Storia e storie del cinema americano 886008413X, 9788860084132

Il cinema americano è stato, e continua tuttora a essere, una fucina di divi dal fascino magnetico, di personaggi indime

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Storia e storie del cinema americano
 886008413X, 9788860084132

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GIAMPIERO FRASCA

STORIA E STORIE DEL CINEMA AMERICANO

COLLANA DI CINEMA

Indice

IX

Introduzione

3

PARTO PRIMA - di albori del mito

5

Capitolo I - Tentativi c sperimentazioni 1.1 Premessa: una storia iniziata con uno starnuto 12 Edwin S. Porter abbozzi di consapevolezza

5 15

25 25 33

46 46

63 63 73 80

Capitolo 2 - Contrasti c successi 2.1 lldcclino di Edison c la nascita di Hollywood 22 David Wark Griffith: raccontare con la luce Capitolo 3 - Gli croidclla risaia 3.1 l.a vita vissuta a tutta velocità: slapstick comedies c comicità 3.1 .1 Charlie Chaplin, p. 49 - 3.12 Buster Keaton, p. 55 3.13 Harold Lloyd, p. 60-3.1.4 Stan Laurel c Oliver Haniy. p. 61

Capitolo 4 - Hollywood si struttura 4 .1 Nascita, affermazione c controllodclle Majors 42 Divismo c Star System 43 Storio di Babilonia c istanze censorie 4.3.1 II codice Hays. p. 83

Indice

VI

120

Capitolo 5 - Tendenze e autori tra muto e sonoro 5.1 Personalità, procedimenti c stile 52 Ix prime decisive parole

131

PARTE

133

Capitolo 6-11 periodo classico

133

6.1

155

Capitolo 7 - Storia, società c violenza 7.) Interesse sociale c gangsters 72 Plasmare la storia: il western

88 88

155

165 169 174 182 182 189 194

73 7.4

- L’età dell’oro

ta Studio System 6.1 .1 llsistcma dei generi, p. 143- 6.12 Lo Star System, p. 145 6.13 tastile classico, p. 150

Non solo western: John Ford L’inquietudine dalle ombre oblique: il noir

Capitolo 8 - Pratiche dcll’intrattcnimcnto 8 .1 Le/ me Entertain you : la commedia sofisticata 82 Breve nota su un’eversione: i cartoon 83 Interludio con sguardo in macchina: il musical

215

Capitolo9- Inattesa della guerra 9 .1 ta democrazia dello spirito: Frank Capra 92 Nel classico irrompe il moderno: Quarto potere 93 11 governo diventa sceneggiatore: la Seconda guerra mondiale

225

PARTE TERZA -1| sistema scricchiola

227 227

Capitolo 10 - ta caccia alle streghe 10.1 The Age ofParanoia

248

Capitolo 11 - Il colosso d’argilla 11.1 llmonopolio si sfalda: la sentenza Paramount c l’emergere della televisione 112 Gli angusti limiti dcll’indipcndcnza

198 198 204

248 253

VII

Indice 269 269 279

Capitolo 12 - Iperboli drammatiche 12.) l.a tecnica contro l’invadenza della televisione 12.2 Colori accesi e passioni amplificate: il melodramma anni Cinquanta

289

Capitolo 13 - Suspense c risate amare

289 294 303

13.) [/emergeredcll’autorialità 13.2 I) brivido del previsto: Alfred Hitchcock 13.3 L’etica del cinismo: Billy Wilder

313

Parto Quarta - Come un’araba fenice

315

315

Capitolo 14 - Gli anni dell’apparente rinnovamento 14.1 Around thè Hollywood Renaissance

325

14.2 Nomi nuovi, nuovi orizzonti

333

Capitolo 15 - Nuove tendenze 15.1 Spostamenti progressivi nello stile 15.2 Voglia di vero 15.3 Antieroi.alienazione e inerzia narrativa

333 344 353 366

366

407

407 427

Capitolo 16 - Lo specchio dei tempi 16.1 Tra violenza, paranoia e crisi d’identità 16.1.1 Limiti del visibile, p. 368- 16.1.2 Violenza come metafora, p.372 —16.1.3 Laderiva reazionaria, p. 381-16. L4 Il ritorno dclla paranoia, p. 384 - 16.1.5 Chi è l’altro?, p. 391 - 16.1.6 Donne, razzismo, nativi, p. 395 Capitolo 17 - Verso il nuovo millennio 17.) L’immagine del futuro: gli anni Ottanta conducono alla fine del secolo 17.2 l.a complessità espressiva e la razionalizzazione formale: Stanley Kubrick

435

Parto Quinta - Apocalisse in forma di appendice

437

Capitolo 18 - The Break Point

Indice

Vili 453 453 458

Capitolo 19 - Attualizzazk>nc dei temi e orientamenti d’autore 19.1 l.a conturbante immagine della paranoia quotidiana 19.2 Piccole impronte di minimalismo urbano

466

19.3 Memorie lontane di un giallo campo di grano 19.4 Procedere guardandosi costantemente indietro 19.5 L'impossibile ruolo di una famiglia sempre disfunzionalc

470

Capitolo 20-11 distillato del cinema: Quentin Tarantino

477

Capitolo 21 - La frontiera della percezione: Avatar

483

Bibliografia essenziale

499

Indice dei nomi

517

Indice dei titoli

460 462

Introduzione

Justus Barnes che spara verso il pubblico. I Ku Klux Klan al galoppo

che salvano la famiglia Cameron assediata da un battaglione nero. Al Jolson che canta le prime giacchiami parole. Clark Gable che si allon­ tana da Rossella infischiandosene. Greta Garbo che scoppia finalmente a ridere. Charlie Chaplin che palleggia con un enorme mappamondo. Una slitta che diventa la sostanza di un’intera vita. Un velo da sposa mosso improvvisamente dal vento dopo una mesta cerimonia. Una ca­

vigliera suadenteche provoca un assassinio. Il ghigno sadico di Richard Widmark mentre getta dalle scale un’invalida incarrozzella. Una danza di gioia sotto la pioggia battente. Un aereo in picchiata su un incredulo Cary Grant. Cleopatra in sontuosa visita a Roma. Il giovane Dustin Hoffman che uria la sua disperazione per fermare un matrimonio. Una lunga scia di sangue sotto le coperte che conduce a una testa di cavallo mozzata. ta smorfia perenne di Jack Nicholson congelato in un giardi­ no-labirinto. Uma Thurman che risorge dalla morte per overdose dopo

una pugnalata di adrenalina, l^eonardo di Caprio e Kate Winslet che inneggiano alla vita sulla pnia del transatlantico prima di incontrare l’iceberg. Semplici immagini instillate nella memoria. Accavallamenti pro­

gressivi, la cui combinazione appare assolutamente arbitraria. Ogni amante del cinema ha una sua sequenza di singole immagini. Ogni se­ quenza è un distillato di icone varie e articolate la cui cadenza non sarà mai uguale a se stessa, perché infinite sono le possibilità di relazione.

X

Introduzione

Corrispondenze peraltro labili, parziali, frutto di spostamenti successivi in un ambito situato a metà tra la partecipazione desiderante e l'imma­ ginazione a occhi aperti. Un'immaginazione spesso trasfigurata nel so­ gno. in queirautentica fabbrica onirica che per la maggior parte degli spettatori, a ogni latitudine, è stata il cinema americano.

Hollywood, luogo di produzione di fama e ricchezza, di divi dal fa­ scino magnetico e di personaggi visti magari una sola volta e fìssati nell’immaginario per sempre in volti languidi e sospiranti, determinati e sprezzanti, cinici e disincantati. Ma anche una fucina inesauribile di storie. Avventurose, enigmatiche e ambigue. Oppure drammatiche, ap­ passionanti e commoventi. Oppure ancora frenetiche, bizzarre e imper­ tinenti. Storie sullo schermo e oltre lo schermo. Storie indimenticabili e

vicende personali, storie seriali inserite in una logica di generee scan­ dali orchestrati per sfruttare l'eventualità di un'eco inaudita.

Storia di un'evoluzione. Che guarda a Hollywood come riferimento privilegiato, ma che non si esaurisce con Hollywood. Un'evoluzione di contenuti, di temi, di argomenti. In un movimento a spirale che investe

anche le forme, le strutture, lo stile, il linguaggio utilizzato per far sedi­ mentare e innalzare sogno e immaginazione. ta storia del cinema ame­ ricano è frutto di più racconti che s'intrecciano su piani differenti. ma parimenti essenziali. Alcuni non colpiscono l’entusiasmo delle folle as­

siepate ai bordi dei red carpet in attesa estatica, ma senza i processi che investono la rigorosa progettazione e l’altrettanto attenta gestazione, non ci sarebbe nessuna estatica attesa. Il punto di snodo in cui il sogno

trae origine dal sistema industriale nato appositamente per farlo vivifi­ care traendone prosaicamente profitto. Sostanze diafane che celano il secondo per esaltare iperbolicamente il primo. Evoluzioni tutt’altro che lineari, con uno sguardo ai tempi storici in cui si sviluppano, talvolta

riflettendone lo spirito, in altre occasioni fornendo una tendenza cui adeguarsi. Storia e storie del cinema americano intende raccontare tutto questo. Intrecci, relazioni, sovrapposizioni, in un percorso di nascita, sperimen­ tazione, crescente consapevolezza, affermazione, apogeo, caduta, rina­ scita, ristagno e apertura verso un futuro ancora incognito ma innega­

bilmente fertile e concreto. Uno sguardo alla storia osservando contem­

poraneamente le singole storie da cui essa è composta. Un’osservazione

Introduzione

XI

che si origina dai film, dalle sequenze decisive nella definizione di un'immagine, di un modello, di una codificazione stilistica, e approda alle persone, a un genere, alle situazioni messe in atto, ai gusti del pub­ blico. allo scambio prodotto con la società. Uno dei tanti intrecci possi­ bili, seguendo le tracce forti di un immaginario stratificato, reso tuttavia

analiticamente labile dalla miriade di trame reticolari che dalle singole situazioni ricavano diretto nutrimento.

Consapevolcdi questo confine. Storia e storiedel cinema americano propone il suo percorso: s’inerpica su una strada battuta migliaia di al­ tre volte, non lusinga con vuote promesse di rivelazioni sensazionali,

ma si concentra con rigore ed entusiasmo sulle vicende. Narrative, umane e produttive. Con la leggerezza del racconto, con la disciplinata

curiosità dell’esplorazione, con il rispetto dovuto alla leggenda.

Storia e storie del cinema americano

A Margherita Lite a Rock

Parte

1

Gli albori del mito

CAPITOLO 1

Tentativi e sperimentazioni

1.1

Premessa: una storia iniziata con uno starnuto

Prima di iniziare a narrare una storia, a maggior ragione se caratterizza­ ta da dinamiche lutt’altro che lineari come quella del cinema america­ no, è necessario soffermarsi su tutta una serie di ipotesi, ricerche, tenta­

tivi, prove e conquiste successive (ma anche battute d’arresto, seppur non definitive) che precedono la nascita ufficiale del nuovo mezzo espressivo. Il primo nome è quello di un fotografo inglese, liadweard Muybrid­

ge, il quale, secondo la leggenda, fu chiamato a dirimere una singolare controversia nata tra un finanziere americano e l’ex governatore della California, Iceland Stanford, ispirala daun trattato di fisiologia di Èlien-

ne-Jules Marey, Zxr machine animale, uscito nel I873. Questo trattato sosteneva che un cavallo, durante il galoppo, avesse tutte le zampe sol­ levate dal suolo. Muybridge avrebbe dovuto dimostrare la veridicità di

questo assunto documentando il movimento dell’animale con una serie di fotografie successive che ne fissassero la scansione del movimento. In realtà, Ixland, oltre ad essere impegnato in politica,era un allevatore di cavalli, e con ogni probabilità lo studio di Muybridge doveva servir­ gli per ottimizzare alcuni aspetti della sua attività. Muybridge, appena uscito da una cruenta vicenda giudiziaria origi­ nata dall’uccisione dell’amante della giovane moglie, nel 1878 appron­

tò a Palo Alto, California, una batteria di dodici macchine fotografiche

6

Storia e storie del cinema americano

disposte in sequenza all’intemo di un capanno nella tenuta di Stanford, ognuna delle quali aveva l’otturatore collegato a fili posti trasversal­ mente rispetto alla pista percorsa dal cavallo (il purosangue Abe lìdgington). Ix) strappo progressivo dei fili dovuto al passaggio dell’ani­ male avrebbe fissato le singole immagini del movimento, stagliato,

dalla parte opposta della pista, su un grande telo bianco gradualo per misurare l’altezza dal suolo, il risultato fu sorprendente e, in breve, di­

venne famoso in tutto il mondo, grazie alla grande eco giornalistica e alla pubblicazione su alcune rinomate riviste scientifiche. L’esperienza si allargò: gli apparecchi fotografici aumentarono prima a ventiquattro, poi a trenta, facendo parallelamente diminuire l’intervallo tra fasi suc­ cessive del movimento, e si rivolsero non soltanto ai cavalli, ma ad altri

animali e anche all’uomo. Ix> studio del movimentodi Muybridge, con­ dotto quasi contemporaneamente all’osservazione del volo degli uccel­

li con il fucile fotografico (e poi con diversi modelli di cronofotografo) da parte di (itienne Jules Marey in Europa, portò il fotografo inglese a realizzare, nel 1879. un apparecchio chiamato zoopraxiscopio, una sor­ ta di lanterna magicache proiettava le immagini dipinte delle sequenze fotografiche da lui realizzate, a causa dell’impossibilità di fissare sui

dischi che componevano il meccanismo le immagini realmente scattate.

Un passo avanti nell’illusione della continuità del movimento, anche se le dimostrazioni proposte da Muybridge erano sempre troppo brevi (non più di due secondi) perché condizionate dalla circonferenza del disco su cui erano fissate. Per procedere oltre fu necessario attendere gli esperimenti di Thomas Al va lìdison e la sua spiccata capacità imprenditoriale. Fin dal 1877, data della creazione del suo fonografo, un apparecchio per la riproduzione dei suoni, lìdison pensava a una possibile relazione

con un’invenzione in grado di riprendere e proiettare immagini in mo­ vimento, ma fu solo qualche anno più tardi che il suo staff cominciò a lavorare a quella che fino a poco prima era stata soltanto un’idea. Nel 1888, nel nuovo centro di West Orange, New Jersey, lìdison incontrò Muybridge per verificare la possibilità di coniugare lo zoopraxiscopio con il fonografo. Ma l’impresa si rivelò impossibile da attuare, perché

il fonografo non possedeva ancora la perfezione necessaria per essere proposto a un pubblico più o meno vasto e il marchingegno di Muybrid-

Tentativi e sperimentazioni

7

ge si basava su una proiezione troppo breve per diventare uno spettaco­ lo apprezzabile. lidison incaricò uno dei suoi assistenti più brillanti. William Kenne­ dy taurie Dickson, francese di nascita e britannico di origine,di studia­ re un mezzo per proiettare fotografie. Dickson cercò dapprima di utiliz­

zare uno strumento cilindrico su cui collocare le immagini da proietta­ re, poi, su consiglio di lidison, cirenei frattempo aveva incontrato il Ti­

siologo Marey e compreso come le possibilità di riuscita fossero sensi­ bilmente migliori servendosi delle pellicole trasparenti utilizzate dallo scienziato francese, prese a lavorare sulla pellicola, [/intuizione dei laboratori lidison fu di forare la pellicola ai bordi per permetterle uno scorrimento regolare davanti all’obiettivo dell’apparecchio. Fu, prati­

camente, l’atto di nascita del sistema Kinematoscope, formato dal KinetoRrafo^ lo strumentodi ripresa, e dal Kinetoscopio, il visore. Visore e

non ancora proiettore: il Kinetoscopio si componeva di una cassa di legno con un oculare posto alla sua sommità, all’intemo del quale si vedeva una breve scena animata, non ingrandita, impressa su una pelli­ cola adanellodel formato di un pollicee mezzo (quel lo che diventerà il classico formato a 35 millimetri) che scorreva in continuazione, lui vi­

sione era dunque individuale e non collettiva su uno schermo, lui novi­

tà rispetto alle immagini contigue e successive proposte da Muybridge era che il KinetoRrajb dei laboratori lidison riprendeva la scena da un solo punto di vistae il movimento proposto allo spettatore era apparen­ temente continuo, non frutto di più prospettive adiacenti. Nonostante il battage pubblicitario intendesse presentare ufficial­ mente la nuova creazione all’esposizione universale di Chicago del 1893, il Kinematoscopepresentava ancora alcuni problemi di produzio­ ne che fecero slittaredi qualche mese I’incontrocon il pubblico incurio­

sito. Giunti alla fine dell’anno, l’invenzione era ormai definitivamente pronta. Si allestì una nuova e pressante campagna pubblicitaria per rin­ vigorire il desiderio di un pubblico in attesa già da qualche anno delle meraviglie promesse dal nuovo mezzo, lira necessario trovare un sog­ getto rappresentativo e dall’immediata comprensibilità da parte del fu­ turo pubblico, un soggetto che si mostrasse, insieme, affascinante e di­

namico. Su consiglio di un giornalista che aveva appena licenziato un

articolo sull’imminente evento, lidison scelse come azione indicativa

8

Storia e storie del cinema americano

uno starnuto, in grado di fornire le caratteristiche di vivacità e istanta­ neità che avrebbero garantito la percezione della continuità del movi­ mento e la sua chiara assimilazione, lidison, tuttavia, non volle utilizza­

re allo scopo una signorina dai bei lineamenti, come suggeritogli, bensì decise di ricorrere a uno dei suoi impiegati più fedeli. I;red Oli, fratello di John, suo diretto assistente fin dall’avvio della carriera. Fred, pre­ miato da un bel Primo Piano, si predispose: presa di tabacco da fiuto nella mano sinistra, fazzoletto pronto a mitigategli effetti nella destra,

baffi spioventi che si contrassero per un attimo Tino a prorompere in un veloce quanto chiarissimo starnuto rivolto all’obiettivo. Brail 7 genna­ io del 1894 e un momento apparentemente insignificante dell’esistenza umana era stato impressionato su una pellicola, pronto a resistere allo scorrere del tempo. li disposto a resistere anche ai tentativi di plagio, poiché l’importanza storica di questo breve film il cui titolo era Record of a Sneeze risiedeva nel suo essere il primo lavoro coperto dal copy­ right negli Stati Uniti.dopo alcuni altri esperimenti condotti da lidison

negli anni immediatamente precedenti che mostravano, in ordine spar­

so, se stesso intento a sventolare un cappello, tre fabbri impegnati a forgiare un ferro su un’incudine (Blacksmithing Scene) o un salone di barbiere in cui si discute animatamente di alcune notizie apparse sul giornale (Barber Shop). Per realizzare questi brevi esempi di fotografia animata, lidison fece costruire all’estemodel laboratorio di West Orange un capannoneoblun ­ go, di altezza maggiore al centro, il cui tetto era dotato di un ripiano

mobile sollevabile, in modo da rincorrere la luce del sole e regolare le condizioni di illuminazione all’interno, con lo scopo di agevolare la ri­ presa delle immagini con una buona esposizione. Il capannone, che fu ribattezzato ironicamente Black Maria, come i furgoni cellulari della po­

lizia americana che vagamente ricordava, era montalo su rotaie circolari per spostarsi in funzione della luce del sole durante l’intera giornata. ta struttura lasciava penetrare un cono di luce che illuminava l’esibizione del singolo artista, lasciando nell’oscurità il resto della ristretta scena ripresa dall’obieilivo. Di fatto, si trattò de) primo teatro di posa. Contemporaneamente. Bdison iniziò a preparare la produzione in se­

rie delle sue macchine riproduttive, elaborando, al contempo, una fitta

rete di distribuzione in vari locali, i Kinetoscope Parlors, sparsi su lutto

Tentativi e sperimentazioni

9

il suolodegli Stati Uniti, il primo dei quali fu inaugurato a New York il 14 aprile del 1894. Ogni locale aveva un numero variabile di visori, generalmente intomoalla decina; alcuni locali presentavano un accom­ pagnamento musicale non sincronizzato alle immagini con lo scopo di creare un’atmosfera, altri proponevano l’ausilio di unKinetophone. il sonoro accoppiato al visore attraverso l’uso di una cuffia, lìdison pare­ va immaginare che la novità del Kinematoscope si sarebbe esaurita in

breve tempo e forse fu per questo motivo che puntò a generare il mag­ gior profitto possibile dalla vendita delle apparecchiature, per un loro rapido sfruttamento. In effetti, il pubblico, dopo la sbornia iniziale, per­

se progressivamente interesse per il nuovo mezzo. I motivi potevano essere molteplici: queste figure in miniatura che osservavano spiando

da un foro su una cassetta non fornivano l’idea di uno spaccalo della realtà, bensì proponevano una rapida esibizione di un movimento, idea

ribadita anche dallo sfondo scuro su cui si stagliavano questi piccoli personaggi, situazione ambientale che rimandava più al palcoscenico che alla vita vissuta, lui maggior partedei soggetti utilizzati erano artisti del vaudeville (le ballerine Annabelle Whitford e Armand d’Ary. per esempio) e fenomeni da circo (il forzuto Sandow. la trapezista Alceide

Capitarne o l’acrobata JuanCaceido). che dopo la novità dei primi tem­

pi non suscitarono più particolare entusiasmo, visto che esisteva la pos­ sibilità per lo spettatore di vederli esibire dal vivo.a grandezza naturale (se non proprio loro, almeno artisti abili quanto loro). L’obiettivo dichiarato era ora quello di costruire un apparecchio in grado di proiettare le immagini ingrandite su uno schermo per una vi­ sione non più individuale ma collettiva. lìdison conobbe il suo primo concorrente, la American Mutoscope & Biograph Company che propo­ se la sua macchina di proiezione, il Mutoscope. capace di proiettare in

un rapido susseguirsi una serie di cartoline illustrate in luogo della pel­ licola. Dietro al progetto c’era William Dickson, che aveva lasciato i laboratori lìdison nel 1895. Tuttavia, lìdison e Dickson erano solo due dei tanti concorrenti che negli Stati Uniti progettavano di arrivare prima degli altri a costruire il macchinario adatto alla proiezione, lui storia, almeno in Europa, è nota: luxiis e Auguste Lumière, delle officine omonime di Lione, approntarono le Cinématographe che presentarono

a Parigi la sera del 28 dicembre 1895, nel Salon Indien del Gran Café

IO

Storia e storie del cinema americano

del Boulevard des Capucines, con un breve programma di venti minuti (L'arrivo di un treno alla stazione. L'uscita degli operai dalle officine Lumiere, Il pasto di un bebé. Una partita a carte, alcuni dei film pre­

sentati) davanti a soli trentalré spettatori, comunque sorpresi e incurio­ siti. 1 concorrenti degli Stati Uniti, benché non meno impegnati nella ricerca, arrivarono comunque dopo i due fratelli francesi: dopo i tenta­ tivi sperimentali di Jean-Acme l>e Roycon un'apparecchiatura chiama­

ta «Acmegraph».il cui abbozzo di progetto risale al 1893, concepirono un proiettore alternativo a quello dei Lumière prima Thomas Armai e Francis C. Jenkins, all’inizio del 1896, poi lo stesso Dickson,che giun­ se a proporre il proiettore Biograph nell’autunno dello stesso anno, lui macchina di Armale Jenkins fu acquistala da lidison e lanciala dall’in­

ventore sul mercato con il nome di Vitascope. Ormai il cinema poteva essere visto e apprezzato su grande schermo anche negli Stati Uniti. lui prima proiezione avvenne il 23 aprile del 1896 nella sala del Ko­ ster and Bial’s Music Hall a New York, nel corsodi una serata dedicata

allo spettacolo di varietà. Prima della pausa fra la prima e la seconda parte della serata era previsto dal programma di sala «L’ultima meravi­ glia di Thomas A. lidison: il Vitascope». Cori come le cronache

dell’epoca riferirono, il pubblico ammutolì di colpo vedendo dapprima calare un grosso schermo dall’alto e poi un fascio di luce che, dopo un ronzante scoppiettio proveniente dalla cabina di proiezione, investi lo schermo facendo materializzare le immagini delle sorelle l>eigh impe­ gnate nella loro danza degli ombrelli. A esse seguirono un incontro di boxe tra «il lungo e il corto», al secolo Walton e Mayon, comici di rivi­ sta, Annabelle Whitford che danzava in un florilegio di colori (fissati pazientemente con un pennello fotogramma dopo fotogramma da mani

ferme e precise), il finale del celebre musical di Broadway The Milk White Hag^ W momento che suscitò l’impressione maggiore, un breve

film inglese che mostrava le grandi onde del canale della Manica in­ frangersi contro la scogliera di Dover (Rough Sea of Dover, Robert

Paul. 1895), incursione di una realtà inconsueta in percorsi di visione che fino a quel momento, nel catalogo lidison, avevano privilegiato l’esibizione spettacolare piuttosto che la registrazione dell’autenticità

del mondo. Il rivale del Vitascope, il Mutoscope di Dickson e della Biograph, che abbandonale le cartoline della prima fase ora utilizzava

Tentativi e sperimentazioni

II

per questioni di maggiore nitidezza una pellicola larga 68 mm. quasi il doppio del formato di lidison (35 mm) che Dickson stesso aveva con­ tribuito a creare (anche se tornerà al 35 mm dopo pochi anni), esordi a

Broadway, nel teatro Hammerstein Olympia, il 12 ottobre 1896. lui dif­ ferenza con il programma di lidison. oltre a una più alta definizione delle immagini, grazie alla pellicola di grande formato, risiedeva nel carattere realistico di una produzione attenta all’osservazione del mon­

do (traendo spunto dalle reazioni piacevolmente stupite del pubblico di fronte alle mareggiate di Dover durante la serata al Koster and Bial’s Music Hall): la sorpresa delle cascate del Niagara, ritratte in tutta la loro stordente potenza, fu perù superata dalle immagini di William McKinley (McKinley at Home, Canton, Ohio, 1896), candidato repub­

blicano alla Casa Bianca (e di U a poco 25° Presidente degli Stati Uniti). Due erano le cose che sembravano colpire particolarmente il pubblico dell’Hammerstein: la possibilità di esplorare con lo sguardo il contesto scenografico che ospita il soggetto ritratto dalle immagini, invece del

cono di luce su sfondo scuro e della piattezza scenica delle produzioni

lidison, e la visione della celebrità inserita in un evento di attualità che ogni spettatore era chiamato a vivere in prima persona. Ma chi era il pubblico che affollava le sale dei teatri di varietà che sempre più spesso, dopo quelle autentiche «prime visioni», avrebbero

ospitato spettacoli di fotografie animate proiettate su grande schermo? Non si trattava soltanto dell’abituale pubblico del teatro di varietà, nonostante le prime proiezioni fossero state ospitate dentro queste strutture, lira un pubblico di classe media, che poteva permettersi uno svago per un quarto di dollaro, oltre ad altre spese connesse, come lo spostamento sul mezzo pubblico verso e dal centro, eventuali bibite o

generi di ristoro. Alla sua nascita, la visione non era per tutte le tasche. L’idea venne ad alcuni imprenditori recentemente immigrati dall’Eu­ ropa: basare il nuovo intrattenimento su tre concetti cardine come l’economicità, la brevità e l’accessibilità, lui soluzione fu creare nei

quartieri più popolari le Penny Arcades, sale giochi con slot-machine, vecchi Mutoscope per la proiezione di cartoline in rapida successione, banconi per bevande e snack e uno spazio separato da una tenda in cui proiettare un film per solo cinque centesimi, un nickeL E questo spazio

scuro, diviso da una tenda rispetto al resto del locale, cominciò a far

12

Storia c storie del cinema americano

registrare i profitti maggiori, al punto che in poco tempo fu consequen­ ziale la decisione di trasformare interi locali in sale di proiezione che presero il nome di Nickelodeon, dal nome della moneta utilizzata per

accedervi. All’inizio del Novecento sorsero nei quartieri operai decinedi queste sale, la maggior parte delle quali entrava in funzione verso mezzogior­ no per proseguire con le proiezioni fino a larda sera. Ogni spettacolo,

composto di vari brevi film, durava una ventina di minuti e permetteva a ogni spettatore di fare una pausa durante la sua attività, si trattasse di tornare dal lavoro, uscire per una passeggiata o inventarsi un diversivo dopo aver fatto la spesa, luì domenica, inoltre, lesale erano piene oltre la più rosea immaginazione. Tuttavia, tanto successo non poteva passa­

re inosservato senza destare qualche sospetto, soprattutto legato a una presunta questione morale (il 24 dicembre del 1908, un’ordinanza del sindaco George McClellan causò perfino la chiusura di circa cinque­ cento sale di New York). lui sala, il cui ingresso era strategicamente posizionato in una strada dall’intenso traffico commerciale, era com­

pletamente al buio ad eccezione del fascio di luce proiettato sullo scher­ mo. che dava vita a un’immagine spesso instabile e sfarfallante. L’in­ terno claustrofobie© sapeva di stantio e di sudore rappreso e spesso al­ cuni degli spettatori sembravano più interessati a pratiche differenti ri­ spetto alla proiezione, la quale, a causa della cattiva qualità, era tutt’altro che una visione rilassante. Per i benpensanti, i Nickelodeon erano luoghi di perdizione in cui si consumava il peccato e il degrado dei co­

stumi, un luogo da vituperarecon disprezzo in alcuni casi, da contrasta­ re apertamente in altri. Ad ogni modo, l’attenzione riservata alle sale cinematografiche e anche il timore che la loro diffusione faceva serpeg­

giare era il sintomo evidente di un fenomeno che stava prendendo piede e la cui affermazione era ormai prossima. Un’altra curiosità era data dal ruolo attivo degli esercenti, i quali non si limitavano a proiettare e a incassare, ma spesso intervenivano anche

sui singoli film, accelerando le immagini per originare un effetto comi­ co, rallentandole per generare tensione, o addirittura eseguendo tagli incrociati con altre pellicole a disposizione per poi montareil tutto in un

nuovo film con caratteristiche differenti rispetto a quelledi realizzazio­ ne. Probabilmente la prima idea di montaggio fu dei proprietari delle

Tentativi e sperimentazioni

13

sale e dipendeva dalla loro propensione a intervenire sulla pellicola per modificarne la struttura e l’ordine. Ciò non pareva,perlomeno nei primissimi anni del Novecento, deter­

minare una difficoltà di comprensione in storie che nella loro elementa­ rità presentavano uno sviluppo abbozzato, spesso confuso, dagli scon­ tati passaggi logici e narrativi, pronti a sfruttare la notorietà del sogget­ to proposto o l’immaginazione del pubblico, trascinato dalla dinamicità

delle immagini più che daH’interpretazione coerente delle stesse. Un tipo di visione particolare, che ebbe fortuna per un numero limitato di anni, ma che forniva la misura dei gusti ricettivi del pubblico, era esem­ plificata dagli Hale’s Tour. Presentati per la prima volta all’esposizione di SL Ixuisdel 1903da George C. Hale, ex capo dei vigili del fuoco di

Kansas City, Missouri, gli Hale’s Tour erano proiezioni particolari in cui, in una sala simulante un vagone ferroviario, si proiettavano le im­ magini riprese dalla piattaforma di un treno lanciato a notevole veloci­ tà. Unendo l’esperienza del viaggio alla sua riproduzione realistica, il pubblico restava affascinato da una visione simulata e dinamica, puro

movimento inserito in una pratica sociale convenzionale in cui i viaggiatori/spettatori sospendevano la credenza in funzione delle immagini

in fluida e ipnotica continuità scaturite dallo schermo, lui moda degli Hale’s Tour durò un periodo relativamente breve, giusto il tempo di assimilare la novità. Occorrevano dei soggetti che andassero oltre la pura illustrazione e la dimostrazione di dinamismo. Serviva una storia da narrare. Fu questo il momento in cui le sensazioni visive lasciarono

progressivamente Io spazio al racconto. Con il maturare di questa con­ sapevolezza è possibile parlare di autentica nascita del cinema. Il processo, tuttavia, non fu lineare, ma lungo e tortuoso, fatto di tentativi, atti empirici, prove,osservazioni e lente conferme. I più atten­ ti esercenti delle Penny Arcade avevano notato, ad esempio, come le scenette comiche tratte da contesti quotidiani catturavano l’attenzione divertita del pubblico dei vecchi Kinematoscope almeno quanto gli epi­

sodi spettacolarmente naturalistici e gli eventi di attualità vissuti in pri­ ma persona proposti nelle successive proiezioni da lidison e dalla Biograph di Dickson. Alfred Clark, il successore di Dickson alla lidison. aveva avuto l’intuizione di uscire dagli angusti spazi del Black Maria e

di girare al l’esterno. Nel 1895 aveva realizzalo, in un’unica inquadrata-

14

Storia e storie del cinema americano

ni di poco meno di un minuto. The Execution ofMary, Queen of Scots, l’episodio della decapitazione di Mary Stuart ottenuto tramite il trucco dello spegnimento della macchina da presa e della sostituzione dell’at­

tore che interpretava la regina (un uomo) con un manichino pronto a essere decollato da un’enorme scure. L’efietto fu di grande impatto emotivo, e lasciò intendere che anche le situazioni violente e spettaco­ lari. viste in una prospettiva ravvicinata ma con il conforto di una sepa­

razione netta rispetto all’oggetto di visione, potevano riscuotere il favo­ re degli spettatori ancora ingenui. Il film di Clark, inoltre, aveva in qualche modo anticipato il ricorso ai trucchi della macchina da presa, qualche anno prima che l’esempio fornito dall’importazione in Ameri­ ca dei lavori di Georges Méltès lo dimostrasse pienamente realizzabile. Il film di trucchi, comunemente detto Trickfilm, accresceva perii pub­ blico la meraviglia e lo stupore che già le prime immagini animate ave­

vano prodotto, inserendo l’elemento stupefacente in una situazione nar­ rativa che contribuiva a sviluppare, offrendo anche la soluzione del semplice intreccio. Molti film dei primi anni del Novecento furono in­ dubbiamente influenzati dall’opera di Méliès: Dream of a Rarebit Eiend (1906) di lidwin S. Porter rappresentò forse l’esempio più cele­

bre. Sebbene fosse tratto da una comic strip di Winsor McCay, pubbli­ cata l’anno precedente sul «New York Telegram», l’incubo di un ingor­

do era reso con una serie di trovate pronte a descrivere tutto il campio­ nario di trucchi possibili: arresto della ripresa. sovrimpressioni,utilizzo di mascheriti con cui mostrare scarpe che si animano durante la notte ed escono dalla stanza, arredamento che scompare improvvisamente, diavoli che danzano con impeto martellante sulla testiera del letto dell’ingordo, prima che anche il letto cominci a volare nel cielo, sorvo­

lando palazzi, ponti e strade. Al di là della più ampia fonledi ispirazio­ ne. il film di Porter era inoltre modellato su un ben preciso film france­ se, una produzione Pathé intitolata Rève à la lune (Gaston Velie. Ferdi­ nand Zecca. 1905). problema che riguardava un gran numero di produ­ zioni americane realizzate all’inizio del secolo. In mancanza di una precisa legislazione sulla tutela delle opere cinematografiche, infatti, i più grandi successi provenienti dallTiuropa. soprattutto quelli della già citata casa di produzione Pathé. la prima a darsi una struttura di tipo

industriale, erano spesso, nella migliore delle ipotesi, plagiati integrai-

Tentativi e sperimentazioni

15

mente, mentre, nella peggiore, vedevano sostituiti i titoli di testa per essere presentati come film di produzione americana. Casi di serie di film simili erano lutl’allroche infrequenti, anche perché la consuetudi­ ne era di depositare alla Library of Congress di Washington un unico fotogramma del film e su quello dimostrare l’unicità della propria ope­

ra. Emblematico fu il caso di Personal (Wallace McCutcheon, 1904). prodotto dalla American Mutoscope & Biograph Company. Si trattava di una farsa di cinque minuti in cui un damerino francese, dopo aver messo un annuncio sul giornale per trovare moglie, si trovava costretto a fuggire dalla moltitudine delle sue agguerrite pretendenti. Il successo del film era elementare nella sua estrema essenzialità (inseguimenti e capitomboli in luoghi diversi e in fasi successive) e spinse prima la

lìdison a realizzare pressoché lo stesso film, sebbene con attori diffe­ renti e per una lunghezza di poco superiore, con il titolo di liow a French Nobleman Gota Wife through the «New York lieraid» Personal Columns (lidwin S. Porter, 1904), e subito dopo ispirò la Lubin (Meet me at the Fountain, 1904), casa di produzione specialista della replica,

con la speranza di ottenere gli stessi incassi. Nonostante fenomeni cosi evidenti non si protrassero a lungo nel tempo, il copyright sulle opere cinematografiche fu introdotto negli Stati Uniti il 24 agosto 1912: solo da quella data anche il cinema otten­

ne la dignità di essere protetto dalla legge. Mentre il cinema americano lottava per superare la diffidenza dei benpensanti e per assumere una rispettabilità sul piano deH’offerta ai

pubblico, il suo linguaggio, attraverso proposte e configurazioni reite­ rate, cominciava progressivamente a trasformarsi in precise convenzio­ ni accettate da tutti. Questuerà soprattutto merito dei primi registi, co­ stretti a inventarsi un abbozzo di comunicazione che fino a poco tempo

prima ancora non esisteva.

1.2

Edwin S. Porter abbozzi di consapevolezza

Il primo nome che tradizionalmente compare in ogni storia del cinema americano è quello di lidwin Stratton Porter, elettricista, con un passato

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Storia e storie del cinema americano

di proiezionista in giro per il mondo (Indie orientali, Sudamerica, Cana­ da), assunto alla lidison all’età di 29 anni, nel 1899. con il compito di curare lutto il processo produttivo dei singoli film. Tale incarico gli

consentiva di scegliere il soggetto, realizzare le riprese, dirigere in sce­ na gli attori e ultimare la confezione con la messa in successione delle inquadrature permezzo del montaggio dei singoli segmenti di pellicola. Sul conto di Porter, nel corso degli anni, si favoleggiò molto, repu­ tandolo un innovativo visionario, un sorprendente anticipatore di tempi, il vero iniziatore del racconto cinematografico, non solo americano. Questo apprezzamento smodato, non certo gratuito, ma pur sempre ide­

alizzato oltre gli effettivi meriti, soltanto in tempi relativamente recenti è stato collocato nella sua giusta dimensione, permettendo di stabilire

quali fossero le reali novità introdotte da Porter e quali gli elementi fruito di entusiastica esagerazione. Perché se è vero che Porter diede un contributo fondamentale alla formazione di una linea narrativa ricono­ scibile alle produzioni americane, se apparvero innegabili la sua cre­

scente consapevolezza riguardo alla progressione della vicenda narrata utilizzando la giustapposizione di luoghi diversi e la coscienza dell’im­ portanza dell’inseguimento nella costruzione della tensione,è altrettan­

to vero che la sua opera, perlomeno nei primi anni di attività e coeren­ temente con la pratica diffusa nelle produzioni di inizio secolo, guarda­ va spessoa modelli preesistenti, eleggendoli a qualcosa di più che a una semplice fonte di ispirazione. 'l'ulto ciò era evidente in una delle sue produzioni più famose, The Life ofan American Fireman (1903). 11 film raccontava in sei minuti e

in nove inquadrature il salvataggio di una donnae della sua bambina da parte di un ingente corpo di vigili del fuoco. L’argomento non era nuo­ vo, la ripresa dei pompieri in azione, per la dinamicità del movimento e per il concetto di pericolo insito nel ruolo era uno dei motivi più sfrut­ tati fin dalle origini. Si trattava di un topos ricorrente anche nelle lastre delle lanterne magiche e negli allestimenti dei parchi di divertimento:

un’attrazione ipnotica e terribile, una situazione drammatica sfruttata ovviamente anche dal nascente cinema. Fire Rescue Scene faceva parte del catalogo lidison già dal 1894 (inquadratura frontale di una scala appoggiata a una finestra da cui scendono un pompiere e una bambina). Going to the Fire (di William I leise e James White) era del 1896 e mo­

Tentativi e sperimentazioni

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strava carri al galoppo diretti a spegnere un incendio che rimaneva fuo­ ricampo. Heise e White realizzarono nello stesso anno, cambiando di poco titolo e prospettiva, anche A Morning Alarm e The Morning Alarm: la differenza tra i due consisteva nel fatto che il secondo era

ambientato in mezzo alla neve. Altrettanto immediato era Firemen Re­ scuing Man and Woman (di James Stuart Blackton e Albert lì. Smith.

1899), con Ie sue due scale appoggiate a un'abitazione per trarre in sal­ vo un uomo e una donna. Ix> stesso Porter aveva fornito il suo contribu­ to con le riprese documentate di un vero incendio in Burning of Dur­ land's Riding Academy (1902), sviluppatoin tre quadri co n lacinepresa

che si muoveva in due ampie panoramiche, per rivelare tutto lo spazio semidistrulto dalle fiamme e l’opera dei pompieri per tentare di porvi rimedio. The Life ofan American Fireman risultò più complesso dei prece­

denti. perché si premurava di raccontare un’intera vicenda nelle sue differenti fasi (divise tra loro non da stacchi, bensì da dissolvenze incro­ ciate). partendo dalla premonizione avuta da un ufficiale dei pompieri,

il quale, inquieto dopo unsogno in cui aveva visto una donna e la figlia in pericolo a causa della lampada sul tavolino (realizzato per mezzo di

un balloon che si apriva a destra dell’inquadratura), azionava I’allarme e faceva scattare l’operazione di salvataggio. I pompieri si alzavano

velocemente dal letto, scivolavano nelle rimesse dei carri utilizzando le pertiche e correvano verso il luogo dell’incendio. 1^ inquadrature mo­ stravano la lunga teoria di carri che si snodano sulle strade. Ira la curio­ sa osservazione dei passanti, fino all’arrivo davanti alla casa in perico­ lo. l>e somiglianze con l’inglese Fire! di James Williamson, realizzato qualche tempo prima (1901), erano notevoli: se ne discostava soltanto per il preambolo del sogno e per l’inquadratura ravvicinata della casset­

ta d’allarme che una mano azionava. Williamson, tuttavia, si sofferma­ va aosservare leoperazioni di legatura dei cavalli ai carri dei pompieri, prima che questi si lanciassero al salvataggio, mentre, con una praticità tutta americana. Porter esaurì in pochi istanti le procedure di messa a punto per indugiare sull’azione, che diventava il legame tra levarie in­ quadrature, la costante su cui tutta l’architettura del film si basava e il

vettore di spostamento da un luogo all’altro. l.a scena del salvataggio vero e proprio fu invece tema controverso.

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Storia e storie del cinema americano

fonte di discussione per anni perché basata su un presupposto erroneo. Nella versione originale, la cinepresa di Portersi collocava aH’intemo dell’abitazione e mostrava la disperazione della donna minacciata dalle fiamme, il suo sbracciarsi alla finestra richiamando l’attenzione dei sal­ vatori, il suo scoramento e infine il salvataggio dei pompieri. Iji pro­

spettiva mutava subito dopo, con l’illustrazione della stessa scena dall’esterno, con la donna disperata intravista dai vetri della finestra, la salita dei pompieri sulle scale in luogo dello scoramento della donna e la messa in salvo. Per anni si è consumato un equivoco per colpa di al­ cune copie che circolavano manomesse dai distributori, i quali, tempo

dopo, alla ricerca di un linguaggio cinematografico più moderno, si pre­ murarono di intrecciare le due serie che Porter aveva montato in succes­ sione in un abbozzo di montaggio alternato che ne acuisse la suspense. Alcuni storici, tra cui l^wis Jacobs nel suo comunque preziosissimo L’avventurosa storia del cinema americano, videro Porter come il

grande innovatore in grado di precorrere con dieci anni di anticipo una nuova concezione degli spazi e dei tempi cinematografici. A dispetto dei facili entusiasmi, la successione di una stessa scena mostrata da due prospettive complementari era pratica diffusa nel periodo, la si riscon­

trò infilm successivicomeXPoliceman’s LoveAffair(I.ubin, 1905), in cui il momento del saluto di una fanciulla al poliziotto innamorato era visto sia aH’intemo della casa, sia dalla strada, e anche in The Tunnel Workers (American Mutoscope & Biograph Company. 1906). nel quale una stessa azione sullo sfondo di una porta era illustrata in due fasi di­

stinte. Malgrado la facile mitologia e senza tentare in alcun modo di scalfirne il valore aH’intemo della storia del cinema americano, occorre però notare come la filmografia di Porterdimostrasse spesso alcuni pro­ blemi logici e di concezione spaziale: esaltarne la figura senza affron­ tarne le difficoltà nella creazione di un linguaggio che doveva essere forgiato ex novo attraverso una serie di tentativi progressivi e osservan­ do con estrema attenzione ciò che veniva realizzato altrove, non è pra­

tica utile alla piena comprensione di uno sviluppo che, come apprezza­ bili studi dall’inizio degli anni Ottanta hanno dimostrato, è conquista lenta e sofferta, assestamento graduale, piùche intuizione improvvisa e stupefacente. Ancorane! 1907, Porterdimostrava di trovarsi in difficol­ tà con tempi successivi legati alla contiguità spaziale. In The Rivals

Tentativi e sperimentazioni

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(Edison), divertente storiarti due rivali in amore, ognuno dei quali cerca in lutti i modi di frustrare i tentativi dell'altro di conquistare una ragaz­ za, pur escludendo alcune incongruenze relative a una messa in scena ancora approssimativa (personaggi in precipitosa fuga chesi fermavano a distanza, convinti di essere fuori dal campo visivo dello spettatore,

comparsa di figure seminascoste da elementi profumici), appariva fin troppo evidente cornei! concetto di continuità di luogo e di tempo pre­ sentasse delle discrepanze logiche. Nel primo quadro, uno dei due riva­ li (quello più alto), vestito da autista, sottraeva la ragazza, chesi stava apprestando a uscire con il personaggio dalla statura più ridotta, e usci­

va di campo a destra dell'inquadratura. Il personaggio basso restava al centro dell'inquadratura.agitando il pugno e indicando qualcosa in di­ rezione del fuoricampo di destra. Il quadro successivo mostrava che l'oggetto indicato dai rivale basso era l'automobile dell'antagonista,

verso cui quest'ultimo, con la ragazza, si stava dirigendo. Dal fondo della nuova inquadratura si vedeva perù sopraggiungere il rivale basso

con un calesse,accostarsi all'automobile e sabotarla. Il personaggio al­

to e la ragazza, a questo punto, entravano in campo da sinistra, si siste­ mavano sull'auto, ma questa non partiva. L'assurdità del passaggio tra un'inquadratura e l'altra era lampante, perché, uscendo di campo prima del rivale, il personaggio alto e la ragazza avrebbero dovuto giungere

immediatamente all'automobile, parcheggiata in un luogo molto pros­ simo alla prima inquadratura,e non farsi precedere da un avversario che pareva aver avuto addirittura il tempo di recuperare il calesse e sabotare

l'auto. Una giustapposizione di quadri che dimostrava come l'unione tra le inquadrature andasse intesa in un senso differente rispetto alle norme di ricezione cui siamo abituati, giacché lo stesso Porter conside­

rava il suo lavoro un assemblaggio disgiunto di scene discontinue, sep­

pur in presenza di una certa linearità logica. L'operazione di montaggio di Porter era quindi più un collegamento di fasi successive, non necessariamente dotate di continuità, quanto pro­ gressive, motivate dall'azione e disposte in una successione temporale che contemplava più un ordine cronologico che connessioni causali. Ciò premesso, in questa incessante reiterazione di singole inquadra­ ture, di susseguirsi di quadri, di motivi drammatici sviluppati attraverso

l'azione, il contributodi Porter si determinò soprattutto nella ricerca di

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Storia e storie del cinema americano

dispositivi e procedimenti per far evolvere una storia nel modo più in­ teressante per un pubblico ancora pressoché vergine e plasmabile. Cri­ teri che si modellavano dapprima come proveempiriche, poi - tentativo dopo tentativo - come logiche di applicazione e infine diventavano prassi, per una consuetudine che si faceva codificazione dopo un per­

corso addizionale, caratterizzato da procedure simili, testate all’atten­ zione degli spettatori e ratificate nel tempo. The Great Train Robbery (1903; lidison) fissò con pochi tratti gli

archetipi di quello che soltanto inseguito, negli anni Venti, fu designa­ to come genere western (ossia quando la semplice ambientazione passò

a indicare la peculiarità di racconti con caratteristiche iconografiche e contenutistiche simili). Un agguato con conflitto a fuoco, l’assalto al

treno fermo per il rifornimento d’acqua, la fuga dei banditi, l’insegui­ mento da parte dei tutori dell’ordine, la soluzione dell’intreccio per mezzodì una sparatoria rappresentavano azioni tipiche del futuro gene­ re che Porterebbe l’indiscusso merito di proporre in anticipo al pubbli­

co (almeno quanto il meno celebre ma contemporaneo Kit Carson. di­

retto da Wallace McCutcheon e prodotto dalla American Mutoscope & Biograph, fece con la figura degli indiani). Composto da tredici scene più un Primo Piano del bandito Barnes che prendela mira e spara verso il pubblico (che secondo il catalogo Edison poteva essere proiettato da­ gli esercenti indifferentemente all’inizioo alla fine del film e il cui sco­ po era, rispettivamente, catalizzare l’attenzione degli spettatori o san­ cirne la chiusura spettacolare). The Great Train Robbery mostrava nel­

la varietà dei luoghi e nel legame tra un quadro e l’altro l’ampiezza e la velocità di una narrazione spettacolare, che unisse momenti mai visti in precedenza (l’uccisione del passeggero che cerca ingenuamente di fug­

gire) a un uso dello spazio come vasto contenitore dell’azione. Nono­ stante gli eventi si svolgessero sempre a una certa distanza dalla mac­ china da presa, tendenzialmente in Campo Medio. Porter mostrò di possedere una concezione dei limiti imposti dallo spazio dell’inquadra­ tura e di sfruttarli in funzione dell’azione da illustrare (cheeccede sem­ pre l’importanza di personaggi, ancora privi di identità, semplici figure in movimento indistinguibili l’una dall’altra,al punto da creare, in alcu­

ni film contemporanei a quelli di Porter, l’inintelligibilità di ciò che sullo schermo è mostrato - si veda, come esempio indicativo, la prima

Tentativi e sperimentazioni

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parte di Tom Tom. the Piper's Son’, 1905, American Mutoscope & Bio­ graph). Nel quadro dell’assalto al treno fermo per il rifornimento dell’acqua,per utilizzare il centro delpianocome superficie per svilup­

pare l’azione successiva. Porter collocò i banditi lungo il margine sini­ stro dell’inquadratura, nel punto opposto rispetto al macchinista alle prese con il serbatoio dell’acqua, posizionato lungo la parte destra del)’inquadratura, per poi mostrare il movimentodei fuorilegge verso il

treno in tutta l’ampiezza dello scenario a disposizione. Per fornire l’im­ pressione di profondile di movimento nella fissità di una ripresa gira­ ta in interni, apri due finestroni che riempi con una relroproiezione di

un treno in arrivo (nell’ufTiciodel telegrafista) e del paesaggio in veloce scorrimento (all’interno del vagone oggetto della rapina). Il primo dei due trucchi scenografici era anche funzionale all’elaborazione dell’in­ treccio, poiché indirettamente segnalava l’arrivo del treno che sarebbe subito dopo stato teatro della rapina. Soprattutto. The Great Train Rob­ bery fu uno dei primi lavori a utilizzare l’inseguimento come momento

di scioglimento dell’intreccio, pratica che diventò talmente di moda da

conquistare spesso, almeno fino alla fine del decennio, il centro del racconto, ed eventualità narrativa che non abbandonò mai compietamente il cinema americano. Gli inseguimenti, insieme ai salvataggi e ai combattimenti, erano tra gli eventi più apprezzali dal pubblico, in un

periodo in cui l’unicità dell’azione caratterizzava la semplice linearità del racconto di questi primi lavori del cinema americano. L’insegui­ mento di The Great Train Robbery era paradigmatico di una configura­ zione ancora acerba, che metteva in relazione aH’intemo della stessa inquadratura, colta nella sua ampiezza e profondità, due gruppi distinti, gli inseguiti e gli inseguitori. I primi fuggivano rivolti all’obiettivo del­

la macchina da presa, i secondi arrivavano dal fondo dell’inquadratura e colmavano con il loro movimento la distanza: l’inquadratura si chiu­ deva quando anche l’ultimo degli inseguitori era passato davanti all’obiettivo e si stava apprestando a uscire dal campo di ripresa, unico

spazio ammesso per la rappresentazione (e qualora si palesassero pro­ blemi pratici alla realizzazione di questo assunto, come in The Train JFrtvJtrrr.del 1905.era un taglio dissimulato all’interno dell’inquadra­ tura a garantire la compresenza dei due elementi protagonisti, in questo

caso il carrello ferroviario e la locomotiva lanciata al suo inseguimen-

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Storia e storie del cinema americano

lo). L’inquadratura successiva mostrava la prosecuzione dell’insegui­ mento in un luogo contiguo, ma non necessariamente continuo con il precedente, ed era il movimento delle minuscole figure a generare la

tensione e il legame, non la durata dei singoli piani. L’interesse era centrato sulla categoria di azioni più che sulla consequenzialità tra un quadro e l’altro, ognuno dei quali manteneva una certa autonomia ri­ spetto agli altri. Dopo alcuni tentativi soltanto tratteggiati (come in The Gay Shoe Clerk, 1903; Edison, in cui ritagliò un solo piano dalla totali­ tà dell’azione). Porter derogò a questa regola solo un paio di anni più tardi, nel 1905, quando in Seven Ages tagliò la fissità del singolo quadro

impiegando dei piani ravvicinati in funzione di lente d’ingrandimento per mostrare i baci tra i due personaggi, un uomo e una donna, seguiti nel coreo delle varie fasi della loro esistenza. Non si trattava ancora della scomposizione della scena in più inquadrature, ma rappresentava

pur sempre la disposizione ad assecondare il desiderio del pubblico, avvicinando l’azione in uno dei suoi momenti decisivi, seppur nella convenzionalità della vicenda mostrata.

In altri momenti della sua produzione Porter realizzò alcune tecniche che in qualche modo anticipavano sviluppi futuri, anche se i frutti delle sue trovate non sempre furono compresi appieno nel momento in cui furono visti, concedendo cosi ai registi che cominciarono a lavorare ne­ gli anni successivi di appropriarsene, dichiarandone la primogenitura. In AnotherJohfor the Undertaker (coregia di George Fleming, 1901; lidison) praticò una delle prime ellissi che il cinema americano ricordi,

sintetizzando con gusto ironico la fine di un sempliciotto infilatosi nel letto dopo aver spento con un soffio la lampada a gas, cancellando dal racconto le conseguenze dello scriteriato atto e mostrando soltanto il susseguente catapultarsi di due carri di una ditta di pompe funebri. Un

principio di contrazione volontaria del racconto a scopo umoristico che avrebbe trovato epigoni solo dopo diversi anni. In The Kleptomaniac (1904; lidison), invece, mettendo in parallelo due furti, senza tuttavia intrecciarli, intese produrre un moto di condan­ na nei confronti di una società che assolve la donna agiata che ruba per mania in unemporio, mentrecondanna la povera che sottrae un tozzo di pane per sfamare la figlia. L’inquadratura finale con un’allegoria di

giustizia in Figura Intera, bendata solo da un occhio, con bastone e una

Tentativi e sperimentazioni

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bilancia su! cui piallo pende indicativamente un sacchetto d'oro, ribadi­ va olire ogni dubbio il senso dell’operazione. li infine, se in Police Chasing Scorching Auto (coregia di Wallace

McCutcheon, 1906: lidison) pose la macchina da presa su un veicolo per registrare l’inseguimento di due poliziotti in bicicletta nei confronti

di un’auto rea di aver quasi investito una bambina, in Cohen s Pire Sale (coregia di Wallace McCutcheon, 1907; lidison) si assistette anche a un accennodi soggettiva: l’inquadratura sul personaggio del commer­ ciante ebreo Cohen, intento a osservare dall’esterno del suo negozio, si legava al piano sul gatto alla cui coda aveva legato una lampada a che­

rosene con l’intenzione di appiccare un incendio e intascare i soldi dell’assicurazione, lui figura del bottegaio Cohen, uno dei primi perso­ naggi su cui il racconto americano cominciò a circoscrivere la sua at­ tenzione, isolandolo dal contesto scenografico e proponendolo in piani più ravvicinati, comparve per la prima volta nel film Cohen s Adverti­ sing Scheme (lidwin S. Porter, 1904: lidison) e, con il suo posticcio

naso adunco e la dimestichezza truffaldina nell’intrigo, lasciò intrave­

dere il pregiudizio strisciante esistente nelle prime produzioni america­ ne. Pregiudizio che riguardava anche altre etnie, prima fra tutte quella afroamericana: in The Watermelon Patch (Wallace McCutcheon, lidwin S. Porter. 1905: lidison) i neri erano ritratti come personaggi

ingenui e caricaturali puniti dai bianchi con divertita brutalità per il loro furto di angurie da un campo, mentre in Uncle Tom's Cabin (1903: lidison) s’inaugurava il motivo del ballo come elemento distintivo del gruppo di colore nei momenti di inoperosità (addirittura quattro scene danzate in una pellicola di diciannove minuti di durata), modello di cui il cinema americano si libererà a fatica e solo dopo la fine della Secon­

da guerra mondiale, lui circolazione del preconcetto non era esclusiva

di Porter, ma uno dei temi esistenti soprattutto nella realizzazione dei film comici. I>e provocazioni dirette erano in genere evitate, visto il notevole numero di immigrati che cominciavano a popolare le sale dei Nickelodeon, ma alcuni ritratti caricaturali erano ripetuti, fino a trovare

un esempio riassuntivo e paradigmatico nel film, prodotto dalla Ameri­ can Mutoscope & Biograph, Pights ofNations ( 1907), in cui a ogni et­ nia fu assegnata una caratteristica generalizzante (l’ebreo truffatore, il nero damerino, l’irlandese alcolista, il messicano impostore) e a cui fu

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Storia e storie del cinema americano

imposto un finale falsamente conciliatorio, in cui tutte le diversità erano accordate sotto l’allegoria dell’aquila americana, simbolo di armonia universale e grandezza nazionale. l-a cultura del pregiudizio, soprattut­

to nei confronti degli ebrei, fu assorbita verso la fine degli anni Dieci, quando la maggior parie dei volli nuovi che si affacciarono nella produ­ zione del cinema americano furono quelli degli immigrati provenienti dall’Europa, molti dei quali di origine ebraica. Iniziava un altro periodo per il cinema, di cui Porter non faceva più parte.

CAPITOLO 2

Contrasti e successi

2.1

II declino di Edison e la nascita di Hollywood

Mentre il cinema continuava imperterrito a catturare l’attenzione del pubblico, tra le case di produzione si scatenò una lotta senza esclusione di colpi che avrebbe portato al mutamento radicale degli equilibri de)

cinema americano. Fin dai primi anni in cui iniziò a lavorare alle foto* grafie animate, lidison cercò di scoraggiare chiunque cercasse di sfrut­ tare, in qualunque modo, la sua invenzione, trincerandosi dietro ai bre­

vetti da lui depositati. Nei primi anni del Novecento, la lotta di lidison era indirizzata contro le case di produzione che utilizzavano macchine da presa dotate di rocchetto dentato per lo scorrimento della pellicola, invenzione di cui lo stesso lidison possedeva il brevetto. Tutte le case di

produzione allora esistenti sul mercato, Vitagraph, Lubin, Selig, Kalem ed lissaney, utilizzavano cineprese che pur con procedimenti differenti sfruttavano il principio tecnico che lidison intendeva difendere. L’unica

casa che non utilizzava il principio del rocchetto dentato era l’acerrima nemica della lidison, l*American Mutoscope& Biograph Company, la quale aggirava il divieto grazie all’invenzione di Dicksonche permette­ va il trascinamento della pellicola solo in virtù della forza dell’attrito,

lidison cercò in tutti i modi di estromettere dal mercato i rivali, conce­ dendo licenze a lutti gli altri produttori, atto cui la Biograph replicò creando un proprio fronte di brevetti con cui contrastare l’aggressiva politica rivale e rifornire in questo modo i Nickelodeon con cui aveva

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Storia e storie del cinema americano

un accordo di distribuzione. Il crescente numero di sale, tuttavia, operò indirettamente come pacificatore, poiché nessuna di esse avvertiva il bisogno di una guerra intestina tra le case di produzione che limitasse il numero di film proiettabili, di cui c'era invece estrema necessità per rispondere alla crescente domanda. Per evitare azioni legali e atteggia­

menti ostruzionistici, gli avvocali della Biograph cercarono un accordo con la Edison chesi concretizzò nel settembre del I908con la fondazio­ ne della Motion Pictures Patent Company (MPPC), un cartello di pro­ duttori con l’inconfessata intenzione di monopolizzare l’intero merca­ to, controllando la produzione e gestendo la distribuzione nelle sale grazie all’unione dei vari brevetti. Oltre alle case citate in precedenza, della MPPC facevano parte anche i produttori francesi Pathé e Méliòs,

i cui film circolavano giù con successo sul suolo americano, e il leader dei distributori, George Kleine. Una delle prime azioni ufficiali della MPPC fu di non concedere li­ cenze ai proprietari di sale che non rispettavano (enorme di sicurezza e

al cui intemo si fossero verificati episodi immorali o illegali. L’inten­ zione era di evitare un’altra serrata come quella sancita dall’ordinanza del sindaco di New York McClellan nel dicembre 1908 che aveva cau­

sato la chiusura di oltrecinquecento sale. Allo stesso tempo, i produtto­ ri del cartello, chiamato più comunemente Trust, s’impegnarono a non produrre e a eliminare dal loro catalogo quelle pellicole dai temi licen­ ziosi che potevano causare polemiche e l’ostracismo delle associazioni religiose. A New York fu istituito un comitato di censura presieduto da

John Collier, il New York Board of Motion Picture Censorship (presto mutato in un più sobrio National Board of Review of Motion Picture), al cui giudizio il MPPC sostenne di voler sottoporre ogni prodotto. lui MPPC cominciò a richiedere agli esercenti la somma di due dol­

lari alla settimana come noleggio dei film con il suo marchio e, nel 1910. perfezionò una retedi distribuzione, la General Film Company, che in un paio d’anni riuscì ad assimilare più di cinquanta distributori

indipendenti, ormai incapaci di concorrere. Alla fine del 1910, la MPPC controllava gran parte del mercato del cinema negli Stati Uniti, lui con­ correnza era garantita da piccole case di produzione indipendenti che, sfidando le citazioni giudiziarie del Trust in quella che passò alla storia

come «la guerra dei brevetti», continuarono a produrre pellicole per ri-

Conirasii e successi

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Tornire nuovi e spregiudicali distributori ed esercenti dai nomi che sa­ rebbero diventati famosi: Cari luiemmle, William Fox. Adolph Zukor, Marcus l>oew. taemmle fondò nel 1909 lìndipendent Motion Pictures

(IMP), primo nucleo di quella che dal 1912 sarebbe diventala nota co­ me la casa di produzione Universal. l>e azioni legali lanciate come ana­

tema dalla MPPC non riuscirono a colpire più nel segno perché, paral­ lelamente, nell’estate del 1912, il governo degli Stati Uniti accusò il Trust di monopolizzare il mercato, in palese contraddizione con lo Sherman Act del 1890. la legge antitrust che vietava esplicitamente la concentrazione d’impresa con lo scopo d’impedire la libera concorren­

za. Nonostante ladifesa della MPPC, che obiettò come il suo non fosse un controllo del mercato, quanto una necessità per mantenere alto il li­ vello qualitativo della produzione e della distribuzione cinematografi­ che, nel 1915 la Corte federale dichiarò incostituzionale il Trust, sen­

tenza che accelerò solo la fine di una concezione del mercato già supe­ rata nei fatti dai nuovi intraprendenti produttori e distributori. I produt­

tori indipendenti, infatti, erano riusciti a intercettare umori e gusti del pubblico e iniziarono a realizzare film più lunghi (in tre o più bobine, pellicole tendenti all’ora di durata) di quelli comunemente prodotti dal

Trust. Realizzavano film, inoltre, con modalità avventurose, perché era loro vietato utilizzare pellicola prodotta in America e macchine da pre­ sa controllate dai brevetti del Trust e il farlo li rendeva inermi di fronte a un’eventuale azione legale. Inoltre, anche la distribuzione si dimo­ strava problematica, perché i film potevano circolare soltanto nelle sale

che la MPPC non controllava direttamente. Ciò nonostante, se alla fine del 1908 e nel corso dell’anno successivo il Trust controllava la quasi totalità della produzione e dell’importazione di film dall’Europa, la bi­

lancia si era sensibilmente spostata in favore degli indipendenti all’ini­ zio del 1912, quandoessi riuscirono quasi a pareggiare laquota di mer­ cato della MPPC. Probabilmente, uno degli errori fondamentali del Trust, ancora prima della sentenza della Corte federale che lo dichiara­

va incostituzionale, fu di voler trasformare la composizione sociale del pubblico cinematografico: preoccupato dei problemi di legalità e mora­ lità che avevano portato il sindaco McClellan a stilare l’ordinanza di chiusura delle sale, la MPPC stabili diconcedereprivilegi a quegli eser­

centi che avessero deciso di trasferirsi nelle zone di pregio delle città.

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Storia e storie del cinema americano

garantendo un pubblico più selezionato e maggiormente disposto a pa­ gare più caro un biglietto. Questo progetto portò il Trust a disinteressar­ si di qualche migliaiodi sale rimaste nelle zone popolari, occasione per inserirsi nella distribuzione che gli indipendenti non si fecero sfuggire. Gli indipendenti ebbero anche un'altra intuizione fondamentale: ca­

pirono l’importanza deiraffetlo e del l’ammirazione che il pubblico co­ minciava a provare nei confronti degli attori e dei personaggi che inter­ pretavano, ora non più sagome indistinte, confuse nell’azione come pochi anni prima, ma figure evidenziate all’intemodel racconto grazie a piani sempre più ravvicinati su cui trasferire i sentimenti provali nel

corso della visione. Dopo il 1908, per rispondere alla costante richiesta da parte di un numero sempre crescente di fan. alcune case cinemato­ grafiche come la lidison e la IMP di luiemmle iniziarono a rendere noti sulle locandine i nomi degli interpreti e a distribuire fotografie al pub­ blico per creare un legame ideale che potesse soddisfare l’uomo comu­ ne e al contempo generare la voglia di vedere Io stesso attore in altre

opere. Di contro, la Biograph, per timore che evidenziarne il nome po­ tesse determinare richieste di compensi maggiori che non aveva nessu­ na intenzione di corrispondere, fino a tutto il 1913 negò ai suoi attori

anche il nome nei titoli di testa, ultima casa di produzione ormai a per­ seguire questa ostinata politica di rifiuto all’intemo di un ambito che dal 19)1 vedeva i nomi dei protagonisti campeggiare in bella evidenza sulle locandine dei film in programmazione. Situazione che la IMP sfruttò appieno, lusingando quella che era nota soltanto con l’appellati­ vo di «Biograph Giri», Florence l-awrence (cosi come Florence Turner era semplicemente la «Vitagraph Girl»), con la promessa di una rile­ vanza mai avutaprima, utilizzando il suo voltocome veicolo pubblici­ tario per il lancio di ogni film da lei interpretato, lui stessa cosa fece

l’anno successivo, nel 1910, con Mary Pickford, seducendola con un salario doppio e dimostrando di essere lungimirante, poiché la Pick­ ford, di II a pochi anni, sarebbe diventata famosissima al punto da gua­

dagnarsi l’appellativo di «America’s Sweetheart», la fidanzata d’Ame­ rica. Si trattava, anche se ancora in una fase embrionale, della nascita dello «Star System»: gli indipendenti, e Iuiemmle prima di tutti, aveva­

no compreso che la chiave per creare un rapporto di dipendenza dai film che le sale sfruttavano con una certa celerilà risiedeva nel rapporto che

Contraili e successi

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il pubblico poteva intrattenere con i propri attori preferiti. Tuttavia, il fascino esercitato dagli indipendenti non si limitava ai soli attori: registi che avevano raggiunto la notorietà decisero di sfruttare ('intraprenden­

za degli indipendenti e passarono alla parte avversa, abbandonando le case facenti parte del Trust. Thomas Harper Ince raggiunse la New York Motion Picture attraverso la IMP nel 1910 e divenne uno dei più importanti registi e produttori del muto. Mack Sennett si accasò alla neonata Keystone sotto l'egida di Adam Kessel e Charles Baumann e la trasformò in una perfetta macchina comica, David Wark Griffith, stan­ co di non poter concedere un respiro maggiore ai suoi film, vincolati

alle due bobine, salutò la Biograph e passò alla Mutual. lx) spostamento del centro nevralgico del cinema americano da New York a Hollywood ha origini incerte, spesso confuse da racconti mil­ lantati che trascolorano nel mito e quindi non semplici da rintracciare

nelle effettive dinamiche di realizzazione, l-a vulgata avventurosa della nascila di Hollywood pretende che lo spostamento in California fu rite­ nuto necessario per una questione pratica come la possibilità, per gli

indipendenti, di riparare oltre il confine messicano in caso di arrivo dei detective delTrustconle loro ingiunzioni legali relative alla violazione di qualcuno dei brevetti. Come fa notare Robert Sklar in Cinemamerica, sarebbe stato perlomeno assurdo peri legali della MPPC raggiunge­

re le troupe in California attraversando tutto il paese quando in realtà sarebbe bastato spostarsi all'interno di New York per consegnare le intimazioni direttamente agli uffici delle case indipendenti, tutti ancora stabilmente domiciliati sulla costa list A ben guardare, furono lecase di produzioneappartenenti alla MPPC le prime a spostarsi in California per girare i loro film in esterni, sfrut­

tando il clima favorevole e la varietà di scenari naturali in cui poter ambientare le loro storie senza ricorrerealla simulazionedi un teatro di posa. Una delle primissime fu la Selig, solitamente di stanza a Chicago, che costruì anche uno studio nella zona centrale di Ix» Angeles, mentre

la prima casa indipendente a sfruttare la benevolenza dei clima del Sudovest fu la New York Motion Picture, che si accaparrò un terreno vi­ cino a quello della Selig per installarvi il suo studio. Oltretutto, il prezzo dei terreni era ancora relativamente basso, e anche questo fu un incen­ tivo al trasferimento che progressivamente divenne sempre più intenso.

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Storia e storie del cinema americano

Ulteriore ragione di uno spostamento che divenne poi esodo fu (’assen­ za di vincoli sindacali: è sempre Robert Sklar a ricordare che negli anni Dieci del Novecento Ix» Angeles era la più grande città americana in cui esistesse la libera contrattazione e nella quale non ci fossero rappre­ sentanze di categoria, [/afflusso costante di nuovi immigrati dagli altri luoghi degli Stati Uniti aveva generato un serbatoio di manodopera a prezzo notevolmente ridotto rispetto airiìst, da cui attinsero a piene mani i produttori quando si trattò di costruire scenografie particolar­ mente curate nei particolari o magniloquenti o di trovare comparse di­ sposte ad allinearsi per le scene di massa, l/abbaltimento dei costi di

produzione fu un altro dei validi motivi del trasferimento e quindi ap­ parve coerente, in un momento in cui l’industria cinematografica cerca­ va di espandersi e affermarsi definitivamente, che la maggior parte del­ le case, soprattutto quelle degli indipendenti, operasse una scelta che appariva oculata ed estremamente conveniente. L’area intomo ai piedi delle montagne di Santa Monica divenne la preferita per impiantarvi degli Studios, in virtù di una serie di fattori

concomitanti quali la facilità di comunicazione con il centro città, la vastità di terreno disponibile ancora non urbanizzato, la possibilità di disporre di abitazioni a prezzi convenienti perle maestranze e l’adatta­ bilità di scenari naturali che sarebbero tornati particolarmente utili per

la notevole duttilità. Il nomedi quest’area era Hollywood, una zona che fino a pochi anni prima, nel 1886. quando alcuni investitori immobilia­ ri, Hobart Johnstone Whitley e Horace Henderson Wilcox, decisero di acquistare il terreno, era ancora una distesa agricola in cui erano presen­ ti vasti campi d’orzo e imponenti aranceti. Una trentina di anni dopo, e a meno di dieci dal trasferimento di massa praticato dalle casedi produ­ zione. Hollywood. da semplice luogo accogliente, cominciò a rappre­

sentare antonomasticamente tutto il cinema americano, ormai dimenti­ co che tutto fosse iniziatosela costa lisL Ma chi erano questi nuovi signori del cinema americano? Come era­

no giunti a sfidare il Trust e poi a far nascere la leggenda di Hollywood personaggi come Carl luiemmle, Adolph Zukor e William Fox? Cari Iperemie, di origine ebraica, dopo aver gestito un negozio di abbigliamento a taupheim, in Germania, entrò in possesso negli Stati Uniti di sei catene di distribuzione cinematografica attive tra l’Illinois e

Conirasii e successi

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l’Oregon. Fu abilissimo nel riuscire ad accaparrarci l’importazione di quei film europei che erano rimasti fuori dall'accordo con il Trust, gra­ zie all'International Projecting and Producing Company. Il bisogno di distribuire anche prodotti americani fu il motivo della fondazione della già citata IMP. che riuscì a realizzare film grazie alla pellicola immessa

sul mercato americano dai lamière. esclusa dal l'accordo con la MPPC. Sfruttando l'indifferenza del Trust perla distribuzione nei Nickelodeon.

Iperemie s'inserì prepotentemente nel mercato e riuscì a garantirci gli introiti necessari per altre spregiudicate mosse, come quella di tentare di sottrarre le attrici piùapprezzate ai produttori della MPPC. lui già citata

Florence luiwrence. amata da) pubblico senza che la Biograph ne avesse mai rivelato il nome, approdò alla IMP con un escamotage degno di un film avventuroso caratterizzato da accurati colpi di scena: su un quoti­ diano di SLI jouìs comparve la notizia che l'attrice nota come «Biograph

Giri» fosse morta in seguilo a un incidente stradale. Iperemie prima fece in modo che la notizia circolasse e generasse sgomento, poi pubbli­ cò la secca smentita, addossandone la responsabilità al Trust e affer­

mando che la tawrence non solo godeva di ottima salute, ma che il suo stato di forma sarebbe stato presto apprezzato in alcune pellicole che l'attrice aveva appena ultimato di girare per la IMP. facendo seguire l’elenco dei titoli prossimamente nelle sale. Adolph Zukor. anch'egli di origine ebraica, pellicciaio a Ricse. in Ungheria, negli Stati Uniti iniziò gestendo una Penny Arcade e sfioran­ do il fallimento quando la sua sala adibita per gli Hale's Tourc comin­

ciò a segnare il passo di un intrattenimento giunto ormai ai suo capoli­ nea. Entrato nel 1910 in società con Marcus l>oew. Zukor era convinto che il pubblico americano fosse maturo per apprezzare film di una lun­ ghezza maggiore rispetto alla durala minima che proponevano le case

di produzione del Trust: attento com'era al mercato europeo e convinto - non del tutto a ragione - che anche al cinema ci fosse il bisogno di grandi attori di preparazione teatrale, acquistò tramite la sua neonata società Famous Players Film Company i diritti di La reine Élisabeih

(Henri Desfontaines. Louis Mercanton. 1912). che vantava come prota­ gonista una delle più famose attrici dell'epoca. Sarah Bernhardt. Il de­ siderio di Zukor era di proporre un film dall'impianto teatrale a un pub­

blico che apprezzasse il teatro, con la ferma intenzione di richiamare la

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Storia c storie del cinema americano

classe media al cinema, disaffezionatasi in coincidenza con il glande successo dei Nickelodeon, lui sua perseveranza ebbe infine successo, al punto che diversi esercenti decisero di costruire sale lussuose che ga­

rantissero un ambiente elegante e confortevole allaclasse media attratta nuovamente dal cinema (il Regent 'fheater, a New York, fu il primo a essere inaugurato nel febbraio 1913). Nel 1916. Zukor fuse la Famous Players con la compagnia di distribuzione Paramount e chiamò con sé il produttore indipendente Jesse Ijisky, al quale, in precedenza, aveva già legato la sua società. Ora il controllo di Zukor si estendeva alle tre fasi della commercializzazione del Film: la produzione, la distribuzione

e l’esercizio, con le sale che si trovavano già sotto il suo controllo. Si trattava, in pratica,del primo tentativo di interazione verticale tetfin-

dustria cinematografica, che solo qualche anno dopo fu la regola di condotta di tutti gli Studios di Hollywood. William Fox, cosi come Zukor, non si oppose immediatamente al Trust, ma lo fece soltanto quando la politica intrapresa non incontrava

più le sue idee sul mercato cinematografico. Fox era balzato agli onori

delle cronache quando, da proprietario di circa una dozzina di esercizi, aveva guidato la protesta degli esercenti contro la già citata chiusura delle sale voluta dal sindacodi New York McClellan alla fine del 1908. Mietendo successi sempre maggiori e raccogliendo strati sempre più

vasti di pubblico. Fox decise di espandere la sua sfera di influenza nella distribuzione e questa scelta gli inimicò la MPPC. che lo vedeva come una minaccia crescente, ta Genera! Film Company, diretta emanazione della MPPC nell’ambito della distribuzione, cercò di acquistare senza riuscirvi la sua attività, e la risposta al rifiuto di Fox fu di revocargli la licenza concessagli in precedenza. Vinta una causa contro il Trust. Fox

si rese conto della necessità di produrre da solo le pellicoleche avrebbe poi distribuito alle altre sale e proiettato in proprio: come Zukor. anch’egli aveva dato vita a un’organizzazione verticale della sua strut­ tura produttiva, nonostante il numero delle sale da lui direttamente con­ trollato non fosse cospicuo come quello della Paramount Dinamiche di integrazione che tentò in seguito anche Marcus Ixiew, con la sua casa Ixjcw’s Incorporated. Ixiew iniziò la sua carriera come

proprietario di teatri di vaudeville nel 1905, che furono riconvertiti in sale cinematografiche soltanto quando il successo del cinema divenne

Contrasti e successi

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preponderante rispetto ad altre forme di intrattenimento. In possesso di un’importante catena di sale a New York e dintorni, nel 1920 l>oew acquistò la Metro Picturese nel 19241a Goldwyn, affidandoli comando di questo colosso, frutto di successive acquisizioni, a IxxiisB. Mayer. L’era di Hollywood era iniziata conia sentenza della Corte federale sfavorevole al tentativo di controllo del Trust, ma ora vivificava grazie all’intraprendenza di un nucleo di agguerriti immigrati con uno spicca­

lo senso degli affari.

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David Wark Griffith: raccontare con la luce

Il primo tentativo di condurre il cinema americano su un altro piano, accompagnandolo su un versante artistico, consapevole di quelle che erano le sue prerogative stilistiche e dilatando le sue possibilità lingui­

stiche, si ebbe con un regista quasi per caso, David Wark Griffith. Nato a taGrange. Kentucky, nel 1875. Griffith era figlio di Jacob Griffith, un veterano confederato che dalla guerra Civile era uscito sconfìtto, frustrato e nostalgicamente desideroso di narrare in continua­ zione gli antichi fasti dell’orgoglioso Sud. giungendo a creare anche

una sorta di realtà parallela e romanzata, in cui la sua famiglia sarebbe discesa addirittura da un lord inglese. lx>rd Brayington. Il soprannome del padre era «Thunder» (secondo altre versioni «Roaring»), a causa della voce tonante, e il piccolo Griffith crebbe fino ai dieci anni.quando il padre mori, ascoltando i mitologici racconti di Johnny Reb. personi­ ficazione del soldato confederato, le elegiache narrazioni sull’etica del

gentiluomo sudista, l’eroismo indomito dei soldati durante la guerra. Al di là delle enormi polemiche che il suo capolavoro Nascita di una na­ zione suscitò proprio per questa concezione mitizzata e acritica della

vita a sud della linea Mason-Dixon. la visione romantica di un’ideale

vittoriano riflesso nella concezione di un liden perduto per sempre si rifletté soprattutto in alcune scelte del suo cinema, come quella, ad esempio, di affidare i ruoli da protagonista a ragazze di quindici, sedici anni, bionde e dai grandi occhi smarriti, creature pallide e inermi come Lillian Gish, Mary Pickford, Mae Marsh, Blanche Sweet, che incarna-

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Storia e storie del cinema americano

vano gli ideali di bellezza del Sud eie figure diafane della liricainglese deirottocento. Regista quasi per caso perché Griffith, perlomeno fino al 1910, con­

siderava il cinema una sorta di impiego temporaneo che gli fornisse il sostentamento necessario in attesa di sfondare come scrittore, attività che tentò riuscendo a farsi pubblicare qualche sporadico racconto su « Leslie's Weekly» e «Cosmopolitan», e portando in scena una comme­

dia intitolala A Fool and a Girl, ambientata nei campi di luppolo della California in cui lo stesso Griffith aveva lavorato. Ma il successo fu modestissimo, e dopo alcune repliche a Washington e Baltimora, lo spettacolo scomparve dai cartelloni. Alla perenne ricerca di lavoro (tra le sue varie attività, nel corso degli anni, il giornalista, il pompiere, l'operaio, oltre all'attore e al raccoglitore di luppolo), si recò negli studi della lidison per sottoporre un soggetto e si ritrovò a interpretare il ruo­

lo del padre in Rescued From an Eagle's Nest(l. Searle Dawley. 1908; lidison), storia sciattamente realizzala che racconta del salvataggio di

un bambino rapito da un'aquila. Senza lasciar intrawedere un talento particolare, anzi, ottenendo di essere richiamato più volte dal suo futuro operatore Billy Bitzer perché muoveva vorticosamente le braccia al

punto che sulla pellicola impressionata pareva averne più di due. Grif­ fith passò come attore alla American Mutoscope & Biograph. Il suo obiettivo era sempre quello di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura non appena fosse arrivata l'occasione giusta, convinzione talmente radicata che si manifestava nel suo rifiuto di utilizzare il vero nome lavorando

come attore (luiwrence Griffith era lo pseudonimo cinematografico, iuiwrence Brayington quello utilizzato in palcoscenico) allo scopo di preservarlo per la sua futura attività di letterato, nascondendolo quasi

fosse una vergogna, lui concezione romanzesca non abbandonò del lut­

to la sua idea di cinema, se è vero l'aneddoto che si racconta circa l'obiezione che gli fecero i capi della Biograph su inquadrature troppo ardite, scandite tramite ingrandimenti successivi, dai campi più lunghi ai piani ravvicinati: «Dickens scriveva con lo stesso procedimento che seguo io, la differenza è che questo è un racconto per immagini». Vista l'indisponibilità di un regista e la manifesta inadeguatezza del suo so­ stituto, gli fu chiesto di passare dietro la macchina da presa. Griffith

accettò, ma solo dietro la promessa che in caso di un cattivo risultato

Contrasti e successi

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avrebbe ottenuto nuovamente il suo posto di attore della compagnia. Nonostante fosse completamente a digiuno di tecnica e pratica cinema* tografiche, Griffith, con il prezioso aiuto di Billy Bitzer, pronto non solo a segnare in terra con il gesso le posizioni degli attori per evitare che andassero «fuori fuoco», ma anche a svolgere la valida funzione di

tutor, realizzò The Adventures of Doilie (1908), che non si discostava molto dalle vicende di rapimento dei bambini che fin da Rescue by a Rover (Cecil M. Hepworth. 1905) avevano animatogli schermi europei

e americani. Fu tuttavia sufficiente questo esordio per farcapire ai capi della Biograph che si poteva continuare con questo registiche aveva il dono della dinamicità intema all’inquadratura, prima ancora di realiz­ zare quella tra un’inquadratura e l’altra. I,e conquiste di Griffith, infatti,

furono frutto di un lavoro inarrestabile, svolto nella convinzione che il suo non sarebbe stato un ruolo definitivo, vissuto con la speranza di vedere un giorno realizzate le sue aspirazioni letterarie. Nei primi tre anni di attività, Griffith girò anche due film alla settimana peruna pro­

duzione che divenne talmente cospicua da superare le 450 pellicole

quando, nel 1913, decisedi lasciare la Biograph per realizzare opere di più ampio respiro. Tutte le innovazioni che in seguito gli furono attribu­ ite non nacquero da un colpo di genio giunto improvvisamente durante la ripresa, ma nella grande maggioranza dei casi, soprattutto durante i

primi annidi apprendistato alla Biograph, furono dovute alla sua note­ vole capacità di assorbimento e successiva acquisizione di tecniche al­ trui, derivateda altri autori e differenti cinematografie, che ebbe l’indi­

scutibile merito di organizzare in un sistema organico, rigidamente strutturato in funzione delle proprie esigenze espressive. Pur derubricando una certa disorganicità tematica all’interno delle

pellicole realizzate nel corso della prima fase della sua carriera come varietà dovuta al gran numero di prodotti realizzati (per fare solo due esempi, lavori in cui i ricchi sono ritratti come famelici speculatori, altri in cui ne sono messe in risalto le caratteristiche nobili; film in cui gli indiani sono vittime della crudeltà bianca, altri in cui appaiono come spietati assassini), è sulle innovazioni linguisticheche la storia del cine­ ma fissò la sua attenzione, cercando avidamente la scelta tecnica, sco­

vando la novità stilistica o la configurazione filmica in grado di inscri­ vere il cinema di Griffith in un’aura di precoce e lodevole modernità.

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Storia e storie del cinema americano

Indubbiamente, i tagli particolari dell’inquadratura (soprattutto attra­ verso il ricorso al cosiddetto Piano Americano), i movimenti di macchi­ na funzionali alle dinamiche del racconto. l’inserimento di primi piani espressivi per infondere la passione dei personaggi al pubblico, l’impie­ go del montaggio alternato, l’uso di effetti di luce per dilatare la dram­

maticità delle situazioni, la divisione del racconto in brevi scene colle­ gate tra loro erano le soluzioni rea lizza ti ve per cui Griffith fu celebrato,

ta scena, che fino alla fine del primo decennio del Novecento era inte­ sa teatralmente come nucleo della ripresa e della rappresentazione, in Griffith diventò un elemento più ampio di narrazione che includeva la centralità espressiva delle singole inquadrature, la cui giustapposizione attraverso il montaggio sviluppava le sequenze, unità di contenuto che

trascendevano lascenaedacui dipendeva il disegno narrativo globale. In questo modo, il cinema divenne per Griffith, film dopo film, una palestra espressiva in cui sperimentare, applicare, attuare.concretizzare e far sedimentare la specificità del proprio linguaggio,ormai dimentico della sua vocazione letteraria (era dal 1910 che firmava le opere cine­

matografiche con il suo vero nome) e con in più la grande capacità di promuovere se stesso come l’artefice massimo del grado di sviluppo raggiunto ormai dal cinema: «D.W. Griffith, realizzatore di tutti i più grandi successi della Biograph, che hanno rivoluzionato il dramma ci­

nematografico e posto le moderne fondamenta delle tecniche di quest’arte» era la premessa dell’annuncio comparso sulle pagine del «New York Dramatic Mirror» il3 dicembre 1913. giorno incui ufficia­ lizzò a mezzo stampa il suo divorzio dalla Biograph per passare alla Mutual. Il celebre Primo Piano che. secondo la leggenda. Griffith avrebbe inventato come intuizione improvvisa in un teatro di posa (leggenda

che travalicò i confini del cinema per essere evocata anche dalla lette­ ratura. se è vero che persino Francis Scott Fitzgerald, ne Gli ultimi fuo­ chi, fa commentare alla narratrice Cecilia la lunga militanza hollywoo­ diana di una sceneggiatrice, che sarebbe risalita addirittura al fatìdico giorno in cui tale invenzione magicamente si concretizzò), osservando i suoi film in ordine cronologico, appariva come un inserimento pro­

gressivo tendente a spostare l’asse della percezione dello spettatore

senza creare uno shock visivo, inintelligibile e quindi inaccettabile.

Coninuli e successi

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In l'or Love of Gold (1908; Biograph), che spesso si cita come uno dei primi casi in cui il Primo Piano abbandonò il ruolo di dimostrazione emblematica (ad esempio, la già citata inquadratura del fuorilegge che spara verso il pubblico deZxr grande rapina al treno o i piani ravvicina­ ti che intendono presentare i personaggi prima che la vicenda abbia

luogo, come, ad esempio, in The Whole Dam Family and theDam Dof^, sempre di Porter; lidison, 1905), per integrarsi espressivamente alTintemo della logica del racconto, lo scioglimento dell’intreccio prevedeva che ognuno dei ladri protagonisti cominciasse a dubitare dell’altro. Fi­ no a quel momento, il cinema aveva abituato lo spettatore a visualizza­

re il pensiero dei personaggi tramite l’espediente del balloon (come giù visto per The Life ofan American Fireman). Griffith si limitò ad abban­ donare il Campo Totale proprio dello spettatore in platea, avvicinando la macchina da presa al personaggio e mostrandone la mimica dubbiosa

nei confronti dell’altro ladrocon un effetto intensamente esplicativo. In After Many Years (1908; Biograph, tratto dal poema Enoch Arden di Tennyson), Io struggimento de) personaggio femminile riguardo al

marito naufragato era ritratto con un piano ravvicinato sottratto alle in­ quadrature più ampie che avevano caratterizzato la vicenda fino a quel

momento, a cui giustappose il piano del marito su un’isola deserta con l’intenzione di raffigurare l’oggetto dei suoi inquieti pensieri. ta Bio­ graph si oppose, perché reputava innaturale una rappresentazione cosi parziale della figura umana, ma Griffith perseverò nella sua scelta e la ebbe vinta. Griffith, tuttavia,era pronto ad andare ancora oltre, quasi divertendo­ si a saggiare le possibilità della segmentazione del personaggio in fun­ zione della presa su un pubblico ancora vergine, alla ricerca di emozio­ ni tutte da creare. In La banda di Pig Alley (The Musketeers ofPig Alley

1912; Biograph) il volto di Snapper Kid, uno dei malviventi protagoni­ sti, inquadrato rasente un muro di un vicolo, si avvicinava progressiva­ mente fino a soffermarsi sul margine destro dell’inquadratura, in un

Primo Piano intensissimo che intendeva incutere la giusta tensione in vista della resa dei conti pronta a scatenarsi tra le due bande rivali. L’ar­ ditezza di questa soluzione era stata anticipata all’interno del film in almeno due occasioni, quando prima la banda rivale, poi quelladi Snap­

per, erano passate rasenti l’obiettivo della macchina da presa, ingrandi­

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Storia c storie del cinema americano

te fino al l’altezza del busto, inquietanti sagome che poi sarebbero usci­ te di campo dal margine destro. Di fatto, la drasticità di questa scelta divenne un tratto caratteristico lungo tutto il periodo del muto, ripetuto più volte con peculiarità e implicazioni differenti dallo stesso Griffith, ma anche da una serie di epigoni che decisero di utilizzare le scelte

rappresentative di quello che lutti, nella seconda metà degli anni Dieci, avrebbero riconosciuto come il maestro del cinema americano. Griffith ricorse alla medesima opzione in The House of Darkness (1913; Biograph), mostrando la fuga di un paziente da una casa di cura per malat­ tie mentali, che dalla profondità di campo, nascondendosi dietro vari elementi presenti nello spazio dell’inquadratura, giungeva quasi ad ag­ gredire il pubblico colmando progressivamente la parte destra del qua­ dro fino a occuparne tutto lo spazio a disposizione, li la ripropose alme­ no fino a Gìglio infranto (Broken Blossom, 1919; Paramount), ingran­ dendo a dismisura il volto di Battling Burrows(Donald Crisp), contrap­ ponendolo al fragile Primo Piano della figlia Lucy (Lillian Gish), in­

ghiottita da un oscuro terrore che ne evidenziava i soli occhi, e renden­ dolo insostenibile per lo sguardo di uno spettatore sopraffatto dalle dimensioni dilatate del volto e dalla violenza insistila della rappresenta­

zione. Nel corsodegli anni, seguirono l’esempio lx>is Weber e Phillips Smalley in Suspense (1913), per espandere la tensione di una presenza estranea e minacciosa all’intemo di un’abitazione isolala, Clarence Brown e Maurice Tourneur in The Last of the Mohicans (1920), nella scena del rabbioso duello Ira Chingachgook e Magua. Henry King in Tol'able Z)avò/( 1921), per simboleggiare i rapporti di forza tra l’esile

David (Richard Barthelmess)e il brutale Luke llalbum (Ernest Torren­ ce), e anche liric Von Stroheim in Rapacità (Greed; 1924). che se ne

servi, in modo quasi subliminale, per illustrare l’ansia repressa della

prima notte di nozze tra McTeague e la moglie Trina. Un’altra tecnica che contribuì ad allontanare il cinema dalle conven­ zioni teatrali e che Griffith affinò fino a prospettarla ai posteri come una sua creazione originale, fu la codificazione della scena di un insegui­ mento. Si è ricordato inprecedenza come soltanto alcuni anni prima, gli inseguimenti, che riscuotevano grande successo tra il pubblico, si limi­ tassero a unire luoghi diversi tra loro e a mostrare in inquadrature sem­ pre molto lunghe il passaggiodi tulli i soggetti protagonisti dell’azione.

Conirasii e successi

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fino a quando anche Pultimo avesse attraversato il campo di ripresa. Griffith non fece altro che riproporre in una veste nuova uno schema visivo già utilizzato nella sua variante dinamica e tumultuosa dalle co­

miche, unendo coni) montaggio due scene mostranti una stessa azione dislocata in spazi contigui e contraendo i tempi di durata di ogni singo­ la inquadratura in funzione dell’intensità drammatica da ottenere. In questo modo, il tempo si modellava sulle esigenze del racconto: gli in­

tervalli tra un’inquadratura e l’altra si facevano sempre più brevi all’approssimarsi dello scioglimento della situazione descritta. Nonostante alcuni accenni di questo procedimento fossero già stati proposti dal ci­

nema inglese, per esempio in Attack on a China Mission di James Wil­ liamson (1900), nel quale l’assalto dei boxer rivoltosi era fermato e neutralizzato da un battaglione di marinai mostrato con una semplice alternanza di piani rispetto alla vicenda principale, Griffith, di fatto,

consegnò al cinema americano il montaggio alternato e, in particolare, il Last Minute Rescue, il salvataggio all’ultimo istante disponibile, una configurazione in grado di accrescere la tensione del segmento facendo

trepidare per la sorte di un personaggio in difficoltà (spesso una donna). Il primo esempio fu The Lonely Villa (1909; Biograph), nel quale un uomo, per sventare un tentativo di rapina da parie di tre malintenziona­ ti e salvare la propria famiglia, correva verso la sua abitazione in una

lotta disperata contro il tempo. Alle inquadrature della moglie e delle tre figlie in mano ai banditi, a intervalli semprepiù brevi, Griffith alter­ nò quelle dell’uomo proteso nell’affannoso tentativo di raggiungere la dimora e fermare il losco piano dei banditi: la resa drammatica si dimo­ strò efficace e la partecipazione emotiva da parie dello spettatore com­ pleta. Il procedimento, con il passare del tempo, fu affinato. In The Gir! and Her Trust (19)2; Biograph), la protagonista, una ragazza telegrafi­

sta. Grace, era rapita da due vagabondi e caricata su un carrello ferro­ viario. al cui inseguimento si gettava una locomotiva: il montaggio mi­ se in relazione le inquadrature sui fuggitivi con quelle sulla locomotiva sbuffante e, in aggiunta, l’artificio di ricorrere spesso a un medesimo schema visivo tra piani successivi che offrisse al pubblico l’illusione di verificare le disianze rapportando luoghi identici fra loro, ta soluzione dell’intreccio, al termine di un montaggio che diventava sempre più

incalzante, avveniva, infatti, anche per l’erosione di spazi consecutivi.

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Storia e storie del cinema americano

che portavano a congiungersi nella stessa inquadratura inseguitori e in­ seguiti, la locomotiva che faceva il suo ingresso nel quadrodal margine superiore destro e il carrello dei rapitori appena fuoriuscito dal margine inferiore sinistro: non era un ritorno all’unicità dell’inquadratura delle origini, ma il risultato di una precisa codificazione basata sullo spazio e

sul tempo del racconto. Sette anni dopo, in Giglio infranto. si assistè addirittura a un doppio tentativo di Last Minute Rescue fallito, coerentemente con la natura tragica del melodramma, quello dell’innamorato cinese, interpretato da Richard Barthelmess, che non riesce a salvare la gracile Lucy dalle

grinfie del violento padre (che tuttavia uccideva con la pistola una volta sopraggiunto, per vendicarsi), e quello della polizia che non giungeva in tempo per evitare che il cinese, affranto, si desse la morte in casa sua, davanti al corpo senza vita dell’amata. Un discorso a parte meritano i due capolavori che Griffith realizzò dopo aver lasciato la Biograph, pellicole che. pur essendo perfette mac­ chine spettacolari, in cui le scelte stilistiche e la qualità della regia rag­ giunsero un livello mai toccato in precedenza (e mai più eguagliato successivamente dal regista), trascesero il loro valore cinematografico

per diventare argomenti di polemica discussione e autentici fattori di costume. Il desiderio di Griffith era di riuscire a realizzare storie che

eccedessero le lunghezze limitate ai due rulli cui la Biograph era orien­ tata. Judith ofBethulia era unfour reels, un quattro rulli (per una dura­ la di circa un’ora), che ispirò a Griffith la possibilità di sperimentare

nuove combinazioni di montaggio esaltate dalla maggiore durata del racconto. I studio più attivo e aggressivo nel perseguire questa politica fu la Paramount, presieduta da Adolph Zukor, che con ricatti, minacce e campagne denigratorie contro chiunque osasse opporsi al suo disegno, riuscì a garantirsi il controllo su vasta scala delle sale di proiezione, acquistandole direttamente oppure controllandone la distribuzione con

un accordo capestro che prevedeva un noleggio in blocco, il cosiddetto Block Booking. Questa tipologia di distribuzione, a cui presto si ade­

guarono anche gli altri Studios, prevedeva che gli esercenti accettassero un contratto in cui si impegnavano ad acquistare una serie di titoli (in genere poco oltre il centinaio), alcuni dei quali ancora da realizzare, corrispondendo anche un acconto, lui Paramount, dal canto suo, garan­ tiva con il suo nome l’alto livello qualitativo delle pellicole distribuite alle salee, in virtù di film già acquistati a scatola chiusa, aveva rinne­ gatole vantaggio di poter organizzare un piano produttivo di lungo pe­ riodo che, grazie all’accorto, vedeva ammortizzare una parte delle spe­ se di realizzazione, diminuendo al massimo i rischi d’impresa. A fronte

di un solo vantaggio (avere un rifornimento continuo di lungometraggi di apprezzabilelivello senzadoversi recare nelle varie agenzie di noleg­ gio per scovare i film degni d’interesse), gli inconvenienti per gli eser­ centi furono ben presto preponderanti: l’obiettivo di proiettare film con le star più amate spesso si scontrava con l’obbligo di dover noleggiare

film di minor interesse che non attiravano il pubblico, e il saldo non sempre alla fine risultava attivo. Inoltre, con un atteggiamento piuttosto spregiudicato, se la fama di una determinata star fosse aumentata nel

corso del lungo periodo di validità del contratto, le case di produzione classificavano diversamente le pellicole da essa interpretate, pretenden­ do una correzione degli emolumenti da parte degli esercenti, altrimenti i film sarebbero stati sostituiti con altri di minor pregio.

Questo sistema fu dichiarato illegale dal governo nel 1927. ma fu solo nel 1948. con la storica sentenza Paramount da parte della Corte Suprema - come vedremo - che alle Majors fu intimato di dover rinun­

ciare alle sale: era il divieto di continuare a sfruttare l’integrazione ver­ ticale, che scomparve del tutto nel corso degli anni Sessanta, sancendo, in pratica, la fine dello Studio System dopo più di quaranl’anni di pro­ dotti e profitti. Prima che la giurisprudenza giungesse, dopo lungo tempo, a ripren­

Hollywood si struttura

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dere il controllo della situazione, le case di produzione ebbero l’oppor­ tunità di prosperare e di plasmare la storia del cinema hollywoodiano. Se la Paramount acquisì un vantaggio rispetto alle altre Majors in virtù della sua audace strategia di conquista de) maggior numero di sale possibili. la Metro Goldwyn Mayer, nata, come si è accennato in prece­ denza, quando Marcus Ixrew, nel 1924 fuse Metro e Goldwyn Com­ pany, recuperò in fretta il terreno perduto. Diretta da Ixxiis B. Mayer, la

MGM organizzò un piano industriale che prevedeva come unico super­ visore di tutti i prodotti Irving Thalberg, responsabile di ogni fase della produzione, dalla scelta dei soggetti al prodotto finito, 'fhalbergera gio­ vane ma cardiopatico, e aveva iniziato la carriera come aiutante di Cari Iperemie alla Universal, casa che aveva dovuto abbandonare per dissa­

pori dovuti al rifiuto di sposare la figlia del capo. Rosabelle. Aveva enorme fiuto per i gusti del pubblico, era considerato un’autentica mac­ china per far soldi e per questo motivo aveva la completa fiducia del vecchio Ixjuìs Mayer. L’autorità di cui fu investito Thalberg lo portò a

scontrarsi con le personalità dei singoli registi: il conflitto più acceso fu

con lirich Von Stroheim per la riduzione di Rapacità (Greed. 1924) che era lungo ben diciotto rulli e che il volere di Thalberg (e l’intervento di Rex Ingram) condusse alladiminuzione di otto rulli. Altri registi, come Clarence Brown e King Vidor, ebbero invece all’interno della MGM

rapporti più distesi, improntati alla discussione al compromesso, con­ sapevoli che il loro ruolo, perquanto importante, non arrivava a defini­ re l’edizione finale del film, il cui controllo (il celebreJìnal cut) spetta­

va appunto agli executive della casa di produzione. Uno dei più grandi successi della MGM fu infatti La grande parata (The Big Parade. 1925) di Vidor, vicenda in cui la storia d’amore tra un soldato america­

no e una contadina francese s’inseriva nel dramma dell’intervento ame­ ricano nella Prima guerra mondiale. Il tema pacifista, in tempi in cui l’afflato interventista del 1917 era ormai un lontano ricordo, il senti­ mentalismo del racconto e alcune scene di sicura presa sul pubblico (la contadina Melisande che alla partenza del contingente americano per il fronte si abbarbica alla gamba del suo amante fino a farsi trascinare per alcuni metri dal camion in partenza; l’avanzata nel bosco dell’esercito

americano vista con una carrellata che registra passo dopo passo il cre­ scente numero di caduti; il ritomo a casa del soldato e la rivelazione

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Storia c storie del cinema americano

dell’amputazione della gamba: il ricongiungimento con Melisande ne) paesaggio agreste della Francia) garantirono al film un notevole incasso che diede una spinta decisiva al successo della casa. La grande parata

forgiò la figura del suo interprete principale, John Gilbert, un divo che fino alle soglie del sonoro fu garanzia di qualità e successo, cosi come altre star sotto contratto per la MGM, il cui motto era «More stars than there are in heaven», più stelle che in cielo. Gilbert, Greta Garbo, sve-

dese di nascita, che Mayer aveva scoperto in Germania quando si chia­ mava ancora Greta Invisa Gustafsson, Lillian Gish. I ami Chaney il tra­ sformista, Jackie Coogan «The Kid», Marion Davies, William Haines, Ramon Novano. Norma Shearer, moglie di Thalberg, Joan Crawford e Lionel Barrymore erano i nomi di prima e seconda grandezza che popo­ lavano la volta celeste della MGM e rappresentavano una delle carte con cui attirare il pubblico e imporsi sul mercato. Verso la fine degli anni Venti, la politica accentratrice di Thalberg (che sarebbe morto trentasettenne nel 1936 e avrebbe ispirato il personaggio di Monroe

Stahr ne Gli ultimi fuochi di Francis Scott Fitzgerald) e l’esposizione dei divi ripagò gli sforzi della MGM, facendole recuperare il terreno che la divideva dalla Paramount Due anni dopo la morte di Marcus Iaxjw, avvenutane! 1927, William Fox tentò la scalata alla MGM. cercando di acquistare una quota di

maggioranza. Fox aveva prosperato negli anni Venti distribuendo film in modo capillare alle sale di media capienza e producendo una serie di western di sicuro successo interpretati dal cowboy Tom Mix, una delle prime leggende nella storia del genere. Per ottenere il successo in strati più acculturati del pubblico, la Fox s’impegno in western più ambiziosi e articolati, sperandodi imitare il successo della Paramount con l’epico / pionieri (The Covered Wagon, James Cruze. 1923). 1X) scopo era

quello di aprirsi una strada nelle cattedrali del cinema, nelle sale più grandi, con il prezzo de) biglietto d’ingresso più caro, posizionate nelle principali vie di accesso commerciale e con un pubblico selezionato, appartenente alle classi elevale. // cavallo d'acciaio (The Iron Horse, John Ford, 1924). ma anche / trefurfanti (3 Bad Men, John Ford, 1926). raggiunsero Io scopo.ma ladistanza dalla Paramount edalla MGM era

ancora lontana. Fox capi cheli passo decisivo da compiere era acquisi­

re grandi sale (tra cui il lussuoso ed eccessivo Roxy Theatre di New

Hollywood si struttura

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York, inaugurato nel marzo 1927 e dotato di circa 6000 posti a sedere) e controllare cosi parte dell'esercizio, sfidando le due case rivali sullo stesso terreno. Giunto a un passo dal veder coronata la sua rincorsa. Fox rimase tuttavia vittima di una congiuntura sfavorevole, perché l'acqui­ sizione della MGM diede i frutti sperati solo per un periodo limitato:

prima un'azione antitrust voluta dal governo Hooven insediatosi in quello stesso anno, poi la crisi finanziaria seguita al crollo di Wall Stre­

et fecero fallire la fusione e confinarono ai margini del mercato William Fox. costringendolo alla bancarotta. Il nome Fox sopravvisse grazie all'opera di Darryl F. Zanuck. abile supervisore della Warner Bros., e di Joseph Schenck della United Artists, che nell'inverno del 1934 fusero insieme due società e fondarono la20th Century-Fox.

Parzialmente diverso il percorso compiuto dalla Warner Bros., casa a conduzione familiare formata da quattro fratelli ebrei immigrati: Har­

ry, Albert «Abe». Sam e il vulcanico Jack, protagonista, negli anni se­ guenti, di alcuni dei più divertenti aneddoti di Hollywood. Durante la prima metà degli anni Venti, la corsa all'accaparramento delle grandi sale cinematografiche li aveva confinati ai margini del mercatoe anche la loro produzione si mostrava tutt'altro che ambiziosa, poiché erano costretti dalla loro limitata statura finanziaria a vendere in anticipo i diritti di proiezione ai distributori dislocati in vari luoghi del suolo ame­

ricano. Intorno alla metà del decennio la situazione cominciò a mutare: furono scritturati alcuni attori di grido come John Barrymoree il regista proveniente dalla Germania Ernst Lubitsch. che fin dal suo primo film. Matrimonio in quattro (The Marriage Circle, 1924). realizzò alcuni

prodotti di successo e alzò qualitativamente la media della produzione della casa, il cui nome di punta, fino a poco prima, era quello del cane

Rin Tin Tin. Come conseguenza di un'ambiziosa e riuscita campagna

di emissione di azioni in borsa. Jack Warner affidò a Waddill Catchings l'incarico di rilevare la Vitagraph Company, espandendo la capacità di distribuzione dello studio, e di acquisire alcune sale di grande capienza in luoghi strategici del territorio nazionale. Alla fine del 1926. Catchings ebbe conquistato alla causa della Warner poco meno di una decina di sale, tra cui il grande Warner 'fheater a New York e il faraonico Orpheum Theatre di Chicago. Inoltre, la Warner si dotò di una stazione

radiofonica per sfruttarla a scopo pubblicitario, e cominciò a concepire

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Storia c storie del cinema americano

con ditte specializzate il progetto di un sistema di sonorizzazione per le proprie pellicole. Come approfondiremo in seguito, fu questa capacità di giungere al sonoro prima delle altre Majors a permettere alla Warner

di recuperare la distanza che la separava da esse. lui RKO, Radio-Keilh-Orpheum, era una Major a lutti gli effetti in virtù delle sale di proprietà e della capillare rete di distribuzione, ma era lo studio con il settore produttivo meno efficiente, perché nel suo libro paga non possedeva divi che stimolassero particolarmente la fantasia del pubblico, nonostante potesse vantare tra le sue fila il celebre produt­ tore teatrale Florence Ziegfeld, responsabile nei primi anni Trenta di

molti grandi successi nel musical. lui RKO aveva una tradizione recen­ te, perché era nata alla fine degli anni Venti come diretta emanazione

della RCA (Radio Corporation of America), estromessa dalla gara di velocità sui sistemi tecnici che avrebbero dovuto garantire la sonorizza­

zione al cinema, lui RCA si rese conto che il proprio sistema - il Pholopbone - avrebbe avuto un futuro solo nel caso in cui avesse avuto il controllo diretto delle sale cinematografiche, lui RKO nacque quindi attraverso un complesso sistema di fusioni, articolando insieme i vari settori necessari airingrcsso nell’altivilà cinematografica: la RCA di

David Samoff si un) con la piccola casa di produzione FBO. presieduta da Joseph Kennedy (padredel futuro presidente JFK). con laconsorella americana della Pathé e con il circuito di sale di varietà Keith-AlbeeOrpheum. In un'ideale scala di grandezza, sotto le Big Ffvc si collocavano le case più piccole, soprannominate Minor, distanziate dagli Studios più affermati per la mancanza di una catena di sale di proiezione e per una politica produttiva volta, salvo poche felici eccezioni, alla realizzazione

di pellicole afferenti a generi ben definiti,! quali, coni loro meccanismi e le loro precise codificazioni, caratterizzarono non meno delle grandi produzioni il cinema hollywoodiano del periodo classico. lui Universa! convogliava quasi lutti i suoi sforzi nella febbrile pro­

duzione di film di genere a basso budget e i pochi lavori dalfinvestimento più ampio, come Femmine folli (Foolish Wives, Erich Von Stro­ heim. 1922) oppure, successivamente, AlFOvest niente di nuow (All Quiet on the Western Front, Ixwis Milestone, 1930). vedevano il loro

successo limitalo dalla mancanza di sale di proprietà e il passaggio ob­

Hollywood si struttura

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bligato nei cinema della concorrenza, lui politica di Cari luiemmle era improntala a un investimento limitato e questo significava avere poche star sotto contratto, anche se nella seconda metà degli anni Venti, e con

maggiore convinzione verso la fine del decennio con l’ascesa del figlio di Laemmle.Carijr..lacasa cercò di invertire la tendenza, assicurando*

si talenti dall’Europa, come André Dupont, il cui Farù?/é(l925) aveva suscitato grosso entusiasmo nel pubblico americano. Paul l^eni. che do­ po Il gabinetto dellefigure di cera (Dos Wachsjìgurenkabinett, 1924) girò in America II castello defili spettri (The Cat and the Canary. 1927) e L’uomo che ride (The Man Who Laughs, 1928). e Pài FejòS, talento registico ungherese che tuttavia non seppe ripetere con continuità gli eccessi visionari delle prime pellicole realizzate dopo il trasferimento negli Stati Uniti. lui United Artists era invece espressione di alcune star che decisero

di impegnarsi in prima persona sul versante produttivo e distributivo. Charlie Chaplin. Mary Pickford. Douglas Fairbanks e David Wark Griffith firmarono l’atto costitutivo della compagnia il 17 aprile 1919.

ma sin dai primi tempi si notò la mancanza di un’uniformità di intenti e di un autentico piano produttivo che non fosse legalo all’estemporanei­

tà e al temperamento del singolo divo: Fairbanks si lanciò nella produ­ zione di opere sontuose: come H ladro di Bagdad (The ThiefofBagdad, Raoul Walsh. 1925). che fecero ottimi incassi, ma il cui ricavo fu limi­ tato dall’ingente sforzo produttivo profuso;Griffith vendeva idiritti dei suoi film alle sale di grande capienza, per poi permetterne soltanto in seguito lo sfruttamento alla United Artists: Chaplin ebbe un grande suc­ cesso con La febbre dell’oro, ma realizzò il suo primo film per la casa solo quattro anni dopo la sua nascita: La donna di Parigi (A Woman of Paris: A Drama of l'ate, 1923). Nonostante molte star furono messe

sotto contratto (Rodolfo Valentino. Gloria Swanson. Buster Keaton per Come vinsi la guerra), gli squilibri esistenti all’interno dell’organizza­ zione impedirono alla United Artists di competere direttamente con le

Majors. 14i First National era. di fatto, un’unione di esercenti, il cui nome completo era First National Exhibitors Circuit, e nacque come reazione al tentativo di Zukor e della Paramount di costringere le sale ad acqui­

stare l’intero listino della casa con il principio del Block Booking,visto

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Storia e storie del cinema americano

dai gestori come un'ingerenza fastidiosa almeno quanto lo era il Trust nell’ottica della case di produzione indipendenti. Gli esercenti si pre­ sentavano in una situazione di forza perché avevano sotto controllo un

numero notevole di sale, a cui si allinearono presto molti gestori di lo­ cali di dimensioni più limitate. Il primo nome a finire sotto contratto

dell’associazione fu Charlie Chaplin, nel 1917, a cui seguirono Mary Pickford, Griffith e King Vidor, i quali realizzavano un certo numero di

film dietro l’anticipo sui compensi futuri, che la First National ricavava dalla diretta gestione delle sale. Zukor decise però di sferrare una con­ troffensiva che si dimostrò decisiva: alleatosi con il banchiere Otto Kahn e la sua società finanziaria, acquistò una serie di lussuose sale come il Rialto e il Rivoli a New York per poi assicurarsi anche, nel 1926, l’intera catena delle sale Baiatane Katz. Fu un duro colpo perla First National, che nel 1928 perse anche gli studi di Burtank, in Cali­

fornia, e fu assorbita dalla Warner Bros. A partire dal 1915, con meccanismi che furono perfezionati progres­

sivamente fino agli anni di introduzione del sonoro, ogni fase della pro­ duzione e della realizzazione cinematografiche si stratificò su un mo­ dello industriale. Pur nella differenza tra un film e un altro, tra storie diverse e modalità distinte attraverso cui proporre le varie pellicole al pubblico, e sebbene ci fosse la consapevolezza che ogni singolo film

necessitasse di pianificazioni progettuali specifiche, gli Studios produ­ cevano in serie, con una lavorazione che si suddivideva tra vari specia­ listi di ogni fase della realizzazione. Per poter organizzare compiutamente il lavoro e connettere fasi differenti e professionisti tra loro, di­ ventò fondamentale basarsi sulla sceneggiatura, intesa come prefigura­ zione del film su carta: essa conteneva la storia che sarebbe stata rive­ stita successivamente dalle immagini, ma era anche il nucleo narrativo

comune su cui tutti i vari specialisti dello studio (registi, direttori della fotografia, scenografi e, al termine delle riprese, montatori) offrivano il loro contributo diversi ficaio. In questo modo, la sceneggiatura offriva eventualità minimedi scarto, ma si trasformava in un blocco granitico che una volta approvatodefinitivamente dairttavu/nvpnx/uccr lascia­ va al regista, salvo in casi eccezionali di particolari personalità artisti­

che, margini di manovra minimi o addirittura inesistenti, a cui ci si do­ veva attenere limitandosi a tradurre in scene e inquadrature ciò che già

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compariva su carta, concedendosi al massimo di caratterizzarne il tono generale e il ritmo della messa inscena. Non doveva esisterei! rischio d’impresa: la produzione di un film non poteva permettersi di perdere gli eventuali profitti. Il sistema industriale e finanziario aveva fagocita­ to la pretesa artistica, che ormai sopravviveva soltanto nelle rimostran­

ze e nei compromessi di alcuni registi particolarmente ostinati (King Vidor. Josef Von Sternberg), negli immigrati d’oro dall’Europa (I41bitsch, Mumau, Sjòstrom) o nell’oltianzismo di autori destinati alla marginalità (Von Stroheim). Dopo la Prima guerra mondiale i costi di produzione erano aumentati e gli Studios avevano chiesto la partecipa­

zione dell’alta finanza di Wall Street per proseguire nei loro investi­ menti. Ovviamente Wall Street, entrando nei consigli di amministrazio­ ne delle case di produzione, cominciò a preoccuparsi dei propri investi­ menti sorvegliando direttamente le fasi di realizzazione dei film. Il

produttore divenne un supervisore che aveva il preciso compito di con­ trollare la conformità del prodotto fìlmico rispetto ai gusti del pubblico. Più che una mentalità artistica, possedeva un notevole senso pratico.

Ciò, ovviamente, influì notevolmente su tutto il processo creativo, per­ ché il supervisore forni idee, scelse registi e attori, cercò di ottimizzare

le varie produzioni secondo la sua prospettiva, l’unica valida perché finalizzata al profitto economico. L’originalità dell’opera non fu più l’elemento cruciale, che venne sopravanzato dalla commerciabilità del prodotto, secondo una scala di valori che metteva al primo posto il no­ me dei divi in grado di scatenare la fantasia del pubblico, la meraviglia

che la produzione poteva suscitare sullo schermo (scenografìe magnilo­ quenti. scene di massa ecc.), la validità del soggetto (il valore dell’ope­ ra da cui il film era tratto, la fama degli autori ecc.) e la condensazione di tutto il corredo di elementi dimostratisi di successo negli anni prece­

denti. Nonostante una crescente standardizzazione del prodotto, si giunse a una codificata maturazione del linguaggio cinematografico e. allo stesso tempo, alla regolazione delle caratteristiche del racconto scritto appositamente per il cinema. Fu infatti grazie all’intensità della produzione che si perfezionarono i meccanismi e i codici attraverso cui proporre il racconto, le strutture narrative e i tempi definiti del montag­

gio. Un’occhiata interessata era. inoltre, sempre rivolta alle innovazioni tecniche e stilistiche delle altre case di produzione e delle altre cinema­

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Storia e storie del cinema americano

tografie nazionali, dalle quali furono importate le personalità artistiche più in vista, salvo poi tarpar loro le ali quando la loro autonomia ri­ schiava di diventare eccessiva rispetto ai parametri imposti dal singolo

Studio. Indicativo fu il caso di Sergej Ejzenstejn, chiamato a Hollywo­ od dalla Paramount nel 1930. che scrisse - insieme a Grigorij Aleksan­

drov e Ivor Montagu - le sceneggiature di Sutter's Goldedì An Ameri­ can Tragedy per poi vederle realizzare da altri registi (L'ebbrezza dell 'oro di James Cruze. 1936, e Una tragedia americana di Josef Von

Sternberg. 1931) prima che il suo contratto fosse sciolto consensual­ mente dopo una serie di progetti accennati epoi abortiti. Qualche tempo dopo, una produzione indipendente che faceva capo a Mary Craig, mo­ glie dello scrittore Upton Sinclair, estranea all’industria del cinema, fi­

nanziò un’opera da realizzare in Messico che impegnò Ejzenstejn per alcuni anni. Al momento di licenziare l’edizione definitiva. Sinclair ce­ dette il materiale girato al produttore dei vari episodi di Tarzan. Sol l^esser, che lo fece montare secondo criteri convenzionali, ben diversi da quelli progettati dal regista lettone, intitolandolo Lampi sul Messico (Thunder over Mexico, 1933) e interrompendo bruscamente la giù non

facile relazione tra Ejzenstejn e il cinema americano.

