Storia di Sciascia
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Massimo Onofri

Storia di Sciascia Opere I

Opere di Massimo Onofri I. Storia di Sciascia.

Di prossima pubblicazione: II. La critica in contumacia. III. Per una storiografia della vita. IV. Diario militante.

Opere di Massimo Onofri

Opere di Massimo Onofri | 1

Massimo Onofri

Storia di Sciascia Nuova edizione

Volume pubblicato con il contributo dell’Università degli Studi di Sassari – Fondo di Ateneo per la Ricerca 2019.

Prima edizione: Laterza, Roma-Bari 1994.

Nuova edizione © 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 – 00133 – Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected]

Opere di Massimo Onofri ISSN: 2724-6027 n. 1 – febbraio 2021 ISBN Edizione cartacea: 978-88-5529-042-5 ISBN Ebook: 978-88-5529-043-2 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Leonardo Sciascia, fotografia di Nino Catalano.

In memoria di mio zio Nicola Serra, e di Nino Borsellino

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Prefazione alla nuova edizione

Ventisette anni dopo (per il centenario della nascita)

Ripropongo a distanza di ventisette anni questa mia giovanile monografia, che apparve per i tipi di Laterza: avevo oltrepassato da poco i trent’anni d’età. Se è vero che il destino dei critici, quando hanno lavorato bene, è quello di essere superati, bisognerà aggiungere, allora, che il ritorno di questo libro si giustifichi soprattutto per il fatto che Sciascia sia entrato senza alcun dubbio nel canone della letteratura italiana del secondo ’900. Certo, qualcuno ha provato a espellerlo, ma con pochi risultati, talvolta involontariamente comici. Se le cose stanno così, un lavoro di storicizzazione integrale può sempre risultare utile. C’è però qualcosa di più: Storia di Sciascia non ha lasciato le cose come stavano, poco importa poi che altri, su questa strada, abbiano forse fatto di più e meglio, né che, a monte, ci fossero già lavori importanti, che avevano messo in discussione taluni luoghi comuni consolidati e avevano, per così dire, dissodato il terreno. Dopo questo libro – voglio affermarlo con orgoglio – non è stato filologicamente più possibile parlare d’uno Sciascia scrittore di realismo non problematico e di impegno illuminista, magari accusandolo – come fece il Grande Giornalista e Fondatore di quotidiani – di aver tradito la

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causa sacra della ragione con gravi conseguenze politiche. Carte alla mano, infatti, si dimostra qui, recuperando articoli lontanissimi anche sconosciuti, che Sciascia conosceva già Borges dall’ini­zio degli anni Cinquanta, seppure se ne serviva per capire meglio Cecchi, in cui trovava una risposta d’ordine che era innanzi tutto morale e stilistica, consentendogli il recupero del pirandellismo in una chiave originalissima, al di là della grave e greve scomunica marxista. Un altro punto fermo è stata la convinzione che, finita quell’iniziale e originale funzione, Borges abbia contato assai meno di Giuseppe Antonio Borgese nella sua formazione di letterato e nel suo modo di guardare il mondo. Un ulteriore dato, per me fondamentale, è aver posto l’accento sul fatto che il suo, più che neoilluminismo, fu una forma di singolare “luminismo”, se posso esprimermi così, in quella sua capacità di redimere la riluttante e atroce opacità del Potere (e della vita) nella tersa e miracolosa trasparenza della sua prosa, in virtù d’una strenua ed elegantissima ipotassi che non conosceva, per altro, tortuosità. Lo Sciascia di questo libro, nel «silenzio dell’amore» (lo stesso che Giancarlo Vigorelli ravvisava in Manzoni), è senz’altro uno scrittore ossessionato da quel Potere che, per sua stessa essenza, si rivela come una spietata macchina inquisitoriale ed è, in quanto tale, il male: se stiamo ai risultati di un anarchismo di natura e quotidiano che in Sciascia è sempre stato persistente. Se oggi – che non sono più il giovane uomo che ha scritto questo libro – mi si chiedesse di racchiudere Sciascia in una formula, parlerei senza esitazioni di barocco mentale, ma dissimulato sotto una chiarezza quasi imbarazzante, che era prima di tutto etica. Siamo arrivati così al famoso candore di Candido, che non gli proveniva dal modello voltairiano, ma da quella disposizione esistenziale che Massimo Bontempelli aveva invece ravvisato in Pirandello: quel candore che permise allo stesso Sciascia, dopo una vita di rifiuti ed esorcismi, di recuperare alla fine il grande antenato conterraneo e di riconoscere in lui il padre.

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Potrei continuare, e parlare della sua eresia, che era innanzitutto un’eresia del vivere, consapevole che il percorso suo sia stato quello non solo d’un grande scrittore (con molti nemici), ma anche d’un uomo giusto e moralmente grandissimo. Già, la grandezza etica ed estetica di Sciascia: ecco perché affido questo libro, che prova a restituircene intero il ritratto complesso (contraddizioni comprese: il suo punto d’onore), alle nuove generazioni, sicuro che si tratti d’un atto non solo di civiltà, ma anche di bontà, perché di bontà abbiamo molto bisogno in tempi cupissimi come i nostri, in cui la bontà è irrisa da maestri di nulla, del nulla. (2021)

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Premessa

Dieci anni dopo

Quando, nel 1994, veniva pubblicato Storia di Sciascia, la figura dello scrittore siciliano, scomparso a Palermo il 20 novembre 1989, continuava ancora a suscitare violente reazioni politiche, non importa se nel consenso, nel biasimo o nel vituperio. Al centro del dibattito politico, del resto, Leonardo Sciascia lo era stato sempre. Almeno dal 1961, anno in cui, in un giallo come Il giorno della civetta, si permetteva d’affrontare un tema come quello della mafia in Sicilia con ben due anni di anticipo sull’istituzione della commissione parlamentare, quando peraltro, nell’isola, larga parte della classe dirigente ne negava addirittura l’esistenza. Non diciamo quel che accadde tra la fine del 1971 e l’inizio del 1972, in occasione dell’uscita de Il contesto, dove si preconizzava, con una certa angoscia e con notevole anticipo, il «compromesso storico», interpretato come criminosa collusione tra il più importante partito di governo e il principale d’opposizione per una più efficace repressione d’ogni possibile tentativo di cambiamento politico. Certo, erano quelli anni di furori ideologici, ma quello di Sciascia, accusato dalla sinistra socialcomunista ed extraparlamentare di pessimismo immobilista, se non di approdi reazionari, fu un vero e proprio linciaggio: né bastarono, ad

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evitare la scomunica, l’intervento dell’amico e compagno Renato Guttuso, o alcune prese di posizione di parte cattolica e laica. Ferocissimo, poi, fu l’isolamento patito dallo scrittore nel 1978, al momento dell’affaire Moro: dove, pur confermando il durissimo giudizio politico sullo statista, quello delle «convergenze parallele», Sciascia denunciava il sacrificio dell’uomo Moro – del quale, nel mentre si affermava l’inautenticità delle lettere scritte dalla prigionia, si negava pubblicamente (e unanimemente) persino l’integrità psichica e morale – sull’altare della ragion di Stato, realizzando di fatto quel «compromesso storico» che le Br avevano tentato di impedire col rapimento del leader democristiano. Ma anche gli anni Ottanta – quelli delle violente polemiche su Dalla Chiesa e Calvi, su Tortora e Sofri, sui «professionisti dell’antimafia» e la nomina di Borsellino a procuratore della repubblica di Marsala, sul «teorema Buscetta» – furono ad altissima temperatura: consegnando anche postumamente Sciascia tanto all’aggressività dei giustizialisti quanto alle strumentalizzazioni di molti garantisti di comodo o di facciata. Eppure, a fronte di questa ricezione pubblica superpoliticizzata, avallata dalle pagine dei grandi giornali, la critica letteraria aveva lavorato benissimo: perfettamente impostando il discorso interpretativo con lo scopo di tornare dal contesto al testo, dall’ideologia alla letteratura. A cominciare da colui che, in una nota pagina di Nero su nero, Sciascia designò come il suo critico per eccellenza, ansiosamente presupponendo un tipo di rapporto simile a quello tra Pirandello e Tilgher, affidandogli, per di più, la curatela della sua opera omnia: mi riferisco a quel Claude Ambroise che volle adoperare strumenti ricavati dalle officine della nuova critica francese, soprattutto di tipo psico-antropologico, ulteriormente francesizzando ciò che, nei molti libri dello scrittore siciliano, già si disponeva alla Francia, a quella Francia in cui, tra brillanti interpretazioni e tempestive traduzioni, ci s’avviava a consacrarlo e

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a celebrarlo, grazie all’impegno di alcuni suoi intellettuali di punta, da Maurice Nadeau a Philippe Renard, da Dominique Fernandez a Jean-Noël Schifano e Mario Fusco. Non sarà da trascurare, però, in questo ritorno alla letteratura (e passando per i labirinti dell’intertestualità), il contributo dato dai critici italiani, Ricciarda Ricorda e Antonio Di Grado innanzi tutto: se la prima, già nel 1977, in un saggio ormai canonico, arrivava ad individuare, a partire dal Contesto organicamente, una precisa «retorica della citazione», insomma una consapevole strategia metaletteraria (con conseguenze incalcolabili quanto all’interpretazione di un’opera costruita anche per depistaggi, e che articola il discorso letterario a più livelli), il secondo, nella monografia del 1986, si concentrava sulle condizioni di possibilità stesse della scrittura di Sciascia, sul suo letteratissimo statuto. Non vorrei tacere, però, dell’importanza – proprio in questa direzione, e sempre negli anni Ottanta – del lavoro svolto da due studiosi di area anglosassone come Giovanna Jackson e Tom O’Neill. Entro tale quadro nasceva, dunque, Storia di Sciascia, col fermo proposito di conservare ed approfondire le acquisizioni meramente filologiche già raggiunte, ma anche con l’intenzione di ritornare a riflettere sulla specificità ineludibilmente politica dell’opera dello scrittore siciliano: in un senso, però, meramente trascendentale, lontanissimo dalla pericolosa e mistificante ideologia «dell’impegno», e nella convinzione che tale politicità si fosse giuocata, soprattutto, sul piano d’una strenua riflessione relativa al problema della sintassi del Potere, in un significato non distante da quello che aveva ispirato le ricerche archeologiche e filosofiche di Foucault. Per un lavoro interpretativo e critico che s’avvalesse d’una forte rivalutazione della Storia: non solo e non tanto perché la Storia va inevitabilmente a condizionare i fatti della letteratura, ma soprattutto perché quegli stessi fatti le vicende storiche si provano a restituire, interpretandoli, se non addirittura fondandoli. Non ho

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dubbi in proposito: romanzi come I Viceré, I vecchi e i giovani, Il Gattopardo, Il consiglio d’Egitto, Il sorriso dell’ignoto marinaio, sono di decisiva importanza non tanto in funzione del contesto storico-politico che li ha generati, magari sulla falsariga di chissà quale lukacsiano rispecchiamento, quanto piuttosto per il modello interpretativo «forte» della storia d’Italia post­ unitaria che ci propongono, ingaggiando un confronto quasi sempre vincente con quegli storici che, delle stesse vicende, si sono occupati: non per niente, ho sempre preferito parlare, per questa famiglia di romanzi, di controstoria letteraria e civile. Per tutte queste ragioni, Storia di Sciascia traduce una duplice vocazione: storica (nonché storicistica, ma d’uno storicismo molto problematico, liberato da ogni escatologia) e tematica; vocazione di cui si può dar conto fin dall’indice del volume. Che nel titolo dei diversi capitoli non rinuncia mai ad una proposta di periodizzazione e, insieme, ad una sottolineatura del problema principale che, negli anni in questione, avrebbe impegnato maggiormente lo scrittore. Ecco, allora, Le ragioni del vero. 1959-1964; Una microfisica del potere. 1970-1974; L’ordine delle somiglianze. 1979-1985: solo per fare qualche esempio. È naturale che dietro un progetto di questo tipo ci siano state delle suggestioni, più che di metodo, di sistema, e che potrei ricondurre, volendo sintetizzare, al nome di tre grandi maestri: Francesco De Sanctis, Giuseppe Antonio Borgese, Giacomo Debenedetti. De Sanctis: tanto per tenersi saldamente ancorati all’endiadi di filologia e filosofia, letteratura e realtà, promossa da un critico che si trova all’origine delle due migliori tradizioni italiane, storiografica e saggistica, sempre in concorrenza tra loro, ma in lui misteriosamente confluenti. Borgese: per testimoniare d’una critica letteraria che, quando è vera, è sempre antagonista e militante, nella felice simbiosi di giudizio storico e giudizio di valore. Debenedetti: per una forma di devozione a un saggismo supremamente, ed elegantemente, comunicativo, felicemente alieno da ogni gergalismo accade-

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mico; per la convinzione che, proprio in sede rigorosamente scientifica, all’immaginazione spetti un ruolo preminente (e in questo non posso non dirmi kantiano, il Kant della Critica del giudizio, quello cui ci hanno abituato Luigi Scaravelli ed Emilio Garroni) e che la critica letteraria sia, per ciò stesso, uno dei luoghi privilegiati dell’invenzione del vero; per l’ostinata volontà di misurarsi, nello studio della letteratura, con ciò che, rispetto alla letteratura, rappresenta sempre «l’altro», cioè la vita e la verità. Ne è venuto fuori uno Sciascia sottratto all’etichetta di superficialità giornalistica cui ancora, non di rado, lo si riconduce: quella dell’illuminismo. Nella convinzione, credo suffragata qui da una vasta mole di documenti, che gli stessi indici di razionalità e laicità della sua opera possano e debbano essere fortemente problematizzati. Per uno scrittore che fu profondamente suggestionato dai meccanismi inquisitoriali del Potere, dalla sua natura costitutivamente controriformistica: e che, sotto le rigorosissime arcate della sua ipotassi, sotto la limpida architettura della sua prosa, mi s’è rivelato come lo scrittore d’un suggestivo barocco mentale. Per non dire della questione del realismo, che lo ossessionò nelle vesti di lettore e interprete dei suoi conterranei, come perlustratore della «sicilitudine»: ed in effetti, scrittore della realtà quale fu, si trovò a sostenere, soprattutto negli anni ultimi, che la realtà può essere generata dalla letteratura, e che dalla letteratura acquisti il suo sigillo di verità. Dopo Storia di Sciascia, gli studi critici si sono moltiplicati per qualità e quantità. Potrei ricordare gli imprescindibili libri di Giuseppe Traina, le integrazioni di Antonio Di Grado (interessanti assai quanto all’ipotesi d’uno Sciascia rigorista e protestante), nonché la recente monografia di Pietro Milone, L’udienza. Sciascia scrittore e critico pirandelliano, che continua a considerare centrale (un vero filo rosso), per ogni ricostruzione critica della vicenda sciasciana, proprio come avviene

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in questo libro, il rapporto dello scrittore col suo grande conterraneo. Nonostante tutto questo, il ritratto che emerge da queste pagine, per la prima volta spalancate sugli anni misteriosi e fervorosissimi dell’apprendistato, mi pare resista bene alle offese del tempo: e con coscienza serena lo affido di nuovo ai lettori. (2004)

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Postilla

Mi raggiunge, mentre correggo le bozze, la notizia della scomparsa del mio carissimo maestro Nino Borsellino. Del mio debito con lui, della nostra infinita conversazione, inutile dire, spero solo che questo libro possa ancora testimoniarlo. Storia di Sciascia mi ha regalato la gioia inattesa di farmi conoscere di persona Luigi Baldacci, altro mio maestro, che lo recensì generosamente sul «Corriere della Sera». Quando improvviso mi afferra il pensiero che non è più tra noi, continuo a provare un grande sgomento e una grande solitudine. Luigi manca: soprattutto a questo irredimibile Paese. Massimo Onofri

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Abbreviazioni

Le abbreviazioni presenti del testo sono così da interpretare: I = L. Sciascia, Opere (1956-1971), a cura di C. Ambroise, vol. I, Bompiani, Milano 1987. II = L. Sciascia, Opere (1971-1983), a cura di C. Ambroise, vol. II, Bompiani, Milano 1989. III = L. Sciascia, Opere (1984-1989), a cura di C. Ambroise, vol. III, Bompiani, Milano 1991. S.M. = L. Sciascia, La Sicilia come metafora, intervista di M. Padovani, Mondadori, Milano 1984 (19791). C.S. = L. Sciascia, Conversazione in una stanza chiusa, intervista di D. Lajolo, Sperling & Kupfer, Milano 1981. Q. = L. Sciascia, Quaderno, intr. di V. Consolo, con una nota di M. Farinella, Nuova editrice meridionale, Palermo 1991. Nel testo, le abbreviazioni siglate sono tra parentesi, seguite dal numero della pagina.

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Capitolo I

Il lungo apprendistato 1949-1955

Nella Notizia che apre Occhio di capra (1984) Leonardo Sciascia opponeva alla Sicilia di Quasimodo, abbondante di acque, sui fiumi e stretta al mare, quella arsa della sua infanzia, nell’immaginazione lontanissima dalla costa, «come fosse il centro di un continente», benché distante da Porto Empedocle pochi chilometri: una terra avara di pane, piagata dalle cave di zolfo, ma come ogni altra siciliana di mare o montagna, pianura o collina, «isola nell’isola». Quindi, dopo aver ricordato di esser nato a Racalmuto («Rahal-maut, villaggio morto, per gli arabi»), e di non essersene mai distaccato, se non per breve tempo, sul paese aggiungeva: E così profondamente mi pare di conoscerlo, nelle cose e nelle persone, nel suo passato, nel suo modo di essere, nelle sue violenze e nelle sue rassegnazioni, nei suoi silenzi, da poter dire quello che Borges dice di Buenos Aires: «Ho l’impressione che la mia nascita sia alquanto posteriore alla mia residenza qui. Risiedevo già qui, e poi vi sono nato». Mi pare cioè di sapere del paese molto di più di quel che la mia memoria ha registrato e di quel che dalla memoria altrui mi è stato trasmesso: un che di trasognato, di visionario, di cui non soltanto affiora – in sprazzi e frammenti – quella che nel luogo fu vita vissuta per quel breve ramo genealogico della mia famiglia che mi è dato

24 conoscere […], ma anche tutta la storia del paese dagli arabi in poi. Ed ecco un fatto di per sé borgesiano, del Borges di natura e quotidiano: non riesco ad immaginare, a vedere, a sentire la vita di questo paese prima che gli arabi vi arrivassero e lo nominassero. Ed è piuttosto facile scoprirne la ragione: la mia residenza qui, quella residenza che di molto precede la nascita, è cominciata con gli arabi, dagli arabi. (III, 8)

A molti anni di distanza da quando ne aveva scritto per la prima volta1, Sciascia tornava a dire di Racalmuto: ora in forma di lieve fantasia borghesiana (di un Borges quotidiano e di natura) e nella luce luttuosa che l’etimo arabo, Rahal-maut, irradiava. Per iscriversi, come il suo cognome esigeva (Xaxa, così trascritto fino alla metà del secolo scorso: «tra quelli che Michele Amari registra come nomi arabi»), all’anagrafe di un paese nato a nuova vita sotto gli arabi e chiuso nel triangolo disegnato da Agrigento, Caltanissetta e Palermo, sulla mappa di quella Sicilia loica, per sofismi e sottigliezze, entrata prima nell’opera di Pirandello e poi in quella di Brancati. Era l’isola-paese dentro l’isola provincia, nell’arcipelago delle isole-­famiglia, al cui centro stava, in inesorabile solitudine, l’isola-individuo, secondo il discorso su Verga già tracciato da Pirandello2. Ma la fantasmagorica Racalmuto di questa nota non è una novità nel vasto corpus sciasciano e ha una genesi remota. Non la si può ricondurre soltanto a una delle sollecitazioni di Borges, frequenti nell’ultimo decennio creativo, benché databili in anni assai precedenti, se è vero che Sciascia recensì il «Gettone» einaudiano di Borges, La Biblioteca di Babele, sulla «Gazzetta di Parma» del 22 dicembre 1955. Una larvale immagine di questa Racalmuto si riscontra, infatti, nella Girgenti di un saggio del 1954, mai raccolto dallo scrittore, in un passo che, 1.  L. Sciascia, Paese con figure, in «Galleria», I, n. 1, 1949, pp. 21-24. 2.  Cfr. L. Pirandello, Discorso di Catania, in Id., Verga e D’Annunzio, a cura di M. Onofri, Salerno Editrice, Roma 1993, pp. 62-87.

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poco tempo dopo, rielaborato e mutato quanto a toponomastica, verrà inserito nelle Parrocchie di Regalpetra (1956); un’immagine che, restituita alla sua originaria geografia, troverà poi asilo in un luogo di Pirandello e la Sicilia (1961): a segnalare l’oggetto di un’ossessione che, nello spazio stretto tra Girgenti e Racalmuto, pare trasmigrare da un’opera all’altra, quasi assumendo la consistenza di un ectoplasma. In quel lontano saggio Sciascia scriveva di Girgenti: È la città impersonale e metafisica della prefettura, del catasto, dell’intendenza di finanza, dei tribunali […]. Ciascuno sembra trovi le ragioni e le certezze della propria esistenza in una certificazione e autentificazione burocratica: quasi che una di quelle dichiarazioni su carta tassata, firmata dall’ufficiale di stato civile e controfirmata dal prefetto, sia l’unico mezzo per provare la nascita e identità non solo in un concorso, ma guardandoci allo specchio o rivolgendoci a Dio. Se non si getta l’ancora dell’esistenza sui registri anagrafici e sugli atti notarili, la realtà finirà col franare da ogni parte. Basta che un incendio distrugga gli archivi o un terremoto li seppellisca; e nascono i casi del signor Ponza e della signora Frola. E una dichiarazione di morte fa di un uomo vivo un fantasma: ed è il caso di Mattia Pascal.3

Come si vede, questa Girgenti fantasmatica (ma si potrebbe chiamarla Racalmuto o Regalpetra), e con essa il presentimento di una realtà sul punto di disgregarsi e svanire in metafisici vapori, mostrano una matrice assai più antica e determinante di quella borghesiana, una matrice ben indicata nel testo. La Girgenti in cui un burocrate può imprimere a un fatto il suggello di una certezza, che altrimenti non sarebbe, è, infatti, la città ove si consuma «la trasformazione delle creature in personaggi»4:

3.  L. Sciascia, Pirandello nella critica d’oggi, in «La Giara», III, n. 1, 1954, pp. 95-100: p. 99. 4.  Ivi, p. 98.

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qui sono nati quei Mattia Pascal e Vitangelo Moscarda ai quali sarebbe bastato «uno specchio, una finestra aperta sulla strada, una battuta della moglie per sentirsi di schianto precipitare nel caos, travolgendo nel franare della propria identità tutte le quotidiane verità»5. Il mondo dell’uno nessuno e centomila, che Pirandello aveva rappresentato, era lo stesso in cui Sciascia era nato e viveva. Si trattava della scoperta che «il pirandellismo si trova in natu­ ra»6. Questa convinzione, in più occasioni ribadita, è già chiaramente espressa all’inizio del saggio che stiamo esaminando: C’è stata una stagione della nostra vita – vicina, e pure lontanissima nelle profonde prospettive che una tremenda serie di avvenimenti compone – in cui Pirandello diede nome a tutto il nostro sgomento, ai nostri umani rapporti, alla nostra pietà. E riflettendo scopriamo che il nostro incontro con Pirandello è avvenuto, nel tempo e nello spazio, ad un pericolosissimo incrocio: negli anni dell’adolescenza, e in una piccola città della Sicilia. Scendemmo allora nell’opera pirandelliana come in un averno di specchi e d’ombre: e ne traemmo disperate rivelazioni, allucinazioni logiche – fino all’ossessione. Poi vennero gli americani; e da allora, fino ad oggi che torniamo a leggere Pirandello, abbiamo, per dirla con Cardarelli, «bevuto in ben altre cantine».7

Quello con Pirandello, in un piccolo e povero paese dell’entroterra agrigentino, negli anni dell’adolescenza che erano stati anche quelli della dittatura fascista, fu, dunque, un incontro precoce e decisivo nel fornire al giovanissimo scrittore l’incancellabile immagine di una Sicilia che, col senno di poi, avrebbe definito per le sue ataviche consuetudini e per il fascismo «doppiamente non giusta, doppiamente non libera, doppia5.  Ivi, p. 96. 6.  Ivi, p. 98. 7.  Ivi, p. 95.

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mente non razionale», insomma, «una società non società» (S.M., 5). L’immagine di questa Sicilia gli sarà apparsa accesa di una certa luce visionaria se è vero che, come rivelò in Cruciverba (II, 1147), ebbe il primo contatto con il mondo pirandelliano per tramite del film Il fu Mattia Pascal di Marcel L’Herbier, che aveva inserito Pirandello «tra gli ultimi narratori del fantastico, nella tradizione di Hoffmann, Poe, Chamisso […], Maupassant, Wilde, James»8. La vicenda intellettuale di Sciascia, idealmente se non cronologicamente, cominciava qui, con Pirandello: nel segno di un forte antagonismo. E nasceva dalla necessità di una duplice emancipazione. Si trattava di bandire ogni influenza del modello pirandelliano, che non rintuzzava ma amplificava l’irrazionale realtà siciliana, e, insieme, di respingere ogni interpretazione dell’opera di Pirandello in chiave di cultura della crisi e di relativismo filosofico. Bisognava, insomma, bere «in ben altre cantine» e riorganizzare le proprie forze intellettuali secondo una precisa idea di letteratura, che fosse in grado di volgere la greve materia dell’esperienza in rapidità e leggerezza, di cambiare una realtà opaca e indecifrabile in una verità luminosa e indefettibile, di mutare una catena di fatti equivoci ed equivocabili in una ricostruzione determinata e perspicua. Quasi si dovesse estrarre il nocciolo razionale dei libri di Pirandello dal loro guscio mistico e affidarsi a un’interpretazione che sapesse convertire l’irrazionale vita siciliana ivi rappresentata in razionale coscienza di essa9. 8.  F. Angelini, Luigi Pirandello e Marcel L’Herbier, in «Teatro Contemporaneo», II, n. 3, 1983, pp. 273-284: p. 277. 9.  Su Sciascia e Pirandello, cfr. M. Onofri, Sciascia e Pirandello, in «Rivista di studi pirandelliani», VII, n. 3, 1989, pp. 9-27; N. Borsellino, «Pirandello, mio padre»: un promemoria di Sciascia (1990), in Id., Ritratto e immagini di Pirandello, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 257-262; P. Milone, Fonti e padri. Ancora su Sciascia, in «Rivista di studi pirandelliani», VIII, n. 5, pp. 95-99; S.S. Nigro, Il volto di Sciascia sulla maschera di Pirandello, in S. Zappulla

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Il tirocinio fu lungo e faticato ma diede i suoi frutti. Da una parte vennero i numerosi articoli dedicati a quegli scrittori scelti come antidoti al virus pirandelliano, e le prime prove in prosa e in versi improntate a una nuova poetica. Dall’altra, si avviò quella reinterpretazione dell’opera pirandelliana, mai interrotta sino alla morte, che s’inaugurò con Pirandello e il pirandellismo (1953). Bisogna comunque dire che Sciascia subì in profondità il fascino dell’opera pirandelliana, nella quale, come avvertiva, «la poesia sgorga dentro un mondo […] senza gusto e misura […], violento e incoerente e disperato come violenta, incoerente e disperata è la vita prima che dall’arte riceva l’impronta della luce, dell’ordine e della carità»10. Le sue pagine, sin dagli esordi, furono perturbate da quel movimento di sofistica disgregazione più di quanto certe interpretazioni critiche neo-illuministiche, o peggio neorealistiche, siano state disposte ad ammettere. E si veda, ad anticipazione di un discorso più articolato, la chiusa del saggio fin qui citato, ove incombe un Pirandello che, per quanto nel riferimento debenedettiano, pare un Borges ante litteram: Se davvero Pirandello ha creduto in Qualcuno, come afferma in una lettera a Pietro Mignosi, questo Qualcuno è quello che sogna la nostra vita. E che almeno sogni una città deserta, e l’uomo solo: e la nostra giornata – una giornata – avrà un suggello di pace.11

Figlio di una casalinga, proveniente da una famiglia di artigiani, e di un impiegato delle zolfare, il cui padre aveva conosciuto, emancipandosene, il mondo della miniera, Sciascia fu, per quello che Racalmuto poteva offrire, lettore onnivoro. I primi libri importanti li attinse nel giro delle biblioteche dei Muscarà (a cura di), Narratori siciliani del secondo dopoguerra, Maimone, Catania 1990, pp. 349-353. 10.  L. Sciascia, Pirandello nella critica d’oggi, cit., pp. 99-100. 11.  Ivi, p. 100.

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parenti, tra i quali annoverava anche una zia maestra. Ecco, allora, come si evince dalle confessioni alla Padovani e Lajolo, ma anche in molti passi di Nero su nero (1979), Cruciverba (1983), Fatti diversi di storia letteraria e civile (1989), l’antica antologia di prose e poesie italiane a uso delle scuole di Luigi Morandi che, a dieci anni, sapeva quasi a memoria; quindi, il Paradosso sull’attore di Diderot, che presto gli apparirà come la chiave del «secolo educatore» (II, 1006), e le opere chiare, veloci, ironiche di Voltaire12, salutari e perenni contravveleni al Rousseau dell’Emilio; le novelle dell’abate Casti, le memorie di Casanova, gli acuminati libelli di Courier e I Miserabili di Hugo, dai quali ricavò un’autentica lezione di cristianesimo; più tardi, il Manzoni13 dei Promessi Sposi e della Storia della Colonna Infame; non ultimi i romanzi popolari di William Galt (pseudonimo di Luigi Natoli), specie I Beati Paoli, attraverso i quali scopriva non soltanto quel vagheggiamento della Rivoluzione che, secondo Sciascia, era appartenuto alla storia della Sicilia, ma anche una suggestiva rappresentazione dell’ideologia mafiosa, benché nei modi dell’apologia. Ci si rivela un campionario di testi in predominanza francesi (con una forte curvatura realistica e razionalistica) che pone senz’altro il giovanissimo scrittore, quanto a francofilia, in linea con una tradizione culturale isolana, da Navarro della Miraglia a Capuana, Verga e De Roberto, da Bruno a Savarese e Vann’Antò, da Brancati e Aniante a Tomasi di Lampedusa, fino al coetaneo Bufalino. Ma di rilevante importanza fu il trasferimento della famiglia a Caltanissetta nel 1935 e l’iscrizione di Sciascia all’Istituto magistrale ove incontrò, negli anni in cui avrebbe scoperto la

12.  Su Sciascia e Voltaire, cfr. S. Addamo, Sciascia e Voltaire, in Z. Pecoraro - E. Scrivano (a cura di), Omaggio a Leonardo Sciascia, Atti del Convegno di Agrigento, 6-8 aprile 1990, Sarcuto, Agrigento 1991, pp. 115-121. 13.  Su Sciascia e Manzoni, cfr. P. Amato, Sciascia e Manzoni, ivi, pp. 135-155.

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guerra di Spagna e l’antifascismo, uomini decisivi per la sua formazione: l’onesto e colto preside Luigi Monaco e il professore di filosofia Giuseppe Bianca che lo avviò alla lettura di Giuseppe Rensi, lo «scettico credente» secondo la definizione di Ernesto Buonaiuti; il poeta protestante Calogero Bonavia, padre Lamantia, Aurelio Navarria e Giuseppe Granata, futuro senatore del partito comunista, che gli rivelò Dos Passos, Steinbeck, Caldwell, Faulkner e Hemingway; quindi Luca Pignato, fine conoscitore e traduttore di letteratura francese che gli fece conoscere L’après-midi d’un faune di Mallarmé, l’Ulisse di Joyce nella versione di Valéry Larbaud e i Parnassiani; poi Pompeo Colajanni che lo iniziò alla politica; infine, sopra tutti, Vitaliano Brancati, di cui non fu alunno, ma da cui trasse una lezione fondamentale. E di Brancati, dettandone il necrologio nel 1954, Sciascia scriveva: Caltanissetta, nel 1937, era come Brancati la descrive nel racconto Noia nel ’37. Dentro quella noia di città di provincia, ricordiamo lui, Vitaliano Brancati, professore di lettere […]. Avevamo nel cuore la Spagna, americani come Hemingway, Gobetti – e la presenza di uno scrittore come lui ci pareva, benché mai lo avvicinassimo, buona compagnia. Brancati uomo entra dunque, e non solo come scrittore, nei nostri ricordi: e sebbene riconosciamo che la sua opera migliore è il Don Giovanni in Sicilia, quei racconti e romanzi in cui rappresenta il costume fascista ci sono particolarmente cari. Niente del passato gli è sfuggito; tra gli italiani che dimenticano, accanitamente ricordava. […] La sua fede nella libertà, il suo odio contro la stupidità, un odio flaubertiano, intransigente, hanno dato un costruttivo apporto al tentativo di dare agli italiani quello che gli anglosassoni dicono il senso comune.14

14.  L. Sciascia, Ricordo di Brancati, in «Letteratura», II, n. 10, 1954, pp. 6769: p. 69.

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E molti anni dopo in Nero su nero, rielaborando questo passo, aggiungeva, nel ricordo di quando arrivava ogni mattina: Scuro in volto, annoiato, chiuso; e si aveva l’impressione che alla noia vera, al malumore vero, volutamente aggiungesse un che di discostante, a difendersi da ogni confidenza coi colleghi che stava per incontrare […]. Tre o quattro di noi alunni sapevamo che era uno scrittore; e soltanto io acquistavo ogni settimana, rinunciando per una sera al cinema, l’«Omnibus» di Longanesi: una lira. Ma ne valeva la pena: Barilli e Savinio, gli articoli di Vittorini sugli scrittori americani, i racconti di Caldwell e Saroyan, di un Giovanni Drogo che credo fosse Dino Buzzati, certi rapporti sull’America di Moravia e De Chirico; e che delizia le lettere di Brancati al direttore! «Caro direttore…» ed era come se da quel tessuto di noia che era la nostra vita di ogni giorno, improvvisamente balzasse nel fuoco di una lente, che lo ingrandiva e lo deformava, un particolare della trama, un nodo o una smagliatura. Pensavo: così si deve scrivere, così voglio scrivere. E ogni mattina guardavo quell’uomo affilato di ironia, cupo, scontroso, quasi ne portasse il segreto, il mistero. (II, 667)

Se, dunque, Pirandello aveva incarnato il padre naturale, subito rifiutato, Brancati, lettore di Chateaubriand, Stendhal, Leopardi e Gogol, diventava il padre adottato in sostituzione. Brancati, infatti, dopo un’ubriacatura ideologica giovanile si era liberato dal suo dannunzianesimo e, a differenza di Pirandello, aveva presto respinto ogni compromesso col fascismo, abbandonando il successo e i clamori mondani di Roma, ove era stato apprezzato dallo stesso Mussolini, per tornare in Sicilia e chiudersi in una sdegnosa e risentita solitudine. Qui erano nate, come Sciascia scriveva nel ’54, le pagine di «beffarda fantasia», di «gusto satirico», improntate ad «un giudizio morale sfaccettato di razionalismo»15, che compongono Gli anni perduti (1941) e Il vecchio con gli stivali (1946), ove 15.  Ivi, p. 68.

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l’Italia delle camicie nere trovava esilarante rappresentazione. Qui aveva avuto battesimo quel Don Giovanni in Sicilia (1941) in cui alcuni momenti di vita isolana si disponevano con evidenza e perspicuità: libro non a caso preferito da Sciascia in questo momento a Paolo il caldo (1955) che «Il Mondo» aveva iniziato a pubblicare, definito «di climaterica involuzione e stanchezza»16. La cupa disperazione nella quale Brancati stava forse bruciando il suo razionalismo non poteva piacere a Sciascia, impegnato com’era in quell’esorcismo dell’irrazionalismo pirandelliano che abbiamo sin qui delineato. Brancati, insomma, si offriva a Sciascia come un modello di vita e di stile, autore di un’opera dall’alto «valore educativo» e di robusto buon senso, attraversata da una forte tensione morale e civile, votata al culto della libertà, in perenne guerra con le ragioni (le non ragioni) della stupidità, testimonianza imperitura delle atrocità di un passato da non dimenticare: un’opera in cui resisteva, per altro, quell’immagine di Sicilia che Sciascia stava per ereditare e da cui, al pari di quella pirandelliana, avrebbe mutuato personaggi e situazioni. Occorre notare che la vicenda umana e intellettuale di Brancati, quale vicenda di progressivo affrancamento, si andava profilando agli occhi di Sciascia in tutto simile alla propria, nel segno di un’identificazione sottile. C’è un passo di quel saggio, sottolineato anche da Ambroise17, che sembra mostrare in filigrana un risvolto autobiografico: Egli fu scrittore precoce, di quella precocità che è tipica degli ambienti culturali di provincia, dove è sempre faticoso se non impossibile il raggiungimento di una concreta coscienza, delle proprie capacità e ambizioni, dove il dilettantismo, l’approssimazione, la riduzione dei fatti della cultura ad atteggiamenti 16.  Ivi, p. 67. 17.  C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, Mursia, Milano 1988 (19741), p. 43.

33 e fatti di costume determinano il più delle volte personalità tralignate e inconcluse.18

Oggetto della nota è la precocità di un Brancati fascistissimo e dannunziano che sarà per il Brancati antifascista della maturità causa di doloroso rimorso, di lunga e implacabile autocritica. Eppure, sullo sfondo, si agita la preoccupazione di Sciascia trentenne, scrittore tutt’altro che precoce, che però vive in provincia, nel rischio, coi suoi studi irregolari, del provincialismo, nel pericolo di scambiare una grandiosa idea poetica di sé stesso per un oggettivo mondo di poesia: uno Sciascia, insomma, che nel dilettantismo e nell’approssimazione avrebbe potuto arrestarsi a una condizione di acerbità. In realtà, quando Sciascia scrive questo saggio si è già liberato, in silenziosa solitudine, di tutti quei peccati di stile che, talvolta, sembrano allignare in qualche scritto degli esordi; sa già di essere uno scrittore, come dimostrerà di lì a poco nelle Parrocchie di Regalpetra. L’identificazione è totale e incondizionata, al punto che in ogni sua pagina sembra segretamente misurarsi con il suo modello19. Ma non si creda che Sciascia guardasse al solo Brancati. Que­ st’ultimo, infatti, era l’elemento di punta di una pattuglia di scrittori letti e ammirati su «Omnibus»: a Vittorini, Savinio, Barilli, Moravia e De Chirico, citati nel passo di Nero su nero, si devono aggiungere Praz, Cecchi, Tilgher, Trompeo, Alvaro, Morovich e, benché non presenti sul settimanale di Longanesi (ma allo stesso modo amati da Sciascia), Cajumi, Piovene, Soldati e Pavese. Nella rivista, come scriverà in un saggio di Fatti diversi di storia letteraria e civile, «confluivano ricerche, segnali, aspirazioni e ansietà di tutto un ventennio: dalla fine 18.  L. Sciascia, Ricordo di Brancati, cit., p. 67. 19.  Su Sciascia e Brancati, cfr. A. Di Grado, Don Giovanni a Racalmuto, in Id., Scritture della crisi. Espressionismo e altro Novecento, Maimone, Catania, 1988, pp. 115-118; M. Onofri, Sciascia e Brancati, in Z. Pecoraro - E. Scrivano (a cura di), Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., pp. 163-174.

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della prima guerra mondiale fin quasi alle soglie della seconda» (III, 629). E, come a dare un quadro entro cui si componeva e si completava nel riferimento ai contemporanei il suo apprendistato intellettuale, dei protagonisti di tali ricerche e aspirazioni forniva sommario elenco: «La Ronda» che riscopriva il Leopardi prosatore; Giuseppe Antonio Borgese «inviso alla Ronda, inviso a Croce, ma dai più giovani amato»; Cesare De Lollis e il gruppo de «La cultura»; le riviste di Ojetti «Pegaso» e «Pan», «aperte a tal punto che, a sfogliarle oggi, da pochi segni ci accorgiamo che uscivano negli anni del fascismo trionfante: ed erano riviste in cui giovani e giovanissimi trovavano spazio» (III, 630). Come punto d’arrivo di queste esperienze, «Omnibus» rappresentò il luogo d’incontro di forze intellettuali anche eterogenee, talvolta in conflitto, ma che, nella loro momentanea e parziale convergenza, furono di estrema importanza per il giovanissimo Sciascia e per molti suoi coetanei: Creato dunque, dal nulla che in tal campo era allora l’Italia, da Longanesi, l’«Omnibus» raccolse, fin dal primo numero e con continuità, questi scrittori trentenni che guardavano altrove per guardar meglio dentro: ai grandi scrittori cattolici francesi; alla letteratura nordamericana; alle introspezioni e alle visioni degli scrittori del centroeuropa; alla grande letteratura memorialistica francese, inesauribile terra ignota per gli italiani; a Stendhal. (III, 629)

Fu una convergenza, insomma, che si realizzò in una decisa guerra al provincialismo italiano per rompere l’autarchia culturale imposta dal regime, e che si risolse anche nel rifiuto di D’Annunzio: in direzione di quello «stile di cose» che Pirandello aveva attribuito al Verga, opponendolo, appunto, allo «stile di parole» del D’Annunzio20. In direzione, insomma, di

20.  Cfr. L. Pirandello, Discorso di Catania, cit., p. 73.

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quel realismo che, negli anni Cinquanta, avrebbe costituito l’aspirazione di Sciascia e di tanti suoi sodali. Tra i collaboratori di «Omnibus», vanno tenuti in debito conto gli scrittori di matrice rondista, la cui influenza era stata tempestivamente segnalata da Pasolini nel ’57 in uno di quei saggi nei quali andava conducendo la polemica antineorealistica e antiermetica21. Facendogli eco, Sciascia confessava, nella prefazione all’edizione congiunta delle Parrocchie e di Morte dell’inquisitore del 1967, di avere imparato a scrivere proprio sulle pagine di Savarese, Barilli e Cecchi, per quanto i suoi intendimenti fossero maturati in tutt’altra strada. Per l’opera di Savarese, infatti, nutrì sempre una vera affezione, come testimoniano i tanti spunti che ne cavò e l’ampio interesse dimostratogli su «Galleria», in qualità di direttore, e poi nelle collane dell’editore Sciascia di Caltanissetta, per il quale svolse mansioni di consulente: un Savarese che nel libro Sul romanzo italiano (1938) aveva difeso la tradizione letteraria nazionale lungo l’asse Manzoni-Verga e, pur cattolico, aveva tenuto vivo il culto di Voltaire. Di Barilli amò invece la prosa divertita, scintillante, veloce e precisa dei resoconti di viaggio, e in Cecchi venerò il critico, assai citato nei suoi primi saggi. Per non dire di Savinio22, taciuto in questa prefazione ma non altrove, dietro la cui glaciale indifferenza al fascismo scoprì, come amava ripetere, l’Europa libera e liberale. Quello di Sciascia sugli scrittori de «La Ronda» non fu un mero esercizio di stile, del quale restano soltanto tracce, per quanto profonde. Rappresentò, invece, un’esperienza fondamentale che, incontrandosi col tentativo di liberazione dal pirandelli-

21.  Cfr. P.P. Pasolini, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1977 (19601), p. 339. 22.  Su Sciascia e Savinio, cfr. S.S. Nigro, Sciascia e Savinio, in Z. Pecoraro - E. Scrivano (a cura di), Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., pp. 175-179.

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smo endemico, e passando al vaglio di una diversa poetica, si tradusse in una lezione assai peculiare: questo per dire come certe ramificazioni dell’antica pianta rondista abbiano avuto imprevedibile e insospettato sviluppo, a complicare non poco alcune interpretazioni di quell’avventura culturale sbrigativamente liquidatorie. Ne fa fede il saggio Appunti per un omaggio a Cecchi che, se avanza una suggestiva interpretazione dell’autore di Pesci rossi, offre anche utili indicazioni per intendere quell’ideale di scrittura, quella nozione di letteratura, che Sciascia stava formulando in questi anni. Dopo aver celebrato Cecchi per quel parlare «col quieto tono del familiare buon senso […] il linguaggio di un’ardua intelligenza» (e ardua, forse, per il fatto che, senza smarrire lo stato di lucida veglia, sapeva scrutare nel mistero delle cose), Sciascia scriveva: E ci è capitato, leggendo la recente traduzione italiana della Conquista del Diaz, di ritrovare in qualche punto come un’atmosfera cecchiana: quella particolare qualità che le immagini nella prosa di Cecchi assumono, quasi affiorassero dentro uno spazio di cristallo – terso solido diaccio, sensibile ad ogni minimo evento di luce, carico di sottili rifrazioni. Soltanto una suggestione, s’intende. Il fatto è che Cecchi opera sulla realtà una preliminare scelta luministica […]. E tutto assume una dimensionalità magica, una favolosa purezza. E dopo tanta nostra cordiale esperienza della sua prosa, a volte ci capita, per gratuito movimento della memoria, di isolare e disporre cose e momenti in quella luministica scelta che a Cecchi è propria.23

Come si vede, Sciascia attribuisce alla scrittura di Cecchi una capacità di ordinare razionalmente la realtà nella luce di una sfera cristallina, tersa e diaccia, che la chiarisca, la conosca e la redima: una capacità che, nello scatto improvviso e gratuito della memoria, Sciascia pare attribuirsi o, perlomeno, per

23.  L. Sciascia, Appunti per un omaggio a Cecchi, in «Galleria», II, n. 4-6, 1950, pp. 190-198: pp. 193-194.

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sé auspica. Lo stile cecchiano viene ricondotto a quei requisiti che, nel saggio della «Giara» dedicato a Pirandello, andavano a rappresentare il suggello dell’arte vera: luce, ordine e carità. È stato osservato «che il suo lavare i panni nelle acque della “Ronda” non è cosa molto dissimile nelle intenzioni dal bere degli illuministi siciliani alle fonti dei classici», e che «nell’ordine e nella lucidità dei rondisti ebbe a cogliere qualcosa della chiarezza e della razionalità illuministiche»24. Ma non si deve dimenticare, come il passo citato attesta, che la scelta di Sciascia fu «luministica» e non neo-illuministica. La sua scrittura si volse subito, nel gioco delle rifrazioni, al lato d’ombra della realtà, al suo mistero, per convertire ogni minima equivocità in evento di luce. Nelle opere di Cecchi ammirò infatti la «bellezza luminosa e profonda», serbandole nella memoria «col fascino delle gemme pazientemente tolte a una segreta ed oscura matrice». E ciò nel deciso rifiuto di un estetismo della razionalità, troppo spesso ascritto come limite agli intellettuali de «La Ronda»: Se esteticamente egli diviene nel tempo sempre più «facile», sempre più terso ed umano e familiare; moralmente resta sempre «difficile». E perciò la qualità dei suoi lettori si può dire selezionata e sicura. Attraverso la fortuna di Cecchi, potremmo tracciare un diagramma attendibile del recente sviluppo della cultura italiana.25

L’estetismo di Cecchi, dunque, si declina in una tensione etica che fa di lui una figura centrale della storia della cultura italiana. Tale moralità, nei libri di viaggio (in Messico o negli Stati Uniti), lo allontana dal «decadentismo rituale tellurico del 24.  N. Tedesco, Un sorvegliato spazio di moralità e ironia. Appunti per Sciascia, siciliano ed europeo (1986), in Id., L’occhio e la memoria. Interventi sulla letteratura contemporanea, Pungitopo, Marina di Patti 1988, pp. 67-76: p. 74. 25.  L. Sciascia, Appunti per un omaggio a Cecchi, cit., p. 192.

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Lawrence», e lo cala nei panni di «conservatore», in un’accezione culturale alta e lata: Conservatore come può esserlo un uomo di cultura ricca e fluida, di gusti riposati e sottili; tutt’altro che un forcaiolo. Cecchi è per il carabiniere a cavallo; ma non perché il carabiniere a cavallo difende la turris eburnea. Il carabiniere a cavallo sta come l’emblematico custode di un mondo di rapporti certi, solido, sicuro; in cui l’occidente è occidente, e oriente è l’oriente […] – l’ordine contro la confusione, la cultura contro la torre di babele. Anche questa è, di Cecchi, una grande lezione per noi: il rispetto per il mistero che è nelle cose, negli uomini, nelle stirpi; la viva e vigile coscienza di una civiltà.26

La prosa di Cecchi, insomma, si sostanzia di una moralità e civiltà che oppongono l’ordine della cultura al caos della torre di Babele, quella dei linguaggi non comunicanti che Sciascia aveva conosciuto sulle pagine di Pirandello. E si tratta della «prosa italiana più ardita più sensibile più libera», con ascendenze illustri e sorprendenti: I conti col D’Annunzio (non coi dannunziani) Cecchi certamente ha dovuto farli; D’Annunzio era una troppo ingombrante presenza. In realtà la prosa di Cecchi ha una genealogia più complessa e sottile. E, tra i nomi che si affacciano, quello del Manzoni contiene il riferimento più preciso. E pensiamo soprattutto a quel capitolo XVII, quello di Renzo che passa l’Adda: prosa tra le più magiche che si conoscano, di un realismo irrealmente spaziato nel volgere delle ore e nel misterioso serbarsi dei suoni.27

La genealogia dello stile di Cecchi diventa, dunque, sottile e complessa quanto l’apprendistato intellettuale dello stesso Sciascia, per ricchezza di riferimenti, per sotterranee analogie, per proiezioni autobiografiche. Genealogia destinata a com26.  Ivi, p. 196. 27.  Ivi, p. 198.

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plicarsi se si pensa che alla prosa di Cecchi Sciascia attribuisce un ulteriore tratto, a collocarla in una nuova e suggestiva luce: Dai suoi saggi sugli «scrittori inglesi e americani» sottilmente nasceva la nostra composita epopea, le nostre più felici letture: Stevenson, Conrad, Chesterton. E ci restava, di Cecchi critico, un senso di squisita avventura; una rivelazione di spazi intellettuali conquistati con una libertà e purezza stevensoniana. Cercammo allora tutti i suoi libri. […] Quella sua «agile e bizzarra disposizione a cogliere nel meschino frammento di vita una verità inaspettata e profonda» (così egli scrive dei saggisti inglesi), ci incanta quanto quel dono di cogliere «il senso fantasmagorico delle origini, delle migrazioni, delle civiltà scomparse […]». E ormai a tanti nomi di luoghi, è impossibile non risponda in noi una immagine […] precisa e al tempo stesso come evocata in sortilegio tempestoso, febbrile: l’immagine che Cecchi, con penetrazione tanto ardita da toccare l’allucinazione, ha saputo cogliere. I suoi libri ci si aprono come atlanti: e i continenti si squarciano in immagini meravigliose. E come in un atlante, si dispongono le pitture i libri le figure umane di cui ha scritto: cioè nella luce e nel movimento dell’avventura.28

La pagina di Cecchi, insomma, «si porta dietro l’infinito» di una storia universale, con una lunga eco di civiltà e di biblioteche, nel movimento di un’avventura felicissima e senza fine, a disegnare, libro dopo libro, quasi per sortilegio, le carte di un atlante meraviglioso, aperto su spazi intellettuali illimitati, ove ogni luogo ha un’esatta ubicazione, nella rete sempre nuova e diversa di strade che lo collegano ad altre mete. Una luminosa allucinazione che di continuo slarga e amplifica le verità insospettate celate nei particolari minimi della vita, una fantasmagoria che, nel gratuito scatto della memoria, nella subitanea accensione della fantasia, esige indefinito e venturoso svolgimento. 28.  Ivi, pp. 192-193.

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Non è un caso che questo Cecchi venga associato da Sciascia a Savinio e Borges nell’articolo già citato della «Gazzetta di Parma», ove i racconti dello scrittore argentino appaiono «come filologiche e filosofiche indagini, misteriose ricostruzioni di dissepolti frammenti della storia e del pensiero umano». L’ardita similitudine tra questi tre autori non veniva istituita all’insegna della poetica del disimpegno, della bizzarria, del capriccio: attributi che non potevano valere per Cecchi e Borges, né per Savinio, letto da Sciascia, con sempre più forza nel corso degli anni, non come fumista e attardato epigono dei fantaisistes, ma come disincantato testimone di un mondo disabitato dagli dei, nel solco di una tradizione che da Luciano di Samosata arriva sino a Montaigne e Stendhal29. Ad accomunarli, pur nella grande differenza, sembra una concezione della letteratura come forma di assoluta demistificazione, una pratica della scrittura capace di giungere al fondo delle cose tramite una gratuita divagazione. La predilezione sciasciana per libri che si portano dietro l’infinito di una storia non solo letteraria, che indugiano nelle erratiche analogie come sicuro approdo alla verità, non va dunque ascritta ai tardi anni della maturità, ma risale a quelli dell’apprendistato. E ciò nel quadro di una indagine critica che Sciascia conduceva con originalità e sicurezza di giudizio: in anticipo sui tempi, almeno nel caso di Borges, se è vero che su «Galleria», Sebastiano Addamo, agli esordi, poteva recensire La Biblioteca di Babele, in linea con tanta critica militante coeva, come un libro affascinante ma «vecchio», «atto gratuito parecchio fuori della moralità del nostro tempo»30. Questa predilezione si tradusse anche in precisi esiti critici. Ne abbia29.  Su Sciascia e Stendhal, cfr. R. Ricorda, Sciascia e Stendhal, in Z. Pecoraro - E. Scrivano (a cura di), Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., pp. 123-134. 30.  S. Addamo, recensione a J.L. Borges, La Biblioteca di Babele, in «Galleria», VI, n. 3, 1956, pp. 157-158.

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mo conferma nel saggio Un puzzle su Carlo Eduardo, apparso prima in «Galleria» nel ’52, poi riproposto su «Letteratura» del ’54, e infine ristampato nel 1983 in Cruciverba (II, 10471450). Muovendo dalla cronaca latina del gesuita Giulio Cordara sull’infelice spedizione di Carlo Eduardo Stuart, Sciascia fornisce un’interpretazione del Waverley di Scott. Sul destino dello Stuart, «come in un gioco di parole crociate», vengono lette «le “verticali” umanamente incrociate di Vittorio Alfieri e di Luisa Stolberg, oltre a quelle soltanto letterarie del padre Giulio Cordara, di Pietro Giordani, di Antonio Gussalli, di Walter Scott» (II, 1049). Il finale del saggio è di quelli che, appunto, sull’esempio di una pagina cecchiana o borghesiana, vorrebbero portarsi dietro l’infinito di una digressione, la quale, nel giuoco di citazioni e analogie, sveli una sua necessità. Waverley, la creatura di Scott, appare, infatti, come «una larva di personaggio che, nella letteratura europea può dar luogo a Fabrizio Del Dongo e a Renzo Tramaglino». E dopo aver individuato alcuni luoghi che dall’opera di Scott trapassano in quella di Manzoni, Sciascia così conclude: «Molti altri sono i punti in cui l’esteriore struttura dei Promessi Sposi combacia con quella di Waverley. Ma il nostro puzzle è completo. Il nome di Manzoni lo abbiamo anzi letto come in crittogramma» (II, 1050). Come avrebbe svelato poi nella nota che chiude Cruciverba, l’impiego di termini quali parole crociate, puzzle, verticali, crittogramma, equivaleva a un messaggio cifrato, celava una fonte: i divertimenti di Pietro Paolo Trompeo, che, «– magari per delega di Apollo e delle Muse – riesce a stupende combinazioni, quando si mette a fare i cruciverba» (II, 1282). Quel Trompeo che nelle sue opere, ricavate perlopiù dai molti articoli sparsi su quotidiani e riviste, aveva dato deliziosa prova peregrinando negli spazi siderali, e al di fuori del tempo, della letteratura e che, insieme a Ferdinando Neri e Arrigo Cajumi, molto contò nell’orientare le letture francesi del giovane Scia-

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scia. Il nome di Trompeo deve essere dunque aggiunto a quello di Savinio, Cecchi e Borges, in quanto ispiratori di un’idea di letteratura come cosmo ordinabile per infinite geometrie da opporre al caos della vita, cosmo tanto libero limpido e razionale, quanto opaca costretta e irrazionale era la realtà in cui Sciascia si era trovato a vivere. Resta appena da dire che in tale concezione della letteratura come luogo senza tempo, in cui i misfatti possono redimersi e gli enigmi della vita sciogliersi nella luce della verità, sta la radice dell’antistoricismo di Sciascia. Una convinzione che, per quanto negli anni coniugata ad altre sollecitazioni e a preoccupazioni di ordine ideologico, resisterà sempre, come ultimo segno di ottimismo, persino nel tempo estremo dello scetticismo radicale. Quando Sciascia dichiarò su «L’Ora» del 15-16 aprile 1965 che in un certo periodo della sua vita era stato «talmente letterato» da rovesciarglisi poi tutto «in una nausea nei riguardi della letteratura», aveva insieme ragione e torto. Ragione nel testimoniare di un apprendistato nel quale il culto delle umane lettere aveva avuto spazio immenso. Torto (un torto temporaneo nella coscienza dei troppo ideologici anni Sessanta) in quanto, come tenteremo di dimostrare, il suo ritorno alla realtà fu come fu, stante quel tirocinio che gli rivelò nella letteratura l’«altro» (quanto a razionalità e moralità) rispetto a una vita irrazionale e iniqua. Se rifiuto della letteratura ci fu, insomma, si trattò del rifiuto di una certa letteratura, in primis quella pirandelliana, e in modi tutt’altro che pacifici e definitivi, come vedremo. Con Cecchi, Savinio, Borges e Trompeo abbiamo individuato le ultime importanti fonti nel conto delle molte che sono all’origine dell’identità intellettuale e morale di Sciascia. E ciò, a conferma che, nel giovanile percorso critico dello scrittore, non siano dominanti gli interessi ermeneutici, ma la faticosa ricerca di uno stile, la difficile maturazione di una poetica. Sembra, insomma, che ogni esercizio critico di Sciascia riproponga in vitro il dramma autobiografico che ha condot-

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to lo scrittore alla letteratura: quell’agonistico rapporto con il «pirandellismo in natura» che è all’origine della sua volontà di scrivere. Ne abbiamo dimostrazione in un altro articolo apparso su «Galleria» nel 1952 dedicato a Lawrence d’Arabia: Un conflitto pirandelliano […], estremo, senza via d’uscita. Lawrence d’Arabia: una «forma» già fissata, interiormente ed esteriormente fissata – e la vita che vuol continuare in Ross in Smith in Shaw, e ricade impotente e avvilita. Il colonnello Thomas Edward Lawrence; Lawrence d’Arabia, il Principe Dinamite. Non poteva più scegliere. […] Non aveva imparato a rispettare se stesso; un disordine nell’accadere delle cose creò dentro di lui un traumatico rovescio. In effetti, soffriamo anche noi dello stesso male.31

Nella vita di Lawrence d’Arabia, nella sofferenza che riconosceva simile alla propria, nell’inquietudine che costrinse il Principe Dinamite a mutare più volte nome, affinché la «forma» non potesse imprigionare la «vita», Sciascia coglieva quello stesso dramma pirandelliano che si trovava a vivere a Racalmuto. Ma in Seven Pillars of Wisdom, libro importantissimo per un’intera generazione di scrittori (e si pensi al Fenoglio della prima redazione del Partigiano Johnny), egli scorgeva, accanto alla diagnosi della malattia che lo affliggeva, anche la terapia: una soluzione identica a quella che aveva fatto propria fino a quel momento: Sentiamo ad ogni istante che il pirandelliano conflitto tra la creatura e il personaggio […], tra l’aspirazione «all’intatta e appagata musica dell’uomo solo» e «la proterva voglia di individuarsi personaggio» (Debenedetti), non è chiave sufficiente per intendere il dramma di Lawrence. La sua impresa d’Arabia, e poi il suo raccontarla, è come un «parlar d’altro», un distrarsi – e un distrarci – da un centro di dolore […]. Un

31.  L. Sciascia, Lawrence d’Arabia, in «Galleria», III, n. 2, 1952-1953, pp. 3241: pp. 33-34 (corsivo nostro).

44 grido contro l’esistenza si raggela dentro la sua azione tesa fino al limite supremo; una pura protesta metafisica dentro il torbido agitarsi e schiumare della storia […]. Questo fondo tetro, questa profonda vena di dolore, di isteria e, magari, di paura, corre sotto una prosa luminosa, incantevole; nel letterario senso che noi diamo a questa parola, «magica». E come un erompere di pura energia, di una felicità senza nome. Quella sorta di catarsi che si accompagna all’atto di fare poesia, qui redime un grave carco esistenziale.32

Il dramma pirandelliano che esplode in una protesta metafisica, «nel torbido agitarsi e schiumare della storia», non può esaurire la vicenda di Lawrence, né risolverla, come Sciascia nel prosieguo dell’articolo obietta a un critico, in estetismo decadente. A riscattarla, sollevandola a condizione esistenziale paradigmatica, è la letteratura. Lawrence d’Arabia entra nel novero degli scrittori impiegabili come antidoto al pirandellismo irrazionale e autodistruttivo. Non sfuggirà che i tratti di questa prosa (luminosità purezza e miracolosità) sono gli stessi che Sciascia attribuisce a quella cecchiana. Né sorprenderà che Sciascia accosti nel saggio il nome di Lawrence a quello di Stevenson, Conrad, Hemingway e Cecchi, concludendo con il rammarico che quest’ultimo non avesse posto mano alla traduzione del «grande libro». La poetica sin qui delineata ha un suo immediato riscontro nei primi scritti d’invenzione. Documento di estremo interesse è Paese con figure, ritratto del luogo natio e di alcuni personaggi che in esso si muovono, apparso su «Galleria» nel 1949. Il testo, ricco di anticipazioni delle Parrocchie, lascia talvolta affiorare, nello stile incisivo ma non ancora sorvegliatissimo, la sua nuda struttura e ben consente un’efficace stratigrafia. Pensiamo subito, a una prima lettura, a certe pagine di Savarese (la matrice rondesca lumeggia peraltro in un riferimento a Bal32.  Ivi, pp. 35-36.

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dini) dedicate a Rossomanno, Petra, Enna, nelle quali spesso un’istanza lirica si alterna a una gnomica. Lo scritto di Sciascia ha una medesima oscillazione, ma con un’originale correzione che prefigura soluzioni stilistiche delle Parrocchie: l’istanza gnomica è notevolmente potenziata, mentre quella lirica è ridotta quasi al grado zero, conservando, però, un ruolo essenziale. Come se l’evocazione lirica del paese che apre il ritratto dovesse fungere da controcanto ironico, straniante, rispetto al paese in cui attualmente lo scrittore vive. Quasi che prospettare gli eventi nella memoria comportasse mistificazione, menzogna, obliterazione della realtà. Ponendo il paese nella luce della nostalgia Sciascia, infatti, scrive: Come uno di quei Presepi a cui intorno al Natale si affaccendano grandi e piccini e che, dal re all’acquaiolo, raccolgono tutte le umane attività e significazioni. Quello sarà veramente il nostro paese: perché la lontananza darà dolci cadenze alla noia di oggi e all’angustia; e diventerà un po’ amore quel che ora è insofferenza e reazione. Intanto, poiché ancora in nessun modo lo amiamo, una pausa della nostra insofferenza ci permette di immaginare come sarà nel ricordo di noi lontani, come nascerà quell’insieme nitido e minuscolo come un presepe.33

Ma, quando prova a immaginarselo, non è un amorevole quadro che compone. A restare nella rete tagliente della scrittura è soltanto il paese che esiste nel presente, senza vocazione all’idillio. Il presepio si trasforma in un piccolo roveto ove, impigliati, piccoli uomini feroci e meschini si feriscono senza tregua. Un mondo illuminato da comica luce, come ci si doveva aspettare per quella noia tutta brancatiana: «Ecco: don Giuseppe Savatteri è un imbecille detestabile». Talvolta, come in questa battuta, l’urgenza moralistica è troppo scoperta. Ma ciò non toglie che la storia del nonno di Savatteri, incredulo che 33.  L. Sciascia, Paese con figure, cit., p. 21.

