Storia. Guida all'esame di Stato. Prove tipologie B e C. Per il triennio delle Scuole superiori 8842117420, 9788842117421


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Storia. Guida all'esame di Stato. Prove tipologie B e C. Per il triennio delle Scuole superiori
 8842117420, 9788842117421

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Annalisa Bianco

STORIA

GUIDA ALL’ESAME DI STATO Prove tipologie B e C per il triennio

Editori Laterza

Annalisa Bianco

STORIA

GUIDA ALL’ESAME DI STATO Prove tipologie B e C per il triennio

Editori Laterza

© 2020, Gius. Laterza & Figli, Bari-Roma Prima edizione 2020

L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, nel caso non si fosse riusciti a reperirli per chiedere debita autorizzazione.

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected], sito web: www.clearedi.org.

Copertina a cura di Silvia Placidi/Grafica Punto Print s.r.l. Questo libro è stampato su carta amica delle foreste. Finito di stampare nel gennaio 2020 da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-421-1742-1

Editori Laterza Piazza Umberto I, 54   70121 Bari e-mail: [email protected] http://www.laterza.it

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analisi del testo

Prefazione Il nuovo Esame di Stato, entrato in vigore per la prima volta nell’anno scolastico 2018/2019, ha in parte modificato l’assetto e l’organizzazione della prima prova. Ne è derivata la necessità di saper operare in base a consegne rinnovate che incidono nella gestione dei tempi di lettura e comprensione delle tracce e nelle modalità di scrittura. A partire dall’anno scolastico 2018/2019 sono state fornite agli studenti tre tipologie di prova: – tipologia A: analisi di un testo letterario; – tipologia B: analisi e produzione di un testo argomentativo; – tipologia C: riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità. Come in passato, la prima prova ha una natura trasversale, pertanto i saperi che concorrono nel realizzarla non afferiscono solo all’ambito letterario, bensì a vari nuclei tematici, come viene ribadito dal Ministero nel Quadro di Riferimento per lo svolgimento del Nuovo Esame di Stato. NUCLEI TEMATICI FONDAMENTALI Sia per quanto concerne i testi proposti, sia per quanto attiene alle problematiche contenute nelle tracce, le tematiche trattate potranno essere collegate, per tutte le 3 tipologie, agli ambiti previsti dall’art. 17 del D. Lgs. 62/2017, e cioè: • Ambito artistico, • Ambito letterario, • Ambito storico, • Ambito filosofico, • Ambito scientifico, • Ambito tecnologico, • Ambito economico, • Ambito sociale.

A partire dall’anno scolastico 2019/2020 viene garantita nuovamente la presenza di una prova di ambito storico, proposta fra le tracce di tipologia B. Alla luce di ciò, risulta essenziale esercitarsi nella composizione di prove di ambito storico e abituarsi a leggere e interpretare la storia con uno sguardo alla società, all’economia, alla scienza e all’attualità. Questo testo offre agli studenti una riflessione a partire da alcuni dei nuclei fondamentali relativi all’ambito storico che vengono posti in stretta connessione di volta in volta alla dimensione filosofica, scientifica, tecnologica, economica e sociale dei saperi. Le prove possono pertanto costituire uno strumento di esercitazione per gli studenti da affiancare ad altri manuali ideati per lo svolgimento di tracce di natura artistica e letteraria. Il testo contiene esercitazioni, organizzate per anno, sulle tipologie di prova d’esame B e C, prove direttamente connesse all’esercizio dello spirito critico e del sapere storico.

III



Le prove di tipologia B permettono di argomentare a partire da vari temi cardine dei programmi di storia del triennio: toccano vari ambiti di riferimento, storico, politico, economico, tecnologico, sociale e sono pensate per favorire una scrittura argomentativa che conduca a ragionare sul passato ponendolo in stretto raffronto col presente. Alcuni testi permettono di approfondire tematiche legate all’educazione alla cittadinanza e ai valori fondanti propri dei sistemi democratici. Temi di attualità sono proposti per le esercitazioni inerenti la tipologia C. Il rapporto dei giovani con il mondo che li circonda, l’ambiente, le scienze e le nuove tecnologie, ma anche riflessioni sul valore della storia e sulla sua interpretazione, il rapporto fra la norma sociale e la libertà individuale. Per ciascuna delle due tipologie di prova vengono fornite sia delle tracce guidate che testi da utilizzarsi come esercitazione. Tutte le prove sono create in modo conforme ai requisiti del nuovo Esame di Stato e si basano sui quadri di riferimento e le modalità operative cui il Ministero dell’Istruzione si è attenuto nel corso del primo anno di sperimentazione. Sul sito www.laterzalibropiuinternet.it sono inoltre disponibili contenuti per gli studenti utili alla conduzione del colloquio. Annalisa Bianco

IV

analisi del testo

Indice

Prove per il III anno Prima Prova: tipologia B 

Analisi e produzione di un testo argomentativo

1. Prova guidata Eppure, fu Carlomagno, p. 2 • 2. L’avventura di un povero crociato, p. 6 • 3. Prova guidata Le radici medievali dell’Europa, p. 9 • 4. Prova guidata Blockchain: nel Medioevo le radici della tecnologia del futuro?, p. 13 • 5. Facciamoci del male, ma per gioco: festa e identità, p. 16 • 6. Dalla cartografia del Cinquecento alle mappe “sociali” del XXI secolo, p. 19 • 7. Alle origini della diseguaglianza: movimenti migratori e migrazioni globali, p. 22 Prima Prova: tipologia C • Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo

su tematiche di attualità 1. Prova guidata Alle origini della lettura, p. 24 • 2. Prova guidata L’Europa e la fede, p. 25

Prove per il IV anno Prima Prova: tipologia B 

Analisi e produzione di un testo argomentativo

1. Prova guidata Il popolo in democrazia: mutazioni di un concetto, p. 28 • 2. Prova guidata Della verità e dell’opinione, p. 32 • 3. Top secret: lo spionaggio industriale in età moderna, p. 37 • 4. L’illuminismo della parola “umanità”, p. 39 • 5. Empatia e universalità dei diritti, p. 41 • 6. Mondo rurale e classi dirigenti nella storia d’Italia, p. 44 • 7. In difesa dell’Illuminismo, nel XXI secolo, p. 46 Prima Prova: tipologia C 

Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità

1. Prova guidata Essere in grado di competere con gli strumenti della storia, p. 48 • 2. Musica e idea nazionale, p. 50 • 3. La diminuzione – non percepita – della violenza nel mondo contemporaneo, p. 52

Prove per il V anno Prima Prova: tipologia B 

Analisi e produzione di un testo argomentativo

1. Prova guidata Fra memoria e oblio: la force noire, p. 56 • 2. Prova guidata Masse e propaganda durante il nazismo, p. 60 • 3. Le mie ultime parole. Lettere dalla Shoah, p. 64 • 4. Alcide

V

 De Gasperi ritratto da Indro Montanelli, p. 67 • 5. Un’utopia sostenibile per un mondo interconnesso, p. 70 • 6. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, p. 72 • 7. L’illusione dell’innocenza, p. 74 • 8. L’industria degli armamenti in tempo di pace, p. 77 • 9. La comunicazione dei beni culturali, p. 80 • 10. Il ruolo dei servitori dello Stato. Riflessioni di Giovanni Falcone, p. 82 Prima Prova: tipologia C Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo

su tematiche di attualità 1. Le parole della Costituzione, p. 84 • 2. Il lunghissimo Antropocene, p. 86 • 3. Intelligenza artificiale e controllo dell’individuo nel XXI secolo, p. 88 • 4. La conoscenza dei giovani tra immaginario e reale, p. 90 • 5. La norma sociale come capolavoro della libertà umana, p. 92 • 6. Vincitori e vinti a 80 anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale, p. 94

VI

PROVE PER IL III ANNO

PRIMA PROVA tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

Eppure, fu Carlomagno Indro Montanelli e Roberto Gervaso si affidano a biografi e a testimonianze coeve per restituirci un’im-

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Da giovane – racconta Eginardo1, suo biografo ufficiale – Carlomagno era un bel ragazzo, bruno, robusto, e di statura superiore alla media. I suoi unici difetti erano la voce un po’ stridula, il collo taurino e una certa tendenza alla pinguedine2, che propiziava anche un appetito gagliardo, ma scevro di ghiottoneria. Carlo mangiava sodo, ma semplice. Come carne, preferiva quella di porco; ma i suoi gusti erano piuttosto vegetariani. I suoi pasti consistevano soprattutto di aglio, cipolla, cavoli e fave. Questi piatti contadini però se li faceva servire, al tocco3 e al vespro, da Duchi e Conti in funzione di camerieri, e su piatti d’argento. Non per amore di etichetta, di cui anzi era impaziente; ma per ribadire, anche a tavola, che il padrone era lui. Eginardo racconta che uno dei giorni più felici di Carlo fu quello in cui scoprì il formaggio. Fu un Vescovo suo amico che, invitandolo a colazione un venerdì, gli offrì una forma di pecorino. Carlo, che non lo aveva mai visto, ne staccò una fetta, rosicchiò la buccia, la trovò disgustosa e andò su tutte le furie. Il Vescovo ebbe il suo daffare a calmarlo e a persuaderlo che il buono era la polpa. Quando l’ebbe assaggiata, Carlo se ne mostrò deliziato, e da quel giorno guai se alla sua mensa mancava quel dessert. Se lo portava al seguito anche nei viaggi. [...] Era religioso, ma non bigotto. Si alzava la mattina all’alba, beveva un bicchiere d’acqua, mangiava una mela, indossava frusti abiti4 con gambali di cuoio, inforcava un cavallo, e per ore cacciava nei boschi, con poco seguito e talvolta solo. Era la preparazione igienica a una giornata piena d’impegni, fra cui c’erano anche quelli della sua privata amministrazione. Perché questo Re di mezza Europa era squattrinato, e doveva fare i conti col proprio bilancio personale. Per «quadrarlo», aveva messo su un verziere5, un allevamento di polli e un commercio di uova. Il reddito gli serviva per mantenere le sue tre residenze, fra le quali si spostava continuamente: Heristal nel Brabante6, Worms sul Reno, e Aquisgrana in Austrasia7. Quest’ultima capitale era la sua preferita per via del clima mite che l’allietava, dei boschi che la circondavano e delle acque termali che ne avevano fatto la fortuna fin dai tempi dei Romani. Carlo, che soffriva di reumatismi e di gotta, aveva restaurato le fonti, e il poeta Angilberto8 lo descrive intento a dirigere i lavori degli sterratori che trivellavano il suolo in cerca di nuove sorgenti, e dei carpentieri intenti a costruire vasche

Cronista franco vissuto fra il 770 circa e l’840. A partire dal 796 visse alla corte di Carlo Magno come accademico. Fu autore di una Vita Karoli Magni, opera in cui fornisce una descrizione ammirata dell’imperatore: Eginardo ne ripercorre il modo di vivere e svela vari aneddoti, frutto della sua conoscenza personale. 2 Massa di grasso corporeo fuori dalla norma. 3 Un’ora dopo il mezzogiorno; il termine si riferisce al suono della campana. 1

magine inconsueta ma al contempo preziosa del primo imperatore del Sacro Romano Impero.

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Abiti consunti, logori.

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Termine utilizzato per indicare un orto, un frutteto o un giardino.

Regione oggi corrispondente al territorio fra Belgio e Paesi Bassi. 7 Parte orientale della Gallia merovingia. 8 Consigliere e amico di Carlo Magno, fu ambasciatore e uomo di lettere. 6

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analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

da bagno e una piscina di porfido e marmo, dove prese l’abitudine di fare ogni giorno lunghe nuotate. Era lì ad Aquisgrana ch’egli teneva il suo animale preferito: l’elefante Abdùl Abbàs, mandatogli in dono dal Califfo di Bagdad. Carlo lo aveva alloggiato a Corte come un ospite d’onore, lo lavava di persona, ci parlava, e fu proprio per eccesso d’affetto che involontariamente lo uccise facendogli prendere una solenne indigestione. Ne pianse, e ordinò un giorno di lutto nazionale. Purtroppo, i suoi soggiorni in quella diletta città non duravano mai a lungo. Carlo era un Re peripatetico9. L’immensità dei suoi domini e la necessità di restare in contatto con le province più periferiche e coi loro problemi locali l’obbligavano a una vita errabonda e disagiata. Viaggiava come un pellegrino povero, su un semplice carro tirato da buoi, portandosi al seguito il poco bagaglio che poteva (ma in cui c’era sempre una cassa di pecorino) e alloggiando sotto i tetti che trovava, di contadini, o di frati. Amava i suoi sudditi, ci si mescolava volentieri, amministrava di persona la giustizia fra loro, spesso risolvendo addirittura cause da Pretore, e dovunque raccomandando a tutti di educar bene i loro figli: le femmine, diceva, dovevano imparare il rammendo e il bucato; i maschi il nuoto, la caccia, l’equitazione, e soprattutto a leggere e a scrivere. Questa era la sua spina nel fianco, il suo lato patetico. Carlo, che la sera andava presto a letto, dovunque si trovasse, ma soffriva d’insonnia, trascorreva spesso la notte compitando l’abbecedario e cercando di capirne le lettere. Ma inutilmente. Questo genio della politica e della guerra, ch’era riuscito a conquistare mezzo mondo, non riuscì mai a conquistare l’alfabeto. A furia di farseli ripetere dal confessore, imparò a memoria i Salmi, e li cantava anzi abbastanza bene perché, se la voce era stridula, l’orecchio era buono. [...] Ma sebbene fino alla tarda vecchiaia seguitasse a trascorrere le sue notti a fare le aste, la soddisfazione di scrivere e di leggere da sé non l’ebbe mai. Eppure, fu Carlomagno.

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Indro Montanelli - Roberto Gervaso, L’Italia del Medioevo. Dalla fine dell’Impero romano a Colombo, Rizzoli, Milano 2015, ed. digitale

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“Che ama passeggiare”; il termine deriva dal Perìpato, il luogo in cui i filosofi seguaci di Aristotele animavano discussioni filosofiche camminando.

Comprensione e analisi 1. Identifica le sequenze narrative presenti nel testo. 2. Quali sono i tratti connessi alla personalità di Carlo Magno che la narrazione pone in evidenza? 3. La descrizione del sovrano sembra essere lontana dal racconto delle sue imprese militari. Eppure, ci sono elementi del testo che testimoniano come, anche nella vita quotidiana, Carlo facesse

ricorso alla sua capacità di dirigere, organizzare e di farsi al contempo rispettare e amare dai sudditi. Individua e descrivi questi elementi. 4. La scrittura è caratterizzata da tratti personali e ironici. Rintraccia e sottolinea le espressioni e gli aneddoti che conferiscono un tono particolare alla narrazione, tanto da caratterizzarla stilisticamente.

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Prima Prova tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

Produzione I grandi condottieri e – in generale – i protagonisti della storia ci affidano una immagine pubblica direttamente connessa alle loro scelte coraggiose e alle gesta compiute. Nel mondo medievale Carlo Magno diverrà il re cristiano della Chanson de Roland; prima di lui Alessandro Magno aveva volontariamente creato di sé l’immagine di un nuovo Achille, l’eroe invincibile dei poemi omerici. Ogni protagonista della storia è però anche persona e le sue doti di umanità e disponibilità all’ascolto possono essere altrettanto preziose e

determinanti quanto il coraggio delle sue azioni. Abbiamo superato il processo di mitizzazione dell’eroe o è qualcosa che appartiene alla nostra natura umana? Di fronte alle innumerevoli sfide globali che pone il presente come dovrebbe essere un vero protagonista della storia dei nostri tempi? Alla luce delle tue conoscenze storiche e personali, sviluppa un testo argomentativo sul tema proposto ed esponi le tue considerazioni, organizzate in una forma che risulti organica e coesa.

Guida allo svolgimento COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

1. Identifica le sequenze narrative presenti nel testo.

Il testo descrive vari tratti della personalità di Carlo Magno. Per identificare le sequenze isola e categorizza le caratteristiche salienti del personaggio che il testo pone in evidenza: – caratteristiche fisiche e attitudini alimentari; – attitudine verso la spiritualità e la gestione economica dei suoi beni; – passatempi e luoghi prediletti; – comportamento durante i viaggi e verso i propri sudditi.

2. Quali sono i tratti connessi Rifletti a partire dalla tua risposta al quesito numero 1. In base alle alla personalità di Carlo Magno caratteristiche personali che il testo pone in rilievo, con quali aggettivi che la narrazione pone in potresti descrivere Carlo Magno? Perché? evidenza? 3. La descrizione del sovrano sembra essere lontana dal racconto delle sue imprese militari. Eppure, ci sono elementi del testo che testimoniano come, anche nella vita quotidiana, Carlo facesse ricorso alla sua capacità di dirigere, amministrare e di farsi al contempo rispettare e amare dai sudditi. Individua e descrivi questi elementi.

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Analizza i diversi aspetti che la domanda affronta, facendo riferimento al testo. Capacità di dirigere: Carlo è un grande sovrano, amministra i suoi eserciti, ma non solo. Quali aspetti della sua capacità di direzione il testo pone in rilievo? Capacità di amministrare: la capacità di amministrare si evidenzia in campi diversi, dall’amministrazione economica a quella dell’esercizio della giustizia. Quali esempi il testo ci affida? Capacità di farsi rispettare e amare: in questo caso le informazioni da te selezionate devono portare a porre in evidenza la doppia natura del sovrano, da una parte una persona umana e vicina al suo popolo, dall’altra pur sempre un sovrano e, in quanto tale, degno di onore e rispetto dai suoi sottoposti. Quali esempi sono utili a porre in evidenza questa doppia attitudine di Carlo Magno?

Prima Prova tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

4. La scrittura è caratterizzata da tratti personali e ironici. Rintraccia e sottolinea gli aneddoti e le espressioni che conferiscono un tono particolare alla narrazione, tanto da caratterizzarla stilisticamente.

Già ad una prima lettura, ti sarai accorto che la descrizione di Carlo Magno che gli autori ci affidano è ben diversa dal racconto storico cui sei abituato dai manuali. Una delle ragioni che rendono evidente tale disparità è data dalla scelta degli elementi cui dare rilievo e dalla cifra stilistica del brano.

PRODUZIONE

INDICAZIONI OPERATIVE

I grandi condottieri e – in generale – i protagonisti della storia ci affidano una immagine pubblica direttamente connessa alle loro scelte coraggiose e alle gesta compiute. Nel mondo medievale Carlo Magno diverrà il re cristiano della Chanson de Roland; prima di lui Alessandro Magno aveva volontariamente creato di sé l’immagine di un nuovo Achille, l’eroe invincibile dei poemi omerici. Ogni protagonista della storia è però anche persona e le sue doti di umanità e disponibilità all’ascolto possono essere altrettanto preziose e determinanti quanto il coraggio delle sue azioni. Abbiamo superato il processo di mitizzazione dell’eroe o è qualcosa che appartiene alla nostra natura umana? Di fronte alle innumerevoli sfide globali che pone il presente come dovrebbe essere un vero protagonista della storia dei nostri tempi? Alla luce delle tue conoscenze storiche e personali, sviluppa un testo argomentativo sul tema proposto ed esponi le tue considerazioni organizzate in una forma che risulti organica e coesa.

Ti viene chiesto di comporre un testo che prevede lo sviluppo di un ragionamento personale, motivato da una riflessione a partire dalla conoscenza della storia e del presente.

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Nel testo sono presenti almeno tre aneddoti che permettono al lettore di percepire il grande sovrano come un uomo comune, e se di persona comune si tratta, se ne può anche sorridere un po’. Quali sono questi aneddoti e quali sono le espressioni a commento che riescono a farci percepire tutta l’umanità – e anche la semplicità – di Carlo Magno?

La storia del biennio che hai studiato è ricca di protagonisti che si sono distinti per le loro gesta e che hanno tramandato una determinata immagine di sé stessi ai posteri. Il presente offre nuove sfide globali, sconosciute ai grandi condottieri del passato, ma altrettanto determinanti per garantire a tutti noi un futuro prospero. Come dovrebbe essere un leader del XXI secolo? Quali doti dovrebbe avere per affrontare gli innumerevoli problemi del nostro tempo? Avremmo bisogno di un nuovo Giulio Cesare o di Carlo Magno oppure le qualità di un protagonista politico del nostro secolo dovrebbero includere anche altre caratteristiche? Le domande ti invitano a riflettere autonomamente per immaginare come potrebbe essere migliore il mondo di domani. Quali doti di leadership sono indispensabili per migliorare il presente? Perché? Dopo esserti appuntato le tue considerazioni, sviluppa il tuo commento dando vita ad un testo organico e coeso.

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PRIMA PROVA tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo

L’avventura di un povero crociato Il testo proposto è tratto da un romanzo di Franco Cardini, storico e saggista di fama internazionale, L’avventura di un povero crociato. Vi si narra la storia di un viaggio che vedrà impegnati per tre anni, a partire dall’autun-

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no del 1096, il conte Guido, antenato della dinastia dei Guidi di Casentino, Rimondino di Donnuccio e un gruppo eterogeneo di chierici, scudieri, giullari, pellegrini diretti a Gerusalemme in Terrasanta.

Un sogno, questo di Gerusalemme, che aveva conquistato diverse categorie di persone. A Clermont1 erano molti i monaci sbandati, fuggiaschi dai loro monasteri, insofferenti di disciplina. Molti di loro non erano affatto indisciplinati perché poco amanti d’una vita di rigore e di rinunzia o poco persuasi della necessità di moralizzare la Chiesa: al contrario, le istituzioni e le regole ecclesiastiche piacevano loro poco proprio in quanto essi erano semmai eccessivamente desiderosi di rigore, di povertà, di sofferenze. La promessa del Regno dei Cieli che attende i giusti non era più loro sufficiente: lo volevano qui e ora, il Regno dei Cieli. Lo esigevano in questa vita e su questa terra: anche se tra loro pochi erano i chierici veramente istruiti e ordinati secondo i canoni, pochi i monaci che fossero mai stati sul serio accolti da un’abbazia, e per quanto quindi pochi tra loro avessero una sufficiente istruzione religiosa, tutti si sforzavano di leggere le Scritture e di predicare interpretandole. [...] Era un tempo d’incertezza e d’aspettativa, quello. Da troppi anni i poveri e gli inermi assistevano alle lotte tra i potenti e ne subivano innocenti le conseguenze: erano essi a soffrir la fame per i campi di frumento calpestati dai cavalli delle schiere contrapposte in battaglia, essi a vedersi case e fienili bruciati, vigne tagliate, animali uccisi e mangiati, figlioletti sgozzati, mogli e figlie violate. Avevano un bel maledire, i preti, gli scudi e i cavalli dei potenti; avevano un bello starnazzare che chi versa il sangue anche di un solo cristiano crocifigge il Cristo un’altra volta; avevano un bello scomunicare quei guerrieri feroci che poi, in punto di morte, donando un paio di buoi o un bel pezzo di terreno coltivato o di bosco a un monastero ottenevano il perdono divino e filavano dritti in Paradiso. La fame, la sete, il contagio, la paura, la dannazione in terra erano per loro, i Poveri di Dio. Era sempre più comune, però, che qualcuno li dichiarasse eletti dal Signore proprio per quelle sofferenze; era sempre più frequente che li salutassero come sale della terra, che li dicessero beati come Maria aveva profetato di sé nel Magnificat. Molti di loro avevano abbandonato i poveri abituri2 e, magari con la moglie e i figlioletti attaccati ai loro panni, si erano messi in cammino di santuario in santuario, di mercato in mercato. Erano pellegrini, certo; ma erano anche contadini che cercavano un pezzo di terra nuova da disboscare o da bonificare, un fazzoletto di zolle appartenente a un signore più mite e dove la vita potesse scorrere un po’ meno aspra, se non proprio dolce. Altri erano finiti in qualcuna di quelle città che diventavano ormai sempre più grandi e popolose mentre al

Nel 1095 papa Urbano II a Clermont, in occasione del concilio, aveva pronunciato un discorso con il quale invitava a soccorrere i cristiani d’Oriente

liberando la Palestina occupata dagli infedeli. Tale appello darà avvio alla I Crociata. 2 Dimore umili.

Prima Prova tipologia B

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analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

loro interno andavano scomparendo gli spazi verdi, tenuti a prato e perfino a pascolo, che ancora qualche generazione prima servivano essenzialmente a ospitare la gente del contado quando era costretta a entrar nelle mura per rifugiarsi e sfuggire così alle incursioni degli ungari, dei saraceni, dei normanni. Nelle città, non si poteva fare né il contadino, né il pastore, né il boscaiolo: ma c’erano molti nuovi mestieri da imparare e da esercitare, le fiere le riempivano periodicamente di gente e di merci, vi si poteva accumulare quel denaro che un tempo era quasi scomparso dalla Cristianità mentre ora ce n’era sempre più richiesta, sempre più bisogno. In città, però, la solidarietà tra chi vive nei campi, nei pascoli e nei boschi era solo un ricordo; lì ognuno pensava per sé, e i ricchi sembravano più ricchi, i poveri più poveri perché vivevano a contatto di gomito gli uni con gli altri; e allora l’ingiustizia era più cocente, la corruzione più brutale, la prepotenza più arrogante, l’ipocrisia più evidente. No, Dio non poteva voler questo: non poteva consentire che i Suoi ministri si comportassero come agenti di Satana, che la superbia e l’orgoglio trionfassero dappertutto. Non siamo forse tutti figli di Dio? Chi è che ha posto per primo pali e siepi attorno alla terra proclamando «questo è mio»? Quando Adamo zappava la terra ed Eva filava, ed entrambi bevevano il sale delle loro lacrime per aver disubbidito al Signore, dov’erano allora i ricchi, dove i poveri? Ma ora i tempi erano maturi; ormai, tutto sarebbe cambiato. Il vicario di Pietro3, il dolce Cristo sulla terra, aveva indicato l’Oriente. Via, via da quest’Egitto di sofferenza e di peccato, dove si mangia pane di dolore e si beve acqua di sofferenza. A Clermont papa Urbano aveva pregato con le braccia alzate e le mani aperte, come Mosè: e là era iniziato il Nuovo Esodo del Nuovo Popolo Eletto. Là, ad Oriente, c’era Gerusalemme. Quella dei pellegrini, certo: quella ch’è in Siria e piange sotto il giogo degli infedeli. Ma soprattutto quella Celeste, quella che scende dal cielo ornata come una sposa, sfolgorante della luce emanata dalle pietre preziose che ne sono il fondamento. Ormai, la pienezza dei tempi era giunta: ecco che i cieli si aprivano, il sole esplodeva e le stelle roteavano; ecco i segni, le piogge di fuoco, i terremoti, i fiumi disseccati, l’invasione delle cavallette. Era il tempo di mettersi in cammino verso la valle di Giosafat, là dove la Gerusalemme Celeste sarebbe planata su quella terrestre: e la pietra si sarebbe mutata in diaspro, l’acqua in balsamo, le lacrime in perle, il sangue in porpora. Gerusalemme! Non sapevano neanche dove fosse. Alcuni di loro avevano seguito gli eremiti e i predicatori ambulanti, quelli che avevano assistito al sermone del papa a Clermont o dicevano di averlo fatto. Tutti si erano segnati della croce: ne portavano indosso, appese al collo, di metallo o di legno; se ne erano cucite o ricamate o appuntate sugli abiti; qualcuno si era inciso delle croci sulle braccia e sulle mani con un coltello; altri se l’erano impresse col fuoco sulla fronte; qualcuno perfino sulla lingua, per punirsi di qualche peccato: e la lingua era gonfiata, e certi ne erano morti. Altri seguivano invece i guerrieri, quelli che si erano mossi verso Costantinopoli e verso l’Anatolia e che avevano accettato di scortarli, per carità o dietro l’esborso di un po’ di denaro. Altri ancora si erano invece messi in cammino seguendo un segno celeste che si era mostrato loro, una stella cadente, una luce cruciforme che si moveva sanguinosa o argentea nel cielo notturno. Altri infine,

Il riferimento è al pontefice.

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Prima Prova tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo

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riscoprendo quasi spontaneamente una superstizione dei loro antenati, avevano messo sulla strada un mulo, una capra, un’oca: avevano costretto l’animale riluttante a girar più volte su se stesso; quindi lo avevano seguito, qualunque fosse stata la direzione presa dopo quel rito. E a ogni casale che apparisse all’orizzonte, a ogni rosseggiar di mura cittadine contro il cielo dell’alba, a ogni apparir di fortezza turrita, si domandavano a vicenda: «È quella Gerusalemme?». Franco Cardini, L’avventura di un povero crociato, Mondadori, Milano 1997, ed. digitale

Comprensione e analisi 1. Riassumi il contenuto del brano proposto in non più di 15 righe. 2. Per quali ragioni i monaci decidono di intraprendere il viaggio verso la Terrasanta? 3. Quale ruolo assume il pontefice nella visione dei poveri Crociati? 4. Il viaggio verso Gerusalemme appare un viaggio verso l’ignoto, intrapreso con scarsa consa-

pevolezza da parte dei pellegrini, una scelta fatta per ragioni pratiche, nella quale necessità e superstizione si uniscono. Quali espressioni nel testo ci aiutano a comprendere questa dimensione propria del loro viaggio alla volta di Gerusalemme? 5. Quali procedimenti stilistici concorrono a conferire al racconto una dimensione corale?

Produzione Le motivazioni che portano ad uno scontro armato sono spesso varie e complesse e mutano a seconda del ruolo e della posizione di coloro che sono coinvolti. Confronta le informazioni sulle cause della I Crociata presenti nel tuo testo di storia con le ragioni addotte, nel testo proposto, dai monaci e dalla povera gente. Rifletti, con l’ausilio del tuo insegnante, su uno dei

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tanti conflitti contemporanei e su come i punti di vista sulla validità o meno dell’azione militare varino a seconda del punto di vista delle persone coinvolte. Prova quindi a discutere di come motivazioni differenti, a seconda delle aspettative e della condizione politica ed economica di partenza, possano animare uno stesso evento politico militare.

PRIMA PROVA tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

Le radici medievali dell’Europa Nel suo Il cielo sceso in terra Jacques Le Goff, fra i massimi storici del Medioevo, accetta la tesi di quegli storici che considerano non tanto Carlo Magno come “il padre della patria europea”, quanto piuttosto il mondo carolingio come una “falsa partenza”, un’Europa abortita. È stato semmai a partire dal X-XI secolo che il continente ha preso forma. Ed eccola,

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Mi sembra che nei rapporti tra l’Europa e la Storia ci siano degli aspetti fondamentali. Il primo è quello del territorio. La storia si compie sempre in uno spazio e una civiltà si elabora e si diffonde sempre in un territorio. Il XV secolo compie, per quanto riguarda gli elementi essenziali, la creazione medievale di uno spazio europeo cominciata con le “grandi invasioni” dell’alto Medioevo. Nel XV secolo non ci sono più pagani e non ci sarebbero più musulmani se non fosse cominciata la conquista turca. Essa ha un doppio effetto contraddittorio. Da una parte costituisce una minaccia per l’Europa, ma dall’altra, anche se la resistenza europea non è forte come avrebbe desiderato un Pio II1, andava costruendosi un’identità collettiva basata in generale sia sull’opposizione all’altro che sulle convergenze interne: la minaccia turca sarà uno degli elementi che cementerà l’Europa. Ormai le università diffondono lo stesso tipo di conoscenze dal Mediterraneo al Baltico. Lo stesso umanesimo, quando rinuncerà al latino per le lingue volgari, permea la cultura europea dalla Svezia alla Sicilia. Anversa è il centro di un’economia-mondo che, come ha mostrato Fernand Braudel2, sarà ancora a lungo essenzialmente europea prima di prendere il mondo intero nella sua rete. [...] Ci si chiede dunque se alla fine del XV secolo appaiano più significative, agli occhi dello storico, le minacce che pesano sulle acquisizioni europee del Medioevo o le promesse per un’Europa del lungo Medioevo che propongo3. Bisogna ovviamente tenere in conto le incertezze della storia, l’importanza del caso; credo comunque che si possano tracciare le possibilità aperte per l’Europa alla fine del XV secolo. Non mi sembra che le minacce provengano dall’emergere delle nazioni, e nemmeno dai contrasti religiosi che rischiano di arrivare allo scisma. Spero che questo libro abbia mostrato che l’Europa ha cominciato a delinearsi nel Medioevo a partire allo stesso tempo dalle idee e dalle realtà di unità e di “nazione”, anche se lo sviluppo del concetto di sovranità a partire dal XIII secolo – e le sue applicazioni – introduce un problema per il suo avvenire. D’altra parte la fine del monopolio della Chiesa cattolica non costituisce la fine della cultura cristiana comune, né di una civiltà e di valori

Pontefice, al secolo Enea Silvio Piccolomini (14051464). Dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, per mano dei Turchi Ottomani guidati dal sultano Maometto II, Pio II promosse una Crociata contro i Turchi per la riconquista della città, con l’intento di promuovere una maggiore unità politica e religiosa degli Stati europei. Il suo appello restò, tuttavia, inascoltato. 2 Storico francese (1902-1985), direttore dal 1956 al 1972 della rivista «Annales». 3 Il testo di Le Goff intende mostrare «le antici1

l’Europa della quale Le Goff è innamorato, la “bella Europa” delle città, delle cattedrali, delle università. Una risposta sensibile, articolata e autorevole a un tema che riemerge ai tempi nostri: perché il Medioevo, magari malinteso, reinventato e tradito, va tanto di moda? Perché, risponde Le Goff, il Medioevo siamo noi.

pazioni medievali dell’Europa e le forze che le hanno combattute con maggiore o minore vigore per poi sconfiggere tali primi tentativi, in un processo discontinuo dalle alterne vicende», al contempo intende provare «che i secoli tra il IV e il XV sono stati determinanti e che, di tutti i lasciti vitali per l’Europa di oggi e di domani, quello medievale è il più importante. Il Medioevo ha evidenziato e spesso addirittura fondato – sostiene Le Goff – le caratteristiche reali o problematiche dell’Europa».