Se il cinema americano sviluppava un percorso produttivo controlla­ to la cui regola era il «nuovo ma sempre uguale», per evitare scarti troppo netti che avessero la grande controindicazione di non incontrare i favori del pubblico, cominciò a delinearsi anche una categorizzazione di toni e disposizioni narrative differenti tra loro, ma pressoché simili in

un’ottica verticale, nei personaggi, nelle ambientazioni e nelle caratte­ ristiche essenziali del racconto chesi susseguivano di pellicola in pelli­ cola. soprattutto se quella precedente era stata baciata dal successo al botteghino. Tale classificazione per generi caratterizzò la produzione nei trent’anni successivi e offri delle comode etichette da fornire al pub­ blico per guidarlo nella scelta della pellicola e nella prefigurazione di ciò che avrebbe offerto il film. In questa prima fase d’incipiente catalo­

gazione, le grandi categorie tradizionali maggiormente utilizzate dalle Majors comprendevano la commedia (comedy), la commedia dramma­ tica (comedy drama), il dramma (drama) e il melodramma (romantic comedy). A questi ampi contenitori si aggiungevano alcune produzioni

di particolare pregio che riguardavano le trasposizioni letterarie tratte

Hollywood si struttura

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da romanzi di particolare successo e gli Art Film di ispirazione europea (o realizzati da registi europei in libertà artistica comunque vigilata da un supervisore), lui produzione si completava poi con i generi più po­

polari. realizzati nella quasi totalità dei casi dalle Minors, che compren­ devano i western, i film comici e le pellicole di particolare tensione che

si sarebbero trasformate in pochi anni in autentici horror. A dispetto di criteri perlomeno discutibili di creatività, per mezzo di questo complesso e altamente regolato sistema industriale. Hollywood si assicurò la conquista del mercato mondiale, impossessandosi degli schermi europei e di quelli sudamericani, approfittando anche della dif­

ficile congiuntura del vecchio continente nel periodo immediatamente seguente la fine della Prima guerra mondiale, la cui lenta ricostruzione rallentò sensibilmente lo sviluppo delle singole cinematografìe nazio­

nali.

4.2

Divismo e Star System

Della difficoltà per gli attori di far emergere il loro nome nel cartellone del film almeno fino a) 1913 si è detto in precedenza. Cari luiemmle, quando riuscì a strappare Florence luiwrence alla Biograph, aveva già capito quale fosse il valore cultuale dell’attoree in che misura egli fos­ se amato dal pubblico. Nel corso degli anni Venti l’ammirazione,

l’amore diventarono adorazione, in certi casi addirittura isteria colletti­ va. Il tutto alimentato da una macchina propagandistica che non cono­ sceva sosta e aveva nell’iperbole il suo metro di giudizio. I^emmle ebbe l’intuizione, Zukor pensò di importare negli Stati Uniti, come già rammentato, La reine Élisabeth per far apprezzare al pubblico l’arte

della celebre Sarah Bernhardt, Jesse l^isky, con la Feature Play Com­ pany, scritturò per ileinema la cantante d’opera Geraldine Farrar, punta

dell’iceberg di una serie di divi teatrali che furono cooptati in un bien­ nio di reclutamenti frenetici: i produttori avevano capito quale fosse il sentiero da percorrere, ma avevano mostrato una certa fretta nel realiz­ zarlo, preferendo ingaggiare stelle già affermate provenienti dal teatro, piuttosto che attendere qualche tempo e crearne di nuove formatesi

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Storia c storie del cinema americano

all’inlemo delle opere cinematografiche. Ma la moda dei divi teatrali durò poco: alti i compensi, diverso il tipo di recitazione richiesta, men­ tre stavano nascendo nuovi volti da poter proporre all’adorante atten­ zione delle platee. Iji grande eredità che i divi del teatro lasciarono a quelli del cinema fu che anche questi ultimi capirono di poter chiedere compensi della stessa entità se i loro film avessero avuto un buon successo. Mary Pickford riuscì a farsi versare da Zukor un compenso di 500 dollari la settimana, ci fra che crebbe negli anni seguenti: Zukor accettò di corrisponderle quanto richiesto, perché sapeva quanto fosse fonda­

mentale la presenza di una stella per il successo di un film, ma alla fine del 1918 non potè accettare che la Pickford arrivasse ad arrogarsi il di­

ritto di voler approvare le sceneggiature che avrebbe dovuto interpreta­ re. Il divorzio fu redditizio, perché la Pickford firmò per la First Natio­

nal che le garanti la quota faraonica di 675.000 dollari l’anno, per poi fondare, nel corso dell’anno successivo, la United Artists con altri due divi come Chaplin e Fairbanks. Creazione di importanza fondamentale perché poneva gli attori al centro del processo produttivo e distributivo solo una decina di anni dopo la comparsa dei loro nomi sul cartellone

del film. Mary Pickford e Douglas Fairbanks mostrarono che cosa significas­ se il fanatismo del pubblico a ogni latitudine, dimostrando contempora­ neamente quanto il cinema americano, già alla fine degli anni Dieci, si fosse magicamente trasformato in un fenomeno globale. Preoccupati per le conseguenze che avrebbero potuto averesulla loro immagine pri­ vala i recenti rispettivi divorzi, preludio al loro matrimonio, sbarcarono nel corso del 1920 a Southampton, in Inghilterra, e trovarono ovunque

gente accalcata e urlante, pronta a sopportare ore di attesa pur di inneg­

giare al loro nome e poterli osservare di persona. Nell’Unione sovietica, nel I926.il risultato fu ancora più sorprendente: a Mosca si erano radu­ nate ad attenderli circa trecentomila persone, la più grande adunata dai tempi della Rivoluzione d’Ottobre. 1^ immagini documentaristiche della Pickford a Mosca attorniata dai fan in estasi furono riprese e uti­ lizzate anche per la realizzazione di un film di produzione sovietica, intitolato // bacio di Mary Pickford {Potseluy Meri Pikford, Sergej Ko­

marov. 1927). nel quale una maschera del cinema, che sognava di esse­

Hollywood si struttura

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re Fairbanks, riceveva un’effusione affettuosa dalla Pickford e per que­ sto motivo era inseguito per tutto il conso della vicenda dagli ammirato­ ri dell'attrice che ambivano a strappargli i vestiti di dosso per conser­

varli come preziose reliquie(rifacendosi indirettamente a tutta una serie di commedie americane, da Personal a Le sette probabilità di Keaton). Al di là del suo valore, la pellicola era la dimostrazione di una passione sconfinata e. soprattutto, che i produttori, come un qualunque astuto

commerciante, avevano capito quale fosse l'articolo che interessava maggiormente gli acquirenti. Più della storia narrata, più del ritmo delle immagini, più della magniloquenza delle scene, era il nome del divo

che sanciva il successo definitivo della pellicola, come un aritmetico gioco tra chiara domanda e logica offerta. Ix> scopo da perseguire era

quindi agevolare l’adorazione del pubblico, in modo che il divosi avvi­ cinasse al singolo spettatore pur rimanendo confinato in un'aura di in­ tangibilità sacrale. I veri protagonisti di questa mitologia artefatta furo­ no i press agent, ingaggiati dagli Studios per fabbricare notizie soprat­ tutto in assenza di esse e incaricati dai divi di alimentare la loro leggen­ da odi rinfocolarla in un periodo di stanca. Idealizzatele vite familiari, esaltati gli innamoramenti.esagerali i compensi, dilatati all'inverosimi-

le gli investimenti per lepellicole di cui erano gli indiscussi protagoni­ sti: lutti elementi che. glorificando la stella, instauravano di fatto un sistema eliocentrico in cui il divo rappresentava il fulcro della produ­ zione e della stessa industria cinematografica hollywoodiana. Il nome del divo era anche una garanzia per la pratica del Block Booking, perché

gli esercenti, pur di mettere in cartellone il film con il nome di grande richiamo (e di sicuro incasso), erano disposti a sottostare al contratto capestro che li obbligava a proiettare una serie di pellicole di minor in­

teresse con attori dall’a/j/H-a/ inferiore. 1 ji creazione propagandistica, tuttavia, non spiegava da sola il fascino irresistibile delle star, cosi come non tutto dipendeva dal reiterato rico­ noscimento degli stessi attori nei vari film di una medesima casa di pro­

duzione, o dalla conquista dei nomi sulle locandine: senza addentrarsi in giustificazioni socio-antropologiche, senz'altro attendibili ma avvertite come estranee in questa sede, la passione del pubblico perle star dipen­ deva anche dalla mutazione dei criteri di rappresentazione e di narrazio­

ne che avvicinavano i personaggi al singolo spettatore, permettendogli

76

Storia e storie del cinema americano

di sentirsi pienamente coinvolto nella storia raccontata e di identificarsi con i protagonisti. Come si è già accennato, l’inquadratura fissa atta a suggerire lo sguardo del lo spettatore in plateanel corso degli anni Dieci progressivamente scomparve, per articolarsi in un linguaggio che, in fieri. attraverso spostamenti e correzioni in corso d’opera, stava diven­

tando pressoché quello che avrebbe distinto la fase classica del cinema americano. Il campo di ripresa più stretto, la tendenza a isolare in piani

ravvicinati i protagonisti per mostrare le loro emozioni e le loro reazioni in datesituazioni, le inquadrature raccordate secondo la linea desideran­ te, invocante o semplicemente incuriosita del loro sguardo, l’incipiente configurazione del campo e controcampo furono i mezzi stilistici con cui il pubblico, attraverso la centralità dinamica del suo sguardo e la

permutazione con quello dei personaggi, penetrò all’interno delle dina­ miche del racconto venendone assorbito completamente. Un altro ele­ mento decisivo fu il semplice accumulo di elementi: l’afTermazione, nello stesso periodo, del lungometraggio permetteva al pubblico un’identificazione protratta per un tempo più lungo rispetto alle produ­

zioni in due rulli in grado di contrassegnare più profondamente l’assun­ zione emotiva. Nonostante il tentativo di approfondire maggiormente i personaggi da un punto di vista psicologico, questi, puntando a un obiet­ tivo definito o alla rimozione di una mancanza, così com’era nella logi­

ca della narrazione classica, davano vita a una categorizzazione delle azioni possibili chea sua volta introduceva, contemporaneamente, una sorta di tipizzazione dei personaggi, li il divo, protagonista assoluto, motore primo dell’azione e del processo di rimozione, per agevolare l’adesione e l’inserimento dello spettatore nella pratica identifìcativa della storia, si piegava a un prototipo di personaggio che una volta rag­

giunto il successo assoluto replicò nei film seguenti per sfruttarne il gra­

dimento. Tendenza che il cinema americano propose per i successivi quarant’anni, almeno fino alle soglie degli anni Sessanta. L’elenco poteva essere molto lungo. Douglas Fairbanks incarnava la

vitalità atletica e sorridente, immagine di virilità e ottimismo all ameri­ cana proposta in contrapposizione al mondo industrializzato e in qual­ che modo imbolsito, preda della quotidianità anonima di una società che stava mutando i suoi crismi originari. Non era soltanto per stimola­

re la fantasia dei luoghi esotici chele pellicole da lui interpretate fosse­

Hollywood si struttura

77

ro ambientate in luoghi lontani e senza tempo: il messaggio che Hol­ lywood esibiva era di un’intraprendenza universalmente valida, sia che Fairbanks si materializzasse nella divertente spocchia con cui duellava seduto su un tavolo con l’oscuro sergente Gonzales in II marchio di Zorro (The Mark ofZorro, Fred Niblo. 1920; Douglas Fairbanks Pictu­ res), sia che volasse da dominatore incontrastato su una Bagdad da Mil­ le e una notte in // ladro di Bagdad (The Thiefof Bagdad, Raoul Walsh, 1924; Douglas Fairbanks Pictures), sia che, infine, fosse issalo a brac­ cia dal suo equipaggio tra le varie sezioni longitudinali di un galeone conquistato in // pirata nero (The Black Pirate, Albert Parker, 1926; Elton Corporation) a sancirne anche visivamente l’esaltante assunzione eroica. Fairbanks era Vhomo americanus rimasto tale a dispetto dei

tempi e delle mode estemporanee, cosi come, di contro, Rodolfo Valen­ tino, nato a Castellartela, provincia di Taranto, rappresentava l’incanto

magnetico dell’ambiguità sessuale pronta a mietere vittime con la mo­ dulazione dello sguardo econ il linguaggio del corpo. Ne ! quattro ca­ valieri dell'apocalisse (The Four Horsemen of the Apocalypse, Rex

Ingram. 1921; Metro Pictures Corporation), seppur inserito in una vi­ cenda articolata che non lovedeva protagonista assoluto, erano i movi­

menti flessuosi della sua figura impegnata in un perenne tango della seduzione a porsi come dichiarato oggetto di sguardo da parte di astan­ ti ammiratio desiderosi, mentre ne sceicco (TheSheik, George Mel­ ford. 1921; Paramount)mostrò tutto il suo fascino di amante ammaliatore attraverso la modulazione di tutti gli sguardi possibili: dapprima

intenso e sostenuto, poi spiritato, per manifestare una passionalità solo sopita, in seguilo dubbioso, perché esitante suH’amore della sua donna, luidy Diana Mayo, e infine, raggiunta la consapevolezza del sentimen­

to, sorpresoe raggiante (ed è singolare, sia detto per inciso, l’insistenza sullo sguardo del divo da parte di un regista che nel corso del film di­ mostrò di non possedere ancora la padronanza di raccordare adeguatamente gli stessi). lui morte stessa di Valentino, avvenuta in giovane età

(31 anni) nel 1926. in seguito a un’ulcera perforata dovuta a un’appen­ dicite non asportata in tempo, fu l’autentica rappresentazione della glo­ ria eterna per il divo: una folla di centomila persone si accalcò per le strade di New York per porgergli l’estremo saluto, una serie impressio­

nante di suicidi e scene d’isteria collettiva sottolinearono l’intollerabili-

78

Storia e storie del cinema americano

là della prematura scomparsa, la trovata di far vigilare il feretro da un drappello di false camicie nere che contornavano una scintillante coro­ na con la dicitura «Da Benito» si sforzò di legittimarne la grandezza attraverso l’intimità con il capo di govemodella nazione di cui era ori­ ginario. Altrettanto irresistibile, quasi di derivazione gorgonica, era 'fheda Bara, il cui vero nome era Theodosia Goodman, uno pseudonimo deri­ vante dall’anagramma di Arab Death, metafora di morie per passione ed esotismo, le due chiavi di lettura con cui avviluppare il pubblico. Il film che la lanciò fu A l'ool There Was (Frank Powell. 1915: William

Fox Vaudeville Company), in cui interpretava una vera e propria man­ tide in grado di polverizzare la dignità di ogni uomo imprigionandolo

nelle sue spire e portandolo alla rovina o alla totale ignavia. Il personag­ gio di cui si annacquava l’origine (era figlia di un sarto ebreodell’Ohio). evocando leggende che la volevano a volte incarnazione di un demone orientale, altre una strega pronta a lanciare la sua tremenda malia, era

una diva costruita a tavolino dai press agent della Fox per proporla in

netta contrapposizione con la purezza delle fanciulle vittoriane di Grif­ fith (come Lillian Gish, ad esempio). Con 'fheda Bara il sesso diventò elemento esplicito dello schermo hollywoodiano, perché il suo era un personaggio progettato con la dichiarata intenzione di affascinare e in­ dignare, allo stesso modo con cui gli uomini da lei irretiti rimanevano impotenti di fronte al suo charme perverso e annichilente. lui dichiara­ zione d’intenti era esplicita fin dalle prime immagini del film di Powell,

in cui la diva in potenza era presentata quasi programmaticamente in Mezza Figura, raffinata nella sua eleganza, intenta a osservare e ad an­ nusare sorridendo la grazia di un fiore, illudendo di apprezzarlo, salvo capovolgere repentinamente l’ipotesi e schiacciarlo, racchiudendo nella mano i petali con superbia e sadismo: insieme la bellezza, la grazia, l’inganno di un sentimento possibile, la sua fiustrazionenel ribaltamen­ to malvagio, lui definizione di un personaggio incastonato in un ruolo

prestabilito (la vamp: il nome con cui era designato il suo personaggio nel film di Powell è appunto 'Die Vampire) fu riproposto in contesti e ambientazioni diversi negli anni successivi, lutti con lo scopo di pro­ porre un’immoralità perturbante che doveva essere significata già dalle origini misteriose della donna sorta dal nulla.

Hollywood si struttura

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Tutto ovviamente falso, ma tutto esplicitamente concreto nell’ottica hollywoodiana, perla quale realtà e illusione avevano frontiere perfet­ tamente osmotiche e reversibili, come avrebbe notato anche Bertolt Brecht, una volta giunto a Hollywood («Ogni mattina, per procurarmi il pane/vado al mercato dove si comprano le bugieJSperanzoso/prendo

posto tra i venditori»), lui vamp era solo uno degli aspetti con cui Hollywood proponeva,

attraverso le star, la definizione delle varie figure femminili che si af­ facciavano sulla scena nell’età del jazz. Talvolta la figura s’ibridava in personaggi dal grande potere d’attrazione finalizzato non all’annulla­ mento delle personalità altrui, quanto alla soddisfazione di un senti­ mento di non facile attuazione, conquistato attraverso una gestazione

formativa travestita da percorso a tappe. In questo si distinse Gloria Swanson, soprattutto nelle pellicole che realizzò conCccil B. DeMille, a iniziare da Maschioefemmina {Male and Female, 1919; Paramount), nel quale interpretava una sdegnosa nobildonna inglese attratta dal suo

aitante maggiordomo ma frenata dalle barriere sociali. Tuttavia, per un breve periodo, prima che gli scandali di una condotta disinvolta la tra­ volgessero e l’arrivo del sonoro ne rivelasse la voce squillante e l’im­

proponibile accento di Brooklyn, fu Clara Bow a personificare l’anima libera e indipendente della donna degli anni Venti, laflapper. In Caset­ ta (It, Clarence Badger, 1927; famous Players-luisky Corporation/Pa-

ramount) si segnalò per la personalità volitiva, peril fascino sbarazzino, per il più volte ribadito sex appeal (l’itdel titolo originale, un qualcosa

di indefinito che genera attrazione), per la generosità e per la capacità di sedurre attivamente, senza disporre dell’esotismo della vamp di Theda Bara o dell’alterigia della Swanson, ma puntando soltanto sulla propria

schiettezza, su un sorriso radioso incastonato in un volto dai grandi occhi malinconici e su una volontà di ferro, capace di rendere la figura femminile particolarmenteattiva, emancipandola dal ruolo ancillare ri­ spetto all’uomo avuto fino a quel momento.

80

4.3

Storia e storie del cinema americano

Storie di Babilonia e istanze censorie

Un mondo cosi vicino (grazie allo schermo)ecosl idealizzato non pote­ va ovviamente essere ignorato dalla stampa. Anzi, come si è visto, era

proprio utilizzando i mezzi di comunicazione per i propri scopi che si esaltava la figura del divo, innalzandolo a vette di consacrazione che rappresentavano un ottimo viatico per aumentare gli incassi al botteghi­ no. Esisteva però l’altra facciadella medaglia. Il divo rappresentava una notizia di sicuro interesse, e se questo poteva tornare utile a Studios e press agent, lo era altrettanto per i rotocalchi scandalistici. Se riviste

come «Photoplay», «Picture Play» o «Motion Picture Classic» mostra­

vano foto e vita privala dei divi, esibendo una dorata normalità e propo­ nendo solo aspetti edificanti della loro esistenza (anche questi orchestra­ ti spesso ad arte), le riviste alla ricerca di scoop sensazionalistici e i

quotidiani utilizzavano la star come fulcro attorno al quale prendeva cor­ po la curiosità morbosa del pubblico. Curiositàche diventava ancora più ossessiva se le notizie non erano semplici gossip ma reali fatti di crona­ ca. Che a Hollywood, per l’eco che suscitavano, diventavano autentici

scandali. Prima della grande esplosione, avvenuta nel biennio 1920-21, I lollywood si era macchiala di qualche piccolo peccato messo immedia­ tamente a tacere: nel 1911 unodei registi pionieri del cinema americano. Francis Boggs, era stato ucciso da un giardiniere di origine giapponese mentalmente disturbato a causa del frastuono che sentiva provenire dai teatri di posa della Selig, mentre l’anno successivo, alcuni attori della Keystone passarono velocemente la frontiera per sottrarsi all’accusa di

aver corrotto una sedicenne. Casi che sarebbero potuti capitare ovunque, ma che nel centro dell’industria cinematografica assumevano una parti­

colare cassa di risonanza, anche per la diffidenza che fin dagli albori del secolo aveva accompagnato la colonia di attori e cineasti su entrambe le coste. Il veloce susseguirsi di eventi drammatici che accaddero all’inizio degli anni Venti fece inesorabilmente precipitare la situazione. Prima il

suicidio di Robert Harron, il protagonista dell’episodio contemporaneo

di Intolerance, caduto in uno stato di profonda prostrazione per essere stato escluso dal cast di Agonia sui ghiacci (Way Down East, David W. Griffith, 1920; D.W. Griffith Productions) a favore di Richard Barthelmess, e perle pene d’amore seguite al rifiuto di Dorothy Gish di sposar­

Hollywood si struttura

81

lo. Soltanto cinque giorni dopo mori in circostanze mai completamente chiarite in un albergo di Parigi Olive Thomas, giovane star in ascesa della truppa Ziegfeld e moglie di Jack Pickford, attore e fratello della più

celebre Mary. Il caso di Olive, morta per un avvelenamento, probabil­ mente autoindotto, scoperchiò una tragica vicenda di stretta dipendenza dalla droga (soprattutto di Jack), rivelando, nello stesso tempo, il dispe­ rato bisogno di procurarsela, a dispetto dell’immagine ideale della cop­ pia che le riviste specializzate propagandavano negli Stati Uniti. I gior­ nali scandalistici fecero festa per qualchetempo, nonostante Mary Pick­ ford respingesse le accuse rivolte al fratello e alla cognata come infa­ manti, ma agli stessi giornali, solo un anno dopo, non sembrò vero di avere tra le mani un caso perfetto per stimolare il gusto sadico del pub­

blico e dei lettori. Roscoe Arbuckle, detto «l;atty» per le esorbitanti di­ mensioni, era uno dei comici di maggior successo in quell’inizio di de­

cennio, le sue comiche in due rulli erano la delizia dei bambini, e il suo sguardo trasognato intrappolato in un corpo da cetaceo era diventato una specie di icona del divertimento grossolano, della risata grassa e imme­

diata. lui sua carriera era a una svolta: scritturato da Adolph Zukor per la Famous Players-Lasky Corporation (Paramount) per una serie di lungo­

metraggi. Fatty non pareva trovarsi a suo completo agio in film dalla struttura più complessa, e il suo successo, alle soglie degli anni Venti, aveva subito un inatteso rallentamento, che si tramutò in un tracollo quando Fatty decise di organizzare un festino al SL Francis Hotel di San Francisco, il 5 settembre del 1921. Al termine della nottata, la giovane

Virginia Rappe, un’attrice famosa più peri favori che aveva concesso a chi lavorava per la Keystone, ai quali pare avesse trasmesso piattole e gonorrea, che perle sue parti di contorno che si era ritagliata, fu ricove­

rata d’urgenza in preda a orrendi spasmi e alla febbre alta, per morire solo quattro giorni dopo. Al termine di un carnevale di dichiarazioni, testimonianze, voci incontrollate e sospetti. Fatty Arbuckle fu accusato di stupro e assassinio, nonostante le cause della morte della povera Vir­ ginia fossero tutt’altro che chiare. Fu un massacro mediatico: il caso si era consumato a San Francisco, città che teneva molto a non diventare il canale di scolo del marciume hollywoodiano. ma soprattutto sede del

magnate dell’editoria William Randolph Hearst, i cui giornali (l’«lixamincr» su tutti) cominciarono a crocifìggere Fatty ben prima che il tribù-

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Storia e storie del cinema americano

naie lo dichiarasse colpevole. Si parlò delle grida di Virginia udite all’esterno della stanza in cui era rinchiusa con Arbuckle, che il mezzo utilizzato per violentariaera stato una bottiglia di spumante, che a segui­ lo della violenza le fosse esplosa la vescica e fosse morta fra mille tor­ menti. che Patty l’avesse schiacciata sotto il peso del suo immane corpo;

lutti elementi che non giovarono alla causa del comico, sempre più iso­ lato e dileggiato dall’opinione pubblica, ormai incurante di ciò che

avrebbe sentenziato la corte. Si pescava volutamente nel torbido, con lo scopo di stimolare la curiosità perversa dei lettori: i giornali di Hearst (e non solo i suoi) raggiunsero picchi di vendila mai raggiunti in preceden­ za. Il processo, che fuori dall’aula si era già concluso, ebbe uno svolgi­ mento alquanto discutibile, visto che Matthew Brady, il procuratore di­ strettuale. puntava alla condanna eclatante dell’imputato per promuove­ re se stesso in vista di una possibile candidatura a governatore della

California. Izj testimonianze si mosUaronocontiaddittorie, la teste prin­ cipale. Maude Delmont, giunta alla festa con Virginia, era una nota ri­ cattatrice, oltre che simulatrice di stupri a scopo di estorsione. Inoltre, alcuni referti medici, come quello in cui si dimostravava che Virginia fosse morta per le conseguenze di un aborto mal eseguito, furono delibe­

ratamente ignorati: Brady non dovette far altro che fare pressioni sui te­ stimoni. minacciare, manipolare gli indizi. Arbuckle fu dichiarato inno­

cente, con tanto di scuse da parte della giuria, solo al terzo processo, ma la sua carriera era ormai finita: Zukor pagò gli avvocati della difesa, però sospese lo stipendio di Fatty per inadempienze lavorative e, prima ancora delle sentenze, ritirò dalla distribuzione i suoi film per sostituirli con quelli interpretati da Mary Miles Minter, fanciulla eterea e pudica, dalla morale indiscutibile agli occhi del pubblico, la quale, per sadica ironia della sorte, nel febbraio dell’anno successivo, fu implicata nell’as­

sassinio del regista William Desmond Taylor, vicenda nella quale era coinvolta anche Mabel Normand e il cui vero colpevole non fu mai tro­ vato (e che Pat Hobby, lo sventurato sceneggiatore protagonista dei rac­

conti ambientali a Hollywood da Francis Scott Fitzgerald, credeva di aver individuato nel regista - di fantasia - Harry Gooddorf in Pat Hob­ by’s Christmas Wish, pubblicato su «Fsquire» nel gennaio del ’40). Nonostante l’assoluzione. Fatty divenne il paria di Hollywood: tra i tanti amici che pareva avere in precedenza, gli rimase fedele il solo

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Buster Keaton, con il qualeaveva lavoralo diversi anni prima. All’indu­ stria hollywoodiana non interessava l’innocenza di Fatty, l’unica verità valida era il pregiudizio del pubblico e le pressioni che associazioni

cattoliche, leghe della temperanza e club femminili facevano nei con­ fronti di un universo ritenuto corrotto, schiavo del vizio e della turpitu­ dine. I produttori delle Major cercarono di proteggerei! loro mercato e di limitarci danni, organizzando un’operazione a vasto raggio che resti­

tuisse al cinema la legittimità morale di cui avevano bisogno per attira­ re le famiglie nelle sale, cosi com’era già stato fatto dalla MPPC nel 1909 conia creazione del National Board of Review of Motion Picture,

il comitato di censura a cui i film del Trust si sottoposero per risponde­ re alla chiusura newyorchese delle sale voluta dal sindaco McClellan.

4.3.1 11 codice Hays

Come prima mossa i capi degli Studios fondarono nel 1922 la Motion

Pictures Producers and Distributors Association (MPPDA, in seguilo

MPAA), un’organizzazione di lutle le case di produzione, formata con lo scopo di dotarsi del necessario coordinamento unitario nella promo­ zione degli interessi commerciali e nelle relazioni pubbliche, e ne affi­ darono la presidenza a un uomo che avesse fama integerrima di fronte agli attacchi all’industria del cinema, che possedesse un’indiscutibile fede cristiana e utili agganci politici. I-a scelta ricadde su William Har­ rison Mays, ministro delle poste dell’amministrazione Harding, di cui aveva curato la campagna elettorale, ed esponente della chiesa presbi­ teriana dell’indiana. Per una nuova - e mai esausta, evidentemente ironia della sorte. Hays si trovò, l’anno successivo, a deporre su alcuni

finanziamenti illeciti che il comitato elettorale che presiedeva aveva ricevuto da parte di un petroliere, illegale benefìciariodi una concessio­ ne su pozzi federali accordata da Albert Fall, ministro dell’interno del governo Harding. Hays rimase al suo posto, ebbe uno stipendio di 150.000 dollari (100.000, secondo altre fonti), e l’opera di ripulitura morale del cinema americano potè continuare, lui prima operazione fu di tamponare le pressioni dei vari stati all’instaurazione di una censura

locale, poi fece partire una massiccia campagna di stampa a favore del­

la libertà di espressione e contro la censura, ritenuta lesiva della libertà

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Storia e storie del cinema americano

individuale, e quindi, inqualcbe modo.antiamericanx In seguito, sfrut­ tò la sua grande abilità nelle pubbliche relazioni mediando tra i produt­ tori e i sindacati che si stavano organizzando e che cominciavano a ri­ vendicare precisi diritti, contribuendo, nel 1927, alla nascita deir Aca­ demy of Motion Pictures Arts and Sciences, un'associazione professio­

nale interna all’industriache comprendeva cinque categorie (produttori, registi, sceneggiatori, attori e complesso dei tecnici) e che curava i rap­

porti tra gli Studiose i lavoratori (I*Academy, dal 1929,celebrò in qual­ che modo l'industriadi cui era diretta emanazione designando i titoli e gli artisti migliori dell'anno appena trascorsocon gli Academy Awards, comunemente conosciuti come premi Oscar). Hays lavorò alacremente per riconciliare le varie pressioni sociali

che gravavano sul mondodel cinema con loscopo di restituire a esso un ruolo riconosciuto che si ponesse, contemporaneamente, come riferi­ mento per l'assunzione di modelli positivi per la nazione. E per fare questo, il suo ufficio stilò un codice di autoregolamentazione dei conte­ nuti e delle immagini proposte dal cinema hollywoodiano: lo scopo ma­

nifesto era quello di proporre un'idea positiva dell'universo mostrato dalle pellicole in modo da tacitare le proteste dei puristi, evitando di sconvolgere il pubblico medio fomendoesempi condannabili. Ix> scopo latente era quello di evitare che intervenissero sul prodotto finito le va­

rie censure locali, prima ancora di quella federale, e ne bloccassero la distribuzione, facendo perdere agli Studiosi loro investimenti. L'Hays Code fu redatto nel 1929dal giornalista ed editore cattolico Martin Qui­ gley, che pubblicava una rivista degli esercenti, ('«Exhibitors Herald», e dal gesuita Daniel Lord, con la consulenza di alcuni grappi protestan­ ti, come la Church and Drama Association. Il confronto con i cattolici

era fondamentale perché gran parte del pubblico che frequentava le sale seguiva tale credo religioso, e la Chiesa americana credeva molto nel suo ruolo di guida morale dei fedeli in ogni momento della giornata, soprattutto in quelli ludici e ricreativi, nei quali più facile era smarrire

la retta via. Il rapporto con i protestanti, invece, fu più problematico fin dall'inizio, malgrado Hays stesso fosse rappresentantedella chiesa pre­ sbiteriana, per via dei contrasti che presto caratterizzarono il rapporto tra Hays e il reverendo George Andrews, esponente di punta della Church and Drama Association.

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L’I lays Code fece la sua comparsa ufficiale il 31 marzo del 1930. Diviso in due parti, The Code. il codice vero e proprio, che prevedeva quali elementi visivi e contenutistici non dovessero essere rappresenta­ ti sullo schermo.e The Reasons, le giustificazioni etiche e ideologiche che ne giustificavano la redazione e che richiamavano alla responsabi­ lità morale del cinema nella creazione di modelli positivi cui far riferi­ mento. Imprima parie, caratterizzata da limiti e attenzioni definiti, pre­

scriveva in che modo un film dovesse presentare aspetti particolari del­ la realtà, partendo dai crimini per giungere al sesso. Nel primo caso, la cautela non era tanto rivolta alla loro rappresentazione, quanto alla pre­

occupazione che tali comportamenti potessero indurre il pubblico ad ammirare le gesta dei delinquenti e quindi a tentare l'emulazione. Nel caso del sesso, i veti erano vasti e articolati e andavano dalla proibizio­ ne di mostrare baci eccessivi alla condanna dell’adulterio, dall’impos­

sibilità di illustrare esplicite scene di seduzione al divieto assoluto di raccontare relazioni interrazziali. Il pubblico non avrebbe mai dovuto

identificarsi con i criminali e nemmeno mettere a repentaglio la sacrali­ tà della famigliae la dignità dell’alcova. Altrettanta prudenza era riferi­ ta ai credi religiosi, che non dovevano essere ridicolizzati né diretta-

mente, né per mezzo dei propri ministri di culto, e ai simboli nazionali, i quali dovevano essere mostrati sempre con estremo rispetto. In un primo momento l’applicazione del codice fu pratica solamente consigliata agli Studios, un modo elegante per mostrare l’impegno pro­ fuso dall’industria del cinema senza interferire nelle sue dinamiche, ma

alcuni titoli distribuiti dopo il 1930 accesero un irritato dibattito, provo­ cando una nuova ondata di proteste contro l’immoralità dell’industria del cinema. Pellicole come Lady Lou, la donna fatale {Lady Lou. Ix>-

well Sherman, 1933; Paramount) e Non sono un angelo (/ m no Angel. Wesley Ruggles, 1933; Paramount), inori l’aggressiva sensualità di Mae West era letteralmente scaraventata in pieno volto al pubblico, o come Scarface (I toward 1 lawks, 1932; The Caddo Company), con tutto il suo corredo di violenza spettacolarizzata, oppure ancora come Baby Face (Alfred li. Green, 1932; Warner Bros.), in cui Barbara Stanwyck utilizzava il suo fascino perverso per farecarriera,o infinecome Parti­ ta a quattro {Design for Living. Ernst Lubitsch, 1933; Paramount), in

cui l’inviolabilità della vita di coppia veniva sbriciolata da un rapporto

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Storia c storie del cinema americano

a tre, causarono (’indignazione dei moralisti e addirittura la nascita del­ la Ixgion or Decency, che si prese la briga di stilare una lista dei film riprovevoli da boicottare. Per evitare le conseguenze di questa levata di

scudi, che avrebbero potuto essere nefaste nelle zone a maggioranza cattolica, rindustria cinematografica fece in modo che l’osservazione del Codice diventasse obbligatoria istituendo, nel 1934, uno speciale ufficio, il Production Code Administration (PDA), diretto dal cattolico

Joseph I. Breen, che di fatto vietava agli Studios di distribuire i Him senza il visto di approvazione della Motion Pictures Association of America, con multe per gli inadempienti che potevano arrivare Tino a 25.000 dollari. Da un lato il Codice vietava, talvolta scendendo a compromessi, mer­

canteggiando sequenza per sequenza con gli Studios più potenti che cercavano di difendere l’integrità del loro lavoro e i veri motivi di inte­

resse del film per un pubblico a caccia di sensazioni forti; dall’altro, indirettamente, stimolava i registi (e i produttori più invadenti) ad aggi­ rare l’ostacolo, evocandogli elementi che sarebbero incorsi nelle strette maglie dellìlaysCode attraverso sottintesi, allegorie, metafore, ellissi, allusioni, tentativi di sollecitare l’inferenza dello spettatore. Il crepitare del fuoco di un camino che sostituiva l’ardore di un approccio tra due amanti, lo spostamento dell’attenzione spettatorialesu scenografie par­

ticolarmente smussate e brillanti come correlativo oggettivo della ten­ sione sessuale provata dai personaggi, il ritmo esasperato dei dialoghi delle Screwball Comedy come Iraslato di una passione in costante evo­

luzione. lembi di indumenti che sostituivano per metonimia il ritrova­ mento di un corpo barbaramente ucciso, dissolvenze evidenti per sot­ trane conseguenze piccanti all’attenzione del pubblico, colmabili attra­ verso ta propria immaginazione: i segni dell’instancabile lavoro

dell’Hays Office erano evidenti, ma offrirono ta possibilità al cinema hollywoodiano di aguzzare l’ingegno per raccontare senza mostrare di­ rettamente, eludendo ta limitazione e inducendo lo spettatore a una par­ tecipazione vigile e attiva. Ci furono anche alcuni aneddoti divertenti, come quando l’IIays Office,preso da furore vittoriano, richiese esplici­ tamente ai fratelli Max e Dave Fleischer di coprire l’abbigliamento troppo succinto di Betty Boop. oppure nell’occasione in cui i responsa­ bili dell’ufficio (diventato nel frattempo Johnston Office, perché line

Hollywood si struttura

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Johnston, nel 1945, era subentrato a Will Hays, giunto ormai alla pen­ sione, alla guida della MPPDA) sostituirono il finalede II grande sonno (The Big Sleep, Howard Hawks, 1946; Warner Bros.), ritenuto troppo violento, con un finale che secondo il racconto divertito di Hawks era ancora più cruento. Oppure quando Hitchcock alluse alla prima notte di nozze tra Cary Grant ed live Marie Saint in Intrigo intemazionale (North By Northwest, 1959; MGM) mostrando il treno su cui idue per­ sonaggi viaggiavano entrare prepotentemente in galleria. Ma al tempo di Intrigo intemazionale l’epoca d’oro del Codice era già quasi comple­ tamente trascorsa: nel 1948, la sentenza Paramount poneva fine, almeno

legalmente, all’oligopolio degli Studios, privandoli del controllo diretto delle sale e frantumando l’integrazione verticale. Uno degli aspetti su cui indagò la Corte suprema fu anche l’utilizzo mirato dell’Hays Office, da parte delle Majors, per censurare con maggiore foga moralista le scene piccanti delle pellicole indipendenti, che spesso rappresentavano l’unica vera attrazione di film altrimenti di scarso valore per pratiche sommarie di realizzazione e per budget ridotto. Tuttavia, lo scarto deci­

sivo avvenne nel 1953, quando Otto Premingere la United Artists di­ stribuirono Ugualmente La vergine sotto il tetto (The Moon is Blue,

1953; Carlyle Productions), condannato per il suo comunque blando discorso suH’adulterio, senza il preventivo visto di censura da parte del Production Code Administration. Preminger fu portato in tribunale e vinse la causa. Da quel momento altre pellicole sfidarono il Codice, sempre più vittima dei tempi che stavano mutando, delle ansie di libera

espressione e della concorrenza della televisione: tossicodipendenza, alcolismo, omosessualità, corruzione diventarono temi costanti in lutto il periodo a cavallo tra gli anni Cinquantae i Sessanta e originarono una

profonda riflessione nei membri del PDA. che portò il Codice a trasfor­ marsi, nel 1968. in un sistema di classificazione, istituito dal Code and Rating Administration, organismo che sostituì il PDA, e che prevedeva una serie dì ipotesi, che andavano dal film per tutti, contrassegnalo dal­ la lettera G (General Audiences), al divieto ai minori, contrassegnato dalla lettera X. Sistema di classificazione, che con alcuni opportuni adattamenti, sopravvive nel cinema americano ancora oggi.

Capitolo 5

Tendenze e autori tra muto e sonoro

5.1

Personalità, procedimenti e stile

In una produzione che si trovava a mediare tra le istanzedel mercato, le esigenze degli Studios, le ingerenze dei supervisori e le limitazioni del Codice di autocensura, lo spazio per l’affermazione di poetiche speci fi­ che e peculiarità stilistiche da parte degli autori pareva essersi maggior­ mente assottigliato. Tuttavia, nonostante tutti gli aspetti elencati (e spesso anche a dispetto di tali elementi), alcune personalità d’autore

emersero prepotentemente e caratterizzarono con le loro opere il perio­ do intercorrente dalla Tme degli anni Dieci all’introduzione del sonoro, intervallo durante il quale il cinema americano giunse a uno stato di particolare sviluppo che gli permise di colmare lo scarto ancora esisten­ te con il miglior cinema europeo. Questo fu possibile grazie alla fluidi­ tà di un linguaggio che. da un lato, si era fatto talmente codificato e

compreso dal pubblico da poter essere, talvolta, messo in discussione con piccole (ma determinanti)deviazioni di percorso pronte a saggiarne

le potenzialità e le sue ampie sfumature: dall’altro, fu facilitato da alcu­ ne cooptazioni di autori europei, chiamati a Hollywood ad accrescere il successo di critica e pubblico avuto in patriaecapaci di influenzare con la loro perfetta conoscenza del mezzo alcune scelte stilistiche e narrati­ ve del cinema hollywoodiano. Uno dei nomi più importanti del periodo fu certamente quello di Erich von Stroheim, le cui origini viennesi erano un caleidoscopio di

Tendenze e autori tra muto e sonoro

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episodi talmente millantati da fame un personaggio degno dei suoi film, a iniziare da quel Von che intendeva esaltare con un falso blasone le occultate radici ebraiche della famiglia. Cresciuto professionalmente sotto registi come Griffith e John Emerson, svolgendo oltre al ruolo di attore una serie di altre mansioni, tra cui anche il consulente di tecniche

militari, von Stroheim divenne tristemente famoso al pubblico per una serie di interpretazioni ciniche e brutali di soldati tedeschi: stupri, ese­

cuzioni, barbari accanimenti e il lancio di un bambino da una finestra nel suo curriculum cinematografico - in The Heart ofHumanity (Allen llolubar, 1918; Universal Film Manufacturing Company) che gli valse­ ro il poco invidiabile soprannome di «The Man You !>ove to Hate», Tuomo che amate odiare. Una brutalità che si tramutò in molesta mor­ bosità quando passò dietro la macchina da presa, esordendo nel 1919 con Mariti ciechi titolo: La legge della montagna (Blind Husban­ ds., Universal Film Manufacturing Company), in cui linda subito Usuo

cinema divaricò il tradizionale rapporto di coppia in triangoli perversi e incroci pericolosi frequentati per semplice bramosia e scopi puramente

utilitaristici, lui perversità delle storie e dei singoli episodi entrò prepo­ tentemente nel cinema americano con una forza d’urto che scandalizzò

il pubblico benpensante e i responsabili degli Studios, con i quali i rap­ porti furono sempre molto tesi, anche per la tendenza quasi feticistica di Stroheim alla dispendiosa ricostruzione realistica, anche non rigida­ mente funzionale alla ripresa: una Montecarlo riedificata completamen­ te in studio per Femmine folli (Foolish JKnvx, 1922; Universa! Film Manufacturing Company), ma anche gli eccessi dovuti alla volontà di avere mutandoni con il monogramma imperiale per Donne viennesi (The Merry-Go-Round, 1923; Universal), episodio che causò un violen­

to litigio con Irving Thalberg, oppure un intero quanto inutile impianto di campanelli elettrici perfettamente funzionanti in Femminefolli. Al­ cuni dei temi proposti da Stroheim non erano una novità per le produ­ zioni americane: l’adulterio, ad esempio, era diventato uno degli aspet­ ti centrali dei film che erano stati realizzali nel primo dopoguerra, ma Stroheim aveva una cifra stilistica cinica e sgradevole che le altre pelli­ cole non possedevano. E soprattutto uno sguardo pronto a svelare il torbido di situazioni incancrenite attraverso un’osservazione attenta al

particolare, alla minima reazione, alla marcescenza dei rapporti e delle

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Storia c storie del cinema americano

situazioni, visti come specchio di una più ampia corruzione, lui carne putrefatta appesa nella macelleria e la perversità con cui il macellaio era mostrato addentarne un boccone in Marcia nuziale (The Wedding March, 1928; Paramount Famous luisky Corporation), la lingua lasci­

vamente passata tra le labbra dallo stesso von Stroheim, inquadrato in Primo Piano, quando in Femmine folli osservava dormire la figlia ritar­ data del suo ri fornitore di banconote false, che gli stava comunicando come la ragazza fosse rimasta sconvolta alla morte della madre, le mu­ tandine di Gloria Swanson cadute licenziosamente sulle caviglie e strappate dal principe Wolfram con la sua spada non rappresentavano

solo l'intenzione di sconvolgere un pubblico ancoralo alle sue placide certezze, ma anche il tentativo di sovvertirete modalità di rappresenta­ zione del soggetto, facendone un elemento di filtro simbolico attraverso cui percepire tutta l’immoralità delle vicende raccontate. Nonostante gli

infiniti scontri coni produttori, i personaggi di Stroheim erano realmen­ te costruiti come individui odiosi, depositari di tutto un campionario di nefandezze che li rendeva irredimibili agli occhi del pubblico, deside­

roso di una vendetta rabbiosa che la fine del film, spesso, soddisfaceva catarticamente. Si prenda come riferimento il falso conte russo Wladislaw Sergius Karamzin di Femmine folli, un’autentica maschera di dis­ solutezza interpretata dallo stesso Stroheim, un personaggio capace di vivere insieme a una «corte» formata da due false cugine e una came­ riera, tutte sfruttate dalla sua viziosa protervia. Più che nella chiarezza di una storia ben delineata, l’avversione per Karamzin derivava da tutta una serie di accenni riprovevoli, di sguardi osceni, di espressioni irri­ tanti che dotavano il personaggio di una peculiarità talmente deprecabi­ le da assumerla come materia stessa della narrazione. Karamzin, infatti,

dedicandosi alla seduzione di Helen, la moglie di un diplomatico ame­

ricano. alimentava un crescendo scellerato di meschinità, che loportava dapprima a spiarla in una locanda con uno specchietto mentre la donna era intenta a cambiarsi in seguito a un acquazzone (attraverso un’inte­

ressante messa in reazione tra lo sguardo e l’oggetto di visione riuniti in un’unica piatta superficie, invece che nel consueto campo e controcam­ po), poi a saltare per primo da una veranda in cui entrambi erano intrap­ polati in seguito all’incendio appiccato da una cameriera gelosa, addol­

cendo come motivazione alla sua egoistica fretta di salvarsi un bizzarro

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codice cavalleresco. Anche nei confronti degli altri personaggi femmi­ nili, il comportamento di Karamzin non appariva meno biasimevole: irretiva la cameriera innamorata, che aveva promesso di sposare, estor­ cendole denaro, baciandola per concessione (salvo pulirsi disgustato la bocca dopo averto fatto), fìngendo di piangere delle sue stesse millan­

tate miserie simulando le lacrime con il tè versato in una tazza e indu­ cendola, successivamente, al suicidio. Ancora peggiore era la frenesia

che dimostrava nel voler approfittare della figlia minorata del falsario mentre questa dormiva ignara della minaccia: la nemesi di Karamzin s'incarnava però nel padre dell’inerme fanciulla, che lo uccideva per poi gettarlo indicativamente in una fogna, dispensandogli la fine più amara e appagante per un pubblico particolarmente provocato nella sua

indignazione, lui mostruosità dei personaggi ritratti da Stroheim sem­ brava non avere eccezioni, nemmeno in quelli apparentemente più indi­

fesi: in Rapacità (Greed, 1924; Metro-Goldwyn Pictures Corporation), non esistevano appigli possibili per uno spettatore abituato a misurare l’universo narrativo del cinema americano secondo parametri piuttosto

netti, lungo assiologie precise. Anche la minuta Trina, interpretata da Zasu Pitts, introdotta come una fragile e arrendevole creatura che anche

nello sguardo limpido e spaurito ricordava le eroine di Griffith, si tra­ sformava progressivamente in un’arpia patologicamente schiava del denaro, in un essere freddo e calcolatore altrettanto sciagurato rispetto agli altri della vasta galleria ritratta da Stroheim. In Rapacità il gusto per il particolare raggiunse momenti di notevole espressività, soprattut­

to perché funzionale alla cifra caratteristica del film che era rappresen­ tata dalla decontestualizzazione straniarne e dal ribaltamento delle ap­ parenze. 1 tic nervosi di Marcus, ad esempio, non erano solo uno stupe­ facente studio del carattere, ma anche il modo per rivelare la sua stizzo­ sa contrarietà rispetto al rapporto tra McTeague (Gibson Gowland) e Trina e riguardo alla loro improvvisa ricchezza dopo una vincita alla lotteria, lisemplare, a questo proposito, la sequenza del matrimonio tra i due protagonisti, ambientata nello studio fotografico che McTeague aveva acquistato come loro abitazione: Stroheim inquadrò la funzione lievemente dall’alto, oltre le teste dei personaggi, mostrando lungo la

profondità di campo, in strada, oltre la finestra, un corteo funebre che tagliava in orizzontale il piano e s’inseriva perpendicolarmente sulle

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Storia e storie del cinema americano

sagome celebranti la loro legittima unione. Un capovolgimento delle apparenze, un triste presagio di ciò che sarebbe diventato il loro rappor­ to. ribadito dall’inquietudine di Marcus, invidioso cugino di Trina, di

cui Stroheim sottolineò le espressioni facciali e il particolare rivelatore di un pugno rabbiosamente stretto dietro la schiena. Particolari talmen­ te significativi da farsi simbolo, come nella sequenza in cui McTeague chiedeva a Trina di sposarlo, in cui due elementi, un topo morto in terra,

evidenziato da un mascherino circolare, e un treno sbuffante che meta­ forizzava la foga taurina di McTeague nell’approccio con l’esile fidan­ zata, fungevano da parentesi a un’ambientazione esterna, piovosa e gri­

gia, autentica inversione delle convenzioni previste per le scene senti­ mentali. Sul cinema di Stroheim incombeva un senso di disfacimento continuo, la netta sensazione che niente fosse rassicurante, che ogni scena contenesse in sé i germi di una realtà pronta a mostrare la sua faccia nascosta e alterata. Con la morte che arrivava semprecome fata­ lità sanzionatrice del disfacimento in atto, non tanto con le caratteristi­ che della giusta punizione, quanto della beffa avvilente. Se, infatti, la

cruda sequenza dell’uccisione di Trina da parte di un furioso McTeague si segnalava per il pudore stilistico scelto da Stroheim, che sbiadiva i soggetti in sagome oscure distanziandone la prospettiva in un Campo Medio chiarificatore della cruenta azione ma non della morbosità dei

dettagli, il finale nel deserioera un autentico azzeramento della cupidi­ gia. la suprema irrisione della vanità umana. McTeague uccideva bru­ talmente Marcus, corso al suo inseguimento, ma rimaneva intrappolato al suo braccio con delle manette, trascolorando la sua illusione di liber­ tà finalmente conquistata nella prostrata coscienza di una fine farsesca. Stroheim fu osteggiato dai produttori, che ne odiavano gli sprechi e

l’assoluta mancanza di sintesi narrativa: i suoi film furono mutilati, ta­

gliati. modificati, le sue pazze pretese furono ostacolate e criticate, il suo nome spesso sostituito nelle versioni definitive. A causa dei conti­ nui contrasticon 'fhalberg fuggi dalla Universal per approdare alla Me­

tro Goldwyn Corporation, ma anche qui ritrovò 'fhalberg che praticò tagli spietati sull’esorbitante durata di Rapacità. Ben Schulberg. alla Paramount, gli sottrasse il montaggio finale di Marcia nuziale e lo affi­ dò ad altri, tra cui von Sternberg, mentre Joseph Kennedy, convinto che il recente avvento del sonoroavrebbe reso anacronistici i film muti, non

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gli permise di terminare Queen Kelly (1929; Gloria Swanson Pictures), che ancora una volta gli fu strappato. !.a carriera da regista di Stroheim fini qui. perché anche il successivo Walking Down Broadway (1933; Fox Film Corporation) rimase un altro capitolo incompiuto della sua problematica carriera: da quel momento in avanti. Stroheim fu ricorda­ to solo per alcune interpretazioni indimenticabili, come quelle in La grande illusione di Renoir (La grande illusion, 1937) e in Viale del tramonto (Sunset Blvd., Billy Wilder. 1950). nel quale, con un'amara

ironia, le vere immagini di Queen Kelly erano la sostanza con cui la diva decaduta Gloria Swanson testimoniava la sua grandezza di un tem­ po. Stroheim fu vituperalo dalla stampa scandalistica, per via della grande aura di mistero che aleggiava sugli Studios durante le sue ripre­ se: si riteneva che le scene di baccanali sfrenati che avevano animato molte sequenze dei suoi fìlm.da Donne viennesi a Queen Kelly, fossero

in realtà un pretesto per chiudersi per giorni interi nei teatri di posa e sfogarsi con orge messa!iniche e intrattenersi concaviale echampagne. in periodo di proibizionismo. Gli attori che uscivano dalle sessioni spossati e con gli occhi pesti, il riserbo assoluto sulle riprese, un rigido sistema di vigilanza alle porte dei teatri di posa alimentarono la leggen­ da che certo non giovò con produttori e opinione pubblica. Stroheim, infine, fu unanimemente considerato dalla critica il primo grande reali­

sta dei cinema americano, il genio capace di far scaturire l’oscenità dall’attenta osservazione del mondo, l’artista in grado di rinviare fedel­ mente a una realtà referenziale su cui costruire l’intera sua opera (tra gli altri. Ixwis Jacobs. André Bazin e il Peter Wollen di Signs and Mea­ ning in the Cinema). Stroheim, probabilmente, andò anche oltre i codi­ ci del puro realismo, perché il suo fu il dominio del fittizio dilatato a

critica del reale: le ambientazioni ricostruite, i singoli particolari inseri­ ti nel flussodelle immagini, le spavalde metafore proposte.le maschere oscene dei personaggi, i simboli intercalati nelle situazioni principali diedero vita a una partecipata (e spesso compiaciuta) costruzione

dell’orrido che si serviva della verità referenziale soltanto per defor­ marla in un incubo senza fine. Un reale talmente accentuato da alterarne i contorni ed evidenziarne le palesi deformità. Cecil Blount DeMille fu invece l’incamazioneperfettadell’etica hol­ lywoodiana. Dopo i primi anni, in cui fece il suo praticantato nelle con­

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Storia e storie del cinema americano

suetudini della messa in scena (il suo esordio fu The Squaw Man, del 19)4, prodotto insieme a Jesse luisky), i suoi film cominciarono a pun­ tare su un apparato spettacolare il cui scopo era stupire il pubblico per la magniloquenza delle scenografìe e per la grandiosità deirimpianto narrativo. DeMille, pur essendo uno dei registi più importanti dell'in­

dustria americana fin dalla seconda metà degli anni Dieci, ebbe sempre un riscontro critico estremamente contraddittorio, visto che molti stori­

ci gli imputarono una mancanza di originalità sul piano linguistico e uno stile di messa in scena pretenzioso in cui la magniloquenza andava a scapito della ricerca linguistica, lippure il successo di DeMille alme­ no fino all'introduzione del sonoro, soglia che superò continuando a realizzare del cinema commerciale di buon livello, si spiegava con la sua capacità (e anche, in qualche modo, la fortuna) di incrociare il mu­ tamento dei gusti del pubblico di classe media che si apprestava in mas­ sa a frequentare nuovamente le sale cinematografiche, agevolandone l'apprezzamento di temi come la sensualità, l'eleganza degli ambienti e

nell'abbigliamento, la disponibilità alla trasgressione controllata, i va­ lori universali e religiosi come limite invalicabile della società. Ne / dieci comandamenti (The Ten Commandments, 1923; Famous Playersluisky Corporation), per fare un esempio sintomaticoe sinottico di tutta la sua poetica, DeMille univa ai pregi di una rappresentazione spettaco­

lare, fatta di grandiose scene di massa (gli ebrei in fuga dall'Egitto gui­ dali da Mosè). di effetti speciali particolarmente efficaci (la divisione delle acque del Mar Rosso) e di un uso attento delle possibilità dell'in­

quadratura (profondità di campo, macchie di luce altea evidenziare ele­ menti del piano a scapito di altri, varietà degli obiettivi utilizzati), una notevole propensione verso il kitsch e una spiccata inclinazione reazio­ naria in grado di caratterizzare tutta la seconda parte del film, quella ambientata nella contemporaneità. Il film, infatti, diviso in due parti, mostrava nella prima la trasposizione del biblico Esodo degli Ebrei ver­ so la Terra Promessa e nella seconda l'applicazione pratica delle tavole

della legge concesse da Dio a Mosè nella storia di due fratelli differenti per indole, di cui uno infrangeva in successione tutti i precetti previsti fino alla perdizione finale. Un film profondamente fondamentalista e

moralista, con una seconda parte decisamente didascalica, perché lutto

risultava finalizzato all'osservanza della legge, di cui, nella prima, si

Tendenze e autori Ira muto e sonoro

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narravano i principi e le origini. Veicolo di questo eccesso di didascali­ smo, il personaggio di John (Richard Dix). il fratello buono, sempre pronto a stigmatizzare la condotta dell'altro fratello, Dan. Un atteggia­ mento pedante che trovava poi la sua esaltazione nel corso della storia, nella materializzazione grafica dei comandamenti sulle pareti dell'abi­ tazione dello stesso Dan, ormai in una crisi irreversibile di valori (allo stesso modo, nella prima parte, i singoli comandamenti s'imprimevano

graficamente ne) cielo del monte Sinai in caratteri infuocati, introdotti da scintillanti esplosioni). Questa dualità tra tendenza alla spettacolariz­ zazione (talvolta eccessiva) e visione reazionaria fu una costante dell'intera opera di DeMille, il cui duraturo successo di pubblico gli permetteva, ancora prima di diventare produttore delle sue stesse pelli­

cole. di controllare gran parte del processo realizzativo. Paradossal­ mente, al pubblico della classe media, DeMille appariva come un auda­ ce innovatore, un artista capace di incuriosire e stupire per i suoi temi inconsueti e piccanti e per le scenografiche modalità di rappresentazio­ ne. Alla fine degli anni Dieci. DeMille incorse spesso negli strali delle

legioni dei moralisti per le curiosità morbose che concorreva a creare nell'animo degli spettatori, ma il suo coraggio era limitato ad alcune

sequenze indicative, non alla globalità dell'assunto proposto: troppo grande era il rìschio di offendere la morale del suo pubblico per supera­ re veramente il limite del consentito, che si riduceva a pochi e contur­ banti episodi che. da soli, rimanevano indelebili nella memoria. Male and/à*ma/e(l9l9), probabilmente l'esempiopiù indicativo.narrava la storia di una stizzosa nobildonna inglese (Gloria Swanson) attratta dal suo maggiordomo Chrichton senza poterlo rivelare esplicitamente per via della differenza di lignaggio, ta situazione si capovolgevaa seguito

di un naufragio e nel conseguente approdo in un'isola deserta, in cui il pragmatismo dell'aliante maggiordomo permetteva alla nobildonna e alla sua famiglia di sopravvivere, instaurando una società alternativa in cui l'uomo era capo per la sua abilità e non per la classe di appartenen­

za, e la donna sottostava al suo volere, quasi asservita al potere maschi­ le. Apparentemente un discorso rivoluzionario peri tempi, inrealtà una storia pronta a chiudersi senza minacciare l'ordine esistente: l'arrivo di

una nave recuperava i naufraghi, impedendo l'imminente matrimonio tra la donna e il maggiordomo e smantellando l'illusione di un ribalta­

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Storia e storie del cinema americano

mento di funzioni e ruoli. Tornati in Inghilterra, le differenze erano ri­ pristinate: deluso dal comportamento della donna, Chrichton annuncia­ va il trasferimento negli Stati Uniti per sposarsi con la cameriera della dimora, da sempre innamorata di lui. L’ultima scena era basala su una messa in parallelo in cui, da un lato, la nobildonna, ancora invaghita de)

maggiordomo, accettava a malincuore di sposare un noioso pari grado, mentre, dall’altro, si contrapponeva la vita felice e sorridente di Chrichton e della cameriera, nel mezzo di una prateria americana. Sotto il suo travestimento intrepido. Male and Female era poco più di una ricognizione innocua sulle possibilità di un sovvertimento dell’ordine

sociale e un’indiretta esaltazione della società americana, priva di diffe­ renze sociali e quindi più genuina e libera, anche nei sentimenti. Inde­ lebili nella memoria, invece, rimasero il bagno di Gloria Swanson che lasciava intravedere le sue suadenti forme e il suo ingresso nella gabbia dei leoni (veri) nella lunga sequenza (immaginata) ambientata nel re­ gno di Babilonia, nella quale DeMille potè sfogare la spettacolarità or­ giastica delle sue inquadrature, caratteristica che lo accompagnò duran­

te tutta la sua carriera - anche nei western, formalmente lontani dal decadente gusto mitologico del regista, come dimostra il dinamismo pagano e irrequieto degli indiani in La conquista del West (The Plain­ sman* 1936; Paramount) e La via dei giganti (Union Pacific* 1939; Pa­

ramount). Tuttavia, ben prima che le sue produzioni si conformassero piena­ mente ai gusti prevalenti del pubblico, offrendo una miscela edulcorata di sentimentalismo moraleggiante e diventando un veicolo ideologico da parie dell’industria. Will Hays si trincerò dietro la realizzazione di // re dei re (The King ofKings* 1927; DeMille Pictures Corporation) per dimostrare a tutte le comunità religiose d’America le buone intenzioni

di Hollywood, DeMille contribuì allo sviluppo delle specificità del lin­ guaggio del cinema americano, affascinando per la qualità estetica del­ la sua messa in scena e per l’espressivo ulilizzodelle luci. Ne lpreva­ ricatori (The Cheat* 19)5; Jesse L. Ijisky Feature Play Company), uno

dei risultati più sorprendenti di tutta la filmografìa di DeMille, questi aspetti risultarono evidenti al punto da meravigliare anche il pubblico europeo e quello francese in particolare. Nel narrare la storia di una

dilapidatrice, rimasta intrappolata da un prestito chiesto a un uomo

Tendenze e autori tra muto e sonoro

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d’afTari giapponese e del conseguente ferimento di quest’ultimo, che pretendeva di fare della donna la sua schiava. DeMille dimostrò di sa­ per espandere le possibilità espressive che il cinema gli offriva, combi­

nando con notevole abilità la plasticità dell’illuminazione e l’estensione della cornice deH’inquadratura. DeMille, coadiuvato perfettamente dal suo abituale direttore della fotografia Alvin Wyckoff, riuscì a creare all’interno dell’inquadratura zone evidenziate da macchie di luce, una pratica di illuminazione conosciuta come «illuminazione Rembrandb> e che. come nell’opera del grande pittore olandese, irradiava da fonti di luce sistemale al di sopra delle singole figure. Un altro uso espressivo

della luce era organizzato sul prolungamento delle ombre aH’intemo del campo di ripresa, in modo da rinviare a un fuoricampo che rendeva organico lo spazio della scena come ambito narrativo dialettico, in gra­ do di dialogare con le contiguità esistenti intorno all’inquadratura, evo­ cando presenze anche nella loro momentanea assenza. Nella scena am­ bientata in un giardino, in cui la donna lamentava con l’uomo d’affari giapponese le limitazioni imposte dal marito alle sue spese folli, l’om­

bra di quest’ultimo si stagliava improvvisa sulle sagome dei personag­ gi, facendone percepire l’inattesa presenza; allo stesso modo, in una beffarda reciprocità, era poi l’ombra della moglie a entrare nell’inqua­ dratura, sovrapponendosi alla figura del marito in cella, autoaccusatosi

del ferimento del giapponese per salvare dal carcere la donna. DeMille, in un periodo in cui il cinema americano era ancora alla ri­ cerca di salde codificazioni rappresentative, dimostrava di aver com­

preso la natura del mezzo a disposizione e le possibilità che esso offriva nel creare un universo espressivo composito, non limitato ai soli margi­ ni della cornice, ma esteso in una dimensione rappresentativa ampia e articolata. Una sorta di dimensione parallela, simulata e spettacolare. King Vidor fu il regista che all’interno dell’industria riuscì a garan­ tirsi la fiducia dei produttori grazie alle sue pellicole di successo. Dopo aver tentato la via della produzione in proprio con la King W. Vidor

Productions all’inizio degli anni Venti, da L'onore familiare (The Fa­ mily Honor, 1920) a Conquering the Woman (1922), gli scarsi risultati raggiunti al botteghino lo obbligarono a lavorare per una Major come la

MGM, alle cui dinamiche si adattò con grande professionalità. I buoni

incassi fatti registrare durante la metà degli anni Ventigli permisero di

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lo il film ruotava intorno alla contrapposizione tra verità e recitazione, tra Pesseree l’apparire: il successo per l’attricelta della Georgia (inter­ pretala da Marion Davies, all’epoca amante del magnate dell’editoria

William Randolph Hearst, che contribuiva alla produzione MGM con il suo studio. Cosmopolitan Productions, appositamente crealo per supportare la carriera dell’attrice) giungeva quando questa reagiva alle situazioni recitative senza essere stata preventivamente informata,

mentre scemava quando l’alterazione del personaggio pubblico pren­ deva il sopravvento sulla realtà effettiva. Nell’ultima sequenza del film, l’amico di un tempo della diva, attore di slapstick comedies. otte­

neva la possibilità di recitare in una produzione drammatica grazie all’interessamento della donna, desiderosa di riguadagnare la credibi­ lità perduta di fronte al pubblico e di recuperare i rapporti smarriti a causa della carriera: sorpreso dalla presenza dell’attrice, di cui ignora­

va l’intervento, l’uomo le andava incontro stringendola e baciandola, mentre la troupe di Vidor si premurava di girare una scena d’amore

improvvisata, ma senza dubbio autentica, talmente reale che sarebbe continuata anche dopo che la troupe si era ritirata dal set, qualche istante prima della fine del film. Una ricerca realistica che nella prima metà degli anni Trenta produs­ se uno dei più grandi esempi di cinema sociale. Nostro pane quotidiano (Our Daily Bread. 1934; King W. Vidor Productions), pellicola auto­

prodotta sulla creazione di una cooperativa agricola durante gli anni della Grande Depressione, che mostrava il suo momento più esaltante

nell’armonico montaggio delle scene corali, in cui il lavoro dei vari membri si trasformava in una sorta di sinfonia visiva indirizzata verso l’obiettivo comune,sul modello dei film sovietici sulla collettivizzazio­ ne delle terre. lui pretesa realistica di Vidor, tuttavia, non significò mai, nei suoi momenti più felici, piattezza rappresentativa, lui sua macchina da presa fu spesso al centro del discorso realizzalivo. arrivando anche a vette

virtuosistiche, sempre comunque funzionali al senso dell’opera. Ne La folla (The Crowd. 1928), un film che in qualche modo capovolgeva

l’ideologia hollywoodiana, perché narrava di una quotidianità frustrata, di un American Dream frantumato da ambizioni sproporzionate desti­ nate a rimanere tali, lo sguardo di Vidor si tramutava in un’osservazio­

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lo il film ruotava intorno alla contrapposizione tra verità e recitazione, tra Pesseree l’apparire: il successo per l’attricelta della Georgia (inter­ pretala da Marion Davies, all’epoca amante del magnate dell’editoria

William Randolph Hearst, che contribuiva alla produzione MGM con il suo studio. Cosmopolitan Productions, appositamente crealo per supportare la carriera dell’attrice) giungeva quando questa reagiva alle situazioni recitative senza essere stata preventivamente informata,

mentre scemava quando l’alterazione del personaggio pubblico pren­ deva il sopravvento sulla realtà effettiva. Nell’ultima sequenza del film, l’amico di un tempo della diva, attore di slapstick comedies. otte­

neva la possibilità di recitare in una produzione drammatica grazie all’interessamento della donna, desiderosa di riguadagnare la credibi­ lità perduta di fronte al pubblico e di recuperare i rapporti smarriti a causa della carriera: sorpreso dalla presenza dell’attrice, di cui ignora­

va l’intervento, l’uomo le andava incontro stringendola e baciandola, mentre la troupe di Vidor si premurava di girare una scena d’amore

improvvisata, ma senza dubbio autentica, talmente reale che sarebbe continuata anche dopo che la troupe si era ritirata dal set, qualche istante prima della fine del film. Una ricerca realistica che nella prima metà degli anni Trenta produs­ se uno dei più grandi esempi di cinema sociale. Nostro pane quotidiano (Our Daily Bread. 1934; King W. Vidor Productions), pellicola auto­

prodotta sulla creazione di una cooperativa agricola durante gli anni della Grande Depressione, che mostrava il suo momento più esaltante

nell’armonico montaggio delle scene corali, in cui il lavoro dei vari membri si trasformava in una sorta di sinfonia visiva indirizzata verso l’obiettivo comune,sul modello dei film sovietici sulla collettivizzazio­ ne delle terre. lui pretesa realistica di Vidor, tuttavia, non significò mai, nei suoi momenti più felici, piattezza rappresentativa, lui sua macchina da presa fu spesso al centro del discorso realizzalivo. arrivando anche a vette

virtuosistiche, sempre comunque funzionali al senso dell’opera. Ne La folla (The Crowd. 1928), un film che in qualche modo capovolgeva

l’ideologia hollywoodiana, perché narrava di una quotidianità frustrata, di un American Dream frantumato da ambizioni sproporzionate desti­ nate a rimanere tali, lo sguardo di Vidor si tramutava in un’osservazio­

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Storia e storie del cinema americano

ne attiva e partecipe, ispirato dalle tecniche delle avanguardie europee e dalla scuola tedesca. Dopo un prologo riguardante l'infanzia del pro­ tagonista, John Sims, il John Doe di King Vidor, l'americano medio del

XX secolo, non a caso nato il 4 luglio del 1900, che si concludeva con la morte del padre del ragazzo, preludio alla fine dell'innocenza e all’in­

gresso nell'età adulta, la macchina da presa si spostava tra le strade, la gente e il traffico di New York, prima di inerpicarsi su un grattacielo,

entrare da una delle innumerevoli finestre per soffermarsi su un ampio ufficio fatto di scrivanie tutte uguali distanziate l’una dall'altra, concen­ trarsi su Johnny Sims ormai adulto e sulla targa alla sua scrivania (che lo contraddistingueva con il numero 137). In alcuni segmenti partico­ larmente dinamici, lo sguardo di Vidor si soggettivava, facendosi inter­

no alla vicenda narrata, come nell'episodio ambientato a Coney Island, in cui l'operatore si lanciava da uno scivolo un attimo prima dei perso­ naggi per riprenderne la divertita discesa. Nell'ultima sequenza. Sims, sposatosi e passato tra mille vicissitudi­

ni, molte delle quali tragiche (la morte della figlia investita da un ca­ mion, l'essere rimasto senza lavoro e a un solo passo dal suicidio), era mostrato seduto con la moglie e il figlio in un teatro di vaudeville, ful­

cro di un'inquadratura che si allargava per poi spostarsi all'indietro e rivelare la grande massa di persone sedute una accanto all'altra, indi­

stinte e anonime, ognuno eroe (positivo o negativo, vincente o perden­ te) della sua singola vita. Un semplice movimentoestensivo dell'inqua­ dratura si convertiva in un giudizio sulla quotidianità americana e sui suoi desideri inappagati. Altrettanto influenzato nella mobilità della macchina da presa dalla scuola tedesca e da Mumau in particolare, fu Frank Borzage. A dispetto delle sue dichiarazioni understated, secondo le quali il lavoro del regi­ sta fosse troppo sopravvalutato perché l'unica cosa necessaria era tro­ vare due buoni attori e metterli nella condizione di recitare al meglio un copione, Borzage mostrò una propensione differente nel suo cinema dopo che, all'inizio del 1927, ebbe assistito negli studi della Fox alle riprese di Aurora (Sunrise) e si rese conto delle potenzialità della mac­ china da presa nella ricerca di senso. Coadiuvato dal suo direttore della

fotografia Ernest Palmer, Borzage s’impose con due melodrammi, rea­

lizzati con una coppia fissa di attori, gli stessi usati da Mumau, Charles

Tendenze e autori Ira muto e sonoro

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Farrell e Janel Gaynor. Quest’ultima, primo Oscar come miglior attrice nel 1929 Settimo cielo, L’angelo della strada C Aurora dì Mumau, dimostrava di non essere meno dissacrante del regista con cui lavorava, visto che riteneva il premio utile a infilzare i Wurstel. se solo vi avesse fatto la punta. I personaggi si trasformavano nei motori di una narrazio­

ne a ostacoli, in virtù della quale a difficoltà maggiori corrispondeva un rafforzamento del sentimento da parte dei due sfortunati amanti. L’in­

fluenza di Mumau, però, gli offri l’occasione per realizzare alcune se­ quenze spettacolari, suscettibili di essere inserite in un’ideale antologia dei migliori singoli momentidei cinema muto americano. Il vertiginoso movimento ascensionale con cui la macchina da presa seguiva la salita al settimo piano dell’abitazione dei due protagonisti di Settimo cielo

(7th Heaven, 1927; Fox Film Corporation) rappresentava non soltanto un elemento spettacolare, ma anche una sottolineatura semantica della pellicola, che vedeva nel movimento verso l’alto l’immagine del riscat­ to perdue personaggi provenienti dai bassifondi. Allo stesso modo, nel­

le prime sequenze di L’angelo della strada (Street Angel, 1928; Fox Film Corporation), un movimento di macchina circolare, quasi a 360°, assolutamente inconsueto fino a quel momento, traslava sulle varie fi­ gure presenti in scena e mostrava in continuità la febbrile attività pre­ sente in una strada napoletana che faceva d’ambientazione al film. In

seguito, il personaggio interpretato da Charles Farrell (Gino), non tro­ vando più in casa l’amata Angela (Janet Gaynor), arrestata perun furto commesso tempo prima, avrebbe vagato negli stessi spazi del vicolo seguito dal movimento instabile della macchina da presa gettatasi al suo inseguimento, per poi fermarsi in Mezza Figura contro un muro bianco, sulla cui superficie si riflettevano le ombre dei passanti provenienti da

un fuoricampo che appariva come una realtà estranea, non vivace e

composita come illustrato in precedenza. Anche la composizione delle inquadrature pareva preoccuparsi maggiormente del portato simbolico racchiuso in un solo piano: quando Janet Gaynor, in un tribunale che

sembrava importato direttamente dal cinema espressionista, assisteva alla sua sentenza di condanna, il suo volto in Campo Medio appariva tagliato in due dal banco dei giudici, ripresi di nuca, in Primo Piano ri­ spetto all’obiettivo; seguiva subito dopo un Primo Piano dell’attrice in

mezzo ai carcerieri, con il volto tagliato nella parte inferiore dal banco.

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Storia c storie del cinema americano

come a mortificarne le istanze di giustificazione e dipingere la sua ama­ rezza attraverso l’espressività degli occhi. Il cinema di Josef von Sternberg era invece perfettamente riconosci­

bile fin dalla composizione della singola inquadratura. Convinto che fosse necessario un diaframma tra i soggetti ritratti e l’obiettivo della macchina da presa, altrimenti la rappresentazione sarebbe stata vuota e inarticolata, arricchiva i suoi quadri di tutta una serie di elementi che contribuivano a creare un’atmosfera complessa, drammatizzala, simbo­ lica rispetto ai conflitti in atto sulla scena. Ogni sua immagine poteva essere letta come una tavolozza in cui il lavoro del regista (e dei com­ piacenti operatori che lavorarono con lui) era comparato a quello del pittore capace di fondere le particolari condizioni di illuminazione, di

gestire gli elementi scenografici e la fluidità della rappresentazione in un corredo plastico che diventava condizione preliminare alla messa in scena. Una torbida sensualità pittorica di matrice decadentista s’impos­ sessò dei suoi lavori realizzali dopo l’avvento de) sonoro, in cui baroc­

chismo visivo e foschi toni melodrammatici puntarono a soddisfare maggiormente le pulsioni degli spettatori rispetto alla ricerca creativa. In particolare fu attraverso condizioni di luce specifiche che si creò il mito insieme carnale e diafano di Marlene Dietrich, sua musa ispiratri­ ce e fulcro dell’intera rappresentazione per sette film, da L angelo az­ zurro (Der Blaue Angel, 1930), realizzato in Germania per la UPA, a

Capriccio spagnolo (The Devil is a Woman, 1935; Paramount), SU cui

si posero dei filtri attenuativi per accarezzarne il volto vellutato, sfrut­ tando le infinite tonalità soffuse di grigi che parevano avviluppare l’in­ tera superficie dello schermo. In altre occasioni, la fotografia appariva scintillante, con lame improvvise e accecanti che sembravano squarcia­ re il quadro, creando lampi d’intensa drammaticità e un’aura di fosca

eccitazione. Nella prima fase della sua carriera, iniziata nel 1925 con Cacciatori di salvezza (Salvation Hunters’, Academy Photoplays), una sofferta parabola familiare di salvezza e speranza, la costruzione delle singole inquadrature, ancora prive del fascino di una diva su cui far ruotare l’intera costruzione del film, appariva invece maggiormente in­ tegrata nel discorso complessivo dell’opera. Ix ambientazioni soffo­

canti e sovradeterminatedi particolari profilmici pronti a fare da filtro ai soggetti ripresi ma anche a interagire con la loro presenza, una foto­

Tendenze e autori tra muto e sonoro

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grafìa sempre curata nel dettaglio ma più funzionale all’assunto globale della pellicola, la paziente costruzione simbolica, il volto in Primo Pia­ no come intenso veicolo espressivo di situazioni il cui contenuto era talvolta più esplicito di azioni solo accennate, fornirono quelle caratte­ ristiche di un cinema che abbandonava i codici del realismo per assur­

gere direttamente al principio stesso della rappresentazione. Una messa in scena solo apparentata con una realtà referenziale ristrutturata, arric­ chita, resa eccedente in funzione di una complessità poetica che era prima figurativa e soltanto conseguentemente narrativa. Tuttavia, l’interesse figurativo rivelava solo la priorità: von Ster­ nberg era anche un raffinato cesellatore di racconti, i quali, invece, si dipanavano attraverso percorsi espressivi compiuti, un montaggio in grado di produrre senso con pochi tratti determinanti e contributi alle­ gorici che arricchivano il progetto complessivo, /x- notti di Chicago (Underworld, 1927; Paramount) era un gangster movie anticipatore delle atmosfere che alcuni anni dopo sarebbero state proprie del noir,

dall’illuminazione (realistica nelle scene diurne,espressionistiche con forti chiaroscuri ed elementi profìlmici che spezzavano diagonalmente la simmetria dei piani nei momenti di maggior tensione drammatica) al tema della sconfìtta esistenziale - quella del protagonista. Bull Weed/ George Bancroft, è la parabola che sarà propria delle icone del gangste­

rismo anni Trenta, dal Rico Bandelle di Piccolo Cesare (tittle Caesar, Mervyn l>eRoy, 1931; First National) al Tom Powers di Nemico pubbli­ co (The Public Ene/nj. William Wellman, 1931; Warner Bros.). Diver­ samente da quelli che poi sarebbero diventati i codici di un genere ba­ sato sull’azione, von Sternberg ricorse spesso a intensi Primi Piani con cui intendeva penetrare le personalità complesse dei personaggi (il gan­

gster spaccone, il suo protetto salvato dalla strada - in un momento che

anticipava di oltre trent’anni la scena della sputacchiera di Un dollaro d onore di I lawks-, la donna del gangster innamorata del protetto), per interrogarsi sui principi morali esistenti tra le maglie della violenza e dell’anogante esuberanza. L’insistenza sui piani ravvicinati segnalava i caratteri (turbolento, perennemente eccessivo quello di Bull Weed, in­ fido e viscido quello del suo nemico Buck), ma anche l’intensità delle passioni in grado di sgorgare improvvise (gli scambi di sguardi tra

Wensel e Feathers). L’apoteosi - indicativa della tendenza ma gratuita

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Storia e storie del cinema americano

rispetto al senso del film - si realizzava con effetto stroboscopico in un segmento ambientato durante una festa, quando una serie di una trenti­ na di primi piani furono montati tra loro con estrema velocità (pochi

decimi di secondo perogni inquadratura) per significare la concitazione di un devil's carnival, come recitava la didascalia. I primi piani proposti non funzionavano soltanto come scavo espres­ sivo dell'anima ocome pezzo di bravura tecnica, ma puntavano anche

a interpellare uno spettatore che per quanto fosse ormai conscio della decodificazione del linguaggio, non era ancora abituato a simili proce­ dimenti improvvisi, come vedersi arrivare un pugno rivolto verso l’obiettivo dal malvagio Buck perché visto in soggettiva dal protetto di Bull Weed, Wensel. e barcollare insieme alla macchina da presa, sor­ presa da tanta aggressiva velocità. 11 momento più alto del film, probabilmente, era rappresentato dalla

scena della rapina in una gioielleria da parte di Bull, un segmento for­ mato da dieci brevi inquadrature in cui l’azione era relegata nel fuori­

campo e il cui oggetto era rappresentato unicamente da Dettagli e Par­ ticolari pregnanti: uno sparo alle spalle di un commesso intento a rego­ lare un orologio, l’orologio con un foranei mezzo.il commesso che si

girava alzando ternani, una mano con anello che estraeva un bracciale dalla vetrinetta, una rosellina lasciala interra per far ricadere la colpa su

Buck (gestore di un negozio di fiori), gambe che si muovevano conci­ tate in strada dopo lo sparo, le stesse mani con anello che piegavano in due una moneta (la firma di Bull), ilcappello teso di un mendicante, il suo Primo Piano sorpreso, il commesso all’esterno della gioielleria che indicava la via di fuga del rapinatore alla polizia. Un esempio mirabile di montaggio produttivo e di economia drammatica, in cui l’essenziali­ tà degli aitisi trasformava in un collage di conseguenze: ciò che interes­ sava a von Sternberg non era lo svolgimento dell’azione, ma i legami che s’instauravano tra i vari piani, con gli atti apparentemente immoti­ vali (la moneta piegata in due) proposti come ulteriore studio del carat­

tere guascone di Bull. Analogamente, ne / dannati dell'oceano (The Docks of New York, 1928; Paramount), storia di un’umanità alla deriva sullo sfondo dei bas­ sifondi portuali, la scena del ferimento del capo fochista era un’autenti­

ca lezione di dialettica del fuoricampo: la moglie del capo fochista.

Tendenze e autori Ira muto e sonoro

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gelosa delle attenzioni del marito rivolte ad altredonne, entrava nell’abi­ tazione di una donna che il giorno precedente aveva tentato il suicidio e che la stessa moglie del capo fochista aveva accudito. Indonna, sapen­ do di trovarvi dentro il marito, era osservata mentre chiudeva la porta alle sue spalle, mentre alcuni gabbiani sul davanzale della finestra pren­ devano spaventati il volo*, il protagonista. Bill Roberts (George Ban­ croft). seduto in un locale al piano sottostante rispetto all’abitazione,

guardava improvvisamente verso il fuoricampo superiore come attirato da un rumore, piano a cui seguiva un febbrile via vai di persone*, soltan­ to alcune inquadrature doposi vedeva il corpo del capo fochista in terra,

inerme. Von Sternberg dimostrò in questa prima fase della sua carriera di

sapere utilizzare anche i movimenti di macchina, oltre alla densità drammatica delle inquadrature, alla profondità espressiva dei primi pia­ ni e all’ottimizzazione di un montaggio evocatore. In Crepuscolo di gloria (The Last Command, 1928; Paramount), che raccontava la mesta parabola di un ufficiale dell’esercito zarista costretto a riciclarsi a Hol­

lywood come comparsa e a essere diretto dal regista di cui lui stesso aveva distrutto la carriera in Russia, i movimentidi macchina servivano a guardare a Hollywood con un’ironia amara e pungente. Unacanellata verso destra aH’intemo del reparto costumi di uno Studio osservava l’ex

ufficiale Alexander (limil Jannings) affacciarsi malinconicamente a ogni singolo sportello per procurarsi in varie fasi il suo costume di sce­ na: cosi l’acquisizione della divisa (che gli addetti si passavano lancian­ dosi i capi con sdegno e astio), degli stivali, del cappello e della spada, mentre, intorno a lui. gli altri figuranti si accapigliavano nella coda, si trasformava nella parodia della vestizione di un vero militare. Caustica

metafora marziale ribadita successivamente, quando un movimento di macchina verso destra mostrava tutte le comparse, schierate di spalle nel loro costume di scena, pronte ad alzarsi sull’attenti per essere pas­ sate in rassegna prima dall’assistente e poi dal regista, comese la scelta degli attori fosse un’ispezione. Hollywood come un campo di battaglia, la parata delle comparse come il preambolo di una guerra combattuta ogni giorno per raggiungere il successo o, molto più prosaicamente, per

garantirsi il pane quotidiano.

Un’altra prerogativa delle pellicole del periodo muto di von Sternberg

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Storia e storie del cinema americano

era la chiusura del film con un’indicativa battuta di dialogo che ne rias­ sumesse il senso complessivo. Una sorta di chiosa finale che ne suggel­ lasse il significato profondo. Le notti di Chicago, dopo aver mostrato la fuga dalla prigione di Bull Weed, il suo fugace barricarsi per verificare la lealtà del suo proietto Wensel. ma anche il sentimento che lega questi

alla sua ex compagna, si chiudeva con la didascalia: «There was so­ mething I had to find out- and that hour was worth more to me than my whole life» (c’era qualcosa che dovevo sapere, li quest’ora per me vale­ va più di tutta la mia vita). Crepuscolo di gloria invece vedeva il ricono­ scimento della statura dell’uomo, non solo dell’attore, da parte del regi­

sta all’ex ufficiale caduto sul set (di nuovo la metafora che vedeva Hol­ lywood come un campo di battaglia), mentre ! dannati dell ’oceano si chiudeva con il sacrifìcio de) protagonista Bill Roberts, sopraggiunto nell’aula di tribunale per scagionare la donna che il giorno precedente aveva salvato dal suicidio, e condannato a sessanta giorni di reclusione per furto: «Sixty daysain’t a long cruise, baby - and it’ll be my last one.

if you’ll wait for me» (sessanta giorni non è una lunga crociera, bambi­

na. e sarà la mia ultima, se mi aspetterai), diceva Bill; «I guess I’d wail forever. Bill» (credo che ti avrei aspettato per sempre. Bill), rispondeva

la donna, trasformando un’oscura e disperata vicenda di umanità allo sbando in un intenso dramma sull’amore sofferto, atteso e idealizzato. 1 due cineasti che maggiormente influenzarono lo stile del cinema americano negli anni immediatamente precedenti l’introduzione del so­ noro furono due immigrati dalla Germania. Friedrich Wilhelm Mumau ed lìmst l^ibitsch, chiamati da Hollywood per coronarecon il successo di pubblico l’enorme impressione artistica suscitata in patria. Mumau. nonostante la negoziazione con i principi dell’industria, destò grande

sensazione con il suo primo film, girato per la Fox, Aurora (Sunrise,

1927; Fox Film Corporation), in cui la macchina da presa diventò Tuni­ ca vera protagonista, trasformandosi in elemento attivo e stimolatore di senso con modalità che al cinema americano apparivano ancora scono­ sciute. Aurora, mentre raccontava con una struttura narrativa anomala rispetto a ciò cui Hollywood era abituata la storia di una crisi coniugale (lo scenario era di Carl Mayer in base alla consueta divisione delle sce­ neggiature in atti, i punti di svolta erano anticipati, gli approdi del rac­

conto si verificavano con un ampio margine che lasciava spazio al dram-

Tendenze e autori Ira muto e sonoro

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ma interiore, oppresso da un senso di colpa diflicilmentereprimibile), si trasformava in un'antologia delle possibilità visive offerte dallo stile ci­ nematografico. I.a storia di un marito che cercava di uccidere la devota

moglie perché istigato da) fascino perverso di una donna di città, e del suo susseguente pentimento prima di imbattersi in una tempesta che avrebbe rischiato di rendere effettivo il dramma in precedenza solo sfio­ rato. grazie alla qualità delle scelte di regia di Mumau diventò un cam­

pionario di eventualità che condizionò i registi che ebbero la fortuna di assistere alle riprese negli studi Fox - Borzage. come già detto, ma an­ che John Ford, se si presta fede allo stile adottato in La casa del boia (Ilandman’s Ilouse. 1928; Fox Film Corporation).e Raoul Walsh ne La danzatrice rossa (The Red Dance, 1928; Fox Film Corporation). So-

vrimprcssioni realizzatecon finalità semantiche differenti, articolati mo­ vimenti di macchina, impetuose zoomate sui volti come correlativo di repentine prese di coscienza, back projection, tagli particolari delle in­ quadrature conditi dall’illuminazione chiaroscurata propria dell’espres­

sionismo tedesco, scansione progressiva di piani raccordati sull’asse per simularne l’impatto sonoro all’interno della finzione: in un solo film Mumau dilatò le possibilità espressive del mezzo e diede al cinema ame­

ricano uno dei suoi prodotti più sorprendenti del periodo muto. Entrando nel dettaglio, le sovrimpressioni erano il modo per rendere

sovrabbondante l’inquadratura, stratificandola, talvolta accumulando­ ne gli elementi.altre semplicemente accostandone i riferimenti. Il rit­ mo tumultuoso delle vacanze e il gorgo vorticoso della città, descritto al marito dalla sua amante, utilizzavano il procedimento per rappresen­ tarne. rispettivamente, il caotico e festoso movimento e il potere d’at­ trazione ipnotico delle immagini sovrapposte che s’impossessavano delle figure, collocate nel margine inferiore dell’inquadratura, sovra­ state da tanta frenetica eccitazione. In seguito, l’immagine sovrimpres­ sa dell’amante intenta a blandire alle spalle l’uomo che si apprestava a uccidere la moglie nella gita in barca, illustrando il groviglio di pensie­

ri e ossessioni di cui era vittima il protagonista assumeva anche un chiaro senso simbolico di insidia ineluttabile. Successivamente, scon­ giurato il pericolo di uxoricidio, marito e moglie si accostavano allo

studio del fotografo della città, riflettendosi sulla vetrina, immersi tra

le foto di famiglia e dei matrimoni altrui, in una sovrimpressione die-

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gotica che ne sanciva il progressivo ritorno a un più saldo equilibrio di coppia. I movimenti di macchina insistiti, fluidi, funzionali erano poi un altro motivo di meraviglia e forse l'aspetto che più degli altri i registi ameri­ cani (e quelli della Fox in particolare) cercarono di replicare. lx> scorre­ vole movimento iniziale (nelle intenzioni di Mumau avrebbe dovuto essere un Piano-sequenza poi modificato nell'edizione definitiva), che

seguiva ravvicinarsi all'abitazione dell'uomo da parte della donna di città, trattenutasi oltre il periodo di vacanza, rappresentava la sinuosa illustrazione dell’insinuarsi incipiente della tentazione e del suoaffasci-

nante incombere sulla vittima. Nel corso della narrazione, i movimenti si facevano più complessi: nel convegno tra i due amanti nella palude, l'arrivo dell'uomo era seguito fedelmente dalla macchina da presa e mostrato come l'incedere incubico di un essere soggiogato dalla perso­ nalità della donna (Mumau mise ai piedidell'uomo scarponi particolar­ mente pesanti che sovraccaricando sul suolo allentato la sua faticosa stabilità sottolineavano la gravità dei suoi sensi di colpa). L'uomo si

avvicinava alla macchina da presa, superava uno steccato, usciva di campo sfiorando l'obiettivo a destra, e a quel punto la macchina da

presa si muoveva autonomamente tra le foglie, oltrepassandole e soffer­ mandosi sulla donna inattesa, rivolta verso il fuoricampo di sinistra, da cui attendeva l'arrivo dell'uomo, mettendosi velocemente il rossetto. L'uomo la raggiungeva entrando in campo da sinistra, aggirando alle spalle la macchina da presa e svelando, di fatto, lo spazio proibito della

formazione delle immagini. Nel seguilo della narrazione, durante la lunga fase della riappacificazione tra i coniugi, all'interno della lunga sequenza ambientata nel luna parie, due movimenti di macchina irrego­ lari, a «elle», uno all'inizioe l'altro al termine del segmento, fungevano

da effettiva parentesi visiva dell'episodio, come se esso fosse stato pro­ posto, nella sua diversità di toni e ambientazione, in qualità di intermez­ zo felice a cui fare riferimento nella difficile opera di riconquista dell'equilibrio perduto. Movimenti d'autore entrati in una relazione dialettica con {principi rappresentativi propri dell’industria. Altrettanto interessante era l’evocazione sonora dell’inquadratura.Tornato a casa e creduta morta la moglie durante la tempestache li aveva colti in barca,

l’uomo scorgeva la donna di città e preso da un furore vendicativo ten-

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lava di strangolarla, reputandola causa di tutti i suoi mali. Nel frattem­ po, tuttavia, la moglie dispersa veniva ritrovata. Una vicina di casa cer­ cava di richiamare l’attenzione dell’uomo, ma questi, preso dalla sua cicca collera, continuava imperterrito nell’opera di strangolamento. Dopo vari richiami con inquadrature più larghe, un Primissimo Piano

della vicina di casa prorompeva con tutta la sua violenza visiva sullo schermo con lo scopo di fornire iconograficamente l'idea di un urlo più

forte, più intenso, comese la scala dei piani incidesse sul timbro acusti­ co delle immagini. Solo a quel punto il marito,come risvegliandosi da un incubo, abbandonava la presa percorrere pieno di speranza in casa. Una rappresentazione espansa, esperibile su più piani, un cinema privo di confini espressivi che mostrava una grande personalità artistica. Au­ rora, tuttavia, rimase un esempio isolato, poiché l’ombra dell’industria

hollywoodiana si allungò sull'ispirazione del regista condizionandone l’opera, primache giungesseuna morte prematura in un incidente stra­ dale a stroncarne vitae carriera. Dei film successivi. Four Devils( 1928)

andò perduto, // nostro pane quotidiano (City Girl, 1930) fu terminato

da un assistentee Tabù (Tabu: A Story ofthe South Seas, 1931) fu con­ dizionato dai contrasti tra Mumau e Robert Flaherty. a cui era stata af­

fidata la coregia. L’altro grande nome mitteleuropeo fu quello di Lubitsch, che più di Mumau riuscì a integrarsi nel sistema hollywoodiano e a diventarne uno dei suoi più importanti interpreti. Ciò che colpiva de) cinema di Lubitsch era la maestria con cui condiva i suoi film di un umorismo

sofisticato, esaltato dalla grande perizia nella messa in scena e dalla sopraffina applicazione del montaggio, al punto che i suoi tratti, perfet­ tamente riconoscibili, vennero sintetizzati con il gratificante appellati­ vo di «loibitsch Touch», un marchio ideato dai public relation men

della Warner Bros, che si trasformò presto in un’identificazione di po­ etica. Difficile dame una definizione univoca in grado di riassumerne condizioni e modalità di manifestazione: forzando si potrebbe indicare

come un variegato complesso di allusioni, sottintesi, ammiccamenti ri­ velatori, ribaltamenti della prospettiva in grado di generare un umori­ smo raffinato, anche a dispetto della materia, spesso scabrosa, trattata. Molto più semplice appare cimentarsi in un lungo elenco di eventualità

in cui si rese percepibile, sorprendendo e strappando una risata per far-

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gUZÌa o per l’eleganza della trovata. In La zarina (Forbidden Paradise, 1924; Famous Players-Lasky Corporation), per fare un esempio, la ri­ volta originata da Alexei Czerny, uno dei diversi favoriti della regina Caterina, era affrontata, con l’impassibilità caratteristica di molti dei personaggi di Lubitsch, dal cancelliere della sovrana, interpretato da Adolphe Menjou. All’atto d’estrarre una spada da parte di uno dei sol­ dati rivoltosi, Menjou rispondeva mettendosi una mano in tasca: tutta­ via, la prevedibile comparsa di una pistola si trasformava nell’azione di impugnare un libretto degli assegni con cui mitigare l’aggressività dei ribelli.

Il regno di Lubitsch fu la commedia sofisticata ambientata indimore sontuose con personaggi abbienti e raffinati, i suoi argomenti preferiti ruotavano intomo ai rapporti sentimentali, alle difficoltà di coppia e alle frivolezze degli amanti, il filtro attraverso cui osservò la materia

trattata era frutto di uno sguardo disincantato e beffardo, capace di co­ gliere il minimo cenno da parte dei personaggi e di costruirvi caratteri e situazioni brillanti che si originavano spesso dal tacito contrasto tra la reale natura degli individui e la patina di rispettabilità che si premurava di nasconderla. Comprendendo immediatamente ciò che Hollywood

pretendeva da lui, Lubitsch rifletté nei suoi lavori le nuove tendenze della società americana degli anni Venti, ma rispetto ad altri registi pa­

rimenti focalizzati sui mutamenti in atto, come ad esempio DeMille, espresse uno sguardo meno moralistico, forte di un’ironia pungente, capace di stemperare ogni situazione in un cinismo sospeso tra l’eccen­ tricità dei personaggi ritratti e il sarcasmo delle condizioni che ne sca­ turivano. In grado di sfumare anche i momenti più imbarazzanti grazie a una notevole capacità allusiva, che trasformava in metafora ciò che altri avrebbero sfruttato come comoda implicazione sensuale. In Matri­ monio in quattro (The Marriage Circle, 1924; Warner Bros.) la carica

erotica dell’approccio mattutino tra due coniugi. Bauer e Charlotte, era traslata sul dettaglio delle loro colazioni: il marito smetteva di battere nervosamente il cucchiaino sull’uovo sodo, la moglie cessava di girare con altrettanta ansia lo zucchero nella tazza, lasciando il suo cucchiaio eretto all’interno di essa.

Lubitsch possedeva anche la prerogativa di rendere le traiettorie de­ gli sguardi dei suoi personaggi la traccia indicativa per comprendere

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adeguatamente l’ambiguità di particolari circostanze del racconto e gli effetti che si riflettevano sui suoi protagonisti. Sempre in Matrimonio in quattro, uno dei più grandi successi di pubblico di Lubitsch prima dell’avvento del sonoro, il dottor Bauer era chiamato da Mizzi al suo capezzale con il pretesto di una finta malattia (in realtà la donna si era

invaghita del medico, malgrado questi fosse il maritodella sua migliore amica). I due venivano sorpresi dal marito di lei. il professor Stock, il

quale, guardando verso il fuoricampo di sinistra, osservava in soggetti­ va Bauer che prendeva il polso di Mizzi per non destare sospetti quan­ do, fino a pochi istanti prima, era ladonna a tenere tra le mani il polso del medico. Stock, osservando verso sinistra, mostrava affettata consa­ pevolezza della «malattia» della moglie, ma subito dopo, all’interno della stessa inquadratura, rivolgeva lo sguardo lungo il margine destro, vedendo in soggettiva il carrello su cui erano posti due bicchierini di

liquore che smentivano il presunto malessere della consorte. Spesso le fasi narrative messe in scena da Lubitsch erano organizza­

te su uno sfrontato gioco delle parti in cui l’umorismo nasceva dal du­ plice contrasto tra lasmaccata inattendibilità dell’atteggiamento tenuto dai personaggi e dal ribaltamento delle consuetudini di genere cui il

cinema hollywoodiano aveva abituato il suo pubblico. In Mancia com­ petente (Trouble in Paradise, 1932; Paramount), l’opera di seduzione fra due borseggiatori. Gaston e Lily, era mediata dai modi aristocratici simulati e dal loro altezzoso portamento che li portava a rivolgersi l’un l’altra con artificiosa eleganza e aulica ricerca del lessico più consono.

l>a vicendevole maschera veniva gettata solo quando, in occasione di una cena galante, i due scoprivano i reciproci furti, dal portafoglio di un ospite d’albergo, sottratto da Gaston e rubato a sua volta da Lily, in un crescendo di rivelazioni e alterne sorprese che giungeva Tino alla giar­

rettiera di lei, estratta dalla tasca dall’abile malfattore con sommo stu­ pore della donna, che gli cadeva tra le braccia ormai irrimediabilmente conquistata.

Lubitsch, come vedremo in seguito, affrontò il sonoro con la consue­ ta abilità, comprendendo subito quali fossero le necessarie priorità espressive e conferendo alle sue pellicole una scioltezza in anticipo sui

tempi: l’impiego dei dialoghi gli permise una raffinata quanto imme­

diata spontaneità senza tuttavia privarsi dei suoi proverbiali sottintesi

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Storia e storie del cinema americano

(si pensi a Greta Garbo che in Ninotchka [id., 1939; MGM/l.oew’s] osservava la sospetta familiarità tra le sigaraie dell’hotel parigino e i tre ufficiali bolscevici» che vi risiedevano con un tranchant«Dovete aver

fumato parecchio...»), mentre le possibilità fomite dall’accompagnamento melodico gli consentirono di cimentarsi con grande fluidità an­ che nelle commedie musicali - Il principe consorte (The Love Parade, 1929; Paramount), Monte Carlo (id., 1930; Paramount), L allegro te­ nente (The Smiling Lieutenant, 1931; Paramount), Un'ora d'amore (One Hour with You, 1932; Paramount).

Victor Sjostrom arrivava invece dalla Svezia. Il cinema che realizzò a Hollywood evidenziava il retaggio della tradizione scandinava, cer­ cando di portare avanti inme^ro alle maglie dell’industria la sua poeti­ ca, basala sull’accurata caratterizzazione dei personaggi e sull’inciden­ za del paesaggio e degli elementi naturali come metafora di stati d’ani­

mo e situazioni. Il suo miglior lavoro americano fu indubbiamente // vento (The Wind, 1928), realizzato perla MGM e sostanzialmente igno­

rato dal pubblico a causa del concomitante interesse per il sonoro. Il vento rappresentava un anomalo punto di contatto tra il western e la

sensibilità scandinava, tra i grandi spazi del cinema americano e l’as­

sunzione allegorica deH’ambiente propria delle produzioni nordeuro­ pee. Il vento ossessivo era, infatti, il motore primo delle scelte dei per­ sonaggi, il loro stimolo naturale e ineluttabile, l^etly (Lillian Gish), una ragazza della Virginia, si trasferiva nel Texas dell’ovest per risiedere con il cugino. Qui, in uno scenario costantemente spazzato dal vento che percuoteva le finestre e copriva con la sua coltre ogni superficie, incontrava la gelosia della moglie del cugino, da subito ostile anche a causa della profonda diversità (la contrapposizione tra la fanciulla raf­

finata del Sud, e la donna di frontiera era mirabilmente riassunta da Sjostrom con un montaggio parallelo che metteva a confronto l^etly, intenta a stirare le sue gonne tutte merletti e crinoline, perplessa notan­ do quanto siano secche e screpolate le sue mani, e la moglie de) cugino, lesa a estrarre organi da un bovino appeso ai ganci). Costrettaa lasciare la casa del cugino e a sposarsi per sopravvivere, si accasava con un cowboy, Lige, per il quale provava solo disgusto. All’esterno, il vento

continuava a infuriare imperterrito debilitando progressivamente la psi­ che della donna, la quale dopo un’aggressione da parte di un viscido

Tendenze e autori tra muto e sonoro

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cowboy, Roddy, lo colpiva a morte con una pistola, seppellendolo da­ vanti casa, ma la sua mente, sempre più sconvolta, vedeva tornare il corpo in superfìcie per fazione incessante della tempesta. Solo il ritor­

no del marito, prima tanto disprezzato, le concedeva quella stabilità necessaria pernon impazzire definitivamente. La capacità di Sjòstròm, oltre all’uso espressivo dell’ambiente naturale, risiedeva nel dipingere situazioni con pochi e illuminanti tratti. Il matrimonio di convenienza tra l^etty e Lige si materializzava con un semplice taglio nel montaggio: un’inquadratura su due mani che si congiungevano con un anello, in presenza di uno sceriffo, di cui si scorge solo una stella. Un’azione

contingente, senza fronzoli, senza sentimentalismi, senza un’opera di seduzione o un patto preventivo, ta sommatoria di altri Dettagli ne

spiegava la sostanza: stoviglie sporche nel lavandino, uno squallido ta­ volo su cui erano poggiati un lume e i piatti di un pranzo. 11 ménage familiare come natura morta. Soltanto al termine di queste inquadrature lo spettatore aveva modo di scoprire che lo sposo era Lige. che compa­ riva a corredo di una serie di elementi ritenuti maggiormente decisivi

dal punto di vista informativo. L’esasperata frammentazione della sce­ na investiva anche la tensione della prima notte di nozze, illustrata pun­

tando solo a inquadrare i piedi dei personaggi, i quali si affrontavano in due stanze contigue, camminando in parallelo. Al passo nervoso di Lige

si contrapponevano i piani sui passi timorosi di l^etty. fino a quando Lige calciava una tazza di liquore e apriva d’impeto la porta divisoria, causando prima la pausa improvvisa di le immagini dal vero di l;laherty,che non era un regista o un operatore, ma un esplo­

ratore senza esplicita formazione cinematografica, rappresentavano un’assoluta novità, che in seguito sarebbe stata definita Cinema Docu­ mentario. Ma al momento dell’uscita, episodi come la caccia della tribù degli Inuit ai trichechi, la dettagliata costruzione dell’igloo. la caccia all’ogjuk, la grande foca, sorpresero per la freschezza, l’immediatezza esotica, la sensibilità per la materia trattata e il gusto ne) catturare questi momenti di vita vissutae di incastonarli in inquadrature che non avevano

solo il merito di un’apparente spontaneità, ma anche il fascino di un’ar­

monia naturale (ad esempio il corpo di Nanuk, sdraiato sul ghiaccio in

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Storia e storie del cinema americano

attesa di colpire i pesci con l'arpione, si rifletteva nell’acqua, per un rad­ doppiamento estetico delle forme) eia tensione narrativa di una costante sfida per la sopravvivenza (il palesarsi della famiglia di Nanuk.che so­

praggiungeva dalla profondità di campo per aiutare il congiuntone! mo­ mento di massima difficoltà della cattura della foca). Si potrebbe discu­ tere molto sull’invisibilità dell’occhio di Flaherty, sul fatto che alcuni ammiccamenti di Nanuk e le posizioni assunte durante la costruzione

dell’igloo lasciassero intendere la coscienza della presenza di una cine­ presa e che probabilmente la realtà ripresa era una verità ricostruita, as­ sunta al secondo livello. Tuttavia, la genuinità proposta, la novità del soggetto e l’assoluta libertà nel mostrarlo costituirono un motivo di sicu­ ra presa sul pubblico e di particolare interesse estetico. Il requisito fonda­

mentale di Flaherty fu proprio l’estrema libertà. Cosa che la Paramount non gli perdonò al termine delle riprese de L ultimo Eden {Moana, 1926). prodotto per replicare il successo dell’esordio, l-a stupefacente bellezza degli scenari delle isole Samoa e la lirica semplicità della vita delle po­

polazioni non soddisfecero la casa di produzione che. delusa dalla man­ canza di un intreccio vero e proprio e dall’enorme quantità di pellicola girata dal regista e poi non utilizata, non gli rinnovò il contratto. Cosi come totalmente libero non fu. cinque anni dopo. Tabù, girato in colla­ borazione con Mumau. pervia dei ripetuti contrasti tra le due forti perso­

nalità a capo del progetto, come accennato in precedenza. A quel punto Flaherty si trasferì in liuropa.per ritornare negli Stati Uniti soltanto negli anni Quaranta, quando il Ministero deU’Agricoltuia gli affidò di docu­ mentare lo stato agricolo nazionale durante la Grande depressione con La terra (1942), a cui segui La storia della Louisiana {The Louisiana Story, 1948). un film autoprodotto in cui Flaherty potò riprendere il suo

abituale discorso sulla fenomenologia del quotidiano interrotto con Na­

nuk e ripreso solooltrcoceano con L uomo diAran {Man ofAran, 1934).

5.2

Le prime decisive parole

Nei teatri del vaudeville, durante gli eroici tempi delle origini, lo spet­ tacolo cinematografico rappresentava uno dei tanti intrattenimenti in

Tendenze e autori tra muto e sonoro

121

cartellone ed era usato dall’orchestra (più o meno ampia) per riposarsi tra un numero e l’altro. In seguito, nei Nickelodeon, si affermò lenta­ mente la tendenza alla musica d’accompagnamento, suonata dal vivo come corredo estemporaneo (e non sempre abilmente abbinato)alle im­ magini, con lo scopo di coprire il rumore del proiettore e di sconfiggere

l’impressione inquietante romita dalle immagini totalmente mute. Dal­ la metà degli anni Dieci, dopo il successo della partituradi Joseph Cari Breil per Nascita di una nazione, gli accompagnamenti appositamente scritti per un’orchestra diventarono una costante per le produzioni dal budget elevato e per le grandi cattedrali del cinema, e sovrapposero la loro azione magniloquente alle traps, la brillante tendenza in voga in molte sale di sottolineare le azioni dei personaggi sullo schermo con

effetti sonori prodotti dal pianoforte e dalle percussioni. A ben guarda­ re. però, il cinema americano non aveva mai abbandonato il sogno di

Thomas Alva lidison di sincronizzare le immagini ai suoni, coltivato fin dal 1888 quando l’inventore pensò di abbinare \ozoopraxiscopio di

Muybridge con il suo fonografo. Nel corso degli anni Venti, quello che pareva un miraggio cominciò a delinearsi come un’ipotesi concreta. Un primo passo fu il Phonofìlm brevettato da l^eede Forest nel 1923:

una membrana sonora convertiva l’audio in onde riprodotte su una stri­ scia ricavata a fianco del fotogramma di una pellicola a 35 mm. 1 van­ taggi della sincronizzazione erano evidenti: in caso di rottura della pel­ licola, se le due estremità si fossero dovute giuntare, si sarebbero persi gli stessi fotogrammi di immagine e di suono. Ma de Forest voleva ri­

manere indipendente e la sua rimase una società dalle ambizioni limita­ te: la sua invenzione contribuì alla diffusione del sonoro in alcune na­ zioni fuori dagli Stati Uniti, tra cui Canada e Gran Bretagna, ma i cor­ tometraggi proposti al pubblico come dimostrazione del suo brevetto

(tra cui un two reels dedicato a Lincoln con la regia di J. Searle Dawley del 1924) non attirarono come sperato l’entusiasmo del pubblico. Nel 1925. la Western Electric commercializzò il suo sistema di regi­ strazione su disco, il Pitaphone. ma la maggior parte degli Studios si mostrò attendista, aspettando gli sviluppi di una situazione in costante divenire. Io script era anche la base fedele su cui regi­ sta, produttore associato e manager esecutivo (che si occupava degli

aspetti finanziari del film) si basavano per progettare il piano di lavora­ zione del film e il preventivo delle spese da sostenere, il cui limite inva­ licabile era sempre il budget predisposto per quella specifica tipologia di produzione, perché ogni giorno di ritardo significava un costo ag­

giuntivo. Per evitare ogni inconveniente, il piano di lavorazione preve­ deva una certa interscambiabilità progettuale tra scene girate in esterno e in interno, perevitare che in caso di tempo inclemente la lavorazione del film si fermasse. Perlo stesso principio di ottimizzazione dei tempi, le scene particolarmente elaborate dal punto di vista registico venivano posticipate alla fine delle altre riprese, mentre le parti con gli attori dal contratto più oneroso erano raggruppate e girate in successione. Una volta completate le riprese, il regista approntava in sequenza il negativo, grosso modo nella versione finale prevista, ma l’ultima paro­

la sul montaggio definitivo (il cosiddetto Final cui) spettava irrevoca­ bilmente ai responsabili della produzione: nella Hollywood degli anni Trenta soltanto un numero esiguo di registi (sicuramente meno di una decina) deteneva il diritto di montare il film che aveva diretto (tra quel­ li alle dipendenze di uno Studio: Frank Capra, l>eo McCarey, John

Ford, Howard Hawks, William Wyler), mentre gli altri, dopo essersi limitati a girare le scene senza osare né sperimentare alcunché, dato il rigido controllo dei tempi di realizzazione, vedevano completare l’edi­ zione definitiva del film che avevano giratodai supervisori della produ­ zione. Particolare che in qualche modo incideva su una certa uniformità nello stìlee nelle modalità di sviluppo narrativo della storia. Perlomeno

nei film prodotti aH’intemo di ogni singolo Studio.

l>e case di produzione non si limitavano alle Big Five,le cinque com­ pagnie maggiori (Majors) che avevano a disposizione ampie strutture di produzione, un circuito di distribuzione e un’estesa catena di sale (Paramount, Metro Goldwyn Mayer. 20th Century-Fox. Warner Bros, e RKO), o alle cosiddette Minors (Universal. Columbiae United Artists, dopo che la First National era stata assorbita dalla Warner alla fine degli anni Venti), concredenziali e assetto simile alle cinque grandi, sprovvi­

ste tuttavia di una rilevante catena di sale: intorno a loro gravitavano

Il periodo classico

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una serie di indipendenti dai vari approccio potenzialità, che contribui­ vano ad alimentare con differenti aspettative il mercato. 1 grandi pro­ duttori come David O. Selznick e Samuel Goldwyn erano proprietari di

grossi studi e finanziavano i loro ambiziosi progetti gestendoli in prima persona - rispettivamente, tra gli esempi possibili, col vento (Gone with the Wind, Victor Fleming. 1939), Rebecca, la prima moglie (Re­

becca, Alfred Hitchcock, 1940) e Amore sublime (Stella Dallas, King

Vidor, 1937), La voce nella tempesta (Wuthering Heights, William Wyler, 1939). Charlie Chaplin si produceva da sé e distribuiva i suoi lavori tramite la United Artists che aveva contribuito a fondare, Wall Disney faceva lo stesso con i suoi disegni animati, mentre altri produttori, come Walter

Wanger oppure, dalla metà degli anni Quaranta. Hal Wallis, finanziava­ no i loro film con il sostegno di una delle Major acui ricorrevano anche

per la distribuzione. A margine di questa galassia si ponevano quelle che erano conosciute come Poverty Row, case di produzione very low bud­ get, specializzale in film di serie B. realizzati spesso sommariamente in

pochi giomi.con storiee cast molto simili tra un film e l’altro (Republic. Monogram, specializzate in western. Grand National, Producers Relea­ sing Corporation). Ije Majors avevano statistiche produttive da grande corporation, perché.per ogni anno, perlomeno nel decennio tra gli anni Trenta e i Quaranta, coprivano la quota dell’80% delle pellicole proiet­ tate in tutte le sale degli Stati Uniti, mentre la percentuale restante era colmata dalle Minors (per il 15%) e dalle produzioni indipendenti (il

5%). che scontavano la loro scarsa qualità, la limitata distribuzione e l’ambizione di mercato, dal momento che erano confinate nella quasi totalità dei casi sugli schermi di seconda e terza visione.

Iji grande diffusione dei film delle Majors era dovuta non solo alla loro grande potenzialità produrti va. ma soprattutto a una politica di con­ trollo del mercato, in virtù dei quale il territorio nazionale era diviso in aree definite di intervento controllate da uno Studio (zoning in base a precisi intervalli di tempo (clearence). Una sala otteneva il diritto allo sfruttamento esclusivo di un film per un periodo determinato, dopo il quale la pellicola passava ai circuiti di seconda visione, le cui sale pra­

ticavano prezzi ridotti. L’accordo tra le otto case di produzione preve­ deva anche che nelle sale controllate (o gestite direttamente, nel caso

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Storia e storie del cinema americano

delle Majors) da uno Studio, si proiettassero anche film delle altre case, in modo da saturare tutta la richiesta del mercato che da solo, il singolo Studio non riusciva certo a soddisfare (ogni Major produceva un terzo dei film proiettati nel corso dell’anno dalle sale). L’integrazione verti­ cale delle Majors era poi completata in maniera decisiva dalla prassi

distributiva, che, come già visto nel precedente capitolo, prevedeva il ricorso al Block Booking (il noleggio in blocco dei film di uno Studio) e al Blind Selling (l’acquisizione alla cieca, senza conoscere nel detta­ glio i titoli, spesso ancora da realizzare, con l’unica garanzia per gli esercenti di poter vantare il prestigioso catalogo annuale di una Major),

aspetto che sarà al centro di una serie di procedimenti legali contro le Cinque grandi a partire dal 1938. quando la divisione Antitrust del Di­

partimento della Giustizia le citò in giudizio per violazione delle norme sulla libera concorrenza. Procedimento che si concluse nel 1948. con

quella che è passata alla storia come «Sentenza Paramount» e l’obbligo, per le Majors, di vendere le sale sotto il loro diretto controllo, interrom­ pendo il principio dell’integrazione verticale e sancendo, di fatto, la lenta erosione dello Studio System - almeno da un punto di vista legale, visto che le Majors si sbarazzarono delle sale con una lentezza calcola­ ta che si trascinò fino a quasi tutto il decennio successivo. Gli anni Trenta furono anche - soprattutto - il periodo della Grande Depressione seguita al crollo di Wall Street de) 1929. Per un paio d’an­ ni il comparto cinema, sull’onda lunga dell’entusiasmo per il neonato cinema sonoro, non risenti della crisi, che invece si abbatté, violenta ma

non certo inattesa, nel 1933. Poco meno di un terzo delle sale cinema­ tografiche esistenti sul suolo americano chiuse i battenti a causa di una riduzione considerevole del pubblico e degli aumenti neicosti di gestio­ ne degli immobili. Gli Studios cercarono di ridurre al massimo le spese,

limitando gli investimenti e, in alcuni casi, diminuendo Io stipendio a tecnici e attori di secondo piano. Anche l’amministrazione Roosevelt, appena insediatasi, cercòdi intervenire sul cinema, come sugli altri set­

tori in crisi, con il National Industriai Recovery Act(NlRA), tentando di impedire il Block Booking e il Blind Selling. e di controllare gli ec­ cessivi salari per attori, tecnici e dirigenti. Tuttavia, il NIRA, in campo

cinematografico, fu presto ignorato e abrogato solo tre anni più tardi. Gli Studios lottarono con grande sforzo per combattere l’emorragia di

!l periodo classico

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spettatori e, piuttosto che diminuire i costi di produzione, puntarono a limitare i rischi d’impresa, scegliendo divi di successo, registi apprez­ zati dal pubblico e storie di sicura presa: meglio un prodotto ad alto costo che solleticasse l’immaginazione degli spettatori rispetto a più prodotti dalle spese contenute ma dal ritorno alquanto incerto. Dal canto loro, le sale cercarono di attirare gli spettatori con ogni genere di richiamo, dai giochi con premi in denaro ai regali domestici per il pubblico femminile, dalle lotterie al miraggio della vittoria di un’automobile. Anche a causa del divieto del N1RA a offrire premi in denaro agli spettatori delle sale cinematografiche, la pratica che presto

si diffuse, partendo dai cinema della provincia per giungere anche nei locali più prestigiosi, fu quella del «doppio programma». Nella prima metà del decennio, infatti, si affermò la prassi di proiettare due film al prezzo di un unico biglietto: il primo era una produzione commerciale

di richiamo realizzata da una Major, l’altro era un B Movie, spesso di genere, privo di divi e di minori ambizioni. Il doppio programma da un

lato incentivava la domanda da parte degli esercenti, dall’altro rendeva interdipendente il rapporto tra Majors e Minors, perché le prime aveva­ no necessariamente bisogno dei prodotti delle seconde (soprattutto del­

la Universa! e della Columbia, visto che la United Artists si occupava principalmente di distribuzione) per poter colmare interamente la ri­ chiesta che, da sole, non erano in grado di soddisfare completamente. L’apprezzamento del doppio programma era argomento piuttosto controverso. Alcuni critici sostennero che la preoccupazione circa la

quantità di fìlm da produrre fosse a scapito della ricerca di un livello qualitativo ottimale, poiché rispondere alle richieste di un maggior nu­ mero di film significava intensificarne la produzione accelerandone la realizzazione. Un produttore indipendente come Samuel Goldwyn cercò tutte le volte che gli fu possibile di produrre pellicole della durata di al­ meno due ore per rendere difficoltoso l’inserimento nello stesso cartel­ lone di pellicole a basso costo che avrebbero sviato l’attenzione dal suo

prodotto di pregio, mentre altri responsabili degli Studios (ad esempio Milton Bren. executive degli Hal Roach Studios) reputarono i fìlm di serie B utili come palestra in cui far crescere futuri divi o sperimentare

tecniche e stili differenti (John Wayne, Glenn Ford e Robert Mitchum, per esempio, fecero questo tipo di apprendistato), lira anche vero, tutta-

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Storia e storie del cinema americano

via, che le produzioni low budget diventavano spesso il luogo in cui si sfruttava il lavoro di attori, registi e sceneggiatori sotto contratto, ma ritenuti inadeguati a raggiungere il successo con i film di serie A. Indubbiamente, il mercato e l’offerta crebbero: anche se talvolta il singolo spettatore era interessato soltanto al lavoro di serie A con il budget più elevato, un numero maggiore di film raggiunse un pubblico più ampio, e anche se una notevole percentuale era formata da titoli

senza alcuna pretesa se non quella di procurare un guadagno facile e immediato ai produttori, alcune pellicole suscitarono grande interesse diventando dei piccoli classici della storia del cinema.

