suo trionfo. Guerra gotica. Ricupera la Sicilia, Napoli e Roma. Assedio di Roma fatto dai Goti. Loro ritirata e perdite. Resa di Ravenna. Gloria di Belisario. Sue vergogne e disgrazie domestiche.

Morte di Onorio. Valentiniano III, imperatore d’Occidente Governo di sua madre Placidia. Ezio e Bonifacio. I Vandali conqui­ stano ΓAfrica. 1221

Capitolo quarantesimo Elevazione di Giustino il Vecchio. Regno di Giustiniano. L ’impe­ ratrice Teodora. Fazioni del circo e sedizioni di Costantinopoli. Commercio e produzione della seta. Finanze e tributi. Edifici di Giustiniano. Chiesa di Santa Sofia. Fortificazioni e frontiere del­ l’impero d’Oriente. Abolizione delle scuole d’Atene e del conso­ lato di Roma.

Capitolo trentaduesimo £**$> imperatore d’Oriente. Governo e disgrazia di Eutropio. Ribellione di Gainas. Persecuzione di san Giovanni Crisostomo, leodosio II, imperatore d ’Oriente. Sua sorella Pulcheria. Sua mo­ glie Eudocia. Guerra persiana e divisione dell’Armenia.

1202

Capitolo trentottesimo Regno e conversione di Clodoveo. Sue vittorie sugli Alamanni, i Burgundi e i Visigoti. Stabilimento della monarchia franca in Gal­ lia. Leggi dei barbari. Stato dei Romani. I Visigoti della Spagna. Conquista della Britannia compiuta dai Sassoni.

Ribellione dei Goti. Saccheggiano la Grecia. Due grandi invasioni dell Italia^compiute da Alarico e Radagaiso. Sono respinti da Stilicone. I Germani invadono la Gallia. Usurpazione di Costantino in Occidente e morte di Stilicone. 1107

Capitolo trentasettesimo

Origine, progressi ed effetti del monachiSmo. Conversione dei bar­ bari al cristianesimo e all’arianesimo. Persecuzione dei Vandali in Africa. Estinzione dell’arianesimo fra i barbari.

Distruzione finale del paganesimo. Introduzione del culto dei san­ ti e delle reliquie fra i cristiani. 1046

XI

INDICE

1616

Capitolo quarantatreesimo Ribellioni dell’Africa. Restaurazione del regno dei Goti per opera di Totila. Perdita e riconquista di Roma. Conquista definitiva del­ l ’Italia compiuta da Narsete. Estinzione degli Ostrogoti. Disfatta dei Franchi e degli Alamanni. Ultima vittoria, disgrazia e morte di Belisario. Morte e carattere di Giustiniano. Comete, terremoti e pestilenze.

XII

ρ. 1661

INDICE

Capitolo quarantaquattresimo

INDICE

p. 1988

Capitolo cinquantesimo Descrizione dell’Arabia e dei suoi abitanti. Nascita, carattere e dottrina di Maometto. Predica alla Mecca. Fugge a Medina. Pro­ paga la sua religione con la spada. Sottomissione volontaria o for­ zata degli Arabi. Sua morte e sùoi successori. Pretese e vicende di Ali e dei suoi discendenti.

2063

Capitolo cinquantunesimo Gli Arabi o Saraceni conquistano la Persia, la Siria, l’Egitto, l ’A ­ frica e la Spagna. Governo dei califfi, o successori di Maometto. Condizione dei cristiani sotto il loro governo.

2145

Capitolo cinquantaduesimo I due assedi di Costantinopoli fatti dagli Arabi. Invadono la Fran­ cia e sono sconfitti da Carlo Martello. Guerra civile degli Ommiadi e degli Abbasidi. Letteratura degli Arabi. Lusso dei califfi. Im­ prese navali contro l ’isola di Creta, la Sicilia e Roma. Decadenza e divisione dell’impero dei califfi. Sconfitte e trionfi degl’impera­ tori greci.

2195

Capìtolo cinquantatreesimo Stato dell’impero d’Oriente nel x secolo. Sua estensione e divisio­ ne. Ricchezze e rendite. Palazzo di Costantinopoli. Titoli e cari­ che. Orgoglio e potenza degl’imperatori. Tattica dei Greci, degli Arabi e dei Franchi. Estinzione della lingua latina. Studi e solitu­ dine dei Greci.

2235

Capitolo cinquantaquattresimo Origine e dottrina dei pauliciani. Persecuzioni che soffersero da­ gli imperatori greci. Loro ribellione in Armenia ecc. Migrazione nella Tracia. Loro dottrina propagata in Occidente. Germi, carat­ tere e conseguenze della riforma.

2231

Capitolo cinquantacìnquesimo I Bulgari. Origine, migrazioni e stanziamento degli Ungheri. Lo­ ro incursioni in Oriente e Occidente. La monarchia russa. Geo­ grafia e commercio di questa nazione. Guerra dei Russi contro l ’impero greco. Conversione dei barbari.

2279

Capìtolo cinquantaseiesimo I Saraceni, i Franchi e i Greci in Italia. Prime spedizioni e stanzia­ mento dei Normanni. Indole e conquiste di Roberto Guiscardo, duca della Puglia. Liberazione della Sicilia operata da Ruggero, fratello di Guiscardo. Vittorie di Roberto sugl’imperatori d’O­ riente e d’Occidente. Ruggero, re di Sicilia, invade l’Africa e la Grecia. L ’imperatore Manuele Comneno. Guerra tra i Greci e i Normanni. Estinzione dei Normanni.

2327

Capitolo cinquantasettesimo I Turchi Selgiuchidi. Loro ribellione contro Mahmud, conquista­ tore dell’Indostan. Toghrul sottomette la Persia e protegge i ca-

Concetto del diritto romano. Leggi dei re. Le Dodici Tavole dei Decemviri. Leggi del popolo. Decreti del Senato. Editti dei magi­ strati e degl’imperatori. Autorità dei giureconsulti. Codice, Pan­ dette, Novelle e Istituzioni di Giustiniano: i. Delle persone; n. Delle cose; ni. Dei danni e delle azioni; iv. Dei delitti e delle pene. i 723

Capitolo quarantacinquesimo Regno di Giustino il Giovane. Ambasceria degli Avari. Si stabili­ scono sul Danubio. Conquista dell’Italia da parte dei Longobardi. Adozione e regno di Tiberio. Regno di Maurizio. Stato d ’Italia sotto i Longobardi e gli esarchi di Ravenna. Calamità di Roma. Carattere e pontificato di Gregorio I.

1776

Capitolo quarantaseiesimo Rivoluzioni della Persia dopo la morte di Cosroe, o Nushirvan. Il tiranno Ormisda, suo figlio, è deposto. Usurpazione di Bahram. Fuga e restaurazione di Cosroe II e sua gratitudine verso i Roma­ ni. Il re degli Avari. Ribellione dell’esercito contro Maurizio e sua morte. Tirannia di Foca. Elevazione di Eraclio. Guerra persiana. Cosroe soggioga la Siria, l ’Egitto e l’Asia Minore. Assedio di Co­ stantinopoli da parte dei Persiani e degli Avari. Spedizioni in Per­ sia. Vittorie e trionfo di Eraclio.

1804

Capitolo quarantasettesimo Storia teologica della dottrina dell’incarnazione. Natura umana e divina di Cristo. Inimicizia tra i patriarchi di Alessandria e di Co­ stantinopoli. Cirillo e Nestorio. Terzo concilio ecumenico a Efe­ so. Eresia di Eutiche. Quarto concilio ecumenico a Calcedonia. Di­ scordia civile ed ecclesiastica. Intolleranza di Giustiniano. I Tre Capitoli. Controversia dei monoteliti. Sette dellOriente: nestoriani, giacobiti, maroniti, arminiani, copti e abissini.

Volume terzo 1867

Capitolo quarantottesimo Piano degli ultimi due volumi [dell’edizione in quarto]. Succes­ sione e carattere degli imperatori greci di Costantinopoli, dal tem­ po di Eraclio a quello della conquista dei Latini.

1929

Capitolo quarantanovesimo Istituzione, culto e persecuzione delle immagini. Ribellione del­ l ’Italia e di Roma. Dominio temporale dei papi. L ’Italia conqui­ stata dai Franchi. Trionfo delle immagini. Carattere e incorona­ zione di Carlomagno. Restaurazione e decadenza dell’impero ro­ mano d’Occidente. Indipendenza d’Italia. Costituzione della na­ zione germanica.

XIII

Λ1ν

INDICE

liffi. L imperatore Romano Diogene sconfitto e fatto prigioniero da Alp Arslan. Potenza e grandezza di Malik Shah. Conquista dell’A ­ sia Minore e della Siria. Stato e oppressione di Gerusalemme. Pel­ legrinaggi al Santo Sepolcro. P- 2357

2412

2491

2527

Capitolo sessantacinquesimo Ascesa di Timur, o Tamerlano, al trono di Samarcanda. Sue con­ quiste in Persia, Georgia, Tartaria, Russia, India, Siria e Anato­ lia. Sue guerre contro i Turchi. Sconfitta e prigionia di Bayazid. Morte di Timur. Guerre civili tra i figli di Bayazid. Restaurazione della monarchia dei Turchi sotto Maometto I. Costantinopoli as­ sediata da Amurat II.

2645

Capitolo sessantaseiesìmo Ricorso degl’imperatori d ’Oriente ai papi. Viaggi di Giovanni Pa­ leologo I, di Manuele e di Giovanni II alle corti d’Occidente. Unione delle Chiese greca e latina proposta nel concilio di Basi­ lea, conclusa a Ferrara e a Firenze. Stato della letteratura a Co­ stantinopoli. Sua rinascita in Italia ad opera dei profughi Greci. Curiosità ed emulazione dei Latini.

2686

Capitolo sessantasettesimo Scisma dei Greci e dei Latini. Regno e carattere di Amurat IL Crociata di Ladislao, re d’Ungheria. Sua sconfitta e morte. Gio­ vanni Hunyadi. Scanderbeg. Costantino Paleologo, ultimo impe­ ratore di Costantinopoli

2709

Capitolo sessantottesimo Regno e carattere di Maometto II. Assedio e conquista definitiva di Costantinopoli da parte dei Turchi. Morte di Costantino Paleo­ logo. Schiavitù dei Greci. Fine dell’impero romano d’Oriente. Co­ sternazione in Europa. Conquiste e morte di Maometto II.

2749

Capitolo sessantanovesimo Stato di Roma dopo il secolo xn. Potere temporale dei papi. Sedi­ zioni della città. Eresia politica di Arnaldo da Brescia. Restaura­ zione della repubblica. Senatori. Orgoglio dei Romani e loro guer­ re. Vengono privati dell’elezione e della presenza dei papi, che si ritirano ad Avignone. Giubileo. Famiglie nobili di Roma. Rivali­ tà fra Colonna e Orsini.

2787

Capitolo settantesimo Carattere del Petrarca e sua incoronazione. Restaurazione della li­ bertà e dell’antico governo di Roma fatta dal tribuno Cola di Rien­ zo. Sue virtù e vizi, sua cacciata e morte. Partenza dei papi da Avi­ gnone e loro ritorno a Roma. Grande scisma d’Occidente. Riuni­ ficazione della Chiesa latina. Ultimi sforzi della libertà romana. Statuti di Roma. Definitiva costituzione dello Stato ecclesiastico.

Capitolo sessantunesimo Francesi e Veneziani si dividono l ’impero. Cinque imperatori latini delle Case di Fiandra e di Courtenay. Loro guerre contro i Bulgari e i Greci. Debolezza e povertà dell’impero latino. Costan­ tinopoli ripresa dai Greci. Conseguenze generali delle crociate.

2.519

2610

Capitolo sessantesimo Scisma dei Greci e dei Latini. Stato di Costantinopoli. Ribellione dei Bulgari. Isacco Angelo cacciato dal trono per opera del fratel­ lo Alessio. Origine della quarta crociata. Alleanza dei Francesi e dei Veneziani col figlio d’Isacco. Loro spedizione navale a Costan­ tinopoli. I due assedi e conquista della città fatta dai Latini.

Digressione sulla famiglia dei Courtenay. Capitolo sessantaduesimo Imperatori greci di Nicea e di Costantinopoli. Ascesa e regno di Michele Paleologo. Sua falsa unione col papa e con la chiesa lati­ na. Progetti di guerra di Carlo d’Angiò. Ribellione della Sicilia. Guerra dei Catalani in Asia e in Grecia. Vicende e stato attuale di Atene.

2554

Capitolo sessantatreesimo Guerre civili e rovina dell’impero greco. Regni di Andronico il Vecchio, di Andronico il Giovane e di Cìiovanni Paleologo. Reg­ genza, ribellione, regno e abdicazione di Giovanni Cantacuzeno. Stanziamento di una colonia genovese a Pera, o Galata. Sue guer­ re contro l ’impero e la città di Costantinopoli.

Capitolo sessantaquattresimo

Conquiste di Gengis Khan e dei Mongoli dalla Cina alla Polonia. Pericolo dei Greci e di Costantinopoli. Origine dei Turchi Otto­ mani in Bitinia. Regni e vittorie di Othman, Orkhan, Amurat l e Bayazid I. Fondazione e progressi della monarchia turca in Asia e in Europa. Situazione critica di Costantinopoli e dell’impero greco.

Capitolo cinquantanovesimo Conservazione dell’impero greco. Forze, passaggio ed esito della seconda e terza crociata. San Bernardo. Regno di Saladino in Egit­ to e in Siria. Conquista Gerusalemme. Crociata marittima. Riccar­ do I, re d’Inghilterra. Papa Innocenzo III. Quarta e quinta cro­ ciata. L ’imperatore Federico II. Luigi IX di Francia e le due ulti­ me crociate. I Franchi, o Latini, cacciati dai Mamelucchi.

2450

p. 2578

Capitolo cinquantottesimo Origine della prima crociata e numero dei crociati. Indole dei principi latini. Loro spedizione a Costantinopoli. Politica dell’impe­ ratore greco Alessio. Nicea, Antiochia e Gerusalemme conquistate dai Franchi. Liberazione del Santo Sepolcro. Goffredo di Buglione, primo re di Gerusalemme. Istituzione del regno franco, o latino.

XV

INDICE

XVI

ρ. 2827

INDICE

Capitolo settantunesimo Descrizione delle rovine di Roma nel secolo xv. Le quattro cause di decadenza e distruzione. Il Colosseo. Rinnovamento della città. Conclusione dell’opera.

2849

Il contributo di Gibbon al metodo storico

Indice dei nomi È raro che l’antiquario e il filosofo si trovino cosi felicemente uniti in una sola persona. Gibbon, cap. IX.

i. Non chiederemo a Gibbon nuovi metodi nella critica delle fonti. In The Decime and Tali non si trova traccia del nuovo tipo di minuta analisi delle fonti che i tedeschi suoi contemporanei co­ minciavano appunto allora a sviluppare. Il recensore del Gòttingische gelehrte Anzeiger del 1788, sebbene pieno di ammirazione per Gibbon, mise immediatamente in risalto la superiorità della critica tedesca delle fonti. Gibbon, in complesso, non andò mai ol­ tre una impressione superficiale del valore comparativo delle fon­ ti a cui attinse. Non si chiedeva neppure sistematicamente che co­ sa vi fosse dietro le sue fonti dirette. Non aveva un criterio sicuro per decidere che Erodiano è piu attendibile della Historia Augu­ sta, o che Dione Cassio è piu o meno attendibile a seconda delle opportunità che ebbero, lui stesso o coloro a cui attinse, di assiste­ re in persona agli avvenimenti riferiti. Questo non vuol dire che in certi casi Gibbon non sia in grado di definire una fonte con grande acume. Si accorse, per esempio, che la vita di Severo Ales­ sandro nella Historia Augusta è, come egli dice, « nient’altro che l ’idea pura di un principe perfetto, una goffa imitazione della Ciropedia ». Tuttavia non fece di tale osservazione un punto di par­ tenza per una di quelle ricerche in cui si sarebbero impegnati stu­ diosi a lui posteriori. La domanda: «Perché la vita di Severo Alessandro è un panegirico », non pare gli si sia mai presentata, e neppure tentò di definire la funzione di questa biografia entro la serie di cui è composta la Historia Augusta. Gibbon non fu un pioniere nello studio delle fonti, ma le co­ nosceva eccezionalmente bene. Possedeva ancora quella familiari­ tà con gli scrittori classici e bizantini caratteristica dei grandi eru­ diti del Seicento e del primo Settecento e vi univa la conoscenza * [II testo inglese è una lezione tenuta alla università di Bristol nel 1950 e, in forma riveduta, a University College London, nel 1952. Pubblicato in forma leggermente abbrevia­ ta in «H istoria», 2, 1954, 450-63; ora in Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1935, 195-211. Per piu recente lavoro su Gibbon si veda il volume collettivo edito da lynn w h ite jr, The Transformation of thè Roman W orld, Univ. of California, 1966J.

XVIII

ARNALDO MOMIGLIANO

dei cronisti medievali. Inoltre sapeva quali fossero i migliori com­ menti su ogni fonte disponibili al tempo suo e aveva assimilato le conclusioni tratte da innumerevoli dissertazioni intorno a punti maggiori o minori di erudizione. I famosi venti volumi dei Mémoires de l’Académie des Inscriptions, dai quali prese l’avvio la sua nuova educazione al prezzo di venti sterline, furono solo un inizio. A poco a poco si impadronì di una quantità enorme di trat­ tati e dotte dissertazioni. Pochi, o nessuno, dei grandi nomi del l’erudizione sei e settecentesca mancano nelle sue note. Esaminò minuziosamente gli in-quarto e gli in-folio delle pubblicazioni dei Maurini, lasciando da parte quei pregiudizi religiosi che avrebbe­ ro potuto influenzarlo negativamente nei riguardi degli autori e dei curatori. Si impadronì delle piu importanti descrizioni geogra­ fiche dei luoghi della sua storia; compito non facile se si tien con­ to che estese le sue ricerche tanto da includervi la Cina e la Spa­ gna. Non sapeva le lingue orientali, ma dà l’impressione di avere letto la traduzione di molte cronache e poemi di cui si disponeva al suo tempo. Inutile dire che conosceva la numismatica e l’epi­ grafia e che leggeva sia i padri della Chiesa e la storia ecclesiastica, sia la ordinaria storia politica. Del diritto romano aveva piu che una conoscenza elementare e gli erano familiari almeno alcuni te­ sti giuridici medievali allora scoperti. Il catalogo della sua biblio­ teca, compilato da Geoffrey Keynes (sul materiale ancora disponi­ bile) conferma l’estensione delle sue letture. Spese tremila sterli­ ne per acquisto di libri in tre anni e mezzo, dal gennaio 1785 al giugno 1788, e nel 1788 si contavano nei suoi scaffali sei o sette­ mila volumi. Dobbiamo tuttavia tenere presente che, se i fatti concernenti l ’erudizione di Gibbon sono noti, la storia della sua formazione intellettuale non è ancora chiarita. Conosciamo gli scrittori da lui consultati nella maturità molto meglio di quelli che contribuirono a formarne la mentalità. Un lavoro esplorativo in questo campo fu compiuto da Christopher Dawson nel suo mirabile saggio su Gib­ bon, letto alla British Academy nel 1934. Personalmente devo molto a questo saggio e ne raccomando caldamente lo studio. Ma mi propongo di battere una strada alquanto diversa. I miei prece­ denti studi sulla storiografia del secolo xvm mi hanno persuaso che, al fine di comprendere Gibbon, si deve partire dal grande conflitto della sua epoca tra antiquari o eruditi e storici filosofici ‘. 1 Sugli studi degli antiquari del secolo x v m , cfr. il mio saggio Ancient History and thè Antiquarians, in «Journ. Warburg and Courtauld Inst.», 13, 1930, 283. [Ristampato in Contributo cit., 67-106]. Il miglior studio generale su G ibbon è forse quello di G. f a l c o ,

IL CONTRIBUTO DI GIBBON AL METODO STORICO

XIX

II. Gibbon è l’erede di una grande tradizione di studi erudi­ ti, ma in un modo nuovo. Perché, tanto per cominciare, vi è co­ raggio e proposito nel suo dispiego di erudizione. Dobbiamo a questo punto ritornare a quella pagina della sua autobiografia, in cui rammarica che l’atmosfera intellettuale parigina fosse ostile agli eruditi e che l’Académie des Inscriptions, a lui tanto cara, fos­ se scesa al di sotto del livello delle accademie consorelle: « Il sa­ pere e il linguaggio della Grecia e di Roma erano trascurati da una età filosofica». Ci rendiamo dunque conto che non vi è con­ tinuità diretta, a rigor di termini, tra Gibbon e gli eruditi; al con­ trario, c’è una frattura rappresentata dal movimento intellettuale degli enciclopedisti francesi. L ’erudizione di Bayle, Ledere, Leibniz, non è sorprendente nel suo contesto. Essi appartenevano naturalmente all’età della gran­ de erudizione; respiravano nell’atmosfera di Montfaucon, di Mabillon, di Spanheim. Lo stesso si può ancora dire di Muratori. Ma Gibbon non era un semplice sopravvissuto di un’età precedente e neppure un esponente provinciale di una tradizione di studi al­ quanto sorpassata; si trovava completamente a suo agio nella nuo­ va Parigi degli enciclopedisti e condivideva molte delle loro con­ vinzioni. Il francese era una lingua che sentiva propria e nella qua­ le iniziò la sua carriera di scrittore. D ’Alembert e Voltaire non gli erano meno familiari di Bayle, di Spanheim, di Muratori. Vedre­ mo tra poco che lo schema della sua storia gli fu ispirato da Mon­ tesquieu e da Voltaire, sebbene queste fossero appunto le persone che scoraggiavano e persino disprezzavano l’erudizione a lui tan­ to cara. Il conflitto settecentesco tra il vecchio metodo storico degli eruditi o antiquari e il nuovo metodo degli storici filosofici può es­ sere forse meglio illustrato dal riferimento a un libro oggi quasi dimenticato, i Monumenta Veloponnesia dell’italiano P. M. Paciaudi, pubblicato nel 1761. Paciaudi spiega come i filosofi non potessero vedere alcuno scopo in tutte quelle citazioni che delizia­ vano gli eruditi e specialmente in tutte quelle congetture che piu o meno inevitabilmente accompagnano l’erudizione. Per parte sua Paciaudi, come gli altri antiquari, osservava con orrore l’invasione entro i sacri recinti della storia della torma fanatica di filosofi che viaggiavano con un bagaglio assai leggero di erudizione. Ma doveLa polemica sul M edioevo, Torino 1933, 191-340. [M i dispiace di non aver potuto usufruire d ell’importante libro di g . giarrizzo , É. Gibbon e la cultura europea del Settecento, Napoli 1934, e p . f u g l u m , E. G . His View o f Life and Conception of History, O slo 1953].

XX

ARNALDO MOMIGLIANO

va ben riconoscere che troppi antiquari perdevano il loro tempo in inutili congetture. Cosi, da una parte vi era quella che potremmo chiamare la scuola tradizionale degli storici eruditi. Essi avevano prevalso in Europa fino alla metà del secolo xvm e avevano dato molte prove di pazienza, di penetrazione critica e di onestà. Avevano fornito alla Francia, all’Italia, alla Germania e all’Inghilterra importan­ tissime collezioni di fonti storiche nazionali, sebbene, ricordiamo qui per inciso, Gibbon sempre si rammaricasse che l’Inghilterra non avesse ancora trovato il suo Muratori. Questi eruditi non for­ nivano semplicemente i nudi fatti. Sovente attaccavano o difende­ vano le istituzioni politiche o religiose. Molti di loro erano membri devoti di ordini religiosi; altri erano liberi pensatori. Uno di que­ sti esercitò tale influsso su Gibbon da modificarne persino lo stile; Gibbon imparò da Bayle a mescolare malizia ed erudizione. Bayle, lo scettico, il libertino, il cavaliere errante la cui dama rispondeva al voluttuoso nome di Erudizione, era sempre presente alla mente di Gibbon. Ma non meno apprese dal pio giansenista Tillemont, cosi scrupoloso e candido nel raccogliere prove e nel discernere i fatti accertati dalle opinioni personali. Dall’altra parte si era sviluppata una nuova scuola di storia fi­ losofica, caratterizzata dall’interesse per quella che in seguito fu chiamata civiltà. Gli storici di questa scuola studiavano il progres­ so dell’umanità quale si rifletteva nelle istituzioni politiche, nella religione, nel commercio, nei costumi. Com’era naturale, dati i lo­ ro interessi, essi non miravano a stabilire l’autenticità dei fatti in­ dividuali, ma piuttosto a tracciare lo sviluppo dell’umanità. I loro libri rientravano meglio nella saggistica che nella trattatistica dot­ ta. Mentre gli eruditi traevano motivo di orgoglio dalle lunghe note (lasciando tuttavia al secolo xix di produrre la piu lunga no­ ta a piè di pagina di tutta la letteratura, quella di centosessantacinque pagine nella History of Northumberland) gli storici filo­ sofici di rado esponevano la loro documentazione e ci tenevano in­ vece a essere leggibili. Sceglievano quelli che ritenevano i fatti piu salienti secondo una teoria preconcetta. Discutevano piu che non narrassero. « Malheur aux détails, - esclamava Voltaire fin dal 1738, - c’est une vermine qui tue les grands ouvrages »\ Il Discours préliminaire à l’Encyclopédie di D ’Alembert, che provocò Gibbon, si dilungava su questo argomento.12 1 M i riferisco all’autorità di p. haverfield , The Roman Occupation of Britain, 1924, 83. 2 CEuvres complètes, Correspondance, I I I , 1880, 30 (A M . l ’A bbé Dubos).

IL CONTRIBUTO DI GIBBON AL METODO STORICO

XXI

L ’importanza rivoluzionaria degli storici filosofici non deve na­ turalmente essere sottovalutata neppure per un attimo. Essi capi­ rono che un cumulo di fatti non fa storia e che i componenti della civiltà, quali il diritto, la religione e il commercio, sono piu im­ portanti dei trattati diplomatici o delle battaglie. Infine essi su­ perarono quella visione unilaterale della storia che si limitava agli avvenimenti politici e militari. In un certo senso noi studiosi mo­ derni di storia siamo tutti discepoli degli storici filosofici. Ogni volta che studiamo la storia della popolazione, della religione, del­ l’istruzione, del commercio, ricalchiamo le orme di Montesquieu, di Voltaire, di Hume, di Condorcet. C ’era tuttavia il grande pericolo che una storia filosofica di que­ sto genere continuasse a essere scritta capricciosamente, con una scelta casuale dei fatti. Gli storici eruditi avevano raccolto e siste­ matizzato un certo numero di regole per un appropriato uso della documentazione. L ’Ars Critica di Ledere, i cosiddetti Propylaea degli Acta Sanctorum insieme con il De re diplomatica di Mabillon sono alcuni tra i migliori esempi di questo tipo di introduzio­ ne al metodo storico. Tutte queste regole significavano assai poco per lo storico filosofico; e c’era il rischio che potessero apparire come antiquate. Gli studiosi degli ultimi tre secoli di storia non erano direttamente coinvolti in questi conflitti. Gli storici filosofi­ ci non si opponevano alle ricerche particolareggiate sulla storia moderna; e il rigore metodico delle ricerche che si facevano sui periodi piu recenti era molto minore di quello abituale tra anti­ quari. Ma dove si trattava di storia antica e medievale, c’era il pe­ ricolo che andasse perduta un’esperienza di dottrina accumulatasi durante secoli di studio con una straordinaria capacità di discerni­ mento. Coloro che rimanevano ancora fedeli agli antichi dèi del­ l ’erudizione erano sempre piu avulsi dalle forze vive della cultu­ ra del loro tempo, oltre ad essere esposti all’ironia e agli attacchi dei filosofi. Non era uno scherzo diventare un bersaglio per Vol­ taire. in. A questo punto entrò in scena Gibbon. Egli mirava a riu­ nire in sé il filosofo e l’antiquario. La sua prima opera, l’Essai sur l’étude de la littérature, scritto nel 1739 e pubblicato nel 1761, mostra già quanto seriamente avesse riflettuto sui problemi di me­ todo e quanto avanzato egli fosse sulla via della storia filosofica combinata con una certa propensione per gli studi antiquari. Egli esaltava il Dictionnaire di Bayle come « un monument eternel de la force et de la fécondité de l’érudition combinée avec le génie »;

XXII

ARNALDO MOMIGLIANO

metteva in discussione il pirronismo storico « utile e pericoloso »; voleva una « storia filosofica dell’uomo », ma protestava veemen­ temente contro il disprezzo di D ’Alembert per l’erudizione. È evi­ dente che quando terminò l’Essai nel 1759 aveva già scelto i punti su cui non poteva essere d’accordo con i suoi maestri francesi. In letteratura le sue simpatie andavano agli antichi contro i moder­ ni; in filosofia pensava che un contributo inestimabile alla cono­ scenza della natura umana sarebbe venuto dallo studio minuzioso del mondo antico. Sebbene fosse già allora ammiratore di Voltai­ re, era sicuro che la buona causa sarebbe stata aiutata dall’erudi­ zione. In effetti, i suoi interessi storici concreti muovevano già in direzione del suo futuro capolavoro. Discuteva le origini del poli­ teismo, inseriva nel saggio una digressione non pertinente sul pri­ mo trattato tra Roma e Cartagine e si prospettava persino il pro­ blema delle cause della decadenza di Roma. Ancora per alcuni an­ ni egli credette che le « età del mondo e i climi del globo » si of­ frissero indiscriminatamente alla sua scelta. Egli vagò alla ricerca di un soggetto per uno studio storico. Corse il pericolo di occupa­ re i suoi anni migliori a scrivere una storia della libertà degli sviz­ zeri, sebbene il materiale fosse « saldamente tenuto sotto chiave nell’oscurità di una barbara, antica lingua germanica » che non ca­ piva. Finalmente i suoi primi e piu genuini interessi per l’antichi­ tà e il cristianesimo emersero vittoriosil. I diari di Gibbon che sono stati pubblicati forniscono altre im­ portanti testimonianze sulla sua formazione intellettuale. Gibbon, anche quando aveva in mente altri progetti letterari, leggeva so­ prattutto libri sulla Grecia e Roma. È evidente che tutta la sua educazione lo aveva preparato a preferire la decadenza di Roma a qualsiasi argomento non classico. Nel 1762 notava che Voltaire non era «uomo da curvarsi su ammuffiti scrittori monastici per istruirsi». D ’altra parte egli indicava Erasmo, il cui «sapere era tutto genuino e fondato sulla lettura accurata degli autori anti­ chi », e il cui genio « era capace di vedere oltre le inutili sottigliez­ ze della scolastica, di risuscitare le leggi della critica, di trattare ogni argomento con eloquenza e delicatezza, talvolta emulando gli antichi, sovente imitandoli, e mai copiandoli». Criticava anche l’abate Mably perché « attribuiva maggior peso alle qualità parti­ colari degli individui, spesso descritti male, che ai costumi, al ca­ rattere e alla situazione delle nazioni » \12 1 Le citazioni d ell’Essai n ell’edizione del 1761 sono dalle pp. 15, 49, 105. 2 d. M. lo w . G ibbon ’s Journal to January aSth, 1763, London 1929, 104, 129 147-48 183. Cfr. p. e x per la composizione d ell’Essai. ’ ’

IL CONTRIBUTO DI GIBBON AL METODO STORICO

XXIII

La parte francese dei diari, recentemente pubblicata con il ti­ tolo Journal de Lausanne, dimostra una maturità di giudizio an­ che maggiore. Nel 1762 Gibbon pare che ammirasse ancora il po­ polare storico Vertot, specializzato in rivoluzioni di tutti i paesi: Roma, Svezia, Portogallo. Un anno dopo, nel 1763, osservava mordace che i libri del Vertot erano romanzi storici: « ses ouvrages, qui se font lire comme des romans, ne leur ressemblent que trop ». Egli era ormai ben coscio dei recenti sviluppi rivoluzionari sopravvenuti nell’archeologia italiana in seguito alle scoperte dei cimiteri etruschi e di Ercolano. Pertanto egli progettò una nuo­ va descrizione dell’Italia antica, ma voleva che fosse scritta en philosophe, per dimostrare l’influenza delle condizioni geografi­ che sulla storia romana. La lettura di Rutilio Namaziano, che ave­ va iniziata perché lo interessava dal punto di vista geografico, gli ripresentò il problema della decadenza di Roma. È difficile sopravvalutare le pagine del Journal scritte su que­ sto argomento nel dicembre 1763. Il poemetto di Rutilio accen­ nava a tutti gli aspetti della vita romana all’inizio del secolo v d. C., quando fu scritto. Gibbon si accorse che Rutilio era insieme testimone e vittima della decadenza di Roma. Simpatizzava con il pagano che aveva visto la propria religione crollare sotto il peso della decrepitezza coinvolgendo nel crollo l’impero1. Gibbon non trovò mai il tempo per scrivere il suo progettato saggio su « l’état de la littérature en France, les gens de lettre, les Académies et le Théatre ». Ma le sue osservazioni sulle monete del Cabinet du Roi mostrano in quale campo lavorasse quando era a Parigi: « j’eus le plaisir, ou si l’on veut le chagrin, de suivre la décadence des beaux arts depuis le siècle [rie] d’Alexandre et d’Auguste où la plus petite monnaye de cuivre est d’une gravure exquise jusq’aux temps ténébreux du bas-empire dont les médailles laissent entrevoir à peine les traces de la figure humaine » ( 24 febbraio 1763). Il diario del viaggio in Italia si ferma (tranne che per qualche notazione poco importante) alle porte di Roma; e le pagine su To­ rino, Milano, Genova, Lucca, Firenze e altre città del nord sono inevitabilmente piene di particolari su cose viste e persone incontrate. Riflessioni su argomenti di ampio respiro vi sono di rado ri1 g , Bonnard, Le Journal de Gibbon à Lausanne, 17 Aout 1763 - 1 9 Avril 1764, Lau­ sanne 1945, 122, 167, 177. Cfr. id ., Vimportance du deuxième séjour de Gibbon à Lausanne dans la formation de Vhistorìen, in Mélanges Ch. G illiard, Lausanne 1944 e 1 acuta osserva­ zione di L. s. sutherland , in « E n gl. H ist. R ev.», L& I, 1946, 408. Importante per gli anni formativi di G ibbon, h . s . offler , E. G. and thè making oj bis Swiss History, in «Durham Univ. Journal», X L I, 1949, 64.

XXIV

ARNALDO MOMIGLIANO

portate. Ma due soprattutto meritano di essere ricordate. Le anti­ chità egizie del Museo di Torino suggeriscono l’osservazione: « J’avoue cependant que l’Egypte, toute curieuse qu’elle est, est trop éloignée, trop obscure et trop énigmatique pour m’intéresser beaucoup » (6 maggio 1764). A Firenze trovò il tempo per leggere in parte la Histoire de Oannemarc di P. H. Mallet e di riflettere sul­ le cause e gli effetti della diffusione del cristianesimo tra i barbari germanici . La decadenza di Roma, la diffusione del cristianesi­ mo: i due temi andavano lentamente associandosi nella mente di Gibbon. iv. Nel 1769 usci la History of thè Emperor Charles V, di William Robertson. Questi potè soltanto rafforzare le tendenze di Gibbon verso 1 erudizione. Sebbene Robertson accettasse gran parte delle opinioni di Voltaire sul Medioevo, non poteva appro­ varne lo sdegnoso disprezzo per le regole storiche convenzionali. Scriveva: « Non ho citato una solta volta il signor di Voltaire, che, nel suo Essai sur l’Histoire générale, ha esaminato lo stesso periodo e ha trattato di tutti questi argomenti. Ciò non deriva da trascuratezza per le opere di quell’uomo straordinario, il cui ge­ nio, non meno intraprendente che universale, si è cimentato in quasi ogni genere di composizione letteraria... Ma poiché egli di rado imita l ’esempio degli storici moderni di citare gli autori da cui si sono avute le informazioni, io non posso onestamente ap­ pellarmi alla sua autorità per confermare un qualsiasi fatto dub­ bio o ignoto » . È chiaro che Robertson, come Gibbon, era preoc­ cupato del problema di mantenere il rigore della ricerca storica. Dubito, tuttavia, che Robertson sia arrivato in tempo a esercitare un profondo influsso sulla formazione del metodo storico di Gib­ bon. Questi stava ormai lavorando assiduamente a Decime and Fall, Inoltre vi sono alcune differenze cospicue tra Robertson e Gibbon. Naturalmente mi occupo solo della prima parte della History of thè Reign of thè Emperor Charles V, cioè di A View of thè Progress of Society in Europe from thè Subversion of thè L e pagine del Journal on Paris sono ora pubblicate in G. r . de beer , g. a Bonnard j f l s. cf anea Gtbboniana, Lausanne 1952, 93-107. Le riflessioni sul cristianesimo suggerite dal M allet sono tradotte in inglese e riportate in Miscellaneous Works, I II 2a ed. i t i t e l i r a t I osservazione più caratteristica vi è soppressa. L ’ultim o paragrafo dice nel1 originale (16 luglio 1764): «U n protestant diroit encore que le Christianisme du X rac siècle etoit bien plus difficile a digerer que celui du V n,e: il l ’est assurément pour un raisonneur ’ I T ? ” que le raisonnement a eu assez peu de pari dans ces changements, et quand ®bsurclltes de sa propre secte, se rebute-t-on pour quelques mystères de plusv LCnbbon s Journey from Ceneva to Rome, ed. G . A . Bonnard, London 1961] History of thè Reign ecc., 7* ed., I 1792, 477

IL CONTRIBUTO DI GIBBON AL METODO STORICO

XXV

Roman Empire to thè Beginning of thè Sixteenth Century, che può essere adeguatamente confrontata con il tema e il metodo di Decline and Fall. Robertson effettuò le sue ricerche soprattutto sulla storia medievale giuridica e costituzionale e compì opera da pioniere sui problemi della proprietà terriera. Non studkx il sor­ gere del cristianesimo e dell’islamismo, le invasioni barbariche, le polemiche religiose, che sono gli argomenti di Gibbon. Egli non mirava a un’esposizione completa degli avvenimenti. Il testo del­ la sua View è uno schizzo molto breve. Le sono sommamente irritati in q questa occasione, con8l4“ Agricola. 3 h orsley , Britannia Romana, I, io

FORZA MILITARE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

15

la morte, derivante dalla ferma persuasione dell’immortalità e tra­ smigrazione delle anime1. Decebalo, loro re, si mostrò rivale non indegno di Traiano, e non disperò mai della fortuna, finche, per ammissione dei suoi stessi nemici, non ebbe esaurito tutte le risor­ se del valore e della politica2. Questa guerra memorabile, inter­ rotta soltanto da una brevissima tregua, durò cinque anni; e poi­ ché l’imperatore potè impiegarvi liberamente tutte le forze del­ lo stato, essa fini con la completa sottomissione dei barbari . La nuova provincia della Dacia, che costituiva una seconda eccezione al precetto di Augusto, aveva un perimetro di quasi milletrecento miglia. I suoi confini naturali erano il Dnestr, il Theiss o Tibisco, il Danubio inferiore e il Ponto Eusino. Si vedono ancora le tracce di una strada militare dalle rive del Danubio alle vicinanze di Bender, località famosa nella storia moderna e oggi frontiera tra 1 im­ pero turco e quello russo . .,. Traiano era avido di gloria; e finché gli uomini saranno piu lar­ Conquiste di Traiano ghi di lodi verso chi li distrugge, che verso chi li benefica, la sete in Oriente della gloria militare sarà sempre il vizio degli animi piu elevati. Le lodi di Alessandro, trasmesse da una successione di poeti e di storici avevano acceso nell’animo di Traiano una pericolosa emu­ lazione. Come Alessandro, l’imperatore romano intraprese una spedizione contro i popoli dell’Oriente; ma deplorava sospirando che la sua età avanzata non gli lasciasse la speranza di eguagliare la fama del figlio di Filippo5. Tuttavia, il successo di Traiano, sebben passeggero, fu rapido e splendido. I Parti degeneri, divisi per le intestine discordie, fuggirono davanti alle sue armi. Egli scese trionfante il Tigri, dalle montagne dell’Armenia al Golfo Persico, ed ebbe l’onore di essere il primo e l’ultimo generale romano che navigasse in quel mare lontano. Le sue flotte devastarono le coste dell’Arabia; e Traiano si lusingò, ma invano, di toccare 1 conimi dell’India6. Ogni giorno il senato riceveva con meraviglia la noti­ zia di nuovi sovrani e di nuovi popoli, che riconoscevano la sua autorità. Seppe che i re del Bosforo, della Colchide, dell Ibena, 1 ERODOTO, iv , 94; GIULIANO, Cesari, con le osservazioni di Spanheim. 3 dione°C a s s io , Yxv’rn , PP- 1123, H 3 U giuliano , Cesari; eutropio , v ili, 2, 6; aure L!° ^ U n ^ m e m o r iT d e l d ’Anville sulla provincia della Dacia (in Mém. de l ’Acaderme des

τη^ι».,·ΑΙ ΡΙΑΝ0’ P r o em >.e, le unif°rm i descrizioni dei poemi di Ossian, i quali secondo ogni ipotesi furono composti da un nativo della Caledonia secondo ogni Si veda il Panegirico di Plinio, che sembra fondato sui fatti 6 DIONE CASSIO, LXVII.

Zkjc« p « o m ^ X X V III; PPa .444 6s^ no rappresentati jn modo molto giusto e vivace nei Cesari dl G ‘ UEutropio e Sesto Rufo hanno voluto perpetuare questa illusione. Si veda una penetrante dissertazione di Fréret in Mém. de l ’Académie des Inscnptions, A A l, p. 55.

l6

CAPITOLO PRIMO

dell Albania , di Osroene e perfino quello dei Parti avevano accet­ tato i loro diademi dalle mani dell’imperatore, che le tribù indipendenti delle montagne della Media e dei Carduchi avevano im­ plorato la sua protezione e che le ricche regioni dell’Armenia, del­ la Mesopotamia e dell’Assiria erano ridotte a province \ Ma la mor­ te di Traiano oscuro in un momento quella splendida prospettiva; e vi era giustamente da temere che tanti popoli lontani scuotessero il giogo cui non erano avvezzi, quando non fossero più trattenuti dalla mano potente che l’aveva imposto. Abbandonate Era antica tradizione, che quando il Campidoglio fu eretto da dal suo successore un re di Roma, il dio Termine (che presiedeva ai confini e secon­ Adriano do l’uso di quei tempi era rappresentato come una grossa pietra) fosse il solo tra tutti gli dèi inferiori che avesse rifiutato di cedere il proprio posto a Giove. Questa ostinazione fu interpretata dagli auguri come sicuro presagio che i confini della potenza romana non sarebbero mai stati ridotti3. Per molti secoli la predizione, come di solito avviene, contribuì al suo proprio adempimento4; ma il dio Termine, che aveva resistito alla maestà di Giove, cedette all’au­ torità di Adriano. La cessione di tutte le conquiste orientali di Traiano fu la prima decisione del suo regno. Egli ridiede ai Parti il diritto di eleggere un sovrano indipendente, ritirò le guarnigioni romane dalle province dell’Armenia, della Mesopotamia e dell’Assiria, e secondo il precetto di Augusto stabili nuovamente l’Eufrate come frontiera dell’impero5. La critica, che processa le azioni pub­ bliche e i moventi privati dei principi, ha imputato all’invidia una condotta, che sarebbe da attribuire alla prudenza e moderazione di Adriano. Il carattere incostante di questo imperatore, capace dei piu meschini e dei piu nobili sentimenti, può dare qualche colore a quel sospetto. Egli non poteva tuttavia mettere in una luce più luminosa la superiorità del suo predecessore, che confessandosi co­ si incapace di difendere ciò che Traiano aveva conquistato. Contrasto Lo spirito marziale e ambizioso di Traiano faceva un contra­ fra Adriano e Antonino sto molto singolare con la moderazione del suo successore; e non Pio meno notevole fu l’irrequieta attività di Adriano, paragonata alla tranquillità di Antonino Pio. La vita di Adriano fu quasi un contrio n a le H N d Ψ'f ™ 3 ( ° * erna Georgia) e Albania Caspica (odierno Azerbaigian setten2 DIONE CASSIO, LXVIII. 2VI“ ? ’ FaT > n >6è 7 - Tito L ivio nel regno di Tarquinio. 11, sant Agostino si compiace molto di questa prova della debolezza del dio Termine e d e lk vanita degli auguri (De Civitate D ei, iv, 29). Htst. August., p. 5, la Cronaca di san Girolam o e tutte le epitome. È ben singolare che filino0 memorablle avveDlmento sia stato omesso da Dione Cassio, o per dir m eglio, da Si4

FORZA MILITARE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

17

tinuo viaggio; e poiché possedeva le varie doti di soldato, di poli­ tico e letterato, soddisfaceva la sua curiosità compiendo insieme il proprio dovere. Incurante della differenza delle stagioni e dei climi, andava a piedi e a testa nuda sulle nevi della Caledonia e sulle calde pianure dell’Egitto Superiore; e non vi fu provincia del­ l’impero che nel corso del suo regno non fosse onorata dalla pre­ senza del monarca1. Al contrario, Antonino Pio passò tutta la sua vita tranquillamente in Italia, e in ventitré anni di governo i più lunghi viaggi di questo amabile principe non superarono la distan­ za dal palazzo di Roma alla sua villa di Lanuvio2. Nonostante questa differenza di carattere, Adriano e i due An­ Sistema pacifico tonini adottarono egualmente e seguirono uniformemente il siste­ di Adriano e dei due ma generale di Augusto, persistendo nel proposito di mantenere Antonini la dignità dell’impero senza tentare di estenderne i confini. Con ogni espediente onorevole, sollecitarono l’amicizia dei barbari e cercarono di convincere i popoli che la potenza romana, superiore alle tentazioni della conquista, era animata soltanto dall’amore del­ l’ordine e della giustizia. Per il lungo periodo di quarantatre anni le loro virtuose fatiche furono coronate da successo; e se si eccet­ tuano poche lievi ostilità, che servirono a esercitare le legioni del­ le frontiere, i regni di Adriano e di Antonino Pio presentano il bel quadro di una pace universale3. Il nome romano era venerato dai popoli più lontani della terra. I barbari piu feroci spesso eleg­ gevano l’imperatore quale arbitro delle loro discordie; e uno sto­ rico contemporaneo narra di aver veduto degli ambasciatori ve­ nuti a chiedere l’onore, che fu loro rifiutato, di essere ammessi nel numero dei suoi sudditi4. Il terrore delle armi romane accresceva l’importanza e la di­ Guerre difensive gnità alla moderazione degl’imperatori. Essi mantennero la pace di Marco Aurelio preparandosi costantemente alla guerra; e mentre la giustizia di­ rigeva la loro condotta, facevano conoscere ai popoli confinanti che, se erano alieni dal recare offese, non erano neppure disposti a tollerarle. La forza militare, che ad Adriano e Antonino Pio era bastato mostrare, fu impiegata da Marco Aurelio contro i Parti e 1 Dione ca ssio , l x ix , p. 115; Htst. August., pp. J, 8. Se tutte le opere degli storici fossero perdute, le medaglie, le iscrizioni e gli altri monumenti di questo secolo basterebbero per farci conoscere i viaggi di Adriano. 3 Dobbiamo tuttavia ricordare che sotto Adriano il fanatismo armò gli ebrei e suscitò una violenta ribellione, sebbene in una sola provincia. Pausania ( v ili, 43) Parla di due guerre necessarie e vittoriose dei generali di Antonino Pio: una contro 1 nomadi della Mauritania, i quali furono cacciati nei deserti del M onte Atlante, l ’altra contro 1 Briganti della Britanma, che avevano invaso la provincia romana. La Historia Augusta ricorda queste due guerre e 4 Appiano di Alessandria nella prefazione della sua Storia delle guerre romane.

CAPITOLO PRIMO

i Germani. Le ostilità dei barbari provocarono la reazione di que­ sto imperatore filosofo, che per una giusta opera di difesa ottenne insieme ai suoi generali molte segnalate vittorie sull’Eufrate e sul Danubio L ’ordinamento militare dell’impero romano, che ne as­ sicurava la tranquillità e i successi, sarà ora il preciso e importante oggetto della nostra attenzione. Norme Nei secoli piu puri della repubblica, il servizio militare era ri­ militari degli servato a quelle classi di cittadini, che avevano una patria da amaimperatori romani re, un patrimonio da difendere e una parte nella promulgazione di quelle leggi, che era loro interesse e dovere conservare. Ma a misura che la liberta si perdeva con l ’estendersi delle conquiste, la guerra a poco a poco divenne un’arte e degenerò in mestiere2. Le legioni, anche quando erano reclutate nelle piu lontane province si ritenevano composte di cittadini romani. Questa distinzione era in genere considerata come una qualificazione legale, o una ricom­ pensa riservata a soldati; ma si aveva specialmente riguardo ai requisiti essenziali dell’età, della forza e della statura3. In tutte le leve si preferivano giustamente le reclute dei paesi settentrionali a quelle del Mezzogiorno. Gli uomini atti alle armi si cercavano piuttosto nelle campagne che nelle città, e si presumeva con molta ragione che 1 pesanti mestieri del fabbro, legnaiolo e cacciatore dessero piu vigore e risolutezza, che le arti sedentarie al servizio del lusso . Anche quando si tralasciò ogni considerazione di censo, gli eserciti degl’imperatori romani continuavano a essere co­ mandati in maggioranza da ufficiali di nascita e di educazione ele­ vata; ma i soldati, come le truppe mercenarie dell’Europa moder­ na, erano tratti dalla parte piu bassa e spesso più scellerata della società. Disciplina v Quella virtù pubblica, che gli antichi chiamavano patriottismo e prodotta dal forte sentimento del nostro interesse alla conserva­ zione e prosperità del libero governo del quale siamo membri. Tale sentimento, che aveva reso le legioni della repubblica quasi invincibili, non poteva fare che una debolissima impressione sui servi mercenari di un principe dispotico, e fu necessario supplire a questo difetto con altri motivi di diversa, ma non meno forte na1 DIONE CASSIO, L x x r Hist. August. (Marco, iv , 9-22). Le vittòrie riportate sui Parti in riS ro lo ^ n un^vivadss^ma c ritk a 8eV°^

^

LudaW> ha Salvat° daI1’oblio e mess0

«reeVv llb b a rame/( s La Plebe’ Per rantica istitu z io n e A d t ì S tare v iiSf,ttanta fu ammessa da tM ano a l l u s t io , De bell. Jugurth., 91). rU U “ Ì ' P0S? la k * I0? e Alauda di G alli e di stranieri; ma lo fece durante la licenza

♦ ' ^GEZio,D'e r / X i r ”



^

^

rÌC° mpeDSa fl diritt° di cittadinanza.

FORZA MILITARE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

19

tura: l’onore e la religione. I contadini e gli artigiani appresero l’utile pregiudizio di essere stati elevati alla più nobile professione delle armi, nella quale il grado e la reputazione dipenderebbero dal loro valore; e che sebbene gli atti di valore di un soldato sfug­ gano sovente all’attenzione della fama, il suo comportamento po­ teva talora recare gloria o disonore alla compagnia, alla legione e perfino all’armata ai cui onori era associato. Appena arruolato, doveva prestare giuramento con ogni apparato di solennità. Egli prometteva di non abbandonare mai la sua bandiera, di sottomet­ tere il proprio volere agli ordini dei comandanti e di sacrificare la vita per la salvezza dell’imperatore e dell’impero1. L ’attaccamen­ to delle truppe romane alle loro bandiere era ispirato dalla dupli­ ce influenza della religione e dell’onore. L ’aquila d’oro, che splen­ deva alla testa della legione, era oggetto della loro più affettuosa devozione, e abbandonare quella sacra insegna nell’ora del penco­ lo era considerato non meno empio che ignominioso . Questi mo­ tivi, che dovevano la loro forza alPimmaginazione, erano corrobo­ rati da timori e da speranze di un genere più sostanziale. La paga regolare, i donativi in diverse occasioni e la statuita ricompensa alla fine del servizio, alleviavano le durezze della vita mutare , mentre dall’altra parte era impossibile alla viltà o alla disobbedien­ za sfuggire a severissime punizioni. I centurioni potevano punire con le percosse, i generali avevano il diritto di infliggere la morte; ed era massima inflessibile della disciplina romana che un buon soldato dovesse temere i suoi ufficiali più dei nemici. Da tali lode­ voli mezzi il valore delle truppe imperiali ebbe un grado di fermez­ za e di docilità, irraggiungibili dalle impetuose e volubili passioni dei barbari. c · E tuttavia i Romani erano cosi consapevoli dell imperfezione del valore, disgiunto dalla perizia e dalla pratica, che nella loro lingua il nome esercito fu derivato dal verbo che significa esercìzio4. Gli esercizi militari erano l’importante e continuo oggetto della loro disciplina. Le reclute e i giovani soldati venivano co1 II giuramento di fedeltà all’imperatore era rinnovato ogni anno il primo di gennaio 2 Tacito chiama le aquile romane «Bellorum Deos». Custodite in una cappella in mezzo al ramno erano adorate dai soldati al pari delle altre divinità. , . , v 3 GRONOVIO, D e pecunia vetere, n i, pp- 120 sgg. L ’imperatore Domiziano elevo 1 annua paga dei legionari a dodici monete d ’oro, circa dieci ghinee. Questa paga un po piu alta della nostra in seguito aumentò gradatamente coi progressi del governo militare e della rie chezza delTò sm o Dopo venti anni di servizio, i veterani ricevevano tremila denari, circa cen trstetfin e o un pezzo di terra equivalente. La paga dei pretoriani era doppia d i quella dei legionari e in generale godevano altri privilegi. . \ i&Exercitus ab exercitando (varrone , De lingua Latina, iv; cìcerone , T a i c a t o i ’ un’a3na Sarebbe un’opera m olto interessante l ’esame dell’affinità tra la lingua e i costumi di una nazione.

gu esercizi

20

Le legioni sotto gli imperatori

CAPITOLO PRIMO

stantemente esercitati la mattina e la sera, e neppure l’età o la pra­ tica potevano esentare i veterani dalla quotidiana ripetizione di ciò che avevano perfettamente imparato. Nei quartieri d’inverno si alzavano grandi tettoie, affinché quelle utili fatiche non fossero interrotte neppure col tempo piu avverso, e si curava che le armi, destinate a questa guerra simulata, fossero di peso doppio di quel­ le usate nella guerra vera . Non è oggetto di quest’opera entrare in minute descrizioni degli esercizi militari romani. Osserveremo soltanto che comprendevano tutto ciò che poteva accrescere forza al corpo, elasticità alle membra e grazia ai movimenti. I soldati erano diligentemente addestrati a marciare, correre, saltare, nuo­ tare, portare gravi pesi, maneggiare armi d’ogni specie, sia offen­ sive che difensive, nel combattimento a distanza o nel corpo a cor­ po, a fare vari movimenti e a muoversi al suono del flauto nella danza pirrica o guerresca . In tempo di pace le truppe romane si rendevano familiare la pratica della guerra; e bene osserva un an­ tico storico, che aveva combattuto contro di loro, che lo spargi­ mento del sangue era la sola circostanza che distinguesse un cam­ po di battaglia da un campo di esercitazioni3. Era politica dei piu abili generali, ed anche degli stessi imperatori, d ’incoraggiare con la loro presenza e col loro esempio questi studi militari; e sappia­ mo che Adriano e Traiano si degnavano spesso d’istruire i soldati inesperti, di premiare quelli diligenti e talvolta di disputare con essi il premio della superiorità nella forza o nella destrezza4. Nei regni di questi principi la tattica fu coltivata con successo, e finché 1 impero ebbe qualche vigore, le loro istruzioni militari furono ri­ spettate come il piu perfetto modello della disciplina romana. Nove secoli di guerre avevano gradatamente introdotto nel ser­ vizio militare molti mutamenti e miglioramenti. Le legioni, secon­ do la descrizione di Polibio , al tempo delle guerre puniche diffe­ rivano molto da quelle che riportarono le vittorie di Cesare, o di­ fesero la monarchia sotto Adriano e gli Antonini. L ’organico del­ la legione imperiale si può descrivere in poche parole6. La fante‘ vegezio , D e re militari, n , e il resto del suo primo libro. criDtinnr ηί, ,Λ *3*0 0tÀimame" te la dan® Pirri“ “ Mém. de l'Académie des Inscriptions, λ λ χ ν , pp. 262 sgg. Questo dotto accademico ha raccolto in una serie di eccellenti memorie tutti 1 passi degli autori antichi concernenti la legione romana ««SEPPE flavio , D e bell Judaico, in , j . Siamo debitori a questo scrittore ebreo di particolari molto interessanti sulla disciplina romana 5 PLINIO, Panegirico 13; vita di Adriano nella Historia Augusta. Romani

S6St0 Λ γ° della SUa St° rÌa u n ’ammirevoIe digressione sulla disciplina dei

VEGEZio, D e re m ilitari,11 4 sgg. Una parte considerevole del suo compendio è presa ad alcun ahr^ L còlo^ elhim pero^ om an o. ^

^

U Μ < : ’ ° ° n pUÒ ™

ire

FORZA MILITARE DELLTMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

21

ria pesante, che formava la sua forza principale ', era divisa in die­ ci coorti e cinquantacinque compagnie, agli ordini di un numero corrispondente di tribuni e centurioni. La prima coorte, che recla­ mava sempre il posto d’onore e la difesa dell aquila, era compo­ sta di 1105 soldati, i piu provati per valore e fedeltà. Le altre nove coorti erano ciascuna di 555 uomini e tutta la fanteria d una legione ammontava a 6100 uomini. Le loro armi erano uniformi e mirabilmente adatte alla natu- Le armi ra del loro uso: un elmo aperto con un alto cimiero, un pettora­ le, o giaco di maglia, le gambiere e un ampio scudo al braccio sini­ stro. Lo scudo era rettangolare e concavo, lungo quattro piedi e largo due e mezzo, fatto di un legno leggero, coperto di pelle di bue e fortemente protetto con piastre di bronzo. Oltre a una leg­ gera lancia, il legionario teneva nella destra il formidabile pilum, un pesante giavellotto della lunghezza massima di sei piedi, termi­ nante in una massiccia punta triangolare di acciaio lunga diciotto pollici2. Questo strumento era molto inferiore alle armi moder­ ne, esaurendosi in una sola scarica e si poteva lanciare a soli dieci o dodici passi; ma quando era lanciato da una mano forte ed esper­ ta, non v ’era cavalleria che potesse arrischiarsi entro la sua porta­ ta, né scudo o corazza che potesse sostenere l’impeto del suo peso. Appena il soldato romano aveva lanciato il suo pilutn, sguainava la spada e si lanciava a corpo a corpo contro il nemico. Questa spada era una lama spagnola corta e ben temprata a doppio taglio, che poteva usarsi sia di taglio che di punta; ma il soldato era sem­ pre istruito di preferire quest’ultimo modo, poiché cosi il suo cor­ po restava meno esposto, mentre infliggeva una ferita piu perico­ losa al nemico3. La legione ordinariamente si schierava su otto righe, e si lasciava una distanza regolare di tre piedi, sia tra le file, sia tra le righe4. Un reparto abituato a conservare queste distanze su una larga fronte e correndo velocemente, poteva assumere ogni formazione che le circostanze della guerra, ο 1 abilita del coman­ dante potessero suggerire. Il soldato aveva spazio per le sue armi e i suoi movimenti, e si lasciavano intervalli sufficienti per introdur­ re tempestivamente rinforzi a sostegno dei combattenti spossa1 VEGEZIO, De re militari, n , i . A l tempo di Cicerone e di Cesare, il te™1!!16 mtles era usato quasi esclusivamente per la fanteria. N el basso impero e nel secoli della cavalleria significò quasi altrettanto esclusivamente gli uomini d ’arme che combattevano a cavallo 2 A l tempo di Polibio, di D ionigi d ’Alicarnasso (v, 45) la punta di acciaio del pilum pare fosse molto piu lunga. Nel secolo in cui scriveva Vegezio, fu ridotta a un piede, o anche a nove pollici. Io mi sono tenuto nel mezzo. . 3 Sulle armi dei legionari, si veda giusto l ip s io , De mihtia Romana, in , 2-7. 4 Si veda il bel paragone di V irgilio (Geòrgie., n , 279).

22

G ii

CAPITOLO PRIMO

ti La tattica dei Greci e dei Macedoni era fondata su principi mol­ to diversi. La forza della falange consisteva in sedici righe di lun­ ghe aste, a stretto contatto fra loro2; ma presto si scopri con la ri­ flessione, non meno che con l’esperienza, che la forza della falan­ ge non poteva competere col dinamismo della legione3. cavalleria cav^ } ^ a>sen2a ^ quale la legione sarebbe rimasta incom­ pleta, era divisa in dieci reparti, o squadroni; il primo, come compa­ gno della prima coorte, era composto di 132 uomini, mentre cia­ scuno degli altri nove ne contava soltanto 66. L ’intero corpo for­ mava (se è lecito usare questo termine moderno) un reggimento di 726 cavalieri, naturalmente unito con la propria legione, ma sepa­ rato secondo il bisogno per agire in linea e per comporre una parte delle ali dell armata . La cavalleria degl’imperatori non era piu composta, come quella dell’antica repubblica, dei piu nobili giova­ ni di Roma e d Italia, i quali, facendo il loro servizio militare a cavallo, si preparavano agli uffici di senatore e di console, solleci­ tando con atti di valore i futuri suffragi dei loro concittadini5. Do­ po il mutamento dei costumi e del governo, i membri piu facoltosi dell’ordine equestre venivano impiegati nell’amministrazione della giustizia e delle finanze ; ma se abbracciavano la professione delle armi, era loro immediatamente affidato il comando di uno squadrone o di una coorte . Traiano e Adriano reclutavano la loro cavalleria dalle stesse province e dalla stessa classe di sudditi che fornivano gli uomini per la legione. I cavalli provenivano in mag­ gioranza dalla Spagna, o dalla Cappadocia. La cavalleria romana di­ sprezzava 1 armatura intera, con cui s’aggravava la cavalleria orien­ tale. Le sue armi più utili di difesa erano l’elmo, lo scudo rettan­ golare, leggeri stivali e la lorica. Il giavellotto, e una lunga e larga spada, erano le armi principali di offesa. L ’uso delle lance e delle mazze ferrate sembra che lo prendesse dai barbari “. ausiliari La sicurezza e l’onore dell’impero erano principalmente affiGuÌchard (Métnoires Milìtaires, I, 4 e Nouveaux Mémoires, I, pp, 293-311) ha trattato questo soggetto da dotto e da ufficiale. 2 arm ano , "Tattica. Da vero greco, Arriano ha preferito descrivere la falange, che gli era nota solo per gli scritti, anziché le legioni, che aveva comandato POLIBIO, XVII. vegezio , D e re militari, il, 6, La sua esplicita testimonianza, che potrebbe essere avvalorata da prove circostanziate, dovrebbe far tacere quei critici che negano alla legione impe­ riale il suo corpo di cavalleria. ^ ^ ecU T ito L ivio quasi in ogni pagina, e segnatamente x l ii , 61. Plin io , Hist. Natur., x x x m , 2. Il primo a capire e chiarire il vero senso di questo passo molto interessante e stato il Beaufort (République Komaine, li, 2), C o m e n d caso di Orazio e Agricola. Sembra che questo fosse un difetto nella disciplina romana. Adriano cerco di rimediarvi, fissando l ’età legale per essere tribuno 8 arriano, Γ attica, 4.

FORZA MILITARE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

*3

dati alle legioni; ma la politica di Roma si piegava ad adottare qualsiasi utile strumento di guerra. Si facevano regolarmente leve notevoli tra i provinciali, che non avevano ancora meritato l’ono­ revole distinzione di cittadini romani. Si permetteva a molti sovrani vassalli e a molte comunità, sparse intorno alle frontiere, di conservare temporaneamente la loro libertà e sicurezza con Pobbligo del servizio militare1. Anche truppe scelte di barbari nemici erano spesso forzate, o indotte, a esercitare il loro pericoloso va­ lore in paesi lontani a benefìcio dell impero . Tutti questi erano compresi sotto il nome generico di ausiliari, e comunque potes­ sero variare per la diversità dei tempi o delle circostanze, rara­ mente il loro numero era molto inferiore a quello delle legioni . Le truppe ausiliarie più valorose e fedeli erano poste sotto il co­ mando dei prefetti e dei centurioni e severamente addestrate nel­ la disciplina romana, ma in gran maggioranza conservavano quelle armi, alle quali piu particolarmente le rendevano atte la natura del lóro paese, o le loro prime abitudini. Con questo organico ogni legione, cui si assegnava un certo numero di ausiliari ed era do­ tata di truppe leggere e di armi da getto di ogni specie, era in grado di affrontare qualsiasi avversario per la superiorità delle ar­ mi e della disciplina4. La legione non era priva di ciò che in lin­ guaggio moderno si chiamerebbe artiglieria. Questa consisteva in Artiglieria dieci macchine militari grandi e cinquantacinque più piccole, cia­ scuna delle quali lanciava pietre e dardi con violenza irresistibfles. ,. Il campo di una legione romana presentava 1 aspetto di. una Accamparne città fortificata6. Appena ne era delimitato lo spazio, i guastatori ne spianavano accuratamente il terreno e toglievano ogni impedi­ mento che potesse interromperne la perfetta regolarità. La sua for­ ma era perfettamente quadrata; e si può calcolare che un quadrato di circa settecento yarde bastasse per ventimila romani, mentre un 1 Tale era in particolare lo stato dei Batavi ( tacito , Germania, 29). 2 Marco Aurelio, dopo aver vinto i Quadi e i Marcomanni, li obbligo a tornirgli un l x x i ). 3 tacito Annal., iv, 5. Coloro che indicano un certo numero di fanti e ti doppio di cavalli, confondono gli ausiliari degli imperatori con gli alleati italici della repubblica. 4 vegezio , De re militari, n , 2; Arriano (Tattica) nella sua descrizione della marcia e della battaglia contro gli Alani. __ 5 II Folard (Polybe, I I , pp. 233-90) ha trattato delle macchine belliche con molta peri­ zia e ingegnosità; per molti rispetti le preferisce persino ai cannoni e ai mortai. V a osservato che presso i Romani l ’uso delle macchine divenne più comune a misura che ti valore perso­ nale e l’ abilità militare declinarono con il declinare dell’impero. Quando non fu piu possibile trovate uomini, convenne supplire a questa mancanza con le macchine, hi vedano vegezio , De re militari, i l, 25 e arriano , Tattica. , , 6 « Universa quae in quoque belli genere necessaria esse creduntur, secum legio debet ubique portare, u t in quovis loco fixerit castra, armatam faciat civitatem ». Con queste ema­ tiche parole Vegezio termina il suo secondo libro e la descrizione della legione.

forte contingente di truppe, ch e inviò subito in Britannia ( dionf, Ca s s io ,

24

Marce

Numero e dislocazione delle legioni

C A P IT O L O P R IM O

uguale numero delle nostre truppe presenterebbe al nemico una fronte di un’estensione piu che tripla. In mezzo al campo il pre­ torio, o quartier generale, si ergeva sugli altri; la cavalleria, la fan­ teria e gli ausiliari occupavano i loro rispettivi posti, le strade era­ no ampie e perfettamente diritte e si lasciava da ogni parte uno spazio vuoto di duecento piedi tra le tende e il terrapieno. Questo era ordinariamente alto dodici piedi, sostenuto da robuste paliz­ zate incrociate e difeso da un fossato profondo e largo dodici pie­ di. Questo importante lavoro era fatto dai legionari medesimi, ai quali l’uso della zappa e della vanga non era meno familiare di quello della spada e del giavellotto. Il valore può essere sovente un dono di natura; ma una diligenza cosi paziente non può esser frutto che dell’abitudine e della disciplina1. Ogni volta che la tromba dava il segnale della partenza, il cam­ po era disfatto quasi immediatamente e le truppe si inquadravano senza ritardo, né confusione. I legionari, oltre alle loro armi, che appena consideravano come un peso, portavano anche i loro uten­ sili da cucina, attrezzi da fortificazione e viveri per molti giorni2. Sotto questo peso, che opprimerebbe un soldato moderno, erano allenati a fare a passo regolare quasi venti miglia in sei ore3. All’apparire del nemico, gettavano il loro bagaglio e con facili e ra­ pide manovre convertivano la colonna di marcia in ordine di bat­ taglia4. I frombolieri e gli arcieri combattevano all’avanguardia, gli ausiliari formavano la prima linea, assecondati o sostenuti dal grosso delle legioni. La cavalleria copriva i fianchi e le macchine militari erano piazzate alla retroguardia. Tali erano le arti della guerra, con le quali gl’imperatori ro­ mani difesero le loro vaste conquiste e conservarono lo spirito mi­ litare, in un tempo in cui ogni altra virtù era oppressa dal lusso e dal dispotismo. Se, nella considerazione dei loro eserciti, passiamo dalla disciplina agli effettivi, non sarà facile determinarli con suf­ ficiente esattezza. Si può calcolare però che la legione, che era un corpo di 6831 soldati, potesse con i suoi ausiliari ascendere a circa 12 500 uomini. Gli effettivi delle truppe di Adriano e dei suoi successori in tempo di pace, comprendevano non meno di trenta di queste formidabili brigate e formavano molto probabilmente 1 Per la castrametazione dei Romani, po libio , v i ; giusto l ip s io , D e militia Romana; Giu s e p p e flavio , De bell. Judaico, in , 5; vegezio , D e re militari, i, 21-25, m , 9, e gui chard , Mémoires Militaires, I, 1. 2 cicerone , Tusculan., 11, 37; Giu s ep p e fla v io , D e bell. Judaico, in , 5; frontino , iv , i . 3 vegezio , D e re militari, I, 9. Mém. de l ’Académie des ìnscriptions, XV, p. 187. 4 Queste manovre sono mirabilmente spiegate dal Guichard nei suoi Nouveaux M é­ moires (I, pp. 141-234).

FORZA MILITARE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

25

una forza permanente di 375 000 uomini. Invece di stare rinchiu­ se tra le mura delle città fortificate, che i Romani consideravano come il rifugio della debolezza o pusillanimità, le legioni erano accampate sulle rive dei grandi fiumi e lungo le frontiere dei bar­ bari. E poiché i loro quartieri erano per la maggior parte fissi e permanenti, possiamo tentare di descrivere la dislocazione delle truppe. Tre legioni bastavano per la Britannia. Le forze principali erano sul Danubio e sul Reno, e comprendevano sedici legioni cosi distribuite: due nella Germania Inferiore, tre nella Superiore, una nella Rezia, una nel Norico, quattro nella Pannonia, tre nella Mesia e due nella Dacia. La difesa dell’Eufrate era affidata a otto legioni, sei delle quali erano stanziate in Siria e le altre due in Cappadocia. Poiché l’Egitto, l’Africa e la Spagna erano molto lontane dal divenire un importante teatro di guerra, una sola legione man­ teneva l’interna tranquillità di ciascuna di queste vaste province \ Neppure l’Italia era lasciata priva di forze armate; oltre a ventimi­ la soldati scelti, distinti in coorti urbane e guardie pretoriane, ve­ gliavano sulla sicurezza del monarca e della capitale. I pretoriani, come autori di quasi tutte le rivoluzioni che lacerarono l’impero, richiameranno ben presto e molto rumorosamente la nostra atten­ zione; ma nelle loro armi e nel loro ordinamento non possiamo trovare altra differenza dalle legioni, se non una piu splendida ap­ parenza e una meno rigida disciplina \

Lamarinadegl’imperatoripotrebbesembrareinadeguataallaLam arina lorograndezza; maerapienamentesufficienteaogniutilescopo delgoverno.L’ambizionedeiRomanieralimitataallaterra; quel popolobellicosononfumaianimatodallospiritointraprendente, cheavevaspintoinavigantidiTiro,diCartagineeanchediMarsi­ gliaaestendereiconfinidelmondoeadesplorarelepiuremote costedell’oceano.PeriRomanil’oceanoeraunoggettoditerrore, anzichédicuriosità12 3.DopoladistruzionediCartagineel’estirpa­ zionedeipirati, tuttoilMediterraneofucompresodentroleloro 1 Non sarà superfluo ricordare numero e nomi delle legioni, e la loro dislocazione agli inizi d ell’impero (23 d. C.), dopo la disfatta di Varo a Teutoburgo, dove ne andarono distrut­ te tre (due soltanto ricostruite): Spagna: V I V ictrix, X Gemina, I V Macedonica; Germania: I Germanica (?), V Alauda, XX Valeria V ictrix, XXI Rapax, I I Augusta, X III Gem ina, XIV Gem ina, X V I (senza nome); Pannonia: X V Apollinaris, [IX Hispana], V i l i Augusta; M e­ sia: I I I Scitica, V Macedonica; Illirico: (V II), IX Hispana, (XI); Numidia: [IX H ispana], I I I Augusta; Egitto: I II Cyrenaica; XXII Deiotariana; Siria: I II Gallica, V I Ferrata, X I ’retensis, X II Fulminata. In totale venticinque legioni, oltre la pretoriana (e le due flotte di Miseno e Ravenna) [N. d. T.]. 2 Tacito (Annal., iv, 5) ci ha dato la dislocazione delle legioni sotto Tiberio, e Dione Cassio ( l v , p. 794) sotto Alessandro Severo. H o cercato di tenere un giusto mezzo tra questi due periodi. Si veda anche g i u s t o l i p s i o , De magnitudine Romana, 1, 4, 3. 3 I Romani cercavano di nascondere la loro ignoranza e il loro terrore sotto il velo del timore religioso ( t a c i t o , Germania, 34).

3

26

Totale degli effettivi

Le province deirimpero romano

Spagna

CAPITOLO PRIMO

province, e la politica degl’imperatori mirava soltanto a conserva­ re il pacifico dominio di questo mare e a proteggere il commercio dei loro sudditi. Con queste modeste ambizioni, Augusto stabili due flotte permanenti nei porti piu adattati d ’Italia: una a Raven­ na sull’Adriatico, l’altra a Miseno nella baia di Napoli. Pare che col tempo l’esperienza convincesse gli antichi, che quando le loro galee eccedevano due o tre ordini di remi, erano piu atte a una vana pompa che a un effettivo servizio. Augusto medesimo, nella vittoria d’Azio, aveva constatato la superiorità delle sue leggere fregate, chiamate liburnie, sulle grandi, ma pesanti navi del suo rivale1. Di queste liburnie egli formò le due flotte di Ravenna e di Miseno, destinate a dominare una il settore orientale del Me­ diterraneo, l’altra l’occidentale, e ad ogni squadra uni un corpo di fanteria di marina di diverse migliaia di uomini. Oltre questi due porti, che si possono considerare come le due sedi principali della marina romana, forze considerevoli stazionavano a Fréjus, sulla costa della Provenza, mentre l’Eusino era difeso da quaranta navi e tremila soldati. A tutto ciò va aggiunta la squadra navale, che proteggeva le comunicazioni tra la Gallia e la Britannia, e un gran numero di navi tenute in permanenza sul Reno e sul Danubio per molestare il paese, o impedire il passaggio dei barbari2. Se ora rias­ sumiamo lo stato generale delle forze imperiali, sia della cavalleria, sia della fanteria, delle legioni, degli ausiliari, dei pretoriani e del­ la marina, il calcolo piu largo non ci consente di portare il numero delle forze di mare e di terra a piu di 450 000 uomini; potenza mi­ litare che, per quanto possa parere formidabile, fu uguagliata da un sovrano del secolo scorso, il cui regno era contenuto nei confini di una sola provincia dell’impero romano \ Abbiamo cercato di esporre lo spirito che guidava e la forza che sosteneva la potenza di Adriano e degli Antonini. Prenderemo ora a descrivere con chiarezza e precisione le province un tempo unite sotto il loro dominio, ma oggi divise in tanti stati indipen­ denti e tra loro nemici. La Spagna, estremità occidentale dell’impero, dell’Europa e del mondo antico, ha in ogni tempo conservato invariabilmente gli stessi confini naturali: i Pirenei, il Mediterraneo e l’Oceano Atlan­ tico. Questa grande penisola, oggi in modo cosi ineguale divisa tra . Plutarco , M. A ntonio; e ciononostante, se si deve credere a Orosio, queste enormi navi non si alzavano più di dieci piedi sul livello d ell’acqua (vi, 19). giusto h p s i o , De magnitudine Romana, 1, 3. G li ultim i sedici capitoli di Vegezio si riferiscono alla marina. 3 voltaire , Siècle de Louis X I V , 29. Non va dimenticato, però, che la Francia risente ancora di quello sforzo straordinario.