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Prima Prova tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

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comuni. La cultura laica sarà al tempo stesso l’erede e la continuatrice dei valori cristiani pur nella conflittualità e negli aspri scontri che si registreranno dopo il XV secolo. La minaccia proviene piuttosto dagli scontri armati tra le nazioni e dal carattere bellicoso degli europei. Costituisce certamente una minaccia anche il modo in cui si svilupparono l’espansione e le colonizzazioni abbozzate nel XV secolo e il rapporto tra l’Europa e i suoi possedimenti nel mondo. Nei confronti del progresso il Medioevo ha manifestato il massimo della tensione, al punto da offrire un’immagine paradossale. L’ideologia dominante, e forse le mentalità, hanno condannato il nuovo, il progressista, lo straordinario, considerandolo un errore e un peccato, ma nonostante ciò, sia nell’universo materiale che nella sfera intellettuale e spirituale, il Medioevo è stato un periodo creativo, di innovazioni, di straordinari passi in avanti. Le capacità di progredire che si sono affermate nel corso del Medioevo e si sono rafforzate nel XV secolo sono state – è bene, credo, sottolinearlo – un’acquisizione per l’Europa tutta intera, per la presa di coscienza di sé, per la sua realizzazione. Jacques Le Goff, Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa, trad. di F. Maiello, Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 249-250

Comprensione e analisi 1. Sintetizza il contenuto del brano ponendo in rilievo le argomentazioni dell’autore in merito al rapporto fra il Medioevo e la nascita dell’Europa 2. Quale «effetto contraddittorio» (r. 6) viene attribuito dall’autore alla conquista turca? 3. Quali sono – secondo Jacques Le Goff – le

minacce che pesano sulle acquisizioni europee del Medioevo? 4. La struttura argomentativa del testo è sostenuta da una serie di connettivi che aiutano il lettore a seguire il dipanarsi del ragionamento. Sottolinea tutte le espressioni che hanno funzione di segnalare gli snodi argomentativi.

Produzione L’Europa tratteggiata da Le Goff è un’Europa animata da popoli e culture diverse che presenta elementi identitari e di unità, connessi a una storia e una geografia comune. Quale valore assume oggi – a tuo avviso – la parola “Europa”? Esiste una continuità storica fra le tensioni positive e le

minacce cui l’Europa dovette far fronte sul finire del XV secolo e quelle con le quali si confronta al giorno d’oggi? Alla luce delle tue conoscenze ed esperienze, produci un breve testo argomentativo nel quale la tua tesi sia accompagnata da elementi a supporto.

Guida allo svolgimento

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COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

1. Sintetizza il contenuto del brano ponendo in rilievo le argomentazioni dell’autore in merito al rapporto fra il Medioevo e la nascita dell’Europa.

Nell’attuare una sintesi è importante considerare tutti i passaggi rilevanti presenti in un brano. Avvio  Prima di iniziare a scrivere, è bene rileggere il brano e sottolineare i concetti rilevanti. Poiché il brano è suddiviso in paragrafi, cerca di identificare le idee contenute nei diversi paragrafi.Trattandosi di un testo argomentativo, è probabile che i diversi concetti siano correlati ad una tesi di fondo dell’autore che va identificata e esplicitata nella sintesi.

Prima Prova tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE Esplicitazione  La sintesi va scritta in terza persona, è bene evitare di riutilizzare le espressioni dell’autore. Il testo prodotto dovrebbe essere una rielaborazione del pensiero, non una collazione di frasi usate dall’autore.

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Il brano proposto si suddivide in due paragrafi. Intorno a quale argomentazione ruotano i contenuti presenti nel primo paragrafo? Le Goff tratta dei rapporti fra l’Europa e la storia e identifica alcuni aspetti importanti che vanno considerati nella loro complessità: – il territorio; – l’invasione turca; – il ruolo delle università; – l’umanesimo; – l’economia. Ciascuno di questi elementi è posto in relazione all’argomentazione dell’autore: nello scrivere la tua sintesi devi pertanto esplicitare l’argomentazione e porre in rilievo come i diversi aspetti presi in considerazione si correlino ad essa. Il secondo paragrafo inizia con l’esplicitazione di un problema a cui lo storico si propone di fornire una risposta. Di quale problema si tratta? Anche in questo caso seguono degli argomenti di analisi: – l’Europa alla fine del XV secolo e l’idea di nazione; – il nuovo ruolo della Chiesa cattolica; – le minacce per l’Europa; – il rapporto fra Medioevo e progresso. Le considerazioni espresse a partire da questi argomenti di analisi rappresentano la risposta dell’autore al problema e sostanziano la sua tesi. Nell’attuare la sintesi devi quindi esplicitare il problema e riassumere la risposta avanzata da Le Goff a partire dagli argomenti analizzati. Una buona sintesi deve comprendere tutti gli elementi essenziali allo sviluppo del ragionamento dell’autore, ma risultare al contempo contenuta nell’ampiezza. Non è richiesto alcun commento a quanto si afferma, ma una semplice rielaborazione, a parole proprie, del messaggio che il testo ci affida. 2. Quale «effetto contraddittorio» viene attribuito dall’autore alla conquista turca?

Un «effetto contraddittorio» presuppone due argomentazioni in contrasto. Se rileggi il primo paragrafo noterai che ci sono alcuni elementi che ti aiutano a identificare quali siano i due termini della questione: da una parte... dall’altra...

3. Quali sono – secondo Jacques Le Goff – le minacce che pesano sulle acquisizioni europee del Medioevo?

Per rispondere a questa domanda puoi rileggere il secondo paragrafo. Nella sintesi hai dovuto riassumere il problema e le argomentazioni espresse da Le Goff ponendo in rilievo la soluzione da lui offerta, ora ti si chiede di isolare una parte della sua argomentazione. Presta la massima attenzione: Le Goff individua quelle che a suo avviso non sono delle minacce, per poi passare a trattare gli elementi che a suo avviso possono rappresentare un pericolo. Sono tre: quali?

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Prima Prova tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

4. La struttura argomentativa del testo è sostenuta da una serie di connettivi che aiutano il lettore a seguire il dipanarsi del ragionamento. Sottolinea tutte le espressioni che hanno la funzione di segnalare gli snodi argomentativi.

I connettivi sono elementi del discorso che segnalano dei legami logici presenti fra diverse parti di un testo. Possono esprimere relazioni causali, spaziali, temporali, esplicative, concessive, avversative, di somiglianza, conclusive. Fra di essi si annoverano: – congiunzioni o locuzioni subordinanti (perché, sebbene, se, affinché...); – congiunzioni coordinanti (oppure, ma, né...); – preposizioni o locuzioni preposizionali (per, di, malgrado...); – avverbi o locuzioni avverbiali (infatti, tuttavia, per esempio, di conseguenza, dunque...); – verbi (riassumendo, concludendo...). Rileggi il testo proposto e individua i connettivi utilizzati.

PRODUZIONE

INDICAZIONI OPERATIVE

L’Europa tratteggiata da Le Goff è un’Europa animata da popoli e culture diverse che presenta elementi identitari e di unità connessi a una storia e una geografia comune. Quale valore assume oggi – a tuo avviso – la parola “Europa”? Esiste una continuità storica fra le tensioni positive e le minacce cui l’Europa dovette far fronte sul finire del XV secolo e quelle con le quali si confronta al giorno d’oggi? Alla luce delle tue conoscenze ed esperienze produci un breve testo argomentativo nel quale la tua tesi sia accompagnata da elementi a supporto.

La sezione Produzione richiede di sviluppare un testo argomentativo. Per aiutarti a sviluppare le tue argomentazioni ti vengono poste delle domande cui rispondere. Il testo deve risultare organico e coeso e prevede, in questo caso, di sviluppare un confronto: la relazione fra l’Europa di oggi e quella medievale. Esiste una continuità con il nostro passato comune? Quali tratti identitari persistono e quali si sono persi nel corso dei secoli? È importante seguire una metodologia di lavoro appropriata: 1. analizza l’argomento proposto, individua il problema dato e fornisci una prima risposta alle domande proposte; 2. definisci la tua tesi in relazione al problema dato e individua gli elementi a supporto. Puoi far riferimento alle tue esperienze e conoscenze di studio; 3. disponi gli argomenti in ordine logico avvalendoti di una scaletta. Poiché la traccia richiede un confronto accertati che entrambi i termini del confronto siano presenti e adeguatamente sviluppati; 4. premetti al tuo elaborato un breve testo introduttivo, cui faccia seguito lo sviluppo delle tue argomentazioni, sostenute da elementi a supporto, e una conclusione; 5. rileggi attentamente il tuo testo e verifica di aver incluso dei connettivi appropriati utili a guidare il lettore alla comprensione dei diversi passaggi in cui si articola il tuo discorso. Se la tua argomentazione si sviluppa per problemi e soluzioni, puoi organizzare il testo in paragrafi corrispondenti ai diversi nuclei tematici analizzati e sviluppati di volta in volta.

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PRIMA PROVA tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

Blockchain: nel Medioevo le radici della tecnologia del futuro? Il nostro mondo digitale è davvero così lontano dal nostro passato? Victoria Lemieux, ricercatrice della University of British Columbia, ci spiega come il divario tecnologico, che sembra distanziare la nostra ge-

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Sarà anche l’ultimo dei trend tecnologici, ma le radici della Blockchain1 risalirebbero addirittura al Medioevo. A sostenerlo è Victoria Lemieux, ricercatrice canadese della University of British Columbia (UBC), da diverso tempo impegnata nello studio dei possibili utilizzi di questo tipo di soluzioni in ambito pubblico e privato. «Dallo storico M.T. Clanchy abbiamo conferme a riguardo – scrive in apertura di un approfondimento per The Conversation – nel Medioevo, durante il passaggio dalle forme di memorizzazione orale a quelle scritte, gli oggetti simbolici rivestirono un ruolo cruciale nella fornitura di evidenze concrete riguardanti transazioni, diritti e titoli di possesso». Ed è proprio nella permanenza degli oggetti simbolici anche in alcune tipologie di soluzioni Blockchain che si verificherebbe questo interessante cortocircuito tra presente futuristico e passato remoto. La Lemieux distingue a grandi linee tra tre famiglie di Blockchain: mirror, digital record e tokenized system2. [...] Né la prima né la seconda tipologia di Blockchain possono però vantare degli “antenati medievali”. Questo varrebbe solo per la terza tipologia, i cosiddetti tokenized system, la soluzione concettualmente più lontana dalle forme tradizionali di record keeping3, e per lo stesso motivo anche la più innovativa. Con questo tipo di sistemi, non solo i dati, ma anche altri tipi di asset4 che simbolizzano specifici beni di valore – quali ad esempio i Bitcoin, i vini e i cibi pregiati, i diamanti e le opere d’arte – vengono inseriti nella Blockchain. Ma qualcosa di simile sarebbe già avvenuto secoli fa. In un Manuale dell’Amministrazione Archivistica risalente al 1937, Hilary Jenkinson citava ad esempio alcuni archivi realizzati in epoca medievale collezionando strane e variegate liste di oggetti. Tra gli altri, lettere, calzature, code di capelli e medicinali, utilizzati come evidenze simboliche di transazioni commerciali e cambi di proprietà avvenuti nel passato. «Oggi pensiamo a questi beni come oggetti da museo – scrive la Lemieux – all’epoca, in mancanza d’altro, si trattava di veri e propri record informativi». Un esempio forse più comune e per questo comprensibile sono le banconote e le monete: in passato altro non erano se non degli equivalenti

La Blockchain è una sottofamiglia di tecnologie in cui il registro è strutturato come una catena di blocchi contenenti le transazioni. Il registro è pubblico, condiviso e criptato, consente lo scambio di valute e di dati, la loro tracciabilità e soprattutto di conoscere l’identità dei soggetti che effettuano le operazioni, il tutto avviene senza la presenza di intermediari. È la tecnologia utilizzata per la gestione delle nuove criptovalute come il bitcoin. 2 Si tratta di una categorizzazione relativa alle diverse tipologie di Blockchain. Il mirror – sostiene 1

nerazione anni luce dal periodo medievale, non sia però accompagnato da una pari distanza nel modo di interpretare e classificare il reale fra noi e i nostri antenati.

l’autrice – è una tipologia utilizzata per la gestione di dati sanitari, titoli di proprietà o archivi pubblici e si basa su un’impronta digitale nella forma di numero a 256 bit inserita per proteggere l’integrità dei dati. Il sistema digital record prevede l’utilizzo di smart contract, ovvero programmi che forniscono informazioni alla Blockchain in merito alle operazioni da eseguire. Il terzo tipo, tokenized system, viene spiegato nel testo. 3 Registro di conservazione dei dati. 4 Ogni entità materiale o immateriale suscettibile di valutazione economica.

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Prima Prova tipologia B

Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

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simbolici delle riserve auree custodite nei vari tesori nazionali. Quegli equivalenti simbolici del passato sono assimilabili a livello concettuale ai token, termine col quale oggi si fa riferimento alle riproduzioni dematerializzate dei beni di valore custoditi nelle Blockchain. Da ciò l’esistenza di un filo diretto che lega tale tecnologia futuristica ad un passato che siamo soliti rappresentarci così remoto ed estraneo. Nell’approfondimento della Lemieux non mancano altre citazioni a sostegno di questa tesi. All’epoca delle conquiste normanne, ad esempio, spesso la trasmissione di beni e terre avveniva senza la scrittura di documenti. Bastava la consegna di un oggetto simbolico, quale un elmo, un corno o un coltello, come uno ancora oggi custodito negli archivi della Cattedrale di Durham, per dare valore e certezza a determinati scambi. «Al pari di quei coltelli, corni e anelli – conclude la Lemieux – oggi le Blockchain della tipologia tokenized system utilizzano criptovalute quali i Bitcoin come rappresentazioni simboliche di beni e valori. La domanda è perciò se la tecnologia Blockchain riporterà le repository archivistiche del presente alle loro radici medievali. Torneremo un giorno al futuro?». Victoria Lemieux, Blockchain: nel Medioevo le radici della tecnologia del futuro?, http://parer.ibc.regione.emilia-romagna.it

Comprensione e analisi 1. Quale è la tesi di Victoria Lemieux esposta nell’articolo? 2. Quali sono gli elementi utilizzati dalla studiosa a sostegno della sua tesi? 3. Spiega le peculiarità di una Blockchain basata

su tokenized system come definita nel brano proposto. Che cosa è un token? 4. In cosa consiste il «filo diretto che lega [la] tecnologia futuristica [della Blockchain] ad un passato che siamo soliti rappresentarci così remoto ed estraneo» (rr. 29-30)?

Produzione «Torneremo un giorno al futuro?» (r. 39). Cosa vuole intendere Victoria Lemieux con questa domanda? Come immagini che possa cambiare la vita dell’uomo nei prossimi anni, anche grazie

all’uso della tecnologia? Rifletti sul tema proposto e scrivi un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

Guida allo svolgimento

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COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

1. Quale è la tesi di Victoria Lemieux esposta nell’articolo?

Rileggi attentamente il brano proposto. Si tratta di un articolo pubblicato sul sito del Polo Archivistico dell’Emilia Romagna, articolo che a sua volta riporta i contenuti di una ricerca scientifica pubblicata da Victoria Lemieux su una rivista specializzata, «The Conversation», nella sezione Scienza e tecnologia. Ciò comporta che l’autore dell’articolo riferisca in premessa i risultati dello studio citato che viene quindi esposto tenendo conto delle argomentazioni dell’autrice. Per esporre con parole tue la tesi, devi quindi far riferimento alle argomentazioni utilizzate dalla ricercatrice a cui l’autore del brano proposto fa riferimento.

Prima Prova tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

2. Quali sono gli elementi utilizzati dalla studiosa a sostegno della sua tesi?

Una volta individuata la tesi di Victoria Lemieux sei anche in grado di identificare gli elementi a supporto, ovvero gli esempi, le prove da lei esposte a sostegno della sua idea. Ce ne sono almeno tre, quali sono?

3. Spiega le peculiarità di una Blockchain basata su tokenized system come definita nel brano proposto. Che cosa è un token?

Spiegare questo passaggio del brano prevede l’abilità di comprendere e riassumere informazioni che sono direttamente correlate ad un linguaggio di tipo tecnico. La capacità di comprensione e analisi del testo deve infatti applicarsi a diverse tipologie di testi: laddove la materia trattata sia di natura prettamente specialistica, non è necessario saper riassumere il concetto con l’utilizzo di termini tecnici, ma è importante dimostrare la comprensione dell’idea di fondo che viene espressa.

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Parti quindi dalla domanda finale, cosa è un token? Le informazioni per fornire una risposta sono presenti nel testo. Dopo aver chiarito (e compreso) il significato di questo termine, dovresti essere in grado di spiegare come avviene il processo di Blockchain basato sull’utilizzo di token. 4. In cosa consiste il «filo diretto che lega [la] tecnologia futuristica [della Blockchain] ad un passato che siamo soliti rappresentarci così remoto ed estraneo» (rr. 29-30)?

Per rispondere a questa domanda rileggi la seconda parte dell’articolo. È presente, in varie occorrenze, una parola chiave (usata in forma sia di verbo che di aggettivo), un termine che di per sé rappresenta il collegamento fra il passato medievale e la tecnologia all’avanguardia. Di quale termine si tratta?

PRODUZIONE

INDICAZIONI OPERATIVE

«Torneremo un giorno al futuro?» (r. 39). Cosa vuole intendere Victoria Lemieux con questa domanda? Come immagini che possa cambiare la vita dell’uomo nei prossimi anni, anche grazie all’uso della tecnologia? Rifletti sul tema proposto e scrivi un testo argomentativo in cui tesi e argomenti siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

La risposta alla prima domanda è rintracciabile nella tesi esposta dall’autrice. Ti viene quindi chiesto di riflettere sulle considerazioni avanzate nel brano e sul ruolo che lo sviluppo tecnologico potrà assumere nei prossimi anni. La riflessione può partire da considerazioni scaturite dalla tua esperienza, da conoscenze di studio o da letture personali. Poiché ti viene chiesto di scrivere un testo argomentativo è essenziale che le tue considerazioni siano connesse ad una tesi di fondo individuabile da chi legge. Verifica la coesione del testo prodotto, ponendo attenzione all’uso adeguato di connettivi.

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PRIMA PROVA tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo

Facciamoci del male, ma per gioco: festa e identità Duccio Balestracci, già docente di Storia medievale e Civiltà medievali all’Università di Siena, ripercorre le origini e la storia del palio di Siena, festa nata nel Seicento, ma che nell’Ottocento ha assunto la sua attuale veste “medievale”. Paradossalmente, la com-

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La società tradizionale non conosce il concetto di tempo libero, ma quello di festa, cioè del momento in cui si elabora un tempo identitario e comunitario; carico di simbologia; che riafferma posizioni, ruoli e gerarchie; che crea condivisione e consenso e scopre le contiguità con il mondo – incerto, misterioso e inquietante – del sacro. La festa è un linguaggio del potere, non c’è dubbio, però è un linguaggio di intermediazione che serve a veicolare contenuti che non si avvertono come calati dall’alto e imposti perché la forma e l’estetica che li intermediano li trasformano in contenuti condivisi. Non ripeteremo cose fin troppe volte dette: che la festa sia un sistema per coinvolgere la collettività depotenziandone la percezione delle criticità e, quindi, prevenendone le possibili manifestazioni di contestazione, è cosa talmente ovvia e scontata da risultare imbarazzante a ripeterla. La festa ha anche la funzione di creare identificazione, magari attraverso meccanismi accettati inconsciamente e immaginati come autoprodotti e non percepiti come subìti. Quella sottile espropriazione della coscienza critica, banalizzata nel luogo comune «festa, farina e forca»1 (altrettanto banale e parziale quanto l’altra più aulica locuzione «panem et circenses»2), costituisce senza alcuna possibilità di dubbio uno strumento di esercizio del potere. Ha, pertanto, indubbiamente ragione chi, guardando all’esito di questo stato di cose, legge la festa come strumento di governo e di controllo della popolazione, e tuttavia, detto (e, certo, in ultima analisi, sottoscritto) tutto ciò, resta il desiderio di decodificare questo complesso meccanismo, sfrondandolo da retorici topoi3 e da scorciatoie, cercando di vedere a quali reali meccanismi di costruzione del consenso ci si debba rifare e quali siano, non tanto le finalità, ma le motivazioni veicolatrici di questo dispositivo mentale che a tali finalità approdano. Al potere, in definitiva, non si contesta (almeno in età preilluminista e comunque solo ad opera di minoranze intellettuali) di essere assoluto, se ciò contribuisce al benessere della gente, e in quest’ottica, dunque, la festa ricompone un legame, perverso ma sostanziale, fra dominatore e dominato. Nel Cinquecento il concetto è ben riassunto da Giovanni Botero4, il quale nel terzo libro del suo trattato Della Ragion di Stato scrive: «Perché

Questo motto esplicita la regola che Ferdinando IV di Napoli (1751-1825) avrebbe seguito nel governare il popolo napoletano. 2 ‘Pane e giochi del circo’, espressione presente nelle Satire (X, 81) del poeta latino Giovenale, per indicare i piaceri della plebe romana di età imperiale. 3 Luoghi comuni. 1

petizione è divenuta così ciò che nel Medioevo non era: una festa “fatta” dal popolo, mentre fino al XVII secolo era una festa “offerta” al popolo. Il palio fornisce all’autore occasione per riflettere sul valore della festa nel mondo medievale e rinascimentale.

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Uomo di lettere, teologo e precettore, Giovanni Botero (1544-1617) si distingue per le sue doti di retore e nel 1589 compone un’opera in dieci volumi Della ragion di stato, nella quale cerca di conciliare i precetti della morale cristiana con l’azione politica. L’opera, prodotta nel periodo controriformista, documenta anche il passaggio da uno Stato patrimoniale di impronta feudale allo

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analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

il popolo è di natura sua instabile, e desideroso di novità, ne avviene che s’egli non è trattenuto con varij mezi dal suo Prencipe, la cerca da se stesso anco con la mutatione di Stato, e di governo. Perciò tutti i Prencipi savij hanno introdotto alcuni trattenimenti popolari nei quali, quanto più si ecciterà la virtù dell’animo e del corpo, tanto saranno più a proposito»5. Con più raffinata interpretazione, coglie meglio il punto un giurista e magistrato modenese, Fulvio Pacciani, segretario e consigliere degli Estensi e capitano di giustizia, per conto di Ferdinando II dei Medici, a Siena dove stampa, nel 1607, il suo trattato Dell’arte di governare bene i popoli. In esso, la funzione politica della festa è espressa con concetti che riprendono, da un lato, il medievale senso di signore dispensatore del bene comune e, dall’altro, alludono alla moderna declinazione della festa stessa e del gioco come linguaggi della costruzione dello Stato. «Bisogna dunque – scrive – che il Principe intenda e conosca intrinsecamente le condizioni di coloro alli quali suole fare beneficio, ò dare ricompensa, né le potrà compitamente conoscere, se non si lascia vedere fuori dalle camere, e non conversa in pubblico il più spesso [...], né per altri rispetti furono nelle Città bene governate introdutte le feste, i conviti e i pubblici giochi, se non per assuefare gli sudditi a pratticare insieme, acciò che col mezzo della conversatione si potessero intrinsecamente conoscere, e cominciando a pigliarsi amore, si dassero ne i bisogni aiuti, e si facessero beneficio l’un con l’altro, a vicenda». In questa prospettiva, pertanto, polemizza contro quei funzionari che arbitrariamente «solo per mostrare, ch’ancor essi sono da qualche cosa nell’officio, prohibiscono contra ogni ragione le feste publiche a i cittadini, perché questa prohibitione è contra la norma del buon governo»6, non rendendosi conto che sono anche queste altrettanti mezzi per mantenere la serenità dello Stato.

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Duccio Balestracci, Il palio di Siena. Una festa italiana, Laterza, Bari-Roma 2019, pp. 3-5

Stato basato sull’amministrazione attenta, la centralizzazione, la gerarchia burocratica, l’estinzione progressiva delle cariche ereditarie o venali. Della ragion di stato sarà tradotto in spagnolo (1593), in latino (1602) e in inglese (1606). 5 Della Ragion di Stato. Libri dieci con tre libri delle

cause della grandezza delle Città di Giovanni Botero Benese (1589), Bertani, Venezia 1659, p. 45. 6 Dell’arte di governare bene i popoli et di fare che il Principe in un medesimo tempo sia temuto & amato di Fulvio Pacciani, Salvestro Marchetti, Siena 1607, pp. 188-190.

Comprensione e analisi 1. Cosa intende l’autore quando afferma che «la società tradizionale non conosce il concetto di tempo libero, ma quello di festa» (r. 1)? 2. Spiega, a parole tue, il significato della seguente affermazione: «La festa è un linguaggio del potere, non c’è dubbio, però è un linguaggio di intermediazione che serve a veicolare contenuti che non si avvertono come calati dall’alto e imposti perché la forma e l’estetica che li intermediano li trasfor-

mano in contenuti condivisi» (rr. 4-7). 3. Perché la festa, intesa come rito collettivo voluto e organizzato dal potere centrale, viene definita da Balestracci come un’«espropriazione della coscienza critica» (r. 13)? 4. Sintetizza, a parole tue, il pensiero di Giovanni Botero e Fulvio Pacciani circa il legame necessario fra la festa pubblica e l’esercizio del governo da parte del principe.

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Prima Prova tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo

Produzione Il periodo medievale e quello rinascimentale sono scanditi da feste animate da riti di natura religiosa, o laica, quali i tornei. Alcune delle festività religiose scandiscono ancora il nostro calendario, mentre il ruolo delle feste cittadine di natura laica sembra essersi affievolito. Possiamo dire che le feste cittadine assumono ancora oggi un valore collettivo e cooperano alla definizione di uno spirito identitario? Cosa

è cambiato nei secoli nel rapporto fra il pubblico e gli “eventi collettivi”? Le “feste” legate alla tradizione sono state sostituite con altri “riti collettivi” di pari partecipazione e importanza o hanno semplicemente perso il loro fascino? Esponi le tue considerazioni su questo tema, utilizzando le tue letture, esperienze dirette e conoscenze, dai quindi vita ad un testo argomentativo che risulti organico e coeso.

PRIMA PROVA tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

Dalla cartografia del Cinquecento alle mappe “sociali” del XXI secolo Una mappa del mondo generata dalle connessioni di Facebook, ideata sul modello di proiezione di Gherardo Mercatore, famoso cartografo del Cinquecento. La mappa del nostro futuro sarà solo un reticolo fatto

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di relazioni in cui ogni individuo si trova al centro? Simon Garfield, giornalista britannico e saggista, riflette sul ruolo che le mappe hanno assunto nel dar forma alla nostra storia e al nostro presente.

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Nel dicembre del 2010 Facebook pubblicò un nuovo planisfero tanto bello quanto sbalorditivo. Pur essendo immediatamente riconoscibile (il modello di proiezione era quello ideato da Gherardo Mercatore1 nel Cinquecento), aveva un che di strano e inconsueto: il mondo appariva di un azzurro luminescente ed era segnato per tutta la superficie da una serica2 ragnatela di linee evanescenti. Che cos’era che lo rendeva strano? Il fatto che la Cina e l’Asia fossero a mala pena visibili, mentre l’Africa orientale sembrava quasi sommersa dalle acque; certi paesi, poi, non erano dove avrebbero dovuto essere. In effetti, quello non era un planisfero a cui fossero state sovrapposte le utenze di Facebook, ma una mappa del mondo generata dalle connessioni di Facebook; si trattava di un mappamondo disegnato simultaneamente da cinquecento milioni di cartografi. Uno degli stagisti, un certo Paul Butler, attingendo al database centrale dell’azienda aveva preso la latitudine e la longitudine degli utenti e le aveva collegate con le coordinate dei rispettivi contatti. Come spiegò lo stesso Butler nel suo blog, «ogni linea potrebbe rappresentare un’amicizia fatta durante un viaggio, un familiare che vive all’estero, oppure un vecchio compagno di scuola che le vicissitudini della vita hanno condotto lontano».

Famoso cartografo del Cinquecento. Nel 1538 aveva elaborato una carta del mondo e successivamente una carta delle Fiandre in 4 fogli. Su commissione di Carlo V, nel 1541 costruì un mappamondo ter-

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restre e nel 1569 un planisfero ad uso dei naviganti. ‘Di seta’; il termine viene utilizzato per esprimere qualcosa che abbia i caratteri di morbidezza e lucentezza propri della seta.

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Prima Prova tipologia B

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Poiché a quell’epoca Facebook contava circa cinquecento milioni di iscritti, Butler si era immaginato che ne sarebbe venuto fuori un mezzo pasticcio, un fitto groviglio di fili (come succedeva con i cavi dei vecchi computer) culminante in un informe ammasso centrale. Invece, dopo qualche minuto, ecco iniziare a profilarsi una nuova trama che lo lasciò a bocca aperta. «La macchia informe si era trasformata in una mappa dettagliata del mondo» racconta Butler. «Non solo si vedevano i continenti, ma si riconoscevano anche i confini internazionali di alcuni stati. Ma la cosa che mi fece davvero impressione fu che quelle linee non raffiguravano coste, fiumi o confini politici, ma relazioni fra esseri umani!» Quella mappa era la perfetta rappresentazione di una cosa che, un anno prima che Butler la creasse, il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg mi aveva detto in un’intervista: «Facebook non è solo l’ennesima comunità virtuale, bensì un modo per mappare tutte le varie comunità che già esistono nel mondo». La rivoluzione digitale, sintetizzata in maniera così chiara da quella mappa di Facebook, ha trasformato la mappatura geografica più di ogni altra innovazione avvenuta in secoli e secoli di storia della cartografia. [...] Le mappe fisiche hanno sempre rappresentato una componente importantissima del nostro universo sin dai tempi in cui come cacciatori e raccoglitori iniziammo a spostarci per le pianure africane alla ricerca di cibo e riparo. Anzi, Richard Dawkins3 ipotizza che le prime mappe siano state disegnate nella polvere da qualche battitore abituato a seguire le tracce degli animali, mentre di recente alcuni archeologi spagnoli hanno scoperto una mappa del genere in un graffito su pietra inciso dai cavernicoli circa 14.000 anni fa. Ma Dawkins va oltre e giunge a domandarsi se non sia stata la creazione delle mappe, nelle quali sono espresse le nozioni di spazio e di proporzione, ad aver dato impulso alla crescita e allo sviluppo del cervello umano. Simon Garfield, Sulle mappe. Il mondo come lo disegniamo, trad. di M. Bottini e S. Placidi, Ponte alle Grazie, Milano 2016

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Etologo e biologo di fama internazionale, è stato professore di Zoologia all’Università di Oxford.

Comprensione e analisi 1. Riassumi il contenuto del testo proposto tenendo conto dei principali snodi argomentativi. 2. La mappa del mondo ideata da Butler presenta dei caratteri singolari: «la Cina e l’Asia [erano] a mala pena visibili, mentre l’Africa orientale sembrava quasi sommersa dalle acque» (rr. 6-7). Per quale ragione?

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3. Lo sviluppo della cartografia è stato alla base del progressivo sviluppo dei viaggi di esplorazione e commerciali fra il Quattrocento e il Cinquecento. Avere accesso alle mappe rappresentava un ac-

cesso diretto a possibilità concrete di progresso culturale ed economico. Alla luce di questa considerazione, spiega l’affermazione di Simon Garfield secondo cui «la rivoluzione digitale, sintetizzata in maniera così chiara da quella mappa di Facebook, ha trasformato la mappatura geografica più di ogni altra innovazione avvenuta in secoli e secoli di storia della cartografia» (rr. 29-31). 4. Cosa intende supporre Richard Dawkins quando afferma che la creazione di mappe potrebbe aver contribuito allo sviluppo del cervello umano?