1) lavoro delle otto grandi case di produzioneera pianificato ulterior­ mente in funzione della classe di appartenenza del prodotto (mentre le piccole case indipendenti, le Poverty Row, si accontentarono di occu­ pare gli esigui spazi lasciati liberi dalle Majors) e tale aspetto contribuì, tra gli altri, alla definizione di uno stile costante e riconoscibile per ogni Studio, una sorta di tratto distintivo fatto, oltre che di volti, di pratiche

di messa in scena, scenografìe, condizioni di luce, caratteristiche del racconto e atmosfere che in molti casi diventarono tipiche. Una sorta di brand, un autentico marchio di fabbrica che definiva la sua particolarità

sin dal logo iniziale prima dei titoli di testa. Il leone dal ruggitoannoia­ to della MGM o la vetta innevata della Paramount non erano soltanto firme sul prodotto, ma insenso più ampio predisponevano le aspettative del pubblico circa i volti degli attori che avrebbero visto all’interno della pellicola, falla qualità della stessa, spesso anche il genere narrati­ vo le cui chiavi avrebbero dovuto decodificare. L7/ourcSr>7enon era solo una scelta deliberata, ma dipendeva anche da un concatenarsi di fattori che influenzavano lo sguardo con cui ogni singolo Studio osser­

vava il mondo e lo rileggeva in funzione dello spettacolo. 1 ji MGM fu la quintessenza dello sfarzo hollywoodiano. Forte del suo motto «more stars than there are in heaven», puntò all’affezione del pubblico della media borghesia attraverso la riproposizione dei volti dei

divi più amali (Greta Garbo. Clarice Gable. SpencerTracy. William Po­ well e Myrna lx>y ecc.)e una palina di traboccante eleganza in ogni sua singola produzione, grazieanche al l’apporto di direttori della fotografìa

al servizio dell’aurea fascinazione delle star (le immagini soffuse di William Daniels sul volto della Garbo, per esempio), alle ambientazio­

Il periodo classico

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ni ampie e sontuose e a costumi eccentricamente ricercati (con lo stili­ sta Adrian come nome di punta in grado di influenzare anche la moda a lui contemporanea). lui Paramount puntò una buona parte della sua produzione sulla raf­ fi natezza di una sensualitàdiflusa con grande generosità. L’ambivalen­

za della Dietrich, la prorompente aggressività di Mae West, gli ammic­ canti sottintesi nell’opera di lìmst Lubitsch, da un lato, sfidarono co­ stantemente la morale comune flirtando con l’inconfessata disposizione all’abbandono pruriginoso delle classi medie, mentre, dall’altro, una patina di scintillante eleganza si diffondeva nelle inquadrature delle

commedie e dei musical, che lo Studio produceva per sfruttare l’arte degli attori/cantanti che aveva sotto contratto (Maurice Chevalier e Je­ anette MacDonald, per fare due nomi rappresentativi). lui Warner, forte di una politica aziendale che mirava a ottimizzare

quasi ossessivamente costi e tempi di produzione, replicava invece la realtà contemporanea con storie ambientate in scenari urbani dalle tra­ me essenziali e dai protagonisti, quasi esclusivamente maschili, aspri,

spigolosi, attrezzati per una vita di strada (James Cagney, lidward G. Robinson e Humphrey Bogart tra i divi sotto contratto), lui Warner si rivolgeva soprattutto alle classi lavoratrici delle città con il suo stile sobrio e immediato, fatto di una fotografia profonda in ambienti lieve­ mente contrastati luministicamente. e i suoi personaggi malinconica­ mente perdenti raccontati in storie spesso attente all’impegnocivile o in Claustrofobici gangster movie. lui Fox (20th Century-Fox dal la fine del ’34) aveva come fiore al l’oc­ chiello la piccola Shirley Tempie, protagonista di una serie di pellicole di successo fondate sulle placide lusinghe del suo personaggio di orfa-

nella dal volto angelico e dagli amorevoli modi a partire da Riccioli d’oro (Curly Top. Irving Cummings. 1935). Registi come John Ford.

Henry King e Henry Hathaway contribuirono a caratterizzare con una visione romanticamente democratica, sentimentale e nostalgicamente

umanistica le tonalità drammatiche dello Studio. lui RKO attraversò nei primi anni del decennio una serie di traversie che ne causarono una profonda crisi finanziaria, cui fece seguito una

successiva riorganizzazione all’inizio degli anni Quaranta, in tempo per produrre uno dei film più illustri del suo listino come Quarto potere

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Storia e storie del cinema americano

(Citizen Kane, 1941 ) di Orson Welles. In virtù di una certa duttilità, ma

anche a causa di una politica produttiva non particolarmente coerente, i successi della casa furono diversissimi tra loro perché a film dall’im­

pianto avventuroso e spettacolare come King Kong (id.. Merian C. Co­ oper, limest B. Schoedsack, 1933) si affiancarono i musical con la cop­

pia d’oro formata da Fred Astaire e Ginger Rogers, da Carioca (Hying Down to Rio, 'Fhomton Freeland, 1933). in cui i due attori non erano ancora protagonisti, ai grandi successi. Cappello a cilindro (Top Hat, Mark Sandrich. \935),Seguendo la flotta (flollow the Fleet Sandrich. 1936) e Follie d’inverno (Swing Time, George Stevens, 1936) e

le pellicole incentratesulle figure volitive ed emancipate interpretate da Katherine llepbum. Febbre di vivere (4 Bill of Divorcement, George

Cukor. 1932), // diavolo è femmina (Sylvia Scarlett, George Cukor. 1935), Palcoscenico (Stage Door, Gregory lui Cava, 1937). lui Universal, influenzata dai molti immigrati tedeschi che aveva a libro paga (Karl Freund, Paul l>eni) e dal clima espressionistico di cui

la loro tecnica era intrisa, improntò la sua produzione a racconti dalle atmosfere chiuse e opprimenti, rifacendosi a una tradizione gotica in cui l’illuminazione contrastata, i chiaroscuri marcati e la rivelazione

dell’orrido diventarono i segni distintivi del nascente genere horror co­ me Dracula (id., Tod Browning. 1931); Frankenstein (id.. James Wha­ le. 1931); L’uomo invisibile (The Invisible Man, James Whale, 1933), tra gli esempi più rappresentativi. lui Columbia si specializzò, invece, nella produzione di B Movies (western e Screwball Comedies, soprattutto), assumendo per un solo film attori e registi di altre società tramite amichevoli accordi con le Majors, anche se il nome dello Studio fu legato strettamente a quello di

Frank Capra, che vi lavorò per tutto il decennio, fino a Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Washington, 1939). dopo il quale il

regista passò alla produzione delle sue stesse pellicole. lui United Artists, invece, non poteva vantare pellicole dei grandi

nomi che l’avevano fondata (Griffith, la Pickford e Fairbanks nei primi anni Trenta erano già considerati un illustre retaggio del passato), men­ tre Chaplin, nonostante fosse all’apice del suo successo, realizzava film con una scarsa prolificità che non favoriva certo le casse esangui della casa. Per garantirsi la sopravvivenza, la UA importò negli Stati Uniti

Il periodo classico

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produzioni inglesi e distribuì alcuni film di successo, come La wce nella tempesta e Rebecca, la prima moglie.

6.I.1 II sistema dei generi Pur non avendo inventato il concetto digenerecinematografico.il cine­ ma hollywoodiano lo portò sicuramente al più alto grado di perfezione

come logica consequenziale del sistema di industrializzazione proprio dello Studio System. Come fa notare Janet Staiger (in Bordwell. Stai­ ger, 'Thompson.The Classical Hollywood Cinema), la regola della stan­ dardizzazione e della differenziazione, propria di un apparato che pro­ duceva in serie, forniva al sistema quei modelli necessari e sicuri che.

pur discostandosi poco I’uno dall’altro (al punto che il dipartimento di sceneggiatura della Warner era conosciuto con il sintomatico appellati­ vo di «Echo Chamber», la stanza deH’eco). garantivano il successo di una formula basata sull'attrazione esercitata su una ben determinata e

quantitativamente apprezzabile porzione di pubblico. Giù il cinema del­

le origini aveva compreso la disponibilità degli spettatori a riconoscersi in meccanismi visivi e narrativi di facile comprensibilità e ne sfruttò i modelli in contesti differenti, con l’intenzione di creare l’illusione della novità. Non appena la confezione del racconto incontrava il favore del

pubblico, la novità si assestava e si trasformava in schema da seguire per garantirsi gli incassi susseguenti. Negli anni immediatamente suc­ cessivi alla nascita del cinema, lecategorizzazioni dei vari racconti era­

no legate strettamente ai modelli della letteratura di evasione.coerente­ mente con la diffusione deifeuilleton sui giornali a grande tiratura. A partire dal 1912, in connessione con la pubblicazione dei romanzi d’ap­ pendice da cui erano direttamente ispirati, il cinema americano intra­

prese la strada dei serials, una moda che dal suo precursore. What Hap­ pened to Mary? (James Searle Dawley, Walter Edwin, dodici puntate prodotte dalla Edison), si affermò per durare una decina di anni. Il jerial rappresentava un perfetto esempio di reiterazione quasi meccanica

di situazioni narrative e toni del racconto, di ruoli predefìniti e di ricor­ renza degli sviluppi drammatici: una sorta diprototipo perla successiva diffusione.

In una consuetudine cosi tracciala e in un sistema nel quale la produ­

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Storia e storie del cinema americano

zione cominciava a essere organizzata con principi di tipo quasi layloristico, gli elementi costanti nel racconto diventarono progressivamente la base di partenza su cui inserire piccole variazioni quando lo schema

diventava troppo sfruttato e quindi fin troppo prevedibile per gli spetta­ tori. ta relazione diventava indissolubilmente reciproca: se la divisione in generi si originava da una standardizzazione delle varie fasi di crea­ zione del prodotto da parte degli Studios, allo stesso modo si tipizzava la domanda di cinema da parte del pubblico, pronto a livellare i suoi gusti e il suo apprezzamento come conseguenza dell’offerta da parte dell’industria. Il ritomo da parte del pubblico, inteso come cliente, era ovviamente fondamentale: formule narrative, tipologie del racconto (a scapito di altre), peculiarità di personaggi con i quali identificarsi, in­ trecci e sviluppi, motivi fondanti e contenuti diventarono il metro su cui saggiare la presa sugli spettatori. Se il film riscuoteva successo, diven­

tava il punto di partenza su cui innestare minime variazioniche ripetes­ sero il gradimento ricevuto, ta ripetizione della formula, film dopo

film, tendeva a trasformarsi in schema di applicazione: l’elevato numero

di film prodotto ogni anno da Hollywood (tra i 400e i 700) era un altro ostacolo insormontabile rispetto al tentativo di garantirsi una completa originalità, e l’originalità, in un meccanismo industriale, rappresentava pur sempre un rischio d’impresa che gli Studios potevano accettare sol­ tanto in alcune occasioni (le produzioni più ambiziose), facendo in mo­ do che nelle altre la preminenza dell’incasso diventasse il metro neces­ sario e principale dell’operazione.

In effetti, come accennato in precedenza, la politica di realizzazione di film di genere era favorita dalla differenziazione produttiva dei bud­ get a disposizione: se il musical, ad esempio, necessitava per conven­ zione di ampie scenografie costruite appositamente, di sequenze artico­

late realizzate coralmente, di una moltitudine di comparse e costumi sfarzosi, era anche vero che il noir (che sarebbe diventato popolare nel decennio successivo, gli anni Quaranta) utilizzava solamente alcuni in­ terni caratteristici, strade uggiose e che il lavorasi svolgeva essenzial­ mente sulla determinazione delle atmosfere luministiche e sulla crea­ zione della tensione narrativa. Costi differenti, spettatori tendenzial­

mente eterogenei, modalità di fidelizrazione del pubblico diverse tra

loro, meccanismi del racconto divergenti in funzione dello scopo.

!l periodo classico

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Come si è detto, ogni Studio diversificava la produzione, e anche la Majors realizzavano film di serie B obbedendo alla logica del prodotto a basso costo, nonostante fosse indubbio che un film low budget di una

delle società di maggiore successo (MGM o Paramount) potesse costa­ re quanto il film di serie A della Warner. Ad ogni modo, il film di serie B, almeno fino agli anni Cinquanta, quando la sua diffusione fu assor­ bita dalla programmazione televisiva, fu il regno della ripetizione e del­

la convenzione del cinema di genere, diventando un laboratorio in cui provare formule che, se premiate con l’incasso, sarebbero state applica­ te anche ai prodotti di prestigio tramite una maggiore cura formale, sceneggiature più dettagliate e volti di sicuro successo. Nessuno degli Studios si specializzò in un solo e unico genere, ipote­

si ritenuta controproducente e limitante rispetto all’organbzazione in­ dustriale del sistema, per cui. pur lasciando sedimentare nell’immagi­ nario del pubblico visioni ben definite rispetto alla propria produzione (i musical magniloquenti della MGM. i gangster movie e l’impegno

sociale della Warner, gli horror della Universal, i western della Colum­ bia ecc.). le varie compagnie furono pronte a sfruttare anche il successo ottenuto dalle rivali, cercando di imitarne i meccanismi e le caratteristi­

che. Per far questo era necessario il ricorso a un’etichelta che contrad­ distinguesse il tipo di narrazione e permettesse al pubblicodi riconosce­

re al di là di ogni evidenza le peculiarità della storia affinché si recasse in sala con l’intenzione di rivivere l’esperienza di successo. Per lo Stu­ dio la classificazione di genere divenne la base su cui progettare e quin­ di organizzare la realizzazione del film e la successiva vendita, per gli esercenti si trasformò nel segno distintivo per comprendere che tipo di titolo avrebbero proiettato e per pianificare la relativa promozione al pubblico, mentre per lo spettatore diventò una sorta di tacito contratto

in virtù de) qualescegliere la pellicola preferita tra tutte quelle proposte e preparare il suo orizzonte d’attesa su ogni singolo film.

6.1.2 Lo Star System

Il terzo elemento che caratterizzò lo Studio System, oltre all’integrazio­ ne verticale e alla divisione in generi, è probabilmente quello che ha contribuito maggiormente al l’affermazione di Hollywood come mac­

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Storia e storie del cinema americano

china dei sogni. Dello Star System si sono giù tratteggiatele caratteri* sliche ne) precedente capitolo, qua sarà utile ricordare che, nella logica industriale del sistema, la figura del divo diventava fondamentale per­

ché punto di contatto ideale tra il film e il suo spettatore, e quindi vei­ colo determinante per garantire l’adeguato lancio sul mercato del pro­ dotto. Vista la sua importanza per il successo del film, il divosi trasfor­ mava, in una certa misura, in uno dei responsabili del film, almeno

quanto lo erano il produttore e il regista, poiché il maggior o minore appeal del protagonista poteva incidere sul successo della pellicola, al­ lo stesso modo di una storia avvincente. Perché la star era il punto es­ senziale di una narrazione originata dalla sua presenza e sviluppata in­ torno al personaggio da lei interpretato: era il fulcro intomo cui s’irra­ diava l’intero racconto, non più semplicemente uno degli elementi, sebbene importante, sebbene caratterizzante, della narrazione. Soggetti e sceneggiature erano spesso concepiti in relazione all’attore che le avrebbe poi rese plastiche interpretandole e questo aspetto influenzò

anche il tipo di storie realizzate, implicandone l’inserimento in una ca­ tegoria di genere piuttosto che in un’altra. Indubbiamente, le star con­ corsero anche a determinare l’identità di un genere, in virtù della co­

struzione dei protagonisti tipo e alla ripetizione dei medesimi ruoli film dopo film: il pubblico che si recava a vedere una pellicola con !)ela

Lugosi sapeva di vedere un horror, mentre, una decina di anni dopo, chi inseguiva le cavalcature sghembe di John Wayne era perfettamente co­ sciente di vederlo alle prese con i sentieri polverosi di un western. Il divo, grazie al rapporto di ammirazione, ma anche di devozione e di venerazione, era il tramite attraverso cui il pubblico veniva introdotto nella finzione filmica. Qualcuno che il pubblico conosceva bene, grazie

alle precedenti interpretazioni di successo e anche alla mitologia creata ad arte dagli stessi Studios, e su cui potevano innestare orizzonti di at­ tesa ben precisi. Un determinato divo era garanzia di uno sviluppo de­ finito delle storie narrate, di particolari situazioni e atmosferee di atteg­

giamenti tipici: si celebrava di fatto un rituale, in cui il divo reinterpre­ tava ad libitum se stesso e il pubblico si dimostrava disposto a permu­ tare l’interesse per la novità con il piacere di vedere un volto ormai fa­

miliare. Questa liturgia non era solo un patto tra film e spettatore, ma investiva anche le modalità stesse di messa in scena, perché era essen­

Il periodo classico

147

ziale che la star fosse mostrata attraverso alcuni accorgimenti, evitando di ritardarne troppo l’ingresso per impedire di dilatare oltre modo un’aspettativa che sarebbe diventata artificiosa se non motivata adegua­

tamente. ma scongiurando anche il pericolo di un’apparizione troppo repentina, non legittimata da un’opportuna attesa, o anticipata da una. anche se breve, presentazione da parte di qualche altro personaggio pre­ sente in scena.

In Via col vento, ad esempio, quasi un paradigma della Hollywood classica, l’ingresso in scena di Clark Gable nei panni beffardi di Rhetl Butler avveniva alla festa dei Wilkes, due sequenze dopo rispetto all’ini­ zio e alla conseguente presentazione di Vivien Leigh/Rossella O’Hara. Dopo aver civettato con tutti e aver creato agitazione nelle altre ragazze presenti, Rossella, dalla sommità della grande scalinata al centro della mansion dei Wilkes, rivolge il suo sguardo verso sinistra, in basso, pre­

sumibilmente alla base delle scale. Il suo sguardo incuriositosi posa su Rhett, che subito battezza come volgare, benché ne sia incuriosita. Una

nuova inquadratura su Rossella la mostra intenta ad ascoltare la sorella

che la informa circa la pessima reputazione di Rhett come spregiudicato rubacuori, mentre un successivo movimento di macchina converge dall’alto sull’oggetto dell’attenzione di Rossella, mostrandolo intento a restituire lo sguardo incuriosito della ragazza con una smorfia di sfron­ tata sicurezza. Uno sguardo interessato su un uomo che sostituisce im­ provvisamente la capricciosa sufficienza con cui Rossella aveva trattato gli altri ospiti di casa Wilkes, un piano dall’alto a mostrare l’obiettivo

dello sguardo, il corredo di una fama che accompagna il personaggio diventato centrale grazie alle dinamiche visive della protagonista, la sot­ tolineatura evidente della macchina da presa che dall’alto si avvicina

all’uomo per mostrare la sua maschera beffardae affascinante. Ancora più complessa e dilatata la presentazione, tre anni dopo, di Humphrey Bogart in Casablanca (id.. Michael Curtiz, 1042; Warner Bros.). Dopo l’introduzione del contesto ambientale e storico da parte di una voce narrante, il suo personaggio, Rick, uno scontroso america­ no che ha aperto un american bar a Casablanca, una sorta di porto fran­ co (e forse la più famosa sala d’aspetto della storia del cinema) per tutti coloro che dalla capitale marocchina intendono recarsi in America via Lisbona per sfuggire alle spire dei nazisti che ormai imperversano

148

Storia e storie del cinema americano

in Europa e in Nord Africa, è evocato per metonimia dalle immagini che mostrano l'insegna che dà il nome al locale («Rick’s café américain»), dalla richiesta di udienza dei clienti, dalle parole di diniego de) suo collaboratore Cari e dagli sguardi speranzosi e ammirati degli stes­ si clienti rivolti con insistenza verso un fuoricampo forzato eccezional­

mente per mostrare l’inquadratura tanto attesa. Se l’inquadratura con l’insegna del locale attraversata da un aereoè immaginedello scopo per cui tutti si rifugiano da Rick (la speranza di una partenza verso la liber­ tà), e se gli ironici rifiuti che il fido Cari porge agli illustri clienti lascia­ no presagire un comportamento sdegnoso e impassibile da parte del protagonista, il piano che finalmente ne inquadra una porzione di corpo (inizialmente soltanto una mano che avalla un assegno, poi anche il

tronco e il braccio) e il tavolino dietro cui il personaggio è seduto forni­ sce altri elementi utili alla progressiva definizione del misterioso Rick. lui sigaretta perennemente accesa, un calice di champagne e una scac­ chiera non sono soltanto indici di una personalità che presto si rivelerà lungo la spirale del racconto, ma anche attributi simbolici che ne con­ notano, rispettivamente, il nerbo e l’indole, l’eleganza altera e la pecu­ liarità di solitario stratega. Solo a quel punto la macchina da presa può

alzare la sua prospettiva e rivelare il volto di Bogart. Una regola fissa, ovviamente, non esisteva, l’unico imperativo era di sfruttare adeguatamente l’ingresso nella finzione del divo per «aggan­ ciare» il pubblico e condurlo aH’intemo del racconto con i mezzi più consoni per affascinarlo, compatibilmente, inoltre, con il genere a cui la pellicola doveva essere ascritta. In Vertigine (Laura, Otto Preminger, 1944:2Oth Century-Fox). si assisteva a una «presenza idealizzata», per­ ché GeneTiemey, che interpretava il ruolo della protagonista Inaura. la

ragazza che tutti ritengono moria assassinata, compare nella prima par­

te della pellicola soltanto attraverso un ritratto e nei flashback che ne raccontano la vicenda umana, e la sua effettiva presenza é procrastinala fino a creare un colpo di scena in funzione di una morte presunta che in realtà non é mai avvenuta. In Viale del tramonto (Sunset Boula'ard, Billy Wilder, 1950; Para­ mount), si osservava invece a una «rivelazione paradossale», perché la voce narrante del divo William Holden introduceva le prime immagini

del fìlm commentando impersonalmente il tumulto di ambulanze, poli­

II periodo classico

149

zia e giornalisti sopraggiunti sul bordo di una piscina sulla cui superfì­ cie giace riverso il cadavere di un uomo. Il carattere ambiguo della narrazione e la stravagante comparsa dell’attore si palesavano quando un’inquadratura da sotto il livello dell’acqua svelava che il corpo gal­ leggiante era dello stesso William Holden nei panni di Joe Gillis, uno scrittore di soggetti di scarso successo, a cui «piacevano tanto le piscine e ora ne aveva finalmente una per sé». Ne La conlessa scalza (The Barefoot Contessa, Joseph L. Mankiewi­ cz, 1954; Figaro/Transoceanic Film), si era in presenza di una «epifania frustrata»: come in Vertigine, la diva (Ava Gardner) era presente ini­ zialmente soltanto in effìgie, in un monumento funebre che la ritraeva scalza. Nello stesso cimitero in cui la stanno tumulando, dai ricordi

dell’altra star del film, Humphrey Bogart, si originava un flashback am­ bientato in un locale madrileno mal frequentato, in cui la donna era impegnata in una performance di danza sfrenata che catalizzava tutti gli sguardi bramanti dei presenti, lui diva era rigorosamente fuoricampo, la

sua visione veniva totalmente negata, mal’indiscutibilitàdel suo fasci­

no veniva resa attraverso la proliferazione di piani sugli esaltati spetta­ tori del locale, con le immagini sempre più ritmate e brevi man mano che si avvicinava il momento culminante del numero, con gli occhi degli astanti che convergevano tutti nel medesimo punto fuoricampo,

caricandolo di una tensione visiva ed emotiva particolare, coerente con la caratterizzazione di oggetto del desiderio del personaggio all’interno del film. Infine, per Lafuga (Dark Passale, Delmer Daves. 1947; War­ ner Bros.), si può parlare di «esibizione dilatata», visto che Humphrey Bogart, accusato ingiustamente di omicidio, evaso e convalescente da un intervento di chinirgia plastica che gli ha cambiato i connotati, rap­ presentava la fonte di una soggettiva quasi esclusiva che caratterizza la

prima ora di visionedel film, lui sua testa, bendala, si vedeva solo dopo una quarantina di minuti, mentre si sarebbe dovuto attendere oltre un’ora affinché il pubblico fosse gratificato dal vero volto del divo, fino a quel momento riconoscibile soltanto attraverso la sua voce, e atteso spasmodicamente per il nome stampato sulla locandina. In anni più recenti, al di fuori del periodo classico, in un momento di

profonda riflessionemetanarrativa. il divo sarebbe stato addirittura pre­ sentato attraverso il suo passato diegetico: in una sovrapposizione sin-

ISO

Storia e storie del cinema americano

golare tra attorce personaggio, in //pistolero (TheShootist, Don Sicgel, 1976), formai anziano J.B. Books, che sta sopraggiungendo a cavallo dalla profondità di campo, era presentato dalla voce narrante e da alcu­ ne sequenze spettacolari dei film western girati dalla star per eccellenza del genere, John Wayne, che di Booksera came e anima nel film.

6.1.3 Lo stile classico

Il cinema classico hollywoodiano non era solo contraddistinto dal siste­ ma degli Studios, dalla loro posizione dominante sul mercato, dalla di­ visione dei generi o dalla presenza delle star come fenomeno cataliz­ zante: il cinema classico era anche un tipo narrazione con determinate

occorrenze e una precisa estetica che nelle sue caratteristiche di traspa­ renza, continuità e invisibilità unificava i vari stili di ogni compagnia in

un linguaggio perfettamente chiaro ed evidente. Secondo David Bordwell (in Narration in the Fiction Film)i\ cinema hollywoodiano clas­ sico (che lo studioso comprende nel periodo tra il 1917e il 1960) sareb­ be stato regolato da cinque principi posti a base della sua narrazione. l>e storie raccontate erano basate tutte su personaggi psicologicamente de­

finiti pronti a compiere azioni orientate al conseguimento di specifici obiettivi. Nei personaggi si sarebbe originata una mancanza che in qualche modo doveva essere colmata. 1 tentativi per eliminare tale man­ canza rappresentavano gran parte dello sviluppo della storia, poiché gli stessi sforzi per raggiungere gli scopi prefissati ponevano i personaggi

di fronte a mutamenti del loro stato o li impegnavano a rimuovere gli ostacoli posti sul loro cammino. Le storie narrate a Hollywood erano poi fondate su specifici rapporti causali, in funzione dei quali gli elementi narrativi e figurativi venivano

disseminati nel racconto per acquisire necessario spessore e senso an­ che in momenti successivi della vicenda. Bordwell non escludeva la possibilità di verificarsi di «coincidenze» non legatea rapporti di causa ed effetto, soprattutto nei melodrammi, ma le considerava semplici ec­ cezioni rispetto alla norma (laddove, invece, altri studiosi, come Eliza­ beth Cowie in Storytelling: Classical Hollywood Cinema and Classical Narrative, considerarono (’eventualità casuale come una delle diverse

opportunità contemplate dalla narrazione classica).

Il periodo classico

151

Il terzo principio riguardava il limite di tempo, la deadline, ossia i termini entro i quali lo sviluppo del racconto sarebbe dovuto giungere al suo termine. Tale limite era relativo non solo alla storia nella sua globalità, ma anche a ogni singola sequenza del film (si pensi.ad esem­ pio, alla complessa costruzione della tensione, fatta di ostacoli e mo­

menti ritardanti, del lungo episodio dell’incendio di Atlanta di Via col vento, in cui Rhett deve far fuggire dalla città Rossella. Mammy e Me­

lania, che ha appena partorito, prima che le fiamme si propaghino al deposito di esplosivi). 11 quarto concerneva il cosiddetto double plot, la storia d’amore che s’inserisce nella vicenda principale e il cui scioglimento avveniva pa­ rallelamente. giacché la soluzione dell’ima risolveva anche i dilemmi

dell’altra. Assolutamente significativo appariva, a questo proposito, il breve scambio tra un poliziotto e il regista Sullivan/Joel McCrea, che si accompagnava alla bionda Veronica I-ake ne / dimenticati (Sullivan’s Travel, Preston Sturges. 1941; Paramount): «Che c’entra la ragazza in

questo pasticcio?»; «In tutti i pasticci c’è una ragazza. Siete mai stato al cinema?». Infine, la narrazione seguiva una struttura divisa in segmenti distinti e successivi: a una prima fase in cui si specificavano il tempo, i luoghi, i personaggi principali e le loro caratteristiche, seguiva una seconda in

cui si definivano gli obiettivi da raggiungere e si operavano i tentativi per soddisfarei propri scopi.prima dell’ultima parte nella quale tramite i rapporti di causa ed effetto si giungeva all’acquisizione dell’obiettivo e al soddisfacimento dello scopo. Dal punto di vista stilistico, il cinema americano, dopo una lenta evo­ luzione che lo portò dai primi esperimenti di messa in scena ad assume­ re una convenzione linguistica definita, valida in ogni contesto e in ogni

pellicola, fin dalla fine degli anni Dieci si ancorò a un sistema capace di veicolare lo spazio e il tempo del racconto in funzione della centralità del corpo dei personaggi rappresentati e dello svolgersi dell’azione nar­ rata dalla storia. lx> stile classico, infatti, rispondendo ai criteri di tra­ sparenza, continuità e invisibilità, ebbe come obiettivo la creazione di una perfetta neutralità dal punto di vista della messa in scena, in modo che lo sguardo della macchina da presa fingesse di assecondare il biso­

gno di visione dello spettatore. In realtà, obbligandoli pubblieoa preci­

152

Storia e storie del cinema americano

si percorsi dello sguardo generati dall’istanza narrante. Hollywood for­ ni sempre un’illusione, proponendo una serie di eventi supponendoli come reali, mentre la costruzione della messa in scena esibiva esclusi­

vamente l’impressione di una realtà effettiva, talmente trasparente da essere perfettamente intelligibile, continua perché unita nei suoi vari frammenti in un unico flusso omogeneo, invisibile perché impegnata a occultare qualunque traccia della produzione della storia. In funzione di queste premesse, ciò che il cinema classico propose al suo pubblico nel corso degli anni fu una narrazione delineata secondo principi basati sull’equilibrio compositivo e sulla facilità di trasmissione dei contenuti:

tendenzialmente, la regola fu di propone immagini centrate (il princi­ pio del centering, per cui il corpo del personaggio o l’oggetto inquadra­

to sono perfettamente visibili al centro del quadro) e di utilizzare i ri­ chiami rivolti al di fuori dello spazio visivo (il fuoricampo) per mezzo di una dialettica precisa che puntava a rivelare in tempi relativamente brevi ciò che in un primo momento risultava occultato allo sguardo dello spettatore (con varianti definibili in base ai meccanismi dei singo­

li generi: nel noire negli honor RKO, ad esempio, il fuoricampo insa­ turo diventò invece elemento espressivo privilegiato). lui scansione delle inquadrature in quella costruzione di unità di con­ tenuto che era la scena (o la sequenza, considerando l’unità più ampia) mostrava uno sviluppo che pur con alcune differenze tra un film e l’al­ tro appariva costante, funzionale alla lettura delle immagini e dei signi­ ficati che intendeva trasmettere: a un piano introduttivo (establishing shot) che si premurava di offrire le caratteristiche essenziali del luogo

di svolgimento dell’azione e i soggetti presenti in scena, seguiva poi l’azione frammentata in più inquadrature (break-down shots), che si

facevano sempre più ravvicinate e di durata più breve quanto più si avvicinava il climax del segmento. Tale frammentazione di piani, inol­ tre, utilizzava spesso la codificazione del campo e controcampo (shot­ reverse shot, vale a dire l’alternanza di inquadrature tra figure spesso

posizionate una di fronte all’altra) per rappresentare l’interazione tra due personaggi, spesso dialoganti tra loro. Ogni mutamento all’interno dello spazio allestito per la scena aveva bisogno di una nuova fissazione che riconfermasse al pubblico i riferi­ menti acquisiti all’inizio del segmento: se un personaggio modificava

Il periodo classico

153

decisamente la sua posizione o se la sequenza era particolarmente lun­ ga, un nuovo piano d'insieme (re-establishment shot) aveva il compito di ristabilire i parametri spaziali e i nessi tra personaggi all’intemo del

luogo della rappresentazione. In base allo stesso principio, per evitare che una mancanza di equili­

brio rappresentativo potesse spiazzare lo spettatore e ne minasse le cer­ tezze di leggibilità della scena, nel cinema classico vigeva lan^o/a dei IlìO0, prassi che prevedeva l’effettuazione delle riprese sempre dallo

stesso lato rispetto a un’immaginaria linea posta alle spalle dei perso­ naggi. in modo tale che ogni cambio di inquadratura collocasse le figu­

re sempre dalla stessa parte dell’immagine, scongiurando il ribaltamen­ to spiazzante chesi sarebbe avuto nell’ipotesidi uno scavalcamento di campo.

Il presupposto della linearità era poi garantito dal continuity system. volto a cancellare le tracce del montaggio traducendo la realtà referen­ ziale in una realtà rappresentativa che, benché frammentata attraverso la scomposizione delle varie inquadrature, appariva fluida, scorrevole,

perfettamente logica e continua. Questo era possibile grazie all’utilizzo del raccordo, una connessione tra inquadrature diverse che occultava la discontinuità grazie all’impulso a completare la visione stimolata nell’inquadratura precedente. Sguardi rivolti fuoricampo che rimanda­ vano a un susseguente oggetto o a una persona (raccordo di sguardo), movimenti di una certa intensità iniziati in un’inquadratura che si com­ pletavano nella successiva con una medesima intensità (raccordo di

movimento), battute di dialogo, rumori e musica che transitavano da un’inquadratura all’altra (raccordo sonoro), occhi rivolti in una data di­ rezione che parevano rivolgersi a quelli dell’immagine seguente (rac­

cordo di direzione di sguardi), erano solo alcuni degli esempi possibili in un regime di scrittura che aveva sempre privilegiato l’omogeneità degli elementi e la connessione traessi, infunzionedi una scorrevolez­ za finalizzala alla trasmissione il più evidente possibile dei contenuti e della storia narrata. Il grado di assunzione della realtà e la ricerca di spettacolarizzazione ebbero poi un rinnovato slancio con l’avvento del colore, un obiettivo a

cui il cinema aveva sempre guardato con interesse fin dalle origini, quando alcune pellicole venivano colorate attraverso varie tecniche.

154

Storia e storie del cinema americano

dalla colorazione manuale e certosina fotogramma per fotogramma all’imbibizione e al viraggio, che prevedevano l’assorbimento della to­ nalità di colore in tutta l’immagine. Negli anni Trenta, dopo il film Be­ cky Sharp (Rouben Mamoulian, 1935; Pioneer Pictures Corporation), si

diffuse il Technicolor in tricromia, che utilizzavano procedimento poco pratico e costoso sviluppato già dal 1917 da un ricercatore del MIT di Boston, Herbert Kalmus. che prevedeva l’applicazione di un filtro di un

colore primario differente (giallo, blu, rosso) su tre diversi negativi in bianco e nero che poi venivano sovrapposti, l-a tricromia giungeva dopo una serie di esperimenti iniziati dalla Technicolor con The GulfBetween

(Wray Bartlett Physioc, 1917)e proseguiti a I lollywood con The Toll of the Sea (Chester M. Franklin, 1922), sempre prodotto dalla Technico­

lor, primo fìlm a non aver bisogno di uno speciale proiettore. 11 colore, con un procedimento bicromatico, fu usato sporadicamente nel corso degli anni Venti, ebbe un particolare benché episodico successo con II pirata nero, mirabolante avventura sui mari con un Douglas Fairbanks furoreggiante, fu impiegato in produzioni di particolare pregio come È nata una stella (A Star is Bom, William Wellman, 1937; Selznick Inter­

national Pictures), Via col vento, Il mago di Oz (The Wizard ofOz, Vic­ tor Fleming, 1939; MGM/Ixiew’s). soprattutto da Selznick, Warner Bros, e MGM, per poi essere ripreso con maggior convinzione e conti­

nuità dagli anni Cinquanta in avanti, quando i minori costi e la maggior praticità del sistema liastman Color (seppur con colori meno squillanti) e la volontà dell’industria di competere con il nascente interesse del pubblico per la televisione ne giustificarono la stabile adozione.

CAPITOLO 7

Storia, società e violenza

7.1

Interesse sociale e gangsters

Come già accennato in precedenza, gli anni Trenta furono influenzati dall’onda lunga della Grande Depressione seguita al crollo di Wall Street del 29 ottobre 1929. Un'influenza che non si limitò ai problemi

produttivi o alberisi di incassi da partedegli esercenti, ma che si riflet­ té anche nella sensibilità dei temi trattati da una serie di titoli. Se è vero che poche pellicole si cimentarono direttamente con la rappresentazio­ ne effettiva del crollo, molte altre lasciarono intravedere più o meno

direttamente le conseguenze della crisi sulla società americana, talvolta attraverso brevi battutedi dialogo, piccoli riferimenti en passant, quasi sintomi di un malessere generalizzato, in altre occasioni mostrando apertamente il problema e soffermandosi sulle contraddizioni soffocan­ ti in atto nel Paese. Crollo e immediati effetti furono il punto di partenza di un melo­

dramma come Solo una notte (Only Yesterday, John M. Stahl. 1933; Universal), il quale, prima che delincasse la sua vicenda di seduzione e successivi abbandoni, illustrava un breveprologo ambientato nella Bor­ sa di New York il mattino del crollo. Un'inquadratura fissa mostrava la data del 29 ottobre, primache la macchina da presa si spostasse con un movimento fluido verso sinistra, nel centro delle contrattazioni della Borsa, rivelando un folto gruppo di persone in attesa di un annuncio, che però non era quello sperato. Un anziano investitore si allontanava

156

Storia e storie del cinema americano

catatonico, si sedeva con fare meccanico sulla sedia di un lustrascarpe nero per poi lasciargli una banconota di notevole taglio. Mentre l’in­ quadratura si soffermava sul gradito stupore del raggiante lustrascarpe,

un colpo provenientedalla toilette sanciva la fine della breve sofferenza dell’anziano investitore, lui rigida consequenzialità del drammatico

evento solo sei anni più tardi, ne / ruggenti anni Venti (The Roaring Twenties, Raoul Walsh. 1939; Warner Bros.), veniva illustrata con un segmento stilizzato e riassuntivo, un frammento di cinema d’avanguar­ dia. fatto da effetti speciali e sovrimpressioni (di Byron Haskin ed lidwin Du Par), un’allegoria di un universo in disfacimento (piramidi

che crollavano, banconote che ricadevano sulla gente in strada, palazzi di Wall Street chesi sgretolavano) che si poneva come snodo nell’in-

treccio per sancire la caduta in disgrazia de) protagonista, il gangster liddie Bartlett (James Cagney). lui maggior parte dei riferimenti era incidentale, quasi un accenno fugace per mostrare la realtà sociale al di fuori della sala senza inficiare la funzione di entertainment ricoperta dal cinema. I rimandi erano di­

screti, talvolta speranzosi, altri spettacolarizzati. In Signora per un giorno (Ladyfor a Day, Frank Capra. 1933; Columbia), la protagonista.

Apple Annie, umile venditrice di mele, rispondeva evocando al mendi­ cante privo di arti Smiley, che lamentava ricavi di pochi centesimi, il discorso del Presidente alla radio sulla crisi che aveva investito il Paese (la prima Fireside Chats - chiacchierata al caminetto - di Roosevelt è del 12 marzo 1933). Ne La danza delle luci (Gold Diggers of 1933, Mervyn lujRoy. 1933; Warner Bros.) la Grande Depressione era il con­ vitato di pietra: gli spettacoli di varietà venivano tutti chiusi per proble­ mi finanziari, mentre l’ultimo numero. «Remember My Forgotten

Man», che chiudeva il musical messo in scena e il film stesso (in quella particolare categoria di pellicole musicali che prendeva il nome di Backstage musical, fìlm che narrano dell’allestimento di uno spettaco­ lo). era un inno rivolto ai meno abbienti, all’homelessche raccoglie una cicca da terra all’inizio del numero, alla marciadei veterani della Prima guerra mondiale (avvenuta nel 1932 a Washington: i reduci chiedevano al governo soldi attesi da anni) e delle vittime della crisi che avanzava­

no diritte verso il proscenio e l’obiettivo della macchina da presa. In Nostro pane quotidiano di King VidOT. ideale seguito de La folla (i

Storia, società c violenza

157

protagonisti avevano gli stessi nomi, anche se interpretati da attori dif­ ferenti) la crisi era la spinta alla creazione di una cooperativa agricola gestita collettivamente, un esempio di socialismo ostacolato da elemen­ ti naturali (siccità), finanziari (speculazione) e intemi (alcuni contrasti tra i membri della cooperativa), un atto dovuto per immagini «Inspired by Headlines of Today», ispirato dall'attualità, che proponeva un'alter­ nativa collettiva alla disperazione della disoccupazione, in un'antino­

mia marcata tra la salvezza incarnata dalla campagna e la fredda e disu­ manizzante concitazione della città, da cui la crisi si era originata. In È arrivata la felicità (Mr. Deeds Goes to Town, Frank Capra.

1936: Columbia), Ixuigfellow Deeds (Gary Cooper) rappresentava l'uomo semplice, portatore dei candidi valori della provincia america­ na, che a contatto con la corruzione della città rischia di venir travolto, eppure resisteva con la forza dell'amore, delle sue idee e della sua inna­

ta generosità. Mr. Deeds ascoltava le motivazioni dei deboli, primi fra tutti i contadini vittime della Depressione, ai quali intendeva prestare, dopo aver ereditato un'ingente somma, quattro ettari per ogni famiglia,

un cavallo, una mucca e le sementi, con la promessa di cederglieli defi­ nitivamente nel caso fossero capaci di farli fruttare nei tre anni succes­

sivi. Una riforma agraria attuata dal basso (che causò pesanti interventi da parte della censura fascista quando il film usci in Italia). L'anima populista di Capra, il suo tentativo diprospettare una società alternativa che dal New Deal rooseveltiano prendesse mosse e ispirazione, si pale­ sava anche nella costruzione delle singole sequenze, non solo nell'ide­

ologia alla base della storia: quando Deeds stava stipulando febbril­ mente tulli i contratti di cessione con i contadini accorsi in massa, cede­ va all'insistenza del suo collaboratore e accettava di fare una pausa per

mangiare qualcosa. 11 fattore in procinto di firmare gli offriva un pani­ no, Deeds lo addentava di gusto, ma poi vedeva in soggettiva tutta la massa di contadini in attesa, con i volti severi e contratti. Solo a quel punto comprendeva come il suo panino dovesse diventare un oggetto di condivisione con tutti i contadini presenti, le cui espressioni, nella sog­ gettiva susseguente, apparivano finalmente sciolte e rilassate. Anche il presunto straccione de L'imparetmiahile Godfrey (My Man Godfrey, Gregory lui Cava, 1936; Universa!) aveva in progetto la co­

struzione di un locale à la page per offrire un lavoro ai diseredati che

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Storia e storie del cinema americano

occupavano una discarica in riva a un fiume, ai quali era eternamente grato per avergli ricordato quali fossero i veri drammi della vita nel momento in cui, su quello stesso greto del Hume, tempo prima, aveva

progettato di uccidersi per pene d’amore. Anche in questo caso, come per Deeds, il disegno di Godfrey era una proposta di organizzazione del lavoro nascente dal basso, per una sorta di democrazia di base che par­ tisse dall’iniziativa dei singoli cittadini virtuosi.

In Che bella vita (Easy Living Mitchell taisen, 1937; Paramount) la crisi assumeva le sembianze della farsa: John Ball jr. (Ray Milland), rampollo ribelle di un miliardario, nell’occasione cameriere in un risto­ rante, decideva di passare alcune portate alla squattrinata Mary Smith (Jean Arthur), ma urtando inavvertitamente una leva faceva impazzire i

distributori automatici di vivande che attiravano l’attenzione di tutti i poveri di passaggio lungo la strada, pronti a lanciarsi nel locale e fare il pieno di provviste gratuite, come se fosse un caotico paese di Bengodi. In altre pellicole, invece, la Depressione era soltanto una presenza estemporanea che mirava a puntualizzare il momento contestualizzando­

lo: in l'uria (l'ury. Fritz tang, 1936; MGM).Joe Wilson (Spencer Tra­ cy) leggeva con assuefatta noncuranza su quello stesso giornale che ave­

va in prima pagina il rapimento di cui sarebbe stato ingiustamente accu­ sato notizie di scioperi e disordini che stavano avvenendo in varie zone del paese, mentre in un altro momento del film, ne) barin cui si slava per organizzare sommariamente il linciaggio dello stesso Wilson, un uomo prendeva la parola affermando di essere in paese per organizzare un’ope­

ra di crumiraggio per un’azienda della zona. E ancora nel 1941. in Una pallottola perRoy (High Sierra, Raoul Walsh; Warner Bros.), il protago­ nista Roy Earle (I lumphrey Bogart), in visita ai luoghi della sua infanzia, era scambiato da un contadino timoroso per un emissario delle banche sopraggiunto per confiscare i terreni gravati dalle ipoteche. ta grande crisi aveva indubbiamente risvegliato l’interesse per i pro­ blemi sociali, troppospesso ignorali dal cinema hollywoodiano. Il cine­ ma americano si apri alla rappresentazione delle contraddizioni della società, alle difficoltà dei più indifesi, alla cieca indifferenza delle isti­ tuzioni, all’uso distorto della legalità e alle incongruenze di un destino

impietoso. Questa tendenza sociale, come accennato sopra, era incarna­

ta soprattutto dalla Warner Bros., forte del suo target di lavoratori urba­

Storia, società e violenza

159

ni e delle sue storie di impianto realistico. Io sono un evaso (/ am a Fugitive From a Chain Gang, Mervyn l^eRoy, 1932; Warner Bros.) rac­ contava di un reduce della Prima guerra mondiale, James Alien (Paul

Munì), arrestato perché coinvolto, suo malgrado, in una rapina in un ristorante, testimone della violenza spietata dei secondini ed evaso dal

carcere per tentare una seconda possibilità come costruttore edile. Rifat­ tosi una vita e una rispettabilità sociale attraverso la sua abilità e il su­ dore di notti insonni di studio, era però ricattato da una donna che sco­ priva la sua reale identità e lo costringeva a sposarsi, prima di denun­ ciarlo alla polizia. Un tacito patto tra il penitenziario e Allensul periodo

di detenzione era più volte eluso, fino a costringere nuovamente il mal­ capitato all’evasione, ma anche alla cancellazione della sua identità. Nell’ultima scena del film, Alien compariva dopo un anno, emergendo dal buio per far visita alla donna che amava, comese fosse un fantasma

condannato all’oblio. Iji risposta enfatica alla domanda su come vives­ se era «rubo!», mentre si allontanava definitivamente in un’inquadratu­

ra completamente nera. In violenza e la rigidità irrazionale di leggi e istituzioni furono argomenti trattati con particolare frequenza: in Sono innocente (Your Only Uve Once, Fritz l^ang, 1937; Walter Wanger Pro­ duction) la redenzione appariva impassibile, a causa dell’ostilità della società nei confronti di un giovane, Eddie Taylor (Henry Fonda), appe­

na rilasciato dal penitenziario, ma impossibilitato a rifarsi una vita per la maldisposta indifferenza del datore di lavoro, che lo licenziava per un banale ritardo. Accusato poi di una rapina che non aveva commesso, lìddie era costretto alla fuga con la moglie Joan (Sylvia Sidney) per in­ cappare in un destino beffardo che lo avrebbe costretto all’omicidio po­ co primache la legge si potesse rendere conto dell’innocenza del primo crimine attribuitogli. L’individuo era destinato a soccombere per il pre­

giudizio di una società crudele e impassibile, un’accusa in porte mitiga­ ta nel successivo Hanno fatto di me un criminale (They Made Me a Criminal, Busby Berkeley, 1939; Warner Bros.), in cui un pugile di

successo (Johnnie Bradfield, interpretato da John Garfield), accusato ingiustamente di omicidio e ritenuto morto, erascovatoda un detective mentre cercava di guadagnare su un ring i soldi che avrebbero garantito la sopravvivenza di una comunità di correzione per giovani problemati­

ci. Il lieto fine (il detective rilasciava il pugile, in virtù dell’eredità di

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Storia e storie del cinema americano

affetti mostrala nel la comunità, e anche per evitare un nuovo errore giu­ diziario già commesso in passato) attenuava tuttavia la claustrofebica sensazione di restringimento progressivo di spazi personali di cui rima­

neva vittima l’innocente Johnnie. llannofatto di me un criminale adom­ brava anche una gioventù violata, vittima anch’essa dei fondamenti di­

storti della società, un problema su cui si era soffermato un film del 1933, Wild Boys of the Road (William Wellman: First National), nel quale si affrontavano gli effetti della crisi su un gruppo di ragazzi, poco più che adolescenti, costretti dapprima al sacrificio (abbandono della scuola, vendita dell’amata automobile peraiutare le famigliein difficol­

tà) e poi al distacco alla ricerca di fortuna su treni merci pieni di vaga­ bondi in cui la tragedia era sempre in agguato (una ragazza era violen­ tata da un frenatore: uno dei due giovani protagonisti, liddie, perdeva un piede sotto una locomotiva). Anche in questo caso si sfiorava (’annichi­

limento, con i ragazzi, giunti al termine del viaggio a New York, co­ stretti a vivere in una discarica, in un ribaltamento totale delle speranze che li avrebbe condotti anche a rischiare l’arresto (solo a rischiarlo:

1* happy end fu voluto da Jack Warner, che spinse per evitare la condan­ na al riformatorio dei protagonisti prevista dall’anteprima).

Nel già citato l'uria. l’attenzione si spostò sull’etica della giustizia e sulle contraddizioni di un bisogno di legalità pronto a sconfinare fre­ quentemente nel giustizialismo. lumg, giunto negli Stati Uniti tre anni prima, nel 1933, perla sua prima opera americana, cui la MGM destinò una produzione low budget, utilizzò le convenzioni narrative e icono­ grafiche prima del poliziesco e, nella seconda parte, del film giudiziario per riflettere sulla morale della legittimità del giudizio, sul bisogno pa­ ranoico di individuare un colpevole e sul furore acefalo della massa. Una riflessione che si nutriva di particolari pregnanti e di esche, come il lapsus «mementum» in luogo del corretto «memento» (nella versione italiana: «souvenir») con cui Katherine (Sylvia Sidney) comprendeva che il suo fidanzato era vivo, che si fregiava di una sequenza di partico­

lare potenza espressiva (quella in cui la folla inferocita appiccava il fuoco alla prigione), sicuramente non lontana dalla vocazione espres­ sionistica del regista, suggerendo, tra le righe, un diretto capo d’accusa al pubblico insala, poiché il sopraggiungere della follapronta a chiede­

re la testa del povero Joe Wilson davanti alla prigione della cittadina era

Storia, società e violenza

16!

mostrato attraverso una soggettivazione dello sguardo della massa infe­ rocita restituito in fluida continuità. Non lontano dal filone sociale per gli assi contenutistici mossi e per le derive collettive illustrate era il gangster movie. che concentrava la sua attenzione sull’irresistibile ascesa e la successiva rovinosa caduta di

un malvivente nei difficili anni di crisi e del proibizionismo (il Volstead Act entrò in vigore nel 1919 e fu abolito ne) 1933). Piccolo Cesare (Little Caesar. Mervyn taRoy. 1931; First National), Nemico pubblico

(Public Enemy. William Wellman. 1931 ; Warner Bros.) e Scarface (id..

Howard Hawks. 1932;'Die Caddo Company) furono i prototipi di que­ sta tendenza già inaugurata con Zxr notti di Chicago di Von Sternberg quattro anni prima. Pur con alcune differenze, l’impianto strutturale era

pressoché identico e il sottobosco della criminalità urbana ritratto con vividi particolari. Piccolo Cesare mostrava 1’aspirazione, l’affiliazione (nella banda di Sam Vettori), la conquista del successo (diventa il capo della banda di Vettori) e la caduta rovinosa di un ambizioso criminale. Cesare «Rico» Blandello (lidward G. Robinson). Rico era tutto nel suo atteggiamento spaccone, arrogante, presuntuoso, indocile e nella sua frase ricorrente: «You can dish it out, but you got so you can’t take it no more» (tradotto con «Puoi continuare a darle, ma ormai non sai più incassare», con cui

si rivolgeva prima a Vettori poi ad Amie Ixnch. un altro boss che co­ stringeva a uscire di scena). Un concentrato di rabbia e volontà di arri­ vare. di bramosia di potenza e di costante volontà di sfida (il momento dell’incontro tra Rico e ilcapo Pete Montana, nell’ufficio di lx>rch. era risolto da taRoy con una soggettiva di Rico su Montana, scrutato dap­ prima in volto e poi. in dettaglio, sull’anello che gli conferiva il sopran­ nome di «Diamond» e la potenza del suo comando). Il double plot ec­

centrico. ma consueto nei film di gangster, riguardava l’amicizia con Joe Massaia, a sottintendere anche un’omosessualità latente da parte di Rico, che pur tradito dal suo amico rinunciava a ucciderlo una volta

arrivato alla resa dei conti. ta caduta di Rico sarebbe sconfinata nel patetico: prima faceva perdere le sue tracce, vivendone! bassifondi per mesi. poi. provocato ripetutamente sui giornali da Flaherty, il detective che gli dava la caccia, veniva ucciso da questi nei pressi di un grande cartellone pubblicitario su cui campeggiano Joe. ormai ballerino famo-

162

Storia e storie del cinema americano

so. e la sua partner che lo aveva spinto al tradimento di Rico. L'ultima frase del gangster. «Mother of Mercy! Is this the end of Rico?», era il riconoscimento implicito di un progetto di affermazione velleitario.

L'ambizione smisurata del gangster veniva pesata da una frase anche in Nemico pubblico'. «I ain't so tough». non sonocosl duro, diceva Tom Powers (James Cagney) prima di cadere ferito in terra, fuori da quegli uffici in cui era entrato per vendicare la morte dell'amico fraterno MatL

lx) scopo, ambiguo, era anche quello di non magnificare l'opera di tali personaggi, sebbene fossero individui romanticamente maledetti, figu­ re eccessive, nelle quali il titanico ribellismo si tingeva di poesia. Una didascalia iniziale della Warner si premurava di dichiarare la condanna del protagonista, introducendo la sua infanzia, illustrandone la forma­ zione e soffermandosi sull'ingresso nel mondo della malavita durante il proibizionismo nella Chicago degli anni Venti. Tom era personaggio

ambiguo, un delinquente sprezzante e aggressivo (celebre la scena in cui spreme un'arancia in faccia all'amante lagnosa)che aveva tuttavia

un rapporto di affetto e devozione con la madre (alla quale regalava

spesso i soldi dei suoi crimini) e una lealtà incondizionata nei confronti degli amici (schiaffeggiava l'amante di un suo sodale. Paddy Ryan, per­ ché aveva approfittato di lui mentre era ubriaco). Wellman, a differenza di quanto fatto da l^eRoy. tenne spesso la violenza fuoricampo, mo­ strandone soltanto gli effetti (la vendetta di Powers connota gang che aveva ucciso il suo amico Matt non era mostratadirettamente. poiché la macchina da presa rimaneva in strada a registrare soltanto i lampi e i rumori degli spari, attendendo che Tom uscisse e cadesse in terra feri­ to). non esimendosi tuttavia dall'illustrare il lato più sgradevole del pro­ tagonista (il già citato episodio dell'arancia oppure la birra sputata in

faccia al barista che non si era attenuto alle regole) e la sua raccapric­ ciante fine, con un'inquadratura dal basso che ne seguiva la traiettoria della caduta, fasciato e legato come una mummia. Morte del protagonista in campo e battuta che ne mitigava la statura

anche in Scarface, raffiche di mitra lo crivellavano uscito dal suo rifu­ gio circondato dalla polizia, mentre un'insegna campeggiavano beffar­ da. «The Future is yours».

Anche Tony Camonte (Paul Muni). personaggio ricalcato su Al Ca­ pone, era narrato secondo la consueta parabola di ascesa e caduta, ma il

Storia, società e violenza

163

fìlm di Hawks integrava lo studio di un criminale dalle manie morbose di possesso (uccideva Tuomo amato dalla sorella. Guino Rinaldo - Ge­ orge Rad, con la sua immancabile monetina danzante sul palmo della mano - ignorando che i due si erano regolarmente sposati) con notazio­ ni farsesche (Angelo, segretario di Tony, in perenne lotta con il telefo­

no) e con una precisa simbologia luministica (il motivo della croce, complice il direttore della fotografìa IjeeGarmes, che punteggiava tutto il racconto, fìn dal Piano-sequenza iniziale.per indicaree caratterizzare i luoghi in cui si consumava un crimine violento). Alcuni fìlm di gangster svilupparono nelle loro storie una sorta di parallelismo morale, in funzione del quale alla figura del criminale si affiancava un personaggio di specchiala virtù, spesso cresciuto insieme

con il protagonista e che non aveva intenti antagonistici (non era il po­ liziotto deputato alla sua cattura). 11 confronto diventava eminentemen­

te etico: le radici comuni, l’amicizia, la piega differente presa dalle due vite, il modello onesto vincente su quello corrotto, spesso punito, ben­ ché consapevole della sua condotta reprensibile. Il messaggio era anche ideologico: il destino differente a dispetto delle radici comuni, di solito in quartieri degradali, sottolineava la diversa indole dell’individuo che.

con la tenacia, gli studi, gli sforzi quotidiani, riusciva a riscattare la sua origine, in una versione ulteriore del sogno americano, fondato sulla

volontà del singolo. Se questo era appena un accenno in Nemico pubblico (il fratello di Tom Powers rifiuta i soldi dati alla madre e lo caccia in malo modo di casa), già nel 1934, in Manhattan Melodrama ( W.S. Van Dyke; MGM). un dramma e non un gangster movie, la stessa costruzione della storia era organizzata in parallelo: due adolescenti, il più grande Jim e il più

inquieto Blackie, rimanevano orfani durante l’incendio del traghetto Genera) Slocum, nel 1904. Allevati per un breve periodo dall’ebreo Poppa Rosen, che nell’incidente aveva perso un figlio, si ritrovavano soli alla sua morte, in seguilo a un tumulto causato dopo un comizio

comunista tenuto (addirittura) da Trotsky, lui loro crescita continuava separata, evidenziata da uno split-screen che illustrava, da un lato, l’abilità al giocodi Blackie(Clark Gable) e, dall’altro, i libri su cui Jim

(William Powell) si formava per diventare avvocato. Si rincontravano da adulti: Blackie con un giro di case da gioco clan­

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Storia e storie del cinema americano

destine, Jim procuratore mirante alla poltrona di governatore. Blackie uccideva due uomini e Jim era costretto a portarlo in tribunale e farlo condannarea morte.purconun colossale struggimento intimo. Il dilem* ma originava un melodramma dovuto ai precetti morali: la legge trava­ licava il valore dell’amicizia, il dovere aveva l’obbligo di andare oltre i

sentimenti, pur rimanendone profondamente segnato. Jim, in tribunale, al termine dell’arringa contro Blackie, gli faceva recapitare sul banco degli imputati un biglietto di scuse. L’apice drammatico si raggiungeva ovviamente nella scena dell’addio, in prigione, poco prima dell’esecu­ zione: la fotografìa di James Wong llowe era molto contrastata, l’ombra delle sbarre tagliava verticalmente la figura di Blackie, ma i primi piani che lo riguardavano lo mostravano sorridente, capace di incoraggiare Jim e il suo doloroso senso di colpa. Per una struttura parallelache di­ ventava un ossimoro visivo, un atto di morir lieto e vivace.

Se non proprio un modello, almeno un precedente. In Angeli con la faccia sporca (Angels with Dirty Faces, Michael Curtiz, 1938; Warner

Bros.). Rocky e Jerry erano amici fin dall’adolescenza nel diffìcile

quartiere di Hell’s Kitchen, a New York, illustrato con un movimento di macchina circolare introduttivo in tutta la sua festosa confusione di case accatastate, botteghe, panni stesi e gente per strada. Rocky era ar­ restato dopo un furto su un treno merci, ma si sacrificava e non faceva

il nome dell’amico. Quindici anni dopo, il recidivo Rocky (James Ca­ gney) tornava nel quartiere per farsi assegnare una zona da controllare dal suo losco avvocato Frazier (Humphrey Bogart), che gestiva parie

del racket cittadino. Jerry (Pat O’Brien) era nel frattempo diventato un prete, preoccupato della sorte dei ragazzi diffìcili del quariiere.sui qua­ li era invece forte l’influsso di una personalità come quella di Rocky.

Nonostante Jerry amasse sinceramente Rocky, rifiutava i soldi che que­ sti gli offriva per costruire un centro ricreativo peri ragazzi e promette­ va di rivelare pubblicamente le sue attività illecite per evitare che i ra­ gazzi lo assumessero come modello di riferimento. Una volta arrestato e condannato alla sedia elettrica, su esplicita richiesta di Jerry. Rocky, inizialmente contrario, fìngeva di essere terrorizzato e chiedeva pietà per la sua vita. Curtiz mostrava l’apparente pentimento attraverso le

ombre sul muro, mentre i presenti sul luogo dell’esecuzione guardava­ no sgomenti: in questo modo, il regista otteneva lo scopo manifesto di

Storia, società c violenza

165

rivelare un’evoluzione redenliva in Rocky e, contemporaneamente, sal­ vava la sagoma da duro del divo James Cagney, la cui grinta era solo nobilitata dalla generosa simulazione di finto tenore, allestita per dis­

suadere i ragazzi dal seguire il suo esempio. Anche / ruggenti anni Venti erano strutturati sul confronto tra due anime amiche seppur in contrasto, quella tenebrosa di liddie Bartlett (James Cagney) opposta all’indole onesta del suo avvocato Lloyd Ilari (Jeffrey Lynn), conosciu­ to in trincea durante la Prima guerra mondiale. liddie, dopo essere stato abbandonato da Lloyd, che aveva scopertoi suoi loschi traffici, e aver visto tramontare la sua speranza di salvezza quando la donna di cui era innamorato, senza essere ricambiato, lo lasciava persposarsicon Lloyd, non avrebbe esitato a sacrificare la sua stessa vita per difendere dal suo

ex complice George (Humphrey Bogart) l’amico di un tempo e la sua famiglia, ènnesimo tentativo del gangster movie di dotare di un risvol­

to umano personaggi neri e tormentati e tacitare, in questo modo, le eventuali critiche pubbliche sulla mitizzazione del crimine.

7.2

Plasmare la storia: il western

All’interno della divisione in generi, uno dei punti cardine dello Studio System, un genere, più di altri, fu protagonista di una precisa mitologia di riferimento e della creazione di quegli archetipi fondativi cui la storia degli Stati Uniti aveva ardentemente bisogno per la sua relativamente recente nascita. Il western, infatti, rappresentava nella sua etichetta rias­ suntiva sia una coordinata spaziale (i film ambientati neH’Ovest della

Frontiera) sia un determinato riferimento cronologico: le vicende narra­ te si col loca vano all’incirca in un periodo compreso Ira il I860 e il 1890,

quando era già iniziata l’avanzala inesorabile dei coloni verso il Pacifi­ co, l’uomo aveva appena razionalizzato l’enormità dello spazio co­ struendo eroicamente la ferrovia e l’epopea della conquista si stava tra­ sformando nella necessità di garantire la legge e l’ordine nelle nuove comunità in formazione, ancora predadi disordine e anarchia. Gli india­

ni erano poi un pericolo accessorio, un ostacolo sulla strada di un pro­ gresso che l’uomo bianco con la sua incessante e coraggiosa opera

166

Storia e storie del cinema americano

avrebbe comunque garantito, a dispetto di qualunquepericolo o impedi­ mento. listone raccontatene! western- che diventò termine distintivo soltanto nel corso degli anni Venti -derivavanoda modellidi letteratu­

ra popolare (i romanzi di autori come Owen Wister,Zane Gray.Thomas Dixon, Clarence Mulford) ed erano caratterizzate da una precisa icono­ grafìa di riferimento fatta di scenari vasti, maestosi e incontaminati, di un abbigliamento esclusivo e perfettamente identificabile nei suoi per­ sonaggi (il cappellone dalle falde larghe, gli stivali, gli speroni, il fazzo­ letto al collo), di oggetti e presenze la cui sola comparsa connota da sempre il genere (le armi da fuoco, simbolo deH’esplicitazionedel con­

flitto in atto, e i cavalli). Il paesaggio come punto di partenza, in una narrazione in cui il gigantismo ambientale era già in sé fondamentale simbolo della conquista dell’uomo sullo spazio. Il paesaggio forniva la dimensione dell’eroe, l’esaltazione della sua opera e l’immagineallego-

rica del suo destino, oltre a caratterizzarne la personalità malinconica e solitaria, esplicitata nella frequente conclusione che vedeva il protago­ nista della vicenda allontanarsi sul suo cavallo verso l’immensità

dell’orizzonte, quasi a ricollocarsi in quella vastità incomprimibile co­ me un elemento naturale. Alcuni western, tuttavia, preferivano l’ambientazione urbana, ossia il momento dell’edilocazione della nazione con la complicata applicazione della legalità su un tessuto ancora mag­

matico. fatto di figure losche e minacciose e connotato da principi di pura sopraffazione del più forte a danno del più debole. Anche in questo caso lo scenario diventava immediatamente percepibile.quasi codifica­ to nella sua teoria di fabbricati giustapposti lungo una strada principale - la Main Street, spesso spazio deputato allo svolgimento del duello fi­ nale - punteggiata di edifìci caratteristici (la banca, il saloon, il salone del barbiere, I’ufficio dello sceriffo con le anguste prigioni per l’esecu­

zione immediata della giustizia, l’albergo, prodromo di civiltà, e il gene­ ra/ store in cui si avverte un primo modello di mercato), diventati con il tempo vincolanti per la raffigurazione di un villaggio western. l>a resti­ tuzione per immagini di un’epoca passata con l’intenzione nostalgica di mitizzarla s’incentrava sulla figura di un eroe, moderno cavaliere la cui azione era epica perché volta a un’intenzione fondativa, attraverso cui filtrava un significato ideologico preciso: l’eroe divenne portatore di

un’etica legittimante, in virtù della quale la sua azione violenta era sem-

Storia, società e violenza

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pre giustificata in funzione dell'alto scopo da raggiungere, ossia raccor­ do supremo tra l’imponenza dell’universo naturale e la necessità dell'or­ dine sociale che ne traduceva i termini della conquista. Nel western hollywoodiano del periodo classico il Bene e il Male erano due emisferi separati e antitetici, l'azione sviluppata dall'eroe una sorta di percorso

obbligato e allegorico non privo degli inevitabili ostacoli (agguati, mi­ nacce, scontri impari, che rappresentano l'interesse da parte del pubbli­ co per lo svolgersi del racconto) per affermare la virtù (la giustizia e l'ordine) contro il vizio (il caos, l'arbitrio, l'anarchia). Il Bene di cui l'eroe era paladino unico prevaleva inevitabilmentesul Male per fissare

archetipicamente i precetti della futura affermazione sociale e democra­ tica della nazione. Attraverso l'eroe western (e i divi che interpretavano

tali eroi, John Wayne, Gary Cooper, Henry Fonda, e prima degli anni Trenta, William Surrey Hart, Tom Mix o Broncho Bill Anderson, su cui

il western costruì la sua specificità rispetto ad abbigliamento e accessori del cowboy),gli Stati Uniti amarono riconoscerei propri miti fondativi,

la Frontiera e il pionierismo, preamboli dello sviluppo della nazione e impianto metaforico di un paradiso terrestre ottenuto per privilegio e conquistato con coraggio e integrità. Il tentativo di ottimizzare lo spazio

conquistandolo, riducendola seivalicità dell'ambiente ma utilizzandone l'essenza per esaltare l'opera miglioratrice dell'eroe.si evidenziò anche in uno dei contrasti più avvincenti messi in scena, quello con gli indiani. L'indiano, fino almeno aglianni Cinquanta, quando alcune pellicole, ad esempio L’amante indiana (Broken Arrow. Delmer Daves, 1950; 20th Century-Fox) e II passo del diavolo (Devil’s Doorway. Anthony Mann, 1950; MGM) diedero l'impressione di presentare un punto di vista altro rispetto allo sguardo relativo e parziale, favorevole ai bianchi, impostato fino a quel momento, fu proposto come correlativo umano della wilderness da ricondurre con ogni mezzo alla razionalità wasp. Dopo gli esem­

pi fomiti da Griffith e Thomas Harper Ince (che in Mohawak Way o in The Heart ofSavage del primo e in The Heart of an Indian O in The In­ dian massacre ài Ince, tutti realizzati nel 1912, mostravano i nativi vit­

time talvolta innocenti dell'avanzata bianca), l'indiano negli anni tra il Trenta e il Quaranta si trasformò in una minaccia suggestiva e colorala, talvolta folcloristica, un ostacolo spesso violento, perfido, pericoloso, indomabile, che da un lato incarnava la complicazione narrativa e av-

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Storia e storie del cinema americano

venturosa del racconto epico in svolgimento davanti agli occhi avvinti del pubblico, dall’altro esaltava l’eroismo dei protagonisti chiamali da una sorta di destino manifesto a batterlo per garantire la conquista del territorio, preambolo alla successiva fondazione. lui mitologia fondativa abbandonerà il western dopo il secondo do­

poguerra. quando nell’inattaccabile statura epica dell’eroe farà irruzio­ ne la dimensione privata, la coscienza individuale conia sua morale, in

un drammatico confronto con l’aspetto collettivo della giustizia e del progresso. Al centro delle storie narrate si collocò l’eroe con il suo dis­ sidio e lo sviluppo psicologico che ne conseguiva, la cui importanza

sovrastò l’azione volta alla risoluzione dei problemi, pur sempre pre­ sente. ma quasi come sviluppo necessario di un equilibrio sociale tra­ scendente i bisogni individuali. Una drammatica crisi personale caratte­ rizzò. ad esempio, la mesta parabola del personaggio di Doc I lollyday

in Sfida infemalc(My Darling Clementine, John Ford, 1946; 2Oth Century-Fox), l’inconciliabilità tra disposizione individuale edovere segnò Mezzogiorno di fuoco (High Noon, Fred Zinnemann. 1952; Stanley

Kramer Productions) e Quel treno per Yuma (3:10 to Yuma, Delmer Daves, 1957; Columbia), mentre l’esclusione dell’eroe rispetto all’uni­

verso dell’epica fu il motivo fondante di pellicole comeSro/tor selvag­ gi (TheSearchers, John Ford, 1956; Warner BrosJC.V. Withney Pictu­ res) e L'uomo che uccise Liberty Valance (The Man Who Shot Liberty Valance, John Ford, 1962; Paramount/John Ford Productions), preludio alla rivoluzione crepuscolare del genere avvenuta tra la line degli anni

Sessanta e l’inizio degli anni Settanta. lui preoccupazione del western, sul piano linguistico, era ovviamente destinata a restituire ed esaltare l’immensità del paesaggio, stabilendo una profonda relazione tra la porzione di spazio inquadrato e la presen­ za del personaggio nell’inquadratura, in modo tale da suggerire un lega­ me dialettico tra il lirismo dello scenario e il drammatico dell’azione, la cui sintesi era l’epos che sostanziava il genere. Campi Lunghi e Campi

Medi che fornivano la misura dell’eroe nel contesto della sua azione oppure la portata allegorica dello spazio in funzione della personalità del protagonista e della sua evoluzione drammatica (ad esempio nei western di John Ford odi Anthony Mann), facevano s) che i piani più ristretti diventassero una specie di complemento in cui definire un’azio­

Storia, società e violenza

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ne nel dettaglio, i cui caratteri preliminari erano già stati fomiti dalla visione d’insieme. Il western, tuttavia, presentò fin dai primi anni della sua esistenza

meccanismi di messa in scena codificati dall’assidua ripetizione delle situazioni del racconto: movimenti di macchina particolari, montaggi fissi di inquadrature peculiari, configurazioni narrative determinate. Ad esempio l’attacco alla diligenza da parie degli indiani, descritto da lun­

ghi e coinvolgenti movimenti di macchina supportati dal camera car, il cui esempio più celebre fu quello di Ombre rosse (Stagecoach, John Ford, 1939; Walter Wanger Productions) oppure le panoramiche atte a rivelare la presenza indianadietro la sommità di una collina. Il momen­ to più fortemente caratterizzante era però quello del duello tra l’eroe e

l’antagonista, risolto comunemente, dalla fine degli anni Trenta in avanti (mentre, prima di questo periodo, spesso si privilegiava una co­

struzione in un’unica inquadratura in profondità, secondo una direttrice diagonale), con una rigida struttura tripartita, formata da tre inquadratu­

re secondo il principio del campo e controcampo. In base a questa tri-

partizione, dopo una preparazione fatta di inquadrature contrapposte che puntavano a determinare la tensione prima della risoluzione della contesa, l’apice si raggiungeva attraverso tre piani, appunto, nel primo dei quali si mostrava l’antagonista che estraeva la pistola per far fuoco, nel secondo l’eroe che estraeva l’arma e sparava prima che il suo rivale riuscisse a farlo e nel terzo la caduta dell’antagonista in terra, colpito a morte dalla perizia dell’eroe e dalla sua sorprendente velocità. L’esalta­ zione epica dell’eroe, grazie a questa configurazione, giungeva al suo degno compimento, ma il primo dei piani descritti, quello in cui l’anta­ gonista estraeva per primo l’arma per sparare, rappresentava una dop­

pia utilità: glorificava la velocità eia freddezza dell’eroe e nelegittima-

va l’omicidio del rivale mascherandolo da legittima difesa.

7.3

Non solo western: John Ford

Inquanto a longevità artistica (dal 1917 al 1966) e cospicuità della pro­ duzione (circa 140 titoli, compresi documentari, soprattutto durante il

170

Storia e storie dei cinema americano

secondo conflitto bellico, episodi di film collettivi e cortometraggi de­ gli esordi)John Ford fu uno dei grandi registi della Hollywood classi­ ca, un riferimento per gli amanti del western e non solo. Un luogo, il cinema di Ford, in cui si evidenziarono valori semplici, la lealtà dei rapporti interpersonali, la trasparenza delle relazioni sociali, il sapore

della tradizione americanaed europea (Ford era nato nel Maine, ma la sua origine era irlandese: il suo nome era Sean Aloysius O’ Feeney, che

anglicizzava l’irlandese O’Feama, oppure, secondo altre fonti, John Martin Feeney, nell’insolubilità di una versione univoca), li ancora, co­ me motivi fondanti (per la filmografia e per l’immagine della nazione cui si riferivano), laconquista della Frontiera, la violenzacome moda­ lità necessaria di superamento dei conflitti, un manicheismo proposto come scelta di campo storica, l’eroismo del singolo in qualità di exem­ plum per la collettività. Molivi fissi che solo a una lettura superficiale

potevano essere confusi con un rigido schematismo, a causa del quale il Male, inteso come caos primigenio (rispetto all’ideale della fondazione della nazione), veniva sempre punito, la legalità e l’onestà erano sem­

pre riaffermate, prescindendo da qualunque apparenza contraria (in Ombre rosse, ad esempio, Ringo/John Wayne avrebbe dimostrato la

sua estraneità rispetto al delitto di cui era accusato vendicandosi dei fratelli Plummer, i veri colpevoli), il coraggio era sempre motore

dell’azione e pretesto per l’affermazione finale, mentre una speranza evidente era sempre insita nelle conclusioni cariche di ottimismo. Mo­ tivi il cui immediato tratteggio diventava specchio di un profondo spi­ rito patriottico che traeva linfa vitale dalle origini stesse del paese, dai suoi valori, dal pragmatismo dei suoi interpreti storici e sociali. Perché Ford, come un ampio e ininterrotto affresco, percorsene! suoi film tutta

la storia americana, dal periodo precedente alla guerra di indipendenza (La più grande avventura [Drums Along the Mohawk, 1939; 20th Cen-

tury-Fox]) alla contemporaneità (/ tre della croce del sud [Donovan s Reef, 1963: John Ford Pictures/Paramount]). passando attraverso i grandi eventi che caratterizzarono e trasformarono il paese, come l’ap­ prendistato e l’affermazione di Lincoln (Alba di gloria [YoungMr. Lin­ coln, 1939; Cosmopolitan/20th Ccnlury-Fox]). la colonizzazione de) West, l’epica costruzione della ferrovia (Il cavallo d'acciaio [The Iron Horse, 1924; Fox)), la mesta fine comminata ai nativi americani (//

Storia, società e violenza

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grande sentiero [Cheyenne Autumn. 1964; Warner BrosJFord-Smilh

Productions]), la Grande Depressione (Furore [The Grapes of Wrath. 1940; 20lh Century-Fox]), la Prima (La pattuglia sperduta [77te Lost Patrol. 1934; RKO|) e la Seconda guerra mondiale (Isacrificati [They

Were Expendable. 1945; MGM/l.oew’s Incorporated], ma anche i do­

cumentari girati durante il conflitto). Un complesso e incessante rac­ conto in cui Tepica seguì un andamento parabolico, esaltante nella sua prima fase e crepuscolare nei film deir ultima parte della carriera. Il cavallo d'acciaio mostrava con il personaggio di Davy Brandon (Geor­ ge O’Brien) l’eroe che, costruendo la ferrovia, incideva sulla vastità della natura razionalizzando lo spazio e commendo il tempo, contri­ buendo all’inevitabile edificazione della nazione, mentre, trentadue an­

ni dopo, l’ultima inquadratura di Sentieri selvaggi relegava l’eroe, per­ sonaggio ormai tormentalo e contraddittorio, al di fuori del consorzio sociale, confinato in quel deserto che pareva averto partorito nella se­ quenza iniziale. Cosi come L'uomo che uccise Liberty Valance si sareb­

be trasformato in una riflessione sul valore mitopoietico della Storia e

in un alto d’accusa al ruolo indefettibile della violenza nella costruzione del paese; solo pochi anni prima che anche II grande sentiero rappre­ sentasse un mutamento di prospettiva deciso verso la causa degli india­ ni, solo accennata nel passato, attraverso il fiero discoisodel capo Co­ chise con cui. in// massacrodi Fort Apache (Fort Apache. 1948; ArgOsy Pictures), veniva accusato con veemenza lo sfruttamento perpetralo dall’uomo bianco. Un percorso costante anche nello stile e nei motivi

utilizzati, sarebbe bastato osservare la metafora della soglia, insieme elemento profilmico decisivo negli equilibri interni alla scena (e alla singola inquadratura) e assunto allegorico con cui indirizzare il signifi­

cato: il celebre piano che nel 1956 escludeva I’Ethan lìdwards/John Wayne di Sentieri selvaggi da un ricongiungimento domestico, lascian­ dolo all’esterno, oltre l’ingresso, in realtà era già presente come prete­ sto simbolico nel 1917 in Straight Shooting per segnalare il confine dialettico tra la definitiva salvezza del redento Cheyenne Harry (Harry Carcy) e la sua ancora possibile perdizione. Fondamentale nei western di Ford fu poi l’utilizzo del paesaggio,

segnatamente quella Monument Valley che diventò una sorta di mar­ chio di fabbrica perfettamente riconoscibile, oltre che uno scenario in

172

Storia e storie del cinema americano

grado di segnalare con estrema immediatezza i principi stessi dell’av­ ventura nel selvaggio West. Contenitore di situazioni drammatiche su­ scettibile di trasformarsi in autentico dispositivo significante, il paesag­ gio era considerato da Ford alla stregua di un personaggio, insieme ostacolo ed esaltazione dell’azione epica, covo di forze primordiali e

selvagge e titanica immagine della natura da conquistare, ma anche sti­ molo costante affinché il comportamento valoroso dell’eroe si espri­

messe convenientemente, conducendo al coronamento dell’obiettivo. Ford, tuttavia, non fu solo il regista di western. All’interno del suo cinema si affacciò anche un intento sociale, un’urgenza umana e demo­ cratica che oltrepassò la drammatizzazione dell’epopea americana e che pur nel western aveva avuto modo di evidenziarsi, come in I dannati e gli eroi (Sergeant Rutledge, I960; Warner BrosJFord Productions) in

cui si affrontava il pregiudizio contro gli afroamericani, mentre in Ca­ valcarono insieme (Two Rode Together, 1961; Columbia Pictures) Si soffermava sul reinserimento nella società dei bianchi rapiti dagli india­

ni. Furore portò sullo schermo il romanzo di John Steinbeck attenuan­ done i tratti più marcatamente ideologici e facendone un viaggio di ascendenza biblica rivolto verso gli aranceti della California alla ricerca

di una salvezza possibile dalla Depressione e dalla Dust Bowl, la serie di tempeste di sabbia che inaridirono un’ampia zona del Midwest verso la metà degli anni Trenta. Ford concentrò l’attenzione sulla migrazione di un nucleo familiare, i Joad, e sulle minacce alla loro stessa sopravviven­ za lungo la strada da essi percorsa, la Route 66, detta Mother Road, l’arteria che attraversava tutti gli Stati Uniti, da Chicago alle coste del Pacifico. In particolare, segui la progressiva presa di coscienza di Tom Joad (Henry Fonda), uscito da poco di prigione e ancora inconsapevole della grave crisi in cui era sprofondato il paese, tra conseguenze del crol­

lo di Wall Street, ipoteche incombenti imposte da banche fameliche e calamità naturali. Un percorso di lento annullamento delle aspirazioni e di crescente disillusione, in cui i valori tradizionali e i legami affettivi erano messi a repentaglio dal mutato clima sociale. Tema che caratteriz­ zò anche il successivo Com 'era verde la mia valle (Ilow Green Was My Valley, 1941; 20th Century-Fox), tratto dal romanzo di Richard Llewel­

lyn, con il Galles dei minatori a sostituire la California dei contadini. Attraverso un evidente messaggio di forte legame identitario tra l’indivi­

Storia, società e violenza

173

duo, la comunità in cui egli si riconosceva e il lavoro svolto, Ford rac­ contò, con la parabola nostalgica della famiglia Morgan, la lenta disgre­ gazione del nucleo come conseguenza della crisi della miniera. Tutto il film era organizzato sulla ripetizione dei rituali familiari (la consegna del denaro alla madre alla fine della giornata lavorativa, il momento del bagno nel cortile, la cena come momento di condivisione) e sulla dupli­ cità degli eventi (dapprima la morte del figlio maggiore dei Morgan,

tanto, tra le braccia del padre alfintemo del montacarichi, poi quella dello stesso padre tra le braccia del piccolo lluw, a sancire traumatica­ mente la fine dell’innocenza infantiledi quest’ultimo),in modo da origi­

nare un impietoso confronto tra una prospera situazione originaria e una malinconica deriva successiva, tutto ruotante intomo alla floridezza del­ la miniera e della comunità raccolta intorno ad essa, ta messa in scena sottolineava questa duplicitàantitelica attraverso un confronto dialettico tra il fluido movimento della massa di minatori ripresi al termine del turno e la loro granitica immobilità alla notizia della diminuzione dei

salari: un’immagine profonda contro un quadro denso, un’impressione

di scorrevole e soddisfatta scioltezza in contrapposizione a piani immo­ bili e compatti, effige simbolica di una stasi notevolmente radicala. Im­ magini sicuramentenon indifferenti al gusto epico sovielicoe particolar­ mente desiderose di misurarsi con un’esasperata profondità di campo

(dell’operatore Arthur C. Miller) in un momento in cui si celebrava la maestria di Gregg Toland per William Wyler e soprattutto per l’Orson Welles di Quarto potere. Com era verde la mia valle, coerentemente con il tono nostalgico per una ritualità domestica ormai scomparsa, non era poi indifferente all’elegia venata da un mood mèlo, come risultò evi­ dente da una delle più toccanti scene del cinema di Ford, nona caso se­

gnalata nella sua esemplarità anche da Martin Scorsese nel suo docu­ mentario fiume sul cinema americano Un secolo di cinema - Viaggio nel cinema americano di Martin Scorsese (A Personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies, 1995), quella del matrimonio della

figlia dei Morgan. Angharad (Maureen O’Hara), sposala al figlio del padrone della miniera e non all’uomo di cui era innamorata, il pastore Gruffydd (Walter Pidgeon). Una scena di amore frustrato, di traiettorie

tristi e di sguardi che non si incontravano: Angharad con il volto teso, senza rivolgere gli occhi al marito, che la stava attendendo con affettata

174

Storia e storie del cinema americano

galanteria, tì una festa ma, indicativamente, nessuno canta. Papà Mor­ gan invitava due compari a cantare e questi intonavano «Guide Me. O Thou Great Jehovah», inno che già aveva accompagnato il ritorno a casa dei minatori all’inizio del film. l>a ragazza scendeva dal sagrato della chiesa dando la mano al marito, seguita fedelmente dalla macchina da

presa, il vento scompigliava il velo sulla sua testa. Si sedeva in carrozza, lo sguardo fisso davanti a sé, solo un lieve accennoall’indietro. ma ave­

va quasi la parvenza di un riflesso. Dalla chiosasi materializzava nella profondità di campo Mister Gruffydd, comparendo dietro la sagoma di Angharad, partita con la carrozza e il marito, ta sagoma di Gruffydd era però isolata in un Campo luingo, consapevole della sua estrema rinun­ cia. Mestamente, abbassava la testa e rientrava in chiesa. Nessun artifi­

cio, nessuna forzatura melodrammatica. Solo un sapiente posizionamen­ to della macchina da presa, una direzione di attori meticolosa e movi­ menti studiati nei minimi dettagli. Una sobrietà che fu sempre la misura di uno stile unico, nella sua estrema semplicità.

7.4

L’inquietudine dalle ombre oblique: il noir

Una singola inquadratura potrebbe sicuramente essere più chiara e pe­ rentoria di quanto non sia un intento classificatorio. Una strada urbana di notte. Sull’asfalto minuscoli punti luminosi frutto di un’illuminazio­ ne lontana e umidi di una recente pioggia. Rare automobili di passag­ gio. Sullo sfondo insegne al neon di locali al cui intemo la gente pare intrappolata. Oppure: una stanza illuminata da più abat-jour. Figure con

giacche e cappelli, qualcuno con il trench. Ombre marcate alle pareti. Contrasti tra le varie fonti di luce, sagome dei personaggi stagliate sui

muri e un’atmosfera di pericolo incombente. Due inquadrature tipo che rispondono a criteri iconografici precisi e che da sole racchiudono un intero immaginario. Un immaginario che si materializzò all’inizio degli anni Quaranta, in concomitanza con i venti di guerra che spiravano già da un paio d’anni in liuropa e con la minaccia giapponese alle porte. Indubbiamente, il moir.come lo chiamarono i critici francesi negli anni successivi al secondo dopoguerra, prendendo spunto dalle copertine

Storia, società e violenza

175

della Sèrie Noire della Gallimard, incanalava! fantasmi di un’epoca di insicurezza e di inquietudine che si manifestavano in immagini il cui intento definitorio, seppur evidente, era difficilmente determinabile at­ traverso i parametri tradizionali. Gli storici, nel corso degli anni, usaro­ no parole differenti oltre a quella, sistematica e confortante, di genere:

serie (Borde e Chaumeton, Panorama du film noir américain, 19411953), stato d’animo (Schrader. Notes on FilmNoir),\in periodo, un’at­

mosfera (in Durgnat, Paint il Black: The Family TreeofFilm Noir), uno stile, un motivo, un canone, un fenomeno, una tonalità, un mood, uno spirito dei tempi, addirittura patterns of nonconformity, modelli non convenzionali (Bordwell. Staiger, Thompson, The Classical Hollywood Cinema,in cui si nega decisamente che si tratti di un genere). L’etichet­

ta tassonomica comparve in seguito, quando il bisogno di classificazio­ ne critica approfittò della presenza di un corpus rappresentativo di pel­

licole con inflessioni e aspetti paragonabili tra loro per operare una categorizzazione di comodo: negli anni Quaranta, quando queste pellicole furono realizzate, nessuno dei produttori, degli sceneggiatori, degli

stessi registi o dei direttori della fotografia, ma anche nessuno tra gli spettatori, era consapevole di realizzare -o vedere - un noir. Ciò che oggi si reputa comunemente come noir rappresentava uno spettro molto ampio compreso tra le definizioni di melodrama e thriller. Alcuni tratti

di questo grande insieme erano però comuni: storie di crimini illustrate da una fotografia deliberatamente chiaroscurata, aH’intemo di un’ambientazione urbana o di interni claustrofobici, nei quali i protagonisti maschili erano irrimediabilmente dei losers e in cui le donne erano por­ tatrici di un fascino mortifero capace di imbrigliare anche l’uomo più disincantato e piegarlo ai loro cinici e opportunistici voleri. Sulla scorta

di ciò che Hemingway aveva mostrato in letteratura, il protagonista era un perdente, disincantato, spesso non più giovane, duro nei modi e nei lineamenti, passivo negli atteggiamenti, ma pericolosamente curioso. Il contrario di un eroe, anche perché i confini tra bene e male erano più

sfumati, a volte persino impalpabili. Personaggi tormentati che s’incar­ navano di volta in volta nell’amareggiato cinismo di Humphrey Bogart, nella ruvidezza di John Garfield, nel volto vulnerabile di Dick Powell, nello sguardo sornione di Robert Mitchum, nei caratteri delicati di Alan

Ijidd. nell’inattesa remissività di Buri Ijmcaster o nella nevrotica esu­

176

Storia e storie del cinema americano

beranza di Richard Widmark: indimenticabile- e particolarmente irri­ tante - il sadismo con cui spinse da una rampa di scale la carrozzina di un'inerme disabile ne // bacio della morte (Kiss ofDeath, I lenry I lathaway, 1947; 20lh Century-Fox). Bogart, ne II mistero del falco (The Maltese Falcon, John Huston. 1941; Warner Bros.), assunto al posto di

un George Raft deciso a rifiutare per lo scarso appeal di un regista allo­ ra solo esordiente, diventò il prototipo del detective impegnato a distri­ carsi in atmosfere torbide. Il suo Sam Spade, nato dalla penna di Dashiell Hammett, era un investigatore freddo, spregiudicato, calcola­ tore, immediato nell'esecuzione, spielato nell'uso della battuta ironica

e grande seduttore (mostra estrema confidenza e scambia rudi effusioni con tutte le donne che incrocia: sintomatica la scena in cui pareva ab­ bracciare la vedova del suo socio - appena ucciso- per darle conforto, mentre il conseguente bacio rivelava il reale rapporto adulterino che li legava). Non vestiva ancora il trench, ma il cappotto, mentre giacca, cappello e sigaretta costantemente accesa in bocca diventarono una specie di icona del ruolo (e l'anno successivo anche dell'attore.quando

la giacca divenne più chiara, lo sguardo più malinconico e la sigaretta ancora più consumata dalla sofferenza del ricordo: il film era Casablan­ ca, nel quale Bogart, ancora una volta, fu scelto dopo il rifiuto di Raft).

Il trench fu indossato dagli epigoni, tra cui il Robert Mitchum de/x* catene della colpa (Out ofthe Past, Jacques Toumcur, 1947; RKO), SU

cui gravava tutto il peso di un passato colpevole che invano aveva cer­ cato di allontanare da sé tentando di rifarsi una vita. Vittima scarificale

di una donna magnetica (Jane Greer) e di un affarista dai loschi traffici (Kirk Douglas), per niente propenso a dimenticare il torto subito. Il passato che ritoma implacabilmente sovrastando l'illusione di un'esi­ stenza differente era uno dei motivi ricorrenti in questi racconti neri, i

cui personaggi si abbandonavano a un'arrendevole consapevolezza, convinti che il loro dibattersi, per quanto potesse essere dignitoso ed energico, sarebbe stato comunque vano. Aspetto che nella sua perfetta evidenza mostrò Buri tancaster nei panni dello «svedese» Ole Andreson, ne / xanRsters (The Killers, Robert Siodmak, 1946; Universal; ispirato al racconto l sicari di Hemingway), attendendo con rassegna­

zione nel buio della sua stanza, sdraiato sul letto, i due killer che lo

stanno cercando per ucciderlo.

Storia, società e violenza

177

Perché le atmosfere del noir erano sempre caratterizzate da un'in­ combenza palese, da un palpabile senso d'attesa che si sarebbe trasfor­ mato dapprima in minacciae poi indisfatta peri personaggi e a cui non

era certamente estraneo il frequente ricorso a una narrazione in fla­ shback. con la circolarità dell'intreccio a evidenziare, metanarrativamente, la fatalità dell'epilogo delineata Hn dall'inizio. Un destino proposto come elemento di trasformazione del racconto,

talvolta di principio di autentica forzatura delle logiche della narrazio­ ne. di chiusura rispetto alle speranze di un Tinaie felice, che nel noir, unica eccezione nella concezione entertainment hollywoodiano, non si veri ricava praticamente mai. In Un angelo è caduto (/'alien An­ gel. Otto Preminger, 1945; 20th Century-Fox), Dana Andrews scende­

va per caso nel paese di Walton, cacciato dal Greyhound su cui viaggia­ va perché privo dei soldi per giungere a San Francisco. Il suo viaggio, tuttavia, veniva perennemente procrastinato rino al punto di essere ac­ cusato di un omicidio che non aveva commesso. In Detour (idem, lidgarG. Ulmer, 1945; Producers Releasing Corporation), addirittura, il

destino veniva ammesso come motore esclusivo delle vicende umane dal protagonista Al Roberts (Tom Neal): «Nella vita, qualunque strada un uomo decida di percorrere, se il destino gli è contrario, lo aspetta al varco e gli fa cambiare direzione». Preludio a un viaggio metafisico condotto su strade che si dimostravano soffocanti illusioni di una sal­ vezza sempre meno possibile a mano a mano che la meta si avvicina. Luoghi che si susseguivano in un'indistinguibilità che si tramutava in

un incubo all’interno di se stessi e dei propri timori esistenziali. Un tragitto che abbandonava la connotazione caratteristica, fatta di locali fumosi e interni dalle superrici distorte.per abbracciare un ingannevole racconto open air. costruito su esterni fittizi (riprese in studio e illusio­ ne del movimento realizzata attraverso l'utilizzo della back projection) e una totale assenza di punti di riferimento, che conducevano Roberts a rimanere vittima di forze oscure, dannato in un luogo intermedio tra New York e lx>s Angeles, privo di identità, pura parvenza in movimen­ to perpetuo verso il nulla. Se il destino rappresentava un gioco oscuro di forze contro il quale i

protagonisti potevano opporsi soltanto relativamente, sul piano della rappresentazione, questo aspetto dava vita ad atmosfere sospese e dia-

178

Storia e storie del cinema americano

fane, spesso in diretta connessione con i principi del sogno e dell’allucinazione. Nonera un caso, infatti, che i film noir fossero notevolmente apprezzati dai surrealisti francesi per la loro ambiguità marcata e per la

tendenza a sovvertire norme e convenzioni spostando gli assi della lo* gica narrativa verso i confini dell’eventualità disorientante, fornendo agli snodi del racconto motivazioni talvolta nebulose. In Vertigine (Lauray Otto Preminger, 1944; 2Oth Century-Fox) pre­

dominava un’atmosfera onirica impostata fin dalla prima sequenza di un fìlm in cui s’intrecciano almeno tre livelli differenti di fecalizzazio­ ne, a partire da quella iniziale, inaugurata dalla voce narrante di Waldo Lydccker, giornalista e pigmalione della donna scomparsa. Inaura, di cui egli dava per certa la morte, lui voce narrante di Waldo non indiriz­ zava le immagini, ma ne era solo un aspetto e anche fuorviarne, poiché parlava della morte di Inaura ignorando (e lo spettatore con lui) che la

ragazza fosse viva. Il suo commento over rappresentava una verità par­ ziale, sintomatica di una prospettiva definita e fallace, forzata (cosi co­ me il punto di vista cieco con cui scorgeva, nella prima sequenza del

fìlm, il detective McPherson mentre questi si gingillava con un oggetto prezioso della sua collezione, situazione chea rigor di logica non avreb­ be dovuto vedere vista la sua posizione in una stanza da bagno conti­ gua). Un indizio di inattendibilità. Waldo era il tramite attraverso cui

McPherson (Dana Andrews) conosceva il passato di luiura (per mezzo di un flashback), ma poi McPherson avrebbe fecalizzato in prima per­ sona il racconto, giungendo a scoprire chela ragazza era ancora viva, eventualità che Waldo ignorava completamente. Una terza logica di fe­ calizzazione riguardava poi la stessa (.aura, la quale compiva azioni e prendeva accordi con altri personaggi all’insaputa di McPherson, so­ vrastando anche la logica cognitiva di quest’ultimo e allontanandosi sempre di più dalla chiave di accesso al fìlm fornita dalle parole d’esor­ dio di Waldo. Ottiche intrecciate che diventavano vicoli ciechi, false piste, sospensioni e successive rivelazioni: centro nevralgico di ogni

discorso e dell’indagine di McPherson sul suo presunto omicidio, pe­ rennemente evocata da un ritratto davanti al quale i personaggi si ab­ bandonavano allo sguardo affascinato e rapito. Inaura compariva im­

provvisamente davanti agli occhi ancora sognanti del detective,appiso ­ latosi su una poltrona, palesando la sua natura di creatura diafana, qua­

Storia, società e violenza

179

si di materializzazione dei desideri inconfessati di ognuno. Situazione che rammentava, perlomeno nelle dinamiche di rappresentazione, il fi* naie de La donna del ritratto (The Woman in the Window. Fritz tang. 1944: Christie Corporation/lntemational Pictures), nel quale il profes­ sore interpretato da lidward G. Robinson si risvegliava innocente nel suo confortevole club, ribaltando la tensione con cui. poco prima, aveva assunto un potente sedativo per sfuggire, disperato, all'accusa di assas­

sinio, all’occultamento del cadavere e alle pressioni di un ricattatore senza scrupoli, ma anche negando, con una scelta che procurò a tang non poche critiche, il destino ineluttabile di sconfìtta del personaggio che aveva contraddistinto il noir fino a quel momento, salvandolo con un sogno rivelatosi innocuo. ta logica di alterazione della realtà poteva assumere anche le carat­ teristiche meno suadenti dell’allucinazione, come nella sequenza de L’ombra del passato (Murder, My Sweet, lìdward Dmytryk, 1944;

RKO) in cui Philip Marlowe (Dick Powell), aggredito, perdeva i sensi e sprofondava in un incubo composto di porte da attraversare per sfug­ gire a un uomo incamice con una siringa pronta per l’uso,a cui sarebbe seguito uno stato di torpore dovuto al lento risveglio, sottolineato da

effetti in sovrimpressione che filtravano lo schermo, rendendolo opaco, come screziato da un immaginario fumo. Esempio di una tendenza hol­

lywoodiana degli anni Quaranta a trattare amnesie, shock, nevrosi, temi psicoanalitici e psichiatrici che avrebbe raggiunto uno dei punti più alti l’anno successivo nella sequenza onirica di lo ti salverò (Spellbound. Alfred Hitchcock. 1945; Selznick International Pictures/Van guard Films), progettata da Salvador Dall, e che nei film neri vedeva uno sbocco espressivo naturale, anche se non esclusivo, dato che gli stessi temi comparivano sporadicamente anche ingeneri apparentemente lon­

tani,come nelcasodel western Notte senzaJine (Pursued, Raoul Walsh. 1947; United States Pictures/Wamer Bros.), vicenda di dolorosi scavi ne) passato alla ricerca della causa scatenante di un trauma. Quest’atmosfera di costante inquietudine e incertezza era inoltre ri­ badita dall’impossibililà di ancorare con certezza alcune figure del rac­ conto e dall’adozione di una precisa estetica di riferimento che rendeva

l’inquadratura del noir perfettamente riconoscibile con un unico colpo d’occhio. Da un lato, infatti.se il protagonista maschile era un perdente.

180

Storia e storie del cinema americano

un individuo intrappolato nelle spire di un destino più grande di qualun­ que azione volta ad aggirarlo, la donna, che in altri generi rappresentava l’aspetto romantico della vicenda o un ausilio alla soluzione positiva della storia, nel noirsi trasformava in una presenza minacciosa e ambi­ gua che conduceva i personaggi lungo percorsi tortuosi senza via

d’uscita. I connotati di questa dark lady, vera e propria femme fatale. erano la grande sensualità con cui attraeva a sé e lo spietato calcolo con il quale obbligava ad agire le figure che rimanevano inevitabilmente invischiate nella sua rete di fascinazione. Se la Brigid O’Shaughnessy (Mary Astor) de // mistero del falco rappresentò il prototipo (l’ombra

triforcuta che le nascondeva il volto al momento dell’anesto era un autentico stigma della colpa commessa) e la cavigliera di Phyllis DietriChson (Barbara Stanwyck) de/xr fiamma del peccato {Double Indemni­ ty, Billy Wilder. 1944; Paramount) l’icona della fascinazione in atto,

probabilmente il momento in cui apparve maggiormente evidente il ter­ rificante connubio tra charme e cinismo muliebre fu l’intenso Primo Piano sulla stessa Phyllis alla guida di un’auto, mentre, fuoricampo, il

suo malcapitato complice Walter Neff (l;red MacMurray) strangolava il ricco marito. Il commento della voce narrante di Nell («niente nervi, niente lacrime, neanche un battilo di ciglio») era il degno commento a) volto algido e impassibile, addirittura inerte.della donna, segnato esclu­

sivamente dai coni di luce prodotti dai lampioni della strada. L’evidenza estetica aveva una matrice drammatica dichiarata: il noir aveva reso plastico il clima violento dei romanzi hard-boiled di Ray­ mond Chandler. Dashiell Hammett. James Cain e il nero delle opere di Jim Thompson, David Goodis e Cornell Woolrich, lo aveva prosciuga­ to dalla risolutezza e dalla tenacia, esaltandone la rassegnazione e lo

sconforto individuale, e lo aveva dotato di un’iconografia espressiva

tramite un sapiente utilizzo di tutte le combinazioni possibili del bianco e nero derivante dall’esperienza tedesca dell’espressionismo. Il codice dell’illuminazione aveva goduto di una congiuntura storica particolare, perché Hollywood si era avvantaggiata della presenza di registi (Otto Preminger, fritz l-ang, Robert Siodmak. lidgar G. Ulmer) e direttori della fotografìa (Karl Preund) immigrati dalla Germania in concomi­

tanza con i tempi grami che portarono all’avvento del Nazismo e che

furono particolarmente attivi, nella loro nuova e inconsueta veste di

Storia, società e violenza

18!

registi di film low budget, nella realizzazione di sceneggiature nere. Nel noir. rinfluenza dell ’espressionismo giunse attraverso il filtro dell’hor­ ror degli anni Trenta, inizio anni Quaranta, dalle oscurità minacciose e

rivelatrici dei film Universa! come Dracula. Frankenstein. La mummia (The Mummy.K.ai\ Freund, 1932), L'uomoinvisibile. L'uomo lupo (The WolfMan. George Waggner, 1941), ma soprattutto dalle ombre evoca­

tive della trilogia RKO firmata da Jacques Tourneur e dal produttore

Val l^ewton come 11 bacio della pantera (Cat People. 1942), Ho cam­ minato con uno zombie (I Walked with a zombie. 1943) e L'uomo leo­ pardo (The Leopard Man. 1942). lx> spazio scenico del noir era com­ pletamente scolpito dal contrasto tra bianco e nero, dai coni di ombra che si stagliavano con imponenza inquietante sulle pareti degli intemi,

ingigantiti da fonti di luce basse (in base a un principio denominato low key lighting) che ritagliavano porzioni di spazio, evidenziando sagome e occultando in un alone di mistero i contorni oscuri della suggestiva situazione in alto. Operatori come John Alton, John F. Seitz, Nicholas

Musuraca o Joseph IxrShelle definirono la geometria del genere con le loro lame orizzontali che ricordavano gabbie opprimenti, gli effetti di quadro nel quadro realizzati per mezzo di finestre, specchi o soglie de­ gli ingressi, l’adozione di prospettive oblique con l’intenzione di schiacciare i personaggi sul lo sfondo odi relegarli negli angoli bui del­ lo spazio inquadrato, e il ricorso alla profondità di campo per illudere su una percezione più ampia di luoghi comunque privi di sbocchi possibi­ li: un film misconosciuto come La spia (The Thief. Russell Rouse,

1952; Harry Popkin Produclions/Fran Productions) incarnava il limite estremo delle potenzialità espressive dovute alle atmosfere proprie del genere, poiché l’intero intreccio procedeva unicamente in base alle azioni dei personaggi immerse nella semioscurità, prive dell’ausilio dei

dialoghi, in una pellicola, di fatto, totalmente muta. Una sorta di imageries^ virava al nero gli ambienti soffici, lumino­ si ed edulcorati della scintillante Hollywood contemporanea, un incubo nato in seno agli Studios dopo un acuto sguardo in tralice alle inquietu­ dini materializzatesi nella società.

CAPITOLO 8

Pratiche dell’intrattenimento

8.1

«Let me Entertain you»: la commedia sofisticata

Probabilmente giustificare la notevole produzione di commedie nel cor­

so della seconda metà degli anni Trenta come un riflesso della Grande Depressione è soltanto una forzatura, un gioco di ipotesi possibili, visto che il genere comico, comesi è visto nel precedente capitolo, si era af­ fermato. nelle sue molteplici varianti, già durante il periodo del muto. Con il sonoro, la commedia potè utilizzare il dialogo come elemento

portante delle sue storie, facendolo diventare l’autentico motore del di­ scorso in luogo delle cadute, delle torte in faccia, di una certa violenza nella rappresentazione propria tette slapstick comedies. È tuttavia inne­ gabile che esistesse anche una volontà da porte dell’industria di fornire

un universo alternativo a un pubblico che per una sera poteva distrarsi dalle difficoltà sorte dopo la crisi. l-a commedia - insieme al musical -

rappresentava nell’ambito della produzione hollywoodiana l’apice tett'entertainment, la purezza di uno spettacolo che pur affondando la

sua tradizione nella classicità di Aristofane, Menandro - e poi Plauto. Terenzio, in seguito Shakespeare - si agganciava al presente allestendo una realtà spesso ambientata nell’aristocrazia, quasi a suggerire al pub­ blico che. seppur virati sul versante sentimentale, anche i ricchi avevano i loro problemi, mentre la loro stravaganza diventava un veicolo empa­ tia» con cui erodere le presunte distanze dalla classe media.

Come sostiene Stuart Kaminsky in Generi cinematografici omerica-

Pratiche dell 'intrattenimento

183

ni, i modelli predominanti erano inizialmente due. Il primo, affermatosi intorno agli anni Venti e poi proseguito nei decenni successivi con atto* ri quali Charlie Chaplin, lenirei & Hardy. Bob Hope. Danny Kaye o

Jerry l^ewis, era incentrato su un personaggio che lottava per inserirsi nella società, il cui ingresso era impedito per inadeguatezza personale e ostilità altrui. Il comico nasceva dal vano dibattersi del personaggio in questo sforzo.

Il secondo modello, che nacque con l’avvento del sonoro, era stato traccialo intomo al conflitto esistente tra uomo e donna, con quest’ultima emancipata e disinibita almeno quanto il primo, forte delle sue ap­ parenti certezze, si dimostrava impacciato e spesso incompleto dal pun­ to di vista emotivo. L’inizio di questa nuova stagione della commedia avvenne con XX secolo (Twentieth Century, Howard Hawks. 1934; Columbia) e Accad­ de una notte (It Happened One Night, Erank Capra. 1934; Columbia),

poco prima della metà del decennio, lui differenza tra i due film era

tutta negli sviluppi risolutivi dell’intreccio: il primo utilizzava il legame sentimentale tra un regista oppressivo di Broadway e la sua attrice di punta, da lui fatta diventare una star, per raccontare i loro dissapori, la loro separazione e il disperato tentativo di riconquistaria, strappandola al nuovo fidanzato e obbligandola con un ricatto morale (fingendo di

essere stato ferito a morte) a lavorare nuovamente con lui ed evitargli i fiaschi che dalla loro separazione aveva inanellato senza sosta. Accadde una notte aveva invece nel legame sentimentale il fine ultimo della sto­ ria. che giungeva dopo aver narralo rincontro fortuito su un bus di un’ereditiera viziata e di un cinico giornalista, i contrasti provocati dalle differenze caratteriali, di status e di genere, e l’inevitabile unione finale.

Si trattava dell’esordio della Screwball Comedy, la commedia dall’etimo incerto (letteralmente: «svitata», ma l’origine si faceva risa­ lire all’espressione gergale Screw loose, cioè impazzire, da cui il termi­ ne Screwy - ubriaco; mentre nel baseball il vocabolo Screwball indi­ cherebbe una palla sorprendente per il battitore), basala su una storia d’amore i cui divertenti contrasti erano fruito di una strampalata batta­ glia tra i sessi, ostacoli disseminati in un percorso accidentato che alla

fine conduceva inevitabilmente al lieto fine con l’unione tra i due pro­ tagonisti. Così com’era evidente nei due prototipi citali, una delle carat-

184

Storia e storie del cinema americano

(eristiche di questa tipologia di commedie era il dialogo frenetico tra i personaggi, fatto di battute spiazzanti, immediate, talvolta prive di sen­ so, spesso proposte con l’intenzione di disorientare lo spettatore, ma

anche di ribaltare situazioni apparentemente definite all’intemo del rac­ conto. Sul piano dello stile, il ritmo del racconto veniva fornito dalla

velocità dei dialoghi e dall'istrionismo degli attori, mentre la macchina da presa si poneva con modalità ancillare rispetto ai personaggi e alle loro dinamiche di interazione, privilegiando i piani fìssi, i movimenti funzionali allo spostamento delle figure sulla scena, le sottolineature con piani più ravvicinati sui momenti decisivi della conversazione. Il ritmo dialogico era spesso indiavolato, a tratti caotico, talvolta privo di pause fisiologiche che consentissero allo spettatore la risata, costrin­

gendo il pubblico a una costante attenzione il cui scopo era di non per­ dere nemmeno una battutadi quel vortice che pareva infinito, lui parola

si trasformava in azione: per questo motivo gli Studios cercarono di trasporre i successi di Broadway su grande schermo riadattandoli in

un'essenziale vestecinematografìca e chiamando alcuni commediogra­ fi di successo (Ben 1 lochi e Charles MacArthur, per esempio) a scrivere sceneggiature per il cinema. Fondamentali erano poi le modalità di di­

stribuzione dei vari personaggi all’intemo della scena e la loro relazio­ ne nello spazio, l'attesa definita fino al decimo di secondo di un ingres­ so in campo odi una risposta bruciante. In uno dei capolavori del genere. La signora del venerdì (Jlis Girl Friday, Howard Hawks, 1940; Columbia), all'interno della redazione

di un quotidiano, una donna, Hildy (Rosalind Russell), era mostrata intenta a scrivere speditamente a macchina un articolo sull'evasione di un condannato a morte, mentre Brace (Ralph Bellamy), il suo fidanza­

to. la implorava inutilmente di andare via con lui. Siccome la donna lo ignorava completamente, assorbita dal suo articolo. Ralph l'accusava di essere simile a Walter Bums (Cary Grant), direttore del giornale e suo ex marito, presente nella redazione e altrettanto impegnato a fornire

telefonicamente incalzanti istruzioni ai tipografi per cambiare in tempo la prima pagina del quotidiano prossima alla stampa. Ognuno dei per­ sonaggi in scena seguiva una linea verbaledifìerente, mentre Hildy bat­ teva nervosamente a macchina: due dialoghi che non interagivano (Ral­

ph e Walter), rivolti rispettivamente a un personaggio che non ascolta

Pratiche dell ’intrattenimento

185

(I lildy) o ad altri assenti dalla scena (i tipografi), e il rapido ticchettio della macchina da scrivere a fare da basso continuo tra essi. L'inquadra­ tura era fissa, rispettosa delle vorticose parole dei personaggi, lutti riu­ niti in un unico angusto piano. Questa sovrapposizione dei piani sonori, che forse ne La signora del venerdì raggiunse uno dei momenti di più alta definizione, fu indicata con il nome di Overlapping, una tecnica di accavallamento delle linee di dialogo - in cui Hawks eccelse - in virtù

della quale l'accumulo si faceva effervescenza e la contemporaneità discorsiva diventava ipertrofìa spiazzante, lui vivacità della scena era assunta totalmente dagli scatti brucianti del dialogo e dalla performance degli attori rispetto a qualunque scelta stilistica. Rispetto alla commedia del periodo del muto, che pur aveva un in­

treccio sentimentale come corredo alla vicenda principale, la screwball poneva al centro del racconto la storia d'amore tra due individui a prima vista inconciliabili, facendone il motore dello sviluppo e la sua appa­ gante conclusione. Alcune produzioni, all'inizio degli anni Quaranta,

cominciarono a essere ambientate in residenze lussuose e a mostrare figure che in breve diventarono caratteristiche de) genere: ereditiere an­ noiate e bizzose. ricchi scombinati, intrusi di classi inferiori che rischia­ vano di far saltare il precario equilibrio venutosi a creare (Jean Arthur in Che bella vita di Mitchell l^eisen o James Stewart in Scandalo a Fi­ ladelfia di George Cukor), e che rivelavano l’ipocrisia delle consuetu­

dini di classe, l'instabilità dei legami, una propensione alla triangolari dei rapporti, una certa goffaggine che nasceva dall'inadeguatezza di operare concretamente per raggiungere i propri scopi. Sulla base di questa ripetizione di motivi e figure ricorrenti, la commedia diventò Sophisticated, sofisticata, perché anche i ricchi piangevano, e questo

non poteva che generare soddisfazione nella grande massa di pubblico

che. ancora alle prese con gli strascichi della crisi, affollava le sale per avere accesso a un universo di cui aveva letto solo su alcune riviste più o meno patinate e scoprire cosi che, forse, pur con tutti i distinguo e le proporzioni possibili, il divario tra personaggi e individui reali non era cosi ampio. Se lo schermo-attraverso un disegno larvatamente ideolo­ gico - avvicinava l'aristocrazia all'uomo comune, all'interno del rac­ conto le differenze di genere tra il maschile e il femminile intensifica­

vano le loro già cospicue differenze.

186

Storia e storie del cinema americano

Al netto delle distinzioni, tutte queste commedie erano fondate su una relazione sentimentale che incontrava gradi differenti di complica­ zione lino all’inevitabile happy end. In un solo concetto riassuntivo,

erano Romantic Comedy, il luogo dove il principio del double plot caro alla costruzione classica del film hollywoodiano si trasformava in mo­ tivo principale e sostanza di tutta l’azione narrata, luì commedia roman­ tica seguiva una struttura rigida, la quale, pur con tutte le varianti ap­

prontate per fornire al pubblico l’illusione di vedere ogni volta una sto­ ria differente dalle altre, era divisa in tre alti dalle dinamiche definite. Il primo atto era quello del Boy Meets Girl, azione che attivava la vicenda con un incontro significativo e sempre causale (l’imponderabilità del destino) tra i protagonisti. Il primo incontro, tradizionalmente, fu quello tra Peter Wame (Clark Gable)e la stizzosa Ellie (Claudette Colbert) sul bus Miami-New York di Accadde una notte. Lui. dopo aver mandalo al diavolo il direttore del suo giornale da un telefono pubblico, saliva sul bus per partire. Mentre litigava con il controllore, annientandolo con la

sua vivacità dialettica, alle sue spalle passava Ellie, appena fuggita dal­

lo yacht del ricchissimo padre chele impediva di sposare l’uomo che amava. L’uomo, liberatosi del controllore, si dirigeva verso il posto che in precedenza aveva non senza sforzo conquistato, ma lo trovava occu­ palo da lidie. Sguardo stupito e stizzito dell’uomo rivolto alla figura femminile, mentre una musica commentavail decisivo momento: Peter era rimasto affascinato dalla ragazza, tuttavia, contemporaneamente, era indignato dall’aver perso il suo posto. Attrazione e conflitto al pri­ mo incontro: la battaglia dei sessi veniva storicamente inaugurata. Il secondo alto era quello della separazione, il Boy Loses Girl: l’al­ lontanamento poteva essere causato ancora una volta dal destino beffar­

do, oppure, compatibilmente con la battaglia tra i sessi che il genere

metteva in scena, dall’incomprensione tra i protagonisti. L’ultimo e de­ cisivo atto era quello riguardante il ricongiungimento definitivo, il Boy Gets Girl, finale felice in virtù del quale i protagonisti comprendevano la vacuità dei loro contrasti, oppure rimuovevano tutti gli ostacoli ma­ teriali che si erano frapposti alla loro relazione fino a quel momento per promettersi eterno amore. L'happy end, spesso, era l’occasione per re­ gisti e sceneggiatori di significare alludendo, aggirando con l’ingegno

espressivo gli impedimenti dovuti al codice Hays. Ne L orribile verità

Pratiche dell 'intrattenimento

187

(The Awful Truth, l>eo McCarey. 1937; Columbia) il ricongiungimento

Tinaie tra Clark Gable e Irene Dunne, già sposali e in procinto di colma­ re le incomprensioni che li avevano separati, avveniva in una casa di

campagna dopo una notte tesissima, con folate di vento che spalancava­ no ripetutamente la porta divisoria tra le loro due sobrie camere. Pochi istanti prima che scadessero i sessanta giorni che avrebbero reso il loro divorzio definitivo, i due decidevano di dormire insieme per far fronte

alla tremenda notte, scandita, nel suo beffardo countdown, da un orolo­ gio a cucù con due pupazzetti, un uomo e una donna, danzanti ognuno nella sua piccola nicchia. Invece di un bacio appassionato tra i due pro­

tagonisti. che più che vietato dal codice sarebbe stato ovvio, McCarey metaforizzava intenzione e approccio mostrando il pupazzetto dell’uomo entrare danzando nella nicchia della donna. L’aggiramento non era prerogativa esclusiva del finale, benché come

punto d’arrivo del racconto riscuotesse un’intensità espressiva maggio­ re: in Lady Èva {The Lady Eve, Preston Sturges, 1941; Paramount), la

falsa confessione del passato burrascoso di Jean (Barbara Stanwyck) sul treno chela stava accompagnando in viaggio di nozze, era privata dell’evidenza delle parole e sostituita da un montaggio parallelo che metteva in relazione il tumulto passionale delle peccaminose vicende millantate dalla donna e i piani sul treno sbuffante che dopo essere en­ tralo in galleria continuava la sua corsa impetuosa, cosi come impetuo­ so era il crescendo di sensazioni che s’instil lavano nell’animo di Char­ les (Henry Tonda), costringendolo a scendere dallo stesso treno. Il sale della Romantic Comedy era fornito dall’inevitabile confronto conflittuale tra i due sessi, cosi come spiegò, quasi didascalicamente, Howard Hawks per mezzo dello psichiatra Fritz l>ehman in Susanna! (Bringing Up Baby, Howard Hawks, 1938; RKO). «L’impulso amoro­

so negli uomini si esprime nei termini di conflitto».e. successivamente, in un dialogo di Ero uno sposo di guerra (/ Was a Male War Brigade, Howard Hawks. 1949; 20th Century-Fox), in cui Ann Sheridan, soldato

americano, chiedeva a Cary Grant, militare francese, perché non faces­ sero altroché litigare, riconoscendo il motivo nell’antagonismo di sesso e il significato in un’attrazione vicendevole che entrambi non avrebbe­ ro mai ammesso. Una divertente battaglia tra i sessi in cui alla fine

l’uomo risultava sconfitto. I-a donna della commedia era sempre un

188

Storia e storie del cinema americano

personaggio estremamente volitivo, emancipala, indomita e talmente indipendente da affascinare Tuomo, farlo innamorare di sé e plagiarlo senza che questi se ne rendesse mai completamente conto. Una figura

paradigmatica di uomo irretito e soggiogato, per non dire addirittura dominato, era quella del paleontologo goffo e svagato interpretato da Cary Grant in Susanna!, intrappolato in una spirale di situazioni equi­ voche e imbarazzanti daun bizzarra ereditiera (Katharine Hepburn) che

aveva deciso di sposarlo, infischiandosene del suo saldo fidanzamento. Un personaggio apripista di una lunga serie di epigoni di cui avrebbero fatto parte, nel corso degli anni, l’ofìologo Henry Fonda di Lady Èva. il serio uomo d’affari Humphrey Bogart (seppur con toni meno parados­ sali) e il più spensierato fratello William Holden di Sabrina (id., Billy

Wilder, 1954; Paramount), ma anche il playboy attempato Gary Cooper di Arianna (Lovein the Afternoon. Billy Wilder, 1957; Allied Artists), figure dotatedi cultura e accortezza, apparentemente attrezzate, ma ine­ vitabilmente disarmate di fronte al fascino e alle macchinazioni del

gentil sesso. Nella Romantic Comedy l’uomo metteva in mostra tutti i

suoi limiti caratteriali, l’insicurezza e la puerilità- più o meno dissimu­ late - di personaggio pronto a capitolare in una rete abilmente predispo­ sta dalla donna. Iji mancanza emotiva come motore principale allo svi­ luppo della storia.