FORZA MILITARE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

27

due sovrani, fu da Augusto divisa in tre province: Lusitania, Betica e Tarraconese. Il regno del Portogallo è succeduto al bellicoso paese dei Lusitani; e la perdita subita dalla Spagna a oriente è sta­ ta compensata da un aumento di territorio a settentrione. I confini di Granata e dell’Andalusia corrispondono a quelli dell’antica Betica. Il resto della Spagna, la Galizia e le Asturie, la Biscaglia e la Navarra, Leon e le due Castiglie, Murcia, Valenza, Catalogna e Aragona, tutte concorrevano a formare il terzo e più importante dei domini romani, che dal nome della sua capitale era chiamato la provincia di Tarragona \ Tra i barbari indigeni, i Celtiberi erano i piu potenti, i Cantabri e gli Asturiani si dimostrarono i piu ostina­ ti. Confidando nella forza delle loro montagne, furono gli ultimi che si sottomisero alle armi romane e i primi che scossero il giogo degli Arabi. L ’antica Gallia, comprendendo tutto il paese che è tra i Pire­ Gallia nei, le Alpi, il Reno e l’oceano, era piu vasta della Francia odierna. Ai domini di questa potente monarchia, con i suoi recenti acquisti dell’Alsazia e Lorena, dobbiamo aggiungere il ducato di Savoia, i cantoni svizzeri, i quattro elettorati del Reno e i territori di Liegi, Lussemburgo, Hainaut, le Fiandre e il Brabante. Quando Augu­ sto diede ordine alle conquiste di suo padre \ stabili una' divisione della Gallia ugualmente adatta ai movimenti delle legioni, al corso dei fiumi e alle principali distinzioni nazionali di un paese, che ave­ va contenuto piu di cento stati indipendenti3. La costa del Mediterraneo, la Linguadoca, la Provenza e il Delibato appartenevano alla provincia che prendeva il nome dalla colonia di Narbona. La provincia dell’Aquitania si estendeva dai Pirenei alla Loira. Il pae­ se tra la Loira e la Senna era chiamato Gallia Celtica, ma presto prese un’altra denominazione dalla celebre colonia di Lugdunum, 0 Lione. La provincia Belgica si trovava di là dalla Senna, e piu an­ ticamente non era limitata che dal Reno; ma poco prima di Cesare 1 Germani, abusando della loro superiorità bellica, avevano occu­ pato una parte notevole del territorio belgico. I conquistatori ro­ mani approfittarono premurosamente di un’opportunità cosi lusin­ ghiera, e la frontiera gallica del Reno, da Basilea a Leida, ebbe i 1 strabone , π . È molto naturale supporre che Aragona derivi da Tarraconensis. M olti autori moderni, che hanno scritto in latino, usano questi due termini come sinonimi. E certo peraltro che TAragon, piccolo fiume che dai Pirenei si getta n ell’Ebro, dette da principio il suo nome a una provincia, e poi a un regno ( d ’An v ille , Geographie du Moyen A ge, p. 181).

2 II padre adottivo, Giulio Cesare [N .i.T .]. ^ 3 Si trovano centoquindici città nella « N otitia» della Gallia. È noto che questo nome era dato non solo alla capitale, ma anche a tutto il territorio di ogni stato. Plutarco e Appia­ no fanno ascendere il numero delle tribù a tre o quattrocento.

28

Britannia

Italia

CAPITOLO PRIMO

pomposi nomi di Germania Superiore e Inferiore ’. Sotto il regno degli Antonini le sei province della Gallia erano la Narbonese, la Aquitania, la Celtica o Lionese, la Belgica e le due Germanie. Abbiamo già avuto occasione di ricordare la conquista della Britannia e di fissare i confini della provincia romana in quell’iso­ la. Essa comprendeva tutta l’Inghilterra, il Galles e la bassa Scozia fino a Dumbarton e a Edimburgo. Prima che la Britannia perdesse la sua libertà, il paese era irregolarmente diviso fra trenta tribù di barbari, dei quali i piu ragguardevoli erano i Belgi a occidente, i Briganti a settentrione, i Siluri nel Galles meridionale e gl’Iceni nel Norfolk e nel Suffolk \ Per quanto si può congetturare dalla somi­ glianza dei costumi e della lingua, la Spagna, la Gallia e la Britan­ nia erano popolate dalla stessa dura razza di selvaggi, che prima di arrendersi alle armi romane, disputarono spesso il terreno e spes­ so ripresero la lotta. Dopo la loro sottomissione, essi costituirono il settore occidentale delle province europee, che si estendeva dalle colonne d’Èrcole al vallo di Antonino, e dalla foce del Tago alle sorgenti del Reno e del Danubio. Prima della conquista romana, il paese che oggi si chiama Lom­ bardia non era considerato parte dell’Italia. Era stato occupato da una potente colonia di Galli, che stabilitisi lungo le rive del Po, dal Piemonte alla Romagna, portarono le loro armi e diffusero il loro nome dalle Alpi agli Appennini. I Liguri abitavano la scosce­ sa costa che ora forma la repubblica di Genova. Venezia non era ancora nata, ma i suoi territori, che sono a oriente dell’Adige, era­ no abitati dai Veneti12 3. La metà della penisola, che oggi forma il du­ cato di Toscana e lo Stato Pontificio, era l’antica sede degli Etru­ schi e degli Umbri, ai primi dei quali l’Italia deve i rudimenti della vita civile4. Il Tevere scorreva ai piedi dei sette colli di Roma, e il paese dei Sabini, dei Latini e dei Volsci, da quel fiume alle fron­ tiere del regno di Napoli, fu teatro delle sue prime vittorie. Su quella terra famosa i primi consoli meritarono i trionfi; i loro suc­ cessori la ornarono di ville e i loro discendenti vi hanno eretto dei conventi5. Capua e la Campania possedevano l’immediato territo­ rio di Napoli; il rimanente del regno era abitato da molti popoli bellicosi, i Marsi, i Sanniti, gli Apuli e i Lucani, mentre le coste 1 d ’Anville , N otice de l'ancienne Gaule. 2 w hitaker , History of Manchester, I, 3. 3 I Veneti d ’Italia, benché spesso confusi con i G a lli, etano probabilmente Illirici di origine ( fréret , in Mém. de VAcadétnie des Inscriptions, X V III). 4 m a f f e i , Verona illustrata, 1. 5 II primo contrasto fu osservato anche dagli antichi ( floro , i , i i ), il secondo salta agli occhi di ogni viaggiatore moderno.

FORZA MILITARE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

29

erano occupate dalle fiorenti colonie dei Greci. È da notare che quando Augusto divise l’Italia in undici regioni, la piccola provin­ cia dell’Istria fu annessa a quella sede del dominio romano '. Le province europee di Roma erano difese dal corso del Reno Il Danubio e la frontiera e del Danubio. L ’ultimo di questi grandi fiumi, che nasce a sole illirica trenta miglia dal primo, scorre per piu di milletrecento miglia per la maggior parte verso sud-est, raccoglie il tributo di sessanta fiu­ mi navigabili e sbocca finalmente per sei foci nel Mar Nero, che sembra appena adeguato a ricevere tante acque2. Le province del Danubio presto ebbero la generica denominazione di Illirico, o frontiera illirica3, e furono considerate come le piu bellicose del­ l’impero; ma vanno ricordate coi nomi particolari di Rezia, Norico, Pannonia, Dalmazia, Dacia, Mesia, Tracia, Macedonia e Grecia. La provincia della Rezia, che presto cancellò il nome dei Vinde- Rezia lici, si estendeva dalla sommità delle Alpi alle rive del Danubio, e dalla sua sorgente alla confluenza con l’Inn. La maggior parte del­ la pianura è oggi soggetta all’elettore di Baviera, la città di Augu­ sta è protetta dalla costituzione dell’impero germanico, i Grigioni sono sicuri nelle loro montagne e il Tirolo è tra le numerose pro­ vince della casa d’Austria. Il territorio compreso tra l’Inn, il Danubio e la Sava (Austria, Norico e Pannonia Stiria, Carinzia, Carniola, bassa Ungheria e Slavonia) era cono­ sciuto dagli antichi col nome di Norico e di Pannonia. Nel loro sta­ to originario d’indipendenza, quei fieri abitanti si tenevano inti­ mamente collegati fra loro. Sotto il governo romano furono fre­ quentemente uniti, e sono tuttora patrimonio di una sola famiglia. Sono residenza di un sovrano tedesco, che si definisce imperatore dei Romani, e formano il centro non meno che il nerbo della po­ tenza austriaca. Non è inutile osservare che, salvo la Boemia, la Moravia, le frontiere settentrionali dell’Austria e una parte del­ l’Ungheria fra il Tibisco e il Danubio, tutti gli altri domini della casa d’Austria erano compresi nei confini dell’impero romano. La Dalmazia, cui piu propriamente si dava il nome d’illirico, Dalmazia era un tratto lungo ma stretto, tra la Sava e l’Adriatico. La parte migliore della costa, che conserva ancora il suo antico nome, è una provincia dello Stato veneto e la sede della piccola repubblica di Ragusa. Le regioni dell’interno hanno i nomi slavi di Croazia e Bo­ snia. La prima obbedisce a un governatore austriaco, la seconda a 1 Plinio [Hist. Natur.y in ) segue la divisione d ell’Italia fatta da Augusto. 2 tournefort , Voyages en Grece et Asie Mineure, lettera x v iii . 3 II nome di Illiricum originariamente apparteneva alle coste del Mare Adriatico. I Ro­ mani lo estesero a poco a poco dalle A lp i al Ponto Eusino ( severini , Pannonia, i, 3).

30

Mesia e Dacia

Tracia, Macedonia e Grecia

Asia Minore

CAPITOLO PRIMO

un pascià turco; ma tutto il paese è ancora infestato da tribù bar­ bare, la cui selvaggia indipendenza segna irregolarmente l’incerto confine tra la potenza cristiana e quella maomettana Il Danubio, dopo aver ricevuto le acque del Tibisco e della Sava, ebbe, almeno dai Greci, il nome di Istro2. Prima divideva la Mesia e la Dacia, l’ultima delle quali, come abbiam visto, fu una conquista di Traiano, ed era la sola provincia romana di là dal fiume. Se esaminiamo lo stato attuale di questi paesi, troveremo che, alla sinistra del Danubio, quello di Temesvar e la Transilvania sono stati annessi dopo molte vicende alla corona d’Ungheria, mentre i principati della Moldavia e della Valacchia riconoscono l’alto dominio della Porta Ottomana. Alla destra del Danubio, la Mesia, che nel Medioevo fu divisa nei regni barbarici della Serbia e della Bulgaria, è nuovamente riunita sotto la schiavitù dei Turchi. Il nome di Romelia, che i Turchi dànno tuttora alle vaste regio­ ni della Tracia, della Macedonia e della Grecia, conserva la memo­ ria del loro antico stato sotto l’impero romano. A l tempo degli An­ tonini, la bellicosa Tracia, dai monti dell’Emo e del Rodope al Bo­ sforo e all’Ellesponto, era stata ridotta a provincia. Nonostante il mutamento di sovrani e di religione, la nuova Roma, fondata da Costantino sulle rive del Bosforo, si è poi sempre mantenuta la capitale di una grande monarchia. La Macedonia, che sotto il re­ gno di Alessandro diede leggi all’Asia, ricavò vantaggi più solidi della politica dei due Filippi, e con le sue dipendenze dell’Epiro e della Tessaglia si estese dall’Egeo al Ionio. Quando si riflette alla fama di Tebe e di Argo, di Sparta e di Atene, si può appena crede­ re che tante immortali repubbliche dell’antica Grecia fossero con­ fuse in una sola provincia dell’impero romano, la quale per la mag­ giore influenza della Lega achea fu ordinariamente chiamata la provincia di Acaia. Tale era lo stato dell’Europa sotto gl’imperatori romani. Le province dell’Asia, non escluse le passeggere conquiste di Traiano, sono tutte comprese nei confini dell’impero turco. Ma invece di se­ guire le arbitrarie divisioni del dispotismo e dell’ignoranza, sarà più sicuro e piacevole osservare i caratteri indelebili della natura. Il nome di Asia Minore si dava con qualche proprietà alla peniso­ la, che chiusa tra il Ponto Eusino e il Mediterraneo, si protende 1 Un viaggiatore veneziano, l ’abate Fortis, ci ha dato recentemente qualche notizia di queste oscure regioni. Ma la geografia e le antichità d ell’Illiria occidentale non si possono sperare che dalla magnificenza delTimperatore che ne è il sovrano. 2 La Sava sorge presso i confini d ell’Istria. I G reci dei primi secoli la consideravano co­ me il ramo principale del Danubio.

FORZA MILITARE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

31

dall’Eufrate verso l’Europa. La più vasta e fertile regione a occi­ dente del Monte Tauro e del fiume Halys, veniva onorata dai Ro­ mani col titolo esclusivo di Asia. La giurisdizione di quella provin­ cia si estendeva sulle antiche monarchie di Troia, della Lidia e del­ la Frigia, i paesi marittimi dei Panfili, dei Liei e dei Cari, e le colo­ nie greche della Ionia, che nelle arti, ma non nelle armi, uguaglia­ vano la gloria della loro madre. I regni della Bitinia e del Ponto occupavano la parte settentrionale della penisola, da Costantino­ poli a Trebisonda. Dalla parte opposta, la provincia della Cilicia era terminata dai monti della Siria; il territorio, che il fiume Halys separava dall’Asia romana e l’Eufrate dall’Armenia, aveva forma­ to un tempo il regno indipendente della Cappadocia. Qui possia­ mo osservare che le rive settentrionali del Ponto Eusino, di là da Trebisonda nell’Asia, e di là dal Danubio in Europa, riconosceva­ no la sovranità degl’imperatori e ricevevano da loro principi tribu­ tari, o guarnigioni romane. Budzak, Crimea, Circassia e Mingrelia sono i nomi moderni di quelle selvagge regioni \ Sotto i successori di Alessandro, la Siria era la sede dei Seleucidi, che regnavano nell’Asia Superiore, finché la vittoriosa ribel­ lione dei Parti circoscrisse i loro domini tra l’Eufrate e il Mediter­ raneo. Quando la Siria fu sottomessa dai Romani, formò la frontie­ ra orientale del loro impero; e questa provincia, nella sua massima estensione, non ebbe altri confini che i monti della Cappadocia a settentrione, e verso mezzogiorno l’Egitto e il Mar Rosso. La Fe­ nicia e la Palestina furono ora annesse alla giurisdizione della Si­ ria, ora separate. La prima di queste era una costa stretta e scoscesa, la seconda un territorio appena superiore a quello del Galles per fertilità ed estensione. Tuttavia, la Fenicia e la Palestina vivranno sempre nella memoria degli uomini, perché sia l’America, sia l’Eu­ ropa hanno dall’una ricevuto le lettere, dall’altra la religione2. Un deserto sabbioso, privo d’acqua e di vegetazione, si estendeva lun­ go l’incerto confine della Siria, dall’Eufrate al Mar Rosso. La vita errante degli Arabi era inseparabilmente connessa con la loro indipendenza; ed ogni volta che decisero di prendere stabile stanza su terreni meno sterili, divennero subito soggetti all’impero romano \ I geografi dell’antichità sono stati spesso incerti a quale parte 1 Periplo di Arriano. Questo autore aveva esplorato le coste del Ponto Eusino quando era governatore della Cappadocia. 2 II percorso della religione è ben noto. L ’alfabeto s’introdusse tra i selvaggi d ell’E u ­ ropa quindici secoli circa a. C., e gli Europei lo portarono in America quindici secoli d. C. L ’alfabeto fenicio fu notevolmente modificato in un periodo di tremila anni, passando per le mani dei Greci e dei Romani. 3 DIONE CASSIO, LXVIII, p . I I 3 1 .

Siria, Fenicia e Palestina

Egitto

32

Africa

CAPITOLO PRIMO

della terra assegnare l’Egitto Per la sua posizione questo celebre regno è compreso nella immensa penisola dell’Africa, ma è accessi­ bile soltanto dalla parte dell’Asia, le cui vicende, quasi in ogni pe­ riodo della storia ha umilmente seguito. Un prefetto romano sede­ va sul magnifico trono dei Tolomei, mentre lo scettro di ferro dei Mamelucchi è ora nelle mani di un pascià turco. Il Nilo scorre per quel paese per circa cinquecento miglia dal tropico del Cancro al Mediterraneo, e segna dall'una e dall’altra parte la maggiore o minor fertilità col metro delle sue inondazioni. Cirene, posta verso occidente e lungo la costa, fu prima una colonia greca, poi una pro­ vincia dell’Egitto e oggi è perduta nel deserto di Barca. Da Cirene all’oceano, la costa dell’Africa si estende per oltre millecinquecento miglia; ma è cosi strettamente serrata tra il Me­ diterraneo e il Sahara, o deserto sabbioso, che la sua larghezza ra­ ramente supera ottanta o cento miglia. La parte orientale era con­ siderata dai Romani come piu propriamente la provincia dell’Afri­ ca. Fino all’arrivo delle colonie fenice, quel fertile paese era abita­ to dai Libi, i piu selvaggi di tutti gli uomini. Sotto l’immediata giurisdizione di Cartagine, divenne il centro del commercio e del1 impero; ma la repubblica di Cartagine è ora degenerata nelle de­ boli e disordinate reggenze di Tripoli e di Tunisi. Il governo mili­ tare di Algeri opprime la vasta estensione della Numidia, unita un tempo sotto Massinissa e Giugurta; ma al tempo di Augusto, i confini della Numidia furono ridotti e due terzi almeno del paese presero il nome di Mauritania con l’epiteto di Cesariense. La vera Mauritania, o paese dei Mauri, che dall’antica città di Tingi, o Tangeri, era distinta col nome di Tingitana, è rappresentata dall’odier­ no regno di Fez. Sale sull’oceano, oggi cosi malfamata per le depre­ dazioni dei suoi pirati, era considerata dai Romani come l’estremo limite della loro potenza, e quasi della loro geografia. Si scopre an­ cora una città fondata da loro presso Mequinez, residenza di quel barbaro che ci degnamo di chiamare imperatore del Marocco; ma non pare che i suoi domini piu meridionali, Marocco e Segelmessa, fossero mai compresi nella provincia romana. Le parti occidentali dell’Africa sono traversate dalla catena dell’Atlante2, nome cosi „ Λ T olo™?°> .Straberne e i geografi moderni fissano l ’istmo di Suez quale confine tra l ’Asia ? i j r}C? i·P lonl8‘ > M ela, Plinio, Sallustio, Irzio e Solino hanno preferito il ramo occiden­ tale del N ilo 0 anche il grande Catabathmos o valle [nel Monte Aspio, in Marmarical ciò che assegnerebbe all Asia non solo l ’Egitto, ma anche parte della Libia. La lunga estensione, la moderata altezza e il dolce declivio del Monte Atlante non si accordano con 1 idea di una montagna isolata, che nasconde la sua testa nelle nuvole e par che sostenga il cielo. I l Picco di Teneriffa, al contrario, si alza per una lega e mezzo sul li­ vello dei mare, ed essendo m olto frequentato dai Fenici, potè attirare l ’attenzione dei poeti greci ( buffon , H ist. Naturelle, I, p. 312. Hist. Générale des Voyages II).

FORZA MILITARE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

33

vanamente celebrato dalla fantasia dei poeti, ma che oggi è dato all’immenso oceano, che separa il vecchio continente dal nuovo1. Il Avendo cosi compiuto il giro dell’impero romano, possiamo os­ Mediterraneo servare che l’Africa è divisa dalla Spagna da un piccolo stretto di e le sue isole circa dodici miglia, attraverso il quale l’Atlantico scorre nel Mediterraneo. Le colonne d’Èrcole, cosi famose presso gli antichi, era­ no due montagne che sembravano essere state separate da qualche sconvolgimento degli elementi; e ai piedi della montagna europea si trova oggi la fortezza di Gibilterra. L ’intera estensione del Me­ diterraneo, le sue coste e le sue isole erano comprese nel dominio romano. Delle isole piu grandi, le due Baleari, che traggono i loro nomi di Maiorca e Minorca dalla loro rispettiva grandezza, sono oggi soggette la prima alla Spagna, la seconda alla Gran Bretagna. È più facile deplorare che descrivere l’attuale condizione della Cor­ sica. Due sovrani italiani derivano il titolo regio dalla Sardegna e dalla Sicilia. Creta, o Candia, con Cipro, e molte piccole isole della Grecia e dell’Asia, sono state soggiogate dalle armi ottomane, men­ tre il piccolo scoglio di Malta sfida la loro potenza e sotto il gover­ no del suo ordine militare è cresciuto di fama e di ricchezza. Idea Questa lunga enumerazione di province, i cui frammenti han­ generale no formato tanti potenti regni, può quasi indurci a perdonare agli d ell’impero romano antichi la loro vanità o ignoranza. Abbagliati dal vasto dominio, dalla forza irresistibile e dalla reale o apparente moderazione de­ gl’imperatori, disprezzavano, e talvolta dimenticavano, quei paesi che godevano di una barbara indipendenza, e a poco a poco si pre­ sero la libertà di confondere l’impero romano col globo terrac­ queo2. Ma il carattere e il sapere di uno storico moderno richiedo­ no un linguaggio piu sobrio e preciso. Questi può dare una piu giusta immagine della grandezza romana, osservando che l’impero aveva oltre duemila miglia di larghezza, dal vallo di Antonino e dai confini settentrionali della Dacia al Monte Atlante e al Tropico del Cancro, che si estendeva in lunghezza per oltre tremila miglia dal­ l’Oceano Atlantico all’Eufrate, che era situato nella parte piu bel­ la della zona temperata, tra i gradi ventiquattro e cinquantasei di latitudine nord, e si supponeva comprendesse piu di un milione e seicentomila miglia quadrate, per la maggior parte di terra fertile e ben coltivata3. 1 Voltaire (X IV , p. 297) dà generosamente e senza alcun fondamento le isole Canarie ai Romani. . 2 b er g ie r , Hìst. des grands Cbemins, in , i , 2, 3 ,4 , opera utilissima. 3 t e m p l e m a n , Survey of thè G lobe. Ma io non mi fido ne d ell’erudizione, ne delle carte di questo scrittore.

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

CAPITOLO SECONDO

Unità e prosperità interna dell’impero romano nel secolo degli Antonini.

Massime di governo

Spirito generale di tolleranza

del popolo

Non soltanto per la rapidità o la vastità delle sue conquiste dobbiamo valutare la grandezza di Roma. Il sovrano dei deserti della Russia comanda a una parte piu vasta del globo, nella setti­ ma estate dopo il suo passaggio dell’EUesponto, Alessandro alzava i trofei macedoni sulle rive dell’Hyphasis e in meno di un secolo l’irresistibile Gengis Khan e i principi mongoli di quella stirpe estesero le loro crudeli devastazioni e il loro passeggero dominio dal Mare della Cina ai confini dell’Egitto e della Germania2; ma il saldo edificio della potenza romana fu eretto e conservato dalla saggezza di molti secoli. Le province che obbedivano a Traiano e agli Antonini erano unite dalle leggi e ornate dalle arti. Esse pote­ vano accidentalmente soffrire per l’abuso parziale di un’autorità delegata; ma il principio generale del governo era saggio, semplice e benefico. Gli abitanti delle province potevano praticare la religio­ ne dei loro antenati, mentre negli onori e vantaggi civili venivano elevati per giusti gradi al livello dei loro conquistatori. i. La politica degl’imperatori e del senato in materia religio­ sa era felicemente assecondata dalle teorie della parte illuminata dei loro sudditi e dai costumi della parte superstiziosa. I diversi culti religiosi praticati nel mondo romano erano considerati dal po­ polo tutti ugualmente veri, dal filosofo tutti ugualmente falsi, dal magistrato tutti ugualmente utili. In tal modo la tolleranza produ­ ceva non solo una mutua indulgenza, ma anche una concordia re­ ligiosa. La religione del popolo non era amareggiata da alcuna mesco­ lanza di rancore teologico, ne vincolata dalle catene di sistemi spe­ culativi. Il devoto politeista, sebbene appassionatamente ligio ai suoi riti nazionali, ammetteva con implicita fede le diverse religio-

Furono al2ati quasi a mezza strada tra Lahore e Delhi. Le conquiste di Alessandro nell Indostan non passarono il Punjab, paese irrigato dai cinque grandi rami dell'Indo. de guignes , Histoire dt'S Huns, XV, XVI, XVII.

35

ni della terra1. Il timore, la gratitudine e la curiosità, un sogno o un presagio, un accidente straordinario o un lungo viaggio, lo di­ sponevano continuamente a moltiplicare gli articoli della sua fede e ad accrescere l’elenco dei suoi protettori. Il sottile tessuto della mitologia pagana era composto di vari, ma non discordanti mate­ riali. Essendo convenuto che gli uomini saggi e gli eroi, vissuti o morti per il bene della patria, erano elevati a uno stato di potenza e d’immortalità, si ammetteva universalmente che essi meritavano, se non l’adorazione, la venerazione di tutti gli uomini. Le divinità di mille boschi e di mille fiumi possedevano in pace la loro rispetti­ va influenza locale, né il Romano, che cercava di placare lo sdegno del Tevere, poteva deridere l’Egizio, che presentava le sue offerte al benefico Genio del Nilo. Le potenze visibili della natura, i pia­ neti e gli elementi erano gli stessi per tutto l’universo. I rettori in­ visibili del mondo morale non potevano essere rappresentati che da finzioni e allegorie, modellate nella stessa forma. Ogni virtù, e anche ogni vizio, ottenne il suo rappresentante divino, ogni arte e professione ebbe il suo patrono, i cui attributi, nei tempi e paesi più lontani, furono uniformemente derivati dal carattere dei loro particolari adoratori. Una repubblica di dèi, cosi opposti d indole e d’interessi, richiedeva in qualunque sistema la mano moderatri­ ce di un magistrato supremo, che col progredire della conoscenza e dell’adulazione fu a poco a poco investito delle sublimi perfezioni di Eterno Genitore e di Monarca Onnipotente2. Lo spirito dell’an­ tichità era cosi moderato, che i popoli erano meno attenti alle dif­ ferenze, che alle somiglianze dei loro culti religiosi. Il Greco, il Romano e il barbaro, nell’incontrarsi davanti ai loro rispettivi al­ tari, si persuadevano facilmente che sotto nomi diversi e con di­ verse cerimonie essi adoravano le medesime divinità. L elegante mitologia di Omero diede una forma bella e quasi regolare al poli­ teismo del mondo antico3. I filosofi greci deducevano la loro morale dalla natura dell’uo- dei filosofi 1 Non c’è tra gli antichi chi abbia meglio di Erodoto descritto il vero spirito del poli­ teismo. I l m iglior commento si può trovare nella Storia naturale della religione di Hom e e Bossuet, nella sua Storia universale, ce ne presenta il contrasto piu vivo. Nella condotta degli E gizi appaiono vaghe tracce d ’intolleranza (giovenale , Sai. xv). G li ebrei e 1 cristiani, che vissero sotto grimperatori, formavano un’eccezione m olto importante, cosi importante, che per trattarla si richiederà un capitolo a parte in quest’opera. [V a tenuto presente che il Oibbon usa solitamente «superstizione», «superstizioso», m luogo di «religione», «religioso» i X diritti la potenza e le pretese del sovrano dell’O lim po sono chiarissimamente de­ scritti nel quindicesimo libro àeW lliade, intendo dire nell’originale greco. Pope, senza ac­ corgersene, ha perfezionato la teologia di Omero. ,, 3 CESARE, De bell. G ali., v i, 17. N el corso di uno o due secoli, anche 1 G alli dettero alle loro divinità i nomi di Marte, Mercurio, Apollo, ecc.

36

CAPITOLO SECONDO

mo, anziché da quella di dio. Essi meditavano sulla natura divina come oggetto di una speculazione molto importante e interessante, e in questa profonda ricerca mostravano la forza e la debolezza del­ l’intelletto umano1. Tra le quattro scuole piu celebri, gli stoici e i platonici cercarono di conciliare i discordanti interessi della ragio­ ne e della religione. Essi ci hanno lasciato le prove piu sublimi del­ l ’esistenza e delle perfezioni della causa prima; ma poiché era lo­ ro impossibile concepire la creazione della materia, nella filosofia stoica l’artefice non viene abbastanza distinto dall’opera, mentre al contrario il dio spirituale di Platone e dei suoi discepoli sembra piuttosto un’idea, che una sostanza. Le opinioni degli accademici e degli epicurei erano di uno stampo meno religioso; ma mentre i primi erano dalla loro modesta scienza indotti al dubbio, gli ulti­ mi dalla loro positiva ignoranza erano costretti a negare la provvi­ denza di un supremo rettore. Lo spirito di ricerca, spronato dalla emulazione e sostenuto dalla libertà, aveva diviso i maestri di filo­ sofia in una varietà di sètte contrarie; ma la gioventù studiosa che da ogni parte accorreva ad Atene e alle altre sedi delle scienze del­ l’impero romano, era ugualmente ammaestrata in ogni scuola a re­ spingere e disprezzare la religione del popolo. Come, infatti, era possibile che un filosofo accettasse per verità divine le vane favo­ le dei poeti e le tradizioni incoerenti dell’antichità, o che adorasse come dèi quegli esseri imperfetti, che avrebbe disprezzato come uo­ mini? Cicerone volle impiegare le armi della ragione e dell’elo­ quenza contro tali indigeni avversari; ma la satira di Luciano fu un’arma molto piu adeguata ed efficace. Si può star certi che uno scrittore, pratico del mondo, non avrebbe mai osato esporre al ri­ dicolo gli dèi del suo paese, se questi non fossero già stati l ’oggetto del segreto disprezzo fra gli ordini piu colti e illuminati della so­ cietà2. Nonostante l’irreligiosità di moda al tempo degli Antonini, 1 interesse dei sacerdoti non meno che la credulità del popolo era­ no abbastanza rispettati. Nei loro scritti e discorsi, i filosofi dell’an­ tichità affermavano l’indipendente dignità della ragione, ma uni­ formavano le loro azioni ai comandi delle leggi e dei costumi. Con­ siderando con un sorriso di compassione e d’indulgenza i vari erro­ ri del volgo, praticavano diligentemente le cerimonie dei loro pa­ li mirabile trattato di Cicerone D e natura Deorurn è la miglior guida che abbiamo in questo protondo e tenebroso abisso. Questo scrittore espone obiettivamente e confuta sottil­ mente le opinioni dei filosofi. Non pretendo affermare che in quel secolo irreligioso, il terrore della superstizione sogni, presagi, apparizioni, ecc., avessero perduto la loro efficacia.

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

37

dri, frequentavano devotamente i templi degli dei, e condiscenden­ do talvolta a rappresentare una parte sul teatro della superstizio­ ne, nascondevano i sentimenti dell’ateo sotto le vesti del sacerdo­ te .Ragionatori di questa tempra, non erano molto inclini a dispu­ tare sui modi della loro fede, o del loro culto. Per loro era indiffe­ rente quale forma volesse prendere la follia della moltitudine e si accostavano con lo stesso interno disprezzo e con la stessa reveren­ za esterna agli altari del Giove Libico, dell Olimpico o del CapiNon si comprende perché lo spirito di persecuzione avrebbe do­ dei magistrati vuto penetrare tra le autorità romane. I magistrati non potevano essere animati da una cieca sebben sincera devozione, essendo essi stessi filosofi, e le scuole di Atene avevano dato leggi al senato. Non potevano essere incitati dall’ambizione, o dall’avidità, giac­ ché il potere temporale e l’ecclesiastico erano uniti nelle stesse ma­ ni. I pontefici erano scelti tra i piu illustri senatori, e l’ufficio di pontefice massimo era costantemente esercitato dagl’imperatori, che conoscevano e valutavano i vantaggi della religione in quanto connessa col governo civile. Essi incoraggiavano le pubbliche fe­ ste, che rendono piu umani i costumi del popolo, praticavano la divinazione come un comodo strumento di politica e rispettavano come il piu saldo legame della società l’utile convinzione, che lo spergiuro è infallibilmente punito in questa vita o nell’altra dagli dèi vendicatori2. Ma mentre riconoscevano i vantaggi generali del­ la religione, erano convinti che i diversi culti contribuivano ugual­ mente agli stessi fini salutari e che in ogni paese la forma di super­ stizione, che aveva ricevuto la sanzione del tempo e dell’esperien­ za, era la piu adatta a quel paese e ai suoi abitanti. L ’avidità e il nelle province gusto molto spesso rapivano ai popoli vinti le eleganti statue dei loro dèi, e i ricchi ornamenti dei loro templi3; ma nell’esercizio del­ la religione dei loro antenati essi provavano regolarmente l’indul­ genza e anzi la protezione dei conquistatori romani. La provincia della Gallia sembra, ma sembra soltanto, un’eccezione a questa tol­ leranza universale. Sotto lo specioso pretesto di abolire i sacrifici umani, gl’imperatori Tiberio e Claudio soppressero la pericolosa 1 Socrate, Epicuro, Cicerone e Plutarco hanno sempre inculcato il più grande rispetto per la religione del loro paese e dell’umanità. La devozione di Epicuro fu costante ed esem­ plare (DIOGENE LAERZIO, X, io ). , 2 POLIBIO, VI, 53-54- Giovenale {Sat. x m ) deplora che ai suoi tempi questo timore non faceva quasi piu effetto. _ . , , ,, , , · 3 V edi la sorte di Siracusa, Taranto, Ambracia, Corinto, ecc., e la condotta di Verre in Cicerone (actio I I , orat. iv), e la pratica ordinaria dei governatori nella ottava satira di Giovenale.



CAPITOLO SECONDO

potenza dei druidi ma si lasciarono sussistere in una pacifica oscunta, fino alla distruzione definitiva del paganesimo, i sacerdoti gli dei e ì loro altari . ’6 e a Roma Roma, la capitale di una grande monarchia, era continuamente piena di sudditi e di stranieri di ogni parte del mondo!, e tutti v ’introducevano e professavano la superstizione del proprio paese4. Ogni città nell’impero era autorizzata a mantenere la purezza delle sue antiche cerimonie e il senato romano, usando del comune pri­ vilegio, interveniva talvolta per frenare quest’inondazione di riti stranieri. La superstizione egizia, la piu spregevole e abbietta di tutte, fu frequentemente proibita, i templi di Serapide e d’Iside furono demoliti e ι loro adoratori banditi da Roma e dall’Italia5· ma lo zelo del fanatismo prevalse sui freddi e deboli sforzi della po­ litica. Gli esuli tornarono, si moltiplicarono i proseliti, i templi furono riedificati con maggior splendore, e Iside e Serapide ebbero alfine un posto tra le divinità romane6. Né questa indulgenza era i m p a n a r s i dalle antiche massime di governo. Nei secoli piu belli della repubblica, Cibele ed Esculapio erano stati invitati a Roma con solenni ambascerie7, ed era costume di tentare i patroni delle citta assediate con la promessa di onori piu segnalati di quelli che ricevevano nel loro paese natale Roma divenne a poco a poco il tempio comune dei suoi sudditi, concedendo la cittadinanza ro­ mana a tutti gli dèi dell’umanità9. Libertà il. L angusta politica di conservare puro da mescolanze stra­ di Roma niere il sangue degli antichi cittadini, aveva arrestato la fortuna e affrettato la rovina di Atene e di Sparta. Il genio intraprendente di Roma, sacrificando la vanità all’ambizione, giudicò piti saggio e onorevole adottare come propri la virtù e il merito ovunque li tro­ vasse, tra gli schiavi o gli stranieri, tra i nemici o i barbari Nel! svetonio , Claudio-, plinio , Hist. Natur x x x i 3 pellou tier , Hist. des Celtes, vi, pp. 230-^2 ’ 4 SENECA, Consolai, ad Hetviam, p. 74, ed. G iusto Lipsio. 5 D'AL.ICARNASÌ>o, Antiquitat. Roman., n. se n a to ^ D io ^ w s s ro T l * Is-ide e di ,Sf 1ipide ,fu demo!it° Per ordine del η ί™ i NE j . À 0 ’ XLv p * e daIle mam stesse del console (Valerio m a s sim o t ai Dopo la morte di Cesare fu riedificato a pubbliche spese ( m o n e c a s s w x ° r a «^ OI'ì A, ' S

t

ó

l l i

Τ

Pietà della fa m ig li F W ’ 7 TITO LIVIO, x i e xxix .

- ■

»

miglio ^ ° r n o (m onegasco !

te divin ità rimasero peraltro molto di moda sotto il suo re ì) e sotto il suo successore, finché la giustizia di Tiberio fu in

? ACIT0’ A T Ì ' 8* GIUSEPPE Z n . 3" ’ P ' 74’ H avetcam p· Credo che ciò Possa attribuirsi alla

.

39

l’età piu florida della repubblica ateniese, il numero dei cittadini decrebbe gradatamente da trentamila circa1 a ventunmila2. Se al contrario si esamina l’accrescimento della repubblica romana, ve­ diamo che nonostante le continue perdite per le guerre e le colo­ nie, i cittadini che nel primo censimento di Servio Tullio non ascen­ devano a piu di 83 000, erano saliti prima dell’inizio della guerra sociale a 463 000 uomini atti a portare le armi a servizio della pa­ tria 3. Quando gli alleati di Roma pretesero una parte uguale agli onori e ai privilegi, il senato preferì la sorte delle armi a una con­ cessione ignominiosa. I Sanniti e i Lucani pagarono duramente la pena della loro temerità; ma il resto degli stati italiani, dopo esse­ re tornati al dovere, vennero accolti nel seno della repubblica4 e presto contribuirono a rovinarne la libertà. In un regime democra­ tico, i cittadini esercitano i poteri della sovranità; ma questi poteri prima degenerano in abuso, quindi si perdono se sono affidati a una ingovernabile moltitudine. Quando le assemblee popolari fu­ rono soppresse dalla politica degl’imperatori, i vincitori non fu­ rono piu distinti dai popoli vinti se non perché occupavano il pri­ mo e più onorevole ordine dei sudditi, e il loro aumento per quanto rapido, non fu piu esposto agli stessi pericoli; ma gl’imperatori piu saggi, che adottarono le massime di Augusto, difesero con la cura piu scrupolosa la dignità del nome romano e concessero la cittadi­ nanza con prudente liberalità5. Finché i privilegi di cittadino romano non furono progressivamente estesi a tutti gli abitanti dell’impero, si conservò tra l ’Italia e le province una distinzione importante. La prima era considerata come il centro dell’unità nazionale e la salda base della costituzio­ ne. L ’Italia pretendeva di essere la patria, o almeno la residenza degl’imperatori e del senato6. Le terre degl’italiani erano esenti da tasse e le loro persone dall’arbitraria giurisdizione dei governa­ tori. Alle loro comunità municipali, formate sul perfetto modello della capitale, si affidava l’esecuzione delle leggi sotto il controllo diretto del supremo potere. Dai piedi delle Alpi all’estremità della Calabria, tutti i nativi d’Italia nascevano cittadini romani. Le loro

ε“ 0 13 T T * di SerapldfimoNE^ cfssm^, π , ρ . 647) ma

r m p ‘ 679 e u v » 7\ T t t f j T · 10· ? Ro“ a e Per ano A m m η η , ’ ?'' gno (Ovidio , De art amand

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

tKSSismjssss:

1 erodoto, v, 97. Paté, tuttavia, che egli abbia seguito un’elevata valutazione popolare. 2 ateneo , Deipnosophist., v i, p. 272, ed. Casaubon; m e u r sio , D e fortuna A ttica, 4. 3 Si veda nel Beaufort (Républigue Romatne, iv , 4) il numero esatto dei cittadini di ogni censo. 4 appiano , D e bell, civil., i; velleio patercolo , i i , 13, 16 e 17. 5 Mecenate lo consigliò di dare con un editto il titolo di cittadino a tutti i suoi sudditi; ma si può giustamente sospettate che D ione Cassio sia l ’autore d ’un consiglio cosi bene adatto alla pratica del suo tempo, e cosi poco alla politica di Augusto. 6 I senatori erano obbligati ad avere un terzo delle loro proprietà terriere in Italia (p l i nio , Epist., vi , 19). M arco A urelio permise loro di non avervi che un quarto. Dopo il regno di Traiano, l ’Italia cominciò a non essere piu distinta dalle province.

L ’Italia

40

Le province

CAPITOLO SECONDO

particolari distinzioni erano state obliterate ed essi insensibilmen­ te erano venuti a formare una grande nazione, unita per lingua, costumi e istituzioni civili, pari per importanza a un potente impe­ ro. La repubblica si gloriava della sua generosa politica ed era fre­ quentemente ricompensata dal merito e dai servizi dei suoi figli adottivi. Se avesse sempre limitato la distinzione di cittadino ro­ mano alle antiche famiglie della città, quel nome immortale sareb­ be andato privo di qualcuno dei suoi piu nobili ornamenti. Virgi­ lio era nativo di Mantova, Orazio incerto se chiamarsi pugliese o lucano; e fu a Padova che si trovò uno storico degno di narrare la serie maestosa delle vittorie romane. La famiglia dei Catoni, tanto amante della patria, proveniva da Tuscolo, e la piccola città di Arpino si vantò del doppio onore di aver prodotto Mario e Cicerone, il primo dei quali meritò, dopo Romolo e Camillo, di essere chia­ mato il terzo fondatore di Roma, mentre il secondo, dopo aver sal­ vato la sua patria dalla congiura di Catilina, la mise in grado di competere con Atene per la palma dell’eloquenza '. Le province dell’impero (come sono state descritte nel prece­ dente capitolo) erano prive di ogni forza politica, o di libertà co­ stituzionale. In Etruria, in Grecia2 e nella Gallia3, la prima cura del senato fu di sciogliere quelle pericolose confederazioni, le quali insegnavano agli uomini che, come i Romani avevano vinto per le altrui divisioni, si poteva resistere loro con l’unione. Quei princi­ pi, ai quali un’ostentata gratitudine o generosità permetteva per qualche tempo di reggere uno scettro precario, erano licenziati ap­ pena avevano soddisfatto al compito loro assegnato di avvezzare a| gi°g° i popoli vinti. Gli stati liberi e le città, che avevano abbrac­ ciato la causa di Roma, erano ricompensati con un’alleanza nomi­ nale e insensibilmente cadevano in una servitù effettiva. Il potere era ovunque esercitato dai ministri del senato e degl’imperatori, e quel potere era assoluto e senza controllo. Le stesse massime salu­ tari di governo, che avevano assicurato la pace e l ’obbedienza del­ l ’Italia, erano estese alle piu remote conquiste. Una popolazione di Romani si formò a poco a poco nelle province, col doppio espe­ diente di dedurre delle colonie e di ammettere i provinciali piu fe­ deli e meritevoli alla cittadinanza romana. La prima parte della Verona illustrata del marchese Maffei dà la piu chiara e compren­ siva descrizione dello stato d ’Italia al tempo dei Cesari. pau san ia , v ii. Quando queste assemblee non furono piu pericolose, i Romani consen­ tirono che riprendessero il loro nome. Cesare ne fa spesso menzione. L ’abate Dubos ha tentato con pochissimo successo di provare che 1 G alli abbiano continuato sotto grim peratori a tenere queste assemblee (H ist. ae l ttabhssem ent de la Monarchie Frangoise, i, 4).

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

41

« Dovunque il Romano conquista, ivi abita »; è un’osservazione colonie molto giusta di Seneca ‘, confermata dalla storia e dall’esperienza • municipali G l’Italiani, lusingati dal piacere o dall’interesse, si affrettarono a godere dei vantaggi della vittoria; e si può osservare, che circa qua­ rantanni dopo la conquista dell’Asia, ottantamila Romani furono barbaramente massacrati in un giorno per ordine di Mitridate2. Questi esuli volontari si occupavano in maggioranza del commer­ cio, dell’agricoltura e dell’appalto delle pubbliche entrate. Ma do­ po che gl’imperatori resero permanenti le legioni, le province fu­ rono popolate da una razza di soldati; e i veterani, sia che rice­ vessero la ricompensa del loro servizio in denaro o in terreni, ge­ neralmente si stabilivano con le loro famiglie nel paese in cui ave­ vano onorevolmente passato la loro gioventù. Per tutto l’impero, ma più specialmente nelle parti occidentali, le regioni più fertili e le località più convenienti erano riservate allo stanziamento delle colonie, alcune composte di civili, altre di militari. Nei loro costu­ mi e nella politica interna le colonie erano un’immagine perfetta della loro grande madre; e poiché presto divenivano care agl’indi­ geni per i legami dell’amicizia e dell’affinità, esse diffondevano ef­ fettivamente la reverenza per il nome romano e il desiderio, rara­ mente deluso, di partecipare a tempo debito ai suoi onori e vantag­ g i3. Le città municipali insensibilmente uguagliarono il grado e lo splendore delle colonie; e sotto Adriano si disputò se si dovesse preferire la condizione di quelle comunità, che erano uscite dal grembo di Roma4, o di quelle che vi erano state accolte. Il diritto del Lazio, come veniva chiamato, conferiva alle citta, alle quali era stato accordato, un più particolare favore. Soltanto i magistrati, al­ lo scadere dei loro uffici, assumevano la qualifica di cittadino roma­ no; ma poiché questi uffici erano annuali, in pochi anni passarono per le principali famiglie5. I provinciali, cui era permesso di mili­ tare nelle legioni6, come quelli che avevano qualche impiego civi­ le, in una parola tutti coloro, che esercitavano qualche pubblico uf1 Seneca , Consolai, ad Helviam, 6. 2 mennone , in fozio , 33; Valerio m a s s im o , ix , 2. Plutarco e Dione Cassio fanno ascen­ dere la strage a centocinquantamila cittadini; ma credo che il numero minore sia piu che suf­ ficiente. „ , .. 3 Venticinque colonie furono stabilite nella Spagna ( plin io , Hist. Natur., in , 3, 4; iv, 33) e nove nella Britannia, tra le quali Londra, Colchester, Lincoln, Chester, Gloucester e Bath sono ancora città importanti. Si vedano riccardo di cirencester , p. 36 e w h itaker , History of Manchester, 1, 3. 4 aulo gellio , Noci. A ttic., x v i, 13. L ’imperatore Adriano espresse la sua sorpresa che le città di Utica, Cadice e Italica, che godevano dei privilegi di municipia, sollecitassero il titolo di colonia. I l loro esempio fu però presto seguito e l ’impero si trovò pieno di colonie onorarie ( spanh eim , D e usu numismatum, dissert. x m ). 5 spanh eim , Orhis Roman., 8, p. 62. 6 Aristid e , Romae encomium, i, p. 218, ed. Jebb.

42

Province latine e greche

CAPITOLO SECONDO

fido, o mostravano qualche dote personale, erano premiati con una ricompensa, il cui valore andò continuamente diminuendo con l ’ac­ crescersi della liberalità degl’imperatori. Peraltro, anche nel secolo degli Antonini, quando la cittadinanza era stata concessa alla mag­ gior parte dei sudditi, era sempre accompagnata da vantaggi assai solidi. La massa del popolo acquistava con tale titolo il beneficio delle leggi romane, particolarmente negli interessanti articoli del matrimonio, dei testamenti e delle eredità; e la via della fortuna era aperta a coloro, le cui pretese erano assistite dal favore o dal merito. I nipoti dei Galli, che avevano assediato Giulio Cesare in Alesia, comandavano le legioni, governavano le province ed erano ammessi al senato di Roma '. La loro ambizione, anziché turbare la tranquillità dello stato, era intimamente commessa con la sua sicu­ rezza e grandezza. I Romani erano cosi persuasi dell’influenza della lingua sui co­ stumi nazionali, che la loro cura piu seria fu di estendere con l’a­ vanzare delle loro armi l’uso della lingua latina2. Gli antichi dialet­ ti d Italia, il sabino, l’etrusco e il veneto, caddero in dimenticanza; ma nelle province, l’Oriente fu meno docile dell’Occidente alla vo­ ce dei suoi vittoriosi maestri. Quest’ovvia differenza distingueva le due parti dell’impero con una diversità di colori, che se fu in qualche modo nascosta durante lo splendore meridiano della pro­ sperità, divenne piu visibile a misura che le ombre della notte scen­ devano sul mondo romano. I paesi occidentali furono civilizzati dalle stesse mani che li sottomisero. Appena i barbari furono ridot­ ti all’obbedienza, le loro menti si aprirono a tutte le nuove impres­ sioni della civiltà e della cultura. La Hngua di Virgilio e di Cice­ rone, sebbene con qualche inevitabile miscuglio di corruzione, fu cosi universalmente adottata in Africa, Spagna, Gallia, Britannia e Pannonia , che soltanto nelle montagne, o tra i contadini, si con­ servarono lievi tracce della lingua punica o celtica \ L ’educazione e lo studio ispirarono insensibilmente ai nativi di quei paesi i sen­ timenti dei Romani, e l’Italia diede le mode, come le leggi, ai suoi provinciali latini. Essi ricercarono con maggiore ardore, e otten‘ tacito , Annoi., x i, 23, 24; B is t., iv, 74. Plin io , Hist. Natur., n i, 5; agostino , De Cìvitate D ei, x ix , 7; giusto l ip s io , D e pronunaatione hnguae Latinae, 3. I A.puIei° e sant’Agostino saranno garanti per l ’Africa, Strabone per la Spagna e la Gallia, Tacito, nella vita di Agricola, per la Britannia, e V elleio Patercolo per la Pannonia. A tutte^queste testimonianze possiamo aggiungere la lingua delle iscrizioni. a lingua celtica si conservò tra i monti del Galles, della Cornovaglia, e dell’Armorica. Apuleio rimprovera I uso della lingua punica a un giovane africano, che viveva tra la plebe, mentre aveva Quasi dimenticato il greco, e che non sapeva, o non voleva parlare il latino (Apolog., p. 396). La maggioranza delle comunità di sant’Agostino non conoscevano la lin­ gua punica.

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

43

nero con maggior facilità, il titolo e gli onori di cittadino romano, sostennero la dignità della nazione nelle lettere e nelle armi, e produssero infine nella persona di Traiano un imperatore, che gli Scipioni non avrebbero rifiutato quale concittadino. La situazione dei Greci era ben diversa da quella dei barbari. I primi si erano già da gran tempo inciviliti e corrotti. Essi avevano troppo gusto per abbandonare la loro lingua, e troppa vanità per adottare qual­ che istituzione straniera. Conservando sempre i pregiudizi dei loro antenati, dopo averne perduto le virtù, affettavano di disprezzare i rozzi costumi dei conquistatori romani, mentre erano costretti a rispettarne la maggior forza e saggezza2. Né l’influenza della lingua e dei sentimenti della Grecia era limitata agli stretti confini di quel­ la un tempo famosa regione. Il loro impero, con l’estendersi delle colonie e delle conquiste, si era diffuso dall’Adriatico all’Eufrate e al Nilo. L ’Asia era coperta di città greche e il lungo dominio dei re macedoni aveva prodotto una silenziosa rivoluzione in Siria e nel­ l’Egitto. Nelle loro magnifiche corti, quei principi univano l ’ele­ ganza ateniese al lusso orientale, e l’esempio della corte era imita­ to, a umile distanza, dalle classi piu elevate dei loro sudditi. Tale era la divisione generale dell’impero romano nelle lingue latina e greca. A queste possiamo aggiungere una terza distinzione per le popolazioni della Siria, e specialmente dell’Egitto. L ’uso dei loro antichi dialetti, segregandoli dal commercio degli uomini, fu d’im­ pedimento al progresso di quei barbari3. La pigra effemminatezza dei primi li esponeva alla derisione, e l’ostinata ferocia dei secondi eccitava l’avversione dei loro conquistatori4. Questi popoli si era­ no sottomessi alla potenza romana, ma raramente ne desiderarono, o ne meritarono la cittadinanza; e fu osservato che passarono piu di duecentotrent’anni dopo la caduta dei Tolomei, prima che un Egiziano fosse ammesso al senato romano . È giusta, sebben trita osservazione, che la vittoriosa Roma fu a sua volta soggiogata dalle arti della Grecia. Quegli scrittori im­ mortali, che s’impongono ancora afl’ammirazione dell’Europa mo­ derna, presto divennero oggetto favorito di studio e imitazione in Italia e nelle province occidentali. Ma non si permise che gli eie1 La sola Spagna fu madre di Columella, dei due Seneca, di Lucano, Marziale e Quintilian°2' D a Dionigi a Libanio, nessun critico greco, che io sappia, menziona V irgilio, o Orazio. Sembra che nessuno conoscesse i buoni scrittori romani. . 3 II lettore curioso può vedere in Dupin (Bibliotbeque Ecclesiasti^ue, x ix , parte 1, 8) quanto si conservasse l ’uso delle lingue siriaca ed egizia. 4 GIOVENALE, Sat., I li, XV; AMMIANO MARCELLINO, XXII, l6 . . 5 dione ca ssio , lx x v ii , p. 1275. Sotto il regno d i Settimio Severo fu per la prima volta ammesso un Egiziano nel senato.

Uso generale delle due lingue

44

G l i schiavi

Loro

condizione

CAPITOLO SECONDO

ganti svaghi interferissero nelle sane massime della loro politica. Mentre riconoscevano le bellezze della lingua greca, sostenevano la dignità della latina; e l’uso esclusivo della seconda fu inflessibil­ mente mantenuto nelPamministrazione sia civile, sia militare Le due lingue esercitavano nel tempo stesso la loro separata giurisdi­ zione per tutto l’impero; la prima come naturale idioma delle scien­ ze, la seconda come lingua legale dei pubblici affari. Quanti univa­ no le lettere agli affari erano egualmente versati nell’una e nell’al­ tra lingua; ed era quasi impossibile in qualsiasi provincia trovare un suddito romano di cultura umanistica che non sapesse nel tem­ po stesso la lingua greca e la latina. Con tali ordinamenti i popoli dell’impero si confusero insensi­ bilmente nel nome e nel popolo romano. Ma restava ancora in ogni provincia e in ogni famiglia una classe infelice di uomini, che sop­ portavano il peso senza godere dei benefici della società. Negli sta­ ti liberi dell’antichità, gli schiavi erano esposti al capriccioso rigore del dispotismo. Il perfetto stabilimento dell’impero romano era stato preceduto da secoli di violenza e di rapina. Gli schiavi erano per la maggior parte prigionieri barbari, presi a migliaia in guerra e comprati a basso prezzo2, avvezzi a una vita libera e impazienti di rompere i loro ceppi e di vendicarsi. I piu severi provvedimenti e il piu crudele trattamento3contro questi nemici interni parevano quasi giustificati dalla grande legge della propria conservazione, giacché essi avevano con disperate ribellioni condotto piu d’una volta la repubblica sull’orlo della rovina4. Ma quando le principali nazioni d’Europa, dell’Asia e dell’Africa furono unite sotto le leg­ gi di un solo sovrano, la sorgente dei rifornimenti stranieri di schia­ vi divenne meno abbondante e i Romani furono ridotti al metodo piu mite, ma piu lungo, della propagazione. Incoraggiarono i ma­ trimoni degli schiavi nelle loro numerose famiglie, e particolar­ mente nelle loro campagne. I sentimenti della natura, l’educazione e una specie di proprietà, sebbene dipendente, contribuirono ad addolcire la durezza della schiavitù5. La vita di uno schiavo diven­ ne un oggetto di maggior valore; e sebbene la sua felicità dipendesValerio m a s s im o , il, 2, n. 2. L ’imperatore Claudio degradò un Greco ragguardevole perche non sapeva la lingua latina. Q uesti aveva forse qualche pubblico impiego, svetonio , Claudio, 16. N el campo di Lucullo un bue fu venduto per una dracma e uno schiavo per quattro dracme, plutarco , Lucullo, p. .580. * diodoro siculo , Eclog. H ist., xxxiv e xxxvi; floro, ih , 19, 20. 5 Si veda un esempio notevole di severità in Cicerone {In Verrem, v, 3). 1 . Gruter e gli altri compilatori riportano un gran numero di scritte indirizzate dagli schiavi alle loro mogli, ai figli, ai compagni, ai padroni, ecc., e che m olto probabilmente sono tutte di età imperiale.

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

45

se sempre dal carattere e dalle circostanze del padrone, l’umanità di questi, anziché essere trattenuta dal timore, era incoraggiata dal sentimento del proprio interesse. La politica, o la virtù degl’impe­ ratori accelerò il progresso dei costumi; e Adriano e gli Antonini estesero con i loro editti la protezione delle leggi anche alla parte più abbietta deff’umanità. Si tolse ai privati il diritto di vita e di morte sugli schiavi, del quale avevano per lungo tempo usato e spesso abusato, riservandolo ai soli magistrati. Furono abolite le prigioni sotterranee, e lo schiavo maltrattato, se si lamentava giu­ stamente di un trattamento inumano, otteneva la libertà, o un pa­ drone meno crudele '. La speranza, che è il miglior conforto della nostra imperfetta Manomis­ sione condizione, non era negata allo schiavo romano; e se trovava il mo­ do di rendersi utile e gradito, poteva molto ragionevolmente spe­ rare che la diligenza e fedeltà di pochi anni sarebbero ricompensa­ te col dono inestimabile della libertà. La benevolenza dei padroni era cosi spesso animata dai più meschini motivi di vanità e di avi­ dità, che le leggi credettero più necessario frenare, che incoraggiare questa profusa e indiscriminata liberalità, che poteva degenerare in un abuso molto pericoloso2. Secondo l’antica legislazione, uno schiavo non aveva patria; acquistando la libertà, egli veniva am­ messo nella società di cui il suo padrone era membro. Le conse­ guenze di questa massima avrebbero prostituito i privilegi della cittadinanza romana a una vile e promiscua moltitudine. Furono perciò stabilite delle opportune eccezioni e l’onorevole distinzione di cittadino fu riservata soltanto a quegli schiavi, che per giuste cause, e con l’approvazione del magistrato, erano solennemente e legalmente manomessi. Di più, questi liberti non ottenevano che i diritti privati di cittadini ed erano rigorosamente esclusi dagli ono­ ri civili e militari. Quale che potesse essere il merito o la ricchezza dei loro figli, essi erano parimente stimati indegni di sedere in se­ nato, e le tracce dell’origine servile non si cancellavano compietamente che alla terza o quarta generazione3. Cosi, senza distruggere la distinzione delle classi sociali, la libertà e gli onori si mostra­ vano in lontananza anche a coloro, che l’orgoglio e il pregiudi­ zio quasi sdegnavano di considerare come appartenenti alla specie umana. 1 Si vedano la Bistorta Augusta e una dissertazione di de Burigny sugli schiavi dei Ro­ mani in Mém. de VAcadémie des Inscriptions, XXXV. 2 Si veda un’altra dissertazione del de Burigny sui liberti dei Romani nel XX XVII tomo dei Mémoirs della stessa Accademia. 3 spanh eim , Orbis Roman., 1, 1 6, pp. 124 sgg.

46 Loro numero

Popolazione d e ll’impero romano

CAPITOLO SECONDO

Una volta fu proposto di dare agli schiavi per distintivo un abi­ to particolare, ma si teme con ragione che vi fosse qualche perico­ lo nel far loro conoscere la grandezza del loro numero Senza pren­ dere alla lettera i generosi termini di legioni e di miriadi12, si può affermare che il numero degli schiavi, che erano considerati come una proprietà, era piu notevole di quello dei servi, che si possono calcolare soltanto come una spesa3. I giovani d’ingegno promet­ tente erano istruiti nelle arti e nelle scienze e se ne fissava il prezzo secondo il grado della loro abilità e delle loro doti4. Quasi ogni professione, liberale5o meccanica, si poteva trovare nella casa di un ricco senatore. Gli addetti alla magnificenza e al piacere erano moltiplicati oltre ogni idea del lusso moderno6. Ai commercianti e agl’industriali conveniva piu comprare i lavoratori, che assumerli, e nelle campagne gli schiavi erano impiegati come gli strumenti meno costosi e piu utili dell’agricoltura. Si possono portare diversi esempi per confermare questa osservazione d’indole generale e di­ mostrare la moltitudine degli schiavi. Una tristissima circostanza fece scoprire che in un solo palazzo di Roma si mantenevano quat­ trocento schiavi7. Un numero eguale apparteneva a un fondo, che una vedova africana di condizione privata cedette al figlio, riser­ vandosi una parte molto maggiore del proprio patrimonio8. Sotto il regno di Augusto un liberto, sebbene le sue ricchezze fossero molto diminuite per le guerre civili, lasciò 3600 coppie di buoi, 230 000 capi di bestiame e 4116 schiavi, compresi, cosa quasi in­ credibile, nella descrizione del bestiame9. Il numero dei sudditi, che riconoscevano le leggi romane, citta­ dini, provinciali e schiavi, non si può determinare con la precisio­ ne che meriterebbe l’importanza del soggetto. Sappiamo che quan­ do l ’imperatore Claudio esercitava l’ufficio di censore, fece un cen­ simento che diede 6 943 000 cittadini romani, i quali, calcolando in proporzione le donne e i bambini, dovevano ascendere a circa 1 Seneca , D e clementia, i, 24. L ’originale è molto piu forte: «Quantum periculum immineret, si servi nostri numerare nos coepissent». 2 plin io , Hist. Natur., x x x m , e ateneo , Deipnosophist., v i, p. 272. Questi afferma ar­ ditamente che ha conosciuto molti (παμπόλ,λοι) Romani, che possedevano non per utilità, ma per ostentazione, dieci e anche ventimila schiavi. 3 A Parigi non vi sono piu di 43 700 servitori di ogni specie, meno della dodicesima par­ te degli abitanti ( m e s sa n ce , Recherches sur la Population, p. 186). 4 G li schiavi colti si vendevano per molte centinaia di sterline. A ttico li allevava e istrui­ va egli stesso, cornelio nepote , V ii., 13. 5 M olti medici romani erano schiavi, middleton , Dissertation and Defence. 6 Pignorio (De servis) ne enumera diffusamente gradi e impieghi. 7 tacito , Annal., x iv , 43. Furono tutti giustiziati per non aver impedito l ’assassinio del loro padrone. 8 Apu le io , Apolog., p. 548, ed. Delphin. 9 plinio , Hist. Natur., x x x m , 47.

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

47

venti milioni di anime. La quantità dei sudditi di ordine inferiore era incerta e variabile; ma dopo aver valutato attentamente ogni circostanza che possa influire sul calcolo, sembra probabile che al tempo di Claudio il numero dei provinciali fosse quasi doppio di quello dei cittadini di ogni età e sesso, e che gli schiavi fossero al­ meno eguali in numero agli abitanti liberi del mondo romano. Il totale di· questo calcolo imperfetto ammonterebbe a circa centoventi milioni, numero che forse eccede quello dell’Europa moder­ na 1 e forma la più numerosa società che sia mai stata unita sotto uno stesso sistema di governo. La pace e l’unione interna erano le naturali conseguenze della Obbedienza e unione moderata e illuminata politica dei Romani. Se volgiamo lo sguardo alle monarchie dell’Asia, vedremo al centro il dispotismo e la de­ bolezza alle estremità, l’esazione delle entrate o l’amministrazione della giustizia sostenute dalla presenza delle armi, nemici barbari stabiliti nel cuore del regno, satrapi ereditari usurpanti il dominio delle province, e sudditi inclini alla ribellione sebbene incapaci di libertà. Ma l’obbedienza del mondo romano era uniforme, volon­ taria e costante. I popoli vinti, fusi in un grande popolo, deponeva­ no la speranza, anzi addirittura il desiderio, di riacquistare la loro indipendenza, e consideravano appena la loro esistenza come di­ stinta da quella di Roma. La riconosciuta autorità degl’imperatori penetrava senza fatica per la vasta estensione dei loro domini, ed era esercitata con la stessa facilità sulle rive del Tamigi o del Nilo come su quelle del Tevere. Le legioni erano destinate a servire contro i nemici e il magistrato civile raramente chiedeva l’aiuto della forza militare2. In questo stato di generale sicurezza, il prin­ cipe e il popolo impiegavano i loro ozi e le loro ricchezze a ingran­ dire e ornare l’impero romano. Quanti, fra gl’innumerevoli monumenti di architettura costrui­ Monumenti romani ti dai Romani, sono sfuggiti all’attenzione della storia, e quanto pochi hanno resistito alle distruzioni del tempo e dei barbari! Tut­ tavia, le maestose rovine che si vedono tuttora sparse per l’Italia e le province, basterebbero a provare che quei luoghi furono un tempo la sede di un impero civile e potente. La loro sola grandez­ za, o la loro bellezza, meriterebbero la nostra attenzione; ma esse divengono anche piu interessanti per due importanti circostanze, 1 Se si contano 20 milioni di abitanti in Francia, 22 in Germania, 4 in Ungheria, io in Italia e nelle isole, 8 in Gran Bretagna e in Irlanda, 8 in Spagna e in Portogallo, io o 12 nel­ la Russia europea, 6 in Polonia, 6 in Grecia e in Turchia, 4 in Svezia, 3 in Danimarca e N or­ vegia, e 4 nei Paesi Bassi, il totale ammonterà a 105, o 107 milioni, voltaire , Hist. Générale. 2 Giu sep pe flavio , De bell. Judaico, 11, 16. I l discorso di Agrippa, 0 per dir meglio, dello storico, è una bella descrizione delTimpero romano.

48

M olti eretti da privati

CAPITOLO SECONDO

che uniscono la dilettevole storia dell’arte con l’utile storia dei co­ stumi. Molte di queste opere furono erette a spese di privati e qua­ si tutte destinate alla pubblica utilità. È naturale supporre che la maggior parte, e la piu considerevo­ le, degli edifici romani fosse eretta dagl’imperatori, che avevano un illimitata disponibilità di uomini e di denaro. Augusto era so­ lito vantarsi di aver trovato la sua capitale di mattoni e di lasciarla di marmo La rigida economia di Vespasiano fu la sorgente della sua magnificenza. Le opere di Traiano portano l’impronta del suo grande animo. I pubblici monumenti, con i quali Adriano ornò ogni provincia dell’impero, furono eseguiti non solo per suo ordi­ ne, ma anche sotto la sua immediata sorveglianza. Era artista egli stesso, e amava quelle arti che accrescevano la gloria del monarca. Esse furono incoraggiate dagli Antonini, in quanto contribuivano alla felicità del popolo; ma se gl’imperatori furono i primi archi­ tetti dei loro domini, non furono i soli. Il loro esempio fu general­ mente imitato dai principali sudditi, i quali non temevano di mo­ strare che avevano animo per concepire e ricchezze per compiere le più nobili imprese. Era appena eretta e consacrata a Roma la su­ perba mole del Colosseo, che Capua e Verona eressero a proprie spese e per propria utilità altri edifici, meno vasti, ma costruiti sul­ lo stesso disegno e con gli stessi materiali \ L ’iscrizione del mera­ viglioso ponte di Alcantara attesta che fu gettato sul Tago a spese di poche comunità lusitane. Quando a Plinio fu dato il governo della Bitinia e del Ponto, province che non erano né le piu ricche, né le piu importanti dell’impero, egli trovò le città della sua giu­ risdizione che gareggiavano tra loro nel costruire monumenti di ogni specie, per utilità e ornamento, che meritassero la curiosità dei forestieri, o la gratitudine dei cittadini. Il proconsole doveva supplire alle loro deficienze, regolarne il gusto e talora moderarne 1 emulazione . I ricchi senatori di Roma e delle province conside­ ravano come un onore, e quasi come un obbligo, accrescere lo splendore del loro tempo e della loro patria; e l’influenza della moda bene spesso suppliva alla mancanza di gusto, o di generosità.1 1 svetonio , Augusto, 28. Augusto edificò in Roma il tempio e il foro di Marte Vendicatore il tempio di Jupiter Tonans sul Campidoglio, quello di A p ollo Palatino, con bibliote­ che pubbliche, il portico, e la basilica di Caio e Lucio, i portici di Livia e di O ttavia e il tea­ tro di Marcello. L esempio del sovrano fu imitato dai suoi ministri e generali, e il suo amico A gnppa ci ha lasciato il monumento immortale del Pantheon. m a f f e i , Verona illustrata, iv, p. 68. . λ ,ve^ decimo libro delle Epistole di Plinio. Tra le opere fatte a spese dei cittadi­ ni, egli ricorda le seguenti: a Nicomedia, un nuovo foro, un acquedotto e un canale, che uno degli antichi re aveva lasciato incompiuto; a Nicea, un ginnasio e un teatro, che era già costato quasi novantamila sterline, delle terme a Claudiopoli e Prusa, e un acquedotto lungo sedici miglia a Sinope.

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

49

Tra la folla di questi privati benefattori merita di esser ricordato Erode Attico, cittadino ateniese, che visse nel secolo degli Anto­ nini; e quale che fosse il movente della sua condotta, la sua magni­ ficenza sarebbe stata degna dei piu grandi sovrani. La famiglia di Erode, almeno dopo che fu favorita dalla fortu­ Erode Attico na, venne fatta discendere in linea retta da Cimone e da Milziade, da Teseo e da Cecrope, da Eaco e da Giove; ma i discendenti di tanti dèi e di tanti eroi erano caduti nello stato piu abbietto. Suo nonno aveva avuto noie dalla giustizia e Giulio Attico, suo padre, avrebbe finito i suoi giorni.nella povertà e nel disprezzo, se non avesse scoperto un immenso tesoro sepolto sotto una vecchia casa, ultimo avanzo del suo patrimonio. Secondo il rigore della legge, l’imperatore avrebbe potuto far valere il suo diritto, e Attico pru­ dentemente prevenne lo zelo dei delatori con una spontanea con­ fessione; ma il giustissimo Nerva, che allora occupava il trono, non volle accettare parte alcuna di quel tesoro e gli comandò di servir­ si senza timore del dono della fortuna. L ’accorto Ateniese continuo a insistere, dicendo che il tesoro era troppo considerevole per un suddito e che egli non sapeva come usarne. « Abusane dunque, - rispose l’imperatore con bonaria impazienza, - poiché ti appar­ tiene » ‘. Molti saranno del parere che Attico seguisse letteralmen­ te le ultime istruzioni dell’imperatore, giacché spese per pubblica utilità la maggior parte dei suoi beni, notevolmente aumentati per un ricco matrimonio. Egli aveva ottenuto per suo figlio Erode la prefettura delle città libere dell’Asia; e questo giovane magistrato, osservando che in quella di Troade mancava l’acqua, ottenne dalla munificenza di Adriano trecento miriadi di dracme (circa centomi­ la sterline) per la costruzione di un nuovo acquedotto. Ma nell’e­ secuzione dell’opera, la spesa ammontò a piu del doppio del pre­ ventivo e gli agenti del fisco cominciarono a protestare, finché il generoso Attico li ridusse al silenzio chiedendo che gli fosse per­ messo di addossarsi il di piu della spesa \ I piu abili maestri della Grecia e dell’Asia erano stati invitati Sua reputazione con generose ricompense a curare l’istruzione del giovane Erode. Il loro allievo divenne presto un celebre oratore, secondo la vana rettorica di quel tempo, che chiudendosi nelle scuole, sdegnava di presentarsi nel foro o nel senato. Gli fu concesso il consolato a Ro­ ma, ma egli passò la maggior parte della sua vita in filosofico ritiro ad Atene e nelle ville vicine, continuamente circondato dai sofisti, 1 Adriano stabili in seguito la norma molto equa, che divideva ogni tesoro trovato tra il proprietario del luogo e Io scopritore (H ist. August., p. 9). 2 FILOSTRATO, Vit. SOphtSt.y II, p . 54 8 ·



CAPITOLO SECONDO

i quali riconoscevano senza difficoltà la superiorità di un ricco e generoso rivale . I monumenti del suo genio sono periti; ma dei ruderi notevoli conservano tuttora il ricordo del suo gusto e della sua munificenza. Dei viaggiatori moderni hanno misurato i resti dello stadio, che egli fece costruire ad Atene: era lungo seicento piedi, tutto di marmo bianco e capace di contenere tutta la popola­ zione. Fu terminato in quattro anni, mentre Erode era presidente dei giochi ateniesi. Egli dedico alla memoria di sua moglie Regilla un teatro, che aveva appena l ’eguale in tutto l ’impero; non vi si impiegò che legno di cedro, squisitamente intagliato. L ’Odeon, de­ stinato da Pericle alle creazioni musicali e alla rappresentazione di nuove tragedie, era stato un trofeo della vittoria riportata dalle arti sulla grandezza barbarica, giacche il legname impiegato era per la maggior parte di alberi delle navi persiane. Benché un re di Cappadocia lo avesse restaurato, era nuovamente sul punto di rovina­ re; ma Erode gli rese l’antica eleganza e magnificenza. Né la libera­ lità di questo illustre cittadino restò circoscritta alle mura di Ate­ ne. I piu splendidi ornamenti, fatti al tempio di Nettuno nell’I­ stmo, un teatro a Corinto, uno stadio a Delfi, delle terme alle Ter­ mopili e un acquedotto a Canusio in Italia, non poterono esaurire i suoi tesori. L Epiro, la Tessaglia, l’Eubea, la Beozia e il Pelopon­ neso provarono il suo favore; e molte iscrizioni delle città greche e asiatiche chiamano con gratitudine Erode Attico loro patrono e benefattore2*. monumenti 1 repubbliche di Atene e di Roma, la modesta semplicità (te°ma]f de^e Case Private annunziava l’eguaglianza della libertà, mentre la teatri, sovranità del popolo si manifestava nei maestosi edifici di pubblica 'ecc.) per nullità , ne questo spirito repubblicano si spense interamente per puS5uS introduzione della ricchezza e della monarchia. G l’imperatori piu virtuosi si compiacevano di mostrare la loro magnificenza con ope­ re fatte per 1 onore e l’utilità nazionale. La Domus Aurea di Nero­ ne suscita una giusta indignazione; ma il vasto terreno usurpato per il suo lusso egoista fu piu nobilmente occupato sotto i succes­ sivi imperatori dal Colosseo, dalle terme di Tito, dal portico di Claudio e dai templi dedicati alla Pace e al genio di Roma4*. Questi 2 ADL0 GELLI° . N o ci. A ttic ., i, 2; ix , 2; x v m , io ; x ix , 12; filostrato , p 564 dei

1 6 VI1’ I0· U Vha di Erode nel

” p* b,“

d· d,“ “ “

4 DONATO, De Rom a antiqua, m , 4, 5) 6; nardini , R om a antica, in , 11 12 12 e un mau f T Ì Ì 0 con.te" ente una descrizione di Roma antica, fatta da Bernardo Oricellario o Rucellai, della quale ho ottenuto una copia dalla biblioteca del canonico Riccardi di Firenze. Plinio

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

5

1

monumenti di architettura, proprietà del popolo romano, erano ornati dalle piu belle opere della pittura e scultura grecale nel tempio della Pace si apri una biblioteca molto interessante alla cu­ riosità dei dotti. Poco lontano sorgeva il Foro di Traiano, circon­ dato da un alto portico quadrato, nel quale quattro archi trionfali aprivano un ingresso nobile e spazioso. Aveva nel centro una co­ lonna di marmo alta centodieci piedi, che indicava 1 altezza della collina che ivi era stata spianata. Questa colonna, che esiste tuttora nella sua antica bellezza, presentava un quadro esatto delle vittorie riportate da Traiano sui Daci. Il veterano contemplava la storia delle proprie campagne e il pacifico cittadino, per una facile illu­ sione di vanità nazionale, si associava agli onori del trionfo. Tutte le regioni della capitale, tutte le province dell’impero, erano ab­ bellite dallo stesso liberale spirito di pubblica magnificenza, piene di anfiteatri, teatri, templi, portici, archi trionfali, terme e acque­ dotti, tutti variamente utili alla salute, alla devozione e ai piaceri degl’infimi cittadini. Gli acquedotti meritano la nostra particolare attenzione. L ’ardimento dell’opera, la solidità dell esecuzione e gli usi ai quali servivano, li collocano tra i piu nobili monumenti del genio e della potenza di Roma. Gli acquedotti della capitale riven­ dicano giustamente la preminenza; ma un viaggiatore curioso, che esaminasse senza il lume della storia quelli di Spoleto,^ di Metz, o di Segovia, concluderebbe naturalmente che quelle città provincia­ li erano state anticamente la sede di qualche potente monarca. Le solitudini dell’Asia e dell’Africa erano un tempo coperte da fioren­ ti città, la cui popolosità, e la stessa loro esistenza erano dovute a queste artificiali e perenni correnti di acqua fresca *. Abbiamo calcolato gli abitanti e considerato le opere pubbliche dell’impero romano. L ’esame del numero e della grandezza delle sue città servirà a confermare il calcolo e a moltiplicare le opere. Non sarà sgradevole raccogliere alcuni sparsi esempi relativi a que­ sto soggetto, senza tuttavia dimenticare che la vanità dei popoli e la povertà della lingua hanno indifferentemente dato il vago nome di città sia a Roma che a Lamento. i) Si dice che l’Italia antica contasse 1197 città; e a qualunque epoca dell’antichità si debba applicare questa espressione2, non vi è alcuna ragione di credere l’Italia meno popolosa nel secolo degli parla di due celebri dipinti di Timante e di Protogene, collocati nel tempio della Pace. I l Laocoonte fu trovato nelle Terme di T ito. . . _ , ^ 1 m o n t f a u c o n , U A ntiquité expliquée, I V , parte I I, i, 9 · U Fabretti ha composto un dottissimo trattato sugli acquedotti di Roma. , c c; , i„ 2 eliano , Hist. var.y ix , 16. Q uest’autore viveva sotto Alessandro severo. ai veda FAb r ic iu s , Biblioth. G r a e c iv, 21.