Prima Prova tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

Produzione «Le mappe – afferma Simon Garfield – rispecchiano le nostre migliori e le nostre peggiori qualità, lo spirito di scoperta e la curiosità, la propensione al conflitto e alla distruzione e tengono traccia dei passaggi di potere. Anche a livello individuale, è come se ognuno di noi avvertisse il bisogno di disegnare un percorso e di seguire i

propri progressi, di immaginare delle possibilità di esplorazione e di fuga». Commenta il punto di vista dell’autore anche alla luce delle tue personali esperienze di studio o di vita. Argomenta i tuoi giudizi in un testo in cui tesi ed elementi a supporto siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

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PRIMA PROVA tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo

Alle origini della diseguaglianza: movimenti migratori e migrazioni globali Nel brano proposto gli autori dimostrano come esista un rapporto complesso fra diseguaglianza, flussi migratori e globalizzazione, un rapporto che non è proprio solo del nostro presente, ma che ha radici antiche nella

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nostra storia. Michele Alacevich è professore associato di Storia economica e Storia del pensiero economico all’Università di Bologna. Anna Soci è professore ordi­ nario di Economia politica all’Università di Bologna.

Gli ultimi trenta o cinquant’anni, a seconda dei paesi di destinazione, sono stati caratterizzati da flussi migratori internazionali di enorme portata. Il flusso di migranti verso l’Europa è iniziato ben prima del crollo della Siria e della Libia, per effetto delle differenze abissali tra molte regioni povere non europee e l’Europa. In particolare, la migrazione economica dall’Africa subsahariana continua più forte che mai, con i migranti che tentano di sfuggire a povertà e disuguaglianza. Non vedono un futuro nella loro terra e sentono di avere ben poco da perdere: «Preferirei morire piuttosto che tornare nel mio paese», ha spiegato un giovane somalo in attesa della traversata al porto di Misurata, in Libia, a un reporter di «Le Monde». «Ritornare in Somalia, a quel senso di insicurezza, a quella povertà, è inconcepibile per me. Proverò a partire per l’Europa non appena sarò rimandato indietro. Preferisco morire piuttosto che mollare». Come confermato dai dati sulle migrazioni globali prima e dopo l’inizio della crisi economica mondiale nel 2008, la disuguaglianza economica internazionale è un dato fondamentale per comprendere i flussi migratori. Se negli anni 2000-2010 il numero di migranti è cresciuto a un tasso di circa 4,6 milioni annui (in termini assoluti, da circa 174 milioni a 220 milioni), nell’ultimo decennio, quando le economie avanzate hanno subito un drammatico rallentamento, il numero di migranti ha registrato un tasso di crescita ridottosi a circa 3,6 milioni annui. I potenziali migranti sanno che anche nelle economie avanzate le opportunità economiche si stanno riducendo, e c’è chi decide di non partire o posticipare la partenza. [...] Come ricordano gli storici Jürgen Osterhammel e Niels Petersson, i processi di globalizzazione sono sempre stati caratterizzati da importanti movimenti migratori. La diffusione di un’ecumene religiosa – grosso modo, una comunità transnazionale – nell’Islam dell’VIII secolo e la repentina espansione dell’impero mongolo nel XIII secolo sono tra i primi casi di globalizzazione. Le migrazioni sono potenti meccanismi globalizzanti perché diffondono costumi, credenze, lingue, tradizioni, reti commerciali e finanziarie, tecniche, flora e fauna, nonché nuovi elementi – invisibili ma altrettanto importanti – come geni e batteri. Ma le migrazioni sono anche, a loro volta, il prodotto di dinamiche globalizzanti che hanno origine in altri ambiti, come l’aggregazione politica e territoriale, le conquiste militari, il commercio internazionale e la globalizzazione finanziaria. [...] Gli studiosi hanno spesso analizzato la globalizzazione come un processo che si sviluppa sul lungo periodo. Kocka, Osterhammel e Petersson, come abbiamo visto, citano la diffusione dell’Islam nell’VIII secolo e dell’impero mongolo nel XIII secolo come esempi di globalizzazione, ma notano anche che questi processi non hanno mai raggiunto una condizione di irreversibilità e, a un certo punto, si sono interrotti. Altri storici si sono invece concentrati sulla formazione degli imperi coloniali, all’inizio del XVI secolo, come

Prima Prova tipologia B

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analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

stadio iniziale di un processo irreversibile di integrazione economica globale. Immanuel Wallerstein, per esempio, ha descritto l’economia europea nel XVI secolo come il centro di un «sistema economico mondiale» europeo che nel tempo avrebbe aggregato altre aree del globo rendendole periferie di quel nucleo originario.

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Michele Alacevich - Anna Soci, Breve storia della disuguaglianza, trad. di D. Ferrante, Laterza, Bari-Roma 2019, pp. 64-67

Comprensione e analisi 1. Spiega il significato dell’espressione “disuguaglianza economica internazionale”. Perché questo fattore influisce sui flussi migratori?

3. La globalizzazione viene considerata dagli autori sia come causa sia come effetto dei fenomeni migratori, per quali ragioni?

2. Quando e dove si realizzano i primi importanti flussi migratori? Da quali cause sono stati prodotti?

4. Quale differenza viene ascritta dagli studiosi ai flussi migratori che si hanno a partire dal XVI secolo rispetto a quelli di epoca precedente?

Produzione La diseguaglianza economica internazionale è un elemento chiave per spiegare molte delle tensioni e delle problematiche che la nostra società deve affrontare. Quali sono le cause e le conse-

guenze di tale fenomeno? Quali le sue caratteristiche? Argomenta il tuo punto di vista e scrivi un testo in cui tesi e argomenti a supporto siano organizzati in un discorso coerente e coeso.

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PRIMA PROVA Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità • Prova guidata

tipologia C

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Alle origini della lettura

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I secoli tra lo spirare dell’XI e il XIV segnano una svolta nella storia della lettura. Rinascono le città, e con le città le scuole, e le scuole sono sedi di libri. La cornice è quella di una sempre più vasta diffusione dell’alfabetismo, di un incremento dello scritto a tutti i livelli, di maniere e scopi diversi d’uso del libro. [...] Nasce nel secolo XIII, con gli Ordini mendicanti, anche il modello di biblioteca destinata non più all’accumulo patrimoniale e alla conservazione dei libri, ma alla lettura; e nasce un sistema bibliotecario che ha come suoi cardini un catalogo, non più nudo inventario ma strumento di consultazione finalizzato a segnalare la collocazione dei libri in una determinata biblioteca o persino area geografica, e il memoriale, una scheda su cui vengono segnalati i volumi in prestito. [...] La cornice che definisce questo nuovo modello bibliotecario è il silenzio: silenzioso è l’accesso al libro, trepidamente disturbato solo dal tintinnio della catena che lo lega al banco; silenziosa è la ricerca di autori e titoli ormai ordinati in un catalogo che si può consultare senza mediazioni; silenziosa, perché tutta visiva, è la lettura nel contempo individuale e comune. Storia della lettura nel mondo occidentale, a cura di G. Cavallo e R. Chartier, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. xxv-xxvi

Produzione A partire dal contenuto del testo proposto rifletti sul rapporto fra libro e società contemporanea e sulle mutazioni del rapporto che ci lega da secoli alla pagina scritta. Puoi arricchire la tua ri-

flessione con riferimenti a esperienze di studio o personali. Articola il tuo elaborato in paragrafi e attribuisci un titolo che ben sintetizzi la tua argomentazione.

Guida allo svolgimento

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Guglielmo Cavallo, già Professore emerito di Paleografia all’Università di Roma La Sapienza e Roger Chartier, già Directeur d’études all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, trattano in questo testo i mutamenti fondamentali che hanno interessato il mondo del libro e della lettura nella sua lunga storia. Se nel Medioevo si affermarono la diffusione dei libri nelle scuole, le biblioteche e la lettura silenziosa, ben altri mutamenti alla pratica della lettura hanno caratterizzato l’epoca più recente. Eppure, ai mutamenti si accompagnano interessanti parallelismi: gli strumenti di archiviazione sono mutati, dai cataloghi conservati all’interno delle biblioteche fisiche all’indicizzazione dei motori di ricerca, ma la metodologia di archiviazione dei dati resta simile. Le modalità di accesso sono mutate, ma il testo lineare fatto di pagine che si susseguono una dopo l’altra, persiste ancora oggi. Rifletti sul ruolo della lettura e del libro nella società contemporanea: quale importanza

assume oggi il libro come veicolo di informazioni e conoscenza? Le nuove tecnologie hanno mutato le modalità di fruizione dei contenuti o semplicemente le modalità di accesso? Possiamo immaginare una “società della conoscenza”, come viene spesso definita l’età contemporanea, senza l’accesso alla forma libro, nella sua accezione tradizionale? Prova a fornire una risposta a queste domande e a riflettere sugli elementi di continuità e di discontinui­ tà relativi al mondo del libro e della lettura nel corso dei secoli. Organizza quindi le tue argomentazioni in un testo organico e coeso che faccia adeguato uso di connettivi per segnalare il passaggio fra uno snodo argomentativo e il seguente. Se la tua argomentazione procede per punti, organizza il testo in paragrafi distinti. Al termine della composizione attribuisci un titolo alla tua produzione, ricorda che il titolo deve riassumere e al tempo stesso esemplificare il contenuto del testo al potenziale lettore.

PRIMA PROVA tipologia C

Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo analisi del testo su tematiche di attualità • Prova guidata

L’Europa e la fede

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Nella legislatura che si conclude il Parlamento europeo ha avviato l’attuazione dell’art. 17 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che, rispettando lo status delle chiese e delle comunità religiose di ogni paese, autorizza l’Unione a mantenere un dialogo aperto, trasparente e regolare con loro e anche con le organizzazioni di coscienza e filosofiche. Nelle origini è Jacques Delors, l’allora presidente della Commissione europea, che nel 1994, con la sua iniziativa “Un’anima per l’Europa”, stabilì i primi legami formali tra istituzioni europee e organizzazioni religiose e non confessionali. Il suo scopo era quello di andare oltre una comprensione puramente economica e giuridica dell’integrazione europea, per riflettere le sue dimensioni spirituali ed etiche.

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Carlos Garcia de Andoin, L’Europa e la fede. Un bilancio di 5 anni, www.democratica.com

Produzione L’Europa e la sua dimensione religiosa: ti si propone un argomento scarsamente dibattuto, eppure sin dai tempi antichi la religione ha avuto un ruolo fondamentale nel dar forma al nostro spazio europeo. Dal Sacro Romano Impero di Carlo Magno, passando attraverso la Controriforma e le innumerevoli guerre di religione, fino alle persecuzioni contro gli ebrei

del XX secolo, siamo approdati ad un presente in cui la tolleranza e il rispetto di fedi e credenze diverse dovrebbe essere una conquista ormai raggiunta. Ma è davvero così? Esiste, oggi, una dimensione “spirituale ed etica” dello spazio europeo? Rifletti sul tema proposto e articola il tuo discorso in un testo che risulti organico e coeso.

Guida allo svolgimento Parlare del rapporto fra l’Europa e la sua dimensione religiosa può sembrare un tema arduo e di difficile sviluppo, eppure tante sono le considerazioni che si possono fare proprio a partire dal rapporto con la nostra storia. Il programma del terzo anno è intriso di eventi che segnano un legame fra spazio fisico, politico e dimensione religiosa. Gli esempi sono innumerevoli: l’Europa cristiana e il rapporto fra Papato e Impero, le Crociate, la Reconquista in Spagna, la lotta ai Turchi dominatori del Mediterraneo, la colonizzazione del nuovo mondo accompagnata dal processo di cristianizzazione della popolazione locale, la Riforma luterana e la Controriforma cattolica, le innumerevoli guerre di religione che hanno imperversato in tutto lo spazio europeo fra Cinquecento e Seicento. L’esercizio del potere, politico,

militare e economico, è stato direttamente connesso all’esercizio del controllo in ambito religioso. L’Europa cristiana ha rappresentato uno spazio da difendere con la forza delle armi, ma è stata anche una dimensione etica e religiosa da condividere e da promuovere nei territori di nuova conquista. In un Novecento che aveva da poco attraversato due conflitti mondiali, l’Unione europea ha avuto il compito di ribadire l’importanza della lotta alle ineguaglianze, il divieto verso ogni tipo di discriminazione, ha promosso la libera circolazione e i valori di tolleranza e rispetto nei confronti delle diverse confessioni religiose, in linea con i principi propri di una società democratica. La dimensione etica e una società prevalentemente laica hanno preso il posto dell’Europa cristiana? Abbiamo davvero

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Prima Prova tipologia C

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Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità • Prova guidata

abbandonato scontri di natura etnica e religiosa in funzione di una sana e civile convivenza fra popoli e confessioni religiose diverse? Cosa resta da fare? Per riflettere sul tema proposto puoi sviluppare i tuoi argomenti attuando considerazioni, riflessioni ed esempi a partire dai seguenti punti: – il rapporto storico fra la dimensione religiosa e l’identità europea;

– la compresenza di posizioni laiche e religiose nell’Europa di oggi; – problematiche da risolvere e ipotesi di soluzione. Organizza le tue considerazioni in un testo che abbia uno sviluppo organico e risulti coeso. Se lo ritieni opportuno suddividilo in paragrafi, assegna all’elaborato un titolo che sia rappresentativo del tuo pensiero.

PROVE PER IL IV ANNO

PRIMA PROVA tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

Il popolo in democrazia: mutazioni di un concetto Giovanni Sartori, politologo di fama internazionale, già professore emerito alla Columbia University di New York e all’Università di Firenze, riflette sul concetto di democrazia e sul rapporto fra popolo e isti-

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tuzioni democratiche nella società contemporanea. Come è mutato questo rapporto nel corso della storia? Quali problemi e quali sfide attendono le democrazie nel prossimo futuro?

Quando i greci coniarono demokratìa – parola che compare per la prima volta in Erodoto – il demos in questione era costituito da cittadini della polis, della piccola città che è davvero una comunità. Ma il fatto è che quel popolo che ha operato sulle scene storiche nella polis, nei comuni, e ancora – come terzo e poi quarto stato – al tempo della rivoluzione del 1789, non esiste più. Il popolo assume corporeità e consistenza o nell’ambito delle città-comunità, o nel contesto della rigida e minuziosa attribuzione delle mansioni e dei privilegi dell’antico regime. Ma di tutto questo nulla resta. Col franare delle strutture corporative e dell’ordine dei ceti, “popolo” designa sempre più un aggregato amorfo agli antipodi di quel tutto organico che i romantici avevano divinizzato. Una realtà nuova richiede un nome nuovo. Difatti, da tempo si parla di “masse” e poi di uomo-massa e di società di massa. Dovremmo allora dire “popolo-massa”? Siccome queste nozioni sono state variamente attaccate e strapazzate in tutte le direzioni, prima di scegliere la denominazione descriviamo la cosa. La domanda è: quali sono i nuovi elementi che trasformano e caratterizzano il modo di essere delle società contemporanee? Una prima trasformazione è di scala, di grandezze. Gli ateniesi che si radunavano in piazza erano meno di cinquemila, e di solito circa la metà. Siamo lì, e cioè nello stesso ordine di grandezza, nei comuni medievali e su su fino alla “piccola città” che poteva essere, nella versione che ne dava Rousseau, una democrazia. Da allora, e pressoché di colpo, siamo cresciuti di diecimila o anche centomila volte e viviamo non più nella piccola città ma nella megalopoli, nella città smisurata. E nella città smisurata vive, diceva Riesman1, la folla solitaria. Viviamo ammucchiati l’uno sull’altro in solitudine e nella depersonalizzazione. Un secondo elemento è l’accelerazione del mutamento. Il mondo contemporaneo corre a una velocità storica così vertiginosa che nel breve tempo di una vita stentiamo a riconoscere, in vecchiaia, il mondo che avevamo conosciuto da ragazzi; e in una realtà così mutevole l’uomo non ha tempo né modo di trovare un assestamento. Se oggi s’invoca con tanta insistenza l’integrazione sociale, se l’uomo contemporaneo si rivela così ansioso di aggrupparsi e di “appartenere”, è proprio perché la nostra società è profondamente disintegrata, perché l’uomo che perde i suoi naturali tessuti connettivi si sente alienato e “senza radici”. Anche se questo mutamento è per il meglio, lo sradicamento resta. Resta anche perché all’accelerazione storica si accompagna una inedita mobilità geografica. Nella società dei servizi e degli uffici siamo sempre in meno a morire dove siamo nati. La modernizzazione è anche spostamento continuo di casa in casa, di città in città; spostamento che è perdita di amici, perdita dei “vicini” e della familiarità del vicinato.

David Riesman, La folla silenziosa, il Mulino, Bologna 1956.

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analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

Si avverta: la perdita delle radici è anche, spesso, liberazione da catene. Non dobbiamo idealizzare più di tanto il “buon tempo” antico. Tanto buono non era. Il che non toglie che il termine popolo designa oggi una entità atomizzata, sconnessa e fluttuante; una società anomica2 che ha perduto l’ubi consistam3, l’appoggio, dei gruppi primari. E se la nozione di popolo-massa è intesa così, non è sbagliato dire così. [...] L’uomo-massa è isolato, vulnerabile e pertanto disponibile: il suo comportamento oscilla tra i due estremi di un attivismo estremistico o dell’apatia. Ne consegue che: «il tipo psicologico che caratterizza la società di massa fornisce uno scarso sostegno alle istituzioni della liberaldemocrazia»4. Non importa che io entri in questo dibattito. Il punto che mi basta fermare è che la democrazia etimologica che si rifà al demos dei greci diventa oggi un edificio costruito su un protagonista che non c’è più. Democrazia o massocrazia? Con ogni probabilità continueremo a dire democrazia. Benissimo: ma a patto che il “popolo” reale non sia un falso protetto da scomunica o eretto in mistero5.

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Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è, Rizzoli, Milano 2012, ed. digitale

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L’anomia indica la deficienza della legge, la carenza dei poteri dello Stato, l’anarchia. È un termine in uso nel linguaggio sociologico e coniato da ­Émile Durkheim, il quale, nell’opera La division du travail social (1893), aveva dichiarato anomiche quelle società fondate sulla divisione del lavoro in cui non vi sia solidarietà sociale.

Punto stabile di appoggio. William Kornhauser, The Politics of Mass Society, Free Press, Glencoe 1959, p. 112. 5 Sartori si riferisce al mistero del popolo, che nel corso del libro sarà esaminato in chiave di cosa contiene e di come viene formata la pubblica opinione. 3 4

Comprensione e analisi 1. A partire da quale periodo storico, secondo l’autore, il demos, parte costitutiva della parola demokratìa, si può dire che sia scomparso? Quali fattori storici, accennati dall’autore, hanno contribuito a causarne la scomparsa? 2. Quali trasformazioni proprie della società contemporanea hanno prodotto un mutamento del concetto di “popolo”?

3. Quali conseguenze ha prodotto questo mutamento nell’ambito della struttura di una società democratica? 4. Prova a schematizzare la struttura del brano proposto ponendo in rilievo gli snodi argomentativi e gli elementi utilizzati dall’autore per sostenere l’argomentazione.

Produzione Constantin-François de Chassebœuf, conte di Volney, studioso e filosofo francese vissuto fra la seconda metà del Settecento e i primi dell’Ottocento, in un’opera datata al 1792, dal titolo Le rovine ossia le Meditazioni sulle Rivoluzioni degli Imperi, affermava quanto segue: «alcune regioni della terra, indubbiamente, hanno subito una decadenza rispetto a come apparivano in altre epoche della

storia, ma se il nostro spirito potesse indagare su quale fosse, proprio allora, il grado di felicità e di saggezza degli abitanti, troverebbe, nella presunta gloria di quei tempi, meno realtà che apparenza. Allora vedremmo negli Stati dell’antichità, vuoi anche i più lodati, la presenza di enormi vizi, di crudeli abusi, dai quali del resto, non poté che derivare la loro intrinseca fragilità» (cap. XIII). Sartori

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Prima Prova tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

afferma – nel brano proposto – che anche la nostra democrazia è fragile. Alla luce delle tue conoscenze storiche e della tua esperienza rifletti sulle ragioni di fragilità proprie del rapporto fra popolo

e istituzioni. Puoi attuare un confronto fra eventi della storia e del presente che ritieni significativi. Organizza il tuo elaborato in un testo argomentativo che risulti organico e coeso.

Guida allo svolgimento COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

1. A partire da quale periodo storico, secondo l’autore, il demos, parte costitutiva della parola demokratìa, si può dire che sia scomparso? Quali fattori storici, accennati dall’autore, hanno contribuito a causarne la scomparsa?

Presta attenzione al primo quesito: sono due le domande a cui devi fornire una risposta.

2. Quali trasformazioni proprie della società contemporanea hanno prodotto un mutamento del concetto di “popolo”?

Dopo la premessa di ordine storico, l’autore passa all’analisi della società contemporanea e illustra le cause che giustificano l’esigenza di una nuova denominazione: non più popolo, ma popolo-massa.

3. Quali conseguenze ha prodotto questo mutamento nell’ambito della struttura di una società democratica?

Se la domanda 2 ti ha chiesto di rintracciare nel testo le cause che giustificano l’adozione di un dato termine, in questa domanda ti viene chiesto di indicare le conseguenze che – sempre secondo Sartori – questi fattori producono. Nota che il periodare dell’autore procede seguendo un climax: Sartori indica vari elementi per terminare con quello che – a suo avviso – risulta il nodo di maggiore problematicità in relazione al tema di discussione prescelto.

4. Prova a schematizzare la struttura del brano proposto ponendo in rilievo gli snodi argomentativi e gli elementi utilizzati dall’autore per sostenere l’argomentazione.

Rileggi il brano e considera come l’autore organizza la narrazione tenendo conto dei vari paragrafi. Troverai che si parte da una premessa di carattere storico per proseguire con una riflessione sulla società contemporanea.

La prima è correlata alla comprensione del testo proposto: rileggi il primo paragrafo per trovare le indicazioni utili, la domanda ti chiede di indicare il periodo a partire dal quale il ruolo del popolo può dirsi mutato. La seconda domanda ti chiede di ragionare su questo fenomeno a partire dalle indicazioni storiche fornite dall’autore. Sartori cita periodi storici che dovresti avere studiato nel corso dell’anno. Individua questi periodi e commenta le parole dell’autore fornendo spiegazioni utili in base alle tue conoscenze. Perché quei periodi in particolare possono essere considerati la “fine” di un determinato modo di intendere il demos?

Ci sono almeno tre mutamenti essenziali propri del nostro tempo che ne giustificano l’utilizzo: quali?

Lo sviluppo dell’argomentare tiene conto di: – definizione del problema; – ipotesi di soluzione; – evidenza a supporto dell’ipotesi; – valutazioni finali. Tenendo conto di queste indicazioni prova a esprimere in forma schematica il pensiero dell’autore.

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Prima Prova tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

PRODUZIONE

INDICAZIONI OPERATIVE

Constantin-François de Chassebœuf, conte di Volney, studioso e filosofo francese vissuto fra la seconda metà del Settecento e i primi dell’Ottocento, in un’opera datata al 1792, dal titolo Le rovine ossia le Meditazioni sulle Rivoluzioni degli Imperi, affermava quanto segue: «alcune regioni della terra, indubbiamente, hanno subito una decadenza rispetto a come apparivano in altre epoche della storia, ma se il nostro spirito potesse indagare su quale fosse, proprio allora, il grado di felicità e di saggezza degli abitanti, troverebbe, nella presunta gloria di quei tempi, meno realtà che apparenza. Allora vedremmo negli Stati dell’antichità, vuoi anche i più lodati, la presenza di enormi vizi, di crudeli abusi, dai quali del resto, non poté che derivare la loro intrinseca fragilità» (cap. XIII). Sartori – nel brano proposto – afferma che anche la nostra democrazia è fragile. Alla luce delle tue conoscenze storiche e della tua esperienza rifletti sulle ragioni di fragilità proprie del rapporto fra popolo e istituzioni. Puoi attuare un confronto fra eventi della storia e del presente che ritieni significativi. Organizza il tuo elaborato in un testo argomentativo che risulti organico e coeso.

Il tema proposto è ad ampio respiro: la fragilità del rapporto fra popolo e istituzioni. Il mancato accordo fra chi è governato e chi governa ha prodotto nel corso di tutta la storia scontri interni e guerre verso l’esterno. Non si chiede di affrontare il tema nella sua interezza, bensì di esprimere una tesi in merito e di correlarla ad eventi significativi che la giustifichino.

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Per affrontare il compito puoi iniziare con il porti delle domande: – in base alle tue conoscenze ed esperienze, esistono segni di fragilità nel rapporto fra popolo e istituzioni in Italia o nei paesi europei? Se esistono, quali possono essere le cause che li hanno prodotti e quali le conseguenze che ne potrebbero derivare in un prossimo futuro? – gli elementi di fragilità che hai individuato sono propri unicamente della società contemporanea o potrebbero essere ricordati degli esempi storici che confermano la persistenza di alcuni di questi fenomeni nel tempo? – esiste – a tuo avviso – una possibile soluzione per rendere più saldo e responsabile questo rapporto nel tempo? Raccogli le tue considerazioni in una scaletta e sviluppa gli argomenti da te scelti in un testo di natura argomentativa che renda esplicita al lettore la tua tesi e gli elementi a supporto. Per guidarlo a meglio comprendere il tuo ragionamento, puoi suddividere il testo in paragrafi che rappresentino i diversi snodi argomentativi. Ricorda di fare buon uso dei connettivi fra le varie parti.

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PRIMA PROVA tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

Della verità e dell’opinione Michel de Montaigne, uomo di cultura umanista, raffinato filosofo e politico di origine francese, pubblicò fra il 1580 e il 1588 tre libri di Saggi. Opera di autoanalisi e di riflessione sull’instabilità della «umana condizione», i Saggi sono altresì una testimonianza

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Quando il re Pirro venne in Italia, dopo che ebbe osservato lo schieramento dell’esercito che i Romani gli mandavano contro, disse: «Non so che barbari siano questi (poiché i Greci chiamavano così tutti i popoli stranieri), ma la disposizione di quest’esercito che vedo non è affatto barbara»1. Lo stesso dissero i Greci di quello che Flaminio fece passare nel loro paese; e così pure Filippo quando vide da un’altura l’ordine e la distribuzione dell’accampamento romano nel suo regno, sotto Publio Sulpicio Galba2. Ecco come bisogna guardarsi dall’aderire alle opinioni volgari, e come bisogna giudicarle con la ragione, non per quello che ne dice la voce comune. Ho avuto a lungo presso di me un uomo che aveva vissuto dieci o dodici anni in quell’altro mondo che è stato scoperto nel nostro secolo, nel luogo dove era sbarcato Villegagnon, e che aveva chiamato la Francia Antartica3. Questa scoperta di un paese infinito sembra sia di molta importanza. Non so se posso affermare che non se ne farà in avvenire qualche altra, tanti essendo i personaggi più grandi di noi che si sono ingannati a proposito di questa. Ho paura che abbiamo gli occhi più grandi del ventre, e più curiosità che capacità. [...] Quell’uomo che stava da me era un uomo semplice e rozzo, condizione adatta a rendere una testimonianza veritiera: poiché le persone d’ingegno fino osservano, sì, con molta maggior cura, e più cose, ma le commentano; e per far valere la loro interpretazione e persuaderne altri, non possono trattenersi dall’alterare un po’ la storia; non vi raccontano mai le cose come sono, le modificano e le mascherano secondo l’aspetto che ne hanno veduto; e per dar credito alla loro opinione e convincervene, aggiungono volentieri qualcosa in tal senso alla materia originale, l’allungano e la ampliano. Ci vuole un uomo o molto veritiero o tanto semplice da non aver di che costruire false invenzioni e dar loro verosimiglianza, e che non vi abbia alcun interesse. Così era il mio; e oltre a questo, mi ha mostrato in diverse occasioni parecchi marinai e mercanti che aveva conosciuto in quel viaggio. Mi accontento, quindi, di queste informazioni, senza occuparmi di quel che ne dicono i cosmografi. A noi occorrerebbero dei topografi che ci descrivessero nei particolari i luoghi dove sono stati. Ma avendo su di noi il vantaggio di aver veduto la Palestina, vogliono arrogarsi il privilegio di darci notizie di tutto il resto del mondo. Vorrei che ognuno scrivesse quel che sa, e quanto ne sa, non solo in questo, ma su tutti gli altri argomenti: poiché uno può avere qualche particolare cognizione o esperienza della natura di un corso d’acqua o di una sorgente, e sapere per il resto solo quello che

Plutarco, Vita di Pirro, XXXIV. Tito Livio, XXXI, 34. 3 Nel Golfo di Guanabara, sulla costa del Brasile 1

importante dell’evoluzione di un pensiero filosofico che progressivamente si allontana dalle certezze proprie dell’epoca rinascimentale, per avvicinarsi ad un atteggiamento critico verso l’interpretazione del reale tipico del pensiero illuminista.

(la Francia Antartica), dove Enrico II voleva fondare una colonia nella regione Tupinamba (1557).

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tutti sanno. Tuttavia, per divulgare questa sua nozioncella, si metterà a scrivere tutta la fisica. Da questo vizio nascono parecchi grossi inconvenienti. Ora io credo, per tornare al mio discorso, che in quel popolo non vi sia nulla di barbaro e di selvaggio, a quanto me ne hanno riferito: se non che ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra infatti che non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. Essi sono selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che col nostro artificio abbiamo alterati e deviati dalla regola comune che dovremmo piuttosto chiamare selvatici. In quelli sono vive e vigorose le vere e più utili e naturali virtù e proprietà, che noi abbiamo imbastardite in questi, soltanto per adattarle al piacere del nostro gusto corrotto. E nondimeno il sapore medesimo e la delicatezza di diversi frutti di quelle regioni, che non sono stati coltivati, sembrano eccellenti al nostro gusto, in confronto ai nostri.

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Michel de Montaigne, Saggi (Libro I, cap. XXXI, Dei cannibali), a cura di F. Garavini e A. Tournon, Bompiani, Milano 2017, ed. digitale

Comprensione e analisi 1. Riassumi il contenuto del brano proposto. 2. Montaigne dà inizio al suo saggio riportando citazioni e giudizi di illustri personaggi della storia antica. Quale funzione assumono questi esempi nel contesto del brano? 3. L’argomento di discussione prescelto fornisce

all’autore l’occasione per esprimere le sue considerazioni sulla natura umana. Quali sono le idee di Montaigne a riguardo? 4. Individua i connettivi presenti nel brano proposto e illustrane la funzione in relazione allo sviluppo argomentativo del testo.

Produzione Montaigne riflette sulla facilità con la quale gli uomini siano pronti a formulare giudizi su cose che non conoscono. Le sue considerazioni sulla natura umana sono frutto di una meditazione datata alla seconda metà del Cinquecento, eppure rappresentano il preludio di un atteggiamento critico che avrà il suo massimo sviluppo nell’epoca

dell’Illuminismo. Quali punti di contatto si possono riscontrare fra il pensiero dell’autore – come emerge nel brano proposto – e le idee proprie degli illuministi? Come è mutato al giorno d’oggi il rapporto fra verità e opinione? Esprimi le tue considerazioni in un testo di natura argomentativa che risulti organico e coeso.

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Prima Prova tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

Guida allo svolgimento COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

1. Riassumi il contenuto del brano proposto.

Per elaborare una buona sintesi è necessario individuare gli snodi narrativi presenti nel testo, ovvero gli argomenti che l’autore ha scelto di affrontare. Montaigne ha deciso qui di trattare un solo argomento di estrema attualità ai suoi tempi, riguardo al quale fornisce una sua interpretazione (tesi). Di quale argomento si tratta e quale è la tesi dell’autore in merito? Nel fluire del suo ragionamento, tuttavia, il tema prescelto gli fornisce l’occasione per avanzare varie considerazioni sulla natura umana. È importante riuscire a identificare i nessi logici fra l’argomentazione principale, rappresentata dal tema di discussione e dalla tesi dell’autore, gli esempi e le considerazioni che l’autore avanza. Rileggi ora attentamente il brano, tieni conto della suddivisione in paragrafi e sottolinea con colori diversi l’argomento di discussione, la tesi, gli esempi e le considerazioni avanzate dall’autore, elabora quindi una scaletta che ponga in evidenza i rapporti di correlazione fra le varie parti. Rielabora ora quanto hai prodotto in un discorso in terza persona che non riecheggi le parole stesse dell’autore. Per chiarezza puoi fornire al lettore le informazioni utili a sintetizzare il brano proposto seguendo questo ordine: – argomento di discussione; – tesi; – esempi a supporto della tesi; – considerazioni di ordine generale cui la trattazione dell’argomento dà adito.

2. Montaigne dà inizio al suo saggio riportando citazioni e giudizi di illustri personaggi della storia antica. Quale funzione assumono questi esempi nel contesto del brano?