Un filone peculiaredella commedia romantica fu quello denominato Comedy ofRemarriage. fondata sul l’iniziale separazione di due coniugi che progressivamente, eliminando tutti gli ostacoli che la nuova condi­ zione prevedeva, tra cui anche nuovi partner sempre inadeguati.grossolani e ben più incompleti, ritrovavano la passioneperduta, comprenden­ do gli errori passati e arricchendo il rinato rapportodi una nuova e più

consapevole intensità. \a Comedy ofRemarriage enun filone al passo con i tempi e rileggeva in termini in qualche modo conservativi la ten­ denza sempre più crescente delle coppie americane a separarsi dal pro­ prio coniuge. Ia differenza tra pellicole come L orribile verità. 1m si­ gnora del venerdì. Scandalo a Filadelfia (The Philadelphia Story. Ge­

orge Cukor, 1940; MGM)o Le mie due mogli (My Favorite Wife. Gar­ son Kanin, 1940; RKO) con le più tradizionali commedie sentimentali nasceva da una piccola variazione nella struttura, in virtù della quale il

primo atto, quello dell’incontro, in realtà si trasformava in una separa-

Pratiche dell ’intrattenimento

189

zione, spesso impetuosa, da cui poi ripartiva rintraccio fatto di nuovo incontro, conflitti, rimozione degli impedimenti e progressivo riavvici­ namento. Emblematica, a questo proposito, la breve scena iniziale di Scandalo a Filadelfia'. Dexter Haven (Cary Grant) usciva di casa con le

valigie. Tracy lx>rd (Katharine Hepburn) lo seguiva in vestaglia portan­

dogli le mazze da golf. Quella che poteva sembrare una scena di quoti­ diana serenità di una coppia costretta a dividersi per qualche tempo, si trasformava, improvvisamente, in lutl’altro: lei spezzava le mazze, fa­ ceva cadere il portapipecon le pipe (emblemi della mascolinità), e la musica, cambiando improvvisamente registro, segnalava inequivoca­

bilmente come quello che sembrava un arrivederci in realtà fosse un addio, tanto più che l’uomo sferrava alla donna anche uno schiaffo fa­

cendola ricadere dentro l’abitazione. Il significarne la proliferazione delle Comedy of Remarriage aveva­

no un utile risvolto sociale, affermando l’importanza del matrimonio e quasi la sua fatale ineluttabilità di fronte alle difficoltà che un rapporto di coppia indubbiamente comportava.

8.2

Breve nota su un’eversione: i «cartoon»

Insisteva una produzione parallela, inizialmente estranea alle Majors, caratterizzata da una realizzazione poco più che artigianale e specializ­

zata, almeno fino al 1937, quando usci sugli schermi il primo lungome­ traggio Disney, Biancaneve e i selle nani (Snow White and the Seven Dwarfs\ Wall Disney Productions), nella fattura di cortometraggi. Si trattava degli animated cartoon .teX cinema d’animazione, realizzato attraverso la tecnica del «passo uno», che prevedeva l’utilizzo della

macchina da presa come un apparecchio fotografico che impressionas­ se i disegni fotogramma per fotogramma, proiettandoli poi in succes­ sione. fornendo l’illusione de) movimento in perfetta continuità. Prima che il disegno animato diventasse un fenomeno di sistematica attrazio­ ne, per la sua capacità di catalizzare l’attenzione degli spettatori in atte­ sa della proiezione del long feature con i suoi canonici sette minuti di durata, e in seguito di successo, approdando con Walt Disney alla di­

190

Storia e storie dei cinema americano

gnità del grande titolo sul cartellone della serata, il cartoon conobbe fasi pionieristiche che rinviano alla figura di Winsor McCay, autore di Little Nemo(\-

ew’s/MGM/RKO Pathé Studios Inc.). 11 tutto con grande levità e ironia. Ma è nel ’33 che tutto prese Torma. In concomitanza con l’avvento della presidenza Roosevelt. Da un lato il musical Warner. Dall’altro

quello RKO. La danza delle luci e Quarantaduesimastrada(42ndStre­ et, Lloyd Bacon, 1933) contro Carioca (Fly Down to Rio, Thomton

Freeland, 1933), in cui comparirono perla prima volta insieme Fred Astaire e Ginger Rogers, tra l’altro interprete - defilata - anche nelle due pellicole della casa concorrente. Dopo l’esordio della coppia segui­

rono, vorticosamente. Cerco il mio amore (The Gay Divorcee. Mark Sandrich, 1934), Cappello a cilindro (Top Hat, Mark Sandrich, 1935), Seguendo la flotta (Follow the Fleet, Mark Sandrich, 1936), Follie d’invemo (Swing Time, George Stevens, 1936), Voglio danzar con te

(Shall We Dance, Mark Sandrich, 1937) e Girandola (Carefree. Mark

Sandrich, 1938). II hackstage musical, impostato sulla preparazione di

uno spettacolo, a confronto con sofisticate commedie degli equivoci.

I j crudezza di una situazione sociale difficile rapportata a un universo ideale in cui contava solo l’armonia del ballo e dell’amore. Il realismo proletario dei numeri musicali contro l’affettata eleganza coreutica. L’ottimismo della speranza e della perseveranza (la cui parola d’ordine è The Show Must Go Ori) contro un ottimismo senza tempo, che aveva messo tra parentesi i problemi della Depressione. I^i verosimiglianza

della rappresentazione comparata con un’atmosTera sospesa, di eterna seduzione.

Pratiche dell 'intrattenimento

197

Una dicotomia che lanciava un genere e ne esauriva tutte le possibi­ lità. Con ampie zone di sovrapposizione, grazie alle coreografie di Bu­ sby Berkeley. Dove il numero - anche se inserito nel contesto pragma­

tico e urbano del musical Warner - si faceva movimento ipnotico, pic­ cola meraviglia concentrica, ruotante e scintillante di ritmo ed euforia, lui visione superava la prospettiva teatrale e diventava totalizzante, on­ nipotente. ideale. Coglieva il movimento dall'alto e ne mostrava la stu­

pefacente fioritura plastica, la dinamica rotatoria che pareva isolarsi in un insieme perfetto e conchiuso. Il centro ideale di un universo la cui geometria esemplare sembrava escludere crisi, disoccupazione, preoc­ cupazioni di quel mondo rimasto fuori dalla sala.

CAPITOLO 9

In attesa della guerra

9.1

La democrazia dello spirito: Frank Capra

Frank Capra, più di altri registi interessati ai contenuti sociali, cercò di proporre nei suoi fìlm un modello ideale di società americanate pren­ desse le mosse dall’entusiasmo originato dal New Deal rooseveltiano

per sostenere una sorta di aristocrazia della purezza fondata sull’ameri­ cano medio. Quest’aspetto fu particolarmente evidente lungo un decennio nel quale, seppur con tonalità differenti. Capra realizzò una serie di fìlm di grande successo, paragonabili per peculiarità dei protagonisti, per il ruolo svolto dalla massa degli individui di contomo, per le funzioni dei vari personaggi e per la struttura adottata dalla storia narrata. Dal I936 al 1946, da È arrivata lafelicità a La vita è meravigliosa, pur con alcu­ ne differenze sostanziali. Capra narrò un universo riconoscibile i cui

prodromi erano già presenti nei suoi fìlm precedenti (e i cui riflessi sa­

rebbero stati ravvisabili anche nei fìlm seguenti), fondato su elementi fìssi del racconto e sviluppi volti a magnificare un’America dai principi sani e autentici, in contrapposizione a una corruzione di valori dilagan­ te e snaturante, originatasi tra le macerie della Grande Depressione. lz) schema tipo era fondato su un individuo semplice, spesso prove­ niente dalla provincia americana, locusanumus, secondo Capra, in cui la spontaneità della vita quotidiana incideva sull’indole bonaria e genu­ ina dei suoi abitanti. Il protagonista, che allo sguardo degli scafati resi­

In attesa della guerra

199

denti della città appariva una sorta di innocuo pazzerello («pixilated», come sostenevano quasi programmaticamente in tribunale le sorelle Faulkner parlando di Ixmgfellow Deeds, il protagonista di È arrivata la felicità), inadatto alla giungla di torbidi interessi incrociati e ipocrisia

dilagante che pareva essersi impossessata dei luoghi di potere, era sem­ pre un personaggio di sentimenti puri, idealista e ingenuo che si trovava a dover compiere un cammino personaleper riuscire ad affermare i suoi valori su quelli, aggressivi e spietati, del mondo che lo circonda. Ixrngfellow Deeds (Ariosto, nella versione italiana; Gary Cooper), in È arri­ vata la felicità (Mr. Deeds goes to Town, 1936; Columbia), era un poe­

ta eccentrico che nel suopaesotto. Mandrake Falls, scriveva poesie sul retro delle cartoline e suonava il bassotuba perconcentrarsi. A seguito della morte per un incidente stradale di uno zio mai conosciuto, eredi­ tava la stravolgente cifra di 20 milioni di dollari. Gli esecutori testa­

mentari, con a capo l’avvocato John Cedar, palesavano l’intenzione di sfruttare l’eccentricità di Deeds per impadronirsi del denaro ammini­

strandolo, ma Deeds, nonostante le sue manie, dimostrava di seguire

una logica ferrea, evitando di elargire denaro con la facilità sperata dai suoi poco fedeli collaboratori (ad esempio, come presidente dell’asso­ ciazione operistica, rifiutava di appianare il disavanzo di 180.000 dolla­ ri, perché convinto che tale passivo fosse opera di spettacoli che non incontravano il favore del pubblico). Jefferson Smith (James Stewart), il protagonista di Mr. Smith va a Washington (Mr. Smith Goes to Washington, 1939; Columbia), era un altro uomo medio che giungeva nella tana dei leoni, questa volta il se­ nato degli Stati Uniti, armato della sola forza della sua integrità. Inge­ nuo, un autentico fanciullo cresciuto, particolarmente legato alla mam­ ma (prometteva della marmellata di fragole alla sua preziosa assistente

Saunders per la sua dedizione). Un fantoccio che diventava bersaglio facile per i giornalisti (che lo deridevano pubblicando le foto delle sue imitazioni degli animali) e di cui la politica avrebbe inteso servirsi per

mascherare con una blanda opposizione i propri traffici e l’ingerenza del mondo degli affari. Long John Willoughby (Gary Cooper), ex giocatore della lega di ba­ seball provinciale, era una vittima della Depressione trasformato in va­

gabondo, che accettava di impersonare il ruolo inesistente di John Doe,

200

Storia e storie del cinema americano

personaggio fittizio creato dalla giornalista Ann Mitchell (Barbara Stanwyck) in Arriva John Doe (Meets John Doc, 1941; Frank Capra Productions) con lo scopo di dare un volto e un nome alla protesta con­

tro la dilagante corruzione della civiltà. John Doe. pseudonimo dell’uo­ mo comune,propugnava la filosofia dell’amore verso il prossimo come panacea della società, ma il suo discorso, che attraeva gli uomini comu­ ni di tutti gli Stati Uniti al punto da riunirsi in club con il nome del loro

ispiratore, era strumentalizzato da un magnate dell’editoria che intende­ va utilizzare Doe e la sua presa sui cittadini per formare un terzo partito con cui conquistare il potere assoluto nel Paese. E anche il George Bailey (James Stewart) di La vita è meravigliosa (It's a Wonderful Life, 1946; Liberty Films) era un brav’uomo che con la forza della sua ignara umanità riusciva a dare un volto umano alla cittadina in cui era cresciuto. Bedford, altrimenti preda delle mire spe­ culative del riccoe spietato Henry F. Potter (Lionel Barrymore). Capra proponeva con questi film un autentico mito sociale, quello della ristretta comunità di provincia, ideale quadretto suburbano fatto di

piccole case dall’aria uniforme e confortevole, e abitato da famiglie sorridenti prive di contrasti al loro intemo e dai cordiali rapporti con gli altri membri della comunità. Una comunità i cui leader erano i giova­ notti sani, ingenui, onesti, gli unici detentori di un diritto morale che i polenti che li governano sembravano aver irrimediabilmente smarrito. Questi apparivano protervi, senza scrupoli: se prima del 1936 i nababbi di Capra mostravano un lato umano dietro la loro apparente indifferen­

za (in Accadde una notte, del ’34, il padre della capricciosa ereditiera Ellie le concedeva infine di sposarsi con lo spiantato giornalista Peter Wame aiutandola a fuggire poco prima delle nozze con un altro uomo che non amava;

Signora per un giorno, del ’33, il sindaco e il gover­

natore di New York, con la loro generosa comparsala alla fittizia festa di addio al conte Romero, legittimavano la messa inscena organizzata dai gangster dal cuore d’oro per la povera Apple Annie), successiva­ mente rappresentarono l’ostacolo alla rettitudine dell’esistenza, l’im­ magine più evidente di una deriva etica cui l’uomo medio, con la sua semplicità di valori, doveva opporsi proponendo il suo personale sogno

per un mondo migliore (per Izmgfellow Deeds donare quattro ettari ad ogni famiglia di contadini incentivandola a farli fruttare, per Jefferson

In attesa della guerra

201

Smith presentare un disegno di legge per far gestire dai boy-scout una zona preda di interessi economici). Gli antagonisti dell’uomo medio, in Capra, erano vecchi squali della finanza e della speculazione, fantasmi

postumi dei responsabili del crollo di Wall Street che operavano con arroganza e attraverso protervi tentativi di manipolazione dell’ingenuo

protagonista (l’uomo d’afTari Jim Taylor [Edward Arnold [di Mr. Smith va a Washington, sotto il cui scacco si trovavano i politici, senatori e governatore, o l’Henry F. Potter de La vita è meravigliosa, perennemente pronto a impossessarsi di tutta la città di Bedford). Oppure poli­ tici corrotti che avevano smarrito i principi del loro mandato (il senato­

re Paine de La vita è meravigliosa, il cui pentimento tardivo arrivava fino al tentativo di suicidio), mentre altri si preparavano a far sprofon­ dare in una deriva dittatoriale l’intero paese (il colosso editoriale D. B. Norton di Arriva John Doe, ancora interpretato da Edward Arnold). Oltre ai potenti che determinano le sorti della società. Capra vedeva come avversari dell’etica sociale prospettata dall’uomo comune lutti

coloro che avevano abbandonato la semplicità e l’autenticità, per sosti­ tuirle con l’artificio e la maniera. Un’avversione che includeva sia i poeti che in È arrivata la felicità prendono di mira i versi rozzi e ap­ prossimativi di IxHigfellow Deeds, sia i giornalisti che a più riprese mettono in ridicolo condotta e gesti eccentrici dei protagonisti.

Capra auspicava una sorta di repubblica ideale, alla quale fosse am­ messo chiunque decidesse di vivere rincorrendo solamente la felicità. Sua e di tutta la collettività. Se le comunità illustrate dal regista presen­

tavano la solidarietà con il prossimo come presupposto per la creazione di un mondo d’eccellenza fondato sui buoni sentimenti, sulla cordialità e sull’onestà, la famiglia Vanderhof de L’eterna illusione ( You Can’t Take it With You, 1938; Columbia/Bavaria Film) rappresentava una sorta di

compendio di tale principio. I Vanderhof vivevano in una residenza iso­ lata anche concettualmente dal resto del mondo dedito allo sfruttamento, poiché il capo famiglia. Martin (IJonel Barrymore), rifiutava ostinatamente di venderla, impedendo cosi che si costruisse sulle sue fondamen­ ta una fabbrica d’armi. I Vanderhof conducevano la loro esistenza quoti­ diana in piena anarchia, ognuno alla ricerca dell’occupazione che lo ren­ desse maggiormente felice, senza preoccuparsi minimamente di nessuna

forma di guadagno e non pagando le tasse, perché contraria come il go-

202

Storia e storie de! cinema americano

verno impiegava i soldi, ta figlia di Martin, Penny, ad esempio, trascor­ reva tutto il tempo a scrivere drammi da quando, per puro caso, giunse in casa una macchina per scrivere. Alcuni si dedicavano alla costruzione di

giocattoli e maschere (il vecchio Poppins, ex impiegato statale, stanco del suo lavoro e approdato in seno alla famiglia), altri alla fabbricazione

di fuochi d’artificio, altri ancora erano impegnati a ballare continuamen­ te su musiche suonale da uno xilofono seguendo i dettami di un impro­ babile coreografo russo, perennemente preda di appetiti culinari. L eterna illusione mostrava anche un’altra costante narrativade) cine­ ma di Frank Capra: l’istituzione complice. Citati in giudizio per disturbo

della quiete pubblica perché durante una perquisizione della polizia era­ no esplosi nello scantinato i fuochi d’artificio, l’eccentricità dei Van-

derhof si guadagnava le simpatie del giudice, cheli condannava soltanto a una multa simbolica. Cosi come, allo stesso modo, in Mr. Smith va a Washington il presidente del senato Henry (Hany Carey) osservava con

divertita simpatia la strenua iniziativa di Smith di dilatare fino allo sfini­

mento i tempi del dibattitoparlamentare, permettendone il proseguimen­

to tra le proteste dei senatori esausti. I rappresentantidei poteri democra­ tici occhieggiavano ai personaggi: se la politica era corrotta, se la finanza

perseguiva il suo utile a dispetto del cittadino, se la sovrastruttura cultu­ rale si prendeva gioco della genuinità, esisteva nella stessa organizzazio­ ne statale degli Stati Uniti un fondamento ancora sano sul quale fare af­ fidamento e su cui poter collocare l’onestà dei suoi protagonisti come speranza di palingenesi futura. Una struttura intatta che derivava dalla storia del paese, aspetto sottolineato quasi didascalicamente in Mr. Smith va a Washington in una sequenza organizzata dal mago degli effetti visi­ vi Slavko Vorkapich, nella quale, attraverso la prospettiva entusiasta di

Jefferson Smith appena giunto nella capitale, si restituiva in poche icasti­

che immagini sovrapposte la storia degli USA - e dei suoi valori - dalla dichiarazione d’indipendenza alla Prima guerra mondiale. 1 protagonisti di Capra erano eroi della purezza e dell’integrità che s’inserivano su una

base strutturale che aveva smarrito per strada alcuni dei suoi fondamenti etici. Non erano infallibili, tult’altro. anzi, proprio nella consapevolezza della loro vulnerabilità risiedeva la loro forza di esempio morale. Appar­ teneva infatti a quasi tutte le storie narrate da Capra un momento in cui il protagonista sprofondava in un abisso in cui la corruzione del mondo

In attesa della guerra

203

pareva chiudere su di lui le sue spire, mettendolo alle corde e spingendo­ lo fin quasi alla resa. Che fosse il processo per dichiarare interdetto l’ec­ centrico Ixjngfellow Deeds (È arrivata la felicità) oppure l’analoga

udienza della commissione governativa contro Jefferson Smith (Mr. Smith va a Washington) o anche i tentativi di suicidio di John Doe (Arri­ va John Doé) e di George Bailey (La vita è meravigliosa), l’eroe sempli­

ce di Capra subiva un necessario sacrificio rituale che aveva due scopi principali, uno narrativo e uno ideologico. Sul piano del racconto, la sconfìtta lambita dall’eroe era ovvio elemento di tensione per far trepida­ re il pubblico prima della riscossa Tinaie, mentre, sul piano ideologico, il

sacrifìcio (la rinuncia alla difesa nei primi due esempi o l’immolazione negli altri due) era l’elemento attraverso cui l’eroe dimostrava la sua umana debolezza e il conseguente bisogno dell’altro, del prossimo, dell’uomo della porta accanto, per raggiungere il suo obiettivo. L’eroi­

smo di Capra era un eroismo comunitario edemocratico. in funzione del quale l’individuo necessitava di un aiuto per evidenziarsi e giungere a compimento della sua azione. Che fossero i singoli cittadini a organiz­

zarsi per portare il loro messaggio di sostegno al protagonista o ad atti­ varsi per aiutarlo materialmente oche si trattasse dei personaggi femmi­ nili che inizialmente affiancavano l’eroe per fame un caso giornalistico («Bobe» Bennett (Jean Arthur] in P arrivata la felicità, o Ann Mitchell

in Arriva John Doe)o per guidarlo con disincanto tra le maglie dei lavo­ ri parlamentari (Clarissa Saunders [Jean Arthur] in Mr. Smith va a Wa­ shington), l’individuo di Capra reclamava Valtro per essere se stesso e affermare compiutamente la sua visione della società. Solidarietà e amo­ re: nonostante il sacrifìcio rituale, il vero percorso di formazionedei per­ sonaggi di Capra veniva compiuto dalle donne, che inizialmente segui­

vano il protagonista con cinismo per realizzare i loro scopi utilitaristici, ma che poi erano conquistate alla causa della semplicità, si spogliavano dei loro pregiudizi cittadini, s’innamoravano dell’eroe e lo aiutavano a compiere i passi decisivi. Oppure, addirittura, lo salvavano, convincen­ dolo. come in Arriva John Doe, a rinunciare al suicidio in nome di una nuova società fondata sul suo esempio cristologico. Mentre, intomo a loro, la pioggia scendeva con cupezza angosciante, immagine simbolica

di un ottimismo che all’approssimarsi dei lugubri tempi di guerra si era attenuato, necessitando di esempi edificanti da seguire.

204

9.2

Storia e storie del cinema americano

Nel classico irrompe il moderno: «Quarto potere»

Un talento innato (che a I lollywood da solo spesso non sarebbe bastato) e congiunture favorevoli portarono Orson Welles, un ventiquattrenne di

Kenosha. Wisconsin, celebre per i suoi allestimenti teatrali di Shake­ speare e per le sue trasmissioni radiofoniche incui reinterpretava i clas­ sici della letteratura, a ottenere un contratto da favola con la RKO che la quasi totalità dei suoi colleghi registi, anche di maggior esperienza, non avrebbe mai firmato in tutta la carriera. ta grande eco suscitata nella sua breve ma intensissima esperienza teatrale (un polemico Macbeth con attori esclusivamente di colore e ri­ gorosamente non professionisti, un Giulio Cesare che allegorizzava anche nelle modalità dimessa inscena i totalitarismi allora contempo­ ranei in Europa), il clamore agghiacciante che segui al l’adattamento per la CBS de La guerra dei mondi del quasi omonimo Herbert G. Wells (soprattutto perii panico suscitato negli ascoltatori che credettero real­ mente di essere invasi dagli alieni la sera del 31 ottobre 1938) e una fama di genio precoce accompagnarono il giovane Welles, barba incol­

ta e atteggiamento sfrontato, e lo introdussero nel firmamento hollywo­ odiano. Dopo complicate trattative che confermarono un Orson dal ca­ rattere di ferro, il presidente della RKO. George Schaefer, cedette: un film all’anno, nel quale Welles avrebbe ricoperto i ruoli di direttore di produzione, sceneggiatore, interprete e regista. Ossia, avrebbe avuto il

controllo completo della pellicola, come soltanto Capra. I*ord o Hawks avevano fatto fino allora, potendo tuttavia vantare un pedigree ben più illustre, e avrebbe guadagnato il venti per cento dell’incasso lordo di ogni film realizzato. Era il 1939 e Welles aveva avuto le chiavi di ac­ cesso al paradiso. Ovviamente, era atteso al varco.

11 primo progetto fu una trasposizione di Cuore di tenebra di Joseph Conrad. che Welles pensò di realizzare facendo adottare dalla macchina da presa il punto di vista del protagonista (e voce narrante del romanzo)

Marlow, la cui ricerca del misterioso personaggio di Kurtz (interpreta­

to, nelle intenzioni, dallo stesso Welles) sarebbe stata cosi condotta in­ teramente in soggettiva. Un esperimento che si perse per strada, a causa dello scoppio della guerra e del conseguente impedimento all’esporta­ zione dei film in Europa, e che fu poi raccolto nelle dinamiche rappre-

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sentalive da Robert Montgomery in Una donna nel lago (The Latfy in the Lake, 1947; MGM). in cui il punto di vista del protagonista Philip Marlowe (il detective nato dalla penna di Raymond Chandler) aderiva completamente con l’obiettivo della macchina da presa (tranne che per una breve premessa didascalica e in una sequenza di raccordo narrati­ vo), che scrutava, osservava e veniva osservala direttamente nell’obiet­ tivo se interagiva con gli altri personaggi del racconto, cadeva se colpi­ ta proditoriamente,e fumava,come in ogni noir chesi rispetti. Esperi­ mento artificioso, concentrato esclusivamente sulla componente visivoesplorativa. a scapito di quella più propriamente emotivo-narrativa, al­ trettanto essenziale nel coinvolgimento del pubblico all’interno della storia raccontata. Ipotesi mai più perseguita con questa ostinazione in­

tegralista. se non per frammenti più o meno lunghi di racconto e con intenti più funzionali rispetto alla semplice esibizione. Per esempio nel già citato La fuga di Delmer Daves, in cui il protagonista, interpretato da Humphrey Bogart, compariva dopo oltre un’ora in cui il suo sguardo

di uomo reduce da un intervento di plastica facciale era stato l’unico

mezzo di accesso del pubblico nei confronti della vicenda, oppure, in tempi più recenti, in Halloween: la notte delle streghe (Halloween,

hn Carpenter. 1978). nella cui sequenza iniziatesi condivideva lo sguar­ do in soggettiva del bambino assassino. Naufrago anche il progetto successivo, un poliziesco che avrebbe dovuto intitolarsi The Smiler with a Knife, per colpa delle due dive in­ terpellate per interpretarlo. Rosalind Russell e Carole Ixxnbard. restie ad affidarsi alle cure di un autore giovane e ancora non affermatosi a Hollywood. lx> sceneggiatore Herman Mankiewicz, che era stato ammesso nella principesca tenuta di San Simeon, fatta costruire dal magnate William

Randolph Hearst sulle colline prospicienti la Central Coast california­ na, scrisse un primo trattamento suite ultime parole pronunciate da un tycoon poco prima di morire e sull’indagine giornalistica condotta per scovare il reale significato di quelle stesse parole. Si trattava di Citizen Kane, uscito in Italia con il titolo Quarto potere (Orson Welles. 1941; Mercury Productions/RKO).

Ixi curiosità era molta e il gossip imperversava: tra te tante notizie infondate, quella chesi stesse realizzando un film ispirato al personag­

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gio di Hearst era la più vicina alla realtà, nonostante intere scene prepa­ rate da Mankiewicz fossero state rimaneggiate, tagliateo trasformate da Welles in un film il cui protagonista aveva caratteristiche sempre più

simili a se stesso che al possessore di uno dei più grandi imperi edito­ riali del mondo. Una delle più rapaci giomaliste di Hearst, Ixxiella Parsons, che con Hedda Hopper divideva la poco invidiabile reputazione di essere una

delle due malelinguefcon rubrica fissasu un giornale) più temute dalla gente di Hollywood nel corso degli anni Quaranta, venne a sapere qua­ le fosse il vero soggetto del fìlm e informò il suoeditore.il quale otten­ ne che i suoi avvocati potessero vedere il fìlm prima della sua uscita e tentassero di impedirla. Sui giornali di Hearst parti una violenta campa­

gna diffamatoria contro Quarto potere per dissuadere il pubblico dal recarsi al cinema, mentre Hearst stesso pareva acquistare tutti i negativi esistenti della pellicola perdistruggerli. Ij prima del fìlm, programma­ ta il 14 febbraio 1941 al Radio City Music Hall del Rockefeller Center

a New York, fu improvvisamente cancellata, nonostante Nelson Rocke­ feller fosse impegnato finanziariamente nella RKO: Ixxiella Parsons ricattò la famiglia minacciando un articolo su una delle riviste di Hearst (r«American Weekly») che indagasse sulla vita privata del capofami­ glia John D. Rockefeller jr. I fotoreporter di Hearst cominciarono a se­ guire Welles, tentando di coglierlo in qualche situazione imbarazzante da poter strumentalizzare, mentre dalle pagine dei quotidiani lo accom­ pagnava 1’accusa di essere comunista. Ixxiis B. Mayer si senti in dove­

re. in quanto amico di Hearst, di offrire a Schaefer più di 800.000 dol­ lari in contanti se avesse distrutto il negativo e le copie di Quarto pote­ re esistenti, e la circostanza fu ancora più singolare perché la cifra of­ ferta era di circa 150.000 dollari superiore al costo complessivo del

fìlm. Visto il tergi versare di Schaefer. Welles minacciò la RKO di por­ tarla in tribunale per inadempienza di contratto: il primo maggio il film usci negli Stati Uniti ma. nonostante l’accoglienza esaltata della critica, il pubblico non apprezzò, mostrandosi ancora immaturo per compren­ dere una pellicola particolarmente complessa, dalle modalità narrative non ancora entrate a far parte del bagaglio dello spettatore e caratteriz­

zata da uno stile tutt’altro che neutro e invisibile rispetto a ciò cui Hol­ lywood aveva abituato il suo pubblico. Pur non placandosi ancora le

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polemiche, che portarono all'allontanamento di Schaefer dalla RKO in un momento di ristrutturazione ai vertici dell'azienda e addirittura a un confronto casuale tra Welles e Hearst (s'incontrarono in un ascensore del Fairmont Hotel nei giorni della presentazione del film a San Franci­ sco e Welles non resistette alla tentazione di presentarsi, mentre Hearst

lo fissò senza dire una sola parola). Quarto potere rappresentò un'in­ versione di tendenza all'interno dello stile classico hollywoodiano. Un'inversione che la stessa industria non fu in grado di apprezzare, condannando successivamente Welles a un'esistenza produttiva randa­ gia, ma la cui influenza diventò evidente in seguito, quando il magiste­

ro registico di Quarto potere diventò un esempio per le nuove genera­ zioni di cineasti e di appassionati.

l>a storia, come è noto, narrava con i toni sospesi di un poliziesco metafisico l'indagine di un giornalista, Thompson, sulle ultime parole pronunciate dal magnate Charles Foster Kane poco prima di morire in una stanza del suo maniero.nella tenuta di Xanadu. Convinti nella reda­ zione del cinegiornale che l'essenza di un uomo si potesse sostanziare attraverso le sue ultime parole, si cercava di fornire al proprio pubblico un ritratto sfacceltatodi Kane attraverso le testimonianze di chi lo aveva

conosciuto particolarmente bene invita. 1 ritratti fomiti erano cinque, le memorie del precettoreThatcher. il più fidato redattore Bernstein, l'ami­

co di sempre Iceland, la seconda moglie Susan Alexander, un domestico a servizio da undici anni. Livelli di conoscenza differenti, ambiti di re­ lazione apparentemente lontani da loro. O forse no. Perché i vari fla­

shback intrecciavano la vita pubblica, quella privata, le iniziali gioie e le susseguenti frustrazioni, i segreti inconfessabili e i momenti di crisi, fornendo un profilo di Kane prismatico e spesso contraddittorio. I cin­ que flashback si affrancavano, talvolta si sovrapponevano, pur con pro­

spettive differenti, alla fine si sommavano, ma il loro accumulo non fa­ ceva altro che confermare la profonda inconoscibilità del personaggio Kane. Diavolo o santo, amante o carnefice, cinico o passionale. Ideale o

testardo, padrone morboso o uomo solo, innamorato esclusivamente di se stesso. Nessuna verità e tutte le verità insieme. Fino all'ultima se­ quenza chiarificatrice, ma tale solo perii pubblico, non certo per il gior­ nalista 'fhompson, costretto a rinunciare alla ricerca dell'essenza ultima

di Kane.

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Il ricorso ai flashback non iniziò certamente con Welles: anzi. Quarto potere dovette molto, in termini di ispirazione, alla struttura di una pel* licola di Otto anni prima. Potenza e gloria (The Power and the Glory, William K. Howard. 1933; Fox Film Corporation; sceneggiatura di Pre­ ston Sturges), in cui la vera personalità di un controverso presidente di

un’azienda ferroviaria (Spencer Tracy) si delincava progressivamente attraverso i vari racconti proposti sul suo passato dall’amico e segretario

di una vita (Ralph Morgan). Anche in questo caso i flashback si origina­ vano dal tentativo di far luce sul personaggio subito dopo la sua morte e. similmente, le analessi non seguivano un ordine cronologico, ma il flusso di una memoria affettuosa, quasi ad accompagnarecon la dolcez­ za del ricordo l’aspra condotta del protagonista. Indifferenza risiedeva

nell’unicità prospettica del solo narratore (che talvolta interveniva con la voce narrante all’intemo del flashback per commentare le immagini o descrivere l’azione: all’epoca il procedimento fu definito narratale) e nella volontà di definizione inequivocabile del personaggio, del quale infine si legittimava la condotta comprendendone le ragioni.

Kane non si riusciva a definire univocamente. Il mistero di Kane ri­ siedeva esclusivamente negli occhi e nelle parole di chi raccontava le

storie raccolte pazientemente da Thompson. In questo modo il perso­ naggio Kane assurgeva a presenza arcana, frustrante per i risultati della ricerca condotta, ma,al contrario, esaltante per la logica che presiedeva alla narrazione, laquale giungeva infine, indifferentealle varie testimo­ nianze collezionate nel corso della storia, a rivelare la vera essenza de)

protagonista con un movimento selettivo della macchina da presa, pronto a ignorare tutti gli orpelli e gli oggetti collezionati in una vita, farsi strada nel dedalo di memorie e inquadrare la scritta Rosebud sulla slitta amata nell’infanzia, quella stessa slitta che fu l’ultimo suo contat­

to con il mondo spensierato dei giochi, prima che 'fhatcher ne ottenesse l’affidamento dalla madre. In questo modo. Quarto potere pose l’ac­ cento sull’infanzia perduta di Kane come fondamento ossimorico di un’intera esistenza condotta su basi e principi apparentemente lontani, e lo fece nel modo più beffardo possibile, affermando esplicitamente la potenza demiurgica dello sguardo del narratore, unico in grado di forni­

re la soluzione a uso esclusivo del pubblico, lontano dalla comprensio­ ne dei personaggi e quindi dell’indagine condotta.

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L’autore affermava il suo potere di narratore,sostenendo, contempo­ raneamente, la sostanziale inutilità dello sforzo compiuto dalle figure che si erano succedutene! racconto delle singole fasi della vitadi Kane.

Uno strappo piuttosto netto alle convenzioni del cinema hollywoodia­ no. perché, come suggerì lo stesso Welles, lo scopo del film era più

l’esposizione del problema che la sua soluzione, li l’esposizione rivela­ va. in filigrana, un problema di stile, laddove, come suggeriva un’illu­ minante intuizione di Bazin (André Bazin, Orson Welles), era proprio lo stile a creare il senso dell’intera operazione. In luogo delle opzioni neutre cui aveva abituato il cinema hollywoodiano. Quarto potere op­

poneva scelte espressive marcate in cui l’obiettivo era l’esplorazione delle ipotesi estreme possibili. Welles scelse una modalità di messa in

scena radicale in cui a prevalere era la rilevanza dell’espressione, il protagonismo dell’inquadratura e dell’istanza narranteche quelle stesse inquadrature le ritagliava, le popolava di personaggi, le animava con il dialogo e l’azione e le metteva in serie. Una scelta di campo netta, di piena rottura. Forse eccessiva, giacché il pubblico parve non apprezza­

re, ma uno strappo che passò alla storia, se ancora Michael Chabon, in Aefantastiche avventure di Kavalier e Clay, pubblicato nel 2000, osser­ vava i suoi personaggi che «parlavano e riparlavano della posizione della cinepresa dal bassoverso l’alto», sottolineando che «non avrebbe­

ro mai dimenticato come lacinepresa si era tuffata attraverso il lucerna­ rio dello squallido locale notturno per avventarsi sulla povera Susie, seduta al tavolino, disperata». A ben guardare. Quarto potere fondava la sua profonda diversità su un duplice concetto, l’elaborazione del tempo e la strutturazione del contrasto. Nella prima direzione andavano la proliferazione dei Piani-

sequenza e dei long take o - di contro, ma solo apparentemente - la

contrazione dei segmenti narrativi e i salti cronologici inconsueti. Ver­ so la seconda si rivolgeva il ricorso alla profondità di campo e alle prospettive basse che mostravano - in modo altrettanto insolito- claustrofobici soffitti. Se il cinema classico aveva scelto la scomposizione della scena come pratica di trasparenza, continuità e invisibilità per la soddisfazione ri­

cettiva e spettacolare del pubblico, Welles decisedi utilizzare inquadra­

ture che da sole, o quasi, esaurivano un intero episodio narrativo, osser­

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vando fedelmente fazione dei personaggi in scena, probabilmente re­ taggio. come osservò anche Bazin, della prccedenteesperienza teatrale. Tramite questi Piani-sequenza e long take, Welles assumeva la durala nella sua perfetta continuità, facendo coincidere tempo del racconto e tempo della storia e dotando i suoi piani di uno spessore fenomenologi­

co in cui lo sguardo, apparentemente libero, era accoppiato alla ripresa in profondità e si strutturava secondo principi differenti rispetto alla

scomposizione del montaggio, lasciandosi guidare dalle dominanti vo­ lumetriche inteme e dai ritagli dell’illuminazione. Se il Piano-sequenza combinato con la profondità di campo dilatava lo svolgimento della narrazione, esaltando la durata del tempo in funzione dell’azione (e agendo, in questo, in modo contrario rispetto al montaggio del cinema

hollywoodiano classicamente inteso, che assoggettava il tempo agli eventi mostrali), lo sviluppo cronologico veniva ulteriormente plasma­ to attraverso contrazioni e arditi salti che mettevano in ellissi interi pe­ riodi pur illudendo su una supposta continuità, lui dissoluzione del pri­ mo matrimonio di Kane era riassunto in un breve segmento formato da

sei scene di vita coniugale mostrate tutte attorno al tavolo durante la colazione, scene che progressivamente si facevano sempre più corte,

con un montaggio sensibilmente più nervoso. L’argomento principale, e filo rosso del segmento, era il tempo che Kane dedicava al giornale

sottraendolo alla moglie,con il dialogo tra i due che. partito su basi af­ fettuose e melense, diventava via via più sferzante, fino a un livoroso e muto scambio disguardi finale, conia moglie a contrapporre il «Chro­ nicle», il giornale rivale di Kane. alla lettura deir«lnquirer»del marito. Anche i più arditi balzi nel tempo venivano assorbiti e forgiati in una continuità artificiosa in cui risultava evidente l’intervento di un’istanza narrante a presiedere alle immagini, ben al di là della prospettiva adot­

tata dal narratore del singolo flashback. Iu) strappo di Welles ai traspa­ renti principi del cinema hollywoodiano si attestava anche in questa al­ trettanto estrema elaborazione delle successioni cronotopiche, lui foto dei redattori del «Chronicle» vista con ammirazione da Kane e dai suoi collaboratori nella vetrina del giornale concorrente.dopo un movimento di macchina in avanti che tendeva a far coincidere i bordi della foto in vetrina con i margini dell’inquadratura, si trasformava in un tableau vi­ vant che, a un nuovo movimento, questa volta all’indietro della cinepre­

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sa, rivelava essere una nuova fotografìa, con gli stessi soggetti, nella stessa posa. I>a voce di Kane, dapprima fuoricampo,poi all’interno, pas­ sando davanti agli stessi prestigiosi giornalisti («Sei anni fa guardavo la

fotografìa dei più bravi giornalisti del mondo ed ero come un bambino davanti a una vetrina di dolci; e oggi, sei anni dopo, ho ottenuto quei dolci, tutti quanti»), spiegava che tra la visione ammirata della fotogra­ fìa e l’istantanea appena scattata nell’«lnquirer» era intercorso un con­ siderevole balzo in avanti sul piano della storia, saldato in continuità dalle modalità di discorso tramite una prodigiosa sintesi espressiva. lui profondità di campo, oltre ad abbinarsi al Piano-sequenza nell’in­

tenzione di forgiare il tempo, diventava invece fondamentale nella strutturazione di uno dei motivi fondamentali del film, quello del con­

trasto. Ovviamente, la profondità di campo precsisteva a Quarto pote­ re: le riprese in profondità avevano caratterizzato l’immediatezza del cinema delle origini almeno fino alle soglie degli anni Trenta (Bazin, nei saggi L'evoluzione del linguaggio cinematografico e William Wyler o il giansenista della messa in scena, contenuti in Che cos ‘è il cinema?

ne colloca la scomparsa intomo agli anniTrenta. Jean Mi try, in Esthétiques et psychologic du cinema. Les formes, verso il 1925. Jean-lAMlis

Comolli, in Tecnica e ideologia, negli anni di introduzione del sonoro). In questo periodo, l’utilizzo della parola aU’intemo delle immagini di­

venne motivo di interesse supremo per i cineasti alla ricerca dell’impressione di realtà, e questo aspetto collocò in secondo piano gli aspetti iconici, di cui la profondità del campo di ripresa era uno dei più carat­

teristici nella creazione di un universo verosimile. Se la commedia, con i suoi dialoghi scoppiettanti, e i drammi sentimentali, con l’enfasi posta sulla drammaticità declamata e sui piani ravvicinati, si concentrarono sull’espressività dei corpi e sulla concretezza della voce, un paio di ec­

cezioni alla scomparsa della rappresentazione in profondità si ebbero nel western, fondato sulla mitologia dello spazio aperto e sull’evidenza del conflitto tra l’ampiezza del paesaggio e la statura eroica del prota­ gonista. e nei film d’avventura, nei quali la dimensione dello spazio era funzionale alla spettacolarità esotica de) genere. lui scomparsa della profondità di campo alle soglie degli anni Trenta era dovuta, secondo alcuni studiosi come Mitry,anche alla diffusionedella pellicola pancro­ matica. che la liastman Kodak cominciò a commercializzare nel 1926 e

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Storia c storie del cinema americano

che. gradatamente, sostituì la pellicola ortocromatica: la pellicola pan­ cromatica. con la sua sensibilità a lutti i colori dello spettro, migliorò la qualità della fotografia in bianco e nero restituendo con maggiore sen­

sibilità tutta la gamma possibile dei grigi, ma aveva la controindicazio­ ne di dover utilizzare (almeno negli interni) un'illuminazione maggiore che le lampade ad arco, utilizzate fino a quel momento, non erano in grado di fornire. Si passò quindi alle lampade a incandescenza, con una

potenza ancora insufficiente, ma che permettevano l’utilizzo delle nuo­ ve pellicolecon un uso combinato degli obiettivi delle cineprese a gran­ de apertura ma dalla limitata profondità di ripresa. Dalla coincidenza di questi motivi (pellicola pancromatica, sonoro e obiettivi dalla limitata profondità), la profondità di campo fudi fatto tendenzialmente accanto­ nata nel cinema americano fino a ricomparire - secondo la vulgata con Welles, ma soprattutto con Gregg Toland.il direttore della fotogra­ fia abituale di William Wyler cui Welles ricorse per realizzare Quarto potere. Ancora prima di lavorare con Welles, Toland fu premiato con l’Oscar per la fotografia per La voce nella tempesta (1937). nel quale l’utilizzo della profondità di campo aveva una precisa valenza signifi­ cante, soprattutto nelle scene in cui univa nella stessa inquadratura i due

tormentati amanti lleathcliff (taurence Olivier) e Cathy (Merle Obe­ ron). collocandoli tuttavia in proporzioni differenti che evidenziavano la loro distanza inesorabile, rendendoli idealmente uniti pur ne) distac­ co spaziale. Per mezzo dell’egida di Gregg Toland, che informò il novello regista su potenzialità e funzioni di lenti e obiettivi, Welles, si diceva, utilizzò il Deep Focus per rendere significante il tema del contrasto: attraverso l’ampiezza scenica delle inquadrature, riuscì a creare quella conflittua­

lità intema al quadro che contraddistingueva la contraddittorietà del personaggio di Kane e a realizzare quella duplicità che era lacifra stili­ stica, strutturale e tematica delfiniera pellicola. Nella sequenza del co­ mizio con cui Kane avrebbe ufTkializato la sua candidatura a governa­

tore dello stato, ad esempio, la profondità di campo generava un evi­ dente conflitto tra la statura del personaggio e la gigantografia con il suo Primo Piano che campeggiava alle sue spalle. Kane aspirava alla magnificenza e alla gloria politica, cui l’enorme manifesto alludeva

apertamente, ma la sua dimensione privata, con il primo matrimonio

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che stava inesorabilmente fallendo, fungeva da freno alla sua ambizione pubblica, lui sequenza, indicativamente, terminava con un piano dall’alto, nel quale un uomo,dalla piccionaia, osservava la fine del co­ mizio di Kane, ridotto a una minuscola sagoma, sul palco, davanti al manifesto che non pareva più cosi gigantesco come le inquadrature pre­ cedenti. L’uomo era il governatore Gettys, attaccato direttamente da Kane pochi istanti prima, e aveva in serbo perla moglie di Kane la ri­ velazione del rapporto - benché ancora nella fase preliminare - tra il marito e la giovane cantante Susan Alexander, da utilizzare come ricat­ to per obbligare Kane ad abbandonare la contesa elettorale. Lungo una stessa linea inprofondità, Welles e Toland disposero l’alterigia del pro­ posito, il ridimensionamento dell’individuo e l’incombente fine del­

l’aspirazione, secondo una gerarchizzazione che per Toland era consue­ ta mentre per Welles era in procinto di diventarlo. Per Toland basti ci­ tare il contemporaneo Piccole volpi (The Utile Paxes, William Wyler, 1941; The Samuel Goldwyn Company), per esempio nelle scene di aspro colloquio familiare in cui il mite personaggio di Birdie Hubbard (Patricia Collinge) appariva defilata sullo sfondo mentre il marito e i suoi rapaci fratelli architettavano le loro oscure trame di accumulo di denaro. Iji dimestichezza di Welles con la profondità di campo fu evi­ dente anche nel successivo L'orgoglio degli Amberson (The Magnifi­ cent Ambersons, 1942; Mercury Productions/RKO), nonostante l’avvi­

cendamento di Toland con Stanley Cortez, in cui spesso la scelta della profondità metteva instretta relazione due piani narrativi, uno evidente,

fondato sull’azione, e un altro occulto, basato sulle reazioni dei perso­ naggi, nel quale risiedeva il vero significato della scena. Welles e To­ land operarono in profondità in altre due celebri inquadrature, quella del piccolo Kane relegato all’esterno dell’abitazione dei genitori, incor­

niciato dal telaio della finestra e intento a godersi ancora per pochi istanti la sua infanzia con la slitta in mezzo alla neve, mentre la madre firmava la procura che gli avrebbe garantito un futuro ricco e prospero­ so (contrasto tra innocenza e responsabilità), e quella riguardante il ten­ tato suicidio di Susan, strutturata lungo una direttrice formata dall’enor­ me presenza del bicchiere in prossimità dell’obiettivo della cinepresa, dal volto agonizzante e semioscurato della donna e dalla porta d’ingres­

so della stanza entro cui si precipita, dopo un furioso bussare, Kane per

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Storia e storie del cinema americano

salvare la donna (contrasto tra il Kane carnefice, che costringe la donna a esibirsi sul palco nonostante lo scarso talento, e il marito premuroso che la salva da morte certa).

l-a conflittualità del personaggio Kane era una costante presente in molte delle immagini proposte: inquesto senso andavano le inquadratu­

re dal basso, effettuate con il grandangolo, dalle prospettive spaziali di­ latate e dai personaggi ingigantiti rispetto all’inclinazione del piano di visione, schiacciati, tuttavia, dai soffitti sovrastanti, apparentemente sempre sul punto di calare sulla statura delle figure all’interno de) qua­ dro. Anche un altro noto direttore della fotografia, Arthur lideson. forni nello stesso anno dignità rappresentativa alle controsoffittature in un film come II mistero delfalco, con l’intenzione di generare una certa

claustrofobia da intemi propria del noir, ma il disegno di Toland e Wel­ les era sempre orientato al conflitto, a elevare illusoriamente i propri personaggi per sconfessarli immediatamente con la compressione della prospettiva dovuta a un profilmico insolito, quello sovrastante, che soli­

tamente non compariva nelle immagini. Anche attraverso l’iconografia e le metafore che vi si applicavano. Quarto potere manifestava la dupli­ cità del suo assunto, cui contribuivano la struttura stessa del film (il

prologo con l’ingresso nel regno di Kane nonostante il chiaro avviso sulla recinzione «No Trespassing», a cui faceva da specchio l’epilogo, nel quale la macchina da presa abbandonava la dimora del magnate at­ traverso la stessa scansione di inquadrature che l’avevano accompagna­ ta all’ingresso, a cui però andava aggiunto il fumo nero di tutti gli ogget­ ti accatastati di Kane e bruciati nella caldaia, compresala slitta Rosebud e il suo inconfessabile segreto), la ripetizione degli elementi e delle si­ tuazioni (i due matrimoni, i due giornali concorrenti. Kane che confessa

a un sorpresissimo Thatcher di fare una campagna di stampa contro una

sua proprietà ecc.) e i personaggi (oltre alle due mogli, anche Kane e l’amico Iceland, indicativamente confusi nell’identità dal vecchio diret­ tore dell’«lnquirer». Carter,come se ognuno dei due si completasse vi­ cendevolmente nell’altro, circostanza non estranea alla caratterizzazio­ ne dei personaggi shakespeariani che Welles conosceva bene). Welles aveva squarciato il velo della classicità, ma Hollywood non aveva gradito particolarmente, soprattutto perché l’ambizione sfacciata

del regista, giunto al cinema con grandi squilli di tromba, non aveva

In attesa detta guerra

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trovato legittimazione nell’apprezzamento del pubblico e nel riscontro al botteghino. Già il SUO secondo fìlm, L'orgoglio degli Amberson, gli fu sottratto e fu pesatamente tagliato dalla produzione (43 minuti in

meno), inaugurando una tradizione di rapporti con gli Studios che lo costrinse, ramingo, a interpretare anche pellicole di non eccelsa fattura per guadagnare il denaro sufficiente per prodursi da solo, in una carrie­ ra costellatadi progetti ambiziosi spesso frustrati e di risultati apprezza­

bili nonostante i metodi avventurosi perperseguirii: i fìlm tratti da Sha­ kespeare, Macbeth (1948; Mercury Productions) e Otello (The Tragedy of Othello: The Moor of Venice, 1952; Mercury Productions/l^es Films Marceau), il noir pletorico de Im signora di Shanghai (The Lady from Shanghai, 1947; Mercury Produclions/Columbia) e la riflessione etico­

poliziesca di L'infernale Quinlan (Touch ofEvil, 1958; Universal). Un artista originale che aveva osato sfidare Hollywood rimanendo vittima del suo stesso, incompreso, pindarico capolavoro.

9.3

Il governo diventa sceneggiatore: la Seconda guerra mondiale

Il cinema di guerra, prima ancora che un genere con le sue precise ca­ ratteristiche, è un concetto che modella se stessoin funzionedella storia

e degli eventi di cui progressivamente è testimone. Prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, infatti, l’industria hollywoodiana etichet­ tava come War Film pellicole incentrate sui grandi conflitti che aveva­ no interessato la Storia degli Stati Uniti fino a quel momento, la guerra

d’indipendenza contro l’Inghilterra, la guerra Civile, il conflitto con la Spagna per il controllo di Cuba nel 1898, addirittura le battaglie contro i nativi durante le guerre indiane che poi sarebbero diventate il nutri­

mento del cinema western. Un primo momento discriminante si verifi­ cò all’esplodere della Prima guerra mondiale in Europa. L’argomento era di attualità e l’industria cercò di sfruttare il momento distribuendo anche fìlm bellici tedeschi e documentari che attraevano il pubblico fedele alla politica di neutralità voluta fino a quel momento dal governo americano. Fino al l’affondamento del transatlantico Lusitania (maggio

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Storia e storie del cinema americano

1915) e al successivo mutamento della politica neutralista americana, che condusse il Paese a entrare in guerra nel 1917, il tema fondamenta­ le dei film prodotti negli Stati Uniti era il pacifismo, con risultati, a volte, pronti a rasentare il ridicolo per trasmettere concretamente il pro­ prio messaggio. In Civilization (Reginald Barker, Thomas II. Ince,

Raymond B. West, 1916;Thomas 11. Ince Corporation/Triangle Film Corporation), un soldato, in cui si era incarnato lo spirito di Cristo, riu­ sciva a restaurare la pace nel mondo, nonostante all'inizio fosse insul­ tato per la sua opera. In JFar Brides (Herbert Brenon, 1916; Herbert Brenon Film Corporation), una donna perdeva in guerra il marito e i tre

fratelli di questo e per evitare che anche il figlio, di cui era incinta, po­ tesse in futuro subire una simile sorte, si metteva a capo di un movi­ mento di protesta di tutte le donne. Vista l'indifferenza del sovrano, la donna decideva di uccidersi per fomite l'esempio del supremo sacrifi­

cio, suscitando un'ondata di compassione che sarebbe stataseguita dal­ la protesta delle altre donne. War Brides, tuttavia, segnò un confine:

malgrado il grande successo di pubblico, fu ritirato dalla sale all'ingres­ so in guerra degli Stati Uniti, perché in contrasto con la nuova filosofia politica favorevole alla guerra. Intolerance dì Griffith, addirittura, ebbe

una sorte anche peggiore, perché il suo messaggio allegoricamente (e ipertroficamente) pacifista si scontrò con il mutato clima, che vedeva

l'opinione pubblica (ma non ancora il governo) schierarsi ogni giorno di piùa favoredell'intervento. E Intolerance fu tutt’altro che un succes­ so, nonostante l'enorme sforzo produttivo. Ix varie case di produzione si attrezzarono e riconvertirono parte dei loro lavori al cinema di guerra. Il pacifismo si trasformò in brevissimo tempo in accusa aperta verso la violenza irrazionale dei tedeschi, dediti alla brutalità deliberata e allo stupro sistematico. Film come The Battle Cry of Peace (J. Stuart Blackton, Wilfrid North, 1915; Vitagraph) met­

tevano sullo stesso piano agenti nemici e pacifisti, entrambi impegnati a tenere lontano l'America dalla guerra, mentre New York e Washing­ ton rischiavano di essere devastale. The Little American (Cecil B. De­ Mille, Joseph Ixvering, 1917; Mary Pickford Company) mostrava il cinismo dell'esercito tedesco, pronto alla torlurae all'abuso come sva­

go dagli obblighi bellici, mentre Eric Von Stroheim, come già accenna­

to nel primo capitolo, divenne il personaggio per eccellenza su cui con­

In attesa delta guerra

217

vogliane Podio del pubblico per il sadismo sconfinato compiuto con estrema indifferenza che mostrava nelle sue interpretazioni volutamen­ te soprale righe. Al termine della Prima guerra mondiale, trovandosi ormai prive dell'imperativo morale interventista, le case di produzione continuaro­

no a sfruttare l’ambientazione bellica, che era pur sempre di recente attualità, per fame il problematico scenariodi un dramma sentimentale. Cuori del mondo {Hearts of the World, David Waric Griffith. 1918; D.

W. Griffith Productions/Famous Players-luisky Corporation/War Offi­ ce Committee) fu esemplare in tal senso. Commissionato dal governo

per essere girato oltreoceano ancor prima che la guerra finisse, raccon­ tava la storia d'amore di una coppia di giovani della campagna francese (indicativamente chiamati The Boy e 'Die Giri), in mezzo alla violenza belluina dei tedeschi, sulle cui nefandezze Griffith insistè non poco, indugiando anche in cartelli retorici e colpevolizzanti. 11 film di Grif­ fith. tuttavia, si collocava pericolosamente a cavallo di un periodo,

quello della fine della guerra, in cui il gusto del pubblico, dopo tanta

insistenza patriottica e interventista, stava permutare nuovamente, e il rigore della sua condanna, combinato al sentimentalismo eccessivo di alcune situazioni narrate, cominciò a sembrare piuttosto inopportuno. Il clima era mutato, «gli unni» erano stati sconfìtti e la guerra poteva

essere utilizzata come corredo al messaggio pacifista il cui nucleo nar­ rativo principale era la storia d'amore (come quella tra il soldato ameri­ cano e la contadina francese nel già citato La grande parata di King

Vidor, del ’25) oppure lo sbocciare di passioni incrociate in un conflitto condotto da aviatori che attualizzavano l'etica dei cavalieri medievali come in Ali (Wings, William Wellman. Hany d'Abbadie d’Arrast, 1927; Paramount) in cui l’asso dell’aviazione tedesca Kellerman si riti­ rava dal duello aereo a causa dell’inceppamento della mitragliatrice americana. Il conflitto, lontano dalla Prima guerra mondiale, fu mostra­ to per quello che era. uno sfondo apocalittico nel quale si moriva per

cause non sempre comprensibili: l’orrore provato e testimoniatodai re­ duci e la crescente disillusione in una guerra giusta a fronte del numero esorbitante di vittime furono validi deterrenti all’insorgere di un auten­

tico epos indifferente agli aspetti umanitari e alle nefaste conseguenze lasciate sul campo. Con gli anni Trenta, e con un film come All'Ovest

218

Storia c storie del cinema americano

niente di nuovo di l>ewis Milestone ad aprire sintomaticamente il decen­

nio, si assistè a uno svuotamento dell’affiato eroico e patriottico e a un tentativo di riflessionesul dramma, sulle conseguenze individuali e sul­

la vuota retorica che ne animava il dibattito precedente all’ingresso nei conflitti. Milestone, traendo lo spunto dal romanzo omonimo di Remar­

que, poneva l’accento su quest’ultimo punto già nell’incipit del film, mostrando un professore tedesco esortare gli allievi al sacrifìcio eroico verso la patria, utilizzando con piena consapevolezza tutte le norme lin­ guistiche del montaggio classico, in modo che la brillantezza oratoria collimasse con gli artifìci stilistici attraverso i quali gli allievi ascoltava­

no rapiti il discorso del loro insegnante, con un montaggio sempre più incalzante che terminava su una ripetizione rapidissima di primi piani sui volti degli allievi raggianti e ormai sedotti alla causa bellica. Mile­ stone, tuttavia, ebbe il merito di non mostrare direttamente l’onore, quanto di renderlo significante attraverso attenuazioni simboliche e me­ tonimiche che giungevano a bersaglio indirettamente, ma in modo non meno raccapricciante. Cosi fu per la scquenzadegli stivali, passati da un

soldato all’altro dopo la morte del possessore, su cui la macchina da presa si soffermava, mostrandoli nell’esercizio quotidiano della marcia,

nelle attese in trincea, fino a quando gli stessi stivali non cambiavano proprietario, segno evidente di una vita falciata sul campo di battaglia. Oppure nella sequenza ambientata in ospedale duramela convalescenza del protagonista Paul (lew Ayers), nella quale le morti erano taciute e sostituite dal triste e costante rituale del cambio delle lenzuola. Il clima mutò nuovamente quando in Europa cominciarono a spirare intensi venti di guerra. Alcune pellicole iniziarono a narrare le occulte e inquietanti manovre naziste per conquistare progressivamente il mondo, come Confessione di una spia nazista (Confessions of a Nazi Spy. Ana­

tole Litvak. 1938; Warner BrosJEirst National), in cui un ufficiale go­ vernativo (Edward G. Robinson) scopriva le trame spionistiche del Reich arrestando i fiancheggiatori sparsi neH’intero globo, o come // prigioniero di Amsterdam (Foreign Correspondent. Alfred Hitchcock,

1940; Walter Wanger Productions), in cui a entrare in contatto con le macchinazioni dei tedeschi era un giornalista americano (Joel McCrea)

alla ricerca di un diplomatico olandese impegnato a scongiurare la guer­

ra, ormai prossima. Dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, tutta la

In attesa della guerra

219

produzione hollywoodiana subì un’autentica riconversione, non diversa da quella cui furono soggette molte industrie riadattate alla fabbricazio­ ne di armi. Ilcinema eraovviamente un mezzo di propaganda particolar­

mente influente, vista la sua di (fusione tra la popolazione, e il governo si adoperò per utilizzarlo al massimo delle sue potenzialità. Su richiesta di

Franklin Delano Roosevelt, nel 1942 fu istituita un’agenzia per la propa­ ganda, l’onice of War Information (OWI), guidata da l^owell Mellett, al

cui intemo venne creato un ufficio cinemajl Bureau of Motion Pictures, diretto da Nelson Poynter, il cui compito eradi orientare ideologicamen­ te la produzione hollywoodiana, proponendo una visione legittima, par­ ticolarmente incoraggiante ed eroica del conflitto in cui gli Stati Uniti erano appena entrati. Tra il 1942 e il 1944 Hollywood vide la sua produ­ zione di film di guerra innalzarsi vertiginosamente, arrivando a realiz­ zarne quasi un terzo dell’intero listino disponibile. Anche i film non di­ rettamente ascrivibili al genere, contenevano al loro interno un più o meno velato significato patriottico. Cosi fu per l’esempio forse più cele­

bre, Casablanca, uscito nel 1942, apparentemente un mèlo ambientato

in un interno esotico e fumoso quanto un noir, in realtà pellicola che utilizzava la passione sentimentale tra i due protagonisti come chiave per determinare la soluzione di un intreccio su cui gravavano i riverberi della guerra combattuta al di là dal mare ((’Atlantico per Hollywood, il Mediterraneo nel film). Ma soprattutto. Casablanca era leggibile attra­ verso il personaggio di Rick, interpretato da Humphrey Bogart, ritratto dapprima come una figura distaccata, cinica, disinteressata nei confronti

del conflitto, poi capace del sacrificio di rinunciare alla donna amata, intervenendo in prima persona per spostare il corso degli eventi: allego­ ricamente l’azione di Rick rappresentava la fine dell’isolazionismo ame­ ricano nei complessi rapporti tra le varie parti in lotta, tutte fedelmente rappresentate nell’arena di scontro del Rick’s Café américain. Anche le sferzanti battute di dialogo erano veicolate a una velata propaganda, ad esempio nel colloquio, esemplare, tra Rick e l’ufficiale nazista Strasser

(«Siete di quelli che soffrono all’idea che la loro cara Parigi sia in mano tedesca?». «Parigi non mi è particolarmente cara». «E come ci vedreste a landra?». «Chiedetemelo quando ci sarete», «Ah, che diplomazia! E in quanto a New York?», «Ci sono certi quartieri di New York, maggio­

re, che sarebbe impnidentecercare di invadere»).

220

Storia e storie del cinema americano

Frank Capra ricevette l’incarico dal capo di stato maggiore. George Marshall, di supervisionare e realizzare in prima persona una serie di documentari intitolati JFAy We Fight per permettere ai cittadini ameri­ cani di comprendere i motivi per cui si entrava in guerra, superare la diffidenza verso un intervento in Europa ed educare le reclute prima

della partenza per il fronte. Capra, insieme agli altri registi coinvolti ne) progetto, ad esempio John Ford (The Battle of the Midway. 1942). John Huston (The Battle ofSan Pietro. 1945)e Anatole I ÀlvakfThe Battle of Russia. 1943), montò insieme cinegiornali e immagini documentarie, filmati di propaganda nemica e fictions li legò a una voce narrante di­ dascalica che illustrava, giustificava ed esortava: il risultato era una ve­ ra e propria dimostrazione ideologica e propagandistica che forniva

un’immagine fondata sui valori di giustizia e democrazia da contrap­ porre alla violenza e alla volontà di potenza dei paesi dell’Asse. Teso

verso lo stesso obiettivo fu anche Walt Disney, il cui studio realizzò alcuni cartoon di propaganda come Der Fuehrer’s Face (1942). nel quale il celebre Paperino si ritrovava in una catena di montaggio tede­ sca a preparare bombe e proiettili a un ritmo lavorativo infernale e sulle cadenze di una fanfara oppressiva che irreggimentava le coscienze, ed Education for Death: The Making ofthe Nazi (1943). dai toni più cupi,

in cui si illustrava l’ammaestramento delle giovani leve naziste. alleva­ te, istigate, massificate e infine mandate alla morte sul campo di batta­ glia. Di fatto, si era venuto a creare un fronte parallelo, dichiaratamente concettuale e ideologico, con l’intenzione di generare un’adesione col­

lettiva compattae ottimista, fiera dell’eroismo dei suoi soldati e convin­ ta della legittimità della loro azione. L’OWI inviò a Hollywood il suo Manuale di propaganda (il cui no­ me completo era Government Information Manual for the Motion Pic­ ture Industry), che prevedeva norme a cui gli Studios avrebbero dovuto attenersi nella preparazione delle sceneggiature, nel tentativo di combi­ nare la spettacolarità del genere con la correttezza politica e ideologica, lui struttura proposta da questi film, in accordo con il Manuale.era es­ senziale nel suo schematismo antitetico: le forze del bene contrapposte a quelle del male, con queste ultime, che si materializzavano in avver­

sari tedeschi e giapponesi, pronte a minare l’intero sistema di valori democratico e liberale di cui gli Stati Uniti, con il suo esercito, si face-

In attesa della guerra

221

vano portatori. L’opposizione tra bene e male apriva il suo ventaglio alle altre consequenziali tensioni: civiltà contro crudeltà, pace opposta a guerra, liberalità contrapposta a totalitarismo, tolleranza al posto di

oppressione, umanità in luogo di brutalità ecc. Tale semplificazione te­ matica era sempre ancorata agli atteggiamenti dei personaggi, che in­ carnavano direttamente i valori di cui ogni esercito si faceva immediato portatore: se il soldato americano era eroico, corretto, ligio al dovere, disposto al sacrificio, individualista perché indipendente, ma assolutamente integrato aH’intemo dei gruppo dei soldati suoi pari, al contrario il nemico veniva sempre rappresentato con connotazioni immediata­ mente negative, quasi stereotipate, in modo tale da generare nell’animo dello spettatore spontanea repulsione per la sua presenza, prima ancora

che per i suoi scontali atteggiamenti. In base a questo principio, il giap­ ponese veniva presentato come perfido e sanguinario, il tedesco in pre­ da all’ossessione superomistica e vittima della sua stessa volontà di potenza. In contrapposizione, il soldato americano, pur nella semplicità della sua proposta narrativa, era oggetto di un’attenzione che lo portava

a rivelare i suoi tratti umani e caratteristici, in modo che il pubblico potesse con una certa solerzia trovare conferma nella scelta già stimo­

lata dalla divisione in schieramenti opposti. Il plotone, infatti, era sem­ pre presentato al pubblico in un momento di serena quotidianità, duran­

te una discussione divertente o un breve momento di svago, nel corso del rito mattutino della barba o mentre i commilitoni preparano una si­ garetta per poi fumaria, fornire l’aspetto più disteso era funzionale a mostrare che la grande maggioranza dei soldati americani (e la quasi totalità dei personaggi che apparivano sullo schermo) era formata da bravi e sani ragazzi che lasciavano i loro affetti in Patria per sacrificarsi nel tentativo di riaffermare quei valori di serenità e socievolezza minac­

ciati dall’inumano nemico. Fondamentale era poi che il plotone, in pic­ colo, fosse immagine del melting pot che caratterizzava l’intera società americana, autentico simbolo ideologico da contrapporre all’intolleran­

za verso le minoranze che invece i nazisti ostentavano come politica di regime. I^i perfetta immagine d’integrazione nel comune nome della libertà e dell’obiettivo da raggiungere era un tratto comune e un dato preliminare di molte pellicole:

Arcipelago infiamme (Air Force, Ho­

ward Hawks, 1943; Warner Bros.) le presentazioni dei singoli membri

222

Storia e storie del cinema americano

del gruppo erano proposte in maniera quasi didascalica, in modo che se ne capisse la provenienza; in Bataan (idem.Tay Gameti. 1943; MGM/ Ixcw’s Incorporated) il plotone, che al termine del film si sarebbe sa­

crificato in una difesa disperata della posizione, era formato anche da un polacco, un messicano, un irlandese e un filippino, perfettamente integrato nel gruppo dei soldati americani. Il Manuale di propaganda prevedeva esplicitamente la tipizzazione delle singole etnie in modo da garantire la pronta riconoscibililù sullo schermo e nonostante tale gene­ ralizzazione rasentasse piuttosto una semplificazione tendenzialmente razzista. Anche perché l’irlandese caotico beone, l’italiano passionale, il messicano istintivo o l’ingenuo americano del Midwest erano guidati da un ufficiale, americano, perfettamente integrato nella società, nel

mondo civile, generoso, protettivo con i propri soldati, quasi fosse una figura putativa del padre lasciato in America. Ad esempio, in Obiettivo Burma {Objective, Burma!, Raoul Walsh. 1945; Warner Bros.), il capi­

tano Nelson (lirrol Flynn), che nella vita civile svolgeva la professione di architetto, si mostrava talmente protettivo con i suoi ragazzi da pri­ varsi del suo personale disinfettante per permettere a uno di essi di dis­ setarsi. All’interno della compattezza del gruppo, l’individualismo pe­ culiare di certo cinema di genere non era affatto eliminato, ma veniva integrato anch’esso nell’obiettivo comune attraverso percorsi lieve­

mente più complessi di progressiva presa di coscienza del singolo per­ sonaggio. Joe Wi nock i (John Garfield), aviatore inizialmenteanarchico e insofferente in Arcipelago in fiamme, si rendeva protagonista di un

cammino di trasformazione individuale che lo portava a rischiare la sua stessa vita per salvare il bombardiere Mary Ann e i commilitoni con cui viaggiava; Woody Jason (John Carroll) ne / falchi di Rangoon {Flying Tigers, David Miller. 1942; Republic), smanioso spaccone biasimato

dalla sua squadriglia d’aviazione, sacrificava infine la sua stessa vita con una manovra suicida per salvare quella del compagno Jim Gordon (John Wayne). Anche l’individualismo esasperato, per diventare eroi­ smo. doveva essere filtrato attraverso un’opera di dedizione totale verso i valori e gli ideali per cui la nazione era entrata in guerra, il cui punto più alto rimaneva il sacrificio della propria vita in funzionedell’obietti-

vo da raggiungere. Il giù citato Bataan, ad esempio, aveva come tema

centrale proprio la disposizione al martirio in vista dell’ideale. Il batta­

In attesa detta guerra

223

glione aveva il compito di respingere l’attacco della pattuglia giappone­ se per permettere ai propri compagni di ritirarsi: la costante del sacrifì­ cio apparteneva ad ogni singolo soldato, sempre disposto a correre in soccorso del collega in difficoltà, fino alla rinuncia stessa della propria vita per tentare di salvare l’altro, come l’infermiere Hardy, che privan­

dosi di tutte le pastiglie di chinino per guarire il soldato Ramirez, sareb­ be morto subito dopo di malaria.

Anche la rappresentazione della morte era regolata dal Manuale di propaganda dell’OWl, che prevedeva che non fosse mai mostrata attra­ verso un certo compiacimento spettacolare o soffermandosi su partico­ lari raccapriccianti, per non sconvolgere il pubblico americano, fatto per la maggior parte di familiari e congiunti dei ragazzi che rischiavano

la vita sul fronte del Pacifico e in Europa, lui tragedia che la morte por­ tava inevitabilmente con sé doveva essere svuotata di implicazioni drammatiche e fornita soltanto come dato imprescindibile, effettivo (perché inevitabile), e in qualche modo compensato da altri fattori, lui

morte poteva avvenire nella concitazione della battaglia, nelle cui scene

l’attenzione del pubblico veniva veicolala sull’aspetto drammatico ge­ nerale e non sulla singola sorte individuale. E ancora, era la presenta­ zione del battaglione nei momenti di tranquillità precedenti la battaglia a fornire una valida attenuazione all’emozione suscitata dall’eventuali­ tà della morte di uno dei personaggi: proprio la presentazione preventi­ va del gruppo faceva si che il pubblico riuscisse a identificarsi con più personaggi contemporaneamente e fosse cosi in grado di permutare l’eventuale dipartita di un soldato con l’attenzione empatica per un altro soggetto equivalente sul piano dell’immedesimazione. Nel fìlm di guer­ ra, durante la Seconda guerra mondiale, la morte era trasformata in con­ tingenza, oppure in ellissi sospensiva. Sempre in Bataan, la morte del

sergente Bill Dane (Robert Taylor), inevitabile perché il fìlm racconta­ va un episodio tragico realmente accaduto solo pochi mesi prima, era soltanto suggerita: rimasto eroicamente l’ullimosoldato ad affrontare la

ormai prossima avanzata giapponese, il volto fiaccato dalla malaria (quasi a giustificamela resa), era mostrato mentre sparava all’impazza­ ta verso i nemici che stavano sopraggiungendo, ma la sua prevedibile fine era di fatto cancellata, facendo giungere il termine del film prima

dell’inevitabile arrivo dei giapponesi. Iji comparsa degli onori della

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Storia e storie del cinema americano

guerra fu un problema di cui il cinema americano si preoccupò dopo la fine del conflitto, quando lo scopo eia stato raggiunto e il bisogno di confortare e istruire il pubblico fu superato dall’urgenza di alcuni artisti di riflettere sulle conseguenze del grande dramma mondiale. Indubbiamente, l’OWI non fu soltanto un ufficio propagandistico

quanto un suggeritore di messa in scena, perché le sue instancabili di­ rettive furono fondamentali nel redigere alcune norme di rappresenta­

zione del genere che diventarono costanti anche a guerra terminata e, in alcuni casi, fino a tempi recentissimi: Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan, Steven Spielberg. 1998; Amblin Entertainment/DreamWorks/Mark Gordon Productions), pur nell’aperta critica all’inutili­ tà delle operazioni belliche, e sebbene avesse esibito deliberatamente

l’orrore nella febbrile sequenza dello sbarco in Normandia, presentò situazioni ed elementi che parevano derivare direttamente dal Manuale

di Propaganda, come la varietà etnica del plotone (di cui facevano parte anche un ebreo, Stanley Mellish [Adam Goldberg], e un italiano, Adrian

Caparzo [Vin Diesel]), l’umanità dell’ufficiale al comando (il capitano

Miller, interpretato da Tom Hanks) e il suo essere pienamente inserito nella società civile (nella quale svolgeva la professione di insegnante di letteratura).

PARTE 3

Il sistema scricchiola

CAPITOLO 10

La caccia alle streghe

10.1

«The Age of Paranoia»

David Menili è un regista affermalo. È appena tomaio dalla Francia, dove in due mesi ha girato gli esterni per il suo prossimo film. È ammi­ ralo da Humphrey Bogart e benvoluto da Darryl Zanuck. capo della

20th Century-Fox. Ha un sacco di amici nell’ambiente hollywoodiano, che lo attendono a casa sua per fargli una sorpresa di bentornato. Ha un appuntamento il giorno successivo con Zanuck per discutere del film, ma il produttore è sibillino, pare amareggiato, parla di pressioni del

consiglio di amministrazione di New York, di un politicante ostile. Consiglia a Merrill di «chiarire la sua posizione», rivolgendosi a un avvocato, un tale Felix Graff, che «sa come si trattano quei bastardi». Ma una volta giunto dall’avvocato. Merrill si accorge chenonc’è nien­ te da chiarire, perché ha solo partecipato a un paio di riunioni di un’as­

sociazione di sinistra, dodici anni prima. Sembra un semplice equivoco,

ma dal giorno successivo, niente è più come prima: Zanuck. su pressio­ ne di New York, cancella la lavorazione del film, l’agente appare imba­ razzalo dal suo arrivo improvviso in agenzia, la RKO. che pareva di­ sposta a permettergli di terminare il film di un suo amico regista. Joe Ixsser, in fuga verso l’Europa perché comunista, gli vieta l’ingresso all’interno dei suoi studi. Solo, distante anche dagli amici di un tempo, confortato solo dalla sua ex moglie Ruth e dall’affetto del figlio Paulie. David Merrill si trasferisce a New York alla ricerca di lavoro. A Broa-

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Storia e storie del cinema americano

dway incontra l’amico regista Abe Barron e la sua compagna Felicia, che aveva lanciato lui stesso nel mondo dello spettacolo, ma anche loro, nonostante l’entusiastico incontro, in seguito lo allontanano. Trova im­

piego come elettricista in una bottega, ma è continuamente pedinato dall’FBI. Convinto di non avere via di scampo, toma a !>os Angeles.

Ixiscia la sua abitazione e si trasferisce in casa della ex moglie. Grazie a un produttore di dubbia reputazione, ottiene la possibilità di terminare

un western low budget per la Monogram. Merrill affronta con entusia­ smo questa opportunità, un entusiasmo ingigantito dal lungo periodo trascorso senza lavoro, ma dopo qualche giorno di riprese, i dirigenti

della casa di produzione lo sostituiscono per evitare seccature. Senza alcuna possibilità di lavoro, abbandonato dagli amici, accompagnato

solo più da Ruth, Merrill vede franare anche le vite di chi gli è sempre stato vicino: una vecchia amica, Dorothy, si suicida perché il marito, dopo aver deposto per la Commissione per le attività antiamericane e aver tradito i suoi conoscenti, le ha sottratto la tutela del figlio; il sodale

di lunga data, Bunny Baxter, sceneggiatore, terrorizzato dall’idea di es­ sere incluso nella lista nera, gli chiede di poter fare il suo nome alla Commissione, visto che lui non ha più niente da perdere. Poco prima del giorno in cui Merrill deve comparire davanti alla Commissione. Zanuck gli prospetta una nuova possibilità di girare un film e tornare al lavoro. Merrill è combattuto, ma sa che il cinema è tutta la sua vita, l’unica cosa che veramente lo esalti: accetta la difesa dell’avvocato Graff e una volta davanti agli inquirenti ammette di aver partecipato ad alcune riunioni nel passato. Ma davanti all’insistenza della Commissio­ ne, che pretende la sua delazione e minaccia anche l’ex moglie Ruth per alcune manifestazioni antiatomiche a cui aveva partecipatone! passato,

Merrill si rifiuta di rispondere. Probabilmente non tornerà a lavorare, ma lascia con orgoglio l’aula, notando prima di uscire che anche Bax­ ter. nonostante la paura, si è rifiutato di rivelare i nomi per salvare se stesso. Quella appena raccontata è la sinossi di Indiziato di reato (Guilty by Suspicion, Irwin Winkler, 1991; Canali, Warner Bros.), ma in realtà fu la storia capitata a un ingente numero di attori, registri e sceneggiatori

hollywoodiani nell’arco di tempo che va dal 1947 alla metà degli anni Cinquanta, quando gli Stati Uniti furono scossi daH’inchiesta della

Aa caccia alle streghe

229

Commissione parlamentare per le attività antiamericane (House Com­ mittee on Un-American Activities, il cui acronimo era IIUAC) contro le infiltrazioni di sovversivi nell’industria del cinema. Dietro le figure messe in scena da Winkler erano adombrate le vicen­ de realmente vissute da alcuni personaggi della Hollywood del dopo­

guerra, alcuni dei quali videro la loro carriera ostracizzala in liste nere per il loro rifiuto di subire l’umiliazione della resipiscenza pubblica e

l’onta della delazione a danno dei propri amici, mentre altri, disposti a testimoniare e a fare i nomi richiesti dagli inquirenti per timore delle conseguenze o per maggiore disposizione a scendere a patti con la pro­ pria dignità, continuarono la loro carriera superando i sospetti come un semplice incidente di percorso. Il protagonista, David Merrill (Robert De Niro), nella sua condotta sofferta ma lineare, presentava elementi che potevano essere assimilati

a figure come John Berry o Lillian Hellman (la cui testimonianza di fronte allallUAC forni labase per la deposizione di Menili), o anche a Elia Kazan (che però diede al la Commissione i nomi che pretendeva) e

a Sterling Hayden (comunista in passato e reduce di guerra, come Mer­ rill). Il suo collega Joe (.esser, in fuga verso l’Europa, era ricalcalo su Joseph l stesso governo Roo­ sevelt, tramite il Resettlement Administration, il piano federate che puntava a risolvere i gravi problemi della popolazione agricola dopo la

232

Storia e storie del cinema americano

crisi del ’29 e la tragedia di proporzioni bibliche dovuta alla Dust Blow che aveva colpito le grandi pianure del Midwest, aveva prodotto due documentari realizzati da Pare Ixjrentz, The Plow That Broke the Plains (1936) e The River (1938). Il primo mostrava l’attività delle famiglie dei contadini e la crisi sopraggiunta con il primo dopoguerra e con le

drammatiche tempeste di sabbia che avevano in poco tempo cancellato il tessuto agricolo delle grandi pianure, costringendo i contadini a un trasferimento forzato verso laCalifomia (è quello che narrò sotto forma di romanzo Steinbeck in Furore solo tre anni dopo); il secondo illustra­ va l’importanza del Mississippi per l’equilibrio idrogeologico dei terri­

tori su cui scorreva, l’effetto dell’erosione dovuto alle inondazioni e allo sfruttamento intensivo delle superaci boschive sulle rive del fiume e la paziente opera della Farm Security Administration per bonificare il territorio e metterlo in sicurezza. Altri esempi di cinema progressista

erano affidati a compagnie indipendenti, come la Contemporary Histo­ rians, per cui il grande documentarista olandese Joris ivens raccontò le

prime fasi della guerra di Spagna in The Spanish Earth (1937). e alla Frontier Films, sotto il cui marchio furono realizzati People ofthe Cum­ berland (Sidney Meyers. Jay l^yda. lilia Kazan. Bill Watts. 1937). sul­

le popolazioni rurali del Tennessee. Earth of Spain (Herbert Kline. 1937). su un medico canadese impegnato nella cura dei feriti della guer­

ra di Spagna. China Strikes Back (Harry Dunham. 1937). sulle forze comuniste in Cina e sul l’occupazione giapponesedella Manciuria. Tutte queste manifestazioni, legittime nel periodo della presidenza Roosevelt e comunque dal limitato riscontro in termini di pubblico, con il diffondersi del sospetto e dei timori nei confronti del nuovo nemico, divennero espressioni condannabili. Hollywood, per l’HUAC. a causa della sua diffusione, rappresentava certo un pericolo di dimensioni im­ mani e la tendenza ad addentarsi in aspetti che fossero più approfonditi e complessi rispetto al semplice entertainment era visto come un pro­ blema da affrontare. Nel mirino degli inquirenti erano finite anche pellicole giratedurante la guerra, ai tempi del fronte comune contro il Nazismo. Pellicole in qualche modo compiacenti verso l’Unione Sovietica e l’alleanza in­

staurala contro la Germania. I pretesti erano minimi, grande l’eco che ne derivava: Mission to Moscow (Michael Curtiz, 1937; Warner Bros.)

Zx» caccia alle stregfie

233

narrava la storia dell’ambasciatore a Mosca Joseph Davies, sedotto dal sistema sovietico e dallo stalinismo, e Tu la causa dell’inclusione nella lista nera dello sceneggiatore Howard Koch, che l’hanno prima aveva

scritto Casablanca'. Song of Russia (Gregory Ratoff, 1944; MGM/ Ijocw’s Ine.), in cui un direttore d’orchestra americano in tournée in Unione Sovietica s’innamorava di una donna russa, era colpevole di mo­ strare immagini rasserenanti, strade ordinate e pulite, popolate da gente sorridente, curata, che tornava da lavoro cantando, e per questo motivo lo sceneggiatore Paul Jarrico comparve davanti alla Commissione. Ciò che durante la guerra era illustrazione compiacente, dopo divenne so­

spetto di sovversione. Gli stessi pregiudizi erano puntati sui temi pro­ gressisti delle pellicole contemporanee, a cui gli autori, impegnati poli­ ticamente e vogliosi di testimoniare un mondo reale e non quello fittizio e addomesticato cui il pubblico era abituato, non intendevano sottrarsi.

Il problema più stringente era quello dei reduci. Presentati fino a poco tempo prima attraverso l’ottica propagandistica ispiratadall’OWl, visti da Hollywood attraverso un’interessata retorica patriottica, i sol­

dati vissero nella realtà del dopoguerra il momento di un reinserimento tutt’altro che agevole, dopo gli anni trascorsi in Europa o nelle zone bagnate dal Pacifico. Alcuni film lo sottolinearono, desiderosi di cibar­ si di quella realtà che spesso Hollywood aveva espunto dalla sua ripro­

duzione cinematografica. / migliori anni della nostra vita (The Best Years of Our Lives, William Wyler, 1946; Samuel Goldwyn Company) scioccava lo spettatore facendo interpretare a un vero mutilato di guer­

ra uno dei tre ruoli principali. Harold Russell, che interpretava il mari­ naio Homer Parrish, aveva realmente perso entrambe le mani in un campo d’addestramento per paracadutisti nel Nord Carolina a causa di un’esplosione, e sullo schermo non faceva altro che incarnare il ritomo

quasi antonomasticodi chi era partito con particolari aspettative per poi tornare dovendo ricalibrare tutta la sua vita su parametri differenti. An­ cora più del dolore trattenuto della madre al ritorno a casa, vedendo suo figlio condue ganci prensili al posto degli arti, la scena più cruda, ben­ ché trattata con una misura che evitava di sprofondare nella facile com­ mozione, era quella in cui llomer chiamava il padre affinché lo aiutasse

a mettersi a letto: la macchina da presa rimaneva fissa sul Primo Piano

di llomer con la sigaretta in bocca, mentre l’anziano padre, paziente-

234

Storia e storie del cinema americano

mente, gli toglieva fuoricampo le protesi egli infilava il pigiama. Sem­ pre nello stesso quadro, Homer si girava, sedendosi sul letto, rimanendo sempre in un pesante in silenzio, mentre, sullo sfondo, non perfetta­ mente a fuoco, il padre sistemava sulla sedia le protesi con i ganci, prima di prendergli la sigaretta dalla bocca, spegnerla e andarsene, au­ gurandogli la buonanotte. 1 due aspetti su cui i film insistevano maggiormente erano lo smarri­

mento del reduce e la sua disillusione rispetto all’impegno profuso in guerra, equesto non mancò di suscitare lo sdegno dell’IIUAC. In lmi­ gliori anni della nostra vita, un altrodei protagonisti, Fred Derry (Dana Andrews), si ritrovava in bolletta, con una moglie irresponsabile ed egoista (sposata poco prima di partire per il fronte), e impossibilitato a

trovare un lavoro perché tutti i datori chiedevano un periodo di appren­ distato. Cosi veniva assunto nello stesso drugstore in cui lavorava in

precedenza, alle dipendenze del suo ex assistente (che assumeva subito un tono di superiorità, marcando il cambiamento di rapporti), occupan­

dosi del reparto profumi e del bancone dei gelati, e guadagnare 35 dol­ lari la settimana, a frontedel mensile di400 dollari percepito in aviazio­ ne. Impiego da cui poi sarebbe stato licenziato per aver preso le difese

di llomer nei confronti di un cliente che dapprima ne aveva compatito il sacrificio degli arti e poi aveva accusato gli Stati Uniti di aver com­ battuto una guerra alleandosi con la parte sbagliata. Smarrimento del reduce che, in maniera finanche didascalica, era spiegato in altre pelli­ cole, come in Boomerang, l'arma che uccide (Boomerang!, Elia Kazan,

1947; 20lh Century-Fox), per bocca dello psichiatra consulente della polizia a proposito del principale sospettato di omicidio di un sacerdote (è «amaro e risentito [...] è appena congedato, forse è per questo cosi amaro, la difficoltà di sistemarsi [...]»), oppure, più lucidamente, in Odio implacabile (Crossfire, lidward Dmytryk, 1947; RKO), attraverso

le parole di un certo Samuels, un uomo che il veterano aveva conosciu­ to in un bar e che sarebbe stato ucciso perché ebreo: «Forse è perché a un trailo ci troviamo senza più nessuno da odiare. Per quattro anni ab­ biamo concentrato lo sguardo in un solo punto. Cosi piccolo: vincere la guerra. Non c’era altro, la vittoria, ma ora basta. E a un tratto la pace. Cominciamo a guardarci un po’ attorno. Nessuno sa ciò che accadrà, né

cosa deve fare. Sappiamo combattere, ma non sappiamo più chi com-

La caccia alle streghe

235

battere. C'è come una tensione nell'aria. Siamo ancora intossicati dall'odio e dalla lotta. Uno finisce con l'odiare se stesso. Mah. un gior­ no o l'altro cominceremo a raddrizzare le idee. Cominceremo ad ap­

prezzare le cose, invece di odiarle». Una mancanza di obiettivi contro cui indirizzare le proprie energie, quella prospettata da Samuels, che la situazione del dopoguerra stava puntualmente per colmare. Su tali film aleggiava un sentimento di dichiarata disillusione, come se il prezzo pagato nel conflitto fosse stato un inganno frustrante alla prova del ritomo in società. Battute di dialogo sferzanti e azioni di in­ differenza da parie dei personaggi bruciavano in un solo colpo ciò che

con meticolosità certosina l'OWI aveva indicato in precedenza: il già citato Fred Derry, lasciando la casa dei suoi genitori in cerca di fortuna in / migliori anni della nostra vita, rispondeva al padre che gli rammen­ tava di portare con sé gli attestati delle motivazioni delle sue medaglie

liquidando la faccenda come «un mucchio di belle parole che non vo­ gliono dire niente», conferite con la stessa frequenza del rancio. In Odio implacabile. il soldato Keeley (Robert Mitchum), cercando di scagio­

nare il sospettato dell'omicidio di Samuels, si rivolgeva cinicamente al commissario: «non sarebbe in grado di uccidere una mosca», «e voi?», «già fatto».«dove?», «dove ci danno la medaglia...». I campi di sterminio in cui l’esercito americano aveva fatto più volte il suo ingresso erano dei teatri dell'orrore che non potevano cerio la­ sciare indifferenti, l^r sua conseguenza sul piano pratico, pur rimanen­ do alla superficie del problema, era interrogarsi sul pregiudizio che sca­ tenava l'odio razziale, partendo dal presupposto che ogni società, anche quelle democratiche, poteva contenere al suo interno il germe di una violenza impalpabile, dissimulata ipocritamente, ma altrettanto con­ dannabile. In Odio implacabile l’antisemitismo era la causa dell'efferato omici­ dio ai danni di Samuels, capro espiatorio di unodio irrazionale e incon­ trollabile, in una pellicola che utilizzava il pretesto razziale come mo­

vente di un noir oscuro e claustrofobico. In Barriera invisibile (Gentle­ man s Agreement, lilia Kazan. 1947; 20lh Century-Fox) il pregiudizio strisciante esistente nella buona borghesia americana, educata e media­

mente colta, diventava materia d’indagine da parte di un giornalista

(Philip Green/Gregory Peck) che, quasi con metodo Stanislavskij appli­

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Storia e storie del cinema americano

calo a! giornalismo, decideva di essere ebreo per registrare le reazioni della gente di fronte alla sua presenza. Kazan colpi ogni ambiente, non escludendo nessunodalla larva del preconcetto: professionisti (il medi­ co che si mostra sorpreso perché Green intende rivolgersi a un suo col­ lega ebreo), direttori di albergo (che gli rifiutano la stanza adducendo la

motivazione di un tutto esaurito), immigrati (la segretaria messa a di­ sposizione dall’editore), gli ambienti di provincia (gli amici che la so­

rella della fidanzata di Green non invita al ricevimento per evitare im­ barazzi). i coetanei del figlio adolescente (che lo apostrofano con epite­ ti razzisti), la stessa donna che ama (la quale dimostra di essere com­ prensiva solo perché convinta che il gioco di Green sia una messa in scena per raggiungere il suo risultato nell’inchiesta). Entrambe le pellicole presentavano intere sequenze didascaliche, necessarie a illustrare il problema nel modo più chiaro possibile a uso di un pubblico non ancora abituato ad affrontare tale situazione con immediatezza. Non era un caso, infatti,che tali spiegazioni si rivolges­ sero a personaggi poco attrezzati a comprendere nelle sue profonde

dinamiche la complessità del problema, che veniva sviscerato tramite gli opportuni esempi, cercando di far cadere in contraddizione l’inter­ locutore per dimostrare l’inconsistenza del suo pensiero preconfezio­ nato. In Odio implacabile, era il commissario Finlay (Robert Young) a

spiegare attraverso la storia degli immigrati irlandesi vessati perché cattolici allo smarrito soldato Mitchell, accusato ingiustamente dell’omicidio di Samuels, la fragile base su cui si erige l’odio razziale:

in Barriera invisibile, Philip Green, oltre ai chiarimenti elementari ri­ volti a suo figlio, cittadino in via di formazione per il quale é doveroso partire dalla definizione stessa di «antisemitismo», giungeva anche al­ la prova tattile del farsi toccare dalla segretaria con lo scopo di dimo­ strare l’uguaglianza tra tutti gli uomini, indipendentemente dalla reli­ gione professata. Un ulteriore terreno di scontro tra i film considerati progressisti e l’HUAC riguardava l’evidente sfiducia nei confronti della politica uffi­ ciale. Anticipati dalle figure arroganti e corrotte proposte dall’osserva­ zione caustica di Frank Capra e Robert Riskin, i politici nel panorama

cinematografico del dopoguerra mostravano spesso risvolti inquietanti,

diventando oggetto di stoccate impietose da parte degli autori alla licer-

Im caccia alle streghe

237

ca degli autentici valori della trasparenza e dell’onestà. Accordi tra uomini d’atTari e amministrazioni formalmente integerrime perlo sfrutta­ mento di zone edificabili (Boomerang, Karma che uccide), vantaggi

concessi alla stampa a scapito della collettività per garantirsi l’appog­ gio nelle successive elezioni (Bandiera gialla [Panic in the Streets, Elia Kazan, 1950:20th Century-Fox]). metafore spietate dello sfruttamento capitalistico (Le forze del male [Force of Evil, Abraham Polonsky,

1948; Enterprise Productions/Roberts Pictures Inc.), della violenza co­ ercitiva delle istituzioni (Forza bruta [Brute Force, Jules Dassin, 1947; Mark llellinger Produclions/Uni versai]) e della sua forza annichilente (Lafossa dei serpenti[The Snake Pit, Anatole Litvak, 1948; 20th Cen­

tury-Fox]), addirittura riferimenti en passant in trasposizioni d’altri tempi (in Cirano di Bergerac [Cyrano de Bergerac, Michael Gordon, 1950; Stanley Kramer Productions] gli strali in versi del Cirano inter­ pretato da José Ferrer indirizzati ai «politicanti» in luogo «dei falsi no­ bili, i falsi devoti, i falsi valorosi, i plagiari» di Rostand) erano un indi­

ce attendibile delle critiche di una certa Hollywood al sistema america­ no. Su tutti gli altri esempi, per l’esplicitazione dell’assunto, c’era la parabola di Willie Stark, politico populista e traviato di Tutti gli uomini deire (All the Kings Men, Robert Rossen, 1949; Columbia), figura ri­ calcala su quella del governatore della Ixxrisiana Huey Ixmg. Convinto

assertore del precetto «dal male si origina il bene». Stark (Broderick Crawford), pur iniziando la sua ascesa politica ponendosi al servizio dei cittadini più deboli, progressivamente rimaneva vittima della sua stessa sete di potere, dapprima alleandosi con i gruppi finanziari contro i qua­ li avrebbe dovuto indirizzare la sua battaglia, poi, una volta eletto go­ vernatore, venendo progressivamente fagocitato dalla sua esuberante

megalomania, cheto avrebbe condotto a costruire ospedali con il suo

nome, stadi per il football in cui far giocare il figlio, fino a eliminare lo scomodo padre di una ragazza moria in un incidente stradale che aveva per responsabile lo stesso figlio. Stark, in questo modo, si poneva come l’emblema di una degenera­ zione dell’azione politica, la quale pur nascendo dall’idealismo (sinto­ matico il dialogo iniziale tra il direttore del giornale e il reporter incari­ cato di intervistarlo: «Cos’ha di tanto speciale?», «dicono che sia one­

sto») appariva destinata all’inevitabile fallimento per bramosia, ricerca

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Storia e storie del cinema americano

sconsiderata del consenso e travisamento del mandalo. I-a domanda «Willie Stark, messia o dittatore?» che si poneva un cinegiornale men­ tre forniva il ritratto dell’uomo politico incarnava entrambi i poli di una visione sociale lacui sintesi era l’estrema personalizzazionedella poli­ tica operata dall’uomo, per una rappresentazione pubblica che divorava la realtà individuale, come dimostrava l’inquadratura wellesiana sul gi­ gantesco manifesto elettorale sovrastante la minuscola sagoma dello stesso Stark durante il discorso d’insediamento a governatore. Ovviamente, vista la monumentale varietà della sua produzione. Hollywood non realizzava soltanto lavori d’ispirazione democratica

che 1 ’ 11U AC leggeva come prodotti sovversivi, ma per stornare in qual­ che modo l’attenzione della commissione, realizzò una serie di pellico­ le dichiaratamente anticomuniste che tra il 1947 e il 1955 formarono una sorta di fronte comune allineato su posizioni ideologiche intransi­ genti e nazionalisliche.Tale produzione non fu particolarmente memo­ rabile sul piano artistico, poiché si caratterizzava per l’utilizzo di strut­

ture di genere già collaudate negli anni della propaganda antinazista, utilizzava stereotipi meccanici per raffigurare i personaggi e spesso, soprattutto nelle pellicole a budget più contenuto, presentava uno svi­ luppo narrativo elementare e situazioni talvolta artificiose. In alcuni casi si rischiò di precipitare nel grottesco,come in The Next Koùr You Here... (William Wellman, 1950; MGM). nel quale i residenti di una

cittadina americana sentivano la voce di Dio alla radio lanciare messag­ gi di pace all’umanità. lx> spettatore non aveva accesso al messaggio di

Dio. che era rivelato dai personaggi, i riferimenti al comuniSmo erano solo velali. l’Unione Sovietica era citata soltanto in un’occasione, ma la contrapposizione tra gli atei sovversivi e la fede del popolo americano

rappresentava un indice evidente del conlìilto ideologico in alto. Nelle storie narrate, si era in pratica sostituito un nemico con un al­ tro: al nazista era subentrato il comunista, la spia sovietica o il suo fian­ cheggiatore americano, e la struttura stessa del racconto aveva trasfor­

malo le storie di spionaggio, mutandone gli indirizzi e le peculiarità di alcuni personaggi. I grappi comunisti non facevano altroché compor­ tarsi come cosche di gangster pronti a malmenare gli oppositori, a usare per i loro scopi chiunque tornasse utile e a eliminare fisicamente tradi­

tori e individui sgraditi (oppure, nelle varianti allegoriche fantascienti­

Im caccia alle streghe

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fiche, erano alieni che s'impadronivano dei corpi degli umani per sper­ sonalizzarli e renderli una massa indistinta e incolore, dedita alla cieca obbedienza). 1^ donne erano la variante delle dark lady del noir, man­

tidi capaci di irretire i giovani ingenui nelle cui spire rimanevano in­ trappolati, oppure si manifestavano come presenze algide, prive di con­

notazioni sensuali, automi al servizio del partito o delle gerarchie di Mosca. Esemplare, a questo proposito, la rivelazione finale di Corriere diplomatico {Diplomatic Courier, Henry Hathaway, 1952; 2Oth Centu-

ry-l7ox): l'agente americano interpretato da Tyrone Power, solo dopo aver salvato dalle grinfie dell'agente russo Platov colei che fino a poco

prima aveva sospettato di essere una spia nemica, avrebbe adottato un tono più cortese, confessandole di vedere in lei finalmente una donna e

preparando l’atmosfera per il loro conseguente idillio. 1 messaggi veicolati dovevano essere chiari e privi di qualunque am­ biguità: il comunista, spietato e glaciale quello sovietico, opportunista e manipolatore quello americano, doveva essere sconfitto, pena l'esisten­

za futura della stessa nazione americana, mentre il giovane e ingenuo idealista americano, sedotto dall'ideologia sovversiva perché condizio­ nalo. doveva essere rieducato agli autentici valoridei padri. Ne L’amo­ re più grande (My Son John. l>eo McCarey, 1952; Rainbow Produc­

tions), il figlio di una madre di ammirevole fede cristiana e di un padre membro dell’American I>egion, l’associazione dei veterani, dopo un viaggio all’estero mostrava di essere cambiato. Si rifiutava di andare in chiesa, ironizzava sull’entusiasmo patriottico del padre, leggeva libri

invece di interessarsi al football, come i suoi due fratelli, faceva spesso visita a un professoree pareva avere un atteggiamento meno affettuoso nei confronti dei genitori. Indizi probanti che un americano non è più un buon cittadino, l-a madre lo seguiva a Washington D.C., dove il giova­ ne lavorava per il governo federale, e trovava conferma degli atteggia­ menti sospetti. lx> denunciava all’FBI come spia comunista. Il figlio, dopo l’arresto, ammetteva gli errori dettando la sua confessione a un magnetofono, riconoscendo nell’istruzione ricevutati terreno fertile per l’inganno comunista di cui era rimasto vittima: in un finale rabberciato a causa dell’inattesa mortedi Robert Walker, che interpretava il giova­

ne. il registratore risuonava su un podio vuoto, davanti a studenti atten­

ti a non cadere nelle lusinghe che stavano ascoltando. Sul podio ricade-

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Storia e storie del cinema americano

va un fascio di luce che non poteva non interpretarsi come trascendente, una sorta di sigillo divino a un'empietà satanica. Altre pellicole, più che ai modelli del buon americano medio e alla condanna della curiosità intellettuale, facevano riferimento alle struttu­ re della spy-story, basandosi sulla verosimiglianza delle storie che le

cronache del tempo riportavano con grandeeco. H sipario diferro {The Iron Curtain, William Wellman. 1948; 20thCentury-Fox), basato sulla vera storia di Igor Gouzenko, raccontava di un impiegato russo, resi­ dente in Canada, che scopriva i tentatividi trafugamento di informazio­ ni segrete da parte di alcuni parlamentari a vantaggio dell*Unione So­

vietica. Il già citato Corriere diplomatico alimentava lo spettro di un progetto di invasione dell’Europa che un agente scongiurava operando

in mezzo a spie e doppiogiochisti tra Salisburgo e Trieste. Mano peri­ colosa {Pickup on South Street, Samuel Fuller. 1953; 20th CenturyFox), in cui i comunisti avrebbero potuto essere una qualunque banda di gangster senza che il senso globale del film ne risentisse, ruotava intomo agli sforzi per recuperare un prezioso microfilm sottratto da un

abile ladro comune sulla metropolitana. / Was a Communistfor the FBI (Gordon Douglas. 1951; Warner Bros.), tratto dall’esperienza di Matt

Cvetic. raccontata in una serie di articoli per il «Saturday livening Post», narrava le avventure di un infiltrato dell*FBI all’interno del par­ tito comunista americano, sospettato di essere un sovversivo anche dal­ la sua stessa famiglia. Si insisteva anche sulla strumentalizzazione ideologica, forma di ipo­ crisia mascherata da impegno sociale. In L’imputato deve morire (Trial, Mark Robson. 1955; MGM). un avvocato (Glenn Ford) difendeva dall’accusa di omicidio un ragazzo messicano, scoprendo che la difesa organizzata dal partito comunista era fittizia, poiché puntava alla con­

danna dell’imputato con lo scopo di fame un martire peri suoi scopi. Lo schiavo della violenza {I Married a Communist - The Woman on Pier 13, Robert Stevenson, 1949; RKO). invcce.eraunfìlm particolare,

non tanto nell’impianto narrativo e nella codificazione dei personaggi (i comunisti ricattano un uomo, membro del partito durante gli anni della Depressione, per far saltare i negoziati sindacali tra padroni e portuali),

quanto perché rappresentava una sorta di prova di fedeltà, visto che la sua sceneggiatura fu proposta a tredici registi diversi per sondarne

La caccia alle streghe

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l’americanismo. Ovviamente,come storia-paradigma,! cliché erano un elemento preponderante e chiarivano alcune delle procedure che l’HUAC stava sviluppando nel corso dei suoi interrogatori: il comuni­

Smo era una colpa non emendabile. Ix> sottolineava il capo comunista nel costringere il protagonista Brad Collins (Robert Ryan) ad accettare il ricatto, ricordandogli l’impossibilità di uscire dal partito, e lo rimar­ cava soprattutto il Tinaie, in cui Collins, nonostante la sua eroica azione

di resistenza al volere del partito e il sacrifìcio per salvare la moglie, moriva tra le braccia diquest’ultima. In questa ossessiva atmosfera di estrema incertezza, delazioni incro­

ciate, accuse proterve e colpe da espiare, il 20 ottobre 1947 l’HUAC iniziò le sue udienze. J. Parnell 'Thomas era affiancato da una commis­

sione, tra i cui membri c’era anche un giovane Richard Nixon, dal 1969 presidente degli Stati Uniti, tirano state convocate un po’ tutte le cate­ gorie di Hollywood, produttori, registi, sceneggiatori, sindacalisti e an­ che Eric Johnston, il presidente della MPPA. Ognuno fece la sua parte. Jack Warner si difese dalle accuse di aver prodotto Mission to Moscow

e film dai temi sociali durante gli anni Trenta, dichiarando, con tanto di nomi, di aver licenziato scrittori alle sue dipendenze sospettati di essere

comunisti, anche se, in realtà, alcuni dei nomi a cui l’HUACera interes­ sata (Clifford Odets e Howard Koch, sceneggiatori di successo) erano ancora a libro paga. Ixxiis B. Mayer, perla Commissione, aveva sulla coscienza Song of Russia e una fastidiosa dichiarazione di Robert Tay­ lor, protagonista del film, secondo il quale le pressioni dell’amministra­ zione Roosevelt lo avevano obbligato a rimandare il suo arruolamento in Marina per completare il film. Mayer, tuttavia, non aveva la tradizio­ ne sociale della Warner e poteva vantare qualche fìlm anticomunista

realizzato in tempi non sospetti, come Ninotchka (Ernst Lubitsch. 1939; MGM), in cui. con i toni frizzanti di Lubitsch, anche l’austero commis­ sario comunista interpretato da Greta Garbo, una volta giunta a Parigi si scioglieva in una risata ciclopica sfruttata adeguatamente nei trailer

d’epoca e diventata successivamente sequenza d’antologia. Fu poi la volta dei testimoni cosiddetti «favorevoli», quasi tutti mem­ bri della Motion Pictures Alliance for the Preservation of American Ideals, che fecero a gara per mostrare il loro patriottismo e losdegno nei confronti dei disfattisti di fede comunista. Qualcuno non si rese conto

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Storia e storie del cinema americano

che la sua intransigenza poteva risultare goffa: Walt Disney si lamentò per lo sciopero dei suoi dipendenti durante gli anni Quaranta, Sam Wood che l'immagine ricorrente di banchieri e politici corrotti avrebbe infine indotto il pubblico a credere che il sistema capitalistico fosse sbagliato. l>eo McCarey- il quale, tra gli altri, aveva vinto sette Oscar con La mia via (Going My Way, 1944; Paramount), storia di un prete anticonformi­

sta interpretato da Bing Crosby che i suoi film in Unione Sovietica non avevano incassato perché il personaggio principale delle sue storie era Dio, che non poteva piacere agli atei comunisti. Robert Taylor giurò di essere stato riluttante a girare il vituperato Song of Russia e che mai

avrebbe girato un film con qualcuno sospettato di essere comunista; Gary Cooper assicurò di aver rifiutato copioni con messaggi comunisti, ma poi disse di non ricordare quali; Ronald Reagan, pur odiando il co­ muniSmo, pensava tuttavia che l'indagine dell’HUAC potesse mettere a repentaglio alcuni dei principi democratici del paese, costringendo i te­ stimoni a parlare per risentimento o per paura. Arrivò poi il tumodei testimoni «ostili», ossia di quei personaggi che

si erano rifiutati di rispondere alla domanda sulla loro appartenenza politica, appellandosi al Primo Emendamento della Costituzione ameri­ cana, che garantisce la libertà e la segretezza delle proprie convinzioni politiche e religiose. Erano diciannove. Tra questi Bertolt Brecht, che lavorava suo mal­ grado a Hollywood come sceneggiatore, Edward Dmytryk, Howard Koch, l>ewis Milestone, Irving Pichel, Robert Rossene Dalton Trum­

bo. Solo undici furono ascoltati primache PamellThomas decidesse di chiudere le udienze. Gli undici diventarono dieci, perché Brecht decise di tornare in Germania. Coloro che rimasero (Alvah Bessie, Herbert Biberman. Ixster Cole, Dmytryk, Ring luirdnerjr., John Howard luiw-

son, Albert Maltz, Samuel Omitz, Adrian Scott e Trumbo) diventarono tristemente famosi come «I dieci di Hollywood». Iji procedura utilizzala da parte della Commissione era di tipo inqui­ sitorio e non lasciava nessuno spazio alla difesa dell'imputato, né alle sue spontanee dichiarazioni. I^a domanda postaera sempre la stessa: «è iscritto o è stato iscritto in passato al partito comunista?», lui risposta

affermativa avrebbe portato alla condanna per ammissione di colpa, il «no» avrebbe causato invece la condanna per falsa testimonianza, poi­

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ché la Commissione basava la sua azione su tetragone certezze. Appel­ larsi al Primo Emendamento, rifiutandosi quindi di rispondere alla do­ manda, procurava una condanna per vilipendio, cosi cornei! rifiutarsi di rispondere alla seconda domanda, dopo aver ammesso l’appartenenza al partito, «Quali altre persone conosce che siano iscritte o che siano state iscritte al partito comunista?». Quest’ultimo era il quesito più do­ loroso e subdolo, perché costringeva l’imputato a scendere a patti con

la propria dignità facendo il nome di amici e conoscenti per salvare la carriera e i brandelli di un’esistenza già profondamente minata nelle sue convinzioni. Non c’era via di scampo, se non la delazione. Ciò a cui ambiva la Commissione era una profonda resipiscenza e l’umiliazione del teste, il quale era senza speranza alcuna, visto che non poteva ana­ lizzare le prove dell’accusa e nemmeno denunciare per diffamazione la Commissione, che era protetta dall’immunità parlamentare. Una lotta

impari. 1 Dieci poterono solo acquistare pagine dei giornali e, in seguito, produrre in proprio un piccolo film di quindici minuti, The Hollywood Ten (John Berry, 1950), per fornire la loro versione e tutelare la loro

posizione ormai compromessa. Anche i difensori della prima ora, riuniti nel liberal e anticomunista

Committee for the First Amendment, fondato, tra gli altri, da William Wyler e John Huston e di cui faceva parte l’aristocrazia di Hollywood (John Ford. George Stevens, Billy Wilder, Elia Kazan, Humphrey Bo­ gart. luiuren Bacall, Gregory Peck, Katharine Hepburn, Edward G. Ro­ binson, Gene Kelly, Rita Hayworth, Kirk Douglas, Henry Fonda, Burt

tancaster. Sterling Hayden, Paul Henreid, il produttore David O. Selz­ nick, i musicisti Benny Goodman e Ixonard Bernstein, lo scrittore Tho­ mas Mann), dopo una prima levata di scudi, cominciarono a disunirsi e a ripensarci. L’intenzione era di marciare compatti su Washington per portare il loro sostegno agli accusati e farsi ricevere da Truman, ma il fronte si sgretolò: Selznick rinunciò, probabilmente perché gli investi­ tori di Wall StreeLenlrati nell’industria del cinemadurante lacrisi degli anni Trenta, pressarono per farlo desistere da una crociata in cui Hol­ lywood aveva tutto da perdere sul piano dell’immagine, Bogart rilasciò dichiarazioni contraddittorie che dimostravano altemativamenteconfusione e imbarazzo, Huston annunciò il «rompete le righe» in seguito al

fallimento dell’ipotesi di colloquio con Truman.

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Storia e storie del cinema americano

Pur non potendo dimostrare 1’enettiva presenza di propaganda sov­ versiva nei film incriminati, i Dieci rimasero isolati e furono condanna­ ti a un annodi reclusione e a 1.000 dollari di multa, tranne Biberman e

Dmytryk, condannati a sei mesi e a un'ammenda di 500 dollari. Ironia della sorte, Ring l-ardnere l^ester Cole, rinchiusi nel carcere di Danbu­ ry, Connecticut, videro poco dopo giungere anche il loro più grande accusatore, J. Pamell Thomas, condannato a diciotto mesi per frode.

l>e carriere di tutti i condannati subirono una dura battuta d'arresto e molti furono costretti a lavorare clandestinamente, senza essere accre­ ditati, anche perché, dopo un’accesa discussione tra i produttori degli Studios, nella riunione del 26 novembre 1947 al Waldorf Astoria, fu stilata una «lista nera» nella quale furono inclusi tutti coloro che fosse­

ro sospettati di essere comunisti. Ad eccezione di Dmytryk, che dopo alcuni mesi di prigione decise di rinnegare il comuniSmo davanti alla Commissione e di rivelare i nomi dei suoi colleghi sospettati, gli altri del groppo videro le loro carriere

arenarsi o ricorrere alla clandestinità. Trombo lavorò senza firmare i suoi lavori o utilizzando uno pseudonimo. Negli anni in cui fu incluso nella lista nera, vinse anche un Oscar per la sceneggiatura di La più grande corrida (The Brave One, Irving Rapper, 1956; King Brothers

Productions) utilizzando il nome di Robert Rich. Tino a quando Kirk

Douglas, come produttore esecutivo, non insistè per fargli firmare con il suo vero nome Spartacus(id., Stanley Kubrick. I960: Bryna Produc­ tions). Albert Maltz, che pareva più interessato all'attività letteraria,

vide i suoi libri scomparire dalle biblioteche americane all'estero su ordine del Dipartimento di Stato. Durante il lungo perìodo in lista nera, scrisse L amante indiana di Delmer Daves con lo pseudonimo di Mi­ chael Blankforte.senza essere accreditato, La tunica (The Robe, Henry Koster, 1953; 20lh Century-Fox). primo film in Cinemascope, per poi riprendere la carriera di sceneggiatore con una certa regolarità solo ne­ gli anni Settanta. Herbert Biberman, dopo aver scontato la sua pena detentiva, troncò i rapporti con I lollywood e girò in piena indipendenza il sale della terra-Sfida a Silver City (Salto/the Earth, 1954; Indepen­ dent Production Company, Inti Union of Mine, Mill & Smelter Wor­

kers), che pati il poco invidiabile primato di film più boicottato della

storia del cinema americano. Utilizzando quasi esclusivamente attori

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improvvisati e soffermandosi sullo sciopero dei lavoratori delle miniere di zinco della New Jersey Company, a Bayard, nel New Mexico, real­ mente avvenuto tre anni prima. Biberman osservò con sguardo antropo­

logico la dura lotta per ottenere maggiori misure di sicurezza e l’allac­ ciamento dell’acqua nelle abitazioni, la resistenza dei minatori alla pressione delle forze dell’ordine e il contributo decisivodelle donne del villaggio alla riuscita dello sciopero. Ribellione, affermazione di diritti

inviolabili, unione delle forze in funzione dell’obiettivo, denuncia della discriminazione, parità di diritti tra americani e chicanos ed emancipa­ zione femminile erano gli elementi per i quali il film fu bollato come «propaganda comunista» e per questo ostacolato in lutti i modi. Il sena­ tore repubblicano Donald Jackson chiese l’interruzione delle riprese

perché il film, secondo la sua farneticante accusa, fungeva da copertura alle attività di sottrazione da parte dei russi dei segreti atomici di Ixjs

Alamos, nelle cui vicinanze il film si stava girando; l’FBI prima sospe­ se le riprese per un paio di settimane, poi costrinse i negozianti della

zona a non fornire generi di prima necessità alla troupe, infine espulse l’attrice principale. Rosaura Revuellas. a causa di un timbro mancante su un passaporto (le scene finali furono girate da una controfigura); il

film, una volta finito, fu montato, tra gli altri luoghi ameni, nella toilet­ te di una sala cinematografica in disuso, visto che a I lollywood nessuno concedeva spazi e attrezzature, e non meno avventurosa fu la distribu­ zione. poiché solo tredici sale a New York e San Francisco decisero di proiettare il film, subendo picchettaggi davanti agli ingressi da parte dei membri dello IATSE, il sindacato delle maestranze dello spettacolo, lui pellicola fu ritirata dal mercato e rappresentò la fine delle illusioni dell’Independent Production Company.

Altri componenti dei Dieci ebbero una sorte ancora peggiore; Adrian

Scott per vivere lavorò in una fabbrica di bambole. l>esterCole ripiegò come magazziniere, gli altri si riciclarono in film minori, in televisione o sparirono del tutto. Ne) 1951. l’HU AC. presieduta da John Stephens Wood, tornò all’at­ tacco di Hollywood per soddisfare nuovamente la sua costante osses­ sione. Questa volta i testimoni «ostili» si difesero ricorrendo al Quinto Emendamento, che permetteva di evitare di rispondere a domande che avrebbero potuto incriminarli. Ma un fronte corposo era rappresentato

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Storia e storie del cinema americano

dai pentiti, coloro che avevano avuto rapporti con il partito comunista ed erano disponibili alla delazione per poter continuare a lavorare nell'industria. Nella lista nera entrarono Paul Jarrico. che successiva­ mente avrebbe prodotto Usale della terra e che accusò a sua volta la Commissione di sovversione rispetto alla Costituzione americana, Wal­

do Salt, il quale scrisse per la televisione con il nome Mel Davenport per una decina d'anni prima di tornare alla ribalta con alcuni dei film più rappresentativi degli anni Settanta (Un uomo da marciapiede. Ser­ pico , Tornando a casa) e Carl Foreman, che nel 1952 sceneggiò una delle più lucide allegorie del maccartismo con Mezzogiorno di fuoco

Noon. Fred Zinnemann, 1952; Stanley Kramer Productions), sto­ ria di uno sceriffo lasciato solo dai concittadini ad affrontare i vecchi

nemici di un tempo. Di Abraham Polonsky si è già detto in precedenza, mentre per il protagonista del suo Leforze de! male. John Garfield, che

davanti alla Commissione negò ogni suo coinvolgimento nelle spire comuniste e si rifiutò di fare nomi di eventuali conoscenti, la situazione volse in dramma, perché mori qualche tempo dopo aver testimoniato per una trombosi, probabilmente anche a causa della tensione patita. Aveva solo 39 anni.