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un treno possa muoversi col «fumo di una pentola che bolle», convinto che ci siano dentro i cavalli, finisca per avere la consistenza di un «mimo» di Francesco Lanza, in cui è stato colto un ilarotragico risvolto pirandelliano. Una storia che ci svela in sarcastica luce una verità sul nipote: «Da suo nonno non ha soltanto avuto terre e case, e i marenghi di cui si dice nel paese; ma anche questa sublime diffidenza […]. In una sola cosa credette Giuseppe Savatteri: nel fascismo. E, nonostante tutto, stenta ancora oggi a credere che “c’erano dentro i cavalli”»34. Sulla scena, con il Savatteri, sfilano altre esilaranti figure. Sono i galantuomini: don Ignazio Grillo, «col suo bastone […] vibrante come una bacchetta di rabdomante ad ogni sotterranea malignità»; il signor Munisteri, con una voce «che la mancanza di denti rende come ovattata»; il barone Trupia, il futuro don Ferdinando delle Parrocchie, che muove «le mani, leggere come farfalle, a foggiare nell’aria un gran corpo di donna». Commenta Sciascia: «Così tutti i nostri personaggi (perché sono gli uomini che vediamo ogni giorno, ma al tempo stesso sono personaggi in cerca d’autore) parlano ora di donne»35. Ognuno di essi «può benissimo entrare dentro le saporitissime pagine di uno scrittore conterraneo che tanto amiamo. E magari uscire sbattendo la porta, tanto la sua presenza annienterebbe i vari Percolla e Muscarà del Don Giovanni in Sicilia»36. Siamo ancora a Brancati, dunque. Ma anche a Pirandello, che del disamato paese sa restituire la vita come in un deformante gioco di specchi: Noi lasceremo questo gruppo alle sue invenzioni felici. Guarderemo a quel mendicante che ogni giorno ci troviamo davanti la porta. Una presenza terribile; con quella poca barba neris-

34.  Ivi, p. 22. 35.  Ivi, p. 23. 36.  Ivi, p. 24.

47 sima sul mento sfuggente; gli occhi grandi e acquosi, senza sguardo; la fronte schiacciata; il torace gonfio e bianco, sempre nudo sotto la sola giacca lurida. Collocheremo la sua figura presso la casa del più ricco del paese. […] Un uomo che ha saputo fare, dicono […] questi galantuomini […]. Ma c’è un uomo, un pazzo tranquillo monologante logico; un uomo dalle pupille stravolte e ferme; una figura piena di gelida ira che sembra uscita da un quadro di Hieronymus Bosch – c’è quest’uomo che chiama le cose col loro vero nome e crocchi di ragazzi stanno ad ascoltarlo, e spesso lo ascolto anch’io. E così «l’uomo che ha saputo fare» è chiamato semplicemente ladro. E ogni casa ha il suo buco nel tetto, e dentro vi guardano queste tremende pupille vitree e ferme. Qualcuno tenta di sorridere. Ma è difficile, proprio difficile sorridere. E il pazzo dice: tu sorridi, ma come la lumaca sulla brace.37

La miseria irrompe tremenda a fronte del brancatiano mondo dei galantuomini. A darle voce è un pazzo la cui estrazione è inequivocabile, come rivela quel paragone della lumaca sulla brace (risu di babbaluci), che sta a indicare ogni manifestazione d’ilarità che cela un patimento e compare nel finale della pirandelliana Fra due ombre. Come Tararà della novella La verità, il pazzo chiama le cose col loro nome e descrive i fatti per come sono andati. Al pari del Tararà pirandelliano, che confessando incorre in una dura condanna penale che avrebbe evitato, se solo avesse riportato la versione dei fatti da tutti attesa, anche lui paga per il suo candore, relegato ai margini della società. Ma Sciascia ne sposa le ragioni, vede in lui l’unico saggio e onesto nella generale follia, nella comune turpitudine, gli riconosce la capacità di ricomporre in una verità univoca i plurimi punti di vista dei compaesani. Questa zona franca di reietti e diseredati, occorre dirlo, sarà la terra su cui crescerà l’utopia di giustizia, libertà e ragione dello scrittore, su cui maturerà la sua determinata idea di letteratura. 37.  Ibidem.

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Il medesimo atteggiamento, nei modi di una precisa coscienza storica, si ritrova in Una kermesse38, che ha stesso soggetto della Cronachetta siciliana dell’estate 1943 di Savarese: lo sbarco degli alleati nell’isola. Ma ora, pur nella somiglianza di luoghi e situazioni, vengono a cadere le meditazioni esistenziali e metafisiche generate dalla guerra, per una più vigile attenzione ai cambiamenti introdotti dagli americani nella vita della comunità, e nei modi di un’amara ironia. E sono pagine il cui spirito ritroveremo poi nelle Parrocchie: «Era la festa che degnamente terminava un ventennio di diseducazione, di adorazione della forza, di culto al proprio stomaco»39. Alla fine, la dura constatazione che, dai fascisti agli alleati, la realtà è rimasta la stessa: «il fascismo lasciava una pingue eredità di spie di ladri di odio di diffidenza. Chi qualche giorno dopo si trovò a calcolare un inventario dovette proprio cominciarlo col cittadino che gli americani subito predilessero»40. Paese con figure e Una kermesse, quali testimonianze di una Sicilia sequestrata alla ragione alla libertà e alla giustizia, non sono altro che le prove generali di due opere pubblicate con la mediazione del poeta romanesco Mario Dell’Arco da Bardi, un piccolo ed elegante editore della capitale: Favole della dittatura (1950) e La Sicilia, il suo cuore (1952). Le favole sono un riadattamento e una reinterpretazione, talvolta in forma di felice riscrittura, dell’antico modello fedriano. In una recensione che, anni dopo, parve allo stesso Sciascia come una preconizzazione di tutto quello che avrebbe scritto (II, 773), Pasolini ne indicava alcuni referenti letterari: il Pancrazi dell’Esopo moderno, le liriche dialettali di Trilussa, certe «favole inutili» di Dell’Arco, in direzione di un «favoleggiare per se stesso», di un «moralismo senza oggetto» e di un «gusto della satira pura 38.  L. Sciascia, Una kermesse, in «Galleria», I, n. 2-3, 1949, pp. 101-105. 39.  Ivi, p. 102. 40.  Ivi, p. 105.

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nel proprio alone poetico». Si richiamava poi al quadretto di genere alessandrino, alla maiolica orientale e alla lirica popolare siciliana, nel segno di precise ascendenze: «La parola ferma riflessa dal greco, di Quasimodo, e la discorsività amara e pungente di Brancati»41. Le due citazioni da Orwell (La fattoria degli animali) e Longanesi (Parliamo dell’elefante), che come epigrafi aprono la raccolta, delimitano con precisione l’orizzonte del testo: una serie di favole ove animali antropomorfizzati, come quelli della fattoria orwelliana, raccontano con secca sentenziosità una vicenda che allude alla dittatura fascista, in una longanesiana luce d’ironia. Ma, a ben guardare, tali citazioni indicano anche il duplice registro che struttura l’intero libretto e, talvolta, la singola favola: lo storico-satirico e l’allegorico-metafisico, in virtù del quale le allusioni al regime da poco deposto si risolvono in una profonda meditazione sul Potere e sulla sua eterna logica, perdendo la loro concreta determinazione. In questa prospettiva, la prima favola, come osserva Gianni Scalia42, è il presupposto di tutte le altre, conferisce loro il ritmo. Essa contrae in sé, virtualmente, l’intera sequenza del libro. Il suo valore è emblematico: Superior stabat lupus: e l’agnello lo vide nello specchio torbo dell’acqua. Lasciò di bere, e stette a fissare tremante quella terribile immagine specchiata. «Questa volta non ho tempo da perdere», disse il lupo. «Ed ho contro di te un argomento ben più valido dell’antico: so quel che pensi di me, e non provarti a negarlo». E d’un balzo gli fu sopra a lacerarlo. (III, 961)

Il testo rimanda, con una citazione, all’antecedente latino e ne è, insieme, un’appendice e una riscrittura. Il lupo di Sciascia, 41.  P.P. Pasolini, Dittatura in fiaba (1951), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia. La verità, l’aspra verità, Lacaita, Manduria 1985, pp. 269-271: p. 270. 42.  Cfr. G. Scalia, Il primo lemma di Leonardo Sciascia, ivi, pp. 151-156: p. 154.

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infatti, ha ben in mente le argomentazioni che l’agnello di Fedro oppose per evitare la morte, ma non ha intenzione di perdere tempo come il suo antenato, nel tentativo di giustificare, con una malferma ragione, la volontà di sbranare il malcapitato. Tanto il lupo che l’agnello, ora, conoscono le regole del giuoco, sanno che conta solo la legge del più forte. Il mondo di queste favole è già tutto qui, un luogo ove non resta che far torto o patirlo, in cui tutti sono consegnati a un male radicale e inestirpabile. È il mondo di ieri e di oggi, ma anche di domani, che non lascia speranza alcuna all’utopia, come emerge chiaramente dal secondo apologo: Le scimmie predicarono l’ordine nuovo, il regno della pace. E tra i primi entusiasti furono la tigre il gatto il nibbio. Poco a poco, tutti gli altri animali si convinsero. E fu un tripudio dolcissimo, una fraterna agape vegetariana. Ma un giorno il topo, urbanamente scherzando col gatto, si trovò rovesciato sotto le unghie del recente amico. Capì che la cosa si metteva come per l’antico. Con tremula speranza ricordò al gatto i principi del nuovo regno. «Si», rispose il gatto, «ma io sono un fondatore del nuovo regno». E gli affondò i denti nel dorso. (III, 961)

Persino i rivoluzionari non sanno evitare che le cose si rimettano «come per l’antico». Neanche l’«ordine nuovo» può sottrarsi all’eterna legge del Potere. Il discorso di Sciascia muove dalla dittatura fascista, ma sembra estendersi ad ogni forma di totalitarismo, reazionario o progressista che sia. Del resto il libro, in linea con una tradizione siciliana che dal Verga di Libertà arriva sino a I vecchi e i giovani di Pirandello e al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, presenta una critica implacabile di ogni ideologia del progresso: Nel solco lasciato dai carri i ragazzi posero il rospo straziato. Il primo carro che venne su, l’asino stracco che lo tirava riuscì a cavar fuori le ruote dal solco. Fiutato lo strazio del rospo, l’asino non ebbe il coraggio di schiacciarlo. Delusi, i ragazzi corsero a posarlo sul ferro del binario. Quando il tre-

51 no sferragliò improvviso, il rospo pensò: «Davvero non posso lamentarmi del progresso». (III, 965)

Tra lupi volpi e agnelli, maiali topi e serpenti, colombi e cervi, scimmie leoni e tigri, che popolano questo universo feroce e straziato, non potevamo non ritrovare l’asino bastonato a morte dal Malpelo verghiano, i cani in ronda nelle città sferzate dallo scirocco di brancatiana memoria. In effetti, questa metaforica animale, seconda per crudeltà, nel Novecento italiano, forse al solo bestiario di Tozzi (1917), non fa che confermare una tendenza della letteratura siciliana, nella quale, capovolgendo il tradizionale impianto umanistico, la fiera, lungi dal celebrare le virtù fisiche e morali dell’uomo, lo abbassa al livello di una natura desolata e squallida, di una vicenda di patimento e di sopraffazione. Gli animali parlanti di Sciascia conservano, secondo il modello fedriano, il ruolo di maschere prive di spessore psicologico. Nelle loro storie, sembrano allegorizzare tutte le possibili reazioni di un uomo di fronte alla dittatura, «rappresentata non come fatto storico ma morale», dato che «nella sua ‘epocalità’ sembra alludere ad una perennità infetta e nefasta»43. Nel complesso, le favole possono essere lette come prolegomeni a un’ontologia del dominio, ove le figure secondarie del cortigiano e del malfido consigliere, del tiranno miope e del rivoluzionario in cattiva fede, ruotano attorno alla centrale dicotomia vittima/carnefice, nel segno di un lessico particolarmente sensibile allo strazio fisico, al martirio dei corpi. Ecco, allora, i corvi imporsi a tutti gli uccelli invocando, con l’avallo filosofico del barbagianni, la superiorità delle penne nere, e invidiare invece, segretamente, il piumaggio del pavone e del colombo; il bue compiacersi con un indiscreto cavallo della moglie vacca, onorandosi dell’amicizia del toro; il topo silen43.  Ivi, p. 152.

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ziosamente rosicchiare il fianco di un porco opulento, scavandogli «una lubrica caverna di lardo» (III, 964); il leone vanesio sbranare il candido cervo perché gli ha aperto gli occhi sulla volpe adulatrice; la scimmia specchiarsi nell’«uomo in divisa, chiuso e rigido dentro tanto splendore» (III, 967). E tutto ciò, nell’iterazione ossessiva di denti che affondano nella carne delle vittime, di corpi straziati e lacerati. Come Fedro, Sciascia presta la voce ai vinti, esprime nei modi dell’allegoria il punto di vista delle classi subalterne. Ma, al contrario di lui, elimina «la “morale” di clausola, sentenziosa o pedagogica, come antifrasi esemplare»44. Non v’è alcun riscatto per le vittime, neanche in forma di moralistico ammonimento a futura memoria: «lo schermo favolistico non è proiettivo né protettivo; la favola è costruita come un ‘pezzo’ chiuso, in cui […] nell’explicit che trancia e conclude si cala, come in risucchio o in un appiombo, l’intera vicenda che conferma l’orrore nella sua fenomenologia, quasi la fatalità che immane, senza illusioni anteriori o ulteriori»45. Ma se nessuna prospettiva pedagogica, nessuna progressiva filosofia della storia, nessuna ideologia rivoluzionaria informa la visione lucida e disperata del libro, ne segue che la scelta di stare dalla parte delle vittime non ha ragioni, precede ogni ragione: è fideistica e sentimentale, di un sentimento ben nascosto che, però, sembra il nucleo irradiante dell’intera raccolta. E bene sottolinearlo: Sciascia si rende conto della centralità della lotta di classe, ma avverte anche che essa non è il motore di un processo storico di emancipazione culminante nella nascita di una società giusta e razionale. La sopraffazione irrompe ineluttabile in un mondo manicheisticamente diviso tra oppressi e oppressori e non trova giustificazione in alcun disegno predeterminato: non resta che scegliere, con passione, da che parte stare. La storia 44.  Ibidem. 45.  Ivi, p. 154.

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è, sin dagli esordi, il luogo della violenza e del sopruso: convinzione che dovrà essere tenuta in conto a meglio intendere ogni futura militanza dello scrittore nel campo della Sinistra. Al tema della dittatura, del male radicale con cui i conti, manzonianamente, sono sempre aperti, altri sottotemi nelle Favole variamente si intrecciano. Tra i molti, vale la pena di ricordare quello del rapporto Letteratura/Potere: L’asino aveva una sensibilissima anima, trovava persino dei versi. Ma quando il padrone morì, confidava: «Gli volevo bene; ogni sua bastonatura mi creava una rima». (III, 962)

Favoletta che va integrata con l’altra: Presso la gabbia del canarino, il gatto di casa spiegava ad un suo amico in visita: «Certo, mi piacerebbe tanto mangiarlo. Ma per ora non ci tento; il suo canto è delizioso, addolcisce spesso la mia vecchia noia». (III, 961)

Sono testi speculari nei quali i punti di vista della vittima e del carnefice (qui l’asino e il gatto) si prestano a un’amara meditazione, in forma di allegoria, sull’organicità al Potere dell’arte come consolazione. Assai interessante, ancora, ci pare una favola ove il «sapiente gioco intertestuale» mostra, come abbiamo già visto nelle prove critiche di Sciascia, radici lontane e ramificate, «non tutte riconducibili alla matrice borgesiana»46: «La volpe derideva il corvo per il suo nero. “Vedessi che effetto, quando mi poso sul candido busto di Minerva”, gracchiò il corvo. La volpe non sapeva di Edgar Poe; ma dentro sentì come una stridula incrinatura di gelo» (III, 962). È un frammento che accende di metafisici lampi un libro che si apre su un mondo inesorabilmente condannato alla dannazione. Un mondo su cui incombe una sorta di giansenismo laico, privato però della possibilità della grazia: come a dire che la folla dei 46.  N. Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia (1990), in Id., L’ombra del moderno. Da Leopardi a Sciascia, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1992, pp. 135-152: p. 146.

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buoni e giusti decisamente si separa da quella degli improbi, ma non le spetta alcuna salvezza. Eppure, una catarsi investe anche questo universo cupo e cruento: la catarsi della scrittura. Scriveva Pasolini: «Troppo garante di non volgare attualità è questa lingua così ferma e tersa […]. L’elemento greve, tragico della dittatura ha grande parte in queste pagine così lievi, ma è trasposto tutto in rapidissimi sintagmi, in sorvolanti battute che però possono far rabbrividire […]. Ma anche questi improvvisi bagliori, queste gocce di sangue rappreso, sono assorbiti nel contesto di questo linguaggio, così puro che il lettore si chiede se per caso il suo stesso contenuto, la dittatura, non sia stata una favola»47. L’unica redenzione sembra quella dello stile, a consentire la sola forma possibile di ottimismo, l’unica speranza di poter dare ordine al caos dell’esistenza. Uno stile che raggela in un’aura diaccia ogni pathos e dolore, caratterizzato «dalla tournure di classicità invocata fino al manierismo»48, erede di quella tradizione che dagli Animali parlanti dell’abate Casti arriva ai Paralipomeni leopardiani, grazie anche a certo leopardismo siciliano che dirama da De Roberto, per arricchirsi degli estri fantastici e metafisici di molta letteratura degli anni Trenta, da Savinio a Buzzati, da Landolfi a Morovich. Ha ragione Zago: «Dietro il rigore d’uno scrittore che […], sin dalla sua opera prima, sceglie di battersi per la verità, contro l’ingiustizia e l’impostura, si può intuire una vena introversa e malinconica»49, alimentata dal pensiero costante della morte: quello stesso che coglie il condannato, con cui Sciascia si identifica, in un momento di pietà per il suo stolto carnefice, in considerazione della sorte che tocca a tutti i viventi:

47.  P.P. Pasolini, Dittatura in fiaba, cit., p. 271. 48.  G. Scalia, Il primo lemma di Leonardo Sciascia, cit., p. 153. 49.  N. Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia, cit., p. 144.

55 Dentro la trappola, una di quelle trappole a gabbia, il topo stava quieto, pieno di disgusto e di noia. L’uomo entrò in cucina e stette a guardarlo. Quando incontrò gli occhi dell’uomo, il topo capì che stava scegliendogli un genere di morte. «Poveretto», pensò, «sta pensandoci più di me che debbo morire». (III, 964)

Questo della morte è lo stesso pensiero che informa La Sicilia, il suo cuore, sin dalla poesia che presta il titolo al libro e rappresenta la migliore introduzione ad esso: Come Chagall, vorrei cogliere questa terra dentro l’immobile occhio del bue. Non un lento carosello di immagini, una raggiera di nostalgie: soltanto queste nuvole accagliate, i corvi che discendono lenti; e le stoppie bruciate, i radi alberi, che si incidono come filigrane. Un miope specchio di pena, un greve destino di piogge: tanto lontana è l’estate che qui distese la sua calda nudità squamosa di luce – e tanto diverso l’annuncio dell’autunno, senza le voci della vendemmia. Il silenzio è vorace sulle cose. S’incrina, se il flauto di canna tenta vena di suono: e una fonda paura dirama. Gli antichi a questa luce non risero, strozzata dalle nuvole, che geme sui prati stenti, sui greti aspri, nell’occhio melmoso delle fonti; le ninfe inseguite qui non si nascosero agli dèi; gli alberi non nutrirono frutti agli eroi. Qui la Sicilia ascolta la sua vita.

L’immagine della Sicilia dell’interno, ove i corvi tetramente volteggiano su greti assetati e prati coperti da stoppie brucia-

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te e alberi rari, si sovrappone, come un sudario, a quella di un’isola antichissima, alla cui luce i greci sorrisero della storia di una ninfa, Aretusa, inseguita da Alfeo e mutata in fonte. Questa immagine, riflessa nell’occhio miope di un bue chagalliano, sfiancato dal lavoro dei campi, ha in tale contesto, il valore precipuo di una dichiarazione di poetica. Nell’assumere, infatti, tale punto di vista, Sciascia sceglie, ancora una volta, di schierarsi dalla parte dei diseredati che, al pamphlétaire Courier in viaggio nella Francia della Restaurazione, erano sembrati poco più che bestie. Nel rifiuto della girandola di nostalgie si palesa una volontà di adeguare il più possibile le parole alle cose, in opposizione a una certa poesia, quella del Quasimodo di Oboe sommerso e Erato e Apóllion, ancorata al rimpianto elegiaco dell’isola natia e ai suoi mitici paesaggi. La Sicilia, vittorinianamente offesa, che in questi versi «ascolta la sua vita» è la stessa, pirandelliana e brancatiana, che abbiamo già conosciuto in Paese con figure. Si legga I morti: I morti vanno, dentro il nero carro incrostato di funebre oro, col passo lento dei cavalli: e spesso per loro suona la banda. Al passaggio, le donne si precipitano a chiudere le finestre di casa, le botteghe si chiudono: appena uno spiraglio per guardare al dolore dei parenti, al numero degli amici che è dietro, alla classe del carro, alle corone. Così vanno via i morti, al mio paese; finestre e porte chiuse, ad implorarli di passar oltre, di dimenticare le donne affaccendate nelle case, il bottegaio che pesa e ruba, il bambino che gioca ed odia, gli occhi vivi che brulicano dietro l’inganno delle imposte chiuse.

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Sotto un cielo che conosce una «perpetua stagione di morte» (Vivo come non mai), il passaggio di un carro funebre è un vero evento teatrale, durante il quale ognuno si appresta a recitare la sua parte, secondo un copione prestabilito, che esorcizza la morte con la celebrazione dell’amor di sé e dell’onore familiare, misurati dall’ostentazione del dolore, dal numero degli amici che seguono il feretro, dal rango del carro, dalla quantità e qualità delle corone. Quello che si rivela è un mondo ridotto a palcoscenico, sul quale si affacciano finestre dietro cui si spia ansiosamente la vita degli altri, in un risentito giuoco di apparenze ingannevoli. Ma in esso, inesorabilmente, irrompe la dura realtà della povertà, l’unica realtà in grado di ricomporre le multiple verità in un’univoca certezza. Una povertà che incede con il passo degli zolfatari, come testimoniano alcuni versi di Ad un paese lasciato: Mi è riposo il ricordo dei tuoi giorni grigi, delle tue vecchie case che strozzano strade, della piazza grande piena di silenziosi uomini neri. Tra questi uomini ho appreso grevi leggende, di terra e di zolfo, oscure storie squarciate dalla tragica luce bianca dell’acetilene. E l’acetilene della luna nelle tue notti calme, nella piazza le chiese ingramagliate d’ombra; e cupo il passo degli zolfatari, come se le strade coprissero cavi sepolcri, profondi luoghi di morte.

Un paese su cui «la notte frana cieca» (La notte). Un paese che si vorrebbe ma non si può abbandonare, perché imperiosamente richiama al suo destino di miseria, ignorato per secoli. Si leggano questi versi di Family Reunion: Potremmo dimenticare ogni parola, lasciare che il silenzio ci salvi e si dissangui la memoria fino a quando ci accolga un fuoco certo. Ma il cane leva il muso confidente,

58 le pupille d’antica angoscia; ma negli occhi degli altri mi ritrovo senza pietà – esule pena che scioglie il tempo umano in acri sillabe.

Il poeta vorrebbe dar voce a questa angoscia antica, sciogliendola in «acri sillabe». Ai vessilli di morte che la Sicilia inalbera, «vivo, gremito di parole» (Vivo come non mai), vorrebbe opporre una scrittura forte come la luce dell’acetilene, in grado di squarciare il silenzio «vorace sulle cose». Ma questo desiderio di «mutare il nulla in parola» (Hic et nunc) si scontra con la grande difficoltà di rappresentare quel mondo nella misura e nel ritmo di una lirica. In tal senso, la raccolta è la testimonianza più evidente di un disagio che, per altro, si palesa nella sua qualità spuria, nella natura ambivalente. Se, infatti, molti dei testi si caratterizzano per un andamento prosastico, per una vocazione a farsi racconto, non sono però pochi i debiti contratti con una tradizione ermetica, in specie con quella che, in apertura di libro, quanto a temi, si era rivelata agli antipodi dell’ispirazione di Sciascia. Come il Pavese lirico dei Mari del Sud50, quello dei versi di tredici sillabe passato per la lezione di Whitman, Sciascia si abbandona a un ritmo ampio e disteso, narrativo, lontano dal soggettivismo lirico e dalla «poetica della parola», lungamente egemoni nella storia della poesia italiana del Novecento. Nessuna concessione a sostantivi assolutizzati e senza articoli, a plurali indeterminati, a sintagmi piegati in direzione orficoliturgica: è così che prendono consistenza, specie nella sezione intitolata Foglietti di diario, luoghi (vicoli strozzati, chiese e piazze) e personaggi (preti, contadini, zolfatari) che ritroveremo nelle future opere dello scrittore. Eppure, fatti salvi alcuni prestiti da poeti come il Vigolo delle venti cartoline di Linea della vita (nelle liriche dedicate a Roma dei Foglietti) o il Ber50.  L. Cattanei, Leonardo Sciascia, Le Monnier, Firenze 1984 (19781), p. 15.

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tolucci di Al fratello (nella poesia In memoria scritta da Sciascia in ricordo del fratello suicida), molti versi di Sciascia mostrano le trafitture di un lessico attinto a una lingua antirealistica, anti­ prosastica, alta, che molto deve a Quasimodo (anche quello di Giorno dopo giorno), al Luzi di La barca e, in generale, a una koinè latamente ermetica. Si legga il finale di Insonnia: «Ora, in quest’alba che hanno le case, / il paese è come un vascello che salpa: / nella sua nitida alberatura / per me s’impiglia una vela di morte». Il testo, insomma, offre con alta frequenza versi di tale temperie: «chiusi in un’arca di noia, / lasciamo il tempo ruinoso» (Family Reunion); «il giorno che appassiva come un rosso geranio / nelle donne affacciate alla prora aerea del viale. // Una nave di malinconia apriva per me vele d’oro» (Ad un paese lasciato); «Sono una statua mutila / in fondo ad un’acqua chiara» (Hic et nunc). È stato osservato, e si concede, che in questa opera non manca «una poetica decadente del ripiegamento intimista»51, ma non senza aggiungere che di tale intimismo rimangono solo le scorie, in conseguenza di un tentativo, non del tutto riuscito, di convertire un’esperienza autobiografica nella biografia di una comunità geograficamente e storicamente determinata. Va detto, comunque, che l’impiego di dati attinti alla propria esperienza in funzione simbolica, l’assunzione di una semantica ascrivibile alla tradizione ermetica, segnalano, come nelle Favole, una tenace volontà di aprire cunicoli nel terreno della Storia, a dimostrare che, sin dagli esordi, sia già attiva «una desolazione ontologica, prima ancora che sociale»52. Per altro, questa lingua iperletteraria troverà nelle Parrocchie una sua originalissima collocazione. Il mondo morale del piccolo paese della Sicilia interna negli anni del regime fascista ha trovato nelle Favole e, più ancora, nel libro di poesie una sua prima razionalizzazione. Lo scritto51.  C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 56. 52.  N. Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia, cit., p. 148.

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re, per un’insopprimibile urgenza realistica, sembra approdato alla cognizione di una realtà irrazionale e luttuosa, fornita, per così dire, di irrealistica consistenza. Questo approdo alla realtà, alla razionalizzazione di essa, si traduce molto presto in un esito ideologico ben definito. In questi anni, infatti, Sciascia affianca all’impegno su quotidiani come «Sicilia del popolo» e «Gazzetta di Parma» un lavoro costante su riviste quali «Galleria» (della quale è direttore dal ’50), «Letteratura», «Nuova Corrente» (di cui è redattore dal ’55 al ’58) e «L’Esperienza poetica». Con la collaborazione a queste ultime due, lo scrittore finisce per schierarsi dalla parte di coloro che avevano ingaggiato una battaglia in difesa del realismo, non abdicando alle ragioni dello stile, e, nel contempo, avevano propugnato un nuovo linguaggio poetico, in funzione antiermetica. Non è un caso, infatti, che proprio i primi quattro volumi della collana «Quaderni di Galleria», diretta da Sciascia e Luigi Monaco per l’editore Sciascia di Caltanissetta, siano stati di Pasolini, Romanò, Roversi e Leonetti, i quali costituiranno il nucleo della futura redazione di «Officina» (a cui Sciascia collaborò), che allora, meglio di ogni altra, sostenne le ragioni di un realismo sperimentale. Il cammino di Sciascia verso il realismo non potrebbe dirsi perfettamente tracciato se si tacesse dell’incontro con Gramsci, il cui caso si era imposto prepotentemente all’attenzione culturale nell’immediato dopoguerra. Né bisognerà omettere il nome di Lukács, le cui principali opere venivano tradotte con largo successo in questi anni. Nel quadro della riflessione gramsciana sulla nozione di letteratura nazional-popolare e il concetto di dialettalità, grazie anche alla sollecitazione di Pasolini, nascevano infatti gli scritti di Sciascia dedicati al romanzo poliziesco e a William Galt53, ma soprattutto quelli sulla letteratura 53.  Cfr. L. Sciascia, Appunti sul «giallo», in «Nuova Corrente», I, n. 1, 1954, pp. 23-34; Id., Memoria di William Galt, in «Letteratura», I, n. 4, 1953, pp. 63-64.

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in dialetto apparsi su «Il Belli» e «Orazio» dal ’52 al ’54, a cui bisogna aggiungere Il fiore della poesia romanesca (1952), prefato dallo stesso Pasolini. È proprio dai Quaderni di Gramsci che lo scrittore ricaverà la formula per leggere l’opera di Pirandello in chiave di sicilianità, quale traduzione letteraria di modi di pensare storicamente popolari e dialettali, a negare l’interpretazione di Tilgher il quale, riducendo il teatro di Pirandello all’opposizione «forma»-«vita», ne aveva fatto il volgarizzatore di una filosofia della crisi, al pari di pensatori come Simmel e Dilthey. Questa tesi si legge in un libretto veloce ed elegante, Pirandello e il pirandellismo (con un’appendice di lettere inedite di Pirandello a Tilgher), che gli valeva nel 1953 il premio «Pirandello» della Regione Sicilia. Tale testo contiene già in nuce l’intero discorso che Sciascia svolgerà, più articolatamente, in Pirandello e la Sicilia (1961). Per tale ragione, benché Pirandello e la Sicilia sia posteriore alle Parrocchie, varrà la pena di prenderlo subito in considerazione, anticipandone l’analisi, anche alla luce del fatto che la maggior parte dei saggi ivi raccolti è stata scritta nel corso degli anni Cinquanta, e ben si presta a delineare il terreno ideologico sul quale le Parrocchie sono nate. Sciascia muove da una semplice considerazione: «Come Sherwood Anderson intitolò il suo più bel libro Winesburg, Ohio, tutta l’opera di Pirandello potremo intitolare Girgenti, Sicilia» (III, 1011). Da Girgenti, infatti, sono emigrati tutti quei popolani, regionalmente e storicamente esistenti, che entrano nelle pagine pirandelliane e che, secondo le ipotesi gramsciane, agiscono in preda a un’ossessione notomizzatrice, a una passione per il sillogismo e il cavillo giuridico, proprio in quanto sono popolani e siciliani. A Girgenti, ove Pirandello nacque per una sorta di «astuzia della Provvidenza», «la vita sociale è più che altrove finzione» e «gli uomini si affannano ad apparire per quel che non sono» (III, 1034). È questo, infatti, il carattere essenziale di quel modo d’essere che Sciascia, avvalendosi

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anche di categorie mutuate da La realidad histórica de España di Americo Castro, definisce in Pirandello e la Sicilia siciliano: «una forma esasperata di individualismo in cui agiscono, in duplice e inverso movimento, le componenti dell’esaltazione virile e della sofistica disgregazione» (III, 1051). Nell’amor proprio hanno radice i sentimenti dell’onore, della rispettabilità, dell’invidia e della vendetta, l’accettazione dell’illecito sessuale (fatte salve le apparenze), che trovano manifestazione nella vasta opera pirandelliana. L’amor proprio, valore primario del modo di sentire e vivere siciliano è, insomma, la sorgente di quel pirandellismo che Tilgher riconduceva erroneamente a una filosofia di marca germanica. Un pirandellismo la cui origine è anche nella vita familiare di Pirandello, come testimoniano i tanti elementi autobiografici che dissemina nei suoi libri (in particolare in I vecchi e i giovani), non ultimo la vicenda di follia della moglie Antonietta Portulano. Questi, dunque, i principali temi che Sciascia svolge con profondità di analisi e dovizia di particolari in queste due opere. Temi che, soprattutto in Pirandello e la Sicilia, sono talvolta abbandonati per scandagliare il rapporto di Pirandello con Tilgher e con il fascismo, per esaminare certi aspetti della mentalità borghesemafiosa che hanno a che vedere con luoghi e situazioni pirandelliane, per divagare sul rapporto Sicilia-Spagna, magari sotto il segno di Cervantes. Ma, nel corso di questa serrata ricognizione, Sciascia non abdica alla lukacsiana convinzione che la letteratura debba rispecchiare la realtà e approda, in ultima istanza, a un ridimensionamento estetico di Pirandello, ultimo atto di quel processo di esorcizzazione che abbiamo sin qui delineato: Investendo tutta la società borghese di quel «sentimento contrario» suscitato dalle forme di vita della Sicilia, ponendo in essa società le contraddizioni esistenziali […] e le alienazioni sperimentate con procedimento naturalistico nella realtà siciliana, mettendo così in luce i caratteri negativi della società borghese, Pirandello compie un’«apologetica indiretta»: di-

63 straendo cioè tali contraddizioni e alienazioni, e innalzando tali caratteri negativi, a «significato cosmico».54

Del resto, Pirandello e la Sicilia voleva essere solo «una “notizia” della Sicilia attraverso particolari letture ed esperienze» (III, 1203), come confermano i saggi non pirandelliani che completano il volume, tesi a restituire ulteriori aspetti del modo di vivere siciliano. Ecco, allora, Verga, nelle cui pagine prende corpo il dramma storico della Sicilia post-unitaria; Navarro della Miraglia che nella Nana, quale cristallizzazione di alcuni tratti della mentalità borghese-mafiosa, anticipa alcune soluzioni narrative pirandelliane; Tomasi di Lampedusa, «gran letterato» la cui Sicilia ha un «vizio di astrazione geograficoclimatico» (III, 1160-1161); Domenico Tempio, la cui rappresentazione crudamente fisiologica del sesso rivela un aspetto della «psicologia erotica dell’uomo siciliano» (III, 1188), che troverà battesimo in Brancati. Inesorabilmente la Sicilia, coi suoi modi di sentire e agire, sembra rimpaginarsi in ogni opera di autore isolano. E sono temi che troveranno migliore sviluppo nella Corda pazza (1970). Per ora bisogna sottolineare ciò: la letteratura sembra avere valore, per Sciascia, in quanto conosce e razionalizza alcuni aspetti della realtà. Se è vero che lo scrittore, nei primi anni Cinquanta, si muove entro una prospettiva ideologica gramsciano-lukacsiana, è necessario però aggiungere che il letteratissimo apprendistato, da noi ricostruito, interviene a rettificare, se non addirittura a modificare, tale curvatura marxista. Come lo stesso Sciascia scriveva nel novembre 1952 in una recensione apparsa su «Galleria», «la verità si fa arte e diventa più vera della stessa verità da cui muove»55. L’arte, già a questa altezza cronologica, non sem54.  L. Sciascia, Pirandello e la Sicilia, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1961, p. 111. 55.  L. S.[ciascia], recensione a F. Bellonzi - R. Frattarolo, Gemito, in «Galleria», III, n. 2, 1952-1953, p. 61.

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bra solo in grado di rispecchiare la realtà, ma di intensificarla e potenziarla, al punto da creare una realtà nuova, più vera di quella da cui deriva. Siamo, come si vede bene, nel dominio di quella concezione, di lunga tradizione, che intravede nel cosmo della scrittura la possibilità di redimere il caos della vita. Una concezione, appunto, che allontana Sciascia da questo generico marxismo, peraltro assai presto abbandonato. Una concezione che Sciascia ha maturato, come abbiamo visto, in un difficile processo di chiarificazione autobiografica e letteraria, nella formulazione di una determinata poetica. Pirandello e la Sicilia, infatti, rappresenta l’ultima tappa di quell’itinerario di progressiva emancipazione da quel «pirandellismo di natura» in cui lo scrittore si era trovato a vivere. Un percorso nel quale Sciascia ha assunto come modelli una serie di autori capaci di fungere da contravveleni alla visione del mondo pirandelliana, per approdare poi a un’interpretazione dell’irrazionale opera di Pirandello, come razionale rispecchiamento di una Sicilia sofistica e causidica. Non sarà inutile notare che, in certe fenditure di questo libro, un Pirandello difficilmente riducibile alle coordinate gramsciane continua ad affacciarsi: «Sempre in Pirandello l’amore avrà questo sentore di morte. Non l’idea della morte ma la fisica putrescenza della morte. O sarà intorbidato dalla pazzia. O avvelenato dalla incomprensione e dai tradimenti» (III, 1092). È il segno che alcune suggestioni irrazionalistiche, echi di una realtà luttuosa e sul punto di precipitare, non sono venute meno. Lo attestano le stesse Parrocchie, nelle quali Racalmuto si è ormai mutato in Regalpetra, e la vita sembra essersi risolta, senza più residui, in letteratura, nella piena maturità dello stile.

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Capitolo II

Da Racalmuto a Regalpetra 1956-1958

Come si legge nella prefazione alla ristampa congiunta (1967) delle Parrocchie e Morte dell’inquisitore, nel 1954 il maestro elementare Sciascia, compilando un resoconto dell’anno scolastico, maturò l’idea di redigerne «una più vera cronaca» (I, 3). Consegnò il manoscritto a Calvino che lo passò a «Nuovi Argomenti»1, ove appariva nel 1955. Nel contempo, su «Nuova Corrente» viene pubblicato Memorie vicine2 che, insieme alle Cronache scolastiche (ma con il titolo Breve cronaca del regime), va a costituire il primo nucleo delle Parrocchie di Regalpetra. In quello stesso anno, infatti, Vito Laterza chiede a Sciascia di scrivere un intero libro sulla vita di un paese siciliano, che, nel 1956, campeggiava già nella collana dei «Libri del tempo» accanto a Un popolo di formiche di Tommaso Fiore, Contadini del sud e L’uva puttanella di Rocco Scotellaro, I minatori della Maremma di Carlo Cassola e Luciano Bianciardi. Non stupisce, per tali ragioni, che Le parrocchie venissero subi-

1.  L. Sciascia, Cronache scolastiche, in «Nuovi Argomenti», n. 12, gennaiofebbraio 1955, pp. 111-137. 2.  L. Sciascia, Memorie vicine, in «Nuova Corrente», II, n. 3, 1955, pp.200216.

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to apparentate alle tante inchieste, tra sociologia e microstoria, che comparvero in quegli anni Cinquanta, a confondere Sciascia con i tanti intellettuali impegnati sulla trincea del saggiodenuncia, talvolta epigoni del neorealismo. D’altra parte, era stato lo stesso Sciascia ad avallare questa immagine: «Credo nella ragione, e nella libertà e nella giustizia che dalla ragione scaturiscono». E più sotto aggiungeva: Ho tentato di raccontare qualcosa della vita di un paese che amo, e spero di aver dato il senso di quanto lontana sia questa vita dalla libertà e dalla giustizia, cioè dalla ragione. La povera gente di questo paese ha una gran fede nella scrittura, dice – basta un colpo di penna – come dicesse – un colpo di spada – e crede che un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l’ingiustizia e il sopruso […]. Certo, un po’ di fede nelle cose scritte ce l’ho anch’io come la povera gente di Regalpetra: e questa è la sola giustificazione che avanzo per queste pagine. (I, 9-10)

Ma, lo sappiamo, il razionalismo di Sciascia era il punto di approdo di un complesso tirocinio letterario. E lo scrittore, tornando ai lontani tempi dell’apprendistato, avrebbe confessato a Marcelle Padovani di aver contratto in quegli anni «una specie di “nevrosi” da ragione, di una ragione che cammina sull’orlo della non ragione» (S.M., 5). La ragione, declinata in libertà e giustizia, gli si era imposta, dunque, come il sintomo di una nevrosi, l’indicatore di una condizione patologica da cui uscire, e non come il presupposto di un’esperienza puramente e semplicemente illuministica. Si trattava, per altro, di una ragione-valore, non strumentale e pragmatica. Insomma: la ragione degli oppressi. Nel passo citato si può registrare una eco della convinzione di Vittorini, secondo cui «non ogni uomo è un uomo, e non tutto il genere umano è genere umano», dato che «uno perseguita e uno è perseguitato; e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello solitario del perseguita-

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to»3. Con la differenza che in questa opera di Sciascia s’incontra l’isola amara del presente, non quella mitica dei padri. Per tale Sicilia la parola vuole mutarsi in spada e rompere quel silenzio «vorace sulle cose» che domina le poesie pubblicate nel ’52. Nelle Cronache scolastiche, autentico prius logico, oltre che cronologico, delle Parrocchie, troviamo la giustificazione di questo atteggiamento. Lo scrittore, misurando la sua personale vicenda su quella degli altri, della collettività cui appartiene, risale alla radice del suo risentimento morale e civile. Un risentimento che nasce da un profondo disagio esistenziale, connesso alla professione di maestro elementare: Nel turno pomeridiano, in questo mese di maggio, il sonno è una greve insidia. A casa non dormirei di certo, starei a leggere qualche libro, a scrivere un articolo o lettere agli amici. A scuola è diverso. Legato al remo della scuola; battere, battere come in un sogno in cui è l’incubo di una disperata immobilità, della impossibile fuga. Non amo la scuola; e mi disgustano coloro che, standone fuori, esaltano le gioie e i meriti di un simile lavoro. Non nego però che in altri luoghi e in diverse condizioni un po’ di soddisfazione potrei cavarla da questo mestiere di insegnare. Qui in un remoto paese della Sicilia, entro nell’aula scolastica con lo stesso animo dello zolfataro che scende nelle oscure gallerie. (I, 93)

Contro ogni enfasi e retorica pedagogica, Sciascia afferma di non amare il suo mestiere e di entrare nell’aula scolastica con la stessa grave pena di chi scende nei bui cunicoli di una miniera. L’atmosfera da incubo è la medesima che incombe sull’isola de La Sicilia, il suo cuore, ma acquistando la concretezza di una scuola ove ragazzi poverissimi «scribacchiano stracchi i loro esercizi», spezzano e piantano lamette da barba nel legno

3.  E. Vittorini, Conversazione in Sicilia (1941), in Id., Le opere narrative, 2 voll., a cura di M. Corti, Mondadori, Milano 1974, vol. I, pp. 569-710: p. 646.

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del banco, «le pizzicano come chitarre», sputano bestemmiano e si scambiano oscenità su madri e sorelle, fanno cappellucci barche e conigli dai fogli di quaderno, rispettano soltanto la verga a nodi, il bastone che «li raddrizzi a botte» (I, 93-94). La dura esperienza del maestro è lontanissima da quella domestica dell’uomo che mangia bene e veste con decoro, legge libri, scrive articoli e lettere agli amici. La prima condizione non può che incidere sulla seconda, problematizzarla, caricarla di sensi di colpa, fino a entrare in conflitto con essa, come quando, la mattina, il maestro tenta di spiegare agli alunni una pagina di quelle che l’intellettuale, nel pomeriggio, ama e coltiva: Leggo loro una poesia, cerco in me le parole più chiare, ma basta che veramente li guardi, che veramente li veda come sono, nitidamente lontani come in fondo a un binocolo rovesciato, in fondo alla loro realtà di miseria e rancore, lontani con i loro arruffati pensieri, i piccoli desideri di irraggiungibili cose, e mi si rompe dentro l’eco luminosa della poesia […]. E sento indicibile disagio e pena a stare di fronte a loro col mio decente vestito, la mia carta stampata, le mie armoniose giornate. (I, 103)

L’episodio di vita scolastica non proietta soltanto un’ombra di pena sulle decorose e serene giornate dello scrittore, ma rivela in filigrana una questione di notevole importanza: la ridefinizione del rapporto tra letteratura e realtà, tra una letteratura come modo di razionalizzazione della realtà, e una realtà che sembra in letteratura irrappresentabile, insomma, tra una letteratura che vuole redimere lo strazio della vita e una vita che pare irredimibile. «L’eco luminosa della poesia» si infrange sulla desolata miseria di un’aula scolastica all’estremo Sud del continente: è il segno di una frustrante condizione esistenziale ma, soprattutto, la traduzione metaforica della necessità di riprecisare i diritti e i doveri della letteratura. Questa è la prima meta di quel percorso in direzione della ragione la libertà e la giustizia, insomma della verità, intrapreso da Sciascia nella so-

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fistica Sicilia. L’idea della letteratura come ordine luce e carità, inizialmente opposta al «pirandellismo di natura», endemico ed epidemico, si è ora dialetticamente aperta a un’esperienza sempre meno soggettiva, fino a comprendere i diseredati figli di Regalpetra. La scelta morale di stare dalla parte dei vinti ha ancora, come nelle Favole della dittatura, radici sentimentali, quasi fideistiche: «Se io mi abituerò a questa quotidiana anatomia di miseria […] avrò perduto quel sentimento, speranza e altro, che credo sia in me la parte migliore» (I, 112), ma, questa volta, va a inscriversi entro una chiara visione del ruolo dello scrittore, circa le responsabilità sociali che esso comporta. Ne fa fede un passo importante: Io penso – se fossi dentro la cieca miseria, se i miei figli dovessero andare a servizio […]; se dovessi vederli gracili e tristi, già pieni di rancore; e […] stanno invece a leggere il giornalino […], mangiano quando vogliono, hanno il latte il burro la marmellata […]. Sento in me come un nodo di paura. Tutto mi sembra affidato ad un fragile gioco; qualcuno ha scoperto una carta, ed era per mio padre, per me, la buona; la carta che ci voleva. Tutto affidato alla carta che si scopre. Per secoli uomini e donne del mio sangue hanno faticato e sofferto, hanno visto il loro destino specchiarsi nei figli. Uomini del mio sangue furono carusi nelle zolfare, picconieri, braccianti nelle campagne. […] Ad un momento, ecco il punto buono, ecco il capomastro, l’impiegato; e io che non lavoro con le braccia e leggo il mondo attraverso i libri. Ma è tutto troppo fragile, gente del mio sangue può tornare nella miseria […]. Finché l’ingiustizia sarà nel mondo, sempre, per tutti, ci sarà questo nodo di paura. (I, 112-113)

L’uomo che non lavora con le braccia, i cui figli vivono con dignità e fiducia nel futuro, discende da una famiglia composta per secoli da zolfatari, picconieri e braccianti, fino a quando qualcuno, come per caso, s’è emancipato dalla miseria. Nonostante ciò, egli si sente minacciato dal timore che la famiglia

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possa improvvisamente ritornare a quella vita di sofferenze e rancori che i suoi studenti ancora vivono. Ad affacciarsi in questa pagina è di nuovo l’antica apprensione di La Sicilia, il suo cuore, il lancinante sentimento di una realtà sul punto di franare, la paura che basti un leggero urto «per ruzzolare dalle scale del mondo, un vortice di scale, un incubo» (I, 113). Ma la novità sta nel fatto che ora lo scrittore lega indissolubilmente il suo personale destino a quello dei derelitti di Regalpetra e dell’intero pianeta. L’agio momentaneo dei suoi familiari, conquistato dopo secoli di oscura fatica, non sarà mai certo «finché l’ingiustizia sarà nel mondo». Una convinzione, lo sappiamo, mutuata da Gramsci e Lukács, ma non supportata, come vedremo meglio, da alcuna fiducia nelle sorti magnifiche e progressive dell’umanità. In tale luce, la condizione dell’intellettuale cessa d’essere un mero privilegio di classe, nel momento in cui accetta di farsi vicario degli oppressi. Potrà usare quella penna come una spada, e dovrà farlo, se non vorrà rischiare di precipitare al più basso gradino della piramide sociale. Potrà brandirla a nome di tutti contro quel Potere che sembra avere sui cittadini un singolare diritto di vita e di morte: L’unico momento in cui un concreto rapporto passa tra l’amministrazione e il cittadino è quello del certificato: quando il sindaco certifica nascita identità o morte, atto che altrove può essere considerato di ordinaria amministrazione, qui investito di metafisica luce. Perché non è il pensiero o la fede che ci salva dal caos, ma il certificato: senza il certificato fantasmi siamo. Sindaco e cittadino conferiscono dunque all’atto della firma un senso religioso; la burocrazia, che è in Sicilia istituzione metafisica, e come istituzione metafisica bestemmiata, trova un vertice di consacrazione nella firma, quando un sindaco ha firmato certificati è come un prete che ha detto messa, per la giornata è in pace con la propria coscienza e con la comunità, è come un artista che ha creato personaggi. (I, 78-79)

Il passo, esemplato su quello della rivista «La Giara», da noi esaminato nel primo capitolo, è di decisiva importanza per

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meglio intendere la coerenza di Sciascia dagli anni dell’apprendistato alle Parrocchie. Anche qui, la semplice firma del sindaco su un certificato (là era il prefetto o l’impiegato di stato civile) ha il valore di un atto liturgico mediante il quale la «vita» assume una «forma»: e la realtà trova ordine soltanto in un atto demiurgico del Potere. Ciò che ora viene a cadere della vecchia pagina pubblicata su «La Giara» è l’esplicito riferimento ai casi del signor Ponza, la signora Frola e Mattia Pascal, dei quali rimane appena traccia nell’accenno all’artista che, come il sindaco nell’esercizio delle sue funzioni, crea personaggi. L’occultamento della fonte letteraria è un evidente indizio che Sciascia intende celare quel dramma autobiografico ricordato sulla rivista, un dramma nel quale Pirandello, il più lucido interprete della Sicilia causidica e scettica, ha avuto ruolo centrale. Ma il riadattamento del passo, nel mutato contesto delle Parrocchie, sta anche a indicare una novità, nel momento in cui una considerazione storico-sociologica della realtà sembra imporsi a una meramente letteraria, che tuttavia non cessa di determinare in profondità la scrittura di Sciascia. Si tratta della convinzione, a cui non fanno più velo le metafore delle Favole o l’intimismo delle poesie, che il «pirandellismo di natura» coincida con un preciso ordine sociale, fondato sull’ingiustizia, in ciò concretando e articolando un’intuizione già presente in Paese con figure e Una kermesse. In questo sistema sociale, come ha osservato Ambroise4, lo scrittore può esercitare un contro-potere, ha la possibilità di imporre, con un colpo di penna, una diversa «forma» alla «vita», un nuovo ordine in vista della ragione la giustizia e la libertà, riguadagnando alla letteratura coloro che sono stati travolti dalla fiumana del progresso: e ciò, in linea con la grande tradizione isolana inaugurata da Verga. Lo Stato repubblicano, infatti, non è poi 4.  C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., pp. 34-39.

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così lontano da quello post-unitario dell’autore dei Malavoglia, presente tra i poveri pescatori di Aci Trezza solo per imporre pesanti imposte e sequestrare i figli abili alla leva. Sciascia, dipendente dello Stato, sente di stare dalla parte dei padri che si rifiutano di inscrivere i figli a scuola, contro il maresciallo dei carabinieri che lo Stato rappresenta (I, 104-105). Nelle Cronache scolastiche, dunque, l’autobiografia dello scrittore si risolve in quella di una comunità determinata storicamente e geograficamente, la cui cattiva coscienza ha il volto contraffatto dalla miseria dei figli delle zolfare e delle saline. Una folla di ragazzi litigiosi e superstiziosi che si accapigliano per un posto alla magra e sporca mensa della scuola, che esplodono di «rossa ira» durante la festa in onore di Maria Santissima del Prato, che inseguono per osterie il padre ubriaco e violento, costretti spesso all’emigrazione verso paesi che vedono mitici. Un mondo in cui non sembra esservi posto per alcuna redenzione: quando i carusi ascendono «all’incredibile giorno della domenica», non possono che rifiutarlo e «cercare nel vino un diverso modo di sprofondare» nella notte della zolfara, «senza pensiero, senza sentimento del mondo» (I, 22). Una volta definito il proprio rapporto con tale realtà, a Sciascia non resta che risalire alle cause storiche, recenti e remote, che l’hanno generata. E quanto avviene in capitoli come La storia di Regalpetra, Breve cronaca del regime, Sindaci e commissari e Diario elettorale, nei quali sono esaminate le vicende del paese per un arco di tempo che va dal 6 maggio 1622, data della morte violenta del conte Girolamo Del Carretto per mano di un servo, fino ai giorni della campagna elettorale per la terza legislatura dell’Assemblea Regionale Siciliana. Che il libro muova dalla storia di un paese che nell’«immaginazione confina con Racalmuto» (I, 10), nel cui nome, come lo scrittore ammise nella prefazione del ’67, è un chiaro omaggio al Nino Savarese de I fatti di Petra, non è circostanza casuale, e non solo in considerazione del peso che la «La Ronda» ha avuto

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nella formazione di Sciascia. Anche Savarese, infatti, parte da una ricostruzione storica che dalle origini arriva sino al 1899, anno in cui il narratore Lionardo Incisa, petrese, la redige. La diversissima immagine della vita di un paese siciliano restituitaci da Sciascia non può non implicare una consapevole presa di distanza da quel preciso modello letterario, nel segno della nuova idea di letteratura che abbiamo cominciato a delineare. Ma, a meglio intendere tutte le implicazioni ideologiche dell’operazione sciasciana, conviene rileggere una nota dedicata a Francesco Lanza apparsa sulla «Gazzetta di Parma» del 21 gennaio 1954, ove, a un certo punto, si chiama in causa Savarese: Il precedente immediato di Lanza non è (e non avrebbe potuto essere) Verga, ma Giovanni Meli. La terra e l’uomo che la lavora vivono in un vagheggiamento illuministico, in una fuga dalla storia: bontà e saggezza – e, nella saggezza, una poetica nozione del tempo, antico. Come il suo conterraneo ed amico Nino Savarese (scrittore su cui pesa una più palese ingiustizia), Lanza ha del passato umano, della storia, un senso mitico e favoloso. Tutto quel che Savarese ha toccato – la rivolta di Giuseppe D’Alesi, la storia del feudo di Rossomanno, i fatti della città di Petra – si è mutato in favola o, al più, è divenuto poetico apologo, saggezza senza tempo. Rondista il Savarese, post-rondista il Lanza, in fondo alla loro fedeltà alla terra e ai suoi miti […] c’è l’ombra rassicurante del carabiniere a cavallo di cui rondisti e post-rondisti maturano l’elogio.

Nell’«umanesimo provinciale» (e provincia vale per «categoria etica») di questi due siciliani (ma su Lanza avrebbe cambiato parere, come testimonia un saggio della Corda pazza), stinge «un lieve sospetto d’arcadia», si avverte «il distacco del galantuomo». La loro «saggezza senza tempo» che, aggiungiamo per inciso, sarà la stessa di Sciascia quando, nell’incontro con Montaigne e Pascal, si approfondiranno le ragioni del suo scetticismo, è sentita per il momento come colpevole «fuga dalla storia», rassicurante apologia dell’ordine costituito, favola

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consolatoria. Parteggiare per il carabiniere a cavallo non è più accettabile per chi è sul punto di redigere le Cronache scolastiche. Se, dunque, Savarese inizia I fatti con la mitica fondazione della città ad opera di Ercole, giustiziere dei Lestrigoni che tiranneggiavano i Sicani, Sciascia apre Le parrocchie con un simbolo luttuoso che è nel contempo concreta espressione di un Potere storicamente determinato: il «massiccio sarcofago di granito», che due pantere rincagnate sostengono, ove giace la salma di un Del Carretto, crudele signore di Regalpetra. La storia del paese, insomma, comincia sotto la stella di una rapace dinastia, sempre splendente in un cielo di violenza e sopraffazione. Una storia che sembra sempre uguale, se è vero che, quando i riformatori Sant’Elia sopravvennero ai Del Carretto, la classe emergente dei borghesi non si mostrò da meno dei vecchi signori quanto a ferocia e avidità: e «una lite per confini o trazzere» finiva presto per «passare dal perito catastale a quello balistico» (I, 18). Nel volgere dei secoli dal Regno delle Due Sicilie a quello d’Italia, dalla dittatura fascista alla Repubblica, le cose sembrano addirittura peggiorare, se lo scrittore si trova a rimpiangere i commissari regi borbonici, almeno «nella considerazione dell’onestà e libertà che i funzionari di quel governo possedevano» (I, 19). Per altro, gli avvenimenti che ebbero valore epocale nella storia italiana non sembrano minimamente turbare la vita di Regalpetra. E si veda l’episodio in cui l’epopea dei Mille, in linea con una tradizione isolana che da Verga arriverà sino a Tomasi di Lampedusa e Consolo, assume un significato tutt’altro che trionfalistico agli occhi di un anonimo popolano siciliano: Passarono i garibaldini da Regalpetra, misero un uomo contro il muro di una chiesa e lo fucilarono, un povero ladro di campagna fucilato contro il muro della chiesa di San Francesco; se ne ricordava il nonno di un mio amico, aveva otto anni quando i garibaldini passarono, i cavalli li avevano lasciati nella piazza del castello, il tempo di fucilare quell’uomo e via,

75 l’ufficiale era biondo come un tedesco. Carusi e picconieri continuarono a lavorare nell’inferno della zolfara per quattordici ore al giorno, le terre non rendevano e i braccianti lavoravano tutto l’anno solo per pagare il debito del grano che i padroni avaramente anticipavano, la leva toglieva alle famiglie braccia per il lavoro. (I, 23)

I garibaldini dunque passarono, così come divampò e subito si spense, qualche decennio dopo, il fuoco dei Fasci, senza che nulla mutasse nelle zolfare e nelle saline. A cambiare sul palcoscenico di Regalpetra sono solo i nomi delle famiglie che controllano il Potere, in un’interminabile partita di crimini: dai Martinez ai D’Accursio e i Munisteri, dai Buscemi ai Napolitano, finché negli anni dello scontro parlamentare post-unitario, «per merito dei Lascuda […], come in altri paesi della Sicilia, la mafia entrò nel giuoco elettorale» (I, 26). E ci entrò con un ruolo decisivo nel protrarre, fino al momento in cui Sciascia si trova a scrivere, tale stato d’immobilità, nonostante l’avanzata riformatrice delle forze del lavoro nel resto d’Italia. Sin dal suo esordio nella battaglia elettorale, la mafia diventa protagonista nella storia di Regalpetra, in una vicenda sempre uguale di paura e omertà: Il sindaco del ’44, l’uomo tirato su dagli americani, lo ammazzarono la sera del 15 novembre di quell’anno; era sera di domenica, la piazza piena di gente, gli appoggiarono la pistola alla nuca e tirarono, il sindaco aveva intorno amici, nessuno vide, si fece vuota rosa di paura intorno al corpo che crollava. (I, 66)

Le parrocchie mostrano già con estrema chiarezza che ogni discorso sull’ingiustizia in Sicilia non può che volgersi in un’analisi implacabile del fenomeno mafioso, quella che Sciascia avvierà con coraggio, e inizialmente quasi isolato, nella grande triade romanzesca che occupa e chiude gli anni Settanta: Il giorno della civetta (1961), A ciascuno il suo (1966), Il contesto (1971). Si capisce bene come in tale quadro, ricostruito dal

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punto di vista di quei salinari e zolfatari con cui Sciascia non può non schierarsi, le ragioni di un ottimismo anche minimo finiscano per assottigliarsi. La possibilità di una contro-storia sembra progressivamente sprofondare in una notte di secoli che non ha mai conosciuto un’alba di giustizia e libertà, se non nei modi fieri della ribellione individuale: Questo c’è di nuovo: l’orgoglio; e l’orgoglio maschera la miseria, le ragazze figlie di braccianti e salinari passeggiano la domenica vestite da non sfigurare accanto alle figlie dei galantuomini, e i galantuomini commentano – guardate come vestono, il pane di bocca si levano per vestire così –; e io penso – bene, questo è forse un principio, comunque si cominci l’importante è cominciare. Ma è un greve cominciare, è come se la meridiana della Matrice segnasse un’ora del 13 luglio 1789, domani passerà sulla meridiana l’ombra della Rivoluzione francese, poi Napoleone il Risorgimento la rivoluzione russa la Resistenza, chissà quando la meridiana segnerà l’ora di oggi, quella che è per tanti altri uomini nel mondo l’ora giusta. (I, 11)

In Sicilia non sembra esservi altra possibilità di affermare la propria libertà, se non quella còlta da pochi individui che, consapevolmente scegliendo l’emarginazione, ebbero il coraggio di opporsi al conformismo morale, persino negli anni della dittatura. Ecco, allora, i casi di Celestino, ex suonatore della banda municipale che sempre manifestò pubblico disprezzo per Mussolini, di un ex maresciallo delle guardie regie che non accettò di votare al referendum-truffa allestito dai fascisti, di C. che convertì lo scrittore ancora studente alle ragioni degli oppositori al regime (I, 38-46): personaggi che anticipano i Bellodi e La Matina delle opere successive, nell’inderogabile primato della dignità etica sulle nequizie della storia. Figure che, occorre aggiungere, si delineano con più nettezza nella coscienza civile di Sciascia, sulla scorta di un’esperienza autobiografica che apre la Breve cronaca del regime, con il fine «di restituire nell’immediatezza e nitidezza di una sensazio-

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ne traumatica che risale all’infanzia, l’ignominia nuda e cruda dell’assassinio»5: Ogni volta che vedo da qualche parte il ritratto di Matteotti immagini e sensazioni di quel giorno mi riaffiorano. C’era il balcone aperto e un odore acre di polvere e di pioggia. Nella ruota della macchina da cucire che girava io infilavo delle strisce di carta per cavarne un ronzio. Quell’uomo aveva dei bambini, e l’avevano ammazzato. Mia zia mise il ritratto, arrotolato, dentro un paniere in cui teneva filo da cucire e pezzi di stoffa. In quel paniere restò per anni. Ogni volta che si apriva l’armadio, e dentro c’era il paniere, domandavo il ritratto. Mia zia biffava le labbra con l’indice per dirmi che bisognava non parlarne. (I, 34-35)

Come l’affondamento della Provvidenza con tutto il carico dei lupini a inizio dei Malavoglia, anche l’occultamento del ritratto ha una forte valenza simbolica. E vale la pena di scioglierlo questo paragone, a meglio differenziare il pessimismo di Verga da quello di Sciascia nelle Parrocchie. In entrambi i casi, a uscire di scena è ogni forma di provvidenzialismo storico, ogni facile ottimismo sul progresso dell’umanità. Ma se Verga, con l’inabissamento della barca, anticipa metaforicamente il fallimento di un sogno di riscatto sociale, Sciascia vive l’occultamento del ritratto come l’effetto brutale, ma provvisorio, della censura, destinato, per ciò stesso, a produrre le condizioni di un’eventuale rivincita. In secondo luogo, mentre Bastianazzo, lo sfortunato timoniere, paga l’impossibile tentativo di modificare un sistema di secolari consuetudini, ripristinando con la sua morte un ordine quasi naturale, l’unico possibile per la sopravvivenza della famiglia, Matteotti è un giusto, un padre di famiglia strappato ai suoi bambini, con i quali il bambino Sciascia può istintivamente identificarsi, il simbolo di un crimine impunito

5.  C. Ambroise, La Passione, in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 125-137: p. 137.

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che può essere rimosso ma non cancellato, fonte irradiante di energia morale, oltre e magari contro la storia. In questo senso, se scrivere significa denunciare e demistificare, opporsi a un sistema fondato sull’ingiustizia decidere di farlo, rompendo il silenzio, non si può non tradurre nel tornare a parlare di Matteotti. La vicenda di tutti gli anti-eroi sciasciani implicherà, sempre e comunque, una riapertura del caso Matteotti, nel duplice senso di un processo al Potere e di un elogio della virtù, nel primato insomma della morale sulla politica e la storia. Non aveva del tutto torto, allora, Goffredo Fofi quando, già a partire dalle Parrocchie, scorgeva una nozione negativa di popolo nell’esclusiva predilezione da parte di Sciascia dei suoi figli d’eccezione, quelli che sovrastano tutti gli altri per rigore morale e senso della dignità. Sciascia era senz’altro lontano dal «populismo aristocratico alla Levi o estetizzante alla Dolci», ma a costo di perdere ogni rapporto col popolo stesso6. Questo giudizio, benché nei modi di un marxismo intransigente, ha l’indubbio merito di separare Sciascia da quella nutrita pattuglia di scrittori che si affannava a suonare in quegli anni, con le note più facili, il piffero della rivoluzione. Del resto, lo stesso Sciascia, nella citata prefazione, aveva già parlato delle Parrocchie come «un libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono personalmente travolti e annientati», perentoriamente respingendo ogni interpretazione di questi vinti come «personaggi “positivi”, di obbedienza, per così dire, stalinista» (I, 5). È alla luce di una continua sconfitta della ragione, allora, che vanno letti quei capitoli ove lo scrittore, passando a esamina-

6.  G. Fofi, La ragione anacronistica di Sciascia, in «Quaderni Piacentini», n. 40, aprile 1970, pp. 188-191: p. 190.

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re la Regalpetra del presente, tenta di abbozzare quel sistema di norme che regolano e governano da sempre la vita di galantuomini e zolfatari. Ecco allora le pagine del Circolo della concordia e I salinari, che disegnano un mondo al cui centro è un personaggio come don Ferdinando, «essenza stessa […] spirito e memoria del circolo» (I, 57), capace di condensare un carattere in un aneddoto, di conferire «a fatti anche insignificanti lo stile e il taglio di un racconto» (I, 58). Nelle sue parole, come in un passo di Brancati, «il sud brulica di persiane semiabbassate da cui le donne spiano, un bianco barbaglio di braccia nude e merletti, il passaggio di don Ferdinando con baffi colletto duro e bastone» (I, 55); un personaggio il cui discorso si accende spesso di invettive contro il fascismo, la guerra, la Germania che risorge, la Dc, il governo e i contributi unificati, fino a esplodere in un’imprecazione indirizzata agli sfaccendati giovani d’oggi. E Sciascia ironicamente nota: Siamo però nella terra dove il pirandellismo ha radici, la verità continuamente muta in don Ferdinando, in ciascuno di noi muta, al tocco dell’opposta verità si consuma; tra poco don Ferdinando penserà a suo figlio, ha il diploma di maestro e fa scuola serale gratis nella parrocchia di san Giuseppe, e dunque dirà l’opposta verità, che i giovani son meglio che ai suoi tempi, hanno più senno, sono vecchi per le preoccupazioni che hanno, umiliati. (I, 57)

Non occorre fermarci su don Ferdinando. Basterà solo ricordare che egli è la riattualizzazione di quell’esilarante don Ignazio Grillo già incontrato in Paese con figure, qui recuperato persino in alcuni sintagmi: ritorna anche la storia del nonno di Giuseppe Savatteri che non credeva al treno a vapore. Bisogna invece sottolineare che nelle Parrocchie il brancatiano e pirandelliano «circolo della concordia» acquista una precisa determinazione storico-sociologica, quale eden di pochi parassiti, a controcanto di quel popolo di reietti che vive perennemente nell’inferno delle zolfare, rischiando ogni momento la vita «per

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guadagnare seicento lire in una giornata di dodici ore» (I, 126). Lo scrittore che si è fatto giudice dal suo paese, rivelandone la spietata dialettica di classe, ma senza false mitologie di progresso, ha come unica difesa «il non essere d’accordo» (I, 125), accumulando con puntiglio i dati scientifici sulla vita dei salinari, non senza attingere alla letteratura medica. Ecco, allora, le note sulla patologia del nistagmo, «una serie di oscillazioni ritmiche dei bulbi oculari» (I, 129), sull’alimentazione esclusivamente costituita da idrati di carbonio, sulle assenze dal lavoro per malattia o infortunio. Si tratta di pagine non lontane, quanto a vigore documentale, dai libri inchiesta comparsi nella stessa collana laterziana, ma in cui non viene mai meno la lingua elegante e composita di Sciascia, così lontana da esiti di tipo neorealistico. Una lingua, come ha osservato Salvatore Claudio Sgroi, che mostra un registro pluristratificato, di matrice «regionale-dialettale-informale-popolare» (nel lessico, nella fraseologia e a livello morfo-sintattico)7, ma comunque dominata, per dirla con Pasolini, da forme ipotattiche, «semplici e lucide», in cui sopravvive, a renderla originale, «il tipo stilistico della prosa d’arte, del capitolo»8. È in questa varietà di registri, infatti, che sta la carta vincente di Sciascia sui polemisti coevi, in quanto, come ha mostrato Onofrio Lo Dico, lo conduce a interessanti esiti di demistificazione ideologica. La lingua non può non essere articolata, perché diverse e in conflitto sono le classi a cui dà voce, le concezioni del mondo che veicola: un universo stratificato che trova unità

7.  Cfr. S.C. Sgroi, Le parole di Sciascia (1986), in Id., Per la lingua di Pirandello e Sciascia, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1991, pp. 369-411. Per quanto concerne gli studi sulla lingua del nostro scrittore, oltre i restanti saggi di Sgroi raccolti nel volume, si veda quello di S. Vecchio, «L’italiano e il ragionare». L’idea di lingua di Leonardo Sciascia, in «Segno», XVI, n. 116, 1990, pp. 49-57. 8.  P.P. Pasolini, Passione e ideologia, Garzanti, Milano 1977 (19601), p. 339.