Numero e grandezza delle città d ell’impero

Italia

5*

CAPITOLO SECONDO

Antonini che al tempo di Romolo. I minuscoli stati del Lazio era­ no contenuti nel territorio della metropoli dell’impero, la cui mag­ giore influenza li aveva attirati. Quelle parti d’Italia’ che hanno poi per tanto tempo languito sotto l’oziosa tirannia dei preti e dei viceré, erano state afflitte soltanto dalle più tollerabili calamità della guerra, e i primi sintomi di decadenza che provarono furono ampiamente compensati dai rapidi progressi della Gallia Cisalpi­ na. Nei suoi ruderi, Verona mostra ancora l’antico splendore; ep­ pure Verona era meno famosa di Aquileia o di Padova, di Milano o di Ravenna. Gallia 2) Lo spirito del progresso aveva passato le Alpi e si sentiva e Spagna perfino nei boschi della Britannia, che a poco a poco erano scom­ parsi per far posto a comode abitazioni. York era la sede del go­ verno, Londra già si arricchiva col commercio e Bath era celebre per i salutari effetti delle sue acque termali. La Gallia poteva van­ tarsi delle sue milleduecento città '; e sebbene molte di queste, nel­ le parti settentrionali e senza eccettuarne Parigi, fossero poco piu che rozzi e imperfetti borghi di un popolo nascente, le province meridionali imitavano l’opulenza e l’eleganza italiana12. Molte era­ no le città della Gallia - Marsiglia, Arles, Nìmes, Narbona, Tolosa, Bordeaux, Autun, Vienna, Lione, Langres e Treviri, - l’antica con­ dizione delle quali potrebbe benissimo e forse con vantaggio gareg­ giare col loro stato presente. Quanto alla Spagna, fiorente come provincia, come regno e andata in decadenza. Spossata dalPabuso della sua forza, dall’America e dalla superstizione, il suo orgoglio resterebbe forse molto umiliato, se le si chiedesse un elenco di trecentosessanta citta, quante Plinio ne contò sotto il regno di Ve­ spasiano \ Africa 3 ) Trecento città africane avevano un tempo riconosciuto l'au­ torità di Cartagine , ne si può credere che il loro numero diminuis­ se sotto il governo degl’imperatori. Cartagine stessa rinacque con nuovo splendore dalle proprie ceneri; e quella capitale, come Capua e Corinto, ricuperarono ben presto tutti quei vantaggi, che possono aversi senza una sovranità indipendente. Asia 4) Le province dell’Oriente presentano il contrasto tra la ma­ gnificenza romana e la barbarie turca. Le rovine dell’antichità, sparse per le incolte campagne e attribuite dall’ignoranza al potere 1 Giu s ep p e flavio , D e bell. Judaico, li, 16. Questo numero va accolto con una certa la­ titudine. . 2 plinto, H ist. Natur., in , 3. 3 I b td .,3 , 4; IV 33. La nota pare autentica ed esatta; la divisione delle province e la di­ versa condizione delle citta vi sono minutamente distinte. steabone , Geograph., x v ii , p. 1189.

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

53

della magia, dànno appena un asilo al contadino oppresso dall’A ­ rabo nomade. Sotto il regno dei Cesari, l’Asia propriamente detta contava cinquecento città molto popolose , arricchite di tutti i do­ ni della natura e ornate di tutte le raffinatezze dell’arte. Undici cit­ tà dell’Asia si erano un tempo disputato l’onore di dedicare un tempio a Tiberio e il senato esaminò i loro meriti rispettivi \ Quat­ tro furono immediatamente scartate come incapaci di tanto peso, e una di esse era Laodicea, il cui splendore è tuttora evidente nelle sue rovine3. Laodicea ricavava una considerevolissima entrata dal­ le sue greggi, famose per la finezza della lana, e aveva ricevuto po­ co prima di questa contesa un legato di oltre quattrocentomila ster­ line da un generoso cittadino4. Se tale era la povertà di Laodicea, quale deve essere stata la ricchezza di quelle citta, le cui offerte par­ vero preferibili, e specialmente di Pergamo, di Smime e di Efeso, le quali cosi a lungo si disputarono il primato dell’Asia5? Le capi­ tali della Siria e dell’Egitto erano di un ordine ancora superiore nel­ l’impero. Antiochia e Alessandria guardavano con disprezzo una folla di città dipendenti6 e non cedevano che con riluttanza alla maestà della stessa Roma. Tutte queste città erano collegate l’una con l’altra e alla capita­ le per mezzo di grandi strade, le quali, partendo dal Foro di Roma, traversavano l’Italia, penetravano nelle province e non terminava­ no che ai confini dell’impero. Se si misurasse esattamente la di­ stanza dal vallo di Antonino a Roma, e di là a Gerusalemme, si troverebbe che la grande catena di comunicazione da nord-ovest a sud-est si estendeva per la lunghezza di 4080 miglia romane . Le

Strade romane

1 GIUSEPPE FLAVIO, De bell. Judaico, n , 16; filostrato , V it. sophist., n , p. 548, ed. 0 1 £3^.tacito Annal. iv , 33. M i sono preoccupato di consultare e confrontare tra loro i mo­

derni viaggiatori sulla sorte di queste undici città dell’Asia. Sette o otto sono affatto distrut­ te- Hypaepe Traili, Laodicea, Ilio , Alicarnasso, M ileto, Efeso e possiamo aggiungere, Sar­ di’ D elle tre’ altre, Pergamo è un misero villaggio di due o tremila abitanti, Magnesia sotto il nome di Guzel-hissar è città di una certa importanza, e Smirne e una grande citta, di cen­ tomila abitanti. Ma anche a Smirne, se i Franchi hanno conservato il commercio, 1 iu rch i hanno rovinato le arti. . . „ T ,· . 3 Si veda un’esattissima e piacevole descrizione delle rovine di Laodicea Travels iato Asia Minor, PP. 225 sgg. 4 strabone , x ii, p. 866. E gli aveva studiato a Traili. ν-υτττ 5 Si veda una dissertazione del de Boze in Mem. de l Academte des Inscriptions, X * I l i . Aristide pronunciò un’orazione, che ancora esiste per raccomandare la concordia alle citta nVal1' 6 G li abitanti d ell’Egitto, esclusa Alessandria, si facevano ascendere a sette m ilioni e mezzo (Giu s e p p e flavio , D e bell. Judaico, 11,16). Sotto il governo militare dei Mamelucchi, la Siria si credeva contenesse sessantamila villaggi (Hist. de Timour Bec, v, 20). 7 II seguente itinerario può dare qualche idea della direzione del cammino e della distan­ za tra le principali città: 1) dal vallo di Antonino a Y o rk , 222 m iglia romane; 2) a Londra 227· 3) a Rhutupiae, o Sandwich, 67; 4) traversata a Boulogne 45; 5) a Reims 174; 6) a Lio­ ne 330; 7) a M ilano 324; 8) a Roma 426; 9) a Brindisi 360; io) traversata a Durazzo 40; 11) a Bisanzio 711; 12 ad Ancira 283; 13) a Tarso 301; 14) ad Antiochia 141; 15 a Tiro 232;

in

c

54

Poste

Navigazione

CAPITOLO SECONDO

strade erano accuratamente divise da colonne miliari, e andavano in linea retta da una città all’altra con pochissimo riguardo agli ostacoli sia della natura, sia della proprietà privata. Si traforava­ no i monti e si gettavano grandi archi sui fiumi piu larghi e piu ra­ pidi Il mezzo della strada era molto elevato sulla campagna circo­ stante ed era formato da molti strati di sabbia, ghiaia e cemento, lastricato di larghe lastre di pietra, e in alcuni luoghi vicini alla capitale, di granito2. Tale era la solida costruzione delle strade ro­ mane; una solidità che non ha interamente ceduto allo sforzo di quindici secoli. Esse univano i sudditi delle piu lontane province con comunicazioni facili e familiari; ma il loro scopo principale era di facilitare la marcia delle legioni e nessun paese si considerava pienamente soggiogato, finché non fosse stato reso in tutte le sue parti accessibile alle armi e all’autorità del conquistatore. Il vantaggio di ricevere le notizie al piu presto e di trasmettere rapidamente i loro ordini, indusse gl’imperatori a stabilire in tutti i loro vasti domini un regolare servizio di posta3. Si costruirono ovunque case distanti soltanto cinque o sei miglia, ciascuna delle quali era costantemente provvista di quaranta cavalli. Cambiando i cavalli, era facile percorrere sulle strade romane cento miglia in un giorno4. L ’uso delle poste si concedeva a chi lo richiedesse con un ordine imperiale; ma sebbene destinato in origine al servizio dello stato, era talora concesso ai privati per affari, o per diporto5. Le comunicazioni nell’impero romano non erano meno libere e aperte per mare che per terra. Il Mediterraneo era circondato e chiuso dalle province; e l’Italia si protendeva in mezzo a questo grande lago come un immenso promontorio. Sulle coste d’Italia vi sono in genere pochi porti sicuri, ma l’attività umana aveva sup­ plito alla deficienza della natura; in particolare, il porto artificiale di Ostia, situato all’imboccatura del Tevere e costruito dall’impe16) a Gerusalemme 168. In tutto miglia romane 4080 o 3740 miglia inglesi. Si vedano gli Iti­ nerari pubblicati da W esseling con le sue note; si vedano anche G ale e Stukeley per la Britannia, e d’A n ville per la Gallia e l ’Italia. 1 Montfaucon (L'A ntiquité expliquée, IV , parte I I , 1, 3) ha descritto i ponti di Narni, di Alcantara, di Nimes, ecc. 2 b er g ie r , Hist. des grands Chemins, il, 1-28. 3 procopio , Hist. arcana, 30; bergier , Hist. des grands Chemins, IV; Codex Theodos., v ili, tit. v, II, pp. 506-63 con il dotto commento del Godefroy. 4 A l tempo di Teodosio, Cesario, alto magistrato, andò con i cavalli di posta da A n tio­ chia a Costantinopoli. Cominciò il suo viaggio di notte, la sera seguente giunse in Cappadocia (165 miglia da Antiochia), e arrivò a Costantinopoli il sesto giorno, verso mezzogiorno. L ’in­ tera distanza era di 725 miglia romane, o 665 m iglia inglesi. Si vedano l ib a n io , Orai, x x n e Itinerar., pp. .57.2-81. 5 Plinio, sebbene favorito e ministro, dovette giustificarsi per aver fatto dare due cavalli di posta alla moglie per un affare di grande premura (E pist. x, 121, 122).

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

55

ratore Claudio, era un utile monumento della grandezza romana '. Da questo porto, lontano dalla capitale sole sedici miglia, le navi con vento favorevole giungevano spesso in sette giorni alle Colon­ ne d’Èrcole, e in nove o dieci ad Alessandria d’Egitto2. Per quanti mali la ragione o la retorica abbiano imputato ai Progressi grandi imperi, è certo che la potenza di Roma fu accompagnata da agricoltura alcuni benefici effetti; e la stessa libertà delle comunicazioni, che province propagava i vizi, diffondeva anche i vantaggi della vita sociale. 0CCldentah Nei piu remoti secoli dell’antichità, il mondo era diviso in modo inuguale. L ’Oriente era da tempo immemorabile in possesso delle arti e del lusso, mentre l’Occidente era abitato da barbari rozzi e bellicosi, che disprezzavano o ignoravano affatto l’agricoltura. Sot­ to la protezione di un governo stabile, i prodotti dei climi più fe­ lici e le industrie delle nazioni piu progredite s’introdussero a poco a poco nelle parti occidentali d’Europa, e un libero e utile commer­ cio incoraggiò i loro abitanti a moltiplicare i primi, e a migliorare le seconde. Sarebbe quasi impossibile enumerare tutte le specie del regno animale o vegetale, che furono successivamente importate in Europa dall’Asia e dall’Egitto3; ma non nuocerà al decoro e molto meno all’utilità di una storia accennare brevemente alcuni capi principali, i) Quasi tutti i fiori, le erbe e i frutti, che nascono nei Importazione nostri giardini europei, sono di provenienza forestiera, manifesta- ècc. ta spesso dai loro nomi. La mela era originaria d’Italia, e quando i Romani ebbero gustato il sapore piu delicato dell’albicocca, della pesca, della melagrana, del cedro, dell’arancia, si limitarono a dare a tutti questi nuovi frutti la comune denominazione di mela, di­ stinguendoli con l’aggiunta di un epiteto riferentesi al loro paese d’origine. 2) A l tempo d’Omero, la vite cresceva selvatica in Sici- L a v ile lia, e forse anche nel vicino continente, ma non era perfezionata dall’arte dei selvaggi abitanti, i quali non sapevano estrarne un li­ quido gradevole al gusto4. Mille anni dopo, l’Italia poteva vantar­ si che delle ottanta specie di vini piu generosi e famosi, oltre due terzi erano prodotti dal proprio suolo5. Questa pianta preziosa fu introdotta nella provincia narbonese della Gallia; ma al tempo di Strabone, il freddo nella parte settentrionale delle Cevenne era co­ si intenso, che si credeva impossibile farvi maturare l’uva6. Que1 bergier . Hist. des grands Chemins, iv, 49. Natur., x ix , 1. . 3 Non è improbabile che i Greci e i Fenici introducessero nuove arti e nuovi prodotti nelle vicinanze di Cadice e di Marsiglia. 4 omero , Odiss., ix , 358. 5 P l in io ,H ist. Natur., xiv. 6 st r a b o n e , Geograph., iv, p. 223. I l freddo intenso d ell’inverno della (j -alila era quasi proverbiale tra gli antichi.

2 Pl in io , Hist.

56

L ’olivo

Il lino

Prati artificiali

Abbondanza generale

Arti del lusso

CAPITOLO SECONDO

sta difficoltà, tuttavia, a poco a poco fu superata; e vi è qualche ra­ gione di credere che i vigneti di Borgogna risalgano al secolo degli Antonini1. 3) In Occidente l’olivo era il compagno e il simbolo della pace. Due secoli dopo la fondazione di Roma, questa utile pianta era sconosciuta in Italia e in Africa; ma vi fu poi naturaliz­ zata, e finalmente portata nel cuore della Spagna e della Gallia. L ’ingenuo errore degli antichi che gli fosse necessario un certo grado di calore, e non potesse crescere che nelle vicinanze del ma­ re, fu gradatamente distrutto dal lavoro e dall’esperienza2. 4) La coltivazione del lino passò dall’Egitto nella Gallia e arricchì l’inte­ ro paese, sebbene talvolta impoverisse le terre dov’era seminato \ 5 ) L ’uso dei prati artificiali divenne familiare all’Italia e alle pro­ vince, e specialmente l’erba medica, o trifoglio, che deve alla Me­ dia il nome e l’origine4. Le sicure scorte di un alimento sano e ab­ bondante per il bestiame nell’inverno, moltiplicarono il numero delle greggi e degli armenti, che a loro volta contribuirono alla fer­ tilità del terreno. A tutti questi miglioramenti si può aggiungere l’assidua attenzione per le miniere e la pesca, che impiegando una moltitudine di mani laboriose, servivano ad accrescere i piaceri del ricco e i mezzi del povero. Nel suo elegante trattato, Columella de­ scrive il florido stato dell’agricoltura spagnola sotto il regno di Ti­ berio; e si può osservare che quelle carestie, dalle quali fu cosi spesso afflitta la repubblica nella sua infanzia, raramente o mai si verificavano nel vasto impero di Roma. La casuale scarsezza in una provincia era immediatamente soccorsa dall’abbondanza dei suoi piu fortunati vicini. L ’agricoltura è la base dell’industria, giacché i prodotti della natura sono i materiali dell’arte. Sotto l ’impero di Roma, la gente ingegnosa e industre s’impiegava variamente, ma continuamente al servizio dei ricchi. Questi favoriti della fortuna univano tutte le raffinatezze della comodità, dell’eleganza e dello splendore negli abiti, nella tavola, nelle case e nei mobili, e volevano tutto ciò che poteva lusingare l’orgoglio o soddisfare i sensi. Queste raffinatez­ ze, sotto l’odioso nome di lusso, sono state severamente condanna­ te dai moralisti di ogni tempo; e forse potrebbe contribuire mag­ giormente alla virtù e alla felicità degli uomini, se tutti possedesse1 A l principio del iv secolo, l ’oratore Eumenio (in P a n e g y r . v e t e r . , v ili, 6, ed. Delphin.) parla dei vigneti di Autun, deteriorati per l ’antichità; e allora s’ignorava affatto in che epoca le vigne fossero state piantate nel territorio di questa città. I l d ’A n v ille suppone che il « Pagus Arebrignus » fosse il distretto di Beaune, celebre tuttora per la bontà dei suoi vini.

2 plinio, H i s t .

N a t u r .,

xv.

3 Ibid., x ix.

4 harte,

E s s a y s o n A g r ic u ltu r e .

i moderni hanno detto sul trifoglio.

E gli ha unito in quest’opera tutto ciò che gli antichi e

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

57

ro i beni necessari alla vita e nessuno i superflui. Ma nell’attuale imperfetta condizione della società, il lusso, sebbene possa proce­ dere dal vizio o dalla follia, sembra essere l’unico mezzo per cor­ reggere l’ineguale distribuzione dei beni. Il diligente artigiano e l’abile artista, che non hanno avuto alcuna parte nella divisione della terra, ricevono una tassa volontaria dai proprietari terrieri, e questi sono incitati dal sentimento dell’interesse a migliorare quei beni, col prodotto dei quali possono procurarsi nuovi piaceri. Questa situazione, i cui particolari effetti sono sentiti in ogni socie­ tà, agiva con energia molto piu diffusa nel mondo romano. Le pro­ vince avrebbero ben presto perduto la loro ricchezza, se le mani­ fatture e il commercio degli oggetti di lusso non avessero insen­ sibilmente restituito ai sudditi industriosi le somme che da loro esigevano le armi e l’autorità di Roma. Finché quest’azione restò limitata ai confini dell’impero, essa impresse alla macchina politica un nuovo grado di attività e le sue conseguenze, talvolta benefiche, non poterono mai divenire perniciose. Ma non è facile contenere il lusso dentro i confini di un impe­ ro. I paesi piu remoti del mondo antico furono saccheggiati per provvedere al fasto e alla raffinatezza di Roma. Le foreste della Scizia fornivano pellicce pregiate. L ’ambra si portava per terra dalle coste del Baltico al Danubio, e i barbari erano meravigliati del prezzo che essi ricevevano in cambio di una merce cosi inutile ’. I tappeti di Babilonia e altri manufatti dell’Oriente erano ricercatis­ simi; ma il commercio estero piu importante e impopolare si svol­ geva con l’Arabia e con l’India. Ogni anno, verso il solstizio d’e­ state, una flotta di centoventi navi salpava da Myoshormos, porto dell’Égitto sul Mar Rosso, e con l’aiuto dei monsoni attraversava l’oceano in circa quaranta giorni. La costa del Malabar, o l’isola di Ceylon2, erano il termine consueto della loro navigazione, e i mer­ canti delle più remote regioni dell’Asia aspettavano il loro arrivo in quegli scali. Il ritorno della flotta egiziana era fissato a dicembre o gennaio; e appena il suo ricco carico era stato trasportato su cam­ melli dal Mar Rosso al Nilo ed era sceso per quel fiume ad Ales­ sandria, veniva inviato senza indugio nella capitale dell’impero3. Gli oggetti del commercio orientale erano splendidi, ma di poca 1 tacito, G e r m a n i a , 45; plinio , H i s t . N a t u r ., xxxviii, 11. Q uesti osserva, non senza umorismo, che la moda stessa non aveva ancora scoperto l ’utilità d ell’ambra. Nerone mandò un cavaliere romano nei luoghi dove la raccoglievano (le coste della Prussia moderna) a com­ prarne grandi quantitativi. 2 Chiamata Taprobana dai Romani, e Serendib dagli Arabi. Q u est’isola fu scoperta sot­ to il regno di Claudio e divenne a poco a poco la sede principale del commercio con l ’Oriente. 3 plinio , H i s t . 4

N a t u r .,

vi;

strabone, xvii .

Commercio con l ’estero

58

Oro e argento

Benessere generale

CAPITOLO SECONDO

utilità: la seta ', che si vendeva a peso d’oro, le pietre preziose, tra le quali la perla aveva il primo posto dopo il diamante2, e una grande varietà di profumi, che si usavano nelle funzioni religiose e nei funerali. Le fatiche e i pericoli del viaggio erano ricompensati con un guadagno quasi incredibile, che si faceva sui sudditi roma­ ni, e pochi individui si arricchivano a spese del popolo. Poiché agli abitanti dell’India e dell’Arabia bastavano i prodotti e manufatti del loro paese, l’argento era il principale se non l’unico mezzo di scambio dei Romani, e il senato deplorava giustamente, che per l ’acquisto di ornamenti muliebri, le ricchezze dello stato passasse­ ro nelle mani di popoli stranieri e nemici3. La perdita annua fu va­ lutata da uno scrittore di spirito indagatore, ma portato alla criti­ ca, ad oltre ottocentomila sterline4. Si trattava però di un pessimi­ sta, che faceva cupe previsioni su un prossimo avvenire di povertà. E tuttavia, se confrontiamo il rapporto tra oro e argento quale era al tempo di Plinio, e quello fissato nel regno di Costantino, sco­ priremo che in quel periodo vi fu un notevolissimo aumento5. Non vi è la minima ragione di supporre che l’oro fosse divenuto piu ra­ ro; è perciò evidente che l’argento era divenuto piu comune, che quale che fosse l’ammontare delle esportazioni dell’India e dell’A ­ rabia, esse erano ben lungi dall’esaurire la ricchezza del mondo ro­ mano e che la produzione delle miniere suppliva ampiamente alle esigenze del commercio. Nonostante l’inclinazione degli uomini a esaltare il passato e a svalutare il presente, sia i provinciali, sia i Romani sentivano pro­ fondamente e riconoscevano onestamente lo stato di prosperità e tranquillità dell’impero. «Essi riconoscevano che i veri principi della vita sociale, le leggi, l ’agricoltura e le scienze, primamente in­ ventati dalla saggezza di Atene, erano ora saldamente stabiliti dalla potenza di Roma, sotto la cui felice influenza i barbari piu feroci erano uniti da un governo eguale e una lingua comune. Affermava­ no che con il progresso delle arti la specie umana era visibilmente moltiplicata. Celebravano l’accresciuto splendore delle città, il ri­ dente aspetto delle campagne, tutte coltivate e ornate come un immenso giardino, e le feste di una lunga pace, goduta da tanti po1 H i s t . A u g u s t . , p. 224. Una veste di seta era considerata come un ornamento femminile e indegno di un uomo. 2 Le due principali località per la pesca delle perle erano, come oggi, Ormuz e il Capo Comorin. A quanto sembra, Roma si riforniva di diamanti dalla miniera di Jumelpur, nel Bengala; se ne trova una descrizione in tavernier , V o y a g e s , I I, p. 281. 3 tacito , A n n a l . , in , 33, in un discorso di Tiberio. 4 Plinio , H i s t . N a t u r . , x n , 18. In un altro passo, calcola la metà di questa somma; «quingenties H . S.» per l ’India, senza comprendere l ’Arabia. 5 II rapporto che era da uno a dieci, e dodici e mezzo, sali a quattordici e due quinti per una legge di Costantino. Si veda arbuthnot , T a b l e s o f A n c i c n t C o i n s , 3.

PROSPERITÀ DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

59

poli, dimentichi delle loro antiche inimicizie e liberati dal timore di futuri pericoli » ’. Quali che siano i sospetti suggeriti dall’accen­ to retorico e declamatorio, che sembra dominare in questo pas­ so, nella sostanza esso concorda perfettamente con la verità della storia. Era quasi impossibile che l’occhio dei contemporanei scoprisse Declino del coraggio nel benessere generale le cause latenti della decadenza e della cor­ ruzione. Quella lunga pace e il governo uniforme dei Romani ino­ cularono un lento e segreto veleno nelle parti vitali dell’impero. Le menti degli uomini si ridussero a poco a poco allo stesso livello, si estinse il fuoco del genio e svanì perfino lo spirito militare. Gli Europei erano valorosi e robusti, Spagna, Gallia, Britannia e Illiri­ co fornivano alle legioni soldati eccellenti e formavano il vero ner­ bo della monarchia. Il loro valore personale viveva ancora, ma essi non avevano piu quel coraggio civile, che si nutre con l’amore del­ l’indipendenza, il sentimento dell’onore nazionale, la presenza del pericolo e l’abitudine al comando. Essi ricevevano le leggi e i go­ vernatori dalla volontà del sovrano e affidavano la loro difesa a un esercito mercenario. I discendenti dei loro capi ardimentosi si ap­ pagavano della condizione di cittadini e di sudditi. Gli spiriti piu ambiziosi accorrevano alla corte, o sotto le insegne degl’imperato­ ri, e le province abbandonate, prive di forza o di unità politica, caddero insensibilmente nell’apatica indifferenza della vita privata. L ’amore delle lettere, quasi inseparabile dalla pace e dal pro­ Declino d ell’ingegno gresso, era di moda tra i sudditi di Adriano e degli Antonini, i qua­ li erano essi stessi uomini colti e amanti del sapere. Questo amore era diffuso per tutto il loro impero. Le tribù piu settentrionali della Britannia avevano appreso il gusto per la poesia, sulle rive del Reno e del Danubio si copiavano e si leggevano Omero e Vir­ gilio, e ogni piu tenue barlume di merito letterario veniva incorag­ giato e ricompensato con somma liberalità2. La medicina e l’astro­ nomia erano coltivate con successo dai Greci, le osservazioni di Tolomeo e gli scritti di Galeno si studiano da coloro che ne hanno migliorato le scoperte e corretto gli errori; ma tranne l’inimitabile 1 O ltre diversi altri passi, si vedano plin io , Hist. Natur., in , 5; Aristid e , D e urbe Ro­ ma, e Tertulliano , D e anima, 30. 2 Erode A ttico diede al sofista Polemone oltre ottomila sterline per tre declamazioni, f i lostrato , 1, p. 558. G li Antonini fondarono una scuola in Atene, nella quale si mantenevano a pubbliche spese professori di grammatica, retorica, politica e delle quattro principali scuole filosofiche. Lo stipendio di un filosofo era di diecimila dracme l ’anno. Analoghi istituti ven­ nero fondati nelle altre grandi città d ell’impero. Luciano , E unuch., I I , p. 333, ed. Reitz; f i lostrato , 11, p. 566; Hist. August., p. 21 e dione ca ssio , lx x i , p. 1195. Giovenale, in una satira risentita, che ad ogni linea tradisce la sua invidia e delusione, è però obbligato a sog­ giungere: « O Juvenes, circumspicit et agitat vos. | Materiamque sibi ducis indulgentia quaerit» (Sat. v ii, 20).

6o

Degenera­ zione

CAPITOLO SECONDO

Luciano, quel secolo d’indolenza non produsse un solo scrittore d’ingegno originale che meritasse l’attenzione della posterità. Pla­ tone, Aristotele, Zenone ed Epicuro regnavano ancora nelle scuole e i loro sistemi, tramandati con cieca deferenza da una generazione di scolari all’altra, impedivano ogni nobile tentativo di esercitare lo spirito umano e di allargarne i confini. Le bellezze dei poeti e degli oratori, anziché accendere nei lettori un fuoco simile al loro, ispiravano soltanto fredde e servili imitazioni, o se alcuno si av­ venturava ad allontanarsi da quei modelli, si allontanava nel tem­ po stesso dal buon senso e dall’eleganza. Con la rinascita delle let­ tere, il vigore giovanile dell’immaginazione, l’emulazione naziona­ le, una nuova religione, nuove lingue e un nuovo mondo, scossero da un lungo letargo il genio dell’Europa. Ma i provinciali di Roma, allevati con un’artificiosa e uniforme educazione straniera, non po­ tevano competere con quei valorosi antichi, i quali esprimendo i loro genuini sentimenti nella loro lingua materna, avevano già oc­ cupato tutti i posti d’onore. Il nome di poeta era quasi caduto in dimenticanza e i sofisti usurpavano quello di oratore. Uno sciame di critici, di compilatori e di commentatori oscurava il volto del sapere e la decadenza spirituale fu presto seguita dalla corruzione del gusto. Il sublime Longino, che in un periodo alquanto posteriore, e alla corte di una regina di Siria, conservava lo spirito dell’antica Atene, osserva e deplora questa degenerazione dei suoi contempo­ ranei, che ne avviliva i sentimenti, ne snervava il coraggio e ne deprimeva le qualità. « Nello stesso modo, - egli dice, - che quan­ ti da bambini sono stati troppo strettamente fasciati, rimangono sempre pigmei, cosi le nostre tenere menti, incatenate dai pregiu­ dizi e dalle abitudini di una stretta servitù, non sono capaci di di­ latarsi, o di raggiungere quella ben proporzionata grandezza che ammiriamo negli antichi, i quali vivendo sotto un governo popo­ lare, scrivevano con la stessa libertà con cui operavano » '. Questa bassa statura del genere umano, per continuare la metafora, andò giornalmente scemando, e il mondo romano era veramente popo­ lato da una razza di pigmei, quando i fieri giganti del Settentrione l’invasero e migliorarono quella specie degenere. Essi fecero rina­ scere un virile spirito di libertà; e nel giro di dieci secoli, la libertà divenne madre felice delle arti e delle scienze. 1 longino , De· sublim., 43, p. 229, ed. Toll. Anche qui possiamo dire di lui, che «con l ’e­ sempio corrobora il precetto». Invece di proporre arditamente le sue opinioni, le insinua con la piu grande cautela, facendole esprimere da un amico, e per quanto se ne può giudicare da un testo corrotto, mostrando di volerle confutare egli stesso.

CAPITO LO TERZO

Costituzione dell’impero romano nel secolo degli Antonini.

La monarchia, secondo quella che sembra essere la definizione Concetto della piu ovvia, è uno stato in cui l ’esecuzione delle leggi, l’amministra­ monarchia zione delle entrate e il comando delle forze armate si affidano a una sola persona, comunque sia denominata. Ma se la libertà non è difesa da custodi intrepidi e vigilanti, l’autorità di un magistrato cosi formidabile non tarderà a tralignare in dispotismo. In un se­ colo superstizioso, l’influenza del clero potrebbe essere utilmente impiegata a garantire i diritti degli uomini; ma il trono e l ’altare sono cosi intimamente connessi, che raramente la bandiera della chiesa si è veduta sventolare dalla parte del popolo. Una nobiltà guerriera e un popolo tenace, provvisti di armi, attaccati alla pro­ prietà e raccolti in assemblee costituzionali, formano il solo con­ trappeso capace di conservare una libera costituzione contro le usurpazioni di un principe ambizioso. L ’immensa ambizione del dittatore aveva abbattuto ogni ba­ Situazione di Augusto luardo della costituzione romana e la destra crudele del triumviro ne aveva distrutto ogni riparo. Dopo la vittoria d’Azio, il destino del mondo romano dipendeva dal volere di Ottaviano, cui l’ado­ zione dello zio diede il nome di Cesare e l’adulazione del senato quello di Augusto. Il vincitore era alla testa di quarantaquattro le­ gioni veterane ', consce della propria forza e della debolezza del governo, avvezze per vent’anni di guerra civile alle stragi e alle vio­ lenze, e devotissime alla famiglia di Cesare, dalla quale solamente avevano ricevuto e attendevano le più larghe ricompense. Le pro­ vince, lungamente oppresse dai ministri della repubblica, sospira­ vano il governo di un solo uomo, che fosse il padrone e non il complice di quei tirannelli. Il popolo di Roma, vedendo con segre­ to piacere l’umiliazione dell’aristocrazia, non domandava che pane e spettacoli, e la mano generosa di Augusto gli diede l’uno e gli al­ tri. I ricchi e raffinati Italiani, che quasi generalmente seguivano OROSIO, VI, 18.

62

Riforma il senato

Rinuncia al potere usurpato

CAPITOLO TERZO

la filosofia di Epicuro, godevano i benefici del benessere e della tranquillità e non volevano interrompere quel sogno piacevole col ricordo dell’antica, burrascosa libertà. Il senato, con la potenza, aveva perduto la dignità, e molte delle piu nobili famiglie erano estinte. I repubblicani coraggiosi e capaci erano morti sui campi di battaglia, o nelle proscrizioni, e si era intenzionalmente lasciato libero l’ingresso al senato a una promiscua moltitudine di oltre mille persone, le quali disonoravano il loro ordine, anziché esserne onorate '. La riforma del senato fu uno dei primi passi, coi quali Augu­ sto si mostrò non piu tiranno, ma padre della patria. Fu eletto cen­ sore, e di concerto col suo fedele Agrippa esaminò la lista dei se­ natori. Ne espulse alcuni membri, i vizi o l’ostinazione dei quali esigevano un pubblico esempio, ne indusse quasi duecento a pre­ venire con un volontario ritiro la vergogna dell’espulsione, ordinò che non potesse essere senatore chi non possedeva circa diecimila sterline, creò un numero sufficiente di famiglie patrizie e accettò il titolo onorifico di principe del senato, che i censori avevano sem­ pre conferito al cittadino piu illustre per grado e servizi12. Ma resti­ tuendo cosi la dignità al senato, ne distrusse l’indipendenza; i prin­ cipi di una libera costituzione sono irrevocabilmente perduti, quan­ do il potere legislativo è creato dal potere esecutivo. Davanti a questa assemblea cosi formata e disposta, Augusto pronunciò uno studiato discorso, che ostentava il suo patriottismo e dissimulava la sua ambizione. « Egli deplorava, anzi scusava la sua passata condotta. La pietà filiale gli aveva fatto vendicare la morte del padre. La sua umanità aveva talvolta ceduto alle leggi crudeli della necessità e all’alleanza forzata con due indegni colle­ ghi. Finché era vissuto Antonio, la repubblica gli aveva vietato di abbandonarla in balia di un Romano degenere e di una regina bar­ bara; ora era libero di compiere il proprio dovere e di seguire le proprie inclinazioni. Rendeva solennemente al senato e al popolo i loro antichi diritti, desiderando soltanto di mescolarsi alla folla dei suoi concittadini, e di partecipare con loro ai benefici che aveva procurato alla patria » \ Soltanto Tacito, se fosse stato presente, avrebbe potuto descri­ vere le varie reazioni del senato, i sentimenti nascosti degli uni, e 1 G iu lio Cesare ammise a l senato soldati, stranieri e semibarbari ( svetonio , C e s a r e , 80). L ’abuso divenne ancor piu scandaloso dopo la sua morte. 2 dione ca ssio , in , p. 693; svetonio , A u g u s t o , 35. 3 Dione Cassio (in , p. 698) ci dà una prolissa e ampollosa orazione fatta in questa gran­ de occasione. Io ho preso da Svetonio e da Tacito le espressioni naturali ad Augusto.

COSTITUZIONE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

63

quelli simulati degli altri. Era pericoloso fidarsi della sincerità di È indotto a riassumerlo Augusto, e ancora piu pericoloso mostrare di non fidarsi. I rispet­ col nome tivi vantaggi della monarchia e della repubblica hanno spesso tenu­ od ’imperatore generale to divisi gli studiosi. L ’attuale grandezza dello stato romano, la corruzione dei costumi e la licenza dei soldati, fornivano nuovi ar­ gomenti ai fautori della monarchia; e queste massime generali di governo erano a loro volta circondate dalle speranze e dai timori di ciascuno. In questa confusione di sentimenti, la risposta del se­ nato fu unanime e decisiva: ricusarono di accettare le dimissioni di Augusto e lo supplicarono di non abbandonare la repubblica che egli aveva salvato. Dopo una dignitosa resistenza, il sagace ti­ ranno si sottomise agli ordini del senato e acconsenti ad accettare il governo delle province e il comando supremo degli eserciti ro­ mani coi nomi ben noti di proconsole e d’imperatore ‘; ma li accet­ tò per soli dieci anni. Egli sperava che anche prima di questo ter­ mine le ferite della discordia civile si sarebbero perfettamente ri­ marginate e che la repubblica, ritornata al suo pristino stato di sa­ nità e di vigore, non avrebbe piu bisogno del pericoloso intervento di un magistrato cosi straordinario. Questa commedia fu ripetuta varie volte durante la vita di Augusto e se ne conservò la memoria fino agli ultimi tempi dell’impero, poiché i monarchi perpetui di Roma solennizzarono sempre con fasto particolare ogni decimo an­ no del loro regno2. Il generale degli eserciti romani, senza violare in alcun modo i Potere dei generali principi della costituzione, poteva ricevere ed esercitare un’autori­ romani tà quasi dispotica sui soldati, sui nemici, e sui sudditi della repub­ blica. Quanto ai soldati, l’amore della libertà aveva, fin dai primi secoli di Roma, ceduto il posto alle speranze di conquista e al sen­ timento della disciplina militare. Il dittatore, o il console, avevano il diritto di obbligare la gioventù romana a portare le armi e di punire una disobbedienza ostinata o codarda con le pene più seve­ re e ignominiose, cancellando il trasgressore dalla lista dei cittadi­ ni, confiscandone i beni e vendendolo come schiavo3. Il servizio militare sospendeva i più sacri diritti della libertà, confermati dal­ le leggi Porcia e Sempronia. Nel suo campo, il generale esercitava un potere assoluto di vita e di morte, la sua giurisdizione non era 1 «Im perator» al tempo della repubblica significava semplicemente «generale», ed era un titolo conferito solennemente sul campo di battaglia dai soldati al loro capo vittorioso. Quando i Romani assumevano il titolo in questo senso, lo ponevano dopo il nome, aggiun­ gendo quante volte lo avevano preso. 2 DIONE CASSIO, LUI, pp. 703 Sgg.

3 Τίτο Livio,

E p i t o m .y

xiv; Valerio

m assim o , v i ,

3.

64

Luogotenenti d e ll’impera­ tore

CAPITOLO TERZO

vincolata da alcuna formalità legale e l’esecuzione delle sue sen­ tenze era immediata1 e senza appello. I nemici di Roma erano re­ golarmente designati dal potere legislativo. Le piu importanti de­ cisioni per la pace o per la guerra venivano gravemente dibattute dal senato e solennemente ratificate dal popolo. Ma nei paesi mol­ to lontani dall’Italia, i generali si prendevano la libertà di portare le armi delle legioni contro qualsiasi popolo e come pareva loro piu utile allo stato. Dal successo e non dalla giustizia delle loro impre­ se essi attendevano gli onori del trionfo e usavano col piu sconfi­ nato dispotismo della vittoria, specialmente quando non furono piu controllati dai commissari del senato. Quando Pompeo coman­ dava in Oriente, ricompensò soldati e alleati, detronizzò sovrani, divise regni, fondò colonie e distribuì i tesori di Mitridate. Ritor­ nato a Roma, ottenne con un solo decreto del senato e del popolo la ratifica generale di tutto il suo operato2. Tale era il potere sui soldati e sui nemici di Roma concesso ai generali della repubblica, o assunto da loro. Essi erano nel tempo stesso i governatori, o me­ glio i monarchi delle province conquistate, magistrati e militari, amministravano la giustizia come le finanze, ed esercitavano il po­ tere esecutivo e legislativo dello stato. Da quanto si è già osservato nel primo capitolo di quest’opera, ci si può formare un’idea dello stato delle armate e delle province quando Augusto prese in mano le redini del governo. Ma essendo impossibile che egli potesse comandare in persona le legioni di tan­ te frontiere lontane, gli fu dal senato, come già a Pompeo, concessa la facoltà di delegare l’esercizio del suo potere a un sufficiente nu­ mero di luogotenenti. Questi ufficiali, per grado e per autorità, non sembravano inferiori agli antichi proconsoli; ma la loro posizione era subordinata e precaria. Essi riconoscevano il loro potere dalla volontà di un superiore, alla fausta influenza del quale si attribuiva legalmente il merito delle loro azioni3. Erano i rappresentanti del­ 1 Vedere nel libro ottavo di T ito L ivio la condotta di M anlio Torquato e di Papirio Cur­ sore. Violavano le leggi della natura e dell’umanità, ma osservavano quelle della disciplina militare; e il popolo, che aborriva l ’azione, era obbligato a rispettare il principio. 2 Pompeo ottenne dai generosi, ma liberi suffragi del popolo un comando militare po­ co inferiore a quello di Augusto. Tra gli atti straordinari di autorità esercitati dal primo, si può notare la fondazione di ventinove città e la distribuzione di tre o quattro m ilioni di ster­ line alle sue truppe. La ratifica di tali atti incontrò una certa opposizione e subì dei ritar­ di al senato. Si vedano Plutarco, Appiano, Dione Cassio, e il primo libro delle lettere ad Attico. 3 Sotto la repubblica il trionfo poteva pretendersi soltanto dal generale, che era autoriz­ zato a prendere gli auspici in nome del popolo. Per una logica conseguenza, derivante da que­ sto principio di politica e di religione, il trionfo era riservato a ll’imperatore, e i suoi generali piu fortunati si contentavano di alcuni segni di distinzione inventati in loro favore sotto il nome di onori trionfali.

COSTITUZIONE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

65

l’imperatore, egli solo era il generale della repubblica e la sua giu­ risdizione, sia civile sia militare, si estendeva su tutte le conquiste di Roma. Era tuttavia una certa soddisfazione per il senato che egli delegasse i suoi poteri sempre a membri del loro ordine. I luogotenenti imperiali erano di grado consolare o pretorio, le legioni erano comandate da senatori e la prefettura dell’Egitto era l ’unico incarico importante affidato a un cavaliere romano. Sei giorni dopo che Augusto fu costretto ad accettare un dono Divisione delle cosi liberale, volle con un facile sacrificio soddisfare l’orgoglio dei province tra senatori. Disse loro che gli avevano dato dei poteri anche piu vasti l ’imperatore di quanto richiedesse la triste condizione dei tempi. Essi non gli e il senato avevano permesso di rifiutare il faticoso comando degli eserciti e delle frontiere, ma egli doveva insistere che gli si permettesse di rimettere le province piu pacifiche e sicure alla mite amministra­ zione del magistrato civile. Nella divisione delle province, Augu­ sto provvide alla propria potenza e alla dignità dello stato. I pro­ consoli del senato, e particolarmente quelli dell’Asia, della Grecia e dell’Africa, godevano di una distinzione piu onorifica dei luogotenenti imperiali, che comandavano nella Gallia o nella Siria: i primi erano scortati da littori, gli altri da soldati. Si promulgò una legge che dovunque l’imperatore fosse presente, restasse sospesa l’ordinaria giurisdizione del governatore; si introdusse l’uso che le nuove conquiste fossero di spettanza imperiale e presto si scopri che l’autorità del principe, l’epiteto favorito di Augusto, era la stessa in ogni parte dell’impero. In compenso di questa immaginaria concessione, Augusto ot­ L ’imperatore conserva tenne un importante privilegio, che lo rese padrone di Roma e d’I­ il suo comando talia. Con pericolosa eccezione alle antiche massime, egli fu auto­ e le sue rizzato a conservare il suo comando militare, sostenuto da un nu­ guardie anche meroso corpo di guardie, anche in tempo di pace e nel cuore della in Roma capitale. Il suo comando era bensì limitato ai cittadini obbligati al servizio dal giuramento militare; ma tale era l’inclinazione dei Ro­ mani alla servitù, che magistrati, senatori e cavalieri prestarono volontariamente il giuramento, finché l’omaggio dell’adulazione si convertì insensibilmente in una annuale e solenne dichiarazione di fedeltà. Sebbene Augusto considerasse le forze armate il piu saldo fon­ I l potere consolare damento del potere, rinunciò saggiamente a servirsi di un così e quello odioso strumento di governo. Alla sua indole, come alla sua politi­ tribunizio ca, conveniva maggiormente governare coi nomi venerandi delle antiche magistrature, concentrando nella sua persona tutti gli spar­ si raggi della giurisdizione civile. A questo fine, permise al senato

66

Prerogative imperiali

CAPITOLO TERZO

di conferirgli a vita i poteri delle magistrature consolare1 e tribu­ nizia 2, che furono nello stesso modo conferiti a tutti i suoi succes­ sori. I consoli erano succeduti ai re di Roma, e rappresentavano la maestà dello stato. Essi soprintendevano alle cerimonie della reli­ gione, reclutavano e comandavano le legioni, davano udienza agli ambasciatori stranieri e presiedevano le adunanze del senato e del popolo. Il controllo generale delle finanze era affidato alle loro cu­ re, e sebbene raramente avessero tempo di amministrare la giusti­ zia in persona, erano tuttavia considerati come i supremi custodi delle leggi, dell’equità e della pubblica pace. Questa era la loro giurisdizione ordinaria; ma ogniqualvolta il senato incaricava il primo magistrato di provvedere alla sicurezza della repubblica, egli veniva sollevato al di sopra delle leggi, e in difesa della libertà esercitava un temporaneo dispotismo3. Il carattere dei tribuni era sotto ogni rispetto diverso da quello dei consoli; il loro aspetto era umile e modesto, ma le loro persone erano sacre e inviolabili, e piu che nell’azione, la loro forza stava nell’opposizione. Erano stati creati per difendere gli oppressi, assolvere gli accusati, incriminare i nemici del popolo e arrestare con una sola parola, quando lo cre­ devano necessario, tutta la macchina del governo. Finché durò la repubblica, la pericolosa influenza che i consoli e i tribuni poteva­ no derivare dalle rispettive attribuzioni, era attenuata da diverse importanti restrizioni. La loro autorità spirava con l’anno nel qua­ le erano eletti. Il consolato era suddiviso fra due persone, il tribu­ nato tra dieci; e poiché queste due magistrature nei pubblici e nei privati interessi si avversavano, i loro reciproci conflitti contribui­ vano il piu delle volte a consolidare, anziché a distruggere l’equili­ brio politico. Ma quando il potere consolare fu unito a quello tri­ bunizio, quando ne fu investita a vita una sola persona, quando il capo delle forze armate fu nello stesso tempo presidente del senato e rappresentante del popolo romano, divenne impossibile resistere a quel potere imperiale, del quale non era facile definire i confini. La politica di Augusto aggiunse presto al cumulo di questi onori 1 Cicerone ( D e l e g i b u s , in , 3), dà al consolato il nome di «Regia potestas» e Polibio (iv, 3) osserva tre poteri nella costituzione romana. I l potere monarchico era rappresentato ed esercitato dai consoli. 2 Poiché la potestà tribunizia, distinta dalla carica annua di tribuno, fu inventata per Ce­ sare dittatore (dione c a ssio , x liv , p. 384), essa gli fu data probabilmente quale ricompensa per avere cosi generosamente sostenuto con le armi i sacri diritti dei tribuni e del popolo. D e b e l l , c i v i l . , i. 3 Augusto esercitò il consolato per nove anni senza interruzione. In seguito rifiutò molto sagacemente questa magistratura, e cosi pure la dittatura: si assentò da Roma e si tenne lon­ tano finché gli effetti funesti del tumulto e delle fazioni costrinsero il senato a rivestirlo del consolato perpetuo. Augusto ed i suoi successori affettarono tuttavia di nascondere un titolo cosi odioso.

COSTITUZIONE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

67

le splendide non meno che importanti dignità di pontefice massi­ mo e di censore. Con la prima egli acquistò il governo della religio­ ne, con la seconda il controllo legale sui costumi e i beni del popo­ lo romano. Se tanti distinti e indipendenti poteri non combinavano esattamente gli uni con gli altri, la compiacenza del senato era pronta a supplire a ogni difetto con le concessioni piu ampie e straordinarie. G l’imperatori, come primi ministri del governo, fu­ rono esentati dall’osservanza e dalla sanzione di molte incomode leggi, ebbero l’autorità di convocare il senato, di proporre diverse mozioni in uno stesso giorno, di presentare candidati alle alte cari­ che dello stato, di estendere i confini della città, di impiegare le pubbliche entrate a loro talento, di far la pace o la guerra, di ratifi­ care i trattati e, per una amplissima clausola, furono autorizzati a eseguire tutto ciò che stimavano vantaggioso all’impero e con­ veniente alla maestà delle cose pubbliche o private, umane o di­ vine1. Quando tutti i poteri dello stato furono accentrati nella magi­ stratura imperiale, i magistrati ordinari della repubblica languiro­ no nell’oscurità, senza vigore e quasi senza occupazioni. Augusto conservò gelosamente i nomi e le forme dell’antico governo. Ogni anno il consueto numero di consoli, pretori e tribuni2riceveva le insegne delle cariche rispettive e continuava a esercitarne alcune delle mansioni meno importanti. Questi onori lusingavano ancora la vana ambizione dei Romani; e gli imperatori stessi, sebbene in­ vestiti a vita del potere consolare, spesso aspiravano al titolo di quell’annua dignità, che essi si degnavano di condividere con i piu illustri loro concittadini3. Nell’elezione di questi magistrati, il po­ polo sotto il regno di Augusto fu libero di esibire tutti gl’incon­ venienti di una sfrenata democrazia. Questo principe sagace, inve­ ce di mostrare il minimo segno d’irritazione, umilmente sollecita­ va i loro voti per sé o i suoi amici, e adempiva scrupolosamente tutti i doveri di un candidato ordinario4; ma si può attribuire ai 1 V edi il frammento di un decreto del senato, che conferiva all’imperatore Vespasiano tutte le potestà concesse ai suoi predecessori Augusto, Tiberio e Claudio. Questo monumento curioso ed importante è stato pubblicato dal Gruter nelle sue I s c r i z i o n i , n. c c x l ii . 2 Venivano creati due consoli alle calende di gennaio; ma nel corso d ell’anno se ne so­ stituivano degli altri, e l ’annuo numero pare ascendesse a non meno di dodici. I pretori erano ordinariamente sedici o diciotto (giusto lipsio , E x c u r s . D . a d T a i t . A n n u i . , l). Non ho par­ lato degli edili, né dei questori. I funzionari di polizia o del fisco si adattano facilmente a qualsiasi forma di governo. A l tempo di Nerone, i tribuni avevano il diritto « d ’intercessio­ ne», sebbene sarebbe stato pericoloso farne uso (tacito , A n n a l . , x v i, 26). A l tempo di Traia­ no era dubbio se il tribunato fòsse un ufficio, o soltanto un titolo (plinio , E p i s t . I, 23). 3 Anche i tiranni ambirono il consolato. I principi virtuosi lo domandarono con mode­ razione, e l ’esercitarono con cura. Traiano rinnovò l ’antico giuramento, dinanzi il tribunale del console, di osservare le leggi (plinio , P a n e g i r i c o , 64). 4 «Q uoties magistratuum comitiis interesset, tribus cum candidatis suis circuibat: sup-

I magistrati

68

CAPITOLO TERZO

suoi consigli la prima misura presa dal suo successore, con la quale le elezioni vennero trasferite al senato *. Le assemblee popolari fu­ rono per sempre abolite e gl’imperatori si liberarono da una peri­ colosa moltitudine, la quale, senza riacquistare la libertà, avrebbe potuto turbare e forse mettere in pericolo il nuovo regime, n senato Mario e Cesare, dichiarandosi i protettori del popolo, avevano sovvertito la costituzione; ma appena il senato fu umiliato e disar­ mato, questa assemblea, composta di cinque o seicento persone, si dimostrò un assai piu docile e utile strumento di dominio. Sulla dignità del senato, Augusto e i suoi successori fondarono il loro nuovo imparo, ostentando in ogni occasione di adottare il linguag­ gio e le massime dei patrizi. Nell’esercizio dei loro poteri, essi con­ sultavano frequentemente il supremo consiglio della nazione, at­ tenendosi in apparenza alle sue decisioni negli affari piu importanti della guerra e della pace. Roma, l’Italia e le province interne erano sottoposte all’immediata giurisdizione del senato. Nelle cause ci­ vili, esso era la suprema corte d’appello e in quelle penali era un tribunale costituito per giudicare tutti i reati commessi dai pubbli­ ci funzionari, o da quanti offendevano la pace e la maestà del po­ polo romano. L ’amministrazione della giustizia divenne la più fre­ quente e seria occupazione del senato e lo spirito dell’antica elo­ quenza trovò l’ultimo rifugio nel trattare davanti ad esso le cause importanti. Il senato godeva di molte considerevoli prerogative, come consiglio di stato e come foro giudiziario; ma nella sua veste legislativa, in cui veniva virtualmente ritenuto come rappresentan­ te del popolo, si riconoscevano a quest’assemblea i diritti della so­ vranità. Tutte le leggi ricevevano la sanzione dai suoi decreti, ogni potere derivava dalla sua autorità. Si adunava regolarmente tre volte al mese, nei giorni stabiliti delle calende, delle none e degl’i­ di. Vi si discutevano gli affari con dignitosa libertà e gl’imperatori medesimi, orgogliosi del nome di senatore, sedevano, votavano e s’intrattenevano con i loro eguali. idea Riassumendo in poche parole il sistema del governo imperiale, deSéma come fu istituito da Augusto e conservato da quegl’imperatori che imperiale compresero ϋ proprio interesse e quello del popolo, lo si può de­ finire una monarchia assoluta travestita da repubblica. I padroni del mondo romano avvolgevano il loro trono nell’oscurità e cela­ vano la loro forza irresistibile, professandosi umilmente ministri plicabatque more solemni. Ferebat et ipse sufiragium in tribubus, ut unus e populo» ( sve Augusto, ,6 ). 1 « T u m primum comitia e campo ad patres translata sunt» ( ta cit o , Annal., i, 13). La parola « primum »· pare alluda a deboli e vani sforzi, fatti per rendere al popolo quel diritto.

tonio ,

COSTITUZIONE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

69

responsabili del senato, i supremi decreti del quale essi dettavano e obbedivano’. La corte era formata sul modello del governo. G l’imperatori, Corte degli trinine quei tiranni, il cui folle arbitrio violava tutte le leggi della imperatori natura e dell’onestà, sdegnavano quella pompa e quelle formalità, che potessero offendere i loro concittadini senza accrescere il loro effettivo potere. In tutti i rapporti della vita mostravano di con­ fondersi coi loro sudditi, scambiando visite e intrattenendosi con loro su un piede di uguaglianza. Le loro vesti, la loro tavola, il loro palazzo non erano diversi da quelli di un ricco senatore; e la loro servitù, per quanto splendida e numerosa, era interamente compo­ sta dei loro schiavi e liberti2. Augusto o Traiano si sarebbero ver­ gognati d’impiegare il più umile dei Romani in quei bassi uffici, che nella famiglia e nella camera di un sovrano costituzionale sono oggi cosi ardentemente ricercati dai più alteri nobili di Gran Bre­ tagna. L ’apoteosi è il solo caso3, in cui gl’imperatori si dipartissero Apoteosi dalla loro consueta prudenza e modestia. I Greci dell’Asia furono i primi a inventare per i successori di Alessandro questa servile ed empia adulazione, che dai re fu facile trasferire ai governatori del­ l’Asia; e i magistrati romani furono spesso adorati come divinità provinciali, con la pompa degli altari e dei templi, delle feste e dei sacrifici4. Era naturale che gl’imperatori non rifiutassero ciò che i proconsoli avevano accettato; e gli onori divini, che le province rendevano agli uni e agli altri, attestavano il dispotismo più che la servitù di Roma. Ma i vincitori presto imitarono i popoli vinti nel­ l’arte di adulare, e il carattere imperioso del primo dei Cesari ac­ consenti troppo facilmente ad accettare in vita un posto tra le divi­ nità tutelari di Roma. Il carattere più mite del suo successore si guardò da questa pericolosa ambizione, mai più mostrata in seguito che dalla follia di Caligola e di Domiziano. Augusto permise bensì ad alcune città provinciali di erigere templi in suo onore, ma a con1 Dione Cassio ( l u i , pp. 703-14) ha dato uno sconnesso e parziale prospetto del sistema imperiale. Per illustrarlo, e sovente per correggerlo, ho meditato Tacito, esaminato Svetonio, e consultato i seguenti moderni: l'abate de la Bléterie in Métn. de VAcadétnie des Inscriptions, XIX, XXI, X X IV, XXV, XX VII; Beaufort, République R om àne, I, pp. 255-75; due dissertazioni di N oodt e Gronovio, De lege Regia, stampate a Leida nel 1731; Gravina, De Imperio Romano, pp. 479_.?44 dei suoi Opuscula; Maffei, Verona illustrata, I, ΡΡ· 245 sgg. 2 Un principe debole sarà sempre governato dai suoi domestici. La potenza degli schiavi aggravò la vergogna dei Romani, e i senatori fecero la corte a un Pallente e a un Narciso. Può darsi che un moderno favorito sia un gentiluomo. 3 Si veda un trattato di van dale , D e consecratione Principum. M i sarebbe piu tacile co­ piare, che non sia stato verificare, le citazioni di questo dotto olandese. 4 Si veda una dissertazione dell'abate Mongault in Mém. de VAcadétnie des Inscriptions, I.

7ο

I titoli di augusto e cesare

CAPITOLO TERZO

dizione che il culto di Roma fosse associato a quello del sovrano. Egli tollerò di essere oggetto della privata devozione ma si appa­ gò di essere venerato dal senato e dal popolo come uomo e saggia­ mente lasciò al suo successore la cura della sua apoteosi ufficiale. Quindi s’introdusse la norma di annoverare tra gli dèi, con solenne decreto del senato, quegl’imperatori che né in vita, né in morte, si fossero mostrati tiranni; e le cerimonie dell’apoteosi si confusero con la pompa dei loro funerali. Questa legale e, si direbbe, stolta profanazione, cosi contraria alle nostre massime rigorose, fu accol­ ta quasi senza proteste12dall’accomodevole natura del politeismo, ma come istituzione politica, non religiosa. Sarebbe disonorare le virtù degli Antonini, paragonandole ai vizi di Ercole o di Giove. Anche il carattere di Cesare o di Augusto era di gran lunga superio­ re a quello delle divinità popolari; ma il primo ebbe la sfortuna di vivere in un secolo illuminato, e le loro azioni erano troppo fedel­ mente notate per consentire quel misto di favola e di mistero, ri­ chiesto dalla devozione del volgo. Appena stabilita per legge, la lo­ ro divinità cadde in oblio, senza contribuire né alla loro fama, né alla dignità dei loro successori. Nell’analisi del governo imperiale, abbiamo spesso chiamato il suo sagace fondatore col ben noto nome di Augusto, che peraltro non gli fu conferito che quando l’edificio era quasi compiuto. Egli derivava l’oscuro nome di Ottaviano da una umile famiglia della piccola città di Ariccia. Era un nome macchiato dal sangue delle proscrizioni ed egli stesso desiderava di poter cancellare ogni me­ moria delle sue azioni passate. Come figlio adottivo del dittatore, prese l’illustre soprannome di Cesare; ma aveva troppo buon sen­ so per sperare di essere confuso, o desiderare di essere paragonato con quell’uomo eccezionale. Fu proposto in senato di onorare il proprio presidente con un titolo nuovo; e dopo gravissima discus­ sione, fu tra vari altri scelto quello di Augusto, come il piu atto a esprimere il carattere di pace e di santità da lui sempre dimostrato3. Il nome di Augusto era perciò un distintivo personale, e quello di Cesare un distintivo di famiglia; il primo avrebbe dovuto natural­ mente spirare col principe cui era stato conferito, l’altro poteva trasmettersi con l ’adozione e il matrimonio ad altre famiglie. Ne­ rone fu dunque l’ultimo principe, che potesse allegare qualche di­ 1 «Jurandasque tuum per nomen ponimus arar», dice Orazio all’imperatore; e Orazio conosceva bene la corte di Augusto. Si vedano cicerone , P b i l i p p i c . , i, 6 e giuliano , C e s a r i. «Inque Deum templis jurabit Roma per umbras »·, esclama Lucano sdegnato. Ma questa indignazione è originata pili dal pa­ triottismo, che dalla devozione. 3 dione ca ssio , l u i , p. 710, con le interessanti note di Reimar.

COSTITUZIONE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

71

ritto ereditario agli onori della casa Giulia; ma alla sua morte que­ sti appellativi erano connessi per la prassi costante di un secolo al­ la dignità imperiale, e sono stati poi conservati da una lunga suc­ cessione d’imperatori romani, greci, franchi e tedeschi, dalla cadu­ ta dell’impero ai giorni nostri. Tuttavia, fu presto introdotta una distinzione: il sacro titolo di augusto fu sempre riservato al mo­ narca, mentre il nome di cesare venne piu liberamente conferito ai suoi parenti; e, almeno dal regno di Adriano in poi, con que­ st’appellativo si distinse la seconda persona dello stato, considera­ ta come erede presuntivo dell’impero. Il devoto rispetto di Augusto per la libera costituzione che ave­ Carattere e politica va egli stesso distrutto, non si può spiegare che con un attento esa­ di Augusto me del carattere di questo sagace tiranno. Una mente fredda, un cuore insensibile e un animo codardo gli fecero prendere all’età di diciannove anni la maschera dell’ipocrisia, che non depose piu. Con la stessa mano, e forse con lo stesso spirito, sottoscrisse la pro­ scrizione di Cicerone e il perdono di Cinna. Le sue virtù, come pu­ re i suoi vizi, non erano naturali; e nel proprio superiore interesse fu prima il nemico, poi il padre di Roma1. Quando formò l’inge­ gnoso sistema dell’autorità imperiale, la sua moderazione era ispi­ rata dai suoi timori. Egli voleva ingannare il popolo con l’apparen­ za della libertà civile, e gli eserciti con l’apparenza di un governo civile. Immagine La morte di Cesare gli stava sempre davanti agli occhi. Aveva della bensì colmato i suoi aderenti di ricchezze e di onori, ma si ricorda­ libertà nel popolo va che gli amici piu favoriti di suo zio erano tra i congiurati. La fedeltà delle legioni poteva difendere la sua autorità contro l’aper­ ta ribellione, ma la loro vigilanza non poteva assicurare la sua per­ sona dal pugnale di un repubblicano deciso; e i Romani, che vene­ ravano la memoria di Bruto2, ne avrebbero applaudito un imita­ tore. Cesare aveva provocato la sua sorte tanto con l’ostentazione della sua potenza, quanto con la potenza stessa. Il console, o il tri­ buno, avrebbe potuto regnare in pace; ma il titolo di re aveva ar­ mato i Romani contro di lui. Augusto sentiva che gli uomini si lasciavano governare dai nomi, né fu deluso nell’aspettativa che il senato e il popolo avrebbero sopportato la schiavitù, purché fos1 Mentre Ottaviano andava al banchetto dei cesati, il suo colore cambiava come quello del camaleonte, prima pallido, poi rosso, indi nero; prese infine il delicato colore di Venere e delle Grazie ( C e s a r i , p. 309). Questa immagine, impiegata da G iuliano nella sua ingegnosa favola, è giusta e graziosa; ma quando considera questo cambiamento di carattere come reale, e lo attribuisce al potere della filosofia, egli fa troppo onore alla filosofia e a Ottaviano. 2 Duecento anni dopo lo stabilimento della monarchia, l ’imperatore Marco Aurelio loda il carattere di Bruto come un perfetto m odello della virtù romana.

72

Tentativo del senato dopo la morte di Caligola

Immagine del governo negli eserciti

CAPITOLO TERZO

sero rispettosamente assicurati che godevano ancora dell’antica li­ bertà. Un senato debole e un popolo smidollato si cullarono lieta­ mente in questa dolce illusione, finché la mantenne la virtù, o la prudenza, dei successori d’Augusto. I congiurati contro Caligola, Nerone e Domiziano erano animati dal pensiero della propria sal­ vezza, non dallo spirito di libertà, e colpirono la persona del tiran­ no, senza mirare all’autorità dell’imperatore. Vi fu bensì una memorabile occasione, nella quale il senato do­ po settant’anni di pazienza fece un vano tentativo per riprendere i suoi diritti da lungo tempo dimenticati. Quando il trono restò va­ cante per l ’uccisione di Caligola, i consoli convocarono il senato nel Campidoglio, condannarono la memoria dei Cesari, diedero la parola d’ordine libertà alle poche coorti, che li seguivano fiacca­ mente e per quarantott’ore agirono come capi indipendenti di una libera repubblica; ma mentre essi deliberavano, i pretoriani aveva­ no deciso. Lo stupido Claudio, fratello di Germanico, era già nella loro caserma vestito della porpora imperiale e pronto a sostenere la sua elezione con le armi. Il sogno di libertà svanì, e il senato sve­ gliandosi si trovò di fronte a tutti gli orrori di una inevitabile ser­ vitù. Abbandonata dal popolo e minacciata dalle forze armate, quella debole assemblea fu costretta a ratificare la scelta dei pre­ toriani e ad accettare il beneficio di un’amnistia generale, che Clau­ dio ebbe la saggezza di promettere e la generosità di mantenere ‘. L ’insolenza degli eserciti ispirò ad Augusto timori anche più gravi. Soltanto in casi disperati i cittadini potevano tentare ciò che i soldati ebbero in ogni tempo la forza di eseguire. Quanto preca­ ria era la sua autorità su quegli uomini, ai quali egli aveva appreso a violare ogni dovere sociale! Egli aveva dato ascolto ai loro sedi­ ziosi clamori e ora temeva la calma della loro riflessione. Si era comprata una rivoluzione con immense ricompense, ma una se­ conda poteva costargli il doppio. Le truppe professavano il più vi­ vo affetto alla casa di Cesare; ma l’affetto delle moltitudini è ca­ priccioso e incostante. Augusto chiamò in suo aiuto quanto ancora rimaneva in quei fieri animi di pregiudizi romani, impose il rigore della disciplina con la sanzione della legge, e interponendo la mae­ stà del senato tra l’imperatore e l’esercito, reclamò audacemente la loro obbedienza come primo magistrato della repubblica12. 1 Dobbiamo grandemente deplorare la perdita di quella parte di Tacito che trattava que­ sto avvenimento e appagarci delle voci riferite da Giuseppe Flavio e dei sommari accenni di Dione e Svetonio. 2 Augusto restituì l ’antica severità alla disciplina. Dopo le guerre civili, non chiamò piu i soldati commilitoni, ma semplicemente soldati ( svetonio , A u g u s t o , 2 ,). Si veda come T i­ berio si servi del senato neH’ammutinamento delle legioni della Pannonia (tacito , A n n u i . , 1).

COSTITUZIONE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

73

Durante un lungo periodo di duecentovent’anni, dall’introdu­ Loro obbedienza zione di questo ingegnoso sistema alla morte di Commodo, i peri­ coli inerenti a un governo militare rimasero in gran parte sospesi. I soldati raramente furono consci della propria forza e della debo­ lezza dell’autorità civile; scoperta fatale, che prima e dopo pro­ dusse così tremende calamità. Caligola e Domiziano furono assas­ sinati nel loro palazzo dai propri domestici; ma le convulsioni, che agitarono Roma alla morte del primo, non oltrepassarono le mura della città, mentre Nerone trascinò tutto l’impero nella propria ro­ vina. In diciotto mesi quattro imperatori furono assassinati, e l’ur­ to delle armate rivali scosse il mondo romano. Salvo questo breve, sebben violento, sfogo di licenza militare, i due secoli da Augusto a Commodo non furono insanguinati da guerre civili, né turbati da rivoluzioni. L ’imperatore era eletto dall’autorità del senato e dal consenso dei soldati '. Le legioni rispettavano il loro giuramento di fedeltà e occorre un minuto esame degli annali romani per scoprire tre piccole ribellioni, che furono tutte domate in pochi mesi e sen­ za neppure il rischio di una battaglia2. Nelle monarchie elettive, la vacanza del trono è un grave mo­ Designazione del mento di crisi e di pericolo. G l’imperatori romani, volendo rispar­ successore miare alle legioni questo intervallo di sospensione, e la tentazione di fare una scelta irregolare, investivano il successore designato di tanto potere attuale, quanto potesse bastargli dopo la loro morte ad assumere il resto, senza che l’impero si accorgesse di aver cam­ biato padrone. Così Augusto, dopo che morti premature avevano di Tiberio fatto svanire tutti i suoi migliori progetti, ripose le sue ultime spe­ ranze in Tiberio, e ottenne per questo suo figlio adottivo le dignità di censore e di tribuno, emanando una legge che investiva il futuro imperatore di un’autorità uguale alla sua sulle province e sugli eserciti3. Così Vespasiano vinse l’animo generoso del figlio mag­ giore. Tito era adorato dalle legioni orientali, che avevano sotto il di Tito suo comando da poco compiuto la conquista della Giudea. Il suo potere era temuto; e poiché le sue virtù erano nascoste dall’intem­ peranza della gioventù, si sospettava dei suoi disegni. Invece di dare ascolto a tali indegni sospetti, il saggio monarca associò Tito 1 Pare fosse questa la formula stabilita dalla costituzione. Si veda tacito , A n n o i . , x m , 4. 2 II primo fu Cam illo Scriboniano, che si sollevò in Dalmazia contro Claudio, e fu ab­ bandonato dalle sue truppe in cinque giorni. I l secondo fu Lucio Antonio, che si ribellò in Germania contro Domiziano, e il terzo A vid io Cassio, sotto Marco Aurelio. I due ultim i non regnarono che pochi mesi, e furono eliminati dai propri aderenti. V a notato che Cam illo e Cassio colorirono la loro ambizione con il proposito di ristabilire la repubblica, impresa, di­ ceva Cassio, specialmente riservata al suo nome e alla sua famiglia. 3 VELLEIO PATERCOLO, II, I2IJ SVETONIO,

TìberiO,

20.

74

CAPITOLO TERZO

a tutti i poteri della dignità imperiale, e il figlio riconoscente si mo­ strò sempre ministro umile e fedele di un padre cosi indulgente1. La dinastia Il buon senso di Vespasiano l’indusse anzi ad adottare tutte e ia famigli! quelle misure che potessero consolidare la sua recente e precaria marna elevazione U giuramento militare e la fedeltà delle truppe erano consacrati da una consuetudine secolare al nome e alla famiglia dei Cesari; e sebbene questa famiglia fosse stata continuata soltanto con il fittizio rito dell’adozione, tuttavia i Romani veneravano nel­ la persona di Nerone il nipote di Germanico e il discendente in li­ nea retta di Augusto. Non senza riluttanza e rimorso i pretoriani si erano lasciati indurre ad abbandonare la causa del tiranno \ La ra­ pida caduta di Galba, Ottone e Vitellio apprese agli eserciti a con­ siderare quegl’imperatori come creature della loro volontà e stru­ menti della loro licenza. Vespasiano era di bassa estrazione; suo nonno era soldato semplice e il padre un piccolo impiegato alle fi­ nanze 3. Il suo merito Io aveva innalzato in età avanzata all’impero; ma questo merito era piu pratico che brillante, e le sue virtù erano disonorate da una rigida e perfino sordida parsimonia. Questo prin­ cipe provvide al proprio interesse associandosi all’impero un fi­ glio, il cui carattere munifico e amabile potesse distogliere l’atten­ zione del pubblico dalle oscure origini della famiglia Flavia vol­ gendola alle sue glorie future. Sotto il mite governo di Tito, il mondo romano gode di una felicità passeggera e la sua adorata memoria fece tollerare per oltre quindici anni i vizi del fratello Domiziano. s6 Nerva aveva appena accettato la porpora dagli assassini di Doe cam bre miziano, che si avvide di non essere in grado, per l’età avanzata, di di Traiano arrestare jj torrente dei pubblici disordini, moltiplicati sotto la lun­ ga tirannia del suo predecessore. I buoni rispettavano la sua mite indole; ma per i degeneri Romani occorreva un carattere piu ener­ gico, la cui giustizia potesse incutere terrore ai malvagi. Ai suoi molti parenti preferì uno straniero, adottando Traiano, allora in età di circa quarantanni e comandante di un potente esercito nella Germania Inferiore; e immediatamente, con un decreto del senato 98 lo dichiarò suo collega e successore nell’impero4. È veramente da deplorare che, mentre siamo oppressi dalla disgustosa relazione dei delitti e delle pazzie di Nerone, dobbiamo andare a cercare le 1 svetonio , T i t o , 6 ; plinio , H i s t . N a t u r ., Praef. 2 Questa idea è spesso e fortemente inculcata da Tacito, H i s t . , 1, 5, 16; li, 76. 3 Vespasiano con il suo solito buon senso si rideva dei genealogisti, che deducevano la sua famiglia da Flavio, fondatore di Rieti, sua città natale, e uno dei compagni di Ercole. svetonio , V e s p a s i a n o , 12. 4 Dione ca ssio , L x v u i, p. 1121; plin io , P a n e g i r i c o .

COSTITUZIONE DELL'IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

75

gesta di Traiano tra i barlumi di un compendio, o nella incerta lu­ ce di un panegirico. Esiste però un altro panegirico, ben lontano da ogni sospetto di adulazione: piu di duecentocinquant’anni circa dopo la morte di Traiano, il senato, nel fare le consuete acclama­ zioni per l’avvento di un nuovo imperatore, gli augurava di supe­ rare la felicità di Augusto e la virtù di Traiano ‘. Si può credere facilmente che questo padre della patria esitasse e di Adriano. ad affidare il potere al carattere incerto e volubile del suo parente 117 Adriano. Nei suoi ultimi istanti, l’imperatrice Plotina vinse con le sue arti l’indecisione di Traiano, o escogitò audacemente un’ado­ zione2, della cui autenticità sarebbe stato pericoloso dubitare; e Adriano fu pacificamente riconosciuto come legittimo successore di Traiano. Sotto il suo regno, come abbiamo detto, l’impero fiori in pace e prosperità. Egli incoraggiò le arti, riformò le leggi, assi­ curò la disciplina militare e visitò tutte le province in persona. Il suo spirito aperto e attivo era ugualmente portato alle piu larghe vedute, come ai più minuti particolari del governo; ma le sue pas­ sioni dominanti erano il desiderio di sapere e la vanità. A seconda che l’una o l’altra prevaleva e dei diversi oggetti che le attiravano, Adriano si mostrò a volta a volta principe eccellente, sofista ridi­ colo e geloso tiranno. In generale la sua condotta meritava lode per la giustizia e la moderazione; ma nei primi giorni del suo regno fe­ ce morire quattro senatori consolari, suoi nemici personali, uomini che erano stati giudicati degni dell’impero, e una dolorosa malattia lo rese alla fine irritabile e crudele. Il senato dubitò se lo dovesse giudicare un dio o un tiranno; e gli onori decretati alla sua memo­ ria furono concessi per le preghiere di Antonino Pio3. La volubilità di Adriano influì sulla scelta del suo successore. Adozione dei due Veri Dopo aver passato mentalmente in rassegna molti uomini merite­ voli, da lui stimati e odiati, adottò Elio Vero, un nobile allegro e sensuale, caro per la sua non comune bellezza all’amante di Antinoo4. Ma mentre Adriano si rallegrava delle proprie lodi e delle ac­ clamazioni dei soldati, dei quali si era assicurato il consenso con un esorbitante donativo, una morte immatura rapì ai suoi amples1 «Felicior Augusto, melior Traiano» (eutropio , v ili, 5). 2 Dione Cassio ( l x ix , p. 1249) afferma che fu tutta invenzione su ll’autorità di suo padre, che essendo governatore della provincia nella quale mori Traiano, aveva ogni opportunità di far luce su questo mistero. Ma Dodw ell ( P r a e l e c t . C a m b d e n , xvn ) ha sostenuto che Adriano, essendo Traiano vivente, fu designato suo successore. 3 DIONE CASSIO, LXX, p, 1171; AURELIO VITTORE. 4 L ’apoteosi, le medaglie, le statue, i templi, la città, gli oracoli e la costellazione di Antinoo sono ben noti, e disonorano la memoria di Adriano. V a peraltro osservato, che tra i quindici primi cesati Claudio fu il solo, i cui amori non abbiano fatto arrossire la natura. Per gli onori resi ad Antinoo, si veda span h eim , C o m m e n t a i r e s u r l e s C é s a r s d e J u l i e n , p. 80.