Ostracizzati furono anche gli attori Zero Moslel, che interpretò la sua triste esperienza in // prestanome (fhe Front. Martin Rilt. 1976; Columbia/Persky-Bright Productions), Will Geer, Lionel Stander e Jeff Corey; per gli attori la lista nera rappresentava un problema ancora maggiore rispetto agli sceneggiatori, i quali, come extrema ratio, pote­ vano lavorare clandestinamente utilizzando uno pseudonimo. L'attore era invece rappresentato unicamente dal suo corpo, dal suo volto; la sua messa al bando era totale. Alcune personalità di rilievo decisero di im­

migrare per evitare I'incriminazione o per il clima soffocante che si respirava: Joseph Losey si trasferì in Inghilterra, Jules Dassin in Fran­ cia, John Huston diventò cittadino irlandese. Orson Welles iniziò il suo peregrinare europeo in cerca di finanziatori per i suoi film. Charlie Cha­ plin, in nave verso l'Inghilterra per presentare Luci della ribalta ( Lime­ light. 1952; Celebrated Productions), si vide revocare il permesso di

soggiorno negli Stati Uniti come atto pratico di una serie di indagini che l’HUAC. e ancora prima l'FBI, avevano svolto sul suo conto. L’anno

successivo ufficializzò l'intenzione di non rientrarcpiù negli Stati Uni-

Zxj caccia alle streghe

247

ti e si prese la sua rivincita sulla Commissione nel Tinaie di Un re a New York (A King in New York, 1957), in cui il sovrano in esilioda lui inter* pretato innaffiava con un estintore gli inquirenti schierati per giudicar­

lo. Tra chi accettò di testimoniare facendo i nomi che la Commissione

desiderava c'era Elia Kazan, effettivamente iscritto al partito comunista dal 1934 al 1936. Kazan rivelò nomi inoffensivi, di colleghi già sospet­ tati o ascoltati dall'HUAC e il suo tradimento fu in parte attenuato dall’aver avvisato preventivamente le persone tirate in ballo e dalla paura di vedere la sua carriera troncata. Ma il senso di colpa e le pole­ miche per la sua sofferta scelta lo accompagnarono per tutto il resto della vita: Fronte del porto (On the Waterfront, 1954; Columbia/Hori-

zon Pictures), scritto da Budd Schulbcrg, altro testimone «favorevole», visto come l'elogio del delatore, era il tentativo concui Kazan si giusti­ ficava metaforicamente per la sua azione, mentre, ancora nel 1999, l’Oscar alla carriera che l'Academy decise di conferirgli fu il pretesto

per una divisione netta in seno alla comunità hollywoodiana tra chi lo condannava senza appello e chi, invece, consigliava di distinguere la carriera dell'artista dall'etica dell'uomo. Le indagini deH'HUAC nella Hollywood a cavallo tra gli anni Qua­ ranta e Cinquanta non furono soltanto un incubo per le vittime implica­

te e una prova di fedeltà patriottica perl'industria, ma ebbero soprattut­ to un effetto dirompente sul piano artistico, perché il labile conline tra tema progressista e propaganda sovversiva non fu mai chiarito dalla Commissione, intrappolata nel suo cieco dogmatismo e priva dello spessore culturale per riconoscerne le differenze. Questa indetermina­ tezza generò il timore di osare per non incorrere nel pregiudizio degli

inquirenti che vedevano fantasmi antinazionalisti ovunque: il risultato fu un appiattimento verso un vuoto conformismo nei contenuti che im­ pedì al cinema americano, per oltre una decina di anni, di affrontare argomenti di pressante attualità, di porsi come avanguardia o semplice

riflesso delle istanze più progressiste della società, se non attraverso il confortante filtro della metafora.

CAPITOLO 11

Il colosso d’argilla

11.1

Il monopoliosi sfalda: la sentenza Paramount e l’emergere della televisione

L’industria del cinema si era comportata con una certa ambiguità di fronte alla protervia dell’HU AC. I moguls degli Studios si erano sentiti spiazzati a passare, nel giro di soli due anni, dalle indicazioni proposte dall’OWI e accolte di buon grado durante il periodo di guerra alle deli­ berate accuse di infestazione sovversivea del sistema paventato dalla

Commissione. I facevano solo in modo differente per toni, modalità e spirito, con uno sguardo oggettivo e problematico sulla realtà quotidia­ na. quella stessa realtà che a Hollywood era mostrata attraverso un dia­

framma levigato, colorato iperrealisticamente e preoccupato di ricon­ durre conflitti ed eventuali contraddizioni entro i limiti di un finale ras­ sicurante. I primi lungometraggi completamente indipendenti furono realizzati nella prima metà degli anni Cinquanta a New York. sulla scorta di una tradizione cittadina fatta di movimenti artistici di sinistra

(Workers Film and Photo l>eague. NYKino. Group Theatre e IGLWU Theatre in ambito teatrale) che ambivano a esibire e riflettere sulla real­ tà come atto di denuncia degli squilibri e delle ingiustizie in atto nella società. // pìccolo fuggitivo (The Utile Fugitive* Ray Ashley, Morris Engel. RuthOrkin, 1953; Little Fugitive Production Company) e On the Bowery (Lionel Rogosin. 1956; Film Representations. Rogosin Films) furono i primi esempi di questo tipo, premiati alla Mostra di

Venezia (nel *54 e nel *56). entrambi nominati all’Oscar, ma miscono­ sciuti dal grande pubblico. On the Bowery sì situava a metà tra il docu­ mento etnografico e l*allestimento narrativo, osservando con partecipa­ zione, quasi con una certa compassione, la fauna di alcolizzati ed emar­ ginati ruotante intorno alla Third Avenue di Manhattan, con il suo sce­ nario caratteristico di umanità alladeriva incastonata tra i tipici tralicci della ferrovia rialzata a fare da riferimento orientante alla visione e i

discorsi casuali, futili, spesso sconnessi, specchio di una quotidianità che dal reale assumeva la ruvidezza dell*asfalto. gli effluvi dei ripu­ gnanti bare la spessa grana dei volti sofferenti. In una situazione defi­

nita drammaticamente, Rogosin estraeva i segni evidenti di un tormento profondo, seguendo con discrezione partecipe le insicure traiettorie esi­ stenziali di individui ormai privi di speranza. // piccolofuggitivo era invece un film a soggetto e raccontava la fuga di un bambino, Joey, verso Coney Island convintodi aver ferito a morte suo fratello maggio­ re. Attori non professionisti, attrezzature leggere e suono sincronizzato in postproduzione per una vicenda minimalista, antispettacolare, fonda­

ta su poche azioni di rilievo (la messa in scena della mortedel fratello e

la fuga conseguente del piccolo Joey, l’escamotage con cui l’addestra-

256

Storia e storie del cinema americano

tore dei pony scopre le generalità del bambino per avvisare telefonica­ mente la famiglia, il ritrovamento casuale da parte del fratello maggio­ re, «risorto» e preoccupato) e su una preminenza nell’osservazione dei personaggi e degli ambienti caratterizzanti (la spiaggia di Coney Island, il luna park antistante). Il soffermarsi sullo svuotamento delle azioni comunemente intese e la scelta di raccontare il girovagare di Joey nel luna park, attratto dalle giostre con i cavalli e dal tiro ai barattoli, e poi

in spiaggia, tra l’imponente presenza dei bagnanti, alla ricerca di botti­ glie vuote da raccogliere per ottenere i quarti di dollaro necessari a ca­ valcare i pony, erano scelte forti che capovolgevano i criteri rappresen­ tativi ed estetici di Hollywood, ma che dotavano la narrazione di una candida levità, di un lirismo delle piccole cose che fu fonte d’ispirazio­

ne, per sua stessa ammissione, anche dal Francois Trulfaut agli esordi come regista. Altrettanto libero appariva lo sguardo di Shirley Clarke, raro caso di cineasta donna, almeno fino agli anni Settanta (Alice Guy nella Hol­

lywood delle origini, Dorothy Arzner e Ida Lupino in quella del periodo classico. Maya Derennell’ambito del cinema sperimentale). Piùche nel suo primo lavoro. The Connection (1962; Films Around the World), in

cui l’impiantodi «film nel film» obbligava la struttura in un’artificiosi­ tà sostanziale già delineata nell’origine teatrale del soggetto, tale libertà

si riscontrò soprattutto in The Cool World (1964; Wiseman Film Pro­ ductions), nel quale una cinepresa leggera si muoveva con agilità tra le strade di New York, passando da un cane randagio scodinzolante tra palazzi e bidoni dell’immondizia a bambini impegnati a giocare sui bordi dei marciapiedi, per fomite un affresco sulla condizione dei neri, sulle loro abitudini quotidiane, sulla loro cultura, in un miscuglio di intreccio drammatico e osservazione diretta della realtà. L’impegno

verso i problemi e le contraddizioni della contemporaneità americana che il cinema hollywoodiano, anche se trattati con modalità digeribili al grande pubblico, aveva pressoché abbandonato dopo gli anni bui delle inchieste dell’HUAC, erano il motivo di osservazione privilegiato di un cinema che iniziava a modellarsi come un autentico punto di riferimen­ to perla Itasi Coast. Pestilent City (Peter lìmmanuel Goldman, 1965) era un trattato sulla

solitudine, la miseria e l’abbandono della durata di 16 minuti girato per

// colosso d'argilla

257

le strade di Manhattan. Echoes of Silence (Peter limmanuel Goldman. 1965), con le sue immagini sporche, trascurate, quasi accidentali, e i suoi titoli e le didascalie introduttive scritti a mano su pezzi di caria e la sua

assenza di suono diegelico. si soffermava sui volti e sui corpi di giovani flàneur newyorchesi impegnati in vane ricerche, in vagabondaggi senza costrutto. Nothing But a Man (Michael Roemer, 1964; DuArt/Nothing But a Man Company), attraverso la relazione tra un lavoratore itinerante

delle ferrovie e la figlia di un predicatore battista, mostrava dall’interno la difficile situazione in cui versava la popolazione di colore nel Sud degli Stati Uniti (il film era ambientato in Alabama, anche se fu girato

nel New Jersey da Roemer e dallo sceneggiatore e direttore della foto­ grafìa Robert Young, entrambi bianchi e con studi universitari compiuti in prestigiose università). Anche David e Lisa (David and Lisa, frank Perry, 1962; Lisa and David Company/Vision Associates Productions) utilizzava una relazione, questa volta tra due ragazzi affetti da problemi mentali, per mettere a nudo intomo al percorso personale dei due prota­

gonisti i limiti delle istituzioni e l’ipocrisia del sistema famiglia. Anche la West Coast propose la sua avventurosa via alternativa al cinema, nonostante la vicinanza a Hollywood. Contemporaneamente

alla factory di Roger Corman - che tratteremo in seguito - alcuni gio­ vani cineasti si attivarono per trovare il denaro necessario alle produ­

zione low budget cui realisticamente potevano ambire. A San francisco, John Korty. prima che la sua carriera approdasse alle produzioni televisive, raggranellò da una trentina di finanziatori 43.000 dollari per realizzare il singolare The Crazy-Quilt (1966; farallon). favola moder­ na su un rapporto di coppia squilibrato, in cui il marito era tanto cinico quanto la moglie idealista e sognatrice. Denis Sanders diresse e il fratel­

lo Terry produsse un libero adattamento del romanzo di Dostoevskij in Crime and Punishment, Usa (1959; Allied Artists Pictures/Sanders As­

sociates). Joseph Strick (originario della Pennsylvania), insieme a Ben Maddow e Sidney Meyers, realizzò The Savage Eye (1960; City film

Corporation), nel quale, ancor prima degli esempi realistici citati a pro­ posito del cinema newyorchese, accompagnava una donna divorziata nelle strade di Ixs Angeles registrando la singolarità di incontri e rela­ zioni con personaggi improbabili che diventavano lo specchio della sua

stessa incompiutezza. Da segnalare anche Stanton Kaye, che in Georg

258

Storia e storie del cinema americano

(1964; Ariadne Productions), storia di un soldato tedesco sopravvissuto alla Seconda guerra mondiale con l’hobby del cineamatore, s’interroga­ va sullo statuto e la composizione stessa delle immagini, e Curtis Har­ rington. il cuiM’gA/ Tide ( 1961 ; Phoenix Films) era una storia d’amore che virava nell’incubo situata a metà tra il fantasy e il thriller.

I profili dell’indipendenza non erano solo definiti dal contrasto ri­ spetto all’estetica e ai contenuti che Hollywood non trattava. C’era an­

che chi utilizzava le stesse logiche narrative del cinema industriale per rileggerlo alla luce di un budget bassissimo e alle limitate strutture rea­ lizzati ve a disposizione. Per esempio il misconosciuto Allen Baron, au­ tore esordiente, dotato di mezzi di fortuna e di soli 3.000 dollari (a cui. prima della fine delle riprese, furono aggiunti altri finanziamenti di sov­ venzionatoti improvvisati, per un totale di 50.000dollari) per realizzare Cronaca di un assassinio (Blast ofSilence, 1961; Magia Productions),

un noir fuori tempo che aveva per protagonista un killer enigmatico e solitario - interpretato dallo stesso Baron, dopo l’indisponibilità im­ provvisa di Peter Falk, impegnato in un altro film - tornato dopo diver­ so tempo a New York per una missione, che rimaneva intrappolato drammaticamente nelle spirati della città e delle reminiscenze del pas­ sato. Film soffocante, con alcune scene dal ritmo sorprendente (la se­ quenza nel night club, condotta con un montaggio rapidissimo e spiaz­

zante) e dalla violenza visionaria (la scena dell’uccisione del corpulen­ to ricettatore vista con una plongèe sul suo volto traboccante di scon­ certo e di morte), venduto frettolosamente da uno degli investitori alla Universal, che lo distribuì destinandolo al doppio programma, insieme a Splendore nell’erba (Splendor in the Grass, Elia Kazan. 1961; War­ ner BrosJNewton Productions/NBI Productions) e lasciandoche si per­

desse in un oblio da cui è risorto solo per la memoria di alcuni accaniti cinefili e perla riproposizione in alcuni festival. Tra gli indipendenti newyorchesi. John Cassavetes fu quello che eb­ be una maggiore longevità artistica e i risultati storicamente più apprez­

zali. Attore di film hollywoodiani e di serie televisive. Cassavetes pro­ gettava da anni un cinema differente, che si soffermasse realmente sul­ la gente attraverso il respiro della vita e non con il filtro del cinema. Fu

proprio questo il succo di ciò che disse durante una trasmissione radio­ fonica nel 1957: presentecome ospite per pubblicizzare Nelfango della

Il colosso d ardila

259

periferia (Edge of the City, Martin Ritt, 1957; David Susskind Produc-

lions/Jonathan Productions/MGM). del quale era protagonista, Cassa­ vetes ignorò il film di Ritt per esortare il pubblico in diretta a partecipa­

re al finanziamento di un lavoro finalmente concentrato sugli individui e non sugli sviluppi spettacolari delle loro azioni. Il film in progetto era Ombre (Shadows, 1959; Lion International), che fu completato due an­

ni dopo. Un film su situazioni reali, catturale dauna macchina da presa

che si soffermava, ricercandoli deliberatamente, sulle pause degli attori, sulle loro esitazioni, sui dubbi e sulle manie che emergevano oltre che nella storia raccontata, nell’alto stesso della recitazione. L’attenzione di Cassavetes si rivolgeva a tutti quegli elementi che il cinema hollywoo­ diano avrebbe espunto dal montaggio definitivo perché improduttivi, senza il ritmo previsto o poco funzionali rispetto al disegno espressivo globale. Il peso della poetica del regista gravava tutto sui personaggi,

veri responsabili dello sviluppo della storia, invertendo, di fatto, la co­ struzione base del cinema classico, nel quale il soggetto era il tessuto

essenziale su cui s’innestava l’azione dei singoli aitanti. Una scena di Ombre, una tra le tante possibili, era esemplare a questo proposito. In­

terno di un’abitazione newyorchese. Ixlia (I-elia Goldoni). la giovane padrona di casa, è in compagnia di Tony, il suo nuovo ragazzo. Non attesi, arrivano Hugh, il fratello cantante della ragazza, e Rupert, il suo

agente. I^lia li presenta a Tony. Un attimo di imbarazzo, poi forse an­ che di timore, una pausa dubbiosa che il cinema di I lollywood avrebbe risolto con l’immediatezza di un piano di reazione: Tony non sospetta­ va che la sua ragazza potesse avere un fratello di colore. Il suo volto si vela di una patina di disagio, lo sguardo si abbassa. Cerca una via di fuga possibile, tra le proteste avvilite di I^lia e il fastidio montante di Hugh, l^e iniziali inquadrature d’insieme si frantumano in una serie di

primissimi piani che colgono ogni più piccola sfumatura sul volto dei protagonisti. L’azione si ferma ed è sostituita dall’enormità dei volti sullo schermo. Non succede niente, ma l’avvicendarsi dei piani ravvici­ nali segna, da un lato, il termine del rapporto della recente coppia, dall’altro, si propone come allusione critica su una società convenzio­ nale influenzata da pregiudizi e paure. Cassavetes mostrava stilistica­ mente la sua formazione televisiva: piani ampi in un intemo, illumina­ zione diffusa, carattere domestico, rottura della linearità con l’inserzio-

260

Storia e storie del cinema americano

ne di primissimi piani in funzione drammatica, espressività derivata dai volti e dall’illuminazione su di essi, nella determinazione di superfici angosciate, oppresse da) loro isolamento nello spazio della singola in­

quadratura. Sull’attore gravava tutta la responsabilità dello sviluppo di una vi­

cenda non definita preventivamente da un soggetto, solo accennata con canovacci su cui s’innestava l’improvvisazione. Iji situazione dramma­ tica (tre fratelli newyorchesi di colore, ognuno alle prese con le proprie velleitarie aspirazioni, l-elia, la minore dei tre. nera di pelle chiara, s’in­ namorava di un bianco che la lasciava quando scopriva la sua origine)

era definita solo negli snodi essenziali a cui fornivano anima e corpo l’immedesimazione degli interpreti calati in una parte che si condensa­ va progressivamente, in corso d’opera, fino al termine. Dopo l’eco di Ombre. Cassevetes fu chiamatoa Hollywood per com­ binare la sua poetica con i dettami deH’industria, ma i risultati, ad esem­ pio Too Late Blues(\96\’, Paramount) e Gli esclusi (A Child is Waiting.

1963; Stanley Kramer Productions) si dimostrarono piuttosto tradizio­ nali. non dissimili dagli altri prodotti degli Studios, e sicuramente lon­ tanissimi dall’intensi là narrativa dei piani ravvicinati mostrati successi­ vamente in Volti (Faces. 1968) o nel racconto picaresco di frustrazione coniugale Mariti (Husbands. 1970; Paces Music).

Nel settembre de) 1960. la volontà di essere indipendenti si dotò an­ che di un movimento che la rese legittima e la condusse su una via apertamente conflittuale con il cinema commerciale. Un corposo numero di registi, già attivo da anni, si riunì intomo a Jonas Mekas. un immigrato lituano direttore della rivista «Film Cultu­ re» (natane) 1955). critico del «Village Voice» e regista di lfucili degli alberi (Guns of the Trees) l’anno dopo, e al produttore l^ewis Alien per

fondare a New York il «New American Cinema Group», con l’inten­ zione di produrre e distribuire le pellicole degli autori indipendenti in contrapposizione al cinema proposto da Hollywood. «Film Culture» si trasformò in breve in una sorta di organo ufficiale del movimento, san­ cendo con il suo giudiziosferzante e con l’attenzione prestata a pellico­ le ignorate dagli altri organi di informazione quel rilievo di cui le pro­

duzione indipendenti e sperimentali solitamente non godevano. Fu que­

sto il caso, ad esempio, di Pull My Daisy (1959), che il pittore Alfred

Il colosso d argilla

261

l^eslie e il fotografo Robert Frank realizzarono su un testo del profeta della Beat generation Jack Kerouac (narrato dallo stesso scrittore in voce over) e interpretato da altri esponenti di punta dello stesso movi­ mento come Allen Ginsberg, Peter Orlovsky e Gregory Corso. Il tenta­ tivo di rivolta era speculare e autoalimentato: letteratura, cinema e co­ stume rappresentavano il mezzo per ambire a una protesta politica e sociale condotta attraverso le nuove possibilità di espressione fomite da

un clima avvertito come nuovo, urgente e inevitabile. Il Free Cinema inglese e la Nouvelle vague francese avevano fornito l’esempio di un nuovo cinema da contrapporre alle vecchie gerarchie estetiche e narra­ tive della produzione commerciale, ritenute moralmente corrotte, arti­ sticamente stantie, noiose sul piano dell’interesse, superficiali riguardo

al livello dei problemi affrontati. Il New American Cinema Group rifiu­ tava categoricamente l’ingerenza di produttori e di distributori nella realizzazione del film, considerato una creazione assolutamente perso­ nale da parte del regista, e la limitazione di qualunque tipo di censura, ritenuta mortificante e arbitraria perogni operazione artistica. lx> sforzo era volto a garantirsi nuove forme di finanziamento da investitori priva­ ti. riuniti in società a responsabilità limitata com’era in uso nella produ­

zione degli spettacoli di Broadway, contenendo il budget non solo per esigenze economiche, quanto per esprimere direttamente le proprie

convinzioni eliche ed estetiche. L’intenzione era chiara, sottolineata an­ che dal manifesto programmatico del Gruppo: «Non vogliamo film fa­ sulli, leccati, ammiccanti: li preferiamo aspri e scabrosi, ma vivi; non vogliamo film rosei, li vogliamo color sangue». Tra i ventitré fondatori c’erano autori con idee di cinema molto differenti tra loro. Oltre ai già citati Shirley Clarice, che prima di The Connection, aveva realizzato pellicole sperimentali. Alfred Ixjslie e Robert Frank, i fratelli Sanders e

Lionel Rogosin, figuravano anche un Peter Bogdanovich ventunenne che stava preparando un film che non vide mai la luce (The Land of Opportunity) e Gregory Markopoulos. regista d’avanguardia. Marko-

poulos, che nel 1947 aveva realizzato Psyche sulla complessità e le frustrazioni delle relazioni omosessuali, e che nell’ambito della sua produzione, soprattutto in Twice a Man (1963), ispiralo alla relazione

incestuosa tra Ippolito e Fedra, aveva raggiunto una maturità tale da proporre la sua originale pratica di montaggio (brevissimi fotogrammi

262

Storia e storie del cinema americano

inframmezzali nella continuità dell’inquadratura ad anticipare il piano successivo), era autore più vicino alle pratiche sperimentali che ai pro­ dotti indipendenti nutriti di realismo urtano. Markopoulos, così come

molte altri cineasti che si avvicinarono alle posizioni ideologiche del New American Cinema Group parallelamente alla conversione per l’avanguardia da parte di Jonas Mekas, si rifaceva alla tradizione dell’avanguardia storica europea dei dadaisti e dei surrealisti, oltre che

ad alcuni spaniti ma rappresentativi esempi occorsi in America, come la sinfonia architettonica e poetica del Manhatta di Paul Strand e Char­ les Sheeler(192l), l’onirica trasfigurazione de) racconto biblico di So­

doma e Gomorra in Lot in Sodom di James Sibley Watson e Melville Webber (1933)o la scintillante satira dell’alienazionehollywoodiana in The Life and Death of 9413: a Hollywood Extra di Robert Florey e

Slavko Vorkapich (1928; con un giovane Gregg Toland come operatore

alla macchina). O come la proliferazione ammaliante di simboli erotici in Meshes ofthe Aftemoontà Maya Derene Alexander llammid(1943):

in particolare, l’intera opera della Deren, soprattutto At Land(V)44), A Study in Choreography for Camera (1945) e Ritual in Transfigured Time (1946).divenneun modello per molti altri cineasti, inaugurando il

filone del cosiddetto trancefilm, la materializzazione in immagini delle angosce, dei sentimenti rimossi e dei desideri dell’autore, in un flusso

continuo che mirava alla palese manipolazione dei criteri di spazio e tempo. Ovviamente, in diretto contrasto con la costruzione fittizia e verosimile utilizzata dal cinema narrativo. L’obiettivo di questi autori, pur con tutte le differenze dovute alle individualitàartistiche e alle con­ cezioni culturali di ognuno.era di rifiutare anche la piena intelligibilità della narrazione per volgersi a un cinema puro, fondato sulla visione personale e lirica dell’immagine, sul l’astrazione dei contenuti e sul re­

cupero di una soggettività artistica dell’autore in pieno contrasto con la semplice registrazione della realtà. Progetti che arrivavano all’obiettivo per vie tortuose, dovute a un’idea che progressivamente cambiava for­ ma e diventava tutl’altro. o a rivoli d’ispirazione differenti che si con­ densavano successivamente in un unico nucleo espressivo, oppure an­ cora come un work inprogress iniziato senza una progettualità definita,

ma che in corso d’opera manifestava un impulso verso un percorso ul­ teriore, coerente e definito. Un cinema più che indipendente, under­

Il colosso d 'argilla

263

ground. secondo la felice intuizione lessicale del regista Stan Vander-

beek (o. secondo altri, di l^ewis Jacobs, il quale parlò di «underground existence» su un articolo di «Film Culture» del 1959). Un cinema sot­ terraneo con una circuitazione limitata ai collettivi di distribuzione (la «Film-maker’s Cooperative» di Mekas, attiva dal 1962, oppure la «Canyon Cinema Cooperative» di Brace Baillie), alle mostre d’arte, alle rassegne dedicate, ai festival (l’Ann Arbor Film Festival, nel Mi­

chigan, e Foothill College’s Independent Film-makers’ Festival, in Ca­ lifornia). alle proiezioni di mezzanotte nei cinema d’essai newyorchesi. Non era infrequente che un giovane autore, desideroso di mostrare il suo lavoro sperimentale, arrivasse alla Film-makers’ Cinematheque con le sue pizze sotto il braccio per sottoporsi al giudizio del pubblico e

degli esperti del settore. Il sottobosco era vario e articolato, ogni artista seguiva una sua logi­

ca espressiva personale e una peculiarità cinematografica che non di rado era accompagnata da scritti teorici {Metaphors on Vision di Stan Brakhage, 1963. e Chaos Phaos diMarkopoulos. 1970). Robert Breer e

Hany Smith erano impegnali nel cinema d’animazione sperimentale. Breer, con un passato da pittore, cercò nelle sue opere di continuare con un mezzo espressivo differente la sua preccdenteesperienza. Fotogram­ mi astratti e immagini di oggetti concreti, disegni, fotografie s’intrec­ ciavano tra loro in molteplici variazioni associative il cui scopo era di generare un’esperienza percettiva che faceva del ritmo e della vivacità il SUO punto di forza (soprattutto in4 Man and His Dog Outfor Air. 1957, Inner and Outer Space, del I960, e in Blazes, del 1961). Harry Smith inseguiva la forma applicata allo scorrere del tempo. 1 suoi espe­ rimenti con la tecnica denominata batik, con cui in Oriente si tingono i

tessuti, era volta all’applicazione di strati di pittura sulla pellicola lacui precisione era controllata con nastro adesivo, lui purezza dell’espres­ sione s’evidenziava attraverso la fluidità dei profili che venivano a for­ marsi sullo schermoe che si rifacevano ai moduli dell’astrattismo pitto­

rico. Successivamente, utilizzò tecniche differenti, che lo portarono a combinare immagini preventivamente selezionale e ritagliate da catalo­ ghi e riviste e poi filmale in una serie di variazioni che conducevano

aH’intemo di una storia narrata con elementi eterogenei e surreali (sa­ gome di uomini, sarcofagi,cocomeri, cani,case volanti: si veda Heaven

264

Storia e storie del cinema americano

and Earth Magic, del 1962). Sullo stesso versante pittorico anche le

animazioni ipnotiche di Jordan Belson, ispirate al buddismo zen e alla pratica dei mandala {Mandala, del 1952, Roga, de) 1958, Allures, de)

1961) e dei fratelli John e James Whitney, i quali, dopo aver iniziato insieme fattività (con Film Exercises, del 1944), proseguirono separa­ tamente i loro esperimenti attraverso l'utilizzo di immagini computeriz­ zate (Permutations, John Whitney. 1966: Lapis, James Whitney. 1966). che. soprattutto nel caso di James (le elaborazioni dinamiche di Lapis erano accompagnate dal suono di un sitar), rappresentarono un perfetto archetipo di visual music. Jack Smith era invece il volto scandaloso dell'underground. 11 suo Flaming Creatures (1963) fu prima estromesso dal Festival del cinema

sperimentale di Knokke-le-Zoute, in Belgio, per la sua indecenza (e in polemica contro questa decisione, Jonas Mekas si dimise dalla giuria), poi causò l'arresto di Jonas Mekas per averlo proiettato nelle sale della Cinematheque perché violava i divieti della censura, alimentando le

speranze di coloro che nell'underground vedevano soprattutto un mez­

zo per andare contro la morale comune. Ovviamente, divenne un caso. Un film maledetto, apprezzato da alcuni intellettuali (Susan Sontag ne scrisse come di «un esempio trionfale di visione estetica del mondo». Fellini pare che cercasse avidamente una copia per poterlo vedere), vi­

tuperato da gran parie della critica, sequestrato per oscenità dalle auto­ rità che lo resero indisponibile per lungo tempo. Era un film di 45 mi­ nuti di durala, girato con pellicola in bianco e nero scaduta (e questo causava una luminosità eccessiva neH'immagini segnate da sfumature scure) su) tetto di un teatro abbandonato e con soli 300 dollari di bud­ get: un festoso baccanale in cui un grappo di travestiti e alcune donne ballavano, si sfioravano, si toccavano, si palpeggiavano in una parodia

di orgia commentata da brani famosi (ìmapo/a. Siboncy, tra gli altri), si dilettavano in conversazione oziose, lasciando emergere talvolta la ro­ tondità di un seno o l'insinuante presenza (benché rilassata) di membri maschili, blaming Creatures rendeva plastico il desiderio, nonostante le inquadrature risultassero spesso oblique rispetto ai soggetti (la mac­ china da presa di Smith era posta su una scala che riprendeva gli attori

lievemente dall'alto), esaltando il rituale di un corporeità gioiosa, spen­ sierata. vitale, in qualche modo diafana (alla cui definizione contribuiva

// colosso d'argilla

265

la grana sfuggente, antica, della pellicola scaduta), dietro cui si celava anche la caricatura dello star system hollywoodiano, preda del culto delPimmagine e dell’apparenza. Sul corpo come feticcio s’inseriva anche l’opera di Kenneth Anger. Il suo cinema era un delirio di immagini, colori, giustapposizioni e col­

lisioni, che smarrivano i nessi causali per affermare le dinamiche del pensiero e del sogno. Il suo sguardo ipnotico era rivolto alla creazione

di una serie di immagini che allestissero un’atmosfera di rivelazione spirituale, secondo un rituale ancestrale, non indifferente alla dottrina occultista di Aleister Crowley, di cui era un fervente seguace. Scorpio Rising (1963; Puck Productions), il suo film più celebre insieme a Fi­ reworks ( 1947) e Inauguration ofthe Pleasure Dome ( 1954), si presen­

tava come una struttura di idee basata su legami associativi tra le varie inquadrature, su elementi visivi e sonori sapientemente (e ironicamen­ te) connessi tra loro. L’universo abitato da motociclisti illustrato da An­ ger rappresentava anche l’ingresso in una simbologia ossessiva retta da Eros e Thanatos, vista attraverso i feticci della sessualità (la spessa tor­ cia elettrica, i trofei con cui si afferma la virilità maschile, il cono stra­ dale) e i modelli della contemporaneità (Brando e Dean, i giubbotti di

pelle). Cosi come Warning Creatures, anche Scorerò Rising, nelle sue modalità realizzale, mostrava un intento ironico nei confronti dell’in­

dustria hollywoodiana: il movimento sinuoso con cui la macchina da presa inquadrava frammenti meccanici e motociclisti inguaimi sen­ sualmente da jeans e capi di pelle, esprimeva l’irriverente ribaltamento

underground del fascino divistico americano, l^ spersonalizzazione della parie meccanica in contrapposizione alla creazione artefatta del mito, fascino ostentatamente omosessuale opposto alla falsamente ras­ sicurante immagine della mascolinità cinematografica.

Pur mostrandosi interessato a sondare i temi del feticismo e della sessualità (Blow Job e Kiss, entrambi del ’63. Couch, del ’64). soprat­ tutto quella omosessuale (ad esempio in My Hustler, 1965). all’inizio della sua attività cinematografica. Andy Warhol, già famoso come pro­ feta della Pop Art, si dedicò a scardinare il concetto di tempo all’intemo dell’unicità dello spazio in film dalla lunghezza estenuante, girati in

bianco e nero, senza titoli, che a un’attenta analisi, ossia andando al di là della facile accusa di provocazione che gli fu mossa, non facevano

266

Storia e storie del cinema americano

altro che replicarecon la continuità dei fotogrammi la serie di serigrafie che avevano caratterizzalo un filone definito della sua arte. Sleep (1963), inquadratura di un uomo immerso nel sonno (il poeta John

Giorno), della durata di sei ore. Empire (1964), osservazione fissa delHimpire State Building per otto ore, erano lancinanti prevedi resi­ stenza allo sguardo in cui l’evento veniva cancellato in funzione della durata, permettendo al momento insignificante, al contomo e alla pic­ cola variazione di conquistare la ribalta in virtù di un soggetto dato per scontato. Warhol, di fatto, scontomava e svuotava il senso della visio­ ne, non più concentrata su) centro dell’inquadratura, ma alla ricerca di

traiettorie differenti, secondarie e mai battute. L’inquadratura si faceva centripeta e lo spazio si sottometteva alla dilatazione del tempo. Allo stesso modo, quando cominciò a utilizzare il sonoroe realizzare film in cui compariva un abbozzo di narrazione, nel 1965, Warhol utilizzò la

stessa dilatazione del tempo per scardinare i principi del racconto, esal­ tando la banalità di discussioni lunghissimeche non approdavano mai a una conclusione coerente, con personaggi che cercavano di conquistare

il centrodella scena con la loro abilità verbalee l’aggressività dei corpi (The Life of Juanita Castro, 1965, Yynil, 1965, The Chelsea Girls, 1966, film della durata di tre ore e mezzo da proiettare su due schermi paralleli), lui monotonia del quotidiano innalzata a principio estetico come risposta al massimalismo del cinema commerciale. Convinto che compito dell’artista fosse il recuperare la piena perce­ zione della realtà, scavando a fondo nelle apparenze, facendosi strada

emotivamente e cognitivamente all’interno di un universo caotico in cui la visione era accolla come un dato di fatto. Stan Brakhage. proba­ bilmente il più influente tra gli artisti d’avanguardia americani, realizzò dal 1952, anno del suo primo film. Interim, al 2003. quando mori, più

di 370 titoli. Per Brakhage il film doveva essere un’esperienza di imma­ ginazione lirica condotta per mezzo della visione di una realtà continuamente riletta lungo le coordinate dell’espressionismo astratto, alla ricer­

ca dei modi per raggiungere l’essenza del fluire cosmico. Ijisua. pro­ prio per la vastità e la distribuzione lungo un ampio arco temporale, fu una filmografia che diede vita ad approdi differenti ed ebbe svariate fonti di ispirazione. Nella fase iniziale sub! il fascino del trance film,

mentre Anticipation ofthe Night ( 1958). dramma visionario sulla crisi e

Il colosso d’argilla

267

sul suicidio di un uomo trasformato dalla macchina da presa in sguardo sfuggente e ombre transitorie, rappresentò il momento di passaggio alla concezione lirica, nella quale l'autore oggettivizzava la visione incar­ nandosi nell'io proposto dall'obiettivo della camera per proporsi come soggetto privilegiato (e unico) attraverso cui la realtà era svelata in for­

me del tutto libere e poetiche. A questa fase si possono ascrivere lavori come Windows Water Baby Moving (1959), in cui osservava la nascita della sua prima figlia, o Cat ’s Cradle (1959), in cui un episodio dome­ stico era risolto con un montaggio particolarmente frammentato. Paral­ lelamente alla registrazione degli eventi familiari, cui dedicherà la serie delle 30 «Song*, realizzata tra il 1964 e il 1969, Brakhage continuò una sua esplorazione sul concetto di morte e sulla decomposizione dei tes­

suti. una delle ossessioni tematiche che lo accompagnerà per tutto l'ar­ co della filmografìae che caratterizzerà prodotti come5inur Remembe­ red (1959), composto dalle immagini della lenta putrefazione del suo

amato cane, e The Act ofSeeing with One’s Own Eyes (1971). in un

susseguirsi di corpi sezionati e osservati attraverso particolari distur­

banti. film che l'autore realizzò alfintemo di un obitorio assicurando che non avrebbe mai mostrato il volto delle salme. Dietro questi lavori non si celava solo un'ossessione, quanto la volontà di dilatare le possi­ bilità della pratica visiva in un'esplorazione che. pur nella sua abiezio­ ne. si trasformava in atto poetico grazie all'occhio dell'artista, respon­ sabile della mediazione. Ix sue idee di arte e percezione confluirono poi nel film saggio The Art of Vision (1965). della durala di oltre quattro ore. in cuidecoslrul e

dilatò le quatto parti più un preludio di cui si componeva il precedente Dog Star Man (1961-64) per trattare, attraverso una complessa simbo­

logia fatta di forme, sagome e macchie di luce che si intrecciavano e si

sovrapponevano, i miti della creazione e della distruzione (un boscaiolo che abbatte un albero su un monte), della vitalità vista per mezzo di un bambino, della sessualità con i principi di genere che smarriscono i loro contorni per fondersi nel sentimento unificante dell’amore. Un poema visivo condotto con grande varietà di cadenze ritmiche e di tonalità, in grado di testimoniare, contemporaneamente, la concezioneesistenziale

ed espressiva dell'artista. Verso la fine degli anni Sessanta una corrente del cinema sperimen-

268

Storia e storie del cinema americano

tale iniziò a indagare Torma e strutture delle pellicole, soffermandosi sulle proprietà del montaggio, sulle possibilità di modulazione del qua­ dro attraverso lo zoom, sui rapporti tra lo spazio e il tempo. L’accento si posò sulla costruzione del lavoro del cineasta, sulle chiavi di lettura per decifrarlo e sull’illusione che ne derivava. Wavelenght (Michael

Snow, 1967) consisteva in una lenta zoomata della durata di 45 minuti in un ampio loft newyorcheseche, indifferente rispetto agli avvenimen­ ti capitati nello spazio circostante, avanzava fino a fermarsi sulla parete opposta, sul dettaglio di una cartolina dal paesaggio marino, con l’in­ tenzione di riflettere sulle potenzialità conoscitive dell’immagine. In Serene Velocity (Ernie Gehr. 1970) la cinepresa era collocata a metà di

un lungo corridoio per riprendere da uno stesso puntoquattro fotogram­ mi per volta con obiettivi dalla lunghezza focale differente. Il montag­ gio in sequenza di questi segmenti formati da quattro fotogrammi pro­

duceva un effetto stremante negli occhi dello spettatore, che percepen­ do in rapida sequenza l’inquadratura vicina e quella lontana giungeva a

un punto «ipnotico» a causa del quale le due immagini.quella di tutto il corridoio nella sua ampiezza, e quella del lato opposto, coesistevano per effetto della persistenza retinica dell’occhio distruggendo l’illusio­ ne prospettica. Zoms Lemma (Hollis Frampton. 1970) proponeva una serie di 24 inquadrature di un secondo di durata, ciascuna delle quali

conteneva una parola che ne determinava l’ordine alfabetico nella serie. Tale serie veniva ripetuta, con parole sempre diverse, ma costantemen­ te in ordine alfabetico, per 109 volte. A poco a poco, nel corso della

ripetizione della serie alfabetica, a un’immagine con una parola si sosti­ tuiva un’altra inquadratura raffigurante un’azione, priva di caratteri scritti. E cosi via. fino a generare, al terminedell’ora di proiezione, una sorta di alfabeto alternativo fatto di immagini in luogo delle parole che si basava sulla sostituzione e sulla codificazione arbitraria, e che sotto­ lineava le modalità con cui. grazie alla percezione e alla reiterazione, era possibile creare dei modelli generativi con cui leggere compiuta­

mente le immagini.

CAPITOLO 12

Iperboli drammatiche

12.1

La tecnica contro l’invadenza della televisione

L’industria cercò di contrastare il calo degli spettatori individuando

nella televisione, che pur aveva cercato di controllare, la concorrente più pericolosa. L’obiettivo era di attirare il pubblico con specificità che solo il grande schermo potesse offrire, con l’intenzione di proporre una nuova fantasmagoria che stimolasse le famiglie a uscire da casa e a percorrere la strada fino al centro città per entrare nelle sale. Hollywood

concentrò la sua attenzione principalmente su un impiego più diffuso del colore, sul rilievo prospettico e sulle dimensioni dilatatedello scher­ mo, cercando, in questo modo, di superare il confronto con un apparec­ chio in bianco e nero, tendenzialmente bidimensionale e dalla limitata

grandezza. Nonostante la tricromia della Technicolor fossediffusa già dalla me­ tà degli anni Trenta, il numero dei fìlm realizzati a colori Tino all’inizio

degli anni Cinquanta era ancora limitato a un quinto della produzione complessiva, a causa del contenimento delle speseseguito alla Depres­ sione e, in seguito, all’impegno nella Seconda guerra mondiale. Le at­ trezzature e i tecnici noleggiali dalla Technicolor erano costosi e Hol­

lywood per tutti gli anni Quaranta utilizzò il procedimento soltanto per gli investimenti più importanti, nei musical e nei kolossal. l.a novità si ebbe con l’ennesima causa intentala dal governo, che nel 1947costrinse

la Technicolora privarsi dell’esclusiva per permettere ai concorrenti di

270

Storia e storie del cinema americano

inserirsi sul mercato con le loro proposte. L’alternativa più pratica ed economica era fornita dalla Itastman Kodak, che affiancò e spesso sop­ piantò su) mercato la pellicola a tre strati della Technicolor e permise

all’industria un impiego generalizzato del colore come principale mo­ dalità d’attrazione per il pubblico. All’inizio degli anni Sessanta, il film in bianco e nero rappresentava ormai l’eccezione sul grande schermo. L’altro ritrovato con cui Hollywood progettava di rinnovare l’inte­ resse degli spettatori era la visione stereoscopica a tre dimensioni, co­ munemente conosciuta come 3D. una tecnologia non nuova, che dopo alcuni esperimenti all’inizio degli anni Venti era stata accantonata per­ ché non catturava particolarmente l’attenzione de) pubblico a cui era stata proposta. Malgrado l’idea di una visione tridimensionale avesse riscosso l’interesse anche di lidwin Porter intomo alla metà degli anni Dieci, il primo esperimento concreto si ebbe nel 1922. quando, a set­

tembre. usci sugli schermi The Power ofLove (Nat Deverich; Haworth Pictures Corporation/Perfect Pictures), il cui sistema era chiamato Pla­ sticon. Al Plasticon, nel periodo immediatamente successivo, subentrò

un sistema simile, il Plastigram. che fu presto abbandonalo perché par­ ticolarmente elaborato rispetto all’impatto esiguoche aveva sul pubbli­ co. Della sua commercializzazione non sene parlò per trent’anni. anche se gli esperimenti continuarono: nel 1939, John Norling presentò

all’esposizione universale di New YofclnTune With Tomorrow. corto­ metraggio che mostrava attraverso la tecnica dello stop motion l’assem­ blaggio di una Chrysler Plymouth condotto a ritmo di musica. Alla fine del 1952. Milton Gunzburg, un passato da occasionale sceneggiatore, e Arch Oboler. un produttore radiofonico e regista di scarsa fortuna, rea­ lizzarono in 3D Bwana Devf/(Arch Oboler, Gulu Productions/Oboler), una storia ambientata in Africa in mezzo ad animali feroci da eliminare

per evitare di essere sbranati. Il sistema utilizzato, sviluppato da Gunz­ burg. si chiamava Naturai Vision e prevedeva l’utilizzo di due pellicole con scorrimento parallelo, proiettate da due proiettori,e di filtri polariz­

zatori che indirizzavano ciascuna delle immagini sincronizzate verso uno dei due occhi dello spettatore. Il film generò curiosità per la novità proposta, al punto che la United Artists si incaricò di distribuirlo nono­ stante il valore della pellicola fosse piuttosto modesto. L’esempio fu seguito anche dalle altre case di produzione, che intravidero lapossibi-

Iperboli drammatiche

271

lità di sfruttarne l’entusiasmo per rendere pingui gli incassi. Il periodo di sfruttamento fu brevissimo, tutto si concentrò nel 1953 e nel 1954, anni in cui, rispettivamente, furono distribuite 23 e 13 pellicole in tre dimensioni, mentre nel 1955, con un solo Him, si poteva già considera­ re la grande moda conclusa. I motivi erano molteplici e quasi tutti di

natura pratica: le pellicole dovevano essere tenute nella massima cura, perché le lesioni su una delle due si ripercuotevano sulla sincronizza­

zione dell’altra e lo sfasamento rendeva la proiezione sdoppiata, con conseguenze immaginabili come affaticamento alla vistae mal di testa. Spesso, poi, gli spettatori si lamentavano degli occhialini anaglifi, con

filtri complementari rosso e ciano, ritenuti fastidiosi. Oppure, molto semplicemente, deploravano la qualità scadente della maggior parie dei

film, con alcune eccezioni. Malgrado queste eccezioni, il cinema stere­ oscopico non sviluppò un’estetica consapevole che andasse oltre l’ef­ fetto d’inquietudine e trepidazione che gli oggetti scagliati o i corpi gravanti contro l’obiettivo della macchina da presa incutevano nel pub­

blico. L’effetto di meraviglia era garantito dall’illusione di attraversa­ mento del limite invalicabile dello schermo: le salme all’obitorio che si mettono improvvisamente sedute in prossimità dell’obiettivo della

macchina da presa come in La maschera di cera {House of Wax, André De Toth, 1953; Bryan Foy Produclions/Wamer Bros.), l’astronave in­

fuocata che pare concludere il suo volo in sala come in Destinazione terra {It Camefrom Outer Space Jack Arnold, 1953; Universal) oppure il pellerossa scaraventato da John Wayne sul pubblico delle prime file come in Hondo (id., John Farrow, 1953; Warner BrosJWayne-Fellows Productions) erano l’esplicita figurazione di un progetto che mirava al­ la spettacolarizzazione dell’immagine e all’esibizione delle possibilità

del mezzo. Solo in alcuni particolari frangenti le scelte espressive cer­

carono di proporre un dialogo seppur indiretto con il pubblico, attraver­ so una coscienza della tecnica utilizzata e delle possibilità che questa offriva nella creazione di un universo ulteriore, pienamente comunica­ tivo e non puramente sorprendente. La maschera di cera mostrava una tendenza che si riscontrava anche in altre pellicole, anche se presente con modalità più discrete (uno sguardo spaventato in macchina, una riflessione tra personaggi fronte all’obiettivo ecc.), quella di interpella­

re direttamente lo spettatore, stimolando un fittizio contatto diretto ed

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Storia e storie del cinema americano

esaltando le funzioni fàtica e conativa dello scambio espressivo. L’im­ bonitore posto davanti alla sala degli orrori del museo delle cere per attirare la folla (nel film e del film), giocando con una racchetta a cui era legata una pallina con un filo elastico, palleggiava sguardo in mac­ china lanciando a ripetizione la pallina verso l’obiettivo, contando

sull’effetto di superamento dello schermo che la visione tridimensiona­ le avrebbe offerto. Ma l’imbonitore andava oltre, e sempre palleggian­

do con insistenza si rivolgeva a un ipotetico uomo della folla-rimasto rigorosamente invisibile al di là dello schermo, nel cosiddetto fuori­ campo proibito - avvisando prima di far attenzione alla testa e poi allu­ dendo al sacchetto tenuto in mano (popcorn? Noccioline caramellate?). Si trattava di una scelta estrema di sguardo in macchina, pratica che il cinema classico per esigenze di finzione ignorava volutamente (tranne rare ammiccanti eccezioni, come il musical o certe forme di comicità

farsesca), perché attraverso la dilatazione della prospettiva, l’ipotetico asse tra schermo e sala creava un ponte, un canale che invitava all’attra­ versamento, al superamento del tabù dovuto all’indifferenza de) fittizio

per il suo ovvio destinatario. Allo stesso modo operava l’immersione all’intemo dello spazio scenico allestito da George Sidney in Baciami Kate! (Kiss me Kate, 1953; MGM/Loew’s). nel quale il pubblico era

invitato a condividere la cadenze agogiche dei numeri musicali restan­

do coinvolto in un luogo palesemente artificioso, caratterizzato dai co­ lori sgargianti del Technicolor e da una scenografìa geometrica la cui profondità creava una sorta di ampio contenitore con le linee verticali di cui era colma. Jack Arnold, in Destinazione terra, puntò a proporre l’estensione della visione prospettica sotto forma di metafora dell’occhio alieno ca­ duto sulla terra, in un gioco ripetuto di soggettive alterate che accenna­ vano a una visione differente, insieme minacciosa e affascinante. John Farrow in Hondo, invece, coerentemente con la logica de) genere cui faceva riferimento, dilatava ulteriormente la profondità degli spazi già

immensi del paesaggio western per ingigantire la statura dell’eroe pro­ tagonista e celebrarne maggiormente la portata epica dell’azione. Hitchcock, invece, nel SUO // delitto perfetto (Dial M for Murder, 1954; Warner Bros.), spezzò il canale comunicativo tra schermo e sala,

creando una sorta di diaframma di oggetti disseminati in prossimità

Iperboli drammatiche

273

dell’obiettivo della macchina da presa, posta spesso più in basso del nor­ male, attraverso cui il pubblico osservava l’azione percependo l’alterità dimensionale rispetto alla vicenda narrata, ospitata in una autentica scalola/slanza da recepire unicamente come luogo della rappresentazione. Prospettive interessanti ma saltuarie che non diedero origine a una

continuità conscia delle nuove possibilità espressive che il 3D poten­ zialmente offriva. Troppo breve il periodo di sfruttamento, troppo inte­

ressata al l’esigenza spettacolare l’industria per permettere uno sviluppo estetico coerente e compiuto. lui visione tridimensionale sarebbe torna­ ta ancora nel cinema americano, cavalcando onde successive e sporadi­ che. negli anni Sessanta e Settanta, per approdare, come vedremo, nella contemporaneità. Più duraturo e dagli effetti più consistenti fu l’allargamento del for­ mato della pellicola con l’intenzione di marcare una differenza incol­

mabile con le contenute dimensioni dello schermo televisivo. 1 vari si­ stemi che si susseguirono (Cinerama. Cinemascope. Vistavision ecc.) non ebbero vita lunghissima, ma ebbero il merito di segnare con deci­ sione una tendenza che fu poi proseguila, nel corso degli anni Sessanta, dal sistema sopravvissuto, il Panavision. Il Cinerama, messo a punto da Fred Waller, fece la sua comparsa nel 1952 eprevedeva Futili»» di tre macchine da presa poste in tre angola­

zioni di fferenti ma contigue, in modo da allargare il campo di ripresa, lui proiezione avveniva su uno schermo semicircolare che ampliava la vi­ sione da parte dello spettatore anche alle azioni laterali e periferiche. Il

Cinerama, che non era una novità assoluta, poiché un sistema simile era stato presentato nel 1939 durante la Fiera mondiale di New York per poi essere modificato, esordi nel settembre del 1952 al Broadway Theater di New York con una proiezione di quasi due ore intitolata This is Cinera­ ma (Merian C. Cooper. Gunther von Fritsch. Ernest B. Schoedsack;

Cinerama Productions Corp.), nella quale un viaggio sul rottovolante e un volo sul Grand Canyon impressionarono particolarmenleil pubblico

per la spettacolarità immedesimante delle immagini, facendo si che il film fosse proiettato per oltre due anni di seguito incassando moltissi­ mo. Il Cinerama, tuttavia, non era un sistema di facile applicazione: oltre a presentare un problema di sincronizzazionedella tripla proiezio­ ne. gli esercenti che intendevano convertire le loro sale al sistema

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Storia e storie del cinema americano

avrebbero dovuto impegnarsi in un investimento ingente per gii schermi e l’apparecchiatura sonora, oltre a impiegare tre proiettori e i relativi proiezionisti. Il Cinerama venne installato solo in una dozzina di sale negli Stati Uniti e ciò sancì la sua prematura fine, nonostante alcuni tentativi illustri ancora all’inizio degli anni Sessanta come per La con­ quista del West (/low the West Was Won John Ford, Henry Hathaway.

George Marshall, Richard Thorpe, 1962; MG M/Cinerama Productions

Corp.). lui 20th Century-Fox acquistò il brevetto realizzato nel 1927 da un inventore francese. Henry Chrétien, il quale riuscì a comprimere l’im­ magine con una lente anamorfica per permetterle di essere contenuta in un semplice fotogramma da 35 millimetri, allargandola poi al momento della proiezione grazie a un altro obiettivo anamorfìco che decompri­ meva la precedente immagine. L’invenzione sfruttava il principio

dell’anamorfosi, ossia la deformazione delle immagini per mezzo di un sistema ottico in cui la formazione della Figura si realizza su proporzio­ ni diverse, in modo tale che l’ingrandimento in senso orizzontale fosse diverso da quello in senso verticale. Un principio tutt’altro che nuovo, giacché affondava la sua origine Fin nella pittura del Cinquecento, e il

cui esempio più celebre era il dipinto Gli ambasciatori (1533) di Hans Holbein il Giovane, in cui, tra le due figure di diplomatici ritratti, appa­ riva una massa informe che vista da una prospettiva laterale si dimo­ strava un teschio posto simbolicamente come memento mori. Il rappor­ to che si instaurava tra altezza e larghezza dello schermo era di 1: 2.55,

ossia la larghezza del fotogramma diventava oltre due volte e mezzo la sua dimensione in altezza. Claude Autant-l^ra si era servitodel sistema di Chrétien, che all’epoca si chiamava Hypergonar (o Anamorphosco­

pe), nel 1930 per il suo Film Consfruire un feu, ma dopo questo utilizzo l’invenzione fu pressoché dimenticata Fino all’inizio degli anni Cin­ quanta, quando la Fox, dopo aver acquisito i diritti e averla battezzata Cinemascope ne annunciò il lancio con una squillante campagna pro­

mozionale. Il primo fìlm girato fu La tunica (The Robe. Henry Koster. 1953: 20lh Century-Fox), storia di un tribuno romano che, dopo aver vinto ai dadi la tunica di Cristo, si avvicinava progressivamente alla fede cristiana. Con questa pellicola, con effetto domino, iniziò anche l’aspra competizione tra gli Studios per garantirsi nuovi sistemi da bre-

Iperboli drammatiche

275

vettore in cui fosse possibile lo stesso principio di visione panoramica, lui RKO propose per qualche anno il Superscope, mentre Warner e MGM ottennero la licenza dalla Fox per utilizzare il Cinemascope. Di­ versa la condotto della Paramount, che approntò dal 1954, con il film Bianco Natale (White Christmas, Michael Curtiz), un proprio sistema,

chiamato Vistovision,chenon ricorreva al metodo di compressione con le lenti anamorfiche e che impressionava la pellicola orizzontalmente e non verticalmente, lui sua ratio era di 1: 1,85, a metà tra il formato del cinema classico, 1: 133 e quello del Cinemascope. Altri sistemi,seppur con fortuna estemporanea, fecero la loro comparsa sull’onda del suc­ cesso: il più importante fu l’ipertrofico TODD-AO, presentato da Mike Todd nel 1955. Il TODD-AO proponeva in proiezione un’immagine da 70 mm, ma i suoi costi erano particolarmente elevati: eccetto che per alcuni film spettacolari (e molto dispendiosi), come Oklahoma! (idi, Fred Zinnemann, 1955; Magna Theatre Corporalion/Rodgers & Ham­ merstein Productions) e Il giro del mondo in ottanta giorni (Around the World in Eighty Days, Michael Anderson, 1956; Michael Todd Com­

pany). il sistema fu usato occasionalmente, per poi essere abbandonato quando Todd perse la vita in un incidente aereo. Nel frattempo, un progettista, Robert li. Gottschalk, aveva messo a punto il Panavision. un sistema che utilizzava un procedimento simile a quello del TODD-AO con la differenza che alla fine del processo le immagini erano pronte per una proiezione in 35 mm,ma di una qualità pressoché assimilabile a quella in 70 mm. 11 Panavision ebbe un grande successo anche perla sua praticità riguardo alla deformazione anamorfìca, al punto che già all’inizio degli anni Sessanta di venne più utilizza­ to del Cinemascope, mentre alla fine dello stesso decennio giunse a

fornire la maggior parte delle produzioni hollywoodiane delle macchi­ ne da presa e degli obiettivi prodotti dalla ditto omonima, con un forma­ to che si stabilizzò sullo standard di 1: 1.85, e sui parametri di 1: 235 nella versione panoramica. Il formato panoramico forniva una specificità alle immagini cinema­ tografiche e un effetto spettacolare a cui la televisione inevitabilmente non poteva rispondere. Non tutti però accolsero la novità con favore:

molti critici furono sarcastici nei confronti delle possibilità offerte dal nuovo mezzo, considerato carente nella definizione delle ambientazioni

276

Storia e storie del cinema americano

e nella costruzione espressiva, l>ewis Milestone era convinto che l’ele­ vata larghezza dello schermo fosse la nemica principale del montaggio ritmico, mentre Fritz I^ang. con una sentenza antologica, affermò con disprezzo che era un formato adatto solo alla ripresa di serpenti e fune­ rali. Qualunque fosse la prospettiva, era indubbio che una certa idea di

messa inscena stesse irrimediabilmente cambiando. A mutare era la stessa scansione delle inquadrature aH’intemo

dell’unità fondamentale della scena. L’ampiezza del quadro, infatti, oc­ cupava una porzione di spazio sufficiente a evitare l’utilizzo dei con­ sueti establishing shot, il piano introduttivo che offriva te caratteristi­ che essenziali del luogo di svolgimento dell’azione e i soggetti presenti in scena. Sempre più spesso le scene furono costruite secondo canoni orizzontali e diagonali che riducevano di molto il ricorso al consueto campo e controcampo durante i dialoghi, i quali venivano sviluppati

con piani a due. talvolta fissi, mentre in altre occasioni davano vita a un’alternanza di inquadrature che mostravano entrambi i personaggi con angolazioni opposte della macchina da presa. Questo inizialmente

limitò l’uso del Primo Piano, ma non lo eliminò, piuttosto gli permise di risaltare come sottolineatura espressiva e drammatica, proprio in vir­ tù della maggiore parsimonia nell’utilizzarlo. L’estensione e la densità dello schermo panoramico erano adatti ai mutamenti, anche improvvisi, all’interno della scena (rivelazioni, nuo­ ve presenze, azioni repentine), e rendevano superfluo il sottolinearli con uno stacco nel montaggio e una susseguente inquadratura che ne

facesse risaltare valore e conseguenze. Nella sua composizione accura­ ta. il formato panoramico sembrava possedere il requisito della discre­ zione, poiché permetteva all’inquadratura estesa la compresenza di più informazioni narrative e simboliche rispetto al piano classico. Ne La magnifica preda (River ofNo Return, Otto Preminger. 1954; 20th Cen-

tury-Fox). per fareuncelebre esempio. Kay (Marilyn Monroe), presa in braccio dal gambler Harry Weston (Rory Calhoum) per essere portata a riva, perdeva la valigia, che cadeva dalla zattera su cui avevano viag­ giato ed era trasportata dalla corrente verso l’estensione di destra dell’inquadratura. I-a valigia di Kay. chanteuse di saloon, rappresentava il simbolo di un passato che la ragazza si stava lasciando alle spalle, e

che defluiva lentamente fuori dal campo, con garbo, senza alcuna mes­

Iperboli drammatiche

2TJ

sa in rilievo attraverso un’inquadratura dedicata che avrebbe avuto il sapore della forzatura espressiva. Allo stesso modo, in È nata una stel­ la (A Star is Bom, George Cukor. 1954; Transcona linterprises/Wamer

Bros.). Vicki I .ester (Judy Garland) rimaneva improvvisamente turbata e commossa davanti al cuore che suo marito Norman Maine. ex divo

caduto in disgrazia a causa dell’alcool, suicidatosi per non ostacolare la folgorante carriera della moglie, aveva disegnato con il rossetto nel backstage di un teatro la sera in cui si erano conosciuti, alcuni anni pri­ ma. Il motivo dello sconcerto della già sconvolta Vicki era esplicitato attraverso l’ampiezza di un’unica inquadratura, mentre nel formato standard sarebbe stato opportuno ricorrere a una soggettiva per farlo comprendere al pubblico. Da un lato la spettacolarità del nuovo formato con cui attirare nuova­ mente il pubblico al cinema, dall’altro, ben presente, la consapevolezza

di un linguaggio modellato sulle nuove caratteristiche di ripresa e rap­ presentazione. Una sovrapposizione armoniosa che in È nata una stella Cukor propose come una relazione dialettica. Durante la lunga sequen­

za dell’anteprima del film di lancio della nuova stella Vicki Lester, il musical sullo schermo a cui l’attrice esordiente e Norman Maine (Ja­ mes Mason) stavano assistendo usava il formato panoramico come una superficie spettacolare, ampio contenitore in cui i numeri di danza

dell’attrice e la sua abilità canora trovavano posto tra la simmetrica sontuosità stilizzata delle scenografie. Terminato il film, all’esterno della sala, il pubblico tributava il suo entusiastico omaggio alla neonata stella, contornandola con tutto il suo affetto. Norman si defilava dal trionfo di Vicki utilizzando tutta l’ampiezza dell’inquadratura per met­ tersi in disparte lungo il margine destro, mentre Vicki, sullo sfondo a

sinistra, cercava di liberarsi dall’affettuosa morsa per individuare

l’amato e raggiungerlo. Ciò che si creava era un’asimmetria prossemica che entrava in diretta contrapposizione con le immagini equilibrate e coloratissime del film nel film: da una parte la perfezione dello spetta­ colo. dall’altra l’instabilità della vita, pronta a mutare la propria lineari­ tà in dramma, in rovesci del destino. I rapporti di forza all’interno della stessa inquadratura si fecero mag­

giormente significanti, la dilatazione delle distanze nel piano assunse rilevanza simbolica. La valle dell'Eden (East of Eden, Elia Kazan, 1955;

278

Storia e storie del cinema americano

Warner Bros.) organizzava la precaria relazione tra i vari personaggi proprio sull’esasperazione delle distanza all’interno della composizione dell’inquadratura. In particolare, il disegno di Kazan si concentrò so­

prattutto sul complicato rapporto tra il protagonista Cai (James Dean) e il padre Adam (Raymond Massey), dilatando le ipotetiche linee di col­ legamento tra i due sfruttando il formato del Cinemascope in tutta la sua lunghezza. Cai salito sulla cima di un capannone con una sigaretta acce­

sa, in alto lungo il margine sinistro, il padre in piano ravvicinato, lungo il margine destro, pronto a redarguirlo per l’imprudenza che sta com­ mettendo; Cai seduto a capotavola sul lato sinistro, svogliato lettore di versetti sacri, il padre dalla parte opposta a biasimare il suo atteggia­ mento. in mezzo lo schienale di una sedia e alcune bottigliette di olio e

aceto a separare anche grafìcamente le due posizioni, erano entrambi esempi di questa inclinazione della messa in scena. Più articolato il di­ segno rappresentato durante la festa a sorpresa per il compleanno del padre: tra Cai posto sul margine destro e il padre collocato su quello si­ nistro. si posizionava Abra, la fidanzata di Aron, il fratello prediletto, a rappresentare un momentodi apparente armonia. L’illusione si rompeva immediatamente con l’arrivodi Aron, che si poneva sulla soglia dell’abi­

tazione. collocandosi, in profondità, tra il padre e il fratello. Aron, an­ nunciando. inattese, le prossime nozze con Abra. stava per rovinare la

sorpresa accuratamente preparata da Cai (che voleva ri fondere il padre dal debito patito con un affare sbagliato per conquistarne la stima e l’af­ fetto) e per scatenare il dramma che. a causa della reazione dello stesso Cai, avrebbe sconvolto la famiglia. L’intensificazionedelle distanze ve­ drà ancora Cai rinnegare cinicamente l’affetto paterno mentre si dondo­ la con foga su un’altalena nella parte sinistra dell’inquadratura, in con­

trasto con il padre immobile nella parte destra, fino a quando il colpo apoplettico di cui rimarrà vittima il genitore non annullerà il distacco fra i due personaggi, facendo s) che in punto di morte padre e Tigliosi ricon­ cilino in un piano a due con i volti sovrapposti, mentre il padre confessa indirettamente il suo amore per il Tiglio, cercando con lui una tardiva complicità, invitandolo a cacciare l’infermieracinicae antipatica. Dilatazioni significanti, ma anche allegoria geometrica. In Gioventù bruciata (Rebel Without a Cause, Nicholas Ray, 1955; Warner Bros.)

agivano congiuntamente l’ampiezza del piano e la profondità di campo

Iperboli drammatiche

279

nell’assemblaggio di un’inquadratura evidente già nella sua definizione geometrica: il bullo Buzz e un suo scagnozzo, pronti ad accogliere i nuovi arrivati nella scuola Jim Stark (James Dean) e John Crawford (Sal Mineo), mostravano le loro nuche in Primo Piano e chiudevano ai lati i due ragazzi presi di mira, fermi nel mezzo, rialzati nella prospetti­

va (perché nel cortile del planetario che la scolaresca era andata a visi­ tare). ma rimpiccioliti dalla visione in profondità. In prossimità dei due ragazzi, inoltre, si stagliava in verticale la lama del coltello di Buzz, pronta a minacciare la loro incolumità. Il movimento combinatorio poteva riguardare anche la larghezza de)

piano di ripresa e il movimento della macchina da presa. Ne La tunica. in cui era già presente una concreta consapevolezza delle nuove poten­ zialità del linguaggio, nonostante il recente utilizzo del sistema, una Panoramica verso sinistra metteva in relazione il tribuno Marcello, ap­ pena giunto alle porte di Gerusalemme, con l’arrivo di Gesù a cavallo di un asino in profondità di campo, sfruttando il movimento in senso

contrario della folla invocante. Una connessione facilitata dalle dimen­ sioni del quadro che fungeva da anticipazione di un legame fatale tra i due personaggi. Ma anche la dimostrazione che lo schermo panoramico

forniva il meglio delle sue potenzialità nella composizione di inquadra­ ture dense, con azioni articolate al suo interno, di cui esaltava alcuni elementi figurativi impiegando l’estensione dello spazio a disposizione, accentuando le distanze, rendendole significanti e sfruttando la possibi­ lità di modularvi differenti piani di ripresa.

12.2

Colori accesi e passioni amplificate: il melodramma anni Cinquanta

Malgrado i suoi confini sfumati, la complessità di una definizione uni­ voca delle sue peculiarità e una certa sufficienza nel soffermarsi sul suo effettivo valore da parte della critica almeno fino agli anni Settanta, probabilmente il melodramma realizzato negli anni Cinquanta, come

sostenuto da molti studiosi, rappresentò uno dei punti più alti e compiu­ ti raggiunti dal cinema hollywoodiano. Prescindendo dall’iniziale pre-

280

Storia e storie del cinema americano

giudizio nei confronti di questo genere dovuto alte sue origini popolari che lo facevano ritenere un facile spettacolo a uso della soddisfazione emotiva della massa, il melodramma, soprattutto nella sua variante do­ mestica e familiare, sotto un apparente superficie di convenzionalità attraverso cui era mostrato V American way of life della borghesia su­

burbana, lasciava intravedere un autentico scatenamento di passioni ir­ refrenabili e di conflitti generazionali chesi trasformavano in una testi­ monianza attendibile dei sentimenti rimossi e occultati di un'intera so­ cietà. Un genere, di fatto, che dinamizzando lo stile e allegorizzando l’ambientazione, esprimeva per sublimazione la crisi di un modello co­ munemente accettato e considerato impeccabile. Che si trattasse di un genere in senso stretto o di una semplice moda­

lità espressiva attraverso cui stimolare la componente patetica nell’ani­ mo del pubblico, il melodramma, indubbiamente, presentava delle ca­ ratteristiche costanti e riconoscibili nello sviluppo narrativo che ne de­ terminavano la natura e, pur non garantendo l’inserimento in una cate­ goria piuttosto che in un’altra, permettevano di circoscrivere una serie di elementi ricorrenti sulla base della commozione suscitata. Tratti ca­ ratteristici che aprivano alla trasversalità {Duello al sole [Duel in the Sun, King Vidor, 1946; The Selznick Studio/Vanguard Films] era cer­

tamente un western, ma la distruttiva storia d’amore tra l^ewt e Pearl

presentava altrettanto indubitabilmente caratteri melodrammatici), ma facenti parte di un complesso di temi e relazioni racchiusi intomo ai concetti di eccesso e di conflitto, lui preminenza nell’intreccio di una storia d’amore contrastata, l’enfatizzazione delle reazioni affettive, il conflitto tra istanze portatrici di opposti valori, l’uso espressivo e artifi­ cioso del colore e l’utilizzo significante degli interni abitativi furono elementi distintivi di un modo di intendere la narrazione che. pur con

tutte le cautele di una fin troppo facile categorizzazione. contraddistinse un determinato momento del cinema americano (grosso modo tra la fi­ ne degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta) e un insieme di pellicole racchiuse in una stessa etichetta tassonomica. L’amore contrastato era il punto di partenza, fisso. a differenza della commedia romantica, icui ostacoli rappresentavano il pretesto per aggi­

rarlo e terminare felicemente la vicenda narrata, rivelava un’opposizione

marcala che nella quasi totalità dei casi non era destinata a un happy end.

Iperboli drammatiche

281

11 contrasto in atto sollevava di riflesso una serie di problemi desunti dai conflitti esistenti nella realtà e su cui. tranne poche eccezioni, negli anni seguiti all’indagine dell’IIUAC. il cinema hollywoodiano si sof­

fermava raramente. 1-e differenze sociali, le opposizioni familiari, i pre­ giudizi razziali e i divieti morali erano motivi generatori di una serie di implicazioni etiche modellate sulle azioni dei personaggi e sugli equili­ bri che essi mettevano a repentaglio sfidando le norme sociali all’inter­

no del film, in Secondo amore {All Thal Heaven j4//ows. Douglas Sirk. 1955; Universa!) la storia tra la ricca vedova Cary Scott (Jane Wyman) e il più giovane giardiniere Ron Kirby (Rock Hudson) era contrastata dalla comunità di una cittadina di provincia del New England e dai suoi stessi Tigli, indifferenti alla ricerca di felicità della donna, a causa dell’evidente differenza d’età e per la diversa classe di appartenenza, COSI come in Un pasto al sole (A Place in the Sun, George Stevens. 1951; Paramount) la contrarietà all’unione tra Angela Vickers (Eliza­ beth Taylor) e George Eastman (Montgomery Clifì) era dovuta alla po­ vertà di quest’ultimo, nonostante provenisse da famiglia di origini illu­

stri. Il condizionamento educativo e la morale che da esso derivava rappresentavano un ulteriore elemento, seppur indiretto, di contrasto rispetto ai sentimenti. In Splendore nell'erba (Splendor in the Grass, Elia Kazan. 1961; Warner Bros. Pictures/Newton Productions/NBI Productions) erano gli errati modelli formativi proposti dalle famiglie dei due protagonisti Deannie e Bud (Warren Beatty e Natalie Wood) ad agevolare la loro separazione, l’esaurimento nervoso della ragazza (che

la porterà a tentare il suicidio) e lo smarrimento in studi privi di alcun interesse per Bud. Più raramente veniva affrontato anche il pregiudizio razzale: ne Ao specchio della vita (Imitation of Life, Douglas Sirk. 1959; Universal) la

giovane Sarah Jane (Susan Kohner) provava un sentimento contradditto­ rio nei confronti della madre Annie (Juanita Moore) perché di colore (la ragazza, cosi come Ixlia in Ombre di Cassavetes, era di pelle piuttosto chiara). I^e imputava il legame di sangue come una colpa e cercava di occultarne la presenza soprattutto quando si legava in storie sentimenta­ li con coetanei che non sospettavano la sua origine. La morte della donna e il tardivo pentimento della ragazza garantivano l’aspetto patetico della

vicenda (cui contribuiva una struggente versione di Trouble ofthe World

282

Storia e storie del cinema americano

cantata da Mahalia Jackson durante i funerali, sulle cui note si rispec­ chiavano i commossi piani di reazione dei presenti) e ispiravano una più ampia meditazione sulle occasioni perdute dall'intera collettività.

Il contrasto dei sentimenti, da solo, non sarebbe bastalo. l>e corde dell'emotività erano stimolate dalla più tragica delle eventualità, la mor­

te. in modo che si prescrivesse un effetto congiunto, a causa del quale la relazione affettiva garantisse l'identificazione del pubblieoe l'elemento

tragico suscitasse la compassione. I j morte si ammantava cosi di una serie di significati e di possibilità narrative differenti in grado di incidere sui personaggi e sull'evoluzione della storia modulandone intensità e svi­ luppi successivi. Come soluzione ultima dell'intreccio costituiva il mo­ mento culminante del fìlm. la sua attestazione tragica preparata da un

accurato climax ascendenteche accompagnava il pubblico fino a permet­ tergli di concepire, attraverso la reazione delle figure presenti in scena, la mancanza assolutae l'ineversibilità della perdita. L'apice di A casa dopo l'uragano (Home from the Hill, Vincente Minnelli, I960; MGM) era

l’omicidio del capitano Wade Hunnicut (Robert Mitchum), personaggio dalla personalità debordante e incallito seduttore, ucciso da Albert Hal­ stead che aveva creduto alle false dicerie secondo le quali il capitano sa­ rebbe statoil responsabile della maternità della figlia. lui morte di Wade. padre temuto da Theron (George Hamilton) e invocato inutilmente da

Rafe (George Peppard), figlio naturale mai riconosciuto, provocava una colluttazione tra il primo, che aveva impugnato un fucile per vendicarlo, e il secondo, anche genero di Halstead, che non voleva permettere che il

fratellastro si rovinasse il futuro. L'oggetto della disputa non era tuttavia il diritto filiale alla vendetta, quanto una disposizione al sacrifìcio per l'altro che si originava come reazione all'ingiustizia patema di non aver

offerto le stesse possibilità e le stesse cure ai due figli: Theron intendeva impedire che Rafe potesse mettersi nei guai e lasciare cosi senza un padre la famiglia di cui si era assunto la responsabilità sposando Libby, il cui figlio in arrivo era in realtà di Theron. Theron vendicava infine il padre

per poi fuggire lontano. Rafe vedeva il riconoscimento come figlio nella lapide di Wade esposta al cimitero per volere della vedova. Come eventualità inserita nello svolgimento della vicenda, invece, la

morte poteva fungere da drammatica occorrenza nel mezzo del racconto e da snodo narrativo sul piano strutturale, arricchendola storia di consa­

Iperboli drammatiche

283

pevolezze nuove e improvvise, stimolando contemporaneamente i per* sonaggi ad azioni susseguenti come risposta all’accadimenlo. ta morte del dottor Phillips in Magnifica ossessione (Magnificent Obsession*

Douglas Sirk, 1954; Universal), ad esempio, capovolgeva le aspirazioni e gli impeli irresponsabili dell’avventato Bob Merrick (Rock Hudson), fino a fargli ripercorrere le orme del medico di cui aveva involontaria­ mente causato la morte e a impegnarsi per ridare la vista con un inter­

vento chirurgico alla vedovatane Wyman), di cui era innamorato. Rispetto ad altri generi, la morte nel mèlo non era mai occasione puramente contingente, perché il suo fondamento non riguardava solo

la cessazione più o meno tragica dell’esistenza, quanto il suo portato sui personaggi: nel melodramma la mortesi rifletteva esclusivamente nelle reazioni di chi rimane in vita, perché è lungo il criterio di identificazio­ ne con le figure in esso ritratte che avveniva l’adesione emotiva con la

storia narrata. Un’adesione che spesso transitava sui personaggi femmi­ nili, autentici protagonisti del genere. lui donna nel melodramma hol­ lywoodiano, dopo una prima fase (almeno Tino agli anni Trenta) in cui interpretava l’immagine stessa della fragilità, dal dopoguerra in avanti prese a mostrarsi come figura con una personalità più forte, spesso vo­

litiva, benché ugualmente intrappolata negli angusti sviluppi propri del genere: ad esempio, il piglio con cui ne II romanzo di Mildred(Mi!dred Pierce* Michael Curtiz, 1945; Warner Bros.) Mildred Pierce (Joan

Crawford) si occupava della famiglia dopo il divorzio dal primo marito e la decisione di uccidere il secondo, perché aveva cercato di sedurre la

figlia, oppure, in Femmina folle (Leave Her to Heaven* John M. Stahl, 1945; 20th Century-Fox), la cieca volontà di Ellen Berent (Gene Tier­ ney) di eliminare tutti coloro sospettati di intralciare l’unicità del suo ossessivo amore perii marito. A livello funzionale, la donna nel mèlo

costituiva l’espediente attraverso il quale i sentimenti e le passioni pro­ posti dalla vicenda transitavano empaticamente nel pubblico. Veicolo di trasmissione che utilizzava come specchio il volto, soprattutto nella sua messa in rilievo nell’inquadratura con il Primo Piano, immagine dell’enfasi e delle passioni, inquadratura cheperun attimo perfettamen­ te leggibile da parte del pubblico sottraeva (e sottrae tuttora) la forza espressiva dei sentimenti dal flusso inarrestabile del tempo di scorri­ mento della pellicola e della vicenda narrata.

284

Storia e storie del cinema americano

Gli universi del melodramma apparivano costruiti con palese artifi­ cio, fin troppo densi e saturi cromaticamente grazie all’uso scintillante del Technicolor essi erano la traduzione estetica dei sentimenti dei per­ sonaggi, l’emanazione grafica di una violenza implosa pronta a defla­ grare sprigionando un’inaudita carica emotiva. L’eccesso significante del Technicolor accresceva la sensibilità percettiva del pubblico meta­ forizzando le psicologie dei protagonisti, le residenze chiuse e soffo­

canti con i loro interni levigati e smaltati si trasformavano in emanazio­ ni dirette dello stato d’animo. L’ambito domestico, in questo modo, imprigionava i personaggi in un complesso tessuto di dinamiche geo­

metriche interne alla scenografìa pronte a una denotazione, li lo faceva per mezzo dei complementi d’arredo (soprattutto gli specchi che mette­ vano a nudo il personaggio, costretto a guardare in se stesso e notarvi una scissione dolorosa tra volontà e possibilità - una costante nei fìlm

di Douglas Sirie, mentre in Minnelli le superfìcie riflettenti servivano a svelare spazi e personaggi altrimenti esclusi dall’inquadratura), degli oggetti, delle finestre che delimitavano maggiormente lo spazio intomo

ai corpi illudendo sulla possibilità di fuggire, degli ampi tendaggi che alludevano al teatro e alla messa in scena della propria esistenza, delle grandi scalinate di collegamento tra il Primo Piano dell’abitazione (lo spazio intimo, quello in cui è ubicata la camera da letto, luogo dove i personaggi si mostrano senza infingimenti, prendendo realmente co­ scienza di se stessi e della criticità della loro situazione) e il piano terra (lo spazio «pubblico», il salone e la sala da pranzo, dove ci si relaziona con gli altri personaggi secondo il proprio ruolo sociale e domestico). Secondo questa prospettiva, la scalinata assumeva dunque una funzione fondamentale, non solo connettiva tra due spazi, quanto simbolica, nell’ambito di una dialettica a ventaglio che si sostanziava tra privato e

pubblico. Impersona e ruolo e tra reale e frazionale. In Come lefoglie al vento (Written on the Wind, Douglas Sirie, 1956: Universal) la scali­

nata dell’elegante residenza degli 1 ladley diventava il confine di un’op­ posizione generazionale tra la scapestrala Marylee (Dorothy Malone), impegnala nella sua stanza, al piano superiore, in uno scatenato ballo dionisiaco che aveva il sapore della rivolta, e l’opprimente padre Jasper

(Robert Keith), il quale, nel tentativo di raggiungere la figlia per far terminare il frastuono, era colpito da un infarto e moriva cadendo dalla

Iperboli drammatiche

285

scalinata, mentre il ballosfrenato continuava, indifferente. In una scena ipertrofica, resa estrema dalla musica travolgente, dal rosso acceso del­ la vestaglia, dai movimenti sinuosi di Marylee, dai piani dal basso sul

suo corpo aggressivo e da un montaggio alternato particolarmente rit­ malo, la scala funzionava come catalizzatore dialettico di un conflitto generazionale ed educativo in atto, in cui venivano infranti modelli, prescrizioni e regole attraverso l’erotismo istintivo incarnato dalla don­

na. In Gioventù bruciata, invece, la scalinata raffigurava il luogo di un inutile tentativo di negoziazione tra istanze divergenti, quella di Jim. che intendeva recarsi alla polizia perché si riteneva responsabile morale della morte di Buzz avvenuta nella gara automobilistica in cui si erano sfidali, e quella dei genitori, i quali invece desideravano che il ragazzo dimenticasse al più presto la vicenda per non rovinare il suo futuro, lui posizione assunta dai personaggi sulla scalinata rifletteva gli stessi rap­

porti in gioco, con Jim collocato tra le due figure genitoriali. la madre più in alto e il padre alla base della scalinata, in una posizione subordi­ nata pronta a ricalcare la sua marginalità in seno alla famiglia. L’impor­ tanza della famiglia nel melodramma americano degli anni Cinquanta risiedeva soprattutto nella sua funzione di filtro, di microcosmo in cui

si attuava il tentativo dell’individuo di adeguarsi alle strutture e alle norme sociali. Un adattamento laborioso, che si sviluppava con le carat­ teristiche dello scontro, nel quale gli avversari erano i familiari, divisi da visioni opposte dell’esistenza, ola collettività della cittadina di pro­ vincia, intesa comunemente come luogo di residenza dei principi fon­

danti della nazione, della purezza dei valori borghesi e della serenità di una vita condotta nel proprio nucleo abitativo. Ma anche, più velata­ mente, come il posto in cui ogni evento diventava di pubblico dominio: «Hanno questo di interessante i piccoli centri: chieda in giro di qualcu­

no che ci é vissuto, anche un po’, e si stupirà di quante cose la gente sa di lui», confessava il notaio Bernstein (I^ee J. Cobb) a Tom Rath (Gre­ gory Peck) ne L'uomo dal vestito frigio (The Man in the Gray Flannel Suit, Nunnally Johnson. 1956; 20th Century-Fox).

L’alterità di questi valori rispetto all’esterno, soprattutto per quanto riguarda le pellicole con protagonista maschile, veniva marcata fin

dall’inizio del film, spesso con l’arrivo di un forestiero o con il ritomo di un membro della comunità allontanatosi tempo prima: in Picnic (id..

286

Storia e storie del cinema americano

Joshua l>ogan, 1955: Columbia), il vagabondo Hai Carter (William Holden) giungeva in una piccola cittadina del Kansas. Nowheresville. a bordo di un treno merci, in Qualcuno verrà (Some Came Running, Vin­

cente Minnelli. 1958; MGM) Dave Hirsh (Frank Sinatra) ritornava nel­ la sua città natale. Parktown. Indiana, su un bus; ne La lunga estate calda (The Long Hot Summer. Martin Riti. 1958; Jeny Wald Produc­

tions). Ben Quick (Paul Newman), errante piantagrane, dopo essere sbarcato da una chiatta, arrivava a Frenchman’s Bend. Mississippi. small town in cui regna il ricco proprietario terriero Will Vamer (Orson Welles), per mezzo dell’auto su cui la figlia e la nuora dello stesso Var­

ner gli avevano dato un passaggio. 1^ ligure del forestiero e del mem­ bro di ritomo proponevano un topos di cui il melodramma si nutriva

volentieri per mettere in scena la rottura di un apparente equilibrio che la figura dell’intruso scatenava nei suoi istinti più bassi e incontrollati: il forestiero si rendeva responsabile dell’apertura di una crepa all’inter­ no della presunta inviolabilità della comunità, crepa che progressiva­ mente si sarebbe schiusa sempre di più causando la frattura; il ritorno

del residente di un tempo favoriva il riaffiorare del rimosso comunitario e il deflagrare di crisi sopite e di fantasmi del passato occultati e ormai dimenticati. In entrambi i casi, l’intruso appiccava un fuoco su un pa­ gliaio secco giù da tempo e l’incendio scaturito sarebbestato frutto de) destino solo nella misura in cui esso si determinava su situazioni irrisol­ te oppure riportando in vita crisi giù esistenti nel passato che si crede­ vano svanite persempre. In questo il melodramma degli anni Cinquan­ ta differiva da quello prodotto negli anni precedenti, nella concezione del destino che non agiva sulle dinamiche di attuazione del presente, quanto sul rimestamento di un’irresolutezza giù attestatane! passato, lui comparsa dell’aitante Hai Carter in Picnic, ad esempio.era solo il pre­

testo per lo scatenarsi di istinti di frustrazione sessuale da sempre pre­ senti e accuratamente rimossi all’interno della piccola comunità di Nowheresville, come quelli dell’ormai sfiorita ma aggressiva Rosema­

ry (Rosalind Russell), alla perenne ricerca dell’uomo dei sogni che la sottraesse alla tetra quotidianità della cittadina e le fornisse quella gra­ tificazione erotica e affettiva di cui appariva cosi avida. Il conflittoche spesso si veniva a crearcela intemo alla famiglia ma investiva categorie temporali diverse. lira un conflitto generazionale

Iperboli drammatiche

287

che si giocava sul piano del tempo: Tigli contro padri su cui pendevano colpe di inadeguatezza o di eccesso, troppo deboli o forzatamente auto­ ritari («Tu ci possiedi ma non ci ami» è l’accusa di Brick Pollitt [Paul Newman] al ricco padre ne La gatta sul tetto che scotta (Ca/on Hot Tin Roof, Richard Brooks, 1958; MGM]), impassibili o assenti, incapaci di porsi come modello oppure convinti che il loro ruvido esempio fosse universalmente valido. Un contrasto tra il passato incapace di stare al

passo con i tempi e il presente bisognosodi essere compreso nelle sue caratteristiche profonde,senza pregiudizi su cui applicare schemi ormai vetusti. Uno spaccato a suo modo storico ed evolutivo, che nelle varian­

ti dinastiche (La lunga estate calda, fi gigante ] The Giant, George Ste­ vens. 1956; Giant Produclions/Wamer Bros.]) mostrava la trasforma­

zione sociale americana dalla fase patriarcale e terriera a quella moder­ na, unicellulare e borghese. Differente il discorso nelle pellicole con protagonista femminile, in­ clini a smuovere altri assi di frustrazione. Nel melodramma familiare

degli anni Cinquanta, la donna, madre, moglie o fidanzata inappagata,

era osservata nel tentativo di reprimere il suo fluttuante e implicito de­ siderio sessuale a contatto con avvenimenti e personaggi che ne scate­ navano istintivamente gli impulsi. In La lunga estate calda. Ben Quick, prima di baciare la contrariata Clara (Joanne Woodward), le rinfacciava di essere turbata dalla cognata disinvolta a cui i ragazzini ululavano Tin sotto casa, dal fratello che inseguiva la moglie per casa a petto nudo, dallo sprezzante padre Will che a sessanf anni si recava costantemente dall’amante. Il personaggio femminile era dominato dagli eventi e dal volere dell’uomo, ma diffìcilmente il mèlo di ambito domestico assumeva la reale prospettiva del personaggio, che invece era scrutato, analizzato da

un punto di vista maschile, e ricollocato in situazioni finali solo in ap­ parenza positive, poiché suscitavano più di un’incertezza sulla sua ef­ fettiva emancipazione. In Secondo amore, il tentativo della vedova Ca­ ry di vivere la sua storia d’amore con il giardiniere Ron, avversata dai compaesani e dai figli, sembrava infine giungere alla sua soddisfazione: la donna lasciava la sua abitazione borghese e il suo ruolo di madre di figli ormai adulti e si recava da Ron, in un’umile dimora di campagna

in cui vivere secondo i precetti di Henry DavidThoureau apprezzati dal

288

Storia e storie del cinema americano

giovane. Tuttavia Ron aveva avuto un grave incidente, cadendo da un precipizio e rimanendo bloccato a letto, e aveva bisogno di essere accu­ dito da Cary. lui donna aveva coronato con coraggio la sua ambizione, ma si ritrovava a ricoprire gli stessi ruoli da cui era fuggita, per una conclusione felice che aveva il beffardo sapore della ciclicità. Il mèlo costruito su queste premesse tematiche mostrava direttamen­ te tutte le contraddizioni inteme al sistema famiglia, ma rivelava anche,

in filigrana, le incongruenze insite nella mentalità e nelle consuetudini borghesi, pur senza metterne mai veramente in discussione resistenza, considerata come l’unica risposta possibile al pericolo di disgregazione sociale. In Qualcuno verrà, lo sgretolamento della comunità e dell’istituto familiare si delineava, si sfiorava, ma non si realizzava. Scoperta la

relazione del padre Frank (Arthur Kennedy)con la sua segretaria. Dawn llirsh decideva di lasciare la famiglia e di trasferirsi a New York. Stes­

sa decisione anche per la segretaria sedotta e abbandonata da Frank. In attesa della partenza, la loro attenzione era richiamata al luna park, do­

ve il fratello di Frank. Dave, era stato ferito dal fidanzato geloso di

Ginnie. con la quale si era appena sposato, mentre la ragazza era stata uccisa. Il funerale, ultima scena del film, vedeva riuniti nella stessa in­ quadratura tutti i personaggi. Dave con il braccio colpito legato al collo, Bama Dillert (Dean Martin). amico di Dave nonostante lo avesse disco­

nosciuto per la sua decisione di sposare Ginnie. la segretaria di Frank e la famiglia di quest’ultimo ancora riunita. Tutti uniti nella funzione re­ ligiosa: nonostante la crisi e il desiderio di fuga, tutto era ricomposto nelle sue peculiarità apparenti. Un modello narrativo prismatico, il melodramma, la cui lettura si sviluppava a più livelli (e infatti differenti furono gli approcci utilizzati

per analizzarlo, dagli studi marxisti a quelli femministi, da quelli psicoanalitici a quelli di gender) e nel quale la critica al sistema si confonde­ va talvolta con la necessità tautologica di riconoscersi comunque in esso, li probabilmente fu anche l’ultimo modello attraverso cui la Hol­

lywood del periodo d’oro potè mostrare tutta la sua intensità drammati­ ca e il grado di finissima elaborazione espressiva raggiunto nel corso della sua storia.

APITOLO

Suspense e risate amare

13.1

L’emergere dell’autorialità

L’attenzione rivolta ai registi dei singoli film e alla loro peculiare poe­

tica fu un aspetto che si originò da una serie di situazioni concomitanti. Da un lato, l’immagine declinante dell’industria feces) che il pubblico si affidasse a quello che Capra chiamava «il nome sopra al titolo», la firma dell’autore sulla pellicola in sala come garanzia di qualità e di un certo particolare gusto. Ciò avvenne anche per volontà dell’industria

stessa, desiderosa di convogliare l’interesse de) pubblico soltanto appa­ rentemente altrove, salvo ricavare lutti i vantaggi di un eventuale ap­ prezzamento da pellicole che rimanevano, nella maggior parte dei casi, controllale produttivamente dagli Studios. Dall’altro lato, gli anni Cin­ quanta sancirono la fine di un certo snobismo da parte della critica eu­ ropea nei confronti del cinema hollywoodiano. non più ritenulosollanto

fucina di sogni irrealizzabili e regno dello spettacolo fine a se stesso, ma anche, finalmente, luogo produttivo in grado di evidenziare perso­ nalità artistiche di rilievo, almeno pari all’empireo formato da Rosselli­ ni, Renoir, Bresson, Dreyer, Mizoguchi, MaxOphols, Cocteau o Murnau. Questa riscoperta, che faceva capo a una allora piccola rivista fran­

cese di recente formazione, i «Cahiers du cinéma», fondata nel 1951 da André Bazin, Jacques Doniol-Valcroze, Joseph-Marie lx> Duca e l>éonide Keigel, e animata da un nugolo di giovani e agguerriti critici, pron­ ti a brandire la sciabola del proprio gusto cinefilo contro tutto e tutti

290

Storia e storie del cinema americano

(Truffaut, Godard Chabrol. Rivetto, Rohmer. Domarchi), spostava de­ cisamente l’interesse critico verso la componente visiva del film a sca­ pito della sua costruzione esclusivamente narrativa, coerentemente con

una polemica già innescata in patria (soprattutto da Truffaut) contro il cinema depapa, ossia verso quei film appartenenti alla tradizione, line­

ari nella loro pura traduzione della sceneggiatura. I critici francesi basa­ vano il loro apprezzamento sulla fase della messa in scena, che superò in importanza lo sviluppo della storia, lo spessore dei dialoghi e la fe­ deltà assoluta alla sceneggiatura, frutto del lavoro di un dipartimento spesso estraneo alla sensibilità del regista. Per messa in scena, attraver­ so il filtro di Andrew Sarris, il portavoce negli Stati Uniti dell’Autor Theory proposta dai critici francesi (ne) saggio Notes on the Auteur Theory in 1962, pubblicato su «Film Culture» numero27. dell’inverno

1962-63), s’intendeva la capacità de) regista, ritenuto, nei casi di cinea­ sti più dotati, il responsabile del risultato artistico, di trascendere i modi di produzione hollywoodiani, esprimendo la sua attitudine verso il sog­ getto filmicoda lui narrato attraverso la cura dell’inquadratura (la mes­ sa in quadro, mise-en-shoi), le procedure di montaggio, il ricorso ai movimenti di macchina, il rigore nella direzione degli attori e la loro

prossemica sulla scena. Compito del critico, a quel punto, sarebbe stato indagare e interpretare VInterior Meaning dell’autore, il suo significato

interiore per attribuirgli una poetica coerente. Questa tendenza alla ri­ cerca dell’autorialità nel cinema hollywoodiano, che preesisteva all’av­ vento degli Studios (si pensi solo all’importanza della griffeàì Griffith),

non era una teoria in senso stretto, quanto una tendenza, una sorta di mutamento di gusto originatosi da una linea editoriale in qualche modo provocatoria dei «Cahiers du cinéma», perché i giovani critici francesi

esaltavano registi non considerati di Primo Piano dagli Studios. lui prima stella de) firmamento autoriale fu Welles, il quale, fin dal primo numero dei Cahiers. fece da spartiacque quasi cristologico tra un’epoca precedente alla sua manifestazione sullo schermo e una suc­

cessiva che avrebbe segnato l’intero sviluppo dell’arte cinematografica. In questo periodo, altri registi attrassero l’attenzione dei «Giovani Tur­ chi» francesi, cosi soprannominati per il loro fervore iconoclasta nei confronti di un cinema ritenuto bisognoso di un deciso svecchiamento:

Elia Kazan. Richard Brooks, Anthony Mann, Robert Aldrich, lìdgar G.

Suspense e risale amare

291

Ulmer. Joseph Ixjsey, Richard Fleischer. Samuel Fuller. Joshua Ixjgan e addirittura Gerd Oswald, il cui nome non riuscì mai a discostarsi da una mediocre produzione di genere (principalmente western e crimestory), per un certo periodo furono ritenuti degni di particolare attenzio­ ne peri loro tentativi di realizzare un cinema inqualche modo originale,

basato su un’accurata messa in scena, anche se ancora fondato sulle logiche produttive hollywoodiane. L’iniziale entusiasmo fu ribadito in­

torno alla metà degli anni Cinquanta dallo sforzo di Aldrich di rendersi indipendente rispetto agli Studios con la sua casa di produzione The Associates & Aldrich Company inaugurata con 11 grande coltello (The Big Knife, Robert Aldrich. 1956). il cui scopo era quello di produrre

cinque film ogni anno, due di Aldrich stesso e tre di giovani cineasti dalle grandi potenzialità e di sicuro avvenire. Ma l’iniziativadi Aldrich di produrre un congruo numero di pellicole si arenò nel giro di un paio d’anni e il sistema fagocitò i tentativi di operare indipendentemente da esso sulla grande distribuzione. Progressivamente, anche l’esaltazione

dei critici francesi si smorzò, con la consapevolezza che Hollywood non era, né poteva essere, per sua intrinseca conformazione, il luogo delle grandi rivoluzioni finanziarie e. come diretta conseguenza, artisti­

che. E che forse, l’intero sistema era da analizzare quasi esclusivamen­ te in funzione della perfezione raggiunta dall’accuratamente confezio­

nata narrazione per generi, più che per le spiccate doti autoriali dei sin­ goli registi su cui si era concentrata l’idea di una nuova via espressiva possibile. L’elenco si assottigliò, inevitabilmente. 1 pochi nomi che restarono inscritti nell’ideale elenco furono considerati l’essenza del cinema ame­ ricano. Nicholas Ray, ad esempio, era ritenuto l’incarnazione stessa del

cinema. Pellicole come Johnny Guitar (id., 1954: Republic) e La vera storia di Jess il bandito (The True Story of Jesse James, 1957; 20th

Century-Fox) furono particolarmente apprezzate per la loro capacità di mostrare la sensibilità dell’artista attraverso la sua maestria tecnica e,

nel secondo caso.per il gusto dell’inquadralura con il quale si suggeriva il destino tragico dell’individuo, per la sapienza del montaggio che pro­ poneva la visione delle scene di maggiore drammaticità attraverso lo sguardo di un personaggio-testimone e per il rilievo metaforico di cui

era dotata la scenografia, con il suo attivo rapporto tra oggetti e corpi

292

Storia e storie del cinema americano

dei personaggi. Cosi come fu apprezzalo Dietro lo specchio (Bigger Than Life, 1956:20lh Century-Fox). claustrofobico mèlo che trasfor­ mava le necessità della classe media in un oscuro peccato di hybris e dietro la cui grana linguistica un critico attento come Eric Rohmer riu­ scì a intravedere la sostanza stessa del cinema. Di contro, era criticata la

figura di John Huston, stimata da Bazin all'inizio degli anni Cinquanta e difeso strenuamente dalla rivista concorrente, «Positif». regista per il

quale, pur apprezzandone la statura, si rilevava una certa incapacità di oltrepassare la letterarietà delle pellicole tratte da romanzi celebri come Mohy Dick la balena bianca (Moby Dick, 1956; Moulin Productions Inc.) odi fornire sostanza cinematografica a lavori che risentivano del­ la dichiarata ispirazione pittorica come Moulin Rouge (id.. 1952; Ro­

mulus film, Moulin Productions Inc.), tra l’altro realizzato in Europa con capitali inglesi. Hitchcock, Howard Hawks e fritz luing erano ritenuti una sorta di sacra trimurti di quella universale religione che era la cinefilia. Per i «Cahiers», ma non per «Positif» o per la rivista inglese «Sight & Sound», che non ne apprezzavano l’opera considerandola «superala» o addirittura disprezzabile dal punto di vista ideologico, Hitchcock era il

«genio metafìsico» che attraverso la fluidità della sua messa in scena e l’involucro dei suoi film costruiti sulla suspense delineava un itinerario

spirituale peri personaggi fatto di prove successive, rivelazioni misti­ che e salvezza finale. Hawks, invece, rappresentava la «sublimazione del genere» tramite

una semplice equivalenza, in virtù della quale, almeno secondo ciò che affermò con convinzione integralista Jacques Rivette, se era stato in grado, nel corso della sua lunga carriera, di realizzarci! miglior film di gangster (Scarface), il miglior film d’aviazione (A venturieri dell'aria [Only Angels Have Wings, 1939; Columbia]), il migliore film di guerra (Arcipelago in fiamme), i migliori western (Fiume rosso [Red River,

1948; Charles K. Feldman Group/Monterey Productions] e II grande cielo [The Big Sky, 1952; RKO/Winchester Pictures Corporation]) e le

migliori commedie (tra cui Susanna e Gli uomini preferiscono le bion­ de [Gentlemen Prefer Blondes, 1953; 20th Century-Fox]), si sarebbe dovuto concludere, di conseguenza, che ci si trovava di fronte al mi­

glior regista del cinema americano.

Suspense e risale amare

293

luing. nonostante avesse permutato, seppur per necessità di mercato, il suo genio espressionista degli anni tedeschi con la realizzazione di comunque interessanti film che nell'industria hollywoodiana compari­ vano nel listino dei titoli di serie B, fu rivalutato da Truffaut e Chabrol in coincidenza con l'uscita de II grande caldo (The Big Heat, 1953;

Columbia) e di Gardenia Blu (The Blue Gardenia, 1953; Blue Gardenia Productions), di cui si ammirarono l'altissimo grado di realismo utiliz­

zato in storie criminali, al punto da poter concorrere, nella mitologia iperbolica che spesso caratterizzava gli scritti dei giovani critici france­ si, sullo stesso terreno dei film neorealisti di Rossellini. Per amor di paradosso (e di provocazione), Jean-Luc Godard esaltò l'opera di Frank Tashlin. valutato anche all’interno dell'industria un ar­ tigiano il cui merito maggiore era quello di fornire le condizioni miglio­ ri per far esprimere adeguatamente star come Jerry l>ewis. Dean Martin.

Bob I lope. Di Tashlin. Godard apprezzava (e in questo, per una volta, si trovò in sintonia con i critici di «Posi tif») l'acuto senso del grottesco con cui il regista stigmatizzava alcuni aspetti della società americana, dalle

caratteristiche della middle class all’immaginario erotico delle pin-up, inteso come riflesso latente di una certa repressione sessuale. Un amore

incondizionato che portò Godard a sostenere che Tashlin. per il suo sen­ so del ritmo, per la semplicità delle sue inquadrature, per la sua abilità creativa, valeva, addirittura, almeno «quanto due Billy Wilder»(il favo­ re su Billy Wilder era però appannaggio di «Posilif»). Anche Vincente Minnelli ebbe l’onore deH'altenzionedei «Cahiers».

sebbene, in una prima fase. la redazione lo considerasse un semplice metteur en scène, spesso incapace di andare oltre una fedele traduzione della sceneggiatura. Concentrandosi soprattutto su il pirata (Jhe Pirate, 1948; MGM). Spettacolo di varietà e Brigadoon, negli articoli di Jean Domarchi Minnelli divenne un regista di sicura presa commerciale la cui arte venneconsiderata come quella di uno dei pittori minori del Rinasci­ mento: la seduzione stilistica e scenografica di Minnelli fu vista come

uno smascheramento anti frastico dei falsi modelli di riferimento presen­ ti nella società americana. L'eleganza artefatta della MGM. nell'impeto fondamentalista di uno dei Giovani Turchi, ribaltò la sua essenza per trasformarsi in critica sottotraccia al sistema. Conclusioni importanti, perché pur ammettendo il limite di una proposta universale fondata su

294

Storia e storie del cinema americano

valutazioni assolutamente personali, privi di una legittimazione teorica e motivati talvolta dal solo spirito provocatorio, era tuttavia vero che tali scritti ebbero il merito di evidenziare alcune tra le più spiccate persona­

lità artistiche inserite nell’industria hollywoodiana, indirizzando il gusto e inaugurando un'indagine seguita da studi più approfonditi.

13.2

II brivido del previsto: Alfred Hitchcock

Con una sintesi stringente che ha sempre avuto più il sapore della tagli­ ne che del riconoscimento ufficiale, Alfred Hitchcock è sempre stato accompagnato dall’etichetta di «mago del brivido». Definizione ambi­ valente, perché, mentre ne sanciva la maestria, la ancorava tuttavia a

uno specifico modo di mostrarla, attraverso storie che incutessero un senso di claustrofobica tensione, inquadrate in atmosfere mystery dalle apparenze erronee e in meccanismi narrativi dalla perfezione a orologe­ ria. Seppur inquadrabile in un particolare tipo di racconto, Hitchcock fu molto di più che un semplice regista di thriller notevolmente riusciti, e questo anche prima della sua riscoperta da parte dei critici francesi,

avvenuta nel corso degli anni Cinquanta, in un decennio fecondo di capolavori che esaltarono la sua filmografìa. Il thriller era solo l’invo­ lucro in cui il regista inglese, giunto a Hollywood nel 1940 per realiz­ zare Rebecca, la prima moglie, ambientava le sue storie, ma la sua mes­

sa in scena, la sua concezione stessa dicinema, si dimostrarono in grado di trascendere modalità e situazioni mostrate per ascendere direttamen­ te a un più ampio discorso tematico, teorico e concettuale. Gli studi che

nel corso degli anni si susseguirono sulla sua opera (da ricordare alme­ no la prima monografìa, scritta da Chabrol e Rohmer nel 1957, lo studio di Robin Wood, Hitchcock’s Film, del 1965 e poi integrato successiva­ mente, e la splendida, lunga intervista di Francois Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, pubblicato nel 1967) isolarono alcuni nuclei tema­

tici riconenti in qualità di ossessioni più o meno evidenti, come l’in­ fluenza de) cattolicesimo, riscontrabile nella quasi totalità delle pellico­ le dirette sotto forma di dilemma morale sul Bene e sul Male e di rifles­ sione sull’inevitabilità della colpa, anche di fronte a una formale (e le­

Suspense e risate amare

295

gale) innocenza. Oppure come la patente misoginia (un tratto spesso ravvisabile anche nel rapporto con le attrici sul set) e la velata omofilia osservabile in filigrana nel rapporto tra alcuni dei personaggi maschili. Oppure ancora come Possessione per il delitto perfetto, pretesto narra­ tivo di molte pellicole, che orchestrarono sulla mancanza di movente

l’originalità della vicenda narrata: da Nodo alla gola (Rope, 1948: Transatlantic Pictures/Wamer Bros.), in cui due studenti eliminavano

un loro compagno soltanto per mettere in pratica le teorie di un loro vecchio insegnante, a 11 delitto perfetto, del 1954. nel quale un marito scovava in un vecchio compagno di università perso di vista da anni l’assassino ideale per uccidere la moglie, passando per Delitto per de­ litto -1. 'altro uomo (Strangers on a Train, 1951; Warner Bros.), in cui

uno sconosciuto incontrato su un treno si offriva di uccidere la moglie fedifraga di un celebre tennista se questi avesse assassinato il suo tiran­

nico padre. Pur prescindendo dalle singole ossessioni caratterizzanti. Hitchcock

concorse alla creazionedi una fluida ecompiuta forma cinematografica (secondo Chabrol e Rohmer pari almeno a quella di Mumau ed lijzenstejn). semplice nella sua manifestazione visiva, perfettamente leggibi­ le per il grande pubblico, ma. allo stesso tempo, estremamente sensibile nel ritrarre sentimenti, reazioni e desideri dei personaggi con una sola inquadratura, con un piano su uno sguardo dubbiosoo impaurito, oppu­ re concentrando l’attenzione su un oggetto decisivo per il successivo sviluppo della tensione. Centrale era il concetto di suspense, che con Hitchcock giunse a una chiarificazione teorica ulteriore che lo distinse rispetto all’accezione che lo vedeva come semplice sinonimo di tensione narrativa. Nell’in­ tervista a Truffaut. Hitchcock, attraverso l’esempio di una bomba sotto

il tavolo, tirò in ballo per spiegarne la natura anche la partecipazione del pubblico, cui la creazione della suspense era direttamente rivolta: una bomba sistemata da un anarchico sotto un tavolo attorno al quale due persone ignare stavano conversando avrebbe generato suspense soltan­ to se lo spettatore avesse visto preventivamente la collocazionedeirordigno, mentre un’esplosione improvvisa avrebbe dato vita esclusiva-

mente a un momento di intensa sorpresa, magari resa più acuta da un dialogo pacato, sereno, privo di picchi drammatici. Nel secondo caso il

296

Storia e storie del cinema americano

pubblico era vittima di un istantaneo spavento, nel primo, invece, trepi­ dava con i personaggi con cui si era identificato fino a quel momento, sperando che entro l’ultimo secondo utile uno dei due si accorgesse della minaccia o che qualche elemento esterno intervenisse a rendere vano l’attentalo. Un meccanismo perverso, con punte di compiaciuto

cinismo. In Sabotaggio (Sabotage, 1936). qualche anno prima che Hitchcock si trasferisse a I lollywood. la lunga sequenza del trasporto e della successiva esplosione della bomba sarebbe diventata un episodio esemplare della perfetta costruzione della suspense à la Hitchcock: il perfido Verioc, terrorista fiancheggiatore di potenze estere e gestore di

uno scalcagnato cinema, per non desiare sospetti nella polizia che lo teneva d’occhio, incaricava il piccolo Stevie, fratello della moglie, di recapitare fino a Piccadilly Circus la pizza di una pellicola cinemato­ grafica (dall’inesistente titolo Bartholomew the Strangler) al cui inter­ no era stata collocata una polente bomba a orologeria la cui esplosione era prevista alle 13:45. Fissalo il cosiddetto time lock, ì\ termine massi­ mo oltre il quale sarebbe avvenuta l’esplosione, gestita l’informazione

preventiva per il pubblico (che sapeva che in quella pizza c’era dell’esplosivo predisposto per provocare una strage), configurata

l’identificazione con il piccolo Stevie, volto teneramente sorridente sol­ cato da ricci ribelli ed efelidi sbarazzine, Hitchcock modulò come un direttore d’orchestra il lungo segmento, della durata di quasi dieci mi­ nuti, dapprima allentandola tensione in situazioni farsesche cui rimane­ va vittima il ragazzo (costretto da un imbonitore da fiera a sottoporsi a

un pubblico lavaggio di denti e al trattamento con una misteriosa lozio­ ne per capelli), poi allestendo degli effetti ritardanti (l’impossibilità ad attraversare la strada a causa della parata del sindaco) e infine permet­ tendogli di salire su un autobus per recarsi all’appuntamento (e nono­ stante il controllore, con un ulteriore effetto ritardante amaramente iro­ nico, inizialmente glielo impedisca per paura chela pellicola di nitrato di cellulosa possa prendere fuoco). Hitchcock diede alle diverse situa­ zioni mostrateuna durala differente, in un crescendo montato in manie­ ra sempre più convulsa all’approssimarsi del momento culminante, ma il suo intervento era costante nel ricordare al pubblico, anche nei pas­

saggi più comici e rilassati, come la minaccia fosse sempre presente e

pronta a deflagrare attraverso i ripetuti piani ravvicinati sulla pizza nel­

Suspense e risate amare

297

le mani dell’ignaro Stevie e tramite le inquadrature sugli orologi che scandivano il tempo mancante prima dell’esplosione, lisplosione che infine avveniva, frustrando le speranze del pubblico per mezzo di una giustapposizione di inquadrature sempre più brevi, assolutamente stri­ denti nell’unione dell’inconsapevole serenità di Stevie (che giocava

con un cucciolo sul bus) con la concitazione di piani ravvicinati di lan­ cette e involucri di pellicola prima dell’atteso botto definitivo.

Il cinismo della fine del povero Stevie a Hollywood dovette model­ larsi necessariamente sull’esistenza del divo, sui criteri identificativi con esso e sull’impossibilità di giocare con la sua sorte, pena il rifiuto del film da parte del pubblico. In Notorious, ramante perduta (Noto­ rious, 1946; Vanguard Films/RKO) la suspense veniva inaugurata da

un vertiginoso movimento di macchina, dall’alto in basso, dal generale al particolare, dalla sommità di una balconata al Primo Piano di una lussuosa residenza fino al dettaglio di una chiave nascosta nervosamen­ te nel palmo della mano di Alicia Huberman (Ingrid Bergman), per

concentrare l’attenzione sull’elemento decisivo sul piano drammatico, lui chiave era il fulcro del racconto: essa apriva la porta della cantina dell’abitazione di Alexander Sebastian (Claude Rains), complice di spie naziste e marito di Alicia, che lo aveva sposato per conto del con­ trospionaggio americano. In cantina c’era la soluzione dell’enigma, della polvere d’uranio che serviva per la fabbricazione di una bomba atomica, il pretesto nanativo.il «Mac Guffin».per dirla con le parole di Hitchcock stesso. Con l’aiuto decisivo di Alicia, l’agente Devlin (Cary

Grant) si introduceva in cantina alla ricerca di indizi per i suoi sospetti, approfittando della confusione dovuta allo sfarzoso ricevimento che si stava tenendo al piano superiore della dimora. Hitchcock generava la suspense semplicemente con un’inquadratura e una notazione apparen­

temente «di servizio», laddove sarebbe bastalo il brivido della ricerca di Devlin in una cantina in cui non avrebbe dovuto avere accesso per ge­ nerare la tensione. Un piano isolato su Sebastian intento a osservare la moglie instillava il dubbio nell’animo dello spettatore: l’uomo ha capi­ to il gioco della donna oppure è soltanto geloso dei fugaci rapporti che intrattiene durante la festa con l’aitante Devlin, di cui era stata amante prima di sposarsi? L’apparentemente innocua comunicazione di un do­

mestico sullo champagne che sta velocemente finendo, forniva invece

298

Storia e storie del cinema americano

il consueto time lock, questa volta proposto non attraverso il ricorso continuo a piani su orologi, ma sulla massa di bottiglie che si assottiglia sempre di più e richiede l’intervento di Sebastian, il quale dovendo

prenderne altre in cantina si accorgeva delle chiavi che gli erano state sottratte. Devlin e Alicia, tuttavia, erano interpretati da due star attorno alle quali ruotava gran parte dell’interesse del film, e il rischioda loro corso era effetto di una convenzione in cui era necessario un salvatag­ gio all’ultimo secondo, un colpo di scena che portasse allo stremo la tensione per poi dissiparla: Sebastian, scendendo in cantina, trovava nei pressi de) giardino la moglie e Devlin mentre si stavano baciando, un attimo prima che la donna respingesse l’uomo con decisione, e ciò tra­ sportava la tensione su un altro piano, quello della passione clandestina,

anche se per un tempo limitato. Tino al momento in cui Sebastian sco­ priva in cantina una bottiglia rotta che rivelava la scopertae l’intrusione di Devlin. Hitchcock, tuttavia, era abituato a spingereoltre lepossibililà del consentito, e in Psyco (Psycho. I960; Universal) giocò con quel­

la stessa identificazione dello spettatore che obbligava a salvare il divo dopo averlo condotto sul precipizio della catastrofe. Il racconto seguiva fedelmente la vicenda di Marion (Janet 1-eigh). la sua fuga da Phoenix.

Arizona, dopo aver rubato 40.000 dollari che il suo principale le aveva raccomandato di depositare in banca, la osservava con partecipazione

mentre rischiava di essere fermata lungo la strada da un poliziotto inso­ spettitosi dalla sua sosta notturna lungo il ciglio della strada, e la ac­ compagnava quasi rilassandosi in un motel, il Bates Motel, incontrato lungo la strada, nel quale si riparava da un violento e improvviso tem­ porale. Dopo aver inequivocabilmente chiarito chi fosse il protagonista della storia narrata, chiamando il pubblico - suo malgrado: si trattava

pur sempre di una ladra, anche se affascinante- a condividere sguardi, paure e desideri attraverso un sapiente bilanciamento di soggettive che spartivano lo sguardo con la sala e di oggettive che rissavano le emozio­ ni del personaggio nell’animo dello spettatore. Hitchcock spiazzò tutti facendo uccidere la povera Marion durante una celebre doccia nella stanza del motel, ben quarantotto minuti dopo l’inizio del film, lui mor­ te di Marion rappresentava s) una sorpresa, ma la suspense hitchcockia-

na. seppur non dichiarata attraverso un’informazione preventiva rivolta

agli spettatori, ebbe modo di estrinsecarsi ugualmente tramite alcune

Suspense e risate amare

299

anomalie stilistiche (un’illuminazione molto intensa; Dettagli insoliti come il braccio della doccia dal basso; variazioni minime, sotto i 30°, e ingiustificate dell’angolo di ripresa) e lo squilibrio volumetrico intemo

all’inquadratura, con una Marion collocata con il volto nel quadrante in basso a destra, troppo decentrata per ignorare che l’altra metà vuota del piano, oltre la tendina di plastica della vasca, si sarebbe immediatamen­ te riempita di una presenza minacciosa proveniente dall’esterno, da una

profondità di campo opaca e indistinta ma foriera di sciagura. Alla fase di preparazione fece immediatamente seguito il breve segmento dell’omicidio, quarantacinque secondi di durata, settanta posizioni del­

la macchina da presa per meno di un secondo a inquadratura, ognuna delle quali era caratterizzata da angolazioni molto marcate e contrasti antitetici di luce (Marion-luce, assassino-ombra), legale insieme dall’accompagnamento stridente del compositore Bernard Herrmann.