Oggi sarebbe abbastanza insolito dar vita ad un saggio riportando in apertura citazioni dalle opere di Plutarco e Tito Livio, ma Montaigne era un raffinato umanista e questi autori rappresentavano una parte essenziale del suo percorso di formazione e di studio. Il perché abbia scelto proprio questi autori ha quindi una spiegazione abbastanza logica, erano autori a lui ben noti e al tempo stesso erano ritenuti fonti autorevoli. Ma perché inserire in apertura del testo proprio “queste” citazioni? La scelta non è casuale, i riferimenti servono ad uno scopo preciso connesso all’argomentazione principale. Servono a dimostrare qualcosa. Di cosa si tratta?

3. L’argomento di discussione prescelto fornisce all’autore l’occasione per esprimere le sue considerazioni sulla natura umana. Quali sono le idee di Montaigne a riguardo? 34

Per rispondere a questa domanda guarda nuovamente la scaletta che hai elaborato per sviluppare la sintesi. Dovresti aver annotato almeno tre considerazioni di natura generale sul comportamento degli uomini. Individuale ed elencale nel rispondere alla domanda.

Prima Prova tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

4. Individua i connettivi presenti nel brano proposto e illustrane la funzione in relazione allo sviluppo argomentativo del testo.

I connettivi sono elementi del discorso che segnalano dei legami logici presenti fra diverse parti di un testo. All’interno dei vari paragrafi del brano proposto sono presenti dei termini utilizzati per segnalare il passaggio, e al tempo stesso creare un collegamento fra esempi, argomento principale e considerazioni proprie dell’autore.

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Fra due diversi paragrafi si trova anche un’espressione che ha lo scopo di riportare il lettore all’argomento principale dopo una digressione. Rileggi il testo proposto, individua i connettivi utilizzati e specificane la funzione nell’economia del racconto.

PRODUZIONE

INDICAZIONI OPERATIVE

Montaigne riflette sulla facilità con la quale gli uomini siano pronti a formulare giudizi su cose che non conoscono. Le sue considerazioni sulla natura umana sono frutto di una meditazione datata alla seconda metà del Cinquecento, eppure rappresentano il preludio di un atteggiamento critico che avrà il suo massimo sviluppo nell’epoca dell’Illuminismo. Quali punti di contatto si possono riscontrare fra il pensiero dell’autore – come emerge nel brano proposto – e le idee proprie degli illuministi? Come è mutato al giorno d’oggi il rapporto fra verità e opinione? Esprimi le tue considerazioni in un testo di natura argomentativa che risulti organico e coeso.

Montaigne è autore vissuto fra il 1533 e il 1592. Ebbe un’educazione umanistica, studiò giurisprudenza a Tolosa, ricoprì vari uffici in magistratura, viaggiò a lungo in Francia, Svizzera e Italia. La sua passione restarono però gli studi letterari e filosofici e a partire dal 1570 si ritirò per un lungo periodo a vita privata nel castello di famiglia per coltivare la lettura dei classici e la scrittura. Tale occupazione dovrà venire interrotta in anni successivi per svolgere incarichi ufficiali, ma lo studio creato nella torre del castello di Montaigne resterà il suo rifugio più gradito. Le letture di Seneca, di Plutarco, ma anche di autori italiani quali Petrarca, Machiavelli e Guicciardini, Ariosto e Tasso, unite all’esperienza del mondo, ispirarono in lui delle considerazioni filosofiche sulla natura umana e sul suo tempo che sembrano proiettarlo oltre gli steccati della cultura rinascimentale. Nuova è l’indagine intimistica, quasi psicologica dell’uomo, che Montaigne vede come un essere in costante cambiamento ed evoluzione, nuovo è l’approccio critico al reale basato sulla ragione. Il brano proposto presenta vari indizi di un nuovo modo di percepire il reale che ha molti punti in comune con posizioni proprie della cultura illuministica. Al contempo, le considerazioni di natura generale sull’uomo si prestano a essere poste a confronto con quello che è l’atteggiamento dell’uomo contemporaneo. All’evoluzione della tecnica è corrisposta una eguale evoluzione del nostro atteggiamento nei confronti del nuovo, della verità e dell’opinione, oppure quanto afferma Montaigne ha ancora oggi una sua validità? Per strutturare il testo è utile seguire la traccia fornita dalle domande proposte. Potresti quindi organizzare le tue considerazioni secondo la seguente scaletta: – elementi che ricollegano Montaigne al contesto culturale della sua epoca; – elementi di novità del suo pensiero; 35

Prima Prova tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata PRODUZIONE

INDICAZIONI OPERATIVE – punti di collegamento fra questi elementi di novità e il pensiero degli illuministi (fornisci degli esempi); – considerazioni sull’attualità o meno delle sue idee motivate con debiti argomenti di discussione. Il passaggio fra le varie parti richiede l’utilizzo di connettivi adeguati: ti viene richiesto di segnalare quelli che sono gli elementi di continuità e di discontinuità fra il pensiero di Montaigne e quello proprio delle epoche successive, per costruire un discorso organico e coeso è quindi necessario che gli snodi argomentativi siano opportunamente evidenziati.

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Top secret: lo spionaggio industriale in età moderna Un breve viaggio attraverso i servizi segreti e il loro ruolo nel favorire lo sviluppo delle eccellenze commerciali nella Francia della seconda metà del Seicento. Paolo Preto, già professore emerito di Storia moderna all’Università di Padova, dimostra, dati alla

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Spie politiche, commerciali e militari, all’estero contro i nemici, all’interno contro i sudditi infidi e i cospiratori, non sono mai mancate in alcuno stato del mondo antico anche se, come ha notato Sheldon, «è assai difficile distinguere fra l’attività di spionaggio nel senso che si dà a questo termine nel mondo moderno, e la ricerca e trasmissione di informazioni»1. [...] Le città italiane, nella loro evoluzione da liberi comuni a signorie, offrono un ottimo esempio della contestualità tra sviluppo di nuove strutture amministrativo-burocratiche, in particolare eserciti permanenti e diplomazia stabile, e la nascita dei servizi segreti; molti statuti comunali registrano la presenza di spie regolarmente assunte entro gli embrionali apparati politici cittadini: a Pisa, tanto per fare un esempio, nel 1297 e nel 1345, sono menzionati un «ufficiale sopra le spie» e un «soprastante alle spie». [...] Celebre è la cosiddetta “Guerra degli Specchi” del 1664-1667: ne sono protagonisti da un lato Colbert, deciso ad attrarre abili maestri muranesi per impiantare anche in Francia questa manifattura pregiata, un gruppo di vetrai veneziani che accettano l’ambiziosa e ben remunerata avventura e il governo di Venezia deciso a stroncare con tutti i mezzi, compreso l’assassinio, l’audace attacco alla sua industria. Nell’autunno 1664 Colbert incarica l’ambasciatore a Venezia Pierre Bonzi, vescovo di Béziers, di sedurre alcuni operai; Antonio Cimegotto, detto Della Rivetta, Gerolamo Barbini, Giovanni Civran e Domenico Morasso accettano, partono in gran segreto e si uniscono a Pietro Mazzolao (che si fa chiamare De la Motte), un ottimo tecnico che ha girato mezzo mondo, e danno vita alla periferia di Parigi a una nuova fornace, gestita da Nicolas Du Noyer. L’aiuto di altri compagni fatti arrivare nei mesi successivi, le paghe alte e altri benefici convincono i vetrai a lavorare di buona lena, anche se rifiutano di insegnare i segreti agli apprendisti: per legarli definitivamente alla nuova patria Colbert cerca di far espatriare anche le mogli, procura ragazze con doti di venticinquemila scudi ai due scapoli Barbinni e Morasso e fa visitare la manifattura dallo stesso Luigi XIV, che fa generosi donativi. A questo punto scatta decisa la controffensiva degli Inquisitori2; l’ambasciatore Marc’Antonio Giustinian convince alcuni gregari a tornare, alletta il Mazzolao con la prospettiva di un salvacondotto e un onorevole ritorno in patria, sguinzaglia spie a informarsi sui lavori e a esercitare ogni sorta di pressioni sui muranesi; intanto a Venezia gli Inquisitori scrivono false lettere

Rose M. Sheldon, Lo spionaggio nel mondo romano. L’occhio di Roma, in «Storia e dossier», IV, 1989, n. 25. 2 A Venezia, il Consiglio dei Dieci decise di istituire, nel 1539, i cosiddetti “inquisitori di Stato”; si trattava di persone a capo dei servizi di spionaggio 1

mano, come lo spionaggio industriale sia sempre esistito e come la fortuna di alcune produzioni industriali sia derivata direttamente dalla capacità dei rispettivi governi di carpire informazioni utili a migliorare lo standard dei loro prodotti.

e di controspionaggio, che rappresentavano anche un supremo tribunale in materia politica e inerente alla sicurezza dello Stato. Atti diversi, relativamente ai loro compiti, sono raccolti nell’Archivio di Stato di Venezia. 37

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a nome delle mogli, ma i vetrai capiscono subito che sono «formate da persone di sapere et non ordinaria intelligenza» e non dalle loro umili consorti. Nonostante l’attenta sorveglianza le donne riescono a lasciare Venezia e a raggiungere i mariti a Parigi e così il 14 agosto gli Inquisitori, volendo «andar alla radice» dell’affare, ordinano al Giustinian di uccidere Antonio della Rivetta, considerato il leader del gruppo, nella convinzione che «caduto lui, tutto precipita». Gustinian si muove con grande astuzia, stimola il rancore di Mazzolao, che si sente emarginato dai nuovi arrivati e durante una rissa ferisce il Rivetta, e sparge false notizie sulla cattiva qualità dei vetri prodotti; nel settembre 1666 muore, dopo un delirio di qualche giorno, un levigatore, seguito il 25 gennaio anche da Domenico Morasso: l’autopsia ordinata da Colbert conferma, il 16 febbraio 1667, che si tratta di veleno. Lo spaesamento delle donne, che mal si adattano alla nuova vita in Francia, gli attentati, il dolore per le morti, fiaccano la volontà dei muranesi; un intermediario veneziano offre quattro-cinquemila ducati e ne combina il ritorno in patria, peraltro senza grande rimpianto degli imprenditori che ne deplorano il carattere irregolare e violento; quando, nel 1669, Rivetta, Barbini e Civran fanno delle “avances” per ritornare in Francia l’ambasciatore francese lascia cadere l’offerta anche perché Colbert da Parigi assicura che ormai la manifattura è ben avviata e non necessita più di operai: la Francia ha vinto la “Guerra degli Specchi”. Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia, Spionaggio e controspionaggio ai tempi della Serenissima, il Saggiatore, Milano 2010, pp. 17, 403-409

Comprensione e analisi 1. Rileggi il brano proposto, sottolinea gli eventi salienti, quindi elabora una sintesi che tenga conto del contenuto, ma eviti di riepilogarne i singoli dettagli.

alla narrazione?

2. Il racconto della “Guerra degli Specchi” presenta uno stile proprio della letteratura gialla. Quali elementi stilistici conferiscono tale aspetto

4. Per quale ragione l’ultima richiesta degli operai italiani di tornare a lavorare in Francia non viene accolta?

3. Perché nell’Europa del Seicento l’industria del vetro è ritenuta così importante da comportare una guerra commerciale?

Produzione Lo spionaggio industriale del XXI secolo passa anche attraverso la rete, ma i termini del contendere, il cercare di carpire, trafugare, brevetti e segreti industriali, restano simili. Cosa è mutato nel moderno sistema di spionaggio industriale? Eventi quali quello della “Guerra degli Specchi” sono ormai lontani dai nostri orizzonti, oppure no? Il livello di

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specializzazione del personale e la conoscenza di tecniche di produzione all’avanguardia rappresentano ancora una merce di scambio così ambita? Rifletti sul tema proposto, elabora quindi un testo a partire dalle tue conoscenze. Nell’attuare un confronto fra passato e presente ricorda di fare buon uso di connettivi adeguati.

PRIMA PROVA tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

L’illuminismo della parola “umanità” Johann Gottfried von Herder fu scrittore e pensatore tedesco vissuto fra il 1744 e il 1803. Nutrito di cultura illuminista, discepolo di Kant e amico di Goethe, Herder sarà fra i promotori del nuovo movimento di matrice romantica Sturm und Drang. Fra il 1793 e il

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1797 compose le Lettere per la promozione dell’umanità, da cui è tratto il brano proposto: il filosofo tenta di giungere alla definizione di umanità e riflette sul ruolo proprio dell’istruzione nel forgiare il sentimento di umanità.

Voi temete che si possa abusare del termine “umanità”. Non si potrebbe, forse, cambiare parola, dicendo genere umano, umanitarismo, diritti umani, doveri umani, dignità umana, amore per gli uomini? Noi tutti siamo esseri umani e, quindi, custodiamo in noi il genere umano o, per meglio dire, apparteniamo a esso. Purtroppo, però, nella nostra lingua si è così spesso associato il termine uomo e, ancor più, all’espressione misericordiosa umanitarismo, un significato accessorio di meschinità, debolezza e falsa compassione, che si è ormai abituati ad accompagnare l’uno con un’occhiata di disprezzo, l’altra con una scrollata di spalle. «L’uomo!», esclamiamo con un lamento, o con accento sprezzante e un brav’uomo crediamo di scusarlo con il tono più indulgente quando usiamo l’espressione: «è stato sopraffatto dal suo umanitarismo». Nessuna persona ragionevole è disposta ad accettare che si sia così barbaramente svilito il carattere del genere cui apparteniamo. Si è agito, se è possibile, con ancor più leggerezza di quando usiamo, a mo’ d’insulto, il nome della nostra città o della comunità in cui viviamo. Non vogliamo essere fraintesi: non è per la promozione di un simile concetto di umanitarismo che scriviamo lettera alcuna. La formula diritti dell’uomo non può essere pronunciata senza riferimento ai doveri dell’uomo: gli uni rinviano agli altri e, per entrambi, noi cerchiamo una sola parola. Lo stesso vale per le espressioni dignità umana e amore per gli uomini. Il genere umano, quale è attualmente e quale, con ogni probabilità, continuerà a essere ancora a lungo, non possiede, in gran parte, alcuna dignità, e merita commiserazione piuttosto che rispetto. Ecco, però, dev’essere educato al carattere del proprio genere e, con ciò, al suo valore e alla sua dignità. La bella espressione amore per gli uomini è stata a tal punto banalizzata che per lo più si amano gli uomini per non amarne, di fatto, nessuno in particolare. Tutte queste parole contengono, ciascuna in parte, il senso del nostro scopo, che ci piacerebbe indicare con una sola espressione. Scegliamo, perciò, la parola “umanità” cui i più valenti scrittori, antichi e moderni, hanno saputo unire i più elevati concetti. Umanità è il carattere del genere a cui apparteniamo. Tuttavia esso è presente in noi solo come disposizione e, propriamente, dev’essere educato. Non veniamo al mondo possedendolo già compiutamente, ma, su questa terra, esso dev’essere la meta di tutti i nostri sforzi, la somma delle nostre azioni, il nostro autentico valore: non ci risulta, infatti, che l’uomo sia dotato di una natura angelica, e se il demone che ci guida non è un demone umano, allora rischiamo di tramutarci in un vero flagello per gli altri uomini. L’elemento divino del nostro essere consiste, quindi, nella capacità di educare all’umanità: tutti gli esseri umani grandi e buoni, legislatori, inventori, filosofi, poeti, artisti e ogni uomo che abbia dimostrato nobiltà nello svolgere il suo ruolo, nell’educazione dei suoi figli, nell’osservanza dei suoi doveri, vi hanno contribuito mediante

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l’esempio, le opere, l’ammaestramento e l’insegnamento. L’umanità è il patrimonio e il premio di tutti gli sforzi umani, e, insieme, l’arte del nostro genere. L’educazione all’umanità è un compito che non può mai essere tralasciato o interrotto, o noi tutti, dai gradi più elevati ai più infimi, precipiteremo all’indietro, allo stato della rozza animalità e, oltre, sino allo stato bruto. Johann Gottfried Herder, L’illuminismo della parola “umanità”, in Che cos’è l’illuminismo? I testi e la genealogia del concetto, introd. a cura di A. Tagliapietra, trad. di S. Manzoni e E. Tetamo, Bruno Mondadori, Milano 2010, pp. 93-95

Comprensione e analisi 1. Il brano proposto è articolato in una premessa funzionale allo sviluppo della tesi propria dell’autore, la quale figura solo nella parte finale del brano. Sintetizza il pensiero di Herder tenendo conto di questa indicazione. 2. Spiega il significato dell’espressione: «L’elemento divino del nostro essere consiste, quindi, nella capacità di educare all’umanità» (rr. 33-34).

3. Quali termini racchiudono e definiscono il significato della parola “umanità”, secondo l’autore? 4. La discussione apparentemente filologica racchiude in sé un argomentare che pone in evidenza l’uso errato e l’uso corretto dei termini. Perché Herder condanna l’accezione a suo tempo assunta dal termine “umanitarismo”, mentre sembra accettare il termine “umanità”? Quali concetti diversi vengono attribuiti ai due termini?

Produzione Il riconoscimento del valore della conoscenza è stato già attuato varie volte nella cultura occidentale, basti pensare al Convivio o ai famosi versi del canto di Ulisse nell’Inferno di Dante. Eppure per gli illuministi la conoscenza assume un valore particolare e con essa l’educazione al conoscere. Rifletti sul ruolo e la funzione che gli illuministi affidavano alla formazione

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dei giovani. Quali loro idee possono dirsi ancora di estrema attualità? L’«educazione all’umanità» è stata soppiantata da nuovi modelli di formazione in linea con la società contemporanea o rimane ancora oggi il cardine della nostra educazione scolastica? Sviluppa le tue considerazioni a riguardo in un testo argomentativo che risulti organico e coeso.

PRIMA PROVA tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

Empatia e universalità dei diritti Lynn Hunt è Distinguished Research Professor presso la University of California (UCLA). Nel volume La forza dell’empatia ripercorre la storia del XVIII secolo alla ricerca della nascita dei diritti umani, individuandola in una serie di mutamenti culturali più generali che hanno trasformato il modo in cui gli esseri umani si relazionano tra loro. I diritti dell’uo-

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mo sono infatti il prodotto dell’immedesimazione nell’altro, del riconoscimento dell’altrui sensibilità come simile alla propria, dell’empatia. Eppure, il riconoscimento dei diritti sembra non essere sufficiente, ancora oggi, ad evitare guerre e violenza. Quali sono, dunque, le ragioni per le quali l’empatia, da sola, non basta?

L’uguaglianza, l’universalità e la naturalezza dei diritti hanno trovato espressione politica diretta per la prima volta nella Dichiarazione di indipendenza americana del 1776 e nella Dichiarazione francese dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789. Il Bill of Rights inglese del 1689 richiamava «gli antichi diritti e le antiche libertà» stabiliti dal diritto inglese e derivanti dalla storia inglese, ma non dichiarava l’uguaglianza, l’universalità o la naturalezza dei diritti. Per contro, la Dichiarazione di indipendenza asseriva che «tutti gli uomini sono creati uguali» e tutti sono dotati di «inalienabili diritti». Analogamente, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino proclamava che «gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti». Non gli uomini francesi, non gli uomini bianchi, non i cattolici, ma «gli uomini», che allora come ora significava non soltanto il genere maschile, ma le persone, cioè tutti gli appartenenti alla razza umana. In altre parole, in qualche momento tra il 1689 e il 1776 diritti che il più delle volte erano stati considerati come i diritti di una particolare categoria di persone – gli uomini inglesi nati liberi, per esempio – furono trasformati in diritti umani, in diritti naturali universali, che i francesi chiamarono les droits de l’homme, «i diritti dell’uomo». [...] I diritti umani sono difficili da definire, perché la loro definizione e addirittura la loro esistenza dipendono tanto dalle emozioni quanto dalla ragione. L’affermazione dell’ovvietà si fonda, in ultima istanza, su un richiamo emotivo: è convincente se fa risuonare qualcosa in ogni persona. Inoltre, abbiamo la piena certezza che un diritto umano sia in discussione quando la sua violazione ci fa inorridire. Rabaut Saint-Étienne sapeva di potersi richiamare alla consapevolezza implicita di ciò che non era «più accettabile». Riguardo al droit naturel, nel 1755 il notissimo illuminista francese Denis Diderot aveva scritto che «l’uso di questa parola è tanto comune che non esiste uomo che non sia convinto dentro di sé di conoscere con chiarezza il concetto. Questo sentimento interiore è comune al filosofo e all’ignorante». Come altre figure dell’epoca, Diderot fornì solo una vaga indicazione del significato di diritti naturali; «sono uomo», concluse, «e non ho altri diritti naturali realmente inalienabili che quelli dell’umanità». Ma aveva identificato la qualità più importante dei diritti umani: essi richiedevano un certo «sentimento interiore» largamente condiviso. [...] L’empatia si basa sul riconoscimento che gli altri sentono e pensano come noi, che la nostra sensibilità interiore è fondamentalmente simile. [...] Secondo il politologo Benedict Anderson, [la progressiva diffusione di] quotidiani e romanzi crearono la «comunità immaginata». [...] È immaginata non nel senso di artefatta, ma nel senso che l’empatia richiede fiducia, bisogna immaginare che l’altro sia simile a sé. Le descrizioni delle torture crearono questa empatia immaginata tramite una nuova

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visione del dolore. I romanzi la generarono suscitando nuove sensazioni riguardo alla vita interiore. Ciascuno a suo modo, essi rafforzarono la nozione di una comunità basata su individui autonomi ed empatici, che potevano rapportarsi con valori universali superiori, al di là dei legami familiari più stretti, delle affiliazioni religiose o persino delle nazioni. [...] I tempi moderni evidenziano un paradosso basato sulla distanza e sulla vicinanza. Da un lato, il diffondersi dell’alfabetizzazione e lo sviluppo della letteratura, dei quotidiani, della radio, del cinema, della televisione e di internet hanno permesso a un numero sempre maggiore di persone di immedesimarsi in altre che vivono in luoghi lontani e condizioni molto diverse. Le foto di bambini che muoiono di fame in Bangladesh o le notizie sulle migliaia di uomini e ragazzi trucidati a Srebrenica, in Bosnia, possono mobilitare milioni di persone e indurle a inviare denaro, generi di consumo e talvolta persino a portare esse stesse aiuto alle popolazioni di altri paesi o esortare i propri governi o le organizzazioni internazionali a intervenire. Dall’altro lato, si apprendono da fonte sicura notizie su come in Ruanda due etnie si siano brutalmente massacrate a vicenda per motivi etnici. Questa violenza ravvicinata non è affatto eccezionale o recente; da secoli ebrei, cristiani e musulmani tentano di spiegare perché il biblico Caino, figlio di Adamo ed Eva, uccise suo fratello Abele. [...] Se le moderne forme di comunicazione hanno diversificato gli strumenti attraverso i quali si può provare empatia con gli altri, esse non sono però riuscite ad assicurare che gli esseri umani agiscano sulla base di tale sentimento. L’ambivalenza riguardo all’efficacia dell’empatia emerse intorno alla metà del XVIII secolo, e fu espressa persino da coloro che si dedicarono a spiegarne i meccanismi. In Teoria dei sentimenti morali Adam Smith esamina come reagirebbe «un europeo dotato di umanità» nel venire a sapere che un terremoto ha provocato la morte di centinaia di milioni di persone in Cina. Egli dirà tutte le cose giuste, prevede Smith, ma poi tornerà ai suoi affari come se nulla fosse accaduto. Se invece sapesse di dover perdere il suo dito mignolo l’indomani, non chiuderebbe occhio tutta la notte. Sarebbe dunque capace di sacrificare la vita di centinaia di milioni di cinesi in cambio del suo dito mignolo? No di certo, secondo Smith. Ma che cosa impedisce a una persona di accettare l’offerta? «Non è il debole potere del senso di umanità», afferma Smith, che ci permette di contrastare l’interesse personale. Deve essere un potere più forte, quello della coscienza: «È la ragione, il principio, la coscienza, l’abitante dell’animo, l’uomo interiore, il grande giudice e arbitro della nostra condotta». L’elenco di Smith del 1759 – la ragione, il principio, la coscienza, l’uomo interiore – coglie un importante elemento dello stato attuale del dibattito sull’empatia. Che cos’è abbastanza forte da motivarci ad agire in base alla compassione che proviamo per i nostri simili? L’eterogeneità dell’elenco di Smith indica che lui stesso ebbe qualche difficoltà a rispondere all’interrogativo: «ragione» è forse sinonimo di «abitante dell’animo»? Smith sembrava credere, come molti attivisti odierni dei diritti umani, che un misto di richiami razionali ai princìpi dei diritti e di appelli emotivi alla compassione potesse rendere l’empatia moralmente efficace. I critici dell’epoca e molti critici attuali risponderebbero che è necessario stimolare un senso del dovere religioso superiore perché l’empatia funzioni. A loro parere, gli esseri umani non sono in grado di vincere da soli la loro innata propensione all’apatia o al male. [...] Adam Smith si concentra su una sola questione quando in realtà le questioni sono due.

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Smith esamina l’empatia con persone che vivono lontane come se appartenesse alla stessa categoria dei sentimenti che proviamo per le persone a noi vicine, pur riconoscendo che ciò con cui ci confrontiamo direttamente ci spinge ad agire molto più di quanto non facciano i problemi di persone lontane. Le due questioni sono quindi: che cosa ci può motivare ad agire sulla base dei sentimenti che proviamo per persone lontane e che cosa fa venire meno la compassione, al punto che riusciamo a torturare, mutilare e persino uccidere le persone a noi più vicine? Distanza e vicinanza, sentimenti positivi e sentimenti negativi: tutti devono far parte dell’equazione.

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Lynn Hunt, La forza dell’empatia. Una storia dei diritti dell’uomo, trad. di P. Marangon, Laterza, Bari-Roma 2018, pp. 8, 171-173

Comprensione e analisi 1. Quali documenti redatti nell’epoca moderna possono considerarsi fondamentali nel processo di riconoscimento dei diritti umani?

3. L’autrice riconosce come proprio della società contemporanea un paradosso, di cosa si tratta?

2. Spiega la relazione che intercorre fra il riconoscimento dei diritti umani e l’empatia.

4. Quale limite viene attribuito alla tesi di Adam Smith sulle cause che limitano l’empatia?

Produzione Lynn Hunt promuove una discussione di estremo interesse: a partire dal Settecento, l’Occidente si è dotato di strumenti normativi che riconoscono l’esistenza dei diritti dell’uomo in quanto tale e la tutela e difesa di tali diritti. La violazione dei diritti dell’uomo ci colpisce, in quanto, uomini noi stessi, siamo portati a immedesimarci nelle sofferenze dei nostri simili. Ma la riprovazione non sempre conduce ad un’azione di difesa a favore

di chi soffre e, soprattutto, l’empatia non frena le guerre. Perché? La domanda resta aperta, l’autrice non fornisce una soluzione. Prova a riflettere sul tema e a ipotizzare una possibile risposta alla domanda. Organizza quindi le tue argomentazioni in un testo organico che dia adeguata evidenza alla tua tesi e agli elementi a supporto. Puoi anche confutare opinioni discordi dalla tua, ma non rinunziare alla coesione.

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PRIMA PROVA tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo

Mondo rurale e classi dirigenti nella storia d’Italia Nel Volgo disperso Adriano Prosperi, professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, ripercorre la storia del mondo contadino nell’Italia dell’Ottocento. Nel brano proposto riflette sulle ragioni di una dimenticanza: nella storia,

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quella costituita dalle fonti scritte e iconografiche, il mondo rurale ha trovato scarsa menzione. Gli umili contadini furono nei fatti ignorati dalla cultura dominante: perché privi dei mezzi per farsi conoscere o per il timore che suscitavano?

Nelle campagne italiane abbiamo visto di recente tornare i contadini. Assomigliano a quelli del millennio testé concluso: magri, stracciati, a piedi scalzi. Lavorano come allora, dieci o dodici ore nelle infuocate ore dell’estate. Però, a ben guardare, delle differenze ci sono: molti di loro hanno la pelle più scura di quella dei contadini del tempo antico e le lingue che parlano sono quelle di paesi remoti. Differenze non così grandi da nascondere le somiglianze con i contadini di allora: questi arrivano in cerca di lavoro e di diritti, quelli se ne andavano spesso nel mondo cercando altrove lavoro e diritti che in Italia non avevano. Oggi non ci sono più quei mezzadri e quei braccianti che la Liberazione vide affollarsi ai seggi elettorali per godere finalmente di un diritto lungamente negato e per chiedere terra e giustizia sociale. Nelle campagne le viti e gli olivi sono curati da immigrati rumeni, senegalesi, nigeriani, cinesi. Figli e nipoti dei contadini di un tempo sono diventati altro – operai, commercianti, industriali, insegnanti, impiegati. Quel passato si allontana vertiginosamente, la memoria si cancella, nel mutamento che ha visto l’Italia diventare una grande potenza industriale. [...] Quali erano state le condizioni di vita dei lavoratori della terra in quel secolo XIX della formazione dell’Unità nazionale? Basta formulare la domanda per avere subito l’impressione di rivolgerci a un tempo lontanissimo, più di quanto possa dire un semplice conteggio degli anni. Remotissimi i volti, cancellate le voci e i pensieri. Nel mare di scritture conservate in archivi e biblioteche le tracce di mani contadine sono quasi soltanto segni di croce in calce a contratti colonici o stentati messaggi di figli emigrati. Scarse e in genere poco significative le fonti iconografiche. I pittori, gli incisori e a partire da un certo momento anche i fotografi, pur attirati dai paesaggi rurali, rappresentarono questi ultimi in genere lasciando fuori campo i contadini. [...] In realtà è difficile sostenere che i contadini europei non siano stati un soggetto storico attivo. Ma il modo in cui lo sono stati ha lasciato una scia di paura nella storia: le loro apparizioni sono sembrate ogni volta come il minaccioso risveglio di un gigante addormentato. Come dimenticare quella giaculatoria medievale che chiedeva a Dio protezione della furia dei «rustici»? E tanti altri ricordi si affacciano. [...] Quello dei contadini del Nord della Francia, protagonisti della premessa della Rivoluzione francese: ancora una vicenda storica sotto il nome della paura, la «grande peur». E non furono forse i contadini che, a partire da quello stesso scorcio del Settecento e nel primo Ottocento, assediarono le città con le insorgenze dell’Italia centro-settentrionale e i movimenti Sanfedisti dello Stato della Chiesa e del Regno di Napoli? La loro ombra restò sulla genesi dell’Unità d’Italia come quella di una grande forza capace di sconvolgere i disegni dei potenti: si pensi a quando l’arrivo in massa dei contadini in soccorso alla Milano in rivolta contro gli Austriaci spaventò la classe dominante lombarda che preferiva la garanzia d’ordine promessa dalla monarchia piemontese.

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analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

Con la vittoria dei moderati nacque un assetto statale dominato dalla sacralizzazione del diritto di proprietà, timoroso di ogni contagio di idee rivoluzionarie tra le classi subalterne. [...] Ai movimenti reali o temuti delle masse contadine si guardò come all’incombere di una minaccia da esorcizzare con ogni mezzo. Intanto, il rapporto città-campagna, un tema capitale della storia d’Italia, si fissò stabilmente nell’immagine dell’Italia come paese delle cento città. [...] Di fatto, a partire dall’Unità politica il nodo città-campagna doveva emergere come quello del rapporto tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno, questione di lunga durata del paese.

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Adriano Prosperi, Un volgo disperso. Contadini d’Italia nell’Ottocento, Einaudi, Torino 2019, ed. digitale

Comprensione e analisi 1. Sintetizza i termini del confronto (differenze e somiglianze) attuato dall’autore fra i contadini che popolano le campagne italiane ai nostri giorni e quelli che le popolavano diversi decenni fa. 2. Perché, pur essendo l’agricoltura la principale fonte di sostentamento degli italiani della civiltà pre-industriale, scarse sono le testimonianze e le tracce del mondo rurale, sia nelle fonti scritte che in quelle iconografiche?

3. Adriano Prosperi ripercorre vari eventi della storia europea nei quali la presenza della classe contadina ha avuto un ruolo di primo piano. Prova a ricordare le cause connesse alla rivolta contadina nella Francia del 1789 e a quella dei Sanfedisti nell’Italia del 1799. 4. Perché la «sacralizzazione del diritto di proprietà» (rr. 37-38) nell’Italia post-unitaria si collega al timore di sommosse da parte della popolazione contadina?