76

Adozione dei due Antonini

138-180

Indole e regno di Antonino Pio

CAPITOLO TERZO

si il nuovo cesare ’. Questi lasciava un solo figlio, ancora bambino, che Adriano raccomandò alla gratitudine degli Antonini. Pio l’a­ dottò, e all’avvento di Marco Aurelio lo investi di una parte ugua­ le del potere imperiale. Il minor Vero aveva fra molti vizi una vir­ tù, che consisteva nel dovuto rispetto verso il suo piu saggio colle­ ga, al quale abbandonò volentieri le gravi cure dell’impero. Il filo­ sofo imperatore chiuse gli occhi sulle sue follie, ne pianse l’imma­ tura morte e gettò un velo pietoso sulla sua memoria. Appena la passione di Adriano fu soddisfatta, o delusa, egli ri­ solse di meritarsi la gratitudine della posterità, mettendo sul trono romano il merito piu eminente. Il suo occhio penetrante scopri fa­ cilmente un senatore di circa cinquant’anni, irreprensibile in tutta la condotta della sua vita, e un giovane di circa diciassette anni, che in età matura diede prova di tutte le virtù; il maggiore dei due fu dichiarato figlio e successore di Adriano, a condizione però che adottasse subito il più giovane. I due Antonini (giacché di loro si parla) governarono il mondo romano per quarantadue anni con la stessa inalterabile saggezza e virtù. Sebbene Antonino Pio avesse due figli2, preferì il bene di Roma all’interesse della sua famiglia; diede la figlia Faustina in moglie al giovane Marco Aurelio, gli ot­ tenne dal senato la potestà tribunizia e proconsolare, e disprezzan­ do nobilmente o piuttosto ignorando la gelosia, lo associò a tutte le fatiche del governo. Dal canto suo, Marco Aurelio rispettava la autorità del suo benefattore, lo amava come padre, l ’obbediva co­ me sovrano3, e dopo la sua morte resse lo stato secondo l’esempio e le massime del suo predecessore. Questi due regni sono forse il solo periodo della storia, nel quale la felicità di un grande popolo sia stata l’unico oggetto di chi lo governava. Tito Antonino Pio è stato giustamente chiamato un secondo Numa. Lo stesso amore della religione, della giustizia e della pace formava il carattere distintivo di questi due principi; ma la situa­ zione del secondo gli apri un campo più vasto all’esercizio di que­ ste virtù. Numa poteva solamente impedire a pochi villaggi vicini di devastare scambievolmente le loro campagne, Antonino diffu­ se l’ordine e la tranquillità sulla maggior parte della terra. Il suo regno è distinto dal raro vantaggio di fornire pochissimi materiali alla storia, che in effetti è poco più che il registro dei delitti, delle follie e delle sventure degli uomini. Nella vita privata era amabile e 1 H is t.

A u g u s t.,

p. 13; Aurelio vittore ,

E p ito m e .

2 Senza il soccorso delle medaglie e delle iscrizioni, ignoreremmo quest’azione di Anto­

nino Pio, che fa tanto onore alla sua memoria. 3 In tutti i ventitré anni del regno di Antonino, Marco Aurelio non fu che due notti as­ sente dal palazzo, e in due diverse occasioni ( H i s t . A u g u s t . , p. 25).

COSTITUZIONE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

77

buono. La naturale semplicità della sua virtù non conosceva la va­ nità, né l’affettazione. Godeva con moderazione dei vantaggi della sua posizione e dei piaceri innocenti della società ', e la bontà del suo animo si palesava nella lieta serenità del suo carattere. Marco La virtù di Marco Aurelio Antonino era di genere più severo e diAurelio difficile2. Era il sudato frutto di molte dotte discussioni, di molte pazienti letture e di molte meditazioni notturne. All’età di dodici anni abbracciò il rigido sistema degli stoici, che gli insegnò a sotto­ mettere il corpo allo spirito, le passioni alla ragione, e a considera­ re la virtù come l’unico bene, il vizio come l’unico male, e tutte le cose esterne come indifferenti3. Le sue M e d it a z io n i, composte nel tumulto delle armi, sussistono ancora; egli si degnava perfino di dare pubbliche lezioni di filosofia, più di quanto convenisse forse alla modestia di un saggio, o alla dignità di un imperatore4. Ma la sua vita era il più nobile commento ai precetti di Zenone. Rigido con se stesso, compativa gli altrui difetti, ed era giusto e benefico con tutti. Si dolse che Àvidio Cassio, il quale aveva suscitato una ribellione in Siria, gli avesse tolto con una morte volontaria il pia­ cere di farsi d’un nemico un amico, e dimostrò la sincerità di que­ sto sentimento col moderare lo zelo del senato contro i seguaci del traditore5. Detestava la guerra come vergogna e flagello dell’uma­ nità; ma quando la necessità di una giusta difesa lo costrinse a prendere le armi, non esitò a esporsi sulle gelide rive del Danubio a otto campagne d’inverno, il cui rigore riuscì alla fine fatale alla sua debole costituzione. La sua memoria fu venerata dalla posteri­ tà riconoscente, e più d’un secolo dopo la sua morte molti conser­ vavano l’immagine di Marco Aurelio tra quelle delle loro divinità familiari6. Chi dovesse stabilire nella storia universale il periodo, nel qua­ Felicità dei Romani le la condizione degli uomini fu più prospera e felice, dovrebbe senza esitazione indicare quello che corse dalla morte di Domizia1 Amava il teatro e non era insensibile alle grazie del bel sesso, marco Aurelio , i , 16; Hist. August., pp. 20-21; giuliano , Cesari. ■ 2 Marco Aurelio è stato accusato dai suoi nemici d ipocrisia e di non avere quella sem­ plicità, che distingueva Antonino Pio e anche Vero (Hist. August., 6, 34). Questo ingiusto sospetto ci fa vedere quanto le qualità personali siano piu lodate delle virtù sociali. Anche Marco Aurelio è stato chiamato ipocrita; ma neppure il piu sfrenato scetticismo insinuò mai che Cesare fosse un vile, o Cicerone uno sciocco. Lo spirito e il valore si riconoscono piu fa­ cilmente dall’umanità e dall’amore per la giustizia. 3 Tacito ha in poche parole esposto i principi della scuola stoica: «Doctores sapientiae secutus est, qui sola bona quae honesta, mala tantum quae turpia; potentiam, nobilitatem, caeteraque extra animum, neque bonis, neque malis adnumerant» (tacito , H ist., iv , 5). 4 Prima della sua seconda spedizione contro i Germani, fece per tre giorni delle confe­ renze di filosofia al popolo romano. Egli aveva già fatto lo stesso nelle citta della Grecia e d ell’Asia. Hist. August. (Cassio, 3). 5 Dione Ca s s io , lx x , ρ. 1190; Hist. August. (Cassio). 6 Hist. August. (Marco Aurelio, 18).



Sua precarietà

Ricordo dì Tiberio, Caligola, Nerone e Domiziano

CAPITOLO TERZO

no all’avvento di Commodo. Il vasto impero romano era governa­ to da un potere assoluto, sotto la guida della virtù e della sicurezza. Gli eserciti furono tenuti a freno dalla mano ferma ma moderata di quattro successivi imperatori, il carattere e l ’autorità dei quali imponevano spontaneo rispetto. Le forme del governo civile furo­ no gelosamente conservate da Nerva, Traiano, Adriano e dagli An­ tonini, i quali godevano dell’immagine della libertà e si compiace­ vano di considerarsi ministri responsabili delle leggi. Principi co­ me questi meritavano l’onore di ristabilire la repubblica, se i Ro­ mani del loro tempo fossero stati capaci di godere di una ragione­ vole libertà. Le fatiche di questi monarchi furono piu che premiate dalla im­ mensa ricompensa che inseparabilmente accompagnava i loro suc­ cessi, dall’onesto orgoglio della virtù, e dallo squisito godimento di vedere la generale felicità della quale erano gli autori. Una giusta, ma triste considerazione amareggiava però il più nobile dei piaceri umani: essi devono avere spesso pensato quanto fosse instabile una felicita, che dipendeva dall’indole di un solo uomo. Forse si avvicinava il fatale momento, nel quale qualche giovane dissoluto o qualche tiranno geloso avrebbero abusato a danno del loro popo­ lo di quel potere assoluto, che essi avevano impiegato per farlo fe­ lice. Il freno ideale del senato e delle leggi potevano servire a far rifulgere le virtù, ma non mai a correggere i vizi dell’imperatore. La forza militare era uno strumento cieco e irresistibile di oppres­ sione, e la corruzione dei costumi romani avrebbe sempre fornito adulatori avidi d’applaudire e ministri pronti a servire il timore o la cupidigia, la libidine o la crudeltà dei loro padroni. Queste cupe apprensioni erano già state giustificate dall’espe­ rienza dei Romani. Gli annali dell’impero presentavano un forte e vario quadro della natura umana, quale noi invano cercheremmo tra i confusi e indecisi personaggi della storia moderna. Nella con­ dotta di quei monarchi si possono scoprire gli estremi del vizio e della virtù, la perfezione più sublime e la più bassa degenerazione della nostra specie. L ’aureo secolo di Traiano e degli Antonini era stato preceduto da un secolo di ferro. È quasi superfluo elencare gli indegni successori di Augusto. I loro vizi e la scena illustre sulla quale hanno recitato, li hanno salvati dall’oblio. Il cupo e inflessibile Tiberio, il furioso Caligola, lo stupido Claudio, il dissoluto e crudele Nerone, il brutale Vitellio1 e il pavido e barbaro Domizia. -i l n c*rca sette mesi V itellio spese per la sua tavola almeno sei m ilioni di sterline Non è tacile descrivere i suoi vizi con dignità, o anche con decenza. Tacito Io chiama un porco, ma sostituendo a questa parola grossolana una bellissima immagine: « A t Vitellius, umbraculis

COSTITUZIONE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

79

no sono condannati a una perpetua infamia. Per quarant’anni (ec­ cettuato solamente il breve e incerto intervallo del regno di Vespa­ siano ‘) Roma ebbe a gemere sotto una continua tirannia, che ster­ minò le antiche famiglie della repubblica e riuscì fatale a quasi ogni virtù e qualità comparse in quel periodo infelice. Infelicità Sotto il regno di questi mostri, la schiavitù dei Romani fu ac­ dei Romani compagnata da due circostanze particolari, l’una derivante dalla sotto i loro tiranni loro antica libertà, l’altra dalle loro vaste conquiste, che resero la loro condizione più misera di quella delle vittime della tirannia in qualsiasi altro tempo o paese. Queste cause produssero la squisita sensibilità degli oppressi, e l’impossibilità di fuggire dalle mani dell’oppressore. Insensibilità i ) Quando la Persia era governata dai discendenti di Sefi, prin­ degli cipi che con brutale crudeltà macchiarono spesso il trono, la men­ Orientali sa e il letto col sangue dei loro favoriti, si narra che un giovane gentiluomo non partiva dalla presenza del sultano senza accertarsi se aveva ancora la testa sul collo. L ’esperienza di ogni giorno pote­ va quasi giustificare lo scetticismo di Rustan2. Ciononostante, la spada fatale sospesa sul suo capo con un filo, non pare turbasse il sonno, o alterasse la tranquillità del Persiano. Sapeva che uno sguardo del monarca poteva ridurlo in polvere; ma un colpo di fulmine o di apoplessia poteva riuscirgli ugualmente mortale, ed era da uomo saggio dimenticare le inevitabili calamità della vita nel godimento delle ore fugaci. Aveva l’onore di essere chiamato lo schiavo del re, era stato forse comprato da oscuri genitori in un paese a lui sconosciuto e allevato dalla sua fanciullezza nella seve­ ra disciplina del serraglio3. Il suo nome, le sue ricchezze, i suoi onori erano il dono di un padrone, che poteva senza ingiustizia ri­ prendersi ciò che aveva dato. Il sapere di Rustan, se ne aveva, non poteva che confermare i suoi costumi coi pregiudizi. Nella sua lin­ gua non v ’erano parole per esprimere altro governo che la monar­ chia assoluta. La storia orientale gl’insegnava che tale era sempre stata la condizione degli uomini4. Il Corano e gli interpreti di quel libro divino gl’inculcavano che il sultano era il discendente del hortorum abditus, ut ig n a v a a n i m a lia , quibus si cibum suggeras, jacent torpentque, preterita, instantia, futura, pari oblivione dimiserat. Atque ilium nemore Aricino desidem, et marcentem etc » ( tacito , H i s t . , in , 36; 11, 95; svetonio , V i t e l l i o , 13; dione c a ssio , lx v , p. 1062). ’ i La morte di Elvidio Prisco e della virtuosa Epponina disonorò il regno di Vespasiano. 2 chardin, V o y a g e e n P e r s e , I I I , p. 293. 3 L ’uso di elevare gli schiavi alle cariche importanti dello stato è ancora piu comune tra Ì Turchi che tra i Persiani. Le misere regioni della Georgia e della Circassia forniscono go­ vernanti alla maggior parte dell’Oriente. . . . ., . ,, 4 Chardin dice che i viaggiatori europei hanno diffuso tra 1 Persiani una certa idea delia libertà e moderazione dei nostri governi; essi hanno reso loro un pessimo servizio.

So

CAPITOLO TERZO

Profeta e il viceré del cielo, che la pazienza era la prima virtù di un musulmano e una illimitata obbedienza il primo dovere di un suddito. conoscenza L ’animo dei Romani era preparato molto diversamente per la dei Romani schiavitù. Oppressi dal peso della propria corruzione e della vio­ lenza militare, per lungo tempo essi conservarono i sentimenti, o almeno le idee dei loro liberi antenati. L ’educazione di Elvidio e Trasea, di Tacito e Plinio, fu la stessa di quella di Catone e Cicero­ ne. Dalla filosofia greca essi avevano assimilato le nozioni più giu­ ste e liberali sulla dignità della natura umana e sull’origine della società civile. La storia della loro patria aveva insegnato loro a ve­ nerare una repubblica libera, virtuosa e trionfante, ad aborrire i criminosi successi di Cesare e di Augusto e a disprezzare interna­ mente quei tiranni, che adoravano con la più abbietta adulazione. Come magistrati e senatori appartenevano a quel grande consiglio, che un tempo aveva dettato leggi alla terra, il nome del quale ser­ viva ancora a sanzionare gli atti del monarca e la cui autorità era cosi spesso prostituita ai più vili disegni della tirannia. Tiberio e quegl’imperatori, che adottarono le sue massime, cercarono di ve­ lare i loro assassini con le forme della giustizia, e forse provavano un segreto piacere a rendere il senato complice e insieme vittima della loro crudeltà. Da questa assemblea gli ultimi veri Romani fu­ rono condannati per delitti immaginari, e per reali virtù. I loro in­ fami accusatori ostentavano il linguaggio di uomini liberi, che ac­ cusavano un cittadino pericoloso davanti al tribunale della sua pa­ tria; e questo pubblico servizio era premiato con ricchezze e ono­ ri '. I giudici servili dichiaravano di difendere la maestà dello sta­ to, offesa nella persona del suo primo magistrato2, la clemenza del quale tanto più lodavano, quanto più ne temevano l’inesorabile e sovrastante crudeltà3. Il tiranno considerava la loro viltà con giu­ sto disprezzo, e ricambiava i loro segreti sentimenti di detestazione con un odio sincero e dichiarato per tutto il corpo senatorio. 2 ) La divisione dell’Europa in tanti stati indipendenti, ma con! Aitava?0 l ’esempio di Scipione e di Catone ( tacito , A n n u i . , in , 66). Marcello Eprio e C n sp o V ibio avevano acquistato due milioni e mezzo sotto Nerone. La loro ricchezza seb­ bene aggravasse i loro delitti, li protesse sotto Vespasiano, tacito , H i s t . , iv 43· D i u l o g d e o r a t o r ,, 8. Per un accusa, Regolo, degno oggetto della satira di Plinio, ricevette dal senato le insegne consolari, e un donativo di sessantamila sterline. I l delitto di lesa maestà era in origine un reato di alto tradimento contro il popolo ro­ mano. Augusto e Tiberio, come tribuni del popolo, lo applicarono a se stessi, dandogli un’e­ stensione infinita. P ° p o che la virtuosa e sventurata vedova di Germanico fu giustiziata, Tiberio riceve i ringraziamenti del senato per la sua clemenza. Non era stata pubblicamente strangolata né il suo cadavere fu trascinato con uncini alle Gemonie, dove si esponevano quelli dei malfattori ordinari ( tacito , Annal., vi, 23; svetonio , T i b e r i o , 33).

COSTITUZIONE DELL’IMPERO NEL SECOLO DEGLI ANTONINI

8l

’estensione nessi gli uni agli altri per la generale somiglianza di religione, lin­ Ld ell’impero non offriva gua e costumi, produce le conseguenze più benefiche per la libertà scampo degli uomini. Un tiranno moderno, che non incontrasse resistenza in se stesso o nel suo popolo, troverebbe presto un dolce freno nel­ l’esempio dei suoi eguali, nel timore della critica, nei consigli dei suoi alleati e nei timori dei suoi nemici. Chi fosse oggetto del suo sdegno, fuggendo dagli angusti confini dei suoi stati, otterrebbe facilmente in un clima più felice un sicuro rifugio, una nuova for­ tuna adeguata al merito, la libertà di lagnarsi e forse i mezzi di vendicarsi. Ma l’impero dei Romani si estendeva a tutto il mondo, e quando cadde nelle mani di un uomo solo divenne una sicura e tetra prigione per i suoi nemici. Lo schiavo del dispotismo impe­ riale, fosse condannato a trascinare le sue dorate catene in Roma e nel senato, o a passare la vita in esilio sulle nude rupi di Serifo, o sulle gelide rive del Danubio, attendeva la sua fine in muta di­ sperazione ‘. La resistenza era fatale e la fuga impossibile. Da ogni parte egli era circondato da una vasta distesa di mare e di terra, che non poteva mai sperare di attraversare senza essere scoperto, pre­ so e restituito al suo sovrano irritato. Oltre i confini, la sua vista ansiosa non scopriva che l’oceano, deserti inospitali, tribù nemiche di barbari, di costumi feroci e di lingua sconosciuta, o re vassalli, che con piacere avrebbero comprato la protezione dell’imperatore col sacrificio di un profugo pericoloso2. Dovunque tu sia, diceva Cicerone all’esule Marcello, ricordati che sei ugualmente in potere del vincitore3.

1 Serifo, piccola isola rocciosa del Mare Egeo, i cui abitanti erano disprezzati per la loro ignoranza e oscurità. O vid io ci ha fatto ben conoscere il luogo del suo esilio con i suoi giusti, ma v ili lamenti. Pare che egli ricevesse solamente ordine di lasciare Roma in tanti giorni e di trasferirsi a Tomi. Ubbidì senza essere accompagnato né da guardie, ne da carcerieri. 2 Sotto Tiberio, un cavaliere romano tentò di fuggire tra i Parti, rna fti arrestato nello stretto di Sicilia. Q uest’esempio però parve tanto poco pericoloso, che il piu geloso dei ti­ ranni sdegnò di punirlo, tacito , Annal., v i, 14· 3 c ic e r o n e , A d familiares, iv , 7.

CRUDELTÀ, FOLLIE E UCCISIONE DI COMMODO

CAPITOLO QUARTO

,

Crudeltà follie e uccisione di Commodo. Elezione di Pertina­ ce. Suoi tentativi per riformare lo stato. È ucciso dai preto­ riani.

Indulgenza di Marco Aurelio

verso la moglie Faustina

L ’innata mitezza, che la rigida disciplina stoica non aveva potu­ to intaccare, era la qualità piu amabile e a un tempo l’unico difetto del carattere di Marco Aurelio. Il suo eccellente discernimento fu spesso ingannato dall’ingenua bontà del suo cuore. Uomini scaltri, di quelli che studiano le passioni dei principi e nascondono le pro­ prie, lo avvicinavano camuffati da filosofi, e ne ottenevano ric­ chezze e onori affettando di disprezzarli ’. La sua eccessiva indul­ genza verso il fratello, la moglie e il figlio, passò i limiti della virtù privata, e per l’esempio e le funeste conseguenze dei loro vizi, di­ venne una pubblica calamità. Faustina, figlia di Antonino Pio e moglie di Marco Aurelio, non è meno famosa per i suoi amori che per la sua bellezza. La gra­ ve semplicità del filosofo non era fatta per attirare la licenziosa leggerezza di lei, o per frenare quella sua smodata passione per la varietà, che le faceva spesso trovare dei meriti nel piu vile degli uo­ mini . Il Cupido degli antichi era in genere una divinità molto sen­ suale, e gli amori di una imperatrice, costringendola a fare le piu chiare proposte, sono raramente suscettibili di una grande delica­ tezza sentimentale. Marco Aurelio pareva insensibile ai disordini di Faustina, o il solo in tutto l’impero che li ignorasse; ed essi, per il falso pregiudizio di ogni tempo, gettarono un certo disonore sul marito tradito. Egli promosse molti amanti di lei a cariche onore­ voli e lucrose3e per trent’anni le diede prove invariabili della piu affettuosa fiducia e di un rispetto, che non terminò che con la vita della moglie. Nelle sue M e d it a z io n i, Marco Aurelio ringrazia gli dèi di avergli concesso una moglie cosi fedele, cosi amabile e di 1 Si vedano le lagnanze di A vid io Cassio nella H i s l o r i a A u g u s t a (p. 45). È vero che sono 1 discorsi di un ribelle, ma la faziosità esagera piu che inventare. 1 · * /rjt-*nanJ sat*s constat aPud Cayetam c o n d i t i o n e s sibi, et nauticas et gladiatorias elegisse» ( H i s t . A u g u s t . , p. 30). Lampridio spiega quali meriti piacessero a Faustina e le «condizioni» che esigeva ( H i s t . A u g u s t . , p. 102) 3 H i s t . A u g u s t . , p . 34.

83

una semplicità di costumi tanto meravigliosa ‘. Il senato, obbedien­ te, le decretò l’apoteosi per le sue insistenti richieste. Nei templi che le furono dedicati, era rappresentata con gli attributi di Giu­ none, di Venere e di Cerere, e fu decretato che i giovani d’ambo i sessi andassero nel giorno delle nozze a offrire i loro voti davanti all’altare della loro casta patrona123 . suo figlio I vizi mostruosi del figlio hanno gettato un’ombra sulle virtù eCommodo del padre. Si è rimproverato a Marco Aurelio di essersi scelto un successore nella propria famiglia, anziché nell’impero, sacrifican­ do la felicità di milioni di uomini al suo parziale affetto per un inetto ragazzo. L ’attento padre, peraltro, e i dotti e virtuosi uomi­ ni dei quali cercò l’assistenza, non trascurarono nulla per aprire la mente limitata del giovane Commodo, per correggerne i vizi na­ scenti e per renderlo degno del trono che gli era destinato. Ma la forza dell’educazione raramente è molto efficace, eccetto in coloro che sono nati con felici disposizioni e ai quali è quasi superflua. I frivoli discorsi di un dissoluto favorito facevano in un momento dimenticare a Commodo le noiose lezioni dei gravi filosofi e Marco Aurelio guastò egli stesso i frutti di tante cure, associando il figlio all’impero quando aveva quattordici o quindici anni. Egli mori quattro anni dopo; ma visse abbastanza per pentirsi di quel passo imprudente, che liberò un giovane cosi impetuoso dal giogo della ragione e dell’autorità. Gran parte dei delitti, che turbano la pace interna della società, Avvento di Commodo derivano dai freni che le necessarie ma inadeguate leggi sulla pro­ prietà hanno posto ai desideri degli uomini, limitando a pochi il possesso di quelle cose che sono bramate da molti. Di tutte le no­ stre passioni, l’amore del potere è la piu imperiosa e meno socie­ vole, giacché l’orgoglio di uno solo esige la sottomissione di tutti. Nel tumulto delle discordie civili, le leggi della società perdono la loro forza e raramente quelle dell’umanità ne prendono il posto. L ’ardore della contesa, l’orgoglio della vittoria, la sfiducia nel suc­ cesso, la memoria delle offese ricevute, il timore di nuovi pericoli, tutto insomma contribuisce a infiammare gli animi e a soffocare la voce della pietà. Per questi soli motivi quasi ogni pagina della sto­ ria è stata macchiata di sangue civile; ma simili motivi non giusti­ ficano le crudeltà non provocate di Commodo, il quale godendo di 1 M e d i t a z i o n i , I. I l mondo ha riso della credulità di Marco Aurelio, ma la Dacier ci assicura (e come donna le possiamo credere) che il marito sarà sempre ingannato se la moglie sa dissimulare. _ r 2 DIONE CASSIO, l x x i , p. 1 1 9 5 ; H i s t . A u g u s t . , p. 33· SPANHE1M, C o m m e n t a i r e s u r le s C é s a r s d e J u l i e n , p. 289. L ’apoteosi di Faustina è il solo difetto che il critico G iuliano sco­ pra nel perfettissimo carattere di Marco Aurelio.

84

CAPITOLO QUARTO

180 tutto, non aveva nulla da desiderare. L ’amato figlio di Marco Au­ relio successe al padre tra le acclamazioni del senato e degli eser­ citi12 . E quando sali al trono, questo giovane fortunato non trovò né rivali da combattere, né nemici da punire. In questa situazione calma ed elevata, era certamente naturale che dovesse preferire l’amore degli uomini alla loro avversione, e le dolci glorie dei suoi cinque predecessori alla sorte ignominiosa di Nerone e di Domi­ ziano. Carattere Tuttavia, Commodo non era quella tigre che dicono, nata con una sete inestinguibile di sangue umano e capace sin dall’infanzia delle piu disumane azioni \ Piu debole che malvagio, la sua sempli­ cità e timidezza lo resero schiavo dei suoi cortigiani, i quali a po­ co a poco ne corruppero l’anima. La sua crudeltà, che all’inizio fu l’effetto delle altrui suggestioni, degenerò poi in abitudine e di­ venne alla fine la sua passione dominante3. Toma Alla morte del padre, Commodo si trovò a dover comandare un aRoma grande esercito e dirigere una guerra difficile contro i Quadi e i Marcomanni \ Quei giovani servili e dissoluti, che Marco Aurelio aveva cacciato, ripresero subito il loro posto e la loro influenza presso il giovane imperatore. Essi esagerarono le fatichee i perico­ li di una campagna nelle selvagge regioni di là dal Danubio, e assi­ curarono l’indolente principe che il terrore del suo nome e le armi dei suoi generali sarebbero bastati a compiere la conquista dei bar­ bari sgomenti, o a imporre loro condizioni piu vantaggiose di qual­ siasi conquista. Destramente lusingandone la sensualità, essi para­ gonavano la tranquillità, la magnificenza e i raffinati piaceri di Ro­ ma col tumulto di un accampamento della Pannonia, che non la­ sciava né tempo, né comodità per i piaceri5. Commodo diede ascol­ to a cosi grati consigli, ma mentre esitava tra le proprie inclinazioni e il timore che ancora serbava per i consiglieri del padre, passò in­ sensibilmente l’estate e il suo ingresso trionfale nella capitale fu differito all’autunno. La sua avvenenza, le sue maniere affabili6e le supposte virtù, gli conciliarono l’amore del popolo. La pace ono­ revole, che aveva accordato a quei barbari, diffuse una gioia uni1 Commodo fu il primo « Porfirogenito » (nato dopo l ’ascesa del padre al trono). Per un nuovo tratto di adulazione, le medaglie egiziane portano la data degli anni della sua vita, co­ me se fossero gli stessi del suo regno, tillem o n t , H ist. des Empereurs, I I , p. 752. 2 Hist. August., p. 46. 3 DIONE CASSIO, LXXII, p. 1203. 4 Secondo Tertulliano (Apolog., 25), egli mori a Sirmio. Ma la posizione di Vindobona, o Vienna, dove i due V ittori mettono la sua morte, è più adatta alle operazioni della guerra contro i Marcomanni e i Quadi. 5 ERODIANO, I, p. 1 2 . 6 Ib id ., p. 16.

CRUDELTÀ, FOLLIE E UCCISIONE DI COMMODO

85

versale la sua impazienza di tornare a Roma era con piacere attri­ buita all’amore del suo paese e si usava indulgenza con un principe di diciannove anni per la dissolutezza dei suoi divertimenti. Nei primi tre anni del suo regno le forme e anche lo spirito del passato governo furono conservati da quei fidi consiglieri, ai quali Marco Aurelio aveva raccomandato il figlio, e per la saggezza e in­ tegrità dei quali Commodo conservava ancora un riluttante rispet­ to. Il giovane principe coi suoi dissoluti favoriti si dava ai piaceri con tutta la licenza del sovrano potere; ma le sue mani non si era­ no ancora macchiate di sangue, egli aveva anzi mostrato una nobiltà di sentimenti, che avrebbe forse potuto maturare in solida virtù \ Un fatale incidente determinò il suo carattere indeciso. Una sera, mentre l’imperatore ritornava al palazzo per un por- e ferito tico stretto e oscuro dell’anfiteatro3, un sicario che l’attendeva al simL passaggio si lanciò su di lui con la spada sguainata, gridando: (l83) « Questo ti manda il senato ». La minaccia fece prevenire il colpo; il sicario fu arrestato dai pretoriani e rivelò immediatamente gli autori della congiura. Si trattava di una congiura domestica, non di stato. Lucilla, sorella di Commodo e vedova di Lucio Vero, non volendo stare al secondo posto, e gelosa dell’imperatrice regnante, aveva armato il sicario contro la vita del fratello. Non aveva osato comunicare il suo bieco proposito a Claudio Pompeiano, suo se­ condo marito, senatore di molto merito e di inconcussa lealtà; ma trovò nella folla dei suoi amanti, poiché imitava i costumi di Fau­ stina, degli uomini rovinati e ambiziosi, pronti a servire i suoi fu­ rori non meno che le sue passioni. I congiurati provarono il rigore della giustizia e l’abbandonata principessa fu punita prima con l’e­ silio, poi con la morte4. Ma le parole del sicario s’incisero profondamente nell’animo di odio ^ Commodo, lasciandovi un’impronta indelebile di paura e di odio di Commodo contro l’intero corpo del senato. Quelli che egli aveva temuto co- [fenato me importuni ministri gli sembravano ora segreti nemici. I dela­ tori, scoraggiati e quasi scomparsi sotto i regni precedenti, diven­ nero nuovamente formidabili, appena scoprirono che l’imperatore desiderava trovare nel senato malcontenti e traditori. Quest’as­ semblea, considerata sotto Marco Aurelio come il consiglio supre1 Questa gioia universale è ben descritta (dalle medaglie e dagli storici) nella Hist. of Rome del W otton, pp. 192, 193· , 2 M anilio, il segretario e confidente di A vidio Cassio, fu scoperto dopo essere vissuto nascosto diversi anni. L ’imperatore dissipò nobilmente la pubblica inquietudine, ricusando di vederlo e bruciando tutte le sue carte senza leggerle, dione cassio , lxxii , p. r200. 3 m a f f e i , Degli Amphitheatri, p. 126. 4 DIONE CASSIO, LXXII, p. 120.5; ERODIANO, I, p. 16; Hist. August., p. 4 6.

86

CAPITOLO QUARTO

mo della nazione, era composta dei piu distinti Romani; e ogni di­ stinzione presto divenne delittuosa. Le ricchezze stimolavano lo zelo dei delatori; una rigida virtù era considerata come una tacita censura della condotta irregolare del principe, gl’importanti servi­ zi per una pericolosa superiorità di merito; e l’amicizia del padre faceva sempre incorrere nell’avversione del figlio. Il sospetto equi­ valeva alla prova, il processo alla condanna. L ’esecuzione di un il­ lustre senatore fu accompagnata dalla morte di tutti coloro che po­ tevano piangerne o vendicarne la morte; e quando Commodo ebbe una volta assaporato il sangue umano, divenne incapace di pietà o di rimorso. Quintili ^ra tante vittime innocenti della tirannia, i piu compianti furo­ no i due fratelli Massimo e Condiano, della famiglia Quintilia. Il loro amore fraterno ne ha salvato i nomi dall’oblio e li ha resi cari alla posterità. I loro studi, le occupazioni, la carriera e perfino i piaceri erano gli stessi. Godendo di un ricco patrimonio, non eb­ bero mai l’idea di separare gl’interessi; esistono ancora alcuni frammenti di un trattato, che essi composero insieme, e fu osserva­ to che in ogni azione della loro vita i loro corpi erano come anima­ ti da un’anima sola. Gli Antonini, i quali stimavano le loro virtù e si compiacevano della loro unione, li elevarono nello stesso anno al consolato. Marco Aurelio affidò alle loro cure unite il governo della Grecia e il comando di un grande esercito, col quale riporta­ rono una segnalata vittoria contro i Germani. La gentile crudeltà di Commodo li uni nella morte 11 “ «enne ^ °P ° avere sparso il sangue più nobile del senato, il tiranno rietenne vo]se a]ia £ne £ suo furore contro j] principale ministro delle sue crudeltà. Mentre Commodo nuotava nel sangue e nelle dissolutez­ ze, confidava 1 amministrazione dell’impero a Perenne, ministro servile e ambizioso, che aveva ottenuto quel posto uccidendo il suo predecessore, ma che possedeva grande abilità ed energia. Con estorsioni, e confiscando i beni dei nobili sacrificati alla sua avidità, aveva ammassato immense ricchezze. I pretoriani gli obbedivano come loro capo immediato e suo figlio, che già mostrava attitudini militari, era comandante supremo delle legioni illiriche. Perenne aspirava all’impero, o, ciò che agli occhi di Commodo valeva lo stesso, era capace di aspirarvi, se non fosse stato prevenuto, sor185 preso e messo a morte. La caduta di un ministro è un avvenimen­ to irrilevante nella storia generale dell’impero; ma questa fu afIn una nota sulla Historia Augusta (p. 96), Casaubon ha raccolto numerosi particolari concernenti questi illustri fratelli.

CRUDELTÀ, FOLLIE E UCCISIONE DI COMMODO

87

frettata da una circostanza straordinaria, che mostrò quanto la di­ sciplina fosse già rilassata. Le legioni della Britannia, malcontente dell’amministrazione di Perenne, elessero una deputazione di mil­ lecinquecento uomini scelti, con ordine di andare a Roma e presen­ tare all’imperatore le loro lagnanze. Questa deputazione, con la sua risoluta condotta, col fomentare le divisioni tra i pretoriani, coll’esagerare le forze dell’armata britannica e suscitare i timori di Commodo, pretese e ottenne la morte del ministro come la sola ri­ parazione dei loro torti Questa presunzione di un esercito lonta­ no, e la sua scoperta della debolezza del governo, erano sicuri pre­ sagi delle più terribili agitazioni. La negligenza del governo fu dimostrata poco dopo da un nuo­ Ribellione di Materno vo disordine, sorto da origini modestissime. Uno spirito di diser­ zione cominciò a diffondersi tra le truppe; ma anziché fuggire o nascondersi in luogo sicuro, i disertori si diedero a infestare le strade. Materno, semplice soldato, ma di un’audacia superiore alla sua condizione, raccolse queste bande di ladri in una piccola arma­ ta, apri le prigioni, invitò gli schiavi a rivendicare la loro libertà e saccheggiò impunemente le ricche e indifese città della Gallia e della Spagna. I governatori delle province, per lungo tempo spet­ tatori, o forse anche partecipi delle sue rapine, furono alla fine ri­ scossi da quella supina indolenza dagli ordini minacciosi dell im­ peratore. Materno, trovandosi circondato da tutte le parti e pre­ vedendo di dover soccombere, prese quale ultimo espediente una disperata risoluzione. Ordinò ai suoi seguaci di disperdersi, e pas­ sate le Alpi in piccoli gruppi e diversi travestimenti, adunarsi a Roma per i licenziosi tumulti delle feste di Cibele2. Il suo piano di assassinare Commodo e impadronirsi del trono non era un’ambi­ zione da ladro volgare. Egli prese le sue misure con tanta abilità, che già le vie di Roma erano piene delle sue truppe nascoste. L in­ vidia di un complice rivelò questa singolare impresa e la fece falli­ re quando era matura per l’esecuzione3. l ministro I sovrani sospettosi elevano spesso ai primi posti gli ultimi tra ICleandro gli uomini, nella vana persuasione che quanti dipendono soltan­ to dal loro favore, non serviranno che il loro benefattore. Clean1 dio ne c a s s i o , l x x ii , p. 1210; ero dian o , i, p. 22; Hist. A u g u s t p. 48. Dione Cassio dà a Perenne un carattere meno odioso degli altri storici. La sua moderazione e quasi una ga­ ranzia della sua veridicità. , , , , A · -1 1 J 1 1 U J 2 Durante la seconda guerra punica, i Romani portarono dall Asia il culto della Madre degli Dèi. La sua festa «M egalesia» cominciava il 4 di aprile e durava sei giorni. L e strade erano piene di pazze processioni, i teatri di spettatori e le pubbliche mense di gente non invi­ tata. L ’ordine e la sorveglianza rimanevano sospesi e il piacere era l ’unica seria occupazione della città. Si veda o v id io , Fast., iv, 189 sgg. 3 ERODIANO, I, pp. 23, 28.

88

Avidità e crudeltà di Oleandro

CAPITOLO QUARTO

dro, successore di Perenne, era frigio di nascita, di un popolo, il cui carattere ostinato ma servile, non si piegava che con le percos­ se Mandato a Roma come schiavo, servi nel palazzo imperiale, si rese utile alle passioni del suo padrone e sali rapidamente al grado piu elevato che un suddito potesse godere. Il suo ascendente sul­ l’animo di Commodo era ancora piu grande di quello del suo pre­ decessore, poiché Cleandro non aveva né doti, né virtù, che potes­ sero suscitare nell’imperatore invidia o diffidenza. L ’avidità era la sua passione dominante e il principio fondamentale della sua amministrazione. Metteva all’incanto le dignità di console, di patrizio e di senatore e avrebbe considerato come ne­ mico chiunque avesse rifiutato di sacrificare la maggior parte delle proprie sostanze12per acquistare quei titoli vani e disonoranti. Nei lucrosi impieghi delle province, il ministro spartiva coi governato­ ri le spoglie del popolo. L ’amministrazione della giustizia era vena­ le e arbitraria, e un ricco colpevole poteva non solo ottenere la re­ voca della giusta condanna, ma fare anche infliggere qualsiasi pena gli piacesse all’accusatore, ai testimoni e al giudice. Con questi mezzi, Cleandro accumulò in tre anni maggiori ric­ chezze di quante ne avesse mai posseduto qualsiasi altro liberto34 . Commodo era contentissimo dei magnifici doni, che l’astuto corti­ giano sapeva mettere ai suoi piedi al momento piu opportuno. Per stornare l’invidia popolare, Cleandro fece costruire a nome del­ l’imperatore terme, portici e palestre di pubblica utilità \ Si lusin­ gava cosi che i Romani, abbagliati e distratti da quest’apparente liberalità, sarebbero meno sensibili alle scene sanguinose che offri­ va loro ogni giorno; sperava che avrebbero dimenticato la morte di Birro, senatore che per il suo merito insigne aveva sposato una delle figlie del defunto imperatore, e che gli perdonerebbero l’uc­ cisione di Arrio Antonino, ultimo rappresentante del nome e delle virtù degli Antonini. Il primo, più integro che prudente, aveva cercato di rivelare al cognato il vero carattere di Cleandro. A ll’al­ tro fu fatale una giusta condanna, che egli, essendo proconsole in Asia, aveva pronunciato contro un’indegna creatura del favorito5. Dopo la caduta di Perenne, Commodo, atterrito, sembrò ma per 1 CICERONE, Pro Fiacco, 27. 2 Una di queste costose promozioni diede luogo alla barzelletta che G iulio Solone era stato « esiliato» nel senato. 3 Dione Cassio (l x x ii , 1213) osserva che nessun liberto era stato mai tanto ricco quanto Cleandro; eppure la fortuna di Pallante superava i due milioni e mezzo di sterline, «ter m illies». 4 Dione Ca s s io , l x x ii , ρ. 1213; erodiano, i, p. 29; Hist. August., p. 52. Queste terme erano vicine a Porta Capena. nardini, Roma antica, p. 79. 5 Hist. August., p. 48.

CRUDELTÀ, FOLLIE E UCCISIONE DI COMMODO

89

poco voler tornare alla virtù. Egli annullò gli atti più odiosi di quel ministro, ne aggravò la memoria con la pubblica esecrazione e attribuì ai consigli perniciosi di quello scellerato gli errori della sua inesperta giovinezza. Ma il suo pentimento non durò che tren­ ta giorni e la tirannia di Cleandro fece spesso rimpiangere il gover­ no di Perenne. La peste e la fame misero il colmo alle calamità di Roma1. Il Sommossa. Morte primo di questi mali poteva imputarsi soltanto al giusto sdegno de­ di Cleandro (189) gli dèi; ma il secondo fu considerato come l’effetto immediato di un monopolio del grano, sostenuto dalle ricchezze e dall’autorità del ministro. Il malcontento popolare, dopo essersi lungamente sfogato in segreto, scoppiò finalmente nel circo. Il popolo, lascian­ do i divertimenti favoriti per il più squisito piacere della vendetta, corse in folla a un palazzo suburbano, uno dei ritiri dell’imperato­ re, e chiese con grida ostili la testa del nemico pubblico. Cleandro, che comandava i pretoriani2, fece uscire un reparto di cavalleria per disperdere quella folla sediziosa. Questa fuggì precipitosamen­ te verso la città, molti furono uccisi, e molti di più calpestati a morte; ma quando la cavalleria s’inoltrò nelle vie, il suo impeto fu arrestato da una grandine di pietre e di dardi dai tetti e dalle fine­ stre delle case. Le guardie a piedi3, da molto tempo irritate per i privilegi e l ’arroganza della cavalleria pretoriana, presero le parti del popolo. Il tumulto divenne un vero e proprio combattimento e fece temere una strage generale. I pretoriani cedettero alla fine, sopraffatti dal numero, e i flutti di quella furia popolare ritornaro­ no con raddoppiata violenza contro le porte del palazzo, dove Com­ modo, immerso nei piaceri, era il solo a ignorare la guerra civile. Dargli quell’ingrata notizia era un esporsi alla morte; ed egli sa­ rebbe morto in quella supina sicurezza, se due donne, sua sorella maggiore Fadilla e Marcia la prediletta fra le sue concubine, non avessero osato comparirgli davanti. Con i capelli scarmigliati e ba­ gnate di pianto gli si gettarono ai piedi, e con tutta l’eloquenza della paura rivelarono all’imperatore atterrito i delitti del mini­ stro, la rabbia del popolo e la tempesta che tra pochi istanti sareb1 erodiano, i, p. 28; dione Ca s s io , l x x ii , p. 1213. Quest’ultimo dice che morirono a Roma duemila persone ogni giorno per un tempo considerevole. 2 «Tuncque primum tres praefecti praetorio fuere, inter quos libertinus». Per un resto di modestia, Cleandro non prese il titolo di prefetto del pretorio, mentre ne esercitava il po­ tere. Poiché gli altri liberti venivano dai loro diversi incarichi chiamati «a rationibus, ab epistolis», Cleandro s’intitolò « a pugione», come incaricato della difesa del padrone. Salmasio e Casaubon pare abbiano discorso m olto oziosamente su questo passo. 3 « O l της πόλεως πέζοι στρατιώτου,», erodiano, ι , ρ. 31· È dubbio se intenda la fante­ ria pretoriana, o le coorti «urbanae». Queste formavano un corpo di seimila uomini, il grado e la disciplina dei quali non erano corrispondenti al loro numero. Tillem ont e W otton non hanno voluto decidere la questione. 5

90

Dissolutezze di Commodo

Ignoranza e vili passatempi di Commodo

Caccia alle fiere

CAPITOLO QUARTO

be scoppiata sul palazzo e su di lui. Commodo si riscosse dai suoi sogni voluttuosi e fece gettare al popolo la testa di Cleandro. Il desiderato spettacolo placò immediatamente il tumulto; e il figlio di Marco Aurelio avrebbe potuto ancora ricuperare l ’amore e la fiducia dei sudditi offesi '. Ma ogni sentimento di virtù e di umanità era spento nell’ani­ mo di Commodo. Mentre lasciava le redini dell’impero ai suoi in­ degni favoriti, non apprezzava il potere che per l ’illimitata licenza di appagare i suoi sensuali appetiti. Passava i giorni in un harem di trecento bellissime donne e di altrettanti ragazzi di ogni classe e provincia; e quando la seduzione si dimostrava inefficace, quel brutale amante ricorreva alla violenza. Gli storici antichi2 si sono diffusi su quelle scene di lussuria, che sprezzavano ogni freno di natura e di pudore; ma sarebbe difficile tradurre le loro troppo fe­ deli descrizioni con la castigatezza del linguaggio moderno. I trat­ tenimenti piu vili riempivano gPintervalli della libidine. L ’influen­ za di un secolo illuminato e le cure di un’accurata educazione non avevano potuto ispirare in quell’animo rozzo e brutale il minimo amore del sapere; ed egli fu il primo imperatore romano privo af­ fatto di gusto per i piaceri dello spirito. Nerone stesso era musico e poeta eccellente, o affettava di esserlo; e noi non condannerem­ mo quegli studi, se non avesse fatto di quel passatempo delle ore d’ozio l’affare piu serio e l ’ambizione della sua vita. Ma Commodo fin dai suoi primi anni mostrò avversione a tutte le scienze e le arti liberali, e passione per i divertimenti della plebe, i giochi del circo e dell’anfiteatro, i combattimenti dei gladiatori e la caccia alle fie­ re. I maestri di ogni scienza, che Marco Aurelio aveva dato a suo figlio, erano ascoltati con disattenzione e con noia; mentre i Mauri e i Parti, che lo addestravano a lanciare il giavellotto e a tirare con l’arco, trovavano in lui un attento scolaro, che uguagliò ben presto i suoi piu abili maestri per la sicurezza della mira e la destrezza della mano. I servili cortigiani, la cui fortuna dipendeva dai vizi del loro sovrano, applaudivano quegl’ignobili esercizi. La perfida voce del­ l’adulazione gli ricordava che con simili imprese, con l’uccisione del leone Nemeo e del cinghiale d’Erimanto, l’Èrcole dei Greci aveva acquistato un posto tra gli dèi e un ricordo immortale tra gli uomini. Dimenticavano soltanto di fargli osservare che nei primi 1 DIONE CASSIO, LXXII, p. 1213; ERODIANO, I, p. 32; H Ì S t . A u g U S t ., p. 48. 2 «Sororibus suis constupratis, ipsas concubinas suas sub oculis suis stuprar! jubebat. N ec irruendum in se juvenum carebat infamia, omni parte corporis atque ore in sexum utrumque pollutus» (Hist. August., p. 47).

CRUDELTÀ, FOLLIE E UCCISIONE DI COMMODO

91

tempi delle società, quando i piu feroci animali contrastano spesso all’uomo il possesso di un paese incolto, una guerra vinta contro questi nemici era la piu innocente e utile impresa dell’eroismo. Nel grado di civiltà raggiunto dall’impero romano, da molto tempo le fiere s’erano allontanate dall’uomo e dai dintorni delle popolose città. Sorprenderle nelle loro tane solitarie e portarle a Roma per essere uccise solennemente dalla mano d’un imperatore, era im­ presa altrettanto ridicola per il sovrano che gravosa per il popo­ lo. Commodo ignaro di tali differenze, accolse avidamente il glo­ rioso paragone, e come leggiamo tuttora nelle medaglie, si volle chiamare l’Èrcole romano12. Si misero accanto al trono, tra le altre insegne della sovranità, la clava e la pelle di leone e si eressero sta­ tue, nelle quali Commodo era rappresentato con le sembianze e gli attributi di quel nume, il valore e la destrezza del quale egli si sforzava di imitare nel corso dei suoi feroci trattenimenti quo­ tidiani 3. Esaltato da queste lodi, che a poco a poco estimerò l’innato pu­ dore, Commodo decise di eseguire davanti al popolo quegli eser­ cizi, che fino allora aveva decentemente nascosto tra le mura del suo palazzo, eseguendoli alla presenza di pochi favoriti. Nel gior­ no stabilito, l’adulazione, il timore e la curiosità attirarono all’an­ fiteatro una moltitudine innumerevole di popolo, che tributò qual­ che meritato applauso alla non comune perizia dell’imperiale atle­ ta. Che egli mirasse al cuore o alla testa della fiera, il colpo era ugualmente certo e mortale. Armato di frecce, la cui punta era fat­ ta a mezzaluna, arrestava sovente il rapido corso dello struzzo, ta­ gliandogli netto il lungo collo ossuto4. Si scioglieva una pantera; e nel momento che si lanciava su un malfattore tremante, volava la freccia che la uccideva, mentre l ’uomo restava incolume. Dai sotterranei dell’anfiteatro sbucavano a un tratto cento leoni; e cen­ to dardi, lanciati dalla mano infallibile di Commodo, li uccidevano mentre correvano furiosi per l’arena. Né l’enorme mole dell’ele­ fante, né la squamosa pelle del rinoceronte potevano salvarli dal colpo fatale. L ’India e l’Etiopia fornivano i piu straordinari esem­ plari della loro fauna, e diversi animali furono uccisi nell’anfitea1 I leoni africani, quand’erano spinti dalla fame, infestavano impunemente villaggi e campagne. Questa fiera reale era riservata ai piaceri dell’imperatore e della capitale; e lo sven­ turato agricoltore, che per difendersi ne uccidesse qualcuna, era punito. Questa crudele « leg­ ge di caccia» fu mitigata da Onorio e finalmente abolita da Giustiniano. Codex Theodos., v, p. 92, con il commento del Godefroy. 2 spanheim , D e usu numismatum, dissert. χ π , I I , p. 493. 3 DIONE CASSIO, lxxii , p. 1216; H ist. August., p. 49. 4 II collo dello struzzo è lungo tre piedi e consta di diciassette vertebre, bu ffo n , Hist. Naturelle.

Commodo si esibisce n ell’anfi­ teatro

92

CAPITOLO QUARTO

tro, mai prima veduti che nelle opere d’arte, o forse nell’immagi­ nazione1. In tutti questi giochi si prendevano tutte le maggiori precauzioni per non esporre la persona dell’Èrcole romano al di­ sperato assalto di qualche fiera, che poteva non avere riguardo alla dignità dell’imperatore e alla santità del nume2. SÌ conduce Ma anche la piu infima plebe fu presa da vergogna e indignagiadTaw™ zione quando vide il suo sovrano entrare in lizza da gladiatore, e gloriarsi di una professione dichiarata giustamente infame dalle leggi e dai costumi di Roma3. Commodo scelse l’abito e le armi del secutore, il cui combattimento con il reziario formava una delle scene piu animate nei giochi sanguinosi dell’anfiteatro. Il secutore aveva per armi l’elmo, la spada e lo scudo. Il suo nudo avversario aveva soltanto una larga rete e un tridente; con quella cercava d’av­ volgere l’avversario, e con questo d’ucciderlo. Se gli falliva il pri­ mo colpo, era costretto a evitare fuggendo il secutore, finché aves­ se preparato la rete per un secondo tiro4. L ’imperatore combattè settecentotrentacinque volte da secutore. Queste gloriose gesta ve­ nivano accuratamente registrate negli annali delPimpero; e Com­ modo, per colmo d’infamia, riscosse dai fondi destinati ai gladia­ tori uno stipendio cosi esorbitante, che divenne una nuova e ver­ gognosissima tassa per i Romani5. È facile immaginare che in quei combattimenti il padrone del mondo era sempre vincitore. Nel­ l’anfiteatro le sue vittorie non sempre erano sanguinose; ma quan­ do esercitava la sua destrezza nella scuola dei gladiatori, o nel pa­ lazzo, i suoi disgraziati antagonisti erano spesso onorati di una fe­ rita mortale dalla mano di Commodo e costretti a suggellare col sangue la loro adulazione6. Commodo sdegnò quindi il nome di Sua infamia e Ercole, e quello di Paolo, celebre secutore, divenne il solo gradito stravaganza guo Esso fu inciso sulle sue statue colossali e ripetuto 1 Commodo uccise un «camelopardalis», o giraffa ( m one c a ssio , l x x ii , p. 1211), il pili alto, il pili docile e il pili inutile dei grossi quadrupedi. Questo singolare animale, che nasce soltanto nelle parti interne d ell’Africa, non è stato veduto in Europa dopo la rinascita delle lettere, e benché il Buffon (Hist. Naturelle, X III) abbia cercato di descriverlo, non ha osato darne un disegno. 1 ero diano , i, p. 37; Hist. August., p. 30. 3 I principi virtuosi, e anche quelli saggi, proibirono ai senatori e ai cavalieri di abbrac­ ciare questa vergognosa professione sotto pena d’infamia, o, ciò che era ancor pili temuto da quei miserabili, sotto pena d’esilio. I tiranni li invitarono a disonorarsi, con ricompense e con minacce. Nerone una volta fece venire sull’arena quaranta senatori e sessanta cavalieri. giusto l ip s io , Saturnalia, 11, 2. E gli ha felicemente corretto un passo di Svetonio (Nero­ ne, 12). 4 giusto l ip s io , li, 7, 8. Giovenale, nella satira v ili, fa una pittoresca descrizione di questo combattimento. 5 Hist. August., p. 50; Dione c a ssio , l x x ii , p. 1220. E gli riceveva ogni volta «decies», circa ottomila sterline. 6 Vittore dice che Commodo dava ai suoi antagonisti una spada di piombo, temendo probabilmente le conseguenze della loro disperazione.

CRUDELTÀ, FOLLIE E UCCISIONE DI COMMODO

93

con raddoppiate acclamazioni1 dal senato, che lo applaudiva co­ sternato2. Claudio Pompeiano, il virtuoso marito di Lucilla, fu il solo senatore che sostenesse la dignità del suo ordine. Come padre permise ai suoi figli di provvedere alla loro salvezza andando al­ l’anfiteatro; come Romano, dichiarò che la sua vita era nelle mani di Commodo, ma che non vedrebbe mai il figlio di Marco Aurelio prostituire in tal modo la sua persona e la sua dignità. Nonostante la sua virile risolutezza, Pompeiano sfuggi allo sdegno del tiranno e con l’onore ebbe la fortuna di conservare la vita3. Commodo era giunto ormai al sommo del vizio e dell’infamia. Tra le acclamazioni di una corte adulatrice, non poteva però dissi­ mulare a se stesso che aveva meritato il disprezzo e l’odio d’ogni suddito saggio e virtuoso. La certezza di essere aborrito, l’invidia che portava a ogni merito, il giusto timore del pericolo, l’abitudine alle stragi contratta nei suoi passatempi quotidiani, irritavano il suo animo feroce. La storia ci ha lasciato un lungo elenco di sena­ Congiura dei suoi tori consolari sacrificati ai suoi vani sospetti, che ricercavano con famigliarì particolare sollecitudine quanti avevano la disgrazia di essere im­ parentati, anche alla lontana, con la famiglia degli Antonini, non risparmiando neppure i ministri dei suoi delitti, o dei suoi piace­ r i4. Alla fine, la sua crudeltà gli fu fatale. Egli, che aveva versato impunemente il piu nobile sangue romano, fu soppresso non appe­ na si rese temuto dai suoi familiari. Marcia, la sua concubina fa­ vorita, Ecletto, suo maggiordomo, e Leto, prefetto del pretorio, spaventati dalla fine dei loro compagni e predecessori, decisero di prevenire il colpo, continuamente sospeso sul loro capo per il fol­ le capriccio del tiranno, o per l’improvvisa indignazione del popo­ lo. Un giorno che era tornato stanco dalla caccia delle fiere, Marcia colse l’occasione di offrire al suo amante un sorso di vino. Com­ Morte di Commodo modo si ritirò a dormire; ma mentre era sotto l’influsso del veleno (31 dicembre e dell’ubriachezza, un giovane e robusto lottatore entrò nella sua 192) camera e senza incontrare resistenza lo strangolò. Il corpo fu por­ tato segretamente fuori del palazzo, prima che in città o alla corte si avesse il minimo sospetto della morte dell’imperatore. Tale fu la fine del figlio di Marco Aurelio; e fu cosi facile sopprimere un 1 Furono obbligati a ripetere 626 volte « Paolo, primo dei secutori », eco. i2 2 i. E gli parla della sua bassezza e del suo pericolo. 3 Uni peraltro la prudenza al. coraggio e passò la maggior parte del suo tempo in cam­ pagna, allegando Tetà avanzata e la sua debole vista. « I o non lo vidi mai in senato, - dice Dione Cassio, - eccetto che nel breve regno di Pertinace». Tutte le sue infermità subito gua­ rirono, e subito gli ritornarono dopo Passassimo di quel principe eccellente, dione ca ssio , lx v iii , p. 1227. 4 I prefetti si cambiavano quasi ogni giorno e ogni ora; e il capriccio di Commodo tornò spesso fatale ai suoi piu favoriti ministri. Hist. August., pp. 46, 51.

2Dione ca ssio , l x x ii , p.

94

Pertinace eletto imperatore

È

riconosciuto dai pretoriani

CAPITOLO QUARTO

odiato tiranno, che per il solo fatto di essere al potere aveva per tredici anni oppresso tanti milioni di uomini, ognuno dei quali per forza e capacità personale era pari al suo sovrano '. I congiurati presero le loro misure con quella fredda decisione e celerità, che la gravità della situazione richiedeva. Stabilirono immediatamente di mettere sul trono vacante un imperatore, il cui carattere giustificasse e sostenesse la loro azione. Scelsero Pertina­ ce, prefetto della città e vecchio senatore di rango consolare, che per i cospicui meriti aveva fatto dimenticare l’oscurità della sua nascita, elevandosi alle più alte cariche dello stato. Egli aveva suc­ cessivamente governato la maggior parte delle province dell’impe­ ro, e con la sua fermezza, prudenza e integrità si era ugualmente segnalato in tutte le cariche militari e civili12. Era quasi il solo su­ perstite degli amici e ministri di Marco Aurelio; e quando lo sve­ gliarono nel cuor della notte, per dirgli che il maggiordomo del­ l’imperatore e il prefetto del pretorio l’aspettavano alla porta, li accolse con intrepida rassegnazione, e li pregò di eseguire gli ordi­ ni del loro padrone. Invece della morte, gli offrirono il trono del mondo romano. Per alcuni minuti egli diffidò delle loro intenzioni e assicurazioni; ma, convinto alla fine che Commodo era morto, accettò la porpora con la sincera e naturale riluttanza di chi cono­ sceva i doveri e i pericoli del supremo potere3. Leto condusse senza indugio il suo nuovo imperatore alla ca­ serma dei pretoriani, spargendo al tempo stesso opportunamente per la città la notizia che Commodo era morto improvvisamente di apoplessia, e che il virtuoso Pertinace era già salito sul trono. I soldati accolsero con maggior sorpresa che piacere la notizia della sospetta morte di un principe, il quale soltanto per loro si era di­ mostrato indulgente e liberale; ma la necessità delle circostanze, l’autorità del loro prefetto, la reputazione di Pertinace e i clamori del popolo, li obbligarono a soffocare il loro segreto rammarico, ad 1 DIONE CASSIO, LXXII, p. 1222; EKODIANO, I, p. 43; HlSt. August., p. 52. 2 Pertinace era figlio di un legnaiolo, nato ad Alba Pompeia in Piemonte. L ’ordine dei suoi impieghi, che Capitolino ci ha conservato, merita di essere riferito, giacché dà un’idea dei costumi e del governo di quel tempo: i ) centurione; 2) prefetto di una coorte in Siria, durante la guerra dei Parti, e nella Britannia; 3) ottenne un’ala, o squadrone di cavalleria, nella Mesia; 4) commissario dei rifornimenti sulla via Emilia; 5) comandò la flotta del regno; 6) procuratore della Dacia, con lo stipendio annuo di circa milleseicento sterline; 7) comandò i veterani di una legione; 8) ottenne il grado di senatore; 9) di pretore; io) e il comando della prima legione nella Rezia e nel Norico; n ) fu console verso l ’anno 175; 12) accompagnò Mar­ co Aurelio in Oriente; 13) comandò un’armata sulle rive del Danubio; 14) fu legato consolare della Mesia; 15) della Dacia; 16) della Siria; 17) della Britannia; 18) ebbe la cura d ell’annona a Roma; 19) fu proconsole in Africa; 20) prefetto della città. Erodiano (1, p. 48) rende giu­ stizia al suo spirito disinteressato; ma Capitolino, che raccoglieva ogni pettegolezzo, lo ac­ cusa di avere ammassato una grande ricchezza, lasciandosi corrompere. 3 Giuliano, nei Cesari, lo accusa d’essere stato complice della morte di Commodo.

ELEZIONE DI PERTINACE

95

accettare il donativo promesso dal nuovo imperatore, a giurargli fedeltà e a condurlo con liete acclamazioni e rami di lauro al sena­ to, perché il consenso delle truppe fosse ratificato dall’autorità civile. Quella notte importante era già molto inoltrata, e all’alba del nuovo giorno e del nuovo anno, i senatori attendevano di essere chiamati ad assistere a una ignominiosa cerimonia. Malgrado tut­ te le rimostranze, perfino dei cortigiani che conservavano ancora un’ombra di prudenza e di decoro, Commodo aveva deciso di pas­ sare la notte nella scuola dei gladiatori, e di là andare a prendere possesso del consolato, vestito da gladiatore e accompagnato da quella infame masnada; ma prima dell’alba il senato fu convocato improvvisamente nel tempio della Concordia, per trovarsi insieme coi pretoriani e ratificare l’elezione di un nuovo imperatore. I se­ natori restarono per qualche minuto sospesi e in silenzio, dubitan­ do della loro inattesa liberazione e sospettando di qualche crudele artificio di Commodo; ma finalmente, certi che il tiranno era mor­ to, si abbandonarono a tutte le manifestazioni della gioia e dell’in­ dignazione. Pertinace modestamente ricordò l’umiltà delle sue ori­ gini e indicò vari nobili senatori più degni del trono; ma fu costret­ to a cedere ai voti dell’assemblea, che gli conferì tutti i titoli con­ nessi alla dignità imperiale, confermandoli con le piu sincere dichia­ razioni di fedeltà. La memoria di Commodo fu bollata di eterna infamia; in ogni parte dell’aula risuonarono i nomi di tiranno, gla­ diatore, pubblico nemico. I senatori decretarono tumultuosamente che ne fossero aboliti gli onori, cancellati i titoli dai pubblici mo­ numenti, rovesciate le statue e trascinato il corpo con un uncino nello spogliatoio dei gladiatori, per saziare il furore del popolo; ed espressero la loro indignazione contro quei servi zelanti, che avevano osato sottrarne il cadavere alla giustizia del senato. Ma Pertinace gli fece rendere gli ultimi onori, che non potè rifiutare alla memoria di Marco Aurelio e alle lacrime di Claudio Pompeia­ no, suo primo protettore, il quale deplorava la fine crudele del co­ gnato, e piu ancora che l’avesse meritata '. Questi sfoghi di rabbia impotente contro un morto imperatore, che da vivo il senato ave­ va adulato col piu abbietto servilismo, tradivano un giusto ma in­ generoso spirito di vendetta. La legalità di questi decreti era pe­ raltro sancita dai principi della costituzione imperiale. Era antica e incontroversa prerogativa del senato romano censurare, depor-

e dal senato ( i° gennaio 193)

La memoria di Com m odo

dichiarata infame

Giurisdizione del senato sugli imperatori

1 Capitolino racconta i particolari di queste tumultuarie mozioni, che furono proposte da un senatore, e ripetute, o meglio cantate, da tutto il senato. Hist. August., p. 52.

96

Virtù di Pertinace

Tenta di riformare lo Stato

Sue norme

CAPITOLO QUARTO

re, o punire con la morte il primo magistrato della repubblica che avesse abusato del potere ma quella debole assemblea era costret­ ta ad appagarsi di esercitare su un tiranno caduto quella giustizia, dalla quale durante la sua vita e il suo regno lo aveva protetto il braccio poderoso del dispotismo militare. Pertinace trovò una maniera piu nobile di condannare la me­ moria del suo predecessore, contrapponendo ai vizi di lui le pro­ prie virtù. Nel giorno stesso del suo avvento, cedette tutto il suo patrimonio alla moglie e al figlio, per toglier loro cosi ogni prete­ sto di chiedere favori a carico dello stato. Non volle lusingare la vanità della prima col titolo di augusta, né corrompere l’inesperta giovinezza del secondo colla dignità di cesare. Distinguendo accu­ ratamente i doveri di padre e quelli di sovrano, educò il figlio con severa semplicità, che mentre non gli dava alcuna sicura speranza del trono, poteva un giorno renderlo degno di salirvi. In pubblico, il contegno di Pertinace era grave e affabile. Viveva senza super­ bia o gelosia coi piu virtuosi senatori, di ciascuno dei quali nella vita privata aveva potuto conoscere il vero carattere, e li conside­ rava come amici e compagni, coi quali aveva condiviso i pericoli della tirannia e voleva godere la tranquillità del tempo presente. Li invitava sovente a familiari trattenimenti, la cui semplicità era messa in ridicolo da quanti ricordavano e rimpiangevano la folle prodigalità di Commodo \ Sanare per quanto possibile le ferite prodotte dalla mano del ti­ ranno era la piacevole, ma insieme triste occupazione di Pertinace. Le vittime innocenti, che ancora sopravvivevano, furono richiama­ te dall’esilio, liberate dalla prigione e reintegrate nel possesso dei loro beni e delle loro dignità. I cadaveri insepolti dei senatori as­ sassinati (giacché la crudeltà di Commodo non rispettava neppure i morti) furono deposti nelle tombe dei loro antenati, fu riabilitata la loro memoria e nulla si risparmiò per consolarne le afflitte e de­ solate famiglie. Tra queste consolazioni, la piu gradita fu la puni­ zione dei delatori, nemici comuni del sovrano, della virtù e della patria. Ma anche nella ricerca di questi legali assassini Pertinace usò una costante moderazione, che dava tutto alla giustizia e nulla ai pregiudizi e al risentimento del popolo. Le finanze richiedevano la più attenta cura dell’imperatore. Sebbene si fosse usato ogni genere d’ingiustizia e di estorsione per 1 II senato condannò Nerone ad essere messo a morte «more majorum» ( svetonio, 49). 2 Dione Cassio ( l x x iii , p. 1223) parla di questi trattenimenti, come un senatore che ab­ bia cenato con il principe; Capitolino (Hist. August., p. 58) come uno schiavo, che abbia ri­ cevuto le sue notizie da qualche sguattero.

TENTATIVI DI PERTINACE PER RIFORMARE LO STATO

97

radunare i beni dei sudditi nelle casse del principe, le stravaganze di Commodo avevano di tanto superato la sua rapacità, che alla sua morte non si trovarono nell’esausto tesoro dello stato più di ottomila sterline1 per pagare le spese ordinarie del governo e sod­ disfare alla pressante richiesta del generoso donativo, che il nuovo imperatore aveva dovuto promettere ai pretoriani. Pure, in tanta strettezza, Pertinace ebbe la nobile fermezza di abolire tutte le gravose tasse inventate da Commodo e di annullare tutte le ingiu­ ste pretese del fisco, dichiarando con un decreto del senato « che preferiva governare con probità una repubblica povera, anziché acquistare ricchezze con la tirannia e il disonore ». Egli considera­ va l’economia e il lavoro come le pure e genuine sorgenti della ric­ chezza; e da queste ricavò ben presto un copioso introito per sup­ plire alle pubbliche necessità. La spesa per la famiglia imperiale fu subito ridotta alla metà. Egli mise all’asta tutti gli oggetti di lus­ so 2, i servizi d’oro e d’argento, i cocchi di singolare costruzione, le superflue vesti di seta e ricamate e un gran numero di bellissimi schiavi dell’uno e dell’altro sesso, eccettuando soltanto, con atten­ ta umanità, coloro che nati liberi, erano stati strappati dalle brac­ cia degli afflitti genitori. Nel tempo stesso che obbligava gl’indegni favoriti del tiranno a restituire parte delle loro male acquistate ric­ chezze, soddisfaceva i legittimi creditori dello stato, pagando ina­ spettatamente i lunghi arretrati degli onesti servitori. Annullò le gravose restrizioni imposte al commercio e concesse tutte le terre incolte d’Italia e delle province a coloro che volessero migliorarle, esentandole per dieci anni da qualsiasi imposta3. Una condotta cosi uniforme aveva già assicurato a Pertinace la ricompensa più nobile per un sovrano, la stima e l’amore del suo popolo. Quanti ricordavano le virtù di Marco Aurelio erano felici di contemplare nel nuovo imperatore i tratti di quel luminoso ori­ ginale e si lusingavano di godere lungamente la benigna influenza del suo governo. Ma un frettoloso zelo di riformare lo stato corrot­ to, non assistito da quella prudenza che sarebbe stato lecito atten­ dersi dall’età ed esperienza di Pertinace, riuscì fatale a lui e all’im­ pero. La sua virtuosa imprudenza sollevò contro di lui quella tur­ ba servile, che trovava un interesse privato nei pubblici disordini 1 «Decies». La lodevole economia di Antonino Pio lasciò ai suoi successori un tesoro di «vicies septies m illies», oltre ventidue milioni di sterline (dione c a ssio , l x x iii , p. 1231). 2 O ltre allo scopo di convertire in denaro quegli inutili ornamenti, Pertinace (secondo Dione Cassio, l x x iii , p. 1229) aveva due segreti m otivi. Voleva esporre al pubblico i vizi di Commodo, e scoprire nei compratori quelli che piu gli assomigliavano. 3 Sebbene Capitolino abbia riempito di mille storie puerili la vita privata di Pertinace, si accorda però con D ione Cassio ed Erodiano nell’ammirare la sua condotta pubblica.

e popolarità

98

CAPITOLO QUARTO

e preferiva il favore di un tiranno alla inesorabile eguaglianza del­ le leggi1. Malcontento In mezzo alla gioia generale, il torvo e rabbioso aspetto dei pre­ dei pretoriani toriani tradiva il loro interno malumore. Si erano loro malgrado sottomessi a Pertinace, temevano il rigore dell’antica disciplina, che egli si disponeva a ristabilire, e rimpiangevano la licenza del passato governo. Il loro malcontento fu segretamente sobillato dal loro prefetto Leto, che troppo tardi si accorse che il nuovo impe­ ratore era disposto a ricompensare i servigi di un suddito, ma non a lasciarsi governare da un favorito. Il terzo giorno del suo regno, i soldati presero un senatore illustre per condurlo alla loro caser­ ma e rivestirlo della porpora imperiale. Invece di essere abbaglia­ ta da quell’onore pericoloso, la vittima spaventata si svincolò da loro e corse a rifugiarsi ai piedi di Pertinace. Poco tempo dopo, Sosio Falcone, uno dei consoli di quell’anno e giovane temerario2, ma di famiglia ricca e antica, diede ascolto alla voce dell’ambizio­ ne, e durante una breve assenza di Pertinace tramò una congiura, Congiura che fu soffocata dal suo improvviso ritorno a Roma e dalla sua soffocata condotta risoluta. Falcone era sul punto di essere giustamente con­ dannato a morte come nemico pubblico, se non lo avessero salvato le premurose e sincere istanze dell’offeso imperatore, che scongiu­ rò il senato di non volere che la purezza del suo regno fosse mac­ chiata dal sangue di un senatore, sebbene colpevole. Pertinace Queste delusioni non fecero che irritare maggiormente il fu­ assassinato dai rore dei pretoriani. Il 28 marzo, ottantasei giorni soltanto dopo la pretoriani (28 marzo morte di Commodo, scoppiò nella caserma un ammutinamento ge­ 193) nerale, che gli ufficiali non seppero, o non vollero reprimere. Due o trecento dei piu facinorosi, con le armi in pugno e il furore sul volto, partirono sul mezzogiorno verso il palazzo imperiale. Ne furono aperte le porte dai loro compagni di guardia e dai domestici dell’antica corte, che avevano già congiurato segretamente contro la vita del troppo virtuoso imperatore. Alla notizia della loro ve­ nuta, Pertinace, sdegnando di fuggire o nascondersi, andò incontro agli assassini e rammentò loro la propria innocenza e la santità del loro recente giuramento. Per alcuni istanti essi restarono sospesi in silenzio, vergognosi del loro atroce disegno e soggiogati dal ve­ nerando aspetto e dalla maestosa fermezza del loro sovrano; ma poi, disperando del perdono, si riaccese il loro furore e un barba1 «Leges, rem surdam, inexorabilem esse» (tito Livio, n, 3). 1 Se dobbiamo credere a Capitolino (il che è piuttosto difficile), Falcone si comportò con la piu irriverente petulanza verso Pertinace il giorno del suo avvento al trono. I l saggio im­ peratore gli ricordò soltanto la sua gioventù e inesperienza. Hist. August., p. 33.

PERTINACE È UCCISO DAI PRETORIANI

99

ro, nativo di Tongres ', vibrò il primo colpo a Pertinace, che cadde ucciso da innumerevoli ferite. La sua testa, staccata dal busto e infissa su una lancia, fu portata in trionfo alla caserma dei preto­ riani al cospetto di un popolo dolente e sdegnato, che piangeva l’in­ degna fine di quel principe eccellente e la passeggera felicità di un regno, la cui memoria non poteva che aggravare le loro imminenti sventure2. 1 O ggi il vescovato di Liegi. Questo soldato probabilmente era una delle guardie batave a cavallo, che per la maggior parte si reclutavano nel ducato di Gheldria e suoi dintorni, ed erano rinomate per il loro valore, e per il coraggio con cui attraversavano a cavallo 1 numi pili larghi e rapidi (tacito, H ist., iv, 12; dione cassio , lv , p. 7 9 7 ; giusto lipsio , D e magni­ tudine Romana, 1, 4)· ... , _ c . 2 mone cassio , lxxiii , p. 1232; ERODiANO, il, p. 60; Hist. August., p. 58; vittore, e p i­ tome, e Cesari; eutropio, vm , 16.

IOI

I PRETORIANI VENDONO L ’IMPERO A DIDIO GIULIANO

CAPITOLO QUINTO

I pretoriani mettono all’asta l’impero e lo vendono a Oidio Giuliano. Clodio Albino in Britannia, Pescennio Negro in Si­ ria, e Settimio Severo in Pannonia si dichiarano contro gli assassini di Pertinace. Guerre e vittoria di Severo sui suoi tre rivali. Rilassamento della disciplina. Nuove massime di go­ verno.

Rapporto Il potere della spada è piu sentito in una vasta monarchia che popolazione in una piccola comunità. I piu abili politici hanno calcolato che armate nessuno stato, senza esaurirsi rapidamente, può mantenere piu del­ la centesima parte dei suoi sudditi in armi e in ozio. Ma sebbene questa proporzione relativa possa essere costante, la sua influenza sul resto della società varierà secondo il grado della sua forza asso­ luta. I vantaggi della scienza e della disciplina militare sono vani, se un adeguato numero di soldati non è unito in un solo corpo e animato da un solo spirito. Questa unione sarebbe inefficace in un pugno d’uomini, e impraticabile in un massiccio esercito, come il funzionamento di una macchina sarebbe ugualmente arrestato dal­ l’estrema piccolezza, o dall’eccessivo peso delle sue molle. Per chiarire questa osservazione basta considerare che non c’è superio­ rità di forza, di armi o di destrezza che possa mettere un uomo in grado di tenere in costante soggezione un centinaio di suoi simili Il tiranno di una città, o di un piccolo distretto, si accorgerebbe ben presto che cento seguaci armati sarebbero una debole difesa contro diecimila contadini, o cittadini; ma centomila soldati disci­ plinati comanderanno dispoticamente a dieci milioni di sudditi e un corpo di dieci o quindicimila guardie incuterà terrore al piu nu­ meroso popolo che abbia mai ingombrato le strade di una immen­ sa capitale. i pretoriani I pretoriani, la cui sfrenata licenza fu il primo sintomo e la priLo ma causa della decadenza dell’impero romano, raggiungevano apistituzione pena questo numero1*e dovevano la loro istituzione ad Augusto.

1 II loro numero era originariamente di nove o diecimila uomini (Tacito e Dione Cassio qui non concordano), divisi in altrettante coorti. Vitellio lo portò a sedicimila, e per quanto si può ricavare dalle iscrizioni, questo numero in seguito non fu mai molto minore, giusto lipsio , D e magnitudine Romana , i, 4.

Quel sagace tiranno, conscio che la sua usurpazione poteva ma­ scherarsi con le leggi, ma conservarsi soltanto con le armi, aveva a poco a poco formato questo temuto corpo di guardie, pronte sempre a difendere la sua persona, a contenere il senato e a preve­ nire o soffocare sul nascere ogni ribellione. Egli distinse queste truppe favorite con doppia paga e privilegi; ma poiché il loro for­ midabile aspetto avrebbe atterrito e irritato i Romani, ne stanziò tre sole coorti nella capitale, mentre il resto fu dislocato nelle cir­ convicine città d’Italia ‘. Ma dopo cinquant’anni di pace e di schia- n loro vitù, Tiberio fece un passo decisivo, che ribadì per sempre le cate- campo ne della sua patria. Con gli speciosi pretesti di sollevare l’Italia dal grave peso dei quartieri militari e d’introdurre tra i pretoriani una disciplina piu rigorosa, li concentrò a Roma in un campo perma­ nente \ accuratamente fortificato3, e situato in modo da dominare tutta la città4. Questi servi cosi temibili sono sempre necessari, ma spesso fa - Loro forza e tali al trono del dispotismo. Introducendo i pretoriani per cosi dire presunzione nella reggia e nel senato, gl’imperatori appresero loro a conoscere la propria forza e la debolezza del governo, a considerare i vizi dei loro sovrani con familiare disprezzo e a perdere quel timore re­ verenziale, che soltanto la distanza e il mistero possono conservare verso un potere immaginario. Nell’ozio e tra i piaceri di una città opulenta, il loro orgoglio si nutriva col sentimento della loro forza irresistibile, né era possibile nasconder loro che la persona del so­ vrano, l’autorità del senato, il tesoro dello stato e la sede dell’im­ pero erano interamente nelle loro mani. Per distrarli da queste pe­ ricolose riflessioni, gl’imperatori piu fermi e piu saldamente stabi­ liti erano costretti a mescolare le carezze ai comandi, le ricompen­ se alle punizioni, a lusingare il loro orgoglio, condiscendere ai loro capricci, tollerare le loro irregolarità e comprare la loro precaria fedeltà con un generoso donativo, che essi, dall’avvento di Claudio in poi, esigevano come un diritto legittimo all’elezione di ogni nuo­ vo imperatore5. 1 SVETONIO, Augusto, 49. tacito, Annal., iv , 2; svetonio, Tiberio, 37; mone cassio , lvii , p. 867. 3 Nella guerra civile tra V itellio e Vespasiano, il campo dei pretoriani fu assalito e difeso con tutte le macchine solite a usarsi n ell’assedio delle città meglio fortificate, tacito , H ist.,

1

m , 84.