Con la morte inattesa della donna, il fìlm risultava spaccato in due: a una prima parte centrata su Marion seguiva la seconda, nella quale di­ ventava fondamentale la presenza de) gestore del motel, Norman Bates

(Anthony Perkins), in perenne conflitto con l’anziana madre. Tino alla rivelazione Tinaie della sua malattia mentale e del conseguente sdop­

piamento di personalità. Un fìlm dalla costruzione schizofrenica che rifletteva metananativamente nella struttura il tema stesso del fìlm, ma anche un esempio estremo di un altro assunto caro a Hitchcock, quello del Wrong Man, non a caso titolo anche di un suo fìlm del 1956 (titolo italiano //ladro', Warner Bros.), l’individuo vittima innocente delle cir­

costanze, costretto ad agire in prima persona per garantirsi la salvezza. Hitchcock narrò spesso di uno scambio di persona, di un’accusa infon­ data o di un’apparenza scambiala per realtà. Ingiuste accuse di omici­ dio (// club dei 39 {The 39 Steps, 1935] oppure Giovane e innocente [ Young and Innocent, 1937], realizzati in lnghilterra)odi furto (Caccia

al ladro[To Catch a Thief, 1955; Paramount]), colpe assunte per invio-

labilità sacramentale (lo confesso [I Confess, 1953; Warner Bros.]) o

segreti di stato rivelati a tranquille famiglie in vacanza in Marocco (l,'uomo che sapeva troppo [ The Man who Knew too Much, 1956; Paramount/Filwite Productions]). E ancora, innocenze simulate grazie

all’ausilio di flashback menzogneri che aprirono aspre polemiche su un’ipotetica etica della narrazione (Paura in palcoscenico [Stagefright,

300

Storia e storie del cinema americano

1950; Warner Bros.])o addirittura scambi di identità con individui mai esistiti dovuti a improvvide coincidenze (Intrigo internazionale [North hy Northwest. 1959; MGM]). In Hitchcock Io scambio di persona non

era soltanto la conseguenza di un'impostazione della sceneggiatura, bensì la traduzione visiva di un equivoco, di una fortuita casualità, di

un misunderstanding dalle conseguenze drammatiche che assumeva le fattezze dello stile tramite la percepibile presenza del regista sulla con­ figurazione delle immagini, sulla loro successione e la conseguente messa in rilievo. In Intrigo intemazionale, l'agente pubblicitario Roger Thornhill (Cary Grant) era creduto un fantomatico agente del contro­ spionaggio chiamato Kaplan, e per questo motivo vedeva la sua vita continuamente minacciata dagli uomini di Phillip Vandamm (James Mason), spia dai modi affettati. L'equivoco nasceva da una concomi­ tanza di eventi e da un veloce movimento di macchina che mutava i

criteri di focalizzazione: giunto al Plaza Hotel di New York per un in­ contro di lavoro. Thornhill si mostrava preoccupato per aver incaricato

la segretaria di chiamare telefonicamente la madre pur sapendo che quest'ullima fosse assente peruna partita di bridge, ta preoccupazione, apparentemente eccessiva, forniva preventivamente la misura di un personaggio che ha un rapporto di stretta dipendenza con la propria madre, con tutte le interpretazioni psicoanalitiche del caso, ma il suo

gesto per richiamare l’attenzione del fattorino dell'hotel entrava, suo malgrado, in rotta di collisione con l'azione dello stesso fattorino che chiamava a gran voce nella hall il misterioso Kaplan perché desiderato al telefono. L'impatto della coincidenza, altrimenti gratuito, veniva poi rissato da un veloce spostamento della macchina da presa verso destra, su due personaggi in piedi, defilati e dall'abbigliamento sensibilmente meno distinto rispetto agli altri ospiti della hall, concentrati perù su

Thornhill e sull'attenzione che cercava di catturare nel fattorino. Un conseguente piano ravvicinalo sui due loschi personaggi, uno dei quali suggeriva ammiccando aH’altro il nome di Kaplan, era. contemporane­ amente. il segnale dell’awenuto malinteso, l'inizio dell'incomprensi­ bile odissea per Thornhill e anche l'evidente manifestazione dell'istan­ za narrante, la quale, dando un vantaggio cognitivo allo spettatore ri­ spetto al povero Thornhill, generava quella suspense necessaria a de­

terminarne la costante minaccia di cui era ignara vittima. L'intervento

Suspense e risate amare

301

diretto di Hitchcock era anche rivolto a sciogliere l’intreccio, nel tenta­ tivo di ristabilire l’equilibrio che lo scambio di persona aveva minato inizialmente per motivare la storia narrata: nel finale di Giovane e in­ nocente, la scoperta del vero assassino era anticipata dall’istanza nar­

rante e offerta preventivamente allo spettatore tramite uno straordina­

rio movimento della macchina da presa, capace di passare da un Cam­ po Totale, attraversare tutto lo spazio della sala da tè di un hotel in cui gli ancora ignari lirica Burgoyne e il vagabondo Old Will credevano si trovasse l’assassino, superare il cantante dell’orchestra che stava indi­ cativamente cantando No One Can Like the Drummer Man, e giungere

fino al Primissimo Piano del batterista truccato da Minstrel Man per rivelare il ritmico tic agli occhi, unico indizio utile per scagionare il

protagonista Robert Tisdall dall’accusa di omicidio. Alle scelte dialettiche dell’istanza narrante, vale a dire alle inquadra­ ture svincolate da compiti descrittivi o dal movimento delle figure nello spazio, faceva da degno contraltare un regime di visione particolare, in

virtù del quale assumeva una notevole centralità lo sguardo dei singoli personaggi. Secondo alcuni studi empirici, si è stabilito che circa un quarto delle inquadrature proposte nei film di Hitchcock fosse originata

dal punto di vista dei protagonisti, tanto da far germinare la diffusa in­ terpretazione di un’evidente ossessione voyeuristica. Ciò fu sicuramen­ te evidente, anche nella sua valenza metaforica e metacinematografica, ne Lafinestra sul cortile (Rear Window, 1954; Paramount/Patron Inc.). L.B. Jefferies (James Stewart), fotoreporter a riposo forzato per via di

un infortunio sul lavoro che lo aveva immobilizzato nella poltrona di casa con una gamba ingessata, osservava dalla finestra/schermo della sua abitazione ciò che i dirimpettai vivevano quotidianamente. Quello di Jefferies, vista la sua professione, era uno sguardo addestrato alla ricerca del dettaglio, il suo un occhio bramoso di scovare la novità pos­ sibile della visione e lungo la sua prospettiva confluiva la stessa ipotesi di visione dello spettatore che dipendeva da Jefferies per vedere, scor­

gere, mettere a fuoco, comprendere ciò che stava realmente accadendo nell’appartamento di fronte, dove si supponeva che un marito avesse eliminato la moglie. Jefferies, come affermato più volte dagli studi sul

film, con il suo blocco della motilità e il suo posto privilegiato di fronte alla finestra, rappresentava una piccola allegoria dello spettatore cine­

302

Storia e storie del cinema americano

matografico. cullato dalla passione scopofila e distanziato pudicamente dall’oggetto della sua visione. Jefferies stabiliva anche il punto di pas­ saggio tra la trasparenza dell’immagine del cinema classico e la capaci­ tà del pubblico di riconoscere tale immagine come la chiara metafora di ciò che stava avvenendo in sala. Hitchcock, tuttavia, riuscì anche ad andare oltre nell’elaborazione dello sguardo dei suoi personaggi, sottra­ endo attendibilità allo statuto della soggettiva, imbrigliando il perso­

naggio di Scottie Ferguson (James Stewart) de La donna che risse due volte (yertiRo, 1958; Paramount/Alfred J. Hitchcock Productions) in un regime di visione fallace, illusorio, assoggettato alla passione dei sensi e al desiderio frustrato. Scottie era incaricato da un suo vecchio amico di seguire la moglie Madeleine (Kim Novak), sofferente di una sindro­

me ossessiva a causa della quale credeva di essere posseduta dallo spi­ rito della bisnonna, Carlotta Valdes, morta suicida. Innamoratosi della

donna e incapace di impedirne il suicidio (che successivamente si sa­ rebbe rivelato falso) perché affetto da acrofobia, Scottie cadeva in un profondo stato di prostrazione a causa del quale la volontà irrazionale di rivedere la donna s’impossessava del suo stesso sguardo, che fino a quel momento, pur essendo colmo di desiderio, era stato vigile nel se­ guirla per le strade di San Francisco, arrivando anche a impedire un primo tentativo di suicidio nella baia della città, sotto il Golden Gate.

All’interno di una pellicola che nella vettorialità dello sguardo del pro­ tagonista aveva tutto il suo fondamento. Scottie rimaneva vittima della fallatiti della sua pulsione, scambiando per obiettiva la sua soggettiviti e trovandosi intrappolato anche «fisicamente» nelle sue stesse soggetti­ ve. Emblematico, a proposito, era il segmento della seconda visiti di Scottie al museo, sulle tracce della «defunta» Madeleine: nella sala del

ritratto di Carlotta Valdes, l’uomo, entrando nella sua stessa soggettiva, veniva letteralmente risucchiato nella porzione di spazio ritagliato dall’inquadratura che nell’immagine precedente aveva costituito la sua prospettiva oculare. Il rapporto tra soggetto e oggetto della visione en­

trava inun cortocircuito percettivo in cui il personaggio stesso si faceva pretesto per originare il dubbio sull’attendibilità delle impressioni pro­ poste come vere e credibili. Un regista consapevole.un autore, come cominciò a essere conside­

ralo. almeno in Europa, nel corso della seconda metà degli anni Cin-

Suspense e risale amare

303

quanta, che aveva anche il vezzo di firmare le sue opere facendo una piccola comparsala, un carneo, che nel corso degli anni si collocò sta­ bilmente all’inizio delle pellicole per non distrarre il pubblico durante

lo svolgimento della storia. Se Hitchcock, con la sua inconfondibile sagoma (diventala addirittura un’icona stilizzata perfettamente ricono­ scibile nelle sigle dei telefilm da lui prodotti per la televisione tra il 1955 e il 1962). era facilmente individuabile all’esterno dell’ufficio di

Marion con un cappellone da cowboy in Psyco, oppure mentre perdeva un autobus in intemazionale, v anche seduto su un altro autobus vicino al fuggiasco John Robie (Cary Grant) in Caccia al ladro, più difficile appariva la comparsala nei film ambientali in un luogo chiuso, altra prerogativa hitchcockiana. spazi con un’inesistente relazione con l’esterno. Era anche in questi frangenti che il regista inglese mostrava il suo genio, riuscendo ugualmente a firmare la pellicola spuntando da

una vecchia foto dei tempi dell’universilà in 11 delitto perfetto, aggiu­ stando una vecchia pendiola nell’abitazione dirimpetto ne La finestra sul cortile, addirittura pubblicizzando una cura dimagrantesulle pagine

di un giornale letto sulla scialuppa in mezzo al mare di Prigionieri dell'oceano {Lifeboat. 1944; 20th Ccnlury-fox).

13.3

L’etica del cinismo: Billy Wilder

Il cinema di Billy Wilder è sempre stato visto secondo prospettive dif­ ferenti. solo apparentemente contrastanti. Qualcuno ne divise netta­ mente la filmografia in due. da una parte le pellicole drammatiche,

dall’altra quelle comiche, qualcun altrostorse il naso di fronte ad alcune evidenze scambiate per volgarità, mentre altri ancora lo accusarono apertamente di cinismo e di un certo disprezzo per l’individuo, di cui sembrava ritrarre solo vizi, nefandezze e scelleratezze, declinati di vol­ ta in volta in funzione del registro adottato. Billy Wilder fu anche que­ sto. ma non solo. lid è innegabile che la sua intera opera si possa osser­ vare attraverso una stratificazione complessa e interagente, nella quale

ogni aspetto si ritagliava uno spazio autonomo nel più ampio insieme di un racconto organizzato nei minimi dettagli, fin dalla scelta dei sogget-

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li e poi. susseguentemente, nell’acuta scrittura delle sceneggiature, cui contribuirono, come collaboratori abituali, prima Charles Brackett dalle commedie scritte per Lubitsch Tino a Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950; Paramount) - e poi I.A.L. Diamond - da Arianna

(Love in the Afternoon, 1957; Allied Artists Pictures) fino all’ultimo

film. Buddy Buddy (id., 1981; MGM). Fasi concomitanti di un unico disegno omogeneo, a dispetto di ciò che rispose lo stesso Wilder a Vol­ ker SchlòndortT nel corso della lunga intervista di Billy, ma come hai fatto? (Billy Wilder, wiehahen Sie’sgemacht?, 1992).schermendosi di fronte alla domanda se tutti i suoi fìlmavessero fatto parte di uninsieme

organico con un stizzito «Are you kidding?». Indubbiamente, l’accusa di cinismo che accompagnò sempre Wilder non era certo gratuita. I^ì gran parte delle pellicoleda lui scritte e diret­ te presentavano aspetti direttamente riconducibili a un’apparente insen­ sibilità con cui il regista - per mezzo del tono assunto dalla storia, con i progetti architettati dai personaggi o semplicemente tramite le battute sferzanti che punteggiavano il racconto - affrontava i più disparati ar­

gomenti, mettendo in luce un atteggiamento sprezzante, talvolta dichia­ ratamente opportunistico, altre volte iperbolicamente ironico, al punto da ribaltarne l’assunto e sfiorare l’osservazione nichilista. Accettare di uccidere un uomo per intascare i soldi dell’assicurazio­

ne e rubargli la moglie (La fiamma del peccato), vivere alle spalle di un fantasma del passato per garantirsi quella vita agiata che la professione non assicurava (Viale del tramonto), prolungare deliberatamente fino al

punto di non ritorno l’intrappolamento in una necropoli di un uomo per sfruttare il più a lungo possibile uno scoop giornalistico (L asso nella manica [ The Ace in the Hold The Big Carnival, 1951 ; Paramount)), ce­ dere l’appartamento ai dirigenti della propria azienda per incontri clan­ destini con lo scopo di fare carriera (L'appartamento I The Apartment, 1960; 'Die Mirisch Corporation)) o simulare una lesione spinale per frodare le assicurazioni (Non per soldi... ma per denaro [ The Fortune Cookie, 1966; The Mirisch Corporalion/Phalanx Productions)) rappre­ sentavano soltanto gli involucri con cui Wilder mostrava una decaden­ za generalizzata di valori e costumi, seppur evitando qualunque giudi­

zio di merito. Wilder delineava, non giudicava: la sua macchina da pre­ sa si collocava in posizione privilegiata a osservare il comportamento

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dei personaggi, senza sottolinearne le colpe, attraverso un montaggio mirato al rilievo delle azioni, premurandosi esclusivamente di inserire le figure nell’ambiente per scrutarle con occhio discreto. Eppure, nono­ stante questa misura rappresentativa, ogni azione descritta da Wilder era in grado di dischiudere, con il suo legame indissolubile fra perso­

naggio e ambiente, un universo di piccole e grandi miserie, di solitudini frustranti, di aspirazioni bruciate, di illusioni fuorviami che nella loro umanità evitavano ogni intransigenza moralistica di valutazione, pur riflettendo sulle questioni etiche che con tali comportamenti venivano eluse. Non solo storie, ma anche singole battute e piccoli accenni, gesti

suggeriti, che ora sarebbero bollati come politically uncorrect, ma che ne) cinema di Wilder invece rappresentavano un corollario di quella

sapida perfidia che sostanziava fin dalla scrittura ogni singola pellicola. In Scandalo intemazionale (A Foreign Affair, 1948; Paramount), alcuni ragazzi giocavano a baseball al l’interno di una piazzetta di case diroc­ cate in una Berlino devastata dai bombardamenti, ta commissione go­ vernativa inviata dagli Stati Uniti guardava la partitella, mentre uno dei membri della commissione acutamente osservava: «Certo che qua non c’è nessun pericolo che rompano i vetri, ah ah ah!». Ne L’asso nella manica. Chuck Tatum (Kirk Douglas), reporter in disarmo perenne-

mente a caccia di uno scoopche lo rendessericco e stimato, inlroducen-

dosi nel cunicolo in cui era rimasto prigioniero dopo un crollo il povero Ixo Minosa. insegnava al giovane fotografo Herbie i rudimenti del giornalismo d’assalto, spiegandogli che un solo uomo in pericolo di vita era decisamente più interessante di un numero maggiore: «Tù com­ pri un giornale e leggi la morte di cento uomini, odi duecento, di cin­ quecento o di un milione di uomini, come nelle carestie in Cina. Tu leggi ma resti indifferente. Un uomo solo è diverso, vuoi sapere tutto di

lui: questa è la reazione del pubblico». In Sabrina (id.. 1954; Para­ mount). invece, si poneva l’accento su) denaro come panacea di tutti i mali, compresi quelli sentimentali: il milionario Oliver tarrabee. per evitare che la relazione del figlio David (William Holden) con la figlia dell’autista di casa. Sabrina (Audrey Hepburn), potesse pregiudicare il matrimonio già programmato con la figlia del magnale della canna da

zucchero, si risolveva a mettere fine alla questione ordinando al figlio Linus (Humphrey Bogart): «Diamole un assegno e facciamole dimenti­

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care David!». Sullo stesso versante, ne L'appartamento, il dirigente della compagnia d'assicurazioni Jeff Sheldrake (Fred MacMurray). non sapendo che cosa regalare per Natale all’amante Fran Kubelik (Shirley Macinine), le lasciava 100 dollari da spendere a suo piacimento, cau­ sando una profonda prostrazione nella donna, sinceramente innamora­ ta. portandola a tentare il suicidio. L’egoismo come chiave di lettura di un mondo uscito momentaneamente dai cardini perché impegnato a perseguire i suoi bisogni primari: in Testimone d'accusa {Witness for the Prosecution, 1957; lidward Small Productions), il fedele domestico Carter (Ian Wolfe)confidava a sir Wilfrid Robarts (Charles luiughton).

insigne avvocato, di aver acceso un cero quando questi fu trasportato d’urgenza in ambulanza per un problema cardiaco.salvo ammettere su­ bito dopo che tale preghiera era rivolta soprattutto al suo destino perso­ nale. per non ritrovarsi senza lavoro dopo 37 anni di onorato servizio. Non per soldi... ma per denaro presentava un’autentica antologia di

situazioni e dialoghi di straordinaria perversità: per convincere suo co­ gnato Harry (Jack Ixmmon) a fingersi paralizzato per frodare la com­

pagnia di assicurazione, l’avvocato Gingrich (Walter Matthau) spinge­ va su) pedale delle necessità familiari. «... E tua sorella, ha 33 anni e ancora non si è fatta la pelliccia. li poi tuo nipotee tua nipote: dormono ancora nella stessa camera: vuoi chemi ritrovi con i figli incestuosi?». Ma quando Harry, dopo averaccettato a malincuore, si mostrava stanco della pantomima che era costretto a recitare. Gingrich ricorreva al pun­ to debole del cognato, il ritomo della moglie che lo aveva abbandonato

tempo prima e che ora. a fronte di una vita agiata, si sarebbe ricongiun­ ta nuovamente con lui. Mentre Harry, al telefono con la donna, sembra­ va final mente ridotto a più miti consigli. Gingrich, discretamente e con il sorriso sulle labbra, gli riallacciava il busto che nell’impeto rivoltoso

Harry si era in precedenza tolto perché stanco della messa in scena. L’equilibrio rappresentativo di Wilder, inoltre, faceva s) che il cinismo si palesasse anche in forma indiretta, attraverso la giustapposizione tra aspetti o situazioni differenti che entrando in contatto originavano una riflessione più ampia sui comportamenti e sulle loro conseguenze. Ne L asso nella manica, ad esempio, il conflitto scaturiva dal dato fornito

dal sonoro. Alla musica festosa da fiera di paese all’esterno della grotta

si contrapponeva il rumore ossessivo, sordo e rimbombante della Inveì-

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latricc che scavava inutilmente all’interno del buco in cui era intrappo­ lalo I^o Minosa. generando una relazione dialettica tra lo sfruttamento dell’avvenimento pubblico e il dramma privato, tra la solarità di un esterno indifferente e l’oscurità soffocante di un cunicolo preannunciante la morte.

Questa apparente crudeltà, tuttavia, legava la sua presenza a un cam­ pionario di battute memorabili che, da sole, avrebbero potuto rappre­ sentare un degno compendio di aforismi, non solo nelle storie nelle quali comparivano con il loro carico di intrinseca e beffarda verità, ma, addirittura, in senso assoluto, sganciale dal contesto, in qualità di rilievi

morali proposti da un sardonico filosofo contemporaneo. In Sabrina, il padre della fanciulla protagonista, fhomas Fairchild (John Williams),

rifletteva sul senso della vita e della sua divisione in classi, allegoriz­ zandola in funzione della sua professione di autista: «lo vedo la vita come una limousine. Anche se ci viaggiamo assieme.ognuno di noi ha il proprio posto: c’è un sedile anteriore, uno posteriore e un finestrino in mezzo». In Testimone d'accusa, l’avvocato Wilfrid Robarts sintetizza­

va l’azzardo con cui l’imputato Leonard Vole (Tyrone Power) si affida­ va completamente alla moglie Christine sentenziando: «È come un uo­ mo che affoga che si aggrappa a una lama di rasoio». Ne L'apparta­ mento, il dirigente Jeff Sheldrake chiariva al suo nuovo assistente C.C.

Baxter (Jack l^emmon). promosso per i servigi che gli aveva concesso ripetutamente prestandogli la sua casa, come funzionava l’intero siste­ ma di carriera nel caso cambiasse idea e non volesse più cedergli le

chiavi: «Normalmente ci vogliono anni per arrivare al ventisettesimo piano e solo trenta secondi per trovarsi di nuovo in strada». Inutile ten­ tare di andare controcorrente in un contesto che rispondeva ormai a valori distorti, perché, come diceva il saggio barista Moustache (Ixxi

Jacobi) all’ex poliziotto Nestor Patou (Jack I>emmon) in Irma la dolce (Irma la douce, 1963; The Mirisch Corporalion/Phalanx Productions), «lissere onesto in un mondo disonesto è come spennare un pollo con­ trovento: si rimane con la bocca piena di penne». E ancora, un elogio della cautela, nella piena consapevolezza che l’indole dell’uomo avreb­ be sempre tentato di confrontarsi con il senso del limite: Chuck Tatum, ne Z. 'asso nella manica, parlando con il direttore di un piccolo giornale

di Albuquerque a cui stava chiedendo un lavoro, ammetteva i suoi torti

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passali nell’implicita promessa di non commetterne altri di fronte a un uomo che nel suo stesso abbigliamento denotava la sua prudenza: «So­ no un bugiardo colossale, ho detto una quantità di bugie. Ilo mentito a uomini che avevano la cintura e a uomini che avevano le bretelle. Ma non sarò mai cosi sciocco da mentire a un uomo che porta cintura e bretelle». Con tutta evidenza, il motivo ricorrente nell’intera opera di Wilder era il gioco incrociato delle apparenze, con punte di autentico travesti­ mento. Se nelle commedie il gioco appariva scoperto, forte di una tra­ dizione millenaria che dalla commedia latina, tramite il filtro del teatro

elisabettiano, era giunta fino alla contemporaneità, il tema era ricorren­ te anche nelle pellicole di impianto drammatico, seppur con intenti dif­ ferenti rispetto alla semplice risoluzione dell’intreccio che caratterizza­ va i lavori più brillanti. Nelle commedie il travestimento era la regola,

fin dall’esordio di Wilder come regista con Frutto proibito (The Major and the Minor, 1942; Paramount), nel quale, ammiccando allo Shake­

speare di Tutto è bene quel che jìnìsce bene e alla sostituzione della locandieri Diana con lilena per ottenere i favori erotici del bel Bertram, si seguivano i vari misunderstanding originati dal travestimento da ra­

gazzina di Susan Applegate (Ginger Rogers) e le vicissitudini per coro­ nare il suo amore per il maggiore Kirby (Ray Milland). Idea del trave­

stimento che con ogni probabilità toccò il suo punto più alto con A qualcuno piace caldo (Some Like it Hot, 1959; Paramount), in cui. in una variante cross-dressing che si rifaceva ancora una volta ad antiche convenzioni teatrali, due musicisti. Joe (Tony Curtis) e Jerry (Jack Ixmmon), costretti a fuggire da Chicago perché avevano assistito invo­ lontariamente alla strage di San Valentino, trovavano ingaggio in una

jazz band femminile diretta in Florida trasformandosi rispettivamente

in Josephine e Daphne, polpacci ipertrofici ed equilibri resi precari dai tacchi a spillo. Se il travestimento di Joee Jerry giocava sulla dialettica tra effettiva impossibilità (a rivelarsi) e pressante desiderio (nei con­ fronti di Sugar Kane Kowalczyk - Marilyn Monroe), in Irma la dolce il travestimento di Nestor Patou in lx>rd X provocava un autentico corto­ circuito, a causa del quale lo stesso Patou non era più in grado di com­

prendere il proprio trucco, lamentandosi con il saggio Moustache dap­

prima del rapporto intercorso tra il nobiluomo inglesee l’amala prosli-

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luta Irma e successivamente, quando il barista gli faceva notare l’inesi­ stenza dell’ipotetico rivale, della falsità del Lord, che fìngeva di essere ciò che non è. 11 tema de) travestimento era poi suscettibile di trasfigurare, soprat­ tutto nelle pellicole drammatiche, nell’allegoria della pura apparenza, della sembianza che celava la realtà effettiva per offrirne un’altra fìttizia, perfettamente plasmabile secondo opportuna convenienza. Il topos della commedia lasciava il campo all’analisi behavioristica, all’assun­ zione impietosa di una realtà ipocrita, che alle situazioni comiche sosti­ tuiva la rappresentazione immorale dei bassi appetiti umani. Ne Lasso nella manica, ad esempio, la bionda moglie di I-eo Minosa, Ixxraine

(Jan Sterling), tutt’altro che inconsolabile, era dapprima schiaffeggiata

dal reporter Tatum, che le consigliava di tornare dietro il bancone de) ristorante di famiglia senza asciugarsi le lacrime per rendere tutta l’ar­ chitettura della storia più credibile, poi si opponeva alla richiesta dello stesso Tatum di partecipare alla celebrazione della preghiera in suffra­ gio de) marito rispondendo freddamente: «lo non vado in chiesa: m’in­ ginocchio e mi si rompono le calzi». Un’apparenza che in Wilder era sempre fonte di rivelazione, non solo della sordidezza umana, ma an­

che, su un piano strutturale, come epifania della colpa, in qualità di colpo di scena pronto a sovvertire le dinamiche del racconto mostrate Tino a quel momento sul lo schermo. In&a/a# 17 (id.. 1953; Paramount) la pedina degli scacchi trovata nelle tasche del sergente Price (Peter Graves) diventava la prova tangibile del suo legame con i nazisti del

campo e il definitivo dissiparsi dei dubbi aleggianti (da parte dei perso­ naggi e del pubblico) su) parigrado Sefton (William Holden). In Testi­ mone d accusa, nel quale doppiezza e travestimento formavano un con­ nubio impossibile da determinare, la rivelazione finale di Christine

Helm (Marlene Dietrich), circa la sua falsa deposizione durante il pro­ cesso per giungere in maniera contorta all’assoluzione del marito lionard, realmente colpevole, era resa inutile dall’immediatamentesuccessiva scoperta della relazione dello stesso lionard con un’altra ragazza, presente tra il pubblico al processo, con la quale l’uomo intendeva fug­ gire. li doppia rivelazione, tuttavia, non era soltanto attuazione pratica

di un doppio finale a sorpresa capace di assecondare le logiche di gene­

re. ma soprattutto l’esecuzione di una giustizia che riequilibrava se stes-

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sa tramile il paradosso della condanna a morte del colpevole per gelosia e non per il vero crimine commesso. Fedele al quadretto che campeggiava nel suo studio professionale.

«Ilow Would Lubitsch do it?». Wilder, come il suo nume ispiratore (per il quale scrisse due sceneggiature alla fine degli anni Trenta. L'ot­ tava moglie di Barbablù e Ninotchka), era convinto che tra i tanti modi

possibili di collocare la macchina da presa ce ne fosse soltanto uno ve­

ramente opportuno. Forte di questa convinzione, il suo stile fu sempre particolarmente austero, attento a catturare i più minuti dettagli con in­ quadrature che. da sole, ritagliavano un intero universo attraverso l’espressività di personaggi calati in specifici ambienti, altrettanto ca­ ratterizzanti. IxHitano da qualunque artificio stilistico o esibizionismo fine a se stesso. Wilder, tranne che per gli ovvi raccordi di campo e controcampo, soprattutto nelle scene di dialogo, ricorreva poco anche

al montaggio come eventualità dilalatoria della sequenza: la sua scelta era di concentrare la drammaticità dell’azione in una delimitata pro­ spettiva che sprigionasse tutta la sua forza espressiva ricorrendo a uno sguardo profondo e onnicomprensivo. Molteplici gli esempi possibili, ognuno dei quali meriterebbe di figurare in un’ideale antologia della

sobrietà della messa in scena, pur nella sua complessità semantica. In Viale del tramonto. Wilder uni nella profondità della stessa inquadratu­ ra il corpo di Norma Desmond privo del capo (relegato fuoricampo), con i polsi fasciati dopo il tentativo di suicidio rilasciati sulla coperta del suo letto, e Joe Gillis, appena tornato nella funebre dimora dopo un tentativo di fuga seguilo alla scoperta di essere l’unico invitato della festa di Capodanno. L’unione tra lo sguardo preoccupato di Joe. con indosso il cappotto di cammello regalatole dalla donna, e i polsi di Nor­

ma in prossimità dell’obiettivo della macchina da presa forniva un dia­

lettico asse visivo che coniugava la disperazione e il senso di colpa, il ricatto emotivo (attraverso il tentato suicidio) e la dipendenza (con il cappotto a fare da simbolo del parassitismo di Joe). il ripudio della pro­ pria individualità (la testa fuoricampo) in funzione dell’ossessivo amo­ re per l’altro, e la cui suprema sintesi non poteva che essere il mesto ritomo a casa di Joe.

In >4 qualcuno piace caldo, invece, la giusta collocazione della mac­ china da presa era finalizzata alle cadenze comiche di improvvisa sco-

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perla per il pubblico: Joe usciva completamente vestito dalla vasca da bagno in cui Jerry e Sugarlo avevano inaspettatamente trovato dando le spalle all’obiettivo. Mentre dalla sua sagoma colava acqua e schiuma, Jerry, in Piano Americano sulla soglia della porta della toilette, si mo­ strava buffamente allibito nello scoprire in che modo l’amico lo avesse

ingannato, giungendo in tempo ed evitando di far scoprire il suo trave­ stimento da ricco milionario. In Arianna, con tocco, per l’appunto, molto lubitschiano. Wilder riu­ scì a riassumere la crescente crisi di gelosia del maturo playboy Frank Hannagan (Gary Cooper), preda di un insinuante dubbio circa le mil­ lantate avventure sentimentali della sfuggente fanciulla del titolo (Au­ drey Hepburn) elencale in un registratore portatile, concentrando l’in­

quadratura sull’inquietudine di Hannagan e sull’andirivieni di un car­ rello dei liquori che l’uomo inviava attraverso la sua lussuosa suite

all’orchestra zigana che ne accompagnava musicalmente i suoi stati d’animo. Il progressivo inlrappolamento nelle spirali della sofferenza era tradotto dall’ossessivo elenco dei vari amanti avuti dalla ragazza e

dall’incessante movimento del carrello, rimpallato alternativamente tra l’uomo e l’orchestra, sempre più vuoto di bevande alcoliche a ogni pas­

saggio, immagine di un tumulto di sentimenti che conosceva una pausa soltanto con l’intorpidimento causato dall’imminente sbronza. L’importanza del singolo piano faceva risaltare anche il ricorso ai pochi inserti, sempre essenziali, che Wilder inseriva nella tessitura del­ la scena. L’inserto, spesso insoggeltiva, ma con una frequenza inversa­ mente proporzionale rispetto alla centralità dello sguardo in Hitchcock, funzionava come una messa in rilievo, una sorta lente di ingrandimento, talvolta con intenti di preparazione comica (Linus luinabeeche inSabrina osservava i due flute nella tasca posteriore de) fratello David,

preparando lo spettatore alla successiva gag dei bicchieri che si infran­ gevano mentre David si sedeva in poltrona), nella maggior parie dei casi come fondamento di un’importante scoperta volta a segnare il rac­

conto (per fare alcuni esempi, in Stalag 17, Sefton scorgeva il segno convenzionale del cavo annodalo e scopriva il tradimento di Price, mentre, ne L appartamento.C. C. Baxter notava lo specchietto rotto di Fran Kubelik e capiva che la ragazza era l’amante di Sheldrake, cosi

come era sempre osservando la sua trousse da cipria che in A qualcuno

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Storia e storie del cinema americano

piace caldo Jeny/Daphne si accorgeva dell’arrivo in Florida dei gan­

gster intenzionati a uccidere lui e Joe). Molti di questi inserti rivelatori erano proposti attraverso l’immagine riflessa di uno specchio: un anti­ doto alla doppiezza dei comportamenti, un rimedio contro l’esaspera­ zione dell’apparenza, oppure, più semplicemente, la chiave beffarda

che Wilder offriva al pubblico per leggere correttamente il cinismo del­ le sue storie.

PARTE 4

Come un’araba fenice

CAPITOLO 14

Gli anni dell’apparente rinnovamento

14.1

«Around the Hollywood Renaissance»

Una moltitudine effervescente di persone si affretta rumorosa verso un imponente arco di trionfo. Gli sguardi del dittatore, del generale e di lutti i senatori sono puntati nello stesso punto, lui moltitudine si apre

velocemente ai lati dell'ateo per permettere l'ingresso di tre file di ca­ valieri che. una dietro l'altra, soffiano a pieni polmoni sulle loro chiari­ ne annunciane un arrivo importante. Tra la meraviglia della gente in attesa, un nugolo di arcieri saetta nel cielo nastri che si disperdono a raggiera, mentre danzatori investi succinte si dispongono in cerchio in un tripudio di colori. Gialli accesi di danzatori tribali, rossi densi di sciamani irsuti, poi una marcia lenta, infinita, cadenzata su ritmi ierati­ ci. Schiavi con ampi ventagli.donne-larfalla mulinanti ricalcate sull'im­ magine della dea Nut si alzano ondeggiando per accompagnare un volo di colombe fuoriuscite dalla riproduzione di una piramide, lui gente è in

visibilio, i soldati romani faticano ad arginarne l'entusiasmo irraziona­ le. Milizie e cavalieri squillano con le loro trombe, un silenzio rispetto­ so subentra alla convulsa eccitazione precedente. Cesare, Antonio, i senatori tutti e le donne di Roma si pongono in paziente e curiosa attesa. Un tono grave s'innesta su una marcia marziale. Cavalieri si fanno lar­ go tra la folla, dietro di loro si scorge una schiera impressionante di schiavi affaticati, tesi nei loro bicipiti sottosforzo, lui gente si accalca sempre più avida della rivelazione, ormai prossima. Ix> spazio della

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rappresentazione si allarga, la piazza è gremita, tutti sono in attesa, mentre in lontananza il movimento ondulato degli schiavi trascina una sfinge imponente sulla cui sommità brilla un costume dai riflessi d’oro. È la regina. È lei che tutti stanno attendendo con impaziente desiderio.

Osservata di spalle, collocata superbamente sulla sfinge,pare dominare tutta Roma con la sua figura, mentre aitraversa l’arco di trionfo che ne paleserà la magnificenza. L’intera profondità dell’immagine sembra

muoversi insieme al movimento dei nerboruti schiavi, tutto l’ampio fo­ ro romano si esalta all’attraversamento dell’arco. luì regina è ormai giunta, ma se ne apprezza solo la maestosa e lontana aura, scintillante

nel gigantismo del suo ingresso trionfale. Cesare osserva divertito, i consiglieri si alzano, le donne attendono pazienti e composte, quasi ras­ segnate. la rivelazione che le annullerà, Antonio aguzza lo sguardo e un lampo gli illumina gli occhi: è arrivata, è lei con il suo abito pregiato che contoma forme pallide e suadenti, fì Cleopatra. Il suo trionfo è

completo: di fronte all’imponenza del suo arrivo. Cesaree i senatori si

alzano, rispettosi. Si alzano anche le donne, peruna resa della loro feri­ ta femminilità. Schiavi nubiani la sollevano dalla sommità della sfinge e la trasportano in portantina fino al cospetto di Cesare, che con un cenno le porge il suo omaggio, lui regina è di fronte, s’inchina a sua volta, ma il suo è un riconoscimento politico che si trasforma nell’epi­

fania di una grazia inimitabile. lui moltitudine esplode in un urlo di passione belluina e inarrestabile. Quello appena citato, tratto da Cleopatra (id., Joseph L. Mankiewi­

cz, 1963). rappresentò forse il momento più alto toccato dalla spettaco­ larità del cinema hollywoodiano, la sua vetta più kitsch e una delle più ardite manifestazioni del suo potente spiegamento di mezzi. lui 20th Century-Eox. come molte consorelle avevano fatto nel corso degli anni

Cinquanta e all’inizio dei Sessanta, aveva trasferito procedure, attrezzi­ sti e tecnici in Europa per una coproduzione intemazionale di pregio (in questo caso con Gran Bretagna e Svizzera) con la pretesa di radicaliz-

zarsi nel mercato d’oltreoceano a prezzi piùcontenuli. sottraendosi par­ zialmente al controllo diretto delle vincolanti regole sindacali. lui scena descritta divenne emblematica di un cinema ipertrofico, magniloquen­ te. astonishing. perennemente volto alla fascinazione dello sguardo at­ traverso un’ordinata tessitura delle inquadrature (essenzialmente due

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livelli, i piani di reazione degli astanti in attesa, le immagini in contro­ campo di un arrivo procrastinalo per generare morbosa curiosità), la simmetria della composizione, l’armonia della successione, la prolife­

razione di colori caldi e passionali, la dilatazione delle attese, la mani­ festazione Tinaie della diva/regina come apparizione di bellezza e sfar­ zo. Il vertice assoluto, nel bene e nel male, di ciò che assumeva il signi­ ficato della parola Hollywood neH’immaginario collettivo. Ma anche

l’inizio ufficiale di una Tine annunciata da tempo. Malgrado l’investimento ritenuto sicuro, nonostante la firma di un regista capace di percorsi personali (anche se non sempre apprezzati dalla critica) pur essendo conforme al sistema. Cleopatra fu un fiasco. Anzi, tradizionalmente, ilfiasco. Con uno sviluppo degli eventi e un susseguirsi di aneddoti entrati da subito nella leggenda. 1^ riprese furo­ no iniziate nell’autunno de) 1960 con Rouben Mamoulian alla regia.

Peter Finch avrebbe dovuto interpretare Giulio Cesare, nei panni di Marco Antonio era previsto Stephen Boyd. mentre il regista, almeno

inizialmente, pareva fare riferimento a una connotazione maggiormente realistica, intendendo scritturare per la parte della reginad’Egitto Doro­ thy Dandridge, attrice afroamericana, celebre per aver recitato da prota­

gonista in Carmen Jones ( 1954) e Porgy and Bess ( 1959) di Preminger, ma priva di queU’ap/M-a/ di sicura presa per una produzione cosi costo­ sa che avrebbe invece garantito Liz Taylor. Mamoulian. tuttavia, girava alquanto a rilento, perlomeno per ciò che aveva previsto nel piano di lavorazione Walter Wanger. il produttore. Wanger licenziò Mamoulian e chiamò Mankiewicz, che apportò diverse sostanziali modifiche alla sceneggiatura, sostituì Finch con Rex Harrison e Boyd con Richard Burton e iniziò nuovamente a girare. Anche Mankiewicz dovette fare i

conti con l’imprevisto e con il rallentamento del piano di lavoro: una

broncopolmonite colpi LizTaylor e la obbligò a sottoporsi auna trache­ otomia la cui cicatrice fu occultata per il resto delle riprese con grossi monili al collo. l>e riprese, iniziate ai Pinewood Studios di Ixmdra un

anno prima, proseguirono in Italia nel settembre del 1961 a causa del clima autunnale più mite (Cinecittà fu uno dei vari set utilizzati), ma molte delle sfarzose scenografie utilizzate in Inghilterra dovettero esse­ re ripristinate, causando un notevole esborso supplementare. Nel frat­

tempo altri imprevisti.scandali. alcuni manovrati ad arte, e incauti con-

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Storia e storie del cinema americano

flilti ritardarono ulteriormente il completamento della pellicola. Man* kiewicz fu licenziato, ma venne riassunto quando Tu evidente al boss Darryl F. Zanuckche nessun altro si sarebbe assunto l’onere di conti*

nuare un fìlm le cui modifiche alla sceneggiatura lo rendevano un lavo­ ro concepito in modo piuttosto personale. Rex Harrison fece addirittura causa alla 2Oth Century-Fox perché alcuni manifesti pubblicitari del fìlm recavano la foto soltanto di Burton e della Taylor, venendo cosi

meno alla clausola del suo contratto che prevedeva un numero di foto­ grafìe pubblicitarie pari a quello del suocollega. Ix> scandalo, appassio­ nante, fu la travolgente storia d’amore tra Burlone laTaylor, culminato

con il loro matrimonio nel 1964, non appena la diva ebbe divorziato dal crooner lìddie Fisher. Intanto il tempo passava, inesorabile,e il fìlm fu concluso soltanto ne) marzo del 1963, dopo una spesa esorbitante di circa 44 milioni di dollari, dovuti ai rallentamenti, alle scenografìe son­

tuose più volte rifatte, ai cachet dei singoli attori e anche al record dei 65 abiti diversi indossali dalla regina. Il fìlm rientrò appena nelle spese

e lo fece soltanto alcuni anni dopo, e cosi Cleopatra, oltre a far sfiorare

il fallimento alla 20th Century-Fox. divenne V exemplum di un cinema titanico ormai velleitario in un mercato profondamente mutato. 11 canto stridulo di un cigno già malconcio, li quel cigno faceva parte di una famiglia che comprendeva anche gli altri Studios, alle prese con una profonda ristrutturazione per rimanere faticosamente al passo con i tempi. lui MGM. seppur reduce da un triennio di successi nella prima metà degli anni Sessanta, tra cui il kolossal II dottor 'Zivago (Doctor Zhiva­ go. David Ixan. 1965; MGM/Carlo Ponti Production), vide vari avvi­ cendamenti aH’intemo della società che portarono alla sua guida, alla fine degli anni Sessanta, James T. Aubrey jr.. nominato dal nuovo pre­

sidente. Kirk Kerkorian. un imprenditore del ramo alberghiero con in­ teressi a luis Vegas. Aubrey vendette gran parte del patrimonio delia MGM. pellicole, scenografìe sontuose che ne avevano testimoniato la fama durante gli anni d’orodi I lollywood, i teatri di posa in Gran Bre­ tagna e le sale in molle altre parti del mondo, dedicandosi, all’inizio degli anni Settanta, ad alcune produzioni a basso budget. Una politica

che pagò per un breve periodo, giacché i profitti continuarono a calare senza fermarsi.

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1 a Paramount, che era stata acquistata da un potente gruppo finan­ ziario. la Gulfr Western, il cui socio di maggioranza, l’austriaco Char­ les Bluhdom. assunse la presidenza, fu fiaccata all’inizio degli anni Settanta da una serie di insuccessi dovuti a pellicoleinconsistenti come La ballata della città senza nome {Paint Your Wagon, Joshua lujgan.

1969) e Operazione Crèpes Suzette {Darling Lili, Blake lidwards. 1970). per riprendersi e ricollocarsi nuovamente in posizione di premi­ nenza sul mercato soltanto nel 1972. con il grande successo arriso a // padrino {The Godfather, Francis Ford Coppola. 1972; Paramounl/AIfan Productions). Anche la Warner Bros, aveva attraversato nel corso degli anni Ses­ santa alterne fortune, centrando qualche successo, soprattutto acqui­

standolo da produttori indipendenti, ad esempio La grande corsa {The Great Race, Black lidwards. 1965; Warner BrosJPatricia/Jalem Pro­

ductions), ma sfiorando la crisi più volte e tenendosi oltre la linea di galleggiamento soltanto grazie alla consociata canadese Seven Arts Productions che distribuiva le pellicole Warner alle stazioni televisive,

fino a quando, nel 1966. Jack Warner, l’unico dei fondatori originari a non aver venduto la sua quota, cedette il controllo della compagnia ai

canadesi. Più rosea era la situazione della United Artists, ormai completamen­ te differente nella composizione rispetto alla sua fondazione, poiché due avvocati di New York, Artur Krim e Robert Benjamin, avevano sollevato già nel 1951 Chaplin e la Pickford dall’onere dei debiti che

avevano contratto, rilevando la società e inanellando una serie di suc­ cessi con produttori indipendenti e registi bisognosi di sottrarsi alle fer­ ree regole delle altre Majors. lui lungimiranza fu poi quella di distribu­ ire nel corso degli anni Sessanta la saga britannica di James Bond fin dal primo episodio. Agente 007, licenza di uccidere {Dr. No, Terence Young. 1962). diritto che garanti un decennio economicamente florido. lui Universal, che alla fine degli anni Cinquanta aveva conosciuto il suo momento di grande difficoltà finanziaria, si riprese nel corso del decennio successivo grazie alla produzione di serie televisive (ad esem­ pio Alfred llitchcockpresents), al noleggio dell’intero catalogo e ai tour

guidali dello Studio, che potevano vantare costruzioni dalla catturante riconoscibilità (come il motel e l’abitazione di Norman Bates in Psyco).

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Storia e storie del cinema americano

lui Columbia, dopo la morte di Jack e Harry Cohn (rispettivamente nel 1956 e nel 1958) e la sostituzione con Abe Schneider e Leo Jaffe, aveva continuato la politica intrapresa all’iniziodegli anni Cinquanta di

Tornire un canale distributivo a pacchetti produttivi di autori indipen­ denti, e in questo modo era riuscita a fiutare alcuni grandi successi co­ me iMwrence d'Arabia (Lawrence ofArabia, David I-ean, 1962; Co­ lumbia/! lorizon Pictures), Indovina chi viene a cena (Guess Who’s Coming to Dinner, Stanley Kramer, 1967) che garantirono un certo

conforto al proprio bilancio. Una crisi che sembrava generalizzata, un cinema che pareva non ri­

spondere più alle esigenze di una società mutata nei suoi elementi più giovani e aitivi, i quali rappresentavano un'enorme fetta del mercato cinematografico. lui fine di Hollywood? Molto si favoleggiò su questo aspetto, non solo nell'elementare mitologia di un cinema americano risorto dalle proprie ceneri come un’araba fenice grazie a un manipolo di giovani

registi in grado di rinnovare strutture produttive, stile e contenuti, ma anche in sede critica, attraverso studi che magnificarono l’aspetto autoriale a scapito di quello finanziario, l’indipendenza di una visione nuo­

va rispetto a una concezione ormai sorpassata dai tempi. lui verità, co­ me sempre, stava all’incirca nel mezzo. Perché se da un lato era innega­

bile che Hollywood ricevette una ventata di autentica freschezza da parte dei suoi nomi nuovi, era altrettanto vero che l’industria degli Stu­ dios ebbe la capacità di osservare attentamente gli sviluppi della situa­ zione, riuscendo a coniugare le recenti esigenze del pubblico con una riorganizzazione delle proprie strutture inteme volte a sfruttare le ne­ cessità del mercato. Hollywood riuscì a comprendere - seppur non re­

pentinamente - che era diventato troppo rischioso finanziare prodotti ad alto budget durante una congiuntura liquida e ancora indefinibile nei suoi parametri essenziali come quella che stava vivendo la società ame­ ricana nella seconda metà degli anni Sessanta. In un mercato ancora dai connotali incerti.pellicole come !lfavoloso dottor Dolittle (Doctor Do­ nale, Richard Fleischer. 1967; Apjac Productions/20thCentury-Fox)o Hello, Dolly! (id.. Gene Kelly. 1969; Chenault Productions/20thCentu-

ry-Fox), entrambi fiaschi clamorosi, rappresentavano prodotti macchi­

nosi. disarticolati dalla realtà più stringente, spensierati rispetto alla

Gli anni dell 'apparente rinnovamento

321

connotazione di pubblico che si stava formando, lui conseguenza più immediata fu il taglio delle spese, con l'intenzione di limitare al massi­ mo il rischio d'impresa orientandosi nella distribuzione dei lavori indi­

pendenti oppure promuovendo opere a budget limitato, agili nello stile, giovani nei temi trattati, allegorici di una realtà contemporanea proble­ matica. lui Hollywood Renaissance. cosi come fu chiamato, non senza enfasi, il periodo a cavallo tra gli anni Sessanta e i Settanta, nacque da questa congiuntura favorevole: una nuova generazione di registi, una società americana che s'interrogava sugli evidenti problemi di cui era direttamente testimone, un pubblico giovane che diventò riferimento

privilegiato delle indagini di mercato, un profondo quanto necessario ripensamento dei piani produttivi da parte degli Studios. I quali, sia chiaro, non abdicarono, ma, con un repentino salto all'indietro, ristrut­ turarono concezioni ormai superate dai tempi e sfruttarono.con l'ambi­

guità di chi ha come unico obiettivo il profitto, la creatività delle nuove leve di autori e il mutamento dei temi trattati. È da riconsiderare stori­ camente e da collocare nella giusta prospettiva anche l'esaltazione in­

condizionata dell'indipendenza produttiva che contribuì a rendere leg­ gendaria la cosiddetta New Hollywood. Indubitabilmenle.alcuni registi

puntarono a produrredirettamente i loro lavori permantenere il control­ lo delle loro realizzazioni, ma questa tendenza presentava anche un aspetto molto più prosaico relativo a una mera questione fiscale, poiché l'imponibile da tassare di una modesta compagnia di produzione era comunque più basso rispetto ai salari ricavali da un regolare compenso degli Studios. Nel 1970, la percentuale degli indipendenti rispetto al totale dei film prodotti superava il 43%. ma gli Studios controllavano più o meno direttamente la maggior parte di queste pellicole tramite il

meccanismo, vitale, della distribuzione. Senza la quale.il film assume­

va una valenza ectoplasmatica. Alcune società nacquero dal nulla per cavalcare l'ondata di film rea­ lizzata da cineasti giovani per un pubblico giovane e si disposero nei confronti degli Studios in relazione complementare piuttosto che alter­ nativa. lui BBS Productions, forse la compagnia indipendente più im­ portante per i destini del nuovo cinema americano anni Settanta, era

stata fondata da Bert Schneider (figlio di Abe della Columbia) e Bob Rafelson. a cui si aggiunse presto Steve Blauner(la S di un acronimo

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Storia e storie del cinema americano

societario basalo sui nomi dei soci), ta BBS. perlomeno nelle intenzio­ ni programmatiche, puntava a lasciare libertà completa su ogni aspetto della realizzazione ai registi di talento che metteva sotto contratto, ta

compagnia, nella sua versione precedente, chiamata Raybert Produc­ tions. era balzata agli onori delle cronache per il successo inatteso di Easy Rider (id.. Dennis Hopper. 1969; Raybert Productions/Pando Company/Columbia) che fruttò ben sessanta milioni a fronte di una spesa di 340.000 dollari, affermazione di cui beneficiò anche la Colum­ bia. distributrice del film dopo il rifiuto della American International Pictures di Samuel Arkoff*e James Nicholson, altra casa indipendente

dedita alla distribuzione di film very low budget fin dalla seconda metà degli anni Cinquanta, ta fama di Easy Rider diede una solida reputazio­ ne alla compagnia e le permise di dedicarsi ad altri progetti che fecero la Storia della Renaissance hollywoodiana come Cinque pezzifacili (Fi­ ve Easy Pieces, BobRafelson. 1970; BBS/Raybert Produclions/Colum-

bia) e L'ultimo spettacolo (The Last Picture Show, Peter Bogdanovich. 1971; BBS/Columbia). Altre produzioni, tuttavia, non furono successi sensazionali come Yellow 33 (Drive. Ile Said, Jack Nicholson. 1971; BBS/Drive Productions). // re dei giardini di Marvin (The King ofMar­ vin Gardens, Bob Rafelson. 1972; BBS) e ciò accelerò la fine dei rap­

porti con la Columbia. ta Warner Bros, spinse Francis Ford Coppola a fondare uno studio indipendente. (’American Zoelrope. finanziandone l’attività con 100.000 dollari per ottenere il diritto di distribuzione di ogni singolo film in esso prodotto. Ma la Warner si ritirò dopo poco tempo dal pro­ getto. in seguito alla realizzazione del primo film della casa. L'uomo che fuggi dal futuro (THX1138, George Lucas. 1971; American Zoe-

trope/Wamer Bros.), temendo che la tendenza di Coppola e delle sua accolita potesse proseguire con film altrettanto poco commerciali. Un altro tentativo fu quello della Directors Company, fondata da Coppola. Peter Bogdanovich e William Friedkin. dopo i rispettivi suc­

cessi de // padrino (Coppola). L'ultimo spettacolo (Bogdanovich) e L'esorcista (TheExorcist, Friedkin. 1973; Warner BrosJIloya Produc­ tions). società che fin dal nome alludeva a una centralità del regista come unico responsabile della sua produzione, ta Paramount finanziò il progetto con la ragguardevole cifra di oltre 30 milioni di dollari ac­

Gli anni dell 'apparente rinnovamento

323

cordandosi affinché ognuno dei tre registi realizzasse almeno tre film nell’arco di sei anni e che partecipasse come executive producer in una pellicola diretta dagli altri due. Ma tra i film prodotti dalla neonata so­

cietà, solo Paper Moon - Luna di carta {Paper Moon, Peter Bogdano­

vich, 1973; Directors Compony/Sacoy Productions/Paramount) fu un successo apprezzabile, mentre il sostanziale insuccesso de La conversa­ zione (The Conversation, ¥t2ncis Ford Coppola, 1974; Directors Company/Coppola Company/Paramount) fece ritirare la Paramount dall’ac­ cordo soltanto un anno dopo. Risultò chiaro da tutte queste esperienze che le speranze di sopravvivenza delle compagnie indipendenti erano

determinate in maniera quasi esclusiva dal successo delle prime produ­ zioni; gli indipendenti non avevano la possibilità di diversi ficare la pro­ duzione, nédi ammortizzare gli insuccessi come gli Studios, ragion per cui da ogni singola produzione dipendeva la prospettiva di un futuro possibile, lira altresì chiaro, ma appare quasi ovvio rilevarlo, che gli Studios, dal canto loro, non erano dediti al mecenatismo.

In nome del profitto, Hollywood per uscire dalla crisi operò in una duplice maniera. Da un lato, almeno in un primo momento, assecondò la libertà realizzaliva dei giovani autori considerati più promettenti;

dall’altro accettò, e in alcuni casi favori, l’adozione di temi e contenuti critici relativi alla situazione sociale americana, cercando di andare in­ contro alle esigenze della maggioranza del pubblico, soprattutto nelle grandi città, rappresentato da giovani, mediamente colti, spesso univer­ sitari, che nel cinema auspicavano la possibilità di vedere rispecchiata realisticamente la drammaticità che almeno dal giorno dell’omicidio di Kennedy appariva ormai evidente a molti cittadini. Dal 22 novembre 1963 fino all’inizio degli anni Settanta, fu il susseguirsi di eventi tragici e sconvolgenti in un lasso relativamente esiguo di tempo a colpire pro­

fondamente i valori e la presunta innocenza degli americani. Ovvia­ mente, eccettuato l’omicidio di Dallas, non tutti leggevano l’avvicen­ darsi dei vari eventi drammatici allo stesso modo, ma era innegabile che una forte corrente di pensiero attraversava gli Stati Uniti e aveva contri­ buito a mutare la concezione che la società americana aveva di se stes­ sa, delle sue regole, della sua libertà e del suo modo di vivere. Ciò non

significa che, automaticamente, il cinema si ponesse come specchio fe­ dele degli avvenimenti contemporanei, quanto piuttosto che Hollywood

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Storia e storie del cinema americano

non poteva essere indifferente a ciò che muoveva attivamente la cultura americana. Capì quindi che sarebbe stato veramente redditizio sfruttar­ la sullo schermo. Non era certo possibile fingere che lutto funzionasse. Nel 1962 l’in­ dagine dell’attivista politico Michael Harrington, The Other America, aveva scosso l’opinione pubblica più sensibile rivelando che circa 50 milioni di cittadini degli Stati Uniti versavano in un regime di assoluta

povertà all’intemo di un sistema economico che si premurava di cancel­ larne le tracce per non turbare l’immagine di prosperità chesi era arti­ ficiosamente creata. L’anno dopo, com’è noto, l’assassinio di John Fit­ zgerald Kennedy eie varie, sotterranee, ipotesi di complotto che porta­ rono prima all’ancsto del presunto assassino l>ee Oswald e poi alla

giustizia sommaria perpetrata da Jack Ruby, ancor prima che Oswald potesse essere interrogalo. Malcolm X fu ucciso da un suprematista

bianco dueanni dopo, nel 1965, e fu arrestata nel sangue anche la pre­ dicazione politica di Martin Luther King nel 1968, segni ancor più evi­

denti di un problema razziale già più volte violentemente manifestatosi e che solo nel 1964 aveva visto una soluzione politica (ma non ancora sociale) con la Civil Rights Act che proibiva la discriminazione in tutti i luoghi pubblici, ben novantanove anni dopo l’abolizione della schia­ vitù con il XIII emendamento della Costituzione, seguito alla vittoria

delle forze unioniste nella guerra Civile. Intanto, un altro Kennedy, il fratello Robert, fu uocisoa I.os Angeles, questa volta da un assassino giordano che voleva fargli pagare la pro­

messa di appoggi militari a Israele durante la campagna elettorale. Il paese era preda di scontri sempre più violenti, rivolte nelle strade, di­ sordini a Chicago seguili all’assassinio di Martin Luther King, la dura repressione della Guardia nazionale che uccise quattro manifestanti alla

Kent State University in Ohio, colpevoli di protestare contro l’invasio­ ne della Cambogia da parte dell’esercito americano, lì poi Nixon e la deriva destrorsa del paese. Ix> scandalo del Watergate e le dimissioni del Presidente,messo alle strette solodue anni dopo, la crisi petrolifera, con il suo. Tino a poco prima, impensabile ridimensionamento dell’eco­ nomia americana sul piano intemazionale, lì, infine, il Vietnam ad am­

mantare iltulto con il suo carico ideologicamente controverso, la tragi­ cità delle operazioni (adesempio il massacro di My luii. nel quale mori

Gli anni dell 'apparente rinnovamento

325

un numero oscillante tra i trecento e i cinquecento civili) e le conse­ guenze umane e psicologiche sui reduci inviati a combattere quella che progressivamente assumeva sempre più i connotali di una guerra inutile

e ingiusta. That

hyu America.

li perla prima volta dai tempi del mac­

cartismo e dell’inchiesta di J. Pamell Thomas. Hollywood comprese che sarebbe stato sicuramente più remunerativo, visto il nuovo pubbli­ co. raccontare la situazione piuttosto che ignorarla.

14.2

Nomi nuovi, nuovi orizzonti

l giovani volti della New Hollywood avrebbero inaugurato una carriera

che nei molti casi fortunali sarebbe giunta Tino ai giorni nostri. lissen-

zial mente, tre furono i modi attraverso cui queste nuove leve riuscirono a entrare nell’universo cinematografico mainstream. Il primoera la for­ mazione all’intemo della scuderia di Roger Corman. Corman, che se­

condo molli, con il suo esempio, fu il reale artefice della Renaissance, con la casa di produzione American International Pictures cominciò a concepire fin dalla seconda metà degli anni Cinquanta un cinema a bas­ sissimo costo, girato in pochissimi giorni spesso limitandosi a uno o due

ciak per scena, utilizzando attori ancora sconosciuti o vecchie star del cinema di genere in disarmo, riadattando scenografie già usate o costu­ mi già visti, in modo da risparmiare su qualunque aspetto della produ­

zione. Corman, inoltre, insieme ai suoi sodali, i già citati ArkofTe James Nicholson, executives della compagnia, inaugurò il filone dello Youth Morie, pellicoledi argomento giovanilistico indirizzateai giovani, spes­ so destinate al completamento del doppio programma delle sale oppure agli schermi dei drive in. Tali lavori erano organizzati intorno ad alcuni

parametri imprescindibili, quali l’azione, argomenti controversie di in­ teresse generale, un moderato contenuto di violenza, dialoghi schietti e

ritmali e, in alcuni casi, allusioni erotiche, una lezione che, opportuna­ mente rivista e corretta, sarebbe stata applicata da molti epigoni a parti­ re dalla fine degli anni Sessanta. In particolare, /selvaggi (The Wild Angels, Roger Corman, I960; AIP) e // serpente di Juoco (The Trip,

Roger Corman, 1967; AIP) rappresentarono un riferimento importante

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Storia e storie dei cinema americano

per la narrazione dei nuovi fermenti giovanili e ispirarono un'autentica estetica lisergica più volte saccheggiata negli anni successivi. lui lezione di Corman risultò fondamentale anche per quanto riguar­ da lo sguardo sui generi classici del cinema americano. Pur essendosi

cimentato con il western, il gangster movie e, in seguito, con il cinema di guerra, filoni in cui. ovviamente, l'azione era peculiarità preminente. Corman diede una lezione di economia narrativa con l’horror, adattan­

do molto liberamente sullo schermo una serie di pellicole tratte da ro­ manzi e racconti di lidgar Allan Poe. / vivi e i morti {House of Usher. Roger Corman, 1960; AltaVista Productions). Il pozzo e il pendolo (Pit and the Pendulum, Roger Corman. 1961; Alta Vista Productions). 5c-

polto vivo (Premature Burial, Roger Corman, 1962; AlP/Santa Clara

Productions), Im maschera della morte rossa (The Masque ofthe Red Death, Roger Corman, 1964; Alta Vista Productions) e Im tomba di Ligeia (The Tomb of Ligeia, Roger Corman. 1964; Alta Vista Produc­

tions) dimostrarono inequivocabilmente la grande capacità de) regista/

produttore di owiarealla scarsità di finanziamenti orchestrando contra­

state atmosfere gotiche e sfruttando il suo mestiere di abile narratore, grazie al dosaggio sapiente della tensione esaltata dal montaggio e

dall’uso dinamico del fuoricampo. Corman. neH’ambitodella produzio­ ne low budget,en. indubbiamente un maestro e lavorare alle sue dipen­ denze permetteva di osservare direttamente una purezza della messa in scena che sottometteva alle sue esigenze le limitazioni di tempo e dena­ ro. Monte Hellman. Francis Ford Coppola. Peter Bogdanovich, Martin Scorsese, Jack Nicholson, Peter Fonda e Dennis Hopper furono tra co­ loro che si formarono nella sua factory ', non tutti seguirono fedelmente le sobrie orme del modello di riferimento, ma tutti fecero tesoro del

loro apprendistato nelle pratiche della rappresentazione. Alcuni di essi si fecero le ossa come direttori della seconda unità (Dennis Hopper per Il serpente di fuoco), altri interpretarono parti nei suoi film (Jack Ni­ cholson, Peter Fonda ne / selvaggi, lo stesso Hopper), altri ancora lo

videro produrre i loro primi lavori (Monte Hellman per Beast Prom Haunted Cave, 1959, e poi anche per il dittico western Le colline blu, 1965, e La sparatoria, 1966; Martin Scorsese per America 1929: ster­ minateli senza pietà, 1972). Ci fu anche chi si fece le ossa girando le

sequenze per il mercato americano di improbabili film di fantascienza

Gli anni dell 'apparente rinnovamento

327

russi (Francis Ford Coppola per Battle Beyond the Sun, della coppia Mikhail Karzhukov. Aleksandr Kozyr. 1959) o chi si pose all’attenzio­ ne della critica sfruttando i giorni di contratto che vecchi attori quasi

dimenticati dovevano allo stesso Corman per precedenti film terminati a tempi di record (Peter Bogdanovich per Bersagli, utilizzando un an­ ziano Boris Karloff)lui seconda ipotesi era quella della formazione universitaria. Per la prima volta un regista hollywoodiano non proveniva direttamente dalla lunga esperienza sul campo della produzione, non giungeva alla regia attraverso la gavetta, ma dagli studi sulla storia del cinema, sulle sue

correnti, sugli autori europei cosi distanti per temi e sensibilità da mol­ lo cinema americano prodotto dagli Studios. Dalla didattica della mes­ sa in scena provenivano John Milius, che aveva studiato nell'Universilà della California meridionale, lo stesso Francis Ford Coppola (alla

UCl-A). che in questo modo arricchiva ulteriormente i suoi approcci formativi. Martin Scorsese e Brian De Palma, frequentanti la New

York University sulla costa opposta. Scorsese, addirittura, sotto la gui­ da del suo insegnante llaig Manoogian. girò nel 1965. con il titolo di Bring on the Dancing Girls, l’abbozzo di quello che sarebbe diventato

il SUO primo lungometraggio. Chi sta bussando alla mia porta? (/ Cali First, Martin Scorsese. 1967; Trimod Films). De Palma, grazie al suo primo cortometraggio. Wotan’s Wake (1962), curioso lavoro debitore di influenze espressioniste. storia di uno scultore che s’innamora inopi­ natamente di una sua statua, ottenne una borsa di studio che gli permise

di frequentare il college Sarah luiwrence, in cui. sotto la guida del suo insegnante Wilford Leach, realizzò il suo primo lungo, il bizzarro The Wedding Party (Brian De Palma. Wilford Ixach, Cynthia Munroe. 1963-66; Powell Produclions/Ondine Presentations), campionario di tecniche sperimentali e dimostrazione, seppur acerba, di un protagoni­ smo della macchina da presa che nel corso della carriera diventerà ca­ ratteristica dello stile del regista. 11 Neorealismo italiano, lui Nouvelle vague francese, il Free Cinema inglese, l’espressionismo tedesco, il montaggio alternato di Griffith e la profondità di campo di Welles (o della Warner Bros.) da oggetti di studio si trasformarono in fonti di ispirazione dirette per i giovani registi in erba che erano anche, e so­ prattutto, appassionati cinefili.

328

Storia e storie del cinema americano

lui terza possibilità di accedere alla regia era l’esperienza professio­ nale maturata nella realizzazione dei serials televisivi. 11 Tv Morie e il pilot per le serie televisive garantivano la giusta pratica con il sistema

dei generi cinematografici (molti i telefilm d’azione e i polizieschi, ol­ tre ai sempiterni western), il contenimento dei costi, la direzione secca e precisa degli attori e la sintassi della ripresa filmica. All’interno di uno schema fisso, basato su rigide sceneggiature, i giovani registi pote­ vano in questo modo addestrarsi, fare il necessario tirocinio.mostrare le loro potenzialità. Tra i giovani registi hollywoodiani. Steven Spielberg fu tra i più aitivi nell’apprendistato televisivo. Difesa a oltranza (Owen Marshall: Counselor at Law), Marcus Welby, Reporter alla ribalta

(The Name ofthe Game), Colombo (Columbo) furono alcune delle serie

a cui Spielberg collaborù girando interi episodi. Anche il suo film d’esordio. Duc/(id.. Steven Spielberg. 1972; Universal Tv)era una pro­ duzione televisiva integrata con altre sequenze realizzate successiva­ mente per garantire la distribuzione in sala. Che si trattasse di educazione al low budget,degli studi accademici o della pratica televisiva, era evidente che questi nuovi autori rivolgesse­ ro il loro interesse artistico ai problemi dell’America contemporanea, indagati attraverso uno sguardo che pur nella sua varietà di approcci assumeva una valenza diretta, a volte cruda, spesso realistica, non edul­

corata attraverso i filtri rappresentativi e contenutistici cui aveva abi­ tuato il periodo classico, lui rivalutazione dei costi e la tendenza a ricor­ rere a un’estetica in cui fosse evidente l’immediatezza della ripresa portarono spesso a realizzare i lavori negli scenari naturali che il grande continente americanooffrivao nelle metropoli in cui i personaggi smar­ rivano la loro identità lottando per la sopravvivenza, fisica e mentale. Mutarono anche le caratteristiche attraverso cui venivano proposti i

protagonisti delle storie narrate: compatibilmente con lo sguardo critico sulla realtà americana contemporanea, il personaggio divenne lo spec­ chio della crisi dei valori e l’immagine dello slittamento rispetto ai mo­ delli convenzionali cui il cinema classico aveva abituato lo spettatore. Non più eroi, ma losers, perdenti, sconfitti dall’esistenza e dalla società rapace e impietosa. Addio ai personaggi testimoni dell’elica americana falla di eroismo quotidiano, onestà, tenacia e idealismo democratico,

spazio alle figure disilluse, prive di speranza, emarginate talvolta per

Gli anni dell 'apparente rinnovamento

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vocazione altre per preclusione da parte della collettività, lira solo una conseguenza, ma fu giudicata una sorta di rivoluzione copernicana nel­ la struttura narrativa: con una simile caratterizzazione, cominciò a

emergere una sorta di scoramento nelle figure ritratte che si rifranse inevitabilmente in un prosciugamento detrazione canonica, nella nega­ zione del consueto impianto in tre atti fondato su snodi narrativi decisi­ vi per lo sviluppo del racconto. Allo stesso modo, divenne complicato garantire il canonico happy end consolatorio cui il pubblico era avvezzo da sempre. Sempre più spesso i finali si presentarono tragici, ambigui, nella migliore delle ipotesi aperti a interpretazioni, nella maggior parte

dei casi tutt'altro che confortanti, compatibilmente con uno sguardo sulla realtà dichiaratamente critico e spietato.

Hollywood, tuttavia, non rappresentava il nemico contro cui combat­ tere. Le nuove leve di registi non erano degli iconoclasti come gli alfie­

ri della Nouvelle vague francese (Truffaut e Godard su tutti), la loro lotta peremergere non puntava a mietere vittime nella classicità. Anzi. Il periodo d'oro di Hollywood fu sempre il riferimento privilegiato a

cui guardare nell'elaborazione di un cinema che fosse personale ma nel rispetto di una tradizione con regole stilistiche e narrative introiettate nella capacità recettiva del pubblico americano. I sguardo sul passato poteva assumere anche le sembianze della

relazione diretta e ipertestuale, basata su una serie di citazioni, di ri­ mandi. di ammiccamenti, la cui forma più completa e divertita era la parodia. Inutile dire che la parodia non nacque certo con il cinema degli anni Settanta, poiché nel corso della storia de) cinema americano furo­ no cospicue le relazioni con i film o con i filoni dal grande successo di pubblico di cui si intravedevano le possibilità umoristiche (Buster Kea­

ton. laurei & Hardy. Preston Sturges che nel 1948 con Infedelmente tua satireggiò gli eccessi del mèlo). eppure il suo successo, soprattutto per opera di un regista come Mel Brooks, che ne fece il pretesto narra­ tivo fondamentale della sua intera filmografìa, era la dimostrazione che il rapporto con il cinema classico si dimostrava ancora una volta affet­ tuoso e genuino. Brooks, ollretutto. faceva indifferentemente ri ferimen­

to all’opera di singoli registi, così come a interi generi oppure, addirit­ tura. al brand di una casa di produzione. Alta tensione (High Anxiety. \V1T, 20th Century-Fox/Crossbow Productions) sfruttava la conoscen­

za dei consolidati meccanismi del thriller à la Hitchcock per ribaltare beffardamente le attese del pubblico; Mezzogiorno e mezzo di fuoco (Blazing Saddles. 1974; Warner BrosJCrossbow Productions) mirava a

tendere allo spasimo le convenzioni del western fino a far entrare in cortocircuito, nella delirante sequenza finale nei teatri di posa devastati

dalla furia belluina dei vaccari del West, lo stesso sistema delle diffe­ renze tra i vari generi hollywoodiani; Frankensteinjr. (YoungFranken­ stein. 1974; Gmskotf/Venture Films/Crossbow Produclions/Jouer Li­ mited). più che richiamare l’ovvia presenza del mostro reso famoso

dalla truce maschera di Boris Karloff, era il brillante tentativo di ridere dell’horror marchiato Universa! e delle sue modalità rappresentative famose durante gli anni Trenta. Allo stesso modo. L ultimafollia di Mei Brooks (Silent Moxie. 1976; Crossbow Productions) otteneva il suo

scopo utilizzando le violente dinamiche delle splastick comedies di Mack Sennett. Rendendo omaggio a un autore canonizzato, a un auten­ tico marchio di fabbrica o ai codici di genere. Brooks poneva il suo ci­

nema come studio storico e filologico della Hollywood classica, dalla

332

Storia e storie del cinema americano

cui conoscenza fedele dipendeva il successo e la comprensione dei suoi stessi prodotti. li osservando attentamente, la sua produzione era l’en­ nesima dimostrazione della ridiscussione in atto all’interno del nuovo cinema hollywoodiano, impegnato a rinnovare se stesso tramite minimi riadattamenti progressivi che lo facessero rinascere dalle proprie ceneri, senza perù allontanarsi troppo da ciò che il cinema americano aveva fissato in precedenza.

CAPITOLO 15

Nuove tendenze

15.1

Spostamenti progressivi nello stile

Poteva un cinema, come quello americano, abituato da oltre cinquanl’anni alla perfetta leggibilità dei suoi contenuti, snaturare comple­ tamente la sua logica espressiva e offrire un prodotto improntato alla sperimentazione linguistica? Poteva venir drasticamente meno ai suoi requisiti fondamentali di continuità narrativa, trasparenza del racconto e invisibilità delle condizioni di realizzazione e proporre un prodotto

opacizzato, teso alla creazione di un linguaggio nuovo, reso originale dalla personalità di un singolo autore? Risposta ovvia, poiché lo scopo era di riconquistare il mercato. Il pubblico era sempre al centro delle scelte, anche se ora il prodotto puntava principalmente a gente giovane,

istruita, vogliosa di addentrarsi nei problemi della società, probabil­ mente anche ricettiva rispetto alle novità e alla sperimentazione. Un

pubblico a cui. tuttavia, era proposta apertamente una più o meno ap­ profondita riflessione sul presente, non un tour deforce interpretativo.

Si assistè, quindi, a un tentativo di rinnovamento stilistico parziale, a piccoli scarti che connotavano una serie di pellicole senza inficiarne le necessarie regole di trasparenza fondamentali per l’accettazione delle storie su vasta scala. Accenni di rotture, non strappi, piccole ribellioni, non ardenti rivoluzioni. Mutamenti identificabili, da testare di volta in volta e da inserire con parsimonia: pur non essendo più popolata dai grandi mogufcdegli Studiosche avevano un’idea piuttosto statica diciò

334

Storia e storie del cinema americano

che fosse possibile proporre in sala, le case di produzione e alcuni dei loro più illuminali rampolli guardavano con prudenza all’innovazione, perché il traguardo da raggiungere era sempre l’incasso e l’attivo di

bilancio. Prova ne sia che uno dei tentativi più estremi, il maledetto Fuga da Hollywood (The ImsiMovie, Dennis Hopper, 1971; Alla-Light), voluta­ mente (ammesso che si possa parlare di autentica volontà nella dipen­ denza da alcool e droghe) sconnesso e sgangherato nel montaggio e nella struttura, fu boicottato dalla distribuzione Universal, che arrivò a pensare come l’unico modo di ricavarne qualcosa fosse sperare nella

morte dell’autore e nell’ondata emotiva che ne sarebbe seguita, e bloc­ cò per dieci anni la carriera di uno dei giovani autori più promettenti della New Hollywood. Ad esempio, la scena classica, il nucleo narrativo su cui il cinema

hollywoodiano costruiva la concatenazione logico-causale delle sue vi­ cende. vide alcune correzioni rispetto all’abituale scansione fondata su

un piano d’insieme che consentisse l’orientamento dello spettatore nello spazio drammatico per poi avviare l’avvicendamento dei piani dedicati ai singoli personaggi e allo svolgimento del l’azione. Queste correzioni,

tuttavia, nei casi piùconsapevoli, non erano dei tentativi di sovversione stilistica fini a se stessi, quanto delle lucide scelte per integrare la forma al significato. Il padrino, ad esempio, pur essendo un progetto struttu­ ralmente molto vicino alla Hollywood classica, iniziava con un Primo Piano avvolto nella semioscurità. Il volto, anonimo, balletto accennato

e pettinatura con il riporto, raccontava con accorato accento italiano l’offesa perpetrata nei confronti della figlia, pestata a sangue per aver tentato di resistere a uno stupro. L’uomo avvolto nella semioscurità vo­

leva giustizia. I-a macchina da presa arretrava fino a mostrare l’interlo­

cutore, don Vito Corleone (Marion Brando) fino a quel momento anco­ ra silenzioso, assorto nell’ascolto. Solo dopo aver inquadrato la nuca dell’interlocutore, iniziava la scansione dei campi e controcampi sui due

personaggi. A questo punto erano mostrati il piano d’insieme sullo stu­ dio in cui stava avvenendo l’accorato appello e tutti gli altri personaggi presenti, il figlio di don Vito, Sonny, e Tom Hagen, avvocato e consi­

gliere. [/establishing shot posto all’inizio della sequenza (e del film)

avrebbe generato un’aura di quotidianità e sottratto gravità e solennità

Nuove tenderne

335

al segmento, gli avrebbe tolto quella patina di mistero (la semioscurità in cui era immerso il volto del supplice Bonasera). la drammaticità di una richiesta che lo avrebbe costretto subito dopo a manifestare la sua sottomissione verso il padrino mafioso, la cui nuca appariva come l’epi­ fania di una soluzione possibile, di un nume pronto a rompere il suo sacro silenzio per elargire la grazia della sua protezione. Si trattava, tuttavia, di scelte funzionali al senso della singola se­

quenza. non di regole disattese. Il piano d’insieme rimaneva fondamen­ tale per ancorare i soggetti e l’azione al contesto e quindi alla storia narrata, sempre ovviamente centrale nell’economia rappresentativa, al

punto che la sua completa assenza, come nella scena del pestaggio in strada tra Sonny (Timothy Bottoms) e Duane (Jeff Bridges) ne L ultimo spettacolo, fu ascritta più all’inesperienza come montatore di Bogdano­

vich (che ebbe bisogno dell’intervento dell’esperto Donn Cambem. poi

accreditato nei titoli, per assemblare armonicamente l’intero lavoro) che alla precisa scelta stilistica di mostrare i corpi in piano ravvicinato tesi nello sforzo della lotta. Frequente, invece, diventò la pratica di un montaggio che alternava due serie cronologiche differenti, una relativa al presente del racconto, l’altra - che negli esempi ortodossi, da Griffith in avanti, prevedeva accadimenti simultanei in luoghi diversi - destinata a mostrare avveni­

menti passati (o più raramente futuri), legati alla serie principale sulla base di elementi comuni o di rimandi ideali. Una pratica che non nasce­ va dal nulla, ma che aveva il suo padre nobile in Alain Resnais (Hiro­ shima mon amour, 1959. L'anno scorso a Marienbad, 1961). la cui

prerogativa di inglobare il passato nel tessuto del presente era giunta negli Stati Uniti attraverso il filtro del Sidney Lumet de L'uomo del banco dei pegni (The Pawnbroker, Sidney Lumet. 1964; luindau Com­

pany). Il laureato (The Graduate, Mike Nichols. 1967; luiwrence Turman/Embassy Pictures Corporation) aveva fornito un assaggio, raccor­ dando sul movimento i tempi divergenti di un balzo sul materassino

nella piscina e l’approcciarsi sulla matura amante da parte del protago­ nista Benjamin (Dustin Hoffman), unendo insieme la reiterazione vuota di gesti abituali ripetuti meccanicamente. Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, John Schlesinger, 1969; Florin Produclions/Jerome

Hellman Productions), più tradizionalmente, utilizzò il flashback come

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Storia e storie dei cinema americano

pratica per raffrontare la desolazione del presente attraverso i traumi patiti nel passato da Joe Buck (Jon Voight): le rapide immagini del suo battesimo che prendevano le mosse dal fanatico religioso che lo obbli­

gava a inginocchiarsi e pregare, la bottiglia impugnata per infrangerla sulla lesta dell’omosessuale che lo derideva in un bar raccordata con un segmento di Joe bambino intento a spaccare lo specchio della sua stan­ za tra le urla di rimprovero della nonna, non spiegavano la deriva esi­

stenziale dell’uomo, ma riconnettevano tra loro eventi distanti per si­ gnificare la sua sostanziale immobilità evolutiva. In Harold e Maude (Harold and Maude, Hal Ashby, 1972; Mildred l^ewis and Colin Higgins Produclions/Paramount). il montaggio finale metteva in parallelo le inquadrature di Harold (Bud Cort) in ambulanza

con Maude (Ruth Gordon) dopo il tentativo di suicidio di quest’ultima, la sua attesa trepidante nella sala d’attesa dell’ospedale e il momento in cui apprendeva dal medico la notizia della morte dell’anziana donna, con la sua folle corsa con il carro funebre fino alla sommità del dirupo da cui l’auto s’infrangeva sulla battigia. Quello che in virtù della giu­

stapposizione delle due serie di inquadrature poteva sembrare un dop­ pio percorso suicida, si trasformava, proprio nell’ultima inquadratura,

in un inno alla vita: Harold non si era lanciato insieme all’auto, ma os­ servava dall’apice del burrone lo schiantarsi dei suoi propositi suicidi, diradatisi grazie all’esempio e all’amore per Maude. Certamente più estreme furono le scelte adottate da Non si uccidono così anchei cavalli? (They Shoot Horses, Don ’t They?, Sidney Pollack,

1969; American Broadcasting Company. Palomar Pictures) e da Man­ nequin - Frammenti di una donna (Puzzle of a Downfall Child, Jerry Schatzberg. 1970; Universal). Nel primo, si attuava Tin dalla sequenza

iniziale un parallelismo tra la vicenda narrata (una massacrante marato­

na di ballo durante gli anni della Grande Depressione, il cui premio per chi resisteva era di 1.500 dollari) e alcuni rapidi flashback. L’inizio mostrava il protagonista Robert bambino, intento a osservare, ammira­

to, un cavallo in ralenti che discendeva per una vallata. Uno sparo im­ provviso riconnelteva il passato con il presente, e rivelava Robert, or­ mai adulto (Michael Sarazin), fermo su una spiaggia, mentre una voce

fuoricampo illustrava le regole della maratona di ballo che stava per iniziare. Il montaggio incrociato tra passato e presente continuava e si

Nuove tendenze

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divideva Ira il cavallo colpito dal colpo di fucile sentito in precedenza. Robert bambino sconvolto e un vecchio armato (il nonno di Robert), che sparava ancora il colpo di grazia: a quel punto, il suono dello sparo si ricollegava al presente con la caduta de) cartello pubblicitario della gara inavvertitamente toccato da Robert mentre entrava nell’arena in cui si sarebbe tenuta la competizione. Un flashback tutt’altroche chia­ rificatore, se si esula dal riferimento evidente con i cavalli del titolo, ma

che anticipava la fine prevista per la partner di Robert nella maratona di ballo. Gloria (Jane Fonda), la quale, nel tragico finale, sarebbe stata letteralmente abbattuta su sua stessa richiesta da Robert, alla scoperta che il premio previsto era una truffa, costretta a confrontarsi con il suo ennesimo fallimento esistenziale. Solo a quel punto diventava possibile

rendersi conto che gli inserti iniziali come flashback in realtà si erano trasformati lungo lo svolgimento in flashforward: i brevi quadri di Ro­ bert. disperato, con le mani in volto dietro le sbarre di un cellulare della polizia, smarrito durante l’interrogatorio con gli inquirenti, poi all’in­

terno della cella, nel comodi un colloquio con l’avvocato e davanti alla corte, prima della lettura della sentenza, rappresentavano la rottura di un equilibrio espressivo che si sarebbe ricomposto soltanto con lo sparo

che metteva fine alla sofferenza di Gloria e che avrebbe permesso di determinare il quadro globale. In Mannequin^ invece, la rottura della linearità si poneva in funzione della complessa caratterizzazione del personaggio principale. Ixu Sand (Faye Dunaway), una modella con problemi psichici che ricostruiva

confusamente il suo passato per il suo amico fotografo Aaron (Barry Primus), intento a realizzare un film sudi lei. II montaggio in flashback diventava cifra della crisi della donna e non permetteva ancoraggi saldi

rispetto a una presunta verità sul suo racconto. Dapprima si facavea proiezione del desiderio, illustrando all’interno di un’auto la pretesa della donna di farsi precedere da Aaron in un locale in cui questi avreb­ be dovuto iniziare una finta opera di seduzione al bancone prima di

condurla con sé in una stanza d’albergo, in un montaggio incrociato con l’effettiva azione compiuta all’interno del locale secondo le direttive decise in precedenza. Successivamente, il flashback diventava semplice ipotesi, un’eventualità, labile testimonianza dello smarrimento mentale

dell’ex modella: Ixxi comunicava al marito Mark (Roy Scheider) che

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Storia e storie del cinema americano

sarebbe andata a Parigi con Aaron per un servizio, ma il montaggio af­ fiancava due possibilità. Nella prima, Mark, rabbioso, apriva la porta per lasciare la casa urtando con impelo Ixxi sulla soglia della porta; nella

seconda, Mark sferrava un violento ceffone a lx>u seduta sul divano, comunicandole cosi la sua rabbia. Cos’era accaduto veramente? E Mark era realmente il marito di Ijou, dal momento che la sequenza di un altro flashback, quella del matrimonio, si era interrotta bruscamente con la fuga di I jou sulle scale del municipio? ta rivelazione sarebbe giunta nel presente attraverso le parole di Aaron, che confessava alla donna come non fu Mark a impedire il suo viaggio a Parigi, ma la rivista di moda per

cui IjOU lavorava, alla ricerca di volti nuovi con cui sostituirla. Nella sequenza del battesimo del nipote di Michael Corleone (Al Pa­

cino) ne II padrino, il montaggio alternato utilizzava tutta la sua prassi apparente di con figurazione classica per sfoggiare un risvolto a sorpre­

sa. che lasciava sedimentare nel segmento proposto un’idea piuttosto che l’azione accuratamente preparata e prevista. A un evento principale, il battesimo del nipote di Michael (si tratta di Sofia Coppola neonata), si affiancavano scene parallele, aggregate intomo a una medesima situa­ zione: alcuni gangster stavano preparando le armi per un’azione violen­

ta. Il montaggio tra le due serie (il battesimo in chiesa, i gangster) avve­ niva per analogia formale e si raccordava tramite un particolare (le mani

che sfilano la cuffia del piccolo Michael, le mani del gangster che pren­ de le armi, per esempio), ta confluenza classica del montaggio alterna­ to, che prevede l’incontro delle due serie in uno stesso punto, avrebbe

potuto far emergere il dubbio che i gangster stessero approntando il loro raid nei confronti di Michael, approfittando del suo impegno, ma l’ipo­ tesi. non appena l’azione iniziava a deflagrare, era subito fugata, ta componente audio si sovrapponeva a quella visiva e forniva continuità

alle due serie. Immediatamente dopo la domanda del sacerdote «Rinun­ ci a Satana?», iniziava la sequenza della mattanza, a cui faceva seguito beffardamente la risposta di Michael, che dichiarava di rinunciare alla lusinghe del Male e al peccato, mentre i suoi uomini eliminavano, effe­ ratamente. ogni suo singolo avversario, ta sequenza, nella sua interez­ za, utilizzava lo snodo narrativo della strage dei nemici della famiglia Corleone come corollario del fondamento per cui era stata organizzata, ossia l’investitura sacrale del nuovo padrino, il successore di don Vito.

Nuove tendenze

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Il montaggio era sicuramente l’elemento più marcato affinché si no­ tassero i pochi ma appariscenti mutamenti di stile. Alcuni esperimenti ebbero vita breve e furono imitati solo sporadicamente negli anni suc­ cessivi. ma la loro comparsa era un chiaro segno di una volontà di inno­

vazione, spesso linea se stessa. In Easy Rider, ad esempio, gli stacchi tra una sequenza e l’altra erano organizzati per mezzo di un’alternanza di inquadrature ripetuta più volte con un effetto di intermittenza alluci­

nata coerente con lo spirito psichedelico del fìlm. ma pressoché inutili sul piano dell’interpretazione. Tali stacchi stroboscopici provenivano direttamente dallo sperimentalismo linguistico dell’underground e daU’efìetto conosciuto comejfidterwitf . di cui 1 lollis Frampton (in Arti­ ficial U^his, 1969), Tony Conrad (The Flicker, 1965) e Paul Sharits (in RayGun Virus, 1966, T.O.U.CJLl.N.G, 1968, N.O.T.H.LN.G., 1968)

avevano dato ampia dimostrazione e Hopper li utilizzò per vezzo, più che per effettiva utilità. Super Fly (id., Gordon Parks jr.. 1972; Sig Shore Produclions/Superfìy LtdJWamer Bros.) propose addirittura una sequenza lunga tre mi­

nuti e mezzo, una sorta di parentesi rispetto al resto della pellicola, or­ ganizzata in uno split-screen di fotogrammi commentati indicativamen­ te dalla canzone Pusherman di Curtis May field. Questi fotogrammi ri­ traevano piccoli spacciatori incaricati dal protagonista Priest (Ron

O’Neal) e dal suo socio liddie di vendere la droga a tappeto su New York, e la soddisfazione dei loro clienti per la qualità della cocaina ot­ tenuta. Un segmento divertente, fondato sulla crescente gratificazione degli addicted, apparentemente scollegato dal resto del film, forse trop­ po lungo nell’economia della narrazione, un pretesto per fungere da videoclip per il pezzo di Mayfield.

Di contro, c’erano anche piccoli tentativi di eliminazione delle con­ suete configurazioni di montaggio. Accenni, esperimenti episodici ri­ presi altrettanto saltuariamente negli anni a venire, pur senza lasciare segni indelebili. In L’impossibilità di essere normale (Getting Straight.

Richard Rush. 1970; Columbia/The Organization), per illustrare un semplice dialogo tra Harry Bailey (lilliott Gould) e la fidanzata Jan (Candice Bergen), la macchina da presa era posizionata lungo una linea diagonale abbastanza stretta da poter inquadrare entrambi i personaggi

frontalmente. Jan più vicina all’obiettivo. Harry più discosto. Vista la

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Storia e storie del cinema americano

posizione in scena. Rush optò, al posto del campo e controcampo, per la transizione focale: alle parole di Jan l’obiettivo rendeva nitida la ra­ gazza emetteva fuori fuoco Harry, viceversa al momento delle risposte di Hany. Mike Nichols, in Conoscenza carnale (Carnal Knowledge. Mike Nichols, 1971; AVCO Embassy Pictures), modellò la struttura stessa dei dialoghi in funzione dei decenni differenti che caratterizzava­ no il film: per raccontare le altalenanti esperienze erotico-sentimentali

dei suoi due protagonisti, Sandy (Art Garfunkel) e Jonathan (Jack Ni­ cholson), rappresentò il loro costante confronto durante il periodo del campus, negli anni Cinquanta, con Totali della loro stanza, inquadrando

entrambi i letti e attendendo che lo sviluppo dell'esperienza nascesse dalle loro parole, mentre, per raffigurare il decennio successivo, orga­ nizzò un senato confronto in una rigida contrapposizione di primi piani frontali, ribaltati esattamente di 180° l’uno rispetto all’altro, come sol­

tanto Yasujiró Ozu aveva fatto con la stessa severa costanza. Questi aspetti del linguaggio, cosi come le insistite carrellate all’intemo del

locale di Tony (David Provai) oppure le deformazioni datedal grandan­ golo oil Primo Piano fìsso sullo stato di evidente alterazione alcolica di Charlie (Harvey Keitel, il cui volto si muoveva coordinato al quadro, mentre lo sfondo sembrava provenire da un’altra dimensione, slegato rispetto al viso e al suo movimento nello spazio del locale) visti per esempio in Mean Streets (id., Martin Scorsese, 1973; Warner BrosJ Taplin-Perry-Scorsese Productions), evidenziavano l’intenzione, da parte dei nuovi registi, di qualificare - e in qualche modo contrassegna­

re - il loro lavoro sottolineandone l’intenzionalità rappresentativa e quindi la palese volontà autoriale che ne sostanziava la spinta espressi­ va. Un gioco in cui. indirettamente, grazie all’insistenza sulle dinami­ che enunciative, si palesavano metacinematografìcamente le stesse

condizioni di produzione, rimarcate a più riprese da Robert Altman, che con impeto brechtiano mirava a rendere manifesti i meccanismi di fin­ zione di Hollywood e tutta la complessa impalcatura drammatica che

l’aveva sorretta nel corso della sua storia. In MASH (id.. Robert Al­ tman, 1970; Aspen Productions/Ingo Preminger Productions/20th Century-Fox) e in Anche gli uccelli uccidono (Brewster McCloud. Robert Allman. 1970; Lion’s Gate Film) questa volontà si manifestava fìn dai titoli di lesta, nel primo sostituiti dalla vocedello speaker dell’ospedale

Nuove tendenze

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da campo che faceva da sfondo alla vicenda, cosi come aveva fatto Welles alla fine de L or^of’Iìo degli Amberson, ne) secondo facendo ripartire i cast & credits dopo che la petulante cantante Daphne Heap, contrariata dalla mancanza di concentrazione della banda che l’accom­

pagna nell’esecuzione dell’inno nazionale, aveva intimato ai musicisti di ripartire da capo per una nuova prova. In un’ottica simile furono interpretati anche i dettagli pregnanti, le inquadrature ravvicinate sui singoli oggetti e sugli aspetti particolari e straniami della realtà, proposti come elementi slegati dal contesto, qua­ si autonomi, visti in una prospettiva insolita, e la cui proliferazione ne)

corso del decennio fece scomodare per il cinema americano il concetto dell*iperrealismo, già conosciuto in arte perché corrente derivala

dall’esperienza della Pop Art Ix> scopo deH’iperrealismoera di critica­ re ideologicamente una società consumistica, preda della mercificazio­ ne. che utilizzava la presunta oggettività delle immagini proposte quo­ tidianamente dai media per decantarne la fascinazione, la perfezione

dell’oggetto raffigurato a scapito dell’effettiva essenza. Ixi reazione dell’iperrealismo si attuava contro la creazione di simulacri della realtà, incapaci di fornire obiettività, ma solo la sua arrogante pretesa: lo sco­ po, fortemente ideologico, divenne quello di proporre la verità delle immagini attraverso una riproduzione impeccabile dell’oggetto, accu­

rata. spesso ravvicinata, talmente disancorata dal contesto di cui era propria da renderla iperbolica, più reale di ciò che intendeva riprodurre, l-a realtà subiva, in questo modo, un’elaborazione soggettiva il cui su­

peramento forniva un oggetto nuovo, perfetto nelle sue forme, pura ri­ produzione di un mondo ideale, inesistente, alienante a causa dello sco­ po consumistico cui era stato predisposto. Ixi raffigurazione diventava,

in questo modo, un semplice involucro senza alcun significato, nella negazione assoluta del referente realtà, esaltandone le superfici e i sin­ goli dettagli, e facendo assumere all’oggetto un protagonismo mai visto in precedenza, il più delle volte totalmente sganciato dall’assunzione di

un significato preciso che non fosse quello, globale, della reificazione di un’intera collettività. Alcuni autori della Hollywood Renaissance de­ cisero di appropriarsi dell’iperrealismo per applicarlo al contesto di alienazione urbana di cui si fecero attenti narratori, inserendo inquadra­ ture straniami in uno spazio artefatto, palesemente fasullo, colmo di

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Storia e storie del cinema americano

neon, insegne scintillanti, superfici riflettenti. Il punto di massima espressività Tu toccato da Taxi Driver (id., Martin Scorsese, 1976; Columbia/Bill-Phillips. Italo/Judeo Productions), abisso di alienazione

metropolitana cui Scorsese e il direttore della fotografia Michael Chap­ man diedero una connotazione ossimoricamente oscura e scintillante, fatta di Dettagli del taxi in movimento (paraurti e freccia anteriore, specchietto laterale, montanti del lunotto, marchio dell’auto) e neon

sgargianti che squarciavano la monotona notte newyorchese rifletten­ dosi sull’asfalto uggioso. 1 neon e i dettagli sulle superfici levigate fu­ rono un autentico marchio distintivo della nevrosi metropolitana, quasi un segnale di allarme rispetto al percorso che il protagonista stava com­ piendo sullo schermo. Ne La conversazione, ancora prima che Harry

Caul (Gene Hackman) entrasse nella spirale di paranoia che l’avrebbe condotto a sventrare la sua abitazione alla ricerca di una cimice che provasse il controllo cui era sottoposto, una sua telefonata al commit­ tente del pedinamento a cui stava lavorando procurava una sensibile

alterazione visiva: un lento movimento di macchina verso la cabina in

cui I larry era entrato rivelava sul vetro il riflesso rosso delle insegne dei negozi antistanti che tagliavano in due il volto del personaggio, creando

una sovrimpressione profllmica che generava un certo disagio. Abituali erano i piani ravvicinati sulle partite di droga, sulle procedu­

re con cui queste erano analizzate dagli esperti della mala o tagliate dagli spacciatori per creare le singole dosi. Oppure, con modalità più sconvolgenti, erano fomiti Dettagli e Particolari della preparazione del­ la dose per la successiva iniezione. // braccio violento della legge (The French Connection, William Fricdkin, 1971; D’Antoni Productions/ Schine-Moore Productions) mostrava la valutazione della purezza della

partita di droga proveniente dalla Francia da parte dell’esperto di Sai Boca e lo faceva ricorrendo a Dettagli minutissimi: il piano sull’ago sistemato vicino al gradiente, il contenuto polveroso della bustina, la fiamma che riscaldava il contenuto, una transizione focale dal volto

dell’esperto alla provetta dentro la quale era stata collocata la droga. Dettagli del misuratore che mostrava il livello semprepiù allodi purez­ za della droga. Più diretti erano invece i brevi segmenti proposti da La guerra del cittadino Joe (Joe, John G. Avildsen. 1970; David Gii), con

i Dettagli di una siringa di eroina iniettata in un braccio, e soprattutto da

Nuove tenderne

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Panico a Needle Park (The Panic at Needle Park, Jerry Schatzberg.

1971: Gadd Productions Corporation/Didion-Dunne). nel quale si pote­ vano osservare nei minimi particolari la preparazione dell’eroina in un

lappo di bibita fatto bollire su una fiammella, la siringa di fortuna, fatta con un tubetto e una pompelta, l’aspirazione del liquido e il dettaglio minuzioso della siringa che entrava in un avambraccio. Se l’iperrealismo della tossicodipendenza era un altro modo per rap­ presentare l’alienazione urbana. differente era il discorso per quanto riguarda le repliche fedeli di un periodo ormai trascorsoci cui L ultimo spettacolo e American Graffiti (id., George Lucas, 1973; Universal/Lu-

casfilm/Tbe Coppola Company) furono gli esempi più indicativi. Da un lato, American Graffiti ricostruiva accuratamente l’inizio degli anni

Sessanta attraverso le mode e lo stile di una gioventù caratterizzata da automobili d’epoca (che diventavano autentiche propaggini della pro­ pria personalità), dall’abbigliamento dei college, dai luoghi di ritrovo e dalla musica del periodo (Platters, Buddy Holly. Bill Haley, Del Shan­

non, Johnny Burnette), che come un inesausto refrain segnavano ogni

singola sequenza de) film. L’iperrealismo con cui Lucas recuperava un’epoca e la trasponeva fedelmente sullo schermo assumeva l’aspetto e i toni dell’elegia malinconica di un tempo ormai irrimediabilmente perduto, un’ultima notte dai tratti convulsi e onirici prima della perdila definitiva dell’innocenza e l’ingresso nell’età adulta, nell’universo del­ le responsabilità e delle tragiche delusioni (cosi come riportavano le didascalie sulla sorte toccata ai personaggi nell’ultima inquadratura del

film). American Graffiti, come tutti i film facenti parte di un particolare filone Sowi/rò che presentavano la nostalgia per il passato come mo­ tivo centrale dell’intreccio, alludeva a un’ipotetica età dell’oro, a una supposta innocenza sempre immediatamente precedente a un grande

trauma nazionale (in questo caso l’assassinio di Kennedy), le cui conse­ guenze giungevano a far sentire i loro effetti fino alla crisi contempora­ nea. Bogdanovich, dall’altro lato, con l. ultimo spettacolo, in cui ogni

singolo aspetto del profilmico era stato ricreato nel dettaglio, anche le marche di bina, fuori produzione al momento in cui film fu girato, non proponeva un paradiso perduto, bensì la consapevole operazione di ri­ produzione di quello stesso paradiso. Che non era tanto la polverosa e

disabitata Anarene. Texas (che sostituiva la Thalia del libro di I-arry

Storia e storie del cinema americano

344

McMurtry da cui il film era tratto), quanto, in una riflessione metacinematografica. il cinema classico americano, nella piena consapevolezza, da parie di Bogdanovich, che l’età dell’oro fosse trascorsa e che il nuo­ vo cinema americano di cui faceva parte non poteva che osservare il

passato per tentare di riproporlo integralmente. Tin dal bianco e nero magnificamente fotografato da Robert Surtees. Attraversoil taglio clas­ sico delle inquadrature, il montaggio che non disdegnava la dissolvenza incrociata in un periodo in cui essa stava sostanzialmente svanendo, i temi peculiari del melodramma anni Cinquanta (la noia esistenziale nel piccolo centro di provincia, le mogli insoddisfatte, i tradimenti, i pette­

golezzi della comunità, ipochi luoghi di ritrovo, le feste come teatro di dilatazione dei conflitti). Bogdanovich non si limitò a fornire il suo

personale omaggio al cinema dei grandi maestri di Hollywood, ma arri­ vò addirittura a sancire l’impossibilità di procedere oltre. Il piccolo ci­ nema della cittadina, come ultimo spettacolo prima della chiusura, pro­ iettava Il fiume rosso (Red River. Howard Hawks. 1948; Charles K.

Feldman Group/Monterey Productions), il personaggio di Sam thè Lion, indicativamente interpretato dall’attore fordiano Ben Johnson (che fu premiato con l’Oscar), moriva improvvisamente mentre i due giovani protagonisti si trovavano a tentare di superare la noia in Messico. Ogni aspetto del film forniva in controluce la sua valenza simbolica.

Il paradosso de L’ultimo spettacolo risiedeva ne) rendere omaggio all’àgeJ’or del cinema americano ricalcandolo fedelmente, nel tentati­ vo di donarne l’estetica per renderla eterna a dispetto di un periodo in cui. almeno nelle intenzioni. Hollywood stava affrontando la sua gran­ de prova di rinnovamento.

15.2

Voglia di vero

Il bisogno di realismo che molti autori della Hollywood Renaissance avvertivano come un’esigenza espressiva e in qualche modo ideologica (e molti produttori come una necessità per ridurre spese e rischi d’im­

presa) era stata in un certo senso influenzata dai relativamente recenti esempi di cinema diretto e dai ritrovati tecnici che questi utilizzavano

Nuove tendenze

345

per una lettura immediata della realtà che intendevano riprendere, so­ prattutto per quanto riguarda lo zoom, il teleobiettivo e le cineprese leggere che venivano usate a mano e a spalla dagli operatori per coglie­

re la realtà alla sprovvista. 1 tradizione americana del cinema diretto, dopo i fasti documenta­ ristici di Flaherty, l’impegno per l’amministrazione rooseveltiana di Pare lx>rentze la scuola di New York della prima metà degli anni Cin­

quanta, era rinata con la Drew Associates, il cui fondatore. Robert Drew si legò con altri operatori. Richard l>eacock, Donn Alan Pennebaker. i fratelli David e Albert Maysles per produrre una serie di cortometraggi

destinati all’informazione televisiva. 11 film che concentrò l’attenzione sulla loro produzione fu Primary (Robert Drew, 1960; Drew Associa(es/Time), raccomodi un’ora condotto in montaggio alternato delle pri­ marie in Wisconsin che misero di fronte John Fitzgerald Kennedy e

Hubert Humphrey nella volata che poi avrebbeconsacrato, nel ’61, JFK alla presidenza della nazione. I due candidati erano seguili costantemente durante la loro campagna, per le strade, negli spostamenti e nelle

pause di riflessione con uno stile in perenne movimento, con più opera­ tori alla macchina la cui presenza si faceva discreta per permettere la naturalezza delle reazioni nei protagonisti e pronti a osservare minuzio­ samente ogni piccola reazione dei personaggi, ogni possibile sviluppo della vicenda in corsod’opera. Se il principio regolatore dell’opera del­ la Drew Associates sul piano narrativo era scrutare la naturalezza delle situazioni per ricavarne i punti di svolta fomiti dalla realtà, la tensione

alla ricerca del risultato, le reazioni dei personaggi nello sforzo di por­ tare a compimento la loro opera, sul piano stilistico il tutto si traduceva in un agile pedinamento dei soggetti conia macchina a mano, compiuto

per mezzo di una troupe di alcuni elementi, pronti a raccordare tra loro le singole riprese. 1^ immagini erano catturale nella loro presunta obiettività, mettendo a fuoco l’oggetto anche attraverso rapidi riquadramenti effettuati con lo zoom oppure deformando l’immagine in conti­ nuità per mezzo del grandangolo, pronto a dilatare la prospettiva, per esempio, nella sequenza iniziale dell’ingresso del senatore Kennedy sul palco, davanti alla platea inattesa del suo comizio.

Sganciatisi dalla Drew Associates, gli altri membri originari diedero il loro notevole contributo alla diffusione del cinema diretto, l^eacock.

346

Storia e storie del cinema americano

che era stato produttore associato perLousiana Story di Flaherty, con il suo sguardo rondato suirimpercettibililà della macchina da presa per garantire la verità dei fatti osservati (ad esempio in Happy Mother’s Day, del 1963. documento sulla nascita di cinque gemelli in una comu­

nità agricola del South Dakota, con particolare attenzione alla vita fa­ miliare e all’impatto nei concittadini), i fratelli Maysles, che con Sale­ sman (Albert e David Maysles. Charlotte Zwerin, 1968; Maysles Films)

si concentravano sul più sfortunato tra quattro diversi venditori di bibbie a domicilio, tra Boston, Chicago e la Rorida. 1 Maysles diedero il loro contributo anche nel documentario rock, in cui Pennebaker forni altri esempi mirabili (in Don 't Look Back, del 1967, sul tour inglese di Bob Dylan di due anni prima, e Monterey Pop, del 1968, sul celebre festival rock): la loro indagine sugli elementi del reale, tuttavia, andò ancora oltre, riuscendo a testimoniare attraverso le immagini riprese

dagli operatori in Gimme Shelter (Albert e David Maysles, Charlotte Zwerin, 1970; Maysles Films/Penforta), concerto dei Rolling Stones ad

Altamont, California, la morte del fan di colore Meredith Hunter per mano di Alan Passato, del servizio d’ordine degli Hell’s Angels, come se si fosse trattato della triste trasposizione reale del Blow Up di Miche­ langelo Antonioni (1966). Il cinema diretto continuò la sua opera radicandosi maggiormente nell’attivismo politico grazie al l’opera di limile De Antonio, il cui In the Year of the Pig (1968; limile de Antonio Productions/Turin Film Productions) metteva insieme raro e sconvolgente materiale di reperto­

rio sulla guerra del Vietnam, commentato indirettamente da testimo­ nianze volte a sconfessare le dichiarazioni ufficiali degli organi gover­ nativi, e a Robert Kramer, uno dei fondatori dei Collettivi Newsreel, la cui produzione, ottenuta con una macchina da presa libera da ogni con­ dizionamento e con una narrazione frammentata nei diversi percorsi esistenziali seguiti, faceva emergere la tesi ideologica alla base in virtù dei dialoghi chiarificatori.dai racconti esemplari, dai dubbi di una ge­ nerazione attraversata dalla guerra e in preda a una continua crisi di identità politica (soprattutto in /cedei 1970, e nelle oltre tre ore di Mi­ lestones, del 1975, codiretto da John Douglas).

In che modo le tecniche del cinema diretto influenzarono la produ­

zione artistica della A/cw Hollywood?

Nuove tendenze

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Sicuramente, la pratica dell’indagine sul campo e le nuove attrezza­ ture ispirarono principi estetici che si rifletterono soprattutto sul nuovo realismo urbano, reso livido, frenetico, di immediata leggibilità, all’in­

terno di una simbologia cromatica frutto di una fotografia spesso poco contrastata e desaturata, incontrotendenza rispetto al periodo squillante e ipertrofico del technicolor, epoca nella quale lo spazio urbano occu­ pava una posizione accessoria, quasi mai centrale nell’economia della narrazione, e in contrasto anche con le tendenze reificanti proprie dell’iperrealismo. Il teleobiettivo schiacciava il soggetto ripreso all’in­ terno dello scenario e lo spazio su se stesso. In questo modo si otteneva

una compressione della prospettiva il cui risultato estremo era il suo annullamento. lx> zoom, invece, accentuava l’attenzione su alcuni degli elementi ripresi ritagliandoli dall’ampiezza dello spazio con effetto di sottolineatura narrativa (la sottolineatura emotiva era molto più rara nei

casi in cui l’intento era realistico). Il teleobiettivo isolava appiattendo, lo zoom restringeva gerarchizzando. L’inquadratura tipo del realismo urbano durante la Hollywood Re­ naissance fu quella che ritraeva un personaggio in movimento (insegui­

tore. inseguito, oppure semplicemente in una peregrinazione senza co­

strutto), confuso tra una moltitudine di persone o immerso ne) traffico, osservato dalla parte opposta della strada, mentre la gente di passaggio o le auto in strada lo impanavano per brevi istanti con le loro sagome non completamentea fuoco. Al di fuori del piano-cliché, il teleobiettivo venne utilizzato non soloper ricalcare un’aura e predispone il pubblico

a una lettura veritiera delle immagini, ma anche per propone ben defi­ niti effetti di senso. Ne // laureato, ad esempio, nella sequenza com­ mentata dalle note di Scarborough Fair di Simon e Garfunkel, le imma­ gini di fkn appostato intomo al campus alla ricerca di li laine (Kathari­ ne Ross) erano quasi tutte carpite da una certa distanza con il teleobiet­ tivo con lo scopo di rendere il suo sguardo furtivo, distanziato, alla ri­ cerca di un contatto ancora complicato da attuare, se non addirittura impossibile. Ixj inquadrature con il teleobiettivo si combinavano, indi­ cativamente con l’uso repentino dello zoom, quando Ben. in semisog­ gettiva. vedeva finalmente uscire la ragazza dal palazzo dell’università,

come a suggerire l’improvvisa messa in rilievo, la sorpresa e l’entusia­ smo per l’inaspettata rivelazione.

348

Storia e storie del cinema americano

Il teleobiettivo, inoltre, durante gli anni Settanta, fu oggetto di un utilizzo ideologico nel genere che più aveva concorso a creare archeti­ pi e miti non solo nel cinema ma anche nella storia americana, il we­

stern. Il western, nel corso della sua esistenza, aveva fatto dell’immen­ sità del paesaggio selvaggio, ripreso attraverso la profondità di campo, il suo punto di forza epico e la ragione stessa della sua esistenza. Il western, come accennato nel Capitolo 2. fu uno dei pochi generi, infat­

ti. a non abbandonare la profondità di campo come pratica rappresen­ tativa nel periodo che va dalla fine degli anni Venti all’inizio degli anni Quaranta, quando, in concomitanza con l’introduzione del sonoro,

il cinema americano scopri la sua vocazione logocentrica a scapito di ogni altro aspetto dinamico e spaziale del racconto, lui messa in scena del western rimase inveceancorata alla sua rappresentazionenello spa­ zio. immagine di un’azione costante da parte dell’eroe all’intemo de) gigantismo della wilderness, volta a esaltare la leggendaria conquista da parte dell’uomo degli impervi e titanici spazi del territorio, pream­ bolo per una successiva edificazione della nazione. Negli anni a caval­

lo fra Sessanta e Settanta, il western, in pieno clima di ridiscussione degli ideali epici fino allora incontestabili, grazie anche all’utilizzo del teleobiettivo, subi una deformazione dei suoi immensi spazi che andò di pari passo con una definizione critica del concetto di eroismo indi­ viduale e una revisione dei principi della conquista del WesL L’utiliz­ zo del teleobiettivo, contraendo lo spazio in un appiattimento che di­ ventava l’esatto contrario dell’esaltante profondità di campo propria

del genere, modificava ideologicamente lo scenario e il suo conse­ guente significato. L’inquadratura ripresa con le focali lunghe del tele­ obiettivo confutava la posizione acquisita dal protagonista all’interno

dell’ambiente, cancellando l’epico accordo tra l’Homo amcricanuse la Natura propagandalo durante tutta la fase classica e mutando gli equi­ libri dello stesso quadro, nel quale veniva soppressa l’ideologia delia conquista isolando le figure inquadrate in una riflessione lirica destnit-

lurante rispetto alla mitologia su cui il western aveva costruito la sua intera esistenza. lx) zoom presentava un intento essenzialmente stilistico, perché il suo scopo era di inserirsi improvvisamente nelle convenzioni previste dalla visione armonica e lineare. L’uso dello zoom, tuttavia, eviden­

Nuove tendenze

349

ziando un aspetto a scapito di altri all’intemo dell’immagine, ricopriva soprattutto uno scopo di messa in rilievo cronachistica, in una modalità visiva che dinamizzando l’asse di ripresa ne avvicinava l’estetica a) ci­

nema diretto. In Easy Rider, lo zoom fu usato nelle sequenze di viaggio

dei due protagonisti sui loro chopper per ribadire stilisticamente il rea­ lismo documentaristico che caratterizzava l’intero film. lavorando sullo stesso versante critico di alcuni artisti vicini alle

posizioni della Pop Art (Allan D’Arcangelo. lidward Ruscha. Vija Celmins. ma anche, seppur più distante da questi, Llyn Foulkes), Hopper e il direttore della fotografia 1-àszJÓ Kovàcs. con le loro immagini affa­ scinanti eppur immediate, talvolta controluce ed esclusivamente de­ scrittive. spogliarono progressivamente di lirismo il paesaggio, trasfor­ mandolo da romantico e incontaminato in spazio critico nel quale s’in­ travedevano le contraddizioni nascoste nella società americana che lo stile documentaristico rendeva indiscutibilmente attendibili (la popola­ zione di colore nelle baracche o al lavoro, le industrie dedite allo sfrut­

tamento energetico del territorio).

I>e rivelazioni improvvise che l’inquadratura con lo zoom offriva ri­ sultarono indubbiamente utili per repentini cambi della prospettiva co­ gnitiva all’interno di pellicole che sulla tensione fondavano la loro pre­ sa sul pubblico. Ixjzoom. in quest’ottica, operava in funzione selettiva

per rendere possibile il capovolgimento della fecalizzazione, mutare d’un tratto le condizioni attraverso cui leggere la sequenza e predispor­ re l’attesa per la continuazione immediata del racconto. Un esempio calzante di quest’aspetto fu quello mostrato da William Friedkin ne// braccio violento della lejxe, nella sequenza in cui Sal Boca (Tony lx> Bianco), tramite americano per i grossisti dello spaccio, incontrava a Washington Alain Chamier (Fernando Rey). grande fornitore di droga marsigliese. Dopo aver preso accordi per lo sbarco del carico lontano da New York e dalla possibilità di essere pedinati dalla polizia. Boca e Chamier si accomiatavano. Boca, in un Primo Piano di profilo, vedeva

allontanarsi nel fuoricampo di sinistra Chamier nello spazio vuoto ri­ masto al centro dell’inquadratura, una zoomala su una figura sullo sfon­ do. fino a quel momento sfocata, collocata sulla scalinata del Lincoln

Memorial a un centinaio di metri di distanza. Iji zoomata metteva a fuoco la sagoma indistinta: era un uomo in trench con il cannocchiale.

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Storia e storie del cinema americano

presumibilmente della polizia, che aveva osservato la scena che Charnier pretendeva fuori dagli sguardi indiscreti newyorchesi. Se l’essenza del cinema diretto s’introduceva quasi surrettiziamente

in alcune sequenze (il segmento girato in 16 mm per le strade di New Orleans durante la parata di Carnevale in Easy Rider- primo blocco ripreso da Hopper su cui fu costruito l’intero film - segmento curiosa­ mente replicato nella sequenza dei titoli di testi di Un uomo oggi [ MU­ SA,Stuart. Rosenberg, 1970: Paramount]), alcune pellicole furono inve­

ce realizzate interamente attraverso uno sguardo documentaristico pur essendo fìlm a soggetto a tutti gli effetti. America, America, dove vai? {Medium Cool, Haskell Wexler, 1969; H&J). attraverso la figura di Jo­

hn Cassellis (Robert Forster).operatore televisivo, impiegò in un’ottica contrastante questo aspetto. Da un lato, infatti, sfruttando le modalità di ripresa di John e l’incarico dell’emittente televisiva, le immagini rac­

contavano dapprima le condizioni di vita di una comunità di emigranti dei monti Appaiatili confinati in una zona-ghetto di Chicago, successi­

vamente, sempre per amore del vero e anche in ragione di un rapporto diretto rispetto alla materia del proprio girato che cominciava a non essere cosi indifferente e distaccata, John cominciava a interessarsi ai

problemi della popolazione di colore, allo stato di profondo disagio in cui versava, alle possibili cause che avevano generato queste profonde

diseguaglianze. Il vero come rivelazione, ma anche come arma della repressione in cui il sistema si riappropria del suo potere: John si licen­ ziava dall’emittente dopo aver scoperto che il materiale da lui girato durante le manifestazioni era ceduto alla polizia per identificare i dimo­ stranti e arrestarli. Ciononostante, il vero era proposto come autentica assunzione fìlmica della cronaca recente: le sequenze girate da John in

mezzo ai tumulti seguiti alla Convention democratica del 1968 sullo

schermo erano mostrate attraverso le reali immagini di quegli stessi scontri. Wexler cercò di cogliere perennemente alla sprovvista i suoi personaggi, ponendosi in attesa di una reazione, di uno sguardo, di un cenno, non limitandosi a illustrare, ma narrando autenticamente attra­ verso un’attenta analisi, quasi si trattasse di una penetrante indagine di volti e corpi. Con una cinepresa mobile, libera, dal moto vivace tra un

punto d’osservazione e l’altro, spesso dipendente dal movimento delle figure, altre volteentrando in una relazione dialettica con esse, dal mo-

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vimento persino circolare se figure e situazioni lo richiedevano, capace di messe a fuoco repentine per riquadrare la realtà e rimodellarla in funzione degli elementi da far risaltare. D’altro canto, il film si mostra­

va paradossalmente scettico - quasi rinnegando il suo stesso statuto di sguardo - rispetto alla possibilità che le immagini potessero farsi atten­ dibili testimoni nei confronti dell’opinione pubblica. L’ultima sequenza de) film si proponeva come glossa allegorica ditale pessimismo: John e

la sua donna Eileen (Verna Bloom) rimanevano vittimedi un grave in­ cidente d’auto, illustrato sullo schermo attraverso la loro visione sog­ gettiva. con un montaggio non consequenziale, ma fatto di singoli fram­ menti ripetuti (movimentorotatorio della macchina da presa al momen­ to della perdita di controllo dell’auto, piano del vetro infranto, piani di attesa di liileen. piani dell’albero in avvicinamento, scontro con l’albe­ ro a cui segue, indicativamente, un quadro nero). Un’auto transitava lentamente, gli occupanti si giravano con indolenza. Uno di essi, posi­ zionato nei sedili posteriori, fotografava la scena dell’incidente mentre l’auto continuavaia sua marcia. Unazoomata all’indietro si allontanava

dall’auto e ruotava verso destra, per inquadrare una telecamera di una rete televisiva, giunta per documentare i disordini di Chicago, altrettan­

to indifferente all’incidente, ta telecamera ruotava a sua volta e si ri­ volgeva alla macchina da presa in modo talmente invadente che il suo obiettivo penetrava nel perimetro dello schermo rendendo nera l’inqua­ dratura. mentredal fuoricampo proveniva l’audiodegli scontri. Un cor­ tocircuito percettivo che negava il valore individuale della fedele testi­ monianza. fagocitato dalla serialità di immagini addomesticate, asservi­ te al sistema e apatiche di fronte alle manifestazioni del vero dramma. In una prospettiva diametralmente opposta si collocavano, invece, i

falsi documentari, le pellicole che giocavano sulla simulazione dei ca­

ratteristici stilemi per fornire un doppio statuto di finzione, nei confron­ ti della materia trattata e nell’inganno della struttura adottata. Talvolta gli intenti e i toni utilizzati erano discordanti: Prendi isoidi e scappa (Take the Money and Run, Woody Allen, 1969; American Broadcasting Company/Jack Rollins & Charles II. Joffe Productions/Palomar Pictu­ res International) raccontava comicamente la falsa storia di Virgil Star-

kwell (Woody Alien), incauto rapinatore il cui ritratto era ricavato dalla testimonianza delle persone che lo avevano conosciuto, tra cui anche i

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Storia e storie del cinema americano

genitori, intervistali con grossolani baffi e occhiali posticci alla Grou­ cho Marx per il timore di poter essere riconosciuti. Lenny (id.. Bob Fosse. 1974; Marvin Worth Productions) narrava drammaticamente (con immagini molto curate, lontane esteticamente dal documentario, sebbene fossero in bianco e nero) la vera storia del comico di origine ebraica Lenny Brace che tanto fece scandalo nell’ America peibenista e bigotta della prima metà degli anni Sessanta strutturandosi su tre livelli,

le interviste agli attori che interpretano le persone care a Ixnny (la mo­ glie, l’agente e la madre), la vita privata del comico, dagli incerti inizi al complicato successo, e il piano dello spettacolo, con l^nny Brace (Dustin Hoffman) sul palco a commentare indirettamente con le sue battute e le sue riflessioni ciò che il livello biografico raccontava sullo

schermo. L’esaltazione della pratica documentaristica e l’opportunità produtti­ va di girare open air, ollrealla profonda ristratturazionedei generi clas* sici cui si è accennato in precedenza, portò alla nascita e alla diffusione

di un genere apparentemente nuovo, il Road Movie, in realtà nato per

trasformazioni successive del western, come un breve montaggio paral­ lelo in Easy Rider aveva suggerito (il fattoreche fìssa un ferro al caval­

lo giustapposto ai due bikers che cambiano una ruota delle loro moto), lui ripresa documentaristica esaltava uno degli archetipi fondanti della cultura americana, il viaggio. Il fìlm on the roadwvi&ten costi mini­ mi, sfrattava i miti ribellistici della gioventù almeno dai tempi della Beat Generation.stilizzava il suo sviluppo in una struttura fondata sem­

plicemente su spostamenti e incontri con altri personaggi in grado di sostanziare la vicenda principale, aveva la possibilità di allegorizzare l’innocenza perduta della nazione ambientando le sue storie in uno sce­ nario ideale, carico di significali accessori (il pionierismo, la frontiera,

la conquiste la razionalizzazione dello spazio) su cui innestare l’osser­ vazione delle contraddizioni in atto (l’oppressione della società, la mas­ sificazione, l’ingiustizia sociale, lo sfruttamento intensivo di quello stesso spazio solcato dai mezzi di trasporto). Il Road Movie, che pure ebbe molti imitatori in giro per il mondo (Wim Wenders fu uno dei ci­ neasti piùassidui nel seguirne le peculiarità e la mitologiaa esso sotte­ se). nacque in virtù di una tradizione storica e di un portato geografico

che solo negli Stati Uniti potevano trovare la loro logica conseguenza

Nuove tendenze

353

sul piano narrativo: il passato forniva il referente mitopoietico e la me­ tafora dell’esistenza stessa della nazione, la vastità de) paesaggio e la dilatazione delle distanze impostavano il confronto tra la velleità dell’individuo e un nuovo impossibile tentativo di conquista. Su questa base s’inseriva un discorso dichiaratamente critico sulla società con­ temporanea e sulle sue incongruenze, sul problematico confronto - e quindi destinato inevitabilmente al fallimento - tra innocenza originaria

e decadenza moderna. Il Road Movie propriamente detto, con la sua critica figurata al sistema, durò non più di cinque anni, per poi originare una serie di riproduzioni dalle medesime caratteristiche stilistiche e rac­ chiuse nella stessa etichetta, ma dalla carica eversiva fatalmente implo­ sa, perché figlia di un periodo di riflusso. Pellicole come Easy Rìder, Non tomo a casa stasera (The Rain People, Francis Ford Coppola,

1969; American Zoetrope/Wamer Brolhers/Seven Aris), Punto zero {Vanishing Point, Richard C. Sarafìan. 197); Cupid Productions/20th

Century-Fox), Strada a doppia corsia {Two-Lane Blacktop, Monte Hel­ lman, 1971; Michael Laughlin Enterprises/Universal), Duels Sugarland Express (The SugarlandExpress, 1974; Universal/Zanuck-Brown

Productions) di Spielberg. Getaway (The Getaway, Sam Peckinpah, First Ariists/Solar Produclions/Foster-Brower Productions). Electra Glide {Electra Glide in Blue, James W. Guercio. 1973; Guer-

1972;

cio-Hitzig) e Im rabbia giovane {Badlands, Terrence Malick. 1973; Warner Bros. Pictures/Pressman-Williams/Jill Jakes Production), ognuna con le sue caratteristiche e con gli inconfondibili segni d’autore che qualcuna portava chiaramente con sé, furono un ulteriore ed inequi­ vocabile segno distintivo del cinema americano degli anni Settanta.