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nella coscienza dell’autore in cui si specchia e riflette criticamente. Sciascia, infatti, «non racconta sempre con le proprie parole, lasciando spazi di irruzione nel narrato all’espressione dei personaggi»9. Spesso, alcune sue formule «altamente elaborate, intimamente liricizzate» generano «un evidente scarto di tono rispetto al piano linguistico entro cui si collocano»10, con risultati assai suggestivi: per un verso, segnalano «l’insorgenza nell’animo del narratore di un tempo di affetti privati», gelosamente custoditi «nel guscio di un linguaggio raffinato, nella sacralità di un tempio interiore», per un altro, in funzione straniante e ironica, consentono di distinguere il sistema mentale di un personaggio da quello dell’autore, «che definisce di volta in volta i propri valori»11 rispetto al gruppo a cui si oppone (i galantuomini), o con cui si identifica (i salinari). Qui sta, dunque, il miracolo delle Parrocchie: che il primato dello stile sull’ideologia si risolva in una denuncia politica e sociale che, forse, non ha eguali, quanto a forza poetica e smalto stilistico, nella letteratura di quegli anni. A suffragare la tesi di Lo Dico, si potrebbe aggiungere che Sciascia, nell’impiego di un linguaggio alto, sembra perseguire con ostinazione un giuoco di divertita inversione dialettica: precipitando nel fango del suo corrosivo sarcasmo i galantuomini, e sollevando invece nel rarefatto cielo della sua pietà i salinari. Ne diamo una minima campionatura: Pavlov suonava il campanello e poi faceva portare al cane la scodella di zuppa, il cane sentiva la zuppa nel suono del campanello, quando la zuppa tardava il cane aveva già quella che diciamo l’acquolina in bocca; così se il ministro fa il duro con i professori in sciopero la salivazione reazionaria dei ga9.  O. Lo Dico, La fede nella scrittura. Leonardo Sciascia, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1990, p. 35. 10.  Ivi, p. 47. 11.  Ivi, p. 51.

82 lantuomini si fa abbondante, hanno l’acquolina in bocca per quello che potrebbe venire appresso. (I, 51)

O ancora: La Sicilia, come disse il duce, era fascista fino al midollo (il midollo dei galantuomini), ma s’ingannava di grosso il duce se credeva che in quel midollo corressero guerrieri brividi. (I, 52)

E si veda per converso quando viene toccato il mondo dei salinari: Se qui ci fossero lampade come in chiesa – mi diceva un salinaro – saremmo come in una sala fatata, tutto il paese ci potrebbe ballare. Con le rare lampadine che pendono dai fili come arance dai pruni del presepe, una luce d’arancia che assonnata dondola allo scoppio delle mine, la salina suggerisce l’idea di una clandestina fucina […]. Ma se una torcia si accende l’abbagliante candore delle pareti e della volta, il giuoco degli sprazzi e delle rifrazioni, davvero creano una grotta d’incanti. Spesso in nicchie scavate da misteriose filtrazioni d’acqua, i salinari trovano cristalli di sale in fragilissimi steli, stelle e guglie, ovoidi sfaccettati e luminosi: li chiamano brillanti, quando li trovano con delicatezza li involgono, li portano a casa per adornare il canterano. (I, 129)

Nella duttile e limpida prosa di Sciascia si compone dunque un mondo inesorabilmente fondato sulla dialettica servo-padrone, una dialettica che non si risolve, ma mantiene immobile la contraddizione. Se questo mondo non appare in tutta la sua tragica evidenza nella coscienza di salinari e zolfatari, si deve al fatto che le sue regole sono sancite da un Potere avvolto come da una luce sacrale, incomprensibile e naturale quanto la morte, o meglio, intrinsecamente connesso ad essa. Abbiamo già citato il passo in cui Sciascia definiva la burocrazia come «istituzione metafisica». Il passo così continua: in quanto entità metafisica, l’amministrazione comunale, sotto segni e simboli burocratici, è «contemplazione della morte»:

83 perciò nel registro delle deliberazioni frequentemente si vede affiorare la preoccupazione per il cimitero, ogni giorno il sindaco crea un morto, i morti pesano più dei vivi, ognuno a suo modo vive ma tutti moriremo, c’è il senso che i morti facciano ressa e il cimitero non basti a contenerli tutti. (I, 79)

Non si tratta soltanto di una gogoliana divagazione sulle anime morte. La definizione dell’amministrazione comunale come «entità metafisica», ritualmente impegnata in una sorta di «contemplazione della morte», allontana assai Sciascia da quella vocazione ideologica che Gian Paolo Prandstraller nel 1964 ha definito «neo-illuminista»12, se con tale accezione vogliamo rigorosamente intendere l’esperienza culturale condotta da intellettuali come Abbagnano e Bobbio. Per il neo-illuminista, infatti, lo Stato, per quanto nefando e irrazionale possa essere, rimane pur sempre un ente determinato, analizzabile nei suoi istituti e meccanismi giuridici e politici, riformabile secondo ragione. Nelle pagine di Sciascia, invece, lo Stato diventa ineffabile e trascendente, mai identificabile con un preciso sistema di istituzioni, ma sempre epifania di un Potere che accampa vessilli mistico-religiosi, la cui sintassi in definitiva sfugge. Non a caso, un grande numero di preti, parroci e arcipreti affolla Le parrocchie e tanta parte avrà nelle opere future13. Preti di antiche concezioni ma anche moderni e progressisti, i quali vanno a confondere le parti del gioco: per il nostro gusto, è meglio un prete nero che un prete rosso; quei preti che scendono in campo col rosso in mano stan-

12.  G.P. Prandstraller, Il neo-illuminismo di Sciascia (1964), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 173-179. 13.  Per intendere il senso che la presenza dei preti ha nell’opera di Sciascia, può valere meglio di ogni lettura critica, il bel racconto di V. Consolo, Le Chesterfield, ora in Id., Le pietre di Pantalica, intr. di G. Turchetta, Mondadori, Milano 1990 (19881), pp. 97-101. Ma cfr. anche R. Scrivano, Preti buoni e preti cattivi, in «Il Ponte», XXXI, n. 2, 1975, pp. 273-279.

84 no facendo maledetta confusione, se tra rouge et noir hanno scelto – rien ne va plus – stiano sul nero fino alla fine. (I, 86)

Certo, è senz’altro vero che lo Stato delle Parrocchie continua a rappresentare un’entità storicamente e geograficamente determinata. Siamo ancora lontani dall’identificazione del Potere con il male radicale, dentro una negativa dimensione ontologica prima che storica, come avverrà in modo inequivocabile a partire dal Contesto. Non possiamo non notare, però, che, già negli anni di massima ideologizzazione dello scrittore, il disagio storico-sociale sia sempre sul punto di precipitare in desolazione esistenziale, in modi che ricordano i tempi dell’apprendistato. Ne abbiamo prova nei numerosi passi in cui ritroviamo lo stesso sgomento di La Sicilia, il suo cuore: È una cosa triste vedere il carro dei poveri attraversare il paese […]. Uno ne ho visto in una giornata di gran sole, il paese calcinato nella luce, veniva il carro per il corso, il prete nero dieci passi avanti, poi il carro col tabuto sopra, quattro assi di legno bianco, come una cassetta d’imballaggio; un uomo e il bambino dietro al carro, l’uomo piangeva e il bambino guardava intorno il corso deserto nel sole, le botteghe che si chiudevano man mano che il carro avanzava, così qui si usa fare al passaggio di un morto. (I, 65)

La miseria, la paura, la morte continuamente coagulano nel­ l’inchiostro di Sciascia. Nell’ultimo e, non a caso, più tardo capitolo, La neve, il Natale, aggiunto nell’edizione del ’63, e pubblicato solo in parte su «Tempo presente» nel ’5614, passi di tal sorta si moltiplicano, e questo sentimento luttuoso è molto meno controllato:

14.  L. Sciascia, Cronache regalpetresi, in «Tempo presente», 4, aprile 1956. Su La neve, il Natale, cfr. C. Ambroise, Per un commento all’ultimo capitolo di Le parrocchie di Regalpetra, in L. Fava Guzzetta (a cura di), Nelle regioni dell’intelligenza. Omaggio a Leonardo Sciascia, Pungitopo, Marina di Patti 1992, pp. 15-29.

85 Qui dicono – un freddo che fa cadere morti gli uccelli – un modo di dire iperbolico. Ma in questi giorni i ragazzi hanno davvero trovato uccelli morti. Fanno come pazzi gli uccelli, battono ai vetri delle finestre, come fulminati scendono a filo delle grondaie, si riprendono in voli stracchi e spezzati. Tutto questo bianco che ci incanta per loro è disperazione e morte. (I, 163) Col freddo i vecchi se ne vanno. Quagliano – qui dicono. Quagliare vuol dire cagliare, l’inavvertito cagliare della vita, la morte che lentamente si coagula nel corpo di un uomo, si fa gelida forma. È un’espressione che viene usata per coloro che giungono senza strazio alla morte, ma a me piace spremerne un senso pirandelliano e universale. (I, 167)

Sono due brani di notevole significato. Nel primo, il senso della morte è esteso a tutta la natura, còlto persino nel volo di uccelli pazzi e disperati. Nel secondo, la morte come «gelida forma» è il supremo suggello dell’esistenza, nel segno di una concezione pirandelliana della realtà. Fatto quest’ultimo di non poco conto, come riemersione di quel «pirandellismo di natura», quale universale condizione umana, che proprio nelle Parrocchie si è tentato di esorcizzare, traducendolo in una determinata situazione storico-geografica. E infatti il secondo passo prosegue nel recupero della storia di quel «pazzo tranquillo monologante logico», già raccontata in Paese con figure. Un’ultima osservazione: i verbi «raggelare», «cagliare»15, «coagulare» e altri di analogo valore, che Sciascia impiega frequentemente, ben si presterebbero a un’eventuale ricognizione psico-critica della sua opera. A noi basta sottolinearne la funzione di indicatori, a registrare la volontà dello scrittore di dominare l’antica inquietudine esistenziale: come a fermare in uno stampo nitido e rilevato il magma incandescente della

15.  Il termine ritorna significativamente come lemma dialettale, quagliati, in Occhio di capra (III, 80).

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vita, perché il caos possa risolversi per un momento nell’ordine della ragione. La prosa di Sciascia è spesso perturbata, persino nei momenti di accensione lirica, fino a guadagnare, talvolta, una dimensione di classicità, per così dire, turbata. Non ci pare di enfatizzare, sottolineando quest’aspetto di iper-letterarietà: qualora si azzerasse la nostra interpretazione, resterebbe pur sempre la grande messe di citazioni che intarsiano il testo, non soltanto relative all’area culturale che abbiamo scandagliato: spiccando a caso, si potrebbero fare i nomi di Carpenter e Dewey, La Cava e Parise. Se tutto ciò ha una sua legittimità, una lettura delle Parrocchie in chiave di «poesia di documento», come quella prospettata nel ’62 da Gaetano Mariani16, che pure già segnalava il pirandellismo, ci sembra riduttiva. Nonostante alcune concessioni al genere dell’inchiesta e l’esibita valenza polemica, Le parrocchie sono assai distanti dalla temperie neorealistica di alcuni libri coevi, specie da certe punte di provocazione antiformale e antirondesca che si facevano forte del primato dei fatti sulla coscienza dell’autore. Il libro non offre il ritratto fotografico di un ambiente e di una società, ma, come abbiamo visto, un contesto critico-gnoseologico entro cui ci si interroga sui grandi temi della verità la giustizia e la libertà, il Potere e la Storia, il significato il valore e i compiti della letteratura, non senza risonanze di natura esistenziale e metafisica. Insomma: Le parrocchie aprono un mondo e suggellano un destino di scrittura. Nella prefazione del ’67 Sciascia osservava: È stato detto che nelle Parrocchie di Regalpetra sono contenuti tutti i temi che ho poi, in altri libri, variamente svolto. E l’ho detto anch’io. In questo senso quel critico che dalle Parrocchie cavò il giudizio che io fossi uno di quegli autori che scrivono

16.  G. Mariani, Tra racconto e documento: riflessi letterari di un mondo nuovo, in Id., La giovane narrativa italiana tra documento e poesia, Le Monnier, Firenze 1962, pp. 6-21.

87 un solo libro e poi tacciono (e se non tacciono peggio per loro) aveva ragione (ma aveva torto e sbagliava di grosso, nel non vedere che c’era nel libro un certo retroterra culturale che, anche in mancanza d’altro, sarebbe bastato a farmi scrivere altri libri). (I, 4-5)

Lo scrittore era nel vero. Le parrocchie sono un libro ricco e stratificato: più che un «unicum», come ha scritto Ambroise (I, XX), un vero e proprio archetipo dell’opera di Sciascia. Nei suoi diversi capitoli, infatti, trovano radice le future investigazioni storico-erudite e le cronachette, riceve battesimo quella grave e greve materia criminale che tanta parte giuocherà nei romanzi polizieschi degli anni Sessanta e Settanta. Lo scrittore sembra avervi trovato una precisa collocazione intellettuale, sempre più deciso ad autointerrogarsi sulle ragioni del presente. E si può dire che, con l’approdo a questa nuova condizione, finisce il tempo dell’autobiografia, in direzione di un più articolato orizzonte narrativo. Come si legge nella Cronologia allestita da Ambroise (I, XLVII), nel marzo 1956 Sciascia ha già composto La zia d’America. Il 12 settembre dello stesso anno, stando a quello che si legge in una lettera di Calvino17, è pronto un secondo racconto, con il titolo provvisorio di Stalin18, al vaglio editoriale per farne eventualmente un «Gettone» insieme al primo. Il 2 settembre 1957 è terminato anche Il quarantotto. Così Sciascia ne dava notizia allo stesso Calvino, alludendo per altro a un nuovo lavoro, probabilmente Il giorno della civetta: Avevo intrapreso a scrivere un racconto di tecnica ‘gialla’ – ambiente siciliano, mafia e politica; invece un accidentale interesse per la storia siciliana dal 1848 al ’60 mi ha portato a scrivere, nel giro di pochi giorni, un racconto appunto inti-

17.  I. Calvino, I libri degli altri, Einaudi, Torino 1991, p. 192. 18.  L. Sciascia, Stalin, in «Tempo presente», II, n. 1, 1957, pp. 26-40.

88 tolato Il quarantotto: che a parte ti invio, nella speranza che ti piaccia e che possa far trittico con i due che ho già mandato.19

Alla fine dell’anno lo scrittore presenta La zia d’America e Il quarantotto al concorso per inediti «Libera stampa» di Lugano con il titolo assai significativo Due storie italiane. Nell’autunno 1958 i tre racconti appaiono finalmente nei «Gettoni». Nascono così Gli zii di Sicilia: tre storie italiane che costituiscono il primo capitolo di quell’autobiografia della nazione, ricostruita dall’osservatorio privilegiato dell’isola, che Sciascia non cesserà più di scrivere. E tutte quante incardinate su una vicenda d’emancipazione non solo ideologica, vissuta in concomitanza con alcuni eventi storicamente cruciali. Con La zia d’America Sciascia torna ancora una volta allo sbarco degli americani in Sicilia e ai primi anni della Repubblica. È lo stesso scrittore a ricordare l’occasione che diede spunto al racconto, illustrandone nel contempo il tema: Mi trovavo alla stazione di Racalmuto, in attesa del mio treno, e assistevo, in una sorta di indifferente passività, all’arrivo di gruppi di siciliani emigrati in America che rimpatriavano per trovare le famiglie. Lacrime di gioia, abbracci, emozioni! Proprio in quel momento qualcuno accanto a me commentò sarcastico: «E in meno di una settimana cominceranno a litigare». Osservazione che mi è parsa azzeccata […]. La riflessione del mio vicino mi aveva scosso e mi aveva dato lo stimolo necessario perché mi mettessi a descrivere proprio quest’epopea del ritorno al paese natio, gli scherni e i dispetti tra i parenti, le gelosie e le zuffe del divario generazionale ed economico tra quelli sempre rimasti in paese e quelli venuti dopo tanti anni dall’America. (S.M., 68-69)

L’«epopea del ritorno» viene ricostruita nel pirandelliano giuoco dei punti di vista: il narratore, ragazzo di un povero paese dell’interno; suo padre, onesto ma politicamente disimpegna19.  Cfr. I. Calvino, I libri degli altri, cit., p. 236, nota 1.

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to; sua madre, timorata di Dio ma retta e di buon senso; suo zio, ex segretario del fascio e buono a nulla, poi conquistato dal way of life americano; sua zia d’oltreoceano, d’arrogante filantropia; Filippo, suo amico; il padre di costui, falegname socialista e perseguitato politico, solo per nominare i più importanti. Questo pirandellismo di partenza è, però, vanificato: lo sguardo dei diversi personaggi, infatti, sembra dissolvere la realtà nella logica delle apparenze che, però, si rivelerà presto come logica della menzogna. Sarà la candida prospettiva del narratore a ricollocare ogni evento nella demistificante luce della verità, in quanto giudizio morale e coscienza storica. E si tratta di uno stratagemma letterario che ricalca Il sentiero dei nidi di ragno (1947) di Calvino, ma che trova coevi riscontri in opere come Il ragazzo morto e le comete (1951) di Parise o Il fiume di pietra (1964) del siciliano Bonaviri. Nella Zia d’America gli occhi di un adolescente possono esorcizzare il «pirandellismo di natura» e restituire ai «personaggi» la loro condizione di «creature». Racconto di formazione, questo, come gli altri tre. Non sarà inutile rilevare quel tanto di autobiografico che Sciascia presta al protagonista: la passione per il cinema, l’attrazione per un lavoro artigianale, l’amore per I Beati Paoli di William Galt. Del resto, il paese in cui è ambientata la vicenda è sfiorato dalla stessa luce luttuosa di Regalpetra: «Bello era quel paese vuoto e pieno di sole […]. Avevamo l’impressione che gli americani non volessero venirci in questo paese così silenzioso, così morto; che stessero per avvolgerlo in un cerchio e lasciarlo così, nell’ansia di aspettare: bastava loro guardarlo dall’alto, bianco e silenzioso come un cimitero» (I, 179). In questo paese, la realtà che il giovane protagonista vive, come a Regalpetra, è periclitante, sempre sul punto di precipitare in un abisso di angoscia, come in un incubo: Non so come, d’improvviso, sentii crescermi dentro un’ondata di pianto, forse fu per i carabinieri, per quella bandiera che si

90 levava sulla folla, per Filippo e suo padre che erano rimasti soli nella bottega, per mia madre. Mi assalì struggente, quasi potessi non ritrovarla come l’avevo lasciata, l’ansia della mia casa: di corsa risalii la casa ora festosa di voci; e quando mi chiusi il portone alle spalle mi sentii come dentro a un sogno, che qualcuno sognasse e io fossi dentro quel sogno, a salire stanco le scale e un groppo di pianto che mi serrava la gola. (I, 183)

Il narratore è, dunque, prigioniero di un sogno, quel grande e assurdo sogno che è la Sicilia. Non a caso, sono oggetto della sua ansia i personaggi più candidi: la madre, Filippo, il padre di Filippo, unico oppositore al regime negli anni del consenso, il solo a non beneficiare di cariche e prebende che dagli americani piovono sugli uomini d’onore e sui compromessi col regime, un’altra di quelle figure, insomma, da aggiungere alla schiera di coloro che sanno anteporre ad ogni cosa la propria dignità. Due sono i miti da cui, alla fine, il protagonista riuscirà a emanciparsi. Il primo, di grande forza, è quello dell’America: «E l’America era per me lo storo grande di mia zia, che era una bottega quanto la piazza del Castello piena di cose buone, di vestiti e caffè e tocchi di carne, e il figlio di mia zia soldato che si portava dietro di quelle buone cose, e certo era bravo a fare fàit, a raccontare dello storo d’America e a mollare fàit ai cornuti che gli avrebbe indicato il padre di Filippo» (I, 179). Il secondo è quello della donna e del sesso, strettamente connesso al primo: «Quello che queste donne facevano con gli americani, quel che un uomo poteva fare con una donna, restava per noi in nebulose fantasie» (I, 185). Un mito che assume le sembianze della bella e maliziosa cugina americana, ipocritamente ingenua, avvolta in una luce di peccaminoso mistero, ad aprire quella serie di figure femminili, in oscuro commercio con il male, che popolano l’opera di Sciascia: Mi piaceva: e in presenza di sua madre, che pareva una ragazza del paese, silenziosa e modesta; e quando eravamo soli e lei

91 beveva e fumava, mi piaceva anzi di più quando in lei sentivo l’odore di sigaretta e di liquore; per una immagine di peccato che mi ero fatta della donna, del suo corpo e del suo amore, mi pareva che quelle cose vietate, il fumare e il bere, fossero il peccato più profondo e dolce. Nelle ore calde lei stava con un prendisole leggero, dalla veste le spalle sbocciavano nitide. Quando si radeva le ascelle col piccolo rasoio elettrico io mi fermavo a guardarla, lei mi sorrideva dallo specchio, c’era in quella operazione qualcosa che mi turbava, attrazione e insieme ripugnanza, il senso di un peccaminoso mistero e di una ancor più peccaminosa mistificazione. (I, 216)

Ma l’uno e l’altro mito finiscono per degradare e dissolversi. L’America, che era sembrata paese di Bengodi, si tradurrà sempre più nelle trame matrimoniali della zia, nelle sue meschine pretese sul patrimonio familiare, nella devozione formale che cela gretto interesse, nella volgarità del suo benessere. Quel che alla fine resta di tale mito è una menzogna letteraria, contraddetta dalla realtà effettuale delle cose: Di giorno in giorno si vedeva chiaro che l’unica persona della casa che le piacesse era mio zio, ad uso di mia zia era diventato un domestico Saroyan, celebrava l’America in chiave di falsetto, le buone cose e i buoni sentimenti dell’America, si squagliava come un gelato al calore della buona e ricca America. Io, in un libretto che avevano portato i soldati americani per educarci all’America, La commedia umana si intitolava, avevo tenuto Saroyan come una bibbia: ora cominciava un po’ a venirmi a noia, mi pareva fosse un giuoco, uno di quei giuochi fragili che dopo un buon pranzo certuni fanno con gli stuzzicadenti e la mollica: Saroyan era l’uomo finalmente sazio, e grato, che giuocando con gli stuzzicadenti cantava l’America. (I, 218-219)

Si può certo dire che «l’intertestualità» peculiare dell’ultimo Sciascia sia già riscontrabile a tale altezza cronologica20, ma oc20.  Cfr. T. O’Neill, Il contesto del «Contesto», in «Civiltà italiana», IX-X, nn. 4 e 1-3, 1984-1985, p. 151.

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corre aggiungere che qui la citazione ha più spesso un valore di demistificazione, una sorta di contro-scrittura. Ha ragione Walter Mauro, quando osserva che in queste pagine si palesa «la visione di un’America del tutto diversa da quella che durante il fascismo avevano realizzato intellettuali come Pavese, Cecchi e lo stesso Vittorini»21. In questo senso, la critica a Saroyan, non a caso antologizzato da Vittorini nella sua Americana (1941), implica un’abiura del sogno americano neorealista, quale ultima e aggiornata versione del mito. In tale racconto, Sciascia sembra ancora tenere ferma una distinzione tra una letteratura praticata come modo della verità, e una letteratura come mistificazione ideologica, quella che coltiva Saroyan, nella presupposizione di una realtà, che per quanto disgregata dal «pirandellismo di natura», è ancora univocamente ricostruibile. Una concezione che, come vedremo, si complicherà non poco nel Quarantotto, a recuperare istanze maturate negli anni dell’apprendistato. Per ora, resta da aggiungere che la scoperta della realtà da parte del giovanissimo protagonista coincide con l’approdo all’implacabile morale isolana, contro la quale si infrangono tanto il mito dell’America, quanto quello di una gioiosa e realizzata sessualità. Con la maturità, il mondo finalmente appare per quello che è. Si veda la scena che chiude il racconto. Tutta la famiglia è riunita alla stazione per salutare i parenti americani che partono insieme allo zio felicemente sposato con la cugina che tanto aveva incantato il piccolo protagonista: L’ultima cosa che vidi, mentre la curva tra gli alberi ingoiava il treno, fu il guanto azzurro di mia cugina. Senza pensarci, come fra me, ché mai avrei osato dire una cosa simile davanti a mio padre, dissi «la pena mia è che camperà cornuto». Volevo dire per mio zio. Mia madre mi guardò stupita con

21.  W. Mauro, Sciascia, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 31.

93 gli occhi arrossati, lo schiaffo di mio padre per un momento mi assordò. Per fortuna la stazione era deserta.(I, 220-221)

Nella battuta del ragazzo, nel suo terrore di specchiarsi, schiaffeggiato, nel beffardo e crudele occhio degli altri, un mondo finalmente e profondamente compreso, in cui l’America e l’immagine della cugina sensuale e adultera sono ormai diventati la stessa cosa. Se La zia d’America assume il nesso Sicilia-Stati Uniti, La morte di Stalin investe l’Unione Sovietica e il mito comunista incarnato nella figura del dittatore. Il racconto ha avuto origine dal ricordo di Sciascia di un vecchio comunista «che, dopo la pubblicazione del Rapporto Krusciov, si recava devotamente ogni mattina alla sezione del partito comunista per assicurarsi che il ritratto di Stalin non fosse stato rimosso» (S.M., 69). Questo è l’unico dei tre racconti scritto in terza persona, per la semplice ragione che non prelude a nessuna emancipazione del protagonista. Il calzolaio Calogero Schirò, infatti, nonostante le smentite della storia, rimarrà chiuso nelle sue illusioni, in una vicenda politico-esistenziale, scandita dal 1939, anno del patto russo-tedesco, fino alla destalinizzazione. Come ha notato Ambroise, ora che è svanito «un certo alone eroico-pietistico nella cultura di sinistra», è molto più facile restituire i personaggi sciasciani degli anni Cinquanta alla loro costitutiva ambiguità22. Diciamolo chiaro: Calogero Schirò non è una figura positiva. Italo Calvino, lettore della prima ora, se ne era accorto subito. Nella lettera del 12 settembre 1956, non celando un certo disagio, scriveva a Sciascia: C’è troppo anche della mia pelle là in mezzo, c’è troppo di Don Calì anche in me, per poter fare una lettura “libera”. Per quanto nei discorsi privati e talora pubblici io non faccia che trarre dalla situazione tutti gli aspetti paradossali e ostenti di

22. C. Ambroise, La Passione, cit., p. 136.

94 divertirmi all’ironia della storia, questo è per me un tempo di ripensamenti gravi. Insomma, la caricatura pare anche a me la via più naturale per esprimere queste cose, finché le faccio io, e so di pagarla di persona; quando è fatta da altri non so valutarla oggettivamente, mi ci sento coinvolto.23

Per Calogero Schirò, Stalin è «il più grande uomo del mondo, l’uomo che la faccia del mondo avrebbe cambiato, il più grande e il più giusto uomo» (I, 238). Con il suo generoso ma rozzo comunismo, il calzolaio è destinato al fallimento perché oppone all’incubo di vivere in Sicilia, un eguale e mendace sogno, fondato, per dirla con Ambroise, sulla confusione tra «storia e escatologia» (I, XXIII), nella cieca convinzione che agli sfruttati spetti comunque un non più procrastinabile futuro di riscatto. Non a caso, il racconto si apre con «un sogno dentro un sogno» (I, 225). E ogni evento, che potrebbe destare dubbi in Calogero, è immancabilmente seguito da un’apparizione notturna di Stalin: così nel 1939 con l’accordo HitlerStalin; così, quando l’avanzata delle truppe tedesche in Russia fa vacillare il mito dell’invincibilità comunista; ancora così, nel momento in cui Calogero viene a sapere che Stalin ha ucciso la moglie. Quest’ultimo sogno, confermandolo per sempre nella sua fede, gli chiarisce le parole di un deputato che gli aveva rivelato che Stalin non era più Stalin negli ultimi tempi, senza che, però, avesse «potuto distorcere la natura dello stato socialista» (I, 253). Calogero non ha ormai più dubbi: «Stalin è morto, ma il comunismo è vivo. E Stalin, fino alla guerra vittoriosa, era stato un grande uomo» (I, 254). Il comunismo di Schirò, per altro, è irrimediabilmente compromesso sin dall’inizio del racconto. Nel cercare di cambiare le carte in tavola, quelle con cui gli era sempre toccato perdere la partita della giustizia, il povero calzolaio non sa mutare le regole del giuoco di quella società irrazionale e classista 23.  I. Calvino, I libri degli altri, cit., p. 192.

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che crede di combattere. E infatti, quando si appella a Stalin contro l’ingiustizia lo chiama lu zi Peppi. Il narratore ci spiega: in Sicilia tutti i braccianti e gli zolfatari, tutti i poveri che aprivano speranza, dicevano lu zi Peppi e una volta l’avevano detto per Garibaldi, chiamavano zii tutti gli uomini che portavano giustizia o vendetta, l’eroe e il capomafia, l’idea di giustizia sempre splende nella decantazione di vendicativi pensieri. (I, 240)

Nonostante tutto, una luce di pietà sfiora spesso il calzolaio di Regalpetra. Egli è, in fin dei conti, un giusto e, benché accecato da un’utopia millenaristica dai tratti ambiguamente mafiosi, pur sempre una vittima. Gli strali di Sciascia sono piuttosto indirizzati ai funzionari di partito che si muovono intorno a Schirò, fervidamente stalinisti prima, zelanti destalinizzatori poi. Lo stesso calzolaio, se si fidasse maggiormente del suo buon senso, ne avrebbe facilmente ragione, come quando, alla risposta del deputato che paragonava lo stalinismo a un tumore inavvertitamente cresciuto nel partito, fa osservare: «se il tumore c’era […] io so che i tumori si riproducono» (I, 251). Ma il deputato lo interrompe bruscamente: a svolgere il ragionamento, Calogero sarebbe senz’altro approdato al rifiuto di quell’ideologia che, come un tumore, ancora allignava nella sinistra italiana. È questa ideologia che Sciascia mette sotto processo. Non bisogna aspettare Il contesto o Candido. Negli Zii di Sicilia, infatti, questa revisione critica si approfondisce. Il processo all’ideologia va a radicarsi in quel sentimento della storia come luogo della violenza e dell’irrazionalità che abbiamo già riscontrato negli anni dell’apprendistato. Ne abbiamo riprova nel Quarantotto. In questo racconto, il narratore è un patriota ormai vecchio in lotta «per l’umano avvenire» (I, 271), rifugiato in una casa di campagna, mentre i carabinieri del Regno d’Italia gli danno la caccia. I fatti che rievoca, cruciali per il Risorgimento, coprono un arco cronologico che va dal 1847 al 1861. Come

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ha suggerito Filippo Cilluffo, la storia è probabilmente esemplata su alcune fonti della storiografia siciliana24, ma ciò che colpisce è la sua complessa stratificazione letteraria. Essa, infatti, rivela in filigrana, «oltre che il tempo di commedia», molti personaggi delle Confessioni di Nievo (Carlino, la Pisana, il castellano), in aggiunta alla «figura strutturale del narratore che evoca le proprie memorie risorgimentali»25, articolandosi in «un’ideale galleria di quadri à la manière de»26, nel dialogo con numerosi altri testi. Tra questi dovremo senz’altro collocare La libertà di Verga, I Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello. Ma, per meglio intendere quale sia in termini di poetica la posizione di Sciascia nei confronti di questa tradizione, converrà muovere da alcuni saggi più tardi che ci mostrano assai bene il laboratorio ideologico nel quale Il quarantotto è nato: Verga e il Risorgimento (1960), I fatti di Bronte (1960) poi raccolti in Pirandello e la Sicilia, e Verga e la libertà (1963), ora in La corda pazza. Nel primo di questi Sciascia scriveva: Intanto, facendo a meno di vedere in quale misura e dentro quali limiti agiscano nell’opera di Verga gli ideali del Risorgimento, una semplice ma essenziale considerazione s’impone: ed è che […] pur rappresentando come fatale e irrimediabile l’esclusione dalla storia e irrevocabile l’immobilità economica e politica del popolo siciliano, Verga inconsapevolmente portava questo popolo nel flusso della storia: ponendolo, nella luce della poesia, come problema storico nella coscienza della nazione e dell’umanità. (III, 1146)

24.  Cfr. F. Cilluffo, Leonardo Sciascia: cinque immagini della Sicilia (1965), in Id., Due scrittori siciliani, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1974, pp. 49-113: pp. 61 e ss. 25.  G. Giudice, Le citazioni di Leonardo Sciascia, in «Belfagor», XLVI, n. 3, 1991, pp. 329-332: p. 329. 26.  A. Di Grado, Leonardo Sciascia, Pungitopo, Marina di Patti 1986, p. 35.

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In sostanza, pur con evidenti limiti che sono attinenti alla biografia e alla psicologia di pessimista conservatore, monarchico e «crispino», l’opera di Verga viene interpretata come «indubbiamente rivoluzionaria» (III, 1147). Di come tali limiti intervengano a mistificare i fatti nella novella La libertà, Sciascia ha dato lucida dimostrazione nel terzo saggio da noi citato. Ma ciò non inficia la convinzione che, nel momento in cui si dava rappresentazione «di una condizione umana senza speranza, questa condizione umana veniva a partecipare della speranza, della storia; in una parola: del Risorgimento» (III, 1146). In tal senso, Verga era nella storia più di chi in Sicilia avrebbe programmaticamente intrapreso la via del romanzo storico: «A Pirandello, più tardi, doveva capitare di peggio: scrivere I vecchi e i giovani, un romanzo storico, senza “un’idea della storia”; e così, più tardi, al principe di Lampedusa» (III, 1147). La scelta, dunque, cade dalla parte di Verga contro Pirandello, ma nel segno di una ricostruzione della storia isolana che faccia finalmente saltare i limiti classisti verghiani. In tale fucina ideologica nasce il racconto. Il protagonista, non a caso, è un umile, il figlio del giardiniere del barone Graziano, signore di Castro. Il suo cammino d’emancipazione, che intreccia ancora una volta inquietudini politiche ed esistenziali, si concluderà, appunto, con la scoperta che un ordine iniquo regge la società siciliana. Con grande ironia, non senza comiche inserzioni di marca brancatiana, il narratore disegna un’esilarante kermesse nella quale assumono rilievo personaggi di cui conosciamo già la tipologia: il barone, stolido e patetico difensore dello status quo, pronto a passare con i garibaldini pur di non perdere i suoi privilegi, travolto dall’adultera passione per Rosalia, nel cui riso si sente «lo squillo della tentazione» (I, 272); la moglie, donna Concettina, in perenne crociata contro il peccato, che, una volta scoperta la tresca, più non rivolgerà parola al marito, se non attraverso improvvisati interpreti; la figlia Cristina, «bella e lontana», dal profilo «lieve e

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aereo come luna nuova» (I, 310-311). Ad essi bisogna aggiungere il vescovo, monsignor Calabro, il sottintendente, il giudice regio, il precettore di Vincenzino, fratello di Cristina, il truce tenente borbonico Desimone: personaggi chiusi nei loro interessi di classe e pregiudizi, perfettamente organici al vecchio ordine, non di rado sfiorati da una luce di sarcasmo o còlti in un atteggiamento di turpe e sordida stupidità. Un mondo già in piena simbiosi con la mafia, come attestano le pagine in cui compare Vito Lacruna, uomo spaventevole e terribile, sempre pronto a eliminare gli avversari liberali del barone. In questa società immobile, su cui presto cala la nera cappa dell’omertà, non mancano uomini di coraggio. Sono quegli antieroi che già conosciamo, che a tutto antepongono la propria dignità. Come il pio e cattolicissimo don Cecè, l’unico nel Comitato civico che osi opporsi al vescovo, finendo i suoi giorni nella solitudine e nella pazzia. Come don Paolo Vitale, il precettore di colui che narra, prete dai metodi all’antica, ma uomo libero e in odor d’eresia, consapevole che stava per cambiar tutto, senza cambiare nulla (I, 293-294). Come, infine, il personaggio Nievo, «un giovane dal profilo nitido, la fronte alta, gli occhi che continuamente mutavano dall’attenzione alla noia, dalla soavità alla freddezza» (I, 320). Nievo è uomo del Nord, come il futuro capitano Bellodi del Giorno della civetta, venuto nell’isola a scontrarsi con una realtà lontanissima dalla sua, ma soprattutto scrittore amato da Sciascia, colpevole nella breve vita di non aver capito la Sicilia e, quindi, nel racconto «costretto a parole di comprensione, d’amore» (C.S., 41). E lui l’autore di un discorso che, muovendo da un’insofferenza per il trasformistico comportamento del barone, arriva a schizzare un primo abbozzo di quella «sicilitudine» che Sciascia meglio articolerà nella Corda pazza: questo è un popolo che conosce solo gli estremi: ci sono i siciliani come Carini, e ci sono i siciliani come… come questo barone, insomma […]. Io credo nei siciliani che parlano poco,

99 nei siciliani che non si agitano, nei siciliani che si rodono dentro e soffrono: i poveri che salutano con un gesto stanco, come da una lontananza di secoli, e il colonnello Carini sempre più silenzioso e lontano, impastato di malinconia e di noia ma ad ogni momento pronto all’azione: un uomo che pare non abbia molte speranze, eppure è il cuore stesso della speranza, la silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori… una speranza, vorrei dire, che teme se stessa, che ha paura delle parole e ha invece vicina e familiare la morte… Questo popolo ha bisogno di essere conosciuto ed amato in ciò che tace, nelle parole che nutre nel cuore e non dice. (I, 320)

Da una parte, dunque, il colonnello Carini, che nel suo silenzio distilla una sofferenza di secoli, dall’altra i siciliani come il barone, come Crispi, altro obiettivo polemico del discorso di Nievo. Si tratta di un’opposizione tra due modelli di moralità, già riscontrabile in alcune Lettere al direttore di Brancati apparse su «Omnibus», ereditata da Sciascia e riproposta nel saggio Verga e il Risorgimento, a fondare il contrasto tra un Verga uomo di poche parole, di nuda virtù e un Rapisardi stravagante e fatuo, tonante annunciatore di rivoluzioni (III, 1144-1146). Un’opposizione che, sollevata a vero e proprio paradigma della «sicilitudine», attraverserà tutta l’opera di Sciascia fino alle pagine di Occhio di capra, ove si traccia una vera e propria apologia del silenzio. Ma questo è altro discorso: e che faremo. Per ora, occorre sottolineare un fatto: l’unico invito alla speranza che troviamo nel Quarantotto non si risolve in una promessa di riscatto storico, ma si traduce nel recupero di alcuni valori isolani affermatisi in una secolare vicenda di dolore, in familiare e quotidiano commercio con quel sentimento di morte di cui abbiamo avuto già larga testimonianza nelle pagine dello scrittore. Qual è la diagnosi storica che possiamo trarre da questo racconto? Basterebbe soltanto fermarsi all’ultima scena in cui il barone sta per ospitare Garibaldi nella stanza dove ha dormito un Borbone. Ma c’è un’altra battuta che ci consente di cogliere esattamente il senso degli avvenimenti che qui si consumano:

100 Il barone […] ordinò la cena. «Domani» disse «appena l’alba fa occhio, vado dal vescovo: voglio vederci chiaro in quello che succede, se rivoluzione dobbiamo fare la facciamo tutti, non vi pare?». (I, 285)

La frase del barone si porta dietro una stupefacente eco gattopardesca, di un Gattopardo, si badi, non ancora apparso in libreria: quel «Se bisogna che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», come sussurra il nobile e garibaldino Tancredi all’amatissimo «zione». Certo: il ritratto compiaciuto che Tomasi traccia del principe di Salina non ha niente a che vedere con quello che Sciascia schizza del barone Graziano. Per di più, nel Quarantotto gli eventi sono ricostruiti nell’ottica rigorosamente classista del narratore. Ma il punto è un altro: Sciascia non sembra per nulla discostarsi dalla tesi di De Roberto, Pirandello e Tomasi, dalla convinzione che il Risorgimento in Sicilia sia rimasto incompiuto, nella vittoria apparente ma nel fallimento sostanziale; che la società italiana, nel suo passaggio dall’assolutismo al liberalismo borghese, non abbia superato, in ultima istanza, il banco di prova dell’ammodernamento dell’isola. Nonostante Sciascia, nei suoi saggi, esprima un’opzione verghiana e anti-pirandelliana, ci sembra proprio che Il quarantotto abbia numerose affinità formali e ideologiche con I Viceré, I vecchi e i giovani e Il Gattopardo, su quella linea della narrativa siciliana che Vittorio Spinazzola ha voluto definire con la formula di «romanzo antistorico»27. Affinità che, sulla scorta di tale libro, possiamo così sintetizzare: stretto nesso tra narrazione e interventi saggistici nell’interpretazione degli eventi; utilizzazione di un genere eminentemente borghese, il romanzo storico, per colpire la mentalità e i miti della borghesia, in particolare il mito del progresso; pessimismo esistenziale e criticismo ironico; ironia come amaro scandalo della ragione 27.  Cfr. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Editori Riuniti, Roma 1990.

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di contro a una realtà immobile e disperata; utopia dell’individualità e fede nei valori della coscienza, forte soprattutto di un lucido scetticismo; adesione a un nucleo di valori radicati nella cultura isolana, come perenne antidoto ai veleni della modernizzazione. Insomma: il suo piccolo Gattopardo, senza saperlo né volerlo, confuso com’era nella nutrita schiera degli intellettuali di sinistra, Sciascia l’aveva già scritto. Non a caso, nel corso degli anni, il suo rapporto con Tomasi fu tutt’altro che chiaro: e già dall’inizio in quella che sembrò una condanna perentoria. Notava infatti lo scrittore in quello stesso 1959, dopo aver imputato all’isola di Tomasi «un vizio d’astrazione […] geografico-climatica»: Il libro si svolge, con letteratissima abilità ed una certa ironia, su due piani: quello dell’autobiografia, dell’autoritratto, della proustiana memoria; e quello della ricostruzione oggettiva, però condizionata da araldiche suggestioni. (III, 1162)

Reminiscenze e suggestioni che componevano il libro di un «gran signore», il quale aveva fatto del popolo una delle tante manifestazioni sgradevoli della condizione umana da allontanare con nonchalance. Uno scrittore, insomma, di sublime e glaciale indifferenza che aveva raggiunto «la felicità dell’uomo classico, la felicità di Montaigne» (III, 1168) e che non poteva piacere all’autore delle Parrocchie. Ma, senza dire che, con l’incrudire del pessimismo, quella saggezza classica, dentro l’orbita dei grandi moralisti francesi, sarebbe stata fatta propria dallo stesso Sciascia, occorre aggiungere che, con il venir meno delle illusioni progressiste, anche il giudizio sul Gattopardo sarebbe radicalmente cambiato, come lo scrittore confessa in una lettera a Giuseppe Paolo Samonà del giugno 197328, nel segno di un rapporto sempre più cordiale, garante Stendhal, 28.  Cfr. G.P. Samonà, Il gattopardo i racconti Lampedusa, La Nuova Italia, Firenze 1973, p. 413. Ma sulla questione, vedi N. Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia, cit., pp. 139-141.

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fino alla pubblica excusatio del saggio I luoghi del «Gattopardo», raccolto nel 1989 in Fatti diversi di storia letteraria e civile: Il gattopardo era stato pubblicato alla fine del 1958: a chi lo avesse letto un anno dopo, il libro sarebbe davvero apparso un caso letterario “infondato”? È possibile, dato il tanto clamore che gli era stato fatto intorno; ma tutt’altro che “infondato” appare oggi, dopo vent’anni. Chi, come me, avanzò allora delle riserve sui contenuti del romanzo, sull’idea che lo informava, oggi è portato a riconoscere che quello che allora parve inaccettabile e irritante nel libro, s’apparteneva a delle costanti della nostra storia che allora era legittimo ricusare o tentare di ricusare, come legittimo era per il Lampedusa riconoscerle o rappresentarle. Certo, mancherebbe molto, alla letteratura italiana di questi anni, se il libro non fosse stato pubblicato. E credo sia venuto il momento di rileggerlo; e per i giovani di conoscerlo. (III, 625)

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Capitolo III

Le ragioni del vero 1959-1964

Nel 1961, nella nuova edizione degli Zii di Sicilia, appare L’antimonio, ispirato a un brano di L’espoir di Malraux, ove si racconta dello scontro avvenuto a Guadalajara tra un reparto di italiani antifascisti e uno di italiani fascisti (S.M., 69). Un racconto con al centro la guerra di Spagna, da cui Sciascia ebbe, come si legge su «Officina», «la rivelazione del mondo», quello dei tragici equilibri di classe, della violenza gratuita, della religione l’amore e la morte, della dignità di chi resiste, e negli anni particolarissimi dell’adolescenza, nella scoperta che «García Lorca fucilato dai franchisti, che Dos Passos, Hemingway, Chaplin stavano dalla parte della repubblica»1. Alla luce di questa svolta autobiografica non è azzardato ravvisare nell’Antimonio un momento di ricapitolazione della storia letteraria e umana di Sciascia. Personaggio vicario dello scrittore è un povero zolfataro, che combatte in Spagna insieme ai fascisti per non morire di fame, in una vicenda d’emancipazione che tocca tutti i valori dell’esistenza, culminante in alcune notazioni di estremo interesse sul rapporto letteratura-vita. Il titolo è molto significativo: 1.  L. Sciascia, La sesta giornata, in «Officina», II, n. 7, 1956, pp. 291-298: p. 292.

104 Gli zolfatari del mio paese chiamano antimonio il grisou. Tra gli zolfatari, è leggenda che il nome provenga da antimonaco: che anticamente lo lavoravano i monaci e, incautamente maneggiandolo, ne morivano. Si aggiunga che l’antimonio entra nella composizione della polvere da sparo e dei caratteri tipografici e, in antico, in quella dei cosmetici. Per me suggestive ragioni, queste, ad intitolare L’antimonio il racconto. (I, 324)

Una luce luttuosa si riverbera, dunque, su tutta la storia, una luce che irradia dalla zolfatara. Non a caso, con forte valore simbolico, la prima scena si svolge in un cimitero sotto un sole tutt’altro che clemente: I mori avevano perduto qualche penna, dal posto dov’ero ne vedevo due caduti con le braccia aperte, la faccia al sole: cara al sol cominciava l’inno della Falange, le facce dei morti mangiate dal sole; l’inno voleva dire dei vivi che marciano col sole in faccia, per me il sole stava nello stemma della morte. (I, 327)

Sin dall’inizio, nell’intenso fuoco degli scontri, l’io narrante si dissocia dall’atroce e gratuita violenza delle fucilazioni, dalle sommarie condanne a morte: «Quando c’era gente che si arrendeva io mi sentivo salire la terzana, lame di freddo per il filo della schiena sentivo, un groppo di dolore alla bocca dello stomaco: e in testa mi venivano cose di sogno, una cabala di cose» (I, 328). E si tratta di quel perenne incubo, di quel sentimento d’irrealtà, che sembra accomunare i vari protagonisti degli Zii di Sicilia. Ma nell’Antimonio la temperie è subito meditativa, intrecciando l’io narrante agli eventi bellici una trama di considerazioni esistenziali, un discorso che non conosce regno dei cieli, ma solo l’eterna notte della terra, come una lunga eco di quella miniera siciliana lasciata in cerca di un destino migliore: Se voltavo gli occhi a sinistra, un po’ indietro vedevo mezza faccia di Ventura […], dietro una grossa lastra di marmo sulla quale era una lunga scritta e grosse le parole «subìo al cielo» che ad un certo punto cominciarono a ballarmi negli occhi e

105 nel cervello, come se le lettere, una per una, uscissero incandescenti dalla forgia di un fabbro-ferraio. Per me, ne ero certo, l’ora di salire al cielo non era ancora venuta; e se mai, meglio sarebbe stato scendere nella terra, dove umida si attacca alle barbe delle radici. Di sicuro al cielo non era salito il soldato che dalla tomba davanti a me si era mosso verso l’ombra della cappella, la testa gli si era sgranata, ora da magro che era il suo corpo diventava gonfio come un otre. (I, 325-326)

Il rapporto con Ventura si rivela fondamentale in questa vicenda d’affrancamento. Ventura è un mezzo anarchico insofferente di ogni disciplina e autorità, che libera i prigionieri piuttosto che fucilarli, sempre pronto a dire la verità o a mentire a seconda delle circostanze, ammiratore di Lister, il leggendario comandante delle brigate internazionali antifranchiste, innamorato dell’America, e per essa disposto a «sputare» sul fascismo e sul comunismo, arrivato in Spagna solo per passare, al momento giusto, dalla parte degli americani, ma incapace di abbandonare i compagni, quando le cose «vanno male». Personaggio inquieto e avventuroso come rivela il nome, la sua è una morale essenziale, forse l’unica possibile in guerra, quando si è in quotidiano commercio con la violenza cieca e la morte. La morale dell’onore che risponde a un’inderogabile affermazione di dignità: «Finisce la dignità, a stare con le mani alzate mentre uno ti punta il fucile. E le fucilazioni mi fanno venire il vomito: non c’è dignità a mettere un uomo contro un muro e a sparargli con dodici fucili. Disonorati, quelli che ordinano le fucilazioni e quelli che le fanno, ecco che cosa sono: disonorati, persone che non hanno onore in faccia». «Ad ammazzare non c’è onore» dissi. «C’è onore anche ad ammazzare» disse Ventura «ma quando si ammazza in caldo, o la tua pelle o la mia; o quando si ammazzano le carogne, quelli che per vigliaccheria o per mestiere fanno la spia, e quelli che nel comando puzzano: anche a freddo li puoi ammazzare, e fai una cosa d’onore». (I, 341)

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Sono considerazioni tremende e inaccettabili, ma ineludibili perché fondate su un’idea di giustizia, per quanto rozza e approssimativa, l’idea di un uomo che, per altro, non ha dimenticato la povera e desolata Sicilia degli zolfatari e dei contadini che vanno a giornata. Il carisma di Ventura, la sua semplice e semplificante idea di giustizia, conducono il protagonista a riflessioni che implicheranno una precisa scelta di campo e senza ritorno: così pensavano i capomastri della zolfara che prendevano soldi da noi e dai padroni; e a noi assicuravano il lavoro e ai padroni il nostro buon rendimento, e chi non pagava li offendeva nell’onore. Persone che io detestavo: e Ventura era un po’ come loro, nelle zolfare forse l’avrei odiato, ma dentro quella guerra le sue ragioni d’onore diventavano migliori, più vicine alla dignità dell’uomo, di quelle che il fascismo metteva sulle sue e nostre bandiere. Per me per Ventura per tanti di noi, in una guerra che avevamo accettato senza capire e che lentamente ci trascinava verso i sentimenti e le ragioni del nemico, non c’erano bandiere: ciascuno di noi aveva verso se stesso impegno d’onore a non aver paura a non arrendersi a non lasciare il proprio posto. E può darsi che tutte le guerre si facciano così […]: solo la dignità di ciascuno a giuocar bene la propria vita, ad accettare il giuoco della morte. (I, 341-342)

In Sicilia, nelle zolfare, Ventura sarebbe stato probabilmente un uomo in odor di mafia, ma in Spagna, tra gli orrori della guerra civile, sa vivere accettando con dignità «il giuoco della morte»: e fino in fondo. Il protagonista abbandonerà presto l’ideologia anarchica e protomafiosa di Ventura, qui costeggiata, ma senza più sciogliersi da quel nodo morale dentro quella concezione celato. A questo punto s’impone una precisazione. Che Sciascia non s’identifichi mai con Ventura è facilmente dimostrabile: basterebbe far cenno a quel mito dell’America che consuma il personaggio e da cui lo scrittore ha preso già nettamente le distanze con La zia d’America. Ma che una sindrome «Ventura» sia in qualche modo riscontrabile nella sua vicenda

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umana e letteraria, continuamente riaffiorabile, ci pare cosa senz’altro sostenibile. Una sindrome che si rivela nella strenua fedeltà a un’idea di libertà, a quell’«istinto di contraddizione» così spesso ravvisabile negli interventi dello scrittore sui fatti della nostra vita civile, o nel carattere di molti suoi personaggi. Una sindrome che si palesa nella concezione semi-anarchica del Potere, talvolta emergente dalle sue pagine, traducibile in quei costanti impulsi a uscire dal «solco della norma», a cui volle reagire elevando il diritto a «valore assoluto»2. Ventura è uomo senza bandiere, a differenza dell’io narrante che una sua bandiera vuole ancora averla, issandola nel ricordo del padre socialista morto nella zolfara, ricordo di una militanza a lungo rimossa, che ora riemerge prepotentemente al suono dell’inno dei lavoratori, restituendo un’immagine che, come quella di Matteotti assassinato, chiede un risarcimento: «E chi si ricordava più dell’inno? Era bella musica, a un certo punto pareva squarciasse pesanti nuvole, le parole dicevano “sulla libera bandiera brilla il sol dell’avvenir” davvero aprivano speranza» (I, 342). Ancora una volta, la scelta di campo appare dettata da ragioni sentimentali. Nel cammino verso la maturità il rapporto con il padre, i suoi valori, la sua concezione del mondo, è inevitabile. E ne viene fuori una riflessione estremamente interessante: Ma il socialismo che cosa era? Certo una buona bandiera, mio padre diceva «giustizia uguaglianza» ma non ci può essere uguaglianza se Dio non c’è, non si può fare il regno dell’uguaglianza davanti a un notaro, solo davanti a Dio si può fare. O davanti alla morte: se tutti, ad ogni momento, nella morte ci specchiassimo. Sarebbe così ingiusto il mondo dell’uguaglianza che solo in nome di Dio, o specchiandoci nella morte, potremo viverlo. Senza Dio però si può fare giustizia, non ho mai pensato che Dio fosse giustizia, dalla nostra speranza di 2.  Cfr. N. Borsellino, «Pirandello, mio padre», cit., p. 259.

108 giustizia è lontano. Mio padre non si contentava della giustizia, voleva l’uguaglianza: credeva che quei grandi avvocati con cappello largo e cravatta a fiocco stessero al posto di Dio. (I, 342)

La comprensione dell’esperienza esistenziale e politica del padre è piena. Ma si tratta di un recupero che implica una non lieve rettifica, una non piccola correzione ideologica. Il nesso paterno giustizia-uguaglianza viene spezzato per sempre. Il mondo dell’uguaglianza sarebbe sommamente ingiusto: uguaglianza e giustizia non possono andare di concerto. E la scelta non può che cadere sulla giustizia: non si può dare uguaglianza se non di fronte a Dio o davanti alla morte, se non nell’accettazione di una teologia. E teologia, nella guerra di Spagna, significa cattolicesimo: «Crocefissi attaccati, per devozione dei falangisti, a tutte le cose che seminavano morte, ai cannoni e ai carri armati» (I, 331). Quando, poi, si vuole prescindere da Dio, il rischio è anche peggiore, quello di divinizzare gli avvocati con la cravatta a fiocco (e come non vedere in filigrana un accenno ironico al disamato Rapisardi?): ancora un passo, e siamo allo stalinismo del calzolaio di La morte di Stalin. Se le cose stanno così, non sorprende constatare nel protagonista un certo fastidio per i comunisti e una qualche simpatia per repubblicani e anarchici. Nel segno del passo citato, la nozione di uguaglianza esce di scena dalle opere di Sciascia, mentre acquista centrale rilievo quella di giustizia, sempre alla portata degli uomini, solo che vogliano giudicare i fatti con esatta e onesta coscienza. Quanto Sciascia sia già distante dalla Sinistra comunista ognuno può considerarlo da sé. E sotto la grave mora dell’ingiustizia il presente spagnolo sembra sovrapporsi al passato siciliano, e con esso confondersi: «Al mio paese» dissi «c’è per ora la festa dell’Assunta, la Madonna di mezzoagosto, dicono i contadini… Qui fucilano i contadini a gloria della Madonna di mezzoagosto […]. Ma per la fede nostra solo le cose buone contano: nelle pene Dio

109 non c’entra, è il destino che ce le porta. Facciamo una buona domenica, con il brodo e la carne: e mia madre dice che dobbiamo ringraziare Dio; portano a casa mio padre, bruciato dall’antimonio: e mia madre dice che il destino infame l’ha bruciato… Vorrei far vedere a mia madre che qui in Spagna, Dio e il destino hanno la stessa faccia». (I, 331-332)

Sicilia e Spagna si rivelano all’io narrante sempre più simili, in accordo con quanto Sciascia, sulla scorta della lettura di Americo Castro, aveva scritto in Pirandello e la Sicilia3. Magari già nel presentimento che potessero farsi metafora di una più generale condizione umana: «Seduto sulla scalinata di quella chiesa, ho capito tante cose della Spagna e dell’Italia, del mondo intero e degli uomini nel mondo» (I, 334). Ecco, allora, Cadiz come Trapani, «ma per il bianco più luminosa» (I, 338); Siviglia in certi scorci eguale a Palermo «intorno a piazza Marina», con la campagna della Castiglia «desolata e solitaria com’è tra Caltanissetta ed Enna», ma quasi amplificando desolazione e solitudine (I, 348); l’Aragona spagnola con «tanti paesi che somigliano ad Aragona in provincia di Girgenti» (I, 360); Teruel, «una città alta come Enna» e non più grande (I, 365). Tappe di un viaggio che termina con una dolorosa presa di coscienza: Io sono andato in Spagna che sapevo appena leggere e scrivere, leggere il giornale e la storia dei reali di Francia, scrivere una lettera a casa; e son tornato che mi pare di poter leggere le cose più ardue che un uomo può pensare e scrivere. E so perché il fascismo non muore, e tutte le cose che nella sua morte dovrebbero morire son sicuro di conoscere, e quel che in me e in tutti gli altri uomini dovrebbe morire perché sempre il fascismo muoia. (I, 360-361)

3.  Sul rapporto con la cultura spagnola, si veda anche L. Sciascia, Ore di Spagna, fotografie di F. Scianna, con una nota di N. Tedesco, Pungitopo, Marina di Patti 1988.

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Ecco, dunque, il punto d’approdo: che una piaga storica come il fascismo si riveli, innanzi tutto, come piaga morale, le cui infette radici affondano, per dirla con la Arendt, nella «banalità del male», un male modesto e quotidiano che alligna in tutti gli uomini, compreso l’io narrante; che il fascismo coincida con qualcosa di più profondo e di più lunga durata che non il ventennio nero o il regime franchista; che, insomma, consista in una categoria etica piuttosto che storica. Una valutazione che Sciascia non abbandonerà più, ma articolerà sempre meglio. Con questa nuova consapevolezza, nella scoperta di essere andato a combattere contro la speranza di gente della sua stessa classe, la parabola esistenziale del protagonista raggiunge il vertice. Nascono così, nel vivo della guerra, le intense riflessioni sul sesso, l’amore, la famiglia, per un bilancio che sia completo e definitivo. Pensieri che si alimentano soprattutto della relazione con una prostituta di Zaragoza, accecata d’odio per i rossi, tra i quali milita il marito, che le hanno fucilato il padre: il suo odio diventava per me un fatto d’amore; e non perché dall’odio per gli altri le nascesse amore per me, ma proprio perché odiava mi piaceva, per quel suo fare magia dell’odio, per quel suo essere un po’ strega. Il piacere dell’amore è molto complicato: ed è più grande quando c’è nella donna oscura dannazione, un centro di maligno mistero nel suo essere; dico il piacere, ché l’amore è un fatto più semplice e chiaro. (I, 353)

Ancora una donna: e malignamente vampante nel desiderio. Ma, questa volta, nel limpido distinguersi delle ragioni dell’odio e del dolore, in presenza di un’utopia d’amore, che mai più incontreremo, se non in Candido, per quanto di diversa natura. Un’utopia d’amore che dà al protagonista la misura esatta del suo fallimentare matrimonio, con una donna insignificante che si perde nel ricordo, querula e distratta nelle lettere, come se il marito fosse, «invece che a far guerra, in un posto di villeggiatura». Si erano sposati come tanti siciliani, per un amore «fatto di sguardi furtivi di incontri senza parole», nulla

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sapendo l’uno dell’altro, dell’altrui «modo di avere gioia o pietà delle cose del mondo». Fatto grave e amaro per il narratore: L’amore dovrebbe invece nascere dalla serena scoperta che insieme, un uomo e una donna, stanno bene per affrontare la pena, soprattutto la pena, della vita: insieme per la vita, e nella conoscenza del dolore, e per aiutarci in questa conoscenza; e insieme nel piacere, che è un momento, e ci lascia col nostro cuore nudo, ad intenderci meglio nel cuore. Così mi si illuminava il significato dell’amore, e scoprivo di non avere amore per mia moglie. (I, 354-355)

Questa utopia d’amore è dunque destinata a infrangersi sulle dure consuetudini della Sicilia ma, nel contempo, a fungere da pietra dello scandalo di quegli stessi valori, quale promessa d’impossibile felicità. Ha ragione Dominique Fernandez: L’eroe siciliano chiama a raccolta tutta la sua energia nell’unico sforzo di recuperare la propria infanzia. Vittorini ritrova nel cuore puro della sua isola la nudità primitiva della culla; Brancati dipinge con sarcasmo la regressione degli uomini verso il mondo asessuato delle madri. Tomasi di Lampedusa abbandona Palermo per Donnafugata […] focolare intatto di ricordi.4

A differenza di costoro, Sciascia opporrebbe «al mito dell’infanzia» un «mito della maturità»5, secondo un ideale di virilità «che non consiste in null’altro che nel gusto dell’esattezza e del lavoro compiuto»6. Questo mito, come lo scrittore confessa a Lajolo, è l’unica via d’uscita da una società «di fatto matriarcale, di tremendo matriarcato» (C.S., 40), qui rappresentata dalle opposte figure della madre e della moglie, religiosa e chiusa nel

4.  D. Fernandez, Tre sguardi su Leonardo Sciascia (1982), ora col titolo Il mito della maturità, in «Nuove Effemeridi», IV, n. 9, 1991, pp. 33-43: p. 36. 5.  Ivi, p. 39. 6.  Ibidem.

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suo mondo domestico l’una, insensibile e impegnata a fingere il suo momento d’amore l’altra. Da questo punto in poi, l’opera di Sciascia può anche essere letta come un tentativo, di superare questo «masochismo siciliano»7 presente nella tradizione letteraria isolana e, insieme, di liberarsi dalla morsa vischiosa e asfissiante di questo matriarcato, così ben rappresentato dal Brancati nel Don Giovanni in Sicilia. Con la misteriosa scomparsa di Ventura, finisce anche la guerra per l’io narrante, colpito alla mano e della mano amputato in un ospedale di Valladolid: Ma dentro di me, nei pensieri e nel sangue, la guerra di Spagna continuava ad essere viva: ogni momento della mia vita si sarebbe intriso di quell’esperienza, in quella esperienza erano ormai le radici della mia vita, si muovevano silenziose in quell’oscuro nutrimento; il braccio sinistro mi era rimasto come un ramo morto, ma le radici della mia vita crescevano. L’immagine dell’albero mi viene da un sogno […]: mi pareva di essere nudo come alla visita di leva, un uomo senza faccia mi toccava con le mani di gelo e mi parlava come tra sé, dalle sue parole intendevo che mi considerava come un albero; volevo dirgli che ero un uomo, ma la voce mi mancava. (I, 377)

Ancora un sogno, al cui fondo è un sentimento d’angoscia e impotenza che si scioglie in una protesta di dignità. Lo zolfataro ha ormai un manichino, «sempre freddo come il muso di un cane» (I, 381), ma per l’atroce mutilazione sente crescere più in profondità «le radici della vita», nutrite dagli orrori di Spagna. Come se questa invalidità di guerra, patita per altro anche da un grande scrittore come Cervantes, fosse pegno di una nuova grandezza spirituale. La mano che non c’è più, che non può più impugnare un’arma contro l’ingiustizia, sembra generare un insopprimibile desiderio, quasi oroscopo di un destino che non può essere eluso: 7.  Ivi, p. 37.