.

.

.

.

.

.

.

4 V icino alle mura della città, sui colli Q uirinale e Viminale, nardini, Roma antica, p. 174; donato , D e Roma antiqua, p. 46. 5 Claudio, che i soldati avevano innalzato a ll’impero, fu il primo che facesse loro un do­ nativo. Dette a ciascuno «quina dena», centoventi sterline ( svetonio , Claudio, io ). Quando Marco Aurelio sali pacificamente al trono con il suo collega Lucio Vero, dette ad ogni preto­ riano «vicena», centosessanta sterline (Hist. August., p. 25; dione c a ssio , l x x iii , p. 1231). Possiamo formarci qualche idea del totale di queste somme dal lamento di Adriano, a cui la promozione di un cesare era costata « ter millies », due milioni e mezzo di sterline.

102 L oro s p e c io s e p re te se

O ffr o n o in v e n d i t a l ’ im p e r o

CAPITOLO QUINTO

I fautori dei pretoriani cercavano di giustificare con gli argo­ menti quel potere, che essi esercitavano con le armi, e di sostenere, che secondo i migliori principi della costituzione, il loro consenso era essenziale alla creazione di un imperatore. L ’elezione dei con­ soli, dei generali e dei magistrati, sebbene recentemente usurpata dal senato, era un antico e incontestabile diritto del popolo roma­ no Ma dov’era allora questo popolo? Non certamente tra la con­ fusa moltitudine degli schiavi e degli stranieri, che ingombrava le vie di Roma, vile plebaglia priva di coraggio come di sostanze. I difensori dello stato, scelti tra il fiore della gioventù italiana2e al­ levati nell’esercizio delle armi e della virtù, erano i veri rappre­ sentanti del popolo e avevano il maggior diritto a eleggere il capo militare dell’impero. Questi argomenti, sebbene infondati, diven­ nero inconfutabili quando i fieri pretoriani ne accrebbero il peso, gettando come il barbaro conquistatore di Roma le loro spade sul­ la bilancia3. I pretoriani, che avevano offeso la santità del trono con l’atroce assassinio di Pertinace, ne disonorarono la maestà con la loro con­ dotta. La loro caserma era senza comandante, essendosi il prefetto Leto, autore della tempesta, prudentemente sottratto alla pubblica indignazione. In quella enorme confusione, Sulpiciano, suocero dell’imperatore e governatore della città, che era stato mandato al­ la caserma al primo rumore di ribellione, tentava di calmare la fu­ ria della moltitudine, quando gli fu imposto silenzio dal clamoroso ritorno degli assassini, che portavano su una lancia la testa di Per­ tinace. Sebbene la storia ci abbia abituati a vedere ogni principio e ogni passione cedere ai dettami imperiosi dell’ambizione, pare appena credibile che in quei momenti di orrore Sulpiciano potesse aspirare a un trono, macchiato di fresco dal sangue di un parente cosi stretto e di un cosi eccellente imperatore. Egli aveva già co­ minciato a usare l ’unico argomento efficace, a contrattare cioè la dignità imperiale; ma i più accorti tra i pretoriani, temendo di non conseguire in questo contratto privato il giusto prezzo di una mer­ ce cosi pregiata, corsero sui terrapieni e ad alta voce proclamarono che il mondo romano sarebbe stato venduto all’asta al miglior of­ ferente 4. cicerone, D e legibus, in , 3. I l primo libro di T ito L ivio e il secondo di Dionigi d’Alicarnasso mostrano Tautorità del popolo anche nelTelezione dei re. Le leve si facevano originariamente nel Lazio, n ell’Etruria e nelle antiche colonie (ta cito , Annal. iv, 3). L ’imperatore Ottone lusinga la vanità dei pretoriani chiamandoli «ItaIiae alumm, Romana vere juventus» (tacito, H isi., 1, 84). 3 N ell’assedio di Roma fatto dai G alli. Si vedano tito Livio, v, 48; plutarco Camillo P·

143.

4 DIONE CASSIO, L x x n i, p.

1234; erodiano, il, p. 63; Hist. August., p. 60. Q uesti storici

I PRETORIANI VENDONO L ’IMPERO A DIDIO GIULIANO

103

Questa infame offerta, il più insolente eccesso della licenza mi- ^“ 3 . ^ litare, diffuse per la città un sentimento generale di dolore, di ver- (28 marzo gogna e di sdegno. Alla fine, ne giunse la voce agli orecchi di Di- 193) dio Giuliano, facoltoso senatore, che insensibile alle pubbliche ca­ lamità si abbandonava ai piaceri della tavola1. La moglie e la fi­ glia, i suoi liberti e i suoi parassiti, lo convinsero facilmente che egli'era degno del trono, e istantemente lo scongiurarono di non lasciarsi sfuggire una cosi fortunata occasione. L ’ambizioso vecchio andò in fretta alla caserma dei pretoriani, dove Sulpiciano era an­ cora in trattative con loro, e dal basso del terrapieno cominciò a fargli concorrenza. L ’indegno mercato era condotto pel tramite di fidati emissari, che passavano alternativamente da un candidato al­ l’altro, informando ciascuno dell’offerta del rivale. Sulpiciano ave­ va già promesso un donativo di cinquemila dracme (oltre cento­ sessanta sterline) per soldato, quando Giuliano, avido del trono, sali di colpo alla somma di 6250 dracme (più di duecento sterline). Furono subito aperte le porte al compratore, che, dichiarato impe­ ratore, ricevè il giuramento di fedeltà dai soldati, i quali conserva­ vano ancora tanta umanità da stipulare che si dovesse perdonare a Sulpiciano e dimenticare di averlo avuto quale competitore. Toccava ora ai pretoriani eseguire le condizioni della vendita, è , . Γ ψ 1. 1 riconosciuto Misero il loro nuovo sovrano, che servivano e disprezzavano j dal senato centro delle loro file, lo circondarono da ogni parte con i loro scu­ di, e in ordine di battaglia lo condussero per le vie deserte della città. Fu ordinato al senato di adunarsi, e gli amici piu ragguarde­ voli di Pertinace, non meno che i nemici personali di Giuliano, cre­ dettero necessario ostentare una non comune soddisfazione per quel felice mutamento2. Dopo aver riempito il senato di armati, Giuliano si diffuse sulla libertà della sua elezione, sulle proprie eminenti virtù e sulla sua piena fiducia nell’amore del senato. L ’os­ sequiosa assemblea si congratulò della propria e pubblica felicità, gli giurò fedeltà e gli conferì tutte le diverse prerogative del potere imperialeJ. Dal senato, con lo stesso corteo militare, Giuliano fu condotto a prendere possesso del palazzo. I primi oggetti, che col- Prende^ pirono la sua vista, furono il cadavere decapitato di Pertinace e i dei palazzo frugali preparativi per la sua cena. Guardò quello con indifferenza, concordano nel dire che fu una vendita pubblica, soltanto Erodiano afferma che fu proclamata come tale dai soldati. , n . 1 Sparziano attenua quanto vi era di piu odioso nel carattere e nell elevazione di Lriu2 Dione Cassio, allora pretore, era stato nemico personale di G iuliano ( l x x iii , p. 1235). 3 Hist. A u g u s t p. 61. Da questo passo apprendiamo un particolare interessante: il nuo­ vo imperatore, quale che fosse la sua nascita, era immediatamente iscritto tra i patrizi.

I°4

Malcontento popolare

G li eserciti della Britannia, Siria e Pannonia si dichiarano contro Giuliano

CAPITOLO QUINTO

questi con disprezzo, ordinò che si preparasse un sontuoso ban­ chetto, e si diverti fino a tarda ora giocando ai dadi e guardando i balli di Pilade, celebre ballerino. Fu peraltro osservato, che quan­ do la folla dei cortigiani si fu dileguata lasciandolo nell’oscurità, nella solitudine e in preda a terribili riflessioni, egli passò una not­ te insonne, pensando molto probabilmente alla sua temeraria fol­ lia, alla fine del suo virtuoso predecessore e all’incerto e pericoloso possesso di un impero, che non aveva acquistato coi meriti, ma comprato col denaro Aveva ragione di tremare. Sul trono del mondo si trovò senza amici, e anche senza aderenti. Gli stessi pretoriani si vergognava­ no di servire un imperatore che avevano accettato per avidità, né v ’era cittadino che non considerasse con orrore la sua elevazione come l’estremo oltraggio fatto al nome romano. I nobili, il cui ran­ go cospicuo e le grandi ricchezze esigevano le piu attente precau­ zioni, dissimulavano i loro sentimenti, e ricambiavano l’affettata cortesia dell’imperatore con sorrisi di compiacenza ed espressioni di devozione. Ma il popolo, che il numero e l’oscurità rendevano sicuro, dava libero sfogo ai suoi sentimenti. Per le vie e per le piazze di Roma non si udivano che clamori e imprecazioni. La mol­ titudine arrabbiata insultava Giuliano, ne rifiutava le liberalità, e consapevole dell’impotenza del proprio risentimento, chiamava ad alta voce le legioni delle frontiere a vendicare la violata maestà dell’impero romano. Il malcontento popolare non tardò a diffondersi dal centro alle frontiere dell’impero. Gli eserciti della Britannia, della Siria e dell’Illirico deplorarono la morte di Pertinace, in compagnia e sotto il comando del quale avevano tante volte combattuto e vinto. Ac­ colsero con sorpresa, con indignazione e forse con invidia la strana notizia della vendita all’asta, che i pretoriani avevano fatto dell’im­ pero, e ricusarono decisamente di ratificare il vergognoso contrat­ to. La loro immediata e unanime sollevazione fu fatale a Giuliano; ma nello stesso tempo fu fatale alla pace, giacché i generali delle rispettive armate, Clodio Albino, Pescennio Negro e Settimio Se­ vero, erano piu ansiosi di succedere a Pertinace che di vendicarne la morte. Le loro forze erano esattamente uguali. Ciascuno di loro comandava tre legioni12, con un numeroso seguito di ausiliari; e sebbene diversi di carattere, erano tutti soldati forniti d’esperienza e capacità. 1 Dione c a ssio , l x x iii , ρ. 1235; renti discordanze di questi storici.

2 DIONE CASSIO, LXXIII, p.

1235.

H is t. A u g u s t.,

p. 61. H o cercato di conciliare le appa­

ALBINO, NEGRO E SEVERO CONTRO DIDIO GIULIANO

10 5

Godio Albino, governatore della Britannia, era superiore ai Clodio Albino suoi rivali per la nobiltà della nascita, discendendo da una tra le in Britannia piu illustri famiglie dell’antica repubblica ', sebbene il ramo da cui discendeva, ridotto in modeste condizioni, si fosse trasferito in una lontana provincia. È difficile formarsi una giusta idea del suo vero carattere. Egli è accusato di aver nascosto sotto il manto del­ l’austerità tutti i vizi che disonorano l’umana natura2; ma i suoi accusatori sono quegli scrittori venali, che esaltavano la fortuna di Severo, calpestando le ceneri del suo infelice rivale. La virtù, o l’apparenza di essa, procurò ad Albino la fiducia e la stima di Mar­ co Aurelio; e l’aver egli conservato col figlio gli stessi rapporti che aveva col padre, è se non altro una prova che egli era di indole molto flessibile. Il favore di un tiranno non sempre presuppone una mancanza di merito in colui che ne è l’oggetto; egli può ricom­ pensare senza volere un uomo meritevole e abile, o considerarlo utile ai propri fini. Non pare che Albino servisse il figlio di Marco Aurelio come ministro delle sue crudeltà, o come compagno dei suoi piaceri. Egli era lontano e investito di un alto comando, quan­ do ebbe dall’imperatore una lettera confidenziale, in cui l’informa­ va delle trame di alcuni generali malcontenti e lo autorizzava a di­ chiararsi difensore e successore del trono, prendendo il titolo e le insegne di cesare3. Il governatore della Britannia saggiamente de­ clinò quell’onore pericoloso, che lo avrebbe esposto alla gelosia, o coinvolto nella prossima rovina di Commodo. Per elevarsi egli usò mezzi piu nobili, o almeno piu dignitosi. A un prematuro an­ nuncio della morte dell’imperatore, adunò le sue truppe e deplorò con un eloquente discorso le inevitabili calamità del dispotismo, descrivendo la felicità e la gloria godute dai loro antenati sotto il governo consolare e dichiarando la sua ferma risoluzione di rende­ re al senato e al popolo la loro legittima autorità. Le legioni bri­ tanniche risposero con alte acclamazioni a questo discorso demo­ cratico, che fu accolto a Roma con segreta approvazione. Tranquil­ lo possessore di quel piccolo mondo e comandante di un esercito, anche se meno distinto per disciplina che per numero e valore4, Albino sfidò le minacce di Commodo, conservò verso Pertinace un 1 La Postumia e la Ceionia, la prima delle quali fu elevata al consolato cinque anni dopo la sua istituzione. 2 Sparziano, nelle sue farraginose compilazioni, fa un miscuglio di tutte le virtù e di tut­ ti i vizi che formano la natura umana, e li attribuisce a un solo soggetto. Cosi, infatti, sono m olti personaggi della H i s t o r i a A u g u s t a . 3 H i s t . A u g u s t . , pp. 80, 84.

4 Pertinace, che governava la Britannia alcuni anni prima, era stato lasciato per morto in un ammutinamento ( H i s t . A u g u s t . , p. 34). Essi però lo amavano e lo piansero: «Adm irantibus eam virtutem cui irascebantur».

IO 6

Pescennio Negro in Siria

CAPITOLO QUINTO

contegno ambiguo e altero e si dichiarò subito contro l’usurpazio­ ne di Giuliano. Le agitazioni della capitale davano nuovo peso ai suoi sentimenti, o meglio, alle sue dichiarazioni di amor di patria. Il pudore l’indusse a declinare gli alti titoli di augusto e d’impera­ tore, forse imitando l’esempio di Galba, che in una simile circo­ stanza si era qualificato come luogotenente del senato e del popolo12 . Il solo merito personale aveva elevato Pescennio Negro da una oscura nascita e condizione al governo della Siria, comando impor­ tante e lucroso, che in tempi di disordini civili gli dava prossima speranza del trono. Sembra però che fosse più adatto al secondo che al primo posto. Rivale troppo debole, sarebbe riuscito un ec­ cellente luogotenente di Severo, che in seguito dimostrò la sua grandezza d’animo adottando diverse utili istituzioni del vinto ne­ mico \ Nel suo governo, Negro si acquistò la stima dei soldati e l’amore dei provinciali. La sua rigida disciplina rafforzò il valore e mantenne l’obbedienza dei primi, mentre i voluttuosi Siri furono meno soddisfatti della moderata fermezza del suo governo, che dell’affabilità dei suoi modi e del piacere che dimostrava assisten­ do alle loro frequenti e pompose feste3. Appena si sparse in An­ tiochia la notizia dell’atroce assassinio di Pertinace, i voti di tutta l’Asia invitarono Negro a prendere la porpora imperiale e a vendi­ carne la morte. Le legioni della frontiera orientale si dichiararono per lui, le ricche ma inermi province, dai confini dell’Etiopia4 al­ l’Adriatico, si sottomisero spontaneamente al suo potere e i re di là dal Tigri e dall’Eufrate, congratulandosi della sua elezione, gli prestarono omaggio e gli offrirono i loro servizi. Negro non aveva l’animo abbastanza grande per sostenere quest’improvviso favore della fortuna; si lusingò che la sua elevazione al trono non sarebbe stata ostacolata da rivali, né macchiata di sangue civile, e occupato nella vana pompa del trionfo, trascurò i mezzi per assicurarsi la vit­ toria. Invece di entrare in trattative coi potenti eserciti dell’Occi­ dente, che potevano decidere o almeno bilanciare la grande conte­ sa, invece di marciare immediatamente verso Roma e l’Italia, do­ ve si attendeva ansiosamente la sua presenza5, Negro sciupò nei 1 svetonio , Galba, io .

2 Hist. August., p. 76.

3 erodiano, 11, p. 68. La cronaca di Giovanni Maiala di Antiochia mostra il grande zelo dei suoi concittadini per queste feste, che soddisfacevano nel tempo stesso la loro supersti­ zione e il loro amore per i piaceri. 4 Nella Historia Augusta è ricordato un re di Tebe in E gitto come alleato, anzi come amico personale di Negro, Se Sparziano non si è ingannato (come dubito fortemente), egli ha rivelato una dinastia di principi tributari affatto sconosciuta alla storia. 5 mone c a ssio , L x x n i, p. 1238; erodiano, il, p. 67. Un verso, allora corrente, pare esprimere la generale opinione che si aveva di questi tre rivali: «O ptim us est Ntger, bonus Afer, pessimus A lb u s» (Hist. August., p. 75).

ALBINO, NEGRO E SEVERO CONTRO DIDIO GIULIANO

10 7

piaceri di Antiochia quei momenti preziosi, dei quali seppe dili­ gentemente profittare la decisiva attività di Severo '. La Pannonia e la Dalmazia, che si estendevano dal Danubio al­ Pannonia e Dalmazia l’Adriatico, furono una delle ultime e più difficili conquiste dei Romani. Duecentomila di quei barbari, scesi una volta in campo per difendere la libertà nazionale, spaventarono il vecchio Augusto ed esercitarono la vigilante prudenza di Tiberio, che li combatte alla testa di tutte le forze riunite dell’impero \ I Pannoni cedettero alfine alle armi e alla disciplina dei Romani, ma la memoria recen­ te della perduta libertà, la vicinanza, o anche la mescolanza con le tribù indipendenti, e forse il clima stesso, che come è stato osser­ vato produce uomini di grande corporatura ma di intelletto tar­ do 3, tutto insomma contribuì a conservare qualche avanzo della lo­ ro naturale ferocia; e sotto il mansueto aspetto di provinciali ro­ mani si potevano ancora discernere i fieri lineamenti nazionali. La loro bellicosa gioventù era un vivaio inesauribile di reclute per le legioni accampate sulle rive del Danubio, le quali per la continua guerra contro i Germani e i Sarmati erano giustamente stimate le migliori truppe dell’impero. L ’esercito della Pannonia era allora comandato da Settimio Se­ Settimio Severo vero, un Africano, che salendo di grado in grado per la scala degli onori, aveva saputo nascondere la sua audace ambizione, che né le lusinghe del piacere, né il timore del pericolo, né i sentimenti del­ l’umanità avevano fatto deviare dal suo corso1. Alla prima notizia dell’assassinio di Pertinace, egli radunò le sue truppe, dipinse coi colori più vivaci il delitto, l’insolenza e la debolezza dei pretoriani, e animò le legioni alle armi e alla vendetta. Concluse (e la pero­ razione fu giudicata eloquentissima), promettendo circa quattrocento sterline a ogni soldato, donativo magnifico, doppio dell’of­ ferta infame con cui Didio Giuliano aveva comprato l’impero5. dichiarato imperatore L ’esercito con acclamazioni salutò immediatamente Severo coi no­ dalle legioni mi di Augusto, di Pertinace e d’imperatore; ed egli pervenne cosi pannoniche (13 aprile a quel grado eccelso, al quale si credeva chiamato dal proprio me- 193) 1 ERODIANO, II, p. 71. 2 Si veda la relazione di questa guerra memorabile in V elleio Patercolo (u , n o sgg.), che militava nell’esercito di Tiberio. 3 Tale è la riflessione di Erodiano (u , p. 74). I moderni Austriaci ammetteranno que­ st’influsso? 4 Commodo, nella già menzionata lettera ad Albino, accusa Severo, come uno di quegli ambiziosi generali, che criticavano la sua condotta e desideravano di usurpare il suo posto (Hist. August., p. 80). 5 La Pannonia era troppo povera per fornire tale somma. Essa fu probabilmente pro­ messa sul campo, e pagata a Roma dopo la vittoria. N el fissare questa somma, ho adottato la congettura di Casaubon. Cfr. Hist. August., p. 63.

108

Entra in Italia

Avanza su Roma

Angustie di Giuliano

CAPITOLO QUINTO

rito e da una lunga serie di sogni e di presagi, utili parti della sua superstizione, o della sua political. Il nuovo pretendente all’impero vide il vantaggio della sua si­ tuazione e ne approfittò. La sua provincia si estendeva fino alle A l­ pi Giulie, che gli davano un facile accesso in Italia; ed egli ricor­ dava il detto di Augusto, che un’armata della Pannonia poteva in dieci giorni giungere in vista di Roma2. Con una celerità propor­ zionata alla grandezza dell’occasione, egli poteva con ragione spe­ rare di vendicare Pertinace, punire Giuliano e ricevere gli omaggi del senato e del popolo come loro legittimo imperatore, prima che i suoi competitori, separati dall’Italia da un immenso tratto di ma­ re e di terra, fossero informati delle sue mosse e neppure della sua elezione. Durante tutta la spedizione concesse appena pochi istanti al riposo e al cibo; marciando a piedi in tutta armatura alla testa delle sue colonne, si insinuava nella fiducia e nell’amore delle trup­ pe, ne spronava la diligenza, ne animava lo spirito, ne ravvivava le speranze; con gioia condivideva le fatiche del piu umile soldato, avendo presente l’infinita superiorità del premio che lo attendeva. Lo sciagurato Giuliano prevedeva di dover disputare l’impero col governatore della Siria, e vi si credeva preparato; ma nella irre­ sistibile e rapida avanzata delle legioni pannoniche vide la propria inevitabile rovina. L ’arrivo precipitoso di ogni corriere accresceva i suoi giusti timori. Gli fu poi annunciato che Severo aveva passato le Alpi, che le città d’Italia non volendo, o non potendo arrestarne l’avanzata, lo avevano accolto con le piu vive dimostrazioni di gioia e di devozione, che la importante piazzaforte di Ravenna si era arresa senza resistenza e che la flotta adriatica era in potere del vincitore. Il nemico era ora a duecentocinquanta miglia da Roma e ad ogni momento si accorciava il breve tempo accordato alla vita e all’impero di Giuliano. Egli tentò, tuttavia, di impedire, o almeno ritardare la sua rovi­ na. Implorò la fede venale dei pretoriani, riempi la capitale di vani preparativi di guerra, scavò trincee intorno ai sobborghi e rafforzò perfino le fortificazioni nel palazzo, come se fosse stato possibile senza speranza di soccorso difendere questi ultimi baluardi contro il vittorioso invasore. La vergogna e il timore trattennero i preto­ 1 erodi ano, il, p. 78. Severo fu acclamato imperatore sulle rive del Danubio, a Carnuntum, secondo Sparziano (Hist. Augusta p. 65), o a Sabaria, secondo Vittore. Hume, suppo­ nendo che la nascita e dignità di Severo fossero troppo inferiori alla corona imperiale, e che egli andasse in Italia soltanto come generale, non ha considerato questo avvenimento con la sua consueta accuratezza (Essay on thè originai contraci). 2 velleio patercolo , il, 3. Partendo dalle piu prossime frontiere della Pannonia, si do­ veva fare una marcia di duecento miglia per giungere a Roma.

GUERRE E VITTORIA DI SEVERO SUI RIVALI

109

ria ni dall’abbandonarlo; ma essi tremavano al solo nome delle le­ gioni della Pannonia, comandate da un esperto generale, abituato a vincere i barbari sul gelato Danubio1. Lasciavano sospirando le terme e i teatri per prendere quelle armi, che non sapevano quasi piu maneggiare e sotto il cui peso parevano oppressi. Gli elefanti non addestrati, il cui terribile aspetto si sperava dovesse incutere terrore alle armate del Settentrione, gettavano a terra gl’inesperti conducenti. Le goffe evoluzioni dei marinai, tratti dalla flotta di Miseno, facevano ridere la plebe, mentre il senato vedeva con se­ greto piacere le angustie e la debolezza dell’usurpatore2. Ogni atto di Giuliano tradiva la sua paura e la sua perplessità. Ora insisteva presso il senato, che dichiarasse Severo nemico della patria, ora pregava che il generale della Pannonia fosse associato all’impero. Mandò pubblicamente ambasciatori di grado consolare per trattare col rivale, e segretamente dei sicari per ucciderlo. Di­ spose che le vestali e tutti i collegi dei sacerdoti, coi loro abiti di cerimonia e portando i sacri pegni della religione romana, andas­ sero in processione solenne a incontrare le legioni della Pannonia, e nel tempo stesso vanamente si sforzava d’interrogare o di placa­ re i fati con cerimonie magiche e sacrifici illegali3. Severo, che non temeva né le armi, né gl’incantesimi di Giulia­ no, si assicurò dal solo pericolo di una segreta congiura, facendosi accompagnare da seicento soldati scelti e fidati, che non lasciarono mai né lui né le loro corazze, né di giorno, né di notte, durante tutta la marcia. Nulla arrestò la sua rapida e progressiva avanzata. Passò senza difficoltà le gole degli Appennini e incorporò le truppe e gli ambasciatori inviati per ritardare la sua marcia, facendo una breve sosta a Interamnia, a circa settanta miglia da Roma. La sua vittoria era già sicura; ma la disperazione dei pretoriani avrebbe potuto renderla cruenta, e Severo aveva la lodevole ambizione di salire al trono senza sguainare la spada \ I suoi emissari, sparsi nel­ la capitale li assicurarono che, se avessero abbandonato il loro in­ degno imperatore e gli autori della morte di Pertinace alla giusti­ zia del vincitore, egli non avrebbe più considerato l’intero corpo responsabile di quel tragico avvenimento. G l’infedeli pretoriani, 1 Non è questa una puerile figura rettorica, ma u n ’allusione a un fatto reale, ricordato da Dione Cassio ( l x x i , p. 1181). È probabile che accadesse piu di una volta. 2 mone Ca s s io , l x x iii , ρ. 1233; erodiano, il, p. 8 i. Non c’è prova piu sicura della pe­ rizia militare dei Romani, che l ’aver essi prima superato il vano terrore e poi disprezzato il pericoloso impiego degli elefanti in guerra. 3 Hist. August., pp. 62, 63. 4 Vittore ed Eutropio (v ili, 17) ricordano un combattimento presso il ponte M ilvio (Ponte M olle), combattimento sconosciuto ai m igliori e piu antichi scrittori.

Sua

incertezza

È

abbandonato dai pretoriani

no

condannato e giustiziato per ordine del senato (2 giugno 193)

Congedo dei pretoriani

Funerali e apoteosi di Pertinace

CAPITOLO QUINTO

la resistenza dei quali era sostenuta soltanto da una cupa ostina­ zione, accettarono volentieri quelle convenienti condizioni, arre­ starono la maggior parte degli assassini e dichiararono al senato che non avrebbero piu difeso la causa di Giuliano. Quest’assem­ blea, convocata dal console, riconobbe unanime Severo quale le­ gittimo imperatore, decretò gli onori divini a Pertinace e pronun­ ciò la sentenza di deposizione e di morte contro il suo sfortunato successore. Giuliano fu condotto in una stanza dei bagni del pa­ lazzo e decapitato come un comune delinquente, dopo di essersi comprato con immense ricchezze un regno angustiato e precario di soli sessantasei giorni '. La celerità quasi incredibile di Severo, che in cosi breve tempo condusse una numerosa armata dalle rive del Danubio a quelle del Tevere, prova a un tempo l’abbondanza di vettovaglie prodotte dall’agricoltura e dal commercio, la bontà del­ le strade, la disciplina delle legioni e l’indolente e "sottomesso ca­ rattere delle province12. Le prime cure di Severo furono dedicate a due misure, Luna dettata dalla politica, l’altra dal decoro : la vendetta, e gli onori do­ vuti alla memoria di Pertinace. Prima di entrare in Roma, il nuovo imperatore comandò ai pretoriani di attendere il suo arrivo in una vasta pianura vicino alla città, disarmati e con gli abiti di cerimo­ nia, con i quali erano soliti accompagnare il loro sovrano. Fu obbe­ dito da quelle altere truppe, il cui pentimento era l’effetto dei loro giustificati timori. Una scelta parte dell’armata illirica li circondò colle lance spianate. Non potendo né fuggire, né resistere, essi at­ tendevano la loro sorte in tacita costernazione. Severo montò sul tribunale, li rimproverò severamente della loro perfidia e codar­ dia, li congedò con ignominia come traditori, fi spogliò degli splen­ didi ornamenti e li bandi sotto pena di morte alla distanza di cento miglia da Roma. Durante questa cerimonia, un altro distaccamen­ to era stato mandato a impadronirsi delle armi e della caserma dei pretoriani, per prevenire le conseguenze della loro disperazione3. I funerali e l’apoteosi di Pertinace si svolsero con ogni appara­ to di lugubre magnificenza4. Il senato rese con amaro piacere le 1 DIONE CASSIO, LXXIII, p. 1240; ERODIANO, II, p. 83;

H is t . A u g U S t. ,

p. 63.

2 Da questi sessantasei giorni dobbiamo prima sottrarne sedici, poiché Pertinace fu uc­ ciso il 28 marzo, e Severo probabilmente fu eletto il 13 aprile (si vedano H i s t . A u g u s t . , p. 65 e TiLLEMONT, H i s t . d e s E m p e r e u r s , I I I , p. 393, nota 7). Non si possono accordare meno di dieci giorni, dopo la sua elezione, per mettere in movimento un numeroso esercito. Riman­ gono quaranta giorni per questa rapida marcia, e poiché possiamo calcolare circa ottocento miglia da Roma alle vicinanze di Vienna, l ’esercito di Severo fece venti miglia al giorno sen­ za mai fermarsi.

3 DIONE CASSIO, LXXIV, p. 1241; ERODIANO, II, p. 84. 4 Dione Cassio ( lx x iv , p. 1244), che assistè alla cerimonia come senatore, ne fa un’am­ pollosa descrizione.

GUERRE E VITTORIA DI SEVERO SUI RIVALI

III

estreme onoranze a quell’eccellente imperatore, che aveva amato e ancora rimpiangeva. La mestizia del suo successore era probabil­ mente meno sincera. Egli apprezzava bensì le virtù di Pertinace, ma queste virtù avrebbero per sempre limitato la sua ambizione al­ la condizione di privato. Severo ne pronunciò l’orazione funebre con studiata eloquenza, interna soddisfazione e ben simulato do­ lore; e con queste pie attenzioni per la memoria di Pertinace, per­ suase la credula moltitudine che egli solo era degno di succedergli. Sapendo però che le armi e non le cerimonie potevano sostenere le sue pretese all’impero, lasciò Roma dopo trenta giorni; e senza esaltarsi per una vittoria cosi facile, si preparò ad affrontare i suoi rivali più temibili. Le doti non comuni e la fortuna di Severo hanno indotto un elegante storico a paragonarlo al primo e più grande dei Cesari \ Il parallelo è quanto meno eccessivo. Dove troveremo nel carattere di Severo quella imponente superiorità d’animo, quella generosa clemenza e quel versatile ingegno, che sapeva unire e conciliare l ’a­ more del piacere, la sete del sapere e il fuoco dell’ambizione2? In un solo caso possono paragonarsi con qualche ragione: nella cele­ rità dei loro movimenti e delle loro vittorie nella guerra civile. In meno di quattro anni3. Severo sottomise le ricchezze dell’Oriente e il valore dell’Occidente. Vinse due competitori abili e rinomati e sconfisse numerosi eserciti, per armi e disciplina uguali al suo. A quel tempo l’arte delle fortificazioni e i principi della tattica erano familiari ai generali romani; e la costante superiorità di Severo era quella di un artefice, che usa gli stessi strumenti con maggior peri­ zia e diligenza dei suoi rivali. Non mi diffonderò, tuttavia, in una minuziosa descrizione delle sue operazioni militari; ma poiché le due guerre civili contro Negro e Albino furono quasi simili per la condotta, l’esito e le conseguenze, raccoglierò in un solo esame le circostanze più notevoli, e più atte a mostrare il carattere del vin­ citore e lo stato dell’impero. Sebbene sembri che la falsità e la dissimulazione non si addica­ no alla dignità dell’azione di governo, in questa ci offendono con un’idea meno degradante di bassezza di quando le incontriamo nei rapporti della vita privata. In questa mostrano mancanza di corag1 ERODIANO, III, p.

112.

2 Sebbene Lucano non abbia certamente intenzione di esaltare il carattere di Cesare, l ’idea che egli dà di questo eroe nel decimo libro di P h a r s a l ia , dove lo descrive mentre contem­ poraneamente fa a ll’amore con Cleopatra, sostiene un assedio contro le forze dell’E gitto e conversa con i filosofi di quel paese, è in realtà un magnifico panegirico. 3 Contando dalla sua elezione (13 aprile 193) alla morte di A lbin o (19 febbraio 197).

TiLLEMONT,

C h r o n o lo g y .

Severo vince Negro e Albino

193-197

Condotta delle due guerre civili. A rti di Severo

ΓΙ2

verso Negro

CAPITOLO QUINTO

gio, in quella soltanto mancanza di forza; e poiché è impossibile anche ai piu abili statisti soggiogare con la propria forza milioni di seguaci e di nemici, sembra che il mondo conceda loro, col nome di politica, la piu ampia libertà d’impiegare l’astuzia o la dissimu­ lazione. Ciononostante, i piu ampi privilegi della ragione di stato non possono giustificare i mezzi impiegati da Severo. Egli promet­ teva soltanto per tradire, non lusingava che per rovinare; e sebbe­ ne si vincolasse talora con giuramenti e trattati, la sua coscienza, serva del suo interesse, lo scioglieva sempre da ogni incomoda ob­ bligazione '. Se i suoi due rivali, riconciliati dal comune pericolo, si fossero avanzati contro di lui senza indugio, forse Severo sarebbe stato so­ praffatto dalle loro forze riunite. Se lo avessero attaccato contem­ poraneamente, anche con fini ed eserciti separati, la contesa poteva esser lunga e incerta. Ma essi caddero l’uno dopo l’altro, facile pre­ da delle arti e delle armi del loro scaltro nemico, cullati dalla mo­ derazione delle sue dichiarazioni e sopraffatti dalla rapidità della sua azione. Egli prima marciò contro Negro, la cui reputazione e potenza temeva maggiormente; ma evitò ogni dichiarazione di guerra, e tacendo il nome del suo antagonista, si limitò a significa­ re al senato e al popolo la sua intenzione di dare assetto alle pro­ vince orientali. In privato parlava di Negro col piu affettuoso ri­ guardo, chiamandolo suo vecchio amico e successore designato12, e lodando altamente il suo generoso disegno di vendicare la morte di Pertinace. Era dovere di ogni generale romano punire il vile usurpatore del trono; ma perseverare nelle ostilità e resistere ad un legittimo imperatore, riconosciuto dal senato, bastava a render­ lo colpevole \ I figli di Negro erano caduti nelle sue mani, insieme a quelli degli altri governatori provinciali, ed erano trattenuti a Roma come ostaggi per la fedeltà dei loro genitori4. Finché la po­ tenza di Negro fu da temere, o almeno da rispettare, Severo li fece educare colla piu tenera cura insieme ai propri figli; ma presto fu­ rono coinvolti nella rovina del padre e sottratti, prima coll’esilio e poi colla morte, alla vista e alla compassione del popolo5. 1 ERODIANO, II, p. 8.5. 2 Mentre Severo era gravemente infermo, fece correre la voce che intendeva designare A lbin o e Negro come suoi successori. Non essendo possibile che fosse sincero con entrambi, forse non lo fu con nessuno dei due; ma spinse la sua ipocrisia fino ad attestare quella sua in­ tenzione nelle memorie della sua vita. 3 Hist. August., p. 65. 4 Questa usanza, inventata da Commodo, si dimostrò utilissima a Severo. Trovò a Roma i figli di molti aderenti dei suoi rivali, e se ne servi piti di una volta per intimidire, o sedurre i loro genitori. 5 ERODIANO, n i, p. 96; Hist. August., pp. 67, 68.

GUERRE E VITTORIA DI SEVERO SUI RIVALI

113

Mentre Severo era occupato nella guerra in Oriente, aveva ra- verso^ gione di temere che il governatore della Britannia passasse il mare e le Alpi, occupasse la sede vacante dell’impero e si opponesse al suo ritorno coll’autorità del senato e colle forze dell’Occidente. L ’ambigua condotta di Albino, nel non assumere il titolo imperia­ le, lasciò campo alle trattative. Dimenticando le sue dichiarazioni di patriottismo, e la rivalità per il supremo potere, egli accettò la precaria dignità di cesare come ricompensa della sua fatale neu­ tralità. Finché la prima contesa non fu decisa, Severo trattò un uo­ mo, di cui aveva giurato la morte, con ogni segno di stima e riguar­ do. Ancora nella lettera, in cui gli annuncia la sconfitta di Negro, chiama Albino suo fratello e collega, gl’invia gli affettuosi saluti della moglie Giulia e dei figli e lo prega di mantenere gli eserciti e la provincia fedeli al loro comune interesse. I latori di questa let­ tera avevano l’ordine di presentarsi al cesare con rispetto, chiedere un’udienza privata e piantargli il pugnale nel cuore '. La congiura fu scoperta e il troppo credulo Albino passò alfine nel continente, preparandosi a un’impari lotta contro il suo rivale, che mosse ad affrontarlo alla testa di un vittorioso esercito di veterani. Le fatiche belliche di Severo non sembrano adeguate alla gran- Vicende dezza delle sue vittorie. Due azioni, l’una presso l’Ellesponto, l’al- civifi8uerre tra negli angusti passi della Cilicia, decisero della sorte di Negro; 194 le truppe europee dimostrarono la loro solita superiorità sugli Asiatici effeminati2. La battaglia di Lione, dove combatterono cen­ tocinquantamila Romani3,· fu ugualmente fatale ad Albino. Le va­ lorose truppe della Britannia sostennero bensì una lotta accanita e 197 incerta contro le disciplinate legioni illiriche, tanto che la fama e la persona di Severo sembrarono per pochi momenti irreparabil­ mente perdute; ma alla fine questo principe bellicoso rianimò le 1 sue truppe vacillanti e le ricondusse a una vittoria decisiva4. La guerra fu conclusa da questa memorabile battaglia. Le guerre civili dell’Europa moderna sono state contraddistin- decise te non solo dalla fiera inimicizia, ma anche dalla ostinata perseve- “ due"3 ranza delle fazioni nemiche. Esse sono state generalmente giustifi- battaghe cate con qualche principio, o almeno colorite con qualche pretesto di religione, di libertà, o di dovere. I capi erano nobili, provvisti di censo e d’influenza ereditaria. I soldati combattevano come uomi1 Hist. August., p 84. Sparziano riporta integralmente questa lettera interessante. 2 Si consultino il terzo libro di Erodiano e il settantaquattresimo d i Dione Cassio. 3 DIONE CASSIO, LXXV, p. 1260. 4 Ibid ., p. 1261; ERODIANO, in , p. n o ; Hist. August., p. 68. La battaglia fu combattu­ ta nella pianura di Trevoux a tre o quattro leghe da Lione, tillem o n t , I I I , p. 406, nota 18.

114

Assedio di Bisanzio

C A P IT O L O Q U IN TO

ni interessati nella decisione della contesa, e poiché lo spirito mili­ tare e lo zelo di parte erano largamente diffusi in tutta la società, un capo sconfìtto veniva immediatamente soccorso da nuovi ade­ renti, desiderosi di spargere il loro sangue per la stessa causa. Ma i Romani, dopo la caduta della repubblica, non combattevano che per la scelta di un padrone. La bandiera di un pretendente all’im­ pero era seguita da pochi per affetto, da alcuni per timore, da molti per interesse, da nessuno per principio. Le legioni, non infiammate dallo zelo di parte, erano allettate alla guerra civile da generosi do­ nativi e da ancor più generose promesse. Una sconfitta, togliendo al generale i mezzi di soddisfare ai suoi impegni, scioglieva i suoi soldati mercenari dal giuramento e permetteva loro di provvedere alla propria salvezza, abbandonando tempestivamente una causa perduta. Poco importava alle province a nome di chi fossero op­ presse o governate. Sospinte dall’impulso del potere costituito, ap­ pena questo cedeva a una forza superiore si affrettavano a implo­ rare la clemenza del vincitore, il quale, dovendo pagare un suo im­ menso debito, sacrificava le province piu colpevoli all’avidità dei suoi soldati. Nella vasta estensione dell’impero romano vi erano poche città fortificate, che potessero dare asilo a un esercito scon­ fitto, né vi era persona, famiglia, o classe che col suo solo credito, non sostenuto dal potere del governo, fosse capace di rialzare le sorti di un partito soccombente '. Nella guerra tra Negro e Severo una sola città merita una men­ zione onorevole. Bisanzio, essendo uno dei passaggi piu importan­ ti dall’Europa all’Asia, era stata dotata di una forte guarnigione, e una flotta di cinquecento navi stava ancorata nel porto12. L ’impeto di Severo rese vano questo prudente apparato di difesa; lasciati i suoi generali all’assedio di Bisanzio, forzò il meno difeso passo dell’Ellesponto, e sdegnando di combattere un debole nemico, si af­ frettò ad affrontare il rivale. Bisanzio, assalita da un numeroso e crescente esercito, e poi da tutte le forze navali dell’impero, so­ stenne un assedio di tre anni, restando fedele al nome e alla memo­ ria di Negro. I cittadini e i soldati (non si sa per qual ragione) era­ no animati da eguale furore; parecchi dei piu alti ufficiali di Negro, che sdegnavano il perdono, o disperavano di ottenerlo, si erano gettati in quell’ultimo rifugio. Le fortificazioni erano ritenute ine­ spugnabili, e un celebre ingegnere impiegò nella difesa di quella 1 Montesquieu , Considérations sur la grandeur et la décadettce des Romains, 12. 2 In maggioranza, come si può supporre, erano piccole imbarcazioni, ma alcune erano galee a due, e poche altre a tre ordini di remi.

G U E R R E E V IT T O R IA D I SE V E R O S U I R IV A L I

115

piazza tutte le forze della meccanica conosciuta agli antichi \ Bisan­ zio alla fine si arrese per fame. I magistrati e i soldati furono pas- 196 sati per le armi, le mura abbattute, i privilegi soppressi; e quella città, che doveva poi essere la capitale dell’Oriente, divenne un piccolo villaggio indifeso e soggetto alla insultante giurisdizione di Perinto. Lo storico Dione, che aveva ammirato il florido stato di Bisanzio e deplorato la sua rovina, accusò Severo di aver privato per vendetta il popolo romano del baluardo più forte contro i bar­ bari del Ponto e dell’Asia2. La verità di questa osservazione fu an­ che troppo bene attestata nel secolo seguente, quando le flotte dei Goti occuparono il Ponto Eusino e penetrarono per l’indifeso Bo­ sforo nel centro del Mediterraneo. Negro e Albino furono scoperti e uccisi mentre fuggivano dal Morte campo di battaglia. La loro fine non destò né sorpresa, né compas- e A ib S o . sione. Avevano giocato la vita per un impero, e subirono ciò che conseguenze avrebbero inflitto se avessero vinto, né d’altra parte Severo ambiva di mostrarsi tanto superiore, da tollerare che i suoi rivali re­ stassero in vita come privati. Ma il suo carattere vendicativo, sti­ molato dall’avidità, lo spinse alla vendetta quando non aveva più nulla da temere. I provinciali più ragguardevoli, che senza avver­ sione alcuna per il fortunato pretendente avevano ubbidito al go­ vernatore, sotto l’autorità del quale si erano casualmente trovati, furono puniti con la morte, con l’esilio e specialmente con la confi­ sca dei beni. Molte città dell’Oriente furono private dei loro anti­ chi privilegi e obbligate a pagare al tesoro di Severo il quadruplo delle somme che avevano erogato al servizio di Negro3. Finché non ebbe vinto definitivamente, la crudeltà di Severo Animosità fu in qualche modo frenata dall’incertezza dell’esito e dal suo pre" contro teso rispetto per il senato; ma la testa di Albino, accompagnata da 11senat0 una lettera minacciosa, annunciò ai Romani che egli era deciso a sterminare tutti gli aderenti dei suoi sventurati competitori. Egli era irritato dal giustificato sospetto di non essere mai stato amato dal senato, e mascherò la sua antica animosità col pretesto di aver scoperto dei complotti. Perdonò tuttavia generosamente a trentacinque senatori, accusati di aver favorito il partito di Albino, e si sforzò poi con la sua condotta di convincerli che aveva dimentica1 L ’ingegnere si chiamava Prisco. La sua abilità gli salvò la vita, e fu preso al servizio del vincitore. Per i particolari dell’assedio, si consultino Dione Cassio ( lx x v , p. 1251) ed Erodiano (in , p. 95). Per la teoria, si può consultare il fantasioso Folard (Polybe, I , p. 76). 2 Nonostante l ’autorità di Sparziano e di alcuni Greci moderni, possiamo essere certi, per l ’attestazione di D ione Cassio e di Erodiano, che Bisanzio era in rovina ancora molti anni do­ po la morte di Severo. 3 DIONE CASSIO, LXXIV, p. 1 2 ,5 0 .

11(5

S u a saggezza e g iu s tiz ia d e l su o go vern o

P ace e p r o s p e r ità g e n e r a le

CAPITOLO QUINTO

to, e perdonato, le loro supposte offese; ma al tempo stesso con­ dannò altri quarantuno1 senatori, dei quali la storia ci ha traman­ dato i nomi. Le vedove, i figli e anche i clienti li seguirono nella tomba e i piu nobili provinciali della Spagna e della Gallia furono coinvolti nella stessa rovina. Una cosi rigida giustizia, giacché co­ si la chiamava, era secondo Severo la sola condotta valevole ad as­ sicurare la pace al popolo, o la stabilità al principe; e si degnò di deplorare sprezzantemente che, per poter essere clemente, gli era prima necessario esser crudele2. Il vero interesse di un monarca assoluto coincide in genere con quello dei suoi sudditi. Il loro numero, la ricchezza, l’ordine e la sicurezza loro sono le sole e piu salde basi della sua vera grandez­ za; e quando fosse totalmente privo di virtù, la prudenza potrebbe farne le veci e dettargli le stesse regole di condotta. Severo consi­ derava l’impero romano come sua proprietà, e appena se ne fu as­ sicurato il possesso, rivolse ogni sua cura a coltivare e migliorare un acquisto cosi prezioso. Leggi salutari, rigidamente applicate, corressero ben presto la maggior parte degli abusi, che dalla morte di Marco Aurelio si erano introdotti in ogni parte del governo. Nell’amministrazione della giustizia, le sentenze dell’imperatore erano emesse con attenzione, discernimento e imparzialità; e se talora deviava da una stretta equità, lo faceva in genere per favo­ rire i miseri e gli oppressi, non tanto, a dir vero, per sentimento di umanità, quanto per la naturale inclinazione del despota a umilia­ re l’orgoglio dei grandi e a ridurre tutti i sudditi allo stesso comu­ ne livello di assoluta dipendenza. Il suo gusto dispendioso per gli edifici e i magnifici spettacoli, e soprattutto la distribuzione gene­ rosa e costante di grano e di viveri, furono i mezzi piu sicuri per cattivarsi l’amore del popolo romano3. Le sventure della guerra civile furono dimenticate, le province godettero un’altra volta pa­ ce e prosperità, e molte città, restaurate dalla munificenza di Seve­ ro, presero il titolo di sue colonie e attestarono con pubblici mo­ numenti la loro gratitudine e felicità4. Questo bellicoso e fortunaDione Cassio ( lxxv , p. 1264) nomina ventinove senatori soltanto; ma nella H istoria Augusta (p. 69) ne sono ricordati quarantuno, tra i quali sei con il nome di Pescennio. Erodiano (in , p. 115) parla in generale delle crudeltà di Severo. 2 AURELIO VITTORE. DiOiffi ca ssio , lxxvi , p. 1272; Hìst. A u g u s t p. 67. Severo celebrò i giuochi secolari con magnificenza straordinaria, e lascio nei pubblici granai una provvista di grano per sette anni, in ragione di settantacinquemila modii, circa duemilacinquecento quarti, al giorno. Cre­ do che 1 granai di Severo fossero provvisti per molto tempo, ma credo altresì che la politica e 1 ammirazione abbiano molto esagerato il vero. e trattat0 di Spanheim sulle medaglie antiche, le iscrizioni e i dotti viaggiatori bpon e Wheeler, Shaw, Pocock, ecc,, che n ell’Africa, nella Grecia e n ell’Asia hanno trovato piu monumenti di Severo che di ogni altro imperatore romano.

RILASSAMENTO DELLA DISCIPLINA MILITARE

to imperatore1 rese alle armi romane la loro fama, e con giusto or­ goglio si vantò di avere ricevuto l’impero oppresso da guerre ester­ ne e interne, e di lasciarlo tranquillo in una pace profonda, univer­ sale e gloriosa \ Sebbene le ferite della guerra civile sembrassero perfettamente R i l a s s a m e n t o rimarginate, il suo veleno mortale insidiava ancora gli organi dello d i s c i p l i n a stato. Severo era dotato di notevole vigore e abilità; ma Panimo mihtate audace del primo dei Cesari, o la profonda politica di Augusto, avrebbero a malapena potuto piegare l’insolenza delle vittoriose legioni. Per gratitudine, malintesa politica e apparente necessità, Severo fu indotto ad allentare il freno della disciplina militare3. Lusingò la vanità dei soldati coll’onore di portare l’anello d’oro e permise loro di vivere nell’ozio dei quartieri colle proprie mogli. Aumentò la loro paga oltre ogni esempio del passato e li abituò ad attendersi, e ben presto a esigere, donativi straordinari in ogni oc­ casione di pericolo pubblico, o di pubbliche feste. Insuperbiti dal successo, snervati dal lusso e posti al di sopra degli altri sudditi con i loro pericolosi privilegi4, divennero presto incapaci di soste­ nere le fatiche militari, gravosi al paese e insofferenti di una giusta subordinazione. I loro ufficiali ostentavano la superiorità del loro grado con un lusso piu ricercato e profuso. Esiste ancora una lette­ ra di Severo, nella quale si lamenta della licenza dell’esercito ed esorta uno dei suoi generali a cominciare dai tribuni la necessaria riforma; giacché, come osserva giustamente, l’uificiale che ha per­ duto la stima dei suoi soldati non potrà mai ottenerne l’obbedien­ za 5. Se l’imperatore avesse seguito il corso di queste riflessioni, avrebbe veduto che la causa prima di questa generale corruzione doveva attribuirsi, se non certamente all’esempio, alla perniciosa indulgenza del comandante supremo. I pretoriani, che avevano ucciso il loro imperatore e venduto Ristabilìl’impero, ebbero il giusto castigo del loro tradimento; ma questo p r e t o r i a n i corpo, necessario sebben pericoloso, fu presto ricostituito da Se­ vero su nuove basi e quadruplicato di numero6. In origine queste truppe si reclutavano in Italia; ma quando le province finitime eb1 Portò le sue armi vittoriose fino a Seleucia e Ctesifone, capitali della monarchia dei Parti. Avrò occasione di parlare di questa guerra a suo luogo. 2 «Edam in Britannis». Era questa la sua giusta ed enfatica espressione {Hìst. August., P · 73 ).

3 ERODIANO, n i, p.

i i j ; H ìst. August., p. 68. . 4 Sull’insolenza e sui privilegi dei soldati si può consultare la satira sedicesima falsa­ mente attribuita a Giovenale. Lo stile e le circostanze m’inducono a credere che fosse com­ posta sotto il regno di Severo, o di suo figlio. 5 Hìst. August., p. 73.

6 ERODIANO, III, p. 131.

ιι8

I l prefetto del pretorio

I l senato oppresso dal dispotismo militare

CAPITOLO QUINTO

bero a poco a poco adottato i molli costumi di Roma, il recluta­ mento venne esteso alla Macedonia, al Norico e alla Spagna. Inve­ ce di quelle truppe eleganti, piu adatte alla pompa della corte che alle fatiche della guerra, Severo stabili che si scegliessero periodi­ camente da tutte le legioni delle frontiere i soldati piu forti, valo­ rosi e fedeli, promuovendoli a titolo d’onore e di premio, al piu gradito servizio di pretoriani1. Con questa nuova istituzione, la gioventù italiana fu allontanata dall’esercizio delle armi e la capi­ tale fu atterrita dal fiero aspetto e dagli strani costumi di una mol­ titudine di barbari. Ma Severo si lusingava che le legioni avrebbero considerato quei pretoriani, scelti tra loro, come rappresentanti di tutto l’ordine militare; e che la presenza di cinquantamila uomini, superiori per armi e per soldo a qualsiasi esercito che si potesse mettere in campo contro di loro, frustrerebbe per sempre ogni spe­ ranza di ribellione, assicurando l’impero a lui e ai suoi discendenti. Il comando di queste truppe favorite e temute divenne subito la prima carica dell’impero. Poiché il governo era degenerato in un dispotismo militare, il prefetto del pretorio, che in origine era un semplice comandante dei pretoriani, non solo fu messo a capo del­ l ’esercito, ma anche delle finanze e perfino delle leggi. In ogni di­ castero del governo egli rappresentava la persona dell’imperatore e ne esercitava l’autorità. Il primo prefetto, che godesse e abusasse di questo immenso potere, fu Plauziano, ministro favorito di Seve­ ro. Egli regnò, per cosi dire, dieci anni, finché il matrimonio di sua figlia con il primogenito dell’imperatore, che pareva dovesse assi­ curare la sua fortuna, divenne l’occasione della sua rovina2. G l’in­ trighi della corte, eccitando l’ambizione e suscitando i timori di Plauziano, minacciarono di produrre una rivoluzione e obbligaro­ no l’imperatore, che ancora l’amava, ad acconsentire suo malgrado alla sua morte3. Dopo la caduta di Plauziano, un eminente giureconsulto, il celebre Papiniano, fu chiamato a occupare la multifor­ me carica di prefetto del pretorio. Fino al regno di Severo, gl’imperatori virtuosi, o almeno pru­ denti, si erano segnalati per il loro zelo o l’affettata deferenza ver­ so il senato, e per lo scrupoloso ossequio al delicato sistema poli­ 1 DIONE CASSIO, LXXIV, p. 1243. 2 Uno degli atti più audaci e arbitrati del suo dispotismo fu la castrazione di cento Ro­ mani liberi, alcuni dei quali maritati e anche padri di famiglia, soltanto perché la figlia, nel suo matrimonio con il giovane imperatore, potesse avere un seguito di eunuchi degno di una regina orientale (dione cassio , lxxvi , p. 1271). 3 mone cassio , lxxvi , p. 1274; erodiano, in , pp. 122, 129. I l grammatico di Alessan­ dria pare, caso non insolito, m olto meglio informato di questo misterioso affare, e piu certo della colpa di Plauziano, di quanto non osi esserne il senatore romano.

NUOVE MAS SIME DI GOVERNO

119

tico istituito da Augusto; ma Severo aveva passato la gioventù nel­ la cieca obbedienza e l’età matura nel dispotismo del comando mi­ litare. Il suo carattere altero e inflessibile non seppe scoprire, o non volle riconoscere, il vantaggio di mantenere un potere intermedio, per quanto immaginario, tra l’imperatore e l’esercito. Sdegnava di professarsi servo di un’assemblea, che lo detestava e tremava al suo cospetto. Comandava, quando pregare sarebbe stato ugualmen­ te efficace, e assunse il comportamento e lo stile di un sovrano e di un conquistatore, esercitando senza finzioni tutto il potere legi­ slativo e quello esecutivo. Questa vittoria sul senato era facile e senza gloria. Tutti gli oc­ Nuove massime chi e tutte le passioni si rivolsero verso il supremo magistrato, pa­ del potere imperiale drone delle armi e delle ricchezze dello stato, mentre il senato, non eletto dal popolo, non difeso dalle armi, né animato da spirito pa­ triottico, appoggiava la sua declinante autorità sulla base debole e vacillante dell’antica opinione. La bella teoria d’una repubblica svanì insensibilmente per dar luogo ai più naturali e sostanziali sentimenti della monarchia. A misura che la libertà e gli onori di Roma si estendevano alle province, alle quali l’antico governo era sconosciuto o odioso, la tradizione delle massime repubblicane si andò gradatamente cancellando. Gli storici greci del secolo degli Antonini1 osservano con maligno piacere, che sebbene il sovrano di Roma, per rispetto a un antiquato pregiudizio si fosse astenuto dal prendere il nome di re, ne possedeva tutto il potere. Sotto il regno di Severo, il senato fu pieno di schiavi colti ed eloquenti ve­ nuti dalle province orientali, i quali giustificavano l’adulazione con teorie sulla schiavitù. Questi nuovi avvocati del dispotismo erano con piacere ascoltati dalla corte e con pazienza dal popolo, quando inculcavano i doveri dell’obbedienza passiva e discettavano sui ma­ li inevitabili della libertà. I giureconsulti e gli storici si accordava­ no nell’insegnare che l’autorità imperiale non si fondava su una delega di poteri, ma sulla irrevocabile rinuncia del senato, e che l’imperatore, libero dal vincolo delle leggi, poteva disporre a suo arbitrio della vita e dei beni dei sudditi e valersi dell’impero come d’un suo patrimonio privato2. I più illustri giureconsulti, e spe­ cialmente Papiniano, Paolo e Ulpiano, fiorirono sotto gl’imperato­ ri della casa di Severo; e la giurisprudenza romana, strettamente 1 appiano, Proem. 2 Dione Cassio pare abbia scritto con il solo fine di unire queste opinioni in un sistema storico. Le Pandette mostrano con quanta assiduità i giureconsulti si adoperassero per soste­ nere le prerogative imperiali.

120

C A P IT O L O Q U IN TO

legata al sistema della monarchia, si considerava giunta alla sua piena maturità e perfezione. I contemporanei di Severo, godendo della tranquillità e della gloria del suo regno, perdonarono le crudeltà con cui si era affer­ mato; ma i posteri, che provarono i funesti effetti delle sue massi­ me e del suo esempio, giustamente lo considerarono come il prin­ cipale autore della decadenza dell’impero romano.

CAPITOLO SESTO

Morte di Severo. Tirannia di Caracolla. Usurpazione di Macrino. Follie di Eliogabalo. Virtù di Alessandro Severo. Sfrenata licenza dell’ esercito. Stato generale delle finanze romane.

L ’ascesa alla grandezza, sebbene ripida e pericolosa, può occu­ pare uno spirito intraprendente con la coscienza e l’esercizio delle proprie forze; ma il possesso di un trono non ha mai potuto soddi­ sfare durevolmente un animo ambizioso. Severo senti e riconobbe questa triste verità. La fortuna e il merito lo avevano da un umile stato elevato al primo posto tra gli uomini. Egli era stato « ogni cosa », come diceva egli stesso, « e tutto era di poco valore » ‘. Oc­ cupato dalla cura non di acquistare, ma di conservare un impero, oppresso dall’età e dalle malattie, incurante della gloria12 e sazio del potere, la vita non aveva più prospettive per lui; il desiderio di perpetuare la grandezza della propria famiglia era il solo che re­ stasse alla sua ambizione e al suo paterno affetto. Come la maggior parte degli Africani, Severo era un appassio­ nato dei vani studi della magia e della divinazione, profondamente versato nell’interpretazione di sogni e presagi e dottissimo nell’astrologia, scienza che quasi in ogni secolo, tranne nel nostro, ha dominato lo spirito umano. Quand’era governatore della Gallia Lionese, aveva perduto la prima moglie3. Nella scelta della secon­ da, non pensò che a unirsi con una favorita dalla fortuna, e avendo scoperto che una giovane dama di Emesa in Siria era nata sotto una costellazione che presagiva il trono, ne chiese e ottenne la ma­ no 45 . Giulia Domna (tale era il suo nome) meritava tutto ciò che gli astri le promettevano. Conservò fino in età avanzata la bellezza della personas, e uni a una vivace immaginazione, fermezza d’ani1 H ist. August., p. 71. «O m nia fui, et nihil expedit». 2 DIONE CASSIO, LXXVI, p. 1284. 3 Circa l ’anno 186. Tillem ont è miseramente imbarazzato da un passo di Dione Cassio, nel quale l ’imperatrice Faustina, morta l ’anno 177, è ricordata per avere contribuito al ma­ trimonio di Severo e di G iulia ( l x x i v , p. 1243). Questo dotto compilatore ha dimenticato che Dione Cassio non riferisce un fatto reale, ma un sogno di Severo; e i sogni non sono cir­ coscritti da confini di tempo, o di luogo {Hist. des Empereurs, I I I , p. 389, nota 6). 4 Hist. August., p. 63. 5 lb id ., p. 83. 6

Grandezza e malcontento di Severo

Sua moglie G iulia

12 2

I loro due figli Caracalla e Geta

Loro reciproca avversione

Tre imperatori

CAPITOLO SESTO

mo e maturità di giudizio, doti raramente concesse al suo sesso. Le sue amabili qualità non fecero mai grande impressione sull’animo cupo e geloso del marito; ma nel regno del figlio essa amministrò gli affari principali dell’impero con una saggezza, che sostenne l’au­ torità di Caracalla, e con una moderazione, che ne corresse talvolta le stravaganti follie1. Giulia si applicò alle lettere e alla filosofia con qualche successo e con la piu splendida reputazione. Era pro­ tettrice di tutte le arti e amica d’ogni uomo d’ingegno2. La ricono­ scente adulazione dei letterati ha celebrato le sue virtù; ma se dob­ biamo credere ai pettegolezzi degli storici antichi, la castità non era precisamente la virtù più cospicua dell’imperatrice Giulia3. Due figli, Caracalla4e Geta, furono il frutto di quel matrimo­ nio e gli eredi presunti dell’impero; ma le ardenti speranze del pa­ dre e dei Romani vennero presto deluse da questi vani giovani, che già mostravano l’indolente sicurezza dei principi ereditari e la pre­ sunzione che la fortuna avrebbe supplito al merito e all’applica­ zione. Senza alcuna emulazione di virtù o di doti, quasi fin dall’in­ fanzia mostrarono una reciproca, costante e implacabile antipatia. Quest’avversione, cresciuta con gli anni e fomentata dalle arti dei loro interessati favoriti, si manifestò da principio in gare fanciulle­ sche, che a poco a poco si fecero più serie e finalmente divisero il teatro, il circo e la corte in due fazioni, animate dalle speranze e dai timori dei rispettivi capi. Il saggio imperatore tentò in tutti i modi, con le ammonizioni e con l’autorità, di attenuare questa ini­ micizia sempre crescente. La funesta discordia dei figli oscurava tutte le sue prospettive e minacciava di rovesciare un trono eretto con tanta fatica, cementato con tanto sangue e difeso coll’impiego di tante armi e di tante ricchezze. Egli ripartiva fra loro con mano imparziale ugualmente il suo favore, conferì a entrambi il titolo di augusto, col venerato nome di Antonino, cosi che per la prima vol­ ta il mondo romano ebbe tre imperatori5; ma anche questa impar­ zialità non servi che a inasprire la contesa. Il fiero Caracalla soste­ neva il suo diritto di primogenitura, mentre il mite Geta cercava 1 DIONE CASSIO, LXXVII, pp. I304, I314. 2 Vedi una dissertazione di Ménage, in fine alla sua edizione di Diogene Laerzio, De foeminis pbilosophis. 3 DIONE CASSIO, LXXVI, p. 1283; AURELIO VITTORE. 4 Bassiano era il suo primo nome, che era quello del suo avo materno. Durante il regno prese il nome di Antonino, usato dai giureconsulti e dagli storici. Dopo la sua morte, la pub­ blica indignazione gli affibbiò i soprannomi di Taranto e di Caracalla. I l primo era quello di un celebre gladiatore, il secondo gli fu dato per una lunga veste alla foggia dei G alli, che egli distribuì al popolo romano 5 L ’elevazione d i Caracalla è fissata dall’esatto Tillem ont all’anno 198, l ’associazione di Geta all’anno 208.

MORTE DI SEVERO

123

di cattivarsi l’affetto del popolo e dei soldati. Nell’angoscia di un padre deluso, Severo predisse che il più debole dei suoi figli ca­ drebbe vittima del più forte, che a sua volta sarebbe poi stato ro­ vinato dai propri vizi ‘. In queste circostanze, Severo accolse con piacere la notizia di Guerra di Caledonia una guerra nella Britannia e di una invasione in quella provincia (208) dei barbari del Settentrione. Sebbene la vigilanza dei suoi genera­ li fosse sufficiente a respingere quel lontano nemico, egli decise di approfittare di quel pretesto onorevole per allontanare i suoi figli dai piaceri della capitale, che snervavano i loro animi ed eccita­ vano le loro passioni, e per assuefare la loro giovinezza alle fatiche della guerra e del comando. Nonostante la sua età avanzata (aveva allora più di sessant’anni) e la gotta che l’obbligava a farsi portare in lettiga, andò in quell’isola lontana, accompagnato dai figli, da tutta la corte e da un formidabile esercito. Passò immediatamente il vallo di Adriano e quello di Antonino e penetrò nel paese nemi­ co, col piano di completare la conquista cosi lungamente tentata della Britannia. Si spinse fino all’estremità settentrionale dell’iso­ la senza incontrare nemici; ma le imboscate dei Caledoni, che se­ guivano non visti la retroguardia o i fianchi dell’esercito, il rigore del clima e le fatiche di una marcia invernale per le montagne e le paludi della Scozia, si dice costassero ai Romani cinquantamila uo­ mini. I Caledoni si arresero alla fine a quell’ostinato e potente at­ tacco, chiesero la pace e cedettero al vincitore una parte delle armi e un vasto tratto di territorio. Ma la loro apparente sottomissione non durò più del timore; appena le legioni romane si furono riti­ rate, essi ripresero la loro ostile indipendenza. La loro turbolenza provocò Severo a mandare nella Caledonia un altro esercito, coi più sanguinosi ordini, non di soggiogare, ma di sterminare gli abi­ tanti. Li salvò la morte del loro fiero nemico2. Questa guerra di Caledonia, non distinta da avvenimenti deci­ Fingai e i suoi sivi, né seguita da conseguenze importanti, meriterebbe appena la eroi nostra attenzione, se non si supponesse con grande probabilità che l’invasione di Severo appartiene al periodo più luminoso della sto­ ria, o della leggenda d’Inghilterra. Fingai, del quale un’opera re­ cente ha fatto rivivere nella nostra lingua la fama con quella dei bardi e degli eroi di quel tempo, si dice comandasse i Caledoni in quella memorabile circostanza. Egli avrebbe eluso la potenza di Severo e riportato sulle rive del Carun una segnalata vittoria, nella 1 ero diano , i n , p. 130. Si vedano le vite di Caracalla e di Geta nella Historia Augusta, 2 DIONE CASSIO, LXXVI, p p . 1280 Sgg.; ERODIANO, III, p p . 132 Sgg.

CAPITOLO SESTO

I2 4

Contrasto

£raeCRomani

Ambizione

di caracaiia

di Severo

edèdsuoì due figli (4 febbraio

211)

quale il figlio del « re del mondo », Caracul, fuggì dalle sue armi attraverso i campi del suo orgoglio \ Queste tradizioni scozzesi sono ancora velate da una incerta nebbia, che le piu ingegnose ricerche dei critici moderni non hanno potuto interamente dissipare12; ma se si potesse sicuramente accogliere la seducente ipotesi che Fingai sia vissuto e Ossian abbia cantato, il forte contrasto della situazione e dei costumi dei due popoli in lotta potrebbe occupare uno spirito speculativo. Il parallelo non sarebbe molto vantaggioso al popolo piu progredito, quando si paragoni la vendetta implacabile di Se­ vero con la generosa clemenza di Fingai, la vile e brutale crudeltà di Caracalla col valore, l’affetto e il genio elegante di Ossian, i capi mercenari, che per timore o interesse servivano sotto le insegne imperiali, con i liberi guerrieri, che alla voce del re di Morven prendevano le armi, quando in una parola si osservino i rudi Caledoni, ardenti per le calde virtù naturali, e i Romani degeneri, corrotti dai bassi vizi della ricchezza e della schiavitù. La declinante salute e l ’ultima malattia di Severo infiammarono sfrenata ambizione e le nere passioni di Caracalla. Insofferente di ogni indugio o divisione dell’impero, egli tentò più di una volta di abbreviare quei pochi giorni di vita che restavano al padre e si provò, ma invano, di suscitare un ammutinamento fra le truppe \ Il vecchio imperatore aveva spesso criticato la malintesa indulgen­ za di Marco Aurelio, che con un solo atto di giustizia avrebbe po­ tuto salvare i Romani dalla tirannia del suo indegno figlio. Trovan­ dosi nelle stesse condizioni, provò quanto facilmente il rigore del giudice si dissolva nell’affetto del padre. Egli deliberava, minac­ ciava, ma non sapeva punire; e questo suo ultimo e solo esempio di clemenza fu più dannoso all’impero della lunga serie delle sue crudeltà4.1 turbamenti dell’animo irritarono i mali del corpo; egli desiderava impazientemente la morte e questa sua impazienza ne affrettò la venuta. Mori a York a sessantacinque anni, dopo diciotto anni ^ un re8no fortunato e glorioso. Nei suoi ultimi istanti raccomandò la concordia ai suoi figli, e i suoi figli all’esercito. Il 1 . . , . 0 salutare ammonimento non giunse al cuore, anzi neppure alla men­ 1 Ossian , Poems, I, p. 175. 2 Che il Caracul di Ossian sia il Caracalla della storia romana è forse il solo punto delle antichità britanniche, nel quale Macpherson e W hitaker sono della stessa opinione; eppure l ’opinione non è senza difficoltà. N ella guerra dei Caledoni, il figlio di Severo era conosciuto soltanto con il nome di Antonino, e può parere strano, che il poeta scozzese lo abbia indicato con un soprannome, inventato quattro anni dopo, poco usato dai Romani fin dopo la morte d ell’imperatore e raramente impiegato dai più antichi storici, dio ne c a s s i o , l x x v i i , p. 1317; Hist. August., p. 89; Au r e l io v it t o r e ; e u s e b io , Chron., anno 214. 3 DIONE CASSIO, LXXVI, p. 1282;

H tS t. A u g U S t.,

4 DIONE CASSIO, LXXVI, p. 1283;

H lS l. A u g U S t.,

p. 72; AURELIO VITTORE. p. 89.

TIRANNIA DI CARACALLA

125

te di quei giovani impetuosi; ma le truppe, più obbedienti, memo­ ri del loro giuramento di fedeltà e dell’autorità dell’estinto sovra­ no, resistettero alle sollecitazioni di Caracalla e proclamarono am­ bedue i fratelli imperatori di Roma. I nuovi principi lasciarono subito i Caledoni in pace, ritornarono alla capitale, celebrarono i funerali del padre con onori divini e furono riconosciuti sovrani legittimi dal senato, dal popolo e dalle province. Pare che al mag­ giore si concedesse una certa superiorità di grado; ma entrambi governavano l ’impero con potere eguale e indipendentel. Una tale divisione di governo avrebbe generato discordie fra i fratelli più affezionati; era impossibile che potesse durare lunga­ mente tra due implacabili nemici, che non volevano una riconcilia­ zione, né potevano fidarsene. Era chiaro che uno solo poteva re­ gnare e che l’altro doveva perire; e ciascuno di loro, dai propri di­ segni giudicando quelli del rivale, usava la più assidua vigilanza per difendersi dai ripetuti assalti del veleno e della spada. Il loro rapido viaggio per la Gallia e l’Italia, durante il quale non mangia­ rono mai a una stessa tavola, o dormirono in una stessa casa, pre­ sentò alle province l’odioso spettacolo della discordia fraterna. Arrivati a Roma, si divisero immediatamente il vasto palazzo im­ periale \ Non fu lasciata alcuna comunicazione tra i loro apparta­ menti; le porte e i passaggi furono diligentemente fortificati e mes­ se le sentinelle, stabilendo turni di guardia come in una località assediata. G l’imperatori non s’incontravano che in pubblico, in presenza dell’afflitta madre e ciascuno circondato da una numerosa schiera di armati; e anche nelle pubbliche cerimonie, la dissimu­ lazione delle corti non riusciva a mascherare il rancore dei loro cuori3. Questa latente guerra intestina cominciava già a lacerare lo sta­ to, quando fu suggerito un piano, che pareva ugualmente vantag­ gioso ai due fratelli nemici. Fu proposto che, non essendo possibi1 DIONE CASSIO, LXXVI, p. 1284; ERODIANO, III, p. I33.

1 Hume

si meraviglia con ragione di un passo di Erodiano (iv, p. 139), che rappresenta il palazzo degrimperatori come uguale in estensione al resto di Roma. Il Palatino, sul quale era costruito, aveva al piu undici o dodicimila piedi di circonferenza (si vedano la Notitia e Vittore in Roma antica del Nardini). Ma va ricordato che i palazzi suburbani e g l’immensi giardini dei ricchi senatori circondavano quasi tutta la città, e che g l’imperatori ne avevano a poco a poco confiscata quasi la maggior parte. Se Geta dimorava sul Gianicolo nei giardini che portavano il suo nome e Caracalla abitava nei giardini di Mecenate sull’Esquilino, i fra­ telli rivali erano separati l ’uno dall’altro per un tratto di diverse miglia. Lo spazio interme­ dio era occupato dai giardini imperiali di Sallustio, Lucullo, Agrippa, Domiziano, Caio, ecc. Questi giardini formavano un cerchio intorno alla capitale, e comunicavano fra loro e con il palazzo per mezzo di vari ponti sul Tevere e sulle strade. Se questo passo di Erodiano me­ ritasse di essere spiegato, esigerebbe una dissertazione particolare, illustrata da una carta del­ l’antica Roma.

3 ERODIANO, IV, p. 139.

Gelosia e odio dei due imperatori

Vani negoziati per dividere l ’impero fra loro

12 6

Assassinio di Geta (27 febbraio 212)

CAPITOLO SESTO

le riconciliare i loro animi, separassero i loro interessi e dividesse­ ro fra loro l’impero. Le condizioni del trattato erano già state re­ datte con una certa accuratezza. In esse si conveniva che Caracalla, come fratello maggiore, rimarrebbe padrone dell’Europa e del­ l’Africa occidentale, lasciando la sovranità dell’Asia e dell’Egitto a Geta, il quale poteva risiedere ad Alessandria, o ad Antiochia, città per opulenza e grandezza poco inferiori alla stessa Roma; che si terrebbero costantemente accampati numerosi eserciti sulle rive del Bosforo Tracio, per difendere le frontiere delle monarchie ri­ vali e che i senatori d’origine europea riconoscerebbero il sovrano di Roma, mentre quelli nati in Asia seguirebbero l’imperatore del­ l’Oriente. Le lacrime dell’imperatrice Giulia interruppero un ne­ goziato, la cui prima idea aveva riempito ogni petto romano di sor­ presa e d’indignazione. La vasta massa dell’impero era stata unita cosi intimamente dalla mano del tempo e della politica, che sareb­ be stata necessaria la piu grande violenza per separarla. I Romani avevano ragione di temere che le disgiunte membra sarebbero sta­ te presto riportate da una guerra civile sotto il dominio di un solo padrone; ma se la separazione fosse stata permanente, la divisione delle province si sarebbe risolta nella dissoluzione di un impero, l’unità del quale era fino allora rimasta inviolata \ Se quel trattato fosse stato eseguito, il sovrano d’Europa avreb­ be presto conquistato l’Asia; ma Caracalla riportò una vittoria piu facile sebbene piu scellerata. Finse di dare ascolto alle preghiere della madre e consenti di trovarsi nell’appartamento di lei col fra­ tello, per trattare le condizioni della pace e della riconciliazione. Nel mezzo del loro abboccamento, dei centurioni, che erano riu­ sciti a nascondersi, si avventarono colle spade sguainate sul misero Geta. La desolata madre si sforzò di salvarlo tra le sue braccia; ma in quella vana lotta fu ferita ella stessa a una mano e coperta del sangue del figlio minore, mentre vedeva il maggiore animare e as­ secondare 12 il furore degli assassini. Appena commesso il delitto, Caracalla corse inorridito alla caserma dei pretoriani come al suo unico rifugio e si gettò a terra davanti alle statue degli dèi tutela­ r i3. I soldati cercarono di alzarlo e confortarlo. Con rotte e confu­ 1 ERODIANO, IV, p. 144. 2 Caracalla consacrò, nel tempio di Serapide, la spada con la quale si vantava di avere ucciso suo fratello G eta. dione c a s s io , l x x v i i , p. 1307. 3 ero diano , iv, p. 147. In tutti i campi degli eserciti romani s’innalzava accanto al quartier generale una piccola cappella, nella quale si custodivano e adoravano le divinità tutelari. Le aquile e le altre insegne militari tenevano tra queste il primo posto. Questa eccellente isti­ tuzione rafforzava la disciplina con la sanzione della religione, g iu s t o l i p s i o , D e militia Ro­ mana, iv, % v, 2.