15.3

Antieroi, alienazione e inerzia narrativa

Nel cinema americano anni Settanta non era più tempo d’eroi, li nem­ meno di divi. Perlomeno di quelli che avevano reso immortale il perio­ do classico. Il principio dell’ottimizzazione dei budget, delle produzio­ ni indipendenti, aveva eroso la possibilità che il punto di forza di una pellicola fosse il nome nel punto più inaltodella locandina. In un cine­

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Storia e storie del cinema americano

ma propagandato come d'autore, il divo non era più essenziale. Anzi, spesso era considerato, se non inserito in un progetto come parte di un ingranaggio più vasto, addirittura controproducente. Non che i divi di

un tempo non girassero più film, ma gli autori della Hollywood Re­ naissance puntarono su volti nuovi, freschi, non identificabili con il

passato. lui scelta dei nuovi attori era anche dovuta alla ridiscussione di temi e contenuti che il nuovo cinema americano stava realizzando con rego­ larità. lui visione critica che molli autori mostravano nei confronti della contemporaneità portò.come già accennatoin precedenza, all’abolizio­

ne dell’eroe positivo.e alla comparsa di protagonisti problematici, alla ricerca di una collocazione, talvolta inerii, spesso inadeguali, quasi

sempre incapaci di proporsi volitivamente rispetto a un presente da cui si facevano letteralmente trascinare fino all’eventualità della deriva. Quasi si fosse trattato di un manifesto programmatico, nei titoli di lesta di uno dei primi film del nuovo cinema, Hlaureato, si vedeva il prota­

gonista Ben (Dustin Hoffman), appena sbarcato con l’aereo a I-os An­ geles, trasportato sul tapis roulant dell’aeroporto, sguardo smanilo da­ vanti a sé e confinato nella destra dell’ampio quadro dalle proporzioni

panoramiche, mentre a sinistra scorrevano i titoli di testa. Per tutta la prima parie del film, fino a quando non decideva di riconquistare Eiai­ ne, la figlia della signora Robinson con cui aveva avuto una relazione, anch’essa subita come se il rifiuto fosse un peso troppo gravoso da so­ stenere. Ben appariva trascinato da eventi che assecondava con un at­

teggiamento inerziale: il simbolo di cui si servi Nichols per significare la sua passività alienata di fronte agli avvenimenti furono le superfici trasparenti, vetro e acqua, che imprigionavano il soggetto in un’indo­ lenza immateriale e afflitta. Ben. infatti, era sempre osservalo attraver­

so il filtro di tali superfici. incornicialo dall’acquario dei pesci, immerso sul fondo della piscina di casa, incastonato nella vetrata o nella cabina telefonica dell’hotel durante l’imbarazzante appuntamento con la si­

gnora Robinson. Ben. tomato a casa dopo essersi laureato e ancora in­ capace di scegliere che strada intraprendere per il suo futuro, prescin­ dendo dal consiglio fornitogli dal signor McGuire di occuparsi di pla­ stica. immagine di un domani fatto di promesse di guadagno su un ma­

teriale che allude apertamente all’artificiosità (delle relazioni, del pro-

Nuove tendenze

355

prio futuro), era una delle immagini dell’inadeguatezza degli antieroi della New Hollywood. Personaggi, nel migliore dei casi, alla ricerca di una strada non ancora tracciata, oppure incapaci di progettarne una da

percorrere con assiduità. Un diverso grado di inadeguatezza era quella che colpiva Joe Buck (Jon Voight), stallone texano di Un uomo da mar­ ciapiede giunto a New York all’ingenua conquista della metropoli con il suo rude fascino di uomo del sudovest e persosi in un abisso di fru­ strante emarginazione con il compagno di sventura Ratso (Dustin Hof­ fman) aH’intemo di una città che da ipotesi di riscatto si trasformava in incubo, con i suoi vicoli oscuri, le abitazioni fatiscenti, i bar malfamati,

le frequentazioni ambigue. L’inadeguatezza era uno degli aspetti, quel­ lo preliminare, per il fallimento: la New Hollywood fu costellata di tita­ nici perdenti, di personaggi sconfìtti il cui percorso esistenziale (e nar­ rativo) era solo l’ennesima conferma dell’impossibilità di riportare una

rivincita su tutte le delusioni patite ne) passato. In Non si uccidono così anche i cavalli?, l’impresario Rocky (Gig Young), convincendo Gloria

(Jane Fonda) a sposare in pista Robert (Michael Sarrazin) per esigenze

di spettacolo, affermava «1 may not know a winner when I see one. but 1 sure as hell can spot a loser» (potrei non riconoscere un vincente quan­

do ne vedo uno. ma sicuro come l’inferno riesco a indovinare un per­ dente). frase che insieme a un’altra celebre battuta, tratta da L’ultimo buscadero (Junior Bonner, Sam Peckinpah. 1972; American Broadca­

sting Company/Joe Wizan-Booth Gardner Productions/Solar Produc­ tions). «If this world’s all for the winners, what’s for the losers?» «Well, somebody’s got to hold the horses» («Se questo mondo è tutto per i vincitori, che cosa resta ai perdenti?» «Qualcuno deve pur tenere fermi i cavalli»), avrebbe potuto rappresentare integralmente lo spirito scora­

to con cui erano raffigurati questi antieroi senza prospettive né aspetta­ tive. Il personaggio più disilluso era probabilmente Robert Eroica Dupea (Jack Nicholson) in Cinque pezzifacili, figlio reietto e scorbutico di una famiglia benestante di eccentrici musicisti, completamente a disa­ gio nelle spire di una società in cui non si riconosce, insofferente verso ogni tipo di convenzione. Il suo comportamento, che l’avrebbe portato, esasperato, a tentare la fuga verso l’Alaska al termine del fìlm. era tutto

nella pedissequa ripetizionedi atti (l’enormedifficoltà di comunicazio­

ne. l’impassibilità davanti alla televisione, l’insofferenza verso l’insen-

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Storia e storie del cinema americano

salezza della compagna Rayette. il costante stato di angoscia dovuto all’assoluta mancanza di stimoli), scansioni quotidiane (lavoro, pausa serale, lavoro) e luoghi domestici (il letto, il divano, la soglia del pro­

prio appartamento). ta disillusione e il cinismo, sebbene più dolorosi, erano anche gli attributi de) successivo personaggio interpretato da Jack Nicholson per Bob Rafelson. Il re dei giardini di Marvin. All’interno di un gioco metananativo in cui la tragedia di due fratelli, David (Nichol­ son) e Jason Staebler (Bruce Dem), le cui tendenze erano sintomatiche di alcuni degli orientamenti più diffusi tra i trentenni del periodo, diven­ tava al termine della vicenda un radiodramma raccontato dalla voce di David, si attuava un aperto confronto tra lo stoico disincanto di David e l’onirismo smodato di Jason, convinto, in una visione iperbolica

dell’American Dream, che tutto fosse possibile con denaro e perseve­ ranza (la sua intenzione era di costruire una sorta di regno ideale in un’isola delle Hawaii edificando un albergo con casinò). L’ottica di­ staccata e la visione velleitaria rappresentavano i due volti opposti di un

medesimo scacco esistenziale, fondato sull’illusione e sulla mancanza di pragmatismo dei personaggi, che si muovevano in una società fred­ da, indifferente, spietata e famelica in tutte le sue manifestazioni, resti­

tuita magistralmente dalla fotografìa gelida, grigia, quasi paralizzata di I^szló Kovàcs, che dipingeva un’Atlantic City sospesa, fatta di toni cromatici spenti, palazzi bigi, passerella cinerea e un cielo perennemen­ te pallido. Nei film della Hollywood Renaissance sembrava che non esistesse nessuna possibilità che un atto volitivo, di qualunque natura,

arrivasse allo scopo, ta disfatta era lo sfondo che accomunava la gran­ de maggioranza dei personaggi, toccando ogni aspetto, dalla carica ero­ tica annacquata («Hai un aspetto quasi decente. Non si direbbe che sci

a corto di cartucce», diceva Bonnie a Clyde dopoché questi, in Gan­ gster Story, si era divincolato con imbarazzo dalla sua voluttuosa pre­

sa). alla rivolta anarchica, allegorica (Brewster McCloud in Anche gli uccelli uccidono si schiantava al suolo dopo aver costruito le protesi

alari con cui intendeva coronare Usuo sogno di volare) o disperata che fosse (l’automobilista Kowalski, pronto a lanciarsi a tutta velocità con­ tro i bulldozer che bloccavano la strada in Punto zero). Nessun perso­ naggio pareva essere inappuntabile, anche quelli ritenuti tradizional­ mente positivi (per logica di genere o per impostazione del racconto)

Nuove tendenze

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possedevano una piccola turba. un lie rivelatore, un'anomalia recondita che rivelava ladebolezza realistica dell’uomo sulla costruzione narrati­ va del personaggio. Popeye Doyle (Gene Hackman), ironicamente ru­

de. pronto all’azione, impegnato a sgominare l’organizzazione intema­ zionale di trafficanti di stupefacenti, era indubbiamente la figura su cui convergeva l’identificazione del pubblico ne II braccio violento della figge, eppure, nel pieno di un appostamento in un parcheggio per con­ trollare le mosse di Sal Boca, il contatto americano per gli spacciatori francesi, Doyle assecondava la sua insana passione feticista importu­ nando una donna di passaggio per chiederle informazioni sui suoi stiva­

li. Robert Altman, nel suo continuo ridefinire i limiti dei generi, tratteg­ giò il suo Philip Marlowe (Elliott Gould) ne 11 lungo addio non solo con

un’autoironia amara evidenziata attraverso il personale mantra del per­ sonaggio, «It’sOk with Me», ogni qualvolta questi si imbatteva in una situazione inconsueta, non pienamente comprensibile per i suoi para­ metri improvvisamente insufficienti, ma anche con un tedio esistenzia­

le che superava di gran lunga quello di qualunque suo trascurato prede­ cessore sullo schermo. lui sua presentazione, all’iniziodel film.avveni­ va mentre Marlowe era addormentato sul letto, vestito, indice di una

serata difficile, svegliato nel cuore della notte dalla sua gatta affamata che lo costringeva a uscire per comprarle del cibo adeguato. lui gatta di Marlowe, nelle mani di Altman, si trasformava nel simbolo della mar­ ginalità del personaggio, che si sarebbe trovato impegnato a risolvere un intricato caso e a fronteggiare un suo vecchio amico, servitosi di lui

per i suoi loschi scopi, parallelamente alla ricerca dell’animale, fuggito senza lasciare traccia. Il dialogo finale, a commento del colpo che il detective avrebbe sparato subito dopo all’ambiguo Teny I^ennox (Jim

Bouton), chiariva il legame emblematico con il felino: «Well that’s you, Marlowe. You’ll never leam, you’re a bom loser». «Yeah. 1 even lost my cab> (che nella versione italiana diventava «non questa volta!», per un riscatto apocrifo che ribaltava il significato originario). Allo stesso modo. Altman rileggeva il western negandone l’ipotesi eroica, facendo del protagonista ricomparì (McCabe & Mrs. Miller, 1971; David Foster Produclions/Wamer Bros), John McCabe (Warren Beatty), un inetto millantatore giunto in una comunità di minatori per

aprire un postribolo e vantare un passato da pistolero assolutamente

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Storia e storie del cinema americano

inventato con cui fregiarsi di una fama che non gli apparteneva, essen­ ziale però nella costruzione della leggenda di cui si era sempre nutrito il genere. Ix> scontro a fuoco Tinaie, immerso nella neve e vinto esclusi­

vamente in virtù di colpi fortunati e di altri sparali a bruciapelo, rappre­ sentava una delle pietre lombali che il western, giunto nella sua fase crepuscolare, metteva sulTintero genere, e rappresentava un’ulteriore conferma che nel cinema anni Settanta gli eroi erano un pallido ricordo

dell’età d’oro. L’alienazione, la frustrazione e l’inadeguatezza ebbero sviluppi più gravi e sfociarono in schizofrenia, in paranoia e in psicosi. Ne Lo spa­ ventapasseri (ScarecrowJerry Schatzberg. 1973: Warner Bros.). Fran­

cis Lion (Al Pacino) aveva il solo obiettivo di consegnare un regalo al

Tiglio che non aveva mai conosciuto perché aveva vagabondato per cin­ que anni. Giunto a Detroit, telefonava alla ex moglie, che gli comunica­

va con rabbia che il figlio non era mai nato, abortito a otto mesi dopo una caduta in casa, mentre le immagini mostravano il bambino sul pa­ vimento intento a giocare, ignaro della vendetta che si stava consuman­

do sulla sua esistenza. Lion perdeva improvvisamente il suo unico obiettivo in una vita fatta di un monotono peregrinare con il suo im­

provvisato amico Max (Gene Hackman) e la sua frustrazione affettiva si manifestava immediatamente, giocando con alcuni bambini nei pres­

si di una grande fontana. L’apparente serenità virava repentinamente in psicosi quando Lion abbrancava uno dei bambini inneggiando a Ixmg John Silver, portandolo sulle spalle al centro della fontana, tra le urla degli altri che lo pregavano di rimetterlo giù e la disperazione della madre spaventata, costringendo Max a strappargli il bambino dalle ma­ ni per riconsegnario alla madre e a cercare di calmare Lion, salito a cavallo di uno dei leoni della fontana. Lion veniva ricoverato e la dia­

gnosi, impietosa, era di schizofrenia. In Voglio la testa di Garcia (Bring me the Head ofAlfredo Garcia* Sam Peckinpah, 1974; lisludios Churubusco Azteca S.AVOplimus Films) la situazione si faceva ancora più oscura e clauslrofobica. per un incubo acido aperto che durante il decennio avrebbe avuto pochi egua­ li. Bennie (Warren Oates), abulico pianista in locali messicani di

quart’ordine, si metteva sulle tracce di tal Alfredo Garcia, playboy chi­

cane, su cui un ricco hacendado aveva posto una generosa taglia per­

Nuove tendenze

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ché responsabile della gravidanza della figlia. Bennie, olire al denaro, aveva un altro motivo per scovare Garcia, la vendetta personale, poiché la sua donna, filila (Isela Vega). aveva avuto con lui una fugace relazio­

ne. Alfredo era però morto in un incidente e Punico modo per conqui­

stare la taglia era di riesumare la salma nel paesino sperduto di cui era originario e decapitarlo, in modo da consegnare la sola testa come testi­ monianza della riuscita dell'impresa. Quello che avrebbe potuto essere il riscatto di Bennie diventava invece l'inizio della sua desolante disce­ sa verso il nulla: recuperato il corpo, gli veniva immediatamente sot­ tratto da altri due cacciatori di taglie, che lo tramortivano alle spalle e uccidevano filila. Riavutosi, riusciva a raggiungere i due, a eliminarli dopo un cruento scontro a fuoco e a recuperare la testa di Alfredo con­ servala dentro un sacco, con cui si metteva in viaggio per ottenere la taglia, fji catabasi à\ Bennie era un progressivo percorso nei meandri della follia allegorizzato dallo spostamento sulla strada: la preponde­ ranza delle inquadrature era all'intemo dell’abitacolo, sul dialogo a

senso unico con la testa nel sacco poggiata sul sedile del passeggero, sacco attorno al quale ronzavano sempre più mosche, a dispetto del ghiaccio che Bennie continuava a inserire per rallentare la decomposi­

zione. Una testa diventata unica interlocutrice della prostrazione dell'individuo, causa scatenante e testimone del suo fallimento: quello di Bennie era un colloquio che rivela un'impietosa messa a nudo della propria inconsistenza e che rispecchiava nell'assenza di Alfredo la sua prossima e inevitabile eclissi. Gli antieroi anni Settanta seguivano obiettivi minimali, talvolta illo­ gici, spesso lontani dai grandi valori checaratterizzavano i percorsi nar­ rativi degli eroi del cinema classico: un figlio da ritrovare dopo un di­

stacco di oltre un lustro, una taglia da intascare per ribaltare un'esisten­

za giù profondamente logorata rappresentavano il capovolgimento dei grandi impulsi morali che avevano animato i protagonisti classici, mos­ si non dall'egoismo e dalla disperazione, ma dall'amore disinteressato, dal desiderio di giustizia, dalla volontà di affermare la verità, dalla pro­ pensione alla conquista. L'erosione degli scopi e l'inerzia languida con cui i personaggi cercavano di raggiungerli diventò uno dei molivi della

narrazione del nuovo cinema americano. In Taxi Driver. Travis Bickle (Robert De Niro) giustificava la sua domanda di assunzione come tas-

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Storia e storie del cinema americano

sista con la volontà di ottimizzare la sua insonnia notturna e il suo stes­ so girare per le strade scintillanti di luci al neon di New York non era dettato dagli strani clienti che si susseguivano sulla sua vettura, quanto

da un vuoto girovagare che lo portava a osservare lo stato di abietta

corruzione che pareva essersi impadronito dei marciapiedi della città, lui sorella del vagabondo Max de Lo spaventapasseri rifletteva sull’im­ portanza di porsi uno scopo nella vita, mancanza di cui accusava il fra­ tello. destinato al perpetuo peregrinare senza costrutto. Consapevole di questo aspetto, la voce narrante di Travis osservava: «Io ho sempre sentito il bisogno di avere uno scopo nella vita, non credo che uno pos­ sa dedicarsi solo a se stesso, al proprio benessere. Secondo me uno deve cercare di avvicinarsi alle al tre persone». Travis cercava di dotarsi di un obiettivo avvicinando le persone e provando a dissolvere quella solitu­ dine che lo attanagliava. Ne avrebbe avvicinate diverse, rivelando un’alienazione talmente pressante da fargli smarrire il confine della li­ ceità delle azioni. Prima Betsy (Cybill Shepherd), impiegata nella cam­

pagna elettorale de) senatore Palantine.con cui l’abbozzo di conoscen­ za terminava quando Travis la conduceva a vedere un film pomografi­ co. in seguito il senatore Palantine. che accoglieva con entusiasmo sul

suo taxi, per poi minacciarne l’eliminazione fisica pianificandoun im­ probabile attentato. Da uno scopo all’altro, quasi senza soluzione di continuità, l’obiettivo di Travis diventava liberare dalla prostituzione la giovane Iris (Jodie Poster): improvvisamente, in un alto insieme impul­ sivo e preterintenzionale. Travis sparava al suo protettore Sport (Har­ vey Keitel), feriva alla mano l’albergatore e colpiva ripetutamente, alla testa e al petto, il cliente, prima di rimanere gravemente ferito a sua volta.

lui celebrazione susseguente di Travis (la gratitudine dei genitori di Iris, gli articoli sui giomali.il rispetto dei colleghi) rappresentava l’iro­ nico ribaltamento di una società che ha bisogno di scovare eroi ormai eclissali in cui identificarsi, ma anche il riconoscimento beffardo

dell’ostinazione con cui il protagonista si era dotato di uno scopo da perseguire. lui mancanza di un obiettivo preciso, di un fine determinato da rag­ giungere, frammentavae disperdeva in mille possibili rivoli la narrazio­

ne. lui Hollywood Renaissance contribuì a definire la sua natura anche

Nuove tendenze

361

in funzione di una modalità di racconto che pareva aver smarrito la sua consistenza d'azione rispetto al cinema di soli dieci anni prima. Se i valori morali cui si è accennato in precedenza si erano eclissati, modi­ ficando la loro assiologia in relazione alla gratuità e allo scoramento di

azioni non sempre facilmente definibili e riconoscibili come sostanziali punti di svolta, ciò derivava senza dubbio alcuno dalla natura di perso­ naggi più complessi, enigmatici e approfonditi rispetto alla sostanziale bidimensionalità esplicativa di molte figure del periodo classico. A ogni specifica azione di un personaggio non corrispondeva più un'al­ trettanto particolare conseguenza: il nuovo cinema americano (recupe­ rando in questo il terreno perduto rispetto al cinema europeo) aveva smarrito la causalità per concentrarsi sulla casualità e su passaggi di

stato spesso impalpabili, su svolte, un tempo decise, e ora solo parziali. Delle ronde notturne in macchina di Travis Bickle si è già detto, mentre

in Mean Streets prevalevano eventi trascurabili, poiché il racconto era dominato da una quotidianità di azioni sempre implose, mai espresse completamente, cui facevano da logico corollario lunghi dialoghi rit­

mati, caratterizzati da veementi botta e risposta. In Mean Streets pare­ vano non esserci snodi narrativi: Michael (Richard Romanus) cercava costantemente Johnny Boy (Robert De Niro) per recuperarci! suo debi­ to, Charlie (Haney Keitel) proteggeva lo stesso Johnny Boy cercando

di tenerlo fuori dai guai e intanto aveva una relazione con la cugina di quest'ultimo, Teresa (Amy Robinson), affetta da epilessia, rapporto al quale si opponeva lo zio ristoratore, che intendeva fargli aprire un suo ristorante dietro la promessa di non frequentare Johnny Boy per la sua pazzia e Teresa per la sua malattia. I personaggi e gli ambienti sbricio­ lavano l’importanza degli eventi e dei loro effetti, i dubbi, le paure, la riflessione e l’osservazione si trasformavano nelle peculiarità del com­

portamento dei nuovi personaggi mostrati sullo schermo. Assunse cen­ tralità lo sguardo (si pensi sempre a Travis durante! suoi giri notturni), i comportamenti persero di motivazioni fondanti (gli omicidi di Kit

Carruthers - Martin Sheen - in La rabbia giovane erano soltanto un attestato di esistenza al mondo, non seguivano una logica predetermina­ ta), gli stessi dialoghi smarrirono la loro consueta trasparenza per sug­ gerire un’enorme distanza tra le parti. In Città amara (J'at City, John Huston, 1972; Columbia/Rastar Pictures), ad esempio, i discorsi appo-

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Storia e storie del cinema americano

rivano sempre involuti, incapaci di generare informazioni utili alla comprensione della storia, noiosi e vuoti: il coach Ruben ripeteva ai suoi ragazzi, perennemente sconfìtti, parole consolatorie e paternalisti­ che. i dialoghi tra Tully (Stacey Keach), l’ex pugile che cercava fatico­

samente di tornare sul ring, e la sua compagna Orna (Susan Tyrrell) erano sempre viziati dalle loro sbronze, ripiegati costantemente sul pianto disperato e isterico di lei e generavano un’incomprensione pro­ fonda anche quando lui le chiedeva informazioni elementari come la bontà di una bistecca. Tutto ciò originava una profonda inerzia narrativa non basata sul

principio delle trasformazioni, quanto su quello del comportamento, della riflessione e dell’osservazione, gli elementi fondanti delle storie

narrate dal nuovo cinema. Si prenda, come esempio limite, la prima sequenza del già citato Lo spaventapasseri: un personaggio, che si sco­ prirà essere Max. giungeva dal fondo di un lieve declivio erboso, supe­ rava con difficoltà un recinto spinato osservato da Francis Lion, un altro

vagabondo, si piazzava sul ciglio di una strada che si perdeva in lonta­ nanza. I due personaggi si collocavano a distanza l’uno dall’altro, fino a quando Francis Lion decideva di attraversare la strada e porsi sul lato

opposto. Dal fondo della strada sopraggiungeva una camionetta, a cui Lion correva incontro. Correva anche Max. ma la camionetta sfrecciava senza fermarsi. Sfrecciava, fuoricampo, un’altra auto, suonava il clac­ son per evitare Max. che le urlava qualcosa contro. Max prendeva ap­ punti su) ciglio della strada, mentre Lion imitava dapprima le movenze

di un orango, poi simulava alcune telefonate scherzose. Max lo osser­ vava. tentava di accendere il sigaro, ma il suo accendino non funziona­ va. Lion abbandonava il suo lato della strada, gli si avvicinava, gli ac­

cendeva il sigaro: i due personaggi erano finalmente riuniti in un piano a due nella stessa inquadratura. Stacco. Erano sul retro di una camionet­ ta. Il film aveva mostrato i loro caratteri, l’imperturbabilità esperta di Max e la verve buffonesca di Lion, l’occasione fortuita del loro incon­

tro e introdotto il motivo fondante del proseguimento della storia. Era­ no trascorsi otto minuti dall’inizio del Film e lo studio dei comporta­ menti, l’osservazione attenta della relazione trai due protagonisti, i ten­ tativi falliti e quello riuscito di proseguirei! viaggiosi erano avvicenda­

li a scapito dall’azione e degli eventi. Quelli che una volta il cinema

Nuove tendenze

363

classico considerava «tempi morti» o semplicemente inessenziali nell’economia narrativa divennero ambiti d’interesse privilegiati per­ ché la struttura delle storie aveva mutato il suo equilibrio in funzione di campiture molto più ampie, entro le quali prendeva posto il personag­ gio come uomo, non più come ruolo, e l’osservazione della sua essenza, la ricchezza dei suoi comportamenti, l’attenzione alla relazione con i luoghi con cui interagiva. Va da sé che l’attenta analisi dell’uomo e del suo dramma individua­ le o delle sue difficoltà all’interno di una collettività in cui non era più possibile riconoscersi portava ineluttabilmente a una trasformazione

degli esiti finali della storia. Un fìnalepositivo sarebbe apparso terribil­ mente posticcio dopo aver illustrato le caratteristiche di un’autentica

crisi in atto. I dissidi non si colmavano, semmai s’inasprivano nella consapevolezza di una lotta impari con la società, le istituzioni, la scis­

sione della propria individualità. lui New Hollywood iniziò a contem­ plare rimpossibilitàdel consueto happy ending con cui l’industria ricu­ civa gli strappi drammatici sviluppati nelle pellicole: se la morte violen­ ta di Clyde Barrow e Bonnie Parker nel frammentatissimo finale di Gangster Story poteva ancora, sforzandosi, essere letta come un tardo

rituale di riaffermare l’ordine su una legalità infranta a più riprese, cer­ to non c’era la possibilità di recepire allo stesso modo il finale di Easy Rider in cui i due motociclisti, dopo una seconda parte ambientata nel

profondo Sud in cui erano vittime di ogni genere di sopruso, venivano gratuitamente trucidati da due bifolchi (e malgrado in qualche sala del­

lo stesso profondo Sud ritratto nel film qualcuno avesse applaudito con soddisfazione di fronte al proditorio assassinio). A quel punto, i finali tragici si susseguirono. Ia macchina da presa arretrava, riprendendo frontal­ mente il palco conio striscione per Walker.su cui campeggiava, enor­ me e beffarda, la bandiera americana. Ix> spettacolo continuava, imper­ territo, a dispetto di lutto. 1^ immagini di una società pronta a serrare le spire sui cittadini che a vario titolo non si conformavano alle sue norme autoritarie si susse­ guivano sugli schermi del nuovo cinema americano. Con una frequenza tale che il rischio era che diventasse stereotipo. Ne La città verrà di­ strutta all’alba (The Crazies, George A. Romero. 1973; Pittsburgh Films) la follia omicida di una comunità in Pennsylvania causata da un vaccino sperimentale era contrastata dall’esercito con ogni mezzo limi­ tante la libertà dei cittadini, fino all’cr/rrma ratio di simulare un inci­

dente nucleare con cui eliminare il problema alla radice (rinverdendo,

in questo modo, un incubo atomico già presente nel cinema americano una decina di anni prima con A prova di errore di Sidney Lumet. Sette giorni a maggio di John Frankenheimer e // dottor Stranamore di Stan­ ley Kubrick, curiosamente lutti prodotti nel 1964). In corsa con il dia­ volo (Race with the Devil, Jack Starrett, 1975; Saber Productions), pur costretto inuna logica di genere, era un soffocante fìlmdi viaggio incui

la minaccia incombente su due coppie di amici arrivava da una setta di satanisti che pareva essersi ramificata in ogni comunità incontrata lun-

IA) specchio dei tempi

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go la strada. \nSugarland Express, l’immensa scia di autodella polizia, formata da oltre cento unità, che scortavai coniugi Poplin fino a Sugarland, Texas, a casa della famiglia cui era stato affidato il loro figlio. Baby (kingston, forniva già in partenza te disillusione per un’impresa

impossibile che sarebbe terminata in un’inevitabile tragedia. Il principio metaforico valeva anche nella rappresentazione di ciò che non poteva essere mostralo direttamente, perché considerato un trauma ancora fresco, non ancora elaborato nella coscienza critica dell’intero paese e del pubblico cui si rivolgeva. Impossibile, tuttavia, osservare lacrudeltà ferina con cui i cavalleggeri del generale Custer si

accanivano sui Cheyenne inerti in Piccolo grande uomo, in una replica in sedicesimo del vile attacco del fiume Washita del 1868, oppure sof­

fermarsi sull’esibizione sanguinaria di Soldato blu (Soldier Blue, Ralph Nelson, 1970; A VCO Embassy Pictures/Katzka-ljoeb), profilando l’al­

trettanto efferata strage del Sand Creek nel 1864, e non far conere il pensiero alle carneficine contemporanee perpetrate dall’esercito ameri­ cano in Vietnam, prima fra tutti quella del villaggio di My l-ai. alla

quale, per ammissione dello stesso Ralph Nelson. Soldato blu faceva preciso riferimento. In una revisione profonda della storia e della leg­

genda americane in atto nel western, il pellerossa si trasformava nel civile vietnamita vittima di un’ennesima sporca guerra di cui, perlome­ no fino alte sua fine, sugli schermi americani si videro solo i riflessi. Eccettuato il reazionario Berretti verdi (The Green Berets, Ray Kel­ logg. John Wayne. 1968: Batjac Productions) e qualche pellicola inno­ cua che utilizzava il Vietnam in modo strumentale rispetto alle proprie esigenze, ad esempio, in Ciao America (Greetings, Brian De Palma, 1968: West End Films) il Vietnam era soltanto un altro degli ambienti

in cui il wyvurùmodel protagonista Jon Rubin (Robert DeNiro) entra­ va in cortocircuito, i due grandi film sul conflitto arrivarono ben oltre gli accordi di pace di Parigi (gennaio 1973) e il conseguente ritiro delle truppe americane. Il cacciatore (The Deer Hunter, Michael Cimino, 1978; EMI Films/Universai)e Apocalypse Now (id., Francis Ford Cop­ pola, 1979; ZoetropeStudios) erano due viaggi da incubo all’interno di una realtà totalmente alterata, tragicamente ossessiva, nel primo caso, e lisergicamente paranoica, nel secondo, che non potevano essere rappre­

sentali senza rischi durante lo svolgimento di una guerra già duramente

378

Storia e storie del cinema americano

contrastala in patria. Il cinema americano nei primi anni Settanta operò un'effettiva rimozione dallo schermo del confi ilio e, per metonimia, ne assunse esclusivamente il suo riflesso attraverso la figura dei reduci,

tema che aveva giù caratterizzato, come abbiamo visto, alcune produ­

zioni nella seconda meta degli anni Quaranta. Se il problema dei reduci nel passato era la loro ricol locazione in un mondo che malgrado il loro sacrificio li considerava ormai estranei, quello dei nuovi reduci era una psicosi alienante trasformatasi, una volta terminata la guerra, in critica aperta a un conflitto insensato che aveva immolato inutilmente un’inte­ ra generazione, lui denuncia era rivolta al forzato meccanismo di so­ praffazione del potere, alla sua responsabilità nell’origine di una follia allucinata diventata quasi proverbiale nella rappresentazione. Il Travis

Bickle di Taxi Driver era un reduce la cui scossa morale giustizialista, alla perenne ricerca di uno scopo cui ambire per rendere meno vuota e solitaria la propria vita, aveva un’origine oscura, forse derivante pro­ prio dall'esperienza passata che tuttavia il fìlm non approfondiva. Non

sempre i risultati erano artisticamente validi o illuminanti sul piano so­ ciologico. ma la proliferazione delle pellicole sull'argomento segnalava una tendenza opposta rispetto al la cancellazione operala sulla messa in

scena del conflitto. In My Old's Man Place (Edwin Sherin. 1971 ; Philip A. Waxman Productions Inc.), tre reduci dal recente passato traumati­ co. ognuno dei quali con un carattere tratteggiato sommariamente ma dalle peculiarità complementari rispetto agli altri due (un militarista violento, un debole, un patriota deluso), provocavano nella tranquilla

dimora familiare di uno dei ire una serie di crudeltà crescenti fino a commettere un omicidio, Le mele marce (Open Season, Peter Collin­ son. 1974; Arpa Productions/lmpala). una coproduzione intemazionale, raccontando di una caccia all’uomo da parie di alcuni reduci affermava

la sostanziale equivalenza tra stato di guerra e consorziocivile in coloro che erano tornati dal campo di battaglia nel Sudest asiatico. Più volutamente ambigui e sfumati erano invece i personaggi di / visitatori (The Visitors, Elia Kazan. 1972; Home free), un film che Kazan girò in fa­ miglia (sceneggiatura del figlio Chris) con un budget irrisorio e un’at­ trezzatura leggera a 16 mm. Due reduci giungevano a casa di un terzo. Bill (James Woods), ma il taglio e la costruzione particolare delle in­

quadrature non preludevano a una visita di cortesia tra vecchi commili-

Lo specchio dei tempi

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Ioni quanto a generare un'inquietudine che si sarebbe manifestata nell’immediato conl’esplicitazione del vero motivo della visita, la ven­ detta dei due nei confronti dell’altro, colpevole di averli denunciati per

atrocità nei confronti di una ragazza vietnamita, catturata come prigio­ niera, seviziata a ripetizione e poi freddata con un colpo di fucile. Il gioco delle relazioni tra i personaggi, complicatedalla presenza del ve­ ro padrone di casa, il suocero del delatore, uno scrittore di western di

grande successo che simpatizzava subito con i due nuovi arrivati, in contrasto con il genero che reputava imbelle e pavido, l’isolamento del­ la casa di montagna immersa nella neve, gli sguardi enigmatici, sempre indefinibili con certezza all’interno di un ventaglio di eventualità che andava dalla minaccia alla vacuità alienata, rendevano il film uno scavo

drammatico in un unico luogo abitato da personalità insondabili in prossimità di una tragedia procrastinata all’infinito. Il momento culmi­ nante delle relazioni tra i personaggi, avvenuto dopo un confronto tra il responsabile dell’uccisione della ragazza, Mike (Steve Railsback), e la

moglie di Bill, nel corsodel quale il ragazzo urlava tutta la sua rabbiosa disperazione per gli orrori vissuti in prima persona e per l’incapacità di distinguere veramente chi fosse il nemico, poneva Kazan in una posi­

zione equidistante tra la facile accusa alla barbarie della guerra e il pie­ tismo nei confronti dei soldati vittime di una scelta politica a loro estra­ nea. lui successiva resa dei conti tra Mike e Bill, con un pestaggio effe­ rato che s’interrompeva a un passo dal drammatico epilogo, e l’atteg­ giamento ambiguo della moglie, sensuale nei confronti di Mike che poi

l’avrebbe violentata, diventavano altri segni di una realtà non definibile con certezza, criticamente aleatoria, storicamente incerta. // cacciatore rappresentava una caduta negli abissi dell’abiezione più lancinante, un’autentica condanna a ripetere coattivamente il trau­ ma vissuto durante la guerra. Tra gli amici di origine ucraina partiti per il fronte asiatico, il solo Michael sarebbe tornato a casa senza alcun apparente problema, mentre Steven (John Savage), congedato a causa

di gravi ferite che lo avrebbero costretto sulla sedia a rotelle, entrava in una profonda depressione per le esperienze vissute durante la prigio­ nia. Nick (Christopher Walken) viveva, di contro, una situazione limite

in un limbo di orrore protratto all’infinito: vittima di una nevrosi trau­ matica di freudiana memoria. Nick avrebbe stimolato fino al tragico

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Storia e storie del cinema americano

annullamento la sua pulsione di morte, reiterando il mortifero gioco della roulette russa mostrato nell’interminabile e claustrofobica se­ quenza della prigionia. Un istinto suicida che avrebbe caratterizzato,

nello stesso anno, anche il capitano Bob Hyde (Brace Dem)di Tornan­ do a casa (Coming Home, Hal Ashby. 1978; Jerome Hellman Produc-

tions/Jayne Productions Inc.), protagonista nel finale di una simbolica spoliazione su una spiaggia californiana con la quale si liberava delia

divisa con gradi e recenti decorazioni (per un colpo infettasi acciden­ talmente) per tuffarsi nel mare ed essere sommerso dalle onde dell’oce­ ano. Tornando a casa era organizzato come un canonico percorso di progressiva consapevolezza concentrato sul personaggio di Sally Hyde (Jane Konda), la moglie di Bob. e strutturato su tre livelli, interagenti

tra loro con arditi montaggi alternati legati insieme da canzoni rock. Sally, partito il marito per il Vietnam e iniziato un periodo di volonta­

riato in una clinica per reduci, si confrontava con la sofferenza dei pa­ zienti tramite la conoscenza con Luke Martin (Jon Voight), suo ex compagno di scuola, dal passato molta brillante. L’attività di Sally, intrapresa per occupare il tempo libero, la portava a conoscere il dram­ ma di chi è tornato, disilluso e ferito, nello spirito e nel fisico, lui cre­

scente vicinanza con Luke la spingeva anche a innamorarsi di lui. in un rapporto intimo che era soprattutto un viaggio di scoperta, un’esplora­

zione. che Ashby illustrava esclusivamente attraverso i particolari dei corpi, delle mani che si toccavano e che esaminavano, delle porzioni che entravano in sensuale contatto. Il triplice livello simultaneo era

invece il modo che Ashby aveva di rappresentare la tragedia per mezzo di facce differenti e complementari dello stesso dramma. Il primo mo­ mento era finalizzato al suicidio di Bill (Robert Carradine), uno dei ragazzi ricoverati nella clinica, la cui crisi crescente, seguita al suono

compulsivo di una chitarra, terminava con l’iniettarsi in vena dell’aria che metteva fine alla sua alterazione euforica costante e innaturale. Im­ magini che si alternavano a quelle di Sally e Bob, riunitisi a Hong Kong per una breve licenza del marito, in cui questi raccontava scon­ solato gli orrori della guerra visti in prima persona, e a una serie che mostrava Luke intento ad avvalersi dei servigi di una prostituta, il tutto commentato con ritmi sempre più avvolgenti da Simpathyfor the Devil

dei Rolling Stones. L’altra drammatica triplice simultaneità era il sui-

Lo specchio dei tempi

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cidio finale di Bob, indicativamente connesso a una conferenza pacifi­ sta tenuta da Luke a un uditorio studentesco e all’ingresso della moglie Sally in un supermarket sulla cui porta il cartello Out ne nascondeva per un attimo il volto, alludendo alla fine del marito, mentre la voce di

Tim Buckley tristemente recitava «Once I was a soldier/And I fought on foreign sands for you (...) Will You Remember Me», affidando la scomparsa alle tracce della memoria.

16.1.3 La deriva reazionaria

Un aspetto particolare di questa proliferazione di violenza sugli scher­ mi nacque da un’osservazione preoccupata delle statistiche criminali

delle città. A un allarme generico avvertito da una fetta considerevole della popolazione, una parte dell’industria hollywoodiana reagì tentan­

do di assecondare l’aspirazione alla sicurezza di un target urbano mid­ dle class, riportando a) centro della narrazione l’individualismo eroico già protagonista del cinema classico. L’eroe, risoluto perché sollecitato,

spietato a causa di un universo corrotto, solitario per vocazione e tradi­ zione narrativa, si situava in posizione intermedia tra il crimine e le

istituzioni, combattendo il primo per l’inadeguatezza delle seconde, troppo predenti o eccessivamente frenate dai loro fondamenti burocra­ tici. In questa prospettiva, i due più importanti personaggi del decennio, Harry Callaghan di Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo (Dirty Harry, Don Siegei, 1971; Malpaso CompanyAVamer Bros.) e Paul

Kersey de II giustiziere della notte (Death Wish, Michael Winner. 1974; Dino De luiurentiis Compony/Paramount). pur giungendo all’azione da due situazioni differenti (poliziotto il primo, privato cittadino stanco di patire supinamente soprusi il secondo), condividevano entrambi questa

equidistanza che altro non era se non un appunto polemico. Callaghan (Clini liastwood) era detto dai suoi stessi colleghi Harry «la carogna» (Dirty Harry) pervia dei suoi modi sbrigativi, tendenti a raggiungere il risultato con freddo e intraprendente cinismo, convintoche l’azione va­ lida fosse connotata da determinazione e tempismo e non da riflessione e cautela. Callaghan era inserito nei quadri della polizia di San Franci­

sco (non a caso, vista la sua fama di città progressista, culla del movi­

mento hippy e dei diritti degli omosessuali), ma la sua caratterizzazione

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Storia e storie del cinema americano

ne faceva un anarchico giustizialista, non una pedina di un sistema da lui considerato statico e inefficace. L’istituzione era considerata un av­ versario almeno quanto la criminalità era il nemico da abbattere: i toni utilizzati contro il sindaco, nelle fasi iniziali del film, erano sprezzanti,

improntati a un’impazienza che era il sintomo della sua smania di agire senza attendere i tempi dilatati e deleteri della burocrazia. Successiva­ mente, gli strali di Callaghan si rivolgevano verso il procuratore Ro­

thko, che lo accusava di aver forzato le procedure, introducendosi nel domicilio dell'accusato (il maniaco Scorpio) per catturarlo ma senza aver provatola sua colpevolezza, puressendoin presenza di una vittima innocente. Giunti a quel punto, la narrazione forzava i limiti della defi­ nizione del criminale, addebitandogli un crescendo di nefandezze tali

da auspicare anche nello spettatore più garantista una punizione brutale e definitiva che ne rendesse catartica la fine. Scorpio si faceva picchiare

a sangue da un uomo di colore per poi addebitare la colpa a Callaghan, massacrava e rapinava un negoziante, si fìngeva un ispettore scolastico, s'impossessava di uno scuolabus e prendeva gli allievi come prigionie­ ri per malmenarli e terrorizzarli. Messo in fuga da Callaghan, prendeva infine in ostaggio e teneva sotto tiro un bambino che stava pescando serenamente: gli atti dell'assassino innescavano, di fatto, un meccani­ smo perverso che puntava a giustificare, invocandola come una libera­

zione, la successiva fine, sperando che fosse la più tremenda possibile. Callaghan, già legittimato dal carisma di Clint Eastwood e dall'effica­ cia della sua azione all'interno del racconto, eliminava Scorpio con un gioco sadico già utilizzato all'inizio del film con valenza di anticipazio­ ne. di espi Citazione preventiva della personalità del criminale e di in­ termezzo faceto rispetto alla gravità che sarebbe seguita: il colpo spara­

to da Callaghan chiedendo a Scorpio di indovinare se la pistola fosse ancora carica non era più la dimostrazione del suo disprezzo verso la criminalità dimostrata in precedenza, quanto l'incarnazione del deside­ rio di vendetta che con lui aveva assimilato tutto il pubblico. Con in più una chiosa finale: il lancio sdegnato nel fiume della stella del diparti­ mento di polizia, a ribadire il suo distacco dalla burocrazia inetta e in­ concludente. lx> stesso intimo funzionamento regolava l'opera di Paul Kersey (Charles Bronson) ne II giustiziere della notte, di cui il film

raccontava l'intimo e sofferto ravvedimento che Io avrebbe portato a

La specchio dei tempi

383

trasformarsi, da stimalo ingegnere attento alle problematiche sociali e ai diritti dei più deboli, in un vendicatore notturno capace di incidere sensibilmente sulle statistiche della delinquenza newyorchese. Attra­

verso una narrazione basata apertamente sul confronto (tra prima e do­

po Tassassimo della moglie, tra paradiso vacanziero einfemo cittadino) e sulla resa plastica volutamente deformata degli spazi newyorchesi e della fauna che vi si muove(dopo la sequenza del funerale della moglie il contesto urbano era reso con un grandedispiego di obiettivi grandan­ golari). il fìlm illustrava una necessità, non tanto una vocazione: di fronte al dilagare della delinquenza e all’indulgenza del sistema giudi­

ziario (indicativamente, il primo uomo ucciso da Jersey, un tossicodi­ pendente che lo aveva aggredito nel parco di Riverside, era stato scar­ cerato quasi due anni prima dei termini previsti), il cittadino era obbli­ gato a riscoprire le radici pionieristiche della nazione, quelle del perio­

do in cui non esistevano ancora legge e ordine, armarsi personalmente e difendere se stesso dalla criminalità sempre più minacciosa per la propria incolumità. Ne II giustiziere della notte il problema andava ol­ tre l'equilibrio sociale, fondandosi sul principio dell'autodifesa, della legittimità di ogni individuo di garantirsi il diritto alla sicurezza e alla

serenità. Un cittadino portato allo stremo, sempre diffidente rispetto all'utilità delle forze dell’ordine - in un periodo in cui lo stesso cinema americano denunciava la sua corruzione intema, si veda, come esempio particolarmente riuscito. Serpico (id., Sidney Lumet, 1973; Artists En­ tertainment Complex/Produzioni De I ^urentiis International Manufac­

turing Company), bisognoso di affermare se stesso in relazione ai prin­ cipi inderogabili del rispetto dell'individuo e della proprietà, fì proprio quest'ultimo aspetto che in Cane di paglia (Straw Dogs, Sam Peckin­ pah, 1971; ABC Pictures/Talent Associales/Amerbroco) accendeva

l'istinto di conservazione, di se stessi e del proprio spazio intimo, di David Sumner (Dustin Hoffman), matematico americano approdato in un villaggio inglese di cui era originaria la capricciosa moglie. Sumner,

deriso in più occasioni per la sua origine e per la sua mitezza, s'incen­ diava solo quando i protervi campagnoli tentavano di introdursi in casa sua per prelevare con la forza Henry Niles (David Warner), lo scemo del villaggio colpevole di aver ucciso accidentalmente una ragazza che

lo provocava. Se l'opposizione di Sumner al linciaggio poteva essere

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Storia e storie del cinema americano

intesa come la volontà americana di affermare i principi base della ci­ viltà democratica (David avrebbe voluto evitare di consegnare Niles alla folla imbestialita, resa belluina dall’alcool.nondi affidarioalla po­ lizia affinché fosse giudicato), più oscuro appariva il motivo scatenante della sua ferocia. Sumner, che aveva tollerato tutta una serie di provo­ cazioni, compresa quelle ai danni dell’ambigua moglie Amy (Susan George), esplodeva, infatti, in un primitivismo aggressivo e implacabi­

le solo nel momento in cui il gruppo dei campagnoli minacciava l’inter­ no del suo cottage, tentando di violare il suo spazio intimo, la sua pro­ prietà. (ira tale violazione a risvegliare l’istinto bestiale di Sumner, an­ tropologicamente regredito allo stato ferino per difendere i suoi diritti acquisiti, altraversocui si rifletteva, inevitabilmente, la sua stessa liber­

tà. li ben più complessa (oltre che strumentale) appariva questa trasfor­ mazione in individui come Paul Kersey,un ingegnere, e David Sumner,

un matematico, individui per definizione razionali, civilizzati dagli stu­ di, educati alla tolleranza, ben lontani dal Joe Curran (Peter Boyle) de La guerra del cittadino Joe, un operaio volgare e livoroso il cui razzi­

smo qualunquista,preludio all’esplosione di una violenza Tinaie tragica e beffarda contro hippy e tutti gli individui considerati parassiti della

società, rendeva in qualche modo ipotizzabile la sua deriva brutale. Ta­ li pellicolemoslravano l’erosione della distanza tra il piano della ragio­ ne e quello della barbarie, giustificandone la trasformazione in funzione dello spirito del tempo ed esortando a ritrovare le virtù che avevano garantito d’instaurare il diritto e l’ordine come presupposti per la nasci­

ta della nazione.

Ì6.1.4 // ritorno della paranoia Che fossero tempi percepiti come oscuri era ribadito anche dalle pellico­ le concepite all’intemo di un’ideologia diametralmente opposta. I>e cir­ costanze maidei tutto chiarite dell’omicidio Kennedy, le zone d’ombra circa il repentino arresto di l>ee Oswald, ucciso da Jack Ruby ancor pri­ ma che si facesse la necessaria chiarezza sull’accaduto, erano eventi drammatici che per la prima volta obbligavano la popolazione america­

na a pensare a una sinistra e impalpabile minaccia intema, dopo anni in cui il nemico contro il quale convogliare timore e odio aveva fattezze e

Lo specchio dei tempi

385

un'ideologia ben definite. Eventi che in qualchemodo giacevano sospe­ si in tracce di consapevolezza inconfessate: solo un mese prima del romi­ cidio di Kennedy a Dallas, era uscito sugli schermi americani Va * e uc­ cidi (The Manchurian Candidate* John Frankenheimer, 1962; M.C.

Productions), vicenda dalle inquietanti affinità che raccontava la storia di un veterano della guerra di Corea, Raymond Shaw (laurence Har­ vey), plagiato dai comunisti cinesi per uccidere il candidato presidente e permettere che un agente fidato s'insediasse alla Casa Bianca per perse­ guire una politica anticapitalista e illiberale. All'inizio degli anni Settan­ ta, questa pressante sensazione si era radicata maggiormente, anche alla luce di altri casi misteriosi che segnarono cronache e coscienze come l'assassinio del fratello di JFK. Bobby, avvenuto nel giugno del 1968 dopo la vittoria delle primarie democratiche, o il Watergate, lo scandalo di spionaggio che coinvolse il Partito Repubblicano e che portò alle di­

missioni del presidente Nixon nel 1974, ben due anni dopo l'esplosione del caso. Un ampio fronte oscuro che implicava con sempre maggiore

convinzione l'emergere di un fantasma interno, materializzatosi dietro

ipotetiche cospirazioni in alto tra grappi di potere, lobbies o servizi de­ viati per ridefmire assetti politici e sociali della nazione, assumendone i

benefìci e acquisendo un potere maggiore a scapito dei cittadini ignari e inermi. Utilizzando il pretesto della cronaca, alcune pellicole insistettero su alcuni temi e immagini particolari, privilegiandone soprattutto due, l'omicidio politico e l'intercettazione ambientale. Azione esecutiva (Executive Action* David Miller, 1973; Wakeford/Orloff), adottando

una prima bozza di sceneggiatura di Donald Freed e Mark l-ane, esperto di teorie complottale e autore di diversi volumi sull'omicidio Kennedy e sui risultati della commissione Wanen che vi indagò, bozza poi rivista

e corretta sul piano spettacolare da Dalton Trumbo, forni la sua versione sulla grande ferita che non riusciva a rimarginarsi, mostrando l'organiz­ zazione dell'attentato di Dallas come una spy story piuttosto statica che coinvolgeva servizi segreti deviati, membri dell'alta finanza e politici

reazionari. L'assassinio di Kennedy, in questa prospettiva, diventava soltanto la singola fase di un disegno più ampio e allarmante che preve­ deva di limitare la gente nera e asiatica, sempre più affamata e predispo­

sta alla proliferazione, progettando scientemente una diminuzione della popolazione mondiale attraverso le guerre, per prima quella del Vie­

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Storia e storie del cinema americano

tnam. e anche una riduzione del numero degli abitanti degli Stati Uniti, eliminando le minoranze etniche, in modo che i benefici di questo dise­ gno si potessero riflettere sulle nazioni più ricche e sulle classi alte della nazione americana. Una riorganizzazione fascista delle strutture sociali che riguardava anche la visione proposta in Un uomo oggi di Rosenberg, uno spaccato di un’America reazionaria, razzista. interessata a mantene­ re loj/a/uj i/uodi una popolazione di diseredati caratterizzata da bambi­

ni abbandonati, travestiti, donne emarginate, freaks senza scolarizzazio­ ne né coscienza sociale, incastonata nel suo squallore urbano di case fatiscenti e sudice. L’immagine della nazione fornita da Rosenberg era

un circolo vizioso in cui la propaganda conservatrice veicolata attraver­ so i microfoni di una radio aveva la stessa origine finanziaria di un’in­ chiesta sulla previdenza sociale tra gli indigenti di colore della periferia di New Orleans. Tutto appariva fìsso, immutabile, senza speranza di

miglioramento perché attraverso il controllo totale delfiniera scala so­ ciale il potere economico avrebbe conservato intatta la sua influenza. E in questa visione post apocalittica, di un’apocalissi avvenuta senza trau­ mi. anche la visione che Rosenberg dava delle forze progressiste era fortemente critica a causa della loro profonda incapxità a leggere il re­

ale se non con cinismo inattivo o per mezzo di sacrifìci improduttivi. 1 due personaggi protagonisti. Rheinhardt (Paul Newman), disincantato vagabondo diventato l’annunciatore della radio reazionaria WUSA per sbarcare il lunario,e Rainey (Anthony Perkins), idealistache intendeva fomite un’autentica testimonianza delle condizioni disagiatedella popo­

lazione nera grazie a un’indagine di cui ignorava i committenti, erano le due anime sotto scacco di un’opposizione inadatta, apatica e utopica, pronta all’ennesima fuga (Rheinhardt) o all’azione titanica e sterile (esemplificata dall’azione di Rainey.il quale, una volta scoperta la vera

natura della sua inchiesta, tentava di uccidere il principale finanziatore, fallendo l’obiettivo). Un’ottica claustrofobica, inesorabilmente chiusa con modalità erme­ tiche, come sarebbe risultato evidente anche in Perchè un assassinio (The Parallax View. Alan J. Pakula, 1974; Doubleday Productions/

Gus/Ilarbor Productions), in cui anche la struttura stessa del film rical­ cava questa soffocante impressione. Il film, dopo la prima sequenza

dell’attentato contro il senatore Charles Carroll nello Space Needle di

Lo specchio dei tempi

387

Seattle, su cui si sarebbero fondate le indagini del giornalista Joseph Frady (Warren Beatty), si apriva e si chiudeva indicativamente in modo ciclico, mostrando in un'inquadratura dal taglio simmetrico, fortemente

chiaroscurata, la stessa commissione d'inchiesta schierata al banco con i simboli degli Stati Uniti e della giustizia alle sue spalle, pronta a co­ municare la sua indiscutibile versione ufficiale degli intrighi che carat­ terizzavano la vicenda. Al marcato movimento di macchina verso la commissione dell’inquadratura iniziale seguiva, nell'ultima inquadra­ tura, un movimento speculare della macchina da presa che si allontana­ va dal banco della commissione fino a giungere alla distanza da cui il

piano era partito nelle sequenze iniziali del fìlm. l^a commissione, sot­ tolineando la natura di comunicato e non di conferenza stampa (e quin­ di l'indiscutibilità delle sue affermazioni), dichiarava che l'omicidio del candidato al senato George I lammond era stato opera del solo Jose­

ph Frady, ossessionato dall'idea che Hammond avesse ucciso Carroll, scongiurando cosi l'ipotesi del complotto, come la stampa aveva irre­

sponsabilmente speculato, lui verità ufficiale si chiudeva ciclicamente su se stessa, salvando gli equilibri dello Stato e cancellando con un colpo di spugna la realtà dei fatti: Frady, esortato da una giornalista a

occuparsi del caso del senatore Carroll e delle morti misteriose che si erano succedute tra i testimoni diretti dell'omicidio, scopriva resisten­

za di un’organizzazione segreta, la Parallax, specializzata in assassini! politici realizzati per riassestare gli equilibri di potere. Ne entrava a far parte sotto falso nome e intanto allertava il direttore del suo giornale a riaprire il caso dopo tre anni di dichiarazioni e depistaggi. smentite e minacce. Ma Frady era solo una pedina scomoda, facilmente rimovibile nonostante la sua abilità, e la sua missione di indagatore della verità era utilizzata sardonicamente dall'organizzazione per occultatela sua stes­

sa esistenza: Frady era ucciso da una sagoma scura dopo essere stato testimone passivo dell'assassinio di Hammond, passando da vittima di un sistema corrotto a copertura di quello stesso sistema che si illudeva di rivelarne denunciare. Pakula illustrò l'affiliazione alla Parallax come una praticadi lavaggio del cervello: una serie di immagini banali, tratte da riviste patinate oda reportage di cronaca, divise in insiemi tematici (amore, madre, padre, io. felicità, patria. Dio. nemico.casa) titolati con

carattere bianco su sfondo nero, investivano il soggetto con l'accompa-

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Storia e storie del cinema americano

giramento di una musica serena che progressivamente diventava sem­ pre più incalzante, in relazione al montaggio sempre più velocedei vari fotogrammi. Immagini che gradualmente si sovrapponevano, esulando

dagli insiemi che erano loro propri per approdare in altri (inserendo, ad esempio, scene drammatiche nell'insieme «felicità») e smarrendo i confini netti proposti nella fase iniziale. In questa sequenza, della dura­ ta di oltre quattro minuti e mezzo, era utilizzato lo stesso principio

drammatico visto in Arancia meccanica (X Clockwork Orange. Stanley Kubrick, 1971; Warner BrosJHawk Films) nella «cura Ludovico» cui veniva costretto il personaggio di Alex (Malcolm McDowell).mentre il principio percettivo sfruttato era identico alla creazione dei modelli ge­ nerativi di I lollis Frampton in Zoms Lemma ( 1970). in questo caso im­ piegati perinstillare una serie di contraddittori principi individuali. Nel­ la creazione narrativa di una paranoia cospirativa. Pakula criticava ide­

ologicamente anche l’universo preconfezionato delle immagini e l’illu­ sione della loro funzione persuasiva nell’ambito di una società del be­ nessere attratta dai simulacri.dall’eleganza della bella forma e dalla sua diretta assunzione come indice dei valori riconosciuti dalla collettività. Ira suggestione imposta ai membri dell’organizzazione segreta, da que­ sto punto di vista, non era quindi cosi distante da tutta una serie di mo­ delli di riferimento adottati dalla nazione, in uno sconcertante paralleli­

smo che sottoponeva il pubblico a una visione in soggettiva dell’indot­ trinamento. come se il soggetto fertileda plagiare, infine, fosse il singo­

lo spettatore. L’idea di una società del benessere che spingeva sempre più in alto l’asticella dei bisogni era un’idea che aleggiava come spettro nella so­ cietà americana degli anni Settanta, anche come lontana eco della crisi petrolifera del 1973. che per gli Stati Uniti fu meno grave che nei paesi europei, viste le risorse esistenti nel proprio sottosuolo, ma che indub­ biamente suscitò una riflessione sulla sostenibilità di un perpetuo sfrut­ tamento delle energie disponibili. E proprio questo era il motivo per i

loschi disegni della CIA ne / tre giorni del condor (Three Days ofthe Condor. Sidney Pollack. 1975: Dino De Iraurentiis Company/Paramount/Tom Ward Enterprises): esperimenti di invasione del Medio Oriente per garantirsi il petrolio, perché, come assicurava il vicediretto­

re dell’Agenzia Higgins (Cliff Robertson), il problema dell’energia in

Lo specchio dà tempi

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futuro si sarebbe trasformalo in quello del cibo e della sopravvivenza stessa dell’umanità, più che mai esclusivamente interessata al raggiun­ gimento dello scopo, non alla sua giustificazione etica. Il film di Pol­

lack. narrando di una guerra interna a)l’organizzazione e della conse­

guente carneficina in una delle sue sezioni occulte, forniva anche l’im­ magine più chiara de) crescente sgretolamento delle certezze che molti thriller del decennio prospettavano. Diceva infatti il freddo Joubert (Max von Sydow)al fuggitivo Turner (Robert Redford), sopravvissuto alla strage e per questo braccato per chiudere definitivamente i conti, prima di porgergli una pistola qualora si fosse presentata l’eventualità: «li ti può anche capitare... che te ne vai a passeggio. Magari, è la prima bella giornata di primavera. E una macchina si mette al tuo fianco. lisi apre lo sportello e qualcuno che tu conosci e di cui forse ti fidi, sguscia dalla macchina, e ti viene incontro sorridendo. Un bel sorriso amiche­

vole. Ma ha lasciato aperto lo sportello della macchina e ti domanda... se può darti un passaggio».

Il Watergate aveva indubbiamente turbatole coscienze di milioni di americani, ma curiosamente, nessuno dei film che insistevano sulle in­ tercettazioni era direttamente ispirato alla più importante vicenda di cronaca politica della prima metà degli anni Settanta. Solo Tutti gli uo­ mini del presidente (All the President's Men, Alan J. Pakula. 1976:

Warner BrosJWildwood) era fondato sull’inchiesta giornalistica di Carl Bernstein (Dustin Hoffman) e Bob Woodward (Robert Redford) del «Washington Post» che fece esplodere il caso, mentre né Una squil­ lo per l’ispettoreKlute (Klute, Alan J. Pakula. 1971: Warner BrosJGus

Productions), che presentava un registratore in funzione come prima inquadratura (e nei titoli di testa) di un’indagine incentrala sulle imba­ razzanti frequentazioni di alcuni importanti dirigenti, né Rapina record a New York (The Anderson Tapes, Sidney I^umet, 197l;Columbia/Ro-

bert M. Weitman Productions), nel quale la stretta sorveglianzaacustica della polizia era finalizzata a impedire un colossale furto in un lussuoso

condominio, potevano trarre spunto da un caso che sarebbe esploso sol­ tanto l’anno successivo, e nemmeno La conversazione, che pure era del 1974. Il film di Coppola era un’esplorazione nei meandri della delazio­ ne e dei suoi imprevisti effetti, vissuta nell’inconciliabilità tra l’osses­

sione per la registrazione e il conseguente senso di colpa, dovuto a

390

Storia e storie del cinema americano

un’assunzione parziale della realtà globale. Hany Caul era un intercet­ tatone, un detective esperto in sorveglianza e spionaggio grazie alle sue sofisticate attrezzature in grado di captare frammenti di vite altrui. No­ nostante le apparenze, il Watergaie era evocato accidentalmente, poiché il soggetto del film era stato approntato nei suoi caratteri essenziali già nel 1967, ispirato a un articolo su un esperto del suono. Il riferimento fu inserito successivamente (quando Harry alza il volume della televisione

per coprire i rumori dell’assassinio nella stanza d’albergo attigua, si sente accennare in una trasmissione alla situazione di Nixon), per caval­ care lo scandalo e fame un film d’attualità, quando in realtà la precorre­

va, cosi come gli altri due film citati, che si limitavano a riflettere lo spirito dei tempi, ta paranoia dell’intercettazione era un fantasma in­ conscio pronto a prendere forma e far scaturire tutte le sue più nefaste conseguenze sociali e politiche. Harry Caul, non diversamente dal foto­

grafo Thomas di Blow Up dì Michelangelo Antonioni (1966), desume­ va la realtà attraverso i mezzi a disposizione per ricostruire un caso di tradimento sentimentale, salvo poi scoprire che le sue attrezzature gli avevano restituito una verità limitata, contraddittoria, e che un fram­ mento di frase captato, «He’d kill us if he got the chance»,lui ci uccide­

rebbe se potesse, decontestualizzato, sottratto al flusso continuo di un dialogo inframmezzato dai rumori d’ambiente e registrato tra i disturbi

di una costante sintonizzazione dei microfoni direzionali, offriva un in­ dizio inquietante ma tutt’allro che certo riguardo alla prospettiva con cui interpretarlo. Il dramma di Harry nasceva dall’incapacità di inserire le tessere al posto giustoe di leggere la ricostruzione della realtà al di là della sua apparenza, l-a sanzione era quella di vivere un eterno ribalta­ mento al quale si abbandonava dopo un ultimo disperato sussulto: gli

amanti che aveva pedinato e intercettato si dimostravano gli aggressori, non le vittime, la sua maniacale prudenza veniva meno e dopo una not­ te passata in compagnia gli venivano sottratti i nastri che non voleva più consegnare al committente. Infine, da inlercettalore diventava intercet­ tato: cercava di trovare la trasmittente nascosta nella sua abitazione, ma pur devastando la casa non trovava nulla. L’ultima inquadratura del film, una Panoramica più volte ondulante da un lato all’altro della sua casa che mostrava i pavimenti divelti, la carta da parali strappata e Har­

ry in un angolo a suonare ipnoticamente il suo sax. era si l’immagine

Lo specchiodd tempi

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riassuntiva di una sconfitta esistenziale, ma soprattutto l’emblema di una stasi ossessiva che non poteva trovare risposte possibili.

16.1.5 Chi è l’altro?

lui paura generalizzata, l’esplosione di una violenza incontrollata, il ti­ more di una cospirazione intema, l’impossibilità di definire con certez­

za i valori manichei su cui la società americana (e il suo cinema) si era sempre fondata avevano finito con l’erodereogni tipo di certezza indi­ viduale. Ciò che veniva a mancare, ora che anche i timori derivanti dalla guerra fredda sembravano momentaneamente accantonati in fun­ zione di alcuni interrogativi interni, era la percezione di sé nei confron­

ti dell’altro, soprattutto se quest’auro non aveva contorni ben definiti, ma diventava un concetto generalizzabile e tendenzialmente astratto, come il problema della sicurezza personale, del razzismo, del confor­ mismo, dell’esasperato nazionalismo oppure del rispetto delle garanzie

democratiche. Gli Stati Uniti, più di altre volte,erano precipitati in una

rovinosa crisi d’identità che spesso veniva narrata, anche se non sempre in modo diretto, dal nuovo cinema. Già Easy Rider s’interrogava sulla

deriva in cui era sprofondato il paese attraverso il suo viaggio allegori­ co in un’America trasformatasi da Grande Madre a prostituta con cui i due bikers intrattenevano un conflitto edipico di attrazione per ciò che era e di repulsione rispetto all’immagine intollerantee violenta che ave­ vano scoperto a loro spese. Ma lo smarrimento appariva generalizzato.

Investiva l’ideologia e la collocazione dell’individuo nella società: in L'impossibilità di essere normale, il già citato Harry Bailey era un re­ duce del Vietnam che tentava di ultimare gli esami prima della laurea. Pur simpatizzando con gli studenti contestatori, e godendo della loro stima in virtù del suo innato carisma. Harry intendeva integrarsi nel si­ stema per poterlo modificare dall’interno, diventando, dopo la laurea, un insegnante delle scuole medie. Separato dai contestatori, di cui non condivideva alcuni eccessi, e lontano dalla mentalità e dalle consuetu­ dini borghesi dei suoi insegnanti, ai quali era tuttavia legatoria esigenze di collaborazionee remunerazione, vedeva franare anche la sfera senti­

mentale, dati i continui litigi con la sua fidanzata, Jan, con cui mostrava

una pretestuosa divergenza di vedute su ogni argomento, dalla protesta

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Storia e storie del cinema americano

studentesca al desiderio della ragazza di farsi una famiglia. Ma il diso­ rientamento poteva riguardare anche la politica e il suo ruolo: ne // can­ didato (The Candidate, Michael Ritchie. 1972: Redford-Ritchie Pro­ ductions). subito dopo aver vinto le elezioni californiane al Senato e aver coronato con successo un'impegnativa campagna elettorale che lo dava inizialmente come sfavorito. Bill McKay (Robert Redford) era inchiodalo da un Primo Piano attonito mentre il padre lo richiamava,

felicitandosi, alle sue nuove responsabilità di uomo politico. «Bora che cosa facciamo?» era l’unica cosa che riusciva a chiedere al suo spin doctor Marvin Lucas (Peter Boyle) nella stanza d’albergo prima che questa fosse invasa dai sostenitori festanti e dai giornalisti. Ma il film, coerentemente con l’impossibilità di trovare certezze, non forniva la

riposta: McKay non capiva la replica di Lucas per il frastuono chesi stava abbattendo nella stanza, la stessa voce di Bill calava d’intensità coperta dal rumore, evidenziando l’inutilità di una reale comprensione e di una risposta, una volta raggiunto l’obiettivo.

In alcune occasioni, la crisi d’identità si allegorizzava nel racconto di una schizofrenia in alto per mettere a nudo le nevrosi dell’uomo con­ temporaneo. le sue paure, il profondo dissidio che conduceva alla di­

struzione di se stessi O degli altri. In Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me? (Who /s Harry Kellerman and Why Is He Saying Those Terrible Things About Me?, Ulu Grosbard. 1971 ; Cinema Center

Films), il musicista di successo George Soloway (Dustin Hoffman) si sentiva perseguitato da un misterioso personaggio. Hany Kellerman, che altro non era se non la proiezione psicotica di se stesso. In Chi è l'altro? (The Other, Robert Mulligan. 1972; Benchmark/Rem/20th Century-Fox) un bambinodi nove anni. Niles Perry (Chris Udvamoky). scindeva la sua personalità malvagia come effetto di un grande trauma

patito, attribuendo le nefandezze da lui compiute al suo gemello Hol­ land. morto cadendo in un pozzo qualche tempo prima. lì perfino uno dei grandi blockbuster della Hollywood Renaissance, Lo squalo (Jaws, Steven Spielberg. 1975; Zanuck-Brown Productions/

Universal), scavando sotto l’angosciante spettacolarità del confronto tra uomo e natura, si preoccupava principalmente di mostrare la lotta contro un nemico misterioso, inatteso, proveniente da un elemento

estraneo e impenetrabile, che nell’eccezionaiità costringeva l’individuo

Lo specchio dei tempi

393

a mostrare la sua vera natura. Il filtro de) film d’azione nascondeva un discorso sul l’America e sulla sua paura dell’estraneo, come affermava la folla degli abitanti dell’isola, raccolta sul pontilea guardatela cattura di un piccolo squalo, insistendo con fastidio su una dialettica internoesterno nei confronti dei turisti provenienti dalla città. Dopo alcune av­ visaglie, l’attacco dello squalo avveniva indicativamente il 4 luglio, festa nazionale, giorno nel quale i maggiorenti della cittadina balneare

di Amity Island si premuravano di raccomandarsi con il capo della po­ lizia. Brody (Roy Scheider), affinché evitasse di creare il panico con allarmismi reputati ingiustificati e dannosi perii grande avvio della sta­ gione turistica. Qual era la vera natura dell’America a confronto con l’imponderabile rappresentato dalla minaccia marina? Quella che guar­

dava con sospetto l’allro-da-sé? Quella che anteponeva il profitto alla sicurezza dei suoi abitanti, come avevano già suggerito alcune delle altre pellicole citate in precedenza? Non a caso, lo squalo veniva poi affrontato in mare aperto da Brody, immagine dell’onestà inserita in un

contesto istituzionale discutibile, da Hooper (Richard Dreyfuss), ocea­ nografo emblema della passione disinteressata, e da Quint (Robert Shaw), reduce del Secondo conflitto bellico e indispensabile uomo

d’azione. Altrettanto significativamente, al cruento scontro finale sa­ rebbero sopravvissuti solo Brody e Hooper, l’integrità e la dedizione,

mentre Quint, che avrebbe confessato il suo passato oscuro (faceva par­ te dell’equipaggio della nave Indianapolis, affondata dai giapponesi dopo aver consegnato parti necessarie all’assemblaggio della bomba atomica di Hiroshima), sarebbe stato il necessario sacrificio sull’altare dell’allegoria per garantire un futuro sereno nella sua natura di reden­ zione. Ma a scapito di chi? Chi rappresentava realmente lo squalo? Sol­ tanto un ideale minaccioso intomo al quale coagulare una nuova traspa­ rente unità per la nazione? Probabilmente, però, la metafora più complessa sulla crisi d’identità americana fu quella proposta da Friedkin ne L’esorcista, tratto dal ro­ manzo di William Peter Blatty. Apparentemente un horror campione d’incassi, diventato proverbiale e ricordato negli anni a seguire per al­ cune sequenze sconvolgenti, citate a più riprese dai cultori del genere e dagli animi particolarmente sconvolti dalla metamorfosi demoniaca

della piccola Regan (Linda Blair), volto verde tumefatto, eloquio scafo­

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Storia e storie del cinema americano

logico, capo molante e corpo sussultante. Oltre alla magistrale angoscia suscitata, che portava il cinema horror a un livello di sostenibilità mai toccato in precedenza in virtù anche dell'allargamento dei limiti del visibile cui si accennava in precedenza. L’esorcista rappresentava una

grande immagine traslata dello smarrimento della nazione di fronte a) rischio della perdita del senso del sacro. Il film era sintomaticamente ambientalo a Washington D.C.. quartiere di Georgetown, luogo in cui la

madre di Regan, Chris (lìllen Burstyn), attrice, stava girando un film sulla contestazione giovanile (nel romanzo il fìlm era un remake musi­ cale di Mr. Smith va a Washington in cui era inserita una scena di con­ testazione, ma nel fìlm il rifacimento di Capra non era menzionato). Nella capitale, ogni personaggio non appariva per quello che era: Chris

nel fìlm recitava una parte, in un ruolo che, per sua stessa ammissione, le era estraneo perché non comprendeva fino in fondo la logica della messa in scena: era madre affettuosa ma spesso assente, oltre che mo­ glie di un marito da cui era formalmente separata. Padre Damian Kanas

(Jason Miller) si trovava in una profonda crisi spirituale, convinto com'era di star perdendo la sua fede. In lui convìvevano due anime in­ conciliabili: gesuita, ma contemporaneamente psichiatra. Quest'ultimo aspetto era talmente preponderante che era inizialmente scettico a rico­ noscere in Regan i segni della possessione demoniaca, invitando la ma­

dre, che gli si era rivolta, a considerare l'ipotesi della scissione della personalità. Padre Kanas aveva un altro fantasma che lo agitava, il sen­ so di colpa per aver ricoverato l'anziana madre in una struttura ospeda­ liera e non essere stato presente al momento della sua morte, avvenuta in solitudine. Regan,dopo la possessione di Pazuzu, passa da dodicenne dal volto sereno e sorridentea maschera agghiacciante segnata da occhi

colmi di odio ferino e da un incarnato turgido segnato da profondi sol­ chi sanguinolenti. All'interno della metafora, cosi come sarebbe acca­ duto con Zx?sgua/o.ma con caratteristiche più circoscrivibili, il demone che rendeva Regan ossessa era la sublimazione di una serie di paure

inconsce proprie dello Zeitgeist americano nel cui vuoto si inserivano le mancanze dei personaggi e il loro diffìcile percorso di assunzione di una nuova consapevolezza. Attraverso la passione, come Chris, o per mezzo del sacrifìcio supremo che lo avrebbe riportato nefì'ambito della fede,

come padre Karras. Al termine del film, Regan tornava a una diffìcile

Lo specchio dà tempi

395

normalità, sguardo frusto e portamento sfibrato, ignara di tutto ciò che le era successo: le paure inconsce materializzatesi in un particolare mo­ mento storico e sociale si dissipavano, lasciando un segno indelebile su chi ne aveva vissuto in tutta la loro furiosa intensità l’enorme portata.

Ì6.1.6 Donne, razzismo, nativi Una parie del cinema americano anni Settanta fu influenzato da una congiuntura particolare che interessò il nascente movimento di difesa dei diritti delle donne, che proprio all’inizio del decennio cominciò una

profonda meditazione sulla marginalità dell’elemento femminile all’in­ terno della società.denunciandone le strutture da sempre rette dall’uo­ mo. e la riflessione su alcuni criteri della rappresentazione che avevano caratterizzato il cinema nella sua fase classica. Alcune di queste rifles­ sioni. particolarmente pungenti, interessarono un nugolo di battagliere studiose (Maijorie Rosen. Joan Mellen, Molly Haskell. Pam Cook,

Claire Johnston, Inaura Mulvey), la cui attenta analisi fu racchiusa

nell’etichetta Feminist Fiìm Theory. Ciò che emergeva dai loro contri­ buti era una posizione particolare della figura femminile vista da sem­

pre al cinema, personaggi bidimensionali che difettavano in caratteriz­ zazione oppure semplici ruoli simbolici che si esprimevano in una logi­

ca ancillare rispetto all’uomo. Ad esempio oggetti del desiderio, ma incapaci fondamentalmente di provarne in proprio e tanto meno di lot­ tare per soddisfarli: oppure immagini di stabilità nel confronto con il nomadismo incarnato dall’uomo, come nel cinema di John Ford, oppu­ re ancora, emblema di un’elegante quanto decorativa fascinazione che aveva tuttavia nell’uomo il motore principale attraversocui si sviluppa­

va il racconto, come nei film di Alfred Hitchcock. liccettuate le opere di due tra le poche registe donne realizzate durante il periodo classico del cinema americano. Dorothy Arzner e Ida Lupino, la posizione della quale, in molti dei film a cui aveva partecipato come attrice, non era

molto dissimile da quella descritta dalle saggiste femministe, il cinema americano era una forma di comunicazione essenzial mente pa/narca/e, fatta dagli uomini per un pubblico pensato come esclusivamente ma­ schile. Se nei film della Arzner, ad esempio ne La falena d'argento (Christopher Strong. 1933: RKO) le dinamiche del desiderio femminile

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Storia e storie del cinema americano

proposte apparivano in qualche modo eversive rispetto al cinema con­ temporaneo. e in quelli della Lupino si passava senza soluzione di con­ tinuità da un punto di vista essenzialmente femminile (in La grande nebbia [The Bigamist, 1953; The Filmakers]) a pellicole di genere

dalPimpianto tradizionale che difficilmente sarebbero sembrate realiz­ zate da una donna (La belva dell’autostrada [The Hitch-Hiker, 1953; RKO/The Filmakers]), il resto della produzione di Hollywood rispon­

deva alle esigenze di un target maschile, bisognoso di identificarsi in eroi interpretati da uomini e soddisfatto nel ravvisare come obiettivo passionale e voyeuristico i personaggi femminili. I-e esponenti della Feminist Film Theory non negavano il protagonismo della donna in molte pellicole del cinema classico, ma ne denunciavano lo sguardo

essenzialmente maschile (e talvolta maschilista) che le osservava pro­ ponendole per un pubblico, seppur diversificato, appartenente a una

sola dominante di genere. Nei primi anni Settanta il numero di registe non era certo aumentato, ma un tipo di differente sensibilità sembrava essere comparsa sugli schermi, seppur a macchia di leopardo. Non si trattava di una tendenza univoca e nemmeno molto frequentata, perù alcuni lavori si sofferma­

rono più di altri sulla condizione femminile. Non tomo a casa stasera di Francis Ford Coppola, narrando deirimprovvisa crisi di una donna. Natalie Ravenna (Shirley Knight), causata dalla sua inattesa gravidan­ za. assumeva una profondità psicologica di matrice europea per descri­ vere minuziosamente la fuga del personaggio dalle sue responsabilità di madre e moglie, convinta della propria inadeguatezza. Coppola inseriva il percorso di Natalie nel filone del Road Movie poco tempo dopo l’esempio di Easy Rider, e il tragitto compiuto dalla donna diventava

essenziale nella scoperta degli aspetti nascosti del suo carattere, soprat­ tutto nel rapporto di attrazione e repulsione con un ingenuo ragazzone. Jimmy «Killer» Kilgannon (James Caan), ex giocatore di football infor­ tunatosi gravemente: nel rapporto tragico e contraddittorio tra i due. a metà tra la relazione sentimentale e il legame tra madre e figlio. Natalie sarebbe riuscita a completare il suo tragitto intimo e ad accettare il suo nuovo ruolo di madree di moglie. Sulla strada, in fuga da una dispera­

zione scorata e senza via d’uscita, si trovava anche la protagonista del film eponimo Wanda (1970; Foundation for Filmakers/Televenlures),

Lo specchio dei tempi

397

unico lungometraggio dell’attrice Barbara Loden, moglie di Elia Ka­ zan. Attraverso inquadrature sgranate (girate in 16 mm e in seguito «gonfiate» a 35)e uno stileimprowisato da cinemadiretto, il film illu­

strava una vicenda di disperata emarginazione, in cui una donna senza futuro (interpretala dalla stessa Ixxlen), in fuga dalla famiglia e dai fi­ gli, si orientava verso una serie di scelte compiute senza una reale vo­ lontà, illudendosi, per un istante, di aver trovato il riscatto in un piccolo

criminale che la coinvolgeva, pur disinteressandosene, nelle sue male­ fatte. Un ritratto che si faceva avvilente: il periodo delle scorribande si trasformava in una breve e vana parentesi per Wanda, che a causa della morte dell’uomo durante una rapina in banca, era costretta a riprendere la sua vita fondala su compagnie occasionali e spesso violente, tra alco­

ol e sigarette, in una ripetizione infinita che assumeva il sapore dell’eter­ na sospensione. Altro spaccato di femminilità, questa volta urbana, era quello narrato da Erank Perry in Diario di una casalinga inquieta (Diary ofa Mad Housewife. 1970: Frank Perry Films Inc.), ritratto di una donna (Carrie

Snodgrass) e della sua grigiavita domestica, falla di richiami e osserva­ zioni maldestre del marito, avvocalo la cui ambizione era di far parte

dell’alta società e di avere una moglie all’altezza del ruolo cui aspirava, di lavori in casa (indicativi i titoli di testa che con montaggio molto

frammentato mostravano la donna in continuo movimento nell’abita­ zione, intenta a svolgere tulle le varie faccende) e di un amante scrittore che pareva una fuga possibile e invece si sarebbe dimostrato solo un’al­ tra faccia di quel maschilismo megalomane e arrogante contro il quale si era sempre scontrata. Dramma domestico ribadito, filtralo in ambien­ te proletario e osservato con un’aderenza proverbiale ai corpi e ai volti dei personaggi, da Una moglie (A Woman Under the Influences. John Cassavetes, 1974; Faces), nel quale la ripetizione degli stessi alti quoti­ diani. la volontà di compiacere in ogni occasione il marito (Peter Falk). la frustrazione per un lavoro mai gratificante avrebbero originato un

cortocircuito a causa del quale Mabel (Gene Rowlands) si sarebbe am­ malata di un forte esaurimento nervoso, sottraendo la sua presenza in casa ed evidenziando, forse, l’importanza del suo ruolo. Una visione che si sarebbe ampliata per fornire uno spaccato quasi

onnicomprensivo della condizione femminile in/4//ce non abita più qui

398

Storia e storie del cinema americano

{Alice Doesn't Uve Here Anymore. Martin Scorsese. 1974; Warner

Bros.), nel quale le componenti dell’aspirazione personale, la sua mor­ tificazione dovuta a una vita familiare insoddisfacente, la ricerca di un

nuovo inizio possibile, i luoghi comuni retrivi e il raggiungimento della

felicità come maturo compromesso entravano in stretta relazione per definire una situazione tipo, paradigmatica di molte altre. Il rapporto di Alice (Ellen Burstyn)con il marito nel ménage domestico non era mol­

lo differente daquanto mostralo in precedenza dalle altre pellicole sullo stesso argomento: un uomo indifferente, pretestuoso, che utilizzava il comportamento indisponente del figlio per colpevolizzare la moglie,

che dal canto suo faceva di tutto per compiacerlo, con lo scopo di assi­ curarsi una pacifica, anche se demoralizzante, convivenza. Una situa­ zione soffocante su cui Scorsese poneva l’accento con l’uso di riprese in continuità, impiegando una camera a mano e un obiettivo a focale

corta che, al contempo, dilatava gli spazi domestici rendendole figure in scena ingombranti. Alla morte del marito. Alice partiva per inseguire

il suo sogno, quello di trasferirsi a Monterey per diventare una cantante, come l’incipit del film, proposto in un virato rossastro che citava il mondo fatato di Oz, introduceva ironicamente, visto che l’atmosfera fiabesca in cui l’Alice di otto anni prometteva a se stessa il futuro rag­ giungimento dell’obiettivo era rotta dalle uria furiose della madre che prometteva di batterla se non si fosse affrettata a raggiungere la casa. L’ambizione e la sua frustrazione avrebbero segnato quindi anche i ten­ tativi di ricominciare su nuove basi, dovendosi scontrare con una men­ talità che pretendeva la donna come un oggetto del desiderio a uso esclusivamente maschile: giunta in un locale per un provino come can­ tante, il padrone le chiedeva di girarsi per sondare le sue forme, causan­

do la sua indignazione; Pio (Diane tadd), collega nel locale di Mei in cui trovava lavoro come cameriera, le consigliava di allargare la scolla­ tura del camice per ollenere più mance dai clienti. Anche il tentativo di abbandonarsi a un nuovo rapporto seguiva percorsi irti di difficoltà e ostacoli, dovuti principalmente a falsi simulacri di affetto scambiati per totale affidabilità, con l’aggravante della drammatica scoperta di essere considerata alla stregua di una proprietà privata, gestita per mezzo della

minaccia. Alice trovava finalmente una strada possibile alla sua realiz­ zazione affettiva nel momento in cui si rendeva conto che la felicità

IA) specchio dei tempi

399

poteva arrivare anche attraverso la logica dell’incontro. dietro la pro­ messa di un uomo comprensivo (David/Kris Kristofferson), non privo di asperità di carattere, ma desideroso di condividere con Alice e con il Tiglio la sua vita, permettendole di seguire le sue aspirazioni e ricono­

scendone la piena dignità di donna. Per un rapporto che non richiedeva compiacenza e ansia di conservare precari equilibri, che non si sarebbe nutrito di paure e di volontà di prevaricazione, ma solo di una logica di

compromesso incui le due parti si sarebbero congiunte a metà strada (e indicativamente ciò avveniva al centro della tavola calda di Mei. dove David si era recato per fartela proposta), riconoscendo ognuno le lecite

prerogative dell’altro. Quelli appena citati, tuttavia, erano soltanto alcuni esempi particolar­ mente sensibili rispetto alla condizione femminile. Il grosso della pro­ duzione continuava a vedere la donna, sebbene con una profondità di descrizione talvolta più ambigua e complessa, in modi non molto diffe­ renti rispetto a un tempo. li se la differenza si rendeva evidente, spesso

era dovuto a un allargamento della liceità di rappresentazione, che alle forme una volta solo suadenti e allusive ora aggiungeva anche la possi­ bilità di mostrare la pienezza del corpo e delle sue manifestazioni eroti­

che. Questa tendenza fu certamente favorita dall’inaspettato successo di due film. Hard Core. Gola profonda (Deep Throat. Gerard Damiano. 1972; Gerard Damiano Film Productions) e Devii in Miss Jones (Ge­ rard Damiano. 1973; Piene Productions), che cominciarono ad attirare un pubblico di classe media, solitamente indifferente o inibito verso i prodotti bollati senza troppi convenevoli come pomografici, l^ due pellicole, girate con pochi mezzi e costate poche migliaia di dollari, presentavano strutture narrative pretestuose, costruite sommariamente

con l’unico scopo di condurre all’esplicitazione dell’atto sessuale, visto attraverso un filtro ironico, ma certamente mostrato in tutta la sua pre­ gnanza. con dovizia di particolari anatomici e di reazioni sonoramente enfatiche. L’interesse e la curiosità, l’istinto pruriginoso che colpiva anche coloro che non si addentravano nelle sale incui i film erano pro­ iettati. oltreche un controllo meno ossessivo della censura dopo il defi­ nitivo tramonto del Codice Hays (il nuovo responsabile posto a capo

dell’ufficio nel 1966. Jack Valenti, sostituì il famigerato Codice con un sistema di classificazione più fluido, il cui divieto assoluto ai minori di

400

Storia e storie del cinema americano

18 anni era contraddistinto dalla lettera X). permisero, e in qualche mo­ do incoraggiarono, anche alle normali produzioni di mostrare ciò che solo pochi anni prima era formalmente impedito. Dapprima il nuovo

cinema americano ebbe un atteggiamento guardingo, quasi pudico

nell’attraversamento di una soglia comunque rischiosa per gli equilibri che sollecitava. Un'immagine che sarebbe potuta essere allegorizzata perfettamente nell'iniziale atteggiamento passivo di Ben Braddock ne Il laureato, nella sua mano a conca piazzata sul seno della volitiva Mrs.

Robinson, incapacedi andare olire, bisognosodi una spinlae del neces­ sario apprendistato. Nello stesso film, infatti, nonostante tuttala carica erotica sprigionata e malgrado qualche inquadratura evocativa del pote­ re manipolalorio della donna (come il piano in cui Ben. sullo sfondo del

piano, appare contornato dalla gamba inguainatain una calza di nylon della signora), tutto ciò che de) corpo femminile era mostrato veniva

proposto come flash quasi subliminali, visti da Ben inbrevissimi quadri di un capezzolo che alludeva per sineddoche alTintero corpo nudo di Mrs. Robinson, spogliatasi improvvisamente. Gli artifìci per significare illustrando solo parzialmente costellarono gran parte della Hollywood Renaissance’, in Uomo da marciapiede, il rapporto sessuale tra Joe Buck e la cliente Clara, dopo un approccio in cui s'intravedevano i cor­ pi nudi intenti a saltare sul letto inquadrati dall'alto e il successivo bra­

moso agguantarsi, metaforizzava l'amplesso attraverso il cambio dei canali azionato dal telecomando collocato sul letto che i due schiaccia­ vano inavvertitamente. Un cambio di canale sempre più veloce, fino all'indicativa immagine di un tris alla j/or machine dalla cui bocca fuo­ riuscivano una gran quantità di monete. Così come, sei anni dopo, coe­ rentemente con il tono della pellicola, ne / tre giorni del condor, l'ap­

proccio notturno tra il fuggitivo Turner e l'ostaggio Kathy era evocato dai loro piani a due impegnati voluttuosamente a baciarsi inframmezza­ ti dalle foto in bianco e nero scattate da Kathy e appese alle pareti, raf­ figuranti paesaggi autunnali, tendenzialmente vuoti e mesti. Più esplici­ ti furono altri momenti, cometa fellatio di Gloria allo speaker Rocky in Non si uccidono così anche i cavalli?, avvenuta fuoricampo, ma defini­ ta attraverso le fasi preliminari di inginocchiamento visto attraverso

l'ombra sul corpo dell'uomo e un lento movimento di macchina sul

Primo Piano della donna, ocome il disturbante tentativo di banalizza­

Lo specchio dei tempi

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zione di Lion da parte del suo compagno di prigionia Jack Riley (Ri­ chard Lynch) ne Lo spaventapasseri, visto attraverso un piano fisso sulla pressione esercitata da Riley sulla nuca di Lion, chiuso in un an­

golo e costretto a praticare un blowJob al quale opponeva tutta la sua

disperata resistenza. Probabilmente Io strappo nella rappresentazione del sesso nel nuovo cinema americano fu quello esercitato da Cono­ scenza carnale, nel quale i titoli di testa assumevano il ruolo di manife­ sto programmatico attraverso le due voci dei protagonisti. Jonathan e Sandy, intenti a raccontare le loro contraddittorie vicende erotico-sentimentali che avrebbero rappresentato il motore di una narrazione lungo

due decenni. l>e loro parole (un esibito maschilismo nella manifestazio­ ne dei desideri e nel rapporto con le donne, le ardite narrazioni dei com­ portamenti delle ragazze di loro conoscenza e delle singole parti del corpo scatenanti il desiderio) si materializzavano su uno sfondo com­

pletamente nero su cui correvano i caratteri rossi dei titoli e la mancan­ za delle immagini, oltre a forzare l’attenzione del pubblico sul dialogo intrattenuto, forniva la chiave di lettura e il metro attraverso cui assu­

mere un discorso che avrebbe caratterizzato le relazioni dei personaggi con l’altro sesso per tutto il resto del film. In un cinema in cui spiccava l’intento critico e la volontà di analizza­ re approfonditamente le contraddizioni della realtà come quello propo­

sto dalla New Hollywood, che posto occupava la questione razziale? Insisteva l’analisi di un problema che andasse oltre i semplici imbarazzi da commedia sociale nella quale una famiglia liberal conosceva con estrema sorpresa durante una cena il promesso sposo di colore della propria amata e unica figlia, come mostrato in Indovina chi viene a ce­ na? (Guess Who's Coming to Dinner, Stanley Kramer, 1967; Colum­ bia)? Sul pregiudizio allignante ne) profondo Sud degli Stati Uniti (pre­

cisamente a Sparta. Mississippi, ma situazione certo generalizzabile) e sul rapporto di conoscenza reciproca tra un bianco del luogo e un nero di Philadelphia si basava, con il suo impianto poliziesco La calda notte dell'ispettore Tibbs (In the Heat of the Night, Norman Jewison. 1967;

'rhe Mirisch Corporation). Un omicidio, un nero accusato soltanto per il fatto di essere di colore, benché si trattasse di un detective del Nord,

in città esclusivamente per prendere un treno. Il racconto intrecciava il classico impianto poliziesco con uno studio dei due caratteri, soprattut-

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Storia e storie del cinema americano

lo quello di Gillespie (Rod Steiger), rude capo della polizia locale, one­ sto ma colmo di preconcetti, la cui laboriosa presa di coscienza incon­ trava la perizia e l’integrità del detective Tibbs, capace di condurre le indagini con abilità e competenza, riuscendo a correggere gli errori de­ gli agenti locali e mostrando la sua superiorità in campo investigativo fino alla soluzione Tinaie. I^a stretta di mano conclusiva tra Gillespie e il detective Tibbs alla partenza di quest’ultimo giungeva al termine di

un rapporto che nel fìtto dialogare di battute razziste trovava il punto più allodi interesse (ad esempio: « Virgil, è un nome bullo per un negro che vive a Philadelphia. Come ti chiamano lassù?», «Ijissù mi chiama­ no signor Tibbs!...»), ma che. contemporaneamente, appariva troppo dipendente dalle logiche hollywoodiane tradizionali, in cui le criticità venivano riassorbite in un finale apertamente conciliatorio. L’ipotesi di integrazione, pur in una veste ironica, appariva più fic­

cante in una commedia come II padrone di casa {The Landlord. Hai Ashby. 1970; Cartier Productions/The Mirisch Corporation), in cui un

giovane bianco acquistava un palazzo a Park Slope, un quartiere di Bro­

oklyn completamente abitato da neri con i quali doveva necessariamen­ te interagire, dando vita a una dialettica tra l’elemento bianco e quello di colore che conduceva a un punto di estrema sintesi, quando il prota­ gonista. Elgar (Beau Bridges), dopo una fugace storia con una donna afroamericana fidanzata a un rivoluzionario, si trovava ad accettare l’inaspettata paternità di un bambino mulatto, che avrebbe cresciuto con la sua fidanzala, mulatta anch’essa. Solleticava invece i toni della

farsa L 'uomo caffelatte (The Watermelon Man. Melvin Van Peebles. 1970; Columbia/Johanna) giocando sul ribaltamento di ruoli e situazio­ ni, a causa del quale un assicuratore bianco. Jeff Gerber (Godfrey Cam­ bridge). arrogante e razzista, si ritrovava improvvisamente un mattino

trasformato in un nero, lui metamorfosi sviluppava una seriedi reazioni a catena che riguardavano tutto il sistema di interazione di Jeff, dal ri­ fiuto della moglie, in apparenza progressista (guardava in televisione

con partecipazione le immagini delle rivolte nere), all’imbarazzo dei colleghi, al rifiuto del quartiere che con telefonate anonime lo invitava a trasferirsi altrove. Una linea di demarcazione sottile tra opposte con­

cezioni in grado di mutare di segno una vita, una vicenda trattata con toni iperbolici e grotteschi, che ricordava il dramma di I Jiwrence New-

IJO specchio dei tempi

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man in Focus di Arthur Miller (1945), americanodi mezza età scambia­ to improvvisamente per un ebreo a causa di un nuovo paio d’occhiali. Altri tentativi si concentrarono nella creazione di un cinema di colo­

re destinato a un pubblico a maggioranza nera, la cosiddetta hlaxploitation. esplosa con il successo di Shaft il detective {Shaft. Gordon Parks,

1971; MGM/Shaft Productions Ltd.), dopo alcuni Him dall’incasso mo­ desto come Pupe calde e mafia nera di Ossie Davis (1970) e Sweet Sweethack’s BaadasssssSong di Melvin Van Peebles (1971). Vedendo Shaft ci si rendeva conto, tuttavia, che il cinema afroamericano dell’ini­

zio degli anni Settanta non faceva altro che applicare la prassi del cine­ ma hollywoodiano di genere a personaggi di colore inseriti in contesti urbani neri commentali da conturbante musica funky o soul (e Isaac

llayes, per il tema del film, vinse anche l’Oscar nel 1972, quasi a con­ fermarne l’integrazione all’interno del sistema industriale). Più interessanti le notazioni dal vivo fomite dal cinema diretto, come le rivolte testimoniate in Amerika (1969) dai Collettivi Newsreel, in un

montaggio che giustapponeva teatro di guerriglia, interviste a reduci del

Vietnam e ad attivisti della prima ora come lildridge Cleaver, scene di strada, su una base sonora composta da musica rock, raffiche di mitra­

gliatrice e commento ideologico. Oppure come Black Panthers (1969). documentario su) celebre partito rivoluzionario afroamericano che Agnés Varda realizzò sempre per conto degli stessi Collettivi, o come l’opera di William Greaves, afroamericano il cui sguardo offri un punto di vista intemo alla cultura nera attraverso alcuni documenti interessan­

ti cornei the Fighter (1971; CinAmerica), su) primoinconlro tra Mo­ hammed Al) e Joe Frazier, ma soprattutto come la serie Black Journal. realizzata perla National liducational Television dal 1968 al 1976. un programma destinato a un pubblico nero con notizie provenienti dalla

comunità afroamericana relative alla loro cultura e miranti a generare un dibattito critico e ideologico. Tornando al cinema a soggetto della New Hollywood, alcune nota­ zioni interessanti si poterono ricavare da brevi frammenti, semplici e rivelatrici battute di dialogo, piccoli accenni che seppur inseriti in con­ testi narrativi diversificati (e spesso estranei a un argomento vicino alla

questione razziale) provvedevano a chiarire l’ambito sociale relativo alla questione nera in cui queste pellicole si originavano. Harry Bailey.

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Storia e storie del cinema americano

che in L’impossibilitàdi essere normale, esortava nei corridoi dell’uni­ versità i neri alla loro specificità urtando «Non cercate di essere come i bianchi, cercate di essere meglio», oppure la piccola Carol (Mackenzie Phillips) che in American Graffiti confessava di amare il dj Lupo Soli­ tario malgrado la madre non glielo facesse ascoltare perché di colore, oppure ancora il Charlie di Mean Streets che passava oltre il punto in cui aveva dato appuntamento al l’affascinante Diane, ballerina nera del

locale dell’amico Tony, per paura che qualcuno lo potesse vedere con una negra all’intemodel Village, come sottolineava la sua voce interio­ re, rappresentavano innegabilmente accenni chiarificatori di una men­ talità diffusa che le pellicole intendevano demistificare rilevandone l’assurdità e le intime incoerenze. Cosi come, molto sottilmente, fecero, con aspetti molto simili tra loro, New York ore 3: l’ora dei vigliacchi e La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, George A. Rome­ ro. 1968; Image Ten/taurel Group/Market Square Productions). Nel primo, mostrando i due poliziotti entrati nel vagone della metropolitana ostaggio dei due teppisti gettarsi immediatamente verso l’unico perso­

naggio di colore de) treno per immobilizzario, salvo poi essere richia­ mati dagli altri passeggeri e reindirizzati verso i reali obiettivi criminali

che avrebbero dovuto fermare e arrestare. Nel secondo, facendo uccide­ re l’unico superstite della casa, il nero Ben (Duane Jones), dallo scerif­ fo fascista che lo aveva scambiato, ironia della sorte e allegoria di un’intera società, per uno zombie. Nello stesso periodo anche la visione de) nativo americano mutò di

segno, l-a fiorente letteratura sul western ha sempre sostenuto che fino alle soglie degli anni Cinquanta il nativo fosse rappresentato come l’emanazione diretta del pericolo per l’eroe bianco, l’eventualità della

sua stessa morte, oltre che una minaccia per l’avanzata della civiltà

verso OvesL All’inizio degli anni Cinquanta, due pellicole come L’amante india­ na (Broken Arrow, Delmer Daves, 1950; 20th Century-Fox) e II passo del diavolo (Devil’s Doorway, Anthony Mann, 1950; MGM), ponendo­

si dalla parte degli indiani, nonostante una serie di contraddizioni inter­ ne al racconto che ne rivelavano alcuni punti ciechi, parevano in grado

di inaugurare un periodo di riflessione sui nativi e sulle colpe storiche del governo americano nella gestione della relazione con l’elemento

Lo specchio dei tempi

405

indigeno. A queste pellicole ne seguirono altre, alcune meno riuscite come Tomahawk, scure di guerra {Tomahawk, George Sherman. 1951; Universal), altre con un Tinaie talmente conciliatorio da apparire fittizio

come L’ultimo apache (Apache, Robert Aldrich. 1954; llecht-l^inca-

ster Productions. Linden Productions), che. pur continuando una ten­ denza. rimasero nel novero delle buone intenzioni. Fu solo con la seconda metà degli anni Sessanta che i western che

avevano i nativi come aspetto principale del racconto cominciarono a evidenziare un rilievo dichiaratamente critico e spesso addirittura accu­ satorio. L’intento di una fase del western chiamata in molti modi (cre­ puscolare. autunnale e. ancor prima, maggiorenne), tutti volti a mo­ strarne il lato in qualche modo revisionista di una leggenda vista sem­

pre in una sola prospettiva, quella della conquista epica del territorio in funzione della nascita della nazione, rivelava la volontà di riscrivere la

mitologia servendosi finalmente della storia, privandola delle iperboli e assumendo uno sguardo onesto sulla popolazione nativa.

Immagine di questa nuova tendenza furono l’atto d’accusa verso una politica di genocidio perpetrata contro una popolazione inerme, esibita attraverso uno spiccato sadismo rappresentativo come in Soldato Blu:

la rivisitazione grottesca dell’epopea di Custer e lo sguardo affettuoso verso il sincero candore del «popolo degli uomini» di Piccolo grande uomo’, la rispettosa onestà intellettuale nel riconoscere la profonda in­

conciliabilità delle due culture, quella bianca e quella indiana, in Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson, Sidney Pollack, 1972;

Sanford Productions/ Warner Bros.) e il tentativo di comprendere la intime ragioni di un agire in Un uomo chiamato cavallo (A Man Called Horse, lilliot Silverstein. 1970; Cinema Center Films) e in Nessuna pie­ tà per Ulzana (Ulzana’s Raid, Robert Aldrich. 1972; Universal Pictu­

res. The Associates & Aldrich Company/ De Haven Productions), film, quest’ultimo, nel quale. Io scout McIntosh (Burt luincaster). risponden­ do a una domanda sul perché non odiasse i nativi, attestava tutto il suo reverente timore aH’avversario. riconoscendone la dignità come auten­ tica forza della natura: «It would be like hating the desert because there ain’t no water in iL For now. I can get by being plenty scared of ’em».

Pellicole che mostravano una sensibilità maggiore nella rappresentazio­ ne del nativo, lo liberavano dal complesso di colpa paternalista dei

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Storia e storie del cinema americano

bianchi, caratteristico degli anni Cinquanta, Io dotavano finalmente di un punto di vista (nella forma elementare della soggettiva) che gli era stato autenticamente precluso fino a quel momento, anche negli esempi

«fìloindiani» del passato citali, assumendo una prospettiva critica che smontava gli elementari schemi di creazione epica di una leggenda, tro­ vando finalmente la correttezza per ammettere storicamente il sangue versato per scriverla.

Capitolo 17

Versoil nuovo millennio

17.1

L'immagine del futuro: gli anni Ottanta conducono alla fine del secolo

Con il nuovo decennio, qualcosa era cambiato. Nel pubblico e nei suoi gusti, oltre che nella politica americana, entrata nell’era di Ronald Rea­ gan. l’attore diventato Presidente. Prodigi hollywoodiani. Vittima di un’impalpabile atmosfera di riflusso, accanto al pubblico mediamente colto, interessato alla profondità di temi e situazioni contemporanee

analizzate da molti dei fìlm della Hollywood Renaissance, si originaro­ no altri nuclei, altrettanto numerosi, che progressivamente soppiantaro­ no il pubblico degli anni Settanta. Queste nuove fasce di spettatori era­

no mediamente più giovani, tendenzialmente distanti dai problemi del decennio precedente e appassionate di uno spettacolo magniloquente, fondato sull’azione e sugli effetti. Un pubblico che si era formato sull’esempio di pellicole come Lo squalo e Guerre stellari (Star Wars,

George Lucas. 1977; Lucasfìlm/20th Century-Fox). record d’incassi che formalmente avevano chiuso - soprattutto nello spirito - l’espe­ rienza della Renaissance, inaugurando quella dell’evento, del fìlm in­

tensamente pubblicizzato (anche in televisione) e distribuito capillar­ mente in un gran numero di sale. Pratica che gli anni Ottanta e con il permissivismo della politica reaganiana. pronta a invertire gli effetti della vecchia «sentenza Paramount e a permettere alle Majordi gestire direttamente le proprie catene di sale, divenne la regola di lanciodi ogni

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Storia e storie del cinema americano

film dal grande budget. Il lancio in grande stile, in contemporanea su tutto il territorio nazionale e non diluito in uscite cadenzate creava l’unicità deirawenimenlo. coagulando intorno a sé l’interesse dei me­ dia. facilitava la propaganda, unica e sistematica per tutta la nazione e

non parcellizzata e variabile in funzione del luogo di proiezione, e la sua dimensione di attesa (pubblicitaria) finalmente colmata garantiva in un gran numero di casi il recupero dei costi di produzione già dalla pri­ ma settimana di programmazione. Il blockbuster diventava il film verso cui convergeva l’attenzione dell’opinione pubblica, l’evento di cui si sarebbe parlato sia prima, sia.

a ragion veduta e con un certo compiacimento, dopo averlo visto. Il blockbuster, tuttavia, non era solo narrazione incalzante e regia attenta,

la natura stessa di evento esigeva l’eccezionaiità iperbolica della visio­ ne. che si caratterizzava per la sua esibita spettacolarità e per l’ausilio fondamentale di dispositivi mirabolanti come gli effetti speciali, che marcavano la differenza con quanto visto in precedenza (su grande e

piccolo schermo), rendendo la visione degna de) ricordo sfruttando la meraviglia dell’emozione scintillante che ne scaturiva. Ovviamente, al­ cuni generi, seppur rivisti e debitamente integrati, si prestavano meglio

di altri alle caratteristiche proposte, in un panorama industriale reso più superficiale nei temi affrontati rispetto al periodo precedente con lo scopo di attrarre una più ampia porzione di ipotetici spettatori, lì reso anche essenziale nella trama e nei suoi sviluppi: si andò diffondendo la pratica dell7/à'A Concept, la condensazione dell’idea narrativa in

un’azione principale e nelle sue basilari conseguenze, una formula nata con l’intenzione di attirare l’attenzione dei produttori e convincerli del successo finanziario dell’idea. Privilegiando l’azione e il dinamismo intemo all’inquadratura e tra un piano e l’altro, Hollywood. incoraggia­

ta dai successi citati in precedenza, pensò che lo spettro della crisi della seconda metà degli anni Sessanta fosse ormai un lontano ricordo, e ri­ prese a investire in spettacoli magniloquenti, eccessivi,epoca!i. di cui il

film era solo uno degli aspetti di uno sfruttamento commerciale che prevedeva altre fasi altrettanto redditizie, le quali, in caso di successo relativo, avrebbero ammortizzato comunque il dispendioso finanzia­ mento iniziale. Avventura, horror, azione e fantascienza (in un periodo successivo, nella seconda metà degli anni Novanta, affiancato dal fan-

Verso il nuovo millennio

409

tasy) furono i generi di grande richiamo, altri, ad esempio il western, progressivamente si eclissarono, lasciando spazio solo a rievocazioni citazioniste e nostalgiche.

Assolutamente non a caso, da Spielberg e Lucas, gli autori de Lo squalo e di Guerre stellari, qui in veste, rispettivamente, di regista

(Spielberg) e di executive producer oltre che autore del soggetto (Lu­ cas). fu proposto il rilancio del genere avventuroso, tanto in auge negli anni Trenta e nei primi Quaranta e poi frequentato saltuariamente da I lollywood. / predatori dell 'arca perduta {Raiders ofthe Lost Ark. Ste­ ven Spielberg, 1981; Paramount/loicasfilm)e il suo eroe. Indiana Jones (Harrison Ford), archeologo d’azione pronto a cimentarsi in mille peri­ coli, furono lanciali al grido di «The Return of the Great Adventure»,

pretesto per un campionario di avvenimenti mirabolanti che in perfetta tradizione classica hollywoodiana si faceva beffe della verosimiglianza storica (difficile immaginare i nazisti controllare gli scavi archeologici in Egitto nel 1936, anno in cui la nazione egiziana raggiunse ufficial­ mente l’indipendenza, pur conservando sul suo suolo l’occupazione

militare britannica nelle basi dislocale nel paese), concepiva un plot tradizionale con un obiettivo da raggiungere (I* Arca dell’alleanza, den­

tro la quale furono conservate le tavole della tregge ricevute da Mosè). un sottoinlreccio sentimentale (la rocambolesca relazione tra Indiana Jones e Marion/Karen Alien), un nemico (i nazisti) concepito come il Male assoluto, una missione da compiere per affermare i valori positivi dell’umanità travestita da interesse storico e culturale. Al termine di un

percorso difficoltoso.pieno di colpi di scena magnificamente orchestra­ ti sul piano della tensione narrativa e della resa spettacolare, la storia della ricerca dell’Arca conosceva il suo apice meraviglioso con una sequenza finale che ribaltava gli equilibri tramite un intervento sopran­

naturale durante una cerimonia pagana celebrata dai nazisti e dall’anta­ gonista Belloq. intervento che salvava Jones e Marion resi inermi, riaf­ fermando con decisione, e con uno slancio catartico e vendicativo, le giuste differenze manichee. L’intromissione dell’elemento fantastico ne l predatori era il preludio per la sua affermazione, dapprima accosta­ to all’elemento fantascientifico, in un prodotto pensato perle famiglie, E.T. - L'extraterrestre (E.T. the Extraterrestrial, Steven Spielberg,

1982; Uni versai/Ambi in Entertainment), nel quale rincontro tra un

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Storia e storie del cinema americano

bambino di dieci anni. Elliott, e un adorabile extraterrestre dal collo oblungo, suscitò la giusta miscela di meraviglia e commozione che per­ mise al film di incassare oltre 400 milioni di dollari, lui fantascienza

degli anni Ottanta, tuttavia, ebbe soprattutto il fascino mesto e decaden­ te proposto in Blade Runner (id.. Ridley Scott. 1982; The 1-add Company/Shaw Brothers/Wamer Bros.), in cui un'indagine di matrice noir era sviluppata lungo echi esistenzialisti e attraverso la creazione di un universo sincretico. frutto di uno sguardo globale su contrastanti icono­ grafie (neon ipenealisti. architetture orientali, atmosfere urbane anni Quaranta, ipotesi Sci-fi ante-litteram) che influenzarono non poco le ambientazioni successive. Il vantaggio di queste grandi produzioni risiedeva, come accennato,

anche nella possibilità di diversificarne lo sfruttamento commerciale: le Majors, a seguito di scalate, acquisizioni e fusioni, erano entrate a far parte di gruppi finanziari più ampi con interessi in vari settori dei media e dei servizi, che vedevano il prodotto film e il suo guadagno in sala esclusivamente come la prima parte de) processo produttivo in cui esso

era inserito. Gli anni Ottanta furono il periodo di lancio di una tendenza giunta fino ad oggi e che generò una riflessione talmente profonda e indirizzata al guadagno da condizionare anche la tipologia di film da produrre, sempre più articolo commerciale a scapito di qualunque altro

aspetto, spettacolare e culturale, inglobato nello scopo principale. Il grande investimento puntava all’incasso del film per rientrare nelle spe­ se e per far circolare il nome, che a ben guardare, con il suo logo regi­ strato e i font caratteristici nel propagandarlo, era sempre più simile a un brand che a un semplice titolo. Il film generava un dibattito che in­ cludeva molli aspetti diversi tra loro ognuno dei quali poteva trovare la

sua soddisfazione commerciale. l^a creazione di personaggi particolari, come quelli di Guerre stellari O di E.T. -1. ’extraterrestre, originava lo sfruttamento commerciale di un merchandising mirato al pubblico dei più giovani, basato su pupazzetti, poster, astronavi, fumetti e libri, gio­ cattoli. magliette, diari, accessori vari che erano solo un primo passo per l’invasione completa del mercato. I-a commercializzazione della colonna sonora dell’evento-fìlm ne era un altro, spesso anticipato dalla

realizzazione di un videoclip con la canzone di punta con cui bombar­

dare i canali televisivi, utilizzando la complicità del canale tematico

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musicale Mtv.nato nell’agosto del 1981. Il video Take My Breath Away dei Berlin per il mèlo bellico Top Gun (id., Tony Scott, 1986; Para­ mount) era frutto di un’attenta operazione gestita dalla Major con il

produttore discografico Giorgio Moroder, cosi come le clip Eye of the Tiger e Burning Heart dei Survivor fecero per Rocky III (id., Sylvester

Stallone, 1982; United Artists) e Rocky IV (id., Sylvester Stallone. 1985; United ArtistsWGM), diventando quasi un correlativo oggettivo

di tali pellicole. E ancora: i disegni animati e, in tempi più recenti di sorprendente sviluppo tecnologico e grafico, anche i videogiochi previ­ sti per ogni differente supporto, senza contare, in sequenza diacronica,

il noleggio delle videocassette in concomitanza con la diffusione dei videoregistratori, il noleggio dei dvd,la successiva vendita, fino a giun­ gere ai giorni nostri, alla distribuzione dei blu-ray, ennesimo miracolo della tecnologia digitale ad alta definizione. Un aspetto risolutivo per le corporation di cui le Major facevano ormai parte, poiché anche un film dall’incasso mediocre al botteghino poteva sperare di ricavare profitti piuttosto soddisfacenti, benché inferiori alle attese, che in qualche mo­

do salvassero la produzione dal dissesto, evitando che si generasse un effetto- Cleopatra, come nel 1963. o un tracollo simile a quello cui andò incontro la United Artists, distributrice dell’ipertiofico e profondamen­ te incompreso / cancelli del cielo (Heaven's Gaie, Michael Cimino. 1980; Partisan Productions). Ma non era finita, perché ulteriori introiti erano garantiti dagli accor­ di pubblicitari.secondo due filoni principali,quelli che legavano alcune

catene commerciali al marchio del film, e quelli, invasivi, peri quali i prodotti di ben determinate aziende facevano la loro comparsa all’inter­ no della finzione del film, diventandone parte integrante. Il cosiddetto product placement non era pratica nuova ne) cinema americano, ma nel

corso del decennio fu adottata con crescente insistenza, fino a diventare autentica piassi nelle produzioni più ambiziose. Queste grandi produzioni, spesso, proprio per incontrare il favore di ampie percentuali di pubblico, cosi come avevano fatto i film della Hol­ lywood Renaissance tra gli anni Sessanta e Settanta seguendo mode e

illusioni de) periodo, cercarono di catturare lo spirito dei loro tempi,

quelli reaganiani. Motivi come l’unità d’intenti della parte «buona», l’identificazione di un nemico malvagio e insensibile (si pensi ai piloti

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sovietici in Top Gun. visti esclusivamente con casco e visiera rifletten­ te). un certo nazionalismo, che in alcuni casi rischiava di diventare au­ tentica reazione, disponibilità al sacrificio per ottenere l’interesse pub­ blico, strenua volontà, un malcelato razzismo e. come conseguenza di

un atteggiamento forte e inflessibile, un ritomo del maschilismo e della superiorità nei confronti delle donne. Molte di queste pellicole, infatti, presentavano in filigrana una sorta di ossessione per il riconoscimento della propria identità maschile, come emblema della forza individuale della nazione e. su) piano allegorico, della sua potenza militare, giunti in prossimità degli ultimi anni di tensione intemazionale con 1’Unione

Sovietica. L’epocadegli hippy, il movimento peri diritti delle donne, la flessibilità di certi ruoli familiari e anche un’elaborazione mai vera­ mente compiutasela mancata vittoria del Vietnam negli anni Ottanta originarono una reazione in cui l’uomo non solo tornava a diventare eroe, ma lottava per affermare la sua natura eccezionale di fronte alle forze della disgregazione, fossero esse la criminalità imperante, ritrova­

ti tecnologici spersonalizzanti o le forze del Male intemazionali capeg­ giate dai comunisti. L’eroe tracimante degli anni Ottanta, individuali­ sta, indipendente anche se inquadrato in un’organizzazione istituziona­

le, istintivo, spesso consapevole della sua stessa sostanza di ultimo ba­ luardo della civiltà, aveva i volli, i pettorali e i bicipiti di Sylvester Stallone, di Arnold Schwarzenegger, di Mei Gibson, di Bruce Willis oppure il fascino sornione di Harrison Ford, tralasciando volutamente per l’eccezionaiità della sua natura la saga superomistica dell’ovrxreen Superman, protagonista di un trittico inaugurato nel 1978 dal primo

episodio (Superman. Richard Donner. Dovemead Films/Film lixport A.GJlntemational Film Production). 1 vari Rocky susseguitisi al primo (Rocky. John G. Avildsen. 1976; Chartoff-Winkler Produclions/United

Artists), storia di abnegazione e buoni sentimenti, mostrarono, dopo l’ovvia rivincita con lo sfidante Apollo Creed (Carl Weathers) che il pubblico attendeva alacremente nel secondo episodio (Rocky H. Sylve­

ster Stallone. 1979; United Artists), un’epopea celebrativa del sacrifìcio individuale in funzione della vittoria che nella quarta parte della saga (Rocky IV. Sylvester Stallone. 1985; United ArtistsfMGM) si colorò nettamente di una valenza ideologica. 1a> scontro di Rocky Balboa (Sylvester Stallone) con il brutalmente glaciale Ivan Drago (Dolph

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Lundgren), campione sovietico, si ammantava di una serie di significa­ ti etici accessori, transitanti dalla vendetta (Drago aveva ucciso l’alle­ natore di Rocky. Apollo Creed, suo ex avversario, durante un’esibizio­

ne). alla legittimità della supremazia americana ribadita da un incontro

che diede l’opportunità per allestire un baraccone di suoni e colori, spettacolo a stelle e strisce e retorica nazionalistica. Allo stesso modo agiva il personaggio del reduce del Vietnam John Rambo, sempre inter­

pretato da Stallone. Mentre il primo episodio della serie (Rambo. Ted Kotcheff, 1982; Anabasis N.VJEIcajo Productions), seppur con una violenza spesso compiaciuta (ma non assassina: rispetto al romanzo di David Morrell, da cui il filmerà tratto. Rambo non uccideva uno a uno tutti i suoi inseguitori), inseriva il protagonista in un contesto sociale istituzionale inospitale e aggressivo a cui doveva far fronte per non soc­ combere, il secondo, Rambo II: la vendetta (Rambo: First Blood Part //, George P. Cosmatos. 1985; Anabasis N.V.) cambiava completamen­ te le carte in tavola, spedendo il reduce a liberare gli ostaggi ancora

nelle mani dei Vietcong e dei loro alleali russi. Rambo II. con la sua vendetta attuata oltre ogni principio di verosimiglianza dall’eroe indo­ mito. capace di affrontare un numero esorbitante di nemici caricando

l’intera impresa su di sé, era il tentativo esclusivamente cinematografi­ co e propagandistico di cancellare l’onta del Vietnam attraverso un ri­ scatto successivo, attuato per mezzo di personalità eccezionali che non accettavano il verdetto della Storia e lottavano costantemente per riaf­ fermare l’onore della nazione.