113 E mi sentivo come un acrobata che si libra sul filo, guarda il mondo in una gioia di volo e poi lo rovescia, si rovescia, e vede sotto di sé la morte, un filo lo sospende su un vortice di teste umane e luci, il tamburo che rulla morte. Insomma, mi era venuto il furore di vedere ogni cosa dal di dentro, come se ogni persona ogni cosa ogni fatto fosse come un libro che uno apre e legge: anche il libro è una cosa, lo si può mettere su un tavolo e guardarlo soltanto, magari per tener su un tavolino zoppo lo si può usare o per sbatterlo in testa a qualcuno: ma se lo apri e leggi diventa un mondo; e perché ogni cosa non si dovrebbe aprire e leggere ed essere un mondo? (I, 383)

Il reduce è ormai tornato al suo paese, come estraneo, con un senso di vergogna per il denaro guadagnato contro gente come lui, ferito e deluso per la gelida indifferenza della gente sui fatti di Spagna. Accetta dal fascismo un posto di bidello: ma sul «continente», lontano dalla Sicilia. Non passerà molto e, metamorfosizzato nel capitano Bellodi, lo vedremo ritornare, pronto a scommettere su un’ipotesi di cambiamento. Prima di chiudere l’esame degli Zii di Sicilia, ci si consenta una nota sul rapporto letteratura-vita in margine ad alcuni passi del Quarantotto e L’antimonio, che ben si coniugano all’ultimo brano citato e possono introdurci a uno dei temi principali del Consiglio d’Egitto, di cui ci occuperemo subito, posponendo l’analisi del Giorno della civetta al prossimo capitolo. L’io narrante del Quarantotto ha una passione bruciante per i libri, sempre «distratto e stranito» nel leggerli e ripensarli. E così, mentre vecchio stanco e perseguitato stende i suoi ricordi risorgimentali, palesa la sua fede nella letteratura: «scrivere mi pare un modo di trovare consolazione e riposo; un modo di ritrovarmi, al di fuori delle contraddizioni della vita, finalmente in un destino di verità». Fino a questo momento Sciascia ha sviluppato, con tenacia, un concetto di letteratura come forma di demistificazione, in vista della ricostruzione univoca e indefettibile della realtà, con zelo antipirandelliano, una realtà troppo spesso velata da una coltre di menzogne. In questo

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passo, la letteratura viene concepita come depositaria di «un destino di verità», ma nella dimensione della «consolazione e del riposo». Come se, grazie ad essa, si possa finalmente fuoriuscire «dalle contraddizioni della vita» (I, 272). Verina Jones, nel sottolineare tale novità, ha rilevato nell’opera «la rivendicazione di uno status particolare della scrittura», che va a porsi «come una alternativa alla realtà», in quanto portatrice, in sé e per sé, di verità8. E sia, con la precisazione, però, che tale concezione proviene, come abbiamo visto, dagli anni dell’apprendistato, e qui Sciascia non fa che recuperarla e chiarirla. Si veda, a questo proposito, la convinzione del protagonista dell’Antimonio: «Io credo nel mistero delle parole, e che le parole possano diventare vita, destino; così come diventano bellezza» (I, 360). E poche pagine più avanti, riflettendo sulla capacità che le parole hanno di determinare, anticipare i fatti: «un po’ come nella religione o nella poesia, in cui le parole fanno sacre o belle le cose, il pane che si fa corpo sangue e anima di Gesù Cristo, una campagna o un paese che prima guardavi distratto e ora ti dice bellezza perché la poesia vi è passata» (I, 365). La letteratura, insomma, non solo conosce la realtà, la rispecchia, ma la redime: un mistero che può anche amplificare la vita, pacificandola nelle sue contraddizioni, e addirittura prolungarla nel futuro, all’incrocio di verità e bellezza, nella luce di una premonizione e un destino. Nell’arte, ribadisce il protagonista dell’Antimonio, l’uomo può «ogni cosa alzare ed ordinare al di sopra di se stesso» (I, 379). Nel Consiglio d’Egitto, queste due diverse nozioni di letteratura tornano a intrecciarsi e a sciogliersi. Ma andiamo con ordine. Siamo nella Sicilia degli anni che precedono e seguono la Rivoluzione francese:

8.  V.R. Jones, Da Regalpetra a Parigi (1984), tr. it. in «Nuove Effemeridi», III, n. 9, 1991, pp. 20-32: p. 25.

115 Il consiglio d’Egitto è stato […] scritto al posto di un altro libro; volevo fare la cronaca del massacro dei presunti giacobini, avvenuto a Caltagirone alla fine del XVIII secolo, e avevo cominciato a documentarmi sull’argomento. Scorrendo la storia letteraria della Sicilia di Domenico Scinà, raccogliendo il materiale rimasto negli archivi, e poi leggendo le cronache del marchese di Villabianca, mi si è imposta la figura dell’abate Vella». (S.M., 69)

Ecco, dunque, le fonti: il Prospetto della storia letteraria di Sicilia nel secolo XVIII9 di Scinà, morto a Palermo nel 1837; i venticinque volumi in folio del Diario palermitano (1743-1802) del marchese di Villabianca, su cui Sciascia tornerà in un saggio raccolto nella Corda pazza, ove riappare la Palermo svagata e libertina del Consiglio, città di «incredibili contrasti, imprevedibili fermenti; e personaggi straordinari quali i viceré Caracciolo e Caramanico […], inquisitori massoni e preti giansenisti, il poeta Giovanni Meli […]. E cabale, congiure, tumulti», e «una costellazione di belle donne, ciascuna delle quali consegnava alla poesia di Giovanni Meli, che ce li tramanda, una particolarità, un vezzo, un sorriso, uno sguardo» (I, 1019). Su questo sfondo, inizialmente opposte, si muovono le vicende dell’abate Giuseppe Vella e del nobile Francesco Paolo Di Blasi: due tentativi eguali di intervenire sulla situazione politica, non importa se per rafforzare l’autorità regia sul potere baronale o per dar via a una rivoluzione giacobina; due ipotesi di contro-storia, nell’eguale disprezzo per l’ordine esistente, in una comunanza di sentimenti e concezioni, prima latente, poi sempre più evidente; due utopie di diverso segno, più o meno generose, ma alla fine toccate da un medesimo destino di im-

9.  Da questo Prospetto sono state estratte le pagine dedicate all’«arabica impostura» del Velia, seguite dal saggio di Adelaide Baviera Albanese del 1963, che ne illustra con lucidità aspetti e moventi, ora in D. Scinà - A. Baviera Albanese, L’arabica impostura, Sellerio, Palermo 1978.

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postura. Un rapporto, dunque, di opposizione e identità, che rivisita il grande tema del «doppio», in una trama di riflessioni sulla storia, il potere e la tortura, la letteratura e la verità. Sin dall’inizio, campeggia il Vella, già versato in un grande inganno, nell’impresa di far credere a monsignor Airoldi che una modesta cronaca della vita di Maometto, quale realmente appare a Abdallah Mohamed ben Olman, l’ambasciatore del Marocco in visita a Palermo, sia invece una rarissima storia dei musulmani nell’isola: nasce così Il consiglio di Sicilia. Ma chi è questo traduttore-traditore, l’abile manipolatore di codici, l’ambizioso intellettuale che tenta di riscrivere tutta la storia della Sicilia dalla dominazione araba in poi? Un povero frate cappellano dell’Ordine di Malta che tira a campare come «numerista del lotto» e «smorfiatore di sogni», tra la povera gente dei quartieri popolari di Palermo, che non vuole farsi scappare l’occasione della sua vita quando il Caracciolo lo nomina interprete dell’ambasciatore. Uomo sensuoso, attratto dagli agi dal lusso e dal successo mondano, goloso di cioccolata calda caffè e soffici pandispagna, lusingato dalla fama giunta inaspettata e dal consenso dei potenti, comprende, a un certo punto, che una simile vita non può durare oltre la partenza dell’ambasciatore, e decide di farsi protagonista di un «lucido azzardo», «della grande impostura» (I, 496). La scommessa è grande: quella di orientare in diverso senso la storia, puntando esclusivamente sulla propria intelligenza. Una scommessa il cui azzardo è destinato a crescere. Benché ormai acclamato da tutta l’Europa dotta per Il consiglio di Sicilia, il Vella è «uno di quegli uomini cui non basta essere rispettati, onorati, vezzeggiati», ma che «vogliono incutere timore, suscitare intorno a loro, negli altri, in qualche modo paura». E allora: «Quale difficoltà, per un ingegno come il suo, ad arricchire l’impostura di sfumature ricattatorie» (I, 518-519)? L’occasione gli viene dalla rimozione, ordinata dal Caracciolo, dei busti di due illustri sostenitori del privilegio baronale: il

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Mongitore (lo ritroveremo nella Recitazione della controversia liparitana) e il De Napoli. Al viceré riformatore, il corpo giuridico elaborato a difesa dei nobili si andava rivelando come una vera e propria impostura, secondo la quale re Ruggero e i suoi baroni apparivano, nella conquista della Sicilia, «come soci in un’impresa commerciale». Da qui l’idea del Vella di esumare un codice arabo ove «le cose della Sicilia normanna sarebbero apparse, per testimonianza diretta e disinteressata degli arabi, per lettere degli stessi re normanni, in tutt’altro ordine: tutto alla corona, e niente ai baroni» (I, 520): Il consiglio d’Egitto. Un’interpretazione, questa di Sciascia, che pare inscrivere la vicenda del Vella nel quadro della storia del riformismo borbonico, in piena conferma della tesi esposta da Rosario Romeo nel suo Risorgimento in Sicilia. Fino a questo punto, lo scrittore non si discosta dalla ricostruzione d’archivio di Adelaide Baviera Albanese circa i moventi che avrebbero spinto il Vella all’impostura: senso di frustrazione e desiderio di rivalsa nei confronti dell’aristocrazia palermitana, desiderio di ricchezza e di vantaggi materiali, lotta ai privilegi feudali10. Ma il romanzo storico di Sciascia, manzonianamente, mescola storia e invenzione: e nel conto dell’invenzione la somma dei moventi non è stata ancora tirata. Mancano i più importanti, quelli che ci consentono di rivivere il passato «in funzione del presente», come vuole un vero romanzo storico (III, 1147). E non stupirà, allora, constatare nel Vella un sentimento di radicale scetticismo, circa la Storia e il mestiere dello storico, da ascrivere senz’altro a un’anagrafe novecentesca. Per l’abate, infatti, l’attività storiografica non consiste, come vorrebbe monsignor Airoldi, nel riportare alla «luce della coscienza» secoli di civiltà «dissepolti dalle tenebre in cui giacciono» (I, 498); né, come auspicherebbe il reazionario viceré Lopez, in una ricerca delle «cose del passato in santa pace 10.  Ivi, pp. 89-153.

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col presente, senza il prurito di metter sottosopra il mondo» (I, 579). Piuttosto, il mestiere di storico si confonde con l’antica pratica di «smorfiatore di sogni», ma sollevata a scommessa in cui arrischiare la vita stessa, per restituire il caos dei secoli a un ordine simile a quello che, in passato, imponeva ai sogni della povera gente, trascegliendone gli elementi che potessero assumere «coerenza di racconto» (I, 494): Nella sua mente era il giuoco dei dadi, delle date, dei nomi: rotolavano nell’egira, nell’era cristiana, nell’oscuro, immutabile tempo del pulviscolo umano della kalsa; si accozzavano a comporre una cifra, un destino; di nuovo si agitavano martellanti dentro il cieco passato. Il Fazello, l’Inveges, il Caruso, la cronica di Cambridge: gli elementi del suo giuoco, i dadi del suo azzardo. «Mi ci vuole soltanto del metodo» si diceva «soltanto dell’attenzione». (I, 498-499)

Ardito ingegno, estro e immaginazione, rigore dell’intelligenza e potenza del metodo: questo solo conta nell’allestimento del falso codice. Un’operazione inimmaginabile, se non fosse fondata sulla consapevolezza che la storia sia essa stessa impostura, prima giustificazione ideologica di un Potere che si declina nel sopruso e nella menzogna. Si veda quanto il Vella dice al suo rozzo complice, unico testimone della falsificazione, per rassicurarlo sul fatto che la creazione del codice non è una «mala azione»: Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le sue foglie nuove: poi anche queste foglie se ne andranno; e a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. […] Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i nostri avoli e trisavoli?… Sono discesi a marcire nella terra né più né meno che come foglie, senza lasciare storia… C’è ancora l’albero, sì, ci siamo noi come foglie nuove… E ce ne andremo anche noi… L’albero che resterà, se resterà, può anch’essere segato ramo a ramo: i re, i viceré, i papi, i capita-

119 ni; i grandi, insomma… Facciamone un po’ di fuoco, un po’ di fumo: ad illudere i popoli, le nazioni, l’umanità vivente… La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà, nella storia? (I, 533-534)

La storia dunque non esiste. Questa è la convinzione del Vella, non esente da una vaga ma indubbia coscienza di classe. E bisogna leggervi in filigrana l’intenzione d’ingaggiare una solitaria e coraggiosa battaglia contro il guazzabuglio dei secoli. Potremo dire che l’abate, in quanto testimone di quel «pirandellismo di natura» che per Sciascia corrode la vita civile siciliana, sia il primo personaggio, nel conto di quelli che non difendono l’ordine costituito, a non scegliere la libertà e la giustizia, in una parola la verità. Nelle sue parole il «pirandellismo di natura» è come deflagrato in una sorta di pirandellismo storico, non senza vibrazioni di cosmico sgomento. Alla menzogna egli oppone la menzogna: e nel giuoco delle parziali verità che mascherano determinati interessi, sceglie di mescolare ulteriormente le carte. Ma, nel confronto con l’atroce e secolare impostura della storia, la sua, lucida e ingegnosa, finisce per acquistare una certa nobiltà. Vella, insomma, apre prospettive del tutto nuove nell’opera di Sciascia. Senza dire che il movente principale del grande imbroglio è ben altro da quelli che abbiamo sin qui elencato. Nei lunghi giorni in cui la sua impresa si consuma, il Vella si sente in «una solitudine paragonabile a quella di un artista che si fosse trovato, su un’isola deserta, a creare un’opera di cui nessun altro uomo avrebbe goduto». Ma veniamo al punto: Aveva coscienza che nel suo lavoro, in quel che effettivamente era, ci fosse qualità di fantasia, d’arte; che, svelata tra qualche secolo l’impostura o, in ogni caso, oltre la sua morte, sarebbe rimasto il romanzo, lo straordinario romanzo dei musulmani in Sicilia: e presso i posteri il suo nome avrebbe avuto l’aurea gloria di un Fénelon, di un Le Sage […]. La sua disperazione d’artista si fondeva a quella vanità comune a tutti gli uomini che delinquono: aveva bisogno di qualcuno, spettatore e com-

120 plice, che in lui ammirasse, nel quotidiano lavoro, l’originale creatore di un’opera letteraria e il non meno originale e spericolato impostore. (I, 531)

La questione è di fondamentale importanza. Nel momento in cui l’impostura si svela come titanico tentativo di volgere il caos della storia in ordine della ragione, la vicenda del Vella acquista il significato di vero e proprio apologo sulle condizioni di possibilità della letteratura. Della natura anche metaletteraria del Consiglio, Sciascia non manca ironicamente di avvertirci, come quando piega lo stato d’animo dell’impostore a una pagina di Pirandello o di Diderot: l’abate si sentiva svuotato e stanco come un attore che ha tenuto ruolo principale in una commedia di successo: per sere e sere lo stesso personaggio, la stessa maschera. E non che fosse allucinato, smarrito, fluttuante nella doppia identità: ché tale stato d’animo non era stato ancora inventato; e anche se fosse stato in voga l’abate avrebbe ritenuto al suo temperamento e al suo caso più adatto il Paradoxe sur le comédien, allora ugualmente ignoto. (I, 588)

Sciascia, del resto, non cessa di sottolineare tutti quegli aspetti che si prestano a una più generale, benché allusiva, riflessione sull’arte in ogni sua dimensione, dal momento della creazione a quello della ricezione. E sono i passi di maggiore identificazione col personaggio. Vella, infatti, è prima di tutto un letterato che un impostore. O meglio: un impostore perché letterato, un letterato in quanto impostore. Si veda con quale piacere l’abate viva tutto ciò che ha a che fare con la scrittura, con quale voluttà disponga e metta in ordine «i diversi inchiostri», «le colle graduate per colore, intensità e tenacia», «i sottilissimi, trasparenti, lievemente verdicanti fogli d’oro», «le intatte risme di vecchia, pesante carta», «i calchi, le matrici, i crogioli, i metalli» (I, 506). E la letteratura nel suo studio, «antro di alchimia», si fa sensuale sofisticazione. Né si dovrà dimenticare, a complicare l’impo-

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stura, la letteratissima ambizione del Vella di mandare avanti una scuola su una lingua araba interamente creata da lui. Né bisognerà trascurare la sua particolare attitudine a leggere il libro del mondo con l’ausilio del mondo dei libri, cavandone più soddisfazione che dalla vita stessa: «Poesie come quelle del Meli, che cantavano le ciglia, gli occhi, le labbra, i seni e i nei delle più belle donne di Palermo, quasi gli davano più piacere che la vista di quelle stesse donne» (I, 521). Non stiamo esagerando. La conferma che la vocazione letteraria sia il primo vero e fondamentale movente dell’impostura l’abbiamo da un semplice fatto. Il Vella si autodenuncerà affinché la sua statura d’artista possa finalmente essere riconosciuta dal mondo intero: Il carcere davvero non gli faceva paura, era caduto in uno stato di assoluta indifferenza riguardo alle comodità e ai piaceri dell’esistenza: più forte era il gusto di offrire al mondo la rivelazione dell’impostura, della fantasia di cui nel Consiglio di Sicilia e nel Consiglio d’Egitto aveva dato luminosa prova. In lui, insomma, il letterato si era impennato, aveva preso la mano all’impostore. (I, 625-626)

Nel coro dei primi recensori del Consiglio, intenti a discutere dell’illuminismo di Sciascia, della sua maggiore o minore vocazione a una filosofia della storia progressiva e progressista, della sua decisa opposizione a Tormasi di Lampedusa, unica eccezione fu Filippo Cilluffo, osservando che il Vella poteva essere considerato un fratello minore di Don Chisciotte. Benché non siciliano, ma meritando di esserlo, l’abate aveva concepito i suoi codici come «un sogno sognato» da opporre a quel gran sogno che era la Sicilia: un sogno che «magicamente dà voce al silenzio storiografico di tanti secoli», ma «non più assurdo delle prammatiche da cui son fioriti i privilegi» della nobiltà siciliana. Il Vella, insomma, sopperiva alla mancanza di documenti creandoli, celebrando «se stesso, la propria coerenza, la propria dignità, la parte migliore di sé», e divenendo

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l’«eroe della forma», che «vuole essere smascherato», perché l’artificio si riveli in tutta la sua grandezza11. In questo senso, come ha osservato Aldo Budriesi, l’impresa dell’abate «è senz’altro il massimo concepibile in materia di sofisticazione letteraria», nella convinzione di Sciascia che una certa dose d’impostura sia però inevitabile in ogni opera d’arte12. Eccoci, dunque, al nodo del nostro discorso. Con il grande azzardo del Vella, con la sua scommessa tutta giuocata dal lato dell’arte per l’arte, Sciascia fornisce la prima e articolata esemplificazione di quella nozione di letteratura che abbiamo visto accennata in alcuni scritti dell’apprendistato e negli Zii di Sicilia. La letteratura, quella che non si asserve al Potere, non può essere ricondotta ai soli compiti di demistificazione ideologica. «Le cose non sono come sono» (I, 492), dice tra sé l’abate all’inizio del Consiglio: e un testo letterario può anche vivere come realtà in sé conchiusa, trascendente, ove possano pacificamente risolversi i contrasti della vita, medicarsi i dolori, sciogliersi le contraddizioni della natura e della storia, secondo un ordine razionale: magari nella luce della menzogna, ma di una menzogna che potrebbe coincidere con una forma di più profonda verità. Nell’impostura del Vella, e con effetti di incalcolabile importanza nella vicenda dello scrittore, le ragioni del vero finiscono ulteriormente per complicarsi: a tali ragioni aggiungendosi, aggrovigliandosi, quelle di «una superiore mistificazione che», come Sciascia scriveva in un saggio coevo, «è poi superiore verità» (I, 1045). Una domanda s’impone: qual è il rapporto del narratore col suo personaggio? In che misura la posizione del Vella coincide con quella dello scrittore? Molti sono i momenti di simpatia e complicità a cui seguono spesso scatti d’indignazione, e sem11.  F. Cilluffo, Leonardo Sciascia: cinque immagini della Sicilia, cit., pp. 87-88. 12.  A. Budriesi, Pigliari di lingua. Temi e forme della narrativa di Leonardo Sciascia, Effelle, Roma 1986, p. 155.

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pre in una lente d’ironia: «Ormai tutti lo chiamavano abate, e cominceremo a chiamarlo abate anche noi» (I, 543). Ma la risposta più vera ci sembra stia in un aspetto strutturale del romanzo: il duplice e inverso movimento del Vella in direzione del Di Blasi, del Di Blasi verso il Vella, nel senso di una reciproca accettazione e legittimazione. Quel Di Blasi che incarna i valori della ragione, autore di scritti illuministi, ispiratore di una rivoluzione abortita che gli varrà la morte. Quel Di Blasi con cui Sciascia s’identifica espressamente, come testimonia una spia testuale che rileva nel rivoluzionario un interesse per la poesia dialettale (I, 594), in modi che sono gli stessi dello scrittore, in quegli anni suggestionato dalle ipotesi gramsciane sulla poesia popolare. Dallo specchiarsi dell’un personaggio nell’altro, l’impostura del Vella sembra acquistare una più intensa e significativa luce. Non resta che disegnare l’arco di questo rapporto. Sin dall’inizio, il Vella subisce il fascino del Di Blasi, una forte attrazione «per la giovinezza […] e per quel che di diverso, di altro da sé, di ardore, di onestà, di chiarezza, riconosceva in lui: quasi una possibilità, remota e irrealizzata della propria vita» (I, 521). Una simpatia che implica, nella possibilità inattuata di un destino analogo a quello del Di Blasi, una identica aspirazione all’ordine e la chiarezza, alla ragione la libertà e la giustizia, mai prima intuita, e che inevitabilmente si riverbera sull’impostura. Ecco, infatti, l’abate trovarsi a sostenere con un invelenito Meli che il sentimento è un «elemento dell’uguaglianza», quasi sorpreso «per il consenso della sua mente», di solito disinteressata e sprezzante, «a un pensiero in cui non il proprio destino e la propria felicità ma il destino e la felicità di tutti gli uomini si specchiavano» (I, 528). O, magari, scoprire in sé stesso uno sdegno autentico per il viceré Lopez, «un uomo così gretto e feroce», in «un posto che per oltre dieci anni aveva visto occupato da uomini intelligenti, liberi, arguti, tolleranti» (I, 579). O, ancora, trovarsi a

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difendere il Di Blasi di fronte allo zio benedettino, con impeto quasi giacobino: «Per me repubblica e regno sono lo stesso brodo, la stessa soperchieria […]. Per la rivoluzione, ve lo confesso, ho invece un sentimento diverso: quel levati tu che mi ci metto io, che ci posso fare? mi piace… i potenti che vanno ad intanarsi e i miseri che fanno trionfo…» «… Le teste che cadono» aggiunse ironicamente il benedettino. «Beh, qualcuna…» disse l’abate senza scomporsi: e si sentiva come un ragazzo lanciato a far dispetto. «Qualcuna: e del resto a che serve una testa che non ragiona?». (I, 616)

E sono idee che sempre più si affollano nella mente del Vella, soprattutto quando lo coglie la dolorosa notizia dell’arresto del Di Blasi, delle torture da lui patite: La ferocia delle leggi, l’esistenza della tortura, le atroci esecuzioni di giustizia […] non avevano mai turbato i suoi sentimenti: li metteva in conto di eventi naturali o, a pensarci bene, li considerava come opere di correzione della natura […]. Sapeva che c’era un libro, di un certo Beccaria, contro la tortura […]. E conosceva le idee di Di Blasi in proposito. Ma ci sono tante belle idee che corrono per il mondo; solo che il verso delle cose è un altro, violento e disperato. Ora però, a figurarsi una persona che conosceva, un uomo per il quale aveva stima ed affetto, straziato dalla tortura e destinato alla forca, sentiva improvvisamente l’infamia di vivere dentro un mondo in cui la tortura e la forca appartenevano alla legge, alla giustizia. (I, 625)

L’avvicinarsi del Vella al Di Blasi coincide, dunque, con l’approdo dell’abate a un’idea di dignità, con il rifiuto fermo e appassionato della tortura. Un cammino compiuto fino al punto di inviare al Di Blasi, dalla cella ove Vella è ristretto, un estremo commiato in forma di pentimento, come a riconoscimento della superiorità morale del giacobino; un cammino patito dall’abate fino all’orrore e la disperazione, quando il giovane gli appare straziato e precocemente invecchiato,

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con i capelli bianchi, mentre sta per essere condotto a nuove torture: Mai si era trovato di fronte alla vita con tanto spavento. Ricordava certe storie di maligni fantasmi, di persone che alla loro presenza incanutivano: e che Di Blasi aveva visto l’uomo vivo mutarsi in un fantasma maligno. (I, 633-634)

Di eguale natura è l’avvicinamento del Di Blasi all’abate: al punto che l’avvocato finisce per mutarsi da strenuo difensore della verità in apologeta dell’impostura. La sua iniziale posizione nei confronti di ogni forma di inganno è durissima: «Non si può pretendere da un contadino la razionale fatica di un uomo senza contemporaneamente dargli il diritto ad essere uomo» (I, 593). Eppure, persino nei momenti di perplessità, la simpatia nei riguardi del Vella non viene mai meno, come quando, a una sua scherzosa richiesta di correggere il Consiglio d’Egitto a vantaggio della contessa sua amante, scopre l’abate disonestamente disposto a farlo: «ma restava comunque, umano e consolante, il fatto che un tale uomo ponesse un disinteressato sentimento al di là dell’impostura e del ricatto, che in nome dell’amicizia rinunciasse al piacere e al guadagno» (I, 541-542). O come quando, intuendo l’imbroglio, subito dopo che l’abate, in una pubblica conferenza, ha trionfato su un suo implacabile accusatore, rinuncia a smascherarlo. E si tratta di una simpatia destinata a tradursi in sottile complicità: di concezione sensualistica dell’esistenza, di coscienza della comune superiorità quanto a ingegno e coraggio, di intuizione rapida che ognuno ha dell’essere dell’altro sotto la scorza dell’apparire, nel segno di una eguale solitudine di uomini di fronte all’ingiustizia e al sopruso. E proprio Di Blasi, infatti, fautore di una scrittura come forma di demistificazione ideologica, di contro all’arcade Meli e al reazionario marchese di Villabianca, a formulare il più audace apprezzamento dell’ope­ra del Vella: «Se Dio non dà un soffio ai codici dell’abate Vella» pensò l’avvocato «ho paura che va a finir male […]». «E certo, se

126 davvero li ha tirati fuori dal nulla, quella dell’abate è una delle più grandi fantasie del secolo… Ma gli ci vuole il soffio che li faccia autentici, il miracolo dell’acqua che diventa vino…». Sorrideva di questi pensieri, e un po’ di sé stesso. C’era cascato anche lui. Ma non se ne faceva un dramma. (I, 586)

Quella del Vella appare al Di Blasi come un’impresa memorabile, la più alta del secolo quanto a fantasia, frutto di un artista grande perché pura «come opera d’arte, d’invenzione, di creazione», esito supremo di quel «pensare per immagini» che, con ripugnanza, scopriva sempre più spesso come proprio. E con ripugnanza, perché germinato dalla menzogna: «La menzogna è più forte della verità. Più forte della vita. Sta alle radici dell’essere, frondeggia al di là della vita». L’oscuro stormire degli alberi lungo la strada di San Martino si propagò alle più oscure fronde della menzogna. «Le radici, le fronde!»: con disgusto spesso si sorprendeva a pensare per immagini. (I, 586)

E si tratta di menzogna che dirama così potentemente dalle radici della vita, che per un attimo sembra travolgere anche la sua fede in quei filosofi che per l’umana emancipazione avevano vissuto: «Se hai creduto in Rousseau, è giusto che tu ne veda il contrappasso nell’abate Vella». Solo una battuta, ma che annuncia qualcosa di più «di un inciampo improvviso», «un urto imprevedibile» (I, 587). Il disgusto per la menzogna, infatti, scomparirà del tutto dopo il fallimento della rivoluzione, nella drammatica scoperta che nulla possono i libri contro l’irrazionalità della vita, la violenza del Potere, e nella estrema, drammatica, certezza d’aver tramato con il Vella, da opposta sponda, eguale impostura. E proprio nei momenti della tortura che questa verità gli si rivela in tutta la sua evidenza, nella stima ormai incondizionata per l’abate: L’abate Vella. «Ha declinato a suo modo l’impostura della vita; allegramente… Non l’impostura della vita: l’impostura che è nella vita… Non nella vita… Ma sì, anche nella vita…».

127 I pensieri gli si fondevano nello svampare della febbre. «È stata un’impostura anche la tua, una tragica impostura». (I, 621)

«Quella del Di Blasi è una coscienza che si spinge ormai, senza più remore, alle soglie di una disperazione esistenziale. Ha osservato Ambroise: «Se c’è un’impostura nella vita, se la vita stessa è impostura, Sciascia nei suoi scritti, ne è, sulla linea di Montaigne e della tradizione dei moralisti, il saggiatore» (I, XXVI). Ma riflettiamo sul fatto che proprio a uno dei personaggi più intransigenti, quanto a fede illuministica, lo scrittore affidi il compito di aprire una breccia nel suo razionalismo, la breccia in cui si farà strada il pessimismo, lo scetticismo e la laica religiosità della sua tarda maturità. Se le cose stanno così, se Vella e Di Blasi sono anche vicari di quelle due idee di letteratura che hanno, in diversa misura, sin qui attraversato l’opera di Sciascia, la finale identificazione del Di Blasi col Vella, quanto a impostura, non può che assumere grande valore. Per la prima volta, dagli anni dell’apprendistato, le ragioni di una trascendente ricomposizione delle contraddizioni della vita, all’incrocio di un metafisico sgomento, e quelle di una civile testimonianza di verità, acquistano pari dignità. Il Vella e il Di Blasi, infatti, non sono altro che le facce di uno stesso Giano bifronte: a darci una felice e originale variazione del tema del «doppio» (tema che si complica e articola nel rapporto dell’abate con i suoi due inesorabili avversari: don Rosario Gregorio e il dotto Hager), variazione che bisognerebbe decidersi ad affiancare a quella di un pur lontano Schnitzler e, con maggior ragione, a quella quasi coeva di Borges. Come i due teologi borghesiani, in un racconto che Sciascia ben conosceva, Vella e Di Blasi potrebbero essere confusi l’uno con l’altro da un Dio imperscrutabile. Un Dio che nell’opera di Sciascia ha il volto inquietante e cupo della Storia. Si legga questo passo che ci pare chiarisca, inequivocabilmente, il rapporto dello scrittore con i suoi personaggi. Di Blasi è sotto tortura:

128 «Questo non deve accadere a un uomo» pensò: e che non sarebbe più accaduto nel mondo illuminato dalla ragione. (E la disperazione avrebbe accompagnato le sue ultime ore di vita se soltanto avesse avuto il presentimento che in quell’avvenire che vedeva luminoso popoli interi si sarebbero votati a torturarne altri; che uomini pieni di cultura e di musica, esemplari nell’amore familiare e rispettosi degli animali, avrebbero distrutto milioni di altri esseri umani: con implacabile metodo, con efferata scienza della tortura; e che persino i più diretti eredi della ragione avrebbero riportato la questione nel mondo: e non più come elemento del diritto, quale almeno era nel momento in cui lui la subiva, ma addirittura come elemento dell’esistenza). (I, 636)

In questa inserzione del narratore, la speranza del Di Blasi viene azzerata con un solo colpo di penna, nella prefigurazione degli atroci eventi che si succederanno sul palcoscenico del mondo, nella radicale assenza di ogni progresso morale. Sciascia interviene direttamente, come per inciso, a disegnare il vasto scenario entro cui si svolge una secolare vicenda: e nel segno di una drastica svalutazione della storia, crocevia di violenze e orrori, perpetrati talvolta nel nome della ragione. È la stessa idea che della storia ha illustrato il Vella per giustificare l’impostura. Ma quel che più colpisce è l’inciso «persino i più diretti eredi della ragione avrebbero riportato la questione nel mondo»: ove pare si riecheggi, non sappiamo quanto consapevolmente, una tesi familiare agli Horkheimer e Adorno di Dialettica dell’illuminismo, in cui si sosteneva che i campi di sterminio nazisti fossero il risultato ultimo di un processo ideologico iniziato con Bacone e Galileo: un libro che, nella condanna della ragione empiristica e pragmatica, nella scomunica della scienza e della tecnologia, si pone agli antipodi della tradizione illuministica. Del resto, come rivela Pirandello e la Sicilia (I, 1130-1132), Sciascia conosceva La distruzione della ragione di Lukács, padre spirituale dei francofortesi, opera in cui si indicava già nel pensiero scientifico moderno l’origine

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dell’irrazionalismo contemporaneo. Certo, lo scrittore siciliano, nella sua programmatica asistematicità, non farà mai del tutto propria questa impostazione filosofica, anche se la sfiorerà, come nella Scomparsa di Majorana. Ma ciò ci pare sufficiente a rendere quanto meno problematico il neo-illuminismo così caro a tanti suoi critici. Questi sono dunque gli esiti del Consiglio: altro che «antigattopardo», come rivelava Vigorelli in una recensione13, seguito da tanti altri. Il sentimento della storia è, infatti, molto simile in Sciascia e Tomasi, i quali, pur da posizioni molto distanti, sembrano affermare la dignità etica dell’individuo sul guazzabuglio dei secoli. Per dirla con Giuseppe Giarrizzo, «il più storico dei suoi romanzi non è mai un romanzo storico»14, e questo perché Sciascia utilizza il romanzo storico per fuoriuscire dalla storia. E in tale quadro ideologico che vanno lette le pagine del supplizio del Di Blasi, quelle che descrivono lo strazio del corpo, l’eroica resistenza del pensiero, il pubblico spettacolo della condanna a morte: momenti alti di quella meditazione sul Potere che Sciascia va conducendo in questi anni Sessanta. Anche in questo frangente, il rapporto Di Blasi-Vella può fornirci il filo rosso per dipanare un discorso che nel Consiglio si risolve in una sorta di fenomenologia dell’esistenza materiale. È il corpo, infatti, a registrare il diverso status che un uomo assume di fronte al Potere, vittima o carnefice che sia. I corpi vivono, godono, soffrono secondo una sintassi che è il Potere a istituire. Se l’abate suggella la sua gloria e il suo potere con un bagno in cui il corpo diventa «spuma di sensazioni», nel peccaminoso vagheggiamento dello sguardo di una donna (I, 589), 13.  G. Vigorelli, L’antigattopardo (1963), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 281-282. 14.  G. Giarrizzo, «Tutta un’impostura. La storia non esiste…», in Aa. Vv., La teatralità nelle opere di Leonardo Sciascia, Assessorato regionale ai beni culturali, Palermo 1987, pp. 5-12: p. 10.

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l’avvocato paga con il patimento estremo della tortura, quello che dà «assoluta forma» alla solitudine di un uomo, il fatto di essersi opposto all’ordine costituito, di averlo negato. Il Potere può accettare tutto, anche l’impostura dei falsi codici, ma non il delitto di lesa maestà: «Hai scritto che la tortura è contro il diritto, contro la ragione, contro l’uomo: ma su quello che hai scritto resterebbe l’ombra della vergogna se tu non resistessi… Alla domanda quid est quaestio? hai risposto in nome della ragione, della dignità: ora devi rispondere col tuo corpo, soffrirla nella carne, nelle ossa, nei nervi» […]. Il dolore colava nella sua mente come inchiostro, ad accecarla. Il suo corpo era un contorto tralcio di vite, una vite di dolore: grave di racimoli, incommensurabile. I racimoli di sangue, l’oscuro sangue dell’uomo. «Nella tortura l’uomo perde la nozione del proprio corpo: tu non lo riconosceresti più, il tuo corpo, nelle tavole del Vesalio, nella iatrapologia dell’Ingrassia; e tanto meno nella creazione d’Adamo che è in Monreale. Il tuo corpo non ha più niente d’umano: è un albero di sangue… Bisognerebbe farla provare ai teologi, ché finalmente capiscano che la tortura è contro Dio, che devasta l’immagine di Dio che è nell’uomo…». (I, 609)

A proposito di questo passo e altri consimili, Ambroise nota che «tra il martire di qualsiasi chiesa, anche laica, e l’istituzione, esiste una complicità al di là del dissenso: ambedue credono che ha senso il patire, morte inclusa». Ma l’eroe di Sciascia non crede «nella positività della sofferenza», sa che il martirio non riscatta da nulla. Scontrandosi con il Potere, egli nega fino in fondo l’ideologia della «Passione» che di quel Potere è espressione: «nessun ideale, per quanto giusto […], deve poter giustificare, dar senso positivo al supplizio», perché la ragione «non ha bisogno di redentori». Il torturato non ha più alcuna dignità, ma diventa il protagonista di una liturgia del Potere sempre uguale a sé stessa. Di Blasi, invece, quella dignità riafferma fino allo stremo delle forze, e cerca di parlare all’inquisitore da uomo a uomo. Chiosa Ambroise: «L’istitu-

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zione lo sa e niente più della pretesa a parlare da uomo a uomo fa inorridire il giudice»15. Come si vede bene, a Sciascia interessa la perenne tragedia del Potere, i suoi connotati metastorici più che storici, la sua grammatica, come collocandosi in uno spazio teorico che appartiene più al Foucault di Sorvegliare e punire e al Barthes di Sade, Fourier, Loyola, che ai filosofi neo-illuministi. Nel fuoco della sua tersa lente balza subito il territorio ove si affrontano libertà e coercizione, sul quale può esercitarsi la coscienza morale di un pirandelliano «uomo solo». Ai suoi personaggi non si danno altre alternative: da una parte c’è la libertà dell’individuo che, come ha scritto Giarrizzo, «non è la proiezione creativa dell’agire», ma «lo spazio disperatamente conteso al potere»16, dall’altra sta invece il grande e misterioso Leviatano, che diventa visibile grazie a una vasta folla di emissari: il viceré, i nobili, l’arcivescovo, il prete, il giudice, lo sbirro, il delatore, il boia. Della macchina del Potere si possono conoscere molti degli ingranaggi, mai la sua legge semplice e definitiva. Certi sono soltanto i suoi cerimoniali. Ecco perché la dimensione in cui il Potere meglio si rivela è eminentemente teatrale, come nel caso della decapitazione del Di Blasi, in una sorta di collettiva «contemplazione della morte»: Il palco era addobbato di nero, c’erano pronte le nere candele che sarebbero state accese intorno al suo cadavere. Avevano apparato la morte in condecenza del suo rango. C’era anche il servo in livrea, la livrea di lutto della sua casa, che teneva in mano il grande bacile d’argento in cui la sua testa sarebbe caduta. (I, 640)

Questo tema, che occupa le pagine finali del Consiglio, è invece centrale in Morte dell’inquisitore, pubblicato da Laterza 15.  C. Ambroise, La Passione, cit., pp. 133-134. 16.  G. Giarrizzo, «Tutta un’impostura. La storia non esiste…», cit., p. 11.

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nel 1964, opera che, per altro, nasce in margine alle stesse ricerche storiche condotte sulla congiura giacobina (S.M., 69). Fondamentale è l’incontro di Sciascia con il concittadino Diego La Matina, uomo di «tenace concetto» (I, 697), battezzato nel 1622 e condannato al rogo nel 1658 per aver ucciso, benché in catene, l’Inquisitore del Regno di Sicilia don Juan Lopez Cisneros, dopo esser stato due volte imprigionato per un’eresia «più sociale che teologica» (I, 673), forse «un’opinione contro la proprietà» (I, 671). Considerato da Sciascia il libro più caro, almeno fino alla Scomparsa di Majorana, «quia imperfectum» (S.M., 76), nella speranza, che si rivelerà fallace, di poter scoprire un giorno un documento a sciogliere i nodi ancora irrisolti della vicenda, Morte dell’inquisitore ci pare assommare altre caratteristiche, tali da giustificare ulteriormente questa preferenza dell’autore. Diego La Matina, uomo indomabile, di «complessione gigantesca» e di «forza fisica enorme» (I, 676), è infatti colui che ha provato fino al parossismo lo scandalo dell’ingiustizia, e del Potere che la perpetua, tenendo alta «la dignità e l’onore dell’uomo, la forza del pensiero, la tenacia della volontà, la vittoria della libertà» (I, 685) di contro alla più atroce e allucinante espressione dell’intolleranza umana: l’Inquisizione. In tal senso, quest’uomo sembra ricapitolare tutti gli eroi sciasciani, e insieme preconizzarli: ad auspicio che l’Inquisitore, in un futuro non sappiamo quanto prossimo, possa essere ucciso per sempre. La ristampa di questo libro insieme alle Parrocchie ha un significato chiaro. Non segnala soltanto il primato del paese natale in entrambe le opere, ma autorizza a leggere la Regalpetra-Racalmuto di oggi alla luce dello sconfitto eroe della ragione di ieri. Di qui, l’identificazione totale con Diego La Matina: «Un’immagine che ci dà commozione ed orgoglio: e come uomini liberi e come tardi concittadini di fra Diego» (I, 689). La vicenda di quest’uomo è l’occasione per resuscitare dalla notte della storia un popolo di dispersi che reclama

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pietà, prima che il tempo non ne stinga del tutto l’immagine nella memoria: E mi hanno accompagnato in questo lavoro […] i ricordi: di persone amate e stimate, della mia famiglia e del mio paese, che ora non sono più. Uomini, direbbe il Matranga, di tenace concetto: testardi, inflessibili, capaci di sopportare enormi quantità di sofferenza, di sacrificio. Ed ho scritto di fra Diego come di uno di loro: eretici non di fronte alla religione (che a loro modo l’osservavano e non l’osservavano) ma di fronte alla vita. (I, 716)

Siamo a un passo rivelatore, nella constatazione che dietro il risentimento etico e civile di Sciascia si avverta un più profondo disagio esistenziale. Una constatazione che trova conferma vistosa quando lo scrittore si trova a commentare l’affermazione eretica di fra Diego «Dio è ingiusto». E si tratta di un commento che getta nuova luce sul significato da dare a quell’eresia «di fronte alla vita» di alcuni abitanti di Racalmuto: E par facile poter formulare l’ipotesi che dalla rivolta contro l’ingiustizia sociale, contro l’iniquità, contro l’usurpazione dei beni e dei diritti, egli sia pervenuto, nel momento in cui vedeva irrimediabile e senza speranza la propria sconfitta, e identificando il proprio destino con il destino dell’uomo, la propria tragedia con la tragedia dell’esistenza, ad accusare Dio. (I, 700)

Non si può non registrare la nota di pessimismo ontologico che vibra nella vicenda di fra Diego, per ora da leggere come retrosuono del pessimismo storico di Sciascia. Ma non tarderemo a riconoscervi, con gli anni, la vera radice metafisica del suo impegno etico-politico controvoglia. Con Morte dell’inquisitore, dunque, Sciascia risale ancora più indietro nella storia dell’isola, per misurarvi di nuovo le possibilità della giustizia, per risperimentarvi la sconfitta della ragione. Questa volta, però, attenendosi al «vero» e all’«utile» dei documenti, rinunciando per il momento all’«interessante» di

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una narrazione romanzesca. Il modello è la Storia della colonna infame, nella consapevolezza che, come scrisse anni dopo, «il passato, il suo errore, il suo male, non è mai passato», di qui la necessità di continuare a viverlo e giudicarlo (II, 1073). Il luogo in cui si gioca la battaglia tra verità ed errore, bene e male, è di nuovo la scrittura. Per ricostruire e riscattare la vicenda del suo concittadino, Sciascia muove da un’opera letteraria. Fra Diego La Matina, di William Galt, non senza riferimento polemico all’apologia che Eugenio D’Ors fa dell’inquisizione in Epos de los destinos. Di che temperie fossero i romanzi popolari di Galt è lo stesso Sciascia a dircelo in un saggio apparso su «Letteratura» nel 1953: Sequenza di notturni agguati e fughe; una scienza araldica non priva di fascino, una conoscenza non di seconda mano della Palermo settecentesca […] in una chiave di scadente dialettalità, e poi una nota di popolaresco giacobinismo, smorzato da un evidente vagheggiamento del mondo nobiliare, una intenzione di realismo alquanto movimentata e vivace.17

Se questi sono gli ingredienti, a cui si devono aggiungere la sostanziale irreligiosità, l’«antico materialismo del popolo siciliano» (I, 659), il suo sentimento della roba e dell’onore, non sorprenderà scoprire nel fra Diego di Galt «un puro di cuore che lotta per affrancare una donna e un bambino, cui è legato da vincoli di sangue e di affetto, dalla schiavitù tutoria» (I, 667). Restituendo a Diego La Matina le sue reali fattezze, la sua grande dignità, Sciascia conferma quella sua nozione di letteratura come pratica di demistificazione ideologica, qui riscrivendo, contro-scrivendo, l’opera letteraria in cui la vicenda del frate si sviluppava nel segno della menzogna. Abbiamo ormai tutti gli elementi per definire compiutamente il rapporto che Sciascia istituisce con la Storia. Se essa, come 17.  L. Sciascia, Memoria di William Galt, cit., p. 63.

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abbiamo visto, è caos e guazzabuglio, accumulo di reperti ideologici, perché lo scrittore si ostina a rivisitarla? La risposta, ci pare, passa ancora una volta per una certa idea di letteratura e per un preciso atteggiamento morale. Ha notato Budriesi che ogni ricostruzione storica dello scrittore si presenta come un «atto emendatorio» nei confronti di una mistificazione letteraria, prima che ideologica, che ha «ucciso» il messaggio e con esso l’uomo che ce lo affidava in una bottiglia dall’oceano silenzioso dei secoli. Lo storico retto e scrupoloso, «come il buon detective, deve fare luce su questo “delitto” interpretativo, individuando il responsabile, evitando le sue trappole (i suoi condizionamenti) e arrivando infine a ristabilire i diritti di quella vittima che è stato il senso assassinato»18. Ma, occorre aggiungere, la controparte di questa guerra che si combatte nel dominio della letteratura è il Potere. Di esso, dunque, bisognerà delineare la sintassi, che non regola soltanto i rapporti tra individui e istituzioni, ma tutti i linguaggi che vittime e carnefici sono costretti a parlare, tutti i riti e le cerimonie che persecutori e perseguitati si trovano a interpretare. Non stupirà perciò trovare in Morte dell’inquisitore la puntuale trascrizione di un verbale di tortura (I, 678-679); una particolareggiata descrizione de lu cuddaru (I, 662), arnese carissimo al boia; un minuzioso racconto del magnificente «Spettacolo generale di Fede» (I, 683) che prepara la morte di Diego La Matina. L’indulgenza di Sciascia nei confronti di procedure e cerimoniali barocchi non è fine a sé stessa, perché è in questi aspetti che meglio si mostra il volto enigmatico del terribile Leviatano. Morte dell’inquisitore è, dunque, un capitolo importante di quella microfisica del Potere che occupa e preoccupa Sciascia negli anni Sessanta e Settanta, e che sem18.  A. Budriesi, Pigliari di lingua, cit., pp. 140-141. Su Sciascia e la storia vedi anche il saggio Sciascia e la storia di T. Vittorio, in Z. Pecoraro - E. Scrivano (a cura di), Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., pp. 69-82.

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bra trovare i suoi momenti culminanti nel Contesto, in Todo modo e nell’Affaire Moro.

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Capitolo IV

Per una controstoria d’Italia letteraria e civile 1961-1969

Nel 1961 appare Il giorno della civetta, romanzo ispirato all’assassinio del sindacalista comunista Miraglia, avvenuto nel gennaio del ’47 (S.M., 69). Non a caso, ne abbiamo posposto l’analisi a questo capitolo. Con tale opera, di grande fortuna critica ed editoriale, Sciascia apre la serie dei gialli d’ambientazione contemporanea, secondo una tecnica che contrassegnerà la sua narrativa fino alla metà degli anni Settanta, per ricaratterizzarla poi negli ultimi anni di vita. Se partiamo dalla definizione di romanzo poliziesco di Giuseppe Petronio, «racconto, più o meno ampio e circostanziato, di un delitto, per lo più un omicidio, e delle indagini che qualcuno compie a risolvere il mistero, fino alla soluzione del caso»1, ci si rende subito conto che il delitto narrato matura in Sicilia per responsabilità della mafia, un fenomeno che già nel 1957, in un saggio poi confluito in Pirandello e la Sicilia, lo scrittore aveva definito come «associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce,

1.  G. Petronio (a cura di), Il punto su: Il romanzo poliziesco, Laterza, Roma-Bari 1985, p. 17.

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parassitaria e imposta con, mezzi di violenza» (III, 1174). Una novità, questa, di non poco conto: e non soltanto nel quadro delle detective stories, o nel più vasto campo della letteratura italiana, come Sciascia orgogliosamente rivendicò nell’introduzione a Futura memoria (1989) pochi giorni prima della morte (III, 769), ma nella storia stessa della società italiana, se è vero che la Commissione antimafia sarebbe stata istituita soltanto nel 1963. Prima di passare al romanzo, non sarà inutile esaminare alcune note di Sciascia sul giallo, a testimonianza di un interesse antico e a lungo meditato. In un articolo del 1953 pubblicato su «Letteratura», con riferimento al «sottobosco letterario» che cominciava a essere esplorato «con spregiudicatezza e intelligenza», Sciascia ravvisava nel giallo «la zona più interessante […], quella che riserva le sorprese più autentiche»2. Non distinguendo fra thriller e romanzo poliziesco, prendeva senz’altro partito per il «rompicapo o puzzle narrativo», richiamandosi ad autori come Poe, Collins, Conan Doyle, Hammett, Chandler, Christie, Gadda3 e Soldati, in opposizione a «quel sommario di gratuite atrocità e di ancor più gratuite rappresentazioni erotiche», che avevano trovato consacrazione nei libri di Spillane. Più significativo lo scritto che appare su «Nuova Corrente» nel 1954. Sciascia si chiedeva: la letteratura gratuita del terrore e del crimine è una manifestazione moderna del sentimento del sacro? Non è, ecco 2.  L. Sciascia, Letteratura del giallo, in «Letteratura», I, n. 3, 1953, pp. 6567: p. 65. 3.  Non sarà inutile osservare che, nonostante il positivo giudizio su Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Sciascia non sembra intuirne ancora la forte valenza innovativa, se si augurava che Gadda potesse sciogliere il giallo. Bisognerà attendere il saggio Breve storia del romanzo poliziesco, raccolto in Cruciverba (1983), perché lo scrittore ne abbia diverso e più esatto intendimento: «Ci basta ora finire con Gadda: che ha scritto il più assoluto “giallo” che sia mai stato scritto, un “giallo” senza soluzione» (II, 1196).

139 il punto, una letteratura in cui sotto apparenze coscienti e logiche, sotto un giuoco di schematizzazione intellettuale, si ricreano gli inconsci processi del totem e del tabù? E non è il giallo, in quanto letteratura di nevrosi (nevrosi di una società che ha perduto il gusto del sacro…), suscettibile di offrirci queste freudiane concordanze?

Perché il delitto contro la società, col fine di sovvertire ordine ed equilibrio, provoca nel lettore ambivalenti sentimenti: da un lato, «una superstitio totemica per cui ci scostiamo da colui che ha osato delinquere e chiediamo che mura e sbarre lo separino da noi, lo facciano tabù nel senso della impurità»; dall’altro, «un senso di ammirazione, appunto perché ha osato infrangere il divieto, che fa il delinquente tabù nel senso del sacro». Questa ambivalenza emotiva sarebbe, secondo Sciascia, la principale attrattiva del giallo4. Si tratta di notazioni illuminanti. Sciascia sembra spinto in direzione del romanzo poliziesco da una particolare idea del Potere, inteso come dominio del totem e del tabù, spazio inaccessibile e misteriosamente circonfuso da un alone sacrale. E Il giallo pare consentire, in termini logici e razionali, la possibilità di tradurre narrativamente i processi simbolici e psichici su cui tale Potere si fonda. Non è casuale il fatto che lo scrittore sia attratto da autori che della detection hanno fatto un uso assai eterodosso. Ecco, allora, nel 1952, l’elogio della tecnica poliziesca di Soldati, capace di «caricare» la realtà «fino ad assumerla in un’aria metafisica»5, o, nel ’55, la nota su Borges in cui si ravvisa la tendenza dello scrittore a fare il racconto poliziesco con una materia filologica6. È in questo contesto teorico-critico che deve essere interpretato Il giorno della civetta.

4.  L. Sciascia, Appunti sul «giallo», cit., pp. 25-26. 5.  L. S.[ciascia], recensione a M. Soldati, A cena col commendatore, in «Galleria», III, n. 1, 1952-1953, p. 55. 6.  L. Sciascia, Le «invenzioni» di Borges, in «Gazzetta di Parma», 22 dicembre 1955.

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Questi i fatti: in un paese della Sicilia interna, un certo Colasberna viene ucciso mentre sale sull’autobus per Palermo. Lo stesso giorno e alla stessa ora tale Nicolosi, probabile testimone dell’omicidio, scompare senza lasciare traccia. L’indagine, svolta sul versante della speculazione edilizia e degli interessi mafiosi, conduce il capitano Bellodi, non senza che altro sangue venga versato, a individuare i moventi e arrestare esecutori e mandanti: risultato però vanificato dalle contromosse di una mafia forte di appoggi politici ai massimi livelli istituzionali. Quel che subito colpisce, quanto a novità nell’ambito del genere poliziesco, è la focalizzazione del contesto in cui l’omicidio avviene. Nel momento in cui i due colpi squarciano l’aria, una cappa d’omertà e di terrore cala sui testimoni. Non a caso Sciascia sceglie come punto di vista privilegiato di questa prima scena un bigliettaio siracusano, e perciò poco avvezzo ai mort’ammazzati: «una stupida provincia, quella di Siracusa». Il fatto di provenire, infatti, da una provincia babba7, e cioè bonaria e ingenua, in quanto tradizionalmente non mafiosa, conferisce al personaggio un candore che gli consente di ravvisare in quella raggelante atmosfera, un dato tutt’altro che ovvio e naturale. Arrivano i carabinieri, con il maresciallo 7.  Più precisamente, il termine babba veniva impiegato per caratterizzare Finterà Sicilia orientale, con particolare riferimento alle province di Siracusa e Ragusa. Non privo di segrete risonanze, per altro, è qui il richiamo a Siracusa, la città in cui è vissuto Quasimodo, come a segnalare, con una diversa Sicilia, una differente anagrafe isolana, di cui il poeta modicano, in quel 1961, poteva sembrare il principale esponente. Tanti nomi di poeti e narratori si potrebbero registrare in tale anagrafe. In questi ultimi anni Bufalino, più di altri, ci ha raccontato di questa Sicilia babba in opere come Museo d’ombre (1982) e Argo il cieco, ovvero i sogni della memoria (1984). A spiegarci meglio la differenza tra la sua isola e quella di Sciascia, così si esprimeva: «Quella ai Sciascia è una Sicilia di zolfi e lupare, tragica, vestita di nero. La mia è quella ionica, del carrubo, della lava e del miele»: cfr. M. Onofri, Gesualdo Bufalino: autoritratto con personaggio, in «Nuove Effemeridi», V, n. 18, 1992, pp. 17-33: p. 22.

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«nero di barba e di sonno» (I, 392): ma è vano il tentativo di interrogare i testimoni, quasi tutti dileguatisi. L’immagine della Sicilia che si palesa è la stessa che emerge da Pirandello e il pirandellismo, Pirandello e la Sicilia e La corda pazza. Un’immagine che, nel romanzo, accomuna siciliani di ogni estrazione, ma che si disegna più nitidamente, vero fondale di ogni scena, nelle conversazioni di oscure Eminenze circa l’indagine del capitano Bellodi. Questa, per esempio, l’idea di mafia che una non nominata Eccellenza espone a due interlocutori, dopo che ha definito il capitano come uno di quei settentrionali, pieni di pregiudizi, che vedono mafia ovunque (I, 410): «Voi ci credete alla mafia?» «Ecco…» «E voi?» «Non ci credo». «Bravissimo. Noi due, siciliani, alla mafia non ci crediamo: questo, a voi che a quanto pare ci credete, dovrebbe dire qualcosa. Ma vi capisco: non siete siciliano, e i pregiudizi sono duri a morire. Col tempo vi convincerete che è tutta una montatura. Ma intanto, per carità, seguite attentamente le indagini di questo Bellodi». (I, 411-412)

Più interessante ancora, sembra il discorso che la stessa Eccellenza tiene a un alto ufficiale dei carabinieri dopo l’arresto di don Mariano Arena, indicato come capomafia «dalla voce pubblica». La requisitoria dell’Eccellenza è lucida e rigorosa: «La voce pubblica… Ma che cos’è la voce pubblica? Una voce nell’aria, una voce dell’aria […] Una voce anche la mafia: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa […] Sapete come diceva Vittorio Emanuele Orlando?». E di fronte all’ostinazione dell’interlocutore: «Ma il siciliano che io sono, e l’uomo ragionevole che presumo di essere, si ribellano a questa ingiustizia verso la Sicilia, a questa offesa alla ragione. […] Ditemi voi se è possibile concepire l’esistenza di una associazione criminale così vasta ed organizzata, così segreta, così potente da domina-

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re […] addirittura gli Stati Uniti d’America». Fare poi di don Mariano, padre di famiglia esemplare, il capo di tale organizzazione è cosa del tutto incredibile: «E c’è una cosa che non sapete: questi uomini, che la voce pubblica vi indica come capi mafia, hanno una qualità che io mi augurerei di trovare in ogni uomo […]: il senso della giustizia». La mafia, la cui esistenza in nessun processo è stata mai dimostrata, può al massimo definirsi «una associazione di segreto mutuo soccorso, né più né meno che la massoneria», ispirata da «un uomo di pace» che, in «un certo senso, viene ad amministrare giustizia», facilitando e semplificando i compiti dello Stato (I, 432-435). Come si vede, il primo obiettivo di Sciascia pare quello di portare alla ribalta il retroterra culturale su cui la mafia cresce, il peculiare sentimento pre-mafioso e proto-mafioso di tanti che mafiosi non sono, ma che oggettivamente la mafia favoriscono. Di tale «sentimento mafioso» lo scrittore darà precisa descrizione in un articolo apparso su «L’Ora» l’11 ottobre 1965, dedicato al libro di Antonino Uccello Carcere e mafia nei canti popolari siciliani. Questa la sua caratterizzazione: la repugnanza a ricorrere alla giustizia penale anche per affermare il proprio diritto […] e anche per difendere la propria sicurezza; l’omertà; la tendenza ad operare di persona o per segreti tramiti ai fini della vendetta o del risarcimento; lo scarso rispetto per l’altrui proprietà; l’inclinazione a corrompere i pubblici poteri […], la pietà familiare e l’amicizia spinte agli estremi; il disprezzo verso il traditore, il delatore, lo sbirro che a volte si estrinseca nella punizione e più spesso, specie nei riguardi dello sbirro, in un distacco di «fair play». (Q., 117-118)

Lasciamo per ora cadere il fatto che Sciascia, raccordando in questi termini mafia e background culturale, abbia presupposto come modello interpretativo la celebre inchiesta Franchetti-Sonnino. Qui conta sottolineare un’altra questione. Nella definizione di tale «sentimento», lo scrittore ha senz’altro presente una peculiare ideologia, volta alla definizione di un’im-

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magine della Sicilia che la classe dirigente isolana ha sempre opposto ai propri detrattori nei momenti di difficoltà politica, e che è stata rigorosamente formalizzata in tanta pubblicistica e in molte opere letterarie: l’ideologia del «sicilianismo»8, come si ricava, non solo da tanti passi del romanzo, ma da numerosi interventi dello scrittore sull’argomento, dall’articolo su «L’Ora» del 6 novembre 1965 dedicato alla commedia di Rizzotto e Mosca, I mafiusi di la Vicaria (1863), di cui scriverà un interessante rifacimento, fino ai saggi La Sicilia nel cinema (1963) e Brigantaggio napoletano e mafia siciliana (1968), poi raccolti nella Corda pazza, per non dire del memorabile Letteratura e mafia (1964) ristampato in Cruciverba. Non resta, allora, che accennare ad alcuni capitoli della storia di tale «sicilianismo», oltre la già segnalata commedia di Rizzotto e Mosca. Certamente, i due volumi di Luigi Capuana La Sicilia e il brigantaggio (1892), L’isola del sole (1898), quindi la commedia La Mafia (1921) di Giovanni Alfredo Cesareo, ma, soprattutto, Usi e costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano (1889) di Giuseppe Pitré, che della mafia ridotta a «sentire mafioso» aveva fatto quasi apologia, così definendola: La mafia non è setta né associazione, non ha regolamenti né statuti. […] Si metta insieme e si confonda un po’ di sicurtà d’animo, di baldanza, di braveria, di valentia, di prepotenza, e si avrà qualcosa che arieggia la mafia, senza però costituirla […]. Il mafioso non è un ladro, non è un malandrino […] la mafia è la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto della forza individuale, l’unica sola arbitra di ogni contrasto, di ogni urto di interessi e di idee; donde la insofferenza della superiorità, e peggio ancora, della prepotenza altrui.9

8.  Cfr., almeno, G. Giarrizzo, Mezzogiorno senza meridionalismo, Marsilio, Venezia 1992. 9.  Cfr. P. Pezzino, Stato violenza società. Nascita e sviluppo del paradigma mafioso, in M. Aymard - G. Giarrizzo (a cura di), Storia d’Italia. Le regio-

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Sono concetti, questi, che bruceranno nell’infiammato discorso di Vittorio Emanuele Orlando, che nel passo citato l’Eccellenza ricordava, tenuto in occasione delle elezioni amministrative dell’agosto 1925, vera summa del «sicilianismo» politico10. È dunque questo il contesto11 che si disvela a Bellodi, uomo del Nord, ma soprattutto ex partigiano: un personaggio di estrazione azionista e di fede democratica che meglio garantisca, come a sortire un effetto straniarne, un giudizio fermo e spassionato sulla realtà rappresentata, una decisa presa di distanza da quel nucleo di valori e sentimenti che Sciascia ha stretto nel concetto di «sentire mafioso». La sua ideologia è nitida e ni dall’Unità a oggi. La Sicilia, Einaudi, Torino 1987, pp. 903-982: p. 926. Ha giustamente osservato Paolo Pezzino: «Con l’interpretazione di Pitré prende la sua forma più completa e articolata quella posizione che, tendendo a ridurre la mafia a carattere dell’epos siciliano, poteva venire utilizzata ogniqualvolta le vicende della lotta politica lasciassero spazio alle chiassose rivendicazioni del sicilianismo e all’esaltazione dei caratteri originari dei siciliani come cemento di blocchi interclassisti indirizzati contro un presunto nemico esterno: si definisce, cioè, quel paradigma riduttivo della mafia a dato subculturale, che spesso coincide con la negazione pura e semplice del fenomeno» (ivi, p. 928). 10.  «Ora io vi dico che se per mafia si intende il senso dell’onore portato fino alla esagerazione, l’insofferenza contro ogni prepotenza e sopraffazione, portata sino al parossismo, la generosità che fronteggia il forte ma indulge al debole, la fedeltà alle amicizie, più forte di tutto, anche della morte, se per mafia si intendono questi sentimenti e questi atteggiamenti, sia pure con i loro eccessi, allora in tal segno si tratta di contrassegni indivisibili dell’anima siciliana e mafioso mi dichiaro e sono lieto di esserlo!» (ivi, p. 973, nota 25). Sul discorso di Orlando, e sul concetto di Pitré, è ricalcato quello dell’Incognito, il misterioso personaggio di I mafiusi di la Vicaria, del rifacimento di Sciascia (III, 1295-1296). 11.  Sulla novità e l’importanza di questo contesto etico e antropologico, nel quadro del romanzo poliziesco e della narrativa di Sciascia, hanno insistito U. Schulz-Buschhaus, Gli inquietanti romanzi polizieschi di Sciascia (1978), ora in A. Motta (a cura di), Il sereno pessimista. Omaggio a Leonardo Sciascia, Lacaita, Manduria 1991, pp. 155-165: p. 160, e O. Lo Dico, La fede nella scrittura, cit., pp. 176-178.

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chiara sin dall’inizio: Bellodi fa il carabiniere «con la fede di un uomo che ha partecipato a una rivoluzione e dalla rivoluzione ha visto sorgere la legge: e questa legge che assicurava libertà e giustizia, là legge della Repubblica, serviva e faceva rispettare». Precisa e determinata la sua nozione di legge: una «legge scaturita dall’idea di giustizia e alla giustizia congiunto ogni atto che dalla legge muovesse» (I, 407-408). Con la ferma convinzione che la mafia può essere combattuta solo in termini di azione fiscale (I, 463-466). Nessuna concessione alle soluzioni autoritarie, alla sospensione delle garanzie costituzionali, terribile essendo il ricordo del fascismo e di Mori (I, 465). Ed è il fascismo il vero discrimine tra il capitano e i suoi sottufficiali, poveri cristi costretti a barcamenarsi in un mondo di fame e violenza. Quella di Bellodi, insomma, è un’ideologia razionalista di marca democratico-resistenziale, che non può non palesargli un’isola irreale e di sogno: «La Sicilia è tutta una fantastica dimensione: e come ci si può star dentro senza fantasia?» (I, 412). Come Sciascia più volte dichiarò (III, 801, 810, 898), a ispirargli il protagonista del romanzo era stato il maggiore Renato Candida, allora comandante del gruppo di Agrigento, autore di un libro12 che gli costò il trasferimento alla scuola allievi carabinieri di Torino (III, 801-802). Ma non si può non notare, stando ai passi citati, che con Bellodi lo scrittore stili una sorta di autoritratto ideale, prestandogli anche qualche tratto di autobiografia intellettuale: non a caso, e per sua stessa ammissione (ibidem), questo pare il personaggio più astratto, nel libro che è risultato il più citato e il più mistificato (C.S., 55). In effetti, l’idea di legge, che Bellodi difende e applica con matematica consequenzialità morale, pare discendere da quell’assoluta convinzione razionalistica che lo scrittore manifesta nella prefazione alle Parrocchie. Del pari, questa Sicilia declinata 12.  R. Candida, Questa mafia, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1957.