Produzione «Il complesso del comparto agroalimentare, che include agricoltura, silvicoltura e pesca e l’industria alimentare – scrive l’Istat nel rapporto sul­ l’andamento dell’economia agricola del 2018 –, ha segnato una crescita del valore aggiunto dell’1,8% in volume e dell’1,3% a prezzi correnti. Nel comparto si è formato il 3,9% del valore aggiunto dell’intera economia, somma di una quota del 2,1% del settore primario e dell’1,8% dell’industria alimentare. I redditi da lavoro dipendente in agricoltura silvicoltura e pesca sono aumentati del 4,2%; in particolare le retribuzioni lorde sono cresciute del 4,0%. Gli investimenti fissi lordi nel settore hanno registrato un significativo incremento (+4,1% in valori correnti e +2,5% in

volume)». C’è un ritorno alla terra dopo decenni di dimenticanza? Cosa ha contribuito a favorire questa crescita? Una ritrovata redditività non potrebbe contribuire a far decrescere lo sfruttamento dei lavoratori della terra di cui ancora oggi registriamo varie testimonianze? L’agricoltura può rappresentare davvero una leva per migliorare l’economia del nostro paese? Quali caratteristiche dovrebbe avere il nuovo imprenditore-contadino del XXI secolo rispetto alle classi rurali che hanno dominato la nostra storia? Rifletti sul tema proposto, puoi far riferimento a tue conoscenze ed esperienze personali, sviluppa quindi un testo di natura argomentativa che risulti organico e ­coeso.

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PRIMA PROVA tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo

In difesa dell’Illuminismo, nel XXI secolo Steven Pinker è scienziato cognitivo e professore di Psicologia all’Università di Harvard. In Illuminismo adesso, l’autore dimostra, dati alla mano, come la società attuale si trovi in una condizione di benes-

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sere ben maggiore rispetto a quelle delle epoche precedenti grazie anche alla diffusione delle idee illuministe. Esistono, tuttavia, dei segni di declino preoccupanti che vanno identificati e conosciuti.

Che cos’è l’Illuminismo? In un saggio del 1784 che aveva questa domanda come titolo, Immanuel Kant rispose che esso consiste nell’«uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso», dalla sua «pigrizia e viltà» nel sottomettersi alle «regole e formule» dell’autorità religiosa o politica. Il motto dell’Illuminismo, proclamava Kant, è «Sapere aude!», «Osa comprendere!», perciò la sua rivendicazione fondante è la libertà di pensiero e di parola. [...] Chi potrebbe essere contro la ragione, la scienza, l’umanesimo o il progresso? Le parole sembrano accattivanti, gli ideali ineccepibili. Definiscono le missioni di tutte le istituzioni della modernità: scuole, ospedali, enti benefici, agenzie di stampa, governi democratici, organizzazioni internazionali. Davvero questi ideali hanno bisogno di una difesa? Assolutamente sì. A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, la fiducia nelle istituzioni della modernità si è progressivamente ridotta, e il secondo decennio del XXI secolo ha visto l’ascesa di movimenti populisti che ripudiano platealmente gli ideali dell’Illuminismo. [...] Lungi dall’avere radici in ambienti popolari o dal veicolare il risentimento degli ignoranti, il disprezzo per la ragione, la scienza, l’umanesimo e il progresso ha un’origine di vecchia data nella cultura popolare e artistica dell’élite. [...] La mia principale reazione alla pretesa che l’Illuminismo sia l’ideale ispiratore dell’Occidente è: magari fosse vero! L’Illuminismo fu ben presto seguito da un contro-Illuminismo, e l’Occidente da allora è sempre stato diviso. Gli uomini non avevano quasi fatto in tempo ad affacciarsi alla luce e già veniva loro suggerito che, dopotutto, l’oscurità non era così male, che dovevano smettere di osare comprendere così tanto, che i dogmi e le formule meritavano un’altra possibilità, e che il destino della natura umana non era il progresso bensì il declino. Il movimento romantico si oppose con particolare durezza agli ideali illuministici. Rousseau, Johann Herder, Friedrich Schelling e altri negavano che la ragione potesse essere separata dall’emozione, che gli individui potessero essere considerati indipendentemente dalla loro cultura, che le persone dovessero fornire ragioni delle loro azioni, che i valori fossero validi in tutti i tempi e luoghi, e che pace e prosperità fossero fini desiderabili. Un essere umano è una parte di un tutto organico – di una cultura, di una razza, di una nazione, di una religione, di uno spirito o di una forza storica – e le persone dovrebbero incarnare in modo creativo l’unità trascendente di cui fanno parte. La lotta eroica, e non la soluzione dei problemi, è il bene supremo, e la violenza è inerente alla natura e non può essere soffocata senza svuotare la vita della sua vitalità. «Ci sono soltanto tre esseri degni di rispetto», scriveva Charles Baudelaire «il prete, il guerriero e il poeta. Conoscere, uccidere e creare». Sembra assurdo ma nel XXI secolo questi ideali contro-illuministici continuano a essere in auge in una gamma sorprendente di movimenti culturali e intellettuali d’élite. L’idea che

Prima Prova tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

dovremmo applicare la nostra ragione collettiva all’accrescimento della prosperità e alla riduzione della sofferenza è considerata grossolana, ingenua, conformista, da rammolliti. Steven Pinker, Illuminismo adesso. In difesa della ragione, della scienza, dell’umanesimo e del progresso, trad. di T. Cannillo, Mondadori, Milano 2018, ed. digitale

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Comprensione e analisi 1. Quali ideali propri del pensiero illuminista sono, secondo l’autore, messi in dubbio nell’epoca contemporanea?

3. In quali fasce sociali, oggi come in passato, ha trovato diffusione la cultura contro-illuminista?

2. Quando è iniziato il processo contro-illuminista nella società occidentale? Quali contro valori si sono così affermati?

4. Prova a schematizzare la struttura del brano proposto ponendo in rilievo gli snodi argomentativi.

Produzione La tesi di Steven Pinker può essere dibattuta. Siamo veramente in un’epoca che tende a svalutare la scienza e l’uso della ragione? Eppure gli studi scientifici e tecnologici hanno prodotto risultati inimmaginabili fino a qualche decennio orsono, in campi direttamente connessi al miglioramen-

to della vita dell’uomo. Quali segni oscurantisti si possono scorgere allora, e perché? Rifletti sul tema proposto ed elabora un testo argomentativo nel quale la tua tesi sia supportata da adeguati esempi. Puoi far riferimento alle tue conoscenze personali o di studio.

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PRIMA PROVA Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità • Prova guidata

tipologia C

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Essere in grado di competere con gli strumenti della storia

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Ogni documento – come ha ribadito con forza Le Goff1 – non è mai innocente e può essere anche falso. Infatti è il risultato di un montaggio, conscio o inconscio, della storia, dell’epoca e delle società che lo hanno prodotto, ma anche delle epoche e delle società successive, «durante le quali ha continuato a vivere, magari dimenticato, e durante le quali ha continuato a essere manipolato, magari dal silenzio». Non bisogna mai dimenticare che «il documento è monumento. È il risultato dello sforzo compiuto dalle società storiche per imporre al futuro – volenti o nolenti – quella data immagine di se stesse». Non può esserci un documento-verità, «ogni documento è menzogna. Sta allo storico non fare l’ingenuo». Stando così le cose, alla fin dei conti lo storico non può fare a meno di essere un po’ poliziotto (colui che ricerca gli indizi) e un po’ giudice (colui che interpreta le prove); sia gli storici sia i giudici «entrano in rapporto con fatti di cui non sono testimoni diretti» ma che «apprendono attraverso la mediazione di altri»: nel caso dello storico i mediatori sono coloro che hanno costruito e manipolato le fonti, nel caso del giudice la mediazione sta nel lavoro di chi ha raccolto la versione dei fatti. Paolo Sorcinelli, Viaggio nella storia sociale, Bruno Mondadori, Milano 2009

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Jacques Le Goff, Storia e memoria, a cura di F. Lusini, Einaudi, Torino 1996.

Produzione Paolo Sorcinelli, già professore di Storia sociale all’Università di Bologna, riflette sul mestiere dello storico a partire dalle parole di Jacques Le Goff: lo storico come poliziotto nella ricerca dei dati e giudice nell’interpretarli. Nell’era dell’accesso, in cui le fonti si moltiplicano (social, post, video, blog), il compito di ricerca e selezione delle informazioni diviene impervio, non solo per coloro che mirano a ricostruire il passato, ma anche per tutti coloro che cercano di conoscere e interpretare il presente. L’attitudine a selezionare e giudicare

le fonti diventa vitale in un mondo iperconnesso nel quale i dati informativi si moltiplicano. Non dovremmo quindi disporre degli strumenti dell’indagine storica per essere in grado di interpretare correttamente il presente? Le competenze dello storico coincidono con quei saperi – ricercati e ben remunerati – propri del data analyst del XXI secolo? Rifletti sul tema proposto ed elabora un testo di natura argomentativa nel quale la tua tesi e gli elementi a supporto siano esposti in forma organica e coesa.

Guida allo svolgimento

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Le ragioni per studiare la storia possono essere molteplici, ma riflettiamo mai sulle ragioni per le quali conoscere i fatti potrebbe essere importante almeno quanto comprendere come studiarli?

Possedere il metodo di ricerca, analisi, interpretazione e confronto dei dati che è alla base del lavoro dello storico è una competenza che può essere applicata in una moltitudine di contesti

Prima Prova tipologia C

Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo analisi del testo su tematiche di attualità • Prova guidata

di studio e lavorativi della nostra società contemporanea. Perché possiamo avanzare questa affermazione? In quali campi queste competenze possono risultare utili? Quali punti di contatto e di divergenza esistono fra un mestiere – quello dello storico – che è percepito spesso come distante dalla modernità e le professioni del futuro? Per sviluppare il tema proposto rifletti a partire da queste domande e procedi con il me-

todo inquisitivo, ponendoti altre domande che ne derivino e provando a fornire delle risposte. Elabora quindi una scaletta che tenga conto delle tue considerazioni e sia supportata da esempi. Organizza il tuo pensiero in un elaborato che risulti organico e coeso. Puoi suddividere il testo in paragrafi e fornire all’esposizione un titolo che rappresenti la sintesi della tua riflessione sul tema.

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PRIMA PROVA Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità attualità. Prova guidata

tipologia C

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Musica e idea nazionale

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Gaetano Donizetti, musicista e celebre operista vissuto fra il 1797 e il 1848. 2 Saverio Mercadante, violinista, direttore d’orchestra e compositore, la sua data di nascita è incerta: 1

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Al principio degli anni Quaranta [dell’Ottocento], uno dei più potenti veicoli di diffusione dell’idea nazionale era la musica. L’opera era una passione da un capo all’altro della penisola, e attirava tutte le classi. Le recite serali delle ultime opere di Donizetti1, Mercadante2 o Ricci3 erano le uniche occasioni in cui le autorità permettevano regolarmente al pubblico di manifestare un sentimento collettivo. I teatri erano microcosmi della società urbana. I palchi appartenevano all’aristocrazia e, come nei salotti, vi era molto forte la presenza femminile. L’area delle poltrone di platea assomigliava a una piazza: affollata da studenti, soldati, mercanti e professionisti della classe media, era un mondo quasi esclusivamente maschile. In alto, in piccionaia, quasi celate alla vita, c’erano le classi più povere: artigiani, piccoli commercianti, bottegai e servitori. Il fracasso e la confusione erano ininterrotti, e mancava il più piccolo segno di quel silenzio reverenziale che nell’Europa settentrionale stava diventando la norma nelle sale dedicate ai concerti sinfonici. [...] I governi della Restaurazione s’erano energicamente impegnati a promuovere gli spettacoli d’opera e la frequentazione dei teatri. Nei decenni post-1815 furono costruiti in Italia, soprattutto nel Nord e nel Centro, più di 600 nuovi teatri. La spinta era in parte civica, una continuazione dell’idea napoleonica che i pubblici divertimenti fossero un buon mezzo per incoraggiare i legami sociali in un ambiente controllato, adatto altresì a tenere la gioventù maschile lontana dalle strade e fuori dalle taverne nelle ore notturne. I censori badavano a che i testi non contenessero materiale sovversivo, e la polizia teneva strettamente d’occhio la platea e le gallerie per prevenire tumulti. Inoltre il fatto che di solito i teatri principali fossero dedicati a membri della famiglia reale e godessero del patrocinio del sovrano e della sua corte era considerato politicamente vantaggioso: il principe e i suoi sudditi erano uniti nello svago. Il problema era che un ambiente che nei tempi tranquilli incoraggiava le pubbliche manifestazioni di fedeltà e obbedienza, in un clima meno favorevole poteva tramutarsi velocemente in una tribuna per le proteste. Un rovesciamento del genere avvenne negli anni Quaranta, quando il giovane Giuseppe Verdi colse alla perfezione il montare in Italia di uno stato d’animo fiduciosamente, vigorosamente patriottico. Può darsi che i sentimenti personali di Verdi per l’«Italia» non fossero fortissimi: le testimonianze al riguardo scarseggiano, e per tutta la vita restò attaccato innanzitutto al grigio, piatto paesaggio agricolo intorno a Busseto, nel contado di Parma, dov’era nato (tecnicamente, cittadino francese) nel 1813. Ma aveva un’acuta percezione, condivisa dai suoi editori, di ciò che il pubblico voleva, e l’uno e gli altri sceglievano con grande scaltrezza le strategie da impiegare per scongiurare l’intervento dei censori. Nabucco (1842), con il suo tema di un popolo asservito che brama la libertà e il grande coro patriottico «Va’ pensiero» («Oh, mia patria sì bella e perduta»), evitò la matita blu grazie in parte all’«ortodossa» ambientazione religiosa; e lo stesso vale probabilmente

sembra sia nato a Napoli nel 1797; è morto – sempre a Napoli – nel 1870. 3 I fratelli Luigi (1805-1859) e Federico Ricci (1809-1877) furono compositori italiani.

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Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo analisi del testo su tematiche di attualità

per l’opera successiva di Verdi, I Lombardi alla prima crociata (1843), il cui successo fu quasi altrettanto grande, e che era dedicata a Maria Luisa d’Austria (forse per assicurarsi un supplemento di protezione contro una possibile accusa di convinzioni sovversive). [...] Ma ciò che negli anni Quaranta fece dell’opera un così potente veicolo di diffusione dei sentimenti nazionali non erano tanto le intenzioni dei compositori, quanto la reattività del pubblico (o di parti del pubblico), pronto a imporre una lettura politica dei libretti e a trasformare gli spettacoli in occasioni di dimostrazioni patriottiche. E a questo riguardo i censori potevano fare ben poco, specialmente nel 1846-48, quando ovunque nella penisola i governi dovettero piegarsi davanti all’onda di marea dell’euforia liberale. Già alla prima rappresentazione dei Lombardi (1843) il verso che incita i crociati alla battaglia contro gli infedeli – «La santa Terra / Oggi nostra sarà» – fu accolto da grida di «Sì! Sì!» e da fragorosi applausi. E a metà degli anni Quaranta praticamente ogni allusione alla «patria» o alla «guerra» rischiava di scatenare reazioni analoghe, anche nel caso di opere in cui in precedenza non era stato scorto nessun significato politico. Un esempio è la Norma di Bellini (1831), che nel 1846-47 diventò improvvisamente un’opera «patriottica» (spicca a questo riguardo il coro dei Druidi, che insieme con Oroveso intona «Guerra, guerra!»), malgrado gli oppressori fossero gli antichi romani. Accadeva talvolta che l’entusiasmo tracimasse dal teatro nelle strade (probabilmente con l’aiuto di un precedente lavoro organizzativo), come avvenne a Palermo nel novembre 1847, quando un’aria della donizettiana Gemma di Vergy (1834), che conteneva le parole «mi togliesti e core, e mente, / patria, nome, e libertà», suscitò una tempesta di applausi e violenti scontri con la polizia. Probabilmente i due versi erano sfuggiti all’attenzione dei censori perché si trattava di una storia d’amore, gelosia e vendetta, all’apparenza totalmente priva di risonanze politiche.

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Christopher Duggan, La forza del destino. Storia d’Italia dal 1796 a oggi, trad. di G. Ferrara degli Uberti, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 174-177

Produzione L’ascolto dell’opera fu un importante veicolo di diffusione e di manifestazione dei nascenti sentimenti patriottici nella penisola della prima metà dell’Ottocento. La musica svolge ancora un ruolo, se non di natura politica, quantomeno sociale? Esistono musiche o canzoni in grado di produrre

una maggior coesione sociale nel nostro paese? La nostra identità come popolo italiano si trasmette ancora anche attraverso la musica? Rifletti sul tema proposto e componi un testo di natura espositiva-argomentativa nel quale i dati e la tua tesi siano esposti in forma organica e coesa.

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PRIMA PROVA Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità attualità. Prova guidata

tipologia C

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La diminuzione – non percepita – della violenza nel mondo contemporaneo

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Ci crediate o no, e so che la maggior parte di voi non ci crede, nel lungo periodo la violenza è diminuita, e oggi viviamo probabilmente nell’era più pacifica della storia della nostra specie. Di certo tale diminuzione non è stata uniforme, non ha azzerato la violenza e non è garantito che continui. Ma è un fatto indubbio, visibile su scale che vanno da millenni ad anni, dalle dichiarazioni di guerra alle sculacciate ai bambini. Il declino della violenza ha toccato ogni aspetto della vita. L’esistenza quotidiana cambia molto se si è assillati dalla preoccupazione di essere rapiti, violentati o uccisi, ed è difficile sviluppare arti raffinate, studi o commerci se le istituzioni che li supportano sono saccheggiate e messe a ferro e fuoco in un tempo uguale a quello che è servito per allestirle. La traiettoria storica della violenza non tocca soltanto lo stile di vita, ma anche il modo di concepirla. Che cosa può esserci di più fondamentale, per la nostra idea di senso e di scopo, della risposta alla domanda se gli sforzi del genere umano, nel lungo periodo, ci abbiano lasciato in condizioni migliori o peggiori? [...] Possiamo vedere il mondo attuale come un incubo di criminalità, terrorismo, genocidio e guerra, o viceversa come un periodo che, sul metro di misura della storia, è benedetto da livelli di pacifica coesistenza senza precedenti. [...] [Alcuni esempi] La rivolta etnica mortale non è un’invenzione del XX secolo. Pogrom è una parola russa che, in origine, indicava le sommosse antiebraiche frequenti nel XIX secolo nella Zona di residenza, area di insediamento coatto creata nel 1791 per gli ebrei dell’impero russo; e tali sommosse non rappresentavano che l’ultima ondata di un millennio di massacri intercomunitari di ebrei in Europa. Nel XVII e XVIII secolo, in Inghilterra, scoppiarono centinaia di rivolte mortali contro i cattolici che, fra altre misure, portarono a una legge, il Riot Act, che un magistrato era tenuto a leggere in pubblico alla folla inferocita minacciando di pena capitale chiunque non si fosse subito disperso. Nel mondo anglofono questo metodo di controllo delle rivolte è ricordato nell’espressione «leggere il Riot Act»1. Anche gli Stati Uniti hanno una lunga storia di violenza intercomunitaria. Nel XVII, XVIII e XIX secolo fu preso di mira da rivolte mortali pressoché ogni gruppo religioso, dai pellegrini ai puritani, ai quaccheri, ai cattolici, ai mormoni e agli ebrei, oltre a comunità di immigrati quali tedeschi, polacchi, italiani, irlandesi e cinesi. E la violenza intercomunitaria contro alcune popolazioni di nativi d’America fu così estrema da potere essere definita genocida. Se il governo federale non perpetrò nessun palese genocidio, procedette più volte a pulizie etniche. La deportazione forzata di «cinque tribù civilizzate» dalle loro terre nel Sudest all’attuale Oklahoma lungo il cosiddetto «Sentiero delle lacrime» provocò la morte per malattie, fame ed esposizione alle intemperie di decine di migliaia di esseri umani. Ancora negli anni Quaranta del secolo scorso 100.000 americani di origine giapponese furono chiusi in campi di concentramento, semplicemente perché appartenevano alla stessa razza della nazione con cui gli Stati Uniti erano in guerra. Ma a subire più a lungo, negli Stati Uniti, una violenza intercomunitaria e assecondata dal governo sono stati gli afroamericani. [...]

L’espressione indica l’atto di redarguire duramente qualcuno, fornendo un severo ammonimento.

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Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo analisi del testo su tematiche di attualità

In Europa le rivolte di ogni genere iniziarono a diminuire verso la metà del XIX secolo, mentre negli Stati Uniti le rivolte mortali cominciarono a scemare sul finire del secolo e, negli anni Venti, erano ormai avviate a un definitivo tramonto. [...] Linciaggi e rivolte razziali sono diminuiti anche per altri gruppi etnici e in altri paesi. Gli attacchi dell’11 settembre e gli attentati di Londra e Madrid furono esattamente il tipo di provocazioni simboliche che, in decenni precedenti, avrebbero potuto portare in tutto il mondo occidentale a sommosse antimusulmane. Invece non ve ne furono, e nel 2008 un rapporto sulla violenza contro i musulmani, redatto da un’organizzazione per i diritti umani, non poté citare in Occidente un singolo caso inequivocabile di morte dovuta a odio antimusulmano.

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Steven Pinker, Il declino della violenza. Perché quella che stiamo vivendo è probabilmente l’epoca più pacifica della storia, trad. di M. Parizzi, Mondadori, Milano 2013, ed. digitale

Produzione Il declino della violenza di Steven Pinker, scienziato cognitivo e professore all’Università di Harvard, è un testo che ha suscitato pareri contrastanti. A fronte di coloro che si affidano alla innumerevole quantità di dati che l’autore raccoglie e avvalorano la tesi che sì, è vero, viviamo nell’epoca più pacifica della storia, si pongono quanti ne criticano la tendenza a trasformare dati oggettivi (la diminuzione di morti violente) in valori. Sta di fatto che le sue parole suscitano un dibattito che è bene approfondire: viviamo davvero in un mondo che ha dimostrato di disattendere l’uso della violenza per la risoluzione dei conflitti, oppure no?

Il fatto che ogni giorno balzino alla cronaca fatti connessi alla discriminazione di genere è segno di civiltà (sono pochi e li notiamo) oppure di un perdurare della violenza nel nostro quotidiano? Siamo davvero migliori dei nostri padri? Rifletti sul tema proposto e organizza il tuo pensiero in un testo di natura argomentativa in cui la tesi sia sostenuta da prove a supporto. Puoi far riferimento a conoscenze di studio e personali, smentire i pareri contrari al tuo punto di vista, presta però sempre attenzione alla coesione interna del testo facendo un corretto uso dei connettivi e, eventualmente, dell’articolazione in paragrafi.

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PROVE PER IL V ANNO

PRIMA PROVA tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

Fra memoria e oblio: la force noire Ogni guerra miete le sue vittime. Alcune meritano, tuttavia, maggiore attenzione sui libri di storia rispetto ad altre. Carlo Greppi, storico e scrittore, collaboratore di Rai Storia e membro del Comitato scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, ci ricorda il ruolo dei contingenti di colore

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assoldati dalle potenze europee per combattere al fronte durante la prima guerra mondiale. Il ricordo del loro ruolo diviene un’occasione per riflettere sulla memoria collettiva e sul processo di selezione delle informazioni che spesso viene operato.

C’è un cimitero a meno di tre chilometri da Ventimiglia, comune al confine con la Francia dove da tre anni sono incagliati centinaia di ragazzi che non riescono a passare la frontiera. Si chiama cimitero del Trabuquet (trabucco, la macchina d’assedio medievale) e si trova a Mentone. Vi sono seppelliti 1.137 combattenti della grande guerra. Tra il 2008 e il 2009 l’associazione Mémoire du tirailleur sénégalais li aveva identificati, classificando le informazioni e confrontandole con quelle del ministero della difesa francese. Il 1° novembre 2012 è stato inaugurato un memoriale per ricordarli. Erano giovani e nel corso del primo conflitto mondiale si trovavano in Costa Azzurra, nell’angolo più estremo della Francia sudoccidentale. Erano ricoverati negli ospedali della zona per le ferite e le malattie contratte durante la guerra. Erano tutti africani. Come c’erano finiti? Rispondere a questa domanda permette di far emergere una storia a lungo dimenticata o ignorata, che racconta qualcosa anche del mondo di oggi. La force noire

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All’inizio del novecento la Francia aveva già una lunga tradizione di reclutamento nelle colonie, e il primo battaglione di tirailleur (tiratori scelti) fu formato nel 1857 lungo le coste del Senegal, tra le prime zone cadute sotto il dominio coloniale. Ma presto erano finiti tra loro soldati provenienti da tutta l’Africa occidentale francese (Aof), un territorio di quasi cinque milioni di chilometri quadrati. Oltre ai 31mila uomini già schierati allo scoppio della guerra, tra il 1914 e il 1918 Parigi ne arruolò altri 161mila. Era un disegno teorizzato da tempo, che portò circa 30mila persone a morire per i colonizzatori. [...] Il clima dell’epoca era saturo d’odio, generato anche dalle “avventure” coloniali. La spartizione delle terre d’oltremare – avvenuta tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento – aveva contribuito a creare le condizioni per il divampare del primo conflitto mondiale, rilanciando l’ideologia nazionalista nella sua tendenza più aggressiva favorevole alla guerra di conquista. E l’area colpita più duramente dal feroce appetito europeo, insieme a quella del Pacifico, fu l’Africa. La Francia e l’alleato Regno Unito – le due potenze che con la Russia formarono la triplice intesa – nel 1914 tenevano saldamente in mano i due imperi più vasti del mondo e controllavano più di metà dell’Africa, appunto. Oltre al Belgio – un paese minuscolo con in mano una colonia gigantesca, il Congo – e alla presenza di portoghesi, spagnoli e italiani, l’altro paese che aveva occupato porzioni rilevanti del continente era la Germania. Tra l’agosto e il settembre del 1914, con due spedizioni congiunte, l’impero francese e quello britannico attaccarono l’Africa coloniale tedesca in Togo e in Camerun, e poi militarizzarono in maniera crescente le colonie per espandere le proprie conquiste e per

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avere sempre nuovi uomini ai posti di combattimento. Secondo John Reader – scrittore e fotografo, profondo conoscitore del continente – nel conflitto furono coinvolti più di due milioni e mezzo di africani, vale a dire quasi il 2 per cento della popolazione: «Neppure la tratta degli schiavi era giunta a tanto», ha scritto Reader1. Quell’area del pianeta occupata e depredata si rivelò così un bacino apparentemente inesauribile di truppe, volontarie o arruolate con le minacce e la violenza, in spedizioni che ricordano, in effetti, la tratta degli schiavi. La conversione di intere regioni alle necessità belliche indebolì l’economia locale. Per sfuggire al reclutamento forzato, ovunque si registrarono tentativi di fuga, ribellioni e passaggi di frontiera nei paesi confinanti. In Europa i battaglioni di tirailleur senegalesi furono mandati al massacro. Così come le truppe indiane arruolate dai britannici, i quali però rifiutarono di far combattere gli africani contro o con i bianchi, nonostante gli appelli di alcuni esponenti di spicco della gerarchia militare a costituire una million black army e a non lasciare «nel continente nero una massa di materiale nero da combattimento che potrebbe essere usata per sopraffare, la prossima estate, il nemico sul fronte che conta – quello occidentale», scrisse nel 1916 il maggiore Darnley Stuart-Stephens sulla English Review. [...] Al cimitero del Trabuquet di Mentone una statua dello scultore Joel Vergne rappresenta quelli che della grande guerra sono i veri militi ignoti, come ha scritto Pankaj Mishra sul Guardian2, in un articolo tradotto da Internazionale. Come lui anche lo storico Santanu Das3 stima in più di quattro milioni i “non bianchi” mobilitati nel conflitto, oltre la metà dei quali africani. Ragazzi obbligati a combattere una guerra non loro, che sono stati poi dimenticati. Il giovane tirailleur che guarda oltre il mar Mediterraneo, dov’è la sua terra natale, rappresenta questo oblio. A indignarci non dovrebbe essere tanto il fatto che alcuni dei migranti incagliati al confine tra l’Italia e la Francia potrebbero essere i suoi pronipoti. Di fronte alle frontiere chiuse di oggi e al disprezzo nei confronti degli stranieri, a indignarci dovrebbe essere il fatto che tanti sono rimasti sordi e indifferenti agli insegnamenti della storia.

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Carlo Greppi, I militi ignoti dimenticati della I Guerra mondiale, «Internazionale», 15 dicembre 2018

John Reader, Africa. Biografia di un continente, trad. di M. Nicola, Mondadori, Milano 2017. 2 Pankaj Mishra, How colonial violence came home: the ugly truth of the First World War, «The Guardian», 10 novembre 2017. 1

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Santanu Das, Experiences of colonial troops, 29 gennaio 2014, British Library website.

Comprensione e analisi 1. A cosa allude Carlo Greppi quando ricorda che a Ventimiglia «da tre anni sono incagliati centi­ naia di ragazzi che non riescono a passare la frontiera» (rr. 2-3)?

e quali conseguenze ciò produsse per i paesi di provenienza delle truppe?

2. Quali sono le cause che portarono all’impiego di militari di colore nella prima guerra mondiale

4. Quale messaggio ci vuole comunicare l’autore in questo articolo pubblicato il 15 dicembre 2018?

3. Perché i soldati di Mentone sono «quelli che della grande guerra sono i veri militi ignoti» (r. 52)? 57

prima Prova tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

Produzione La memoria storica – come dimostra Carlo Greppi – è spesso selettiva. Tutti conosciamo – o dovremmo conoscere – i principali eventi della prima guerra mondiale, ma pochi hanno probabilmente avuto notizia di quanto lo storico qui ci racconta. La scelta di cosa narrare dipende dal momento storico in cui scaturisce il racconto, dalla rilevanza dell’evento o dalla dimensione culturale propria del narratore? La narrazione può essere influen-

zata da fattori di contesto (politico, sociale, religioso, economico, ecc.) oppure è sempre oggettiva? Il rapporto fra storia e memoria è assolutamente complesso, non è possibile fornire una risposta esaustiva alle domande avanzate, ma studiare la storia significa anche essere in grado di riflettere criticamente sul suo svolgersi. Prova a ragionare sul tema e a sviluppare le tue idee in un testo argomentativo che risulti organico e coeso.

Guida allo svolgimento COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

1. A cosa allude Carlo Greppi quando ricorda che a Ventimiglia «da tre anni sono incagliati centinaia di ragazzi che non riescono a passare la frontiera» (rr. 2-3)?

La domanda prevede una risposta con la quale si dimostri la conoscenza, anche essenziale, di eventi connessi all’attualità. Sapere interpretare il presente anche attraverso la conoscenza del passato è una delle competenze chiave per coloro che si accingono a svolgere un Esame di Stato. La risposta a questa domanda, se non sei a conoscenza dei fatti cui allude l’autore, la puoi trovare facilmente grazie ad una ricerca in rete usando una chiave quale, per esempio,“migranti, Ventimiglia”. Cerca, tuttavia, di approfondire la tua conoscenza del mondo che ti circonda, in particolare nel corso di quest’anno scolastico. Solo un cittadino attento alla contemporaneità può essere dotato di uno spirito critico adeguato ad argomentare, in modo non banale, a partire da eventi storici.

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2. Quali sono le cause che portarono all’impiego di militari di colore nella prima guerra mondiale e quali conseguenze ciò produsse per i paesi di provenienza delle truppe?

La domanda richiede di rintracciare nel testo le cause e le conseguenze di un fenomeno. Saper identificare cause e conseguenze è una competenza chiave in ambito storico.

3. Perché i soldati di Mentone sono «quelli che della grande guerra sono i veri militi ignoti» (r. 52)?

Per rispondere a questa domanda devi attuare delle considerazioni che vadano oltre il testo proposto e porti nuove domande: Perché questi militari possono considerarsi “ignoti”? Quanto spazio viene dato al ruolo della force noire nei manuali di storia? Esistono cerimonie commemorative in loro onore che abbiano una rilevanza mediatica importante? Prova a riflettere a partire da questi suggerimenti e a fornire una tua risposta alla domanda data.

Rileggi attentamente il testo proposto e sottolinea con colori diversi gli elementi che, a tuo avviso, sono inerenti alle motivazioni del fenomeno descritto e quelle che rappresentano le sue conseguenze. Riformula quindi a parole tue quanto hai appreso.

prima Prova tipologia B

analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

4. Quale messaggio ci vuole comunicare l’autore in questo articolo pubblicato il 15 dicembre 2018?

L’articolo di Carlo Greppi è pubblicato su un periodico, «Internazionale”, in un periodo doppiamente significativo. Il 2018 segna un importante anniversario in relazione alla prima guerra mondiale; il dicembre del 2018 è caratterizzato da eventi occorsi alla frontiera fra Italia e Francia che ci portano a voler ricordare quel passato. Se hai saputo rispondere alla prima domanda, sarai in grado di fornire una risposta esaustiva anche a questa.

PRODUZIONE

INDICAZIONI OPERATIVE

La memoria storica – come dimostra Carlo Greppi – è spesso selettiva. Tutti conosciamo – o dovremmo conoscere – i principali eventi della prima guerra mondiale, ma pochi hanno probabilmente avuto notizia di quanto lo storico qui ci racconta. La scelta di cosa narrare dipende dal momento storico in cui scaturisce il racconto, dalla rilevanza dell’evento o dalla dimensione culturale propria del narratore? La narrazione può essere influenzata da fattori di contesto (politico, sociale, religioso, economico, ecc.) oppure è sempre oggettiva? Il rapporto fra storia e memoria è assolutamente complesso, non è possibile fornire una risposta esaustiva alle domande avanzate, ma studiare la storia significa anche essere in grado di riflettere criticamente sul suo svolgersi. Prova a ragionare sul tema e a sviluppare le tue idee in un testo argomentativo che risulti organico e coeso.