TIRANNIA DI CARACALLA

127

se parole egli li informò di essere felicemente sfuggito a un immi­ nente pericolo, sostenne di aver prevenuto i piani del suo nemico e dichiarò la sua decisione di vivere e morire con le sue fedeli trup­ pe. Geta era stato il favorito dei soldati; ma ogni recriminazione era vana, pericolosa la vendetta, ed essi rispettavano ancora il fi­ glio di Severo. Il loro malcontento sbolli in oziose mormorazioni e Caracalla li convinse subito della giustizia della sua causa, distri­ buendo loro con un prodigo donativo i tesori accumulati sotto il regno del padre I veri sentimenti dei soldati erano i soli che im­ portassero per la sua potenza, o sicurezza, e la loro dichiarazione in suo favore impose le devote espressioni del senato. Questa docile assemblea era sempre pronta a ratificare le decisioni della fortuna; ma poiché Caracalla voleva placare i primi moti della pubblica in­ dignazione, il nome di Geta fu ricordato con rispetto e gli furono resi gli onori funebri dovuti a un imperatore romano2. La posteri­ tà, deplorandone la sventura, ha gettato un velo sui suoi vizi. Noi consideriamo questo giovane principe come una vittima innocente dell’ambizione fraterna, senza ricordare che gli mancò il potere, non la volontà, di compiere lo stesso attentato omicida. Il delitto non restò impunito. Né le occupazioni, né i piaceri, né l ’adulazione valsero a difendere Caracalla dai rimorsi di una co­ scienza colpevole; ed egli confessò, tra le angosce di un animo mar­ toriato, che la sua fantasia malata spesso gli presentava le figure corrucciate del padre e del fratello, tornati in vita a minacciarlo e a rimproverarlo3. La coscienza del suo delitto avrebbe dovuto in­ durlo a convincere gli uomini, colle virtù del suo regno, che quel­ l’azione cruenta era stata l’involontario effetto di una fatale neces­ sità. Ma il pentimento di Caracalla lo spinse soltanto a eliminare tutto ciò che poteva ricordargli la sua colpa, o richiamare la me­ moria del fratello assassinato. Ritornando dal senato al palazzo, trovò la madre, che in compagnia di varie nobili matrone piangeva l’immatura fine del figlio minore. Il geloso imperatore la minacciò di morte immediata; la sentenza fu eseguita contro Fadilla, ultima figlia superstite dell’imperatore Marco Aurelio, e anche l’afflitta Giulia fu obbligata a soffocare i lamenti, a sopprimere i sospiri e a ricevere l’assassino con sorrisi di approvazione e di gioia. Si calco­ la che, col generico nome di amici di Geta, piu di ventimila persone d’ambo i sessi subirono la morte. Le guardie di Geta, i liberti, i 1 ERODIANO, IV, p. 148; DIONE CASSIO, LXXVII, p. 1289. 2 Geta fu collocato tra gli dèi. « S it divus, - disse il fratello, - dum non sit vivus» (Hist. August., p. 91). Si trovano ancora sulle medaglie tracce della consacrazione di Geta. 3 DIONE CASSIO, LXXVII, p. 13OI.

Rimorsi e crudeltà di Caracalla

128

Morte di Papiniano

CAPITOLO SESTO

ministri del suo governo e i compagni dei suoi piaceri, quanti per suo interessamento avevano ottenuto cariche nelle armate o nelle province coi loro numerosi clienti, furono compresi in quella pro­ scrizione, con la quale si cercò di sterminare chiunque avesse avuto la minima relazione con Geta, o ne deplorasse la morte, o soltanto ne pronunziasse il nome’. Elvio Pertinace, figlio dell’imperatore di questo nome, perse la vita per un motto imprudente \ Fu de­ litto sufficiente per Trasea Prisco, di discendere da una famiglia in cui l’amore della libertà pareva una qualità ereditaria3. I parti­ colari motivi di calunnia e di sospetto furono alla fine esauriti, e quando un senatore veniva accusato di essere segreto nemico del governo, l’imperatore si appagava della prova generica che fosse ricco e virtuoso. Stabilito saldamente questo principio, egli ne de­ dusse spesso le piu sanguinose conseguenze. Il supplizio di tante vittime innocenti era accompagnato dalle segrete lacrime dei loro amici e delle loro famiglie. La morte di Pa­ piniano, prefetto del pretorio, fu pianta come una pubblica calami­ tà. Negli ultimi sette anni di Severo, egli aveva esercitato i piu importanti uffici dell’impero, o guidato con i suoi saggi consigli i passi dell’imperatore sul sentiero della giustizia e della modera­ zione. Severo, ben conoscendone la virtù e le doti, sul letto di mor­ te lo scongiurò di vegliare sulla prosperità e unione della famiglia imperiale4. Le onorate fatiche di Papiniano servirono soltanto a infiammare l’odio, che già Caracalla aveva concepito contro il mi­ nistro del padre. Dopo l’assassinio di Geta, il prefetto ebbe ordine di usare tutta la sua perizia ed eloquenza, per fare una studiata apologia di quell’atroce misfatto. Il filosofo Seneca aveva accon­ disceso a comporre una consimile lettera al senato in nome del fi­ glio e assassino di Agrippina5. « È piu facile commettere un parri­ cidio, che giustificarlo », fu la nobile risposta di Papiniano6, che non esitò tra la perdita della vita e quella dell’onore. Una virtù co­ si intrepida, che si era mantenuta pura e illibata tra gl’intrighi del­ la corte, la consuetudine degli affari e i cavilli della sua professione,1 1 dione cassio , lxxvii , p. 1290; erodiano, iv, p. 150. Dione Cassio dice (p. 1298) che i poeti comici non osarono piu usare il nome di Geta nelle loro commedie, e che si confisca­ rono i beni di quanti avevano fatto legati a quel principe infelice. 2 Caracalla aveva preso i nomi di vari popoli vinti; e avendo egli riportato dei vantaggi sui Goti, o Geti, Pertinace osservò che il nome di «G etico», conveniva benissimo all’impe­ ratore dopo quelli di Partico, Alamannico, ecc. Hist. August., p. 89. 3 dione cassio , lxxvii , p. 1291. Discendeva probabilmente da Elvidio Prisco e da Tra­ sea Peto, cittadini illustri, dei quali Tacito ha reso immortale la intrepida, ma inutile e inop­ portuna virtù. 4 Si dice che Papiniano fosse parente dell’imperatrice Giulia. 5

tacito , Armai.,

xiv, 2. 6 Hist. August., p. 88.

TIRANNIA DI CARACALLA

129

dà più lustro alla memoria di Papiniano, che non tutte le sue alte cariche, le sue numerose opere e la fama di eccellente giurecon­ sulto, che egli ha goduto in ogni tempo nel diritto romano ’. Era stata fino allora particolare fortuna dei Romani, e loro con­ solazione nei tempi più tristi, che gl’imperatori fossero attivi nelle loro virtù e indolenti nei loro vizi. Augusto, Traiano, Adriano e Marco Aurelio visitavano in persona i loro vasti domini, e il loro passaggio era segnato con atti di saggezza e di beneficenza. La ti­ rannia di Tiberio, di Nerone e di Domiziano, che dimorarono qua­ si costantemente a Roma o nelle ville vicine, fu limitata agli ordini senatorio ed equestre2; ma Caracalla si mostrò il nemico comune del genere umano. Lasciò la capitale (né mai più vi fece ritorno) circa un anno dopo la morte di Geta, passando il resto del suo re­ gno nelle diverse province dell’impero, particolarmente in quelle orientali; e ogni provincia divenne a turno il teatro della sua rapa­ cità e crudeltà. I senatori, costretti dal timore a seguire i suoi ca­ pricciosi movimenti, erano obbligati a preparargli ogni giorno con immense spese nuovi divertimenti, che egli abbandonava con di­ sprezzo alle sue guardie, e a erigere in ogni città magnifici palazzi e teatri, che egli sdegnava di visitare, o comandava di demolire im­ mediatamente. Le più ricche famiglie furono rovinate con multe e confische arbitrarie, mentre tutti i sudditi erano oppressi da inge­ gnose e gravose imposte3. In mezzo alla pace, e per una lievissima provocazione, ordinò un massacro generale ad Alessandria d’Egit­ to. Da un posto sicuro nel tempio di Serapide, contemplava e diri­ geva la strage di molte migliaia di cittadini e di stranieri, senza ri­ guardo al numero, o alla colpa di quegl’infelici; giacché (com’egli freddamente scrisse al senato) tutti gli Alessandrini, quelli ch’erano periti, come quelli che si erano salvati, erano ugualmente col­ pevoli 4. Le sagge istruzioni di Severo non fecero mai un’impressione durevole sull’animo di suo figlio, che sebbene non mancasse d’im­ maginazione e d’eloquenza, non aveva né giudizio, né umanità5. Caracalla ripeteva spesso una massima pericolosa, degna di un ti­ ranno e da lui sempre praticata: « Assicurarsi l’affetto dei soldati, 1 Per Papiniano, si veda Eineccio [Heinecke], Hist. Juris Romani et Germanici, 330 sgg. 2 Tiberio e Domiziano non si allontanarono mai dai dintorni di Roma. Nerone fece un

breve viaggio nella Grecia. « Et laudatorum Principum usus ex aequo quamvis procul agentibus. Saevi proximis ingruunt». t a c i t o , H ist., iv, 73. 3 DIONE CASSIO, LXXVII, p. 1294. 4 Ib id ., p. 1307; erodiano , iv, p. 138. Il primo rappresenta questa strage come un atto

di crudeltà, l ’altro dice che vi si usò anche la perfidia. Sembra che gli Alessandrini avessero irritato il tiranno con le loro satire, o forse con i loro tumulti. 5 DIONE CASSIO, LXXVII, p. 1296.

La sua tirannia si estende su tutto l ’impero

213

Rilassamento della disciplina

I3°

Morte di Caracalla marzo)

(8

CAPITOLO SESTO

e valutare poco il resto dei sudditi1». Ma la liberalità del padre era stata regolata dalla prudenza e la sua indulgenza verso le truppe fu temperata dalla fermezza e dall’autorità. Il figlio non conobbe al­ tra politica che una cieca prodigalità, che produsse inevitabilmen­ te la rovina dell’esercito e dell’impero. Il vigore dei soldati, anzi­ ché essere fortificato dalla severa disciplina del campo, si snervò tra i piaceri delle città. L ’aumento eccessivo della paga e dei dona­ tivi 2 impoverì lo stato per arricchire l’ordine militare, la cui mo­ destia in pace e utilità in guerra sono meglio assicurate da una ono­ rata povertà. Il contegno di Caracalla era altezzoso e pieno di su­ perbia, ma colle truppe dimenticava perfino la dignità del proprio grado; incoraggiava la loro insolente familiarità, e trascurando i doveri essenziali di un generale, affettava d’imitare il vestire e i modi di un semplice soldato. Era impossibile che il carattere e la condotta di Caracalla po­ tessero ispirare amore o stima; ma finché i suoi vizi furono utili alle armate, visse sicuro da ogni pericolo di ribellione. Una segreta congiura, suscitata dalla sua gelosia, riuscì fatale al tiranno. La prefettura del pretorio era divisa tra due ministri. Il dipartimento militare era affidato ad Avvento, soldato di maggiore esperienza che capacità, e presiedeva il dipartimento civile Opilio Macrino, che per la sua abilità negli affari era salito a quell’alta carica. Ma il favore che egli godeva variava secondo il capriccio dell’imperato­ re, e la sua vita poteva dipendere dal piu lieve sospetto e dalla piu casuale circostanza. La malizia, o il fanatismo, avevano dettato a un Africano profondamente versato nella scienza del futuro, una predizione molto pericolosa: che Macrino e suo figlio erano desti­ nati all’impero. Se ne sparse subito la voce per la provincia e quan­ do il profeta fu mandato carico di catene a Roma, sostenne anche in presenza del prefetto della città la certezza della sua predizione. Quel magistrato, che aveva ricevuto le piu pressanti istruzioni di fare ricerca dei successori di Caracalla, rinviò immediatamente l’e1 DIONE CASSIO, l x x v i , p. 1284. Wotton (Hist. of Rome, p. 330) crede che questa mas­ sima fosse stata inventata da Caracalla e attribuita a suo padre. 2 Secondo Dione Cassio ( l x x v i i i , p. 1343) i donativi straordinari, che Caracalla faceva alle sue truppe, ascendevano annualmente a settanta milioni di dracme (circa 2330000 ster­ line). Sulle paghe militari c ’è un altro passo di Dione Cassio, che sarebbe assai interessante, se non fosse oscuro, imperfetto e forse corrotto. Tutto quello che si può ricavare è che i pre­ toriani ricevevano milleduecentocinquanta dracme (quaranta sterline) all’anno ( dio ne c a s s i o , l x x v i i , p. 1307). Sotto il regno di Augusto avevano due dracme, o denarii al giorno, settecentoventi all’anno ( t a c it o , Annui., 1, 17). Domiziano, che aumentò la paga delle truppe di un quarto, dovè portare quella dei pretoriani a novecentosessanta dracme l ’anno ( gronovio , D e pecunia vetere, in , 2). Questi successivi aumenti rovinarono l’impero, perché il numero dei soldati si accrebbe insieme con la paga. I soli pretoriani salirono da diecimila a cinquan­ tamila.

USURPAZIONE DI MACRINO

I3I

same dell’Africano alla corte imperiale, che risiedeva allora in Si­ ria; ma nonostante la celerità dei corrieri statali, un amico di Macrino trovò il mezzo di avvertirlo del suo imminente pericolo. L ’imperatore ricevette le lettere da Roma, ma essendo impegnato a dirigere una corsa di cavalli, le consegnò senza aprirle al prefetto del pretorio, ordinandogli di dar corso agli affari ordinari e di rife­ rirgli dei piu importanti. Macrino lesse la sua sorte e decise di pre­ venirla. Eccitò il malcontento di alcuni ufficiali inferiori, e impiegò la mano di Marziale, un soldato disperato cui l’imperatore aveva rifiutato il grado di centurione. Caracalla era stato spinto dalla sua devozione a fare un pellegrinaggio da Edessa al celebre tempio della Luna a Carré. Era accompagnato da un reparto di cavalle­ ria; ma essendosi fermato per qualche necessità, le guardie si ten­ nero a rispettosa distanza e Marziale, avvicinatosi a lui col pre­ testo di ossequiarlo, lo trafisse con un pugnale. II temerario assas­ sino fu immediatamente ucciso da un arciere scita della guardia imperiale. Tale fu la fine di un mostro, la cui vita disonorò l’uma­ na natura e il cui regno rivelò la pazienza dei Romani’. I soldati riconoscenti, dimenticando i suoi vizi per ricordarne soltanto la generosità, obbligarono i senatoti a prostituire la propria dignità e quella della religione concedendogli un posto fra gli dèi. Finché questo dio fu sulla terra, Alessandro il Grande era il Sua imitazione di solo eroe che egli giudicasse degno della sua ammirazione. Ne Alessandro Magno prese il nome e le insegne, formò per la sua guardia una falange macedone, perseguitò i discepoli di Aristotele e manifestò con en­ tusiasmo puerile il solo sentimento che indicasse in lui la stima per la virtù e la gloria. Si può comprendere come, dopo la battaglia di Narva e la conquista della Polonia, Carlo XII, sebbene non avesse la grazia del figlio di Filippo, potesse vantarsi di averne emulato il valore e la magnanimità; ma Caracalla in tutte le azioni della sua vita non mostrò la minima somiglianza coll’eroe macedone, se non nell’uccisione di un gran numero di amici suoi e di suo padre2. Dopo l’estinzione della famiglia di Severo, il mondo romano Elezione e carattere rimase per tre giorni senza padrone. La scelta dell’esercito (giac­ di Macrino ché si aveva poco riguardo all’autorità di un senato lontano e de­ bole) restò sospesa in angosciosa incertezza, non presentandosi al­ cun candidato che per meriti, o per nascita, potesse cattivarsi l’af1 DIONE CASSIO, LXXVIII, p. 1 3 1 2 ; ERODIANO, IV, p. l68.

2 L ’amore di Caracalla per il nome e le insegne di Alessandro è dimostrato dalle sue me­ daglie. s p a n h e i m , D e usu numismatum , dissert, xn. Erodiano (iv, p. 154) aveva veduto certe caricature, rappresentanti una figura, che da una parte somigliava ad Alessandro, dal­ l’altra a Caracalla.

132

C A P IT O L O S E S T O

fetto dei soldati e accentrare i loro suffragi. La decisiva prepon­ deranza dei pretoriani suscitò le speranze dei loro prefetti, e quei potenti ministri cominciarono a sostenere il loro legittimo diritto a occupare il trono vacante. Avvento, sebbene prefetto piu anzia­ no, conoscendo la sua età e i suoi acciacchi, la sua mediocre repu­ tazione e i suoi piu mediocri talenti, lasciò quell’onore pericoloso alla scaltra ambizione del collega Macrino, che con ben simulato dolore allontanò ogni sospetto di aver avuto parte nella morte del suo sovrano1. Le truppe non amavano, né stimavano il suo carat­ tere. Si guardarono intorno in cerca di un altro competitore, e fi­ nalmente cedettero con riluttanza alle sue promesse di una illimi­ 11 marzo 217 tata liberalità e indulgenza. Poco tempo dopo il suo avvento, Macrino conferì al figlio Diadumeniano, in età di soli dieci anni, il titolo imperiale e il nome di Antonino, cosi caro al popolo. Si spe­ rò che la bellezza del giovane, assistita da un donativo straordina­ rio, al quale quella cerimonia servi di pretesto, potesse guadagnare il favore dell’esercito e assicurare il trono vacillante di Macrino. Malcontento L ’autorità del nuovo sovrano era stata ratificata dalla volon­ del senato terosa sottomissione del senato e delle province. Tutti esultavano per l’inaspettata liberazione da un odiato tiranno e non sembrava necessario esaminare le virtù di un successore di Caracalla. Ma ap­ pena furono cessati i primi trasporti di sorpresa e di gioia, si co­ minciò a esaminare le virtù di Macrino con severa critica e a bia­ simare la precipitosa scelta dell’esercito. Si era fino allora consi­ derato come principio fondamentale della costituzione, che l’im­ peratore dovesse sempre essere scelto tra i senatori e che il potere sovrano, non più esercitato dall’intero corpo, fosse sempre dele­ gato a qualcuno dei suoi membri; e Macrino non era senatore2. L ’improvvisa elevazione dei prefetti del pretorio rivelava la bas­ sezza della loro origine, e l’ordine equestre aveva sempre rico­ perto quell’alta carica, che esercitava un potere arbitrario sulla vita e sui beni dei senatori. Si levò un mormorio d’indignazione vedendo che un uomo, la cui oscura estrazione3non era mai stata 1 erodiano, iv , p. 169; Hist. August., p. 94. 2 dione ca ssio , L x x xv in , p. 1330. Eliogabalo rimproverò il suo predecessore di avere osato sedere in trono, sebbene, come prefetto del pretorio, non potesse entrare in senato dopo che il banditore aveva fatto sgombrare la sala. I l favore di cui godevano Plauziano e Seiano li aveva messi al di sopra di tutte le leggi. Erano bensì dell’ordine equestre, ma conservaro­ no la prefettura con il grado di senatore e anche con il consolato. 3 Era nato a Cesarea, nella Numidia. La sua fortuna ebbe inizio essendo in casa di Plau­ ziano, ma poco manco che fosse coinvolto nella sua rovina. I suoi nemici hanno preteso che, nato schiavo, egli avesse esercitato diverse professioni infami, fra le altre quella del gladia­ tore. L ’uso di avvilire l ’origine e la condizione di un avversario sembrava avere durato dal tempo degli oratori greci fino ai dotti grammatici degli ultim i tempi.

U S U R P A Z IO N E D I M A C R IN O

133

illustrata da qualche segnalato servizio, osasse assumere la por­ pora, invece di rivestirne qualche eminente senatore, per nascita e dignità meritevole dello splendore del trono. Appena i malcon­ tenti ebbero esaminato con occhio acuto il carattere di Macrino, vi scoprirono facilmente alcuni vizi e molti difetti. La scelta dei suoi ministri gli meritò spesso giusti rimproveri; e il popolo, in­ soddisfatto, con la solita franchezza accusava insieme l’indolente mansuetudine e l’eccessiva severità del sovrano1. La temeraria ambizione di Macrino l’aveva fatto salire a un’al­ e d e ll’esercito tezza, dove era diffìcile mantenersi saldamente e impossibile ca­ dere senza un’immediata rovina. Esercitato negli artifici della cor­ te e nei maneggi della politica, egli tremava in presenza della fiera e indisciplinata moltitudine della quale aveva preso il comando; le sue doti militari erano disprezzate e n’era messo in dubbio il coraggio. Una voce che circolava per l’accampamento, fece scopri­ re il fatale segreto della congiura contro il defunto imperatore; la viltà dell’ipocrisia aggravò l’atrocità del delitto e l’odio accreb­ be il disprezzo. Per alienarsi affatto i soldati e attirarsi una rovina inevitabile, non mancava a Macrino che pretendere di riformare la disciplina; e per sua particolare sventura, si vide costretto ad assumersi questo compito odioso. Con la sua prodigalità, Caracalla aveva lasciato un’eredità di disordine e rovina, e se quell’inetto tiranno fosse stato capace di riflettere sulle inevitabili con­ seguenze della sua condotta, si sarebbe forse rallegrato alla triste prospettiva delle strettezze e calamità che aveva lasciato ai suoi successori. In questa necessaria riforma Macrino procedette con cauta pru­ Macrino tenta denza, che in modo facile e quasi impercettibile avrebbe ridato di riformare l ’esercito salute e vigore agli eserciti romani. Fu bensì costretto a lasciare ai soldati già in servizio i pericolosi privilegi e la paga esorbitante che Caracalla aveva concesso, ma obbligò le nuove reclute ad accet­ tare il più moderato sebben generoso trattamento di Severo, e a poco a poco le abituò alla modestia e all’obbedienza2. Un fatale errore distrusse i salutari effetti di un piano cosi giudizioso. An­ ziché disperdere immediatamente nelle diverse province il nume­ roso esercito, che il defunto imperatore aveva concentrato in O1 Dione Cassio ed Erodiano parlano delle virtù e dei vizi di Macrino con imparziale sin­ cerità. Ma l ’autore della sua vita nella Historia Augusta sembra abbia ciecamente copiato quegli scrittori, la cui penna, venduta all’imperatore Eliogabalo, denigrò la memoria del suo predecessore. 2 dione c a ssio , L x x xu i, p. 1336. I l senso d ell’autore è chiaro, come l ’intenzione del principe; ma il W otton non ha inteso né l ’uno, né l ’altro, applicando la distinzione non ai veterani e alle reclute, ma alle antiche e nuove legioni {Hist. of Rome, p. 347).

i34

Morte di G iulia. Educazione, pretese e ribellione di Eliogabalo

CAPITOLO SESTO

riente, Macrino lo lasciò riunito in Siria durante l’inverno che se­ gui la sua elevazione al trono. Nell’ozio dissoluto dei loro quartie­ ri, le truppe conobbero la loro forza e il loro numero, si comu­ nicarono le loro lagnanze, e pensarono ai vantaggi di una nuova rivoluzione. I veterani, anziché essere lusingati dalla vantaggiosa distinzione, furono allarmati dalle prime riforme dell’imperatore, considerandole sicuro presagio delle sue future intenzioni. Le re­ clute entravano con torva riluttanza in un servizio, le cui fatiche erano state accresciute e le ricompense diminuite da un sovrano avaro e imbelle. Le mormorazioni dell’esercito si mutarono impu­ nemente in sediziosi clamori, mentre i parziali ammutinamenti tradivano un malcontento e un’avversione, che attendevano sol­ tanto la piu lieve opportunità per scoppiare dovunque in una ri­ bellione generale. Con questa disposizione d’animo, presto se ne presentò l’occasione. L ’imperatrice Giulia aveva provato tutte le vicende della for­ tuna. Da un’umile condizione era stata elevata al trono, soltanto per gustarne la superiore amarezza. Fu condannata a gemere sulla morte di un figlio e sulla vita dell’altro. La fine crudele di Caracalla, sebbene da gran tempo il suo buon senso dovesse averle ap­ preso ad attenderla, risvegliò nel suo animo tutti i sentimenti di madre e d’imperatrice. Nonostante i rispettosi riguardi, che l’usurpatore aveva per la vedova di Severo, le fu doloroso scendere nella condizione di suddita, e con una morte volontaria presto si tolse da quella penosa e umiliante soggezione '. Giulia Mesa, sua sorella, ebbe ordine di lasciare la corte e Antiochia. Si ritirò a Emesa con immense ricchezze, frutto del favore goduto per ven­ tanni, accompagnata da due figlie, Soemia e Mammea, entrambe vedove con un figlio. Bassiano, figlio di Soemia, era stato consa­ crato all’onorato ministero di gran sacerdote del Sole; e questa vocazione, seguita per prudenza o superstizione, contribuì a in­ nalzare il giovane siro all’impero di Roma. A Emesa era di stan­ za un numeroso contingente di truppe, che la severa disciplina di Macrino costringeva a passare l’inverno in un accampamento, e impazienti di vendicarsi della crudeltà di quelle insolite fatiche. I soldati, che concorrevano in folla al tempio del Sole, guardavano con venerazione e piacere l’abito e la figura elegante del giovane pontefice; vi riconobbero, o credettero di riconoscervi le fattezze di Caracalla, del quale veneravano ancora la memoria. L ’astuta Dio ne c a s s i o , Lxxvin, p. i 33o. Il compendio di Sifilino, sebbene meno particolareg­ giato, è qui più chiaro deU’originale,

USURPAZIONE DI MACRINO

135

Mesa si avvide con piacere di questa nascente parzialità, e sacrifi­ cando prontamente la reputazione della figlia alla fortuna del ni­ pote, fece correre la voce che Bassiano era figlio naturale del loro defunto sovrano. Le somme distribuite con mano generosa dai 16maggio suoi emissari fecero tacere ogni obiezione e provarono a sufficien­ za la parentela, o almeno la somiglianza, di Bassiano col grande originale. Il giovane Antonino (giacché egli prese e macchiò que­ sto nome venerando) fu dichiarato imperatore dalle truppe di Emesa, rivendicò il suo diritto ereditario e invitò gli eserciti a se­ guire le insegne di un principe giovane e generoso, che aveva pre­ so le armi per vendicare la morte del padre e l’oppressione dell’or­ dine militare1. Mentre una congiura di donne e di eunuchi veniva tramata con sconfitta prudenza e condotta con vigorosa rapidità, Macrino, che con una di Macrino mossa decisa avrebbe potuto schiacciare il suo giovane nemico, ondeggiava fra i due opposti estremi del terrore e della sicurez­ za che lo tenevano ugualmente inattivo ad Antiochia. Uno spi­ rito di ribellione si diffuse per tutti gli accampamenti e tutte le guarnigioni della Siria. Uno dopo l’altro, i distaccamenti uccisero i loro ufficiali2, unendosi ai ribelli, e la tardiva reintegrazione del­ la paga e dei privilegi militari fu attribuita alla notoria debolezza di Macrino. Alla fine, egli si mosse da Antiochia per affrontare il giovane pretendente, che era alla testa di un esercito entusiasta e in continuo aumento. Le truppe di Macrino sembravano svo- 7 giugno 218 gliate e riluttanti; ma nel calore del combattimento3, i pretoria­ ni, quasi per un impulso istintivo, dimostrarono la superiorità del loro valore e della loro disciplina. I ribelli erano già sbaragliati, quando la madre e la nonna del principe siro, che secondo il co­ stume orientale seguivano l’esercito, si gettarono dai loro carri co­ perti, e suscitando la compassione dei soldati, cercarono di riani­ marne il coraggio. Antonino stesso, che nel resto della sua vita non agi mai da uomo, in quel momento critico del suo destino si comportò da eroe. Montò a cavallo, e alla testa delle sue truppe 1 Secondo Lampridio (Hist. August., p. 135), Alessandro Severo visse ventinove anni, tre mesi e sette giorni. Essendo stato ucciso il 19 marzo 235, doveva essere nato il 12 dicem­ bre 203. Conseguentemente, aveva allora tredici anni, e suo cugino quasi diciassette. Questo computo si adatta meglio alla storia di questi due principi, che quello di Erodiano, il quale li fa più giovani di tre anni (v, p. 181), mentre, per un contrario errore di cronologia, prolun­ ga di due anni il regno di Eliogabalo. Si possono vedere i particolari della congiura in Dione Cassio ( l x x v i i i , p. 1339) e in Erodiano (v, p. 184). 2 In virtù di un pericoloso proclama del preteso Antonino, ogni soldato che recava la te­ sta del suo ufficiale ne ereditava i beni e il grado. 3 p io n e c a s s io , l x x v i i i , p. 1343; ero dian o , v, p. 186. La battaglia fu combattuta presso il villaggio di Immae, a circa ventidue miglia da Antiochia.

136

Lettere di Eliogabalo al senato

CAPITOLO SESTO

riordinate si lanciò con la spada in pugno dove erano piu folti i nemici, mentre l’eunuco Gannys, le cui occupazioni fino allora s’erano limitate alle cure donnesche nel molle lusso dell’Asia, rivela­ va le doti di un generale abile ed esperto. La vittoria era ancora incerta e forse Macrino l’avrebbe riportata, se non avesse tradito la propria causa con una fuga precipitosa. La sua viltà servi sol­ tanto a prolungargli la vita per pochi giorni e a dare alle sue di­ sgrazie l’impronta della meritata ignominia. È inutile aggiungere, che suo figlio Diadumeniano fu coinvolto nella stessa rovina. Ap­ pena gli ostinati pretoriani si avvidero di combattere per un prin­ cipe che li aveva vilmente abbandonati, si arresero al vincitore. I due avversi eserciti romani, mescolando lacrime di amore e di gioia, si riunirono sotto le insegne dell’immaginario figlio di Caracalla e l’Oriente riconobbe con piacere il primo imperatore di ori­ gine asiatica: Macrino si era degnato di scrivere al senato, avvisandolo delle lievi turbolenze suscitate in Siria da un impostore. Fu immedia­ tamente emanato un decreto, che dichiarava il ribelle e la sua fa­ miglia pubblici nemici, promettendo tuttavia il perdono a quanti tra i suoi illusi aderenti lo meritassero coll’immediato ritorno al dovere. Nei venti giorni trascorsi da questa dichiarazione alla vit­ toria di Antonino1 (che in cosi breve intervallo fu deciso il desti­ no del mondo romano), la capitale e le province, specialmente quelle orientali, furono agitate da speranza e timore, turbate da tumulti e macchiate di sangue civile inutilmente versato, poiché chiunque dei due rivali avesse vinto in Siria, sarebbe divenuto pa­ drone dell’impero. Le speciose lettere, colle quali il giovane vin­ citore annunzio all'obbediente senato la sua vittoria, erano piene di propositi di virtù e di moderazione. Egli dichiarava che avreb­ be sempre avuto come norma del suo governo i luminosi esempi di Marco Aurelio e di Augusto, e si soffermava con orgoglio sulla impressionante somiglianza che la sua età e la sua sorte avevano con quelle di Augusto, il quale nella sua prima giovinezza con una guerra vittoriosa aveva vendicato l ’uccisione del padre. Prenden­ do il nome di Marco Aurelio Antonino, figlio di Antonino2 e ni­ pote di Severo, affermò implicitamente il suo diritto ereditario al­ l’impero; ma arrogandosi il potere tribunizio e proconsolare pri­ ma che un decreto del senato glielo avesse conferito, offese la su­ scettibilità dei Romani. Questa nuova e imprudente violazione del1 Eliogabalo [N. d. T.]. 2 Caracalla [N. d. T.].

FOLLIE DI ELIOGABALO

137

la costituzione fondamentale è forse da attribuire all’ignoranza dei suoi cortigiani di Siria, o al fiero disprezzo delle truppe che lo se­ guivano1. L ’attenzione del nuovo imperatore essendo distratta dai piu π ritratto frivoli divertimenti, egli consumo molti mesi nel suo pomposo (2I9) viaggio dalla Siria all’Italia. Passò a Nicomedia il primo inverno dopo la sua vittoria e differì fino alla nuova estate il suo ingresso trionfale nella capitale. Un ritratto fedele, che lo precedette e fu collocato per ordine suo sull’altare della Vittoria nel tempio dove si adunava il senato, presentò ai Romani l’esatta ma indecorosa immagine della sua persona e dei suoi costumi. Era rappresentato nei suoi abiti sacerdotali di seta e d’oro, sciolti e drappeggiati alla moda dei Medi e dei Fenici, con un’alta tiara sul capo e numerose collane e braccialetti ornati di gemme di valore inestimabile. Ave­ va le sopracciglia tinte di nero e le guance dipinte di rosso e di bianco \ I gravi senatori confessarono sospirando, che dopo avere lungamente sofferto la fiera tirannia dei suoi concittadini, Roma si trovava alla fine umiliata sotto il fasto effeminato del dispoti­ smo orientale. A Emesa il Sole era adorato col nome di Eliogabalo3 e sotto s™ forma di una pietra nera conica, che secondo l’universale creden- sulKrstl/lonc za era caduta dal cielo in quel sacro luogo. A questo suo nume tutelare Antonino attribuiva non senza qualche ragione la sua ascesa al trono, e in tutto il suo regno l’unica sua occupazione se­ ria fu di ostentare la sua superstiziosa gratitudine. Il grande og­ getto del suo zelo e della sua vanità fu di far trionfare il dio di Emesa su tutte le religioni della terra; e il nome di Eliogabalo (giacché come pontefice e favorito osò prendere questo sacro no­ me) gli fu piu caro di tutti i titoli della grandezza imperiale. In una solenne processione per le vie di Roma, il suolo fu cosparso di polvere d’oro e la pietra nera, ornata di gemme, fu collocata su un carro tirato da sei cavalli bianchi riccamente bardati. Il pio im­ peratore teneva le redini, e sostenuto dai suoi ministri, andava lentamente all’indietro, per godere costantemente la vista di quel­ la divinità. Furono celebrati con ogni fasto di solennità i sacrifici del dio Eliogabalo, in un magnifico tempio eretto sul Palatino. Sull’ara si profusero i vini piu pregiati, le vittime piu rare e i piu 1 DIONE CASSIO, LXX1X, p. 1 3 5 3 . 2 Ibid ., p. 1363; ERODIANO, V, p. 189. 3 Questo nome, secondo i dotti, deriva da due parole siriache, « E ia» , Dio, e «gabal», formare; il dio formatore, o plastico, epiteto giusto e appropriato al Sole (w t t o n , Hist. of Rome, p. 378).

138

Sua lussuria ed effeminatezza

CAPITOLO SESTO

preziosi aromi; e intorno ad essa un coro di donzelle sirie intrec­ ciava danze lascive al suono di barbari strumenti, mentre i piu gravi personaggi dello stato e dell’esercito, vestiti di lunghe tuni­ che fenice, officiavano nelle piu vili funzioni con zelo ostentato e segreta indignazione1. L ’imperiale fanatico tentò di trasferire in quel tempio, come nel centro comune della religione, gli anelli, il Palladioz, e tutti i sacri pegni del culto di Numa. Una moltitudine di divinità infe­ riori, variamente disposte, circondava la maestà del dio di Emesa; ma la sua corte era incompleta, finché una compagna di ran­ go elevato non fosse ammessa nel suo letto. Dapprima era stata scelta Pallade quale sua consorte; ma temendosi che il suo ca­ rattere guerriero atterrisse la molle delicatezza di un dio della Siria, la Luna, che gli Africani adoravano col nome di Astarte, fu creduta piu adatta per fare compagnia al Sole. L ’immagine di questa dea, con le ricche offerte del suo tempio come dote, fu portata con solenne pompa da Cartagine a Roma; e il giorno di queste mistiche nozze fu celebrato nella capitale e in tutto l’im­ pero 3. Un voluttuoso, che segua la ragione, obbedisce con invariabile rispetto ai moderati dettami della natura e accresce i piaceri dei sensi coi rapporti sociali, con dolci legami e i delicati colori del buon gusto e dell’immaginazione. Ma Eliogabalo (parlo dell’im­ peratore, non del dio), corrotto dalle passioni della gioventù, dai costumi della sua patria e dalla propria prosperità, si abbandonò ai piaceri piu grossolani con sfrenato furore, e nei godimenti tro­ vò presto la sazietà e la nausea. Si chiamarono in soccorso i poteri eccitanti dell’arte; una moltitudine confusa di donne, di vini e di cibi, e la ricercata varietà d’atteggiamenti lascivi e di droghe val­ sero a rianimare i suoi languenti appetiti. Nuovi modi e nuove invenzioni in queste scienze, le sole che il sovrano coltivasse e proteggesse4, segnalarono il suo regno e tramandarono la sua in­ famia alla posterità. Una capricciosa prodigalità suppliva alla man­ canza del gusto e dell’eleganza; e mentre Eliogabalo dissipava le 1 ERODIANO, V, p. 190. 2 Egli violò il santuario di Vesta e ne asportò una statua da lui creduta il «Palladio»; ma le vestali si vantavano di avere con pia frode ingannato il sacrilego, presentandogli un falso simulacro della dea (H ist. August., p. 103). 3 m o n e Ca s s i o , l x x i x , p. 1360; ero dian o , v, p. 193. I sudditi d ell’impero furono ob­ bligati a fare ricchi doni ai nuovi sposi. Mammea pretese poi dai Romani tutto quello che avevano promesso vivente Eliogabalo. 4 La scoperta di un nuovo intingolo era generosamente ricompensata; ma se questo non piaceva, l ’inventore era condannato a non mangiare altro, finché non ne avesse inventato uno piu gradito al palato dell’imperatore (Hist. August., p. i n ) .

FOLLIE DI ELIOGABALO

13 9

ricchezze del suo popolo nelle piu pazze stravaganze, insieme ai suoi adulatori decantava uno spirito e una magnificenza ignoti ai suoi mansueti predecessori. Confondere l’ordine delle stagioni e dei climi1, burlarsi delle passioni e dei pregiudizi dei sudditi, e sovvertire tutte le leggi della natura e della decenza, erano i suoi divertimenti favoriti. Uno stuolo di concubine e una rapida suc­ cessione di mogli, tra le quali una vestale, rapita a forza dal suo sacro asilo2, non bastarono a soddisfare le sue basse passioni. Il padrone del mondo romano volle imitare le donne nell’abito e nel costume, preferendo la conocchia allo scettro, e disonorò le prime cariche dell’impero distribuendole ai suoi numerosi amanti, uno dei quali ebbe pubblicamente il nome e l’autorità di marito3 del­ l’imperatore, o dell’imperatrice, come più propriamente si chia­ mava egli stesso. Può darsi che l’immaginazione, il pregiudizio e la calunnia abbiano ingrandito i vizi e le follie di Eliogabalo4; ma limitandoci alle scene svoltesi pubblicamente davanti al popolo romano e atte­ state da gravi storici contemporanei, la loro indicibile infamia vin­ ce quella d’ogni altro tempo o paese. Le dissolutezze di un mo­ narca orientale restano nascoste agli occhi dei curiosi dalle mu­ ra inaccessibili del suo harem. I sentimenti d’onore e di cavalleria hanno introdotto nelle moderne corti d’Europa le raffinatezze del piacere, il rispetto per il decoro e il riguardo per la pubblica opi­ nione; ma gli opulenti e corrotti nobili di Roma adottavano tutti i vizi, che v ’introduceva l’enorme concorso di popoli e di costumi stranieri. Sicuri dell’impunità e incuranti della critica, vivevano senza alcun freno nell’umile e sottomessa società dei loro schiavi e parassiti. L ’imperatore, dal canto suo, considerando tutti i sud­ diti con la stessa sprezzante indifferenza, affermava senza ritegno il suo sovrano privilegio nella libidine e nel lusso. I più indegni tra gli uomini non temono di condannare negli altri quei vizi che indulgono a se stessi; e per giustificare questa parzialità, sono sempre pronti a trovare qualche sottile differenza 1 N on mangiava mai pesce, se non quando era lontanissimo dal mare; allora ne distri­ buiva ai paesani d ell’entroterra una immensa quantità delle specie piu rare, e il trasporto co­ stava spese enormi. 2 DIONE CASSIO, LXXIX, p. 1338; ERODIANO, V, p. 1 9 2 . 3 Ierocle ebbe questo onore; ma sarebbe stato sostituito da un certo Zotico, se non aves­ se trovato il modo d ’indebolire il suo rivale con una bevanda. Q uesti fu vergognosamente cacciato dal palazzo, quando si trovò che la sua forza non corrispondeva alla sua reputazione ( dio ne Ca s s i o , l x x i x , pp. 1363, 1364). Un ballerino fu fatto prefetto della città; un cocchie­ re, prefetto della guardia; un barbiere, prefetto d ell’annona. Questi tre ministri, e m olti altri inferiori, erano raccomandati dalla loro «enormitate membrorum» {Hist. August., p. 103). 4 Anche il credulo compilatore della sua vita è incline a credere che i suoi vizi possano essere stati esagerati {Hist. August., p. i n ) .

Disprezzo del decoro dei tiranni romani

Malcontento deiresercito

140

C A P IT O L O S E S T O

nell’età, nel carattere, o nelle circostanze. I licenziosi soldati, che avevano elevato al trono il dissoluto figlio di Caracalla, arrossiva­ no della loro scelta ignominiosa e distoglievano lo sguardo da quel mostro per contemplare con piacere le nascenti virtù del cugino Alessandro, figlio di Mammea. La scaltra Mesa, comprendendo che il nipote Eliogabalo doveva inevitabilmente rovinarsi coi suoi vizi, volle dare alla famiglia un altro e piu sicuro sostegno. Pro­ fittando di un momento favorevole di tenerezza e di devozione, aveva indotto il giovane imperatore ad adottare Alessandro col titolo di cesare, affinché le sue sacre occupazioni non fossero piu Alessandro interrotte dalle cure terrene. Questo principe amabile, elevato al Severo dichiarato secondo posto dell’impero, presto si acquistò l’amore del popolo, cesare (221) suscitando la gelosia del tiranno, che decise di metter fine a quella pericolosa concorrenza corrompendo i costumi del suo rivale o to­ gliendogli la vita. I suoi tentativi fallirono, i suoi vani progetti vennero sempre scoperti dalla sua propria folle loquacità, o fru­ strati da quei domestici virtuosi e fedeli, che la prudente Mam­ mea aveva messo accanto al figlio. In un improvviso accesso di collera, Eliogabalo decise di fare con la forza ciò che non aveva potuto conseguire con l’inganno, e con un decreto dispotico de­ gradò il cugino dalla dignità e dagli onori di cesare. Quest’ordine fu accolto dal senato in silenzio e dalle truppe con furore. I preto­ riani giurarono di difendere Alessandro e di vendicare la maestà di un trono disonorato. I pianti e le promesse del tremante Elio­ gabalo, che pregava di lasciargli soltanto la vita e il suo amato Ierocle, sospesero la loro giusta indignazione; essi si appagarono di incaricare i loro prefetti di vegliare sulla sicurezza di Alessan­ dro e sulla condotta dell’imperatore ’. Ammutina­ Era impossibile che tale riconciliazione potesse durare, o che mento dei pretoriani Eliogabalo, per vile che fosse, volesse regnare a condizioni cosi ue assassinio di Eliogabalo milianti. Presto cercò con una prova pericolosa di sondare l’ani­ (io marzo mo dei soldati. La voce della morte di Alessandro, e il naturale sospetto che egli fosse stato assassinato, li inferocì, e la tempesta scoppiata nella caserma dei pretoriani fu placata soltanto dalla presenza e autorità di quel giovane popolare. Irritato da questa nuova prova del loro affetto verso il cugino e del loro disprezzo per la sua persona, l’imperatore osò punire alcuni dei capi del­ l’ammutinamento; ma la sua intempestiva severità si dimostrò su­ bito fatale ai suoi favoriti, a sua madre e a lui stesso. Eliogabalo1 222)

1 DIONE CASSIO, l x x ix , p. 1365; erodiano, v, ρρ. 195-201; Hìst. August., p. 103. L ’ul­ timo di questi storici pare abbia seguito i migliori autori nel suo ragguaglio della rivoluzione.

V IR T Ù D I A L E S S A N D R O S E V E R O

I4I

fu ucciso dai pretoriani indignati e il suo cadavere mutilato, dopo essere stato trascinato per le vie di Roma, fu gettato nel Tevere. Il senato bollò la sua memoria di perpetua infamia, e i posteri han­ no ratificato questa giusta sentenza *. Al posto di Eliogabalo fu dai pretoriani innalzato al trono suo Avvento di cugino Alessandro. La sua parentela con la famiglia di Severo, di Alessandro cui prese il nome, era la stessa di quella del suo predecessore. La Severo sua virtù e i passati pericoli lo avevano reso caro ai Romani, e il senato con prodiga liberalità gli conferì in un solo giorno tutti i titoli e tutto il potere della dignità imperiale2; ma Alessandro era un giovane modesto e rispettoso di soli diciassette anni e le redini del governo rimasero in mano di sua madre Mammea e di sua non­ na Mesa. Dopo la morte di quest’ultima, che poco sopravvisse all’elevazione di Alessandro, Mammea restò la sola reggente del figlio e dell’impero. di In ogni tempo e paese, il sesso più saggio, o almeno più forte, Potere sua madre ha usurpato i poteri dello stato e confinato l’altro nelle cure e nei Mammea piaceri della vita domestica. Nelle monarchie ereditarie, peraltro, e particolarmente in quelle dell’Europa moderna, lo spirito di ca­ valleria e la legge di successione ci hanno abituati a una singolare eccezione; e una donna è spesso riconosciuta come sovrana asso­ luta di un vasto regno, nel quale sarebbe creduta incapace di eser­ citare il minimo impiego militare o civile. Ma poiché gl’impera­ tori romani erano sempre considerati come generali e magistrati, le loro mogli e madri, sebbene distinte col titolo di augusta, non furono mai associate alle loro cariche, e il governo di una donna sarebbe sembrato un prodigio inesplicabile agli occhi di quei pri­ mi Romani, che si sposavano senza amore, o amavano senza deli­ catezza né rispetto3. La superba Agrippina aspirava bensì di par­ tecipare alle cariche dell’impero, al quale aveva innalzato il figlio; 1 La data della morte di Eliogabalo e dell’avvento di Alessandro, ha esercitato 1 erudi­ zione e la sagacità di Pagi, Tillem ont, Valsecchi e Torre, vescovo di A.dria. Questo punto di storia è certamente intricatissimo; ma io mi attengo all’autorità di Dione Cassio, il cui cal­ colo è incontestabile e il testo integro, giacche Sifilino, Zonara e Cedreno si accordano tutti con lui. Eliogabalo regnò tre anni, nove mesi e quattro giorni dopo la sua vittoria contro Macrino, e fu ucciso il io marzo 222. Ma che risponderemo alle medaglie, indubbiamente au­ tentiche, che indicano il quinto anno della sua potestà tribunizia? Risponderemo con il dot­ to Vaisecchi, che non si ebbe riguardo all’usurpazione di Macrino, e che il figlio di Caracalla datò il suo regno dalla morte del padre. Dopo avere risolto questa grande difficoltà, è facile sciogliere e recidere gli altri nodi della questione. . . . . 2 Hist. August., p. 114. Con questa precipitazione straordinaria, il senato intendeva di­ struggere le speranze dei pretendenti e prevenire le fazioni degli eserciti. 3 Se la natura ci desse la vita senza il concorso delle donne, noi saremmo liberi da una compagnia molto importuna. Cosi disse Metello Num idico, il censore, al popolo romano; e aggiunse che il matrimonio doveva considerarsi come il sacrificio di un privato piacere a un pubblico dovere ( aulo gellio , i , 6).

142

Saggio e moderato governo

C A P IT O L O S E S T O

ma la sua folle ambizione, detestata da tutti i cittadini che ancora veneravano la maestà di Roma, fu delusa dalle arti e dalla fermez­ za di Seneca e di Burro Il buon senso, o l’indifferenza dei prin­ cipi li trattenne dall’offendere i pregiudizi dei loro sudditi; ed era riservato al dissoluto Eliogabalo di disonorare gli atti del senato col nome di sua madre Soemia, che sedeva accanto ai consoli e firmava, come gli altri senatori, i decreti di quell’assemblea legi­ slativa. Mammea, piu prudente, declinò questa inutile e odiosa prerogativa; e fu promulgata una legge solenne, che escludeva per sempre le donne dal senato e consacrava agli dèi inferi il capo dello sciagurato che osasse violarla2. L’oggetto della virile ambi­ zione di Mammea era la sostanza, non l’apparenza del potere. El­ la conservò un dominio assoluto e duraturo sull’animo del figlio, e non tollerò rivali nel suo affetto. Col suo consenso, Alessandro sposò la figlia di un patrizio; ma il suo rispetto per il suocero e l’amore per l’imperatrice erano incompatibili con l’affetto o l’inte­ resse di Mammea. Il patrizio, presto accusato di tradimento, fu giu­ stiziato e la moglie di Alessandro cacciata con ignominia dal palaz­ zo ed esiliata in Africa3. Nonostante quest’atto di crudele gelosia e l’avidità di cui in alcuni casi fu accusata, il governo di Mammea fu in genere utile al figlio e all’impero. Coll’approvazione del senato, scelse sedici dei piu saggi e virtuosi senatori per formare un consiglio di stato permanente, dove si trattavano e decidevano tutti gli affari im­ portanti. Questo consiglio era presieduto dal celebre Ulpiano, il­ lustre egualmente per la sua conoscenza e il suo rispetto delle leg­ gi romane; e la fermezza e saggezza di questa aristocrazia ristabilì l’ordine e l’autorità del governo. Dopo aver purgato la città da ogni culto e fasto straniero, resti della capricciosa tirannia di Elio­ gabalo, si diedero ad allontanare le sue indegne creature da ogni dipartimento della pubblica amministrazione e a sostituirle con persone abili e virtuose. Il sapere e l’amore della giustizia diven­ nero le sole raccomandazioni per gli uffici civili, il valore e l’amore della disciplina i soli requisiti per gl’impieghi militari \ 1 tacito , Annal., m i , 5. August., pp. 102, 107. 3 DIONE CASSIO, lx x x , p. 1369; erodiano, vi, p. 206; Hist. August., p. 131. Secondo Erodiano, il patrizio era innocente. La Historia Augusta , sull’autorità di Dexippo, lo con-

2 Hist.

danna come colpevole di una congiura contro la vita di Alessandro. È impossibile decidere. Ma Dione Cassio è un testimone insospettabile della gelosia e della crudeltà di Mammea ver­ so la giovane imperatrice, di cui Alessandro deplorò la dura sorte, senza avere il coraggio di opporvisi.

v1» p. 203; Hist. August., p. 119. Secondo quest’ultimo storico, quando si trattava di fare una legge, si aggregavano al consiglio alcuni abili giureconsulti e sperimentati senatori, 1 quali davano separatamente il loro parere, che era poi messo per iscritto.

V IR T Ù D I A L E S S A N D R O S E V E R O

143

Ma„ la „cura piu importante di t Mammea e· dei suoi saggi consi-; eEducazione . r i · ^ J 11 virtuosa glieri fu di formare il carattere del giovane imperatore, daile cui indoie di doti personali dovevano dipendere la felicità, o l’infelicità del Alessandro mondo romano. La fertilità del terreno assecondava e quasi pre­ veniva la mano. Un eccellente intendimento presto convinse Ales­ sandro dei vantaggi della virtù, del piacere della cultura e della necessità del lavoro. L’innata dolcezza e moderazione lo preser­ varono dagli assalti delle passioni e dalle seduzioni del vizio. Il suo inalterabile rispetto per la madre, e la sua stima per il saggio Ulpiano, difesero la sua inesperta giovinezza dal veleno dell’adu­ lazione. La semplice descrizione delle sue ordinarie occupazioni pre- Descrizione senta il quadro del perfetto imperatore ‘, e col dovuto riguardo occupazioni alla differenza dei costumi, meriterebbe l’imitazione dei principi otdinarie moderni. Alessandro si alzava presto e i primi momenti della sua giornata erano consacrati alla privata devozione; la sua cappella nel palazzo era piena delle immagini di quegli eroi, che perfezio­ nando o riformando la vita umana, avevano meritato la grata ve­ nerazione della posterità. Ma considerando il servire gli uomini come il culto piu grato agli dèi, impiegava la maggior parte della mattinata nel suo consiglio, dove discuteva i pubblici affari e giu­ dicava le cause private, con una pazienza e saggezza superiori alla sua età. La letteratura lo ricreava dall’aridità degli affari; e una parte del suo tempo era sempre riservata ai suoi studi preferiti della poesia, della storia e della filosofia. Le opere di Virgilio e di Orazio, la repubblica di Platone e di Cicerone, ne formarono il gu­ sto, ne dilatarono l’intelletto e gli fornirono le piu nobili idee del­ l’uomo e del governo. Agli esercizi dello spirito seguivano quelli del corpo; e Alessandro, di alta statura, agile e robusto, superava quasi tutti i suoi coetanei negli esercizi atletici. Dopo il bagno e una leggera colazione, si applicava con nuovo vigore agli affari del giorno e fino all’ora di cena (che era il pasto principale dei Roma­ ni) stava in compagnia dei suoi segretari, leggendo e rispondendo alla moltitudine delle lettere, dei memoriali e delle suppliche che venivano indirizzate al padrone della maggior parte del mondo. La sua mensa era semplice e frugale, e quando poteva seguire libe­ ramente la propria inclinazione, invitava pochi amici scelti, uomi­ ni dotti e virtuosi; e Ulpiano era sempre tra gl’invitati. I loro di­ scorsi erano familiari e istruttivi, e gli intervalli venivano oppor1 Si veda la sua vita nella Historia Augusta. Il compilatore, senza alcun discernimento, ha sepolto questi interessanti aneddoti sotto un ammasso di circostanze frivole e triviali.

144

C A P IT O L O S E S T O

tunamente allietati dalla lettura di qualche piacevole composizio­ ne, anziché dai ballerini, dai commedianti e perfino dai gladiato­ ri, cosi spesso chiamati alla tavola dei ricchi Romani'. L’abito di Alessandro era semplice e modesto, il suo contegno cortese e af­ fabile. In certe ore il suo palazzo era aperto a tutti i sudditi; ma la voce di un banditore, come nei misteri eleusini, pronunciava lo stesso salutare ammonimento: «Nessuno entri tra queste sacre mura, se non ha Panimo puro e innocente » 12. G“ eraie Questo uniforme tenor di vita, che non lasciava un momento del mondo al vizio o alla follia, dimostra più di tutti i futili particolari delle (— ) compilazioni di Lampridio la saggezza e giustizia del governo di Alessandro. Dall’avvento di Commodo in poi, l’impero romano aveva sofferto per quarant’anni i successivi e diversi vizi di quat­ tro tiranni. Dopo la morte di Eliogabalo, godette per tredici anni di una prospera tranquillità. Le province, sollevate dalle gravose imposte inventate da Caracalla e dal suo preteso figlio, fiorivano in pace e prosperità sotto l’amministrazione di magistrati, persuasi dall’esperienza che il migliore e unico modo di ottenere il favore del sovrano consisteva nel conciliarsi l’amore dei sudditi. Mentre s’imponevano delle lievi restrizioni all’innocente lusso dei Roma­ ni, si riduceva il prezzo delle derrate e l’interesse del denaro per le paterne cure di Alessandro, che con prudente liberalità e senza nuocere a quanti lavoravano, sopperiva ai bisogni e ai divertimen­ ti della plebe. Fu ristabilita la maestà, la libertà e l’autorità del senato, e ogni virtuoso senatore poteva avvicinare l’imperatore senza timore e senza rossore. Alessandro Il nome di Antonino, nobilitato dalle virtù di Pio e di Marco unome Aurelio, era stato trasmesso per adozione al dissoluto Vero e al di Antonino crucJe]e Commodo. Dopo essere stato il più onorevole distintivo dei figli di Severo, fu conferito al giovane Diadumeniano e final­ mente prostituito all’infame gran sacerdote di Emesa. Alessan­ dro, nonostante le premurose e forse sincere insistenze del se­ nato, rifiutò nobilmente il lustro di un nome non suo, mentre in tutta la sua condotta si studiava di ristabilire la gloria e la felicità del secolo dei veri Antonini3. Nel governo civile di Alessandro la saggezza era sostenuta dal 1 GIOVENALE, Sdt. XIII. 119. 3 Tutta la discussione tra il senato e Alessandro è tratta dai verbali di quell'assemblea (Hist. August., pp. 116, 117). E bbe luogo il 6 marzo, probabilmente l ’anno 223, quando già i Romani avevano goduto per quasi dodici mesi i benefici del nuovo regno. Prima che fosse offerto al principe il nome di Antonino come titolo d ’onore, il senato gli propose di prenderlo come nome di famiglia.

2 Hist. August., p.

S F R E N A T A L IC E N Z A D E L L ’E S E R C I T O

145

potere e il popolo, consapevole della pubblica felicità, ricompensava il suo benefattore con l’amore e la gratitudine. Restava da reserdto compiere l’impresa più grande, più necessaria, ma più difficile, la riforma dell’ordine militare, il carattere e i privilegi del quale, confermati da una lunga impunità, lo rendevano intollerante del freno della disciplina e incurante dei benefici della pace. Nell’ese­ cuzione del suo piano, l’imperatore ostentò il suo amore e nasco­ se il suo timore dei soldati. La più rigida economia in ogni altro dicastero del governo, gli forniva un fondo d’oro e d’argento per la paga ordinaria delle truppe e per le ricompense straordinarie. Abolì il pesante obbligo di portare sulle spalle durante le marce i viveri per diciassette giorni. Furono istituiti lungo le strade mae­ stre ampi magazzini, e appena i soldati entravano in paese nemico, un numeroso seguito di muli e cammelli accompagnava la loro superba pigrizia. Poiché Alessandro disperava di poter reprimere il lusso dei soldati, tentò almeno di dirigerlo verso oggetti di pom­ pa e di ornamento marziale: bei cavalli, armi lucenti e scudi or­ nati d’argento e d’oro. Prendeva parte a tutte le fatiche che era costretto a imporre, visitava in persona i malati e i feriti, teneva un esatto registro dei loro servizi e della sua propria gratitudine e mostrava in ogni occasione il più grande riguardo per un corpo, il cui benessere, come egli diceva, era cosi intimamente connesso con quello dello stato1. Coi modi più dolci si sforzò d’ispirare a quella fiera moltitudine il sentimento del dovere e di ristabilire almeno una debole immagine di quella disciplina, alla quale i Ro­ mani dovevano il loro dominio su tanti altri popoli, guerrieri al pari di loro e più di loro potenti. Ma fu vana la sua prudenza e fatale il suo coraggio; il tentativo di riforma non servi che a irri­ tare quei mali che intendeva curare. I pretoriani erano sinceramente affezionati al giovane Alessan- Ammmmadro, lo amavano come un tenero pupillo che essi avevano salvato pretoriani dal furore di un tiranno e collocato sul trono imperiale. Questo di Ulpiano amabile principe non aveva dimenticato i loro servizi; ma poiché la ragione e la giustizia mettevano limiti alla sua gratitudine, i pretoriani furono presto più malcontenti delle virtù di Alessan­ dro, di quanto non fossero mai stati dei vizi di Eliogabalo. Il sag­ gio Ulpiano, loro prefetto, era amico delle leggi e del popolo, ma veniva considerato come nemico dei soldati e s’imputava ai suoi perniciosi consigli ogni progetto di riforma. Un futile incidente 1 L ’imperatore era solito dire: « Se milites magis servare, quam seipsum; quod salus publica in his esset» (Hist. August., p. 130).

146

Pericolo di Dione Cassio

Tumulti delle legioni

C A P IT O L O S E S T O

converti il loro malcontento in un furioso ammutinamento, e per tre giorni la guerra civile infuriò a Roma, durante i quali il popolo riconoscente difese la vita di quell'eccellente ministro. Atterrito alla vista di alcune case incendiate e dalla minaccia d’un incendio generale, il popolo cedette alla fine sospirando, e abbandonò il virtuoso ma sfortunato Ulpiano al suo destino. Egli fu inseguito nel palazzo imperiale e ucciso ai piedi del suo signore, che invano si sforzava di coprirlo col suo manto e di ottenerne il perdono da­ gl’inesorabili soldati. La deplorevole debolezza del governo era tale, che Pimperatore non potè vendicare l’amico ucciso e la sua dignità offesa, se non abbassandosi alle arti della pazienza e della dissimulazione. Epagato, l’autore principale dell’ammutinamento, fu mandato lontano da Roma nell’onorifico impiego di prefetto dell’Egitto; da quell’alto posto a poco a poco fu degradato a go­ vernatore di Creta e quando il tempo e la lontananza lo fecero dimenticare dai soldati, Alessandro, preso animo, gl’inflisse il tar­ divo, ma giusto castigo dei suoi delitti ’. Sotto il regno di questo principe giusto e virtuoso, la tirannia dell’esercito minacciò di morte immediata i suoi piu fedeli ministri, sospettati di volere correggere i loro intollerabili abusi. Lo storico Dione Cassio ave­ va comandato le legioni della Pannonia nello spirito dell’antica disciplina; i loro compagni di Roma, abbracciando la causa co­ mune della licenza militare, domandarono la testa del riformato­ re. Alessandro, tuttavia, invece di cedere ai loro sediziosi clamori, mostrò quanto stimava i servizi e il merito di Dione, facendolo suo collega nel consolato e pagando egli stesso le spese di questa vana dignità; ma poiché si temeva giustamente che i soldati, ve­ dendolo con le insegne della carica, vendicassero nel suo sangue l’affronto, colui che nominalmente era il primo magistrato dello stato per consiglio dell’imperatore si allontanò da Roma e passò la maggior parte del suo consolato nelle proprie ville della Cam­ pania z. La mitezza dell’imperatore rafforzò l’insolenza delle truppe; le legioni imitarono l’esempio dei pretoriani e difesero la loro pre­ rogativa della licenza con la stessa feroce ostinazione, fi governo di Alessandro fu una vana lotta contro la corruttela dei tempi. Nell’Illirico, nella Mauritania, nell’Armenia, nella Mesopotamia1 1 Sebbene l ’autore d ella v ita d i A lessan d ro (Hist. August., p . 132) p arli d e ll’am m uti­ nam ento dei so ld ati con tro U lp ian o , passa so tto silen zio la catastrofe, che p oteva rivelare un segno d i d ebolezza n el go verno d e l suo eroe. D a una sim ile om ission e si può giu d icare della fed eltà e o b iettiv ità d i questo autore. .. TT.2 ? i veda. n ella con clusion e m u tila d ella storia d i D io n e C assio ( lxxx , p . 1371) la fine d i U lpiano e i p erico li corsi d a ll’autore.

147

S F R E N A T A L IC E N Z A D E L L 'E S E R C I T O

e in Germania scoppiavano sempre nuove congiure; furono tru­ cidati gli ufficiali, insultata la maestà e finalmente sacrificata la vita di questo principe al fiero malcontento dell’esercito’. In una sola occasione le truppe ritornarono al dovere e all’ob- Fermezza bedienza; e questo fatto singolare merita di essere ricordato, per- imperatore ché illumina l’indole di quei soldati. Mentre l’imperatore si tro­ vava ad Antiochia al tempo della sua spedizione in Persia di cui parleremo tra poco, la punizione di alcuni soldati, che erano stati sorpresi nel bagno delle donne, suscitò un tumulto nella loro le­ gione. Alessandro sali sul suo tribunale e con modesta fermezza espose a quella moltitudine armata l’assoluta necessità nonché l’in­ flessibile sua risoluzione di correggere i vizi, introdotti dal suo impuro predecessore, e di mantenere la disciplina, che non poteva rilassarsi senza la rovina del nome e dell’impero romano. Queste miti rimostranze furono interrotte dai clamori della legione. « Ri­ servate le vostre grida, - disse l’imperatore imperterrito, - a quan­ do andrete contro i Persiani, i Germani e i Sarmati, e tacete al co­ spetto del vostro sovrano e benefattore, che vi concede il grano, le vesti e il denaro delle province. Tacete, o non vi chiamerò piu sol­ dati, ma cittadini2, se pure quelli che calpestano le leggi di Roma meritano d’essere annoverati tra gl’infimi del popolo ». Le sue mi­ nacce infiammarono il furore della legione, e le loro armi impugna­ te già minacciavano la sua persona. « Il vostro coraggio, —riprese l’intrepido Alessandro, - si mostrerebbe più nobilmente su un campo di battaglia; potete uccidermi, ma non intimorirmi; e la se­ vera giustizia dello stato punirebbe il vostro delitto e vendiche­ rebbe la mia morte ». La legione continuava a rumoreggiare, quan­ do l’imperatore pronunciò ad alta voce la frase decisiva: «Citta­ dini, deponete le armi e ritiratevi in pace alle vostre rispettive abi­ tazioni ». La tempesta si placò all’istante; i soldati, pieni di dolore e di vergogna, riconobbero tacitamente la giustizia del loro castigo e il potere della disciplina, deposero le armi e le insegne militari e senza tornare all’accampamento si ritirarono confusi nei diversi al­ berghi della città. Alessandro godette per trenta giorni l’edificante spettacolo del loro pentimento e non li reintegrò nell’esercito fin­ ché non ebbe punito con la morte quei tribuni, la connivenza dei quali aveva causato il tumulto. La legione riconoscente si manten­ ne fedele all’imperatore finché visse; e morto, lo vendicò ’. 1 REIMAR, nota a DIONE CASSIO, LXXX, p.

1369.

. .

2 G iu lio Cesare aveva sedato u n am m utinam ento con la stessa parola « q u irite s » , che o pp osta a q u ella d i « m ilites » era un term ine d i d isprezzo, e rid u ceva i co lp e v o li alla m eno onorifica co n d izion e di cittad in i, t a c i t o , A n n o i., 1, 43. Hist. August., p . 132.

3

14 8 D ifetti del suo regno e carattere

Digressione sulle finanze dell 'impero

STATO GENERALE DELLE FINANZE ROMANE

CAPITOLO SESTO

Le decisioni della massa dipendono in genere da un attimo; e il capriccio della passione poteva determinare la legione ammutìnata a gettare le armi ai piedi dell’imperatore, come a conficcarle nel suo petto. Forse scopriremmo le cause segrete della intrepidità dell’imperatore e dell’obbedienza delle truppe, se quel fatto singo­ lare fosse stato indagato dalla penetrazione di un filosofo; e forse, se lo avesse riferito uno storico giudizioso, vedremmo quest’azione, degna di Cesare, ridotta al livello delle probabilità e dell’ordinatio carattere di Alessandro Severo. Sembra che le doti di questo principe amabile non fossero adeguate alle difficoltà della sua situazione e che la fermezza della sua condotta non fosse eguale alla purità delle sue intenzioni. Le sue virtù, come i vizi di Eliogabalo, derivavano una certa debolezza ed effeminatezza dal mite clima della Siria, dov’egli era nato; arrossiva d’essere di origine stranie­ ra e con vana compiacenza ascoltava gli adulatori genealogisti, che lo facevano discendere dall’antica nobiltà di Roma '. La superbia e l’avidità della madre gettarono un’ombra sulle glorie del suo re­ gno; e Mammea espose al ridicolo il proprio carattere e quello del figlio2*, esigendo da lui negli anni maturi la stessa rispettosa obbedienza, che ella aveva giustamente preteso dalla sua inesperta giovinezza. Le fatiche della guerra persiana accrebbero il malcontento dei soldati, e il suo esito sfortunato offuscò la reputazione dell’im­ peratore, come generale e come soldato. Ogni causa preparava e ogni circostanza affrettava una rivoluzione, che lacerò poi l’impero romano con una lunga serie di calamità intestine. La dissoluta tirannia di Commodo, le guerre civili causate dalla sua morte, e le nuove massime di politica introdotte dalla famiglia di Severo, avevano contribuito ad accrescere il pericoloso potere dell’esercito e ad obliterare dall’animo dei Romani la debole immagine delle leggi e della libertà che ancora vi era impressa. Abbiamo già cercato di spiegare con ordine e chiarezza questo interno mutamento, che minò le fondamenta dell’impero. Il carattere degli imperatori, le loro vittorie, le loro leggi, follie e fortune non ci possono interessare, se non in quanto sono connesse con la storia 1 Dai M etelli (Hist. August., p. 119). La scelta era felice. In dodici anni, i M etelli ebbero sette consolati e cinque trionfi. Si vedano velleio patercolo , i i , i i e i Fasti. La vita di Alessandro nella Hìstoria Augusta presenta il m odello di un principe perretto; è una debole copia della Ciropedia di Senofonte. La descrizione del suo regno, quale ce 1 ha data E rod ian o,è ragionevole e moderata, coerente con la storia generale del tempo, e in certi particolari più odiosi è confermata dai decisivi frammenti di Dione Cassio; ma in maggioranza, i nostri scrittori moderni per un meschino preconcetto tradiscono Erodiano e copiano la Hìstoria Augusta. Si vedano tillem o n t e wotton . Per un contrario preconcetto, 1 imperatore Giuliano {Cesari, p. 315) indugia con visibile soddisfazione sull’efieminata de­ bolezza del Siro e la ridicola avarizia di sua madre.

;i 1 (! \ j ^ ! i

< ' !

\

j j J j ; I

; , .· ; ·.

149

generale della decadenza e caduta della monarchia. La nostra co­ stante attenzione a questo grande oggetto non ci permette di tra­ scurare un importantissimo editto di Antonino Caracalla, che este­ se a tutti gli abitanti liberi dell’impero il nome e i privilegi della cittadinanza romana. Questa sconfinata liberalità non derivava pe­ rò dai sentimenti di un animo generoso, ma era l’effetto di una sor­ dida avidità. Alcune osservazioni sulle finanze dei Romani, dai se­ coli vittoriosi della repubblica al regno di Alessandro Severo, pro­ veranno la verità di questa affermazione. L ’assedio di Veio in Etruria (prima impresa notevole dei Ro- istituzione mani) durò dieci anni, piu per l’imperizia degli assedianti, che per la forza della città. Le insolite fatiche di tante campagne d’inverno a quasi venti miglia da casa ‘, esigevano incoraggiamenti piu che comuni; e il senato saggiamente prevenne i clamori del popolo, istituendo una paga regolare per i soldati, alla quale si sopperì con un tributo generale, imposto con giusta proporzione sui beni dei cittadini \ Per oltre duecento anni dopo la conquista di quella cit­ tà, le vittorie della repubblica aumentarono la potenza piu che la ricchezza di Roma. Gli stati d’Italia pagavano il loro tributo col solo servizio militare, e le immense forze terrestri e marittime, im­ piegate nelle guerre puniche, furono tutte mantenute a spese dei Romani. Questo magnanimo popolo (cosi grande è spesso il nobile entusiasmo della libertà) si sottomise volontariamente agli oneri più eccessivi, nella giustificata fiducia di godere presto i cospicui frutti delle sue fatiche. Le sue speranze non andarono deluse. In pochi anni, le ricchezze di Siracusa, di Cartagine, della Macedonia e abolizione e dell’Asia furono portate trionfalmente a Roma. Le ricchezze del imposte solo Perseo ammontavano a quasi due milioni di sterline e il po- aRoma polo romano, sovrano di tante nazioni, fu per sempre liberato dal peso delle imposte \ La rendita delle province, che andava sempre aumentando, servi a supplire alle spese ordinarie della guerra e del governo e la massa superflua dell’oro e dell’argento fu depositata nel tempio di Saturno, riservandola alle impreviste necessità dello stato4. 1 Secondo l ’esatto Dionigi d’Alicarnasso, la citta non distava da Roma che cento stadi (dodici miglia e mezzo), sebbene alcuni posti avanzati potessero estendersi piu in là verso l ’Etruria. Nardini ha confutato, in un trattato da competente, l ’opinione popolare e 1 autori­ tà di due papi, che ponevano V eio dove ora è Civita Castellana, spostandola in una piccola località chiamata Isola, a mezza strada tra Roma e il lago di Bracciano, 2 Cfr. Τίτο Livio, iv , 39 e v, 7. N el censo dei Romani si commisuravano 1 beni, il potere e le tasse 3 Plinio, His(. Natur., xxxm , 3; cicerone, D e officiis, 11, 22; plutarco, Paolo Emilio, 4 V ed i una bella descrizione di questi tesori accumulati nella Pharsalia di Lucano (in , 133 sgg.).

15 0

CAPITOLO SESTO

ΤΓ^ωί

La storia non ha forse mai sofferto un danno piu grave, o piu irreparabile, della perdita di quell’interessante registro, lasciato da Augusto al senato, nel quale questo principe esperto aveva accu­ ratamente registrato le entrate e le spese dell’impero romano \ Pri­ vi di questa chiara e comprensiva valutazione, siamo ridotti a rac­ cogliere pochi e incompleti accenni da quegli scrittori antichi, che incidentalmente hanno tralasciato la parte piu splendida per quel­ la piu utile della storia. Sappiamo che le conquiste di Pompeo feA s i a cero salire il tributo dell’Asia da 50 a 135 milioni di dracme, circa Egitto quattro milioni e mezzo di sterline12. Sotto l’ultimo e piu indolente dei Tolomei, l’Egitto rendeva 12 500 talenti, somma equivalente a oltre due milioni e mezzo della nostra moneta; ma questa rendita fu poi notevolmente accresciuta dall’amministrazione dei Romani e dagli aumentati scambi con l’Etiopia e l’India3. Gaiiia La Gallia si arricchiva colle rapine, come l’Egitto col commer­ cio, e i tributi di queste due grandi province furono stimati a un dipresso di eguale valore4.1 diecimila talenti euboici o fenici (circa A f r i c a quattro milioni di sterline)5 , che la vinta Cartagine fu condannata a pagare nel termine di cinquant’anni, erano un tenue riconosci­ mento della superiorità di Roma67e non può minimamente para­ gonarsi alle imposte successivamente stabilite sulle terre e sulle persone di quegli abitanti, quando la fertile costa dell’Africa fu ri­ dotta a provincia \ Spagna La Spagna, per un destino singolare, era il Messico e il Perù del mondo antico. La scoperta del ricco continente occidentale fatta dai Fenici, e l’oppressione di quei popoli semplici, costretti a lavo­ rare nelle proprie miniere a vantaggio degli stranieri, offrono un quadro esatto della storia piu recente dell’America spagnola8. I Fenici non conoscevano che le coste della Spagna; ma l ’avidità e l ’ambizione portarono le armi di Roma e di Cartagine nel cuore del paese, e quasi ovunque si trovarono miniere di rame, d’argento e d’oro. È ricordata una miniera presso Cartagena, che rendeva ven-

p r o v in c e

1 tacito , Annui., i, u . Sembra che questo registro esistesse ancora al tempo di Appiano. 1 plutahco , Pompeo, p. 642. 3 STRABONE, XVII, p . 798. 4 velleio patercolo , il, 39. Questo autore pare dia la preferenza alla rendita della Gallia. 5 I talenti euboici, fenici e alessandrini pesavano il doppio dei talenti attici. Intorno ai pesi e alle misure degli antichi, si veda hooper , parte I V , 5. È probabile che il talento fosse stato portato da Tiro a Cartagine. 6 POLIBIO, x v, 2. 7 appiano , Punicis, p. 84. 8 diodoro sic u lo , v. Cadice fu fondata dai Fenici, un poco piu di m ille anni avanti la nascita di Cristo, velleio patercolo , i , 2,

STATO GENERALE DELLE FINANZE ROMANE

I5I

ticinquemila dracme d’argento al giorno, circa trecentomila ster­ line all’anno '. Le province delle Asturie, della Galizia e della Lusitania rendevano annualmente ventimila libbre d’oro2. Non abbiamo né tempo, né materiali, per continuare questa in- L iscia . L. . . , 1 r i · · d i G yaru s teressante ricerca in tutti quei potenti stati che furono assorbiti dall’impero romano. Possiamo peraltro formarci qualche idea del­ la rendita di quelle province, nelle quali vi erano ricchezze conside­ revoli, donate dalla natura o accumulate dagli uomini, se osservia­ mo la seria attenzione rivolta alle regioni sterili e solitarie. Una volta Augusto ricevette una supplica dagli abitanti di Gyarus, i quali umilmente lo pregavano d’essere sollevati di un terzo delle loro eccessive imposte. L ’intera imposta non ammontava che a cen­ tocinquanta dracme, circa cinque sterline; ma Gyarus era una iso­ letta, o meglio uno scoglio, del Mare Egeo, priva d’acqua dolce e di ogni cosa necessaria alla vita, e abitata da pochi miserabili pe­ scatori3. Alla debole luce di questi sparsi e incerti dati, saremmo portati A m m o n t a r e a credere, primo, che (avuto ogni riguardo alla differenza dei tempi r e n d i t a e delle circostanze) la rendita generale delle province romane rara­ mente fosse minore di quindici o venti milioni della nostra mone­ ta4; secondo, che un’entrata cosi considerevole dev’essere stata pienamente adeguata a tutte le spese del moderato governo istitui­ to da Augusto, la corte del quale non eccedeva il modesto tenor di vita di un senatore, e le cui forze armate erano calcolate per la sola difesa delle frontiere, senza alcuna mira ambiziosa di conquiste, o alcun serio timore di invasioni straniere. Nonostante l’apparente probabilità di queste due conclusioni, T a s s e la seconda almeno è esplicitamente contraddetta dal linguaggio e c i t t a d i n i dalla condotta di Augusto. Non è facile decidere se a quel tempo apposte egli operasse da padre comune del mondo romano, o da oppresso- daAugust0 re della libertà, se volesse sollevare le province, o impoverire il se­ nato e l’ordine equestre; ma appena ebbe preso le redini del gover­ no, cominciò a fare frequenti dichiarazioni sull’insufficienza dei tri­ buti e sulla necessità di addossare a Roma e all’Italia un’equa par1 STRABONE, III, p. 148. , . . ,1 τλ 1 2 plin io , Hist. Natur., x x x m , 3. Egli ricorda anche una miniera d argento nella Dalma­ zia, che rendeva allo stato cinquanta libbre al giorno. 3 strabone , x, p. 483; tacito , Armai., in , 69 e iv, 30. V edi in Tournefort {Voyages au Levante lettera v m ) un’eloquente descrizione d ell’efiettivo squallore di Gyarus. 4 giusto l ip s io , D e magnitudine Romana, 11, 3, fa ammontare l ’entrata a centocinquan­ ta m ilioni di corone d ’oro, ma tutta la sua opera, sebbene ingegnosa e piena di erudizione, tradisce una fantasia molto riscaldata.