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in «fantastica dimensione» è la stessa ove deflagra il «pirandellismo di natura» di cui Sciascia ebbe precoce e acuto sentimento. Ma v’è dell’altro. Bellodi è uomo di ottime letture: e basterebbe citare i nomi, tutti cari a Sciascia, di Giovanni Meli, Francesco Lanza, Ignazio Buttitta e Salvatore Quasimodo (I, 415), di Verga e Tomasi di Lampedusa (I, 417), per non dire dell’amato Attilio Bertolucci, di cui si ricorda la bella poesia Al fratello (II, 419). Bellodi, come Sciascia, interpreta il mondo attraverso la letteratura: si pensi alle sue considerazioni sull’ipotesi di delitto passionale, avanzata per depistare le indagini, in cui la chiave di volta è rappresentata dal Ciampa del Berretto a sonagli, e che potrebbero benissimo figurare nei saggi di Pirandello e la Sicilia (I, 460). Ma c’è una riflessione che, nel quadro di una più vasta e stratificata tradizione culturale, merita un approfondimento. Una riflessione sulla famiglia, sulla nozione che di essa i siciliani hanno, che Bellodi svolge mentre attende di interrogare don Mariano: «la famiglia è l’unico istituto veramente vivo nella coscienza del siciliano: ma vivo più come drammatico nodo contrattuale, giuridico, che come aggregato naturale e sentimentale». E ancora: «La famiglia è lo Stato del siciliano. Lo Stato, quello che per noi è lo Stato, è fuori: entità di fatto realizzata dalla forza […]. Dentro quell’istituto che è la famiglia, il siciliano valica il confine della propria naturale e tragica solitudine e si adatta, in una sofistica contrattualità di rapporti, alla convivenza». Bellodi arriva così a una drastica conclusione: «Sarebbe troppo chiedergli di valicare il confine tra la famiglia e lo Stato. Magari s’infiammerà dell’idea dello Stato o salirà a dirigerne il governo: ma la forma precisa e definitiva del suo diritto e del suo dovere sarà la famiglia, che consente più breve il passo verso la vittoriosa solitudine». Ma veniamo al punto che c’interessa: Questi pensieri, in cui la letteratura offriva alla sua breve esperienza ora la carta buona ora la falsa, andava rimuginando il

147 capitano Bellodi mentre nel suo ufficio aspettava che gli conducessero l’Arena. E stava passando a considerare la mafia, e come la mafia si adattasse allo schema che era venuto tracciando, quando il brigadiere introdusse don Mariano Arena. (I, 461)

Passi importanti, questi, non solo per il fatto che Bellodi vi riecheggi concetti cari allo Sciascia saggista tratti dagli Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré in Sicilia del poeta messinese Scipio di Castro del XVI secolo, dal Discorso su Verga del 1920 di Pirandello, dallo scritto di Lawrence sul Mastro don Gesualdo, concetti che ritornano in Pirandello e la Sicilia e La corda pazza. Il nodo centrale della riflessione si stringe nel nesso tra idea della famiglia e «sentire mafioso», nel giuoco di carte, ora buone ora false, tentato al tavolo della letteratura. Quasi che Sciascia volesse richiamare in aenigmate, a verificare la «breve esperienza» di Bellodi, i testi di quella grande tradizione narrativa isolana che nella famiglia aveva ravvisato la cellula tumorale capace di produrre metastasi in tutto il corpo sociale: I Viceré (1894) di De Roberto, L’esclusa (1894), Il turno (1895) e I vecchi e i giovani (1913) di Pirandello, Don Giovanni in Sicilia (1941), Il bell’Antonio (1949) e Paolo il caldo (1955) di Brancati13. Parte di quella stessa tradizione che abbiamo visto riattivata nel Quarantotto, ma ora rivisitata nel segno del «familismo», e per la prima volta a spiegare certi tratti della mentalità mafiosa. Ma passiamo alla figura del grande antagonista di Bellodi: don Mariano Arena. Prima di entrare nell’ufficio di Bellodi con lo sguardo inespressivo sotto le palpebre grevi, lo incontriamo 13.  Per quanto concerne il tema della famiglia nella narrativa siciliana ci permettiamo di richiamare alcuni nostri scritti: Presentazione, in L. Pirandello, Il turno, Theoria, Roma 1993, pp. 7-21; Prefazione, in L. Pirandello, I vecchi e i giovani, Garzanti, Milano 1993, pp. LVI-LXXX; Introduzione, in V. Brancati, Paolo il caldo, Bompiani, Milano 1993, pp. V-XVI.

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già, benché ancora senza nome, mentre dialoga con un più giovane interlocutore, illustrandogli la sua concezione del mondo. In giuoco c’è la definizione di «sbirro» e «cornuto». Gli «sbirri» non sono tutti uguali: ci sono gli «stupidi» e i «galantuomini», quelli che si lasciano corrompere a «casse di pasta e damigiane d’olio», ma anche lo «sbirro» vero, colui che è «sbirro nato». Accanto allo «sbirro nato», c’è pure il «cornuto nato», quello che, scoprendo «le tresche che gli fanno in casa», «fa finta di niente o con le corna si dà pace». I tratti di questa rozza e sprezzante antropologia si compendiano in una curiosa concezione della storia, del fascismo e della democrazia: «Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera solo alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna». E ciò nella convinzione che «non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi». La fredda violenza, l’astuta spietatezza, il gusto per l’azzardo, la prontezza di mente e di mano di don Mariano, sembrano, insomma, assumere la forma di una vera e propria «filosofia», secondo la quale termini come popolo e democrazia non sono altro che invenzioni di «gente che sa mettere una parola in culo all’altra e tutte le parole nel culo dell’umanità». Don Mariano non ha dubbi: «Un bosco di corna, l’umanità», su cui se la spassano a passeggiare preti, politici, e gente come lui e il suo interlocutore. Certo, il rischio «di mettere il piede in fallo» è grande, ma altrettanto grande è il piacere di sovrastare quella misera umanità, nel rischio di una scommessa che tiene alto il concetto di se stessi, che sancisce un certo onore del vivere: «anche se mi squarcia dentro, un corno è sempre un corno; e chi lo porta in testa è un cornuto… La soddisfazione, sangue di Dio, la soddisfazione: mi va male, muoio, ma siete dei cornuti» (I, 423-426). Stessa sicurezza don Mariano ostenta con Bellodi, in un dialogo che è scontro di concezioni del mondo:

149 «Per lei, vedo, la bellezza non ha niente a che fare con la verità». «La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità». […] «Lei ha aiutato molti uomini» disse il capitano «a trovare la verità in fondo a un pozzo». Don Mariano gli aprì in faccia occhi freddi come monete di nichel. Non disse niente.

E con riferimento alla morte del confidente dei carabinieri: «il Di Bella era già nella verità» continuò il capitano «quando scrisse il suo nome e quello di Pizzuco…» «Nella pazzia era, altro che verità». (I, 469)

Considerazioni, queste di don Mariano, in cui la verità si declina in giuoco delle illusioni, contemplazione della morte, approdo alla pazzia. Eppure, a ben guardare, il boss non trova radicale condanna nel giudizio di Bellodi, che quello dell’autore involge, fino al punto da provocare nel capitano una qualche ammirazione, non esente da un certo imbarazzo. Il passo è fondamentale e va esaminato con attenzione. Don Mariano sta parlando dell’umanità: pochissimi «gli uomini», pochi «i mezz’uomini», tanti gli «ominicchi», «che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi», moltissimi «i pigliainculo» e «i quaquaraquà», «quelli che dovrebbero vivere con le anatre nelle pozzanghere» (I, 466). A questo punto, tra i due uomini, c’è una sorta di «saluto delle armi», di reciproco riconoscimento: «Lei, anche se mi inchioderà su queste carte come un Cristo, lei è un uomo… “Anche lei” disse il capitano con una certa emozione». Il disagio provocato da tale ammissione coglie subito Bellodi, che ricorda, a propria scusante, le tante volte in cui aveva stretto le mani a onorevoli e ministri collusi, «sui quali don Mariano aveva davvero il vantaggio di essere un uomo». Così, ora, gli appare il capomafia:

150 Al di là della morale e della legge, al di là della pietà, era una massa irredenta di energia umana, una massa di solitudine, una cieca e tragica volontà: e come un cieco ricostruisce nella mente, oscuro ed informe, il mondo degli oggetti, così don Mariano ricostruiva il mondo dei sentimenti, delle leggi, dei rapporti umani. (I, 467)

Del resto, quale altro concetto poteva avere don Mariano dei rapporti umani e della giustizia in un mondo in cui «la voce del diritto era stata sempre soffocata dalla forza»? Muovendo da queste riflessioni di Bellodi, un critico come Filippo Cilluffo ha parlato del boss come di «un Innominato non destinato alla conversione»14. Notazione acuta, per quanto eccessiva, dato che non è difficile ascrivere questo personaggio a una precisa anagrafe letteraria, tutta di marca isolana15. In don Mariano, infatti, sembrano ricapitolarsi lo Jachinu Funciazza di I mafiusi di la vicaria già citata, il compare Alfio della verghiana Cavalleria rusticana (1884) riscritta per il teatro, Franciscu Tirritu del dramma Scunciuru (1908) di Di Giovanni e il Nero della Bella addormentata (1919) di Rosso di San Secondo. Certo è, però, che in tale contesto il capomafia acquista una sua grandezza morale, non priva di ambiguità. C’è stato chi, come Carlo Muscetta, riferendosi a una lezione tenuta nel 1971, ha potuto scrivere di Sciascia: «Voglio solo ricordare che molti anni prima di recenti polemiche e pesanti accuse, da cui non mi sembra si sia ben difeso, io qualificavo la sua una “letteratura della mafia” non solo per l’argomento, ma per un “riconoscimento della grandezza della mafia”»16. Per non dire di Sebastiano Vassalli che, muovendo proprio dalla figura di don Mariano, arrivava a questa conclusione: 14.  F. Cilluffo, Leonardo Sciascia: cinque immagini della Sicilia, cit., p. 77. 15.  Cfr. O. Lo Dico, La fede nella scrittura, cit., pp. 181-199. 16.  C. Muscetta, Don Chisciotte in Sicilia, Edizioni del Prisma, Catania 1987, p. 12.

151 io non credo che l’infelicissima sortita di Sciascia contro i «professionisti dell’antimafia» sia stata un lapsus. Credo invece che anche un intellettuale e uno scrittore come Sciascia, che tanto ci ha aiutato a comprendere la cultura mafiosa, posto di fronte ad una scelta ultimativa tra Stato e mafia abbia subito la forza di fascinazione del Mostro, e abbia finito – non so quanto consapevolmente – per seguirne il richiamo.17

L’osservazione, ferma al punto di vista ancora ellittico di Muscetta, ha una sua lampante, per quanto accecante, verità, ma svolta poi nel senso di Vassalli, non può non declinarsi in un modo della mistificazione, arrivando al paradosso, amaro e doloroso paradosso, di una contiguità di Sciascia al «sentire mafioso». Vero è che Bellodi, vicario dell’autore, approdi per un attimo in una sorta di nuda e aspra zona franca ove persino don Mariano può apparirgli fratello. Vero pure che in tale zona, «al di là della morale e della legge, al di là della pietà», ravvisi un qualche senso di giustizia, per quanto rozzo, in un criminale simile, con una giustificazione vicina a quella dell’Eccellenza collusa che abbiamo ricordato sopra. Ma non si deve perdere di vista quanto lontane siano, dalla concezione del capomafia, le idee di Stato, diritto e umanità in cui Bellodi crede. Se, dunque, avvicinamento c’è, non è su un piano etico-politico che va inteso, ma in un certo sentimento, per così dire, religioso: di una religione del vivere. Nessuna consentaneità di valori tra i due personaggi: in quella zona franca in cui avviene l’incontro con don Mariano, Bellodi ha riconosciuto un individuo il quale, pur scegliendo il crimine, sa perfettamente che in tale azzardo è in giuoco tutto il suo essere, nel segno di una scommessa esistenziale che tiene alta la sua dignità di uomo. Come se dentro il guscio criminoso di questa vicenda umana si potesse estrarre un nocciolo razionale, nella con-

17.  S. Vassalli, Signora Mafia con gli occhi di Medusa, in «La Repubblica», 7 agosto 1992.

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vinzione che tale «massa irredenta di energia», tale «massa di solitudine», sicura redenzione avrebbe trovato in un mondo ove il diritto e la giustizia non fossero stati soffocati dalla violenza. In un diverso contesto storico, insomma, don Mariano poteva diventare il colonnello Carini del Quarantotto o il Diego La Matina di Morte dell’inquisitore: tutti siciliani che, pur da differenti e spesso opposte sponde, sembrano attingere a un medesimo sentire quanto alle essenziali partite che la vita ci costringe a giuocare. Diciamolo subito. Questo interrogatorio, in cui i due uomini, nella loro nuda solitudine, si confrontano su questioni fondamentali della vita, apre il romanzo su un nuovo ordine di idee. Un ordine che tocca la muta e spietata sintassi del Potere, nella sua eterna dialettica, che troverà articolata consacrazione in romanzi come Il contesto e Todo modo. È lo stesso Sciascia, del resto, a indicarci ironicamente questa sorta di trasumanazione dei due personaggi in metafisiche maschere di una perenne rappresentazione, affidandosi allo sguardo straniarne del brigadiere che assiste all’interrogatorio: «Un lungo contorto cammino: sfioravano appena i morti ammazzati e subito allargavano il giro; la Chiesa, l’umanità, la morte. Una conversazione da circolo, Cristo di Dio: e con un delinquente» (I, 469). In effetti, le metafore attinte a un orizzonte cristologico ed ecclesiale non caratterizzano soltanto l’interrogatorio, ma trafiggono qua e là il corpo intero del romanzo, come quando don Mariano, nel dialogo col giovane mafioso, decide la morte del confidente Calogero Di Bella, detto Parrinieddu, e cioè piccolo prete (I, 408), parlando dell’associazione mafiosa come «santa chiesa», contro cui non ci si può gettare senza risultare «morto nel cuore degli amici» (I, 426). Un lettore sensibile a questi temi come Ambroise ha notato che in questo dialogo «è anticipata la Passione di Parrinieddu», definendo lo «spazio della passione» come «quell’atroce incrocio, quella disumana coincidenza dello sguardo della vit-

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tima rivolta a se stessa e dello sguardo dell’istituzione, quando vengono a identificarsi con la morte»18. Notazione che ci consente un’illuminante lettura di due momenti del romanzo: l’interrogatorio del confidente; gli attimi che precedono la sua morte fino al ritrovamento del cadavere. Di Bella ha vissuto barcamenandosi tra due cosche, quella di don Mariano versata nei pubblici appalti, cui è legato, e quella «più giovane e spericolata» dedita al contrabbando delle sigarette americane. Bellodi sa bene, quando l’interroga, che avrà da lui solo menzogne. Il pensiero gli va, per associazione, ai confidenti della guerra partigiana: «miserabili uomini, fango di paura e di vizio: e pure giuocavano la loro partita di morte, sul filo della menzogna tra partigiani e fascisti giuocavano la loro vita». Un pensiero che, ancora una volta, gli si scioglie in un altro legato alla dignità e all’indegnità del vivere: La sola cosa umana che avessero era questa agonia in cui, per la loro stessa viltà, si dibattevano; per la paura di morire ogni giorno affrontavano la morte: e infine la morte scoccava, finalmente la morte, ultima, definitiva, unica morte, non più il doppio gioco, la doppia morte di ogni ora. (I, 406)

Anche Di Bella gioca la sua partita fatale tra mafia e carabinieri, del tutto ignorando che la legge, «la legge che nasce dalla ragione ed è ragione», «fosse immutabilmente scritta ed uguale per tutti», per lui identificandosi con «la legge di un uomo, che nasce dai pensieri e dagli umori di quest’uomo […], l’assoluta irrazionalità della legge, ad ogni momento creata da colui che comanda […], da chi ha la forza, insomma» (I, 407). Durante l’interrogatorio Di Bella confonde le carte, lasciando intravedere la verità. Da quel momento le ore corrono «frenetiche e atroci», sotto il segno di una luttuosa cabala, e il confidente legge in ogni gesto dei suoi vecchi complici come il segno di

18.  C. Ambroise, La Passione, cit., p. 127.

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un codice che non è più quello ordinario, ma quello, allusivo e traslato, di una spietata istituzione che ha sancito la sua condanna a morte. Alla notizia dell’omicidio, Bellodi, che ha in mano la lettera di Di Bella con il nome del colpevole, ne è profondamente scosso: «Quell’uomo usciva dalla scena del mondo con un’ultima delazione». Ma, una volta letto nella lettera il messaggio «sono morto» e quegli «ossequi» seguiti dalla firma, Bellodi si sente invaso da «fraterna pietà» e «doloroso fastidio» per quell’uomo che, nell’agonia, ha sollevato alta, per la prima volta, la sua dignità d’uomo: «la pietà e il fastidio di chi, sotto apparenze già classificate e definite e respinte, improvvisamente scopre nudo e tragico il cuore umano». Questa la chiosa dell’autore: Con la sua morte, col suo estremo saluto, il confidente si era avvicinato in una più umana confidenza: che continuava ad essere sgradevole, fastidiosa; ma tuttavia trovava nel sentimento e nei pensieri dell’uomo cui era rivolta una risposta di pietà, di religione. (I, 429)

Come si vede bene, le metafore di marca cristologica e ecclesiale che segnalavamo finiscono per farsi funzionali alla sacralità del Potere, in questo caso rappresentato dalla «chiesa» maliosa che spietatamente lo esercita. In tale prospettiva, Il giorno della civetta si inserisce perfettamente come giallo in quella rappresentazione moderna del «sentimento del sacro» di cui parlava Sciascia nel saggio di «Nuova Corrente», citato a inizio di capitolo. Con la precisazione, però, che nell’opera di Sciascia il sacro sembra irrompere al livello della Legge, delle istituzioni che la difendono o la combattono, dell’irrazionale autorità che la pone. Significative, a questo proposito, le opposte concezioni di giustizia che Bellodi e Di Bella accampano. A tale contrasto Sciascia sembra consegnare una convinzione, solida e certa almeno all’altezza de Il giorno della civetta: solo un Potere che con arbitrio e violenza si organizzi, al riparo da qualsiasi controllo razionale, può generare apprensione, pau-

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ra, terrore, agonia; solo un Potere imperscrutabile e irrazionale, quanto la morte pauroso, può instituire e fondare una metafisica, per così dire quotidiana, di angosciosa e allucinante quotidianità; al contrario, unico antidoto a questa giornaliera angoscia, sembra essere la Legge dedotta dalla Ragione, scaturita da un’utopia resistenziale e democratica, «immutabilmente scritta ed uguale per tutti». Ma c’è un altro aspetto da sottolineare. La vicenda in cui Parrinieddu diventa “visibile” come personaggio, nel segno di una Passione in cui come uomo si riscatterà, è aperta e chiusa, significativamente, da due nitide immagini di morte: «E mentre a B. arrestavano Diego, a S. Parrinieddu diventava il numero che la cabala del lotto assegna al morto ammazzato» (I, 427); «I carabinieri di guardia sollevarono il telo: il corpo era contratto come nel sonno prenatale, nella oscura matrice della morte» (I, 431). Ecco il punto: l’epifania di questo imperscrutabile Potere, nella serie dei fatti che portano all’esecuzione del Di Bella e nel significato che quei fatti acquistano nella coscienza della vittima, si palesa come un rito fondato sulla contemplazione della morte. È soltanto nei momenti di eccezionalità morale, insomma, che il Potere si mostra in tutta la sua essenza, mentre la vittima, da quel Potere toccata, inizia, nel murato spazio della coscienza, un percorso agonico, di un’agonia che implica agonismo, in cui, in una sorta di scommessa ontologica, viene messa in giuoco la nozione stessa d’umanità. In questi momenti, finalmente nella sua verità, il Potere si rivela come grande macchina inquisitoriale, di cui gli individui non sono altro che ingranaggi, bulloni e chiavarde: non a caso Ambroise ha potuto intitolare la sua introduzione al III volume delle Opere Inquisire/Non inquisire19. 19.  Che un’idea dell’Inquisizione sia uno dei retrosuoni del romanzo lo testimonia questo pensiero di Bellodi relativo a un cane, Barruggieddu, sinonimo, per il proprietario, di cattiveria e traducibile in Bargello, «capo

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Non sorprenderà, allora, che Sciascia presenti spesso personaggi senza volto e senza nome, più interessato alla loro funzione, per così dire, “grammaticale”, di una grammatica del Potere, che a una caratterizzazione psicologica20. Per altro, il supplizio del confidente, culminante nel riscatto che, sotto «apparenze già classificate e definite», lo fa riapparire «creatura» agli occhi di Bellodi, provocandogli «una risposta di pietà, di religione», anticipa quello del Di Blasi e di Diego La Matina, che abbiamo già esaminato. In questa prospettiva, a partire da tale giallo, le opere dello scrittore sembrano caratterizzarsi come veri e propri «essempli», in un senso precipuamente morale e teologico, di una teologia laica ovviamente, più di quanto non voglia far credere lo stesso Sciascia che il termine impiega, semanticamente smorzandolo, nella conversazione con Davide Lajolo21. Un’ultima considerazione circa il finale del romanzo. L’indagine di Bellodi, dopo l’arresto di Marchica, Pizzuco e don Mariano, sull’onda di voci giornalistiche circa inquietanti collusioni ministeriali, finisce in Parlamento sotto forma di interrogazione parlamentare. Il governo respinge seccamente, tra tafferugli, l’ipotesi che suoi membri possano aver avuto il pur minimo rapporto con la mafia. La scena, efficacissima, è riproposta nel-

degli sbirri»: «“bargello come me: anch’io col mio breve raggio di corda, col mio collare, col mio furore”: e più si sentiva vicino al cane di nome Barruggieddu che all’antico, ma non tanto antico, bargello. E ancora pensò di sé “cane della legge”; e poi pensò “cani del Signore”, che erano i domenicani, e “Inquisizione”: parola che scese come in una vuota oscura cripta, cupamente svegliando gli echi della fantasia e della storia. E con pena si chiese se non avesse già valicato, fanatico cane della legge, la soglia di quella cripta» (I, 455). 20.  Cfr. O. Lo Dico, La fede nella scrittura, cit., p. 166. 21.  «Io ho scritto il racconto […] come un “essemplo” (direbbe Bernardino da Siena) di quel che la mafia era nel passaggio dalla campagna alla città, da fenomeno rurale a fenomeno urbano» (C.S., 55).

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lo sguardo di due siciliani giunti a Roma per l’occasione, còlti per la strada mentre, ammiccando, si indicano le donne per la strada: «I più li credevano agenti di questura […] ed erano invece, insieme, un pezzo di questione meridionale». L’aula parlamentare, dal palco, appare loro remota e caotica, come «un cupo liquido formicaio» (I, 473). È il primo segnale che le cose per Bellodi, per la verità e la giustizia, volgono al peggio. In una Parma bertolucciana, «toccata da una struggente luce che era già lontananza, memoria, indicibile tenerezza», il capitano in licenza riceve ritagli di giornale ove trionfa la tesi del delitto passionale, Pizzuco e Arena sono completamente scagionati, mentre il maresciallo viene trasferito. Significativa la battuta finale, dopo una serata trascorsa con belle ragazze che hanno idea stereotipata e fascinosa dell’isola, in una Parma «incantata di neve»: «Si sentiva un po’ confuso. Ma prima di arrivare a casa sapeva, lucidamente, di amare la Sicilia: e che ci sarebbe tornato. “Mi ci romperò la testa” disse a voce alta» (I, 481). Nel 1961, dunque, Sciascia poteva finalmente registrare l’avvenuta unificazione nazionale: ma sotto il segno del crimine e della collusione mafiosa. La linea delle palme era già salita a Nord, e la Sicilia gli stava per diventare metafora della nazione tutta. Occorre solo aggiungere che Il giorno della civetta non è il primo tentativo di misurare sulla strada Agrigento-Roma le ragioni (le non ragioni) della nostra storia civile e politica dopo l’Unità, una strada ancora lunga da percorrere: basterebbe pensare solo a I vecchi e i giovani di Pirandello22. Ma torniamo a Bellodi. Già Cilluffo, richiamando i protagonisti della secolare tradizione poliziesca, dal Dupin di Poe allo Sherlock Holmes di Conan Doyle, dal Padre Brown di Chesterton al Poirot di Agatha Christie, dal Philo Vance di Van Dine ai beniamini 22.  Cfr. M. Onofri, Prefazione, in L. Pirandello, I vecchi e i giovani, cit., pp. LXXV-LXXVII.

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di Hammett e Spillane, aveva sottolineato, a partire da Il giorno della civetta, il carattere antieroico degli investigatori, registrando l’assenza di «un superuomo della detection»23. Bellodi è votato allo smacco. In tal senso, Sciascia sembra rovesciare il modello di romanzo poliziesco che Lukács vedeva perfettamente incarnato da Conan Doyle, ritenendolo generato «da un’ideologia della sicurezza, dall’esaltazione dell’onniscienza di coloro che vigilano sulla tranquillità della vita borghese»24. Bisogna però osservare che in questo romanzo la verità è ancora razionalmente ricostruibile senza ambiguità e possibilità d’errore, benché non si sia in grado di renderla di pubblico dominio, con la giusta condanna dei colpevoli. Il Potere impedisce che la verità venga provata. In quel «Mi ci romperò la testa», comunque, brucia ancora una passione ideologica pronta a rimisurarsi con il crimine e l’ingiustizia. Vedremo se e come le cose cambieranno negli altri gialli. Per ora non ci resta che concludere con Ambroise, il quale, nell’introduzione al I volume delle Opere, faceva notare che, nel romanzo, si ha una vittoria della letteratura: «La verità viene detta dalla letteratura. Essa sola è in grado di articolare il discorso della verità anche come denuncia di una non raggiunta verità pratica» (I, XXIX). Una divaricazione, quella tra letteratura e realtà, tra una letteratura che sembra farsi carico della verità tutt’intera e una realtà che di tale verità sembra fornire una secca smentita. Una divaricazione di cui bisognerà tener conto. Nell’agosto del 1964, dopo il Consiglio d’Egitto e Morte dell’inquisitore, Sciascia redige in una settimana L’onorevole, una 23.  F. Cilluffo, Leonardo Sciascia e la tecnica del romanzo poliziesco, in Id., Due scrittori siciliani, cit., pp. 49-113: p. 102. Ma su questo aspetto cfr. anche V.R. Jones, Da Regalpetra a Parigi, cit., pp. 28-29. 24.  G. Lukács, Il significato attuale del realismo critico, tr. it., Einaudi, Torino 1957, p. 53. Su tale questione cfr. anche l’ottimo U. Schulz-Buschhaus, Gli inquietanti romanzi polizieschi di Sciascia, cit., pp. 155-158.

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«commedia che non è una commedia», rappresentata in Sicilia in quella stessa stagione teatrale e pubblicata nel 1965. Una nuova irruzione in quell’attualità ove si intrecciano politica e affari, col fine «di misurare, ancora una volta, le censure istituzionali, ambientali e psicologiche del nostro paese» (I, 719). E nel segno di un maggiore pessimismo, se è vero che l’onorevole Frangipane, per quanto della Sicilia occidentale e democristiano, potrebbe essere di altra regione italiana e di altro partito con esperienza governativa (I, 719-720). La pièce scandisce in tre tempi la metamorfosi del professore in relazione a tre momenti di particolare importanza: il settembre del 1947, che prepara il successo elettorale della Dc sul Fronte popolare; l’indomani delle elezioni politiche del 1953, che confermano l’egemonia democristiana; un giorno d’estate del 1964, nel clima del fallimento del centro-sinistra. Nei tre tempi la scena si sposta dallo studio del professore «in un quartiere popolare» (I, 723), a quello di una casa nuova e moderna «in un quartiere residenziale da poco sorto nello stesso grosso paese della Sicilia occidentale» (I, 739), per coincidere con la sala di soggiorno lussuosamente arredata di Villa Frangipane. Ciò, a suggellare un cammino in cui la conquista del benessere prima, e della ricchezza poi, coincide con un processo di degradazione morale: e il professore, il cattolico integro che ama la storia e si diletta a scrivere, legge Manzoni, Tolstoj e Cervantes, disprezza la retorica e l’eloquenza non rispettosa del vero, diventato onorevole, si trasforma in uomo di potere e colluso. Una vicenda che ha come controcanto la lucida e accusatrice follia della moglie Assunta. L’opera è stata ingiustamente trascurata dalla critica. Eppure, forse per la nudità strutturale e per quel tratto «di improbabilità e di convenzionalità» del «solo larvatico personaggio» che in essa agisce (I, 719), la commedia scopre alcuni nodi nevralgici della poetica dello scrittore, forieri di grande sviluppo. Il solo ad accorgersene era stato Italo Calvino in una lettera

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a Sciascia del 26 ottobre 196425 il quale, dopo aver ammirato l’abilità e il mestiere nell’impianto naturalistico dei primi due atti, confessava: Ma possibile che questo accidente di uomo sia sempre così controllato e cosciente e funzionale nella sua missione di moralista civile, possibile che mai salti fuori lui in persona col suo demone […], il suo «mito», la sua follia?

Una domanda che poteva trovare risposta nel terzo atto della commedia, ove la materia della vicenda, caratterizzata sino a quel punto solo dalla satira civile, finiva per disintegrarsi, aggredita congiuntamente dai «sentimenti l’irrazionale la letteratura, Cervantes Calderón Pirandello, l’anima i carabinieri la morale esistenziale». A Sciascia veniva rimproverato un solo errore, che comunque sanciva «un passo avanti» nella sua storia e nella loro «comune ricerca» letteraria: l’aver affidato questo attacco a un personaggio debole come Assunta26, rimasto nascosto per due atti e che alla fine «deve farsi portavoce di discorsi […] da saggista letterario, sociologo della civiltà di massa e riformatore giansenista». Un errore che, però, avrebbe consentito in futuro di impostare con più rigore la ricerca di personaggi che fossero in grado di esprimere tale «contestazione cervantino-unamuniana-pirandelliana», in modo che Don Chisciotte potesse finalmente rivelarsi sulla scena. In tale contesto, Calvino affrontava una questione spesso sollevata dai critici, quella del presunto illuminismo di entrambi, per giungere a un’interessante constatazione:

25.  I. Calvino, I libri degli altri, cit., pp. 490-492. 26.  Ci assale il sospetto che Sciascia abbia scritto l’incipit della nota introduttiva, dove parla di «larvatico personaggio», della sua «improbabilità» e «convenzionalità», dello «svolgimento pedissequamente naturalistico dei primi due tempi e di parte del terzo» (I, 719), proprio dopo queste critiche di Calvino.

161 Tu sei ben più rigorosamente «illuminista» di me, le tue opere hanno un carattere di battaglia civile che le mie non hanno mai avuto […]. Ma tu hai, subito dietro di te, il relativismo di Pirandello, e il Gogol via Brancati, e […] la continuità Spagna-Sicilia: una serie di cariche esplosive sotto i pilastri del povero illuminismo.

E ciò nel segno di una convinzione: Io mi aspetto sempre che tu dia fuoco alle polveri, le polveri tragico-barocco-grottesche che hai accumulato. E questo potrà difficilmente avvenire senza un’esplosione formale, della tua levigatezza compositiva.

Si trattava, ormai, di rompere quella «compostezza», «manzoniana» più che «illuministica». Siamo di fronte a spunti critici di grande profondità, ove l’intuizione delle svolte che segnano il presente s’intreccia a una straordinaria capacità di previsione. Calvino, nel mentre si celebrava l’«illuminismo» di Sciascia, ne comprendeva già il risvolto di tenebra, le tensioni che l’avrebbero fatto deflagrare. Certo, la «levigatezza compositiva» dello scrittore non sarebbe mai saltata, quelle «polveri tragico-­barocco-grottesche» non sarebbero esplose in direzione di una prosa sperimentale: Sciascia non amava e non avrebbe mai amato le avanguardie storiche e la neo-avanguardia. Ciò non toglie che, nell’incessante investigazione del Potere, nella dura lotta dei suoi personaggi con il terribile Leviatano, Sciascia sarebbe presto approdato a un «barocco», per così dire, di situazione e mentale, negli allucinanti apologhi del Contesto e di Todo modo. Ma torniamo al nodale personaggio di Assunta, per meglio intenderne la novità nella storia di Sciascia, approfondendo l’intuizione di Calvino. Assunta entra in scena sommessamente, mostrandosi sin da subito riluttante alla candidatura del marito, restando sempre estranea alla trionfale carriera politica, a differenza degli altri membri della famiglia, compreso il fidanzato comunista della figlia. Non poteva che essere così, stante la didascalia che in-

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troduce il personaggio: «Di cuore semplice ma di vibratile sensibilità; e di pronta intelligenza relativamente alle cose e ai fatti che implicano scelte e giudizi morali» (I, 726). All’origine della sua follia, che esploderà nel terrore, apparentemente senza fondamento, che il marito possa essere arrestato, c’è la convinzione che nella nuova e agiata vita si sia verificata una perdita irrimediabile, come cerca di spiegare al marito: «E qualcosa di noi […] Dentro… Nell’anima…» (I, 750). Nel terzo tempo siamo ormai, per i familiari, a una conclamata follia, una follia in cui i lettori riconosceranno facilmente il lucido risentimento, le idee e le inclinazioni letterarie dell’autore27. Nel dialogo con monsignor Barbarino, infatti, quella irrimediabile perdita spirituale si è inscritta in un preciso giudizio sulle cose italiane, la vicenda familiare è diventata sintomo di una più vasta e profonda corruzione, nella certezza che «durante il fascismo, dentro la guerra», quando con suo marito credeva nella giustizia e nella pace, la vita fosse più autentica (I, 762-763). Ma il dato saliente di questa follia è un altro. I pochi critici che si sono occupati dell’Onorevole hanno quasi tutti rilevato l’estrazione pirandelliana di Assunta28, platealmente esibita con il ricorso all’espediente del «teatro nel teatro», quando monsignor Barbarino, dismettendo i panni di personaggio, si rivolge al pubblico e prospetta un diverso e più rassicurante finale.

27.  Che Sciascia abbia voluto fare di Assunta il suo portavoce ci pare dimostrato da una maliziosa e ironica autocitazione. Così monsignor Barbarino risponde alle obiezioni e agli interrogativi di Assunta: «Ma si rende conto, signora, che stiamo facendo un discorso pazzesco? Che stiamo dicendo cose che sembrano uscire da uno di quei libelli di un nostro scrittore che non nomino, che non voglio nominare?» (I, 768). 28.  Cfr. M. Coco, Una proposta di lettura de «L’onorevole» di Leonardo Sciascia, in «Otto/Novecento», IV, n. 3-4, 1980, pp. 247-256: p. 256; M. Boggio, Il personaggio femminile dal silenzio alla follia, in Aa. Vv., La teatralità nelle opere di Leonardo Sciascia, cit., pp. 125-134: pp. 130-131; A. Motta, Le metamorfosi del professore Frangipane, ivi, pp. 169-175: p. 171.

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Come si ricorderà, la figura del pazzo monologante di marca pirandelliana non è inedita nell’opera di Sciascia, già a partire dal racconto Paese con figure. La novità sta nel fatto che ora le verità di tale follia coincidono con quelle della letteratura. Non a caso, il primo segno della pazzia di Assunta è rappresentato dalla domanda che con ossessiva insistenza rivolge al marito: «Perché non leggi più il Don Chisciotte?», libro che lei ormai conosce a memoria (I, 757). L’opera di Cervantes, del resto, attraversa come un fiume carsico l’intera commedia, riemergendo in tutta la sua potenza simbolica nei momenti di maggiore intensità. Il Don Chisciotte è il libro che l’ancora incorrotto professor Frangipane rilegge nei momenti di ozio (I, 727), quello che, in una nuova traduzione, Assunta gli regala quando ne avverte i primi segni di stanchezza morale (I, 748), ma soprattutto è il libro che, per la sua idea di Potere, la donna può opporre al realismo politico di monsignor Barbarino, assertore del fatto che il governare sia caduta a una condizione meno umana: Ecco: dicevo che l’episodio del governatorato di Sancio e La vita è sogno dicono, in modo diverso, che il governare è beffa o sogno: dentro la beffa o il sogno della vita… Beffa o sogno: ma comunque una prova, una grande prova dell’anima. E a me pare che Sancio ne sia uscito benissimo: non crede?… «Andandomene nudo, come me ne vado in effetti, è chiaro che ho governato come un angelo»… Grandi parole, monsignore, grandissime. (I, 767)29

Siamo, con Assunta, nel seno di un donchisciottismo che in Sicilia, da Meli a Pirandello, ha avuto lunga e splendida fortu29.  Assai interessante, e indicativo, il paragone che in chiave borghesiana Assunta fa tra l’opera di Cervantes e quella di Calderón «Sa cosa ho pensato? Che l’episodio del governatorato di Sancio si ponga come una specie di parodia della Vita è sogno di Calderón… Guardando le due opere così, però: senza tenere conto che il Don Chisciotte è venuto prima della Vita è sogno… Lei che ne dice?» (I, 766).

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na30. Un donchisciottismo che nel caso di Sciascia si caratterizza come la «proiezione di un’etica e di un’idealità di giustizia, che è dell’autore, nelle azioni del personaggio destinato alla sconfitta e insieme al dileggio»31. Destino che in Assunta trova eclatante conferma, specie nel secondo finale, quello che Sciascia immagina proiettato nello schermo affiorante sul palcoscenico della scena conclusiva, in cui troviamo la protagonista al festival di Venezia, accanto all’onorevole e perfettamente integrata, non più «agitata da moralistici deliri» (I, 772)32. Si deve soltanto aggiungere che qui, come ha fatto osservare Antonio

30.  C. Muscetta, Don Chisciotte in Sicilia, cit., pp. 9-10, ha fatto osservare che «l’emblematico modello dei vinti di Sciascia» deve essere ravvisato nell’epilogo del poemetto di Giovanni Meli Don Chisciotti e Sanciu Panza, ove, dopo la morte ai Don Chisciotte «nel suo inane sforzo di raddrizzare un sorbo», Sancio invita nel discorso funebre a saper stare al proprio posto abbandonando ogni vana ostinazione. Un’interpretazione che, denunciando in Sciascia un’implicita apologia dell’esistente, azzera brutalmente la sofferta carica utopica, l’azzardo morale e la lucida consapevolezza di quel che la realtà nella sua spietatezza è, e che il donchisciottismo dello scrittore implica. Anche N. Borsellino, nel suo Don Chisciotte di Sicilia. Note su un poema di Meli, in Aa. Vv., Italia e Spagna nella cultura del ’700, Atti del Convegno internazionale di Roma, 3-5 dicembre 1990, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1992, pp. 135-143: pp. 137-138, che contiene una prima suggestiva ricognizione del donchisciottismo siciliano da Meli a Sciascia, ha dissentito con la lettura di Muscetta, ravvisando, semmai, quel sentimento succube e complice nella figura di don Fabrizio Salina del Gattopardo. Sul tema del donchisciottismo in Sciascia, cfr. anche G. Jackson, The Motifs of Scherzo, Reversibility and Don Quixote, in Ead., Leonardo Sciascia: 1956-1976. A Thematic and Structural Study, Longo, Ravenna 1981, pp. 55-70. 31.  N. Borsellino, Don Chisciotte di Sicilia, cit., p. 137. 32.  M. Boggio, Il personaggio femminile dal silenzio alla follia, cit., pp. 136137, ha osservato che l’eventuale internamento in una casa di cura di Assunta, prospettata nel primo finale, rappresenta «in fondo ancora un segnale di solidità di valori»; mentre nel secondo finale «la risata sarcastica spazza via ogni residuo di speranza»: in questa sua mondanità al festival del cinema «anche Assunta è caduta», ella «non è pazza, e parla, ma le sue son vuote parole di ossequio al potere».

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Motta, il Don Chisciotte simboleggia la letteratura che si oppone alla storia, in quanto esso è «il libro supremo di chi sta dalla parte dei sogni»33. Quello di Assunta, infatti, è veramente «un sogno fatto in Sicilia» (II, 347): come recita il sottotitolo di Candido (1977), il cui protagonista omonimo, quanto a candore e rigoroso rispetto del vero contro le menzogne del Potere, allunga con esiti sorprendenti la serie dei folli monologanti. Ecco il punto: con la sua follia, vero antidoto al giuoco delle parti, Assunta rompe la convenzionalità dei rapporti sociali, una convenzionalità che ha nelle regole del Potere la sua logica, per approdare a una sorta di porto franco della verità e della libertà, in cui è di nuovo possibile ascoltare quell’intatta e inappagata musica dell’uomo solo che Debenedetti aveva intuito nel mondo pirandelliano34. In questo senso, era nel giusto Giuseppe Zagarrio nel suggerire che, mentre Pirandello tende costantemente alla trasformazione di «creature» in «personaggi», Sciascia mira, al contrario, alla riconversione dei «personaggi» in «creature», liberandoli «dalle forme metamorfosate» per ricondurli «a verità autentica, a vita»35. Salvo aggiungere, però, che quello spazio in cui il «personaggio» rinasce «creatura» è tale soltanto nel silenzio del Potere, nell’azzeramento di ogni consuetudine sociale. Non a caso, la follia di Assunta si precisa nel dialogo con Monsignor Barbarino il quale, nella sofisticazione teologica e nella «concezione di una chiesa pragmatica e permissiva»36, sembra anticipare il don Gaetano di Todo modo, una delle incarnazioni sciasciane del grande Leviatano. 33.  A. Motta, Le metamorfosi del professore Frangipane, cit., p. 174. 34.  Cfr. G. Debenedetti, «Una giornata» di Pirandello (1937), in Id., Saggi critici, Edizioni del Secolo, Roma 1945, pp. 264-288. 35.  G. Zagarrio, Sciascia tra impostura e verità, in A. Motta (a cura di), Leo­ nardo Sciascia, cit., pp. 181-191: p. 182. 36.  A. Motta, Le metamorfosi del professore Frangipane, cit., p. 171.

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A continuare la controstoria d’Italia, come assumendo la Sicilia a pietra dello scandalo della mancata democratizzazione nazionale, Sciascia pubblica nel 1966 A ciascuno il suo, il cui titolo traduce letteralmente l’unicuique suum stampato sulla testata de «L’osservatore romano» che, affiorando sul rovescio di una lettera anonima, fornisce al professor Laurana il primo indizio per avviare la sua indagine. Il romanzo, cronologicamente, comincia laddove finisce L’onorevole: il duplice omicidio che lo apre, infatti, porta la data 23 agosto 1964. Come lo stesso Sciascia suggeriva a Lajolo, A ciascuno il suo riprende il tema della mafia, ma di una mafia orinai «urbana e totalmente politica», simile a quella che aveva avuto come referente elettorale l’onorevole Frangipane. La vera spinta a scrivere il romanzo, infatti, gli era venuta Halle «delusioni del primo centrosinistra» (C.S., 57, ma cfr. anche S.M., 69-70). In effetti, a far da antagonista al detective non è la società criminale gerarchizzata e controllata da un boss, ma un clan familiare che ruota attorno alla figura di un Arciprete. Il giallo si apre con un mistero: una lettera anonima che minaccia di morte il farmacista Manno, uomo irreprensibile a cui è difficile immaginare un solo motivo che giustifichi quella lettera. Il farmacista viene ucciso al termine di una giornata di caccia insieme al dottor Roscio: l’indagine imbastita da Laurana, in contrasto con la solita ipotesi del delitto d’onore sostenuta dalle forze dell’ordine, arriva alla conclusione che l’obiettivo dell’omicidio era Roscio, la cui morte, per ragioni connesse sempre al malaffare, giovava all’avvocato Rosello, nipote dell’Arciprete, cugino e amante dell’avvenente moglie del dottore, la quale fa da complice nell’omicidio: fatto che, non creduto vero da Laurana, gli costerà la vita. Sin dalle prime pagine, inscenate nella farmacia, siamo subito calati in quel clima di diffidenza sospetto e malizia che ben conosciamo. Si è a quel giuoco delle interpretazioni sul delitto, a quel «pirandellismo di natura» che porta, tra velenose ipotesi e sarcasmi,

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alla comica e spietata trasumanazione del povero-dottor Manno: «La metamorfosi del farmacista veniva così realizzandosi anche sotto il tetto in cui per quindici anni era vissuto da marito fedele, da padre esemplare» (I, 793-794). Walter Mauro ha fatto notare che, scomparendo sullo sfondo le figure di mafiosi come don Mariano, è la collettività isolana a prendere decisamente il sopravvento37. A una collettività da cui emerge, il più delle volte per contrasto, il professor Laurana. È questo «curioso» (I, 806) personaggio, infatti, la vera novità del romanzo, detective dilettante come Sherlock Holmes, Philo Vance, Nero Wolfe, Miss Marple, Hercule Poirot, ma sicilianissimo nel vivere e nel sentire e, per di più, intellettuale. A prima vista potrebbe sembrare un personaggio supplente dello scrittore. Laurana, «gentile fino alla timidezza, fino alla balbuzie» ma di severo e irremovibile giudizio (I, 806), ha istintiva ripugnanza per i preti corrotti (I, 836), elettore comunista, con «molto disagio», fonda la politica sull’etica (I, 818), si occupa di Manzoni38 (I, 795), Campana e Quasimodo (I, 840), Dostoevskij, Gozzano e Montale (I, 845), Borgese (I, 878), s’intende di cose d’arte (I, 798-799), come il suo cognome sembra suggerire39, dedica il suo tempo libero alla lettura e

37.  W. Mauro, Sciascia, cit., p. 64. 38.  Si veda il dialogo su Manzoni con lo spregiudicato parroco del paese che legge Casanova (I, 835), il quale, dopo aver sostenuto che per capire Manzoni ci vuole «un libertino vero», non manca di apprezzarne gli esegeti cattolici, per arrivare a dire: «E sa quando ci si avvicina al centro, al magma? Quando si tocca il tema del silenzio dell’amore» (I, 798). Non si può non cogliere qui un omaggio a Manzoni e il silenzio dell’amore (1954) di Vigorelli. 39.  Laurana è uno scultore attivo in Sicilia nel XV secolo. Che Sciascia lo avesse in mente a ridosso della composizione del romanzo è attestato da un articolo apparso su «L’Ora» del 2 gennaio 1965 (Q., 22). Sciascia, come Pirandello (cfr. L. Sedita, La maschera del nome, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1988), è assai attento all’onomastica. In A ciascuno il suo, per esempio, il notaio Pecorilla e suo figlio, personaggi brancatiani, deformano

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allo studio, passando le serate al circolo o in farmacia, impegna l’estate scrivendo articoli di critica letteraria, ama Mattia Pascal interpretato dall’attore Mosjoukine (I, 842). Ma, a ben guardare, non sono pochi gli elementi che lo allontanano da Sciascia. Elementi che attengono a una peculiare concezione dell’erotismo e della donna, ma soprattutto a una particolare idea della legge e del diritto, insomma dello Stato. Non si dimentichi, infatti, in che termini Sciascia concluda il suo ritratto di uomo onesto e «meticoloso», ma «triste»: «non molto intelligente, e anzi con momenti di positiva ottusità», per di più non privo di quella «coscienza di sé, segreta presunzione e vanità» che gli proveniva dal ritrovarsi in un ambiente, quello della scuola, in cui «per preparazione ed umanità» si sentiva diverso. Nella vita è «vittima dell’affetto esclusivo e geloso della madre»: «A quasi quarant’anni ancora dentro di sé andava svolgendo vicende di desiderio e d’amore con alunne e colleghe che non se ne accorgevano o se ne accorgevano appena». Ma bastava che una ragazza ricambiasse per farlo irrigidire, nella paura di quel che la madre potesse pensare (I, 807). Sotto questa greve mora, torbido e limaccioso dislaga il desiderio di Laurana. Eccolo, una volta ravvisato nell’avvocato Rosello il mandante del delitto, fantasticare sulla vedova Roscio, «oscenamente splendente» nella sua mente «come al centro di un labirinto di passione e di morte», per un verso scoprendosi affetto da una «gelosia, immotivata, gratuita, carica di tutte le insoddisfazioni, timidezze e repressioni della sua vita», per l’altro accarezzando «un acre piacere, quasi l’appagamento del desiderio in una sorta di visuale prossenetismo» nel nome, come in declinazione pecorile, il Percolla del Don Giovanni in Sicilia; il barone d’Alcozer, che al caffè Romeris insinua malignità sul fascismo di Pirandello, porta nel nome un riferimento al personaggio del Turno don Diego Alcozèr; sua eccellenza Lumia, altro conversatore del caffè Romeris, ha nel nome un omaggio al palermitano Isidoro La Lumia (1823-1879), autore di romanzi storici.

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(I, 860, ma cfr. anche 866-867). Se questo è vero, si capisce quanto lontano sia Laurana dallo scrittore che, nel 1974, attaccherà il terribile matriarcato siciliano40, duramente criticato dalle femministe41. E se ciò non bastasse a segnare ironica distanza, si pensi ai toni da commedia brancatiana che punteggiano le vicissitudini amorose di Laurana. Eccolo, quando si accorge di un gruppo di giovani che spia la vedova, riconoscere, come disgustato, l’erotica ossessione dei siciliani. Il commento dell’autore è sferzante: «E non considerava che anche lui aveva colto voracemente il bianco lampeggiare della carne tra il nero, e si era accorto di quel gruppo di giovinastri, per il semplice fatto che era della stessa razza» (I, 862)42. Ma è nel rapporto con lo Stato che il personaggio registra notevoli ambiguità, come i recensori più acuti immediatamente notarono43, toccando il punto di maggiore distanza dal suo autore. Diciamo subito, allora, che il professore è spinto a indagare per motivi che attengono più alla curiosità, all’orgoglio e al puntiglio intellettuale (I, 804, 808), che non a una conculcata idea di giustizia. Ma è quando tutti, o quasi tutti, i conti della partita investigativa cominciano a tornare, che Laurana si rivela nei suoi più veri valori, scoprendosi assai più vicino a quel sottobosco in cui dirama il «sentire mafioso», di quanto,

40.  L. Sciascia, Le zie di Sicilia, in «L’Espresso», 27 gennaio 1974. Circa il ruolo del personaggio femminile nell’opera dello scrittore, cfr. G. Jackson, Woman and Nature, in Ead., Leonardo Sciascia: 1956-1976, cit., pp. 31-53. 41.  Cfr. C. Ravaioli, Replica a Sciascia, in «Il Giorno», 24 gennaio 1974, e D. Maraini, Matriarcato e mammismo, in «Paese Sera», 15 febbraio 1974. 42.  Circa la fenomenologia del desiderio nel romanzo, cfr. G. Savoca, Nota su giallo e mafia in «A ciascuno il suo» di Sciascia, in Id., Strutture e personaggi. Da Verga a Bonaviri, Bonacci, Roma 1989, pp. 177-182. 43.  Cfr. G.C. Ferretti, Il nuovo Sciascia (1966), L. Baldacci, Quasi un giallo per capire la Sicilia e la mafia (1966), G. Gramigna, Il professore indaga (1966), tutti in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., risp. pp. 295297, 303-305, 307-309.

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da pochi fulminei accenni, potessimo immaginare. Il narratore ci avverte: se un processo, giuocato su tre indizi malcerti (quelli che il professore ha in mano) e un movente «appena intravisto tra le quinte della maldicenza», fosse terminato in una condanna, Laurana ne avrebbe ricavato rinvigorita conferma a «quella filosofia di repugnanza e di polemica che costitutivamente portava contro l’amministrazione della giustizia» (I, 858). Fin qui niente di sorprendente: siamo alla riprovazione di quelle istituzioni che, come Il giorno della civetta ha mostrato, dalla giustizia sono sideralmente lontane. Ma le cose non sono così semplici. Ce ne accorgiamo quando veniamo a conoscenza dei pensieri di Laurana, preoccupato che Rosello, il colpevole, lo pensi capace di confidarsi col maresciallo o il commissario. Propositi che neanche per un attimo sfiorano il professore: Più che la paura […] era una sorta di oscuro amor proprio che gli faceva decisamente respingere l’idea che per suo mezzo toccasse giusta punizione ai colpevoli. La sua era stata una curiosità umana, intellettuale, che non poteva né doveva confondersi con quella di coloro che la Società, lo Stato, salariavano per raggiungere e consegnare alla vendetta della legge le persone che la trasgrediscono o infrangono. E giuocavano in questo suo oscuro amor proprio i secoli d’infamia che un popolo oppresso, un popolo sempre vinto, aveva fatto pesare sulla legge e su coloro che ne erano strumenti; l’affermazione non ancora spenta che il miglior diritto e la più giusta giustizia, se proprio uno ci tiene, se non è disposto a confidarne l’esecuzione al destino o a Dio, soltanto possono uscire dalle canne di una scoppetta. (I, 860, ma cfr. anche 809)

È, dunque, un peculiare sentimento che marca la netta distanza di Sciascia dal suo personaggio, un sentimento che mette in gioco la stessa nozione di diritto44: quell’oscuro amor proprio

44.  Su questo aspetto cfr. M. Onofri, Il diritto impossibile: un’ipotesi su Leonardo Sciascia, in «Nuovi Argomenti», n. 42, aprile-giugno 1992, pp. 29-39.

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che non consente a Laurana una piena identificazione con gli uomini dello Stato e lo induce alla diffidenza. Laurana è un uomo di netta e rigorosa moralità, di fede democratica, ma sempre con al fondo una riserva che discende da quel nodo ideologico, in cui variamente si stringono amor di sé apprensione e ossessione erotica, che Sciascia scioglierà nel concetto di «sicilitudine». C’è solo da aggiungere che in tale sentimento, in quel sentirsi parte di un popolo da secoli oppresso che diffida della Legge, Laurana, pur nel quadro di un’articolata consapevolezza storica, non è poi così diverso dal Parrinieddu del Giorno della civetta45. Questo identikit di Laurana ci consente di valutare in modo meno drastico uno dei passi più dibattuti di A ciascuno il suo. Si tratta della battuta che chiude il romanzo, con cui i notabili del paese suggellano a mo’ d’epigrafe la vicenda del povero Laurana, finito «sotto grave mora di rosticci, in una zolfara abbandonata» (I, 881): «Era un cretino» (I, 887), dando a intendere di conoscere perfettamente e da tempo il contesto criminoso-familiare in cui matura il delitto Roscio-Manno prima, e quello del professore poi. Per non dire che, in tutto il romanzo, l’epiteto cretino pare sempre sul punto di stamparsi sulla fronte di Laurana: come quando il notaio Pecorilla lo prega di non dire «fesserie» (I, 791) e don Luigi Corvaia ne scopre la «dabbenaggine» (I, 809), o quando la vedova Manno, riferendosi per sottintesi ai loschi affari della famiglia Rosello, definisce il professore, con compatimento, «uomo che si occupa soltanto dei suoi studi», incapace di «vedere certe cose» (I, 813), per non dire del fatto che egli sia uno di quei «cretini» sempre pronti a proporre o a risolvere insulsi rom45.  Un approdo, questo, che annulla ogni possibile lettura progressiva del romanzo, come quella di C. Salinari nel suo Per una narrativa della ragione: Leonardo Sciascia, in Id., Preludio e fine del realismo in Italia, Morano, Napoli 1967, pp. 391-401.

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picapo (I, 808-809). Ha ragione Lo Dico quando osserva che l’insulto è formulato da personaggi che finiscono sotto la lente ironica dell’autore, a conferma che la condanna di Laurana non può coincidere né con la verità dell’autore né con quella del lettore, ma deve essere ritorta sulla collettività stessa dei notabili46. Non v’è dubbio però, sulla scorta di quanto abbiamo visto, che quell’epiteto abbia nel romanzo assai più complesse implicazioni, come la maggioranza degli interpreti ha per altro sostenuto47. E tanto per aggiungere altra carne al fuoco: come non sottolineare la sventatezza di Laurana che finisce per rivelare proprio a Rosello, suo futuro carnefice, i suoi dubbi (I, 827)? Ma c’è di più: Laurana non dà ascolto ai pettegolezzi di un paese che già conosce tutta la verità, mentre si ostina a svolgere la sua indagine con troppa attenzione ai dettagli e con rigoroso metodo logico, «secondo il classico modello anglosassone», sottovalutando del tutto l’ambiente in cui va muovendosi48. Il fatto è che A ciascuno il suo segna un ulteriore iato nel percorso narrativo di Sciascia. Non è in discussione solo, come nel Giorno della civetta, una verità che non riesce a farsi pubblica nell’immorale trionfo del Potere, non si tratta soltanto della clamorosa morte dell’investigatore49, e cioè della soppressio46.  O. Lo Dico, La fede nella scrittura, cit., pp. 85-92, ma cfr. anche U. Schulz-Buschhaus, Gli inquietanti romanzi polizieschi di Sciascia, cit., p. 161, e L. Izzo Pallotta, A ciascuno il suo: il giallo «impossibile» di Leonardo Sciascia, in «Misure critiche», XVII, n. 62-64, pp. 111-116: p. 113. 47.  Cfr. L. Baldacci, Quasi un giallo per capire la Sicilia e la mafia, cit., p. 304; G. Gramigna, Il professore indaga, cit., p. 309; G. Ghetti Abruzzi, Leonardo Sciascia e la Sicilia, Bulzoni, Roma 1974, pp. 58, 62-63; L. Cattanei, Leonardo Sciascia, cit., p. 78; A. Budriesi, Pigliari di lingua, cit., pp. 42-43, 122. 48.  A. Budriesi, Pigliari di lingua, cit., p. 41. 49.  Cfr. F. Cilluffo, Leonardo Sciascia e la tecnica del romanzo poliziesco, cit., p. 104, e U. Schulz-Buschhaus, Gli inquietanti romanzi polizieschi di Sciascia, cit., p. 161.

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ne dell’unica istanza critica in grado di opporsi a un ordine iniquo ed efferato. Qui è in giuoco la possibilità stessa della coincidenza tra investigazione e verità. Non si deve dimenticare, infatti, che Laurana muore perché ha scoperto solo una parte della verità: l’aver compreso che il mandante è l’avvocato Rosello non lo induce a diffidare della vedova Roscio, e ciò gli costerà la vita. Nel romanzo, insomma, Sciascia ha messo in atto una polifonia di voci, di diversa estrazione, che concorrono, certo in misura diversa, a definire il contesto in cui la vicenda delittuosa matura e, soprattutto, il giudizio etico-politico che il lettore introietterà. Sembra qui cadere, in un certo qual modo, quell’utopia antirelativista e antipirandelliana che lo scrittore ha accampato nel suo primo giallo. L’antipirandellismo è confermato solo dalla possibilità data al lettore, non più all’investigatore, di risolvere il giallo e individuare i mandanti dell’omicidio. E infatti, accanto a Laurana, personaggio apparentemente vicario dello scrittore, altre due figure sembrano avanzare una propria visione delle cose, una propria autorevole verità: come a tracciare, in una sorta di fenomenologia dello spirito etico e civile, le diverse posizioni del pensiero (e della verità) di fronte all’oggettività del Potere. Per non dire delle voci che, pur provenendo da personaggi di dubbia moralità, danno apporti decisivi alla ricostruzione dell’impietoso quadro paesano (e nazionale), come quella del parroco, nemico giurato del capo-clan dei Rosello, l’Arciprete. Andiamo con ordine. E cominciamo col dire che è un personaggio cinico ma lucido come il parroco, antenato del don Gaetano di Todo modo, a leggere nell’avventura politica di Rosello quel fallimento del centro-sinistra che è all’origine del romanzo. Come spiega a un stupito Laurana, l’avvocato Rosello, democristiano, membro del consiglio d’amministrazione della Furaris, consulente tecnico della stessa, consigliere della banca Trinacria, membro del comitato esecutivo della Vesceris, presidente di una società per l’estrazione di marmi pregiati

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finanziata dalla Furaris e dalla Trinacria, consigliere provinciale, è proprio quello che ha condotto il suo partito dall’alleanza coi fascisti e a quella coi socialisti, anticipando con fiuto lo spostamento a Sinistra, e ora è guardato con simpatia persino dai comunisti. Per non parlare dei più loschi e privati affari dell’avvocato nel campo dell’edilizia e degli appalti pubblici. Il quadro generale che traccia il prete è impietoso: «[…] il fatto che noi, ad occhio nudo, non vediamo le zampe dei vermi del formaggio non è ragione per credere che i vermi non le vedano… Io sono un verme dello stesso formaggio, e vedo le zampe degli altri vermi» (I, 834-835). Figura di ancor più grande interesse è il novantenne Roscio, padre della vittima, oculista di grande fama. Ambroise, in virtù della sua cecità e della spregiudicatezza con cui parla della nuora, ha opportunamente richiamato il mito di Edipo50. Bisogna solo aggiungere, come ad anticipare in forma contratta e allusiva l’osceno contesto del discorso che il vecchio farà a Laurana, il fatto che Sciascia lo presenti mentre ascolta da un disco il XXX canto dell’Inferno: quello, per intenderci, dei falsatori di persona di moneta e di parola, in cui troviamo, tra gli altri, il Gianni Schicchi che per guadagno si sostituì ad altrui sul letto di morte, l’incestuosa Mirra che si contraffece per possedere il padre, e quel Sinone che fu causa delle sciagure di Troia. Le parole del vecchio Roscio, nel deserto del suo disincanto, sempre sul punto di scivolare in un sonno tanto simile alla morte, sfiorano appena la politica, e solo per sancire, ancora una volta, il fallimento delle speranze progressiste, quando di sfuggita gli viene da osservare che i comunisti sono «anch’essi, in un certo modo, al potere». Il suo cruccio, la sua angoscia, sono rivolti ad altro, al rapporto con quel figlio assassinato, onesto e schivo, intelligente, «ma di un’intelligenza quieta, lenta» (I, 823), in una catena di considerazioni che si 50.  C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 122.