Il testo d’appoggio ti fornisce delle domande che possono aiutarti a identificare gli argomenti di discussione. Il tema è complesso, il rapporto fra storia e memoria, e può essere affrontato cercando di identificare alcuni elementi significativi.

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Le domande fornite possono aiutarti nella riflessione: – la prima ti chiede di porti dei quesiti in merito al ruolo del narratore di eventi storici: la narrazione storica può considerarsi oggettiva, oppure rappresenta una lente utile a interpretare gli eventi, uno strumento ottico che corrisponde alla visione dei fatti propria di un dato autore? – la seconda domanda può esserti utile per completare la riflessione sul rapporto fra evento e narrazione storica. Se hai compiuto letture storiografiche, sai bene che l’interpretazione degli eventi storici non è immune da cambiamenti nel corso del tempo. Se, per esempio, narro un fatto di cui sono stato un testimone diretto o se lo racconto interpretandolo a partire dall’analisi di fonti primarie, la mia narrazione potrà non essere identica. Uno storico contemporaneo oppure uno storico del Novecento guarderanno ai conflitti mondiali dalla stessa prospettiva? Cosa potrebbe influenzare il loro racconto? Il tono o anche la scelta dei dati da esporre? Raccogli le tue considerazioni in una scaletta e sviluppa gli argomenti da te scelti in un testo di natura argomentativa che renda esplicita al lettore la tua tesi e gli elementi a supporto. Per guidare il lettore a meglio comprendere il tuo ragionamento, puoi suddividere il testo in paragrafi che rappresentino i diversi snodi argomentativi. Ricorda di fare buon uso dei connettivi fra le varie parti.

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PRIMA PROVA tipologia B

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

Masse e propaganda durante il nazismo Ian Kershaw, considerato il più autorevole storico del nazismo, già docente di Storia moderna nelle Università di Bochum, di Nottingham e di Sheffield, membro della British Academy e della Royal Historical Society, riflette sul ruolo assunto dalla propaganda nazista nell’accrescere il consenso al regi-

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me. Fu il carisma individuale del Führer oppure fu la scelta di un’attenta politica di comunicazione, resa ancora più efficace dalla crisi economica che la Germania di quegli anni stava sperimentando, a garantire la partecipazione delle masse al nazismo?

Il richiamo esercitato da un capo carismatico sulle masse dipende solo indirettamente dalle reali doti personali e qualità caratteriali di questo capo. Nel nostro caso, le impressioni soggettive furono molto più importanti della realtà. Solo pochi dei 13 milioni di elettori che avevano votato per il leader della NSDAP nel 1932 lo avevano conosciuto di persona: l’Hitler di cui avevano sentito parlare, di cui avevano letto nei giornali o che avevano visto in qualche comizio elettorale e in manifestazioni di massa era essenzialmente un’immagine creata e abbellita dalla propaganda. La “promozione” di questa immagine rappresentò, quindi, una questione di vitale importanza, così come indispensabile fu la predisposizione del popolo ad accettare tale immagine. Verosimilmente, molti sostenitori del nazionalsocialismo si erano convertiti almeno in parte alle idee hitleriane già prima di incontrare il Führer in carne e ossa o di soccombere al suo «carisma» in qualche altro modo. [...] Nella crisi generale dello Stato messa in moto dalla Grande depressione, con l’economia in subbuglio e l’autorità politica in pieno marasma, le doti retoriche di Hitler diedero il meglio di sé. Il futuro dittatore fu, più di ogni altro leader nazionalsocialista (persino più di Goebbels), colui che seppe dar voce alle ansie e ai pregiudizi più radicati, attraverso le argomentazioni banalizzanti e a tinte forti tipiche del suo stile oratorio. La sua forza espressiva, la semplicità delle alternative poste, la saldezza delle sue convinzioni e la grandiosa visione del futuro da lui prospettata concorsero a formare un messaggio politico capace di attrarre irresistibilmente chi era già ben disposto verso di esso. Presi in sé, i testi dei discorsi hitleriani non erano altro che un catalogo di banalità e luoghi comuni, ma calati nell’atmosfera particolare, nell’ambientazione spettacolare e nell’aura mistica di grandezza messianica che la propaganda nazista aveva costruito attorno a Hitler, riuscivano a elettrizzare le masse – accolte in un bric-à-brac1 scenografico più adatto alle adunate revivalistiche che ai normali comizi politici, e fatto apposta per predisporre positivamente l’emotività degli ascoltatori. Proprio alla propaganda sono dedicati alcuni passaggi-chiave del Mein Kampf. Hitler dice, infatti, di aver considerato la gestione della propaganda come il compito di gran lunga più importante nel Partito nazionalsocialista dei primi anni: essa doveva dimostrare «la progressiva diffusione dell’Idea» e tentare «di piegare l’intera nazione alla forza di una dottrina». Sull’altro versante, l’organizzazione aveva il compito di guadagnare nuovi attivisti, gli avvocati militanti della causa «senza i quali la vittoria del movimento non

Espressione usata per indicare cianfrusaglie, oggetti vecchi e di scarso valore.

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analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

sarebbe semplicemente possibile». A suo modo di vedere, il vero leader doveva essere più un agitatore che un enunciatore di programmi teorici: raramente, egli scrisse, un grande teorico era stato anche un grande capo, «perché comandare significa essere capaci di muovere le masse». Quanto Hitler ritenesse poco utile ai fini dell’allargamento del consenso tra le masse la discettazione teorica su questioni strettamente dottrinarie, risulta con chiarezza categorica da un discorso privato pronunciato nel 1926 di fronte al pubblico selezionato del Circolo nazionale di Amburgo. «Prima di tutto – affermò in quell’occasione – bisogna smetterla con l’idea che le masse possano saziarsi di concetti ideologici. La comprensione è una piattaforma troppo instabile per le masse. L’unica emozione che non vacilla è l’odio». Subito dopo aggiunse che le masse sentono la forza più di ogni altra cosa e che il singolo individuo, calato nella folla «come un verme insignificante», percepisce soltanto la forza e la giustezza del movimento, «vedendo 200.000 persone unite nella lotta per un ideale che egli non può nemmeno capire, e che non deve necessariamente capire. Egli ha una fede, e questa fede è rinforzata giorno per giorno dalla visibilità del suo potere». Sempre allo stesso proposito, un commentatore coevo scrisse nel 1931 quanto segue: «Secondo Hitler, tutta la propaganda deve adeguare il suo livello intellettuale alla capacità di comprensione del più stupido dei suoi destinatari. Meglio, allora, il banale argomento del bianco contro il nero, che i pensieri sofisticati [...]. Il tema deve avere effetto esplosivo [...]. Non c’è spazio per discorsi saggi da concilio. L’unico scopo è aizzare le ansie e le passioni e infiammare la folla fino al parossismo»2. [...] Le tecniche propagandistiche hitleriane avrebbero, tuttavia, riscosso ben poco successo senza il concorso di quelle condizioni esterne che resero attraente l’alternativa nazionalsocialista sul «mercato» elettorale della Germania weimariana. Senza la depressione economica, senza il peggioramento della crisi istituzionale e senza la disintegrazione dei partiti borghesi liberal-conservatori, questo «mercato» di massa non sarebbe mai stato alla portata della NSDAP e Hitler sarebbe restato un elemento assolutamente minoritario collocato in un’area marginale e per così dire «folkloristica» del sistema politico.

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Ian Kershaw, Hitler e l’enigma del consenso, trad. di N. Antonacci, Laterza, Roma-Bari 2008, pp. 63-68

2

Martin Broszat, German National Socialism 1919-1945, Clio Press, Santa Barbara 1966, pp. 63-64.

Comprensione e analisi 1. Quali sono i fattori di contesto (economico, politico, sociale, culturale) che contribuiscono – secondo l’autore – a dare rilievo alle parole propagandistiche diffuse da Hitler? 2. Come dovevano essere articolati i discorsi di fronte alle masse secondo Hitler? A quali esigenze dovevano rispondere e perché?

3. Perché Hitler riteneva che «il vero leader doveva essere più un agitatore che un enunciatore di programmi teorici» (rr. 33-34)? 4. Le parole del leader del NSDAP dimostrano la sua partecipazione alle sofferenze e il suo rispetto verso il popolo tedesco? 61

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Analisi e produzione di un testo argomentativo • Prova guidata

Produzione Le parole sono lo strumento principe della politica: nella storia sono state nelle mani di sovrani, capi militari, uomini politici; strumento utile per animare una rivoluzione, per intraprendere una guerra contro un nemico – qualche volta – e anche per cercare di arrivare ad una mediazione di fronte a popolazioni in rivolta. Le parole utilizzate dai leader dei regimi totalitari sorti nell’Europa del Novecento hanno caratteristiche che le accomunano, nonostante i punti di approdo dei loro discorsi siano diversi. A partire

dalle tue conoscenze storiche, rifletti sui termini e sulle modalità della propaganda politica attuata nell’Europa del primo dopoguerra. Puoi prendere spunto da discorsi, scritti programmatici, documenti prodotti dai leader per ottenere il consenso e riflettere quindi sugli elementi retorici e sulle tematiche scelte a scopo di propaganda. Sviluppa quindi le tue riflessioni in un testo di natura espositiva-argomentativa nel quale i confronti risultino attuati in modo chiaro e siano supportati da adeguata evidenza.

Guida allo svolgimento

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COMPRENSIONE E ANALISI

INDICAZIONI OPERATIVE

1. Quali sono i fattori di contesto (economico, politico, sociale, culturale) che contribuiscono – secondo l’autore – a dare rilievo alle parole propagandistiche diffuse da Hitler?

La domanda richiede di isolare nel testo gli elementi di contesto che concorrono alla realizzazione di un dato. Rileggi attentamente il brano proposto e sottolinea con colori diversi i dati che possono essere indicativi rispettivamente del contesto economico, politico, sociale e culturale. Dai quindi corpo alla tua risposta riepilogando a parole tue questi elementi, senza confonderli tra loro. La domanda mira infatti a evidenziare la tua capacità di identificare e distinguere alcuni elementi di contesto da altri.

2. Come dovevano essere articolati i discorsi di fronte alle masse secondo Hitler? A quali esigenze dovevano rispondere e perché?

La risposta alla prima domanda è rintracciabile nel testo. Per capire le ragioni inerenti alle scelte in ambito oratorio di Hitler rileggi le sue parole: quale era il sentimento che si voleva suscitare? Perché lo si voleva animare?

3. Perché Hitler riteneva che: «il vero leader doveva essere più un agitatore che un enunciatore di programmi teorici» (rr. 33-34)?

Tale affermazione è spiegabile alla luce del fine che Hitler intendeva perseguire. Quali effetti può produrre su una platea un “agitatore” rispetto a un semplice “enunciatore di programmi teorici”?

4. Le parole del leader del NSDAP dimostrano la sua partecipazione alle sofferenze e rispetto verso il popolo tedesco?

Il programma politico del nazismo è ideato per rispondere ai bisogni della folla, tuttavia, le parole del leader dimostrano un giudizio impietoso nei confronti della massa. Cosa ne possiamo dedurre?

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analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo • Prova guidata

PRODUZIONE

INDICAZIONI OPERATIVE

Le parole sono lo strumento principe della politica: nella storia sono state nelle mani di sovrani, capi militari, uomini politici; strumento utile per animare una rivoluzione, per intraprendere una guerra contro un nemico – qualche volta – anche per cercare di arrivare ad una mediazione di fronte a popolazioni in rivolta. Le parole utilizzate dai leader dei regimi totalitari sorti nell’Europa del Novecento hanno caratteristiche che le accomunano, nonostante i punti di approdo dei loro discorsi siano diversi. A partire dalle tue conoscenze storiche, rifletti sui termini e sulle modalità della propaganda politica attuata nell’Europa del primo dopoguerra. Puoi prendere spunto da discorsi, scritti programmatici, documenti prodotti dai leader per ottenere il consenso e riflettere quindi sugli elementi retorici e sulle tematiche scelte a scopo di propaganda. Sviluppa quindi le tue riflessioni in un testo di natura espositivaargomentativa nel quale i confronti risultino attuati in modo chiaro e siano supportati da adeguata evidenza.

La produzione del testo argomentativo presuppone, in questo caso, una conoscenza storica dell’argomento proposto. Per svolgere adeguatamente la traccia è necessario disporre di informazioni inerenti alla comunicazione sotto i regimi totalitari. Non ti viene chiesto di concentrarti su un regime in particolare, quanto semmai di porre a confronto tecniche comunicative usate da leader diversi del Novecento. Se stai svolgendo questa prova come esercitazione, rintraccia sul tuo manuale di storia alcuni estratti dai discorsi pronunciati dai leader nel periodo fascista, nazista e stalinista e ponili a confronto fra loro.

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– Come viene utilizzata la sintassi? I periodi sono, generalmente, brevi o lunghi e ricchi di subordinate? Per quale ragione? – Gli argomenti affrontati in ogni brano sono tanti oppure sono pochi? Perché? – Le parole assumono un valore connotativo oltre che denotativo? Per quale ragione? Raccogli le tue considerazioni in una scaletta e sviluppa gli argomenti da te scelti in un testo di natura espositiva-argomentativa che renda esplicita al lettore la tua tesi e gli elementi a supporto. Per guidare il lettore a meglio comprendere il tuo ragionamento, puoi suddividere il testo in paragrafi che rappresentino i diversi snodi argomentativi. Ricorda di fare buon uso dei connettivi fra le varie parti.

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Analisi e produzione di un testo argomentativo

Le mie ultime parole. Lettere dalla Shoah Zwi Bacharach, sopravvissuto dell’Olocausto, è stato professore emerito di General History alla Bar-Ilan University e direttore del Leo Baeck Institute di Gerusalemme, oltre che ricercatore affiliato dell’International Institute for Holocaust Research dello Yad Vashem. Nato a Hanau in Germania nel 1928, nel 1938 era fuggito con la famiglia nei Paesi Bassi, ma venne catturato insieme ai suoi familiari dai nazisti nel 1942. Fu rinchiuso nel campo di sterminio di Ausch­witz dove scampò alla morte. Nel 1946 emigrò in Palestina. Il brano proposto è tratto da Le mie ultime parole, un testo nel quale Bacharach raccoglie lettere scritte dai deportati nei campi di sterminio. «La raccolta include sia le ultime lettere inviate dagli ebrei di quei paesi travolti dall’Olocausto ad amici e conoscenti che vivevano nei paesi soggetti al re-

gime nazista, sia quelle spedite oltre le mura in cui erano rinserrati. Alcune delle lettere hanno fatto la loro strada sino ad essere accolte in archivi pubblici, altre erano conservate in raccolte private pubblicate in libri appartenenti alle comunità distrutte, altre ancora costituiscono ricordi individuali o familiari. Le lettere possono essere viste come una parte della documentazione lasciataci dalle stesse vittime assassinate. Grazie a esse veniamo a conoscenza dei loro nomi e delle condizioni in cui le scrissero, e possiamo persino percepire la paura che a poco a poco le afferra» (I. Gutman, Premessa). Presentiamo la lettera scritta da Bianca Levi – che nell’originale ungherese si firma col nomignolo «Cunci» – a Magda (la sorella) sul treno che (da un luogo non indicato nel testo originale) la deportava a Bergen-Belsen.

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Mia cara Magduška, non posso descriverti lo stato d’animo nel quale sto scrivendo questa lettera. Siamo chiusi da otto giorni nel vagone. Di 77 persone, 65 sono uomini e 12 donne. Finora sono scappati in 14 e non so se non debba fare anch’io la stessa cosa. Immagina che la mattina alle 8-9 ci fanno uscire dal vagone per farci fare i nostri bisogni, cosa che qui avviene direttamente davanti al vagone, perché non ci si può spostare un passo più in là. Poi ci rinchiudono nuovamente e non ci permettono di uscire fino alla mattina del giorno dopo, qualunque cosa accada. Cosicché in molti qui fanno i loro bisogni dentro il vagone. Ci danno un pezzo di pane una volta al giorno con un boccone di cibo in scatola, ma questo solo da martedì, perché fino ad allora non avevamo ricevuto nulla. Per un goccio d’acqua ci si spezza il cuore e non riesco neanche a descriverti che gente c’è qui... una persona perbene si perde, in mezzo a tante canaglie. Magduška mia, sono davvero sventurata io; se penso che mi stanno portando via e che non vi potrò più vedere, né stare in mezzo a voi, ecco che sono prossima alla pazzia. Magari Dio mi concedesse di esser presto annientata, perché questa vita è insopportabile. Ed è terribile, quello che accade qui la notte. I nostri giorni in qualche modo passano, ma alle cinque del pomeriggio è già buio e ce ne stiamo accoccolati sul nostro zaino, né riusciamo a muoverci fino alle sette della mattina dopo. Ancora un paio di giorni e penso che tra poco avremo anche i pidocchi, perché ho sentito che qualcuno li ha già trovati. Magduška mia, è passata una settimana da quando ho lasciato casa e non mi sono potuta lavare neanche una volta, tanto che rinuncio alla mia razione quotidiana di acqua e, invece di bere, preferisco lavarmi la bocca. È vero, Magduška mia, che questo non si può sopportare a lungo, non si possono umi-

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liare le persone a un tale livello animale e sarebbe quasi incredibile; se purtroppo non ci fossi dentro non ci crederei. Oltre tutto ecco l’inverno, nevica e io sto qui, del tutto senza riparo, assolutamente sola al mondo. Credo che cercherò ugualmente di fuggire, perché se non mi riesce e mi prendono, allora la morte è sicura. Magduška mia, mi si spezza il cuore se penso a quel che succede al babbo. Io sono partita e lui, poverino, è rimasto a casa da solo. Non so neppure dove sia, come stia, che gli accade. Sono fuori di me per questo e non c’è nessuno con cui potrei scambiare una parola e che mi possa capire, perché i parenti del 90 per cento della gente nel vagone li hanno già deportati e loro sperano di potersi poi ricongiungere con i loro cari. Ma io so che tutti quelli che ho al mondo, che mi sono cari e che hanno rappresentato per me la vita sono qui e che ora forse devo lasciare per sempre quelle due tombe nel cimitero, sono del tutto fuori di me. Magduška mia, mi vergogno davanti a me stessa di quel che sono diventata e giorno e notte sto seduta in un angolo a piangere. Mi meraviglio soltanto che non mi si siano seccati gli occhi. Magduška mia cara, a volte tuttavia ho l’impressione di non essere stata così cattiva da meritare che Dio mi colpisca in tal modo e mi separi da voi per sempre. Può darsi anche, forse, che in qualche modo ci rimanderanno indietro, in qualche modo il buon Dio mi aiuterà e non mi deporteranno. Dal buon Dio chiedo solo questo, che noi possiamo ancora una volta essere tutti insieme, come prima, e spero che il buon Dio in questo mi aiuterà. Magduška mia, abbi molta cura di te, che non ti accada nulla, sorellina mia. Ho l’impressione che questa non sia una lettera d’addio, perché Dio è buono e non ci abbandona. Ti bacio con affetto Cunci

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Zwi Bacharach, Le mie ultime parole. Lettere dalla Shoah, Laterza, Roma-Bari 2009, Lettera n. 4

Comprensione e analisi 1. La lettera rappresenta con estrema vividezza la descrizione del contesto in cui Bianca si è venuta a trovare, gli effetti che tale forzata prigionia producono sul suo animo e la speranza che ancora nutre nel futuro. Sintetizza il contenuto del testo, tenendo conto di questi tre elementi propri della scrittura narrativa. 2. Le parole che Bianca Levi scrive alla sorella hanno l’andamento e il tono di un racconto privato, è una conversazione intima nella quale chi scrive ha quasi pudore di raccontare a qualcuno

“cosa è diventata”. Bianca è una vittima che prova imbarazzo per la sua condizione di vita, perché? 3. Nella meditazione dell’autrice, il desiderio di fuga non si accompagna ad una speranza positiva. Per quali ragioni Bianca si augura di poter presto fuggire? 4. La lettera è cadenzata dall’uso di termini, di espressioni e di ripetizioni che ci comunicano il desiderio di vicinanza e l’affetto che chi scrive intende comunicare al destinatario delle sue parole. Ricerca e sottolinea tali elementi nel testo. 65

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Produzione Le lettere raccolte nel testo di Zwi Bacharach sono una testimonianza preziosa e diretta, ci aiutano a conoscere quanto non dovrebbe essere dimenticato. La scrittura in forma privata, epistolare e diaristica, accompagna spesso periodi in cui l’uomo sperimenta gli orrori della guerra. A proposito delle numerosissime testimonianze destinate ad amici e parenti scritte dai soldati al fronte durante la prima guerra mondiale, Antonio Gibelli scrive: «Sembra quasi che la scrittura diaristica, l’annotazione ordinata degli accadimenti quotidiani, sia essa stessa un modo di resistere, ossia di sopravvivere ai processi di spersonalizzazione e ai fenomeni di degrado che si accompagnano alla detenzione e in certo modo ne costituiscono l’essenza. Scrivere è un modo per fronteggiare lo spae­samento, il degrado corporale, la dipendenza in mano altrui, l’impotenza, l’inedia. Come nel caso della scrittura carceraria in senso stretto, tenere un diario

significa reagire in qualche modo all’espropriazione lenta, inesorabile del tempo e della vita determinata dalla passività e dalla perdita dell’autodeterminazione. Fissare giorno per giorno le proprie sofferenze sulla carta significa evitare di perdersi e sperare di prolungare in qualche modo la propria esistenza. Finché si scrive, vuol dire che la vita è proseguita di un giorno, e non si vede perché al giorno appena annotato non ne possa seguire un altro e poi un altro ancora fino alla salvezza» (La grande guerra. Storie di gente comune, Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 229-231). È possibile – dunque – che si scriva non solo per dare testimonianza, ma anche per sopravvivere? Avanza le tue riflessioni su questo tema: puoi far riferimento a conoscenze di studio in riferimento alla storia e alla letteratura del Novecento o personali. Dai quindi vita a un testo che risulti organico e coeso.

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Alcide De Gasperi ritratto da Indro Montanelli Alcide De Gasperi nasce a Pieve Tesino nel 1881. A partire dal 1924 guida il Partito popolare italiano che negli anni della Resistenza verrà riorganizzato e prenderà il nome di Democrazia cristiana. È presidente del Consiglio dal 1945 al 1953: guidò il paese negli anni cruciali del secondo dopoguerra incarnando la linea

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politica del centrismo, fondata sulla collaborazione fra democristiani e laici. Fu il primo presidente della Comunità economica del carbone e dell’acciaio (CECA), favorì il processo di ricostruzione postbellica e mirò all’inserimento dell’Italia nell’Alleanza atlantica. Morirà, improvvisamente, a Trento nel 1954.

Alla caduta del fascismo, Alcide De Gasperi era uno sconosciuto per la quasi totalità degli Italiani. Pur avendo preso il posto di don Sturzo esule, come capo del Partito popolare, nei primi anni del regime, non aveva avuto il tempo né il modo, in quell’atmosfera politica ormai asfittica e condizionata, di acquistare popolarità. Prima del fascismo era stato la personalità emergente del cattolicesimo trentino e italiano, dopo l’affermazione della dittatura divenne un perseguitato e infine un oscuro, modesto burocrate vaticano. [...] Il ragazzo De Gasperi – di famiglia modesta, il padre era capo della gendarmeria a Pieve Tesino – aveva studiato con sacrifici, protetto e aiutato da un prete intelligente, don Gentili, e dal vescovo di Trento monsignor Endrici. Aveva doti di polemista, e le dimostrò alla direzione del quotidiano cattolico trentino. Come molti cattolici impegnati delle terre italiane incorporate ancora nell’Impero austro-ungarico, era più autonomista che irredentista. L’esperienza parlamentare a Vienna [era stato deputato alla Provincia e al parlamento austriaco di Vienna nel 1911] gli aveva insegnato che uno Stato multinazionale poteva essere tollerante e rispettoso verso i diritti delle minoranze. L’intervento italiano, che non creò alcun problema di coscienza a Cesare Battisti e a chi, come lui, voleva completata a Trento e a Trieste l’epopea risorgimentale, fu per De Gasperi un dramma. Si sentiva profondamente italiano, e nello stesso tempo si sentiva cittadino di un impero, e di una società, nei quali gli era stato dato modo di affermare le sue doti. [...] Il temperamento di De Gasperi, che pur era a suo modo forte, fu contrassegnato dal rifiuto delle posizioni intransigenti e dalla vocazione per la mediazione: perciò la sua italianità, che era, come tutti i suoi sentimenti, profonda e sincera, fu temperata dall’ammirazione per l’architettura politica dell’Impero austro-ungarico, e il suo cattolicesimo, altrettanto profondo, fu temperato dalla ripulsa dell’integralismo e della sopraffazione clericale. De Gasperi era un democristiano che credeva in Dio. E, credendo in Dio, non aveva bisogno di fare il clericale bigotto. [...] Per un momento, al sorgere del fascismo, anch’egli pensò probabilmente che potesse essere addomesticato. Le illusioni caddero presto, e da allora la sua opposizione fu netta, nell’Aventino e dopo. [...] V’era nei sentimenti di De Gasperi indignazione contro la dittatura che perseguitava gli inermi, e rimorso per i disagi economici e le umiliazioni cui moglie e figlie venivano, per colpa sua, sottoposte. De Gasperi non aveva una professione di ripiego, costretto com’era, oltretutto, a vivere a Roma. A Trento avrebbe potuto essere professore di tedesco. A Roma dovette appoggiarsi alla Chiesa, e nel momento peggiore: proprio quando Mussolini stava diventando «l’uomo della Provvidenza» e con il cardinale Maglione metteva a punto gli articoli controversi della Conciliazione. Una mano il Vaticano gliela diede, ma

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senza slancio: «collaboratore soprannumerario addetto al catalogo degli stampati» nella Biblioteca Vaticana. [...] Pio XI non lo ricevette mai. Quando lasciò la Biblioteca, De Gasperi aveva sessantadue anni, guadagnava duemila lire, ed era segretario. Di quella inerzia studiosa, negli anni che per un politico rappresentano la piena e rigogliosa maturità, ebbe sempre un ricordo cocente. Questo spiega i suoi scatti contro i fascisti che, superate le maglie dell’epurazione, tornavano ad agitarsi: «Non osino chiedere più della libertà di vivere e di guadagnare che a noi non fu concessa». Dalla penombra l’Italia della guerra perduta vide emergere questo personaggio inconsueto, e che proprio per questo forse la rassicurò assai più dei santoni prefascisti o dei tonitruanti tribuni alla Nenni. De Gasperi era anomalo: e questa fu la ragione prima della sua sostanziale solitudine, nel partito, nella classe politica, nel Paese. Una zona d’aria fredda sembrava circondarlo perennemente. Era un uomo in grigio, dalla grigia e asciutta oratoria senza pennacchi, dagli occhi grigi così poco cesarei, dal volto di pietra, grigia anch’essa. Era calmo, paziente, refrattario alla retorica e alla ostentazione. Non era un uomo d’ideologia, era un uomo d’ideali, che sono cosa assai diversa. Era un borghese rimasto irriducibilmente tale, anche nelle ristrettezze d’un bilancio familiare quasi di fame, perché fedele a determinati valori di decoro e a determinati princìpi di moralità. Era un conservatore, se con questo termine s’intende chi non crede alle riforme messianiche, e, avendo visto crollare mondi cui era affezionato, se li è anche visti sostituire da altri mondi peggiori. Ma conosceva le ansie, le aspirazioni e le sofferenze delle «masse» benché la loro immagine fosse per lui, anche a Roma, anche in anni di governo d’un Paese caotico e improvvisatore, quella dei contadini e degli operai trentini, non quella delle jacqueries meridionali o dei picchettaggi violenti nelle varie Stalingrado d’Italia. «Era un uomo dotato di senso dello Stato» ha detto Valiani di De Gasperi. Potremmo aggiungere, con una battuta che non vuol essere spregiativa, che lo fu indipendentemente dallo Stato in cui agiva. Lo fu a Vienna, e lo fu a Roma. Ebbe fortemente quel senso dello Stato che mancò ai cattolici subito dopo l’Unità, che mancò a molti tra loro anche cent’anni dopo. Alla luce della forte consapevolezza che De Gasperi aveva dell’interesse nazionale deve essere valutato anche il suo atteggiamento verso la monarchia. «De Gasperi» ha affermato Valiani «non era repubblicano, era di tradizioni monarchiche... Accettò tuttavia la repubblica... quando capì che solo in tal modo si assicurava la democraticità dello Stato italiano. Una monarchia contestata da metà del Paese non poteva essere democratica. Un tempo si era detto: la repubblica ci dividerebbe, la monarchia ci unisce: così Crispi nel 1861 e anni successivi. Nel 1945-46 De Gasperi capì che la repubblica ci avrebbe unito, la monarchia ci avrebbe diviso». [...] Sembra accertato che il giorno del referendum abbia votato repubblica. Ma in pubblico fu sempre cauto, ben sapendo quanta parte del suo potenziale elettorato fosse monarchica, e ben sapendo delle propensioni monarchiche esistenti in Vaticano e caldeggiate da una parte consistente dell’alto Clero. In un comizio disse un giorno, parlando più da moralista che da politico: «Volete voi istaurare la repubblica? Vi sentite capaci cioè di assumere su di voi, popolo italiano, tutte le responsabilità, tutto il maggior sacrificio, tutta quella maggiore partecipazione che esige tale regime, il quale fa dipendere tutto, anche il Capo dello Stato, dalla vostra personale decisione espressa con la scheda elettorale? Se rispondete sì vuol dire che prendete impegno solenne e definitivo, per voi e

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per i vostri figli, di essere preoccupati della cosa pubblica più di quanto non foste sin qui...». [...] Il primo presidente del Consiglio italiano politicamente «cattolico» non pose ostacoli alla repubblica soprattutto perché gli premeva di frenare la spinta populista delle sinistre nel funzionamento quotidiano delle strutture statali. Agli slogan di Nenni («la Costituente o il caos», «politique d’abord», «dal governo al potere») oppose la sua tenacia moderatrice e restauratrice. Gli ambienti economici percepirono subito il cambiamento, e la Borsa reagì alla novità con un progresso vigoroso. Lo percepirono anche gli Alleati che decisero di restituire al governo italiano le province del Nord tuttora soggette alla loro giurisdizione. Mancò a De Gasperi, dicono i suoi critici, la volontà o la capacità di cambiare, profittando delle contingenze eccezionali, alcune cose che, specialmente nella burocrazia e nei meccanismi amministrativi, avrebbero potuto e magari dovuto essere cambiate. Ebbe un limite: fu un grande «normalizzatore», non un innovatore.

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Indro Montanelli, L’Italia delle grandi guerre. Da Giolitti all’armistizio, Rizzoli, Milano 2015, ed. digitale

Comprensione e analisi 1. Spiega l’affermazione di Montanelli in base alla quale De Gasperi era «più autonomista che irredentista» (rr. 11-12). 2. Perché il rapporto fra De Gasperi e la Chiesa nel periodo fascista fu problematico?

fosse per lui, anche a Roma, anche in anni di governo d’un Paese caotico e improvvisatore, quella dei contadini e degli operai trentini, non quella delle jacqueries meridionali o dei picchettaggi violenti nelle varie Stalingrado d’Italia» (rr. 55-58)?

3. Che cosa intende l’autore quando afferma che De Gasperi «conosceva le ansie, le aspirazioni e le sofferenze delle “masse” benché la loro immagine

4. Quale giudizio complessivo attribuisce – a tuo avviso – Montanelli alla figura di Alcide De Gasperi? Motiva la tua risposta con riferimenti al testo.

Produzione Il ritratto che Montanelli ci fornisce di Alcide De Gasperi è quello di un uomo dotato di un forte senso dello Stato. Le sue parole in merito alla responsabilità che un paese deve riconoscere a sé stesso, quando scelga di intraprendere la via repubblicana, rappresentano ancora oggi una eccellente lezione di cittadinanza. Vivere in una Repubblica significa – afferma De Gasperi – prendere «impegno solenne e definitivo, per voi e per i vostri figli, di essere preoccupati della cosa pubblica» (rr. 79-80). A più di settant’anni

dalla nascita della Repubblica italiana queste parole rappresentano una riflessione che non dovrebbe essere dimenticata. Siamo davvero “preoccupati della cosa pubblica”? Se sia i cittadini che la classe dirigente non sembrano spesso essere partecipi di un accorto “senso dello Stato”, ciò è frutto della nostra storia o di cattive abitudini, a cui siamo però così abituati da non stupircene più? Rifletti sul tema proposto e organizza il tuo commento in un testo che risulti organico e coeso.