152

L e dogane

Im p o sta s u l l ’e n t r a t a

CAPITOLO SESTO

te dei pubblici oneri. Nell’esecuzione di questo piano impopolare, egli procede tuttavia con cautela e ponderazione. L ’introduzione delle gabelle fu seguita dall’istituzione di un’imposta sull’entrata, e il sistema tributario fu completato con un’imposta sui beni e le persone dei cittadini romani, che per un secolo e mezzo erano stati esenti da qualsiasi tributo. 1 ) In un impero vasto come quello di Roma, deve essersi verifi­ cato un graduale equilibrio della circolazione monetaria. È già sta­ to osservato, che come le ricchezze delle province erano attirate alla capitale dalla forza della conquista e della potenza, cosi le in­ dustriose province ne ricuperavano insensibilmente gran parte per il mite influsso del commercio e delle arti. Sotto il regno di Augu­ sto e dei suoi successori furono imposti diritti su ogni specie di merci, che per mille canali scorrevano verso il grande centro della ricchezza e del lusso; ma comunque fosse espressa la legge, era il compratore romano, non il commerciante provinciale che pagava la tassa1. La percentuale dei dazi variava dall’ottava alla quarantesi­ ma parte del valore delle merci; e possiamo con ragione supporre che la diversità fosse regolata dalla massima inalterabile dell’eco­ nomia, che gli oggetti di lusso pagassero un dazio maggiore di quel­ li di prima necessità, e che per i prodotti e i manufatti dell’impero si avesse una maggiore indulgenza, che per il dannoso o almeno malvisto commercio dell’Arabia e dell’India2. Esiste ancora un lungo, ma incompleto catalogo delle merci orientali, che verso il tempo di Alessandro Severo erano soggette al pagamento del da­ zio: la cannella, la mirra, il pepe, lo zenzero e tutti gli aromi, una gran varietà di pietre preziose, tra le quali il diamante era la piu pregiata per il suo valore e lo smeraldo per la sua bellezza3, le pelli della Persia e di Babilonia, i cotoni, la seta greggia o lavorata, l’e­ bano, l’avorio e gli eunuchi4. È da notare che la richiesta e il prez­ zo di questi schiavi effeminati andò crescendo in proporzione della decadenza dell’impero. 2) L ’imposta sull’entrata, stabilita da Augusto dopo le guerre civili, era tenuissima, ma generale. Raramente eccedeva l’uno per cento, ma comprendeva tutto ciò che si vendeva nei mercati o al­ 1 tacito , Armai., x in , 31. 2 p l i n io , Hist. Natur., vi, 28; x i i , 18. E gli osserva che le merci d ell’India si vendevano a Roma cento volte più del loro prezzo d ’origine, dal che si può arguire il reddito delle do­ gane, poiché questo prezzo d ’origine ammontava a oltre ottocentomila sterline. 3 G li antichi ignoravano l ’arte di sfaccettare il diamante. 4 II Bouchaud, nel suo trattato De l'Im pót chez les Romains, ha trascritto questa lista che si trova nel Digesto e ha cercato di illustrarla con un commento molto prolisso.

STATO GENERALE DELLE FINANZE ROMANE

153

l’asta pubblica, dagli acquisti di terreni o di case a quei piccoli og­ getti, il cui prodotto non può divenire importante che per il loro infinito numero e il consumo quotidiano. Una simile tassa, che col­ pisce tutta la nazione, ha sempre provocato proteste e malconten­ to. Un imperatore, che conosceva bene i bisogni e le risorse dello stato, fu costretto a dichiarare con un editto che il mantenimento delle forze armate dipendeva in gran parte dall’imposta sull’en­ trata ‘. Im p o sta 3 ) Quando Augusto deliberò di stabilire un esercito permanen­ di te per difendere il suo governo contro i nemici esterni e interni, s u c c e s s i o n e istituì un fondo particolare per la paga dei soldati, le ricompense ai veterani e le spese straordinarie della guerra. Il cospicuo reddito dell’imposta sull’entrata, sebbene interamente devoluto a questi usi, non fu sufficiente, e per coprire il disavanzo l’imperatore sug­ gerì una nuova tassa del cinque per cento su tutti i legati e tutte le eredità; ma i nobili romani si mostrarono piu gelosi dei loro beni, che della loro libertà. Le loro indignate proteste furono accolte con la consueta calma da Augusto, che rinviò candidamente l’affare al senato, esortandolo a provvedere alla spesa con qualche espedien­ te meno odioso. I senatori erano divisi e perplessi; ma avendo egli osservato che la loro ostinazione l’obbligherebbe a proporre una imposta fondiaria e di capitazione, essi annuirono in silenzio \ La nuova imposta sui legati e sulle eredità fu tuttavia mitigata da al­ cune restrizioni; non si applicava se l’oggetto non aveva un deter­ minato valore, probabilmente di cinquanta o cento monete d’oro3, né si poteva esigere dal parente piu prossimo per parte di padre1. Assicurati così i diritti della natura e della povertà, parve cosa as­ sai ragionevole che uno straniero, o un parente lontano, che acqui­ stavano un inatteso aumento di beni, dovessero cederne volentieri la ventesima parte a vantaggio dello stato5. L ’imposta di successione, per abbondante che possa esserne il a d a t t a a lle le g g i gettito in una società ricca, era particolarmente adatta alla situa­ e a i c o s t u m i zione dei Romani, che potevano nei loro arbitrari testamenti se­ guire la ragione o il capriccio, non essendo vincolati dai moderni 1 t a c i t o , Armai., i, 78, Due anni dopo l’imperatore Tiberio, avendo soggiogato il po­ vero regno di Cappadocia, ne trasse un pretesto per diminuire di metà l ’imposta sull’entrata; ma questa diminuzione fu di brevissima durata. 2 DIONE CASSIO, LV, p. 794; LVI, p. 82β. 3 Questa somma è indicata soltanto per congettura. 4 Per molti secoli, nei quali vigeva il diritto romano, i «cognati», o parenti dal lato materno, non erano chiamati alla successione. Questa legge crudele fu insensibilmente m iti­ gata d all’umanità, e infine abolita da Giustiniano. 5 plin io , Panegirico, 37. 7

CAPITOLO SESTO

154

Norme imperatori

ceppi ereditari e dotali. Per varie cause, la parzialità dell’affetto paterno perdeva spesso la sua influenza sugli austeri repubblicani e sui dissoluti nobili dell’impero; e quando il padre lasciava al fi­ glio la quarta parte del suo patrimonio, toglieva ogni motivo di ri­ vendicazioni legalil. Un ricco vecchio senza figli era un tiranno do­ mestico, e il suo potere cresceva con gli anni e le malattie. Una folla servile, nella quale sovente si trovavano pretori e consoli, lo corteggiava per ottenerne un sorriso, compiaceva la sua avarizia, applaudiva le sue follie, serviva le sue passioni e ne attendeva con impazienza la morte. L ’arte del corteggiamento e dell’adulazione divenne una scienza lucrosa; coloro che la professavano ebbero un nome particolare e tutta la città, secondo le vivaci descrizioni della satira, fu divisa in due parti, cacciatori e cacciagione2. Ma se ogni giorno tanti stravaganti e ingiusti testamenti venivano dettati dal­ la furbizia e sottoscritti dalla follia, alcuni pochi erano suggeriti da una stima ragionevole, o da una virtuosa gratitudine. Cicerone, che tanto spesso aveva difeso la vita e i beni dei suoi concittadini, fu ricompensato con legati per un importo di centosettantamila sterline3; né pare che gli amici di Plinio il Giovane fossero meno generosi verso questo amabile oratore4. Quale che fosse il motivo del testatore, l’erario reclamava senza distinzione la ventesima par­ te dell’eredità, e nel corso di due o tre generazioni l’intero patri­ monio del suddito deve essere gradatamente passato nelle casse dello stato. Nei primi e aurei anni del regno di Nerone, questo principe, per desiderio di popolarità, o forse per un cieco impulso di bontà, eb­ be l’idea di abolire la pressione dei dazi e dell’imposta sull’entrata. I senatori piu saggi lodarono la sua magnanimità, ma Io dissuasero dall’esecuzione di un piano, che avrebbe distrutto la forza e le ri­ sorse dell’impero5. Se fosse stato possibile realizzare questo sogno chimerico, Traiano e gli Antonini avrebbero certamente approfit­ tato della gloriosa opportunità di rendere agli uomini un servizio cosi segnalato. Si appagarono pertanto di alleggerire le pubbliche gravezze, ma non tentarono di abolirle. La mitezza e precisione delle loro leggi determinarono la regola e la misura delle imposizio­ ni e protessero i sudditi di ogni condizione contro le arbitrarie in­ 1

e in e c c io ,

Antiquit. juris Romani, n.

n , sat. v; p e t r o n io , i i 6 sgg.; p i i n i o , Epist. u , 20. 3 c ic e r o n e , Philippic., 11, 16. 4 Si vedano le sue lettere. T u t ti q u esti testam enti g li d avan o occasione d i m ostrare il suo rispetto p er i m orti, e la sua g iu stizia p er i v iv i. E questa e q u e llo e g li co n ciliò n ella sua co n d o tta verso un fig lio d isered ato d alla m adre (v , 1). 5 t a c it o , Annal., x m , j o ; Esprit des Loix, x i i , 19. 2

orazm ,

STATO GENERALE DELLE FINANZE ROMANE

155

terpretazioni, le antiquate pretese e le arroganti vessazioni degli appaltatori '. È però singolare, che in ogni tempo i migliori e piu saggi imperatori romani perseverassero nel dannoso metodo di dare in appalto almeno i settori principali dei dazi doganali e della imposta sull’entrata \ I sentimenti e anche la situazione di Caracalla erano ben diver­ Editto di Caracalla si da quelli degli Antonini. Incurante, anzi nemico del pubblico bene, si trovò nella necessità di soddisfare all’avidità delle truppe, avidità ch’egli medesimo aveva eccitato. Di tutte le diverse impo­ ste introdotte da Augusto, il ventesimo sulle eredità e sui legati era la più fruttuosa e la piu estesa. Non essendo limitata ai soli abi­ tanti di Roma o d’Italia, se ne aumentava continuamente il gettito con la graduale estensione della cittadinanza romana. I nuovi cit­ tadini, sebbene assoggettati alle stesse condizioni al pagamento di nuove tasse3, dalle quali erano stati esenti come sudditi, venivano ampiamente compensati dal rango che ottenevano, dai privilegi che acquistavano e dalle belle prospettive di onori e ricchezze, che si offrivano alla loro ambizione. Ma questi vantaggi svanirono quando la prodigalità di Caracalla, togliendo ogni distinzione, co­ La cittadinanza strinse tutti i provinciali a prendere loro malgrado il titolo e gli ob­ romana estesa blighi reali di cittadini romani. Né il rapace figlio di Severo si ap­ a tutto pagò del regime tributario, che era bastato ai suoi moderati prede­ la’impero scopo di cessori. Invece di un ventesimo egli incamerò un decimo di tutte tassazione le eredità e di tutti i legati; e durante il suo regno (poiché dopo la sua morte l’imposta fu riportata all’antica proporzione) tutte le parti dell’impero furono egualmente oppresse sotto il peso del suo ferreo scettro4. Quando tutti i provinciali furono soggetti alle imposte partico­ Riduzione temporanea lari dei cittadini romani, pareva che avessero acquistato il diritto dei tributi all’esenzione da quelle che erano soliti pagare nella precedente condizione di sudditi; ma non erano queste le massime di governo adottate da Caracalla e dal suo preteso figlio. Le province si trova­ rono al tempo stesso oppresse dai nuovi e dagli antichi tributi. Era riservato al virtuoso Alessandro Severo di sollevarle in gran parte da questa intollerabile oppressione, riducendo i tributi a una tren­ tesima parte della somma che si pagava prima del suo avvento5. È 1 S i ved an o il Panegirico d i P lin io , la Historia Augusta e bu rm an , D e vectigalibus. 2 I tributi propriamente detti non erano dati in appalto, giacché i buoni principi con­ donavano spesso m olti m ilioni di arretrati. 3 L a condizione dei nuovi cittadini è minutamente descritta da Plinio (Panegirico, 37, 38, 39). Traiano pubblicò una legge m olto favorevole a loro.

4 DIONE CASSIO, LXXVII, p. 1295. 5 C h i era tassato d ieci « a u r e i» , i l trib u to o rd in ario, n on p agò p iu ch e u n terzo d i un

15 6

C on seguen ze d e lla e s te n s io n e g e n e r a le d e lla c itta d in a n z a rom an a

CAPITOLO SESTO

impossibile congetturare per qual motivo egli lasciasse sussistere quel minuscolo residuo del pubblico male; ma questa pianta noci­ va, non interamente sradicata, tornò a germogliare piu lussureg­ giante, e nei secoli successivi stese la sua ombra mortifera su tutto il mondo romano. Nel corso di questa storia saremo spesso obbli­ gati a ricordare l’imposta sui terreni, il testatico e le gravose con­ tribuzioni di grano, di vino, d’olio e di carni, che si esigevano dalle province per uso della corte, dell’esercito e della capitale. Finché Roma e l’Italia furono rispettate come il centro del go­ verno, gli antichi cittadini conservarono uno spirito nazionale che i cittadini di adozione assimilarono a poco a poco. Le principali ca­ riche dell’esercito erano esercitate da uomini di educazione libera­ le, che ben conoscevano i vantaggi delle leggi e delle lettere, ed era­ no saliti con passo eguale nella regolare carriera degli onori civili e militari '. Alla loro influenza e al loro esempio si può in parte attri­ buire la rispettosa obbedienza delle legioni nei due primi secoli dell’età imperiale. Ma quando Caracalla ebbe abbattuto l ’ultimo baluardo della costituzione romana, alla distinzione dei gradi subentrò a poco a poco la separazione delle professioni. La magistratura e la profes­ sione forense restarono riservate ai progrediti cittadini delle pro­ vince interne, mentre la rude professione delle armi fu abbandona­ ta ai contadini e ai barbari delle frontiere, i quali non conoscendo altra patria che il loro accampamento, altra scienza che quella del­ la guerra, disprezzavano le leggi e appena osservavano le norme della disciplina militare. Con mani insanguinate, selvaggi costumi e disperate risoluzioni, essi qualche volta difesero, ma piu spesso rovesciarono il trono degl’imperatori. «aureo»; e Alessandro fece coniare monete d’oro in proporzione (Hist. August., p. 127, con il commento del Salmasio). 1 Si vedano le vite di Agricola, Vespasiano, Traiano, Severo, dei suoi tre competitori, e in genere di tutti gli uomini illustri di quei tempi.

CAPITOLO SETTIM O

Elevazione al trono e tirannia di Massimino. Ribellione in Africa e in Italia autorizzata dal senato. Guerre civili e sedi­ zioni. Morte violenta di Massimino e di suo figlio, di Massimo, Balbino, e dei tre Gordiani. Usurpazione e giochi secolari di Filippo.

Tra le forme di governo vigenti nel mondo, la monarchia ere­ L ’ a p p a r e n t e r id ic o lo ditaria pare offrire il miglior bersaglio al ridicolo. È possibile dire, senza un sorriso di sdegno, che alla morte del padre la proprietà di una nazione passi come un armento al figlio bambino, ignoto agli altri come a se stesso, e che i piu prodi guerrieri, i piu saggi statisti, rinunciando al loro naturale diritto al dominio, si accostino alla culla reale con le ginocchia piegate e dichiarazioni di eterna fedel­ tà? La satira e la declamazione possono rappresentare questi ovvi argomenti coi piu brillanti colori; ma noi, con maggiore serietà ri­ spetteremo l’utile pregiudizio, che stabilisce una regola di succes­ sione indipendente dalle passioni degli uomini e approveremo pie­ namente qualsiasi espediente, che tolga alla moltitudine il potere pericoloso, e meramente ideale, di eleggersi da se stessa un pa­ drone. A ll’ombra e nel silenzio del ritiro si possono facilmente escogi­ e i s o l i d i v a n ta g g i tare diverse forme di governo, nelle quali lo scettro venga costan­ d e l l a temente dato al piu degno dal libero e incorrotto suffragio dell’in­ me r oe nd ai tracrhi ai a tera nazione. L ’esperienza demolisce questi aerei edifici e c’insegna che, in una grande società, l’elezione del monarca non può mai di­ pendere dalla parte piu saggia, o più numerosa del popolo. I mili­ tari sono il solo ordine di uomini sufficientemente uniti per accor­ darsi negli stessi sentimenti, e abbastanza potenti per farli adotta­ re dal resto dei loro concittadini; ma il carattere dei soldati, av­ vezzi alla violenza e insieme alla schiavitù, li rende affatto inadat­ ti a essere i custodi d’una legale o anche civile costituzione. La giu­ stizia, l’umanità, o la saggezza politica sono qualità troppo ignote a loro, perché possano apprezzarle negli altri. Il valore acquisterà la loro stima e la generosità comprerà i loro voti; ma il primo di

i

L a sua m an can za p ro d u ce l e p iu gran d i

calamità n e l l ’ im p e r o rom ano

N a s c ita e so rte d i M a s s im in o

58

CAPITOLO SETTIMO

questi meriti spesso si trova nei petti piu feroci, il secondo non può esercitarsi che a spese del popolo, mentre entrambi possono essere rivolti contro il possessore del trono dall’ambizione di un audace rivale. La superiore prerogativa della nascita, sanzionata dal tempo e dalPopinione, è la piu semplice e meno odiosa di tutte le distinzio­ ni tra gli uomini. Il diritto riconosciuto estingue le speranze delle fazioni, e la coscienza della propria sicurezza disarma la crudeltà del monarca. Noi dobbiamo a questo concetto, saldamente radica­ to, la pacifica successione e il mite governo delle monarchie euro­ pee. Alla mancanza di questo stesso concetto si debbono attribuire le frequenti guerre civili, con le quali un despota asiatico è obbli­ gato ad aprirsi la via al trono dei suoi antenati. Ma anche in Orien­ te la sfera della contesa è per lo più limitata tra i principi della casa regnante, e appena il fortunato pretendente si è sbarazzato dei suoi fratelli con la spada e con l’arco, non ha piu timore dei suoi sud­ diti. Ma l’impero romano, quando l’autorità del senato fu caduta nel disprezzo, divenne un vasto teatro di confusione. Le famiglie reali e anche quelle nobili delle province erano state da gran tem­ po condotte davanti al carro trionfale degli orgogliosi repubblica­ ni. Le antiche famiglie romane si erano Luna dopo l’altra estinte sotto la tirannia dei Cesari, e finché questi principi furono vincola­ ti dalla forma repubblicana e ripetutamente delusi dalla mancanza di discendenti1, fu impossibile che il concetto di una successione ereditaria potesse radicarsi nella mente dei loro sudditi. Ciascuno rivendicò al proprio merito il diritto a quel trono, al quale per na­ scita nessuno poteva aspirare. Le audaci speranze dell’ambizione non erano trattenute dal freno salutare delle leggi e dei pregiudizi, e il piu vile degli uomini poteva seriamente sperare di salire col va­ lore e la fortuna a un grado militare, nel quale un solo delitto lo avrebbe messo in condizione di strappare lo scettro del mondo di mano al suo debole e aborrito sovrano. Dopo l’assassinio di Ales­ sandro Severo e l ’elevazione di Massimino, nessun imperatore po­ tè credersi sicuro sul trono; e ogni contadino barbaro delle fron­ tiere potè aspirare a quel posto augusto e pericoloso. Circa trentadue anni prima di questo avvenimento, l’imperato­ re Severo, ritornando da una spedizione in Oriente, si fermò nella Tracia per celebrare con giochi militari il giorno natalizio di Geta, 1 N on v i era stato alcun esem pio d i tre generazioni con secu tive sul trono, m a soltanto d i tre figli succeduti ai pad ri. N on ostan te la p o ssib ilità e la freq u en te pratica d e l d iv orzio , in generale i m atrim on i d ei Cesari fu ro n o sterili.

ELEVAZIONE AL TRONO E TIRANNIA DI MASSIMINO

15 9

suo figlio minore. Quei popoli accorsero in folla a vedere il loro sovrano, e un giovane barbaro, di gigantesca statura, istantemente domandò nel suo rozzo dialetto il favore di essere ammesso a con­ correre al premio della lotta. Poiché la dignità dell’esercito sareb­ be stata disonorata se un contadino della Tracia avesse atterrato un soldato romano, lo fecero combattere coi piu robusti servi del cam­ po, sedici dei quali furono da lui successivamente abbattuti. La sua vittoria fu ricompensata con alcuni piccoli doni e col permesso di arruolarsi. Il giorno dopo, quel barbaro fortunato si fece distingue­ re tra le altre reclute, danzando e cantando alla maniera del suo paese. Appena si accorse di essersi attirata l’attenzione dell’impe­ ratore, si mise subito dietro al suo cavallo e lo segui a piedi duran­ te una lunga e rapida corsa senza la minima apparenza di stanchez­ za. « O Trace, - disse Severo meravigliato, - sei disposto a lottare dopo aver fatto questa corsa?» «Ben volentieri», rispose quel giovane instancabile; e quasi d’un fiato atterrò sette dei piu forti soldati dell’esercito. Una collana d’oro fu il premio della eccezio­ nale forza e valentia del giovane, che venne immediatamente de­ stinato a servire tra le guardie a cavallo, che accompagnavano sem­ pre l’imperatore ’. Massimino, poiché tale era il suo nome, sebben nato nelle terre dell’impero, discendeva da una razza mista di barbari. Suo padre era Goto e sua madre della tribù degli Alani. Mostrò in ogni oc­ casione un valore pari alla forza e la pratica del mondo mitigò ben presto, o mascherò, la sua innata fierezza. Sotto il regno di Seve­ ro e del figlio ottenne il grado di centurione, col favore e la stima di entrambi questi principi, il primo dei quali era eccellente conosci­ tore del merito. La gratitudine vietò a Massimino di servire sotto l’assassino di Caracalla, e l’onore gli apprese ad evitare i femminei affronti di Eliogabalo. A ll’avvento di Alessandro Severo ritornò al­ la corte e ottenne da questo principe un posto utile al servizio e onorevole a se stesso. La quarta legione, della quale era stato no­ minato tribuno, presto divenne per le sue cure la più disciplinata di tutto l’esercito. Con l’approvazione generale dei soldati, che davano al loro eroe favorito i nomi di Aiace e di Ercole, egli fu suc­ cessivamente promosso comandante supremo2; e se non avesse 1 Hist. Augusta p. 138. 2 Ibid ., p. 140; ero diano , v i, p. 223; Au r e l io v it t o r e . Dal confronto di questi autori, parrebbe che Massimino avesse il comando particolare della cavalleria triballiana, e fosse ispettore generale per Tistruzione delle reclute di tutto l ’esercito. I l suo biografo avrebbe do­ vuto indicare più accuratamente le sue imprese e promozioni.

Sua

carriera m ilit a r e

16 0

C o n g iu r a d i M a s s im in o

A s s a s s in io d i A le s s a n d r o S evero (19 m arzo

235)

CAPITOLO SETTIMO

conservato troppo della rozzezza della sua origine barbarica, forse l’imperatore avrebbe dato la propria sorella in moglie al figlio di Massimino Questi favori, anziché assicurarne la fedeltà, non valsero che ad infiammare l’ambizione di quel contadino tracio, che conside­ rava la sua fortuna come inadeguata al suo merito, finché era co­ stretto a riconoscere un superiore. Sebbene privo di vera saggezza, non mancava di scaltrezza, che gli fece vedere come l’imperatore avesse perduto l’affetto dei soldati e gli apprese ad accrescerne il malcontento a proprio vantaggio. È facile alla parzialità e alla ca­ lunnia spargere il loro veleno sul governo dei migliori principi e accusare le loro stesse virtù, confondendole accortamente con quei vizi, coi quali hanno la massima affinità. I soldati ascoltarono con piacere gli emissari di Massimino e arrossirono della vergognosa pazienza, con la quale avevano per tredici anni sopportato la fasti­ diosa disciplina imposta loro da un Siro effeminato, pavido schiavo della madre e del senato. Era tempo, gridavano, di sbarazzarsi di quell’inutile fantasma del potere civile e di eleggere a loro sovrano e generale un vero soldato, educato nel campo, esercitato alla guer­ ra, che sostenesse la gloria dell’impero e ne dividesse i tesori coi suoi compagni. Un forte esercito era allora accampato sulle rive del Reno sotto il comando dell’imperatore medesimo, che quasi im­ mediatamente dopo il suo ritorno dalla guerra persiana era stato obbligato a marciare contro i barbari della Germania. A Massimino era affidato l ’importante compito di addestrare e ispezionare le nuove reclute. Un giorno, entrato nella piazza d’armi, le truppe, o per un impulso improvviso, o per congiura, lo salutarono impe­ ratore, interrompendo con le loro alte acclamazioni i suoi ostinati rifiuti e affrettandosi a completare la ribellione uccidendo Alessan­ dro Severo. Le circostanze di questa morte vengono variamente riferite. Quegli storici, i quali suppongono che egli morisse ignorando l’in­ gratitudine e ambizione di Massimino, affermano che dopo aver preso un pasto frugale al cospetto dell’esercito, si ritirò a dormire, e che verso la settima ora del giorno alcune delle sue guardie ir­ ruppero nella tenda imperiale e con molte ferite uccisero il loro virtuoso sovrano Se si crede a un’altra e piu probabile versione, 1 Lettera originale di Alessandro Severo (H ist. A u g u s t p. 149). 2 Ibtd., p. 135. H o attenuato alcune delle piu improbabili circostanze, riferite da questo sciagurato biografo. Secondo la sua sconclusionata narrazione, parrebbe che il buffone di Alessandro, entrato a caso nella sua tenda mentre dormiva, lo svegliasse, e che il timore di un castigo lo spingesse a persuadere i malcontenti soldati a commettere queU’assassinio.

IE L E V A Z IO N E A L

TRONO E

T IR A N N IA

D I M A S S IM IN O

l

6 l

Massimino fu insignito della porpora da un numeroso distacca­ mento lontano diverse miglia dal quartier generale, e che per il successo egli confidava piu nei segreti desideri che nelle pubbliche dichiarazioni dell’esercito. Alessandro ebbe tempo sufficiente per risvegliare nelle truppe un debole sentimento di lealismo, ma le loro riluttanti dichiarazioni di fedeltà svanirono rapidamente alP’apparire di Massimino, che si dichiarò l’amico e il protettore del­ l’ordine militare e fu unanimemente riconosciuto imperatore dei Romani dalle acclamazioni delle legioni. Il figlio di Mammea, tra­ dito e abbandonato, volendo almeno nascondere la sua fine immi­ nente agl’insulti della moltitudine, si ritirò nella sua tenda. Lo se­ guirono subito un tribuno e alcuni centurioni, ministri di morte; ma anziché ricevere con virile fermezza il colpo inevitabile, con pianti e suppliche inutili disonorò gli ultimi istanti della sua vita, mutando parzialmente in disprezzo quella giusta pietà, che la sua innocenza e le sue sventure dovevano ispirare. Sua madre Mam­ mea, all’ambizione e all’avidità della quale egli imputava aperta­ mente la sua rovina, peri con lui. I suoi piu fedeli amici caddero vittime del primo furore dei soldati, mentre altri furono riservati alla deliberata crudeltà dell’usurpatore; e quelli che ebbero un trat­ tamento piu mite, furono privati dei loro impieghi e ignominiosamente cacciati dalla corte e dall’esercito I precedenti tiranni, Caligola e Nerone, Commodo e Caracalla, erano tutti giovani dissoluti e inesperti2, educati nella porpora e corrotti dall’orgoglio del dominio, dal lusso di Roma e dalla perfida voce dell’adulazione. La crudeltà di Massimino aveva un’origine diversa: il timore del disprezzo. Sebbene confidasse nell’affetto dei soldati, che lo amavano per le sue virtù simili alle loro, sapeva che la sua bassa origine barbarica, il suo aspetto selvatico e la sua tota­ le ignoranza delle arti e delle norme della vita civile3 formavano un contrasto molto svantaggioso con le amabili maniere dello sven­ turato Alessandro. Egli ricordava che quand’era in basso, aveva spesso atteso davanti alla porta dei superbi nobili romani e che gli era stato spesso negato l’ingresso dall’insolenza dei loro schiavi. Ricordava anche l’amicizia di quei pochi, che avevano alleviato la sua povertà e favorito le sue nascenti speranze; ma che lo avessero 1 ERODIANO, VI, pp. 223-27. 2 Caligola, il maggiore dei quattro, non aveva che 23 anni quando sali al trono, Caracalla 23, Commodo 19 e Nerone appena 17.

3 Sembra che ignorasse affatto il greco, lingua d’uso universale nello scrivere e nel con­ versare e parte essenziale d’ogni cultura umanistica.

T ir a n n ia d i M a s s im in o

16 2

O p p r e s s io n e d e lle p r o v in c e

CAPITOLO SETTIMO

sprezzato o protetto, erano tutti colpevoli dello stesso delitto, la conoscenza della sua oscura origine. Molti furono messi a morte per questo delitto; e con l’uccisione di vari suoi benefattori, Massimino pubblicò a caratteri di sangue la storia indelebile della sua bassezza e ingratitudine '. L ’animo cupo e sanguinario del tiranno era aperto a ogni so­ spetto contro i sudditi piu illustri per nascita o per merito. Ogni volta che egli temeva qualche tradimento, la sua crudeltà era impla­ cabile e senza limiti. Fu scoperta, o inventata, una congiura con­ tro la sua vita, e Magno, senatore consolare, venne accusato di es­ serne il capo. Senza testimoni, senza processo e senza potersi di­ fendere, Magno fu messo a morte con quattromila suoi complici, e l’Italia, anzi tutto l’impero fu infestato da un numero incredibile di spie e delatori. Per una lievissima accusa, i principali nobili ro­ mani, che avevano governato province, comandato eserciti e porta­ to le insegne del consolato e del trionfo, erano incatenati su carroz­ ze pubbliche e trascinati alla presenza dell’imperatore. La confisca, l’esilio o la semplice morte si consideravano come esempi straordi­ nari della sua clemenza. Alcuni di quegli sventurati venivano per suo ordine cuciti dentro pelli di animali, altri esposti alle fiere o condannati a essere battuti a morte con le verghe. Nei tre anni del suo regno, non si degnò di visitare né Roma, né l’Italia. Il suo ac­ campamento, trasferito occasionalmente dalle rive del Reno a quel­ le del Danubio, era la sede del suo barbaro dispotismo, che calpe­ stava ogni principio di legge e di giustizia e aveva per sostegno l’arbitrario potere della spada12. Egli non tollerava presso di sé nes­ suno di nobile nascita, di belle maniere, o esperto negli affari civi­ li; l’imperatore romano richiamava l’idea di quegli antichi capi di schiavi e di gladiatori, la cui selvaggia potenza aveva lasciato una profonda impressione di terrore e di detestazione3. Finché la crudeltà di Massimino fu limitata agli illustri sena­ tori, o anche a quegli audaci avventurieri, che nella corte e nell’e­ sercito si esponevano al capriccio della fortuna, il popolo contem-

1 Hist. Augusta p. 141; erodiano, v i i , p. 237. Q uest’ultimo storico è stato m olto ingiu­ stamente accusato di aver nascosto i vizi di Massimino. 2 La moglie di Massimino riuscì talvolta, con i suoi saggi consigli, a ricondurre con dol­ cezza femminile il tiranno sulla via della verità e deirumanità. Si veda am m iano Marcel ­ lino , x iv , 1, dove fa allusione al fatto, che ha piu estesamente riferito sotto il regno dei G or­ diani. Si può vedere dalle medaglie, che quella benefica imperatrice si chiamava Paulina; il titolo di « D iv a» indica che mori avanti Massimino (valesio , in am m iano Marcellino , loc. cit. spanh eim , D e usu numismatum, I I , p. 300). 3 Egli veniva paragonato a Spartaco e Atenione. Hist. August., p. 141.

16 3

RIBELLIONE IN AFRICA E IN ITALIA AUTORIZZATA DAL SENATO

piò con indifferenza, e forse con piacere, i loro supplizi; ma l’avi­ dità del tiranno, stimolata dall’insaziabile ingordigia dei soldati, attaccò alla fine anche i beni dei cittadini. Ogni città dell’impero possedeva una rendita indipendente, destinata all’acquisto del gra­ no per il popolo, e a provvedere alle spese dei giochi e dei diverti­ menti. Con un solo atto d’autorità, l’intera massa di queste ric­ chezze fu improvvisamente confiscata a beneficio del fisco imperia­ le. I templi furono spogliati delle piu ricche offerte d’oro e d’ar­ gento e le statue degli dèi, degli eroi e degl’imperatori furono fat­ te fondere e convertite in moneta. Ordini cosi empi non si potero­ no eseguire senza tumulti e stragi, poiché in molti luoghi il popolo preferì morire difendendo i suoi altari, che vedere durante la pace le sue città esposte alle rapine e alle crudeltà della guerra. I soldati stessi, ai quali veniva distribuito quel sacrilego bottino, lo riceve­ vano con rossore, e sebbene induriti nella violenza, temevano i giusti rimproveri dei loro amici e parenti. In tutto il mondo ro­ mano si alzò un grido di indignazione, implorando vendetta con­ tro il nemico comune del genere umano, finché un atto di privata oppressione eccitò una provincia pacifica e disarmata a ribellarsi contro di lui \ Il procuratore dell’Africa era un ministro degno di un tale so­ vrano, che considerava le multe e le confische dei ricchi come uno dei settori piu redditizi delle entrate imperiali. Era stata pronun­ ziata un’iniqua sentenza contro alcuni ricchi giovani Africani, l’e­ secuzione della quale doveva privarli della maggior parte del loro patrimonio. In quell’estremità, la disperazione li indusse a prende­ re una decisione, che doveva compiere, o impedire la loro rovina. Una dilazione di tre giorni, ottenuta con difficoltà dal rapace teso­ riere, fu impiegata a raccogliere dalle loro terre un gran numero di schiavi e di contadini, ciecamente devoti ai comandi dei loro pa­ droni e rusticamente armati di bastoni e di scuri. I capi della con­ giura, ammessi all’udienza del procuratore, lo uccisero coi pugnali, che avevano nascosto sotto le vesti, e assistiti dal loro tumultuoso seguito, si impadronirono della piccola città di Thysdrus2, alzan­ dovi la bandiera della ribellione contro il sovrano dell’impero ro­ mano. Essi fondavano le loro speranze sull’odio generale contro 1 ERODIANO, VII, p . 238; ZOSIMO, I, p. IJ .

,

2 N el fertile territorio di Byzacium, a centocinquanta miglia a sud di Cartagine. Fu pro­ babilmente la famiglia dei Gordiani che dette il nome di colonia a questa città e v i fece eri­ gere un anfiteatro, che il tempo ha rispettato, w e s se lin g , Itinerar., p. 59, e sh aw , Travels, p. 117.

R ib e llio n e in A f r ic a ( a p r ile 237)

164

C a ra tte re ed e le v a z io n e d e i G o r d ia n i

CAPITOLO SETTIMO

Massimino, e prudentemente decisero di opporre a quel detestato tiranno un imperatore, che colle sue virtù aveva già acquistato l’a­ more e la stima dei Romani e la cui autorità in quella provincia po­ teva dar peso e stabilità alPimpresa. Gordiano, loro proconsole, e oggetto della loro scelta, ricusò con sincera riluttanza quel perico­ loso onore, e piangendo li supplicò di lasciargli terminare in pace una vita lunga e illibata, senza macchiare di sangue civile la sua tar­ da età. Le loro minacce lo costrinsero ad accettare la porpora impe­ riale, per lui ormai unico rifugio contro la gelosa crudeltà di Mas­ simino; giacché, secondo la massima dei tiranni, chiunque sia stato reputato degno del trono merita la morte, e chi ha deliberato, si è già ribellato ‘. La famiglia di Gordiano era una delle piu illustri del senato ro­ mano. Dal lato paterno discendeva dai Gracchi e da quello mater­ no dall’imperatore Traiano. Un grande patrimonio gli dava modo di sostenere la dignità della sua nascita; ed egli lo godeva mostran­ do fine gusto e benefica inclinazione. Il suo palazzo a Roma, antica­ mente abitato dal grande Pompeo, era stato dei Gordiani per varie generazioni12. Vi si conservavano antichi trofei di vittorie navali ed era ornato da opere di pittori moderni. La sua villa sulla via Prenestina era celebre per i bagni di singolare bellezza e grandezza, per tre maestose sale lunghe cento piedi e un superbo portico, sostenu­ to da duecento colonne delle quattro piu rare e pregiate qualità di marmo3. I pubblici spettacoli, rappresentati a sue spese, e nei quali il popolo era divertito da molte centinaia di fiere e di gladia­ tori \ sembrano superare le disponibilità di un privato; e mentre la liberalità degli altri magistrati si limitava a poche feste solenni in Roma, la magnificenza di Gordiano, quando era edile, fu ripe­ tuta ogni mese, e durante il suo consolato estesa alle principali cit­ tà d’Italia. Fu due volte console sotto Caracalla e sotto Alessan­ dro Severo, poiché egli possedeva la dote non comune di acquista­ 1 ERODIANO, VII, p. 239;

H lS t . A u g U S t.,

p. 153,

2 Hist. August., p. 132. Marco Antonio usurpò la famosa casa di Pompeo «in carinis», che dopo la morte del triumviro passò nel demanio imperiale. Traiano permise ai ricchi sena­ tori di comprare questi magnifici palazzi, inutili a ll’imperatore (plin io , Panegirico, 50). Fu probabilmente allora che il bisnonno di Gordiano acquistò la casa di Pompeo. claudiano, il numìdico, il caristio e il sìnnadio. I colori dei marmi romani sono sta­ ti descritti imperfettamente; sembra però che il caristio fosse un verdemare, il sinnadio un bianco con macchie ovali di porpora. Hist. August., p. 164, ed. Salmasio. Hist. August., pp. 131, 132. Faceva talvolta comparire n ell’arena cinquecento coppie di gladiatori, e mai meno di centocinquanta. Una volta diede per uso del circo cento cavalli siciliani e altrettanti della Cappadocia. G li animali per le cacce erano orsi, cinghiali, tori, cer­ vi, alci, asini selvatici, ecc. Pare che i leoni e gli elefanti fossero riservati per la magnificenza imperiale.

RIBELLIONE IN AFRICA E IN ITALIA AUTORIZZATA DAL SENATO

165

re la stima dei principi virtuosi, senza eccitare la gelosia dei tiran­ ni. Aveva speso la sua lunga vita nello studio delle lettere e nelle cariche civili di Roma, declinando prudentemente il comando del­ le armate e il governo delle province, finché il voto del senato e l’approvazione di Alessandro Severo lo fecero proconsole dell’A ­ frica '. Questa provincia, finché visse questo imperatore, fu felice sotto il governo del suo degno rappresentante, e dopo che il barba­ ro Massimino ebbe usurpato il trono, Gordiano alleviò quelle ca­ lamità che non poteva impedire. Quando accettò contro sua volon­ tà la porpora, aveva piu di ottant’anni; ultimo e pregevole avanzo della felice età degli Antonini, le cui virtù rinnovò nella sua con­ dotta e celebrò in un elegante poema in trenta libri. Il figlio, che aveva accompagnato quel venerando proconsole in Africa come suo luogotenente, fu dichiarato imperatore insieme al padre. I suoi costumi erano meno puri, ma aveva un carattere amabile al pari del padre. Ventidue concubine riconosciute e una biblioteca di sessantaduemila volumi attestavano la varietà delle sue inclinazioni; e dalle opere che ha lasciato, appare che le donne e i libri erano ve­ ramente per uso e non per ostentazione2. Il popolo romano ravvi­ sava nelle fattezze del giovane Gordiano una somiglianza con Sci­ pione l’Africano, ricordava con piacere che sua madre era nipote di Antonino Pio e fondava le sue speranze su quelle virtù, che fino allora si lusingava fossero rimaste nascoste nel lusso indolente di una vita privata. Appena i Gordiani ebbero calmato il primo tumulto di quella elezione popolare, trasferirono la loro corte a Cartagine, dove fu­ rono accolti dalle acclamazioni degli Africani, che onoravano le loro virtù e che da Adriano in poi non avevano più veduto la mae­ stà di un imperatore romano; ma queste vane acclamazioni non avvaloravano, né confermavano il titolo dei Gordiani. Per princi­ pio come per interesse, vollero sollecitare l’approvazione del sena­ to, e una deputazione dei più nobili provinciali fu senza indugio inviata a Roma per riferire e giustificare la condotta dei loro con­ cittadini, i quali avendo lungamente sofferto con pazienza, si era­ no finalmente decisi ad agire con vigore. Le lettere dei nuovi im­ peratori erano piene di modestia e di rispetto. Si scusavano della necessità, che li aveva obbligati ad accettare il titolo imperiale, ma 1 Si veda nella Hìstoria Augusta (p. 152) la lettera originale, che mostra il rispetto di Alessandro Severo per il senato, e la sua stima per il proconsole nominato da quest’assemblea. 2 II giovane Gordiano ebbe tre o quattro figli da ogni concubina; i suoi prodotti lette­ rari, sebbene meno numerosi, non sono aflatto da disprezzare.

S o lle c it a n o la c o n fe rm a d e l lo ro p o te re

1 66

I l se n a to ra tific a l ’e l e z i o n e d e i G o r d ia n i

CAPITOLO SETTIMO

Sottoponevano la loro elezione e il loro destino al supremo giudi­ zio del senato '. Le inclinazioni del senato non erano né dubbie, né divise. Per nascita e matrimonio, i Gordiani erano strettamente imparentati colle famiglie piu illustri di Roma. Le ricchezze avevano creato lo­ ro molti clienti in quell’ordine e il merito molti amici. La loro mi­ te amministrazione offriva la lusinghiera prospettiva di una restau­ razione non solo del governo civile, ma anche di quello repubbli­ cano. Il timore della violenza militare, che aveva prima costretto il senato a dimenticare la morte di Alessandro Severo e a ratificare l’elezione di un contadino barbaro12, produsse allora un effetto con­ trario, incitando i senatori a sostenere i violati diritti della libertà e dell’umanità. L ’odio di Massimino verso il senato era manifesto e implacabile; la piu umile sottomissione non ne aveva placato il furore e la condotta piu innocente non valeva ad allontanarne i so­ spetti. Anche la preoccupazione della propria salvezza obbligò i senatori ad associarsi a un’impresa, della quale, se non riusciva, erano sicuri di dover essere le prime vittime. Queste considerazio­ ni, e forse altre di natura privata, furono esaminate in una riunio­ ne preliminare dei consoli e dei magistrati. Appena la loro decisio­ ne fu stabilita, convocarono tutti i senatori nel tempio di Castore secondo una antica formula di segretezza3, intesa a richiamare la loro attenzione e a celare i loro decreti. « Padri coscritti, - disse il console Sfilano, - i due Gordiani, ambedue di dignità consolare, l’uno vostro proconsole e l’altro vostro luogotenente, sono stati di­ chiarati imperatori dal generale consenso dell’Africa. Rendiamo grazie, - prosegui arditamente, - alla gioventù di Thysdrus, e al fe­ dele popolo di Cartagine, che ci hanno generosamente liberati da un orrendo mostro. Perché mi ascoltate cosi con freddezza e timo­ re? Perché vi guardate con tanta inquietudine? Perché dubitare? Massimino è un nemico pubblico. Che la sua inimicizia possa pre­ sto spirare con lui, e che noi possiamo godere lungamente della sag­ gezza e fortuna di Gordiano, e del valore e della costanza di suo fi­ glio » 4. Il nobile ardore del console rianimò lo spirito depresso del 1 ero diano , v ii, p. 243; Hist. August., p. 144. 2 «Quod tamen patres dum periculosum existimant inermes armato resistere, approbaverunt» (Au r e l io v it t o r e ). 3 Anche i servi, gli scribi, ecc. del senato erano esclusi, e i senatori ne esercitavano essi stessi le funzioni. Siamo debitori alla Historia Augusta (p. 139) per averci tramandato que­ sto interessante esempio dell’antico uso osservato al tempo della repubblica. 4 Questo discorso coraggioso, tradotto dalla Historia Augusta (p. 136), pare sia stato copiato dai registri del senato.

GUERRE CIVILI E SEDIZIONI

167

senato. Con decreto unanime fu ratificata l’elezione dei Gordiani, e dichiara Massimino, suo figlio e i suoi aderenti vennero dichiarati nemici nemico1"0 della patria e furono promesse generose ricompense a chiunque pubbhco avesse il coraggio e la fortuna di ucciderli. Nell’assenza dell’imperatore, un distaccamento dei pretoriani Assume^ restava a Roma per proteggere la capitale, o meglio, per tenerla a d i R o m a e dovere. Il prefetto Vitaliano aveva dimostrato la sua fedeltà a dellItaIia Massimino con la prontezza nell’eseguire, e anche prevenire, i cru­ deli ordini del tiranno. Soltanto la sua morte poteva liberare l’au­ torità del senato e la vita dei senatori da una situazione incerta e pericolosa. Prima che trapelassero le loro decisioni, fu dato incari­ co a un questore e a vari tribuni di uccidere quell’esecrato prefet­ to. Essi eseguirono l’ordine con pari ardire e successo, e tenendo in mano i pugnali insanguinati, corsero per le strade, annunciando a gran voce al popolo e ai soldati la notizia di quella fortunata rivo­ luzione. L ’entusiasmo per la libertà fu rafforzato dalla promessa di un generoso donativo in terre e denaro, furono abbattute le sta­ tue di Massimino, la capitale dell’impero riconobbe con entusia­ smo l’autorità dei due Gordiani e del senatol, e il resto d’Italia se­ gui l’esempio di Roma. Un nuovo spirito era nato in quell’assemblea, la cui lunga paprepara zienza era stata offesa dallo sfrenato dispotismo e dalla licenza mi- dviiferra Iitare. Il senato prese le redini del governo e con calma intrepidità si preparò a sostenere colle armi la causa della libertà. Tra i sena­ tori consolari, che per merito e servizi avevano goduto il favore dell’imperatore Alessandro Severo, fu facile sceglierne venti capa­ ci di comandare un esercito e di dirigere una guerra. A questi fu affidata la difesa d’Italia. Ciascuno fu incaricato di agire nel suo rispettivo settore, autorizzato ad arruolare e addestrare la gioven­ tù italiana e istruito di fortificare i porti e le strade contro l’immi­ nente invasione di Massimino. Diversi senatori e cavalieri, scelti tra i più illustri, furono inviati nel tempo stesso ai governatori del­ le diverse province, per esortarli vivamente ad accorrere in soccor­ so della patria e per ricordare i loro antichi vincoli di amicizia col senato e col popolo romano. Il rispetto generale, con cui furono ri­ cevuti quegli inviati, e lo zelo d’Italia e delle province in favore del senato, provano a sufficienza che i sudditi di Massimino erano ridotti a quegli estremi, quando il popolo ha da temere più dal­ l’oppressione che dalla resistenza. La coscienza di questa triste ve1 ERODIANO, VII, p. 244.

ι6 8

CAPITOLO SETTIMO

rità ispira un grado di costante furore, che raramente si trova in quelle guerre civili, che sono sostenute artificiosamente a beneficio di pochi capi faziosi e intriganti ’. S c o n fit t a Ma mentre con tanto ardore si abbracciava la causa dei Gordia­ e m o rte ni, essi erano morti. La debole corte di Cartagine fu allarmata dal d e i G o r d ia n i (3 l u g l i o 2 3 7 ) rapido avvicinarsi di Capelliano, governatore della Mauritania, che con una piccola schiera di veterani e un esercito di barbari fe­ roci assali quella fedele ma imbelle provincia. Il giovane Gordia­ no usci per affrontare il nemico alla testa di poche guardie e di una indisciplinata moltitudine, cresciuta nel pacifico lusso di Cartagi­ ne. Il suo inutile valore non valse che a procurargli una morte ono­ rata sul campo di battaglia. Il suo vecchio padre, dopo avere re­ gnato per soli trentasei giorni, si tolse la vita alla prima notizia della sconfitta. Cartagine, priva di difesa, apri le porte al vincitore e l’Africa fu esposta alla rapace crudeltà di uno schiavo, obbligato a soddisfare il suo implacabile padrone con una immensa quantità di sangue e di denaro12. M a s s im o La fine dei Gordiani riempi Roma di un giustificato e inatteso e B a lb in o e l e t t i terrore. Il senato, convocato nel tempio della Concordia, affettava im p e r a t o r i d a l s e n a t o di trattare gli affari ordinari di quel giorno, e sembrava evitare con (9 l u g l i o trepidante ansietà l’esame del proprio e comune pericolo. Una ta­ 237 cita costernazione pesava sull’assemblea, finché un senatore, del nome e della famiglia di Traiano, riscosse i compagni dal loro fa­ tale letargo. Egli ricordò che la scelta di caute misure dilatorie non era piu da gran tempo in loro potere, che Massimino, implacabile per natura, e inasprito dalle offese, si avanzava verso l’Italia con­ ducendo le forze dell’impero e che ad essi rimaneva la sola alterna­ tiva di affrontarlo valorosamente sul campo di battaglia, o di at­ tendere vilmente le torture e la morte ignominiosa riservate ai ri­ belli sfortunati. « Abbiamo perduto, - prosegui, - due eccellenti imperatori; ma se non abbandoniamo noi stessi, le speranze della repubblica non sono perite coi Gordiani. Vi restano molti senatori degni del trono per le loro virtù e capaci di sostenere con le loro doti la dignità imperiale. Eleggiamo due imperatori, uno dei quali possa condurre la guerra contro il pubblico nemico, mentre il suo collega rimarrà a Roma a dirigere il governo. Io mi espongo volen­ )

1 ERODIANO, VII, p. 247; V ili, p. 277; H lSt. AttgUSt., pp. 156-58. 2 erodiano, v ii, p. 254; Hist. August.y pp. 150-60. Invece di un anno e sei mesi per il

regno di Gordiano, il che è assurdo, bisogna leggere, secondo la giusta correzione del Casaubon e del Panvinio, un mese e sei giorni {Commentar., p. 193). Zosimo riferisce (1, p. 17) che i due Gordiani perirono in una tempesta durante la navigazione, Strana ignoranza della sto­ ria, o strano abuso della metafora!

GUERRE CIVILI E SEDIZIONI

169

tieri al pericolo e all’odiosità della scelta e do il mio voto a Massi­ mo e Balbino. Ratificatelo, padri coscritti, o proponete in loro ve­ ce altri piu meritevoli dell’impero ». Il timore generale fece tacere la voce dell’invidia; il merito dei candidati fu riconosciuto da tutti e il tempio risuonò di sincere acclamazioni. « Vita e vittoria agl’im­ peratori Massimo e Balbino. Voi siete felici per sentenza del sena­ to! Che lo stato sia felice sotto il vostro governo » ‘. Le virtù e la reputazione dei nuovi imperatori giustificavano le L o r o c a ra tte re più ardenti speranze dei Romani. Dalla diversa natura delle loro doti, ciascuno di essi pareva fatto per il suo particolare settore di pace e di guerra, senza dar luogo a gelose rivalità. Balbino era ora­ tore stimato, poeta illustre e saggio magistrato, che aveva esercita­ to con integrità e lode la giurisdizione civile in quasi tutte le pro­ vince dell’impero. La sua nascita era nobile2, cospicuo il patrimo­ nio, liberali e affabili le maniere. L ’amore del piacere era in lui cor­ retto da un sentimento di dignità, e gli agi non l ’avevano privato della capacità necessaria per gli affari. Il carattere di Massimo era di stampo più rude. Dalla più bassa condizione, si era col valore e la capacità elevato alle prime cariche dello stato e dell’esercito. Le sue vittorie sui Sarmati e i Germani, l’austerità della sua vita e la rigida imparzialità della sua giustizia quando era stato prefetto del­ la città, lo imposero alla stima di un popolo, le cui preferenze era­ no per le più amabili doti di Balbino. I due colleghi erano stati con­ soli entrambi (ma Balbino due volte), entrambi erano stati nomi­ nati tra i venti luogotenenti del senato, e avendo l’uno sessanta, l’altro settantaquattro anni3, erano giunti entrambi alla piena ma­ turità degli anni e dell’esperienza. Dopo che il senato ebbe conferito a Massimo e a Balbino una Ta uRmo mu lat o. parte eguale del potere consolare e tribunizio, il titolo di padre G o r d i a n o minore della patria e il congiunto ufficio di pontefice massimo, essi saliro­ d e t t o c e s a r e no al Campidoglio per rendere grazie agli dèi protettori di Roma4; ma i solenni riti del sacrificio furono turbati da una sedizione po1 Hist. August., p. 166, dai registri del senato. La data è sicuramente errata, ma è facile correggere l ’errore, riflettendo che si celebravano allora i giuochi apollinari. 2 Discendeva da Cornelio Balbo, nobile spagnolo e figlio adottivo di Teofane, storico greco. Balbo ottenne il diritto di cittadinanza per il favore di Pompeo, e lo conservò per l ’elo­ quenza di Cicerone (Orai, prò Cornelio Balbo). L ’amicizia di Cesare, al quale egli rese im­ portantissimi servizi segreti nella guerra civile, gli procurò le dignità di console e di poptefice, onori mai prima ottenuti da uno straniero. I l nipote di questo Balbo trionfò dei Garamanti. Si veda il Dictionnaire di Bayle alla voce «Balbus», dove distingue vari^personaggi di questo nome e rettifica con la sua consueta esattezza gli errori di precedenti scrittori. 3 z o n a r a , x ii, p. 622. *Ma c’è poco da fidarsi d ell’autorità di un Greco cosi ignorante della storia del m secolo, che inventa diversi imperatori immaginari e confonde quelli real­ mente esistiti. 4 Erodiano (vìi, p. 256) suppone che il senato fosse prima convocato nel Campidoglio, e lo fa parlare con molta eloquenza. La Historia Augusta (p. 116) sembra molto piu autentica.

i7 0

M a s s im in o si p rep ara a d a tta cc a re i l se n a to e i su o i im p e r a to r i

CAPITOLO SETTIMO

polare. La sfrenata moltitudine non amava il rigido Massimo e po­ co temeva il mite e umano Balbino. Crescendo di numero, essa circondò il tempio di Giove, sostenendo con ostinati clamori il suo naturale diritto di acconsentire all’elezione del proprio sovrano, e richiese con apparente moderazione che ai due imperatori scelti dal senato si aggiungesse un terzo della famiglia dei Gordiani, qua­ le giusta ricompensa di gratitudine per quei principi che avevano sacrificato la vita per il popolo. Massimo e Balbino, alla testa dei pretoriani e dei giovani cavalieri, tentarono di aprirsi un varco at­ traverso quella moltitudine sediziosa; ma questa, armata di basto­ ni e di pietre, li ricacciò nel Campidoglio. È prudente cedere quan­ do la contesa, quale che ne possa essere l ’esito, deve riuscire fatale a entrambe le parti. Un ragazzo di soli tredici anni, nipote dei due Gordiani, fu presentato al popolo, conferendogli le insegne e il ti­ tolo di cesare. Questa agevole concessione placò il tumulto e i due imperatori, riconosciuti da Roma, si accinsero a difendere l’Italia contro il comune nemico. Mentre a Roma e nell’Africa le rivoluzioni si susseguivano con cosi prodigiosa rapidità, l’animo di Massimino era agitato dalle piu furiose passioni. Si dice che accogliesse la notizia della ribellione dei Gordiani e del decreto del senato contro di lui, non con la cal­ ma di un uomo, ma con la rabbia di una bestia feroce; e non po­ tendo sfogarla contro il senato lontano, minacciò la vita del pro­ prio figlio, degli amici e di chiunque osava avvicinarlo. La grata notizia della morte dei Gordiani fu presto seguita dalla certezza che il senato, rinunciando a ogni speranza di perdono o di accomo­ damento, aveva creato in loro vece due imperatori, il cui merito non gli era ignoto. La vendetta era l ’unica consolazione rimasta a Massimino, e la vendetta poteva ottenersi soltanto con le armi. Alessandro Severo aveva raccolto da tutte le parti dell’impero il nerbo delle legioni. Tre campagne vittoriose contro i Sarmati e i Germani ne avevano aumentato la reputazione, rinvigorito la di­ sciplina e anche accresciuto il numero, rimpinguandone i ranghi col fiore della gioventù barbarica. Massimino aveva trascorso la vi­ ta alla guerra e il severo giudizio della storia non può negargli il valore di un soldato e neppure l’abilità di un esperto generalel. Era naturale attendersi che un principe di questo carattere, anzi­ ché permettere indugiando che la ribellione si affermasse, muoves­ se immediatamente dalle rive del Danubio a quelle del Tevere, e 1 In Erodiano (v i i , p. 249} e nella Historia Augusta abbiamo tre diverse arringhe di Massimino al suo esercito per la ribellione dell’Africa e di Roma. Tillemont osserva che non sono coerenti tra loro, né s’accordano con la verità (Hist. des Empereurs, III, p. 799).

G U ERRE

C IV IL I E

S E D IZ IO N I

I

7 1

che le sue truppe vittoriose, animate dal disprezzo per il senato e avide di saccheggiare l’Italia, ardessero d’impazienza di terminare questa facile e lucrosa conquista. Ma per quanto è dato fidarsi del­ l’oscura cronologia di quel periodo1, pare che qualche guerra fa­ cesse differire la spedizione in Italia fino alla primavera seguente. Dalla prudente condotta di Massimino possiamo comprendere che i selvaggi tratti del suo carattere sono stati esagerati dal pennello di parte, che le sue passioni, sebbene impetuose, erano frenate dal­ la ragione e che quel barbaro aveva qualcosa del generoso spirito di Siila, il quale soggiogò i nemici di Roma prima di pensare a ven­ dicarsi delle sue private offese2. Quando le truppe di Massimino, avanzando in buon ordine, fu­ rono giunte ai piedi delle Alpi Giulie, rimasero atterrite dal silen­ zio e dalla desolazione che regnavano alle frontiere d’Italia. A l lo­ ro arrivo, villaggi e città erano stati abbandonati dagli abitanti, allontanati gli armenti, le vettovaglie asportate o distrutte, rotti i ponti; nulla insomma era stato lasciato, che potesse offrire riparo o sussistenza a un invasore. Questi erano stati i saggi ordini dei generali del senato, il cui disegno era di prolungare la guerra per rovinare l’esercito di Massimino con la fame e consumarne la forza negli assedi delle città principali d’Italia, che essi avevano abbon­ dantemente munite d’uomini e di viveri dalle campagne abbando­ nate. Aquileia sostenne e arrestò il primo impeto dell’invasione. I fiumi che si gettano nell’Adriatico, gonfiati dal disgelo3, opposero un ostacolo imprevisto alle armi di Massimino. Finalmente, con un singolare ponte di grosse botti costruito con arte e difficoltà, egli portò la sua armata sull’altra riva, distrusse i bei vigneti delle vici1 La trascuratezza degli scrittori di quel tempo ci mette in grande imbarazzo: 1) sappia­ mo che Massimo e Balbino furono uccisi nel tempo dei giuochi capitolini ( e r o dian o , v ili, p. 287). L ’autorità di Censorino {De die natali, 18) ci permette di fissare con certezza questi giuochi all’anno 238, ma non ci fa conoscere né il mese né il giorno. 2) Con pari certezza possiamo fissare l ’elezione di Gordiano da parte del senato al 27 maggio; ma e difficile sa­ pere se nello stesso anno» o nel precedente. Tillem ont e Muratori, che sostengono le due op­ poste opinioni, mettono avanti molte incongrue fonti, congetture e probabilità. L ’uno re­ stringe la serie dei fatti tra queste epoche, l’altro la estende al di là, e sembra che ambedue si allontanino ugualmente dalla ragione e dalla storia. È nondimeno necessario scegliere tra 2 v e l l e io p a t e r c o l o , il, 24. Montesquieu, nel suo dialogo tra Siila ed Eucrate, esprime i sentimenti del dittatore in maniera ispirata e anche sublime. 3 M uratori (Annali d’Italia , II, p. 204), pensa che lo scioglimento delle nevi indichi piuttosto il mese di giugno, o di luglio, che di febbraio. L ’opinione di uno che viveva tra le A lp i e gli Appennini è senza dubbio di gran peso; ma debbo peraltro osservare, 1) che il lun­ go inverno, sul quale si fonda il M uratori, non si trova che nella versione latina, e non nel testo greco di Erodiano; 2) che le alternative di pioggia e di sole, cui furono esposti i soldati di Massimino (ero dian o , v ili, p. 277), indicano piuttosto la primavera che l ’estate, Debbo pure osservare che questi diversi corsi si congiungono a formare il Timavo, di cui V irgilio ci ha dato una descrizione in ogni senso tanto poetica. Le loro acque scorrono a circa dodici mi­ glia a oriente di Aquileia. Si veda c l u v e r io , Italia antiqua, I, pp. 189 sgg.

E n tra in I ta lia ( fe b b r a io 238)

A ss e d io d i A q u ile ia

172

CAPITOLO SETTIMO

nanze di Aquileia, demolì i sobborghi e si servi del legname delle case per costruire macchine e torri, con le quali assali la città da ogni parte. Le mura, quasi rovinate durante la sicurezza di una lun­ ga pace, erano state frettolosamente restaurate in queirimprovviso frangente; ma la piu salda difesa di Aquileia stava nella costanza dei suoi cittadini, i quali erano tutti animati, anziché atterriti, dal­ l’estremo pericolo e dalla conoscenza delPimplacabile indole del ti­ ranno. Il loro coraggio era sostenuto e diretto da Crispino e da Menofilo, due dei venti luogotenenti del senato, i quali con un piccolo corpo di truppe regolari si erano gettati nella città assediata. L ’eser­ cito di Massimino fu respinto in ripetuti assalti, le sue macchine distrutte da una pioggia di fuoco artificiale, e il nobile entusiasmo degli abitanti era infiammato dalla fiducia del successo, credendo che Beleno, loro nume tutelare, combattesse personalmente in di­ fesa dei suoi angustiati adoratoril. di Massimo L ’imperatore Massimo, che si era avanzato fino a Ravenna per fortificare quella piazza importante e affrettare i preparativi mili­ tari, vedeva l ’esito della guerra nello specchio piu fedele della ra­ gione e della politica. Comprendeva troppo bene che una sola cit­ tà non poteva resistere ai continui sforzi di un numeroso esercito, e temeva che il nemico, stanco per l’ostinata resistenza di Aquileia, lasciando improvvisamente quell’inutile assedio, marciasse diret­ tamente su Roma. Si doveva dunque affidare alle sorti di una bat­ taglia il destino dell’impero e la causa della libertà; ma quali armi poteva egli opporre alle veterane legioni del Danubio e del Reno? Delle truppe reclutate da poco tra la generosa, ma snervata gioven­ tù d’Italia e un corpo di ausiliari germani, sulla fermezza dei quali era pericoloso fidarsi nell’ora del cimento. Tra queste giuste preoc­ cupazioni, una congiura punì i delitti di Massimino e liberò Roma e il senato dalle calamità, che avrebbero sicuramente accompagna­ to la vittoria di un barbaro inferocito. Assassinio di Il popolo di Aquileia aveva appena provato alcuni degli ordiaeTsuo nari mali di un assedio; i magazzini erano abbondantemente forni(apriie ijS) ti e diverse fontane dentro le mura gli assicuravano una inesauri­ bile provvista d’acqua. I soldati di Massimino erano al contrario esposti all’inclemenza della stagione, alle malattie epidemiche e agli orrori della fame. La campagna era spoglia e devastata, i fiumi pieni di cadaveri e sporchi di sangue. La disperazione e il malconv ili, p. 272. La divinità celtica si supponeva fosse Apollo, e sotto questo nome gli rese grazie il senato. Si eresse anche un tempio a Venere Calva per eternare la gloria delle donne di Aquileia, le quali avevano in quell’assedio sacrificato i loro capelli, per farne corde per le macchine di guerra. 1

ero diano ,

MORTE VIOLENTA DI MASSIMINO E DI SUO FIGLIO

173

tento cominciarono a diffondersi tra le truppe; e poiché erano ta­ gliate fuori da ogni comunicazione, facilmente credettero che tut­ to l’impero avesse abbracciato la causa del senato e che esse fosse­ ro abbandonate come vittime destinate a perire sotto le mura ine­ spugnabili di Aquileia. Il fiero carattere del tiranno era inasprito da quegl’insuccessi, che egli imputava alla viltà dell’esercito; e la sua sfrenata e intempestiva crudeltà, anziché incutere terrore, ec­ citava l’odio e un giustificato desiderio di vendetta. Un distacca­ mento di pretoriani, trepidanti per le mogli e i figli che si trova­ vano nel campo di Alba presso Roma, esegui la sentenza del sena­ to. Massimino, abbandonato dalle proprie guardie, fu ucciso nella sua tenda col figlio, che egli aveva associato all’impero, col prefet­ to Anulino e i principali ministri della sua tirannia ’. La vista delle loro teste, portate sulla punta delle lance, persuase i cittadini di Aquileia che l’assedio era finito. Aperte quindi le porte della città, furono generosamente offerti viveri a basso prezzo alle affamate truppe di Massimino, e tutto l’esercito si uni in solenni dichiara­ zioni-di fedeltà al senato, al popolo romano e ai suoi legittimi im­ peratori Massimo e Balbino. Tale fu la meritata fine di un brutale selvaggio, privo, come è stato generalmente dipinto, di tutti quei sentimenti che distinguono un essere civile, o anche soltanto un essere umano. Il suo corpo era conforme allo spirito. La statura di Massimino superava l’altezza di otto piedi, e si narrano esempi quasi incredibili della sua straordinaria forza e voracità2. Se fosse vissuto in un secolo meno illuminato, la tradizione e la poesia l’a­ vrebbero potuto rappresentare come uno di quei mostruosi gigan­ ti, che impiegarono sempre la loro forza straordinaria per distrug­ gere l’umanità. È più facile immaginare che descrivere la gioia universale del­ l’impero alla caduta del tiranno, la notizia della quale si dice essere stata portata da Aquileia a Roma in soli quattro giorni. Il ritorno di Massimo fu un trionfo. Il suo collega e il giovane Gordiano uscirono a incontrarlo e i tre principi fecero il loro ingresso nella capitale, accompagnati dagli ambasciatori di quasi tutte le città d’I­ talia, onorati con splendide offerte di gratitudine a loro e agli dèi, 1 ero dian o , V ili, p. 279; Hist. August., p. 146. La durata del regno di Massimino non è indicata con molta esattezza, salvo che da Eutropio, che la indica in tre anni e alcuni giorni (ix, 1). Possiamo credere che il testo non sia corrotto, poiché l ’originale latino corrisponde alla versione greca di Peanio. . ,

2 Otto piedi romani e un terzo, pari a oltre otto piedi inglesi, essendo il rapporto tra le due misure di 967 a 1000. Si veda il saggio di Graves sul piede romano. Massimino poteva bere in un giorno un’«anfora» di vino, mangiare trenta o quaranta libbre di carne, tirare un carro carico, rompere con un pugno la gamba di un cavallo, stritolare le pietre con una ma­ no e sradicare piccoli alberi. Si veda la sua vita nella Historia Augusta.

Suo r it r a t to

G io ia del m ondo ro m an o

174

Sedizione a Roma

CAPITOLO SETTIMO

e accolti con sincere acclamazioni dal senato e dal popolo, persua­ si che a un secolo di ferro sarebbe seguito un secolo d’oro ’. La con­ dotta dei due imperatori corrispose a queste aspettative. Essi ren­ devano giustizia in persona, e il rigore dell’uno era temperato dalla clemenza dell’altro. Gli inasprimenti fiscali, apportati da Massimino all’imposta di successione, furono aboliti, o almeno mitigati. Fu ravvivata la disciplina e col consiglio del senato furono promul­ gate molte sagge leggi dagl’imperatori, che cercarono di ristabilire la costituzione civile sulle rovine della tirannia militare. « Quale ricompensa possiamo attenderci per avere liberato Roma da un mostro? » domandò Massimo in un momento di libertà e di confi­ denza. Balbino immediatamente rispose: « L ’amore del senato, del popolo e di tutti gli uomini ». « Ahimè, — riprese il suo piu acuto collega, — ahimè! Io temo l’odio dei soldati e i funesti effetti del loro risentimento » 2. Gli avvenimenti dimostrarono che i suoi ti­ mori erano anche troppo giustificati. Mentre Massimo si preparava a difendere l ’Italia contro il co­ mune nemico, Balbino, rimasto a Roma, si era trovato coinvolto in scene di sangue e di discordia intestina. La diffidenza e la gelo­ sia regnavano nel senato, e nei templi stessi dove si adunava, tutti i senatori erano apertamente o nascostamente armati. Un giorno, mentre discutevano, due vecchi pretoriani, spinti dalla curiosità o da qualche sinistro motivo, entrarono audacemente nel tempio e si avanzarono a poco a poco verso l’altare della Vittoria. Gallica­ no, senatore consolare, e Mecenate, senatore pretorio, videro con sdegno la loro insolente intrusione. Tratti i pugnali, uccisero quel­ le spie (che tali li reputavano) ai piedi dell’altare, e andati poi alla porta del senato, esortarono imprudentemente la folla a massacra­ re i pretoriani, come segreti aderenti del tiranno. Quelli che sfug­ girono alla prima furia del tumulto, si rifugiarono nella caserma e la difesero vittoriosamente contro i ripetuti assalti del popolo, as­ sistito dalle numerose schiere di gladiatori appartenenti ai ricchi patrizi. La guerra civile durò molti giorni, con perdite e confusione infinita da ambedue le parti. Rotte le tubazioni, che portavano l’ac­ qua alla caserma, i pretoriani furono ridotti a disagi intollerabili; ma fecero dal canto loro sortite disperate, incendiarono un gran numero di case e inondarono le vie del sangue degli abitanti. L ’im­ peratore Balbino tentò con vani editti e tregue precarie di riconci­ liare le fazioni; ma la loro animosità, sebbene attenuata per un po-

MORTE VIOLENTA DI MASSIMO E BALBINO

175

co, riarse con raddoppiata violenza. I soldati, detestando il senato e il popolo, disprezzavano la debolezza di un imperatore, che non aveva né il coraggio, né il potere di farsi ubbidire dai suoi sudditi '. Dopo la morte del tiranno, il suo formidabile esercito aveva, Malcontento più per necessità che per elezione, riconosciuto l’autorità di Massi- pretoriani mo, che andò senza indugio al campo di Aquileia. Appena ebbe ri­ cevuto il giuramento di fedeltà, rivolse loro parole piene di mitez­ za e moderazione; deplorò, anziché condannare, i gravi disordini dei tempi e assicurò i soldati che di tutta la loro passata condotta, il senato avrebbe ricordato soltanto la generosa diserzione dal ti­ ranno e il volontario ritorno al dovere. Massimo corroborò queste esortazioni con un generoso donativo, e purificò il campo con un solenne sacrificio espiatorio, rimandando poi le legioni nelle loro diverse province, con la speranza di aver impresso nel loro animo un vivo sentimento di gratitudine e di obbedienza2. Ma nulla po­ teva placare il superbo animo dei pretoriani. Essi accompagnarono gl’imperatori nel giorno memorabile del loro solenne ingresso in Roma; ma in mezzo alle universali acclamazioni, il loro truce e cu­ po contegno mostrava a sufficienza che si consideravano gli ogget­ ti, anziché i compagni del trionfo. Quando tutto il corpo fu riuni­ to nella caserma, quelli che avevano seguito Massimino e quelli che erano rimasti a Roma a poco a poco si comunicarono le loro lagnanze e apprensioni. G l’imperatori, scelti dall’esercito, erano ignominiosamente periti, mentre quelli eletti dal senato sedevano in trono\ La lunga contesa tra il potere civile e quello militare era stata decisa con una guerra, nella quale il primo aveva ottenuto una completa vittoria. I soldati dovevano ora apprendere un nuo­ vo codice di sottomissione al senato, e quale che fosse la clemenza ostentata da quest’assemblea politica, essi temevano una lenta ven­ detta, colorita col nome di disciplina e giustificata col bel pretesto del pubblico bene. Ma la loro sorte era sempre nelle loro mani; e se avevano il coraggio di disprezzare la vana paura per un governo impotente, potevano facilmente convincere il mondo che chi era padrone delle armi, era padrone del potere. Eleggendo due imperatori, è probabile che il senato, oltre alla Uccisione && r 1 11 J· di Massimo ragione dichiarata di provvedere separatamente alle diverse emer- e Baibino genze della pace e della guerra, fosse animato dal segreto desiderio di indebolire, con la divisione, il dispotismo della suprema ma1 ERODIANO, V ili, P. 258.

‘ Si veda nella R istorici A ugusta la lettera di congratulazione scritta dal console Claudio Giuliano ai due imperatori. 2 H ist. A u g u st., p. 171.

2 I b i d . , p. 213.

3 II senato aveva imprudentemente fatto questa osservazione, che per 1 soldati era come un insulto (H ist. A u g u st., p. 170).

176

Gordiano resta solo imperatore

Innocenza e virtù di Gordiano

CAPITOLO SETTIMO

gistratura. La loro tattica fu efficace, ma divenne fatale ai loro im­ peratori e a loro medesimi. La gelosia del potere fu presto inasprita dalla diversità dei caratteri. Massimo disprezzava Balbino come un nobile dissoluto, ed era a sua volta disprezzato dal collega come un oscuro soldato. La loro discordia non si vedeva, ma si capiva e la consapevolezza dei loro reciproci sentimenti li distolse dalPunirsi per prendere vigorose misure di difesa contro i pretoriani, loro comuni nemici. Un giorno che tutta la città era occupata nei giochi capitolini, gl’imperatori erano rimasti quasi soli nel loro palazzo, quando furono a un tratto allarmati dall’avvicinarsi di una banda di disperati sicari. Ignorando i propositi e la situazione l’uno dell’altro, giacché occupavano appartamenti molto lontani, e temendo di darsi o di ricevere assistenza, sciuparono un tempo prezioso in oziose dispute e inutili recriminazioni. L ’arrivo dei pre­ toriani mise termine alla vana contesa. Essi presero gl’imperatori del senato, come li chiamavano con maligno disprezzo, li spoglia­ rono delle loro insegne e li trascinarono in oltraggioso trionfo per le vie di Roma, col proposito di far subire a quei principi sventu­ rati una morte lenta e crudele. Il timore che i fedeli Germani della guardia imperiale accorressero a liberarli, ne abbreviò i tormenti; e i loro corpi, lacerati da mille ferite, furono abbandonati agli in­ sulti, o alla compassione della plebe2. Nello spazio di pochi mesi, sei imperatori erano stati assassi­ nati. Gordiano, che aveva già ricevuto il titolo di cesare, fu il solo che i soldati credessero degno di occupare il trono vacante \ Lo condussero nella caserma e all’unanimità lo salutarono imperatore e augusto. Il suo nome era caro al senato e al popolo, la sua tenera età prometteva una lunga impunità alla licenza militare e la sottomissione di Roma e delle province alla scelta fatta dai pretoriani salvò lo stato, sebbene con danno della sua libertà e autorità, dagli orrori di una nuova guerra civile nel cuore della capitale4. Poiché il terzo Gordiano mori a soli diciannove anni, la storia della sua vita, quand’anche ci fosse stata descritta con maggiore 1 p.