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svolge sul filo di una teologia quasi blasfema, non senza preoccupazioni di ordine morale e religioso. Ecco, allora, le notazioni sulla famiglia cattolica in cui il figlio è entrato, gente che magari ha mangiato «una mezza salma di grano maiorchino fatto ad ostie», ma che «è sempre pronta a mettere la mano nella tasca degli altri, a tirare un calcio alla faccia di un moribondo e un colpo a lupara alle reni di uno in buona salute» (I, 824). Il pensiero va quindi alla nuora, femmina «di quelle che […] si dicevano da letto», per avviare una riflessione che sembra leggibile come a controcanto della luttuosa vicenda erotica di Laurana. Caduta la donna «dal mistero dell’alcova e da quello dell’anima», la Chiesa celebra il suo più grande trionfo, quello che non le era riuscito nemmeno nei secoli «più grevi, più oscuri»: «l’uomo odia finalmente la donna». Ed è proprio nell’esaltazione del corpo femminile, convinto «di correre sulla via maestra della libertà», che l’uomo fa terribile giustizia della donna, esponendola, appunto, «come un tempo restavano esposti gli impiccati» (I, 824-825). Toccato il religioso mistero della donna, il vecchio Roscio, come dipanando, oltre quel filo di pensieri, più atroci verità, sembra arrivare alle soglie di un sacro e sconcio silenzio: «Certe cose, certi fatti, è meglio lasciarli nell’oscurità in cui stanno…» (I, 825). Il discorso si fa a questo punto ambiguo e misterioso. E Roscio sembra lasciar capire a Laurana che nella morte del figlio larga parte abbiano avuto i Rosello, ma subito involgendo le sue parole in una meditazione carica di risonanze metafisiche, suggerendo che la morte possa tradursi in «un piccolo atto di volontà»: Ma voglio dir questo: che ci può essere in un uomo una esperienza, una pena, un pensiero, uno stato d’animo per cui la morte, infine, è soltanto una formalità. E allora, se responsabili ci sono, bisogna cercarli tra i più vicini: e nel caso di mio figlio si potrebbe cominciare da me, ché un padre è sempre colpevole, sempre. (I, 826)

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Siamo a una considerazione di cruciale importanza, come ben intende Laurana che vi ravvisa subito «una specie di doppio fondo; o soltanto un’oscura, dolorosa intuizione». Una considerazione che meglio si illumina a fronte dello scambio di battute che chiude il capitolo: «Il vecchio gli porse la mano, disse “È un problema” e forse si riferiva al delitto, forse alla vita» (I, 826). Il vecchio Roscio che, non dimentichiamolo, ha come chiosato nella sua divagazione teologica il rovescio cattolico dell’erotismo di Laurana, pare aver disegnato lo scenario che porta al delitto del figlio. Ma quasi per ridimensionarlo a margine di un più vasto e oscuro dramma, di un più angoscioso male di vivere. Inutile dire che, a questa altezza cronologica, la posizione del vecchio oculista va implicitamente a sanzionare, e come in chiave apologetica, la società iniqua e criminosa in cui suo figlio soccombe. Ma non si può non avvertire il lettore del fatto che più avanti negli anni, nell’incrudire del suo pessimismo, Sciascia avrà ben altro orecchio alle sirene dello scetticismo dei padri. Per ora si deve constatare che, nella dialettica delle verità, ad acquistare maggior peso è un altro pazzo monologante, sulla linea di Assunta dell’Onorevole, quel don Benito di Montalmo, fratello di un vecchio amico di Laurana, di famiglia repubblicana, che vive la sua pazzia come «una specie di porto franco della verità» (I, 847), e fornisce a Laurana lumi sull’identità del killer di Roscio e Manno. Il suo giudizio sulle cose italiane è durissimo, e giuocato su una nozione di fascismo inteso come fenomeno di ben più vaste dimensioni che non il ventennio nero, ormai onnipervadente l’intera nazione, se arrivato a toccare uomini come l’amico Testaquadra, uno che ha passato tra carcere e confino gli anni migliori della sua vita: È un mio amico, le dico, un mio vecchio amico. Ma non c’è niente da fare, è un fascista. Uno che arriva a trovarsi una piccola e magari scomoda nicchia nel potere, e da quella nicchia ecco che comincia a distinguere l’interesse dello Stato

177 da quello del cittadino, il diritto del suo elettore da quello del suo avversario, la convenienza dalla giustizia. (I, 847-848)

Come si vede bene, la contro-storia dell’Italia contemporanea, che Sciascia ha cominciato a tracciare dalle Parrocchie, va qui a strutturarsi entro una categoria di fascismo, che discende da una precisa idea di diritto e giustizia, un fascismo di natura etica più che storico-politica, e in maggiore sintonia con una metafisica, piuttosto che con una fisica del potere. Una categoria che ha una fonte precisa di cui diremo più avanti. Non ci resta che segnalare, per ora, l’immagine che della Sicilia fornisce don Benito, «uomo libero in un paese che non lo è» (I, 850), dopo aver parlato della tragedia dell’emigrazione, della disperata condizione dell’agricoltura, di zolfare e saline. Un’immagine che, ancora una volta, viene da un uomo che legge il mondo attraverso i libri e vive segregato nella sua biblioteca (I, 850-851), tratto che accomuna tutti i personaggi che si fanno portatori nel romanzo di una qualche verità: Stiamo affondando, amico mio, stiamo affondando… Questa specie di nave corsara che è stata la Sicilia, col suo bel gattopardo che rampa a prua, coi colori di Guttuso nel suo gran pavese, coi suoi più decorativi pezzi da novanta cui i politici hanno delegato l’onore del sacrificio, coi suoi scrittori impegnati, coi suoi Malavoglia, coi suoi Percolla, coi suoi loici cornuti, coi suoi folli, coi suoi demoni meridiani e notturni, con le sue arance, il suo zolfo e i suoi cadaveri nella stiva: affonda, amico mio, affonda…

Ma dal passo è possibile spremere più sugo, solo che lo si confronti con le battute finali relative all’osservazione di don Benito che, l’uno da «folle», l’altro «forse da impegnato», stanno ad occuparsi di Raganà, il killer di Roscio e Manno, mentre l’acqua arriva ormai alle ginocchia: «“Non sono d’accordo” disse Laurana. “Tutto sommato nemmeno io” disse don Benito» (I, 851). Come a segnalare che, nel giuoco multiplo delle verità, le ragioni della speranza e quella della disperazione, in una lot-

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ta senza tregua, sembrano continuamente mutarsi di posto. E ciò, alla luce di un fatto che in A ciascuno il suo pare acquisito: il parziale recupero come prospettiva d’autore di quel «pirandellismo di natura» che ha scandito la formazione di Sciascia e che lo scrittore, dalle Parrocchie al Giorno della civetta, ha tentato di esorcizzare quale rispecchiamento, in termini lu­ kacsiani, di una iniqua e disperata condizione storica e sociale. In questa divaricazione tra narratore e investigatore si incunea, dunque, il relativismo pirandelliano51. E il significato del romanzo non può che venire dalla composizione dei diversi punti di vista. Tutto converge nel definire il contesto entro cui svanisce la possibilità stessa della giustizia. Al centro della nera trama è una famiglia con al vertice un Arciprete, tanto morigerato quanto rapace. La vicenda criminosa del clan Rosello con i suoi facili e illeciti guadagni, col suo agile trasformismo, diventa felicissima metafora della storia della Sicilia, dell’Italia, negli anni del centro-sinistra, e nel segno di quel fascismo etico-civile che Sciascia segnala come ultimo approdo di una società fondata sulla religione della famiglia è della «roba». L’incestuoso matrimonio tra i due cugini, l’avvocato Rosello e la vedova Roscio, è la trionfale consacrazione di questa religione: con la loro unione la famiglia si cementa, mentre «la roba» non si disperde52. Un’unione che gronda del sangue di chi ad essa ha attentato. Non staremo a ripetere cose sopra dette del «familismo», in relazione a una precisa tradizione letteraria. Vogliamo solo aggiungere che questa tradizione, dal Pirandello dell’Esclusa allo Sciascia di A ciascuno il suo, assuma la forma di una palinodia dell’opera in cui la religione della «roba» è

51.  Cfr. L. Izzo Pallotta, A ciascuno il suo: il giallo «impossibile» di Leonardo Sciascia, cit., p. 116. 52.  Sulle implicazioni antropologiche e psicanalitiche di questa vicenda, nel segno di Freud e Lévi-Strauss, ha scritto pagine esemplari C. Ambroise, in Invito alla lettura di Sciascia, cit., pp. 119-129.

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celebrata ai supremi livelli, I Malavoglia di Verga, rivelandone il lato turpe e osceno, ravvisandone la vera grande tragedia morale e civile della nostra storia. Si può notare che questo aspetto di palinodia si incrocia assai bene con il carattere dichiaratamente parodico del romanzo, carattere che, per altro, dimostra a priori e al di là di ogni dubbio, l’impossibilità di identificare Laurana con l’autore. È infatti A ciascuno il suo, prima ancora del Contesto, che tale tratto esibisce nel suo sottotitolo (II, 1), a rivelarsi come parodia del romanzo poliziesco in quanto tale: cosa che a Calvino, in una lettera del 10 novembre 1965, non era sfuggita, quando scriveva che in tale «giallo che non è un giallo […] viene dimostrata l’impossibilità del romanzo giallo nell’ambiente siciliano»53. Tanti sono gli elementi, a cominciare dall’epigrafe di Poe: «Ma non crediate che io stia per svelare un mistero o per scrivere un romanzo». Per non dire delle tante inserzioni ironiche (I, 794, 808-809, 839-840, 879-880), ove si ironizza sulla stessa tradizione del romanzo poliziesco, come quando il professore vede la propria vicenda investigativa «declinata nella tecnica, nella forma, e un po’ anche nell’idea di un Graham Greene»54 (I, 865). Ma, in quest’ottica, c’è un passo da cui è possibile ricavare la fonte di questa parodia: Che un delitto si offra agli inquirenti come un quadro i cui elementi materiali e, per così dire, stilistici consentano, se sottilmente reperiti e analizzati, una sicura attribuzione, è corollario 53.  I. Calvino, I libri degli altri, cit., p. 538. 54.  A sottolineare il carattere parodico del romanzo, A. Budriesi, Pigliari di lingua, cit., p. 73, ha osservato che Sciascia non poteva ignorare il decalogo di Van Dine circa la corretta costruzione di un giallo, ove si sconsigliava di arrivare alla scoperta dell’identità del colpevole confrontando il mozzicone di sigaretta trovato sul posto del delitto con quelle che fuma un sospettato: cosa che invece avviene con i sigari Branca nel romanzo. Sul rapporto di Sciascia con Greene, cfr. A. Motta, Graham Greene e Sciascia, in Id. (a cura di), Il sereno pessimista, cit., pp. 145-147.

180 di tutti quei romanzi polizieschi cui buona parte dell’umanità si abbevera. Nella realtà le cose stanno però diversamente.

Questa diversità, aggiunge il narratore, non dipende dalla scarsa intelligenza degli investigatori, ma dal fatto che gli elementi presenti in un delitto sono sempre insufficienti a risolverlo. Tali elementi sono «la delazione anonima, il caso», e «soltanto un po’, l’acutezza degli inquirenti» (I, 816). Quel caso che, appunto, conduce Laurana nel ristorante ove incontra il suo vecchio compagno di scuola, ora deputato comunista, o sulle scale del Palazzo di giustizia a Palermo, acquisendo fondamentali indizi per la scoperta dei colpevoli. Il caso: ecco il grande protagonista del giallo. La fonte a cui si richiama Sciascia non può che essere, dunque, Friedrich Dürrenmatt55. Non è stato infatti proprio lui a introdurre il caso (Zufall) come protagonista principale del Giudice e il suo boia (1952)? Non è stato sempre lui a scrivere La promessa (1958), dal significativo sottotitolo Un requiem per il romanzo-giallo, in cui un funzionario di polizia spiega l’assurdità dei gialli, costruiti sempre come partite a scacchi, quando invece, nella realtà, l’investigatore possiede soltanto pochi elementi, perlopiù secondari, non necessari a chiudere l’indagine? Non abbiamo citato tale passo per ravvisarvi solo una fonte importante, a ulteriore conferma del carattere «inquietante» di A ciascuno il suo, di problematica e anomala soluzione, nel senso dato da Schulz-Buschhaus. Vogliamo invece sottolineare il fatto che tale inserzione d’autore vada già ad occupare quello spazio di vigile riflessione, di perplessa moralità, che a partire dal Contesto, come ha mostrato Ricciarda Ricorda in un saggio di svolta, si configurerà, in modo sistematico, nel segno

55.  Anche F. Cilluffo, in Leonardo Sciascia e la tecnica del romanzo poliziesco, cit., pp. 108-109, ha fatto tempestivamente il nome dello scrittore svizzero, ma per paragonare, in modo non convincente, Laurana al Barlach del Giudice e il suo boia.

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di una «retorica della citazione»56. Questo nuovo livello del discorso, per altro, è reso possibile dal fatto che nel romanzo, stante il risultato del Consiglio d’Egitto, Sciascia riapra la partita tra letteratura e realtà. C’è un passaggio, a tale proposito, assai illuminante: «Una serata al circolo, per lui, era come leggere un libro: di Pirandello o di Brancati, secondo i temi e gli umori della conversazione» (I, 855). Come si vede, in un passo ove eccezionalmente sono indicati i modelli a cui l’autore si sta richiamando nell’interpretazione della realtà, la realtà stessa pare come centrifugata e riorganizzata nei modi di una verità che la letteratura assicura. Pirandellismo e brancatismo, insomma, non indicano solo una temperie stilistica, una certa ossessione tematica, ma peculiari processi di categorizzazione, veri e propri stratagemmi, di forte valenza conoscitiva e morale, grazie a cui acquistano senso e misura certe situazioni narrative57. C’è da dire che in tali processi di formalizzazione gnoseologica, accanto ai nomi di Pirandello e Brancati, bisogna fare quello di Borgese, cui proprio qui tocca una decisa rivalutazione, foriera di grandi sviluppi. Non sfuggirà al lettore attento quel che dice il preside al commissario sull’ultimo dialogo con Laurana: «Perché abbiamo parlato di Borgese? Ma soltanto perché Laurana, da un po’ di tempo a questa parte, si è messo in testa che Borgese sia stato sottovalutato, che bisogna rendergli giustizia». (I, 878)

L’omaggio all’autore di Rubè (1921) risulta chiaro, soprattutto alla luce del fatto che Sciascia, mentre scriveva il romanzo, aveva pubblicato un articolo su «L’Ora» del 20 febbraio 1965, ove confessava di aver riletto quell’opera, non apprezzata venticinque anni prima, riconoscendovi una lucida fotografia della 56.  R. Ricorda, Sciascia ovvero la retorica della citazione, in «Studi novecenteschi», VI, n. 16, 1977, pp. 59-93. 57.  Cfr. anche O. Lo Dico, La fede nella scrittura, cit., pp. 71-72.

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società italiana alle soglie del fascismo (Q., 45-46): un articolo che, pur tra incertezze, in parte anticipa il bel saggio poi raccolto in Cruciverba. Ma la rivalutazione più vera che di Borgese si compie sta nel fatto che il suo Golia. Marcia del fascismo (1938) sia la fonte precipua di quella interpretazione del fascismo in chiave metastorica, in una prospettiva etico-civile più che politica, che Sciascia ha affidato nel romanzo al personaggio di don Benito. È Borgese, dunque, il vero punto d’approdo di questa contro-storia d’Italia letteraria e civile. Aggiungiamo solo che, se in A ciascuno il suo Sciascia riscopre il Borgese saggista e il romanziere, negli anni Settanta, in concomitanza con certe riflessioni sulla letteratura, sarà lo studioso d’estetica a essere recuperato. E con grandi conseguenze. Un’ultima notazione. C’è un passaggio del romanzo che pare la migliore introduzione al prossimo capitolo. Laurana è nello studio di Roscio, quando vede le Lettere alla signora Z. del polacco Kazimierz Brandys, che la vittima ha lasciato aperto sulla scrivania a un punto cruciale: «Solo l’atto che tocca l’ordinamento di un sistema pone l’uomo nella cruda luce delle leggi» […] riconobbe il luogo del discorso, il contesto: dove lo scrittore parla di Camus, dello Straniero. «L’ordinamento di un sistema!» e dov’è qui il sistema? C’è mai stato, ci sarà mai? Essere stranieri, nella verità o nella colpa, è un lusso che ci si può permettere quando c’è l’ordinamento di un sistema. A meno che non si voglia considerare sistema quello in cui il povero Roscio è scomparso. E allora l’uomo è più straniero nella parte del boia che in quella del condannato; più nella verità se manovra la ghigliottina, e meno se ci sta sotto. (I, 830-831)

Siamo a un punto di complicata interpretazione, in cui il diritto, il sistema delle leggi sembrano acquistare un significato assai più vasto di quello che attiene alla politica e alla giurisprudenza. Qui, il romanzo pare aprire un varco allo sgomento esistenziale, come a suggerire che proprio nel rapporto con il

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sistema legislativo sia possibile dimostrare, quasi una sorta di prova ontologica, l’esistenza dell’uomo come animale morale. In un sistema normativo, pare suggerire Laurana, l’atto che ne infrange l’ordinamento pone il colpevole nel dominio della legge, obbligandolo alla nuda e straniera esistenza di individuo a fronte della comunità vivente che, entro quel sistema, come comunità si costituisce. Il rispetto o l’infrazione della norma, insomma, sembra la via maestra per certificare l’irriducibile individualità morale del singolo di contro alla comunità. Cosa che non pare verificarsi nella società in cui Roscio è morto e vissuto, quella società dove, latitando lo Stato, l’uomo sembra poter esistere eticamente, nella verità o nella colpa, solo entrando in rapporto con un Potere, declinato dal lato della violenza arbitraria e non del diritto, che si autolegittima e autoriproduce. Un passo ancora, e saremo alle meditazioni teologico-politiche del Contesto e di Todo modo. Nel 1969, come a ricapitolazione di un decennio letterario, Sciascia pubblica la Recitazione della controversia liparitana dedicata ad A.D. La struttura, pur atteggiata in forma drammaturgica, richiama subito Morte dell’inquisitore, in virtù dell’appendice documentaria, questa volta rappresentata dal Diario del canonico Mongitore, testimone degli avvenimenti narrati. La comunanza più vera tra le due opere sta, però, nella riattualizzazione del modello manzoniano della Colonna infame: la ricostruzione storica, in funzione del presente, torna a essere lo spazio privilegiato per uno scandaglio morale. Gli anni in cui si svolge la vicenda, 1711-1718, che vede la Sicilia passare dalla Spagna ai Savoia col trattato di Utrecht (1713) e a Filippo V ritornare, nel segno di uno strenuo conflitto tra la Chiesa romana e il Viceregno, circa i diritti dello Stato e le immunità ecclesiali nell’isola, rimandano invece al Settecento del Consiglio d’Egitto. Ma la dedica ad A.D., Alexander Dubcek, l’uomo della «Primavera di Praga», la vittima simbolo dell’imperialismo sovietico, lascia chiaramente intendere che la pole-

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mica di Sciascia non è rivolta solo al cattolicesimo ma anche al comunismo, quel comunismo-chiesa madre, irrispettoso delle autonomie e delle eterodossie, fautore spietato di una sorta di dogma dell’infallibilità ideologica. Come se lo scrittore avesse voluto inserire la contro-storia d’Italia tracciata nei suoi romanzi d’ambientazione contemporanea in un più vasto e amaro quadro internazionale. Veniamo alla vicenda. Alcuni ufficiali annonari sequestrano un pugno di ceci delle dispense vescovili, non essendo stata pagata la tassa. Il Vescovo di Lipari, rivendicando il privilegio ecclesiastico dell’esenzione fiscale, colpisce con la scomunica i due ufficiali che pure si erano affrettati a scusarsi. A Palermo, intanto, il tribunale della Monarchia dichiara nulla la scomunica, richiamandosi alla bolla di Urbano II del 1097 che concedeva a Ruggero il Normanno e ai suoi successori il potere su materia ecclesiastica non dogmatica. Da questo futile conflitto si riaccende una controversia fino ad allora rimasta latente, in cui sono coinvolti, oltre al viceré e ai vescovi renitenti alla sua autorità, teologi, giureconsulti, universitari e alti funzionari, con grande minaccia per l’unità religiosa del clero e del popolo siciliano. Sciascia, in un saggio dedicato allo zelante «sbirro» che imprigionò tanti prelati ribelli, Una rosa per Matteo Lo Vecchio (1969), ben sintetizza i termini della Recitazione: Vennero fuori «uomini nuovi», una vera e propria classe dirigente quale mai la Sicilia aveva avuto (e mai, purtroppo fino ad oggi, avrà). Corsero venature gianseniste, si ebbero più stretti rapporti con la cultura francese. Un clero che credeva in Dio e propugnava il diritto dello Stato contro la temporalità della chiesa veniva affermandosi contro il vecchio clero isolano sostanzialmente ateo, avido di benefici, intento a scrutare e ad avallare prodigi e superstizioni. (I, 1016)

Non vogliamo indugiare su questi dati storici. Ci limitiamo a segnalare, a quest’altezza, l’irruzione di una religiosità di ascendenza giansenista (Pascal è citato in epigrafe) gravida di futuro.

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Importante è il fatto che la Recitazione, opera ricapitolativa, va a fungere da raccordo tra un atteggiamento di forte risentimento storico-politico e un’inclinazione di tipo metafisico, di una metafisica del dominio priva di referente divino. E ciò, in virtù della sua struttura recitativa per cui, come in un giuoco delle parti, si declina una meditazione a più voci. Ha ragione Ambroise quando osserva che, troppo attenti all’attualità dubcekiana, «c’è il rischio di restare alla superficie di un testo che è, anzitutto, riflessione sul potere»58. E si veda quanto il critico scrive sul nesso tra potere e scomunica, la scomunica che angoscia in punto di morte il Lo Vecchio (I, 943-944), con un’analisi che resta un punto fermo nella storia della critica: Ma l’analisi del rapporto tra scomunica e potere richiede di tirare in ballo un personaggio che, nell’opera di Sciascia, è sempre di casa: la morte. Il potere è sempre potere di uccidere. La morte rende credibile il potere, dimostrandone l’efficacia. Ma ne mette anche in evidenza il limite. Sui morti non si ha più alcun potere […]. Perché ci sia esercizio effettivo del potere, chi lo subisce deve anticipare la propria morte, viverla. Di lì, l’invenzione della tortura, della carcerazione, della scomunica che costituiscono, per chi ne è oggetto, altrettanti modi di vivere la propria morte. Nella misura in cui la morte è la definitiva espulsione dalla comunità degli altri uomini, la scomunica, che è anch’essa una morte civile, la anticipa.59

In tale prospettiva la scomunica diviene uno di quegli atti da inscrivere in quella grammatica del Potere che sempre regola le vicende che Sciascia ricostruisce: e come in controluce. Il fatto narrato è sempre sul punto di convertirsi in apologo, la verità storica in verità morale e ontologica. Come in Morte dell’inquisitore, anche qui si arriva alla conclusione che il vero 58.  C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 131. 59.  Ivi, pp. 133-134.

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vivere, quello che tiene alta la dignità dell’uomo, si risolva in un’istanza radicalmente libertaria, come consegnata a un’eresia permanente. Si veda la reazione del Longo, uno dei sostenitori delle prerogative del viceré, lettore di Cartesio, Agostino e Giansenio, di fronte al Lo Vecchio morente: Un uomo non può scomunicare un altro uomo. Anche se quest’uomo è il papa, non può; non può, capisci? (quasi gridando) non può! Nemmeno Dio può scomunicare un uomo: rinuncerebbe a conoscersi. Non ci sono scomuniche. (I, 943-944)

Solo un atto di libertà radicale può abolire gli spazi della scomunica, quegli spazi in cui, come nella tortura e nel carcere, il Potere si manifesta e legittima. Per questo, come osserva un altro personaggio, l’Ingastone, non importa il fatto che si sia perso nella partita con Roma e il Papa: quello che conta è l’aver inventato «il cristianesimo in un paese che è cristiano solo di nome», l’aver dato «alla vuota maestà del diritto un contenuto di umanità, di giustizia». La rovina è certa, «ma – aggiunge Ingastone – perdio, ci siamo stati» (I, 941). Perché è nella lotta con il Potere che l’uomo giuoca la sua più grande scommessa di moralità e dignità.

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Capitolo V

Una microfisica del potere 1970-1974

È significativo che, nel 1970, alle soglie del Contesto, romanzo di svolta, appaia un saggio che sembra chiudere la stagione delle approssimazioni critiche e aprirne una radicalmente nuova. Stiamo parlando della Verità pubblica di Leonardo Sciascia1 di quel Salvatore Battaglia che curò, tanto per dirne una, la traduzione della Ribellione delle masse (1945) di Ortega y Gasset e scrisse una Mitografia del personaggio (1966): critico, insomma, del quale Sciascia sarà, con notevoli conseguenze, appassionato lettore2. Il saggio è dedicato alla Recitazione, ma ciò che si tenta è un vero e proprio bilancio, il cui primo risultato è la liquidazione di ogni lettura neorealista dell’intera opera. Battaglia riesce a dar ragione, con estrema lucidità, di come vengano coniugate tensione etico-civile e letterarietà: Sciascia è oggi uno dei rari scrittori che costruisca l’opera al di là e al di sopra della letterarietà, pur essendo intimamente 1.  S. Battaglia, La verità pubblica di Leonardo Sciascia (1970), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 215-226. 2.  Non sfuggirà al lettore che Battaglia sia stato uno dei grandi lettori di Borgese, a cui dedicò un significativo articolo, apparso su «Il Mattino» il 21 gennaio 1965, proprio a ridosso della stesura di A ciascuno il suo, ove, come abbiamo visto, Borgese acquista importante ruolo.

188 convinto che l’attendibilità e l’attualità della storia e dell’esistenza sia possibile conseguirle in forme durature mercé il tramite dello stile e delle strutture del racconto o del teatro, anche del saggio.3

Con pari acutezza, viene anche posta la questione, tanto abusata quanto fraintesa, ancora stancamente trascinata4, dell’illuminismo di Sciascia, in termini che sono forse gli unici plausibili, con implicazioni che pongono le premesse per il suo definitivo superamento. Scrive Battaglia con la sensibilità del filologo romanzo: «Nella Recitazione sono presenti le metafore d’una civiltà intera: quasi un “mistero” medievale di regia illuministica»5. Il critico intuisce perfettamente che «in trasparenza agli antichi simboli della storia» si intraveda «una verità che trascende le persone e le contingenze per porsi a esponente di una condizione umana perennemente bifronte»; e l’episodio storico, senza alcuna alterazione dei suoi tratti pertinenti, sembra levitare verso «significati emblematici»6. Una soluzione morale e letteraria, questa, che induce Battaglia a parlare di convergenza tra illuminismo ed esistenzialismo7, con il risultato di consegnare alla critica, ben profilata, l’immagine di uno Sciascia di equivoca e suggestiva trasparenza stilistica, di complicato e suggestivo razionalismo: Alla fine d’ogni libro sembra che l’autore abbia voluto darci un contesto ben preciso e di rigorosa misura, ma nel contempo,

3.  S. Battaglia, La verità pubblica di Leonardo Sciascia, cit., p. 216. 4.  Cfr. L. Lorenzini, La «ragione» di un intellettuale libero. Leonardo Sciascia, Rubbettino, Messina 1992. 5.  S. Battaglia, La verità pubblica di Leonardo Sciascia, cit., p. 218. 6.  Ivi, p. 219. 7.  A continuare questa linea interpretativa tra illuminismo ed esistenzialismo, sicilianità e cosmopolitismo, approfondendo il discorso con notazioni sulla tradizione isolana problematica e antiverghiana, che muove da De Roberto e Pirandello, in cui Sciascia si inserirebbe, è stato soprattutto N. Tedesco, particolarmente in Un sorvegliato spazio di moralità e ironia, cit.

189 una sua cifra segreta, che rimanda il significato ad altro segno, dove la realtà e la storia ritornano a farsi ambigue e irrelate.8

Prima di passare al Contesto converrà esaminare rapidamente due opere che sembrano, in diversa guisa, ricapitolare i risultati del decennio trascorso. Parliamo della Corda pazza (1970), e del Mare colore del vino (1973) che raccoglie racconti scritti tra il 1959 e il 1972 (I, 1381). Esamineremo poi gli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel (1971), che disegnano bene il nuovo quadro letterario in cui Il contesto matura. Non a caso, ad aprire La corda pazza, è Sicilia e sicilitudine (1970), un saggio fondativo, vera e propria condizione trascendentale della raccolta. Punto d’arrivo di esso, nell’assunto che la storia della cultura siciliana sia tutta da riformulare, è la conquista di una posizione mediana tra la tesi di eruditi e storici locali come Salomone-Marino, Pitré e Di Marzo, assertori della vivacità di tale cultura e quella di Gentile che, nell’opera di costoro, identificava l’immagine di una Sicilia «tagliata fuori dal movimento della cultura europea». Una convinzione che veniva a Gentile dal «carattere materialista della cultura siciliana», refrattaria «al romanticismo, all’idealismo e, in definitiva, al nazionalismo italiano» (I, 965-966). Su queste premesse, sulla scorta degli Avvertimenti a Marco Antonio Colonna quando andò viceré in Sicilia di Scipio di Castro, messinese del XVI secolo, del discorso su Verga del 1920 di Pirandello e del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, Sciascia definisce i tratti del concetto di «sicilitudine», un modo d’essere non naturale, ma risultante «da particolari vicissitudini storiche e dalla particolarità degli istituti» (I, 962). Siamo, di nuovo, a quegli atteggiamenti che Sciascia non ha mai cessato d’indagare: una grande cautela negli affari privati e l’estrema temerarietà in quelli pubblici; l’insicurezza come 8.  S. Battaglia, La verità pubblica di Leonardo Sciascia, cit., p. 221.

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«componente primaria della storia siciliana» per le continue invasioni dal mare, radice di «paura, apprensione, diffidenza, chiuse passioni, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo» (I, 963); una specie di follia che tale insicurezza e vulnerabilità traduce in un singolare complesso di superiorità; una vocazione al separatismo e all’indipendenza che, dando vita nei secoli a privilegi e franchigie, ha generato quella «coscienza giuridica astratta e involuta» che è alla base di quelle «facoltà causidiche e sofistiche» che già Cicerone attribuiva ai siciliani (I, 965). Tutti i saggi del libro possono essere letti a ridosso di tale «sicilitudine», e in duplice prospettiva. Da una parte, infatti, ci sono quelli che articolano tale concetto alla luce della vicenda di scrittori o artisti conterranei, o in riferimento ad alcuni fenomeni di rilevanza storico-antropologica, come le Feste religiose in Sicilia (1965), a documentare la radicale irreligiosità e la totale impermeabilità «a tutto ciò che è mistero, invisibile rivelazione, metafisica» (I, 1155). Dall’altra, abbiamo invece gli scritti che, sulla scorta di Morte dell’inquisitore, verificano la «sicilitudine» sul piano della Storia, saggiandone la capacità di condizionamento, come in Vita di Antonio Veneziano (1967), Dal monastero di Palma (1970), Una rosa per Matteo Lo Vecchio (1969), Io, Villabianca (1969), Brigantaggio napoletano e mafia siciliana (1968). Quanto agli scrittori e artisti isolani, non si deve dimenticare che Sciascia, nell’introduzione a un’antologia del 1967, indicava nel «realismo» il «carattere essenziale» della narrativa siciliana, arrivando a concludere che anche il «fantastico» di Nino Savarese e di Fortunato Pasqualino altro non fosse che «una cifra religiosa della realtà, e della realtà siciliana»9. Ecco, dunque, ordinarsi nella Corda pazza saggi come Navarro della 9.  L. Sciascia, Introduzione, in L. Sciascia - S. Guglielmino (a cura di), Narratori di Sicilia, Mursia, Milano 1967, p. VI.

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Miraglia (1963), a ravvisare nella Nana dello scrittore di Sambuca Zabut, anticipando Pirandello, un aspetto non convenzionale dell’isola, quel «mondo contadino della Sicilia interna in cui l’illecito sessuale invece che suscitare esiti tragici veniva come assorbito nella sfera della spiritualità» (I, 1059); ecco, allora, Francesco Lanza (1968), a riscontrare nei Mimi la prima grande formalizzazione della beffarda e faceta tradizione orale studiata dal Pitré, vero inizio della commedia erotica poi celebrata da Brancati; ecco, quindi, Don Giovanni a Catania (1970), a segnalare nell’erotismo dei tanti personaggi brancatiani «una forma quasi patologica di petrarchismo» (I, 1122); per non dire di Verga Vittorini e Lucio Piccolo, di Emilio Greco e Bruno Caruso, o di quelle Note pirandelliane (1968-1970) in cui vengono ricapitolate le consuete tesi gramsciane su Pirandello, questa volta in relazione alla presunta influenza della cultura tedesca, alla fortuna critica, all’esperimento dialettale di Liolà, al rapporto con Lanza e al dramma borghese dell’incesto che sarebbe celato nei Sei personaggi. Ci pare inutile indugiare ancora su un libro ideologicamente omogeneo e coerente. L’idea di letteratura che lo caratterizza, concepita, quanto alla sua forma, nel segno della «localizzazione» ed «individualizzazione» (I, 1106), non sembra fuoriuscire dall’orizzonte gramsciano-lukacsiano registrato nelle raccolte critiche precedenti. Il saggista Sciascia, dunque, sembra rimanere un passo indietro al narratore. Ma è possibile che le svolte di poetica, segnalate nel Consiglio d’Egitto e in A ciascuno il suo, non interagiscano, in qualche modo, con La corda pazza, benché senza alterarne la compattezza? Una domanda, questa, che può trovare risposta badando a particolari minimi, apparentemente insignificanti. Prendiamo in considerazione, allora, il ricco repertorio di citazioni reperibile in queste pagine. Il lettore vi noterà subito nomi che vanno senz’altro ad allargare la pur folta anagrafe di scrittori e artisti amati che abbiamo ricostruito per gli anni dell’apprendistato fino a tutti gli anni

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Cinquanta: Sade e Masoch, Montaigne e Foucault, Cervantes, Unamuno e Ortega y Gasset. Assai in rialzo sono le azioni di Tomasi di Lampedusa, citatissimo, con cui Sciascia andava riconciliandosi. Importante la riabilitazione di Borgese, che finalmente (e siamo nel 1968) viene citato tra i critici pirandelliani degni di nota, addirittura l’unico che «meriti considerazione» prima di Tilgher (I, 1075). Vittorini resiste ancora ma non per molto. Nel saggio La Sicilia nel cinema (1963), infatti, Sciascia cerca di leggerlo come momento centrale di una tradizione che, muovendo da Verga, arrivava a Brancati e Quasimodo, nel segno di «una conversazione […] che gli strati e gli incroci della storia, delle civiltà, deputavano alla Sicilia» (I, 1209). Da allora in poi le valutazioni dell’autore del Garofano rosso sembrano in caduta libera. Fino al crollo del 1981: «Ho riletto anch’io Conversazione. Non resiste, purtroppo. È una Sicilia tradotta. Di Vittorini, per me restano le pagine del Diario in pubblico. […] Lo scrittore siciliano che cresce nel tempo è, di quegli anni, Brancati» (C.S., 38). Si potrebbe dire, però, e paradossalmente, che la più folgorante illuminazione della Corda pazza stia in un atto mancato, che, insomma, la vera smagliatura del libro stia in un saggio che non vi fu raccolto. Nel 1967, Sciascia pubblicava un’introduzione a un catalogo dell’opera di Antonello da Messina per i «Classici dell’arte» Rizzoli. Quel saggio, in cui l’arte pare assumere su di sé il compito di prefigurare la realtà, tramandone segrete e archetipiche rispondenze, verrà raccolto successivamente in Cruciverba col titolo L’ordine delle somiglianze, quasi a individuare un oscuro punto di convergenza di tutti gli articoli nati nei successivi anni Settanta. Il poeta Nino De Vita, che nell’allestimento di Cruciverba fu vicino allo scrittore, ci assicura che il mancato inserimento nella prima raccolta fu del tutto casuale e da ascrivere a mera dimenticanza. Un’omissione che sarebbe piaciuta a Savinio e Borges, ma anche, crediamo, allo Sciascia impossibile lettore di questo libro.

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Il mare colore del vino, osserva Sciascia nella Nota finale, è «una specie di sommario della mia attività» (I, 1381), nel segno, ci pare, di un’investigazione sul doppio versante di un passato storico e di un presente entrambi emblematici. I racconti sono stati raccolti nell’ordine in cui furono pubblicati, in stretta corrispondenza con i libri che lo scrittore in quell’arco di anni andava pubblicando, e come ripetendone in forma contratta lo stesso repertorio tematico-stilistico. Non sarebbe difficile darne circostanziata campionatura. Ecco, allora, fantasia storica sul borgo natio che pare uscita dalle pagine delle Parrocchie, la vicenda dello sconcio matrimonio tra don Nicola Cirino e Concettina G. narrata in Reversibilità. Pensato a ridosso della Zia d’America è Il lungo viaggio, come testimoniano anche le inserzioni lessicali siculoamericane, racconto giuocato sulla truffa subita da un gruppo di emigranti che, partiti dalla Sicilia per raggiungere l’America, si ritrovano sull’isola dopo 11 giorni di viaggio. Al difficile e traumatico rapporto Nord-Sud è invece dedicato L’esame, ove un certo Blaser, svizzero, scende in Sicilia per reclutare alcune operaie. In stretta correlazione con La morte di Stalin, è La rimozione, scritto dopo che venne rimossa la salma del dittatore sovietico dal mausoleo. Raffinatissimo racconto è Filologia, composto subito dopo l’istituzione della Commissione antimafia, ove due mafiosi disquisiscono sul termine «mafia», avvalendosi di tutte le sue occorrenze nei dizionari e nelle opere storico-letterarie; e ciò, nella convinzione che, in Commissione, «tra storia, filologia e lettere anonime non si capirà più niente» (I, 1326), ad avallare un’immagine di sé stessi, uomini d’onore, come «persone d’ordine», né «terroristi», né «anarchici» (I, 1330). Nutrito della stessa linfa di A ciascuno il suo pare Un caso di coscienza, ove, in un contesto isolano disegnato entro un’ottica brancatiana, esplode pirandellianamente la follia dell’adultera venuta a conoscenza che il marito da sempre sapeva.

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Potremo continuare in questa trama di relazioni. Vogliamo, invece, fermarci su alcuni racconti che meritano una menzione particolare. E cominciamo da Il mare colore del vino e dalla storia che vede protagonista Giufà, il babbeo vivo nella tradizione popolare sin dai tempi della dominazione araba. Nel primo, un viaggio in treno di una famiglia siciliana con un ingegnere del Nord, un bambino vivace e impertinente, che si ostina a vedere nel mare il colore del vino, funge da punto di vista straniante e demistificante circa i luoghi comuni e le menzogne via via formulati dai diversi passeggeri durante il viaggio. Nel secondo, il babbeo uccide il cardinale, che scambia per una bestia, riuscendo per estremo di imbecillità a non farsi incriminare, in ciò dimostrando che «la stupidità va d’accordo con la malizia sempre» (I, 1306-1307). Inutile dire che, nel loro totale candore, il bambino e Giufà accrescono quella folla di puri folli, pazzi monologanti, come l’Assunta dell’Onorevole, che avrà come massimo rappresentante Candido. Aggiungiamo solo che nel primo racconto abbiamo la rarissima irruzione di uno smemorante, benché casto e fulmineo, incontro d’amore: fatto che nell’opera di Sciascia si ripresenterà solo in Candido, nel rapporto del protagonista con Paola e Francesca. Degno di nota, ad anticipare gli Atti relativi per l’interesse a una riscrittura dei verbali di polizia, è Apocrifi sul caso Crowley, quel Crowley che ritroveremo tra i protagonisti del bel romanzo di Vincenzo Consolo Nottetempo, casa per casa (1992). Ma grande attenzione bisogna prestare a Eufrosina, non a caso il più recente, e pubblicato anche autonomamente nelle Edizioni Arte al Borgo in quello stesso 1973. Vi si racconta, come ricreando per timbro e temi una pagina di Stendhal, la storia della giovane, bella e crudele Eufrosina De Siracusis, uccisa dai due figliastri per vendetta o per onore, storia che, appunto, uno Stendhal ignaro aveva solo sfiorato nella composizione delle Cronache italiane. Siamo qui, occorre segnalarlo, a una

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vera e propria «cronachetta» ante litteram, nel senso di quel genere che Sciascia si fingerà, come vedremo, d’aver inventato, un esercizio di simil-scrittura, se così si può dire, ove, per sollecitazioni gratuite e imprevedibili, la letteratura (in tale racconto nel segno di Cervantes, Stendhal, Tomasi di Lampedusa) pare centrifugare i fatti di cronaca per restituirli a una nuova e inaspettata verità. Eccoci, dunque, agli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel. La curiosità di Sciascia per Roussel ha una precisa motivazione. Così in Nero su nero: «Lo scrittore non mi interessa. Mi interessa se mai, paradossalmente, il suo non essere scrittore. Perché mi pare che in questo suo non essere scrittore, e nel farne una tragedia, Roussel sfiori una vana e ignota grandezza» (II, 695). Non sorprenderà, perciò, che proprio a questo testo, ove sono ricostruiti gli ultimi giorni di vita e la morte, avvenuta il 14 luglio 1933, di uno scrittore che scrittore non era e che tale, disperatamente, voleva essere considerato, Sciascia affidi una fondamentale definizione del rapporto tra letteratura e realtà, che segna un punto di non ritorno nella sua storia, capitalizzando le acquisizioni del Consiglio d’Egitto. Ma procediamo con ordine. Muovendo dal telegramma di un commissario di Pirandello e la Sicilia, dalla relazione del pretore e dal referto medico, avvalendosi di un articolo apparso su «L’Ora» del 10 dicembre 1964 di Mauro De Mauro e del diario della signora FredezDufrène che divideva col Roussel due camere comunicanti del «Grand Hotel et des Palmes», ove sono minutamente registrati i farmaci assunti dal francese, Sciascia arriva a proiettare inquietanti dubbi sulla versione ufficiale del suicidio, su un caso frettolosamente chiuso con l’intenzione di non arrecare la minima turbativa ai rapporti tra l’Italia fascista è la Francia. Dubbi, occorre aggiungere, a carico della citata signora, che da anni viaggiava con Roussel per schermarne l’omosessualità, e dell’autista dello scrittore.

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Ma la vera e grande novità del libro è di ordine metodologico: «Innegabilmente, ci sono molti punti oscuri negli ultimi giorni di vita e nella morte di Raymond Roussel; se si declinano dal punto di vista del sospetto, la vicenda assume un che di misterioso, da detective-story» (I, 1248-1249). Ecco, dunque, il fatto saliente e nuovo: un’utilizzazione degli strumenti del romanzo poliziesco per decifrare un fatto di cronaca effettivamente avvenuto. La realtà finisce per essere declinata in giallo, nella constatazione che in essa si accendano momenti di allucinata e allucinante fantasia. E ciò, nel sospetto sempre più fondato che tale realtà, nel suo rovescio d’ombra, attinga a una più vasta e profonda irrealtà romanzesca. Ha ragione Riccardo Scrivano quando, segnalando in quest’opera una «nuova svolta del moralismo sciasciano», osserva che tutti i documenti sono esaminati in dettaglio, «non tanto per verificare se le cose sono andate veramente così, ma piuttosto per capire se e come a queste sono stati sovrapposti degli schemi mentali che le hanno deformate, se di esse è stata prodotta una lettura mistificante»10. Ma senza dimenticare che comincia proprio da questo libro, significativamente contiguo al Contesto, quell’atteggiamento di sgomenta perplessità, di «scepsi sistematica»11, che non riguarda più solo le versioni ufficiali del Potere, ma anche la stessa realtà. Si capisce bene come, in questo nuovo quadro, finisca per saltare ogni teoria lukacsiana del rispecchiamento, ogni possibilità di ordinare la conoscenza sulla base di un rapporto causale tra fatti e la loro traduzione letteraria. Si legga, a questo proposito, la suggestiva conclusione del racconto: Ma forse questi punti oscuri che vengono fuori dalle carte, dai ricordi, apparivano, nell’immediatezza dei fatti, del tutto 10.  R. Scrivano, Il moralismo di Sciascia, in Aa. Vv., Scrivere la Sicilia. Vittorini ed oltre, Atti del Convegno di Siracusa, 16-17 dicembre 1983, Ediprint, Siracusa 1985, pp. 79-88: pp. 84-85. 11.  F. Gioviale, Sciascia, Giunti Lisciani, Teramo 1993, p. 59.

197 probabili e spiegabili. I fatti della vita sempre diventano più complessi ed oscuri, più ambigui ed equivoci, cioè quali veramente sono, quando li si scrive – cioè quando da «atti relativi» diventano, per così dire, «atti assoluti». (I, 1249)

Un passo di straordinaria importanza che, per essere interamente compreso, va affrontato a quel che Sciascia confessava alla Padovani: Dalla scrittura-inganno qual era per il contadino e qual è stata per me stesso, sono arrivato alla scrittura-verità, e mi sono convinto che, se la verità ha per forza di cose molte facce, l’unica forma possibile di verità è quella dell’arte. Lo scrittore svela la verità decifrando la realtà e sollevandola alla superficie, in un certo senso semplificandola, anche rendendola più oscura, per come la realtà spesso è. Prendiamo il caso di Raymond Roussel, che è morto a Palermo. Tentando di metter in ordine documenti sulla sua morte temo di non aver reso le cose più chiare, ma anzi più oscure. C’è però una differenza tra quest’oscurità e quella dell’ignoranza: non si tratta più dell’oscurità dell’inespresso, dell’informe, ma al contrario dell’espresso e del formulato. (S.M., 87)

C’è in queste ultime parole una lucida ricostruzione della propria storia di scrittore. Sciascia afferma di aver superato quell’originaria diffidenza nei confronti della scrittura-inganno, tipica degli oppressi, che lo aveva portato, nelle sue prime prove, a un’esperienza letteraria intesa come opera di demistificazione ideologica, di vera e propria contro-scrittura, a recuperare, sotto e dentro le menzogne ufficiali del Potere, la verità. Una concezione già ricca di molteplici referenti letterari, ma maturata entro un orizzonte lukacsiano-gramsciano e che, come abbiamo visto, ha trovato consacrazione in certe pagine delle Parrocchie, in Morte dell’inquisitore e nei molti saggi confluiti in Pirandello e la Sicilia e La corda pazza. Questa visione viene progressivamente abbandonata, alterata, disgregata, fino a essere sostituita negli Atti da una concezione radicalmente diversa, ormai formulabile in modo coerente e

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compiuto. Una concezione per cui la letteratura non solo non rispecchia la realtà ma si pone in concorrenza con essa, quale unico e legittimo luogo di una verità che, alla realtà in sé e per sé, pare sempre sfuggire. Il discorso di Sciascia è chiaro. Nella scrittura avviene una sorta di transustanziazione: i fatti da «relativi», consegnati non solo al giuoco delle ipotesi ma alle menzogne del Potere, diventano, grazie alla scrittura, quali «veramente sono», e cioè «assoluti», nella luce di quella verità la cui «unica forma possibile […] è quella dell’arte». Filtrati dalla scrittura, i fatti sembrano diventare «più complessi ed oscuri, più ambigui ed equivoci», ma si tratta di un’oscurità ben diversa che attiene a un nuovo ordine, a una nuova consapevolezza. Tralasciamo per ora il fatto che Sciascia parli delle «molte facce» della verità, su cui dovremo ritornare alla luce di altre acquisizioni, relative all’interpretazione di Nero su nero, dell’Affaire Moro e dei saggi pirandelliani raccolti in Cruciverba, scritti tutti precedenti all’intervista con la Padovani. Per intanto, è doveroso ribadire che, a partire dagli Atti, la realtà enigmatica e inquietante pare ritrovare una gerarchia di verità nel dominio della letteratura. Questa conversione di senso, riinnestando sul tronco dell’impegno civile il tirocinio rondista degli anni dell’apprendistato, recuperando quel Cecchi coniugato, come si ricorderà, con Manzoni, non si traduce, ovviamente, in evasione e fuga dalle responsabilità etico-politiche di sempre. La letteratura così concepita, lo vedremo meglio, pare ricostituire un nuovo ordine gnoseologico e morale che sulla realtà possa riverberarsi, prestandogli quei significati che tale realtà sembrava avere smarrito. Si legga, a questo proposito, un passo di Nero su nero, scritto a ridosso degli Atti: Mi consola più tardi, al castello di Poppi, nella grande afa, la visione di una farfalla che vola stanca, quasi stremata, e il ricordo del verso burchiellesco «tutta sudata venne una farfalla». Un verso strambo, surreale: ma viene il momento che

199 la realtà vi si adegua. Così è: bisogna sempre saper aspettare, tra realtà e poesia, che l’equazione si compia. (II, 652)

In questo nuovo quadro estetico ed epistemologico deve essere letto Il contesto. Abbiamo più volte ripetuto che Il contesto segna una decisa svolta nella storia di Sciascia. Eppure, stando a quanto lo scrittore dice alla Padovani, Il romanzo sembra nascere allo stesso modo che A ciascuno il suo. «Avevo l’intenzione di scrivere un libro, sia sulla situazione politica italiana, sia su quella mondiale, ma il progetto era piuttosto vago e io tiravo per le lunghe senza realizzarlo davvero. Per divertirmi, mi sono accinto a scrivere un romanzo “poliziesco”»: Il contesto, appunto, rivelatosi alla fine come la «cronaca di una desertificazione ideologica e ideale che tuttavia in Italia era solo ai suoi inizi» (S.M., 71). Ma il significato del romanzo era stato definito con ben altra forza nella Nota (II, 95-96) che lo chiude, nota da leggersi «alla lettera». Si trattava di una «parodia», e cioè del «travestimento comico di un’opera seria» che lo scrittore aveva pensato ma non tentato di scrivere, allestita con «l’utilizzazione paradossale di una tecnica e di determinati clichés». E ciò, muovendo da un fatto di cronaca, fino a ipotizzare la storia di un uomo che va uccidendo giudici, e di un poliziotto che, sulle sue tracce, «ad un certo punto, diventa il suo alter ego». Fin qui niente di nuovo, se è vero che già A ciascuno il suo, come abbiamo mostrato, attesta l’assunzione di un modello parodico. Ma ecco che la vicenda prende un’altra piega: Un divertimento. Ma mi andò per altro verso: ché ad un certo punto la storia cominciò a muoversi in un paese del tutto immaginario; un paese dove non avevano più corso le idee, dove i principi – ancora proclamati e conclamati – venivano quotidianamente irrisi, dove le ideologie si riducevano in politica a pure denominazioni nel giuoco delle parti che il potere si assegnava, dove soltanto il potere per il potere contava. Un paese immaginario, ripeto. E si può anche pensare all’Italia,

200 si può anche pensare alla Sicilia; ma nel senso del mio amico Guttuso quando dice: «anche se dipingo una mela, c’è la Sicilia». (II, 95)

Questa, allora, la prima novità rispetto all’opera precedente: l’ambientazione della vicenda in un paese del tutto immaginario, magari, come segnala l’onomastica dei personaggi, secondo una geografia ispano-americana; di sicuro un paese straniero, se nel romanzo si accenna all’abitazione dell’ambasciatore d’Italia (II, 65). Un paese che ricorda certo la Sicilia, ma che Sciascia trasforma, e siamo al Vittorini della Conversazione, in Spagna o Venezuela, perché, con la sua mafia e i suoi mort’ammazzati, sì è fatto metafora del mondo intero: Possono essere siciliani e italiani la luce, il colore (ma ce n’è, poi?), gli accidenti, i dettagli; ma la sostanza (se c’è) vuol essere quella di un apologo sul potere nel mondo, sul potere che sempre più digrada nella impenetrabile forma di una concatenazione che approssimativamente possiamo dire mafiosa. (II, 95-96)

Le ragioni della svolta risultano dunque perfettamente chiare. Per dirla con il don Benito di A ciascuno il suo, una «mafia in lingua» si è ormai completamente sostituita a quella «in vernacolo»: i fili della contro-storia d’Italia letteraria e civile tracciata nel Giorno della civetta e A ciascuno il suo sembrano ormai sciogliersi in una vera e propria microfisica del potere, come ritessendo, ma non più dal lato del rovescio, quella sorta di metafisica del dominio che, come abbiamo visto, ha caratterizzato l’opera di Sciascia sin dagli esordi12. Non resta

12.  Concordiamo con Nicolò Mineo quando, nel saggio Leonardo Sciascia, in Aa. Vv., Gli eredi di Verga, Atti del Convegno nazionale di Randazzo, 11-13 dicembre 1983, Comune di Randazzo, Randazzo 1984, pp. 297-313: p. 307, vede nel Contesto l’inizio di una seconda fase dell’opera sciasciana, quella che «apre il tempo […] del presentimento […] dell’oscurità e dell’illogicità del reale», non dimenticando però come questo presentimento, nel-

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che vedere come questo avvenga, tentando di capire, innanzi tutto, in che senso il romanzo sia una «parodia», e per quale ragione «un apologo sul potere nel mondo» debba assumere una forma parodica. Il poliziotto incaricato di indagare sull’omicidio del giudice Varga, primo di una lunga serie di magistrati, si chiama Rogas: un nome, stando al parere di alcuni critici, per nulla casuale. Nel 1981, la Jackson faceva notare che Rogas è l’anagramma di Argos, il mitico guardiano dai cento occhi, scelto quasi a contrappasso per un personaggio che finisce assassinato, e dunque cieco, incapace com’è di premunirsi contro i suoi nemici13. Più recentemente Ambroise, in una sua introduzione, ha osservato che il nome, «se riferito al verbo latino rogare, significa “interroghi”» (III, X). Comunque le si voglia giudicare, qualunque si scelga (ma non sono contraddittorie), le due ipotesi onomastiche pongono in primo piano la forza simbolica del personaggio, a scapito del suo spessore psicologico, declinando due tratti essenziali del suo carattere: la funzione di sentinella, di ostinato garante della legge e del diritto; l’attitudine all’interrogazione, traducibile in perenne ansia di verità. Un carattere, e siamo già al primo elemento parodico, costruito sulla scorta della migliore tradizione «poliziesca». È lo stesso autore a confessarlo: Maigret di Simenon, Ingravallo del Pasticciaccio gaddiano, Prentinice di Greene (La quinta colonna), «e un po’ moi»14. Quanto agli immancabili elementi autobiografici, non sarà inutile ricordare che l’autore, in A ciascuno il suo, ha rotto il patla forma di un «pirandellismo di natura», abbia accompagnato da sempre, carsicamente, la vicenda intellettuale dello scrittore. 13.  G. Jackson, The Motifs of Scherzo, Reversibility and Don Quixote, cit., p. 59. 14.  Cfr. l’intervista di S. Bonsanti, La mia arma è scrivere, in «Il Mondo», 5 dicembre 1971.

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to di solidarietà col suo personaggio vicario, accingendosi nel Contesto a romperlo anche col lettore. Ma torniamo alla figura di Rogas, il cui tratto fondamentale sembra quello di avere «dei principi, in un paese in cui quasi nessuno ne aveva» (II, 7). Per il resto, capace com’è di perseverare in un’indagine solo per curiosità e puntiglio, con una buona dose d’amor proprio, siamo di fronte a uno di quegli investigatori per cui «aver davanti l’uomo, parlargli, conoscerlo, […] contava più degli indizi, più dei fatti stessi» (II, 28). Estensore di relazioni chiare ordinate ed essenziali, lettore colto e raffinato, frequentatore di gallerie d’arte e di teatri, amico di scrittori (II, 42), considerato, insomma, un intellettuale dai colleghi, Rogas vive solo, «né c’erano donne nella sua vita (pare, pareva anche a lui vagamente, avesse avuto moglie una volta)» (II, 66). Quale potrà essere, dunque, il destino di questo detective, figlio di una certa tradizione «poliziesca», quando, secondo le immutabili regole del giallo, si troverà a comporre i dati che gli vengono offerti dalla catena dei delitti illustri? Un destino la cui definizione va a costituire il secondo e importante aspetto di questa «parodia». Cominciamo col dire che, come di regola nei gialli di Sciascia, l’inquirente incontra sin dall’inizio resistenze e censure dall’alto: un atteggiamento che nel Contesto avrà allucinanti sviluppi. Rogas si convince, prima per via ipotetica, poi con una serie di oggettivi risconti, che il colpevole degli omicidi dei magistrati (la cui qualità morale si rivelerà al poliziotto tutt’altro che cristallina) sia una vittima della giustizia: un certo Cres, condannato per tentato uxoricidio sulla base di una serie di indizi che potevano sembrare predisposti dalla stessa moglie. Ma i suoi superiori lo spingono a indagare negli ambienti della Sinistra extraparlamentare, con lo scopo di alimentare, lo capiremo poi, una sorta di strategia della tensione, funzionale a quel complotto contro le istituzioni che ha il suo motore occulto nel Presidente della Corte Suprema Riches. Un’incursione, questa

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di Rogas che, per quanto inutile ai fini dell’indagine, consentirà la più completa determinazione degli ingranaggi di quella concatenazione «approssimativamente mafiosa» che stritola il paese, la più precisa definizione, insomma, del Contesto. Non sarà inutile ricordare che in un saggio del 1968, Quadìa, Sciascia aveva lamentato la reviviscenza tra i giovani contestatori di mitologie e di errori che erano stati del fascismo, osservando che «quando, anche in nome della cultura, ci si rivolta contro la cultura, non si sa mai dove si va a finire» (I, 11161117). In ciò, ci pare, formulando giudizio non dissimile da quello che Pasolini aveva dato nella celebre apologia dei poliziotti «figli dei poveri», apparsa in occasione degli scontri di Valle Giulia di quello stesso anno15. Non sembra azzardato dire che, nella descrizione dell’incontro di Rogas con lo scrittore Nocio, vicino all’ultrasinistra, e con Galano, il direttore della rivista «Rivoluzione permanente», Sciascia utilizzi consapevolmente la spietata lente pasoliniana. «Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti / nei vostri pallori snobismi disperati, / nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali, / nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo»16: non è proprio il motivo della barba, come segno di riconoscimento dei giovani rivoluzionari, quello che Sciascia svolge in tutto il romanzo, sulla scorta di una citazione da Procopio di Cesarea? (II, 39). E ancora: non somiglia in molto ai contestatori «prepotenti, ricattatori e sicuri», avidi di potere, dell’invettiva di Pasolini, al loro «sacro teppismo», l’arrogante Galano che ritroveremo a casa di Narco, il padrone dei grandi magazzini dell’«onesto consumo», e finanziatore del gruppo neoanarchico

15.  Cfr. P.P. Pasolini, Il PCI ai giovani!! (Appunti in versi per una poesia in prosa seguiti da una «Apologia») (1968), ora in Id., Empirismo eretico, pref. di G. Fink, Garzanti, Milano 1991 (19721), pp. 151-159. 16.  Ivi, p. 153.

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cristiano Zeta, nel corso di una serata in cui ospite è addirittura il ministro? Diverso è il discorso che riguarda Nocio, il cui nome per altro richiama un personaggio di I vecchi e i giovani, quel Nocio Pigna agitatore dei Fasci siciliani, miserabile e velleitario, su cui si appunta il sarcasmo di Pirandello. In effetti, l’ironia di Sciascia non risparmia Nocio, questo intellettuale vile e rancoroso, che intimamente disprezza Galano, il «sacerdote della rivoluzione» (II, 43), pur ospitandolo in casa sua, dedicandogli versi irridenti, ma che non osa rendere pubblici. La sua vanità è smisurata: «i miei libri! I libri più rivoluzionari che siano stati scritti da trent’anni a questa parte!». Per altro, il fanatismo sembra proprio la causa dei suoi guai: «La rivoluzione, capisce? Questa parola, che è solo una parola, mi impegna, mi ricatta, mi unisce a Galano e a quelli della sua risma» (II, 44). Eppure, come ha osservato Sipala17, Nocio può anche diventare personaggio vicario dello scrittore. Non si può negare, infatti, che nei suoi sfoghi di momentanea follia balenino «delle verità, delle divinazioni», per quanto egli stesso li consideri di nullo conto, «di fronte alla grande e unica verità della rivoluzione» (II, 48). Nocio ha smascherato il velleitarismo isterico di Galano e dei suoi compagni, ne ha intuito la profonda natura di «cattolici vecchi, fanatici, funerari» (II, 44) che vivono nel desiderio inconsapevole di una nuova, spietata, inquisizione. Nei suoi versi astiosi e sarcastici, anch’essi con echi pasoliniani18, la condanna

17.  P.M. Sipala, Il contesto nella contestazione, in Aa. Vv., La teatralità nelle opere di Leonardo Sciascia, cit., pp. 147-152: p. 150. 18.  «(il seme vivo di Marx è in coloro che soffrono / che pensano / che non hanno bandiere) / ridono Robespierre e Marx / ma forse anche piangono / dell’uomo non più umano che in voi si realizza / del pensiero che non pensa / dell’amore che non ama / del perpetuo fiasco del pensiero e della mente» (II, 46).

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è definitiva e totale. Nocio solo, infatti, sembra essere lucidamente consapevole che dentro la scommessa della Rivoluzione se ne cela un’altra, di ben più vasta portata, formulabile negli stessi termini di quella di Pascal. Così a Rogas: Se io avrò creduto in Dio, nella vita eterna, nell’immortalità dell’anima, quand’anche queste cose non fossero, che prezzo pagherò? Nessuno. E se non avrò creduto, e queste cose sono, che il prezzo da pagare è di eterna morte… Ora questa possibilità di scommettere è passata dalla metafisica alla storia. L’aldilà è la rivoluzione. Rischierei di perdere tutto se scommettessi per negarla. Ma se punto per affermarla: non perdo niente se non ci sarà… E non è una proposizione, come lei dice, mostruosa: l’enunciazione utilitaristica non deve far dimenticare che siamo sempre nel problema del libero arbitrio per Agostino e per Pascal, della libertà per me (II, 48).

Trascuriamo per ora il fatto di non poco conto che, su Pascal, sul tema della salvezza e del libero arbitrio, sul «mostruoso» utilitarismo della scommessa, si giuochi la metafisica del crimine del Don Gaetano di Todo modo. Qui ci preme notare solo questo: nella certezza che la scommessa di Pascal sia passata «dalla metafisica alla storia», nella convinzione che in tale scommessa si risolva solo un problema di salvezza individuale, Nocio sembra aver perfettamente capito che ogni progetto rivoluzionario mascheri una teologia, rappresenti il punto d’arrivo di un moderno processo di secolarizzazione dell’escatologia cristiana. Proprio le tesi, sia detto per inciso, di un libro che si attirò gli anatemi di tutta l’intellighenzia marxista, Meaning in History (1949) di Karl Lowith, un ex allievo di Martin Heidegger, che era entrato in polemica con il maestro per il suo ambiguo rapporto col nazismo. Si deve aggiungere, a conferma del suo ruolo vicario19, che è Nocio il primo

19.  Volendo, si potrebbero citare altri particolari: al pari di Sciascia, Nocio si ritira ogni estate per scrivere un libro (II, 42), come Sciascia in una nota

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personaggio a precisare lucidamente i termini del «contesto», a un Rogas che ha appena manifestato il suo «debole per le sconfitte», scoprendosi, appunto, un certo amore per la rivoluzione, perché alla sconfitta destinata. Nocio gli rimprovera una fede quasi cieca nella «possibilità di resistenza» dello Stato borghese: «Ma non vede quel che succede nel nostro paese? I nodi vengono sempre al pettine. – Quando c’è il pettine – disse malinconicamente Rogas» (II, 49). Quanto al pettine, ed è una battuta che ritroveremo in Nero su nero (II, 629), Rogas non tarderà ad accorgersi di averlo tra le mani: e con tragiche conseguenze. Se i giovani estremisti sembrano giuocare nel Contesto il ruolo di opportunisti o, al massimo, di velleitari e utili idioti, le cose non sembrano andare meglio per il «Partito Rivoluzionario Internazionale», organizzazione che ha scelto la dialettica parlamentare e che adombra il partito comunista italiano. A rivelare con spietata esattezza quello che dovrebbe essere il ruolo del partito nel criminoso Contesto è lo stesso ministro dell’Interno, dopo aver convocato nel suo ufficio Rogas e uno sconvolto capo della sezione politica. Il ministro sta spiegando la strategia adottata con i gruppuscoli extraparlamentari, fondata sull’alternanza di minaccia e protezione. L’obiettivo è quello di tenersi «l’uovo di oggi e la gallina di domani», l’«uovo del potere e la gallina della rivoluzione». Diversa la posizione del «Partito Rivoluzionario», che il ministro riassume in una battuta: il mio partito, che malgoverna da trent’anni, ha avuto ora la rivelazione che si malgovernerebbe meglio insieme al Partito Rivoluzionario Internazionale; e specialmente se su quella poltrona – indicò la sua dietro la scrivania – venisse ad accomodarsi il signor Amar. (II, 59) di Nero su nero (II, 769), anche Nocio è suggestionato da D’Annunzio lettore di Petrarca (II, 52).

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Questo, dunque, il sogno del ministro: che Amar20, il segretario del partito d’opposizione, possa occupare presto il posto di ministro dell’Interno e completare quella politica di repressione contro studenti e operai intrapresa dal governo. Una funzione che, come si evince dalle ultime pagine del romanzo, il partito dell’ormai defunto Amar, per niente intenzionato a promuovere una rivoluzione, sembra voler far propria. C’è solo un ostacolo a che il progetto si compia, realizzando quella società unidimensionale, senza più opposizioni interne, che Marcuse paventava. Il ministro cederebbe subito il suo posto ad Amar, ma il paese non è ancora arrivato a disprezzare il partito d’opposizione come quello di governo: «Nel nostro sistema, il crisma del potere è il disprezzo. Gli uomini del signor Amar stanno facendo di tutto per meritarlo: e lo avranno» (II, 60). È proprio a questo punto che Rogas matura una crisi morale irreversibile: Dentro il problema di una serie di crimini che per ufficio, per professione, si sentiva tenuto a risolvere, ad assicurarne l’autore alla legge se non alla giustizia, un altro ne era insorto, sommamente criminale nella specie, come crimine contemplato nei principi fondamentali dello Stato, ma da risolvere al di fuori del suo ufficio, contro il suo ufficio. In pratica, si trattava di difendere lo Stato contro coloro che lo rappresentavano, che lo detenevano. Lo Stato detenuto. E bisognava liberarlo. Ma era in detenzione anche lui: non poteva che tentare di aprire una crepa nel muro. (II, 66)

Rogas ha la percezione esatta di essere finito al centro di un osceno labirinto, come offerto in pasto al minotauro del Po-

20.  Come spiegò Sciascia a Rita Cirio su «L’Espresso» dell’11 dicembre 1988, Amar (Am.) non cela nel nome il comunista Amendola ma il commissario del popolo che arrestò il padre di Stendhal quale nemico della rivoluzione.

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tere. Un arduo problema etico non può più essere eluso: è in qualche modo lecito assicurare alla legge i criminali che ad essa attentano, quando si tratta della legge di uno Stato non più fondato sul diritto e la giustizia? Bisogna servire uno Stato ormai governato da un’associazione a delinquere o dichiarargli guerra? Rogas si affaccia pericolosamente sull’eterna questione della legittimità del Potere, come tentato da quella secolare tradizione monarcomaca che invoca il diritto di giustiziare il sovrano, una volta divenuto tiranno. Il risultato è la sua identificazione con l’assassino a cui sta dando la caccia, la vittima innocente di quello Stato criminale. Trovatosi finalmente faccia a faccia con Cres, che sta per uccidere il Presidente della Corte Suprema, Rogas, «senza eccessivo sforzo, bisogna dirlo a suo onore o disonore (a piacer vostro)» (II, 76), decide di non arrestarlo. Con la trasformazione del poliziotto in criminale, del poliziotto che incontra il boia a cui affidare il compito di giustiziare un intoccabile, con il definitivo congedo da una figura di detective tradizionale e rassicurante, il giallo palesa ormai in modo inequivocabile il suo carattere di parodia. Da questo momento in poi il romanzo corre velocemente verso il suo misterioso epilogo. Una domanda s’impone: quale significato ha, in termini di poetica, l’identificazione di Rogas con Cres? La rivolta di entrambi è certamente la conseguenza di un puntiglio morale vissuto con rigorosa coerenza. Ma il fatto saliente di tale identificazione non si esaurisce in questa sorta d’anarchismo riottoso e individualista, di ascendenza stirneriana. Cres, come si evince dalle poche cose che Rogas trova in casa sua, è cuoco raffinato, fumatore di sigarette turche, con una sparuta biblioteca in cui «i russi, fino a Gor’kij, prevalevano» (II, 36). Stando alle parole dell’amico, il dottor Maxia, è un misantropo non privo di nevrosi. Uno di quelli che «ama parlare dei casi della vita: i più oscuri, i più complicati, quelli a doppia verità… Ma con distacco, con leggerezza;

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col gusto di chi si gode uno spettacolo grottesco, una beffa» (II, 33). Sembra quasi che l’identificazione tra i due sia corsa sul filo di un’affinità, di un nodo di desideri, che diramano da una radice ben più profonda del puntiglio morale, del risentimento anarchico. Una fantasia di Rogas pare disvelarcelo in modo inequivocabile. Cres, per la professione che si era scelto, per la vita che conduceva, doveva essere un uomo «che aveva una specie di vocazione alla prigione, che si era fatta della vita una prigione» (II, 28): Si era creata una prigione, e pareva ci stesse bene. Perciò la scoperta di una prigione in cui lo si poteva tenere ingiustamente, per forza, per violenza, per macchinazione e decisione altrui, aveva sommosso in lui un lucido e implacabile odio, una gelida e micidiale follia. E in fondo, nella vita, la più grande affermazione di libertà è quella di chi si crea una prigione (Rogas si contraddiceva). Montaigne, Kant. (II, 29)

Questa la convinzione di Cres: l’autocarcerazione in una prigione interiore come massima realizzazione di libertà. Al modo di Montaigne, lo scrittore che si chiude nel retrobottega della sua coscienza, autore della prima citazione in epigrafe del Contesto: «Bisogna fare come gli animali che cancellano ogni traccia davanti alla loro tana» (II, 3). Al modo di Kant, il cui universo è traducibile in «una catena di causalità sospesa a un atto di libertà» (II, 101), stando alla formula che apre Todo modo, impiegata da Debenedetti per definire la natura del mondo pirandelliano. Ecco il punto: Cres, l’uomo che ama parlare dei casi della vita «a doppia verità», è un altro loico pazzo d’estrazione pirandelliana. L’identificazione di Rogas con Cres non è altro che l’approdo del protagonista a quella sorta di «intatta e appagata musica dell’uomo solo» (II, 101), l’unico porto franco della verità e della libertà che il criminoso Contesto sembra rendere possibile. Ancora un segno di un ritrovato rapporto con Pirandello su cui dovremo ritornare.