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Un’utopia sostenibile per un mondo interconnesso Enrico Giovannini, docente di Statistica economica all’Università di Roma Tor Vergata e Public management alla LUISS, direttore delle Statistiche dell’OCSE, presidente dell’Istat e ministro del Lavoro e delle Politiche

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sociali nel governo Letta, ci parla di come sia necessario costruire un nuovo rapporto con l’ambiente che ci circonda. Per preservare il nostro ecosistema, abbiamo bisogno di un’utopia, che sia però sostenibile.

«Perché dovrebbe importarmene delle generazioni future? Cosa hanno fatto loro per me?» Questa battuta folgorante di Groucho Marx, grande attore comico della prima metà del secolo scorso, sintetizza mirabilmente il tema della sostenibilità. Abbiamo ormai un’evidenza scientifica consolidata dell’insostenibilità, sul piano non solo ambientale ma anche su quello economico e sociale, del modello di sviluppo che abbiamo seguito nel corso degli ultimi due secoli. Anzi, numerose analisi ci segnalano che alcuni fenomeni fortemente destabilizzanti (si pensi al cambiamento climatico, alle migrazioni o all’aumento delle disuguaglianze) stanno verificandosi con una velocità e un’intensità superiore a quella prevista solo alcuni anni fa proprio perché, quando l’instabilità di un sistema cresce, le interazioni esistenti tra le sue diverse componenti provocano un’accelerazione dei singoli processi. Da tempo gli esperti che hanno cercato di misurare i “limiti del Pianeta” (planetary boundaries) hanno notato come la frequenza con cui si verificano eventi estremi (si pensi ai fenomeni atmosferici) sia un segnale che ci si sta avvicinando alle soglie oltre le quali l’intero sistema diviene instabile. Ma lo stesso sembra valere per i fenomeni economici e sociali, come la cosiddetta “Grande Recessione” ha insegnato: instabilità economiche possono tradursi in instabilità sociali, politiche e istituzionali, generando un “effetto domino” inarrestabile. [...] Molti studi ci indicano che la combinazione di shock di natura economica, sociale e ambientale al quale il sistema globale nel quale viviamo è oggi sottoposto e sarà sottoposto nel prossimo futuro richiederà necessariamente una sua trasformazione (non necessariamente nella direzione di un maggiore benessere umano) fatta di cambiamenti radicali che determineranno una “non linearità” nella sua traiettoria di sviluppo. [...] La questione che non possiamo sottovalutare è quella della sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. Una sostenibilità a tutto campo, come quella definita dal “Rapporto Brundtland”1 (intitolato Our Common Future) del 1987, cioè quella di un processo che consente «il soddisfacimento dei bisogni della presente generazione senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». Se fossimo su una condizione di insostenibilità, il problema non sarebbe più quello di fare meglio di quanto fatto nel passato, continuando ad “adattare” il funzionamento del sistema alle mutate condizioni, ma di procedere ad una vera e propria trasformazione di quest’ultimo, senza la quale è impensabile evitare di andare a sbattere contro le “soglie” legate alla finitezza

Nel 1987, Gro Harlem Brundtland, presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo (World Commission on Environment and Development, WCED), istituita nel 1983, presen-

tò il rapporto «Our common future» (Il futuro di tutti noi): in esso si formulavano delle linee guida per lo sviluppo sostenibile che sono ancora oggi attuali.

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del Pianeta in cui viviamo o alla limitata adattabilità degli esseri umani a cambiamenti radicali degli assetti culturali, sociali e politici. Se così fosse, peraltro, la questione che abbiamo di fronte non riguarderebbe solo le generazioni future, ma anche la nostra generazione, il che renderebbe irrilevante la critica di Marx (Groucho) al concetto di giustizia intergenerazionale, perché sarebbe la nostra vita ad essere a rischio, non solo quella delle generazioni future.

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Enrico Giovannini, L’utopia sostenibile, Laterza, Bari-Roma 2018, pp. 3-9

Comprensione e analisi 1. A partire dalla lettura del brano, definisci con parole tue il concetto di sostenibilità ambientale. 2. Quali sono le cause che possono contribuire a rendere il nostro pianeta un sistema instabile? 3. Identifica e spiega la tesi dell’autore. 4. Il testo presenta una premessa, che viene ri-

chiamata in conclusione, l’esposizione di un nucleo problematico, la definizione e spiegazione del problema corredata da esempi esplicativi, un’ipotesi di soluzione. Tenendo conto di queste indicazioni, prova a schematizzare la struttura del brano proposto ponendo in rilievo gli snodi argomentativi.

Produzione La sostenibilità ambientale è un tema che coinvol­ ge noi nella misura in cui ci interfacciamo con l’ambiente che ci circonda. Non riguarda unicamente il rapporto dell’uomo con la natura, ma anche il nostro modo di abitarla, di interagire con il contesto che ci circonda nelle nostre attività quotidiane. Preservare l’ecosistema, significa pre-

servarne la bellezza, ma anche garantire la nostra stessa sopravvivenza. Rifletti sul rapporto fra l’uomo contemporaneo e la natura: come è mutato questo rapporto nel tempo? Siamo più attenti oggi ai problemi ambientali di quanto lo siamo stati nel secolo appena trascorso, oppure no? Organizza le tue riflessioni in un testo che risulti organico e coeso.

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Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica In Non per profitto Martha Nussbaum, già docente all’Università di Harvard e alla Brown University, Ernst Freund Distinguished Service Professor di Diritto ed Etica presso l’Università di Chicago, riflette sulla politica di formazione seguita dai maggiori paesi indu-

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strializzati. La tendenza a dare la preminenza a una istruzione in cui predominino le materie di ambito tecnico e scientifico, scelta finalizzata a favorire lo sviluppo economico, contribuirà – a suo avviso – a rendere fragili i sistemi democratici.

La formazione non riguarda soltanto la cittadinanza. Essa prepara le persone al lavoro e, cosa molto importante, a una vita dignitosa, degna di essere vissuta. Si potrebbe scrivere un intero libro sulla funzione degli studi umanistici e artistici nel conseguimento di questi obiettivi. Tutte le democrazie moderne, comunque, sono società nelle quali il significato e lo scopo ultimo della vita umana sono argomenti di ragionevole disaccordo fra cittadini che hanno vedute religiose e secolari molto diverse: tali cittadini, naturalmente, hanno convinzioni differenti sull’utilità e la funzione della preparazione umanistica riguardo ai loro obiettivi personali. Ciò su cui possono essere d’accordo è che in tutto il mondo, cioè in ogni nazione abbastanza fortunata da essere democratica, i giovani devono essere abituati a partecipare a una forma di governo in cui le persone si informano sulle problematiche fondamentali che saranno oggetto del loro voto e, talvolta, della loro azione come funzionari eletti o nominati. Ogni democrazia moderna è anche una società nella quale le persone differiscono molto, per molteplici aspetti, come religione, etnicità, ricchezza e classe sociale, condizione fisica, genere e orientamento sessuale, e in cui tutti gli aventi diritto al voto compiono scelte che hanno una ricaduta notevole sulla vita di persone assai diverse da loro. Senza il concorso di cittadini educati in maniera appropriata, nessuna democrazia può rimanere stabile. Le capacità intellettuali di riflessione e pensiero critico sono fondamentali per mantenere vive e ben salde le democrazie. La facoltà di ragionare correttamente su culture, gruppi e nazioni, nel contesto dell’economia mondiale e della storia dell’interazione di tanti paesi e gruppi è cruciale per consentire alle democrazie di far fronte, in modo responsabile, ai problemi che le attendono come parte di un mondo interdipendente. E la capacità di cogliere i problemi dell’altro deve essere molto potenziata, e rifinita, per poter sperare di mantenere istituzioni decenti in mezzo alle tante divisioni che ogni società moderna racchiude. L’interesse nazionale di una democrazia moderna prevede un’economia forte e una cultura di mercato fiorente. Tale interesse economico richiede proprio l’apporto degli studi umanistici e artistici, allo scopo di promuovere un clima di attenta e responsabile disponibilità, nonché una cultura di innovazione creativa. Quindi, non siamo costretti a scegliere fra una forma di educazione che promuove il profitto e una forma di educazione che alimenta la buona cittadinanza. Un’economia fiorente richiede le stesse qualità formative che rafforzano la buona cittadinanza, e in realtà i partigiani di quella che chiamerò «formazione per il profitto» o (in termini più generali) «formazione per la crescita economica», sposano una visione impoverita di ciò che è richiesto proprio per raggiungere il loro scopo. La loro impostazione, infatti, dovrebbe essere subordinata alla preoccupazione per

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analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

la stabilità delle istituzioni democratiche, perché un’economia robusta serve all’uomo, non è fine a sé stessa. La maggior parte di noi non vorrebbe vivere in un paese prospero che però abbia cessato di essere democratico. Martha C. Nussbaum, Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica, trad. di R. Falcioni, il Mulino, Bologna 2011, pp. 28-29

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Comprensione e analisi 1. Quali sono le caratteristiche distintive di una società democratica secondo l’autrice?

cittadinanza e l’educazione al profitto possano essere delle scelte fra loro alternative?

2. La consapevolezza di vivere in un mondo interdipendente pone nuove sfide all’umanità. Quali strumenti abbiamo a disposizione per affrontarle?

4. Spiega per quali ragioni – secondo l’autrice – il progressivo ridimensionamento dello spazio attribuito nei diversi sistemi di istruzione agli studi umanistici potrebbe rappresentare un pericolo per la sostenibilità del modello democratico di governo.

3. Perché molti ritengono che l’educazione alla

Produzione «I partigiani della crescita economica – scrive sempre la Nussbaum in Non per profitto – non si limitano a ignorare le arti. Essi le temono. Infatti, la sensibilità simpatetica coltivata e sviluppata è un nemico particolarmente pericoloso dell’ottusità, e l’ottusità morale è necessaria per realizzare programmi di sviluppo economico che ignorano le diseguaglianze. [...] Le arti sono un grande nemico dell’ottusità, e gli artisti (a meno che non siano del tutto sottomessi o corrotti) non sono i servi fidati di alcuna ideologia, neppure di una fondamentalmente buona: essi chiedono, sempre, all’immaginazione di superare i confini, di vedere le cose in modo nuovo. Di conseguenza, coloro che formano i quadri necessari per lo svi-

luppo economico si scaglieranno sempre contro l’inclusione delle materie letterarie e artistiche fra gli ingredienti dell’istruzione di base. Questa offensiva è oggi in pieno svolgimento in tutto il mondo». È davvero così? Quale contributo alla tua formazione personale pensi che abbiano prodotto, negli anni, lo studio di materie di ambito umanistico quali la storia, la letteratura, la storia dell’arte, la geografia e le lingue? Rifletti sul tema proposto e organizza le tue considerazioni in un testo argomentativo nel quale la tua tesi sia accompagnata da validi elementi a supporto. Puoi anche arrivare a confutare la tesi contraria, ma presta attenzione al rispetto della coesione narrativa e attua un uso corretto dei connettivi.

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L’illusione dell’innocenza In 21 lezioni per il XXI secolo Yuval Noah Harari, storico e saggista, docente all’Università israeliana di Gerusalemme, riflette con estremo acume su alcuni dei temi più dibattuti del mondo contemporaneo. In un mondo interconnesso quale è il nostro, come si configura la nostra responsabilità individuale? Sia-

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mo davvero innocenti rispetto ad azioni compiute da organismi che operano a livello sovranazionale? Come è cambiato il nostro modo di valutare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? Domande importanti alle quali non sempre siamo in grado di fornire una risposta certa.

Come tutti gli altri nostri sensi, anche il senso di giustizia ha antiche radici nella vicenda evolutiva. La moralità umana si è formata nel corso di milioni di anni di evoluzione, adattandosi ad affrontare i dilemmi sociali ed etici che potevano verificarsi nelle vite di piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori. Se io andassi a caccia con voi e uccidessi un cervo mentre voi non prendeste niente, dovrei condividere il mio bottino con voi? Se voi andaste in cerca di funghi e tornaste con un cesto pieno, per il fatto che sono più forte di voi mi sarebbe consentito di impossessarmi di tutti quei funghi? [...] Apparentemente non è cambiato granché da quando abbiamo lasciato la savana africana per la giungla urbana. Si potrebbe pensare che i problemi che affrontiamo oggi – la guerra civile in Siria, la disuguaglianza sociale nel mondo, il riscaldamento del pianeta – sono semplicemente gli stessi vecchi problemi in versione extralarge. Ma si tratta di un’illusione. Le dimensioni contano, e dal punto di vista della giustizia, come da molti altri punti di vista, non possiamo dire di essere proprio adatti al mondo in cui viviamo. Non si tratta di un problema di valori. Siano laici o religiosi, i cittadini del XXI secolo possiedono valori in abbondanza. Il problema risiede nell’implementazione di questi valori in un mondo globale complesso. È tutta colpa dei numeri. Il senso di giustizia dei nostri lontani antenati era strutturato per gestire dilemmi relativi alle vite di poche dozzine di individui in un’area di poche decine di chilometri quadrati. Quando cerchiamo di capire le relazioni tra milioni di persone attraverso interi continenti, il nostro senso morale è sopraffatto. La giustizia richiede non soltanto un insieme di valori astratti, ma anche la comprensione di concrete relazioni di causa-effetto. Se avete raccolto funghi per dare da mangiare ai vostri figli e io ora prendo il cesto dei funghi con la forza, significa che tutto il vostro lavoro è stato inutile e i vostri figli andranno a letto affamati, il che è spiacevole. È facile afferrare questa situazione, poiché le relazioni di causa-effetto sono lampanti. Purtroppo una caratteristica del nostro moderno mondo globale è che le sue relazioni causali sono quanto mai ramificate e intricate. [...] Il problema è che è diventato estremamente difficile comprendere quanto sta effettivamente accadendo. Il comandamento “non rubare” era stato formulato ai tempi in cui rubare significava prendere fisicamente con la tua mano qualcosa che non ti appartiene. Oggi, la discussione sul furto riguarda scenari completamente diversi. Supponete che io investa diecimila dollari in azioni di una grossa azienda petrolchimica, che mi garantisce un utile del 5% all’anno sul capitale investito. L’azienda è molto redditizia perché non paga per gli effetti collaterali della sua attività. Disperde rifiuti tossici nel fiume che scorre vicino ai suoi impianti senza preoccuparsi delle conseguenze negative per l’approvvigio-

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namento idrico della regione, per la salute pubblica, o per la fauna locale. Utilizza le sue ricchezze per assoldare una legione di avvocati che la proteggano contro ogni richiesta di compensazione. Finanzia anche lobbisti impegnati nel bloccare ogni tentativo di stabilire norme ambientali più severe. Possiamo accusare l’azienda in questione di “rubare un fiume”? E che cosa c’entro io? Io non ho mai svaligiato la casa di nessuno o sfilato banconote dal portafogli di qualcuno. Non ho la minima idea di come questa particolare azienda stia generando i suoi profitti. Non ricordo nemmeno con precisione quale quota del mio portafoglio titoli sia investita nelle sue azioni. Dunque sono responsabile del furto? Come possiamo comportarci in modo moralmente corretto se non siamo in grado di conoscere tutti i fatti rilevanti? Si può cercare di eludere il problema adottando una “moralità delle intenzioni”. Quello che conta sono le mie intenzioni, non ciò che faccio effettivamente o il risultato delle mie azioni. In un mondo in cui ogni cosa è interconnessa, l’imperativo morale supremo diventa conoscere. I peggiori crimini nella storia moderna sono derivati non solo dall’avversione e dall’odio, ma forse anche in misura maggiore dall’ignoranza e dall’indifferenza. [...] Ma che cosa si intende con “un sincero sforzo conoscitivo”? L’amara verità è che il mondo è semplicemente diventato troppo complicato per i cervelli dei cacciatori-raccoglitori. La maggior parte delle ingiustizie contemporanee deriva da pregiudizi strutturali su larga scala piuttosto che da pregiudizi individuali, e i nostri cervelli da cacciatori-raccoglitori non si sono evoluti per rilevare i pregiudizi strutturali. Siamo tutti complici in almeno alcuni di questi pregiudizi, e semplicemente non abbiamo né il tempo né l’energia per scoprirli tutti.

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Yuval Noah Harari, 21 lezioni per il XXI secolo, trad. di M. Piani, Bompiani, Milano 2018, ed. digitale

Comprensione e analisi 1. Individua e spiega la tesi esposta da Harari nel brano proposto. 2. Perché la capacità di cogliere le relazioni di causa-effetto influenza direttamente la nostra capacità di giudicare ciò che è giusto e ciò che è sbagliato? 3. Dal punto di vista argomentativo, come andrebbero considerati gli esempi addotti dall’autore: sono essenziali a supportare la sua argo-

mentazione, oppure, sono dei dati informativi che potrebbero essere anche omessi? Motiva la tua risposta. 4. Spiega il significato della seguente espressione: «La maggior parte delle ingiustizie contemporanee deriva da pregiudizi strutturali su larga scala piuttosto che da pregiudizi individuali, e i nostri cervelli da cacciatori-raccoglitori non si sono evoluti per rilevare i pregiudizi strutturali» (rr. 53-55).

Produzione Dare un giudizio sul mondo contemporaneo è molto difficile. «Nel tentativo di concepire e giudicare i dilemmi morali su questa scala – scrive sempre Harari in 21 lezioni –, la gente spesso ricorre a uno dei seguenti quattro metodi. Il primo è sminuire l’importanza della questione,

comprendere la guerra civile in Siria figurandosela come lo scontro tra due cacciatori dell’Età della pietra; immaginare il regime di Assad come se fosse un individuo e i ribelli come se fossero un altro individuo, uno cattivo e l’altro buono. Il secondo metodo è concentrare l’attenzione

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su un commovente caso umano, emblematico dell’intero conflitto. [...] Il terzo metodo consiste nel trattare i dilemmi morali su larga scala come manovre di un complotto globale. [...] Questa è quasi sempre una fantasia infondata. Il mondo contemporaneo è troppo intricato, non solo per il nostro senso di giustizia ma anche per le nostre abilità manageriali. [...] Il quarto metodo, il più importante, è creare un dogma, riporre la nostra fiducia in qualche teoria, istituzione o capo che si presume onnisciente, e obbedire ciecamente».

Tutte queste soluzioni non sono una peculiarità del nostro mondo interconnesso, ma sono – anch’esse – soluzioni datate di cui abbiamo visto innumerevoli esempi nella storia antica e recente. Saresti in grado di fornire esempi di applicazione di queste soluzioni? Puoi far riferimento alle tue conoscenze di studio o personali. Esiste – a tuo avviso – un’alternativa possibile per essere in grado di giudicare equamente il mondo contemporaneo? Organizza la tua riflessione in un testo che risulti organico e coeso.

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analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

L’industria degli armamenti in tempo di pace In Retrotopia Zygmunt Bauman, uno dei più noti e influenti intellettuali del secondo Novecento, scomparso di recente, argomenta come il nostro mondo sia caratterizzato da uno sguardo nostalgico verso il passato. «La retrotopia – afferma Bauman – è spronata dalla speranza di riconciliare finalmente la “sicurezza” con la “libertà”: impresa mai tentata – e, in ogni caso, mai realizzata». Nei

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Nel 2003 una pubblicazione di «Control Arms» – campagna condotta da Amnesty International, International Action Network on Small Arms (Iansa) e Oxfam – così sintetizzava la situazione nel commercio mondiale delle armi: «La mancanza di controlli sulle armi permette ad alcuni di lucrare sulle sofferenze altrui. Mentre l’attenzione internazionale si concentra sulla necessità di controllare le armi di distruzione di massa, il commercio di quelle convenzionali prosegue, in un vuoto legale e morale. Un numero sempre maggiore di Stati inizia a produrre armi leggere, e molti di essi non mostrano né la capacità, né la volontà di regolamentarne l’impiego. Il mercato mondiale delle armi è dominato dai paesi che sono membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu1 (Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina). Gran parte dei controlli nazionali sulle armi sono pieni di lacune o ampiamente disattesi. I principali punti deboli riguardano i controlli troppo blandi sugli intermediari, la produzione autorizzata e il cosiddetto “utilizzo finale” delle armi, che finiscono in mani sbagliate a causa degli scarsi controlli sulla proprietà delle armi da fuoco, sulla loro gestione e sull’uso improprio da parte degli utenti autorizzati»2. A distanza di dieci anni da quella diagnosi – dieci anni nei quali è scoppiata una grave crisi economica –, ecco cosa scriveva il quotidiano britannico «The Guardian»: «I maggiori produttori mondiali di armi, nonostante la recessione economica, hanno continuato a fare affari come se niente fosse: nel 2010 la vendita di armi e servizi militari ha superato i 400 miliardi di dollari»3. Due anni dopo, nell’agosto del 2015, Amnesty International ha dichiarato che si stima circolino nel mondo 875 milioni di armi leggere e di piccolo calibro, e che ogni anno ne vengano prodotti fra 700mila e 900mila esemplari4. [...] Sarei terribilmente ingenuo se mi attendessi che molte o la maggior parte delle armi leggere prodotte in quasi un milione di esemplari ogni anno, non sparassero neanche

È tra gli organi principali dell’ONU. È composto di 5 membri permanenti (Cina, Francia, Regno Unito, Russia, Stati Uniti) e 10 eletti ogni due anni dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Il Consiglio è l’organo incaricato di mantenere la pace e la sicurezza internazionali. 2 Shattered Lives: The Case for Tough International 1

fatti però «lo Stato contemporaneo ha abbandonato nella pratica il ruolo di paladino e custode della sicurezza, per diventare uno (il più efficace, forse) dei tanti fattori che cooperano nell’elevare al rango di condizioni umane permanenti l’insicurezza, l’incertezza e il rischio per l’incolumità». La proliferazione dell’industria degli armamenti è lì a dimostrarlo.

Arms Control, Amnesty International e Oxfam International, London-Oxford 2003, cap. 4, p. 54; qui ripreso dal sito http://www.globalissues.org. 3 Cfr. l’articolo del 2 marzo 2013: https://www. theguardian.com. 4 Small Arms Survey (https://www.amnesty.org).

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un colpo. Viviamo in un mondo nel quale il pragmatismo è il massimo della razionalità: un mondo in cui «posso, dunque devo e voglio». Un mondo in cui la «razionalità strumentale» di Max Weber5 è stata capovolta: anziché essere i fini alla ricerca dei mezzi più efficaci, ormai sono i mezzi a cercare (e di solito a trovare) le applicazioni appropriate. È naturale attendersi che questo pragmatismo diventi – anzi, probabilmente lo è già – inseparabile dal nostro mondo di consumatori: un mondo nel quale i prodotti, invece di rispondere a una domanda preesistente, sono costretti a crearla e a svilupparla; anzi, molto spesso a evocarla ab nihilo. Nel tentativo di visualizzare questo aspetto della condizione in cui tutti oggi ci troviamo, assai azzeccata e proficua appare la metafora del campo minato, formulata (sia pure in un contesto parzialmente diverso) da Jurij M. Lotman, il più grande studioso estone della cultura nella sua dimensione antropologica e storica. Dei campi minati, una cosa sappiamo con certezza: che sono pieni di esplosivi; è dunque ragionevole supporre che prima o poi ci saranno delle esplosioni; ciò di cui non abbiamo la più pallida idea è solo quando e dove. Il solo modo per sanare questa desolante consapevolezza accompagnata dall’impossibilità di fare previsioni certe, è evitare di minare i campi: in sé una buona idea, ma destinata purtroppo a rimanere, nella condizione attuale, un sogno da allucinazione. Davvero un sogno, se si pensa ai favolosi profitti cui i complessi militari-industriali non vogliono in alcun modo rinunciare – tanto meno oggi che si sono sostanzialmente affrancati dal controllo politico –, e alla tentazione irresistibile, per i governi, di far leva sulla fiorente industria degli armamenti per scongiurare ulteriori cadute dei dati sull’occupazione; del resto, neanche la criminalità globale si lascerà sfuggire la ghiotta occasione di guadagno offerta loro da quei pochi governi che, andando contro la corrente e tutti i pronostici, osano porre freni all’importazione o all’esportazione di armi ed esplosivi. Va poi ricordata un’altra tentazione, cui i detentori di «armi leggere» – e soprattutto i loro guru e/o mandanti – trovano straordinariamente difficile resistere: la possibilità di dilatare, attraverso i media planetari, l’impatto e le ripercussioni di colpi esplosi persino nel più piccolo dei borghi, facendoli vedere e sentire globalmente e «in tempo reale», riconvertendoli a costo zero in eventi-choc raccapriccianti, e costringendo così a vivere, in ogni angolo e anfratto del pianeta, in uno stato permanente di rischio e di emergenza. E per chiudere in bellezza la lista dei fattori che vanificano il sogno di bonificare i campi minati: l’effetto complessivo di tutti i dati di fatto citati è la crescente convinzione degli elettorati in tutto il mondo (a cominciare dagli Stati Uniti) che una maggiore disponibilità di armi, e una maggiore facilità di ottenerle, siano la miglior medicina contro i danni creati sul pianeta dal gran numero di quelle stesse armi che è tanto facile procurarsi e usare. Zygmunt Bauman, Retrotopia, trad. di M. Cupellaro, Laterza, Bari-Roma 2017, pp. 14-17

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Secondo il pensiero del filosofo tedesco, vissuto fra il 1864 e il 1920, il mondo occidentale è caratterizzato dal dominio della ragione formale o

strumentale, non interessata tanto al fine dell’agire, quanto ai mezzi.

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analisi Analisi del e produzione testo di un testo argomentativo

Comprensione e analisi 1. Perché la relazione prodotta nel 2003 sulla diffusione delle armi pone in rilievo il fatto che paesi come Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina siano fra i maggiori produttori di armi? 2. Quali conseguenze sono prevedibili in merito all’utilizzo delle armi tenendo conto del “pragmatismo” proprio della società occidentale?

3. Perché Bauman riporta la metafora del campo minato? Quale significato vuole assumere tale racconto nel contesto del brano?

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4. L’autore riporta almeno quattro ragioni per le quali – a suo avviso – la produzione e il commercio di armi non saranno destinati a diminuire nel prossimo futuro. Quali?

Produzione Nel contesto europeo i conflitti mondiali hanno prodotto l’esigenza di disporre di armamenti in numero necessario a sostenere i rispettivi fronti di combattimento; in tempi di pace, l’industria delle armi continua a produrre armamenti sia per scopi militari che per uso privato. La Facoltà di Economia dell’Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo” ha promosso nel 2018 uno studio sulla produzione di armi nel nostro paese, i cui risultati sono stati pubblicati su «Italia Oggi» (9 febbraio 2018): «La produzione di armi e munizioni per uso civile, sportivo e venatorio in Italia vale 7 miliardi 293 milioni di euro corrispondenti allo 0,44% del Pil nazionale, con 87.549 occupati, cioè lo 0,56% di lavoratori totali italiani e lo 0,69% degli occupati nell’industria manifatturiera e nel terziario. Il settore produttivo di armi e munizioni cresce del 19% rispetto al 2010, trainato dall’export che incide per il 90,3% (+6,3%

rispetto al 2010)». Secondo i dati pubblicati ogni anno dal SIPRI – Istituto internazionale di Ricerca sulla pace di Stoccolma – l’Italia è fra i primi 10 esportatori mondiali di armi. L’esportazione di armi avviene spesso in paesi attualmente soggetti a una situazione di instabilità politico-militare: in merito ai paesi di esportazione delle armi da parte dell’Italia si può consultare la «Relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento» trasmessa ogni anno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. La produzione di armi può davvero rappresentare una soluzione per risollevare l’economia del paese? Produrre le armi può contribuire a mantenere la pace? Rifletti sul tema proposto, elabora quindi un testo argomentativo nel quale la tua tesi e gli elementi a supporto siano organizzati in forma organica e coesa.

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Analisi e produzione di un testo argomentativo

La comunicazione dei beni culturali Il nostro paese è ricchissimo di musei, opere artistiche, siti archeologici, ma l’esposizione da sola non basta a garantire che si abbia una idonea trasmissione di cultura. Francesco Antinucci, già

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direttore di ricerca all’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del CNR, riflette sul ruolo – e i limiti – della comunicazione in ambito museale.

Fin dalla sua nascita in quanto istituzione pubblica, il museo ha avuto tre compiti fondamentali: quello di conservare, quello di studiare e quello di esporre le opere che costituiscono la sua collezione. Li ha svolti, e continua a svolgerli, naturalmente, in maniera variabile a seconda dei tempi, dei luoghi e delle circostanze di contorno, portandosi però appresso una asimmetria fondamentale. Mentre per i primi due compiti i risultati sono più o meno buoni, ma sono chiari i criteri in base a cui essi possono essere misurati – è chiaro cosa significa che un museo conservi bene o male le sue opere, così come è chiaro se fa progredire o meno le conoscenze scientifiche nei campi cui queste opere appartengono –, non è così per il terzo compito. Esso serba – e, come vedremo, fin dall’origine – un’intrinseca ambiguità o indeterminazione che sembra a volte persino impedire di capire in che cosa consista. È evidente che non si tratta di esporre fisicamente i pezzi: se così fosse, tutti i musei tranne quelli chiusi o semichiusi assolverebbero bene questo compito. Il compito riguarda, piuttosto, la ragione per la quale si espongono questi particolari oggetti: «trasmettere cultura», si dice comunemente, sia da parte di esperti che di profani. È qui che, per ampio accordo, le cose non vanno. «Oggi come oggi, per quello che oggettivamente è, per come è offerto al pubblico, per il tipo di educazione che caratterizza la gran parte dei suoi fruitori, mi sembra difficile che il museo possa trasmettere cultura alle grandi masse che lo frequentano», scrive un soprintendente in carica, responsabile di alcuni dei più importanti musei del mondo (quelli fiorentini) e già ministro dei Beni culturali (A. Paolucci). [...] Ciò che chiamiamo «trasmettere cultura» significa trasmettere conoscenze, valori, in un particolare contesto e con particolari modalità. Il fondamento di questa trasmissione è ovviamente la comunicazione (dato che non avviene per infusione diretta o contatto mistico): un particolare tipo di comunicazione, che si attua attraverso specifici codici e veicoli segnici. [...] Sembrerebbe ovvio che il problema fosse almeno affrontato da un punto di vista tecnico, e cioè dal punto di vista della teoria della comunicazione. Questo non avviene, in parte sicuramente per contingenze accademiche: le discipline che attualmente costituiscono ciò che si chiama scienza della comunicazione non hanno mai fatto parte del curriculum di coloro che si occupano di musei, e cioè, fondamentalmente, archeologi e storici dell’arte. Ma di ciò non si occupa neanche la disciplina d’elezione dei musei, e cioè la museologia. [...] Ciò genera la situazione contemporanea, che ha tutte le caratteristiche del paradosso. I musei sono frequentatissimi come mai lo sono stati in passato, il che significa che vi è potenzialmente una vasta platea disponibile alla «acculturazione»: si è cioè del tutto invertita la situazione di non molti anni fa in cui il limite primario a questa funzione del museo risiedeva nella sua scarsa frequentazione. Gli ultimi dieci anni hanno visto inoltre,

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parallelamente alla crescita esponenziale del pubblico del museo, lo sviluppo altrettanto straordinario delle tecnologie della comunicazione, e in particolare proprio di quella parte di esse che si basa sull’immagine, e che sarebbe perciò particolarmente adatta alla natura visiva degli oggetti che il museo espone. Ma il museo comunica e trasmette ancor meno di prima: «Per molti visitatori basta percorrere le sale senza aver visto nulla o quasi. Come se il rituale consistesse nell’offrire a una divinità misteriosa il solo gesto, la sola fatica di gettare uno sguardo all’interno di quello che è rimasto ancora, dalle origini del museo moderno a oggi, il suo tempio. In questo senso sembra funzionare egregiamente il nuovo ingresso del Grand Louvre, che assomiglia alla sala di imbarco di un aeroporto, amplissima e sempre piena di gente in movimento» è la constatazione di una studiosa di museologia sugli afflussi di pubblico contemporanei (A. Lugli). [...] Bisognerebbe anche smettere di usare termini, del tutto impropri, come “valorizzazione” e “valorizzare” (attualmente in gran voga): non si tratta di conferire valore a ciò che non lo ha, o di aumentare quello che già ha: gli “oggetti” culturali non sono beni. Si tratta di metterli in condizione di svolgere la funzione per la quale sono stati concepiti e generati. Nient’altro. Qualsiasi altra esigenza, per quanto legittima, dovrebbe venire dopo questa, che è il semplice rispetto della loro natura.

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Francesco Antinucci, Comunicare nel museo, Laterza, Roma-Bari 2014, pp. vii-xiii

Comprensione e analisi 1. Sintetizza il contenuto del brano proposto in non più di 10 righe. 2. Perché il ruolo del museo come luogo di esposizione delle opere d’arte presenta «un’intrinseca ambiguità o indeterminazione che sembra a volte persino impedire di capire in che cosa

consista» (rr. 9-11)? 3. Quale paradosso viene riconosciuto dall’autore alla fruizione museale? 4. Perché Antinucci conclude che i termini “va­ lorizzazione“ e “valorizzare” sono del tutto impropri?