X 7 0 ).

« Discordiae tacitae, et quae intelligerentur potius quam viderentur» (H ist. August. Questa felice espressione e probabilmente presa da qualthe migliore scrittore

ERODIANO, V ili, p p . 287, 288. \ «Q uia non alius erat in praesenti», dice la Historia Augusta. Q uinto Curzio (x 9) si rallegra elegantemente con l ’imperatore del giorno, perché con la felice sua assunzione al trono ha spento tanti incendi, fatto rinfoderare tante spade, e mes­ so fine ai mali di un governo diviso. Dopo avere attentamente pesato tutte le parole di que­ sto passo non mi pare vi sia nella storia romana altra epoca, alla quale possa meglio convenire che all elevazione di Gordiano. In questo caso si potrebbe determinare il tempo in cui ha scritto Q uinto Curzio. Coloro che lo pongono sotto i primi Cesari si fondano sulla purezza del suo stile; ma non possono spiegare il silenzio di Quintiliano, nel suo esatto elenco degli storici romani.

MORTE VIOLENTA DI GORDIANO III

177

accuratezza, conterebbe poco piu che il ragguaglio della sua edu­ cazione e della condotta dei ministri, che a turno guidarono la sua semplice e inesperta giovinezza, o ne abusarono. Subito dopo il suo avvento, cadde nelle mani degli eunuchi, perniciosa peste orientale, che dal regno di Eliogabalo in poi aveva sempre infesta­ to la corte romana. Per gli intrighi di questi miserabili, un velo impenetrabile fu teso tra l’innocente imperatore e i suoi sudditi oppressi. Il virtuoso Gordiano fu ingannato, e senza che lo sapes­ se, sebbene con tutta pubblicità, le cariche dell’impero furono ven­ dute ai piu indegni fra gli uomini. Non sappiamo per qual caso for­ tunato l’imperatore si liberasse da quella vergognosa schiavitù e desse poi la sua fiducia a un ministro, i cui prudenti consigli non avevano altro scopo che la gloria del sovrano e la felicità del po­ polo. È probabile che l’amore e il sapere procurassero a Misiteo il favore di Gordiano. Il giovane principe sposò la figlia del suo mae­ Governo di Misiteo stro di rettorica e promosse il suocero alle prime cariche dell’im­ (240) pero. Ci sono pervenute due lettere ammirevoli che si scrissero. Il ministro, con la consapevole dignità della virtù, si congratula con Gordiano, perché si è liberato dalla tirannia degli eunuchi1, e più ancora perché sente la propria liberazione. L ’imperatore confessa, con amabile confusione, gli errori della sua passata condotta e con eloquenti espressioni deplora la sventura di un monarca,^ cui una turba venale di cortigiani si sforza di nascondere la verità2. Misiteo aveva passato la vita nella professione delle lettere, Guerra persiana non delle armi; ma l’ingegno di quel grande uomo era cosi versa­ (242) tile, che quando fu creato prefetto del pretorio adempì ai suoi do­ veri militari con pari energia e abilità. I Persiani avevano invaso la Mesopotamia e minacciavano Antiochia. Persuaso dal suocero, il giovane imperatore lasciò le delizie di Roma, apri per l’ultima vol­ ta di cui ne faccia menzione la storia il tempio di Giano, e andò in Oriente. Al suo arrivo con un numeroso esercito, i Persiani eva­ cuarono le loro guarnigioni dalle città che avevano già occupato e si ritirarono dall’Eufrate al Tigri. Gordiano ebbe il piacere di an­ nunziare al senato il primo successo delle sue armi, che egli con dovuta modestia e gratitudine attribuiva alla saggezza del suo pa­ dre e prefetto. Misiteo, durante quell’impresa, vigilò sulla sicurez­ za e disciplina delle truppe e prevenne le loro pericolose lagnanze, 1 H ist. A u g u st., p. 161. Da alcuni particolari contenuti in queste due lettere, penso che gli eunuchi furono cacciati dal palazzo non senza violenza e che il giovane Gordiano si contentò di approvare la loro disgrazia, senza acconsentirvi. . . . , 2 «Duxit uxorem fìliam Misithei, quem causa eloquentiae dignum parentela sua putavit; et praefectum statim fecit; post quod, non puerile jam et contemptibile videbatur imperium».

i

78

CAPITOLO SETTIMO

assicurando regolari vettovagliamenti e stabilendo in ogni città della frontiera ampi depositi di aceto, carni salate, paglia, orzo e grano Ma la prosperità di Gordiano fini con Misiteo, che mori di Arti dissenteria, non senza grave sospetto di veleno. Filippo, suo suc­ di Filippo (2 4 3 ) cessore nella prefettura, era Arabo di nascita e per conseguenza era stato nei suoi primi anni un predone. La sua ascesa da una con­ dizione cosi oscura alle prime cariche dell’impero sembra dimo­ strare che fosse un audace'e abile comandante; ma la sua audacia 10 spinse ad aspirare al trono e la sua abilità fu impiegata a sop­ piantare, non a servire il suo indulgente signore. Irritò l’animo dei soldati, producendo nel campo un’artificiosa scarsezza di viveri, e 11 disagio delle truppe fu attribuito all’inesperienza e incapacità dell imperatore. Non ci è possibile seguire i successivi passi della segreta congiura e dell’aperta sedizione, che divenne alla fine fata­ Assassinio le a Gordiano. Alla sua memoria fu eretto un monumento fune­ di Gordiano (marzo 244) bre sul luogo1 2dove egli fu ucciso, presso la confluenza dell'Eufra­ te col piccolo fiume Aboras3. Il fortunato Filippo, elevato all’im­ pero dai voti dei soldati, fu prontamente riconosciuto dal senato e dalle province4. Forma Non posso trattenermi dal trascrivere l’ingegnosa, sebbene al­ di una repubblica quanto fantasiosa descrizione, che un celebre autore dei nostri militare tempi ha fatto del governo militare dell’impero romano. « Ciò che a quel tempo si chiamava impero romano non era che una repub­ blica irregolare, non dissimile dall’aristocrazia56di Algeris, dove i militari, che detengono il potere, creano e depongono un magistra­ to chiamato Dey. Si può forse stabilire la massima generale, che un governo militare è sotto certi rispetti piu repubblicano che mo­ narchico. Né si può dire che i soldati partecipassero al governo soltanto per la loro disubbidienza e le loro ribellioni. I discorsi, che gl’imperatori facevano loro, non erano in definitiva della stessa 1 H ist. A u g u st., p. 162; AURELIO VITTORE; PORFIRIO, V it. P iotiti, ( f a b r iciu s , B ìb lio tb . ijra ec., iv, 3°). 11 filosofo Plotino accompagnò l ’esercito, mosso dal desiderio d ’istruirsi e di penetrare nell lndia. 3 A circa venti miglia dalla piccola città di Circesio, ai confini dei due imperi. . . L iscrizione, che conteneva un singolarissimo bisticcio, fu cancellata per ordine di L i­ cinio, che vantava una certa parentela con Filippo (Hist. August., p. 1 6j); ma il «tum ulus» o m onacello di terra, che formava il sepolcro, sussisteva ancora al tempo di G iuliano a m ΜΙΑΝΟ MARCELLINO, XXIII, AURELIO VITTORE; EUTROPIO, IX, 2 ; OROSIO, VII, 20; AMMIANO MARCELLINO, X X III 5· z o s im o , i, p. 19. Filippo era nato a Bosra e aveva circa quarantanni. ’ ’

I l termine «aristocrazia» può essere giustamente applicato al governo di Algeri? Ogni governo militare ondeggia fra gli estremi di un’assoluta monarchia e di una feroce rozza de­ mocrazia. 5 ’ 6 La repubblica militare dei Mamelucchi in Egitto avrebbe fornito al Montesquieu (Considerattons sur la grandeur et la décadence des Rom ains, 16), un parallelo piu giusto e più

USURPAZIONE E GIOCHI SECOLARI DI FILIPPO

179

natura di quelli fatti un tempo al popolo dai consoli e dai tribuni? E sebbene gli eserciti non avessero né un luogo stabilito, né rego­ lari formalità per le loro assemblee, sebbene brevi fossero le loro dispute, improvvisa la loro azione e le loro risoluzioni raramente dettate da una fredda riflessione, non disponevano forse con arbi­ trio assoluto delle sorti dello stato? E che altro era 1 imperatore, se non il ministro di un governo violento, eletto per la privata uti­ lità dei soldati? Quando l’esercito ebbe eletto Filippo, prefetto del pretorio del terzo Gordiano, questi richiese di essere il solo impe­ ratore; ma non lo potè ottenere. Richiese che il potere fosse ugual­ mente diviso fra loro; l’esercito non volle ascoltare le sue parole. Accettò di essere retrocesso a cesare; questo favore gli fu negato. Pregò che lo nominassero almeno prefetto del pretorio; la sua pre­ ghiera fu respinta. Alla fine, supplicò che gli lasciassero la vita. L ’esercito, in questi diversi giudizi, esercitava la suprema magi­ stratura». Secondo lo storico, la cui dubbia narrazione è seguita dal Montesquieu, Filippo, che durante tutte quelle trattative ave­ va conservato un cupo silenzio, inclinava a risparmiare 1 innocente vita del suo benefattore, finché, considerando che la sua innocen­ za poteva risvegliare una pericolosa compassione nel mondo roma­ no, comandò, senza badare alle sue grida supplichevoli, che fosse preso, spogliato e messo immediatamente a morte. Dopo un mo­ mento di pausa, l’inumama sentenza fu eseguita *. Ritornato dall’Oriente a Roma, Filippo, volendo cancellare il Regno di Filippo ricordo dei suoi delitti e acquistarsi l’amore del popolo, celebrò i giochi secolari con infinita pompa e magnificenza. Da quando Augusto li aveva istituiti, o ripristinati2, erano stati celebrati da Claudio, da Domiziano e da Severo; e furono allora rinnovati per la quinta volta, compiendosi mille anni dalla fondazione di Roma. Tutti i particolari dei giochi secolari erano mirabilmente adatti a Giochi secolari destare una solenne e profonda venerazione negli animi supersti­ (21 aprile 248) ziosi. Il loro lungo intervallo3eccedeva la durata della vita umana; e come nessuno degli spettatori li aveva veduti, cosi nessuno si po1 La Historia Augusta (pp. 163, 164) non può in questo passo conciliarsi con se stessa, né con la probabilità. Come poteva Filippo condannare il suo predecessore, e ciononostante consacrarne la memoria? Come poteva far pubblicamente morire il giovane Gordiano, e scri­ vendo al senato scolparsi della sua morte? Filippo, sebbene usurpatore ambizioso,( non era però un furioso tiranno. G li acuti occhi del Tillem ont e del M uratori hanno anch essi sco­ perto alcune difficoltà cronologiche nella pretesa associazione di Filippo all impero. 2 Non è certo quando furono celebrati per l ’ultima volta. Quando Bonifacio V i l i sta­ b ili i giubilei, che sono una copia dei giuochi secolari, l ’astuto papa pretese di n on aver fatto altro che richiamare in vita un’antica istituzione, de c h a i s , Lettres sur les jubues. 3 Questo intervallo era di cento, e centodieci anni. Varrone e L ivio adottarono la prima opinione ma l ’ultima fu consacrata dall’infallibile autorità della sibilla ( c e n so r in o , D e die natali, 17). G l’imperatori Claudio e Filippo non si conformarono agli ordini dell oracolo.

ι8 ο

Declino d e l l ’ im p e r o

romano

CAPITOLO SETTIMO

teva lusingare di rivederli. Si celebravano per tre notti mistici sa­ crifici sulle rive del Tevere e il Campo Marzio risuonava di musi­ che e di canti, illuminato da una quantità innumerevole di torce e di lampade. Gli schiavi e gli stranieri erano esclusi da quelle ceri­ monie nazionali. Un coro di ventisette nobili giovanetti e di altret­ tante nobili fanciulle, che avessero ancora i genitori, implorava il favore degli dèi per la presente e per la futura generazione, sup­ plicandoli con inni devoti di conservare (secondo la fede degli anti­ chi oracoli) la virtù, la felicità e l’impero del popolo romano '. La magnificenza degli spettacoli e dei giochi di Filippo fece stupire il popolo. I devoti erano occupati nelle cerimonie religiose, mentre i pochi spiriti riflessivi meditavano con animo ansioso sulla storia passata e sul futuro destino deH’impero. Erano già trascorsi dieci secoli da che Romolo, con una piccola schiera di pastori e di banditi, era venuto a fortificarsi sui colli presso il Tevere12. Nei quattro primi secoli, i Romani avevano ac­ quistato le virtù militari e civili alla faticosa scuola della povertà. Con l’energico impiego di quelle virtù e assistiti dalla fortuna, ot­ tennero nel corso dei tre secoli successivi il dominio assoluto su molti paesi d’Europa, dell’Asia e dell’Africa. Gli ultimi trecento anni erano passati in apparente prosperità e interna decadenza. Questo popolo di soldati, magistrati e legislatori, che formava le trentacinque tribù di Roma, si dissolse nella massa comune degli uomini e si confuse tra tanti milioni di servili provinciali, che ave­ vano ricevuto il nome di Romani senza assimilarne lo spirito. Un esercito mercenario, reclutato tra i sudditi e i barbari delle fron­ tiere, era l’unica classe che conservasse la propria indipendenza e nel tempo stesso ne abusasse. Con tumultuose elezioni essi eleva­ rono al trono di Roma un Siro, un Goto e un Arabo, investendoli di un potere dispotico sulle conquiste e la patria degli Scipioni. L ’impero romano si estendeva sempre dall’Oceano Occidentale al Tigri, e dal Monte Atlante al Reno e al Danubio. Filippo sem­ brava all’occhio poco penetrante del volgo un monarca non meno potente di Adriano o di Augusto. La forma era sempre la stessa, ma la salute e il vigore che l’animavano erano fuggiti. L ’operosa attività del popolo era scoraggiata ed esausta per una lunga serie di oppressioni. La disciplina delle legioni, che sola, dopo l’estinzio­ 1 L ’idea dei giuochi secolari si ricava meglio dall’ode di Orazio e dalla descrizione di Zosimo (li, pp. 167 sgg.). 2 L ’adottato calcolo di Vairone assegna alla fondazione di Roma una data che corrispon­ de a ll’anno 754 a .C . Ma si può fare cosi poco assegnamento sulla cronologia romana dei pri­ mi secoli, che il N ew ton ha spostato l’avvenimento all’anno 627.

USURPAZIONE E GIOCHI SECOLARI DI FILIPPO

181

ne di ogni altra virtù, aveva sostenuto la grandezza dello stato, era corrotta dall’ambizione, o rilassata per la debolezza degl imperato­ ri La forza delle frontiere, che prima consisteva nelle armi piu che nelle fortificazioni, si era a poco a poco indebolita e le piu belle province erano esposte alla rapacità o all’ambizione dei barbari, che presto si avvidero della decadenza dell’impero romano.

STATO DELLA PERSIA DOPO LA RESTAURAZIONE A OPERA DI ARTASERSE

CAPITO LO OTTAVO S ta t o d e lla P e r s ia d o p o la r e s ta u r a z io n e d e lla m o n a r c h ia p e r o p era d i A rta se rse .

deliOriente Ogniqualvolta Tacito si sofferma su quei belli episodi, conceredei nenti qualche fatto interno dei Germani o dei Parti, il suo oggetto Settentrione pfincipaie è di distrarre l’attenzione del lettore da una scena uni­ forme di vizi e di sciagure. Dal regno di Augusto al tempo di Ales­ sandro Severo, i nemici di Roma, tiranni e soldati, erano nel suo seno, e la sua prosperità aveva un ben debole e remoto interesse in quanto accadeva di là dal Reno e dall’Eufrate. Ma quando i mili­ tari ebbero ridotto a una selvaggia anarchia il potere dell’impera­ tore, le leggi del senato e la stessa disciplina militare, i barbari del Settentrione e dell’Oriente, che fino allora avevano atteso ai con­ fini, assalirono arditamente le province della cadente monarchia. Le loro fastidiose scorrerie divennero formidabili invasioni; e do­ po una lunga vicenda di reciproche calamità, molte tribù di quei vittoriosi invasori si stabilirono nelle province dell’impero roma­ no. Per avere una piu chiara nozione di questi grandi avvenimenti, cercheremo di dare prima un’idea del carattere, delle forze e dei propositi di quei popoli, che vendicarono la morte di Annibaie e di Mitridate. dln Asla ^ e iprimi seco^ del mondo, quando le selve che coprivano l’Eu­ ropa servivano di rifugio a pochi nomadi selvaggi, gli abitanti del1 Asia erano già raccolti in città popolose e ordinati in vasti impe­ ri, sedi delle arti, del lusso e del dispotismo. Gli Assiri regnarono sull’Oriente ', finché lo scettro di Nino e di Semiramide cadde dal­ le mani dei loro effeminati successori. I Medi e i Babilonesi si di­ visero il loro impero e quindi furono a loro volta assorbiti dalla monarchia dei Persiani, le cui armi non potevano essere costrette entro gli angusti confini dell’Asia. Serse, discendente di Ciro, se. 1 Un antico cronologista, citato da VelleÌo Patercolo (i, 6), osserva che gli Assiri, i Me( 1 P ,e T ni. e * Macedoni regnarono nell’Asia per 1993 anni, dall’avvento di N ino alla di­ sfatta di Antioco per opera dei Romani, Poiché quest’ultimo memorabile avvenimento occorse 189 anni avanti Cristo, il primo può riferirsi a ll’anno 2184 a .C . Le osservazioni astrono­ miche, trovate da Alessandro in Babilonia, cominciavano cinquantanni prima.

183

guito come si narra da due milioni d ’ u o m in i, invase la Grecia. Trentamila s o ld a t i, comandati da Alessandro, figlio di Filippo, cui i Greci avevano affidato la loro gloria e vendetta, bastarono per soggiogare la Persia. I principi della casa di Seleuco usurparono e persero l’impero macedone dell’Oriente. Quasi nello stesso tempo che con un vergognoso trattato cedevano ai Romani il paese di qua dal Tauro, i Parti, oscura tribù d’origine scitica, li cacciarono da tutte le province dell’Asia Superiore. La formidabile potenza dei Parti, che si estendeva dall’India alle frontiere della Siria, fu di­ strutta a sua volta da Ardashir, o Artaserse, fondatore di una nuo­ va dinastia, quella dei Sassanidi, che governò la Persia fino all’inva­ sione degli Arabi. Questo grande rivolgimento, di cui i Romani sen­ tirono presto la funesta influenza, avvenne nel quarto anno di Ales­ sandro Severo, duecentoventisei anni dopo1 l’era cristiana. Artaserse aveva servito con grande onore nelle armate di Arta- Artaserse restaura la bano, ultimo re dei Parti; e l’ingratitudine del re, consueta ricom­ monarchia persiana pensa del merito eminente, lo rese esule e ribelle. La sua nascita era oscura, e questa oscurità diede adito alle calunnie dei nemici, come all’adulazione dei suoi aderenti. Se si crede alle maldicenze dei primi, Artaserse nacque dall’adulterio della moglie di un con­ ciatore di pelli2 con un soldato semplice. I secondi invece lo pre­ sentano quale discendente da un ramo degli antichi re di Persia, sebbene il tempo e la sfortuna avessero a poco a poco ridotto i suoi antenati all’umile condizione di privati cittadini’. Come di­ retto discendente della monarchia, rivendicò i suoi diritti al trono, e si assunse il nobile compito di liberare i Persiani dall’oppressio­ ne, sotto cui gemevano da oltre cinque secoli dalla morte di Dario. I Parti furono sconfitti in tre grandi battaglie, nell’ultima delle quali mori il loro re Artabano e fu abbattuto per sempre lo spirito della nazione4. L ’autorità di Artaserse venne riconosciuta solenne­ mente in una grande assemblea a Balkh nel Khorasan. Due cadetti della famiglia reale degli Arsacidi si confusero tra i satrapi, mentre un terzo, più memore dell’antica grandezza che della presente ne1 L ’anno 538 d ell’era di Seleuco. agazia , i i , p. 63. Questo grande avvenimento è rife­ rito da Eutichio (tanta è la negligenza degli orientali) all’anno decimo del regno di Com­ modo, e da Mosè di Corene al regno di Filippo. Ammiano M arcellino (x x iii , 6) ha seguito cosi servilmente gli antichi materiali, ottimi in verità, che non ha dubitato di asserire che la famiglia degli Arsacidi regnava ancora in Persia verso la metà iv secolo. 2 II nome di questo conciatore di pelli era Babec, quello del soldato Sassan; dal pri­ mo è stato preso il nome di Babegan dato ad Artaserse, dal secondo quello di Sassanidi, dato ai suoi discendenti. [Si trascrive Sassan e Sassanidi, anziché Sasan e Sasanidi come in persia­ no, in omaggio a ll’uso dominante, dettato dalla pronunzia (N. d . T .)]. 3 itherbelot , B i b l i t h è q u e O r i e n t a l e , alla voce «Ardshir». 4 DIONE CASSIO, LXXX; ERODIANO, VI, p. 207; ABULFARAGIO, D y n a s t . , p. 8θ.

18 4

R ifo r m a d e lla r e lig io n e d e i m ag i

CAPITOLO OTTAVO

cessità, tentò di ritirarsi con un numeroso seguito di vassalli verso il re di Armenia, loro congiunto; ma questo piccolo esercito di fuggiaschi fu raggiunto e distrutto dalla vigilanza del vincitore ', che prese arditamente il doppio diadema e il titolo di re dei re, già goduto dal suo predecessore. Ma questo pomposo titolo, anziché lusingare la vanità del Persiano, non fece che ricordargli il suo do­ vere e infiammarlo dell’ambizione di restituire alla religione e al­ l’impero di Ciro tutto il loro splendore. 1. Durante la lunga servitù della Persia sotto il giogo dei Ma­ cedoni e dei Parti, i popoli d’Europa e dell’Asia avevano recipro­ camente adottato e corrotto le rispettive religioni. Gli Arsacidi os­ servavano bensì il culto dei Magi, ma lo disonoravano e contami­ navano con una mescolanza di idolatria straniera. La memoria di Zoroastro, l’antico profeta e filosofo dei Persiani12, era sempre ve­ nerata in Oriente; ma il linguaggio antiquato e misterioso nel qua­ le era composto lo Zendavesta3, offriva un campo di controversie a settanta sètte diverse, che variamente spiegavano le dottrine fon­ damentali della loro religione ed erano tutte egualmente derise da una moltitudine d’infedeli, i quali non riconoscevano la divina mis­ sione e i miracoli del profeta. Il pio Artaserse chiamò i Magi da tutte le parti del suo impero per sopprimere gl’idolatri, unire gli scismatici e confutare gl’increduli con l’infallibile decisione di un concilio generale. Questi sacerdoti, che per tanto tempo erano vis­ suti nel disprezzo e nell’oscurità, obbedirono al grato invito e nel giorno stabilito si presentarono in numero di quasi ottantamila. Ma poiché le discussioni di un’assemblea cosi tumultuosa non avrebbero potuto essere dirette dall’autorità della ragione, o in­ fluenzate dall’arte della politica, il sinodo persiano fu con succes­ sive operazioni ridotto a quarantamila, a quattromila, a quattrocento, a quaranta e finalmente a sette Magi, i piu venerati per dot­ trina e pietà. Uno di essi, Erdaviraf, giovane e santo prelato, rice­ vette dai suoi confratelli tre tazze di vino soporifero, e bevutolo, 1 MOSÈ DI CORENE, II, 65-71.

2 Hyde e Prideaux nel fare una storia molto piacevole con le leggende persiane e le loro proprie congetture, rappresentano Zoroastro come contemporaneo di Dario d ’Istaspe. Ma ba­ sta osservare che gli scrittori greci, i quali vivevano quasi al tempo di Dario, convengono nel collocare l ’epoca di Zoroastro a centinaia e anche migliaia di anni avanti, I l M oyle, con la sua obiettiva critica, riconobbe e sostenne contro Prideaux, suo zio, l ’antichità del profeta persiano. Si vedano le sue opere (II). 3 QueU’antica lingua fu chiamata zend. La lingua dei commenti, il «pahlavi», benché molto piu moderna, ha cessato di essere da molti secoli una lingua viva. Questo fatto solo, se fosse autentico, basterebbe a provare l ’antichità di quegli scritti, che il d ’Anquetil ha por­ tato in Europa e tradotto in francese [ Zendavesta è il titolo che al testo sacro diede AnquetilDuperron, suo primo scopritore e traduttore, in seguito correttamente modificato in Avesta. Z e n d , 0 z a n d , è il commento ( N . d . T . ) J .

STATO DELLA PERSIA DOPO LA RESTAURAZIONE A OPERA DI ARTASERSE

18 5

subito cadde in un sonno lungo e profondo. Appena svegliato, rac­ contò al re e alla credula moltitudine il suo viaggio al cielo e i suoi intimi colloqui con la divinità. Ogni dubbio fu eliminato da questa soprannaturale testimonianza e gli articoli della fede di Zoroastro vennero fissati con pari autorità e precisione Un breve profilo di quel famoso sistema sarà utile, non solo per conoscere il carattere dei Persiani, ma anche per schiarire molte delle loro operazioni piu importanti, sia in pace, sia in guerra, con l’impero romano \ Il grande e fondamentale articolo del sistema era la celebre dot- Teologia trina dei due principi; ardito e irragionevole tentativo della filoso- due principi fia orientale, per conciliare l’esistenza del male fisico e morale con gli attributi di un benefico creatore e rettore dell’universo. L ’ente primo e originale, nel quale, o per il quale l’universo esiste, è deno­ minato negli scritti di Zoroastro Tempo senza lìmiti·, ma si deve confessare che questa sostanza infinita sembra piu un’astrazione metafisica, che un essere reale dotato di autocoscienza, o in posses­ so di perfezioni morali. Dalla cieca, o intelligente azione di questo Tempo Infinito, che ha una grande affinità con il caos dei Greci, fu­ rono ab eterno prodotti i due principi secondari e attivi dell’univer­ so, Ohrmazd e Ahriman, aventi ciascuno la potenza creatrice, ma inclini, per loro immutabile natura, a esercitarla con fini diversi. Il principio del bene è eternamente assorto nella luce, quello del male eternamente sepolto nelle tenebre. La saggia bontà di Ohrmazd for­ mò l ’uomo capace di virtù e provvide abbondantemente la sua bel­ la abitazione di materiali per la felicità. La sua vigile provvidenza mantiene il moto dei pianeti, l ’ordine delle stagioni e la temperata mescolanza degli elementi. Ma la malvagità di Ahriman ha da gran tempo rotto l'uovo di Ohrmazd, o in altri termini, violato l’armo­ nia delle sue opere. Da quella fatale rottura in poi, le più minute particelle del bene e del male sono intimamente commiste e agita­ te fra loro; tra le piante più salutari germogliano le erbe più veleno­ se, diluvi, terremoti e incendi attestano il conflitto della natura, e il piccolo mondo dell’uomo è perpetuamente turbato dal vizio e dalla sventura. Mentre il resto del genere umano è tratto prigioniero nel­ le catene dal suo infernale nemico, soltanto il fedele Persiano con­ serva una religiosa adorazione per il suo amico e protettore Ohr­ mazd e combatte sotto la sua bandiera di luce, con piena fiducia che h y d e , D e r e li g . v e t e r . P e r s a r u m , 2 1. H o preso questo ragguaglio principalmente dallo Z e n d a v e s t a del d ’Anquetil, e dal S a d d e r , annesso al trattato di Hyde. Conviene confessare peraltro che la studiata oscurità di un profeta, lo stile figurato degli orientali e il fallace tramite di una traduzione francese o la­ tina, possono avermi indotto in qualche errore, o in qualche eresia, nel fare il compendio della teologia persiana.

1

2

8

ι8 6

Teologia di Zoroastro

Cerimonie e precetti morali

CAPITOLO OTTAVO

nel giorno finale sarà partecipe del suo glorioso trionfo. In quel giorno decisivo, l’illuminata sapienza della bontà renderà la poten­ za di Ohrmazd superiore alla furiosa malvagità del suo rivale. Ahriman e, i suoi seguaci, disarmati e vinti, piomberanno nella loro ori­ ginaria oscurità, e la virtù conserverà eternamente la pace e l’armonia dell’universo ‘. Gli stranieri, e anche la maggior parte dei suoi discepoli, inten­ devano confusamente la teologia di Zoroastro; ma gli osservatori anche meno attenti ammiravano la semplicità filosofica del culto persiano. «Questo popolo, - dice Erodoto12, - respinge l’uso dei templi, delle are, dei simulacri, e deride la follia di quei popoli, i quali s’immaginano che gli dèi derivino dalla natura umana, o ab­ biano con essa qualche affinità. Le cime dei piu alti monti sono i luoghi destinati ai sacrifici. Inni e preghiere sono il culto principa­ le e sono rivolti al dio supremo che riempie il vasto cerchio del cielo ». Nel tempo stesso, però, da vero politeista li accusa di ado­ rare la terra, l’acqua, il fuoco, i venti, il sole e la luna. Ma i Persia­ ni hanno in ogni tempo respinto tale accusa, spiegando l’equivoca condotta che sembrava accreditarla. Gli elementi, e piu specialmente il fuoco, la luce e il sole, da essi chiamato Mithra, erano gli oggetti della loro religiosa venerazione, perché li consideravano come i simboli piu puri, le creazioni piu nobili e gli agenti piu po­ tenti della potenza e natura divina3. Ogni religione, per fare un’impressione profonda e durevole sullo spirito umano, deve esercitare la nostra obbedienza imponen­ do pratiche di culto, delle quali non possiamo dare alcuna spiega­ zione, e acquistare la nostra stima inculcando doveri morali, analo­ ghi ai dettami del nostro cuore. La religione di Zoroastro abbonda­ va delle prime e aveva a sufficienza delle seconde. Il fedele Persia­ no, giunto alla pubertà, era ornato di una mistica cintura, pegno del­ la protezione divina; e da quel momento tutte le azioni della sua vi­ ta, anche le piu indifferenti o le più necessarie, erano santificate da speciali preghiere, da giaculatorie o genuflessioni, l ’omissione delle quali in qualsiasi circostanza era un grave peccato, non inferiore al· 1 I Persiani moderni (e in certa misura anche il Sadder) riconoscono Ohrmazd quale cau­ sa prima e onnipotente, mentre degradano Ahriman come spirito inferiore e ribelle. Il desi­ derio di far piacere ai maomettani può aver contribuito a raffinare il loro sistema teologico. [Ohrmazd - Ahura Mazda, il « saggio Signore », o il « Signore pensante » della religione di Zarathustra (N. d. T.)]. 2 erodoto , i , 1 3 1 . Ma il Prideaux crede, e con ragione, che l ’uso dei templi fosse poi permesso nella religione dei Magi. 3 hyde , De relig. veter. Versarum, 8. Nonostante tutte le loro distinzioni e proteste, che sembrano sincere, i maomettani loro tiranni li hanno costantemente accusati quali idolatri adoratori del fuoco.

STATO DELLA PERSIA DOPO LA RESTAURAZIONE A OPERA DI ARTASERSE

18 7

In violazione dei doveri morali. I doveri morali della giustizia, mise­ ricordia, liberalità, ecc., erano anch’essi necessari ai discepoli di Zoroastro, i quali volevano sfuggire alla persecuzione di Ahriman e vi­ vere con Ohrmazd in una beata eternità, dove il grado di felicità sa­ rà esattamente proporzionato al grado di virtù e di pietà '. Ma vi sono alcuni passi notevoli, nei quali Zoroastro, non più Incoraggia l ’agricoltura profeta, ma legislatore, mostra per la felicità pubblica e privata un generoso interesse, che raramente si trova nei meschini o visionari sistemi religiosi. Il digiuno e il celibato, ordinari mezzi per acqui­ starsi il favore divino, sono da lui condannati con orrore, come un colpevole rifiuto dei migliori doni della provvidenza. Il santo, nella religione dei Magi, è obbligato a procreare figli, a piantare alberi utili, a distruggere gli animali nocivi, a condurre l’acqua nei ter­ reni aridi della Persia e a meritarsi la salvezza compiendo tutti i lavori dell’agricoltura. Dallo Zendavesta possiamo citare una mas­ sima saggia e benefica che compensa molte assurdità. « Colui che semina il terreno con attenzione e diligenza, acquista un capitale più grande di meriti, che se ripetesse diecimila orazioni » 2. Ogni anno, di primavera, si celebrava una festa destinata a rappresenta­ re la primitiva uguaglianza e l’attuale connessione degli uomini. I superbi re di Persia, cambiando la loro vana pompa con una più genuina grandezza, si mescolavano liberamente con i più umili e più utili dei loro sudditi. In quel giorno gli agricoltori erano am­ messi senza distinzione alla tavola del re e dei satrapi. Il monarca riceveva le loro suppliche, esaminava i loro ricorsi e conversava con loro con la maggiore familiarità. « Dalle vostre fatiche, — sole­ va dire (e con verità, se non con sincerità), - riceviamo il nostro mantenimento e voi dovete la vostra tranquillità alla nostra vigi­ lanza; pertanto, poiché siamo scambievolmente necessari l’uno all’altro, viviamo insieme come fratelli in concordia e amore » 3. Questa festa, in un impero opulento e dispotico, deve avere bensì degenerato in una commedia; ma era almeno una commedia ben degna della presenza sovrana, e che poteva talvolta imprimere nel­ l’animo di un principe giovane una lezione salutare. Se Zoroastro avesse in tutte le sue istituzioni sostenuto invaria­ Potenza dei Magi bilmente questo sublime carattere, il suo nome meriterebbe di sta­ re accanto a quelli di Numa e di Confucio, e il suo sistema avrebbe 1 Si veda il Sadder, la piu piccola parte del quale consiste in precetti morali. L e cerimo­ nie inseritevi sono frivole e infinite. Q uindici genuflessioni, quindici preghiere, ecc., erano necessarie ogni volta che il devoto persiano si tagliava le unghie, o orinava, o si metteva il sacro cinto. Sadder, art. 14, ^o, 60. 2 Zendavesta, I, p. 224, e il Précis du système de Zoroastre, III. 3 hyde , De relig. veter. Persarum, 19.

ι8 8

CAPITOLO OTTAVO

S TATO DELLA PERSIA DOPO LA RESTAURAZIONE A OPERA DI ARTASERSE

18 9

giustamente diritto a tutte le lodi, che alcuni nostri teologi e filo­ sofi si sono compiaciuti di dargli; ma in questa trattazione compo­ sita, dettata dalla ragione e dalla passione, dall’entusiasmo e dai motivi egoistici, alcune verità utili e sublimi sono degradate da una mescolanza della piu abbietta e pericolosa superstizione. I Ma­ gi, o sacerdoti, erano numerosissimi, giacché, come abbiamo osser­ vato qui sopra, ottantamila se ne adunarono in un concilio genera­ le. Le loro forze si accrebbero con la disciplina. Fu stabilita in tut­ te le province della Persia una regolare gerarchia e l’arcimago, che risiedeva a Balkh, era rispettato come il capo visibile della chiesa e il legittimo successore di Zoroastro1. Il patrimonio dei Magi era notevolissimo. Oltre al meno odioso possesso di una larga parte delle terre piu fertili della Media2, essi imponevano un’imposta generale sui beni e sul lavoro dei Persiani3. « Quand’anche le vo­ stre opere buone, - dice l’interessato profeta, - superassero di nu­ mero le foglie degli alberi, le gocce della pioggia, le stelle del cielo e le arene del mare, saranno tutte inutili per voi, se non sono ac­ cettate dal destour, o sacerdote. Per ottenere l’accettazione di que­ sta guida alla salvezza, dovete fedelmente pagargli le decime di tutto ciò che possedete, delle vostre merci, dei vostri terreni e del vostro denaro. Se il sacerdote sarà soddisfatto, l’anima vostra sfug­ girà ai tormenti infernali e vi assicurerete lode in questo mondo e felicità nell’altro. Perché i sacerdoti sono i maestri della religione; essi sanno tutto e liberano tutti gli uomini »4. Queste comode massime di venerazione e di implicita fede era­ no indubbiamente inculcate con gran cura nelle tenere menti della gioventù; giacché in Persia i Magi erano i direttori dell’educazio­ ne e gli stessi figli della famiglia reale erano affidati alle loro mani!. I sacerdoti persiani, che avevano uno spirito speculativo, conser­ vavano e indagavano i segreti della filosofia orientale e acquistaro­ no, per maggior scienza o arte, la reputazione di essere molto ver­ sati nelle scienze occulte, che derivano il loro nome dai Magi6.

Quelli di indole attiva si mescolavano al mondo nelle corti e nelle città; e si osserva che il governo di Artaserse era in gran parte di­ retto dai consigli del clero, alla cui dignità egli aveva per politica, o per devozione, restituito l’antico splendore1. Il primo consiglio dei Magi fu conforme all’indole insocievole Spirito di persecuzione della loro religione2, alla prassi degli antichi re 3, e anche all’esem­ pio del loro legislatore, che era caduto vittima di una guerra di religione, suscitata dal suo zelo intollerante4. Artaserse con un editto proibì severamente l’esercizio di ogni culto, salvo quello di Zoroa­ stro. I templi dei Parti, e i simulacri dei loro monarchi divinizzati, furono ignominiosamente abbattuti5. La spada di Aristotele (tale era il nome dato dagli Orientali al politeismo e alla filosofia dei Greci) fu facilmente spezzata6; le fiamme della persecuzione di­ strussero ben presto i piu ostinati ebrei e cristiani7, e non furono risparmiati gli eretici della propria nazione e religione. La maestà di Ohrmazd, gelosa di ogni rivale, fu favorita dal dispotismo di Artaserse, che non poteva tollerare ribelli; e gli scismatici di tut­ to quel vasto impero furono in breve ridotti al numero trascurabile di ottantamila8. Questo spirito di persecuzione copre di disonore la religione di Zoroastro; ma poiché non produsse disordini, servi a rafforzare la nuova monarchia, unendo tutti i diversi abitanti del­ la Persia col vincolo della religione. 11. Artaserse, col suo valore e la sua condotta, aveva strappa­ Stabilimento dell’autorità to lo scettro dell’Oriente all’antica famiglia reale dei Parti. Resta­ reale nelle va ancora la piu difficile impresa di stabilire per tutta la vasta esten­ province sione della Persia un governo vigoroso e uniforme. Gli Arsacidi, per compiacente debolezza, avevano accordato ai loro figli e fra­ telli le principali province e le cariche piu importanti del regno co­ me beni ereditari. I vitassi, diciotto satrapi piu potenti, avevano il privilegio di portare il titolo di re; e il vano orgoglio del monar­ ca era lusingato dal dominio nominale su tanti re vassalli. Anche i

1 hyde , D e r e li g . v e t e r . P e r s a r u m , 28. Hyde e Prideaux applicano ai magi i termini del­ la gerarchia ecclesiastica cristiana. 2 AMMIANO M arcellino , x x iii, 6. E gli c ’informa (per quanto gli si può prestar fede) di due particolari interessanti: i ) che i magi dovevano alcune delle loro più segrete dottrine ai brahmani dell’India; 2) che essi erano una tribù, o famiglia, e insieme un ordine. 3 La divina istituzione delle decime presenta un singolare esempio di conformità tra la legge di Zoroastro e quella di Mosè. Q uelli che non sanno spiegarla diversamente, possono, se credono, supporre che i magi degli ultim i tempi abbiano fatto un’interpolazione cosi utile negli scritti del loro profeta. 4 S a d d e r , art. 8. 5 platone , A l c i b i a d e . 6 Plinio (H i s t . N a i u r . , x x x , 1) osserva che la magia teneva gli uomini con la triplice ca­ tena della religione, della medicina e d ell’astronomia.

2 Hume, nella Naturai History of Religion, sagacemente osserva che le sette più raffi­ nate e filosofiche sono costantemente le piu intolleranti. 3 cicerone , D e legibus, n , io. Serse, per consiglio dei magi, distrusse i templi della Grecia. 4 hyde , De relig. veter. Persarum , 23, 24; D’HERBELOT, Bibliothèque Orientale , alla voce «Zerdusht». Vita di Zoroastro nel tomo II dello Zendavesta.

1 AGAZIA, IV, p. 134.

.,

5 Cfr. m osè di corene , il, 74 con AMMIANO m arcellino , x x iii, 6. Da qui in avanti mi varrò di questi passi. 6 RABBI ABRAHAM, in SCHICKARD, Tarìkh, pp. Ι θ 8 , IO9. 7 basnage , Histoire des Juifs, v ili, 3; sozomeno , 11, i . Mani, che soffri una morte igno­ miniosa, si può considerare come un eretico del zoroastrismo, non meno che del cristiane­ simo. 8 hyde , De relig. veter. Persarum, 21.

190

Estensione e popolazione della Persia

CAPITOLO OTTAVO

barbari nelle loro montagne, e le città greche dell’Asia Superiore1 entro le loro mura, riconoscevano appena un superiore, o gli ubbi­ divano raramente; e l’impero dei Parti presentava sotto altro no­ me una vivace immagine di quel sistema feudale2, che poi si stabi­ li in Europa. Ma l’attivo vincitore visitò in persona, alla testa di un esercito numeroso e disciplinato, tutte le province della Persia. La sconfitta dei ribelli piu audaci e la conquista delle piazze piu forti3diffusero il terrore delle sue armi e aprirono la via al pacifico riconoscimento della sua autorità. Una resistenza ostinata era fa­ tale ai capi; ma i loro seguaci erano trattati con clemenza4. Una spontanea sottomissione era ricompensata con ricchezze e onori; ma il prudente Artaserse, non tollerando che altri all'infuori di lui prendesse il titolo di re, abolì ogni potere intermedio fra il trono e il popolo. Il suo regno, quasi uguale per estensione alla Persia moderna, era da ogni parte circondato dal mare e da grandi fiumi; dall’Eufrate, dal Tigri, dall’Arasse, dall’Oxo e dall’Indo, dal Mar Caspio e dal Golfo Persico56 . Nel secolo scorso si calcolava che que­ sto paese contasse cinquecentocinquantaquattro città, sessantamila villaggi, e circa quaranta milioni di abitanti \ Se paragoniamo il governo dei Sassanidi con quello della casa di Sefi, e l’influenza politica della religione dei Magi con quella della religione maomet­ tana, ne dedurremo con grande probabilità che il regno di Arta­ serse comprendeva almeno un numero eguale di città, di villaggi e di abitanti. Ma si deve altresì riconoscere che in ogni tempo la mancanza di porti sul mare e la scarsezza di acqua dolce nelle pro­ vince interne hanno molto ostacolato il commercio e l’agricoltura 1 Queste colonie erano numerosissime. Seleuco Nicatore fondò trentanove città, alle qua­ li diede il proprio nome o quello di parenti (a p p ia n o , Syriac., p. 124). L ’era di Seleuco (tut­ tora usata dai cristiani orientali) appare sino all’anno 508 (196 d .C .) sulle medaglie delle cit­ tà greche, comprese n ell’impero dei Parti, m o y l e , I, pp. 273 sgg. e f r é r e t , in Mém. de l ’Académie des Inscriptions, XIX.

2 I Persiani moderni chiamano quel periodo la Dinastia dei Re delle Nazioni,

p l i n io ,

Hist. Natur., vi, 25. 3 Eutichio (I, pp. 367, 371, 373) riferisce l ’assedio dell’isola di Mesene nel Tigri, con

alcune circostanze non dissimili dalla storia di Niso e Scilla. 4 a g a z ia , 11, 164. I principi del Segestan difesero per molti anni la loro indipendenza. Poiché i romanzi portano generalmente a un’epoca antica gli avvenimenti dei loro tempi, non è impossibile che le favolose imprese di Rustan, principe del Segestan, siano state per cosi dire innestate a questa vera storia. 5 Possiamo appena assegnare alla monarchia persiana la costa della Gedrosia, 0 Makran, sull’Oceano Indiano, che si estende da Capo Giask (promontorio Capella) al Capo Gadel. A l tempo di Alessandro, e probabilmente molti secoli dopo, era scarsamente abitata da una po­ polazione selvaggia di ittiofagi, o pescatori, senza arti, né padroni, divisi da deserti dal resto del mondo. (Si veda ar rian o , De reb. Indicis). N el x i i secolo la piccola città di Taiz (che d ’A n ville suppone essere la Tesa di Tolomeo) venne popolata e arricchita da mercanti arabi (Geographia Nubiensis, p. 38 e d ’ a n v il l e , Géographie ancienne, II, p. 283). N el secolo scor­ so il paese era diviso fra tre principi, uno maomettano e due idolatri, che difesero la loro in­ dipendenza contro i successori di Shah Abbas ( ta v e r n ie r , Voyages, parte I, v, p. 633). 6 CHARDIN, I I I , I, 2, 3.

STATO DELLA PERSIA DOPO LA RESTAURAZIONE A OPERA DI ARTASERSE

I9 1

dei Persiani; e sembra che nel calcolo del loro numero essi abbiano usato uno dei piu meschini, sebben comunissimi artifici della va­ nità nazionale. Appena l’ambizioso Artaserse ebbe trionfato della resistenza Riassunto delle guerre dei suoi vassalli, cominciò a minacciare gli stati vicini, che durante tra Parti e Romani il lungo letargo dei suoi predecessori avevano impunemente offeso la Persia. Ottenne diverse facili vittorie contro i barbari Sciti e gli effeminati Indiani; ma i Romani erano nemici, che per le passate offese e la potenza presente esigevano tutto lo sforzo delle sue ar­ mi. Alle vittorie di Traiano erano seguiti quarant’anni di tranquil­ lità, frutto del suo valore e della sua moderazione. Nell’intervallo tra l’avvento di Marco Aurelio e il regno di Alessandro Severo, vi fu due volte la guerra tra i Parti e i Romani; e sebbene gli Arsaci­ di impiegassero tutte le loro forze contro appena una parte delle forze di Roma, questa fu per lo piu vittoriosa. Macrino, mosso dal­ la sua precaria situazione e dalla sua pusillanimità, comprò la pace per il prezzo di quasi due milioni di sterline ’; ma i generali di Mar­ co Aurelio, l’imperatore Severo e suo figlio conquistarono molti trofei in Armenia, Mesopotamia e Siria. Di tutte le loro imprese, l’incompleta narrazione delle quali avrebbe inopportunamente in­ terrotto quella piu importante degli avvenimenti interni, riferire­ mo soltanto le ripetute calamità delle due grandi città Seleucia e Ctesifonte. Seleucia, situata sulla riva occidentale del Tigri, a circa quaran­ Seleucia e Ctesifonte tacinque miglia a settentrione dell’antica Babele, era la capitale delle regioni conquistate dai Macedoni nell’Asia Superiore2. Molti secoli dopo la rovina del loro impero, Seleucia conservava il genui­ no carattere di una colonia greca, le belle arti, il valor militare e l’amore della libertà. Questa repubblica indipendente era governa­ ta da un senato di trecento nobili, contava seicentomila abitanti, le sue mura erano forti, e finché tra i diversi ordini dello stato regnò la concordia, essi considerarono con disprezzo la potenza dei Par­ ti; ma il furore delle fazioni li spinse talvolta a implorare il perico­ loso aiuto del comune nemico, che stava quasi alle porte della co­ lonia3. I monarchi parti, come i sovrani mongoli dell’Indostan, godevano di condurre la vita pastorale degli Sciti loro antenati; e l’accampamento imperiale era spesso attendato nella pianura di 1 DIONE CASSIO, XXVIII, p .

1335.

2 Per l ’esatta ubicazione di Babilonia, Seleucia, Ctesifonte, Modain e Bagdad, città spes­ so confuse l’una con l’altra, vedi un eccellente saggio geografico del d’Anville, in Mém. de l ’Académie des Inscriptions, XXX. 3

t a c it o ,

Annal., vi, 42;

p l i n io ,

H ist. Natur., v i, 26.

19 2

CAPITOLO OTTAVO

Ctesifonte, sulla riva orientale del Tigri, a sole tre miglia da Seleucia1. Gli innumerevoli seguaci del lusso e del dispotismo ac­ correvano alla corte e il piccolo villaggio di Ctesifonte divenne in­ sensibilmente una grande città2. Sotto il regno di Marco Aurelio, i generali romani penetrarono sino a Ctesifonte e Seleucia. Furono ricevuti come amici da quella colonia greca, ma attaccarono come nemici Ctesifonte, sede del re dei Parti e le due città subirono il 16, medesimo trattamento. Il saccheggio e l’incendio di Seleucia, con la strage di trecentornila abitanti, oscurarono la gloria del trionfo romano3. Seleucia, già indebolita per la vicinanza di una rivale troppo potente, dovette soccombere al colpo fatale; ma Ctesifonte in circa trentatre anni aveva ricuperato forze sufficienti per soste198 nere un ostinato assedio contro l’imperatore Severo. La città fu presa d’assalto, il re, che la difendeva in persona, si diede precipi­ tosamente alla fuga e centomila prigionieri con un ricco bottino ri­ compensarono le fatiche dei soldati romani4. Nonostante questi disastri, Ctesifonte succedette a Babele e a Seleucia come una del­ le grandi metropoli dell’Oriente. Durante l’estate, il monarca per­ siano godeva a Ecbatana il vento fresco dei monti della Media e passava l’inverno nel piu dolce clima di Ctesifonte. 1 Romani Da queste vittoriose incursioni, tuttavia, i Romani non trasse’iOsroene ro alcun reale o duraturo vantaggio, né tentarono di conservare quelle remote conquiste, che un deserto separava dalle province dell’impero. La conquista del regno d’Osroene fu bensì meno glo­ riosa, ma di gran lunga piu vantaggiosa. Quel piccolo stato com­ prendeva la parte settentrionale e piu fertile della Mesopotamia, tra l’Eufrate e il Tigri. Edessa, la capitale, si trovava a circa venti miglia di là dall’Eufrate e il suo popolo, dal tempo di Alessandro, era un miscuglio di Greci, Arabi, Siri e Armeni5. I deboli sovrani d’Osroene, ai pericolosi confini dei due imperi rivali, per inclina­ zione parteggiavano per i Parti; ma la maggior potenza di Roma 1 Questo si può dedurre da Strabone (xvi, p. 743). 2 Bernier, quel viaggiatore curiosissimo che segui il campo di Aurengzebe da D elhi al Kashmir, descrive con grande esattezza l ’immensa città semovente. La guardia della cavalle­ ria era di trentacinquemila uomini, quella della fanteria di diecimila. Fu calcolato che il cam­ po conteneva centocinquantamila tra cavalli, muli ed elefanti, cinquantamila cammelli, cin­ quantamila buoi e da trecento a quattrocentomila persone. Quasi tutta D elhi seguiva la corte, la cui magnificenza manteneva arti e mestieri. 3 Dione Ca s s io , l x x i , p. 1178; Hist. August., p. 38; EUTROPIO, v ili, io ; e u sebio , Chrott. Quadrato (citato nella Historia Augusta) tentò di giustificare i Romani, allegando che i cit­ tadini di Seleucia avevano per primi violato l ’impegno, 4 DIONE CASSIO, LXXV, p. 1263; ERODIANO, III, p. 120; HÌSt. AugUSt., p. 70. . 5 I progrediti cittadini di Antiochia chiamavano quelli di Edessa un miscuglio di bar­ bari. Era però un qualche pregio, che il dialetto aramaico, il piti puro ed elegante dei tre dia­ letti del siriaco, si parlasse a Edessa. I l Bayer (Historia Osrhoena et Édessena, p. 3) ha pre­ so questa osservazione da Giorgio di Malatia, scrittore siriaco.

STATO DELLA PERSIA DOPO LA RESTAURAZIONE A OPERA DI ARTASERSE

19 3

li costrinse a un forzato omaggio, tuttora attestato dalle loro me­ li aglie. Terminata sotto Marco Aurelio la guerra contro i Parti, fu giudicato prudente assicurarsi con concrete garanzie della loro dubbia fedeltà. Furono perciò costruiti dei forti in varie parti del loro paese e stanziata una guarnigione romana nella piazzaforte di Ni sibis. Durante i disordini che seguirono la morte di Commodo, i principi di Osroene tentarono di scuotere il giogo; ma la ferma politica di Severo assicurò la loro dipendenza1 e la perfidia di Cal acalla compì la facile conquista. Abgaro, ultimo re di Edessa, fu 216 mandato a Roma in catene, il suo regno ridotto a provincia e la capitale onorata col titolo di colonia. Cosi i Romani, circa dieci an­ ni avanti la caduta del regno dei Parti, acquistarono una posizione salda e permanente di là dall’Eufrate2. La prudenza e la gloria avrebbero potuto giustificare una guer- A r t a s e r s e ra da parte di Artaserse, se le sue mire si fossero limitate alla difesa l e p r o v i n c e o all’acquisto di una vantaggiosa frontiera; ma l’ambizioso Persia- edìòhkra no manifestò apertamente un piano molto piu vasto di conquista c pensò di poter sostenere le sue alte pretese con le armi della ra- (230) gione, come con quelle della forza. Ciro, egli diceva, aveva soggio­ gato e i suoi successori avevano posseduto per lungo tempo tutta l’Asia fino alla Propontide e all’Egeo. Sotto il loro impero, le pro­ vince della Caria e della Ionia erano state governate da satrapi per­ siani e tutto l’Egitto, fino ai confini dell’Etiopia, aveva riconosciu­ to la loro sovranità3. Una lunga usurpazione aveva sospeso, ma non prescritto questi diritti; e non appena egli ebbe ricevuto il dia­ dema persiano, che la nascita e il valore fortunato gli avevano mes­ so sul capo, senti che il primo grande dovere che la sua posizione gl’imponeva era di ristabilire gli antichi confini e l’antico splendo­ re della monarchia. Il Gran Re pertanto ordinava (tale era il super­ bo stile delle sue ambascerie all’imperatore Alessandro Severo) ai Romani di ritirarsi immediatamente dalle province dei suoi ante­ nati, e cedendo ai Persiani l’impero dell’Asia, appagarsi del tran­ quillo possesso dell’Europa. Questo altero ordine fu portato da quattrocento dei piu alti e belli Persiani, i quali coi loro superbi cavalli, le armi lucenti e il magnifico seguito mostravano l’orgoglio 1 dione ca ssio , lxxv , pp. 1248, 1249, 12.50. I l Bayer ha trascurato questo importantis­ simo passo. 2 Questo regno, da Osroe, che dette un nuovo nome al paese, fino all’ultimo Abgaro, durò trecentocinquantatre anni. Si veda l’erudita opera del bayer , Historia Osrhoena et lidessena.

3 Senofonte, nella prefazione alla Ciropedia, dà una chiara e magnifica idea dell’esten­ sione dell’impero di Ciro. Erodoto (in, 7-9 sgg.) fa un’interessante e particolareggiata descri­ zione delle venti grandi Satrapie, nelle quali l’impero persiano fu diviso da Dario d’Istaspe.

194

CAPITOLO OTTAVO

e la grandezza del loro signore12 . Tale ambasceria era piu una di­ chiarazione di guerra, che un principio di trattativa. Alessandro Severo e Artaserse, raccogliendo entrambi le forze dei loro imperi, decisero di comandare in persona le loro armate in quell’importante conflitto. Pretesa Se crediamo a quello che sembrerebbe il più autentico di tutti Alessandro ϊ documenti, un’orazione inviata dall’imperatore medesimo al seSe(a33°) nat0 e c^e ci è pervenuta, dobbiamo confessare che la vittoria di Alessandro Severo non fu inferiore ad alcuna di quelle riportate un tempo sopra i Persiani dal figlio di Filippo. L ’armata del Gran Re era di centoventimila cavalieri in tutta armatura di acciaio, di settecento elefanti, che portavano sul dorso torri piene di arcieri, e di milleottocento carri armati di falci. Un esercito cosi formidabi­ le, quale non si trova nella storia dell’Oriente ed è appena stato immaginato nei suoi romanzi \ fu sconfitto in una grande batta­ glia, nella quale il romano Alessandro si mostrò intrepido soldato e abilissimo generale. Il Gran Re fu messo in fuga dal suo valore, e un immenso bottino e la conquista della Mesopotamia furono gli immediati frutti di quella segnalata vittoria. Tali sono i fatti nar­ rati in quest’ampollosa e inattendibile relazione, dettata, com’è anche troppo evidente, dalla vanità del monarca, ornata dalla sfac­ ciata adulazione dei cortigiani e ricevuta senza contraddizione dal lontano e ossequente senato3. Lungi dal credere che le armi di Alessandro Severo riportassero qualche memorabile vittoria sui Persiani, siamo indotti a sospettare che tutta questa luce di gloria immaginaria fosse diretta a nascondere qualche vero disastro, ρω I nostri sospetti sono confermati dall’autorità di uno storico ptnotìzia contemporaneo, il quale parla con rispetto delle virtù di Alessansuguerra dro Severo e con sincerità dei suoi difetti. Egli descrive il giu­ dizioso piano fatto per la condotta della guerra. Tre eserciti roma­ 1 ERODIANO, VI, 2 0 9 , 2 1 2 . 2 N ell’esercito di Dario vi erano duecento carri armati di falci alla battaglia di Arbeyla. N el numeroso esercito di Tigrane, che fu vinto da Lucullo, didassettemila cavalli soltanto erano interamente corazzati. Antioco mise in campo contro i Romani cinquantaquattro ele­ fanti, e nelle sue frequenti guerre e trattative con i sovrani dell’ India, aveva una volta rac­ colto centocinquanta di questi grandi animali; ma si può mettere in dubbio, se il piu po­ tente monarca d ell’Indostan abbia mai schierato in battaglia settecento elefanti. In luogo dei tre o quattromila elefanti che il Gran Mogol si diceva possedere, Tavernier (Voyages, par­ te I I , i, p. 198) scopri con diligenti ricerche che quel principe non ne aveva che cinquecento per le sue salmerie, e ottanta o novanta da guerra. I Greci divergono sul numero degli ele­ fanti messi in linea da Poro; ma Q uinto Curzio (v ili, 13), che in questo passo si mostra obiet­ tivo e moderato, non parla che di ottantacinque elefanti, notevoli per la mole e la forza. Nel Siam, dove questi animali sono piu numerosi e pregiati, diciotto elefanti sono considerati sufficienti per ciascuna delle nove brigate in cui è diviso un esercito regolare. L ’ intero nume­ ro di cento e sessantadue elefanti da guerra può all’occorrenza essere raddoppiato tHist. Générale des Voyages, IX, p. 260). 3 Hist. August., p. 133.

S TATO DELLA PERSIA DOPO LA RESTAURAZIONE A OPERA DI ARTASERSE

195

ni dovevano invadere contemporaneamente da tre diverse parti la Persia; ma le operazioni della campagna, sebbene saggiamente concertate, non vennero eseguite con abilità, né con successo. Il primo di questi eserciti, appena si fu inoltrato nelle paludose pia­ nure della Babilonia verso l’artificiale confluenza dell’Eufrate e del Tigri ‘, fu circondato dai nemici superiori di numero e distrut­ to dalle loro frecce. L ’alleanza di Cosroe, re di Armenia!, e il lun­ go tratto montuoso nel quale la cavalleria persiana non poteva operare, offrirono un sicuro accesso nel cuore della Media al se­ condo esercito romano. Queste valorose truppe devastarono le province finitime e con varie vittoriose azioni contro Artaserse diedero una debole giustificazione alla vanità del monarca roma­ no; ma la ritirata di quest’armata vittoriosa fu imprudente, o al­ meno sfortunata. Ripassando i monti, un gran numero di soldati peri per la difficoltà delle strade e il rigore dell’inverno. Era stato deciso che mentre queste due numerose armate penetravano nel­ le opposte estremità del territorio persiano, il grosso dell’eserci­ to, sotto il comando di Alessandro medesimo, sostenesse i loro at­ tacchi, invadendo il centro del regno. Ma l’inesperto giovane, in­ fluenzato dai consigli della madre, e forse dalla sua propria paura, abbandonò le truppe più valorose e le più belle prospettive di vit­ toria; e dopo aver trascorso in Mesopotamia un’estate ingloriosa, ricondusse ad Antiochia un esercito decimato dalle malattie e ir­ ritato dall’insuccesso. La condotta di Artaserse era stata ben dif­ ferente: muovendosi rapidamente dai monti della Media alle pa­ ludi dell’Eufrate, aveva dovunque contrattaccato in persona gl’in­ vasori, e nell’una e nell’altra fortuna aveva unito al più abile co­ mando la più intrepida risolutezza; ma in diversi ostinati com­ battimenti contro le legioni veterane di Roma, il monarca persia­ no aveva perduto il fiore delle sue truppe. Le sue stesse vittorie ne avevano indebolito le forze. Invano si presentarono alla sua ambizione le favorevoli opportunità dell’assenza di Alessandro e della confusione che segui la morte di quest’imperatore; e invece di cacciare i Romani dal continente asiatico come pretendeva, non riuscì neppure a strappare dalle loro mani la piccola provincia del­ la Mesopotamia3. 1 Tillemont ha già osservato che la geografia di Erodiano è alquanto confusa. 2 Mosè di Corene (Hist. Armen., 11, 71) illustra questa invasione della Media, soste­ nendo che Cosroe, re deU’Armenia, sconfisse Artaserse e lo inseguì fino ai confini dell’India. Le imprese di Cosroe sono state esagerate, ed egli agi come alleato alle dipendenze dei Ro­ mani. 3 Per questa guerra, si veda Erodiano (vi, pp. 209, 212). G li antichi abbreviatori, e 1 compilatori moderni, hanno ciecamente seguito la Historìa Augusta.

196

CAPITOLO OTTAVO

Carattere Il regno di Artaserse, che dopo l’ultima sconfitta dei Parti dudLAruserse rò soltanto quattordici anni, è un’epoca memorabile nella storia (240) orientale e anche in quella romana. Sembra che il suo carattere avesse quel tratto audace e dominatore, che distingue in genere i conquistatori dagli eredi di un impero. Fino all’ultimo periodo della monarchia persiana, il codice delle sue leggi fu rispettato co­ me la base del loro governo civile e religioso1. Vari suoi detti, e uno di essi in particolare, manifestano una profonda conoscenza della costituzione del governo. « L ’autorità del principe - diceva Artaserse - deve essere difesa dalla forza militare e questa forza non può mantenersi che con le tasse; ma tutte le tasse devono in definitiva ricadere sull’agricoltura, e l’agricoltura non può fiorire se non è protetta dalla giustizia e dalla moderazione » 2. Artaserse lasciò a Sapore, degno figlio di cosi gran padre, il suo nuovo im­ pero e i suoi piani ambiziosi contro i Romani; ma questi piani erano troppo vasti per le forze della Persia e non valsero che a coinvolgere i due popoli in una lunga serie di guerre sanguinose e di scambievoli calamità. armate°dei Persiani>8& da gran tempo inciviliti e corrotti, erano ben Persiani lungi dal possedere quella marziale indipendenza e intrepida forza d’animo e di corpo, che hanno reso i barbari del Settentrione pa­ droni del mondo. La scienza della guerra, che costituiva la forza piu razionale della Grecia e di Roma, come presentemente è del­ l’Europa, non fece mai progressi notevoli in Oriente. Quelle evo­ luzioni disciplinate, che fanno muovere ordinatamente e animano una confusa moltitudine, erano sconosciute ai Persiani. Ignorava­ no parimenti l’arte di costruire, assediare, e difendere regolari fortificazioni. Confidavano piu nel numero che nel coraggio, e piu s κΐνοίε ne^coraSSÌ° c^e nella disciplina. La loro fanteria era una folla di spregevo e contacjinj male agguerriti e armati, reclutati frettolosamente con la lusinga del saccheggio, e che facilmente si disperdevano, sia in caso di vittoria che di sconfitta. Il re e i nobili portavano sul cam­ po la vanità e il lusso dei loro harem. Le operazioni militari erano intralciate da un seguito inutile di donne, eunuchi, cavalli e cam­ melli; e nel bel mezzo di una campagna vittoriosa, l’esercito persia­ no andava spesso disperso, o distrutto da una inattesa carestia3.

1 EUTicmo, I I , p. 180, vers. Pocock. Il grande Cosroe Nushirvan mandò il codice di Artaserse a tutti i suoi satrapi, quale regola invariabile della loro condotta. 2 d 'herbelot , Bibliothèque Orientale, alla voce «Ardshir». Possiamo osservare che do­ po un antico periodo leggendario e un lungo intervallo di oscurità, le storie della Persia co­ minciano a prendere un ’aria di verità con la dinastia dei Sassanidi. erodiano, vi, p. 214; AMMIANO M arcellino , x x iii, 6. Si possono osservare alcune d if­ ferenze tra questi due storici, conseguenza naturale dei cambiamenti prodotti da un secolo e mezzo.

STATO DELLA PERSIA DOPO LA RESTAURAZIONE A OPERA DI ARTASERSE

197

Ma i nobili persiani, anche nel lusso e nel dispotismo conser­ Eccellente cavalleria vavano un forte sentimento di valore personale e di onore nazio­ nale. Dall’età di sette anni erano educati a dire la verità, a maneg­ giare l’arco e a cavalcare; e per riconoscimento universale, in que­ ste due ultime arti avevano fatto progressi incredibili1. I giovani piu distinti, educati sotto l’occhio del sovrano, facevano gli eser­ cizi davanti alla porta del suo palazzo, ed erano severamente abi­ tuati alla temperanza e all’obbedienza nelle lunghe e faticose par­ tite di caccia. In ogni provincia, il satrapo manteneva una simile scuola di virtù militare. I nobili persiani (tanto naturale è l’idea del possesso feudale) ricevevano dalla generosità del re case e ter­ reni, coll’obbligo di prestargli servizio in guerra. Alla prima chia­ mata, montavano prontamente a cavallo, e con uno splendido se­ guito di armati si univano ai numerosi corpi di guardie, diligente­ mente scelte tra gli schiavi più robusti e tra i più coraggiosi sol­ dati di ventura dell’Asia. Questi eserciti di cavalleria pesante e leggera, formidabili per l’impeto della carica non meno che per la rapidità dei movimenti, minacciavano come un temporale immi­ nente le province orientali del decadente impero romano2. 1 I Persiani sono tuttora i piu abili cavalieri, e i loro cavalli i piu belli dell’Oriente. 2 Da Erodoto, Senofonte, Erodiano, Ammiano Marcellino, Chardin, ecc., ho estratto alcune « probabili » notizie sulla nobiltà persiana, quali sembrano comuni a ogni tempo, o peculiari a quello dei Sassanidi.

STATO DELLA GERMANIA FINO AL TEMPO DELL’IMPERATORE DECIO

CAPITO LO NONO

Staio della Germania fino all’invasione dei barbari al tempo dell’imperatore Decio.

E s te n s io n e d e lla G e r m a n ia

Il governo e la religione della Persia hanno meritato una certa attenzione per la loro relazione con la decadenza e caduta delt impero romano. Ricorderemo incidentalmente le tribù degli Sciti e dei Sarmati che con armi e cavalli, le greggi e gli armenti, le mogli e le famiglie, andavano errando per le immense pianure che 51 Ì al Mar Caspio alla Vlstola, dai confini della Persia a quelli della Germania; ma i bellicosi Germani, che prima con­ trastarono poi invasero e alla fine distrussero la monarchia occi­ dentale di Roma, occuperanno un posto molto piu importante in questa stona, avendo un diritto maggiore e, se ci è lecita l ’espressione, nazionale alla nostra attenzione e considerazione. I popoli piu civili dell Europa moderna sono usciti dalle foreste della Ger­ mania; e nelle rozze istituzioni di quei barbari si possono rin­ tracciare tuttora i primi principi delle nostre leggi e dei nostri co­ stumi. Tacito il primo storico che applicasse la filosofia allo stu­ dio dei tatti, ha osservato con occhio penetrante i Germani nel lo­ ro stato di primitiva libertà e indipendenza, rappresentandoli con pennello magistrale. L ’espressiva concisione delle sue descrizioni a meritato di esercitare la diligenza d’innumerevoli studiosi e di eccitare 1 ingegno e l ’acume degli storici dei nostri giorni. Questo soggetto, vario e importante, è già stato trattato cosi spesso cosi dottamente e con tanto successo, che è divenuto ormai familiare al lettore e difficile per lo scrittore. Ci limiteremo pertanto a os­ servare, anzi a ripetere, alcune delle piu importanti caratteristiche del clima, dei costumi e delle istituzioni, che resero i barbari della Germania nemici cosi formidabili della potenza romana. L antica Germania, escludendo dai suoi confini la provincia a occidente del Reno, che era già soggetta al giogo romano, com­ prendeva una terza parte d ’Europa. Quasi tutta la moderna Ger­ mania la Danimarca, la Norvegia, la Svezia, la Finlandia, la Livonia la Prussia e a maggior parte della Polonia erano popolate dalle diverse tribù di una numerosa nazione, l’aspetto, i costumi e

19 9

la lingua delle quali denotavano una origine comune e mostrava­ no una impressionante somiglianza. A occidente, il Reno separava l’antica Germania dalle province galliche dell’impero, e a mezzo­ giorno il Danubio la divideva da quelle illiriche. La catena dei Car­ pazi, che parte dal Danubio, proteggeva la Germania dalla parte della Dacia, o Ungheria. La frontiera orientale era debolmente se­ gnata dal reciproco timore dei Germani e dei Sarmati, e spesso con­ fusa per la mescolanza dei due popoli confinanti, ora nemici, e ora alleati. Nella remota oscurità del Settentrione gli antichi descrive­ vano imperfettamente un oceano coperto di ghiacci, che sta di là dal Baltico e dalla penisola, o isola1 della Scandinavia. Alcuni ingegnosi scrittori2hanno opinato che un tempo l’Eu- clima ropa fosse molto piu fredda di quanto non sia attualmente, e le più antiche descrizioni del clima della Germania tendono moltis­ simo a confermare la loro teoria. Le generali lagnanze di freddo intenso e di perpetuo inverno meritano forse scarsa considerazio­ ne, giacché non abbiamo un metodo per ridurre all’esatta misura del termometro le reazioni, o dichiarazioni, di uno scrittore nato nelle più fortunate regioni della Grecia o dell’Asia; ma io sceglie­ rò due dati notevoli e di natura meno equivoca, i ) I due grandi fiumi, che difendevano le province romane, il Reno e il Danubio, erano spesso gelati e in grado di sostenere i pesi più enormi. I barbari, scegliendo sovente la stagione invernale per le loro incur­ sioni, passavano senza timore o pericolo con le loro numerose ar­ mate, la cavalleria e i pesanti carri, su un vasto e solido ponte di ghiaccio2. I tempi moderni non ci hanno dato alcun esempio di questo fenomeno. 2) La renna, questo animale cosi utile, da cui i selvaggi del Settentrione ricavavano la maggior utilità nella loro triste esistenza, è di una costituzione che sopporta, ed anzi richie­ de, il freddo più intenso. Si trova sugli scogli dello Spitzberg, a dieci gradi dal polo, e sembra godere delle nevi della Lapponia e della Siberia; ma attualmente non può vivere e molto meno mol1 I moderni studiosi della Svezia sembrano d ’accordo che le acque del Baltico scendono gradatamente e regolarmente di mezzo pollice ogni anno. V enti secoli addietro, la pianura scandinava doveva essere coperta dal mare, mentre le terre piu alte sorgevano dalle acque, come altrettante isole di forme e dimensioni diverse. Tale infatti è l ’idea che Mela, Plinio e Tacito ci danno delle vaste contrade intorno al Baltico. Si veda nella Bibliothèque Raisonnée, XL e X LV, un lungo estratto della Storia ài Svezia di Dalin, scritta in lingua svedese. 2 Particolarmente Hume, l ’abate Dubos e il Pelloutier, Hist. des Celtes, I. 3 diodoro sic u lo , v, p. 340, ed. Wesseling; erodiano , v i , p. 221; giordane, 55. Sulle rive del Danubio il vino, quando veniva portato a tavola, era spesso gelato in grossi pezzi, frusta vini (ovidio , Epist. ex Ponto, iv , 7, 9, io; Virg ilio , G e ò r g i e in , 355). I l fatto è con­ fermato da un soldato filosofo, che aveva provato l ’intenso freddo della Tracia. Senofonte , Anabasi, v ìi, p. 560, ed, Hutchinson.

200

S u o i e ffe tti s u g li in d ig e n i

CAPITOLO NONO

tiplicarsi in alcun paese a sud del Baltico Ai tempi di Cesare, la renna, come pure l’alce e il bue selvatico, vivevano nella Selva Ercinia, che allora copriva una gran parte della Germania e del­ la Polonia 12. 1 moderni miglioramenti spiegano a sufficienza le cau­ se della diminuzione del freddo. A poco a poco si sono diradate quelle immense foreste, che intercettavano i raggi solari3. Si sono prosciugate le paludi, e man mano che il terreno è stato coltivato, l’aria è divenuta piu temperata. Il Canada ai giorni nostri è un quadro esatto dell’antica Germania. Sebbene situato sullo stesso parallelo delle piu belle province della Francia e dell’Inghilterra, quel paese ha un clima rigidissimo. Vi sono in gran numero le ren­ ne, la terra è coperta di neve alta e durevole e il grande fiume del San Lorenzo è regolarmente gelato nella stagione in cui le acque della Senna e del Tamigi sono ordinariamente libere dai ghiacci4. È difficile accertare e facile esagerare l ’influenza del clima del­ la Germania antica sull’animo e sul corpo degli abitanti. Molti scrittori hanno supposto, e moltissimi affermato (sebbene, a quan­ to sembra, senza prove adeguate), che il freddo intenso del Set­ tentrione favorisse la longevità e la forza generativa, che le donne vi fossero piu feconde e la specie umana piu prolifica che nei climi piu caldi, o piu temperati5. Noi possiamo affermare con maggior sicurezza che l’aria rigida della Germania formasse le grandi e maschie membra degli indigeni, i quali erano in generale di sta­ tura piu alta dei popoli meridionali67 , che desse loro una forza me­ glio adatta ai violenti esercizi, che alla paziente fatica, e li dotasse di un valore istintivo, effetto dei nervi e degli spiriti vitali. L ’a­ sprezza di una campagna d’inverno, che agghiacciava il coraggio delle truppe romane, veniva appena sentita da quei robusti figli del Settentrione \ i quali erano a loro volta incapaci di resistere ai calori estivi, e languivano e si ammalavano sotto il sole d’Italia8. 1 buffon , Hist. Naturelle, X II, pp. 79, 116. 2 cesare , D e bell. Gali., vi, 23 sgg. I Germani piu attenti ne ignoravano gli estremi confini, sebbene alcuni avessero percorso il paese per oltre sessanta giorni. 3 Cluverio (Germania antiqua, n i, 47) esplora i piccoli e dispersi avanzi della Foresta Ercinia. * charlevoix , Histoire du Canada. 5 O lao Rudbeck sostiene che le donne svedesi partoriscono sovente dieci o dodici figli, e non di rado venti o trenta; ma l ’autorità di Rudbeck è molto sospetta. 6 « In hos artus, in haec corpora, quae miramur, excrescunt». tacito , Germania, 3, 20; cluverio , 1, 14. 7 PLUTARCO, Mario. I Cimbri spesso slittavano per divertimento giu da montagne di neve sui loro grandi scudi. 8 I Romani fecero la guerra in tutti i clim i, e con la loro eccellente disciplina si con­ servarono in gran parte la salute e il vigore. Si può notare che l ’uomo è il solo animale che possa vivere e moltiplicarsi in ogni paese, dall’Equatore ai poli. Sembra che in questo pri­ vilegio il porco si avvicini pili d’ogni altro animale alla nostra specie.

STATO DELLA GERMANIA FINO AL TEMPO DELL’IMPERATORE DECIO

201

Non v ’è in tutto il globo nessun grande territorio che sia stato scoperto privo d’abitanti, o la cui primitiva popolazione possa ve­ nire identificata con qualche grado di certezza storica; e sebbene le menti piu speculative raramente possano trattenersi dall’indagare l’infanzia dei grandi popoli, la nostra curiosità si esaurisce in faticosi e inutili sforzi. Quando Tacito considero la purezza del sangue germanico e il proibitivo aspetto del paese, ne fu indotto a definire quei barbari indigenae, nativi del luogo. Possiamo am­ mettere con certezza, e forse con verità, che la Germania non fosse in origine popolata da alcuna colonia straniera, già unita in società politica1, ma che il nome e il popolo ebbero vita dalla graduale unione dei selvaggi nomadi della Selva Ercinia. Sostenere che quei selvaggi fossero un prodotto spontaneo della terra da loro abitata, sarebbe un’affermazione temeraria, condannata dalla re­ ligione e non confortata dalla ragione. Un dubbio cosi ragionevole mal si addice allo spirito della va- Leggende nità popolare. I popoli, che hanno adottato la storia mosaica del