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Ma torniamo all’ambigua conclusione del romanzo21. L’uccisione di Rogas e di Amar nella Galleria Nazionale, oltre che impedirci di venire a conoscenza delle finali deduzioni del detective, apre un nuovo problema criminale, il cui scioglimento viene affidato al giuoco equivoco delle diverse soluzioni. La prima, che il lettore avverte subito come patentemente falsa, è quella «politica» fornita a caldo dallo speaker televisivo, il quale annuncia che i due sono caduti sotto i colpi di un giovane «biondo e barbuto» dell’estrema sinistra che seguiva Amar con propositi criminosi, e si è visto poi costretto a uccidere anche Rogas che si trovava in pinacoteca (II, 84-87). Si tratta di una soluzione coerente a un progetto di strategia della tensione, buona per la gente, subito contraddetta da quella che fornirà a Cusan (lo scrittore impegnato controvoglia, amico di Rogas) il vice segretario del «Partito Rivoluzionario», sulla scorta della perizia balistica (compilata anche da periti del partito), della necroscopia, dei rapporti degli agenti e della dichiarazione dello 007 del «Centro Informazioni Speciali» che si celava, in realtà, nelle vesti del giovane «biondo e barbuto» (II, 92-94): una soluzione che Ambroise sembra prendere per buona22. Le cose sarebbero andate così: Rogas chiede ad Amar di incontrarsi alla Galleria dopo avergli rivelato del complotto contro lo Stato: qui il poliziotto avrebbe ucciso il segretario del «Partito Rivoluzionario» e sarebbe stato per questo a sua volta colpito dall’agente del CIS. L’anello debole della catena dimostrativa è, per ammissione dello stesso vice segretario, la mancanza del movente. L’unica possibilità di colmare la lacuna sta nell’ipotizzare, come fa Ambroise, una collusione di Amar con i cospiratori che avrebbe indotto Rogas a eliminarlo. 21.  Hanno sottolineato l’ambiguità paradossale della conclusione U. SchulzBuschhaus, Gli inquietanti romanzi polizieschi di Sciascia, cit., pp. 162-163, e V.R. Jones, Da Regalpetra a Parigi, cit., p. 31. 22.  Cfr. C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 208.

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Ma, come osserva Sipala, «sarebbe la prima volta che Sciascia, anche nella finzione romanzesca, accetterebbe una versione ufficiale»23. Tanto più che il vice segretario, alla domanda di Cusan del perché Rogas sia stato ucciso e non processato, fa appello a una «ragion di Stato» che va a coincidere con la «ragion di Partito»: «– Siamo realisti, signor Cusan. Non potevamo correre il rischio che scoppiasse una rivoluzione –. E aggiunse – Non in questo momento» (II, 94). C’è, infatti, una terza e più plausibile soluzione, ma non meno misteriosa per il lettore. Quella che Cusan oppone, con sempre meno resistenze, alla versione ufficiale del vice segretario: che Rogas sia stato sì ucciso da un agente, ma perché aveva scoperto il complotto tramato da Riches e da alte autorità dello Stato. Una versione che Cusan può a buon diritto avanzare, se era stato lo stesso Rogas a raccontargli come stavano le cose, resistendo a tutte le obiezioni dello stesso Cusan, comunicandogli la sua inquietudine, rivelandogli di essere pedinato dagli agenti del CIS e alla fine convincendolo. Una versione che Cusan riproporrà ben due volte. Una prima, a futura memoria, e con l’angoscia di essere a sua volta eliminato, trascrivendo i fatti su un memoriale che poi nasconde dentro il Don Chisciotte (II, 8889)24; una seconda, di fronte a un registratore, ripetendo quei fatti al vice segretario. In entrambi i casi il lettore sarà escluso dalla conoscenza del contenuto dei due documenti: gli resteranno solo le obiezioni sempre più flebili, amare e rassegnate di Cusan alla ricostruzione del vice segretario.

23.  P.M. Sipala, Il contesto nella contestazione, p. 148. Anche A. Budriesi, Pigliari di lingua, cit., p. 111, sembra non scommettere sull’attendibilità del vice segretario. 24.  Osserva Ambroise che il Don Chischiotte «è una parodia dei romanzi cavallereschi così come Il contesto è una parodia del romanzo giallo» (I, XXXII).

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Qual è, dunque, la verità? Il richiamo al libro di Cervantes, il libro tanto amato dall’Assunta dell’Onorevole, in cui viene nascosta la vera versione dei fatti, sembra dirla lunga sulle possibilità della verità nella società del Contesto. Ci pare, infatti, che Sciascia abbia volutamente lasciato irrisolto il giallo, registrando un infinito giuoco delle parti, ponendo radicalmente in discussione le possibilità stesse di una giustizia che, ormai, non solo è incapace di perseguire il colpevole, ma di distinguerlo dall’innocente. L’antipirandeilismo che, quanto alla ricostruzione della verità investigativa, pur se a livello del lettore e non del detective, resisteva ancora in A ciascuno il suo, sembra cadere del tutto nel Contesto. E ciò, a inverare quanto Sciascia avrebbe confessato alla Padovani: «Si ricorda che cosa diceva Malraux di Faulkner? che questi aveva realizzato l’“intrusione della tragedia greca nel romanzo poliziesco”. Si potrebbe dire di me che ho introdotto il dramma pirandelliano nel romanzo poliziesco!» (S.M., 88). Inutile dire che il carattere pirandelliano di questo romanzo, la sua qualità di giallo senza soluzione, va a definire l’ultimo e più importante elemento della parodia. Resta solo da spiegare perché Sciascia abbia scelto la forma parodica per il suo «apologo sul potere nel mondo». Il primo a fornire una convincente risposta è stato Giuliano Gramigna. Sciascia avrebbe scelto la parodia, «degradazione nell’ordine dei generi letterari, come il mondo che esso raffigura è degradazione del mondo umano come dovrebbe essere»25. Ma c’è una motivazione più profonda, come suggerisce Tom O’Neill, proseguendo sulla strada della «retorica della citazione» indicata dalla Ricorda26. Lo studioso scozzese ha infatti osservato che nel Contesto, proprio per il suo tratto parodico di giallo senza soluzione, viene a mancare l’appaga25.  G. Gramigna, In una storia gialla l’apologo sul potere, in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 379-381: p. 380. 26.  Cfr. R. Ricorda, Sciascia ovvero la retorica della citazione, cit., pp. 59-93.

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mento. Il lettore è perciò costretto a ritornare sui suoi passi, «a sostare spesso, a cercare di capire, a meditare sul significato di quello che legge». Quel che ci vuole, insomma, è una lettura del testo «tutt’altro che lineare», come Sciascia stesso sembra lasciar intendere «tramite Montaigne ad apertura del libro»: perché non interpretare quell’invito a cancellare «ogni traccia davanti […] alla tana» in epigrafe, come un ammonimento rivolto al lettore affinché si cali nei panni dell’autore, se ha intenzione di scoprire una diversa soluzione del romanzo, magari la vera? Panni che, aggiunge O’Neill, Sciascia prende spesso in prestito da altri, come attesta la fitta rete di allusioni a scrittori italiani, francesi, inglesi, spagnoli e russi, che serra il romanzo27. Ecco il punto: Sciascia sembra rompere il patto col lettore al livello dell’investigazione, della risoluzione di uno specifico problema criminale, per ricostituirlo, però, quasi a un livello iniziatico, sul piano delle verità letterarie, dove i fatti da «relativi» si fanno «assoluti», sulla scorta di quella svolta di poetica che abbiamo registrato negli Atti relativi alla morte di Raymond Roussel. Un piano in cui l’antica attitudine conoscitiva della letteratura, ora non più in termini di rispecchiamento gramsciano-lukacsiano, si affianca a un’istanza meditativa, un’inclinazione etico-filosofica sempre più marcata28. Un piano che, come ha notato Nunzio Zago, non investe la «funzione civile», la quale resiste nello scrittore, «ben al di là della breve stagione storica dell’“impegno”»29.

27.  T. O’Neill, Il contesto del «Contesto», cit., pp. 148-150. Per la fitta serie di citazioni che costellano il romanzo, cfr. anche le ottime note di commento apposte dallo stesso O’Neill alla sua edizione del Contesto (Manchester University Press, Manchester 1986). 28.  Si veda quanto, assai acutamente, Ambroise osservi circa il diverso rapporto che Bellodi e Rogas intrattengono coi libri, in Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 214. 29.  N. Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia, cit., p. 140.

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Se abbandoniamo il livello immediato della detection per concentrarci su quello, mediato e allusivo, che coincide con il sistema delle citazioni, ci accorgiamo subito che è qui che si dispiega l’«apologo sul potere nel mondo». Prendiamo due riferimenti che, in quel preciso contesto, non possono non riverberare una luce simbolica su tutto il romanzo. Si tratta di due dipinti inesistenti, come l’ambientazione del romanzo in un paese immaginario esige: «il famoso ritratto di Lazaro Cardenas del Velázquez» (II, 84), sotto cui viene trovato il cadavere di Amar, che lo considerava «uno dei capolavori della pittura mondiale» (II, 86); «il quadro della Madonna della Catena di ignoto fiorentino del quattrocento» (II, 84). Con il primo e inesistente dipinto, dedicato a un rivoluzionario messicano nato dopo la morte di Velázquez, in cui, compiaciuto, il non più rivoluzionario Amar si specchia, Sciascia pare solo dirci delle morte speranze della rivoluzione, e con malizioso contrappasso. Ben più importante il secondo, stando all’interpretazione che ne dà la Jackson. Il titolo alluderebbe a una chiesa palermitana molto vicina al palazzo dello Steri, una volta sede dell’Inquisizione: proprio nella piazza tra la chiesa e il palazzo erano montati gli auto da fé, mentre davanti alla chiesa «venivano “confessati” i condannati a morte dei quali i più non conoscevano né le accuse spesso false né gli accusatori spesso anonimi»30. Senza dire che nei pressi dello Steri c’è il Museo Nazionale che richiama la Galleria in cui i due muoiono. Se, dunque, la Madonna della Catena è la Madonna dei condannati a morte, non casualmente muore ai suoi piedi Rogas, «anche lui condannato ad una morte senza spiegazione»31.

30.  G. Jackson, Le arti figurative come metafora negli scritti di Leonardo Sciascia, in «Almanacco. Quadrimestrale di Italianistica», I, n. 1, 1991, pp. 31-41: p. 34. 31.  Ibidem.

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Siamo al solito: un enigmatico richiamo all’Inquisizione nel fatto che suggella luttuosamente la vicenda romanzesca. Ma questa volta, in virtù della raggiunta identità tra libro del mondo e mondo dei libri, Sciascia pare voler sondare con più determinazione le ragioni (le non ragioni) dello Stato come spietata macchina inquisitoriale. Più che altrove, i personaggi, specie quelli minori, palesano un carattere, per così dire, funzionale alla rigorosa microfisica del Potere: c’è chi ha parlato addirittura di «dimensione categoriale»32. Ci viene da pensare ai due personaggi interrogati da Rogas, prima di arrivare a Cres: un disoccupato assertore dell’ingiustizia del vivere, teorico di un ozio radicale e totale, quasi a indicare in una «civiltà dell’ozio» (II, 17) l’unico spazio di libertà possibile; il proprietario di un’officina, che sembra aver assai chiara la natura della giustizia: – Sì, ero innocente… Ma che vuol dire essere innocenti, quando si cade nell’ingranaggio? Niente vuol dire, glielo assicuro. Nemmeno per me, ad un certo punto. Come attraversare una strada, e un’automobile ti mette sotto. Innocente, ed è stato investito da un’automobile: che senso ha, dire una cosa simile? – Ma non tutti sono innocenti – disse Rogas. – Dico: quelli che capitano nell’ingranaggio. – Per come va l’ingranaggio, potrebbero essere tutti innocenti. (II, 18)

Parole, queste del meccanico, che trovano inquietante conferma nel discorso che tiene a Rogas il Presidente della Corte Suprema Riches, vero nucleo irradiante dell’intero romanzo. II dialogo, dopo che Rogas ha informato il Presidente della possibilità che Cres, vittima innocente della giustizia, possa ucciderlo, scivola subito sul concetto di errore giudiziario, sul postulato dell’innocenza che lo fonda, insomma sul problema del giudicare. Il Presidente non ha dubbi: tutti i casi giudizia-

32. C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 147.

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ri sono risolti «nel fatto stesso di giudicarli, nell’atto di giudicarli». Ciò che si compie è simile a quel che avviene durante la messa, nel mistero della transustanziazione, quando il pane e il vino si convertono in corpo, sangue e anima di Cristo: Il sacerdote può anche essere indegno, nella sua vita, nei suoi pensieri: ma il fatto che è stato investito dell’ordine, fa sì che ad ogni celebrazione il mistero si compia. Mai, dico mai, può accadere che la transustanziazione non avvenga. E così è un giudice quando celebra la legge: la giustizia non può non disvelarsi, non transustanziarsi, non compiersi. Prima, il giudice può arrovellarsi, macerarsi, dire a se stesso: non sei degno, sei pieno di miseria, greve di istinti, torbido di pensieri, soggetto a ogni debolezza e a ogni errore; ma nel momento in cui celebra, non più. E tanto meno dopo. (II, 69)

Il ricorso a metafore attinte alla dogmatica cattolica ci consente di comprendere inequivocabilmente la natura teologica e autoritaria, teocratica, dello Stato del Contesto. Quando il giudice celebra la legge diventa, per ciò stesso, l’officiante di una liturgia in cui il Potere si autogiustifica e perpetua. Il giudizio del giudice non importa se degno o indegno, solo per il fatto di essere formulato, acquista il crisma dell’infallibilità e dell’imperscrutabilità. Si capisce bene che, in questo contesto, «l’errore giudiziario non esiste» (II, 70), come dice Riches, il pontefice massimo né cattolico, né cristiano, come tiene a precisare, di questa religione dello Stato. E quando Rogas gli fa notare l’esistenza dei diversi gradi del giudizio, la possibilità dei ricorsi e degli appelli, ha giuoco facile nel rispondere che l’introduzione di questi espedienti nel sistema giuridico si dovette all’affermarsi di «un’opinione diciamo laica sulla giustizia, sull’amministrazione della giustizia», da rimuovere se non si vuole che la religione della giustizia, come ogni religione insidiata dal laicismo, muoia (II, 70). Un’opinione che, secondo Riches, comincia a insinuarsi nelle coscienze con il Traité sur la tolérance à l’occasion de la mort de Jean Calas, vero «punto di

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partenza […] dell’errore che potesse esistere il cosidetto errore giudiziario» (II, 71), libro al quale il Presidente ha dedicato un’appassionata e voluminosa confutazione33. Arriviamo così allo snodo centrale del libro: quello in cui Rogas, difensore del Trattato sulla tolleranza, e Riches, suo implacabile critico, intavolano un serrato dibattito sulla legittimità del Potere e sull’idea di giustizia. Un dibattito in cui il Presidente appare a Rogas simile a uno «che ti blocca a confidarti la sua utopia, la sua civitas dei, il suo falansterio» (II, 72), in ciò speculare ai rivoluzionari Galano e Nodo34. Riches muove, per negarla, dalla distinzione voltairiana tra la morte in guerra, in cui la vittima ha la possibilità di difendersi, e la condanna a morte per sentenza di un giudice: «la giustizia siede su un perenne stato di pericolo, su un perenne stato di guerra. Così era anche ai tempi di Voltaire, ma non si vedeva; e comunque Voltaire era troppo grossolano per accorgersene». Ormai l’avvento della massa «ha reso macroscopico quel che prima poteva essere colto da uno spirito sottile, ha portato l’esistenza umana a un totale e assoluto stato di guerra» (II, 72). Ciò induce il Presidente a formulare una paradossale previsione: «la sola forma possibile di giustizia […] potrebbe essere […] quella che nella guerra militare si chiama decimazione. Il singolo risponde dell’umanità. E l’umanità risponde del singolo». Non vi potrà essere, né v’è mai stato, altro modo di concepire il diritto: ora è giunto il momento di teorizzarlo, di codificarlo rigorosamente (II, 72). Per Riches il punto è uno: in uno stato di guerra permanente, il delitto deve essere restituito «ai corpi delle moltitudini, come nelle guerre militari ai reggimenti, 33.  Sul rapporto tra Il contesto e il Trattato sulla tolleranza di Voltaire, ivi, pp. 136-140. 34.  Riches, Galano e Nocio si pongono, in questo senso, come gli eredi dell’illusione tragica e totalitaria di Rousseau implicita nel secondo passo citato in epigrafe (II, 3).

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alle divisioni, alle armate. Puniti nel numero. Giudicati dalla sorte» (II, 73). Ma l’argomentazione di Riches raggiunge l’apice quando tocca la questione di quelli che Voltaire, e con lui Rogas, chiama i «delitti locali», che la massa nel suo avvento ha cancellato dai codici. Secondo Riches, il giudice non potrà più domandarsi: «Je n’oserais punir à Raguse ce que je punis à Lorette?» (II, 73). All’obiezione di Rogas che a Raguse e a Lorette, ancora oggi, mutando costume e ordinamento, mutino pure i delitti perseguiti dalla legge, la risposta del Presidente non può essere più chiara e perentoria: lei sta commettendo l’errore di considerare delitti locali quelli che sono invece universali ed eterni, cioè dovunque e sempre puniti. Quei delitti contro la legittimità della forza che soltanto la forza, rovesciandosi dalla loro parte, può cancellare come delitti e assumere nella forma, inalterabilmente pronta a riceverla, di ingresso di dio nel mondo. Il solo ingresso che il mondo consente a dio… Non al dio che si nasconde, beninteso […]. Nei processi di questo tipo, la colpa è stata ed è perseguita nel disprezzo più assoluto delle discolpe dei singoli imputati. Che un imputato l’abbia commessa o no, per i giudici non ha mai avuto nessuna importanza. (II, 74)

Siamo veramente al culmine di quella ontologia del dominio che Sciascia traccia nel romanzo. L’esercizio del Potere sembra essere l’unico «ingresso di dio nel mondo» possibile nell’epoca, direbbe Benjamin, della riproducibilità, quella dei totalitarismi e della comparsa delle masse sulla grande scena del mondo. Ogni crimine, qualsiasi esso sia, è interpretabile come un delitto di lesa maestà, in riparazione del quale il Potere può manifestarsi come forza spietatamente coercitiva, e con ciò stesso legittimarsi. In tale quadro anche l’imputato ha un ruolo fondamentale in quanto, fungendo da vittima sacrificale, sancisce e testifica la potenza del Potere. La colpevolezza, infatti, è una dimensione a priori, di specie metafisica, necessariamen-

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te connessa all’epifania del Potere. Una posizione che porta Riches a polemizzare contro il laicissimo libello di un «cattolico italiano», ove, a proposito di un processo del 1630 contro presunti untori, si denunciava un’ingiustizia «che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, e cioè dai giudici» (II, 74). Il fatto è, aggiunge Riches, che, per quanto mancasse il movente, benché non vi fossero prove né concordanza di indizi, «la peste c’era» (II, 75). Una posizione che, e siamo alla chiusura del cerchio, arriva a giustificare la pratica inquisitoriale, se è vero che «la confessione di una colpa da parte di chi non l’ha commessa» va a costituire un «circuito della legittimità»: Quella religione è vera, quel potere è legittimo, che rendono l’uomo a uno stato di colpa: nel corpo, nella mente. E dallo stato di colpa è facile estrarre gli elementi della convinzione di reato più che dalle prove oggettive, che non esistono; e anzi, se mai, sono le prove oggettive che possono dar luogo a quello che lei chiama errore giudiziario. (II, 75)

La transustanziazione del giudice nel momento che «celebra la legge»; l’impossibilità dell’errore giudiziario; l’amministrazione della giustizia come decimazione; la riduzione dei «delitti locali» a delitti di lesa maestà; l’esercizio della forza come «ingresso di dio nel mondo»; la colpevolezza metafisica degli imputati; la pratica dell’inquisizione. Ecco tutti gli elementi di una rigorosa metafisica del dominio, il punto d’arrivo di un’analisi lucidissima che ha preso le mosse dalle Parrocchie. Paolo Milano ha voluto sentire nel discorso di Riches quello del Grande Inquisitore dei Karamazov35, colui che, per dirla con Di Grado, si fa liquidatore del messaggio evangelico e teorico conseguente della «necessità di “miracolo”, “mistero” e “autorità” nel governo di quelle masse felicemente

35.  P. Milano, Una satira civile di un paese non ignoto, in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 383-385: p. 385.

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deresponsabilizzate»36. Ma c’è da dire che certe affermazioni del Presidente potrebbero essere uscite dalla bocca di uno di quei curiosi pensionati che, in uno splendido e inquietante apologo di Dürrenmatt, La panne (1956), reinventano a loro modo, e con esiti tragici, il concetto di giustizia: quel Dürrenmatt che, sia detto per inciso, ha tra i suoi incunaboli un raccontino come Il torturatore (1943). Detto questo, ci sembra però che, quanto a fonti e suggestioni filosofiche, il dialogo tra Riches e Rogas, intramato com’è di richiami a una tradizione etico-politica secolare, si possa anche rileggere come il punto d’arrivo di una meditazione intorno alle ragioni del diritto, alle sue possibilità, non diciamo di vittoria, ma di sopravvivenza. Rogas, non dimentichiamolo, è uomo di principi, «in un paese in cui quasi nessuno ne aveva»: in ciò senz’altro supplente dello scrittore. Ha ragione Vitale quando parla di giusnaturalismo, sostenendo che per Sciascia la giustizia è «il principio trascendentale del diritto», distinguendo e separando «ciò che è diritto da ciò che non lo è»37. In questo senso, Il Trattato sulla tolleranza di Voltaire, che Rogas difende, è un libro di grande significato simbolico in cui confluiscono non solo la riflessione sulla giustizia e la tolleranza della grande tradizione utopica occidentale, dall’Utopia di Moro a La città del sole di Campanella, passando per La nuova Atlantide di Bacone, ma anche le ragioni di quel giusnaturalismo che muove dai Due trattati sul governo di Locke, non a caso autore di una Lettera sulla tolleranza. Sciascia, e con lui Rogas, sa bene che la ritrattazione di questo pamphlet voltairiano equivale alla sconfitta di ogni concezione che anteponga l’etica alla politica. 36.  A. Di Grado, Leonardo Sciascia, cit., p. 14. 37.  V. Vitale, Mitografia giuridica. Giustizia e potere nella pagina di Leonardo Sciascia, in Z. Pecoraro - E. Scrivano (a cura di), Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., pp. 55-67: p. 62.

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Ma il giusnaturalismo di Sciascia è di natura assai problematica, disposto com’è a confrontarsi con tutte quelle teorie che ne rappresentano la radicale negazione. Come non sentire, nelle tremende e sprezzanti parole di Riches, una eco, forse più di una, di quelle dottrine che in questo secolo, richiamandosi al realismo classico di Machiavelli e di Hobbes, rescindendo ogni nesso tra azione politica e sistema dei valori, rifiutando persino la possibilità stessa di una legge di ragione che fondi quella civile, hanno offerto straordinari appigli teorici alle dittature e ai totalitarismi della nascente società di massa? Si potrebbe fare su tutti il nome di Carl Schmitt, autore di Der Begriff des Politischen38, che nel 1935 poteva essere tradotto in Italia come Principi politici del nazionalsocialismo, e che, in tempi recenti di conversioni «decisioniste», veniva recuperato con il titolo Le categorie del politico, senz’altro più corretto sul piano filologico, ma con un disinvolto occultamento delle sue inquietanti radici. Carl Schmitt, dunque: teorico della dittatura e del partito unico, sprezzatore dello Stato di diritto in quanto mera finzione giuridica, assertore del fatto che la funzione essenziale e legittimante dello Stato risieda nella decisione politica, come inequivocabilmente rivela ogni «stato di guerra». A chi altro pensare, se non a Schmitt, quando Riches avanza l’idea che la giustizia si fondi su «un perenne stato di guerra»? Quando indica nella forza l’unico principio di legittimità? Ma si farebbe torto grande nell’attribuire a Sciascia, nel segno di questo giusnaturalismo, una fiducia cieca in quella recta ratio di ciceroniana memoria, naturae congruens, diffusa in tutti gli uomini, sempiterna, capace di distinguere il bene dal male. Sciascia, con Rogas, sa bene come, nella società contemporanea, le ragioni del Presidente siano superiori alle sue. C’è nel 38.  C. Schmitt, Le categorie del «politico». Saggi di teoria politica, tr. it. a cura di G. Miglio e P. Schiera, il Mulino, Bologna 1986.

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discorso di Riches, a questo proposito, un’argomentazione assai significativa. Così a Rogas: Il suo mestiere, mio caro amico, è diventato ridicolo. Presuppone l’esistenza dell’individuo, e l’individuo non c’è. Presuppone l’esistenza di Dio, il dio che acceca gli uni e illumina gli altri, il dio che si nasconde: e talmente a lungo è rimasto nascosto che possiamo presumerlo morto. (II, 72-73)

Un passo la cui interpretazione risulta più chiara se svolta con l’ausilio di un passo sciasciano tratto dalla Breve storia del romanzo poliziesco: Nella sua forma più originale ed autonoma, il romanzo poliziesco presuppone una metafisica: l’esistenza di un mondo «al di là del fisico», di Dio, della Grazia – e di quella Grazia che i teologi chiamano illuminante. Della Grazia illuminante l’investigatore si può anzi considerare il portatore, così come santa Lucia nella Divina Commedia […]. L’incorruttibilità e l’infallibilità dell’investigatore, la sua quasi ascetica vita […], il fatto che non rappresenti la legge ufficiale ma la legge in assoluto, la sua capacità di leggere il delitto nel cuore umano oltre che nelle cose, cioè negli indizi, e di presentirlo, lo investono di luce metafisica, ne fanno un eletto. (II, 1183)

Se le cose stanno così, Riches non può che avere ragione. Il mestiere del detective, infatti, postula una metafisica, presupponendo che la verità sia accertabile, ammettendo l’esistenza di soggetti morali di cui sia possibile dimostrare l’innocenza o la colpevolezza. Nella società del Contesto, dove l’unico ingresso di dio nel mondo è rappresentato dal grande Leviatano, dove l’innocenza è un elemento pleonastico e inessenziale alla “celebrazione” della giustizia, tutto ciò non è più possibile. Inutile dire che l’eliminazione di quella metafisica coincide con la liquidazione di ogni giusnaturalismo, di ogni ordine morale e razionale su cui le leggi dello Stato possano fondarsi. È a questo punto, forse, che maturano in Rogas le ragioni di una diserzione, del passaggio da una condizione di devoto rispetto delle

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leggi a quella di scoperta ribellione, di irriducibile resistenza. Un atteggiamento che Rogas, come vedremo, lascerà in eredità al pittore-narratore di Todo modo. Il contesto, ove si preconizza quel compromesso tra democristiani e comunisti, che si sarebbe realizzato di lì a poco nei governi di unità nazionale, diede luogo, com’era prevedibile, a un aspro dibattito39, aperto per altro da un’entusiastica recensione di Rago su «l’Unità» del 15 dicembre 1971. Se lo ricordiamo, non è per ricapitolare le fasi di una polemica un po’ greve, che si rilegge con qualche disagio, nella quale la sinistra social-comunista (Pedullà, Spinella, Colajanni, Macaluso e Lombardo Radice) e quella extra­ parlamentare (Roversi e Raboni), non tollerando l’accusa di collusione col Sistema, si congedava da Sciascia, riconoscendo in lui un «neo-liberale»40, ravvisandone rancori anticomunisti, biasimandone l’illuminismo reazionario, denunciando nel romanzo una rassegnata e decadente «disperazione cosmica»41. Val la pena ricordarlo, invece, poiché è con esso che si registra, per la prima volta, un «caso Sciascia» nella cultura italiana. Per altro, a parte gli interventi ideologici in difesa dello scrittore di Guttuso, Virdia e Ungari, non sono pochi gli articoli ricchi di intuizioni. Oltre ai già citati di Gramigna e Milano, bisognerà ricordare gli articoli di Scrivano e Camon, che insistevano sulla centralità del tema del Potere; quello di Mondo, che già segnalava l’importanza del repertorio delle citazioni per una più sicura interpretazione del romanzo; quello di Volpini che rilevava nella «pianta giansenista»42 una delle radici profonde dello scrittore e chiamava in causa Goya accanto a Voltaire e Courier; quello di Citati il quale, con grande tempestività, segnalava una predilezione sciasciana per «gli scritti foschi e 39.  Cfr. A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 367-444. 40.  Ivi, p. 405. 41.  Ivi, p. 410. 42.  Ivi, p. 428.

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lucidissimi dei moralisti secenteschi, Gracián, Quevedo, La Rochefoucauld […], amanti insieme dell’ordine intellettuale e della tenebra umana»43; ma soprattutto l’articolo di Pampaloni, il quale, pur registrando «una più diretta aggressione al tema del potere», notava come «nel conflitto individuo-Potere, l’individuo, l’io»44, avesse una parte maggiore che negli altri libri, disegnando così, con grande lungimiranza, un cammino che Sciascia avrebbe percorso con sempre più determinazione fino a Candido. Ma veniamo a Todo modo, che deve il suo titolo agli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola. Quanto alla sua effettiva genesi, è certamente il romanzo su cui abbiamo il maggior numero di informazioni. Prendiamo il quadro che campeggia nella copertina della prima edizione Einaudi: le Tentazioni di S. Antonio abate (1620) di Rutilio Manetti che si trova nella chiesa di S. Agostino a Siena. È Fabrizio Clerici, in un articolo memorabile45, a raccontarci come lo scrittore, che aveva già iniziato la stesura di Todo modo, venuto a trovarlo con la moglie Maria, si sia per caso imbattuto in una copia del quadro che si trova nella chiesetta della casa del pittore e, rimanendone profondamente colpito, lo abbia poi citato nella vicenda romanzesca, all’insaputa dello stesso Clerici, caricandolo, per altro, di una forte connotazione simbolica. Sciascia ci racconta di essersi trovato per il premio «Vitaliano Brancati» in un albergo gestito da salesiani presso Zafferana Etnea, dove ha potuto assistere agli esercizi spirituali cui si dedicavano gli ex allievi dei preti, «tutti notabili della Democrazia Cristiana». Lo spettacolo di costoro, che ogni sera 43.  Ivi, p. 387. 44.  Ivi, p. 403. 45.  F. Clerici, L’eremo, l’abate e il diavolo (1990), in Id., Di profilo. Scritti d’arte 1941-1990, a cura di M. Carapezza, Novecento, Palermo 1992, pp. 267-271.

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recitavano «il rosario passeggiando avanti e indietro sul piazzale antistante l’albergo» (S.M., 67), sarebbe all’origine di Todo modo. Questo fatto ritorna in alcune pagine di Nero su nero (II, 653-656). Non staremo qui a elencare le battute che dal diario trapassano nel romanzo, impegno che O’Neill ha già ben assolto46. Ci limiteremo solo a un passo in cui Sciascia, dopo aver avanzato il sospetto che nel mondo cattolico il «realizzarsi della tolleranza» non sia altro che l’«avvento della confusione» (II, 655), dopo aver ricordato di non aver mai udito tra quei credenti, pur in discorsi che «si muovevano su un piano teologico, dottrinario, esegetico», le parole «fine del mondo» e «morte» (II, 656), formula una domanda che è, nel contempo, una rapida e inesorabile condanna di quel mondo, lo stesso interrogativo che è a fondamento del romanzo: E sarà magari, la mia, dall’esterno, una domanda reazionaria (quasi tutte le domande cominciano ad esserlo): ma che cosa resta del Cristianesimo senza il pensiero della morte, della fine del mondo? (II, 656)

Di tale “reazionarismo” troveremo consistenti tracce anche in Todo modo. Siamo nell’eremo di Zafer, trasformato in un albergo ove si radunano ogni anno, per dedicarsi agli esercizi spirituali, un certo numero di rappresentanti della classe dirigente: ministri, deputati, presidenti, direttori di banche e importanti enti statali, industriali e direttori di giornale. Si affidano tutti al magistero di don Gaetano, un prete colto, intelligente, intenditore d’arte ed esteta, uno che, come Mallarmé, ha letto tutti i libri (II, 138). A capitarvi per caso, in pieno agosto, è l’io narrante, un pittore ricco e famoso, assolutamente laico, ma incuriosito da ciò che sta per cominciare nell’albergo. Assisterà invece a un triplice omicidio, l’ultimo dei quali ha come 46.  T. O’Neill, Sciascia’s «Todo Modo»: La Vérité en Peinture, in J. Bryce D. Thompson (a cura di), Moving in Measure. Essays in honour of Brian Moloney, Hull University Press, Hull 1989, pp. 215-228: pp. 216-217.

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vittima proprio don Gaetano. Ancora un giallo, che chiude per il momento la serie apertasi col Giorno della civetta. Tra tutti e quattro certamente il più anomalo, rappresenta il punto d’approdo di un progetto d’aggressione totale alla tradizione del romanzo poliziesco. Il primo tratto eccentrico, non riscontrabile nei tre precedenti, è l’esecuzione del primo omicidio, ritardata fino a metà romanzo. Parimenti anormale è l’identità di chi esercita il ruolo dell’investigatore. In primis il pittore, colui che con ogni probabilità risolve il caso, trasformandosi, presumibilmente, nell’assassino di don Gaetano, in ciò ripetendo il topos del narratore-assassino che figura nel romanzo della Christie The Murder of Roger Ackroyd, non a caso prefato da Sciascia per gli «Oscar Mondadori» in questo stesso 197547. Il pittore, particolare che rivela una persistente intenzione parodica, pubblica gialli sotto pseudonimo, per sentirsi subito dire dal suo ex compagno di scuola Scalambri, che il caso in questione «non è un romanzo» (II, 157). Il procuratore Scalambri, fatto interessante, ripete ironicamente la figura del detective istituzionale in competizione con quello privato. Alquanto svogliato, certamente non «un’aquila» (II, 152), non proprio zelantissimo nel tentativo di addivenire a una soluzione, è coadiuvato da un commissario che sta per andare in pensione, per nulla intimorito dai notabili coinvolti, e con idee un po’ fasciste sulla giustizia (II, 160). Ulteriore elemento di rilievo, il commissario è in continuo contrasto con il procuratore, non rispettando una regola della tradizione poliziesca che anche Sciascia sottolinea nella sua Breve storia del romanzo poliziesco: la presenza di una “spalla” dell’investigatore, assolutamente dipendente dalle sue verità, «che esprime i punti di vista, i dubbi e i sospetti dell’uomo comune, del comune lettore» (II, 1182). 47.  Cfr. F. Cordelli, Il delitto stilistico di Sciascia, in «Nuovi Argomenti», n. 50, aprile-giugno 1976, pp. 209-216: p. 210, n. 1.

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Niente di tutto questo nel nostro commissario, capace di citare anche Gadda (II, 160), come a segnalarci che ci troviamo sotto la stella del Pasticciaccio, nel dominio, per dirla ancora con Sciascia, del «più assoluto “giallo” che sia mai stato scritto, un “giallo” senza soluzione» (II, 1196). La determinazione dei moventi e, quindi, degli assassini, rappresenta, infatti, la maggiore anomalia di Todo modo. E quasi impossibile per il lettore capire chi abbia effettivamente ucciso l’onorevole Michelozzi e l’avvocato Voltrano: se sia stata la stessa mano, se Voltrano abbia ucciso Michelozzi, se sia stato solo testimone del delitto andando incontro a una morte inevitabile, se si sia invece inventato tutto con fini ricattatori, se, infine, il killer coincida col mandante, quasi certamente don Gaetano, il quale, data la dinamica del primo delitto, non sembra poterne essere l’autore materiale, mentre manca di un alibi per il secondo, benché l’arma del primo delitto, trovata accanto al suo cadavere, sembri inequivocabilmente chiamarlo in causa come unico colpevole. Sono tutte domande, queste, che Mineo si pone in un suo serrato saggio48, arrivando a stabilire, relativamente ai due primi omicidi, la responsabilità di don Gaetano. Una soluzione a cui Mineo giunge, in una specie di gara con lo scrittore, strappando alla sua reticenza ogni elemento utile alla difficilissima, se non impossibile, ricostruzione della verità. Le cose non diventano più semplici con l’omicidio di don Gae­ tano. Come i precedenti, nell’indagine ufficiale il delitto rimane insoluto. Solo a patto di una vigile e tutt’altro che rilassante rilettura, è possibile arrivare a scoprire che il colpevole è il pittore. Sono molti gli indizi, sempre cifrati e in una scrittura elusiva, che portano a tale conclusione. Per cominciare: man mano che nel pittore si va facendo strada la convinzione di una 48.  N. Mineo, Lo scrittore e il detective, in Z. Pecoraro - E. Scrivano (a cura di), Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., pp. 33-44.

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certa correità di don Gaetano, cresce in lui un sentimento di ribellione, accompagnato dal desiderio di essere, con il prete, «sgradevole e pungente» (II, 162). Né sfuggirà al lettore l’inquieta divagazione sugli occhiali di don Gaetano, così simili a quelli del quadro di Manetti, che porta il pittore a identificare il prete, senza più riserve, con il demonio: fatto che lo indurrà rapidamente a mutarsi, più che in «giustiziere»49, in «poliziotto di Dio»50, per dirla con Bufalino. Ma come avverte Budriesi, servendosi della nozione di «capitoli fantasma»51, da affidare alla fantasia del lettore per colmare i vuoti della narrazione, «la sequenza decisiva per l’individuazione di un senso logico da dare al romanzo consta di quattro capitoli»52, quelli compresi tra la soluzione del problema criminale intuita dal pittore («netta e quasi ovvia: molto simile a quella della Lettera rubata di Poe»: II, 190), ma non comunicata al lettore («non voglio dire di più»: II, 190) e il ritrovamento del cadavere di don Gaetano (II, 196-199). In questo arco temporale i vuoti narrativi sono numerosi. Questi i fatti: prima il proposito del pittore di fare una ricerca nel bosco, sulla base di un’ipotesi da verificare (II, 190), eseguita solo il giorno dopo, senza che se ne venga a sapere il risultato (II, 191). Poi, un mutamento di tempo e luogo con la colazione in refettorio, in cui compare per l’ultima volta don Gaetano (II, 192-196). Quindi, dopo un’ulteriore ellissi temporale, l’inizio di un nuovo capitolo con il rientro del pittore «a pomeriggio inoltrato» (II, 196) e la successiva scoperta del corpo del prete. La storia, come nota Budriesi, può acquistare un senso, solo nell’ipotesi che il protagonista sia andato a uccide49.  A. Budriesi, Pigliari di lingua, cit., p. 57. 50.  G. Bufalino, Il poliziotto di Dio (1983), ora in Id., Cere perse, Sellerio, Palermo 1985, pp. 51-54. 51.  Cfr. U. Eco, Lector in fabula, Bompiani, Milano 1979, pp. 204-216. 52.  A. Budriesi, Pigliari di lingua, cit., p. 92.

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re don Gaetano, nel lasso di tempo tra la colazione in refettorio e il tardo rientro in albergo, dopo aver fatto il sopralluogo progettato nel bosco, concludendo, con un ragionamento alla Dupin, che il colpevole è il prete. Un «capitolo fantasma», però, che può essere «costruito dal lettore solo durante una seconda lettura»53. Non possiamo non aggiungere, a complicare il giuoco delle maliziose allusioni d’autore, l’ambigua notazione del pittore: «Non mi fece forte impressione, rivederlo morto» (II, 197). Perché non dice vederlo invece di «rivederlo»? Vuol significare che morto, avendolo ucciso, l’aveva già visto? O solo che lo rivedeva morto dopo averlo visto vivo? Per non dire dell’ambigua confessione che il protagonista fa a Scalambri, ovviamente non creduto: – Dov’è che te ne sei andato? – A uccidere don Gaetano – dissi. – Lo vedi dove si arriva, quando si lascia la strada del buon senso? – disse trionfalmente Scalambri. – Si arriva che tu, io, il commissario diventiamo sospettabili quanto costoro, e anche più: e senza che ci si possa attribuire una ragione, un movente… Io lo dico sempre, caro commissario, sempre: il movente, bisogna trovare, il movente… (II, 202).

Siamo, come si vede, al definitivo requiem del giallo tradizionale, con un colpevole che confessa, non creduto, e un movente che non c’è. I risultati del Contesto sono portati alle estreme conseguenze. Il pittore-narratore-investigatore diviene effettivamente, non più solo in forma vicaria, il boia, il giustiziere, per quanto non ne avremo mai la certezza oggettiva garantita dall’autore o da qualche personaggio supplente. Il pirandellismo del precedente romanzo raggiunge qui esiti radicali: se nel Contesto la verità era multipla nel giuoco delle versioni pubbliche e private, ma integra e univoca in corde investigatoris, pur se il detective viene ucciso, in Todo modo la verità non 53.  Ivi, p. 93.

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è neanche pronunciabile, al pari della «causa buona di tutte le cose» che spicca nella citazione del De Mystica theologia di Dionigi Areopagita in epigrafe al romanzo (II, 99). Nel segno di un pirandellismo di cui restano consistenti tracce sulle quali dovremo ritornare. Vogliamo solo aggiungere che l’atteggiamento elusivo, criptico, talvolta reticente, ha come esito una rottura definitiva del patto con i lettori, una volta stipulato in funzione ironica e a scapito dei personaggi54, per una ricostituzione di esso con quegli happy few, quei pochi felici, che possano seguire lo scrittore nella trama di citazioni che fa da controcanto alla vicenda, assumendola «in uno spazio più ampio, in un tempo più duraturo»55. Un esempio clamoroso di questo nuovo patto è dato dall’enigmatica citazione che chiude il romanzo, tratta da Les caves du Vatican (1913) di André Gide. E tanto per allungarne la eco di significati, diciamo che il laico scrittore francese, quasi segreto punto di riferimento, compare nel passo di Nero su nero dedicato agli esercizi spirituali, in un accenno all’epistolario col cattolico Claudel, nel carteggio scoperto «infinitamente più cristiano» (II, 655) del suo collega. Nello stesso diario, e sempre in riferimento a Les caves, Sciascia ne sottolinea il carattere di sotie, «uno scherzo, una beffa, una buffoneria» (II, 784), a indicare inequivocabile chiave di lettura per Todo modo. Più avanti ancora, e sempre richiamando Les caves, definisce Gide «il più vero e grande intellettuale che l’Europa abbia avuto nell’arco del primo mezzo secolo nostro» (II, 843). Non ci pare poco. Ma torniamo alla citazione in oggetto, ove Anthime, fisiologo dilettante, miscredente e massone (che nel

54.  Ivi, p. 124. 55.  R. Ricorda, Sciascia ovvero la retorica della citazione, cit., p. 59. Ha sottolineato con grande acutezza questo nuovo e reticente cerchio di complicità tra autore e lettore in Todo modo, G. Giudice, nell’articolo Le citazioni di Leonardo Sciascia, cit., p. 332.

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romanzo si era però a un certo punto convertito), scende dalla carrozza zoppicante, sotto lo sguardo sorpreso del cognato Julius, romanziere mondano ultra-cattolico, che lo credeva guarito dalla sciatica. Così Sciascia spiega il passo a Francesco Madera: In quanto al brano di Gide che conclude Todo modo, credo di averlo messo, lì per lì, per un’esigenza che direi ritmica; poi mi sono accorto che prendeva un significato, più significati. E principalmente questo: che nonostante don Gaetano, nonostante quel che di me gli ho messo dentro, sono ancora, sempre, laicamente zoppo.56

Ma le cose, come sempre in Sciascia, non sono così semplici. Se pensiamo al fatto che la citazione si trovi subito dopo che il procuratore afferma la necessità del movente per ogni delitto, scagionando con ciò stesso il pittore reo-confesso, la citazione acquista un ulteriore significato, consentendo senza più dubbi l’identificazione del colpevole. Les caves, infatti, conta tra i suoi personaggi l’inquieto e inquietante Lafcadio, l’irresoluto e tormentato giovinetto che si fa autore di un delitto assolutamente privo di motivazioni, passato agli annali letterari come il simbolo vivente dell’atto gratuito57. Atto che ripete il pittore di Todo modo: almeno apparentemente. Si potrebbe continuare in questo piccolo giuoco inquisitorio, notando che il falotico romanzo di Gide non è meno elusivo contratto e scottante di quello di Sciascia, non è meno compromesso con i limacciosi guadi della coscienza. Ci fermiamo qui, osservando, però, che nei primi due capitoli di Les caves, veri nuclei irradianti del libro, campeggia il dibattito brillante e paradossale tra il laico Anthime e il cattolico Julius: ce ne dovremo ricordare. Recensendo Todo modo, Pasolini scriveva:

56.  F. Madera, L’abitudine di morire, in «Epoca», 8 febbraio 1975. 57.  Cfr. anche F. Cordelli, Il delitto stilistico di Sciascia, cit., p. 210.

232 Questo romanzo giallo metafisico di Sciascia […] è anche, credo, una sottile metafora degli ultimi trent’anni di potere democristiano, fascista e mafioso, con un’aggiunta finale di cosmopolitismo tecnocratico (vissuta però solo dal capo, non dalla turpe greggia alla greppia). Si tratta di una metafora profondamente misteriosa, come ricostituita in un universo che elabora fino alla follia i dati della realtà. I tre delitti sono le stragi di Stato, ma ridotte a immobile simbolo. I meccanismi che spingono ad esse sono a priori preclusi a ogni possibile indagine, restano sepolti nell’impenetrabilità della cosca, e soprattutto nella sua ritualità.58

Con la consueta intensità, e nel rapido giro di un periodo, Pasolini coglieva la natura ambigua, plurima, del romanzo, ravvisandone l’aspetto di processo alla classe dirigente cattolica e democristiana, ultimo capitolo di quella contro-storia d’Italia iniziata con Le parrocchie, ma come sollevato a una dimensione di sinistro «giallo metafisico», entro cui i dati della vicenda vengono manipolati fino al parossismo, alla follia, a costituire un universo assolutamente autonomo, impenetrabile, e organizzato secondo i riti di una misteriosa comunità criminale. Un universo concentrazionario, ci verrebbe da dire, per tradurre quel «senso di “orrore” morale»59 avvertito da un altro recensore. In effetti, il pittore fa presto ad accorgersi che gli esercizi spirituali hanno ben poco a che fare con un itinerarium mentis in Deum, e piuttosto mimano la liturgia di un Potere indecifrabile. Dentro l’astratto spiritualismo di questi notabili si cela un crasso materialismo. Non a caso, il pittore sembra assistere alla metamorfosi dell’albergo in fattoria degli animali, in porcile: e scandiamo i termini nel senso di Orwell, di Pasolini. Non sono pochi gli epiteti ferini che precipitano sui membri 58.  P.P. Pasolini, Il buono e il cattivo nell’universo di Sciascia (1975), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 311-314: p. 314. 59.  M. Spinella, Sciascia ironico e crudele (1975), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 315-316: p. 316.

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di quest’uma­nità imbestiata: ma è il «porco» a farla da padrone. C’è, a questo proposito, una fantasia del pittore che ben suggella il mondo morale degli ospiti di Zafer: Nell’insieme, pareva che tutti parlassero della refezione consumata a mezzogiorno e di quella che sarebbe stata consumata tra un paio d’ore: dell’inappetenza di qualcuno e della fame dei più. Quello mangia, quello ha una fame, quello non ha mangiato ancora, non vuole mangiare, vuole, non può, bisogna farlo mangiare, deve finire di mangiar tanto, c’è un limite al mangiare; e così via. Mi resi conto che era un parlar figurato, e spinsi la figurazione a vederli tutti annaspare dentro una frana di cibi in decomposizione. (II, 135)

Il processo di animalizzazione è al termine. La scomparsa del Dio cristiano (siamo ancora al Dio che si nasconde di cui parlava Riches) in questa comunità di cattolici, sembra aver inverato, nella divagazione del pittore, la convinzione dell’ateo Feuerbach: che l’essere dell’uomo debba consistere, appunto, in ciò che mangia. Il parlare «figurato» di costoro non può che indurre il pittore a pensare altrettanto «figurato», per figurazioni attinte, come al solito, alla letteratura, e come dentro una corrusca luce di angoscia e disperazione, di irreversibile perdizione: E in quel momento anche chi, come me e come il cuoco, li vedeva nell’abietta mistificazione e nel grottesco, scopriva che c’era qualcosa di vero, vera paura, vera pena, in quel loro andare nel buio dicendo preghiere: qualcosa che veramente attingeva all’esercizio spirituale: quasi che fossero e si sentissero disperati, nella confusione di una bolgia, sul punto della metamorfosi. E veniva facile pensare alla dantesca bolgia dei ladri. (II, 137-138)

Uomini che annaspano dentro una frana di cibi in decomposizione, precipitati in un inferno senza speranza. Non possiamo non tornare a Pasolini, quello che, nella recensione citata, si congedava dai lettori per «girare un film estremamente sgra-

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devole (De Sade e la Repubblica Sociale mescolati insieme)»60. Ci piace pensare a Todo modo come a una delle possibili fonti di Salò, questo suo ultimo e terribile film, e come a trovare in esso inveramento e amplificazione. Un’ipotesi che ci seduce al punto di scegliere, quale chiosa ai due passi sopra citati, a intravedervi un senso, tra i possibili, del romanzo, quel che Sciascia, stretto «tra le delusioni storiche nuove e le tentazioni metafisiche vecchie» (II, 778), scrisse del film di Pasolini: Ho sofferto maledettamente, durante la proiezione. Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a non chiudere gli occhi, davanti a certe scene: e nel buio diciamo quasi fisico che si faceva in me, precario conforto a quell’altro, morale e intellettuale, che dilagava dallo schermo, disperatamente e come annaspando cercavo nella memoria immagini d’amore. Poi venne, da una delle vittime […] l’invocazione che spiega il senso del film e l’impressione che produceva in me: «Dio, perché ci hai abbandonati?» Lo stesso grido di Cristo nel Vangelo di Marco: «Eloi, Eloi, lama sabactani?». (II, 777)61

Siamo, dunque, al «giallo metafisico»: e non solo per i motivi sin qui addotti. La definizione, infatti, trova più vera conferma in quello che sembra il filo rosso dell’intera vicenda: il dibattito tra don Gaetano e il pittore-narratore, interpretabile nei termini di «un apocalittico scontro tra (le) due opposte correnti di pensiero del mondo moderno, la pascaliana e la voltairiana»62. Né ci pare sia nel torto quel recensore che in tale scontro ha voluto ravvisare «un limite di lucida consumazione delle tesi, laiche, che hanno sin qui accompagnato la scrittura di Sciascia, e di evaporazione della forma60.  P.P. Pasolini, Il buono e il cattivo, cit., p. 311. 61.  Sul rapporto tra Sciascia e Pasolini, soprattutto per le differenze, cfr. F. Gioviale, Sciascia, cit., pp. 66-67. 62.  A. Budriesi, Pigliari di lingua, cit., p. 56.

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romanzo»63. Ma andiamo con ordine, e diciamo subito che, nel rapporto tra i due personaggi, Sciascia riattiva, come per la coppia Di Blasi-Vella, il tema del «doppio»64. Già le citazioni in epigrafe dallo pseudo-Dionigi, che innestò il neoplatonismo sul tronco già robusto della teologia cattolica, e da Casanova, avrebbero dovuto insospettirci: nei testi riportati, infatti, lo spiritualismo dell’uno e il materialismo edonista dell’altro65, apparentemente opposti, sembrano identificarsi nella eguale oscurità degli enunciati, nel segno di una stessa Mystica theologia, quella cinica che don Gaetano farà propria, nell’ambito della quale, per altro, troveranno spiegazione e giustificazione. Ma per tornare al Consiglio, la differenza sta nel fatto che, mentre in questo l’identificazione tra i due personaggi si palesa al termine di un processo di lento avvicinamento, in Todo modo partiamo da un’inquietante prossimità che si traduce, alla fine, nel reciproco tentativo dell’uno (non solo metaforico) di annientare le ragioni dell’altro. Non a caso, come fonte del romanzo, è stato indicato il celebre racconto borghesiano dei due teologi, raccolto in Finzioni 66. Significativa, in tale con-

63.  P. Cimatti, Todo modo (1975), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 321-324: p. 323. 64.  Su questo tema, cfr. anche A. Di Grado, Sciascia e il suo «doppio», in Id., Scritture della crisi, cit., p. 122. 65.  Circa la citazione da Casanova, non sfuggirà il commento che ne dà Sciascia in Nero su nero, a denunciare una certa sessualità che s’illude d’esser libertaria mentre fonda nuovi modelli di schiavitù, più dura dell’antica (II, 694). Né si dovrà dimenticare quel che scrive nel saggio L’utopia di Casanova, come a rilevare il doppio fondo osceno del discorso teologico casanoviano (come quello di don Gaetano): «Nell’Icosameron, le sue preoccupazioni e precauzioni sono state persino eccessive […]: a giustificare e sommergere la rappresentazione dell’incesto sotto una valanga di dottrina teologica e morale di indiscutibile (ossia discutibilissima, come sempre quando si abbandona alle digressioni di teologia e di morale) autorità» (II, 1024). 66. T. O’Neill, Sciascia’s «Todo Modo», cit., pp. 217-218.

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testo, la riflessione del pittore, quando in lui è ancora forte la simpatia per il prete: Ma sempre c’era, in tutto quello che don Gaetano diceva o faceva, come una vibrazione o sfumatura d’irrisione: che, evidentemente, nessuno di quel gregge che intorno gli si raccoglieva era in grado di avvertire. E io l’avvertivo e me ne incantavo: perché mi parevano, quella distillata irrisione, quel sottile disprezzo, esercitati in una specie di consorteria, di solidarietà, che si era stabilita tra lui e me; e che la sua immagine fosse, più vecchia e saggia e consumata, la mia cui aspiravo. (II, 118-119)

Che non si tratti solo di una complicità tra intelligenti, ai danni d’un manipolo di imbecilli, ma del continuo specchiarsi dell’uno nell’altro, è confermato dall’inquietudine religiosa che più volte manifesta il laicissimo pittore, e dalla grande spregiudicatezza intellettuale che subito mostra il prete. E basti, a carico del pittore, oltre alla curiosa «nevrosi da trinità» (II, 103)67, quella sua meditazione sulla Chiesa e il cattolicesimo, condotta con un senso «di disagio, di apprensione» (II, 119). Ha appena assistito a una messa in italiano, mentre la sua memoria (la sua nostalgia?) è ferma a quella in latino dell’infanzia: possibile che «quel macigno di superstizioni e paure, di intolleranza» fosse diventato «friabile e povero come la zolla più povera»? Non aveva sempre voluto che «il mistero si dissolvesse», che di esso restassero solo tralicci e impalcature, «come quando si entra in teatro per i Sei personaggi di Pirandello»? Eppure… La verità è che tante cose in noi, che crediamo morte, stanno come in una valle del sonno: non amena, non ariostesca. E sul loro sonno la ragione deve sempre vigilare. O magari, a prova, qualche volta svegliarle e lasciare che da

67.  Si veda, a mo’ di chiosa e gustosa divagazione su questo tema, W. Pedullà, I numeri di Sciascia, in Id., Lo schiaffo di Svevo. Giochi, fantasie, figure del Novecento italiano, Camunia, Milano 1990, pp. 345-363.

237 quella valle escano: ma perché se ne tornino giù mortificate e impotenti… Ma se la prova non riesce? Ecco il punto. Al quale, per la verità, non mi ero mai trovato: poiché tutto, dentro di me e intorno a me, era ormai da anni finzione. (II, 120-121)

E ci pare fatto di rilievo che la sirena del cattolicesimo canti proprio in concomitanza di una crisi esistenziale in cui il pittore avverte di precipitare in un abisso di inautenticità. Quanto a don Gaetano, nel conto del suo libertinismo intellettuale non mettiamo solo la grande conoscenza degli argomenti del nemico, ma una serie di predilezioni che l’autore gli impresta. Su tutte, quella stendhaliana: grazie a cui il prete, in modi quasi blasfemi, riesce a vedere in Pio II un «eroe stendhaliano avant la lettre», in termini identici a quelli in cui ne parla Sciascia in Nero su nero (II, 739-740). Non sfuggirà il fatto che, malizia suprema, don Gaetano porti «le calze bianche, di lana grossa» (II, 197): in ciò rispettoso, dunque, della «saggia prescrizione voltairiana» di dipingere «a piedi caldi», «per una più tarda e giusta fama» (II, 115), che il pittore fa a sé stesso. Né si deve dimenticare che, se don Gaetano, con i suoi occhiali a pincenez, finisce per somigliare in tutto e per tutto al diavolo di Manetti (II, 124, 183), il pittore irretito da don Gaetano non può che coincidere con S. Antonio che da quel diavolo è tentato: e siamo alla più completa definizione del giuoco delle parti. Veniamo, dunque, a disegnare le fasi dell’infinita e problematica conversazione tra i due personaggi, registrandone i momenti salienti. E cominciamo col sottolineare la difesa che don Gaetano fa, dopo una parafrasi di Croce con un «Perché non possiamo non dirci comunisti» (II, 127), della restaurazione del diavolo operata da Paolo VI68, per arrivare a proclamare nella Chiesa «una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà», attributi che in qualsiasi altro istituto mondano «non sarebbero che apparenze, a nascondere o a mistificare», 68.  Una difesa che Sciascia vede con simpatia in Nero su nero (II, 819-820).

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e che nella Chiesa, invece, «sono le interpretazioni o manifestazioni visibili dell’invisibile» (II, 128). Ma il primo vero colpo di scena, arriva quando don Gaetano, nel riconoscere che in albergo sono alloggiate le amanti di alcuni notabili, e come a giustificare la sua totale permissività, arriva a rimproverare al pittore di prendere troppo alla lettera gli esercizi spirituali: E del resto credo che il laicismo, quello per cui vi dite laici, non sia che il rovescio di un eccesso di rispetto per la Chiesa, per noi preti. Applicate alla Chiesa, a noi, una specie di aspirazione perfezionistica: ma standone comodamente fuori. Noi non possiamo rispondervi che invitandovi a venir dentro e a provare, con noi, ad essere imperfetti. (II, 131-132)

Una notazione, come si vede bene, che oppone il pragmatismo dei cattolici all’idealismo perfezionista dei laici, al rigorismo astratto e ipocrita di chi pretende la perfezione degli altri, ma non la propria. Una notazione che, significativamente, è seguita dall’affermazione del prete di sentirsi «tanto reazionario quanto rivoluzionario» (II, 133), e da una dura requisitoria contro il libertinismo del pittore, concepito, in ordine alle moderne acquisizioni psicologiche, come forma di infantile coazione a ripetere, dentro un destino di demenza senile. E ciò, nel segno di una condanna che vede nella moderna licenziosità una manifestazione di sessuofobia assai più profonda dell’antica. Ma questa non è l’unica battaglia vinta da don Gaetano. Si veda la sua risposta al pittore che si tiene a una distinzione un po’ schematica tra «preti buoni» e «preti cattivi», non sapendo classificarlo nell’una o nell’altra schiera: sono un prete cattivo che, a differenza di quegli altri cattivi che ha conosciuto un tempo, ha letto tanti libri… Le voglio anzi regalare un piccolo paradosso, a spiegazione del mio classificarmi tra i cattivi non per modestia ma per convinzione: i preti buoni sono quelli cattivi. La sopravvivenza […], il trionfo della Chiesa nei secoli, più si deve ai preti cattivi che ai buoni. E dietro l’immagine della perfezione che vive

239 l’idea della perfezione: il prete che contravviene alla santità o, nel suo modo di vivere, addirittura la devasta, in effetti la conferma, la innalza, la serve. (II, 139)

Questa precisazione trova inveramento nell’idea di don Gaetano che la «transumanità» della Chiesa stia nel fatto di «consustanziare una specie di storicismo assoluto», entro cui possa giustificarsi la necessità «di ogni evento interno al mondo», delle azioni di ogni membro della sua gerarchia. All’accusa del pittore di essere un fanatico, il prete dà inizio a una serie di considerazioni che possono definirsi il più radicale attacco alle ragioni del laicismo mai pronunciato da un personaggio di Sciascia. Don Gaetano non ha dubbi, non può non essere fanatico con la veste che indossa: «Se, beninteso, per lei fanatico è chi ha delle certezze… Ma le mie certezze, lei questo non lo sa, sono altrettanto corrosive che i suoi dubbi» (II, 139). Nel moderno ordine del mondo, la Chiesa non è più la comunità da Dio convocata, ma una sorta di «zattera della Medusa», quella del tremendo quadro di Géricault esposto con scandalo al Salon del 1819, ove ci si ispirava ai pochi superstiti di un celebre naufragio, che, per salvarsi, si erano abbandonati ad atti di cannibalismo. La reazione del pittore è stizzita, provocatoria la risposta del prete: – Preferisco perire subito, nel naufragio. – Ma no, lei sta nuotando per raggiungere la zattera. Perché il naufragio c’è già stato… – Fece un sorriso quasi divertito – Non se ne è accorto? (II, 140)

L’uomo del cattolico don Gaetano, convinto che «i grandi guadagni fanno scomparire i grandi principi» (II, 148), non è altro che quello aggrappato alla zattera della Medusa, sulla quale hanno diritto d’ospitalità solo gli individui che sono in grado di non perire nella guerra di tutti contro tutti. D’altro canto, «credere che Cristo abbia voluto fermare il male è l’errore più vecchio e più diffuso del mondo cristiano». Constatazione che gli consente di rovesciare, pro domo sua, il celebre assunto di Dostoevskij:

240 «Dio non esiste, dunque nulla ci è permesso». Queste grandi parole, nessuno ha mai veramente tentato di rovesciarle: piccola, ovvia, banale operazione. «Dio esiste, dunque tutto ci è permesso». Nessuno, dico, tranne Cristo. E nella sua vera essenza, questo è il cristianesimo: che tutto ci è permesso. Il delitto, il dolore, la morte: crede sarebbero possibili, se Dio non ci fosse? (II, 163)

Nelle nichilistiche parole del prete, ogni atto, anche il più iniquo, viene spiegato e assolto. In una sorta di giansenismo alla rovescia, per cui i salvati, i graziati, sono i criminali, gli sprezzatori di ogni regola, la vita secolare è «l’orlo dell’abisso: dentro di noi, fuori di noi», «l’abisso che invoca l’abisso», «il terrore che invoca il terrore» (II, 164). In un mare torbido e limaccioso, le limpide acque del bene si confondono a quelle nere del male, nulla ha più definizione univoca, niente ha più saldezza logica e concettuale. Per capire tutto ciò, «bisognerebbe entrare nell’inesprimibile senza sentire la necessità di esprimerlo» (II, 163): e siamo dentro quella Mystica theologia di Dionigi Areopagita nel cui segno il romanzo si apre. Il discorso di don Gaetano trova il suo apice in quell’allucinante invito a «distruggere», perché l’ingresso di Dio nel mondo possa finalmente compiersi, un invito che cela il desiderio di essere ucciso (II, 186). Un invito che si conclude con una critica senza precedenti al secolo dei Lumi che ha fatto perdere il senno all’umanità (II, 186-187). Una critica che ha come principale obiettivo Voltaire, quasi che il prete prendesse in consegna il testimone lasciatogli da Riches, il Presidente della Corte Suprema del Contesto: È stato detto che il razionalismo di Voltaire ha uno sfondo teologico incommensurabile all’uomo quanto quello di Pascal. Io direi anche che il candore di Candide vale esattamente quanto lo spavento di Pascal, se non è addirittura la stessa cosa. Solo che Candide trovava finalmente un proprio giardino da coltivare… «Il faut cultiver notre jardin»… Impossibile: c’è stato un grande e definitivo esproprio. (II, 187-188)

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Il laicismo del pittore, trincerato dietro la fideistica volontà di rileggere Candide, sembra ormai completamente demolito. Al prete che lo spinge a riprendere quel libro in mano, per scoprire di non avere più scampo, che gli chiede di non reprimersi più in ciò che lo porterebbe nel campo della fede, che lo invita, insomma, a non contraddirsi, sa opporre soltanto una laconica parafrasi di un motto voltairiano («L’homme n’est point une énigme»), con un effetto sul lettore che si vuole senz’altro modesto e deludente69: «Non sono un mostro incomprensibile» (II, 188). Ha ragione Schulz-Buschhaus: l’Aufklärung, l’illuminismo, esce doppiamente sconfitto in Todo modo, una prima volta sul piano dell’indagine poliziesca, una seconda su quello del dibattito morale e filosofico70. La ragione, sconfitta da ogni punto di vista, resiste appena come imperativo categorico, come principio metodologico, sul terreno dell’utopia. Ecco perché al pittore, senza più argomenti, resta soltanto la possibilità di uccidere don Gaetano: con un atto gratuito e irrazionale, così come gratuita e irrazionale si è dimostrata la sua scelta illuministica. Nel mondo dominato dal grande Leviatano non v’è più alcuno spazio per una ratio che non sappia accogliere il lato ambiguo e contraddittorio della realtà, a meno che non si riformulino le linee di una nuova razionalità in grado di superare il modello voltairiano, una razionalità che, fatte proprie le ragioni dell’“altro”, riesca a misurarsi con i limiti umani, col problema della morte e dell’eternità71. Sia detto in una battuta: nell’analisi di quel Potere invisibile, indeterminabile e inesprimibile, quel Potere che si palesa nel

69.  U. Schulz-Buschhaus, Gli inquietanti romanzi polizieschi di Sciascia, cit., p. 165. 70.  Ibidem. 71.  A individuare tempestivamente in Todo modo una svolta in questa direzione è stata R. Ricorda, Sciascia ovvero la retorica della citazione, cit., pp. 59-60.