Meno connotata ideologicamente, almeno in apparenza, ma altret­ tanto eccezionale appariva la costruzione del personaggio del Termina­ tor interpretato dall’ex mister universo Arnold Schwarzenegger, corpo

organico di un cyborg protagonista, nel primo episodio. Terminator (The Terminator. James Cameron. 1984; Hemdale Film/Pacific We-

stem/Euro Film Funding/Cinema 84), di una spietata caccia all’uomo (nella fattispecie una donna. Sarah Connor [Linda Hamilton]) condotta con l’intenzione di cancellare per conto di una sezione deviata del go­ verno degli Stati Uniti la madre del futuro capo della resistenza umana contro il controllo esercitato dai robot Iji vittoria della donna era nuo­ vamente immagine di quel coraggio individuale scaturito dallo spirito degli anni Ottanta, alla cui causa, nel secondo film della serie. Termina-

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tor 2 - Il giorno del giudizio (The Terminator 2: Judgment Day, James

Cameron. 1991; Carolco Pictures/Pacific Westem/lJghlstonn Enlertainment/Canal i ) partecipava attivamente anche un nuovo cyborg dalle

identiche fattezze, chiamato a difendere il capo messianico, ora adole­ scente problematico, dalla minaccia di un robot spietato e insidioso, capace, visti i tempi in cui il nemico per gli Stati Uniti, frantumatosi l’impero sovietico, cominciava ad assumere altri volti e caratteristiche,

di adottare svariate forme a seconda degli elementi con cui entrava in

contatto. Sempre sul corpo come veicolo d’azione era fondalo anche Arma letale (Lethal Weapon, Richard Donner. 1987; Warner BrosJSilver Pic­

tures). che aveva come protagonista una coppia interrazziale come Mei

Gibson (nel film sprezzante del pericolo a causa di un pressante impul­ so suicida) e Danny Glover, secondo una tendenza del decennio già evidenziata attraverso i personaggi interpretati da Eddie Murphy. 48 ore (48 Hrs., Walter Hill, 1982; Paramount), con Nick Nolte, e Un pie­ dipiatti a Beverly Hills (Beverly Hills Cop. Martin Brest. 1984; Para-

mount/Iiddie Murphy Productions), in cui la coppia si ampliava a trio. E lo era anche Trappola di cristallo (Die Hard. John McTieman. 1988; Gordon Company/Silver Pictures), con la sua unica e claustrofobica location, con l’azione mozzafiato perennemente appesa a un filo (anche

letteralmente), la tensione, le esuberanze spettacolari e un personaggio (John McClane [Brace Willis)) forte, atletico, indifferente di fronte al rischio e adeguatamente ironico per bilanciare alcuni eccessi in cui era­

no caduti gli eroi indistruttibili degli anni precedenti. I.a formula fu premiata dal successo (80 milioni di dollari d’incasso), aspetto decisivo che diede ancora più potere contrattuale ad alcuni dei Re Mida della produzione hollywoodiana tra gli anni Ottanta e i Novanta, produttori indipendenti capaci di vendere i propri pacchetti alle Major sfrattando la propria conoscenza del mercato e dei gusti del pubblico. Joel Silver, giù artefice dei successi di Trappola di cristallo e dell’intera serie di Arma letale, vide coronato il suo fiuto con alcuni dei più grandi cam­

pioni d’incassi del cinema americano, come Matrix (The Matrix. Andy e 1-any Wachowski, 1999; Warner BrosJVillage Roadshow Pictures/

Silver Pictures). Jerry Bruckheimer, produttore di film d’azione fracas­ soni. zeppi di effetti speciali e spesso retoricamente reazionari, legò il

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suo nome a pellicole come Flashdance (id., Adrian Lyne, 1983; Paiamount/Polygram Filmed Entertainmnet), Top Gun. The Rock (id., Mi­ chael Bay, 1996; Hollywood Pictures/Don Simpson-Jeny Bruckheimer Films), Armageddon - Giudizio finale (Armageddon, Michael Bay,

1998; Touchstone Pictures/Jeny Bruckheimer Films/Valhalla Motion Pictures), Nemico pubblico (Public Enemy. Tony Scott, 1998; Touch­ stone Pictures/Jeny Bruckheimer Films/Don Simpson-Jeny Bruckhei­

mer Films), Pearl Harbor (id., Michael Bay, 2001; Touchstone Pictu­ res/Jeny Bruckheimer Films) e la serie dei Pirati dei caraibioriginata­ si dal fortunato primo episodio La maledizione della prima luna (Pira­ tes of the Caribbean: The Curse of the Black PcarL Gore Verbinski,

2003; Walt Disney Pictures/Jeny Bruckheimer Films). In questo panorama produttivo generatosi negli anni Ottanta, che fi­ ne aveva fattoi’autori aliti tanto decantatane! decennio precedente? Tra

gli stessi registi che avevano caratterizzato la Hollywood Renaissance, il solo Spielberg (eLucas come produttore) entrò negli anni Ottanta con

disinvoltura, seminando successi con i titoli citati in precedenzae limi­ tando le possibilità di Basco con i film più personali e riflessivi che decise di realizzare nella seconda metà del decennio come // colore viola (The Color Purple, 1985; Amblin Entertainment/The Guber-Pe-

ters Company/Wamer Bros.) e L'impero del sole (Empire of the Sun,

1987; Amblin lintertainment/Wamer Bros.). Coppola, dopoi fasti degli anni Settanta, sembrava non incontrare piùi favori della critica: l’inna­ moramento per le innovative tecniche elettroniche mostrato in Un so­ gno lungo ungiamo (Onefrom the Heart, 1982; Zoetrope Studios) si

era rivelato sostanzialmente un fallimento, anche a causa del ritiro della Paramount dall’ipotesi di distribuzione dopo i primi commenti sfavore­

voli del pubblico nelle anteprime. Anche Altman sembrava tendenzial­ mente ignoralo, per riscuotere un rinnovato interesse soltanto al sorgere del decennio successivo con / protagonisti (The Player, 1992; Avenue Pictures Produclions/Spelling Entertainment/Addis Wechsler Pictures) e soprattutto America oggi (Short Cuts, 1993; Fine Line Features/Spelling Films Intemational/Avenue Pictures Productions). Scorsese, inve­ ce, realizzò uno dei film più sorprendenti del dopo New Hollywood, Toro scatenato (Raging Bull, 1980; United Artists/Chartoff-Winkler

Productions), il cui coraggio stilistico, fatto di un bianco e nero oc-

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chieggiante alle pellicole di ambiente pugilistico degli anni Quaranta, di arditi e rivelatori movimenti di macchina, di un montaggio rapido e spettacolare e di tagli inconsueti delle inquadrature, era esaltato dalla

performance attoriale di Robert De Niro. capace di trasfigurare il suo fisico di quasi venticinquechili per interpretare un maturo Jake lui Mot­ ta, proprietario di un nightclub, solo più un'ombra del campioneche era Stato. Il successivo film di Scorsese, Re per una notte (The King of Co­ medy, 1983; Embassy International Pictures/20th Century-Fox), che

satireggiava sull’idolatria divistica (nel dettaglio: televisiva) e sull’am­ bizione smodata al raggiungimento del successo, fu un fiasco e questo

obbligò il regista, nonostante la sua carriera, dapprima a girare in per­ fetta autonomia, al di fuori dell’industria, un piccolo gioiellino come l’odissea notturna di un impiegato in Fuori orario (After Hours, 1985; The Geffen Compony/Double Play), poi a realizzare II colore dei soldi (The Color of Money, 1986; Touchstone Piclures/Silver Screen Part­

ners) grazie a Paul Newman, protagonista del film, che insistette con la

Touchstone, che aveva rilevato il progetto dopo una serie di rifiuti, per farlo dirigere a Scorsese, il quale, da quel momento in avanti, cercò di coniugare le istanze personali con quelle industriali (// colore dei soldi

fu terminato in anticipo con grande risparmio per la casa di produzione) in un equilibrio sempre delicato che condusse a pellicole di rilievo co­ me 1. 'ultima tentazione di Cristo (The Last Temptation ofChrist, 1988; Universal/Cineplex Odeon Films). Quei bravi ragazzi (Goodfellas, 1990; Warner Bros.) e Casinò (Casino, 1995; Universal/Syalis DA/I^-

gende Enlreprises). Questi sensibili equilibri tra capitale e personalità artistica sembra­ vano averdi colpo cancellato la sbornia autoriale propagandata, talvol­ ta iperbolicamente.dalla Hollywood Renaissance, come sedi colpo, il

cinema americano fosse ritornato agli anni Cinquanta. I pochi autori veramente indipendenti lavoravano aldi fuori dell’industria. John Say­ les, ad esempio, regista di grande impegno civile, analizzò una serie di problemi su cui il cinema mainstream, dopo gli anni Settanta, aveva smesso di interrogarsi, passando dalla liceità di un amore omosessuale. IJanna: un amore diverso (lJanna, 1983; Winwood Productions), all’allegoria sulla diversità travestila da fantascienza. Fratello di un altro pianeta (The Brother from Another Planet, 1984; Anarchist’s

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Convention Films/UCLA Film and Television Archi ve/A-Train Films) e alla cronaca di uno sciopero avvenuto negli anni Venti in una comu­ nità di minatori del West Virginia (Matewan. 1987; Cinecom Enter­

tainment Group/Film Gallery/Goldcresl Films International). Ancora più estreme furono le scelte di una colonia attiva a New York in un ambito underground lontana anche linguisticamente rispetto al cinema commerciale e che la critica europea aveva identificato con l’etichetta

di comodo di New Wave newyorchese. Apparente trascuratezza delle riprese, mezzi di fortuna (attrezzature in super 8 e in 16 millimetri), sciatteria nell’illuminazione, scenari d’emarginazione e influenza di­

retta della scena punk (il film che apri la strada al movimento fu Blank Generation [id.. Amos Poe. 1976; Poe Productions!, un documentario sulle performance dal vivo di band come Patty Smith. Blondie. Talking Heads. Ramones e Television realizzato con l’audio asincronico, regi­

strato sui dischi dei vari gruppi e non dal vivo, più per le carenze tecni­ che del regista che per una volontà estetica). Da questa congerie di ar­ tisti eccentrici (Amos Poe. Lizzie Borden. Beth & Scott B.. Eric

Mitchell), spesso velleitari rispetto alle potenzialità del loro cinema, seppur con qualche spunto interessante (ad esempio il livido e metro­ politano Smithereens [id.. 1982; Domestic Productions) di Susan Seidelman. la quale prosegui la sua carriera lavorando essenzialmente per

la televisione), si distinse soprattutto Jim Jarmusch, con le sue storie di marginalità stravagante (Permanent Vacation [id.. 1980; Cinesthesia Productions) e Stranger Than Paradise [id., 1984; Cinesthesia Productions/Grokenberger Film Produktion/Zweites Deutsches Femsehen]) che offrirono i prodromi di vicende più complesse e maggiormente strutturate (ad esempio Dead Man [id.. 1995; Pandora Filmproduktion/

JVC Entertainment Networks/Newmarket Capital Group] o Broken Howers [id.. 2005; Focus Fealures/Five Roses/Bac Films]), in cui la

consueta recitazione sottotraccia dei personaggi si poneva al servizio di una narrazione simbolica e intensamente enigmatica.

All’intemo degli angusti argini fomiti dall’industria, alcuni registi, più di altri, seguirono vie personali, mostrando una poetica riconoscibi­ le e spesso premiata dal)’apprezzamento del pubblico e della critica. Oliver Stone, con la sua visione progressista, affrontò con uno stile

aggressivo (montaggio nervoso e grande mobilità della macchina da

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presa) e talvolta eccessivamente didascalico alcuni dei momenti e dei personaggi più controversi della storia americana recente: i sensi di col­ pa scaturiti dalla bieca violenza del Vietnam in Platoon (id.. 1986; Hemdale Film/Cinema 86) e le rivendicazioni dei reduci in Nato il 4 luglio (Bom on the Fourth of July, 1989; Ixtlan). la lotta per la supre­

mazia del più adatto nella giungla della finanza in Wall Street (idi. 1987; 20lhCentury-Fox/American Entertainment Partners L.PJAmercent Films), il razzismo strisciante e l’ipocrisia solidale in Talk Radio (id., 1988; Cineplex-Odeon Films/Ten-Four Productions), la minuziosa ricostruzione dei fantasmi aleggianti intomo all’omicidio Kennedy in JFK - Un caso ancora aperto (JFK, 1991; Warner BrosJCanal ♦/Re­

gency Enterprises)e, in tempi più recenti, l’impietoso ritratto di un inet­ to nei casuali panni del presidente degli Stati Uniti in W. (id., 2008; Lionsgate/QED Intemational/Omnilab Media). Spike l^e si propose Hn da subito come cantore dell’orgoglio afroa­ mericano, chiamando indicativamente la sua casa di produzione «40

Acres and a Mule Filmworks», la promessa mai mantenuta di risarci­

mento che il governo degli Stati Uniti fece agli schiavi al termine della guerra Civile. Una rivendicazione di appartenenza che nelle pellicole più riuscite si premurava di analizzare approfonditamente il problema dell’integrazione tra levarie etnie presenti sul suolo newyorchese, città

d’adozione del regista, rivelando le incongnienze, i preconcetti e le zo­ ne d’ombra che nascevano da una relazione forzata (come fece mirabil­ mente raccontando una torrida giornata estiva sui marciapiedi di Bro­

oklyn in Fa’ la cosa giusta [Do the Right Thing, 1989; 40 Acres & A Mule Filmworks]) o dall’illusione di una mescolanza possibile {Jungle Fever [id.. 1991; Universal/40 Acres & A Mule Filmworks], dramma­ tica relazione tra un architetto afroamericano e una segretaria di origine italiana). Più diretto apparve l’impegno civile nella monumentale rico­ struzione della vita del leader dei diritti afroamericani Malcolm X (Malcolm X, 1991; luirgo International N.VJJVC Entertainment Net-

works/40 Acres & A Mule Filmworks), mentre in altre occasioni il fer­ vore delle tesi esposte rischiò di incorrere nell’esercizio di pedanteria dottrinale, ad esempio in Busin viaggio (Get on the Bus, 1996; Colum­ bia Pictures/15 Black Men/40 Acres &A Mule Filmworks), ambientato

su un pullman diretto alla Million Men March, indetta dal leader della

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nazione dell’IsIam Louis Farrakhan il 16 ottobre 1995. Non solo diritti degli afroamericani: le grandi tragedie della nazione lo stimolarono a realizzare prima una rabbiosa ode d’amore a New York, coniugando

dramma privato e pubblico in La 25° ora (25th Hour, 2002:25th Hour Productions/40 Acres & A Mule Filmworks/Gamul Films/lndustry lìntertainment/Touchstone Pictures), poi un documentario fiume destinato alla televisione. When the l^rxves Broke: A Requiem in Eour Acts (2006', UBO), che trasformava l’accusa al ruolo dei soccorsi governativi segui­ ti all’impatto sulle coste meridionali dell’uragano Katrina nell’agosto 2005 in una commovente elegia dedicata a un intero universo svanito

tra rottami e macerie. David Lynch, più di altri.mostrò nelcorsodegli anni Ottanta, per poi

proseguire nei Novanta, un universo artistico personale, talmente indi­ viduale e reiterato da sconfinare nell’ossessione poetica. Assolutamen­ te indifferente agli effetti contestuali, ai mutamenti della società, ai li­ miti produttivi, Lynch sviluppò, fin dal suo esordio. Eraserhead (id., 1977; American Film Institute/Libra Films), una lunga carrellata di in­

cubi a cielo aperto ed enigmi insolvibili le cui radici erano direttamente connesse al suo complesso subconscio e alle inquietudini che lo anima­

vano. Illogica espressiva di Lynch, in effetti, andava ricercata esclusi­ vamente tra i suoi fantasmi inconsci, senza cercare agganci con la real­

tà referenziale, utilizzata soltanto per instaurare un accordo possibile con il pubblico, chiamato a vivere i suoi stessi incubi e a cibarsi intera­ mente della sua filmografia come chiave di accesso per introdursi in un

universo ulteriore con le sue leggi e il suo sistema di riferimento. Un cinema caratterizzato da ambienti asfissianti, colori caricati eccessiva­ mente, una galleria di personaggi convulsi e deliranti, spesso rivoltanti (come il ripugnante Frank Boot/Dennis Hopper di Velluto Blu [Blu Vel­ vet, 1986: De Ijiurentiis Entertainment Group]), illuminati da squarci di luce al neon perennemente in procinto di esalare l’ultimo respiro e intrappolati in costruzioni temporali volte a spezzare linearità e flusso

delle storie per creare inquietanti derive del racconto oppure vertigino­ se riflessioni metadiscorsive (come in Strade perdute [Lost Highway, 1997: October Films/CiBy 2000/Asymmetrical Productions], Mullholland Drive [Mullholland Dr., 2001 : Les Films Alain Sarde/Asymmetri-

cal Productions/Babbo Inc.] e Inland Empire [id., 2006: Studio Canal/

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Fundacja Kultury/Camerimage Festival/Absurda/Asymmetrical Pro* ductions/lnland Empire Productions!). Lynch spalancava le porte dei suoi sogni raggelanti per rappresentare una costante alterazione de) quotidiano, perturbando il familiare, deformando le fiabe in dramma

visionario (Cuore selvaggio [ Wild at Heart, 1990; PolyGram Filmed Entertainment/Propaganda Films]) o suscitando commozione dal mo­ struoso (The Elephant Man [id.. 1980; Brooksfllms]): il risultato era uno smarrimento profondo, uno spiazzamento del razionale in virtù del quale l'incubo e il deformante diventavano la sostanza stessa del rac­ conto e la sua motivazione d'esistenza, il suo fascino segreto rivelato

attraverso un'allucinazionecondivisa. E poi, in ordine sparso, tra i registi che arrivarono al successodi pub­ blico e di critica negli anni Novanta. James Cameron, che vinse undici Oscar nel 1998 per Titanic (id.. 1997; 20th Century-Fox/Paramount/

Lightstorm Entertainment), autentico blockbuster del decennio basato sulla tragedia del celebre transatlantico, orchestrato come un melo­

dramma interclassista invaso dalla potenza devastante del disaster mo­ rie con lo scopo di idealizzare attraverso la pratica narrativa del fla­

shback un amore altrimenti irrealizzabile.

Michael Mann, regista di storie tese come una corda d'arco (Strade violente [77k.- Thief. 1981; Michael Mann Company/Caan Produc­ tions]), ossessivamente incalzanti (soprattutto la seconda parte de L’ul­ timo dei Mohicani {The Last of the Mohicans, 1992; Morgan Creek Productions]) e montate con la precisione di un rasoio (Nemico pubbli­ co [Public Enemies, 2009; Universal/Relativity Media/Forward Pass/

Misher Films]), il cui punto più alto resta il poliziesco esistenziale Heat - La sfida (Heat, 1995; Warner BrosVRegency Enterprises/Forward Pass/Art Linson Produclions/Monarchy Enterprises B.V.). confronto

tra un aspro poliziotto (Al Pacino) e un esperto rapinatore (Robert De Nino) in cui il classico film di rapina si trasformava in una mesta rela­ zione di differenti solitudini metropolitane. Tim Burton, immerso nel suo universo visionario fatto di malinconi­ ci freaks innestati innaturalmente in contesti estranei (Edward mani di forbice [Edward Scissorhands, l990;20lhCentury-Fox]),di personag­

gi romanticamente strampalati (EJlFos Ange­ les del significalo lubrico della canzone Like a Virgin di Madonna o sul l’eventualità di lasciare o no una mancia), si osservavano le nefaste conseguenze del fallimento del colpo, s’inseriva il germe del dubbio su un possibile traditore all’interno del gruppo, si giungeva fino alla cruen­ ta soluzione finale dell’intreccio, ma l’attodella rapina era cancellato, messo completamente in ellissi e recuperalo in seguito, ma solo nei suoi effetti, nei racconti degli isterici e verbosi personaggi e in alcuni fla­

shback (tra cui anche uno falso, per mezzo delle parole del traditore, un infiltrato della polizia interpretato daTim Roth). Pulp Fiction (id., 1994; A Band Apart/Jersey Films/Miramax). che

vincendo il festival di Cannes inaugurò un’autentica Tarantino-mania,

presentava invece una struttura completamente anacronica, in cui la vi­ cenda d’apertura dei due innamorali rapinatori di un ristorante si inter­

rompeva con gli impetuosi titoli di testa e si concludeva circolarmente solo nell’ultima sequenza del film: tra l’inizio e la fine, un intreccio di storie differenti,dal recupero della valigetta di Vincent Vega (John Tra­ volta) e Julius Winnfield (Samuel L. Jackson), al grottesco tentativo di far sparire le tracce di un omicidio accidentale compiuto in un’automo­

bile. passando per la drammatica serata di Vincent con la donna del boss. Mia (Uma Thurman), e per la fuga del pugile Butch Coolidge (Bruce Willis), rifiutatosi di perdere un incontro truccato (nuovamente

in ellissi) organizzato dal boss Marsellus Wallace (Ving Rhames). Confondendo l’ordine dell’intreccio con la logica della fabula. Ta­ rantino plasmava la sua personale visione della fiction, sospendendo le attese come nella migliore tradizione della letteratura di consumo, in­

farcendole di altre vicende parallele e facendole deflagrare successiva­ mente, destrutlurando i criteri causali in modo talmente manipolatorio che Vincent Vega, ucciso durante la precipitosa fuga di Butch, ricom­ pariva beffardamente nel proseguimento del racconto, ignaro del suo destino. lui sospensione non è altro che una forma particolare di dilatazione,

concetto su cui il cinema di Tarantino basa la sua stessa essenza grazie

all’espansione di dialoghi e racconti condotti direttamente dai perso­

// distillalo del cinema: Quentin Tarantino

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naggi. Spesso le lunghe e seducenti conversazioni fungono da sequenze cuscinetto prima dell'esplosione della violenza, in una sorta di quiete prima della tempesta che alleggerisce la tensione (oppure la accresce, secondo i casi) per poi colpire improvvisamente, spiazzando il pubbli­ co. lui conversazione tra Vincent e Julius sui diversi nomi degli ham­ burger nei McDonald's di Parigi e il susseguente sermone tratto da Eze­ chiele 25:17 in Pulp Picton precedevano l'irruzione nell'abitazione dei

ragazzi in possesso della valigetta di Marselluse la conseguente spieta­ ta sparatoria, situandosi sul versante dell'alleggerimento preventivo. Dal canto opposto, la lunghissima sequenza di Bastardi senza gloria in

cui il maggiore nazista Hellstrom (August Diehl), insospettito dallo stiano accento tedesco del tenente Archie Hicox (Michael Fassbender), si sedeva al tavolo dove il plotone dei Bastardi stava discutendo con l’informatrice, l'attrice tedesca Bridget von llammersmark (Diane Kru­

ger), era un esempio di tensione che aumenta inesorabilmente Tino a condurre allo scoppio di una sanguinosa sparatoria, cosi come, con mo­ dalità equivalenti, era proposto lo scaltro mercanteggiare tra il dottor

Schultz (Christoph Waltz) e il latifondista Calvin Candie (Ixonardo DiCaprio) prima del definitivo bagno di sangue in Django Unchained

(id., 2013; The Weinstein Company/Columbia/Brown 26 Productions/ Double Feature Films/SuperCool Man Shoe Too). 1 momenti dilatatori rappresentali dai racconti verbali, inoltre, posso­ no rappresentare snodi fondamentali del racconto, motivazioni decisive per legittimare la scelta di altre azioni altrimenti gratuite e incompren­ sibili. Un esempio su tutti: inPu/p Piction, la fuga precipitosa di Butch dalla città per evitare gli strali di Marsellus Wallace era ritardata dall'aver dimenticato l'orologio paterno nella propria abitazione, ma

l’importanza affettiva di tale oggetto era stala introdotta in precedenza

da una lunga scena in cui il capitano Koons (Christopher Walken), re­ candosi a casa di Butch bambino, gli consegnava l’orologio di famiglia che il padre, morto in un campo di prigionia del Vietnam, aveva gelo­

samente custodito nel proprio ano per impedire che i Vietcong potesse­ ro trovarlo. In un unico caso, la destrutturazione del tempo narrativo si manife­ stava per mezzo della ripetizione delle stesse frequenze de) racconto,

proponendo in fasi successive e lungo tre prospettive differenti e con­

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Storia e storie del cinema americano

correlanti la medesima azione. Io scambio di una busta con denaro all’interno del grande centro commerciale californiano Del Amo in Ja­ ckie Brown (id.. 1997; Miramax/A Band Apari/luiwrence Bender Pro­ ductions). Anche in questo caso i riferimenti illustri erano ben evidenti,

soprattutto nella scomposizione temporale derivata dal Kubrick in Ra­ pina a mano armata, quasi a sottolineare, ancora una volta, una conce­ zione ossessiva nella sua incessante ricercadi trasformazionedella pas­ sione cinematografica in eventualità narrativa.

CAPITOLO 21

La frontiera della percezione: «Avatar»

Di fronte a un ritorno della moda del cinema tridimensionale, recupera­

to concettualmente nella speranza di restituire un ritrovato splendore a uno spettacolo spesso minacciato dalla proliferazione di siti pirata in cui scaricare gratuitamente i film distribuiti al cinema, e alla presenza di una moltitudine di titoli, la cui lista ha raggiunto il suo culmine negli ultimi anni del primo decennio de) 2000, è necessario constatare come pochissimi autori abbiano compiuto un percorso di ricerca differente dal conseguimento del semplice stupore a vantaggio di un pubblico an­

cora impressionabile. Secondo questa prospettiva, la nuova ondata di pellicole in 3D non avrebbe compiuto nessun passo avanti rispetto alla medesima tendenza proposta negli anni Cinquanta, se non perché la stereoscopia s'inserisce in schemi spettacolari differenti, Tigli di un montaggio ipertrofico e di effetti digitali che conducono il pubblico a vivere uno sbigottimento partecipe e continuamente sollecitato, ma che.

nonostante gli sforzi, rimane alla superficie dell'evento, sprecando l'eventualità di un'esperienza totalizzante. Nonostante alcuni ottimi esempi, tra questi Polar Express (The Potar Express. Robert Zemeckis. 2004; Castle Rock Enteriainment/Shangri-lui Entertainment/Playtone/ ImageMovers/Golden Mean/Universal CGI/Wamer Bros.) e Hugo Ca­ brai (Hugo, Martin Scorsese, 2011; Paramount/GK Films/lntinitum

Nihil), lo sfor/x) teorico maggiore di oltrepassare la pura spettacolarità per accedere a un universo frazionale più ricco e articolato, totalmente alternativo rispetto alla prospettiva bidimensionale, fu indubbiamente

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Storia e storie del cinema americano

quello operato da James Cameron in Avatar (id.. 2009; 20th CenturyFox/Dune Entertainment/Ingenious Film Partners/Lightstorm Enter­ tainment). Consapevole di questo autentico attraversamento della so­

glia. Cameron impostò dichiaratamente il suo lavoro sul piano della

metafora visiva, attualizzando la lezione a due dimensioni proposta da Hitchcock negli anni Cinquanta. 11 protagonista di Avatar, Jake Sully (Sam Worthington), non era al­ tro. infatti, che la versione moderna e tridimensionale di L.B. Jefferies (James Stewart) de La finestra sul cortile. Entrambi i personaggi erano spettatori all’interno della storia narrata, entrambi potevano essere assi­ milati a figure vicarie del pubblico. Quella di Jefferies era allegoria nota, come già ricordalo nelle pagine precedenti: fotoreporter con una gamba ingessata per un infortunio sul lavoro, intento costantemente (per disposizione e deformazione professionale) a osservare dallo

schermo/fìnestra della sua stanza ciò che gli attori/dirimpettai metteva­ no in scena quotidianamente. Jefferies era insieme personaggio, simbo­

lo e vettore compulsivo dell’alto forte di guardare, dell’individuare per poi fissare su pellicola (nella fattispecie del film: fotografica). Jefferies era ovviamente immagine di un atteggiamento che lo spettatore, duran­

te la visione cinematografica, avvertiva inequivocabilmente identico al suo, tanto più che l’allegoria si nutriva di un ulteriore elemento di sim­ metria: il blocco temporaneo della mobilità come accettazione passiva di uno spazio circoscritto, cullati dalla passione voyeuristica e difesi pudicamente dall’interazione con l’oggetto su cui convergeva l’atten­ zione. Su quest’aspetto fu imbastito il concetto stesso di metacomunicazione fra il film e il suo pubblico e a questo stesso aspetto si fece inevitabilmente riferimento oltre cinquant’anni dopo, per una nuova co­

struzione del rapporto tra lavoro del film e pubblico di riferimento. Il Jake Sully di A votar, superato abbondantemente il nuovo millennio, era ciò che Jefferies rappresentava alle soglie del cinema moderno, il punto di passaggio tra la trasparenza dell’immagine del cinema classico e la

capacità de) pubblico di riconoscere tale immagine come il riflesso di una relazione comunicativa in cui il singolo spettatore appariva dupli­ cato all’interno della storia, condotto perniano in essa dall’istanza nar­ rante in funzione del suo ruolo di osservatore attento e immobile. Im­

mobile e altrettanto attento era anche Jake Sully: una ferita di guerra lo

Im frontiera della percezione: «Avalar»

479

aveva privato dell’uso delle gambe ed era costretto a servirsi di una carrozzella, cosi come Jefferies, nelle poche occasioni in cui si spostava nella sua abitazione, aveva bisogno delle stampelle. La differenza sotti­

le e profondamente allegorica tra i due risiedeva nell’abitudine allo

sguardo. Jefferies era un fotoreporter, dotato, di conseguenza, di uno sguardo abituato alla ricerca de) particolare speci fico, di occhio avido di scovare la novità determinante della visione. Su di lui e sulla sua capacità di visione convogliava lo stesso sguardo del pubblico classico, temprato da più di cinquant’anni di visione, un pubblico che sapeva perfettamente cosa cercare all’interno dello spazio fittizio proposto e su cosa focalizzare l’attenzione al di là della fìnestra/schermo, oltre la qua­ le condivideva lo stesso sguardo di Jefferies. Jake, invece, per la natura

stessa de) 3D, era l’osservatore ancora vergine, il principiante introdot­ to nella realtà virtuale che ignorava le raccomandazioni dei medici per

fuggire libero e selvaggio nello spazio virtuale con il suo avatar e. so­ prattutto, condue arti totalmente efficienti.anche se ancora barcollanti, instabili, come un fanciullo che stesse facendo pratica della stazione

eretta e della vita stessa. Jake presentava, inoltre, un rapporto di prossi­ mità con l’osservatore attrezzato (sostituiva nell’esperimento il fratello scienziato, morto in seguito a una rapina, grazie alla similarità del codi­ ce genetico), era parente strettissimo dello spettatore addestrato da oltre

cento anni di visione e interpretazione delle immagini, ma era ancora sprovvisto di quell’esperienza diretta dello spazio tridimensionale che si esperisce soltanto solcandolo. Jake rappresentava lo spettatore che ancora non conosce compiutamente e che si entusiasma per il livello differente di visione all’interno delqualeè stato virtualmente introdotto (cosi come le sequenze iniziali di Jake all’interno del mondo virtuale sottolineavano). Se il veicolo utilizzato da Hitchcock per far partecipare

il pubblico dello spazio fittizio (ma bidimensionale) oltre la finestra/ schermo era la soggettiva di Jefferies, lo spettatore vergine dello spazio virtuale di Avatar aveva bisogno di appropriarsi di un intero corpo per accedere alle nuove dinamiche geometriche proposte da Cameron, este­ se perw/ume scenografico, profonde per tecnica utilizzata, enigmati­ che per scoperta progressiva del concetto di meraviglioso. Nel film,

nelle sequenze all’intemo della base militare. Jake trascinava faticosa­ mente le sue gambe per introdursi nel lettino-alveo, grazie al quale.

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Storia e storie dei cinema americano

dormendo, attraversava la soglia della virtualità per riprendere possesso della sua. seppur apparente, piena mobilità. In questo modo, il film e l’organizzazione dell’intero universo spaziale proposto da Cameron

(Pandora) rimodellavano la posizione de) pubblico in sala e ne determi­ navano il suo nuovo ruolo, capace di percepire ed esperire direttamente la nuova dimensionalità instaurata. Con un particolare decisivo in più: il pubblico non si limitava a proiettare l’immagine condivisa con il per­ sonaggio (Jefferies e tutti i vari Jefferies della modalità classica di vi­ sione) e a inlroiettarla (permetterne insieme il valore di ogni suo singo­ lo significalo in funzionedel senso globale de) fìlm). ma era chiamato a

svolgere un differente ruolo identificativo in cui il suo compito non erano più l’esplorazione e la conseguente registrazione, in cui si appli­ cava un’autentica, come nella natura stessa dell’avalar. incarnazione. Incarnazione in un corpo desunto dalloschermo in luogo di un'identifi­ cazione lungo gli assi di uno stesso sguardo. Tuttavia, incarnazione e

identificazione seguivano traiettorie differenti in funzione dei nuovi confini percettivi, poiché la profondità di campo a cui ambiva lo sguar­

do di Jefferies era stata soppiantata, nel 3D proposto da Cameron, da una visione prospettica estensiva che gerarchizzava corpi, volumi, for­ me e contesti. Il percorso percettivo stimolato da Cameron non era as­ sunzione e coinvolgimento automatico attraverso la vista, ma sollecita­ zione del pubblico attraverso il vettore de) corpo. In una delle sue rifles­ sioni davanti allo schermo/diario/registratore. Jake Sully osservava: «devo sentire il mio corpo per sapere che fare». L’atteggiamento di

fronte alla narrazione, i procedimenti di assunzione dell’esperienza, la stessa visione dell’universo Pandora passavano attraverso la percezione del corpo come entità che riceveva, accoglieva e reagiva all’impulso

stimolato dall’estensione volumetrica dello schermo. I candelotti di gas lanciati dalle truppe del colonnello Quaritch (Stephen luing). ancor pri­ ma di rappresentare una minaccia per il popolo dei Na’vi (gli indigeni di Pandora), erano una conferma conativa di tale prassi comunicativa.

Gli oggetti diretti verso la superfìcie dello schermo, scaraventati verso il pubblico assorto, orientavano inevitabilmente l’attenzione dello spet­ tatore. coinvolto singolarmente come corpo (che tendeva istintivamente

a spostarsi) e come soggetto sociale (tutta la fila dei corpi posizionati

uno vicino all’altro tendeva istintivamente a spostarsi). Avatar, nella

Im frontiera della percezione: «Avaiar»

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sua complessa costruzione volumetrica ed estensiva, rivolgeva al pub­ blico imperativi occultati tra le azioni spettacolari e la profondità di un universo pienamente abitabile: il corpo dello spettatore diventava invo­ lucro reattivo, tempio di una sensibilità eccedente che congiungeva su

di sé tutti i sensi, in un’immersione nell’universo tridimensionale che includeva, grazie al sistema Dolby Digital, anche la dimensione acusti­ ca, fatta di flebili riuscii, di eccentrici nimori.di tracce sonore sommes­ se che concorrevano a creare la complessità percettiva dell’intera co­ struzione di Cameron. 113D di Avatar si trasformava in un rituale di progressiva elezione del corpo nel tessuto stesso del film: lo spettatore s’incarnava nella re­ altà parallela di Pandora in virtù di una situazione esperita compieta-

mente, che partiva dal corpo e soltanto successivamente giungeva agli occhi come strumento di filtro e registrazione. L’enorme occhio chesi apriva nell’ultima inquadratura de) film, dopo l’articolata trasformazio­ ne di un corpo reale nel suo corrispettivo virtuale, non era altro che la necessaria appendice simbolica di un ambito percettivo ormai maturo

per spalancare una nuova frontiera.

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501

Indice dei nomi

Boyle, Peter. 384.392 Brackett, Charles, 304 Brady, Matthew, 82 Brakhagc, Stan. 263,266-67 Brando, Marion. 265.334 Brayington, Lawrence, weft Griffith. David Wark Brayington. Lord. 33 Brecht, Bertolt (Eugen Berthold Friedrich Brecht). 79,242 Brcen. Joseph L, 86 Breer, Robert, 263 Brcil. Joseph Cari. 121 Bren, Milton, 139 Brenon. Herbert, 217 Bresson, Robert, 289 Brest, Martin. 414 Bridges. Beau. 402 Bridges. Jed. 335.364 Bronson. Charles (Charles Dennis Buchinsky), 382 Brooks. Mel (Melvin James Kaminsky), 331 Brooks. Richard, 287.290.438 Brown. Clarence, 38.65.116 Brown. Garrett. 431 Browning. Tod (Charles Albert Browning), 142 Bruce, Lenny (Ixonard Alfred Schneider), 352 Bruckheimer, Jerry, 414-15 Bruckman, Clyde, 57,61 Buckley, Tim. 381 Burgess. Anthony. 432 Burnette, Johnny, 343 Bums, Edward, 459 Burstyn. Ellen. 394.398 Burton. Richard (Richard Walter Jenkins). 317*8 Burton. Tim. 420-21.449

Bush, George W..446.450 Caan. James, 396 Caeddo, Juan, 9 Cagney, James. 141.156. 162. 165 Cain. James. 180 Calhoum. Rory. 276 Cambem. Donn, 335 Cambridge, Godfrey, 402 Cameron, James. 413-14.420.47881 Capitaine, Alceidc. 9 Capra, Frank (Francesco Rosario Capra), 136,142, 156-57.183. 198.200-204. 220.236.254. 289. 394 Carey. Harry. 171.202 Carpenter. John, 205 Carradine, Keith, 375 Carradine, Robert, 380 Carrey, Jim, 457 Carroll. John, 222 Carroll. Lewis. 421.426 Carver. Raymond. 458 Case, Theodore, 123 Cash, Rosalind, 438 Cassavetes, John, 258-59.281, 397 Catchings. Waddill. 67 Cclmms, Vija.349 Chabon. Michael. 209 Chabrol. Claude. 290.293-95 Chandler. Raymond. 180.205 Chancy, Lon (Ixonidas Frank Chaney), 66,114 Chaplin, Charlie, IX, 49-55.58.6061. 69-70.74. 137.142,183.319 Chapman. Michael. 342 Chaumeton. Etienne, 175 Cheney, Dick. 450 Chevalier. Maurice. 128,141

502

Chrétien, Henry. 274 Omino. Michael. 377.411 Clark. Alfred. 13 Carice. ArthurC., 432 Carice. Shirley. 256.261 Clearer, Eldridge. 403 Oift, Montgomery. 281 Cine. Edward, 58 Cooney. George. 464 Cobb, Humphrey.432 Cobb. Ixc J. (Ixo Jacoby). 285 Cocteau. Jean. 49.289 Coen. Joel cd Ethan. 422*23 Cohn. Jack e Harry, 320 Colbert, Caudcttc (Emilie Caudcttc Chauchoin). 186 Cole, Ixstcr, 242,244-45 Collier. John, 26 Collinge, Patricia. 213 Collinson. Peter. 378 Collodi, Cario (Cario lx>rcnzini), 192 Comolli, Jcan-lxuis, 211 Conrad. Tony. 339 Conrad. Joseph. 204 Constable. John. 430 Coogan. Jackie, 53.66 Cook. Pam. 395 Cooper. Gary (Frank James CoopcrX 157.167. 188,199,242,311 Cooper. Mcrian C„ 273 Coppola, Francis Ford, 319,322-23. 326-27,353,389.396.415 Coppola, SoGa. 338.457 Corcy.JclT.246 Corman. Roger. 325-27 Corso. Gregory. 261 Cort, Bud.336 Cosmatos. George P.. 413 Cowic, Elizabeth, 150

Indice dà nomi

Craig. Mary. 72 Crawford. Broderick. 237 Crawford. Joan (Lucille Fay lxSucur).66.283 Crisp. Donald. 38 Crosby. Bing. 342 Crosland. Alan. 122 Crowley. Alcistcr. 265 Cruise. Tom. 452.466 Cruze. James. 66.72.115 Cukor, George. 142.185. 188.277 Cummings. Irving (Irving Caminsky). 127.141 Cummins, Peggy, 367 Curtis, Tony (Bernard Herschel SchwartzX 308 Curtiz, Michael (Manó Kertész Kamincr), 147,164. 232, 275, 283 Cretic, Matt, 240 D'Abtadic D’Anast, Hany. 217 D'Arcangelo. Allan. 349 D'Ary. Armand, 9 Dall. Salvador. 179 Dall. John. 367 Dallcsandro. Joe. 464 Damiano. Gerard. 399 Dandridge. Dorothy. 317 Daniels, Jeff. 468 Daniels, William. 116. 140 Dante, Joe. 450 Dassin. Jules, 246.237 Davenport. Mel. vedi Salt. Waldo Dares, Dclmcr. 149.167-68.205. 244.404 Davies. Joseph. 233 Davies, Marion (Marion Cecelia Douras), 66,99 Davis, Andrew, 439

Indice dei nomi

Davis, Ossic.403 Dawley. James Scarte, 34,121, 143 Day-lxwis, Daniel. 464 De Antonio, Emile, 346 De Forest, Lee. 121 De Niro, Robert, 229.359,361,377, 416.420 De Palma, Brian.327.370,377,451 De Toth. Andrà (Sasv&ri Farkasfalvi TóthfaIusiX271 Dean, James, 265,278*79 Debs. Eugene, 42 Deed, Andrà (Andrà Chapuis), 47 Delmont. Maude, 82 DeMille, Cecil Blount.79.93.191.216 Dercn, Maya (Elcanora Dcrenkovskaya), 256,262 Dem. Bruce, 356.380 Deny. Fred, 234-35 Dcsfontaincs, Henri. 31 Dcverich, Nat, 270 Di Caprio. Leonardo, IX. 475 Dickens, Charles, 34 Dickson, William Kennedy lauric, 7,9-11,13, 25 Diehl, August, 475 Diesel, Vin, 224 Dietrich. Marlene. 102.141.309 Disney, Walt, 137.189.191-93.220. 242.415 Dix. Richard, 95 Dixon. Thomas. 40-41.166 Dmytryk, Edward, 179. 234.242. 244 Demarchi. Jean. 290.293 Doncn, Stanley. 196 Doniol-Valcrozc. Jacques. 289 Donner, Richard, 412,414 Dostoevskij. Fedor, 257 Douglas, Gordon, 240

503 Douglas, John, 346 Douglas, Kirk (IssurDanidovitch Demsky). 176. 243-44.305.431 Douglas, William O.. 250 Dourif, Brad. 374 Drew. Robert. 345 Dreyer. Carl Theodore. 289 Dreyfuss. Richard. 393 Du Par. Edwin. 156 Du Pasquicr, Sylvain. 56 Dunaway. Faye. 329.337 Dunham. Hany. 232 Dunne, Irene, 187 Dupont. Andrà, 69 Durgnat. Raymond. 175 Dwan. Allan (Joseph Aloysius Dwan), 44 Dylan, Bob (Robert Allen Zimmerman X 346

Eastwood, Clint, 381-82,423 Eckhart, Aaron, 447 Edcson, Arthur, 214 Edison. Thomas Aha. 6-11.13. 20. 25. 34.121 Edwards, Blake, 319 Edwin. Walter. 143 Eisenberg. Jesse, 468 EjzcnStcjn. Sergej, 72.370.421 Eliot. Charles, 42 Ellis, Bret Easton, 458 Elswit, Robert, 463 Emerson, John. 89 Emmerich, Roland, 445 Engel, Morris, 255 Evans, Chris, 447 Fairbanks, Douglas (Douglas Elton Thomas Ullman).69, 74-77. 142. 154.191

504

FaDc, Peter, 258,397 Fall. Albert,83 Farrar, Geraldine, 73 Farrell, Charles. 100-101 Farrow, John. 271-72 Fassbender. Michael. 475 Faulkner. William. 199.460 Fazenda, l.ouisc.48 Fejòs. Pài. 69,113-14 Fellini, Federico, 264 Ferrer. José. 237 Field, Frederick Vanderbilt, 230 Finch, Peter, 317 Fincher. David. 421.454.457 Fisher, Eddie. 318 Fitzgerald, Francis Scoti. 36,66,82. 117 Flaherty. Robert. 109. 119-20.34546 Fleischer. Max c Daw. 86.193 Fleischer. Richard. 320.291 Fleming. George. 22 Fleming. Victor. 137.154 Fletcher. Ixxrisc. 374 Florey. Robert. 262 Flynn. Errol. 222 Fonda. Henry. 159.167,172. 18788. 243 Fonda. Jane. 335.337.380 Fonda. Peter. 326.464 Ford. Glenn (Gwyltyn Samuel Newton Ford). 139, 240 Ford, Harrison, 409,412 Ford, John (Sean Aloysius O’Fccney/John Martin Feeney), 66, 107,124.136.141, 168-73, 220,243. 254.274.395 Foreman, Carl. 246 Forman. Milos, 363 Forster. Robert. 350

Indice dei nomi

Fosse. Bob. 352 Foster, Jodie, 360 Foulkes, l.lyn, 349 Fox. William (Wilhelm Fried), 27, 30,32,66-67,78 Foy, Bryan, 123,271 Frampton. Hollis. 268.339,388 Frank, Robert, 261 Frank, Tom, 375-76 Frankenheimer, John, 376.385 Franklin, Chester M., 154 Frazier, Joe, 403 Freed, Donald, 385 Freeland, Thornton, 142, 196 Frelcng. Friz, 194 Freund, Kari, 142,180-81 Friedkin. William, 322,342,349, 370,393 Fuller, Samuel. 240.291 Fùssli, Johann Heinrich. 430

Gabel. Shaince, 461 Gable. Clark. IX. 140.147.163. 186-87 Gaghan. Stephen. 450 Gainsborough. Thomas. 430 Garbo. Greta (Greta l-ovisa Gustafsson). IX. 66.112. 116. 140.241 Gardner. Ava. 149 Garfield. Andrew. 449 Garfield. John (JacobJulius Garfinkle), 159.175.222. 246 Garfunkel. Art. 340 Garland. Judy, 277 Garmes. 1-ce, 163 Garnett, Tay. 222 Garris, Mick, 432 Gaynor, Janet, 101 Geer. Will. 246

Indice dei nomi

George. Peter, 432 George. Susan. 384 Gershwin, George (Jacob Gershowitz), 195 Gheddafi (Mu’ammar AbùMinyar ‘ Abd al-Salàm al-Qadbdhàfi), 438 Gibson. Mei. 4! 2.414 Gilbert. John (John Cecil Pringle). 66.116.126 Gilman, Jared. 469 Ginsberg. Allen. 261 Giorno. John, 266 Gish, Dorothy, 80 Gish, Lillian, 33,38,66,78,112 Godard, Jean-Luc, 290,293.329 Goldberg. Adam. 224 Goldman, Peter Emmanuel, 256-57 Goldoni, Ixlia, 259 Goldwyn, Samuel (Schmuel Gclbfisz). 137, 139 Gomez. Nick. 421 Gondry. Michel. 426 Goodis, Dadd. ISO Goodman. Benny. 243 Gordon, Michael, 237 Gordon, Ruth. 336 Gottschalk. Robert E.. 275 Gould, Elliott (Elliott Goldstein), 339.357 Goulding. Edmund. 375 Gouzenko. Igor. 240 Gowland. Gibson. 91 Granik. Debra. 462 Grant, Cary (Archibald Alexander Leach). IX. 87.184. 187-89,297, 303,340 Graves, Peter, 309 Gray, James, 456 Gray, Zane, 166

505 Greaves, William, 403 Green, Alfred E., 85,195 Green, David Gordon, 461 Greengrass, Paul, 440,452 Greer, Jane, 176 Griffith, David Wark, 29,33-41.4447, 50,55,69-70,80,89, 91,115. 118.142. 167.327. 290.335 Griffith. Jacob. 33 Griffith, tawrcncc, vedi Griffith. Dadd Wark Griffith. Raymond, 61 Grizzard, George. 438 Grosbard, Ulu.392 Guercio. James W„ 353 Gul lette. Scan, 456 Gunzburg, Milton, 270 Gultcntag, Bill. 441 Guy, Alice, 256 Gyllenhaal. Maggie. 447

Hackett. Francis.42 Hackman. Gene. 342.357-58.468 Haggis. Paul. 451 Haines, William. 66 Hale, George C„ 13 Haley. Bill. 343 Halicki. H.B..465 Hall. Philip Baker. 467 Hamilton, George, 282 Hamilton, Linda, 314 Hammett. Dashiell. 176.180 Hammid. Alexander. 262 Hanks, Tom, 224 Hardy. Oliver. 61-62.183.331 Harrington. Curtis. 258 Harrington. Michael. 324 Harris, Ed. 457 Harrison, Rex, 318 Harron, Robert. 80

506

Hait, William Surrey. 167 Hartley, Hal, 421 Harvey, laurence (Zvi Mosbeh Skikne), 385 Haskell, Molly. 395 Haskin. Byron, 156,444 Hathaway. Henry. 141.239.274 Hawks. Howard. 85.87.103. 124. 136.161. 163.183-85. 187. 204. 221.254. 292.344 Hayden, Stcriing(Stcrling Rclyca Walter). 229. 243 Hayes, Isaac, 403 Haynes, Todd. 454 Hays. William Harrison. 83.87, 96. 122.231 Hayward. Kara. 469 Hayworth, Rita (Margarita Carmen Cansino), 243 Hearst, William Randolph, 81-82. 99. 205-207 Hecht. Ben, 184 Heise, William. 16-17 Hellman, Lillian, 229 Hellman, Monte, 326 Hemingway. Ernest, 117. 175-76 Henrcid. Pau), 243 Hepburn, Audrey (Audrey Kathleen Ruston), 305.311 Hepburn, Katherine. 142. 188-89. 243 Hepworth. Cecil M., 35 Herrmann. Bernard. 299 Hillcoat, John. 445 Hiller. Arthur. 253 Hitchcock. Alfred. 87,137. 179. 218.272. 292.294-303.311.319. 331.395.458,478-79 Hoffman. Dustin. IX. 335.352.354. 383.389.392

Indice dei nomi

Hoffman. Philip Seymour.442 Hogart. William. 430 Holbein. Hans il Giovane. 276 Holden. William (William Franklin Bccdlc Jr.). 148-49.188. 286. 305.309 Holly. Buddy (Charles Hardin Holley). 343 Holubar, Allen. 89 Hood. Gavin. 451 Hope. Bob (Ixslic Townes Hope), 183,293 Hopper, Dermis, 322,326.334.339. 349-50.419 Hopper. Hedda, 206 Home, James W„ 61 Hough, John, 465 Howard, Ron. 456 Howard. William K.. 208 Hour, James Wong. 164 Hudson. Rock (Roy Harold Scherer Jr.). 281.283 HulT. Theodore. 55 Hughes, Allen,460 Hughes, Howard. 252 Hugo. Victor. 113 Humphrey. Hubert. 345 Hunter, Meredith, 346 Hussein, Saddam. 449 Huston, John, 176,220,243,246, 292,361 I nini tu, Alejandro Gonzllcz.440 Inee, Thomas Harper, 29,167, 216 Ingram. Rex. 65. 77.115 Ivens, Joris. 232

Jackson. Donald. 245 Jackson. Mahalia. 282 Jackson. Samuel 1... 448.474

Indice dei nomi

Jacobi, Lou(Ixxiis Harold Jacobovilch). 307 Jacobs, Lewis. 18,49,93,263 JafTc. Leo. 320 Jannings, Emil (Theodor Friedrich Emil Janenz), 105 Jarmusch, Jim, 417 Jarrico. Paul.233. 246 Jenkins, FrancisC., IO Jewison, Norman, 401 Johnson, Ben, 344 Johnson, Nunnally, 285 Johnston. Claire, 395 Johnston, Erie. 87 Johnston. Eric. 241 Johnston. Hobart. 30 Johnston. Joe. 448 Jolson. Al (Asa Yoclson), IX. 123 Jones, Chuck. 194 Jones, Duane, 404 Jones, Tommy Lee, 451 Julian, Rupert (Thomas Percival Hayes), 114 Kahn, Otto, 70 Kalatozov, Mikhail, 463 Kalmus, Herbert, 154 Kaminski, Janusz, 465 Kaminsky, Stuart, 182 Kane, Helen, 193 Kanin, Garson, 188 KariolT, Boris (William Henry Pratt), 327,331 Kamo, Fred, 49,61 Karzhukov, Mikhail, 327 Kaufman, Charlie.426 Kaye, Danny (David Daniel Kaminski), 183 Kaye, Stanton, 257 Kazan, Chris, 378

507

Kazan, Elia (Elias Kazanjoglou), 229.232, 234-37,243.247, 258, 277-78.281.290.378-79 Keach. Stacey. 362 Keaton, Joseph detto «Buster». 5561.69,83 Kcigel. Léonide, 289 Keitel, Haney, 340.360-61 Keith. Robert. 284 Kelley. John Patrick. 461 Kellogg. Ray. 377 Kelly. Gene. 196.243.320 Kelly. Richard. 426.459 Kennedy. Arthur. 288 Kennedy. John Fitzgerald. 323-24. 343.345.385 Kennedy. Joseph. 68.92 Kcricorian, Kirk. 318 Kem, Jerome, 195 Kerouac, Jack, 261 Kcscy, Ken, 374 Kessel, Adam. 29,49 King. Henry, 38, 117.141 King. Stephen. 432 Kleine, George, 26 Kline. Herbert, 232 Kline, Owen. 468 Knight. Shirley. 396 Koch. Howard, 233,241-42 Kohner, Susan, 281 Kolisnyk, Peter. 430 Komarov, Sergej, 74 Korty. John, 257 Kosinski, Joseph. 452 Koster. Henry. 244.274 KotchclT.Tcd.413 Kovécs, lJszló.349,356 Kozyr, Aleksandr. 327 Kramer, Robert, 346 Kramer, Stanley, 320,401

508 Krim, Artur. 318 Kristofferson, Kris, 399 Kruger, Diane, 475 Kubrick, Stanley. 244.376.388. 427.430-33.476

l«a Cava. Gregory, 142,157 Ladd.Alan. 175 I -add, Diane, 398 Ijcmmlc, Cari, 27-28.30-31.65. 69.73 l-acmmlc, Cari Jr.. 69 l-akc, Veronica (Constance Frances Marie Ockclman). 151 Lam, Ringo, 471 Ixncastcr. Burt. 175-76.243.405 lume, Maric. 385 l-ang. Fritz, 158-59. 179-80,254. 276.292-93 l-ang. Stephen, 480 lumgdon. Hany, 61 Lardner, Ring Jr.. 242 l-ardner. Ring. 244 LaShclle. Joseph. 181 Lasky. Jesse. 32, 73,94 Ixughton, Charles, 306 Ixurcl. Stan (Arthur Stanley Jefferson), 61-62.183.331 l-awrcnce. Florence. 31. 73 Ixwrcnce. Francis. 445 l-awson, John Howard. 231,242 Lc Roy. Jean-Acme, 10 Leach. Wilford. 327 Leacock, Richard, 345 Lean. David, 318.320 Leavitt, David, 458 Ledger. Heath. 447 Lee. Ang. 448 Lee, Spike, 418.442-44 Lchrman, Henry. 50

Indict dei nomi Leigh, Janet (Jeanette Helen Morrison), 298 Leigh, Vivien (Vivian Mary Hartley). 147 Leisen, Mitchell. 158. 185 Ixmmon. Jack. 306-308 Ixni. Paul. 69.113.142 Ixonc. Sergio. 423 IxRoy, Mervyn. 103.156. 159. 161-62 Ixslic, Alfred, 260-61 Lesser. Sol. 72,227 Ixto. Jared. 456 Ixvcring. Joseph. 216 Ixwis, Jerry (Joseph Levitch), 183. 293 Ixwis, Joseph H„ 367 Ixwton, Vai (Vladimir Leverton), 181 Ixyda. Jay, 232 Liman, Doug. 459 Lincoln. Abraham,44, 121.170 Lindbergh, Charles, 123 Linder, Max (Gabriel-Maximilien Lcuvicllc),47,50 Linney, l-aura, 468 Lippmann. Walter. 320 Litvak. Anatole. 218.220.237 Liu. Chia Hui. 473 Llewellyn. Richard. 172 Lloyd. Danny. 431 Lloyd. Harold. 60-61 lx Bianco. Tony. 349 lx Duca, Joseph-Marie, 289 Loach, Ken, 464 Loden, Barbara, 397 Ixcw, Marcus. 27,31-33,65-66 Logan, Joshua, 286.291.319 Ixmtard. Carole (Jane Alice Peters). 205

Indice dei nomi

Long. Hucy. 237 Ixxd, Daniel. 84 Lorentz. Parc.232.345 I-oscy. Joseph. 229.246.291 Loy. Myma (Myrna Adele Williams). 140 Lubitsch. Ernst, 67.85.106. 109-11. 128.141. 194.241.304.310 Lucas. George. 322.343.407.409. 415 Lucente, Francesco. 451 Luhrmann, Baz. 425 Lumet. Sidney. 335.376.383.389 Lumière, Louis e Auguste. 9-10.31 Lundgren. Dolph. 413 Lupino. Ida, 256.395-96 Luther King. Martin. 324 Lynch. David, 419-20.457 Lynch. Richard. 401 Lync. Adrian. 415 Lynn, Jeffrey. 165 Lyon. Sue, 432 MacArthur, Charles, 184 MacDonald, Jeanette. 128.141 Mackenzie Philips, (.aura. 404 Macinine, Shirley. 306 MaeMurray. Fred. 180.306 Macy. William H.. 466 Maddow. Ben, 257 Magee. Patrick. 428 Maguire, Tobey, 449 Malcolm X (Malcolm Little), 324, 418 Malick, Terrence, 353,427 Malone, Dorothy, 284 Maltz, Albert.242. 244 Mamoulian, Rouben, 129,154,317 Mankiewicz, Herman, 205-206 Mankiewicz. Joseph L.. 149,316-17

509

Mann, Anthony (Emil Anton Bundesmann). 167-68.290.404 Mann. Hank,48 Mann. Michael. 420 Mann. Thomas. 243 Manoogian, Haig. 327 Marcy. Èticnnc-Julcs. 5 Markopoulos. Gregory (Giorgios John Markopoulos), 261-63 Marquette. Ron. 455 Marsh. Mac. 33 Marshall. George. 220.274 Martin. Dean (Dino Paul Crocetti). 288.293 Marx, Groucho (Julius Henry Marx), 352 Mason. James. 277.300.432 Massey. Raymond, 278 Matthau, Walter (Walter John Matthow), 306 Maybury, John, 457 Mayer. Cari, 106 Mayer, Ixhjìs B. (Ezcmicl Mayer), 33. 65.206.241 Mayfield. Curtis. 339 Mayslcs. Davide Albert, 345-46 McCarcy. Lco.61. 136.187.239. 242 McCarry. Charles. 438 McCarthy. Cormac, 445 McCay. Winsor. 14.190-92 McClellan. George. 12.26-27. 32. 83 McConaughey. Matthew. 457 McCoy, Horace, 373 McCrea. Joel, 151,218 McCutcheon. Wallace, 15,20,23 McDowell, Malcolm. 388.428 McKellen. Ian. 455 McKinley. William. 11

510 McMurtry, l^iny. 344 McTicman, John. 414 Mckas, Jonas, 260. 262-64 Melford, George, 77 Méliès. Georges, 14,26 Mellen, Joan, 395 Mcllctt, Ixjwrll. 219 Monandro. 182 Menjou. Adolphe. 110 Mcreanton, Louis, 31 Messmer. Otto, 191 Meyers, Sidney. 232.257 Michcaux, Oscar, 118-19 Milestone, Lewis (Ixv Milstein), 68, 116.218,242,276 Miliits, John, 327 Milland, Ray (Reginald Alfred John Truscott-Joncs), 158,308 Miller, Arthur, 403 Miller, Arthur C„ 173 Miller, David. 222.385 Miller, Jason. 394 Mineo, Sal. 279 Minnelli. Vincente. 196.282.284. 286.293 Minter. Mary Miles. 83 Mitchell, Eric. 417 Mitchell, John Purroy, 42 Mitchum. Robert. 139.175-76.235. 282 Mitry, Jean, 211 Mix, Tom, 66.167 Mizoguchi, Kenji, 289 Molina, Alfred, 449 Monroe, Marilyn (Norma Jcanc Mortenson), 276,308 Montagu. Ivor, 72 Montgomery, Robert, 205 Moore, Juanita, 281 Moore. Michael, 441,452

Indict dà nomi

Moran, Polly. 48 Morgan. Ralph. 208 Moroder. Giorgio. 411 Morrell, David. 413 Morricone, Ennio, 472 Morrissey, Paul, 464 Moslcl. Zero (Samuel Joel Mostcl), 246 Mulford, Clarence, 166 Mulligan, Robert, 392 Mulvey, luiura.395 Muni, Paul (Mcshilcm Meier Weisenfreund), 159,162 Munroe, Cynthia. 327 Mumau. Friedrich Wilhelm (Friedrich Wilhelm Plumpc). 71, 100-101,106-109,120,259, 464 Murphy, Eddie. 414 Murphy. Michael. 375 Musante. Tony. 370 Musuraca. Nicholas. 181 Muybridge, Eadweard. 5-7.121 Myrick. Daniel. 445 Nabokov. Vladimir Vladimirovkf. 432 Nair. Mira. 460 Neal, Tom. 177 Nelson. Ralph. 377 Newman. Barry. 464 Newman. Paul. 286-87.386.416 Ncwmcycr. Fred. 60 Niblo. Fred. 77 Nichols. Jeff. 457 Nichols. Mike (Michael Igor Pcschkowsky). 335.340.354 Nicholson. Jack, IX. 322,326,35556, 363.428 Nicholson. James, 322,325 Nixon, Richard, 241,324.385. 390

Indice dei nomi

Nolan, Christopher. 426.447.449. 457 Nolle, Nick. 414 Norling. John, 270 Normand, Mabel, 48,82 Norton, Edward, 442 Novak. Kim (Marilyn Pauline Novak). 302 Novano. Ramon (Jose Ramón Gii Samaniego). 66 O'Brien, George. 171 O’Brien. Pau 164 O'Connor, Flannery, 464 O’Hara, Maureen (Maureen FitzSimons). 173 O’Neal. Ron, 339 O’Neil. Ryan.430 Oates, Warren, 358 Oberon, Merle (Estelle Merle Thompson), 212 Oboler, Arch, 270 Odets, Clifford. 241 Olivier, laurence. 212 Ophuls, Max. 289 Orkin. Ruth. 255 Orlovsky. Peter. 261 Omitz, Samuel. 242 Oswald. Gerd. 291 Oswald. Lee. 324.384 OtU Frcd.8 Ott. John. 9 Ozu. Yasujiró, 340

Pacino. Al. 358.364.420. Pakula. Alan J.. 386-89 Palmer. Ernest, 100 Paltrow. Gwyneth. 468 Parker. Albert. 77 Parks, Gordon, 403

511 Parks, Gordon Jr., 339 Parrott. James, 61 Parsons, Ixxtclla. 206 Passare, Alan, 346 Payne, Alexander. 455 Peek. Gregory.235.243.285 Peckinpah. Sam. 253.353.355.358. 372 Pccroc. Larry. 370 Peirce, Kimberly. 461 Penn. Arthur. 253.329-30 Penn. Scan. 439 Pennebaker, Donn Alan. 345-46 Peppard. George. 282 Pepper. Barry, 442 Perkins, Anthony. 299.386 Perry. Frank. 257.397 Physioc, Wray Bartlett. 154 Piche), Irving. 242 Pickford. Jack. 81 Pickford. Mary. 28,33,69-70. 7475. 81.126.142. 216.319 Pidgeon, Walter. 173 Pitts, Zasu. 91 Plauto. 182 Plumes, Irving Stallings. 98 Poe. Amos.417 Poe. Edgar Alton. 326 Pollack, Sidney, 253,336.373, 376. 388.405 Polonsky. Abraham.229.237. 246 Port. Robert David, 441 Porter, Cole, 195 Porter. Edwin Stratton. 14-15. 18-19. 22-23.270 Powell. Dick. 175.179 Powell. Frank. 78 Powell. William. 163 Power. Tyrone, 239.307 Poynter. Nelson. 219

512

Prati, Ray.453 Preminger, Otto, 87,148, 177-78. 180,276.317 Prieto, Rodrigo, 465 Primus, Barry, 337 Provai. David. 340 Pudovkin, Vsevolod, 118 Purviancc, Edna. 51

Quigley, Martin, 84

Rafclson. Bob. 253,321-22.356 Raft George. 163,176 Railsback, Steve, 379 Raimi. Sam, 439,448-49 Rains, Claude, 297 Ramis, Harold, 426 Rappe, Virginia, 81 Rapper, Irving. 244 RatolT. Gregory, 233 Ray, Nicholas, 278,291 Read. Rufus, 467 Reagan. Ronald, 242,252,407 Redford, Robert, 389.392 Reeves, Matt, 445 Refn. Nicolas Winding, 465 Regan. Tricia, 450 Reichardt, Kelly, 459 Reilly. John C.. 467 Rembrandt, Harmenszoon van Rijn, 97 Renfro. Brad. 455 Renoir. Pierre-Auguste, 289 Renoir, Jcan.93,432 Resnais, Alain, 335 Rcvucltas, Rosaura, 245 Rcy, Fernando (Fernando Casado Arambillct), 349 Reynolds, Burt, 371 Reynolds, Joshua. 430

Indice dà nomi

Rhames. Ving. 474 Rice. Condoleezza. 438 Rich, Robert, vvdiTrumbo. Dalton Riddle, Nelson. 433 Riskin. Robert, 236 Ritchie, Michael, 392 Riti, Martin, 246.259,286 Rivede, Jacques (Pierre Ixxiis Rivetto), 290.292 Roach. Hal. 61.139 Robards, Jason, 446 Robert, Kennedy. 324 Robertson. Cliff. 388 Robinson, Amy, 361 Robinson, Edward G. (Emmanuel Goldenberg). 141,161, 179,218 Robson, Mark, 240 Rockefeller. John D. Jr.. 206 Roemer, Michael, 257 Rogers. Ginger, 142,196.308 Rogosm. Lionel. 255,261 Rohmer. Eric (Jean-Marie Maurice Schércr), 290.292,294-95 Romanus, Richard, 361 Romero. George A.. 376 Roosevelt. Franklin Delano, 156. 196.219,231-32,241 Rosen, Marjorie, 395 Rosenbaum, Steven. 441 Rosenberg. Julius cd Ethel. 230 Rosenberg. Stuart, 350,386 Ross, Gary, 454 Ross, Katharine, 347 Rossellini. Roberto. 293 Rossen, Robert, 237,242 Roth. Tim. 474 Rouse, Russell, 181 Rowlands. Gene, 397 Ruby. Jack. 324.384

Indice dei nomi

Ruggles, Wesley, 85 Ruscha, Edward, 349 Rush, Richard, 339 Russell, David O., 450 Russell, Harold, 233 Russell. Rosalind, 184.205.286 Ryan, Robert. 241

Saint. Eve Maric, 87 Salt Waldo, 246 Sampson, Will, 363 Sànchcz, Eduardo, 445 Sanders, Denise Terry, 257,261 Sandler, Adam. 441 Sandow, Eugene, 9 Sandrich. Maric. 142. 196 Santoro. Rodrigo 446 Sarafian, Richard C„ 353,464 Sarazin, Michael, 336 Sargent, Joseph. 471 SamofT. David. 68 Sarrazin. Michael. 355 Sarris. Andrew. 290 Savage, John, 379 Sayles. John. 416.461 Schaefer. George. 204.206-207 Schaffner. Franklin J.. 253 Schatzbcrg. Jerry. 336.343.358 Schcidcr. Roy. 337.393 Schenck, Joseph. 67 Schlesinger, John, 335 Schlondorif, Volker, 304 Schneider, Abe, 320-21 Schneider, Bert, 321 Schnitzler, Arthur, 432 Schocdsack, Ernest B„ 142,273 Schrader, Paul, 175 Schulbcrg. Ben, 92 Schulbcrg. Budd, 247 Schwarzenegger, Arnold. 412-13

513

Scorsese, Martin, 173,229.326-27. 340.342,398.415-16.477 Scott. Adrian. 242.245 Scott. George C.. 429 Scott. Ridley. 410.446 Scott. Tony. 411.415 Sedgwick. Edward. 59 Scidclman. Susan, 417 Seiler, Ixwis, 124 Setter. William A.. 61 Seitz. John F.. 116. 181 Sellers, Peter (Richard Henry Sellers), 429 Selznick, David O., 134, 137, 154, 243 Scmon. 1-arry. 61 Sennett. Mack. 29.47-49.56. 331 Shakespeare. William. 182,421.425 Shannon. Del. 343 Shannon. Michael. 457 Sharits, Paul. 339 Shaw. Robert. 393 Shearer. Norma. 66 Sbccler, Charles, 262 Sheen, Martin (Ramon Antonio Gerard Estevez), 361,370 Shepherd, Cybill. 360.364 Sherin. Edwin. 378 Sherman, George. 405 Sherman. I-owcll. 85 Shyamalan. M. Night, 426.448.457 Sidney. George. 272 Sidney, Sylvia (Sophia Kosow), 159-60 Siegel, Don, 150.229,381,423 Silva, Henry, 438 Silver. Joel, 414 Silverstein, Elliot, 405 Sinatra, Frank, 286 Sinclair. Upton. 72,464

514 Singer, Bryan, 447-48.454-55 Siodmak. Robert, 176.180 Sirie. Douglas (Hans Detlef Sicrck), 281.283-84 Sjòstròm. Victor. 112-13 Sklar, Robert. 29-30 Smalley. Phillips. 38.50 Smith. Albert E.. 17 Smith. Hany. 263 Smith. Jack, 264 Smith, Patty, 417 Snodgress, Carne, 397 Snow, Michael, 268 Snyder, Zack, 446 Soderbergh, Steven, 464 Soliima, Sergio, 473 Solondz, Todd, 467 Sonnenfeld, Barry, 439 Sontag, Susan (Susan Rosenblatt), 264 Spacey, Kevin. 447 Spielberg. Steven. 224.253.328. 353.392.409.415.444 Sponablc. Eari, 123 Sprechcr, Jill. 454 Stahl. John M.. 155.283 Staiger. Janet. 143 Stallone. Sylvester. 411-13 Stamp. Terence. 464 Stander. Lionel. 246 Stanford. Leland, 5-6 Stanwyck. Barbara (Ruby Catherine Stevens). 85. 180.187.200 Starrett, Jack, 376 Steiger, Rod, 402 Steinbeck. John. 172,232 Sterling, Ford, 48 Sterling, Jan, 309 Stevens, George. 142. 196.243. 254. 281,463.472

Indice dei nomi

Stevenson. Robert. 240 Stewart. James. 185.199-200.301302.478 Stiller. Ben, 468 Stone, Oliver, 417,425,440 Story, Tim. 449 Strand. Paul. 262 Strick. Joseph. 257 Sturges. Preston (Edmund Preston Biden). 151.187. 208.331 Sullivan. PaL 191 Swank. Hilary.461 Swanson. Gloria (Gloria May Josephine Svensson). 69.79.90, 93,95-96.126 Sweet, Blanche, 33 Tarantino, Quentin, 424.434.47075 Tashlin. Frank. 293 Taylor. Elizabeth. 281.317-18 Taylor. Robert. 223.242 Taylor. Sam. 60 Taylor. William Desmond. 82 Temple, Shirley, 141 Tennyson, Alfred. 37 Terenzio. 182 Thackeray. William Makepeace. 432 Thalbcrg. Irving. 65-66.89.92, 98, 127,134 Thomas, J. Parnell. 241-42.244.325 Thomas, Olive, 81 Thompson, Jim, 143, 180 Thorpe, Richard, 274 Thourcau, Henry David. 287 Thurman. Uma, IX. 473-74 Tierney. Gene, 148.283 Todd, Mike. 275 Toland. Gregg, 173.212-14.262 Torrence. Ernest, 38

515

Indice dei nomi Tourneur, Jacques. 176, 181 Toumeur. Maurice, 38 Tracy. Spencer. 140.158,208 Travolta, John, 474 Truffaut, Francois, 256.290.293-95. 329 Truman. Hany. 243 Trumbo. Dalton. 242, 244.385 Tucci, Stanley. 447 Turner. Florence, 28 Turpin. Ben, 48 Tyrrell, Susan, 362

Udvamoky. Chris, 392 Ulmer, EdgarG., 177,180,290-91

Valenti, Jack, 399 Valentino. Rodolfo (Rodolfo Guglielmi). 69,77,116 Van Dyke, W.S., 163 Van Gogh, Vincent, 421 Van Peebles, Melvin, 402-403 Van Sant, Gus, 421 Vandcrbcck. Stan, 263 Varda, Agnis (Ariette Vanda). 403 Vega. Isola, 359 Vcillcr, Bayard, 124 Velie, Gaston. 14 Verbinski. Gocc.415 Vergara. Sofia. 439 Vermeer. Jan. 421 Vidor. King W., 65.70-71.97-100. 127-28.137,156.217.280 Voight, Jon. 336. 355.371,380 Von Fritsch. Gunther, 273 Von Sternberg. Josef. 71-72.92, 102-105,117. 161 Von Stroheim. Eric (Erich Oswald Stroheim). 38.65.68, 71.88-93. 216.464

VonSydow.Max.389 Vorkapich, Slavko (Slavoljub Vockapic), 202.262

Wachowski. Andy c Larry. 414 Waggner, George, 181 Walken. Christopher,379,475 Walker, Robert. 239 Waller. Fred, 273 Wallis. Hal. 137 Wallis, Quvcnzhani.462 Walsh, Raoul (Albert Edward Walsh), 69.77,107, 127,156. 158.179,222 Walters. Mctora.467 Walton c Mayon. 10 Waltz, Christoph. 472,475 Wanger, Walter (Walter Feuchtwa­ nger). 137,159, 169,218.317 Warhol. Andy (Andrew Warhola). 265-66.421 Warner. Hany. Albert «Abe». Sam. 67 Warner, David. 383 Warner, Jack, 67,160.241,319 Watson, James Sibley, 262 Watts. Bill. 232 Wayne. John (Marion Robert Morrison). 139. 146.150. 167. 170-71.222,271,377 Weathers, Cari, 412 Webb. Marc. 449 Webber, Melville. 262 Weber, Lois, 38.50 Weir, Peter. 456-57 Welles. Orson. 142,173, 204-210, 212-14.246.286. 290.327, 341 Wellman, William, 103.154.16062,217,238.240 Wells, Herbert G.. 204.444

516

Wcndcrs, Wim, 352 West. Mac. 85.141 West, Raymond B.. 216 Wexler. Haskell. 351 Whale, James. 142 Whedon. Joss. 449 White. James. 16 Whitford. Annabelle. 9-10 Whitley. Hobart Johnstone, 30 Whitman. Charles, 369 Whitman. Walt.43 Whitney, Johne James, 264 Widmark. Richard, IX. 176 Wilcox, Horace Henderson, 30 Wilde, Ted. 60 Wilder. Billy (Samuel Wilder), 93. 148.180. 188,243. 293.303-305 Williams. John. 307 Williamson, James, 17 Willis. Brace. 412.414.446.448. 474 Wilson. Luke. 468 Wilson. Michael. 441 Wilson. Owen. 469 Wilson. Woodrow. 41 Winkler, Irwin. 228-29 Winner, Michael, 381 Winslet. Kate. IX Wister. Owen, 166 Wolfe. Ian. 306 Wollcn. Peter. 93

Indice dei nomi

Woo. John(Yuscn Wu),471 Wood, John Stephens, 245 Wood. Natalie 281 Wood. Robin. 294 Wood. Sam. 242 Woods. James. 378 Woodward. Bob. 389 Woodward. Joanne. 287 Woolrich. Cornell. 180 Worsley. Wallace. 114 Worthington. Sam. 478 WyckolT. Alvin. 97 Wyler. William. 173.211-13. 13637, 233.243.254 Wyman. Jane, 281.283 Young. Gig. 355 Young. Robert. 236.257 Young. Terence. 319 Zaldivar, Juan Carlos, 450 Zanuck. Danyl F..67, 134.227-28. 318 Zecca. Ferdinand. 14 Zeitlin. Benh. 462 Zemeckis. Robert. 426.477 Zmnemann. Fred. 168.246.275 Zukor. Adolph. 27.30-32.63-64. 69-70,73-74.81-82 Zwerin. Charlotte. 346 Zwick. Edward, 445

Indice dei titoli

11 settembre 2001.439-40 H'O9"Ol-September 11, sedi II settembre 2001 2001: A SpaceO&sscy, vedi 2001: Odissea nello spazio 200!: Odissea nello spazio, 428. 430.432 2012,445 25* ora. Za 419.442 25th Hour, vedi 25* ora. Za 3 Bad Men, vedi Trefurfanti. ! 3:10 to Yuma, vedi Quel treno per Yuma 306.446 39 Steps. The, vedi Club dei 39. Il 42nd Street. vedi Qurantaduesima strada 48 Hrs, vedi 48ore 48ore,4\4 7 Days in September, 441 7Ih Heaven, vedi Settimo cielo

A A A A

casadopo Fungano, 282 prova di errore, 376 qualcuno piace caldo, 308,310-11 rotta di collo, 60

Accadde una notte, 183.186.200 Accidenti che ospitalità!, 57 Act ofSeeing with One's Own Eyes. The,201 Adventurer. The, vedi.Evaso. Z„* Adventures of Dollie, The, 35 After Hours, vedi Fuori orario After Many Years, 37 Agente 007, licenza di uccidere, 319 Agonia sui ghiacci. 80 Air Circus. The, vedi Via delle stelle. La Air Force, vedi Arcipelago in ftamme Alba di gloria, 170 All the Fighter, 403 Ali, 217 Alibi, 128 Alice Doesn 7 Live Here Anymore, vedi Alice non abita più qui Alice non abita più qui, 397 AU Quiet on the Western Front, vedi Ovest niente di nuovo. All' All That Heaven Allows, vedi Secondo amore AU the King 's Men, vedi Tutti gli uomini del re

518

AU the President 's Men, vedi Tutti gli uomini del presidente Allegro tenente. L', 112, 194 Allelujal, 127 Allievo. L', 454-55 Allures, 264 Alta tensione, 331 Amante indiana. L ', 167.404 Amazing Spider-Man. The, 449 Amerian Tragedy, An, vedi Tragedia americana. Una America 1929: sterminateli senza pietà, 326 America oggi, 415 America. America, dove vai?, 350 American Graffiti, 343.404 American in Paris, An, vedi Americano a Parigi. Un Americano a Parigi, Un, 196 Amcrika, 403 Amore più grande. L ’, 239 Amore sublime, 137 Anche gli uccelli uccidono, 340.356 Anderson Tapes. The, vedi Rapina recorda New York Angeli conia faccia sporca. Gli, 164 Angelo azzurro. L ’. 102 Angelo della strada. /, ’. 101 Angelo è caduto. Un, 177 Angels with Dirty Faces, vedi Angeli con lafaccia sporca. Gli Anno scorso a Marienbad, L *. 335 Another Jobfor the Undertaker, 22 Anticipation ofthe Night, 266 Apache, vedi Ultimo apache, L * Apartment, The, vedi Appartamento, I.' Apocalypse Now, 377.437.456 Appartamento. L *. 304.306-307. 311

Indice dei titoli Applause, 129 Apt Pupil, vedi Allievo. L * Arancia meccanica. 388.428. 429. 432 Arcipelago in fiamme, 221-22. 292 Argo, 465 Arianna, 188.304.311 Arma letale, 414 Armageddon, vedi Armageddon Giudiziofinale Armageddon - Giudiziofinale, 415 Around the World in Eighty Days, vedi Giro del mondo in ottanta giorni. Il Arriva John Doe, 200-203 Arrivo diun treno alla stazione, L’, 10 Art of Vision, 267 Artificial Lights, 339 Assassini nati, 425 Asso nella manica. L ’, 304-305. 309 Al Land. 262 Attacco al potere, 445 Attack on a China Mission, 39 Aurora, 100-101,106 Avatar, 478-81 Avengers. The, 449 Avventurieri dell'aria, 292 Avful Truth, The, vedi Orribile verità. L’ Azione esecutiva, 385

Baby Face. 85,195 Baciami Katel, 272 Bacio dell'assassino. II. 432 Bacio della morte. 11. 176 Bacio della pantera. 11. 181 Bacio di Mary Pickford. Il, 74 Back to the Future, vedi Ritorno al fiduro

Indice dei titoli

Badland, 451 Badlands, vedi Rabbia giovane, La Ballata della città senza nome, lai, 319 Band Wagon. The, vedi Spettacolo di varietà Banda di Pig Alley, lai, 37 Bandiera gialla, 237 BarberShop, 8 Barefoot Contessa. The, vedi Contessa scalza, lai Barriera invisibile, 235-36 Barry Lyndon,43(F32 Bastardi senza gloria, 472,475 Bataan, 222-23 Batman - Il ritorno, 449 Batman Begins, 449 Batman Returns, vedi Batman - Il ritorno Batman. 449 Balde Beyondthe Sun, 327 Balde Cry of Peace. The, 216 Balde ofRussia, 77k. 220 Balde ofSan Pietro. The, 220 Balde ofthe Midway. The. 220 Beast Prom Haunted Cave. 326 Beasts ofthe Southern Wild, vedi Re della term selvaggia Becky Sharp. 154 Behind the Screen, vedi Dietro lo schermo Belli e dannati, 421 Belva deU'autostrada, La, 396 Berretti verdi, 377 Bersagli, 327.369 Best Years of Our Lives, The, vedi Migliori anni della nastra vita, 1 Better Tomorrow 11, A, 471 Beverly Hills Cop, vedi Piedipiatti a Beverly Hills, Un

519 Biancaneve e i sette nani, 189.191 Bianco Natale, 275 Big Fish,vedi Big Fish - listone di una vita incredibile Big Fish - Le storie di una vita incredibile, 421 Big Heat. The, vedi Grande caldo. Il Big Knife, The, vedi Grande coltello. Il Big Sky, The, vedi Grande cielo. Il Big Sleep. The, vedi Grande sonno. Il Bigamist, The, vedi Grande nebbia. La Signer Than Life, vedi Dietro lo specchio Bill ofDivorcement. A, vedi Febbre di vivere Birth ofa Nation. The. vedi Nascita di una nazione Black Journal. 403 Black Panthers. 403 Black Pirate. The. vedi Pirata nero. Il Blacksmithing Scene, 8 Blade Runner. 410 Blair Witch Project. The. 445 Blank Generation. 417 Blast ofSilence, vedi Cronaca di un assassinio Blaue Angel. Der, vedi Angelo azzurro, L * Blazing Saddles, vedi Mezzogiorno e mezzo difuoco Blind Husbands, vedi Mariti ciechi Blood Simple - Sanguefacile, 422 Blood Simple, vedi Blood Simple Sanguefacile Blow Job, 265 Blow Up, 346.390

520 Blu Peto/. vedi Velluto Blu Blue Gardenia. The. vedi Gardenia Blu Body and Soul. 119 Body ofUes,vedi Nessuna verità Bonnie and Clyde, vedi Gangster Story Boogie Nigfits - L altra Hollywood, 463 Boogie Nights, vedi Boogie Nights L’altra Hollywood Boomerang, l'ama che uccide. 233* 34. 237 Boomerang!,vedi Boomerang, l'arma che uccide Bom on the Fourth ofJuly,vedi Nato il 4 luglio Bowling a Columbine,453 Boy With Green Hair. The. vedi Ragazzo dai capelli verdi. Il Boys don 't Cry, 461 Braccio violento della legge. II, 342, 349.357.365.369 Bravados, 117 Brave One, The, vedi Più grande corrida. La Brewster McCloud, vedi Anche gli uccelli uccidono Brigadoon, 196. 293 Bring me the Head ofAlfredo Garcia. vedi Voglio la testa di Garcia Bring on the Dancing Girls, 327 Bringing Up Baby, vedi Susanna! Brivido nella notte, 423 Broadway Melody. The, vedi Canzone di Broadway, la Broken Arrow, vedi Amante indiana. L' Broken Blossom, vedi Giglio infranto

Indice dei tìtoli Broken Flowers. 417 Bronenosec Potèmkin. vedi Corazzata Potèmkin. la Brotherfrom Another Planet. The, vedi Fratello di un altro pianeta Brute Force, vedi Forza bruta Buddy Buddy, 3(H Burning of Durland’s Riding Academy, 17 Bus in viaggio,4Ì8 Bwana Devil,21Q Caccia al ladro, 299.303 Cacciatore. 11. 377.379 Cacciatori di salvezza. 102 Calamaro e la balena. II. 46S Calda notte dell’ispettore Tibbs, La. 401 Cameraman. 11. 59 Cameraman. The, vedi Cameraman. Il Cancelli delcielo. /. 411 Candidale. The, vedi Candidato, Il Candidalo. Il, 392 Cane di paglia, 383 Coniando sotto la pioggia. 196 Cantante di Jazz, II, 122 Canzone di Broadway, la, 124. 126 Canzone per Bobby Long, Una, 461 Capitano di Castiglia, 11, 117 Cappello a cilindro. 142.196 Capriccio spagnolo, 102 Captain America - Il primo vendicatore, 447 Captain America - 7Jke First Avenger, vedi Captain America Il primo vendicatore Captain from Castile, vedi Capitano di Castiglia, Il Carefree, vedi Girandola

Indice dei titoli

Carioca. 142. 196 Carnal Knowledge, vedi Conoscenza Carnale Carnee il diavolo. La, 116 Casa del boia. La, 107 Casablanca. 147. 176.219.233 Cawrd.416 Casino. vedi Casinò Castello degli spettri. 11,69,113-14 Casualties of War, vedi Vittime di guerra Cat and the Canary. The, vedi Castello degli spettri. Il Cat on Hot Tin Roof, vedi Gatta sul tetto che scotta, La Cat People, vedi Bacio della pantera. Il Cat's Cradle,261 Catene della colpa. Le. 176 Cavalcarono insieme. 172 Cavaliere della valle solitaria. II. 472 Cavaliere oscuro. II. 447 Cavallo d'acciaio. 11. 66.170 Cerco il mio amore. 196 Changeling. 424 Chariot si distingue. 50 Chariot soldato. 52 Chariot usuraio. 51 Che bella vita. 158.185 Cheat. The. vedi Prevaricatori. ! Chelsea Giris, The, 266 Cheyenne Autumn, vedi Grande sentiero. // Cheyenne. 252 Chi è Harry Kellerman e perché paria male di me?. 392 Chi è l'altro?. 329 Chi sta bussando alla mia porta?, 327

521

Child is Waiting, A, vedi Esclusi, Gli China Strikes Back, 232 Christopher Strong, vedi Falena d’argento. La Ciao America, 377 Cielo difuoco, 117 Cinque pezzi facili, 322.355.364 Cirano di Bergerac, 237 Citizen Kane. vedi Quartopotere Città amara, 361.364 Città verrà distrutta all’alba. La, 376 City Giri, vedi Nostro pane quotidiano. Il City Light, vedi Luci della città City on Fire, 471 Civilization, 216 Cleopatra, 316-18 Clockwork Orange. A. vedi Arancia meccanica Cloverfield, 444 Club dei 39.11,299 Cohen s Advertising Scheme. 23 Cohen s Fire Sale. 23 Collateral Damage, vedi Danni collaterali Colline blu. Le.326 Colombo. 328 Color of Money. The. vedi Colore dei soldi. Il Color Purple. The. vedi Colore viola. Il Colore deisoldi. //.416 Colore viola. //. 415 Colpo della metropolitana. Il, 471 Colimbo, vedi Colombo Com ’era verde la mia valle, 172-73 Come lefoglie al vento, 248 Come vinsi la guerra, 57.69 Coming Home, vedi Tornando a casa

522 Compari. /. 357 Confessione di una spia nazista. 218 Confessions ofa Nazi Spy, vedi Confessione di una spia nazista Connection, The, 256.261 Conoscenza carnale, 340.401 Conquering the Woman, 97 Conquista del West, lai, 96.274 Contessa scalza, La. 149 Conversation, The, vedi Conversazione, lai Conversazione, lai, 323.342.389 Cool World. The, 256 Corazzata Potemkin, lai, 370 Corpse Bride, vedi Sposa cadavere. lai Corriere diplomatico,?#), 240 Corvo rosso non avrai il mio scalpo, 405 Casetta, 79 Couch, 265 Covered Wagon. The, vedi Pionieri, I Crazies. The, vedi Città verrà distrutta all’alba, lai Crazy-Quilt. The, 257 Crepuscolo di gloria, 105*106 Crime and Punishment. Usa, 257 Crocevia della morte, 422 Cronaca di un assassinio, 258 Crossfire, vedi Odio implacabile Crowd. The, vedi Folla, lai Cuore selvaggio, 420 Cuori del mondo, 217 Curly Top, vedi Riccioli d'oro Curtain Pole. The. 47 Qvuno de Bergerac, vedi Cirano di Bergerac

Dannati dell'oceano, 1.104.106

Indice dei tìtoli

Dannati e gli eroi. 1.172 Danni collaterali. 439 Danza delleluci. lai. 156.194 Danzatrice rossa. La, 107 Dark Passage, vedi Fuga. La Darjeeling Limited, The, vedi Treno per il Darjeeling. Il Darling Lili, vedi Operazione Crèpa SUzette David e Lisa, 257 Day After Tomorrow. The, vedi Day After Tomorrow. The - L 'alba del giorno dopo Day After Tomorrow. The - L 'alba del giorno dopo. 445 Dead Man. 4\T Death Proof. A. vedi Grindhouse - A prova di morte Death Wish, vedi Giustiziere della notte, Il Deep Throat, vedi Golaprofonda Deer Hunter, the, vedi Cacciatore, Il Delitto per delitto - L'altro uomo, 295 Delitto perfetto. Il, 272.303 Deliverance, vedi Tranquillo week end dipaura. Un Design for Living, vedi Partita a quattro Destinazione terra, 271-72 Detour, 177 Devii in Miss Jones. 399 Devil is a Woman. The. vedi Capriccio Spagnolo Devil's Doorway, vedi Passo del diavolo. Il Dial Mfor Murder, vedi Delitto perfetto. Il Diario di una casalinga inquieta. 397

Indice dei titoli

Diary ofa Mad Housewife. vedi Diario di una casalinga inquieta Diavolo èfemmina, II, 142 Die Hard, vedi Trappola di cristallo Dieci comandamenti, l.94 Dietro lo schermo, 58 Dietro lo specchio, 292 Difesa a oltranza 328 Dimenticati. /, 151 Diplomatic Courier, vedi Corriere diplomatico Dirty Harry, vedi Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo Dirty Mary Crazy larry, vedi Zozza Mary, pazzo Gary Dizzie Dishes, 193 Django Unchained, 475 Do the Right Thing, vedi Fa ' la cosa giusta Docks of New York. The, vedi Dannati dell 'oceano, ! Doctor Dolittle, vedi Favoloso dottor Dolittle, Il Doctor Zhivago, vedi Dottor Zivago. Il Dog Star Man, 267 Dollaro d'onore. Un, 103 Don Juan. 122 Don 't Look Back, 346 Donna che visse due volte, la, 302, 458 Donna del ritratto, la. 179 Donna di Parigi. la, 69 Donna nel lago. Una. 205 Donne viennesi. 89.93 Donnie Darko. 426 Donovan's Reef, vedi Tri? della croce del sud. 1 Dottor Stranamore, 11, 376,429.432 Dottor Zivago. //, 318

523 Double Indemnity, vedi Fiamma del peccalo, la Dr. No. vedi Agente 007. licenza di uccidere Dracula. 142.181 Dream afa Rarebit Fiend. 14 Drive. 465 Drive. He Said, verb Yellow 33 Driver, l'imprendibile,465 Driver, The, vedi Driver, l'imprendibile Drugstore Cowboy, 421 Drums Along the Mohawk, vedi Più grande avventura. la Duck Soup, 60 Duel in theSun, vedi Duello al sole Duel, 328.353 Duello al sole, 98.280

È arrivatala felicità, 157. 198-99. 203 £ nata una stella, 154.277 ET.-L 'extraterrestre, 409.410 ET. the Extraterrestrial, vedi ET. L'extraterrestre Earth ofSpain, 232 East of Eden, vedi Valle dell 'Eden. la Easy laving, vedi Che bella vita Easy Rider, 322.329.339.349-52. 363.368.391.396.464 Ebbrezza dell ’oro. L '. 72 Echoes ofSilence, 257 Ed Wood, 420 Edge ofthe City, vedi Fango della periferia Edtv, 456 Education for Death: The Making of the Nazi, 220 Edward numidiforbice, 420

524

Edward Scissorhands, vedi Edward mani diforbice Election. 455 Electra Glide, 353 Electra Glide in Blue,vedi Electra Glide Elephant Man, The, 420 Elephant,422 Emigrante, L’, 52 Empire ofthe Sun, vedi Impero del sole, I,' Empire, 266 Eraserhead, 419 Ero uno sposo di guerra, 187 Esclusi, Gli, 260 Esorcista. L ’, 322,393-94 Eterna illusione, L *, 201.202 Eternal Sunshine ofthe Spotless Mind, vedi Se mi lasci ti cancello Evaso. L', 51 Execution ofMary, Queen ofScots. The,\4 Executive Action, vedi Azione esecutiva Exorcist. The. vedi Esorcista. L' Eyes Wide Shut, 432 Fa' la cosa giusta. 418 Faces, vedi Volti Fahrenheit 9/11, 44\ Falchi di Rangoon. 1.222 Falena d’argento. La, 395 Fallen Angel, vedi Angelo è caduto. Un Family Honor. The, vedi Onore familiare, L’ Fango dellaperiferia. Nel,253 Fantasia, 192 Fantasma dell’opera. //. 114 Fantastic Four, vedi Fantastici 4, l

Indice dei titoli Fantastici 4.1,449 Fargo, 422 Fat City, vedi Cittàamara Favoloso dottor Dolittle. Il, 320 Fear and Desire, vedi Febbre dell "oro. La, 54. 69 Febbre di vivere, 142 Felix Finds Out, 191 Felix Saves the Day, 191 Felix the Cai in Hollywood, 191 Femmina folle, 283 Femmine folli, 63, 89-90 Fiamma del peccato. La, ISO. 304 Fight Club, 454.457 Fights of Nations, 23 Finestra sul cortile. La, 301.478 Finishing Touch. The, 60 Fire Rescue Scene, 16 Fàv’,17 Firemen Rescuing Man and Woman. 17 Fireworks, 265 Fiume rosso. Il, 292.344 Five Easy Pieces, vedi Cinque pezzi facili Flags of Our Fathers, 424 Flaming Creatures, 264-65 Flashdance, 4\5 Flesh and the Devil, vedi Came e il diavolo. La Flesh, 464 Flicker. The. 339 Flying Down to Rio. vedi Carioca Flying Tigers. vedi Falchi di Rangoon. I Folia. La, 99.156 Follie d'inverno, 142.196 Follow the Fleet, vedi Seguendo la flotta Fool There Was. A,78

Indice dei titoli

Foolish Wives, vedi Femminefolli For Lave ofCold, 37 Forbidden Paradise, vedi Zarina. lai Force ofEvil, vedi Forze del male. Le Foreign Affair. A, vedi Scandalo intemazionale Foreign Correspondent, vedi Prigioniero di Amsterdam, Il Forza bruta,231 Forze del male, Le, 237.246 Fossa deiserpenti, lai, 237 Four Devils, 109 Four Horsemen ofthe Apocalypse, 7te,vcdi Quattro cavalieri deH'apocalisse, I Frankenstein jr., 331 Frankenstein, 142,181 Fratello di un altro pianeta, 416 Fratello, dove sei?, 423 French Connection, The, vedi Braccio violento della legge Freshman, The, vedi Vivalo sport! Front Page. The, 116 Front. The, vedi Prestanome. Il Fronte del porto, 247 Fruito proibito, 308 Fuehrer's Face, Der, 220 Fuga da Hollywood. 334 Fuga, lai, 149, 205 Full Metal Jacket, 430-31 Fuori orario, 416 Furia, 158.160 Furore, 171.232 Fury, vedi Furia

Gabinetto dellefigure di cera. Il, 69. 113 Gangster Story, 262.267.329 Gangsters. 1,176

525 Gardenia Blu, 293 Gatta sul tetto che scotta. La. 287 Gay Divorcee. The, vedi Cerco il mio amore Gay Shoe Clerk. The.22 Gelido inverno. Un.462 General. The. vedi Come vinsi la guerra Gentleman 's Agreement, vedi Barriera invisibile Gentlemen Prefer Blondes, vedi Uomini preferiscono le bionde. Gli Georg, 257 George Washington, 461 Get onthe Bus, vedi Bus in viaggio Getaway. 353 Getaway, The, vedi Getaway Getting Straight, vedi Impossibilità di essere normale. L’ Giant. The, vedi Gigante. Il Gigante. II. 287.463 Giglio infranto. 38.40 Gimme Shelter. 346 Giovane e innocente. 299 Gioventù bruciata. 278.285 Girandola, 196 Giri and HerTrust. The. 39.50 Giri Shy. vedi Tutte e nessuna Giri with the Dragon Tattoo. The. vedi Millennium - Uomini che odiano le donne Giro del mondo in ottanta giorni. 11. 275 Giustiziere della notte. II, 381-83 Go, vedi Go - Una notte da dimenticare Go - Una notte da dimenticare, 459 Go Hta/.vcdi lo eia vacca Gobbo di Notre Dame, II, 114

526

Godfather. The. vedi Padrino, Il Going My Way, vedi Mia via, Im Going to the Fire, 16 Gola profonda, 399 Gold Diggers of1933, vedi Danza delle luci. La Gold Rush, The, vedi Febbre dell'oro. La Gone in 60 Seconds, vedi Rollercar sessanta secondi e vai! Gone with the Wind, vedi Pia col vento Good Will Hunting, vedi Will Hunting- Genio ribelle Goodfellas, vedi Quei bravi ragazzi Graduale. The, vedi Laureato. Il Gran Torino, 424 Grande caldo. H, 293 Grande cielo. II. 292 Grande coltello. II. 291 Grande corsa. La. 319 Grande dittatore. Il, 53 Grande illusione. La. 93 Im grande illusion, vedi Grande illusione. Im Grande nebbia. Im. 396 Grande parata. Im. 65-66.98.217 Grande rapina al treno. Im. 20.21 Grandesentiero.il. 171 Grande sonno. II. 87 Grapes of Wrath. The. vedi Furore Great Race. The. vedi Grandecorsa. Im

Great Train Robbery. The. vedi Grande rapina al frena. Im Greed, vedi Rapacità Green Berets. The. vedi Berretti verdi Green Zone, 452 Greetings, vedi Ciao America

Indice dei titoli

Grindhouse - A prova di morte, 473 Groundhog Day, vedi Ricomincio da capo Guerra dei mondi. La. 444 Guerra del cittadino Joe. Im, 342. 384 Guerre stellari,407,409-410 Guess Who's Coming to Dinner, vedi Indovina chi viene a cena? Guilty by Suspicion, vedi Indiziato di reato GulfBetween. The, 154 Gulliver's Thavel, vedi Piaggi di Gulliver. I Gun Crazy, vedi Sanguinaria. La Gunfighter. The, vedi Romantico avventuriero

Hallelujah!, vedi AUelufo! Halloween, vedi Halloween: la notte dellestreghe Halloween: la notte delle streghe, 205 Hangman's House, vedi Casa del boia. Im Hanno fatto di me un criminale. 159. 160 Happiness, vedi Happiness Felicità Happiness - Felicità.A&l Happy Mother's Day. 346 Harold and Maude, vedi Harold e Maude Harold e Maude, 336 Heart ofan Indian, The, 167 Heart of Humanity. The. 89 Heart ofSavage. The. 167 Hearts ofthe World, vedi Cuori del mondo Heat, vedi Heat-Im sfida

Indice dei titoli Heal-La sfida. 420,464 Heaven and Earth Magic. 263 Heaven’s Gate,vedi Cancelli del cielo. / Hello. Dolly!, 320 High Anxiety, vedi Atta tensione High Noon, vedi Mezzogiorno di fuoco High Plains Drifter, vedi Straniero senza nome High Sierra, vedi Pallottola per Roy. Una Hiroshima mon amour, 335 His Giri Friday, vedi Signora del venerdì. La Hitch-Hiker. The, vedi Belva dell’autostrada. La Ho camminato con uno zombie. 181 Hollywood Ten. The,243 Home from thè Hill, vedi A casa dopo l’uragano Homecoming, 450 Hondo, 271-72 House of Darkness, The 38 House of Usher, vedi Vàrie i morti. 1 House of Wax, vedi Maschera di cera. Im How a French Nobleman Got a Wife through the eNew York Herald» Personal Columns, 15 How Green Was My Valley, vedi Com ’era verde la mia valle How the West Was Won. vedi Conquista del West. Im Hugo, vedi Hugo Cabret Hugo Cabret. 477 Hulk. 448 Hunchback ofNotre Dame. The. vedi Gobbo di Notre Dame. 11

527 Hurt Locker. 7&r,451 Husbands, vedi Mariti

lama Fugitive From a Chain Gang vedi lo sono un evaso / Call First, vedi Chi sta bussando alla mia porta? ! Confess, vedi lo confesso I Married a Communist - The Woman on Pier 13. vedi Schiavo della violenza. Lo I Walked with a zombie, vedi Ho camminato con uno zombie I Was a Communistfor the FBI. 240 I Was a Male War Brigade, vedi Ero uno sposo di guerra I'm a Legend, vedi Io sono leggenda I'm no Angel, vedi Non sono un angelo Ice. 346 Ides ofMarch. The, vedi Idi di marzo. Le Idi di marzo. Le. 464 lene. Le.424.470-71,473 Imitation of Life, vedi Specchio della vita. Lo Immigrant, vedi Emigrante. L ' Impareggiabile Godfrey. L ’. 157 Impero del sole. L 415 Impossibilità di essere normale. L\ 339,391,404 Imputalo deve morire. L '. 240 In corsa con il diavolo. 376 In the Heal ofthcNighi. vedi Calda notte dell'ispettore Tibbs. La In the Valley of Elah, vedi Nella valle di Elah In the Year ofthe Pig. 346 Inauguration ofthe Pleasure Dome. 265

528 Inception, 426,457 Incident, vedi New York on 3: l'ora dei vigliacchi Indian Massacre, The, 167 Indiziato di reato, 228 Indovina chi viene a cena?, 320,401 Infedelmente tua, 331 Infernale Quinlan, L 215 Inglese, L\ 464-65 Ingtourious Basterds. vedi Bastardi senza gloria Inland Empire, 419 Inner and Outer Space, 263 Inside,443 Intoccabili, Gli, 370 Intolerance,42-45. 80.216 Intrigo intemazionale, 87.300.303 Invisible Man, The, vedi Uomo invisibile, L' lo confesso, 299 lo e la vacca. 56 lo sono leggenda, 445 lo sono unevaso, 159 lo ti salverò, 179 Irma la dolce,306,308 Irma la douce, vedi Irma la dolce Iron Curtain, The, vedi Sipario di ferro. Il Iron Horse, The, vedi Cavallo d'acciaio. // Ispettore Callaghan: il caso Scorpio I too, 381 It Camefrom Outer Space, vedi Destinazione Terra It, vedi Casetta It's a Wonderful Life. vedi Vita è meravigliosa, La

Jacket. The, 457 Jackie Brown, 434,476

Indice dei titoli

Jaws, vedi Squalo. Lo Jazz Singer. The, vedi Cantante di Jazz, Il Jeremiah Johnson, vedi Corvo rosso non avrai il mio scalpo Jess il bandito, 117 Jesse James, vedi Jesse il bandito JFK. vedi JFK - Un caso ancora aperto JFK - Un caso ancora aperto. 418 Joe, vedi Guerra del cittadino Joe. La Johnny Guitar, 291 Judith of Bethulia, 40 Jungle Fever, 418 Junior Bonner, vedi Ultimo buscadero. L’ Kid Auto Racesat Venice, vedi Chariot si distingue Kid. The, vedi Monello. Il Kill BUI-Voi. /, 471,473 Kill BUI- Voi. 2,471,473 Killer's Kiss, vedi Bacio dell'assassino. H Killers. The, vedi Gangsters. ! Killing. The, vedi Rapina a mano annata King in New York, A, vedi Rea New York. Un King Kong, 142 of Comedy. The, vedi Re per una notte King ofKings. The, vedi Re dei re. Il King of Marvin Gardens. The, vedi Re deigiardini di Marvin. Il X7.tr, 265 Kiss me Kate, vedi Baciami Kate! Kiss ofDeath, vedi Bacio della morte. Il

Indice dei titoli Kit Canon, 20 Kleptomaniac. The. 22 Klule, vedi Squillo per l'ispettore Klule. Una

196 Ladro di Bagdad. 11,69, 77 Ladro. II. 299 Lady Eva. 187-88 Lady Ève. The. vedi Lady Èva Lady fora Day. vedi Signoraper un giorno Lady in the Late. The. vedi Donna nel lago. Una Lady Lou,vedi Lady lancia donna fatale lardy Ioni, la donnafatale. 85 Lampi sul Messico. 72 Land ofOpporuniiy, The, 26 i Landlord, The, vedi Padrone di casa. Il Lapis, 264 Last Command, The, vedi Crepuscolo di gloria Last Movie, The, vedi Fuga da Hollywood Last ofthe Mohicans, 38 Last ofthe Mohicans, vedi Ultimo dei Mohicani. L * Last Picture Show, The, vedi Ultimo spettacolo, L ’ Last Temptation ofChrist. The, vedi Ultima tentazione di Cristo. L ’ Laura, vedi Vertigine Laureato. Il, 335,347.354.364.400 Lawrence d’Arabia, 320 Lawrence ofArabia, vedi Lawrence d'Arabia Leave Her to Heaven,vedi Femmina folte Im danza delle luci,

529

tregge della montagna. La, vedi Mariti ciechi Lenny.352 Leopard Man. The, vedi Uomo leopardo. L' Lethal Weapon, vedi Arma letale Lettere da IwoJima, 424 letters from Iwo Jima, vedi Lettere da IwoJima Lianna, vedi lJanna: un amore diverso Lianna: un amore diverso, 416 Liberty, Big Business, 60 Ufe and Death of 9413: a Hollywood Extra. The. 262 Ufe ofan American Fireman. The. 16-17.37 IJfe ofJuanita Castro. The, 266 Lifeboat, vedi Prigionieri dell'oceano Lights of New York. 123 Umeligfit, vedi Luci della ribalta Limey. The, vedi Inglese, L' Utile American, The 216 Little Big Man, vedi Piccolo grande uomo Utile Caesar, vedi Piccolo Cesare Utile Foxes. The. vedi Piccole volpi Utile Fugitive, The, vedi Piccolo fuggitivo, il UttleNemo, 190 Utile Odessa, 456 Locuste. Z Sherlock jr., vedi Palla n. 13, La Shining, 428-29.431-32 Shining The, vedi Shining Shootist. The, vedi Pistolero. Il Short Culs, vedi America oggi Should Married Men Go Home, 60 Shoulder Arms, vedi Chariot soldato Show People, vedi Maschere di celluloide Sidewalks ofNew York, vedi Marciapiedi di New York, 7 Siege. The, vedi Attacco alpotere

Indice dei titoli Signora del venerdì. La, 184-85.188 Signora per un giorno, 156. 200 Silent Movie, vedi Ultima follia di Mel Brooks. L ' Singin * in the Rain, vedi Cantando sotto la pioggia Sinking ofthe Lusitania. The, 190 Sipario diferro. Il, 240 Sirius Remembered, 267 Sixth Sense. The. vedi Sesto senso. Il Sleep. 266 Sleepy Hollow, vedi Mistero di Sleepy Hollow, Il Smiling Lieutenant, The. vedi Allegro tenente, L' Smithereens, 417 Snake Pit. The, vedi Possa dei serpenti, lai Snow While and the Seven Dwarfs, vedi Biancaneve e i sette nani Social Network. The,4l2 Sogno lungo un giorno. Un, 415 Soldato blu. 377.405 Soldier Blue, vedi Soldato blu Soldiers Pay. 450 Solo una notte. 155 Some Came Running, vedi Qualcuno verrà Some Like it Hot, vedi A qualcuno piace caldo Song ofRussia, 233,241 Sono innocente, 159 Soy Cuba, 463 Spanish Earth, The, 232 Sparatoria, lai, 326 Spartacus, 244 Spaventapasseri, lai, 358.360,362, 401 Specchio della vita, lai, 281 Speedy, vedi A rotta di collo

537 Spellbound, vedi loti salverò Spettacolo di varietà, 196, 293 Spia, lai, 181 Spider Man, 439,448 Spider-Man 2,449 Spietati. Gli. 423 Splendor in the Grass, vedi Splendore nell 'erba Splendore nell 'erba, 258,281 Sposa cadavere, lai. 421 Squadra omicidi, sparale a vistai. 229 Squalo. Lo. 392,394.407,409 Squid and the Whale, TTbe.vcdi Calamaro e la balena. Il Squillo peri 'ispettore Khde, Una, 389 Stage Door, vedi Palcoscenico Stagecoach, vedi Ombre rosse Stagefright, vedi Paura in palcoscenico Stalag 17,309,311 Star is Bom, A, vedi È naia una stella Star Wars, vedi Guerre stellari Stato dell'unione, Lo. 254 Steamboat Willie, 191 Stella solitaria, 461 Storia della Louisiana. La. 120. 346 Strada a doppia corsia, 353 Strada della paura. La . 54 Strade perdute, 419.457 Strade violente, 420 Straight Shooting, 171 Stranger Than Paradise, 417 Strangers on a Train, vedi Delitto per delitto - L'altro uomo Straniero senza nome, 423 Straw Dogs, vedi Cane dipaglia Street AngeL vedi Angelo della strada. L'

538 Study in Choreographyfor Camera. A. 262 Sugar Daddia,()Q Sugarland Express. 353,377 Sugarland Express. The. vedi Sugarland Express Sullivan’s Travel, vedi Dimenticati. I Sunrise vedi Aurora Sunset Boulevard, vedi Viale del tramonto Super Fly. 339 Superman Returns, 447 Superman, 412 Susanna!, 187-88.292 Suspense, 38,50 Suiter’s Gold, vedi Ebbrezza del­ l’oro. L’ Sweet Swectback’s Baadasssss Song, 403 Swing Time, vedi Follie d’inverno Sylvia Scarlett, vedi Diavolo è femmina. Il Syriana, 450

T.O.(ZCH/.MG,339 Tabù.109 Tabu: A Story ofthe South Seas. vedi Tabù Take Shelter. 457 Take the Money and Run, vedi Prendi i soldi e scappa Taking ofPelham One Two Three. The, vedi Colpo delta metropolitana. Il Talk Radio.418 Targets, vedi Bersagli Taxi Driver. 342,359.371,378 Teatro. II. 58 Tell Them Willie Boy Is Here, vedi Ucciderò Willie Kid

Indue dei titoli Tempi moderni. 53 Ten Commandments. The. vedi Dieci comandamenti. I Tender is the Night, vedi Tenera è la notte Tenenbaum. 1,468 Tenera è la notte. 117 Terminator 2- Il giorno del giudizio. 413 Terminator 2. The: Judgment Day. vedi Terminator2-Ilgiorno del giudizio Terminator. 413 Terminator. 7Ae,vcdi Terminator Terra. La. 120 Tesoro della Sierra Madre. Il, 463 Testimone d’accusa, 306-307.309 The Ace in the Hole/TheBig Carnival vedi Asso nella manica. L' The Fortune Cookie, vedi Non per soldi... ma per denaro TheRock,4\5 The Skeleton Dance, 191 The Squaw Man, 94 The Tree ofLife, 426 There Will Be Blood, vedi Petroliere. Il They Made Me a Criminal vedi Hannofatto di me un criminale They Shoot Horses. Don’t They?. vedi Non si uccidono cosi anche i cavalli? They Were Expendable, vedi Sacrificati. 1 ThiefofBagdad. The. vedi Ladro di Bagdad. Il Thief. The. vedi Spia. La Thief. The. vedi Strade violente Thirteen Conversations about One

Indice dei titoli

Thing, vedi Tredici variazioni sul tema This is Cinerama. 273 Three Days ofthe Condor, vedi Tre giorni delcondor. I Three King?. 450 Thunder over Mexico, vedi iMmpi sul Messico THX1138. vedi Uomo chefitggì dal fiduro. L' Titanic,420 To Catch a Thief, vedi Caccia al ladro Tol’able David, 38.118 Toll ofthe Sea, 154 Tom Tom, the Piper’s Son, 21 Tomahawk. vedi Tomahawk, scure di guerra Tomahawk, scure di guerra. 405 Tomb of Ligeia. The, vedi Tomba di Ligeia. Im Tomba diLigeia. Im, 326 Too Late Blues, 260 Top Gun, 411-12.415 Top Hat, vedi Cappelloa cilindro Tornando a casa, 246.380 Toro scatenato, 415 Touch of Evil. vedi Infernale Quinlan, L ’ Tragedia americana. Una, 72 7>qgttfK °f Othello. The, vedi Otello TTain Wreckers. The, 21 Tranquillo week end di paura. Un. 371 Trappola di cristallo,4\4 Trash, 464 TTe della croce delsud, !,170 Trefurfanti. /. 66 Tre giorni del condor. 1.388,400 Tredici variazioni sul tema. 454

539

TTeno per il Darjeeling. II. 468 Trial ofMary Dugan. 124 Trial, vedi Imputalo deve morire. L' TTip. The. vedi Serpente dijuoco. Il Trouble in Paradise, vedi Mancia competente True Story ofJesse James, The, vedi Vera storia di Jess il bandito. La Truman Show. The, 456 Tune With Tomorrow. In, 270 Tunica. 244.274.279 Tunnel Workers. The, 18 Tutte e nessuna, 60 Tutti gli uominidel presidente, 389 Tintigli uominidel re, 237 Twelve O’Clock High, vedi Cielo di fuoco Twentieth Century, vedi XX secolo Twice a Man, 261 Twin Towers, 441 Two Rode Together, vedi Cavalcarono insieme Two-Lane Blacktop, vedi Strada a doppia corsia Ucciderò Willie Kid. 229 Ultima follia di Mel Brooks. L’.33\ Ultima tentazione di Cristo. L *. 416 Ultimo apache. L ’. 405 Ultimo buscadero. L ’. 355 Ultimo dei Molliconi. L ’. 420 Ultimo Eden. L’. 120 Ultimo spettacolo.L’.322.330.335. 343-44.363-64 Utzana’s Raid, vedi Nessuna pietà perUtzana Unbreakable, vedi Unbreakable-11 predestinato Unbreakable - Il predestinato, 448 Uncle Tom’s Cabin, 23

540

Underworld, vedi Nottidì Chicago. Zz Unforgiven. vedi Spietati, Gli Union Pacific, vedi Kia dei giganti. La United 93,440 Untouchables. The,vedi Intoccabili. Gli Uomini preferiscono le bionde. Gli. 292 Uomo caffielatte. L ’ 402 Uomo chejuggìdalfiduro. L', 322 Uomo che ride. L\69, 113 Uomo che sapeva troppo. L\299 Uomo che uccise Liberty Valance. L', 168,171 Uomo chiamato cavallo. Un, 405 Uomo da marciapiede. Un, 246, 335,355, 363,400 Uomo dal vestito grigio. L *. 285 Uomo del banco dei pegni. L ’. 335 Uomo di Aran. L\ 120 Uomo invisibile. L’, 142, 181 Uomo leopardo. L ’, 181 Uomo lupo. L‘. 181 Uomo oggi. Un, 350.386 Uscita degli operai dalle officine Lumière. L", 10

Va ’ e uccidi, 385 Valle dell’Eden, Za. 277 Vanishing Point, vedi Punto zero Velluto Blu, 4\9 Vento. IL 112 Erra storia di Jess il bandito. Za, 291 Vergine sotto il tetto. Za, 87 Vertigine. 148-49. 178 Vertigo, vedi Donna che visse due volte. Za

Indice dà titoli

Via col vento, 137.147.154 Via dei giganti. Za. 96 Via delle stelle. La, 123 Viaggi di Gulliver. L 193 Viale del tramonto, 93. 148.304. 310 Visitatori, Z.378 Visitors. The, vedi Visitatori. I Vita da cani. Una, 52 Vita è meravigliosa. La, 198.200* 201.203.254 Vittime di guerra, 451 Viva lo sport!, 60 Vivi ei morti. Z. 326 Voce nella tempesta. La. 137. 143. 212 Voglio danzar con te, 196 Voglio la testa di Garcia, 358 Volti, 260 Vynil, 266 W USA, vedi Uomo oggi, Un JE..4I8 Wachsfigurenkabinett. Das, vedi Gabinetto dellefiguredi cera. Il Walking Down Broadway. 93 Wall Street, 418 Wanda.396 War Brides. 2Ì6 War ofthe Worlds.vedi Guerra dei mondi. Im Watermelon Man. The. vedi Uomo caffelatte. L ' Watermelon Patch. The. 23 Wavelenghl. 268 Way Down East, vedi Agonia sui ghiacci Wedding March. The. vedi Marcia nuziale Wedding Party. The. 327

541

Indice dei titoli Wendy and Lucy, 459 What Happened to Mary?. 143 When the Levees Broke: A Requiem in Four Acts. 419 White Christmas, vedi Bianco Natale Who Is Harry Kellerman and Why Is He Saying Those Terrible Thing? About Me?, vedi Chi è Harry Kellerman e perché paria male dime? Whole Dam Family and the Dam Dog. The, 37 Why We Fight. 220 Wild Angels, The, vedi Selvaggi, / Wild at Heart, vedi Cuore selvaggio Wild Boys ofthe Road, 160 Wild Bunch. The, vedi Mucchio selvaggio. Il Will Hunting - Gemo ribelle. 421 Wind. The. vedi Vento. Il Windows Water Baby Moving 267 Wings, vedi Ali Winter's Bone, vedi Gelido inverno. Un Within Our Gales. 118-19 Witness for the Prosecution, vedi Testimone d'accusa Wizardof Oz. The, vedi Mago di Oz.ll WolfMan. TTke.vcdi Uomo lupo. L' Woman in the Window. 77ke,vcdi Donna del ritratto, Im Woman of Paris. A: A Drama of Fate, vedi Donna di Parigi. Im

Woman Under the Influences. A, vedi Moglie. Una World Trade Center, 440 Wotan's Wake, 327 Written on the Wind, vedi Come le fogfle al vento Wrong is Right, vedi Obiettivo mortale Wrong Man, The, vedi Ladro. Il Wuthering Heights. vedi Voce nella tempesta. Im X-Files, 438 X-Men 2.448 XX secolo, 183 Yellow 33,322 Ying hung boon sik II, vedi Better Tomorrow II. A You Can't Take it With You. vedi Eterna illusione. L ' You Only Live Once vedi Sono innocente Young and Innocent, vedi Giovane e innocente Young Frankenstein, vedi Frankensteinjr. Young Mr. Lincoln, vedi Alba di gloria

Zarina, La. 110 Zero Dark Thirty. 440 Zodiac. 421 Zoms Lemma, 268.388 Zozza Mary, pazzo Gary, 465