Produzione Esiste un problema di “comunicazione” connesso alla fruizione dei beni culturali? In base alla tua esperienza, esistono musei nei quali la comunicazione è maggiormente efficace? Cosa può contribuire a migliorare la “trasmissione di cultura” nell’am-

bito della fruizione dei beni culturali? Rifletti sul tema proposto, puoi far riferimento a conoscenze di studio o personali. Elabora un testo argomentativo nel quale la tesi esposta risulti chiara e sia supportata da elementi di approfondimento e analisi.

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Il ruolo dei servitori dello Stato. Riflessioni di Giovanni Falcone Il 23 maggio 1992 un attentato di mafia, nei pressi dello svincolo di Capaci dell’autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi porta a Palermo, uccise il magistrato Giovanni Falcone (nato nel 1939), sua moglie e tre uomini di una delle auto di scorta. Da anni impegnato nella lotta al fenomeno mafioso, Falcone

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conosceva i rischi che stava correndo: in un’intervista rilasciata a Marcelle Padovani l’anno prima, nel 1991, sembra fornire a tutti noi una spiegazione di quanto accadrà di lì a poco, le sue parole ci aiutano a comprendere quale debba essere il ruolo dello Stato nel perseguire il fenomeno mafioso.

Ripercorrendo il lungo, impressionante elenco dei caduti per mano mafiosa mi pare che la percentuale di omicidi che si potevano evitare o comunque rendere più difficili sia molto più elevata di quella dei morti, per così dire, fisiologici, normali, per il tipo di attività svolta. A volte mi dico che sarebbero morti comunque, ma l’idea che si sia facilitato il compito degli avversari mi fa montare il sangue alla testa. La professionalità consiste quindi anche nell’evitare le trappole. Non sempre chi stava intorno a me ha visto nella giusta luce l’attenzione pignola che dedicavo al problema della mia sicurezza: ritengo che si tratti della regola numero uno, quando si ha il compito di combattere la mafia. Si è favoleggiato sulle mie scorte, sul mio gusto del mistero, sulla clandestinità della mia vita, sulla garitta1 davanti alla mia abitazione. È stato scritto che mi spostavo da un bunker a un altro, dal Palazzo di Giustizia alle carceri e dalle carceri alla mia prigione personale: la mia casa. Qualcuno ha pensato forse che attribuissi troppa importanza a questi problemi. Non sono d’accordo. Conosco i rischi che corro facendo il mestiere che faccio e non credo di dover fare un regalo alla mafia offrendomi come facile bersaglio. Noi del pool antimafia abbiamo vissuto come forzati: sveglia all’alba per studiare i dossier prima di andare in tribunale, ritorno a casa a tarda sera. Nel 1985 io e Paolo Borsellino siamo andati in “vacanza” in una prigione, all’Asinara, in Sardegna per stendere il provvedimento conclusivo dell’istruttoria del maxiprocesso. Non rimpiango niente, anche se a volte percepisco nei miei colleghi un comprensibile desiderio di tornare alla normalità: meno scorte, meno protezione, meno rigore negli spostamenti. E allora mi sorprendo ad aver paura delle conseguenze di un simile atteggiamento: normalità significa meno indagini, meno incisività, meno risultati. E temo che la magistratura torni alla vecchia routine: i mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro mestiere dall’altro, e alla resa dei conti, palpabile, l’inefficienza dello Stato. Sarebbe insopportabile risentire nel corso di un interrogatorio l’ironia e l’arroganza mafiosa di una volta! Professionalità nella lotta alla mafia significa anche avere la consapevolezza che le indagini non possono essere monopolio di un’unica persona, ma frutto di un lavoro di gruppo. L’eccesso di personalizzazione è il pericolo maggiore delle forze antimafia, dopo la sottovalutazione dei rischi. Penso al generale Dalla Chiesa2. Era solo. Non ha avuto il tempo

Piccola costruzione destinata a riparare le sentinelle di guardia a un edificio.

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Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nato nel 1920, fu ucciso con la moglie, nel settembre del

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né alcuno lo ha aiutato a prendere pienamente coscienza della potenza militare raggiunta dalla mafia. [...] Al di là delle specifiche cause della loro eliminazione, credo sia incontestabile che Mattarella, Reina, La Torre3 erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati. Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto. Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.

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Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra, in collaborazione con M. Padovani, Rizzoli, Milano 1991, pp. 170-71

1982, in un agguato di mafia a Palermo. Dopo aver guidato, negli anni Settanta, la lotta contro il terrorismo di sinistra, nel 1982 era stato inviato a Palermo come prefetto, per combattere la mafia: pochi mesi dopo fu assassinato. 3 Piersanti Mattarella (1935-1980, presidente della

Regione Sicilia), Michele Reina (1932-1979, segretario provinciale della Dc a Palermo) e Pio La Torre (1927-1982, deputato e segretario regionale del Pci, propose la legge Rognoni-La Torre del 1982 con cui si definiva il reato di associazione mafiosa) furono uccisi durante agguati di mafia.

Comprensione e analisi 1. Cosa intende suggerire Falcone quando, riferendosi al numero dei caduti per mano mafiosa, afferma l’ipotesi che si sia «facilitato il compito degli avversari» (rr. 4-5)? 2. Perché il fatto che«la magistratura torni alla vecchia routine: mafiosi che fanno il loro mestiere da un lato, i magistrati che fanno più o meno bene il loro mestiere dall’altro» (rr. 23-24) è ritenuto da Giovanni Falcone un evento da scongiurare?

3. Quali sono i maggiori pericoli in cui possono incorrere le forze che agiscono per combattere il fenomeno mafioso? 4. Quando Giovanni Falcone afferma che nessuno ha aiutato il generale Dalla Chiesa a prendere pienamente coscienza della potenza militare raggiunta dalla mafia, a quale tipo di collaborazione sembra voler alludere?

Produzione «Si muore [...] perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande.» Le parole di Giovanni Falcone suonano come un appello a non abbandonare i servitori dello Stato nel loro difficile compito di lotta alla criminalità organizzata. Come è possibile arginare la solitudine di coloro che lottano in prima linea per tutelare i diritti di tutti i cittadini? Lo Stato è l’organizzazione di una comunità in grado di prendere delle decisioni, sono le istituzioni a do-

ver tutelare i servitori dello Stato o il compito spetta anche ai cittadini tutti, che dello Stato sono parte? Coloro che hanno perso la loro vita a causa delle battaglie civili sono degli eroi, ma gli eroi sono tali proprio perché si distinguono dalla massa e, in genere, sono soli. Rifletti sul rapporto fra cittadini e istituzioni nella lotta alla criminalità organizzata. Esponi le tue considerazioni in un testo argomentativo che risulti organico e coeso.

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Le parole della Costituzione

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Quando la Costituzione è stata scritta, tra il 1946 e la fine del 1947, le capacità di comprensione del testo costituzionale della popolazione italiana erano, detto alla buona, pessime, perché l’Italia prefascista e l’Italia fascista avevano lasciato in eredità alla Repubblica una massa sterminata di persone senza istruzione scolastica, che non avevano completato la scuola elementare, e, dentro questi, di analfabeti. I numeri, siccome purtroppo in genere sono antipatici (intanto sono numeri), e poi macchiano la nostra coscienza nazionale, non si ricordano. Fatemi dire solo che il 59,2, quindi quasi il 60 per cento degli adulti di oltre quattordici anni era, appunto, senza licenza elementare, e molto più della metà di questi si dichiararono spontaneamente, al censimento dell’ISTAT del 1951, analfabeti, dunque tagliati fuori non dall’uso della parola, ma certo dall’uso della scrittura e della lettura. [...] Ricordo questi numeri perché sono anche il punto di partenza se vogliamo capire che cosa avete fatto, o meglio, che cosa abbiamo tutti fatto e non fatto in questi anni; sono il punto di partenza di un lungo cammino. Ma se ci fermiamo all’altezza del 1947, questa era la situazione. Anche se i numeri sono diventati noti solo qualche anno dopo, questo probabilmente spiega come mai persone che erano profondamente radicate nella vita sociale del Paese, come i 556 Costituenti, abbiano sentito (questa era la prima fonte del loro agire linguistico) che questa era la situazione e che in questo Paese e per questo Paese bisognava cercare di parlare. Tanto più che, credo, i Costituenti avevano in mente, come tutti allora avevano in mente, e come ancora oggi continuiamo ad avere in mente, la incisività delle formule con cui Benito Mussolini, grande giornalista, socialista, agitatore, conoscitore di folle, riusciva a rivolgersi alla popolazione italiana, trascinandola sulle vie che a me continuano ad apparire le più folli, comunque con una capacità di comunicazione e persuasione enorme legata non tanto alle cose che proponeva, ma al modo in cui riusciva a proporle. Credo che anche questo abbia pesato: la volontà di parlare di cose più complicate, come i principi fondamentali a cui una società quale quella che avevano in mente i Costituenti doveva ispirarsi, e di cose ancora più complicate come l’architettura dello Stato conforme a questi principi. Cose difficili da dire con quelle formule ad effetto con cui Mussolini si era rivolto al popolo. E tuttavia, lo sforzo andava fatto nella direzione di trasmettere questi contenuti complessi con un linguaggio di larga accessibilità, tenuto conto delle reali condizioni (anche se i numeri li sappiamo noi, e loro non li sapevano) di difficoltà di comunicazione e di ricezione in cui si trovava buona parte della popolazione. [...] La Costituzione è breve, 9.300 parole o poco di più, una trentina di cartelle dattiloscritte, e soprattutto grande cura nella scelta delle parole. Questo non è casuale. [...] Nella tradizione italiana, prima e dopo la Costituzione, forzare la mano nella direzione del vocabolario di base, cioè del vocabolario di massima trasparenza, del vocabolario in cui si dice io vado e non io mi reco, si dice compito e non ufficio, forzare la mano nella direzione delle parole di più larga comprensibilità è una sfida alle abitudini non tanto del troppo bistrattato ceto politico, ma dell’assai poco bistrattato, e bistrattando invece, a mio avviso, ceto intellettuale. [...] Italo Calvino teneva la mano più leggera; diceva: c’è un tradizionale terrore semantico, terrore per le espressioni in cui la bottiglia si chiama

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Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo analisi del testo su tematiche di attualità

bottiglia, e non contenitore di plastica di liquido acqueo o contenitore vitreo di sostanza vinosa, per dire fiasco di vino, come nell’esempio che faceva Calvino. Allora, i Costituenti hanno vinto questo terrore e lo hanno, credo, voluto, saputo certamente vincere, lo volessero o no, e la percentuale che già ho ricordato, cioè che quasi il 93 per cento del testo della Costituzione sia fatto con il vocabolario di base della lingua italiana, col vocabolario di massima frequenza, col vocabolario che già nelle scuole elementari, per chi le fa, può essere noto bene, indica qualcosa di eccezionale in tutta la nostra tradizione. [...] La Costituzione italiana è scritta con una media esemplare di un po’ meno di 20 parole per frase. Questi due elementi danno alla nostra Costituzione un grado altissimo di leggibilità.

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Il testo è tratto dall’intervento di Tullio De Mauro in occasione del convegno Il Linguaggio della Costituzione, tenutosi a Palazzo della Minerva (Roma), il 16 giugno 2008. Il discorso è riportato nel «Servizio dei resoconti e della comunicazione istituzionale», n. 18, luglio 2008

Produzione Le riflessioni di Tullio De Mauro, linguista di fama internazionale, esposte durante il suo intervento in occasione di un convegno per celebrare i 60 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, ci ricordano che ciò che è semplice diviene accessibile e che l’accessibilità è fra i primi requisiti anche per una fonte del diritto, quale è la nostra Costituzione. Nonostante la sua semplicità e nonostante l’ampia reperibilità, anche in rete, il testo della nostra Costituzione è ancora oggi poco conosciuto dagli italiani. A testimoniarlo, la recente normativa che ha reintrodotto l’insegnamento obbligatorio dell’Educazione civica a

scuola e ha ribadito l’importanza di conoscere il testo costituzionale. Quali sono le ragioni di questo disinteresse? Conoscere la Costituzione non dovrebbe essere un prerequisito per ogni cittadino della Repubblica italiana? Se vivo in un paese, devo anche comprendere quali sono i valori su cui si fonda e le norme che lo regolano. Rifletti su tale tematica, facendo riferimento alle tue esperienze, conoscenze e letture personali. Puoi articolare il tuo testo in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

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PRIMA PROVA Riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche di attualità attualità. Prova guidata

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Il lunghissimo Antropocene

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Quando gli archeologi del futuro si metteranno a scavare nel sottilissimo strato che corrisponde alla nostra epoca rimarranno di stucco. In un millimetrico battito di ciglia geologico, si accorgeranno che una sola specie, con le sue attività minerarie, ha spostato più sedimenti di tutti i fiumi della Terra. Quella stessa specie, immettendo gas serra in atmosfera, ha scaldato il pianeta e gonfiato il livello dei mari. E poi: ha acidificato gli oceani, frammentato gli habitat, decretato il successo di poche specie ed estinto quasi la metà di tutte le altre. Ciascuna di queste azioni avrà lasciato un segno indelebile sulla superficie terrestre. Homo sapiens è diventato una forza della natura. Riflettendo su questo fatto, nel 2002 il chimico Paul Crutzen, premio Nobel sette anni prima per i suoi studi sullo strato di ozono, propose quasi per gioco, dopo un convegno a Cuernavaca in Messico, di dare un nome alla «geologia dell’umanità». Insieme all’ecologista Eugene Stoermer, su «Nature» coniò un termine tanto semplice quanto eloquente: “Antropo-cene”, cioè ‘l’epoca recente dominata dall’umanità’. In realtà, di «era antropozoica» si discuteva già dall’Ottocento in Inghilterra, con il sottofondo degli sferragliamenti della rivoluzione industriale, in Russia, in Francia e in Italia grazie all’abate geologo Antonio Stoppani, che definiva l’uomo «una nuova forza tellurica». Senza nulla togliere a questi precursori, è solo da qualche decennio che è cresciuta la consapevolezza critica sul significato dell’Antropocene: adesso sentiamo il bisogno di dare un nome alla Cosa. [...] E allora, da dove far cominciare l’Antropocene? Crutzen non ebbe dubbi: dalla rivoluzione industriale tra Sette e Ottocento e dai suoi effetti sulla composizione dell’aria. Lo dicono le carote di ghiaccio antartiche che misurano i livelli di anidride carbonica nel passato. Da due secoli a questa parte, un combinato disposto di uso di combustibili fossili e deforestazione sta facendo schizzare i gas serra a livelli mai raggiunti negli ultimi 800 mila anni, con il risultato che stiamo rinviando sine die il naturale arrivo della prossima glaciazione. Anche il Gruppo di lavoro sull’Antropocene inizialmente fece sua questa opzione. Tuttavia, ben prima delle fabbriche inglesi, le attività agricole già avevano modificato radicalmente la superficie terrestre e l’atmosfera. [...] Altri guardano più vicino e pensano che la grande accelerazione delle attività umane con impatto geofisico sia avvenuta dopo il 1945, con le enormi dighe, l’uso massiccio di fertilizzanti, la diffusione della plastica, il consumo di acqua e petrolio, la crescita della popolazione. A favore di questa datazione vi è anche un terribile marcatore globale: il fallout radioattivo prodotto dall’esplosione delle bombe atomiche, due sganciate sulla popolazione in Giappone e altre 500 almeno fatte brillare nei test fino al picco del 1963. [...] Gli scienziati della Terra Simon Lewis e Mark Maslin, dello University College di Londra, propongono un’altra data ancora: il 1610, l’anno in cui l’anidride carbonica in atmosfera scese come mai più farà dopo. Un segno sinistro. Le lame d’acciaio e le malattie euroasiatiche avevano sterminato 50 milioni di amerindi in pochi decenni, pari al 10 % della popolazione mondiale. In seguito al massacro, i campi coltivati delle regioni tropicali americane erano stati per un po’ restituiti alle foreste, cosicché gli alberi in rigogliosa crescita sulle macerie avevano sequestrato i gas serra rinfrescando il pianeta. Dopo il 1610, la

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globalizzazione dei commerci e i profitti dell’economia mondiale detteranno l’agenda e avrà inizio il vero Antropocene. Le due grandi transizioni successive – cioè la rivoluzione industriale della macchina a vapore alimentata a carbone, prima; l’industrializzazione globale novecentesca, poi – consolidarono un processo già avviato. Secondo Lewis e Maslin, il dibattito sull’«epoca umana» è così acceso proprio perché mescola scienza, politica e ambientalismo. Antropocene infatti non significa soltanto cambiamento climatico. Si tratta di un processo composito che riguarda il sistema terra nella sua interezza. Contribuiscono tendenze diverse, dalla crescita delle temperature medie all’impoverimento degli ecosistemi e al crollo della biodiversità. Le dinamiche del fenomeno sono così vaste e imprevedibili perché frutto delle interazioni moltiplicative fra tutti i processi messi insieme.

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Telmo Pievani, Il lunghissimo Antropocene, in «La Lettura. Corriere della Sera», 21 luglio 2019

Produzione Quanto conta l’impatto dell’uomo nel modificare l’ambiente? Se l’Antropocene ha una data di inizio incerta, la preoccupazione per le conseguenze negative del comportamento umano sul pianeta sono sempre esistite oppure si tratta di una preoccupazione recente e non ancora condivisa da tutti gli Stati? Esistono modalità di intervento

possibili per ciascuno di noi? A partire dalle tue conoscenze di studio e personali, rifletti sul tema proposto, elabora quindi un testo di natura espositiva-argomentativa nel quale la tua tesi e gli elementi a supporto siano esposti in forma organica e coesa. Puoi organizzare il testo in paragrafi e dare ad esso un titolo appropriato.

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Intelligenza artificiale e controllo dell’individuo nel XXI secolo

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L’Intelligenza Artificiale (IA) spesso ci spaventa perché non ci fidiamo del fatto che sia sempre obbediente. Abbiamo visto troppi film di fantascienza su robot che si ribellano contro i loro padroni, che scorrazzano fuori controllo per le strade e uccidono tutti. In realtà, il vero problema con i robot è esattamente il contrario: dovremmo temerli perché obbediranno sempre ai loro padroni e non si ribelleranno mai. [...] Nel tardo XX secolo le democrazie hanno funzionato meglio delle dittature perché erano più efficienti nella elaborazione delle informazioni. Nei regimi democratici il potere di elaborazione delle informazioni e il potere decisionale sono distribuiti tra diversi soggetti e istituzioni, mentre nelle dittature l’informazione e il potere sono concentrati in un unico luogo. Di conseguenza, nessuno ha la capacità di elaborare le informazioni abbastanza velocemente e di prendere le decisioni giuste. Questa è in parte la ragione per cui l’Unione Sovietica ha preso decisioni peggiori rispetto agli Stati Uniti e per cui l’economia sovietica è rimasta indietro rispetto all’economia americana. Tuttavia, presto l’IA (Intelligenza Artificiale) potrebbe far muovere il pendolo nella direzione opposta. L’IA permette di analizzare una grande quantità di informazioni in modo centralizzato e rendere i sistemi centralizzati molto più efficienti dei sistemi diffusi, perché l’apprendimento automatico funziona tanto meglio quanto maggiori sono le informazioni che si possono analizzare. Se si concentrano le informazioni relative a miliardi di individui in un database, senza preoccuparsi di problemi di privacy, si possono istruire gli algoritmi molto meglio che rispettando la privacy di ciascuno di noi e avendo così nel database solo informazioni parziali su un milione di individui. Se un governo autoritario ordinasse una scansione generale del DNA di tutti i cittadini e concentrasse tutti i loro dati medici in una memoria centrale, otterrebbe un immenso vantaggio nella ricerca genetica e medica rispetto a una società nella quale i dati medici dei cittadini sono strettamente privati. Il principale handicap dei regimi autoritari del XX secolo – la concentrazione di tutte le informazioni – potrebbe diventare il loro decisivo vantaggio nel XXI secolo. Con la perfetta conoscenza di ogni individuo cui giungeranno gli algoritmi, i governi autoritari avranno un controllo assoluto sui cittadini, persino maggiore di quello della Germania nazista, e la resistenza a questi regimi sarebbe impossibile. Non soltanto questi regimi sapranno esattamente come ci sentiamo: potrebbero farci provare qualsiasi sensazione vogliano. Il dittatore potrebbe non essere in grado di fornire ai cittadini assistenza sanitaria e uguaglianza, ma potrebbe fare in modo che loro amino lui e odino i suoi oppositori. La democrazia nella sua forma attuale non può sopravvivere in un sistema strutturato dalla combinazione tra tecnologie biologiche e informatiche. O la democrazia sarà capace di reinventarsi in una forma radicalmente nuova, o gli esseri umani finiranno per vivere in una “dittatura digitale”. Yuval Noah Harari, 21 lezioni per il XXI secolo, trad. di M. Piani, Bompiani, Milano 2018, ed. digitale

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Produzione Yuval Noah Harari, storico e saggista, docente all’Università israeliana di Gerusalemme, riflette sul ruolo che le nuove tecnologie possono avere nel controllare l’individuo e di come la potenziale concentrazione di dati in server gestiti da regimi autoritari potrebbe rappresentare un pericolo per la sopravvivenza della democrazia. È un pericolo reale? Le informazioni rappresentano le nuove

munizioni del XXI secolo, strumenti di potere e di controllo per i paesi che le detengano in forma massiccia? Rifletti su tale tematica, facendo riferimento alle tue esperienze, conoscenze e letture personali. Puoi articolare il tuo testo in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

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La conoscenza dei giovani tra immaginario e reale

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In una indagine fatta in Gran Bretagna pochi anni fa risultava che un quarto degli inglesi pensava che Churchill fosse un personaggio di fantasia, e così accadeva per Gandhi e Dickens. Molti intervistati (ma non si precisa quanti) avrebbero invece messo tra le persone realmente esistite Sherlock Holmes, Robin Hood ed Eleanor Rigby. Mi interesserebbe anzitutto sapere a quale fascia sociale appartiene il quarto di coloro che non hanno idee chiare su Churchill e Dickens. Se avessero intervistato i londinesi dei tempi di Dickens, quelli che si vedono nelle incisioni delle miserie di Londra di Doré, almeno i tre quarti, sporchi, abbrutiti e affamati, non avrebbero saputo chi era Shakespeare. E neppure mi stupisco che si credano realmente esistiti Holmes o Robin Hood, uno perché esiste un’industria holmesiana che a Londra fa visitare addirittura il suo preteso appartamento di Baker Street, e l’altra perché il personaggio che ha ispirato la leggenda di Robin Hood è esistito davvero (l’unica cosa che lo rende irreale è che al tempo dell’economia feudale si rubava ai ricchi per dare ai poveri, mentre dopo l’avvento dell’economia di mercato si ruba ai poveri per dare ai ricchi). Però è vero, e ce ne accorgiamo quando si rivolgono domande ai nostri giovani (per non dire a quelli, che so, americani), che le idee sul passato anche prossimo sono molto vaghe. [...] Il fatto è che è cambiato il nostro rapporto col passato, probabilmente anche a scuola. Una volta ci interessavamo molto al passato perché le notizie sul presente non erano molte, se si pensa che un quotidiano raccontava tutto in otto pagine. Con i mezzi di massa si è diffusa un’immensa informazione sul presente, e si pensi che su Internet posso avere notizie su milioni di cose che stanno accadendo in questo momento (anche le più irrilevanti). Il passato di cui i mezzi di massa ci parlano, come per esempio le vicende degli imperatori romani o di Riccardo Cuor di Leone, e persino la prima guerra mondiale, passano (attraverso Hollywood e industrie affini) insieme al flusso di informazioni sul presente, ed è molto difficile che un utente di film colga la differenza temporale tra Spartaco e Riccardo Cuor di Leone. Parimenti si spappola o perde in ogni caso consistenza la differenza tra immaginario e reale: ditemi voi perché un ragazzo che guarda film alla televisione deve ritenere che Spartaco sia esistito e il Vinicio di Quo vadis no, la contessa Castiglione fosse un personaggio storico e la schiava Isaura no, che Ivan il Terribile fosse reale e Ming tiranno di Mongo no, visto che si assomigliano moltissimo, almeno secondo Einzenstein. [...] [I ragazzi europei] sono stati formati dai media concepiti da adulti che hanno ridotto a sette secondi la permanenza di una immagine, e a quindici secondi i tempi di risposta alle domande. Ma, avulsi dal passato, ricorda Serres [in un articolo uscito su «Le Monde» del marzo 2001], vedono sugli schermi cose che nella vita quotidiana non vedono più, cadaveri insanguinati, crolli, devastazioni: «all’età di dodici anni gli adulti li hanno già forzati a vedere ventimila assassini». Sono educati dalla pubblicità che esagera in abbreviazioni e parole straniere che fanno perdere il senso della lingua nativa, non hanno più coscienza del sistema metrico decimale dato che gli si promettono premi secondo le miglia percorse e, ormai abituati al computer, questi ragazzi vivono buona parte della loro vita nel virtuale. Lo scrivere col solo dito indice anziché con la mano intera “non eccita più gli stessi

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neuroni o le stesse zone corticali” (e infine sono totalmente multitasking). Noi vivevamo in uno spazio metrico percepibile ed essi vivono in uno spazio irreale dove vicinanze e lontananze non fanno più alcuna differenza. Umberto Eco, Tu, lei, la memoria e l’insulto, Lectio Magistralis, 2015, Festival della Comunicazione, Camogli

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Produzione Tutto si confonde – ci dice Umberto Eco in questo estratto da una Lectio Magistralis del 2015 –, personaggi storici e dell’immaginario si rincorrono nelle vite dei più giovani, animate da narrazioni digitali fino al punto in cui si perde coscienza e consapevolezza di quanto attiene alla fantasia e quanto alla realtà. È davvero mutato il rapporto dei giovani con la realtà? La mancata memoria storica è sintomo di

una “perdita di coscienza” del reale o di una “perdita di conoscenza”? Rifletti sul tema proposto, puoi far riferimento a conoscenze di studio ed esperienze personali. Organizza quindi il tuo pensiero in un elaborato che risulti organico e coeso. Puoi articolare il tuo testo in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

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La norma sociale come capolavoro della libertà umana

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Il poeta Pierre Réverdy ha detto che «non c’è amore, ma prove d’amore»; con una parafrasi, potremmo affermare che «non c’è libertà, ma prove di libertà». La prima prova è la nostra testimonianza personale, quella della nostra coscienza che si sa capace di scegliere e di rifiutare, talvolta d’inventare... anche se in molte occasioni non riesce a precisare in modo soddisfacente i motivi che determinano scelte, rifiuti o anche invenzioni. Sappiamo a sufficienza che siamo liberi, ma non conosciamo del tutto i meandri per i quali fluisce la nostra libertà né gli incentivi che la muovono. La seconda prova, la più abbondante, è costituita dalle nostre opere: la libertà umana lascia un segno nel mondo. Volendo attenerci a una fondamentale distinzione di matrice aristotelica, l’azione non è soltanto opzione e decisione, ma può anche essere creazione: non è solo la pratica che conduce le nostre vite, ma anche la «poetica» che produce cose e trasforma la realtà. Se ci guardiamo intorno, vediamo ovunque i risultati concreti dell’esercizio della libertà, sovrapposti e imposti al divenire degli eventi naturali. Il paesaggio della nostra libertà, presente e futura, si configura a partire dalle opere della libertà già esercitata... [...] La prima cosa che la ragione identifica sono i pericoli: e davanti a questi, reagisce, inventa e alza previsioni. Il primo e fondamentale capolavoro della libertà umana è la norma sociale, il modello della nostra collaborazione e il contratto che ci assicura la protezione reciproca. Tutto il resto è in sovrappiù. [...] Ciascuna delle istituzioni che fondiamo in concreto (leggi, costumi, tecniche, ecc.) tenta di offrirci un punto di partenza e un sostegno che potenzi la nostra libertà d’azione, ammorbidendo le scelte estreme fra vita o morte, alle quali la nostra condizione estremamente vulnerabile di esseri naturali ci costringerebbe, per consentircene così altre più arricchenti. Se per sopravvivere dovessimo reinventare tutto ogni mattina, lo sforzo della nostra libertà non si sarebbe mai affrancato dalle imposizioni più immediate della necessità. Gli stimoli incessanti dell’universo incontrollabile, i suoi rischi e le sue minacce, ci imporrebbero un pugilato che lascerebbe estenuate le nostre forze creatrici, ovvero quelle stesse energie che – socialmente protette dalle istituzioni – hanno poi imparato a dedicarsi a piaceri ed esplorazioni meno urgenti. Probabilmente è Arnold Gehlen il pensatore contemporaneo che meglio ha saputo sottolineare l’importanza delle istituzioni umane – il cui insieme chiamiamo «cultura» – nello sviluppo e nella liberazione della nostra personalità razionale. La visione ingenua ritiene che saremmo più autentici e originali se non avessimo alcun modello culturale per orientare e prefigurare la maggior parte delle nostre scelte quotidiane. Ma le restrizioni da esso conseguenti ci sollevano da dilemmi angoscianti e ci permettono di concentrare la nostra inventiva nel campo in cui possiamo essere più fecondamente liberi. Fernando Savater, Il coraggio di scegliere. Riflessioni sulla libertà, trad. di F. Saltarelli, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 65-69

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Produzione Le parole di Fernando Savater, uno dei maggiori filosofi e intellettuali spagnoli, suonano controcorrente. Sono davvero le istituzioni a permetterci di esercitare la nostra libertà individuale? Se ammettiamo la valenza di questo ragionamento, dovremmo riconsiderare anche il rapporto fra cittadino e istituzioni. Rifletti sul tema proposto, puoi

far riferimento a conoscenze di studio ed esperienze personali. Organizza quindi il tuo pensiero in un elaborato che risulti organico e coeso. Puoi articolare il tuo testo in paragrafi opportunamente titolati e presentare la trattazione con un titolo complessivo che ne esprima sinteticamente il contenuto.

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Vincitori e vinti a 80 anni dallo scoppio della seconda guerra mondiale

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[Alla fine del secondo conflitto mondiale] non sempre i vincitori hanno goduto delle loro vittorie e non sempre i perdenti sono crollati sotto il peso delle sconfitte. La Germania ha perso la guerra, ma è oggi una grande potenza, non soltanto economica. La sua capitale venne quasi interamente rasa al suolo negli ultimi mesi del conflitto, ma Berlino è oggi una delle più brillanti e amate città europee. La Francia deve la sua posizione in Europa al ruolo che le fu assegnato da un geniale trattato concluso nel Palazzo dell’Eliseo dal generale Charles De Gaulle e dal cancelliere Konrad Adenauer: quello di chaperon della Germania per garantire la sua rispettabilità. La Gran Bretagna si è battuta eroicamente ed è riuscita a rovesciare le sorti del conflitto; ma ha perduto l’impero ed è oggi impantanata nel mezzo di una crisi istituzionale. L’Italia ha perso la guerra, non ha più il suo impero coloniale, ed è mediamente ogni 20 anni alla ricerca di un sistema politico che piaccia alla maggioranza dei suoi cittadini. Ma è la terza potenza industriale europea. La Russia ha vinto la guerra e, grazie alla vittoria, ha creato un grande impero ideologico composto da alleati e satelliti in Europa, nei Caraibi e in Africa. Ma è bastato il crollo di un muro a Berlino perché il Paese precipitasse in una fase di assestamento da cui fatica a risollevarsi. Il Giappone ha perso la guerra, ma è diventato un gigante dell’economia mondiale. Gli Stati Uniti hanno vinto la guerra, ma hanno perduto quasi tutte le guerre successive e hanno un presidente che molti americani vorrebbero incriminare di fronte al Congresso per una serie di colpe, fra le quali la maggiore, probabilmente, è l’incompetenza. Dove sono dunque i vincitori della Seconda guerra mondiale? Erasmo da Rotterdam scrisse della guerra che «è dolce a chi non l’ha provata». Forse ai suoi molti Adagia sullo stesso argomento dovremmo aggiungerne un altro: le vittorie militari nuocciono spesso ai vincitori, ma possono giovare qualche volta ai Paesi sconfitti. Sergio Romano, Utilità della sconfitta. Illusioni della vittoria, in «La Lettura. Corriere della Sera», 18 agosto 2019

Produzione La storia inverte le sorti – sembra volerci dire Sergio Romano –, la geopolitica del XXI secolo sta riconfigurando i rapporti di potere risultanti dai conflitti mondiali del secolo precedente. Quali cause hanno favorito questi processi? Quali ulteriori riconfigurazioni ci attendono nel prossimo futuro? Se il programma di storia del quinto anno volge al termine, il presente è avido

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di risposte che possono scaturire dall’indagine sul nostro passato così come dalle aspettative per il nostro futuro. A partire dalle tue conoscenze di studio e personali, rifletti sul tema proposto, elabora quindi un testo di natura argomentativa nel quale la tua tesi e gli elementi a supporto siano esposti in forma organica e coesa.

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