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Contesto e in Todo modo, Sciascia non è stato il novello Voltaire, ma il Plotino contemporaneo.

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Capitolo VI

Il volto sulla maschera 1975-1979

Crediamo si possa dirlo con una certa sicurezza: Todo modo, questo nuovo e, sul momento, definitivo requiem per il romanzo giallo, questa allegoria, tra tutte la più disperata e misteriosa, di un Potere imperscrutabile scellerato e suicida, questa sorta di apocalisse ideologica in cui bruciano di violento fuoco le ragioni di un laicismo claudicante, pare aver esaurito tutte le possibilità non solo tematiche e stilistiche, ma anche morali e filosofiche, di una ricerca letteraria condotta con ostinazione, rigore e coerenza. Come se, oltre le macerie della tradizione illuministica e razionalistica a cui Sciascia si è con sempre più difficoltà richiamato, non si profili altro spazio che quello dell’afasia, del silenzio. Se ciò non avviene, lo si deve al fatto che sotto quelle macerie ancora fumanti, lo scrittore sta ridisegnando le fondamenta di un nuovo e più integrale umanesimo. Si potrebbe persino dire, ne abbiamo le prove filologiche, che Todo modo sia stato scritto al posto di un altro romanzo e, proprio nell’insorgere di questo, spinto sino alla deflagrazione nichilistica, come per un processo esorcistico e liberatorio. Bisognava che suonassero tutte le gravi e grevi note della luttuosa sinfonia del Potere, una sinfonia sorda e «senza musica», perché si potesse riascoltare l’«intatta e appagata musica

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dell’uomo solo», di un uomo che, una volta caduti tutti gli idola, fosse capace di tornare a guardare con rinnovato candore le cose del mondo. Spieghiamoci meglio, tornando alla citazione di Debenedetti che apre il romanzo e ne costituisce la nota di fondo1, la nota accennata e poi rimandata, quella che avrebbe dovuto liberare un allegretto e ha invece intonato il requiem. Si tratta di una citazione di argomento pirandelliano, la stessa che ha affascinato lo scrittore sin dai tempi di Pirandello e il pirandellismo (III, 1024-1025): «A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena da causalità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe» – dice il maggior critico italiano dei nostri anni – «riassumere l’universo pirandelliano come un diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all’intatta e appagata musica dell’uomo solo». (II, 102)

Il dato saliente è rappresentato dal fatto che il pittore pare voler rileggere la sua vicenda umana alla luce di questa formula debenedettiana. Prima di incontrare don Gaetano, egli è convinto di aver ripercorso «à rebours, tutta una catena di casualità» e di essere alla fine riapprodato «uomo solo, all’infinita possibilità musicale di certi momenti dell’infanzia, dell’adolescenza», quando, in estate, si appartava in luoghi «di alberi e d’acqua», nell’immaginazione remoti e inaccessibili, «e tutta la vita, il breve passato e il lunghissimo avvenire, musicalmente si fondevano, e infinitamente, alla libertà del presente». In questa musicalissima fuga di libertà, e siamo a un altro elemen1.  Ricciarda Ricorda, nel suo Sciascia ovvero la retorica della citazione, cit., p. 75, ha parlato di leitmotiv musicale, a sottolineare la centralità nel romanzo di «un problema esistenziale». Ma, su questo tema, cfr. anche l’intenso saggio di Ph. Renard, Les lunettes de Sciascia, in «Italianistica», n. 2, maggioagosto 1977, pp. 390-397.

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to di rilievo, il narratore-pittore svolge senz’altro una fantasia autobiografica dell’autore, come rivela un’inaspettata confessione: una delle ragioni per cui si trova a rimuginare «sempre più precisa» la frase del critico è, infatti, «quella di esser nato e per anni vissuto in luoghi pirandelliani, tra personaggi pirandelliani, con traumi pirandelliani», fino al punto di non trovare «più scarto, e nella memoria e nei sentimenti», tra la vita vissuta «fin oltre la giovinezza» e le pagine dello scrittore agrigentino. Siamo, come si vede, alla denuncia di quel «pirandellismo di natura» che ha caratterizzato precocemente, come sappiamo, la vicenda dello stesso Sciascia. La citazione debenedettiana si impone all’io narrante come «frase o tema dell’infinita possibilità musicale di cui disponevo. O, almeno, di cui mi illudevo di disporre» (II, 101). Ecco il punto: quell’atto di libertà che il pittore si appresta a compiere, «a ripetere, a moltiplicare» (II, 102), dopo aver finalmente ripercorso a ritroso la pesante catena delle costrizioni e degli impegni, insomma delle causalità, si paleserà come un’illusione, un traguardo da rimandare in un futuro non si sa quanto lontano. La vita è ancora gravata da costrizioni, incalzata com’è da nuovi e terribili doveri. Del resto don Gaetano, in uno dei suoi primi interventi, aveva avvertito il pittore, proprio richiamandosi, cripticamente, al Kant debenedettiano: lei ha sentito degli esercizi spirituali, e le è venuto il desiderio di assistervi… E crede che questo impulso le venga dalla voglia di divertirsi, di deridere… Ma non si sa mai, quello che può nascere da un simile impulso: un atto di libertà… – … a cui poi si saldano gli anelli della causalità. Mi guardò, per la prima volta, con un certo interesse. – Già – disse – la catena (II, 111).

Il tema delle causalità, delle apparenti casualità che si convertono in inesorabili causalità, fa da costante sfondo al romanzo, riaffiorando nei momenti in cui la vicenda corre verso i suoi esiti fatali, come quando, desideroso di rivedere la grottesca

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scena del rosario sul piazzale dell’albergo, il pittore decide di rimanere, ignaro che «alla catena della causalità, e della casualità, stava saldandosi un altro anello» (II, 141), il più pesante, quello che annuncia il primo delitto del romanzo2. La nostra ipotesi dovrebbe essere ormai chiara. Svolgendo la citazione di Debenedetti in direzione autobiografica, nel recupero di quell’«intatta e appagata musica dell’uomo solo», in vista dell’approdo a uno spazio di radicale e totale libertà, uno spazio del tutto privo di inquietudini e apprensioni, ad eccezione di quelle «oscure e irreprimibili […] del vivere e per il vivere» (II, 102), Sciascia si è probabilmente trovato, inavvertitamente, a scrivere un libro diverso da quello che aveva progettato. Per altro, quasi che l’autore avesse voluto maliziosamente segnalare una svolta nel suo percorso letterario, tale sentimento di libertà è sentito dal pittore come auspicio di una rinnovata stagione creativa, illusione presto smentita dai fatti: Mi sentivo libero da tutto, comunque. E anche dalla pittura. O meglio (poiché siamo al discorso, non è inopportuno che tenti di spiegarmi fino in fondo), questa mia specie di fuga, questa mia illusione di libertà, altro non volevano essere che una pausa, una battuta d’aspetto: per tornare a una pittura, secondo la saggia prescrizione voltairiana, a piedi caldi. […] Ma le cose, dentro di noi, sono sempre maledettamente complicate; e tanto più inganniamo noi stessi, o tentiamo, quanto più evidente e immediato si prospetta il disinganno. (II, 115)

Quel libro che Sciascia avrebbe voluto scrivere, come un passo di Todo modo sembra attestare, era Candido. Così don Gae­ tano rivolto al pittore: E forse si possono oggi riscrivere tutti i libri che sono stati scritti; e altro non si fa, riaprendoli con chiavi false, grimal-

2.  Un’altra spia del pirandellismo del pittore è data dal suo dongiovannismo che, non a caso, nel saggio Il volto sulla maschera, Sciascia interpreta, tramite Casanova, a ridosso del Fu Mattia Pascal (II, 1147-1163).

247 delli e, mi consenta un doppio senso banale ma pertinente, piedi di porco. Tutti. Tranne Candide. (II, 188)

Non sarebbe bastato, nella turpe società di Todo modo, uccidere materialmente don Gaetano, per poter ritrovare, come Candide, «un proprio giardino da coltivare» (II, 188). Bisognava, sfidando per l’ultima volta il prete, riscriverlo Candido: questa è stata la scommessa di Sciascia dopo Todo modo. Ma il romanzo non poteva essere riscritto, senza aver avuto una totale resa dei conti con l’ultima, raffinata, e più efferata maschera del Leviatano: quella del potente prete, incarnazione del diavolo. Vincenzo Consolo, muovendo proprio da quest’ultima citazione, ha osservato giustamente che Todo modo anticipa, oltre a Candido, anche L’affaire Moro (1978)3. Possiamo aggiungere anche Dalle parti degli infedeli (1979), come a riscattare le ragioni di un cristianesimo retto e naturale, a fronte del cattolicesimo pragmatico ed empio che don Gaetano celebra nel romanzo. Per non dire della Scomparsa di Majorana, libro che, nelle sue inquietudini di fondo, è tutto in questa battuta di don Gaetano: Pensi: la scienza… L’abbiamo combattuta tanto! E infine, che scruti la cellula, l’atomo, il cielo stellato; che ne carpisca qualche segreto; che divida, che faccia esplodere, che mandi l’uomo a passeggiare sulla luna: che fa se non moltiplicare lo spavento che Pascal sentiva di fronte all’universo? (II, 187)

La scomparsa di Majorana, Candido, L’affaire Moro, Dalle parti degli infedeli: per elencarli in ordine di pubblicazione. Libri che tutti, in un modo o nell’altro, vanno a comporre il rovescio di Todo modo. Libri ove un personaggio, almeno uno, sembra sempre ripercorrere «à rebours, tutta una catena di causalità», per riconquistare l’«intatta e appagata musica dell’uomo solo». 3. Cfr. V. Consolo, Il teatro storico e sociale nell’opera di Leonardo Sciascia. Todo modo e il romanzo giallo, in Aa. Vv., La teatralità nelle opere di Leonardo Sciascia, cit., pp. 187-198.

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Libri in cui tale personaggio tenta di riprovare il suo nudo e integro volto di uomo solo e libero, sulle maschere rugose e sconce della pantomima del Potere. Ci si consenta un’ulteriore riflessione. L’approdo a questa zona franca di solitudine e libertà doveva per forza di cose implicare un rinnovato modo di essere nel mondo, di comprenderlo e rappresentarlo, accompagnarsi a un mutamento, per così dire, epistemologico. C’è un passo, a tale proposito, assai interessante, in cui, ancora una volta, il pittore sembra avere la piena delega dell’autore: Il Totem e tabù, il mio primo incontro con Freud: una grande rivelazione, un lampo abbagliante. Poi ci si rende conto che le grandi rivelazioni vengono da una luce più discreta e continua, quasi inavvertitamente. (II, 140)

Il lettore ricorderà quelle considerazioni di Sciascia sul romanzo poliziesco indotte proprio da una lettura di Totem e tabù con cui abbiamo aperto il IV capitolo, sulla falsariga delle quali Ambroise, come sappiamo, ha condotto una suggestiva analisi di A ciascuno il suo. Si potrebbe dire, in una battuta, che il requiem per il giallo scritto in Todo modo implichi anche una liquidazione dello stesso testo freudiano, su cui, relativamente alla grammatica del Potere, era stato fondato il primato gnoseologico del giallo. Una liquidazione, è il caso di sottoli­nearlo, della stessa psicoanalisi come sistema di interpretazione privilegiato delle vicende umane. Non si dimentichi, infatti, che don Gaetano aveva letto il dongiovannismo del pittore in chiave psicanalitica (II, 134), dimostrando che una decifrazione della realtà in termini di sintomi e patologie, di segni che non valgono per quel che sono ma per i significati a cui rimandano, coincida, in definitiva, con il linguaggio doppio, allusivo, enigmatico, del Potere. Che cosa vogliamo intendere con ciò? Solo tentare di spiegare le non poche conseguenze che derivano, nell’opera di Sciascia, dal constatare che la verità si presenti ora, non nel «lampo abbagliante», ma in una luce «più

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discreta e continua». Soprattutto questa: che il «candore» sia un traguardo di natura gnoseologica oltre che etica, il cui immediato effetto pare una valutazione delle cose nella loro più nuda e semplice evidenza, del tutto libera dal pregiudizio ideologico. Sembra giunto il momento di abbandonare definitivamente Freud (ma anche Gramsci, Lukács e Sartre), per Savinio e Stendhal (non a caso, celebrati nella Scomparsa di Majorana), di lasciare, insomma, gli scrittori “profondi” per quelli beatamente “superficiali”. Come se dalle premonizioni dell’Antico Testamento si sia passati alle nude verità dei Vangeli: e lo diciamo, quanto alla storia di Sciascia, molto meno metaforicamente di quanto si possa credere. Nel 1975, quasi a segnare uno iato anche nel proprio percorso umano, Sciascia si candida alle elezioni comunali di Palermo, come indipendente nelle liste del Pei, ottenendo uno straordinario numero di voti, secondo solo al capolista Occhetto, segretario regionale del partito. Tra il 31 agosto e il 7 settembre, esce a puntate su «La Stampa» La scomparsa di Majorana, raccolto in volume per Einaudi un mese dopo, con l’aggiunta di alcune note. Sarà lo stesso scrittore, in occasione della pubblicazione di una lettera del 1933 di Majorana a Segrè, a fornirci le motivazioni del libro, in un articolo poi inserito nei Fatti diversi di storia letteraria e civile: L’avevo scritto, nella memoria che avevo della scomparsa e su documenti che per tramite del professor Recami ero riuscito ad avere, dopo aver casualmente sentito un fisico parlare con soddisfazione, ed entusiasmo persino, della sua partecipazione alla costruzione delle bombe che avevano distrutto Hiroshima e Nagasaki. Per indignazione, dunque: e tra documenti e immaginazione – i documenti aiutando a rendere probante l’immaginazione – avevo fatto di Majorana il simbolo dell’uomo di scienza che rifiuta di immettersi in quella prospettiva di morte cui altri – con disinvoltura, a dir poco – si erano avviati. (III, 649)

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A ispirare il libro era stato, dunque, un problema scottante: quello della responsabilità morale degli scienziati. Un problema, occorre aggiungere, assai poco affrontato dagli scrittori, a conferma del mai superato conflitto tra le due culture. Per trovarne disamina, prima del libro di Sciascia, bisogna risalire a I fisici (1962) di Dürrenmatt, testo che, per altro, lo scrittore dice di aver letto dopo la stesura della Scomparsa, e come «intravedendovi una lontana e vaga analogia, quasi un traslato surreale, con le reazioni che il mio racconto (non so come precisamente chiamarlo) aveva suscitato» (III, 649). Ettore Majorana, docente di fisica all’Università di Napoli, forse il più dotato e precoce tra quelli che avevano lavorato con Fermi, scompare misteriosamente il 26 marzo 1938: la polizia, nonostante l’interessamento di Gentile e, forse, dello stesso Mussolini, si indirizza subito, e sbrigativamente, sulla tesi del suicidio, quale conseguenza estrema di un disagio psichico sempre più manifesto: «L’alternativa che il caso poneva stava tra la morte e la follia» (II, 216). Per contrastarla, e per «“ritrovare” Majorana» (II, 216), Sciascia ha a disposizione pochi documenti: le lettere ai familiari e agli amici, le scarse carte d’archivio e, per la ricostruzione del “personaggio”, la biografia pubblicata da Arnaldi nel 1966 per l’Accademia Nazionale dei Lincei, le testimonianze di chi lo conosceva, oltre che gli scritti scientifici del fisico. La tesi che Sciascia, a motivo della scomparsa, fa prima balenare, e poi afferma in termini perentori, soprattutto nella rovente polemica che al libro seguì4, è 4.  Segnaliamo, tra i molti, gli interventi di E. Arnaldi, L’atomica non l’ha scoperta lui, in «L’Espresso», 5 ottobre 1975, e Id., Perché si uccise Ettore Majorana, in «Corriere della Sera», 30 novembre 1985, il dibattito di questi con Sciascia, Duello intorno a una bomba, in «L’Espresso», 12 ottobre 1975, la lunga risposta di Sciascia, Majorana, l’atomo, il no alla scienza, in «La Stampa», 24 dicembre 1975. Per una ricostruzione della polemica, cfr. la postfazione di L. Ritter Santini, Uno strappo nel cielo di carta (1980), in L. Sciascia, La scomparsa di Majorana, Einaudi, Torino 1985, pp. 81-101.

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che Majorana, intuendo le conseguenze di morte della fissione nucleare, in preda all’angoscia e lo spavento, avesse preferito scomparire (S.M., 70-71). Una tesi il cui non secondario corollario è che il fisico si fosse con più probabilità rifugiato in un convento, che non suicidato. Le reazioni, a quella che fu intesa come una condanna della cultura scientifica, non senza implicazioni di tipo personale per quel che sui rapporti tra Majorana e i colleghi di via Panisperna si ipotizzava, furono violentissime. E nelle risposte opponendo, punto per punto, una serie di certezze che possiamo definire incrollabili, di contro a ipotesi che, quasi sempre, Sciascia aveva lasciato nella sospesa luce del dubbio. Tra tutti, il più risentito fu Arnaldi che, accennando appena alla questione centrale del libro, il problema della responsabilità morale degli scienziati, si affrettò a smentire Sciascia, precisando una serie di fatti: la posizione di Majorana era ben diversa da quella di «un antifascista lungimirante o di una umanitario universale»; quando ritornò dalla Germania le sue condizioni psichiche erano veramente cattive; i rapporti tra lui e Fermi non erano di latente antagonismo; questi non aveva tentato di estrometterlo dal concorso di fisica teorica svoltosi nel ’37; Bohr non dava segni di rimbambimento nel ’33; la non avvenuta costruzione della bomba atomica da parte degli scienziati tedeschi non si deve al fatto che fossero consapevoli di lavorare per un criminale come Hitler; chi lavorò per gli alleati non può essere messo sullo stesso piano di chi fu con i tedeschi. E ciò, nel quadro di un dibattito in cui si discusse della figura di Heisenberg, dei rapporti di Majorana con il nazismo, della storia della scienza in Sicilia. A scusare in parte l’irritazione degli uomini di scienza, può essere il sospetto che Sciascia subisse, in qualche modo, il pregiudizio antiscientifico che in quegli anni aveva largo corso, grazie anche alla fortuna filosofica della scuola di Francoforte, e, in particolare, di quella Dialettica dell’illuminismo di Adorno e

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Horkheimer, della quale abbiamo già parlato nel III capitolo a proposito del Consiglio d’Egitto. Un sospetto, ci pare, solo genericamente fondato, se si pensa che Sciascia, ponendo il problema etico della ricerca scientifica, e supponendo la possibilità per gli scienziati di orientare la ricerca in una direzione piuttosto che in un’altra, negava, di fatto, che Hiroshima e Nagasaki potessero essere il punto d’approdo necessario e inevitabile di un processo già implicito nella logica delle scienze empirico-analitiche. Ma la questione su cui il dissenso è deciso e totale concerne la possibilità che Majorana avesse potuto nel ’37 ipotizzare la fissione nucleare, intravederne e prefigurarne le tremende conseguenze, fino al punto di ritrarsi dalla ricerca terrorizzato e scomparire. Un dissenso che non investe solo una certa realtà di fatto, una precisa serie di episodi, ma implica un differente modo di concepire la verità, rivela, insomma, «due linguaggi diversi»5. Potrebbe anche aver ragione Arnaldi quando lascia intendere che quella di Sciascia sia solo letteratura: salvo premettere che, mentre per Arnaldi la letteratura pare il frutto di un’«ansiosa immaginativa» capace solo di distorcere i fatti, e dunque finzione e mistificazione, per Sciascia sembra essere la manifestazione stessa della verità. Ma non anticipiamo. Giovanni Falaschi e Piergiovanni Pelfer, ricostruendo il dibattito tra i due intellettuali, ci pare abbiano impostato la questione nei giusti termini: se Arnaldi è convinto di fare un discorso «realistico e scientifico», «attento al comportamento degli scienziati relativamente alle condizioni economico-politiche in cui essi hanno operato», Sciascia scrive invece una «parabola» che, però, non si qualifica come una riscrittura «tutta arbitraria della biografia di Majorana», ma, semplicemente, come «una

5.  G. Falaschi - P. Pelfer, «La scomparsa di Majorana»: un’occasione di dibattito mancata (1976), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 327333: p. 328. Cfr. anche E. Catemario, Sociologia del mistero (ovvero il caso Majorana), in «Misure critiche», VII, n. 22, 1977, pp. 43-54: p. 51.

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reinterpretazione di alcuni dati della vicenda da un punto di vista morale»6. La verità di Sciascia, insomma, «non è frutto di un rispecchiamento della realtà, ma è una ricostruzione di essa attraverso l’intelligenza e la morale»7. Intendiamoci (e in ciò siamo ancora d’accordo con i due studiosi): si sbaglierebbe a pensare che Sciascia abbia voluto assumere il caso Majorana come mero pretesto per un apologo sulle responsabilità della scienza e il suo rapporto col Potere, senza alcun interesse per i dati reali della storia. Lo scrittore, infatti, riesce ad accreditare la tesi della scomparsa con un numero di argomenti almeno pari (se non maggiore) a quello avanzato da coloro che credono al suicidio8. Certo è, per tornare al nodo del discorso, che Sciascia sembra prediligere, in questi suoi incontri con la storia minima, gli «avvenimenti larvali», le «oscure epifanie», come per contrapporli alla «storia a chiare lettere che tutti conosciamo, o c’illudiamo di conoscere»9. Siamo, dunque, al punto: quello che ci consente di capire perché Sciascia, da un certo momento in poi, abbia considerato La scomparsa come il libro preferito10, precisando in Nero su nero che, solo dopo averlo scritto, riuscì ad avere «piena coscienza» del fatto che la letteratura sia «la più assoluta forma che la verità possa assumere» (II, 834). In ossequio a quella svolta

6.  G. Falaschi - P. Pelfer, «La scomparsa di Majorana», cit., p. 328. 7.  Ivi, p. 330. 8.  Ibidem. 9.  Cfr. C.A. Madrignani, I pugnalatori (1977), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 335-340: p. 336, ove si ravvisa, tanto nei Pugnalatori che nella Scomparsa, «un elemento di mistero, un’ultima inaccessibile oscurità», sempre sfiorati ma mai eliminati del tutto: a segnalare un illuminismo e un razionalismo «drammatici», basati, cioè, su «contraddizioni gnoseologiche di fondo», tra un costante impiego della ragione e un’assoluta mancanza di illusioni sulla razionalità del reale. 10.  Cfr. O. Rossani, Leonardo Sciascia, Luise, Rimini 1990, p. 54.

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che, in termini di concezione estetica, abbiamo visto manifestarsi negli Atti relativi, lo scrittore può dispiegare la vicenda di Majorana, come tempestivamente segnalava Enzo Siciliano, entro un orizzonte di verità, piuttosto che di realtà, «secondo il dettame ben schematizzato dal Gide di Paludes»11. Vogliamo dire, articolando tale intuizione, che, in questo nuovo contesto, la verità (e con essa la letteratura che della verità sarebbe la massima espressione), una volta sciolti gli ormeggi della realtà, sembra andare a coincidere con il dominio delle possibilità, dell’eventualità: come a dire che, quand’anche si scoprisse con assoluta certezza che Majorana si suicidò per motivi psicologici, senza nulla presagire delle devastazioni atomiche, la vicenda narrata da Sciascia, in quanto moralmente, filosoficamente, esteticamente possibile, benché di fatto non avvenuta, non sarebbe di certo meno vera12. Solo nella luce della verità, delle possibilità che la verità postula, a cui la letteratura attinge, malgrado, e qualche volta contro la realtà, i fatti da «relativi» diventano «assoluti». E qui bisogna senz’altro osservare che lo scrittore sembra far propria la convinzione di Borgese il quale nel suo Goliath, the March of Fascism, sulla falsariga di Aristotele, scrisse che: «il romanzo è più filosofico – addirittura possiamo dire più storico – della storia stessa»13. A differenza che negli Atti, ove la nuova nozione di letteratura balena misteriosamente nel finale, in questo racconto Sciascia

11.  E. Siciliano, Majorana come Mattia Pascal, in «Il Mondo», 27 novembre 1975. 12.  A questa posizione ci pare si sia avvicinato Giovanni Arpino quando, nel suo Un fantasma siciliano (1975), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 325-326: p. 325, scriveva che il valore dell’ipotesi di Sciascia «sta tutta nella sua bellezza», e dubitarne «offre già la macchia d’un peccato “realistico”». 13.  G.A. Borgese, Golia. Marcia del fascismo, Mondadori, Milano 1983 (19461), p. 157.

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sembra dare concreta illustrazione, suggestiva esemplificazione, del suo modo d’operare, di quell’alchimia per cui i fatti vengano assunti in quel processo di «figurazione e trasfigurazione», tanto per stare al titolo di un saggio del Borgese di Poetica dell’unità. Come quando, indagando sull’ipotesi che Majorana potesse essersi rifugiato in un convento, si viene a sapere che in quello stesso convento «fosse stato o ancora si trovasse uno dell’equipaggio del B-29 che aveva sganciato su Hiroshima l’atomica». Così lo scrittore commenta: Savinio si diceva certo che le rovine di Troia fossero quelle scoperte da Schliemann, per il fatto che durante la prima guerra mondiale il cacciatorpediniere inglese Agamennon le aveva cannoneggiate. Se l’ira non ancora sopita di Agamennone non li avesse animati, perché mai quei cannoni avrebbero sparato su delle rovine in una landa? I nomi, non che un destino, sono le cose stesse. Assurdo e mistero in tutto, Giacinta: dice il poeta José Moreno Villa. In tutto è invece «razionale» mistero di essenze e rispondenze, continua e fitta trama – da un punto all’altro, da una cosa all’altra, da un uomo all’altro – di significati: appena visibili, appena dicibili. Nel momento in cui Nisticò ci diceva della inaspettata, insospettata, incredibile notizia […], noi abbiamo vissuto una esperienza di rivelazione, una esperienza metafisica, una esperienza mistica: abbiamo avuto, al di là della ragione, la razionale certezza che, rispondenti o no a fatti reali e verificabili, quei due fantasmi di fatti che convergevano su uno stesso luogo non potevano non avere un significato. (II, 268-269)

E si potrebbe pure, a ulteriore esemplificazione, riportare la bellissima pagina in cui Sciascia accende la sua fantasia sull’immagine del «bambino bruciato nella culla», il cuginetto di Majorana, la cui tragica morte, per una serie di clamorosi errori giudiziari, era costata anni di carcere a un suo zio. Un’immagine in cui Io scrittore legge «emblematicamente, simbolicamente» un’oscura preconizzazione, per Majorana, della catastrofe atomica (II, 235). Siamo, come si vede bene, nel dominio di

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un’esperienza che attinge ai livelli di un laico misticismo, stretta nei paradossali e ardui confini di un «razionale mistero», e nell’ambito di un ordine che si costituisce a scapito della verificabilità dei fatti14. Siamo, insomma, nell’arioso e libero mondo di Savinio, Stendhal, Borges, gli autori amati e chiosati, come si ricorderà, negli anni dell’apprendistato, che, una volta sciolti i vincoli di una militanza letteraria legata agli idola del realismo, sembra prepotentemente riemergere con intatta e immutata forza di suggestione15. È in questa prospettiva, della metamorfosi di Majorana in personaggio, che si giustificano alcune parti del libro, altrimenti incomprensibili, come quelle che si aprono a una suggestiva teoria del genio, a certe considerazioni pirandelliane, al dramma propriamente religioso del fisico siciliano, all’ipotesi che con la sua scomparsa egli «prefigurasse, avesse coscienza di prefigurare, un mito: il mito del rifiuto della scienza» (II, 262). E ciò, non senza qualche divagazione sulla sua «sicilitudine» (II, 223-224). La polizia non era certo attrezzata a risolvere il caso: Perché di questo si trattava: di una partita da giocare contro un uomo intelligentissimo che aveva deciso di scomparire […]. Soltanto un investigatore avrebbe accettato di giocare una simile partita: il cavaliere Augusto Dupin, nelle pagine di un racconto di Poe. (II, 217)

Come intendere, se non nel segno di una drammaturgia del personaggio, del personaggio in cerca di autore, l’affermazione 14.  È proprio in questo nuovo quadro epistemologico che va letto l’avvertimento di Sciascia a non fare della banale psicanalisi (II, 246). 15.  E se si pensa, come ha fatto C. Ambroise in Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 181, che Sciascia si era già occupato di quel periodo storico, ma nel segno delle speranze progressive della guerra di Spagna, si deve convenire sul fatto che La scomparsa possa essere interpretata come una «rilettura di quegli anni sul versante non più della speranza, ma della morte».

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che, se per i ragazzi di Fermi «la scienza era un fatto di volontà», per Majorana era invece un dato «di natura»? Che, insomma, se per costoro la scienza era «un segreto fuori di loro – da colpire, da aprire, da svelare», per lui «era invece un segreto dentro di sé, al centro del suo essere; un segreto la cui fuga sarebbe stata fuga dalla vita, fuga della vita» (II, 224)? Un segreto che ha come una misura «assegnata», «imprescrittibile», e appena toccato, appena rivelato in una compiuta e «perfetta forma» («nell’ordine della conoscenza o, per dirla approssimativamente, della bellezza: nella scienza o nella letteratura o nell’arte»), ha come conseguenza «la morte» (II, 224-225). E siamo a pagine di grande bellezza, nelle quali Sciascia sfiora il tema della genialità e della precocità di Majorana, del suo prender tempo e ritardare la «rivelazione» che aveva in sorte, affrontandolo alla vicenda di Stendhal. Abbiamo detto di una drammaturgia del personaggio in cerca d’autore: eccoci di nuovo al filo rosso che stiamo dipanando. Siamo nel 1933, Majorana è tornato dalla Germania dove ha intrattenuto un cordiale e intenso rapporto con Heisenberg, ha appena scritto una lettera alla madre, pregandola di non interrompere per lui la sua vacanza: «da quell’agosto romano in cui certo sarà riuscito a spuntarla a restare solo in casa, ad essere come solo nella città, farà di tutto per vivere, pirandellianamente, da “uomo solo”» (II, 246). Ancora, dunque, l’«uomo solo» di debenedettiana memoria, e «uomo solo» a fronte di una famiglia il cui problema, dopo la scomparsa, nella dolorosa e sempre più rassegnata certezza, «veniva pirandellianamente a consistere […] nei funerali, nei necrologi, negli abiti da lutto da indossare, nella tomba da elevare e visitare» (II, 216). Personaggio pirandelliano, troppo pirandelliano, Majorana si prepara «a una condizione in cui dimenticare, dimenticarsi ed essere dimenticato», con l’accortezza, o vocazione, «di non tornare a intricarsi con “gli altri”, di guardare alla loro vita […] con l’occhio di un entomologo»: «accortezza o vocazione di cui

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mancò del tutto Mattia Pascal ed ebbe invece, più di vent’anni dopo Vitangelo Moscarda»(II, 261)16. Ci viene da pensare che Sciascia abbia avuto, con La scomparsa, la tentazione di riscrivere Il fu Mattia Pascal, e come accogliendo la soluzione offerta da Debenedetti che, nel suo Romanzo del Novecento, aveva riformulato in questi termini il finale del romanzo: «Mattia sarebbe dovuto rimanere tra parentesi, non rientrare in una società rimasta fondamentalmente, strutturalmente uguale a quella donde egli si era esiliato. […] pare a noi che la storia più adatta alla situazione raggiunta da Mattia […] sarebbe da prolungare sine die, forse per sempre, il suo esilio, chiudendosi in una trappa o facendosi eremita»17. Con la sola differenza che, mentre il critico reinventava Il fu Mattia Pascal per rapportarlo a una sua peculiare idea di romanzo (e di Novecento), Sciascia tenta di riscriverlo per ricercare, nell’ottica che segnalavamo a inizio di capitolo, proprio dentro l’opera pirandelliana, magari mutandola di segno, l’antidoto a quel «pirandellismo di natura» che negli anni dell’apprendistato aveva cercato altrove: come preparando le pagine per Candido18. Se questo è vero, non sorprenderà allora scoprire nella vicenda di questo «uomo solo» un dramma di natura religiosa: Ettore Majorana era religioso. Il suo è stato un dramma religioso, e diremmo pascaliano. E che abbia percorso lo sgomento religioso cui vedremo arrivare la scienza, se già non c’è

16.  Su Majorana e Mattia Pascal, cfr. la voce Majorana, in Occhio di capra (III, 486). 17.  G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento. Quaderni inediti, Garzanti, Milano 1971, p. 339. 18.  Per stare ancora al personaggio Majorana-Mattia Pascal, Aldo Rossi nel suo Majorana e l’«eroe scomparso», in «Paragone», XXVII, n. 2, 1976, pp. 161-163: p. 162, rammentando il riferimento sciasciano all’Ulisse dantesco (II, 261), parla di riattivazione dell’«archetipo dell’eroe scomparso».

259 arrivata, è la ragione per cui stiamo scrivendo queste pagine sulla sua vita. (II, 257)

Eccoci di nuovo, questa volta «in una manciata d’atomi» (II, 263), allo spavento di Pascal, modulato persino su una battuta del Prospero della Tempesta di Shakespeare (II, 266-267), non a caso l’autore preferito da Majorana insieme a Pirandello. E ci viene il sospetto che Sciascia voglia giuocare la scommessa di questa riscoperta pirandelliana, sulla falsariga di un’«ardua religio», per dirla con Antonio Di Grado19. Il libro si chiude con una visita al cimitero dove, presumibilmente, giace il fisico: «Una inviolabile pace è tra quelle croci nere. Ci sentiamo in pace anche noi» (II, 270). Molto minore è invece la nostra pace, a fronte di un problema critico non più elusibile: quello di una misteriosa, enigmatica, religiosità, che sembra aprire una fenditura nel corpo, una volta compatto, del laicismo di Sciascia. Nel 1976, dopo averlo pubblicato a puntate su «La Stampa», Sciascia presenta per Einaudi I pugnalatori. Prendendo spunto da un processo intentato come sostituto procuratore dal piemontese Guido Giacosa, padre del più noto Giuseppe, relativamente alle misteriose e simultanee pugnalazioni che insanguinarono Palermo nel 1862, Sciascia ritorna, e non più attraverso la mediazione romanzesca, al suo progetto di controstoria nazionale. Collocato com’è agli albori della storia della nuova Italia, l’episodio trascelto vede il principe di Sant’Elia, parlamentare del regno con meriti patriottici, tramare per una restaurazione borbonica, preconizzando il fenomeno della «strategia della tensione», degli «opposti estremismi», rimestando nel torbido clima dei complotti contro lo Stato (dall’interno dello Stato immancabilmente coperti e tollerati ai vertici delle istituzioni). Il libro acquista un particolare significato sim-

19.  A. Di Grado, Leonardo Sciascia, cit., p. 16.

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bolico, non senza inquietanti risvolti premonitori. Non vogliamo indugiare oltre su questo racconto, che rimane un po’ fuori l’orbita del discorso che stiamo conducendo. Ci limitiamo solo a dire che, nel paradigma interpretativo di questa vicenda, relativamente ai rapporti di «cosca» del principe coi suoi sicari, ci è parso di avvertire quello mafioso su cui ci siamo già appuntati nel IV capitolo. Eccoci, dunque, a Candido ovvero Un sogno fatto in Sicilia: pubblicato nel 1977, di nuovo per Einaudi. Quello che Sciascia, tra i suoi libri, ha considerato come il più autobiografico20. Cominciamo subito, tanto per riprendere un capo del filo rosso che si è via via dipanato, con la questione del modello voltairiano sotteso al romanzo, in direzione di una precipua definizione del «candore» di Candido. Leggiamo nella nota finale del libro: Dice Montesquieu che «un’opera originale ne fa quasi sempre nascere cinque o seicento altre, queste servendosi della prima all’incirca come i geometri si servono delle loro formule». Non so se il Candide sia servito da formula a cinque o seicento altri libri. Credo di no, purtroppo: ché ci saremmo annoiati di meno, su tanta letteratura. Comunque, che questo mio racconto sia il primo o il seicentesimo, di quella formula ho tentato di servirmi. Ma mi pare di non avercela fatta, e che questo libro somigli agli altri miei. (II, 461)

Questa confessione di «non avercela fatta» a riscrivere Candide, di aver composto un libro simile ai precedenti, ci pare di grande verità. E non nel senso, come lo scrittore spiega subito dopo, di non aver ripetuto, di quel libello, «velocità e leggerezza»: ché leggerissimo e veloce, ridente, è questo romanzo di

20.  L. Sciascia, La palma va a Nord, Gammalibri, Milano 1982, p. 199. Per una puntuale verifica di questi elementi autobiografici in Candido, cfr. il bel saggio di G. Traina, Il candore e la pietà di un polemista, in L. Fava Guzzetta (a cura di), Nelle regioni dell’intelligenza, cit., pp. 161-178: 161-162.

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Sciascia. Ma nel significato più profondo di averlo avuto a modello molto meno di quanto si creda. Sono troppi gli elementi, di ordine genealogico e strutturale, che ci fanno pensare al fatto che non Voltaire, ma ben altro padre, Sciascia avesse per la testa. Rieleggendo quest’ultimo modello, riconciliandovisi, proprio mentre disconosceva la paternità del filosofo francese: ancora Pirandello, s’intende. Questo non significa che nel romanzo di Sciascia non vi siano calchi puntuali, analogie e simmetrie, persino citazioni (II, 404)21: solo che rimangono secondari rispetto ai debiti veri e alle problematiche di fondo. Ma andiamo con ordine. Candido Munafò nasce in una grotta, presso Serradifalco, nella notte dal 9 al 10 luglio 1943, mentre stanno sbarcando in Sicilia le truppe anglo-americane: data simbolica e di cesura tra fascismo e democrazia. Avrebbe dovuto chiamarsi Bruno, come il figlio di Mussolini, «che da aviatore era morto e che viveva nel cuore di tutti gli italiani come l’avvocato Munafò e sua moglie, Maria Grazia Munafò nata Cressi, figlia del generale della milizia fascista Arturo Cressi, eroe delle guerre di Etiopia e di Spagna» (II, 350). Lo chiamarono invece Candido, non certo con riferimento all’eroe voltairiano, ignoto a entrambi, ma per una sorta di folgorazione avuta dall’avvocato, ritrovatosi imbiancato come una statua di gesso dopo il bombardamento della città: «E si trovò a pronunciare e a ripetere, a ripetere, la parola “candido”. […] Candido, candido: il bianco di cui si sentiva incrostato, il senso di rinascere che cominciava a sgorgargli dentro» (II, 351). Nome accettato dalla moglie per assai meno nobili motivi: «Come una pagina bianca, il nome Candido: sulla quale, cancellato il fascismo, bisognava imprendere a scrivere vita nuova» (II, 350). Ma, notava 21.  Per quel che concerne i debiti con il modello voltairiano, cfr. R. Luperini, Sciascia, la naturalità e il razionalismo (1978), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 341-343.

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Sciascia nella Scomparsa, «i nomi, non che un destino, sono le cose stesse» (II, 268): e come a contrappasso per gli incauti genitori, Candido candidamente crebbe, quel candore declinando in ogni suo quotidiano atto, fino a provocare sciagure familiari come il suicidio dell’avvocato, per aver rivelato a scuola la verità su un assassinio rimasto impunito, ascoltata di nascosto nello studio del padre. Siamo, dunque, al nodo da sciogliere, e cioè quali siano i tratti specifici di questo «candore». Il primo dato sembra una grande capacità di astrarsi, per rifugiarsi, beatamente, in una piena e siderale solitudine. Mentre sua madre, nella stanza accanto, conosce «per la prima volta» l’amore con il capitano americano, «Candido seguiva il volo di putti e di rose dipinto sul soffitto. Quel soffitto era il suo universo. Era un bambino molto quieto» (II, 360). Il secondo, una grande autonomia, pur nella sempre più difficile situazione familiare: «Sempre più roseo, sempre più biondo, tranquillo e sorridente, Candido non sentiva la più lieve puntura dal nido di spine in cui si trovava. Pareva potesse fare felicemente a meno di una madre e di un padre» (II, 363). Il terzo, una curiosa e anomala attitudine conoscitiva, un peculiare modo di guardare 0 mondo. I solitari e segreti giuochi di Candido, infatti, si risolvono in una specie di «cruciverba che egli riusciva a fare con le cose»: Come gli adulti fanno le parole incrociate, Candido faceva le cose incrociate. C’entravano anche le parole, e quasi sempre la prima o l’ultima sillaba delle parole: ma erano soprattutto le cose, il loro posto, l’uso che se ne faceva, il contorno, il colore, il peso, la consistenza, a sviluppare il gioco e a dargli, appunto, la piacevole difficoltà, il piacevole azzardo del gioco. (II, 363)

Il quarto dato, un’assoluta incapacità di valutare le cose secondo un codice comune, se non l’incapacità di concepirne l’idea stessa: «Candido non aveva nozione precisa dell’ammazzare, del morire, della morte» (II, 367) ed «era incapace di osserva-

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re le regole del giusto vivere» (II, 384), regole che attenevano alla lealtà, l’amore per la famiglia, l’omertà, come gli grida il generale, dopo essere passato, per colpa dell’arciprete amico di Candido, dal primo posto delle elezioni del ’48 al decimo del ’53. Il quinto, una totale refrattarietà al giuoco delle finzioni e delle forme, simile a quello cui avevano dato vita padre e madre dopo la separazione, quando si trattò di decidere della sua assegnazione (II, 362), una radicale estraneità, insomma, a quella vita, così rispettosa delle convenzioni sociali in Sicilia, che si declina nel «pirandellismo in natura» (S.M., 11)22: E proprio durante una di queste messe, a Candido avvenne di scoprire, un pensiero dietro l’altro, che la morte è terribile non per il non esserci più ma, al contrario, per Tesserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli pensieri di coloro che restavano. (II, 372)

Il sesto dato, una curiosità «senza malizia e senza colpa», e tale che «le persone a lui vicine erano come dei problemi», problemi da risolvere subito, «anche per liberarsene così come, risolvendoli, si liberava dei problemi che gli assegnavano a scuola» (II, 380), e ciò nel segno di una disposizione che «aveva qualcosa di gattesco», in quel suo essere «pieno di fantasie, divagante ed estravagante; ma sempre in agguato» (II, 376). Il settimo, una sorta di etica naturale: «Mai aveva pensato che un uomo potesse avere su un altro un potere che venisse dal denaro, dalle terre, dalle pecore, dai buoi» (II, 386). E ancora: «Candido era del tutto refrattario all’idea che ci fossero peccati al di fuori del mentire e del volere la sofferenza e l’umiliazione degli altri» (II, 397). L’ottavo, una spontanea vocazione alla semplicità: «le cose sono quasi sempre semplici» (II, 390). Questi, dunque, gli attributi del «candore», quel «candore» 22.  Su questo aspetto del carattere di Candido, cfr. C. Ambroise, L’idea del codice nell’opera di Leonardo Sciascia, in Z. Pecoraro - E. Scrivano (a cura di), Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., pp. 47-53: p. 52.

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che conduce il protagonista a provocare la morte del padre, la partenza della madre per gli Stati Uniti, lo sgomento e l’irritazione del generale, della balia Concetta, dei parenti del padre, il disagio di Paola, la sua prima compagna che lo abbandonerà, quel «candore» che lo immunizza dal cattolicesimo e dal trasformistico fascismo italico (incarnato da suo nonno, diventato democristiano, e dall’onorevole di Sales, che si era fatto invece comunista, dopo essere stato, appunto, fascista), a prezzo dell’interdizione dai beni ereditati e dell’espulsione dal partito comunista. Inutile dire che, per tale «candore», il protagonista appare sin dalla più tenera età, «se non proprio stupido, un po’ tardo, un po’ nella mente annebbiato» (II, 363), per divenire poi agli occhi di tutti, dopo il suicidio del padre, un «mostro» (II, 369, 376, 382, 459). Stando a questi tratti, come abbiamo più volte anticipato, Candido sembra ricapitolare la vasta folla di pazzi monologanti di estrazione pirandelliana che abbiamo incontrato nell’opera di Sciascia, a partire da quel pazzo dalle pupille stravolte che campeggia in Paese con figure, il racconto del 1949, per arrivare all’Assunta dell’Onorevole e a Giufà di Mare colore del vino. Tanto per dirne una: l’inconsapevolezza di Giufà, circa le conseguenze delle sue azioni, quando scambia il vescovo per un grande uccello, uccidendolo, non è la stessa di Candido nel causare la morte del padre, o nell’accogliere con gioia l’interdizione? Non a caso, subito dopo aver parlato alla Padovani di Giufà, Sciascia si richiama al tema della solitudine come «ritrovamento di sé» in Pirandello (S.M., 46). Tutto questo significa che il «candore» di Candido non è stato modellato sulla figura dell’eroe voltairiano, ma su una peculiare disposizione pirandelliana che Massimo Bontempelli aveva tempestivamente individuato in un suo celebre discorso, ove, dopo aver detto che la nota dominante di tutta l’opera pirandelliana sta nel «candore» e aver sottolineato che «le anime candide sono poche», osservava:

265 La prima qualità delle anime candide è la incapacità di accettare i giudizi altrui e farli propri. L’anima candida affacciandosi al mondo lo vede subito a suo modo: la impressione e il giudizio degli altri, anche di tutti gli altri, di tutto il mondo, che si affretta ad andarle incontro e cerca insegnarle tante cose, tanti giudizi fatti, questo non la scuote, ella può tutt’al più maravigliarsene. Spesso non li capisce neppure, i giudizi altrui; li sente come parole complicate. Invece lei ha un linguaggio proprio, semplificato ed elementare. E l’effetto immediato del candore è la sincerità. L’anima candida non fa concessioni. Con quel suo stile e sincerità, l’anima candida, che è una forza elementare, va facilmente al fondo delle cose, raggiunge i rudimenti immutevoli. Ella può subito isolare con istinto maraviglioso quel che è elementare da quello che è sovrapposto: convenzioni, decorazione, cautela. L’anima candida è divinamente incauta.23

Non si potrebbero trovare parole migliori per tracciare un ritratto di Candido Munafò. La fonte bontempelliana ci pare di un’evidenza così clamorosa, da costringerci a riformulare i termini del rapporto tra Sciascia e Pirandello, a quest’altezza cronologica, riandando a una definizione di Debenedetti che troviamo citata in Pirandello e la Sicilia, a conquistare definitivamente la fantasia critica del nostro scrittore: Sulla faccia esterna della sua opera, Pirandello mostrava quella che si chiama una filosofia, e la critica sotto, a dare una traduzione, una divulgazione letterale di quella filosofia. Che poi non era se non un’astuzia della Provvidenza: il materiale isolante che permetteva al Pirandello di maneggiare il fuoco bianco del suo nucleo poetico e umano. (III, 1125)

Alla luce di quanto abbiamo visto dai primi anni dell’apprendistato alla stesura di Candido, e sotto il segno di questa felice formula debenedettiana, ci pare possibile leggere la vicenda 23.  M. Bontempelli, Pirandello o del candore (1937), in Id., Opere scelte, a cura di L. Baldacci, Mondadori, Milano 1978, pp. 807-828: pp. 812-813.

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umana e letteraria di Sciascia come il tentativo di separare recisamente la «filosofia» di Pirandello, che Tilgher agilmente tradusse nel pirandellismo, dal «fuoco bianco del suo nucleo poetico», di estrarre insomma, come dicevamo nel I capitolo, il nocciolo razionale dell’opera pirandelliana dal suo guscio mistico (e mistificante). La filosofia pirandelliana, però, in quanto «pirandellismo di natura», gli si era rivelata subito come rispecchiamento di una realtà irrazionale e alienante che, come abbiamo visto nel passaggio da A ciascuno il suo al Contesto, non era più confinabile alla sola Sicilia ma sembrava essere quella stessa del Potere. Il contravveleno a questo «pirandellismo di natura», tanto a lungo inseguito, sembra proprio risiedere, nel Candido, in quella nuova forma di saggezza e razionalità che è il «candore» nell’accezione bontempelliana, «candore» che Sciascia già indicava in Pirandello e la Sicilia (III, 1140) quale elemento primo del «nucleo poetico» pirandelliano24. Con Candido, insomma, Sciascia correggeva, esorcizzava, il Pirandello del giuoco delle parti, del relativismo gnoseologico, dei molteplici punti di vista che non si ricompongono più in una verità unica e indefettibile, con il Pirandello del «candore», ponendo le basi di quella riconciliazione piena e definitiva che, come vedremo, caduto l’antagonismo, si realizzerà anche su un piano più propriamente critico e saggistico. Siamo, dunque, a una nuova cesura sul piano della poetica, e non ha torto chi, come Giuseppe Traina, a sottolineare la profondità di questa svolta, parla di novità, dopo Candido, nella psicologia dei protagonisti, tutti «‘‘divinamente incauti” nel battersi per l’affermazione della verità»25. 24.  Cfr. M. Onofri, Sciascia e Pirandello, cit., pp. 20-21. Sull’interpretazione del «candore» in chiave bontempelliana, vedi anche J.-N. Schifano, Sciascia ou de la candeur, in «L’Arc», n. 77, 1979, pp. 35-39: pp. 38-39; G. Traina, Il candore e la pietà di un polemista, cit., pp. 163-164; G. Marrone, Lo specchio del candore, in «Nuove Effemeridi», VI, n. 22, 1993, pp. 8-15: p. 9. 25.  G. Traina, Il candore e la pietà di un polemista, cit., p. 165.

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Ma facciamo un passo avanti, a meglio articolare questa nozione di «candore», servendoci di un’interessante nota di Sciascia tratta da Alfabeto pirandelliano (1989), ma già presente in Pirandello dall’A alla Z (1986): crediamo si possa agevolmente sostituire, e con vantaggio, nel discorso di Bontempelli Pirandello o del candore, discorso che riteniamo fondamentale per una vigile lettura dell’opera pirandelliana, la parola cristianesimo alla parola candore, consistendo il candore di Pirandello nel suo essere naturalmente cristiano e nello scoprire intorno a sé una realtà umana refrattaria al cristianesimo nella sua essenza e che, pur nell’osservanza dei riti, delle apparenze, di fatto e quotidianamente, con intima indifferenza e cinismo, lo stravolge e maneggia. (III, 475)

Il «candore», dunque, può essere facilmente tradotto in una sorta di cristianesimo naturale, che Pirandello viveva nella ripugnanza per quell’irreligiosità dei siciliani documentata da Sciascia in Feste religiose in Sicilia raccolto nella Corda pazza. Potremo quindi sostituire al termine etica naturale, che abbiamo impiegato per definire la peculiare attitudine morale di Candido, quello di religiosità naturale, una religiosità priva, però, di referente divino, perfettamente opposta a quelle pericolose forme di laicismo, che nascondono una vera e propria teologia, fondata sul disprezzo per l’uomo, come nel caso dello stalinismo. Si veda questa considerazione di don Antonio, che induce Candido a convincersi che verrà cacciato dal partito: Stalin stava al marxismo così come Arnobio stava al cristianesimo. In entrambi era un grande e totale disprezzo per l’uomo, per l’umanità; un gigantesco pessimismo. Arnobio credeva si potesse avere salvezza soltanto dalla Grazia, la forza dell’uomo essendo naturalmente insufficiente al raggiungimento del bene. E anche Stalin: solo che la Grazia di Stalin era la polizia: una Grazia che si manifestava diciamo per esclusione, mentre quella di Arnobio per inclusione… Una grazia, quella di Stalin, che graziava coloro che non toccava. (II, 425)

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Si tratta di un cristianesimo naturale che ha fatto leggere il romanzo come «controscrittura del Vangelo […] ma sotto il segno dell’incarnazione»26. E ci si potrebbe divertire a sottolineare che Candido nasce in una grotta, che sua madre si chiama Maria Grazia, che suo padre, l’avvocato, nel suo impossibile sospetto che Candido fosse figlio del capitano americano, conosciuto dalla moglie dopo la nascita del bambino, si sente come «Giuseppe figlio di Giacobbe la cui moglie per virtù dello Spirito Santo aveva concepito così come Maria Grazia per virtù dello Spirito Americano» (II, 365). Per non dire alla maliziosa notazione di Sciascia che sembra voler intendere tutto il contrario di quel che afferma: «Nessun segno soprannaturale e premonitore, dunque, nella nascita di Candido Munafò» (II, 349). Ci siamo dovuti destreggiare tra qualche citazione, ma abbiamo finalmente in mano tutti gli elementi per riconoscere in questa nozione di «candore», l’approdo definitivo a un nuovo e più integrale umanesimo, forse a un’inedita forma di esistenzialismo, senz’altro a una più autentica e matura espressione di razionalità. Una razionalità non più cattolicamente, stalinisticamente, funzionale al Potere, ma al servizio della gioia dei corpi, di una rinascita che possiamo dire creaturale, coniugata con un istintivo e immediato amore per gli uomini e le cose, amore che pare tradursi, in tutto e per tutto, nella celebrazione del fare all’amore. Perché in Candido, unica eccezione in tutta l’opera di Sciascia, l’erotismo perde completamente quella caratterizzazione, molto cattolica, che lo poneva in una luce di peccato morte e perdizione, come nelle pagine dell’Antimonio e di A ciascuno il suo che abbiamo analizzato, per non dire delle sottili disquisizioni del don Gaetano di Todo modo su castità e prostituzione (II, 132-133). Sul treno che va a Lourdes, nel segno di un’euforica «celebrazione della buona salute», che insorgeva in infermiere e barellieri quasi per contrasto all’uma26.  C. Ambroise, La Passione, cit., p. 136.

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nità sofferente dei malati in pellegrinaggio, Candido conosce l’amore come in un’apoteosi del tatto27: «Per l’intensità con cui le sue mani sentivano, ebbe in un lampo l’immagine di sé cieco: e che quel corpo limpidamente si disegnasse nella sua mente soltanto per i segni che il tatto ne trasmetteva. Lungamente si baciarono. Poi Candido sentì e vide, vide nella sua profonda e dolcissima cecità, se stesso e il mondo diventare una sfera di liquida iridescenza, di musica» (II, 399-400). Come ribatte a don Antonio, che gli illustra la sua cattolica idea della donna e dell’incontro amoroso, «l’amore è semplice» (II, 402). E ciò, precisa l’autore, nel segno di un godimento «lungo, pieno e quieto», che lo consegna a un destino del tutto differente da quello del «suo omonimo» voltairiano (II, 404). C’è un passo in cui questa concezione dell’amore, dentro una più vasta riflessione sulla vita, si dispiega in tutta la sua profondità. Paola ha appena abbandonato Candido, lasciandolo in una condizione di totale disperazione, convinto che a nulla valgano le interrogazioni sui perché, le intenzioni o i rimorsi, visto che «un fatto è un fatto: non ha contraddizioni»: Che Paola se ne fosse andata significava una sola cosa, per lui: che qualcosa era accaduto tra loro che aveva spezzato l’armonia del vivere insieme, la gioia dei loro corpi […]. Si erano incontrati nella verità dei loro corpi, in quella gioiosa verità erano stati assieme. Poi, forse, il corpo di Paola aveva ceduto all’anima. All’anima immortale, all’anima sentimentale, all’anima bella: ed ecco che la gioiosa verità del corpo le si era appannata, le si era stravolta; era diventata un bene inferiore […]. E l’anima che mente, non il corpo. (II, 431)

Ecco il punto: la religione naturale di Candido si esplica in una sorta di felice, smemorato materialismo, per il quale la verità 27.  Così Sciascia in Nero su nero, a proposito di una frase di Buffon, citata da Balzac e poi da Gide: «“L’amore è nel tatto”. Una di quelle verità così lampanti che difficilmente, se non al genio, si rivelano» (II, 844).

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sta nei corpi e la menzogna nell’anima, quell’anima su cui si fondano tutte le ideologie, tutti i compromessi, su cui la stessa Paola, alla fine, era scivolata. Non a caso Candido, nel suo candore, riduce ogni cosa, ogni cosa giusta e vera, a questa irresponsabile e prolungata gioia dei corpi. Il suo lavoro, per esempio: «come se il coltivare al meglio la terra, il renderla più produttiva, più ordinata, più netta, appartenesse alla giustizia del vivere e niente avesse a che fare col reddito, col denaro. Qualcosa che somigliava all’amore» (II, 434). Egualmente, il suo comunismo è adialettico, pre-ideologico (post-­ideologico?), rendendolo assolutamente incapace di comprendere e giustificare i compromessi, se non addirittura le collusioni, e le concessioni del partito alle forze della conservazione, e si risolve in una sorta d’esaltazione della vita: Essere comunista era insomma, per Candido, un fatto quasi di natura: il capitalismo portava l’uomo alla dissoluzione, alla fine; l’istinto della conservazione, la volontà di sopravvivere, ecco che avevano trovato forma nel comunismo. Il comunismo era insomma qualcosa che aveva a che fare con l’amore, anche col fare all’amore: nel letto di Paola. (II, 407-408)

Un’esaltazione che sembra raggiungere e realizzare, quando Candido s’innamora, ricambiato, della cugina Francesca, quella che Sciascia, nel suo saggio L’utopia di Casanova, definisce come «utopia liberatrice» (II, 1025) del libertino italiano: l’utopia dell’incesto. Ma la ricognizione di questo nuovo progetto di razionalità, che coincide con il «candore», non sarebbe completa se non si accennasse alle ultime pagine del romanzo, in cui si celebra il mito di Parigi, dove Candido e Francesca si sono trasferiti, sull’onda di un amore per la città il cui fondamento sta, oltre che nell’«amore all’amore», nell’«amore alla letteratura» (II, 448). Constatazione che non sorprende, una volta letto il bel saggio Parigi raccolto in Cruciverba, dove si parla della capitale francese in questi termini:

271 Parigi è una città-libro, una città scritta, una città stampata. Una città-libro fatta di tanti libri. Una città che si potrebbe dire il sogno di una biblioteca, se a una biblioteca si potesse attribuire la facoltà di sognare. E per molti nel mondo è esistita ed esiste dentro una biblioteca: nell’Enciclopedia, in Restif de la Bretonne, in Victor Hugo, in Maupassant, in Proust. (II, 1274)

Per molti: come per Candido e Francesca, per don Antonio, Parigi, «utopia (in senso etimologico)»28, vero non-luogo, è dunque la città-libro: dove altro trasferirsi, allora, se la vita sembra imitare la letteratura, quasi che la letteratura sia la traduzione più profonda e completa del «candore»? È quello che don Antonio pare suggerire sentendo Candido che parla della fuga di Paola, e sta invece citando Hugo: «Siamo a monsignor Myriel, a Jean Valijean, ai Miserabili. O la nostra vita è ormai tutto ciò che è stato scritto?… Crediamo di vivere, di esser veri, e non siamo che la proiezione, l’ombra delle cose già scritte» (II, 429). Con Candido, dunque, siamo ben al di là di un semplice «apologo politico»29. Il romanzo è, infatti, dopo le disillusioni del Contesto e di Todo modo, un articolato e felice tentativo di riguadagnare uno spazio per la ragione, come ridisegnando le linee di una nuova forma di saggezza. Ma nell’orbita di un razionalismo problematico, materialista, percorso da inquietudini religiose, che ha ormai superato, pur con cordialità e nella perenne riconoscenza, il modello voltairiano, come attesta la battuta finale del libro: Davanti alla statua di Voltaire don Antonio si fermò, si afferrò al palo della segnaletica, chinò la testa. Pareva si fosse messo a pregare. – Questo è il nostro padre – gridò poi – questo è il nostro vero padre.

28.  C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 198. 29.  A. Baldi, Il «Candido» di Sciascia, ovvero utopia e eresia, in «Misure critiche», VIII, n. 28-29, 1978, pp. 161-168: p. 161.

272 Dolcemente ma con forza Candido lo staccò dal palo, lo sorresse, lo trascinò. – Non ricominciamo coi padri – disse. Si sentiva figlio della fortuna; e felice. (II, 460)

Qualche critico ha voluto vedere nella ragione cui Candido ci richiama, un «ritorno alla natura, alla semplicità», nel segno di «un recupero della utopia di Rousseau, dell’innocenza di Bernardin de Saint-Pierre»30. Niente di più lontano, ci pare, dai propositi di Sciascia, considerando che Rousseau non è solo autore del Discorso sulle origini dell’ineguaglianza, ma anche di quel Contratto sociale, da cui si generano quelle terroristiche civitas dei, tanto care ai Riches e ai Galano del Contesto. Del resto, Sciascia sarà molto chiaro con la Padovani nel libro-intervista che uscirà due anni dopo: «Rousseau non mi interessa affatto». L’Emilio, letto a quattordici anni, gli era sembrato subito «un libro falso»; quanto alle confessioni, aveva sempre preferito S. Agostino: «E poi: la volontà generale! Con tutti gli ismi che vengono da lì». Rousseau, infatti, quando nega che la volontà generale consista nella volontà dei più, quando postula che, magari essendo appannaggio di pochissimi, possa rappresentare la volontà di tutti, non fa che porsi «all’origine dei principali mali del nostro tempo» (S.M., 57-58, ma cfr. anche II, 799-800). Se proprio si volesse trovare un punto di riferimento di questo razionalismo che celebra, contro il Potere, la «gioia dei corpi», si può pensare a Foucault, se non altro per un’evidente indicazione testuale che troviamo in Nero su nero. Sciascia sta divagando sui Gioielli indiscreti di Diderot, notando che, con Foucault, la storia della sessualità non viene più vista «attraverso il sesso che parla», ma «attraverso il potere che lo fa parlare», per arrivare significativamente a concludere: «C’è dunque un potere, al di qua o al di là del potere costituito,

30.  Ivi, p. 167.

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che può far parlare il sesso senza delirio, senza follia, secondo quella che Foucault chiama “la gioia dei corpi”. Ed è il potere della ragione» (II, 787). Candido, «la gioia dei corpi»: e siamo all’utopia di una ragione non autoritaria, rivolta verso nuove e sconosciute frontiere di libertà. E a quel Foucault, che tra i razionalisti del nostro tempo, più di ogni altro ha saputo misurarsi con la sintassi del sorvegliare e del punire, sempre in lotta con l’irrazionalità del reale. Prima di chiudere la nostra analisi del Candido, ci si consenta una nota sul rapporto tra il protagonista e don Antonio Lepanto, il prete spretato e comunista eretico il cui nome, con una certa malizia e ironia, richiama la celebre battaglia in cui i cristiani, in quella che può dirsi l’ultima crociata, ebbero una clamorosa vittoria sugli ottomani dagli effetti però disastrosi: come ad anticipare, nel dettaglio onomastico, le pseudo-vittorie che il prete riesce a ottenere su se stesso nelle sue inquiete conversioni. È stato detto, a sottolineare la positività del personaggio, che non v’è alcuna relazione tra don Antonio e il suo modello voltairiano, il precettore Pangloss, «inguaribile ottimista» quest’ultimo e cieco credente nella leibniziana filosofia della storia, «tormentato, problematico» il secondo, il quale, una volta fattosi comunista, pur riservandosi il diritto di critica, non intravede salvezza se non nel partito31. Si è aggiunto, a valorizzarne il ruolo pedagogico, che se Candido vive il comunismo «come natura», il prete lo intende «come ideologia»32. Si è inoltre detto, nel segno di tale valorizzazione, che «maestro e discepolo vivono una reciproca dialettica della illuminazione dell’uno attraverso l’esperienza dell’altro»33. Tutto vero, ma col rischio di lasciare in ombra un dato fondamentale: Candido,

31.  Ivi, p. 165. 32.  Ivi, p. 163. 33.  C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 196.

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col suo «candore», ci pare sempre un passo più vicino alla verità del suo precettore ideologizzato. Conferma di ciò, che colloca l’ex prete nella luce di una cordiale ironia, sono le pagine che toccano la psicanalisi, disciplina praticata da don Antonio, per tale ragione classificabile tra i preti moderni, specie poco amata da Sciascia sin dai tempi delle Parrocchie. Che Sciascia costruisca il romanzo come parodiando i sacri testi della scolastica freudiana, ci pare lampante dalla biografia psicanaliticamente “eccessiva” di Candido, il quale effettivamente, e non simbolicamente, uccide il padre, e non riesce a considerare la madre se non nei termini di un coinvolgimento che attiene ai soli sensi (II, 369). Ma questo non sarebbe nulla, se la psicanalisi non fosse chiamata in causa dallo stesso don Antonio per spiegare il comportamento di Candido, finendo per naufragare nelle limpide e imperturbabili acque del «candore». L’ironia di Sciascia è spietata: Chiuso nello scafandro dei suoi schemi e della sua cabala, l’arciprete si sentiva come un pescatore subacqueo intento a spiare, a sorprendere, a infilzare le immagini e i pensieri di Candido che più probanti risultassero agli effetti di quegli schemi, di quella cabala. In realtà, era Candido che spiava e analizzava l’arciprete. (II, 375-376)

Parimenti, la ricostruzione che Candido candidamente fa del complesso edipico, per quel che gli pare di aver capito dallo strano comportamento di don Antonio, raggiunge esiti esilaranti: Reciprocamente analizzandosi, nulla aveva scoperto l’arciprete che valesse per una diagnosi e per una conseguente terapia; mentre Candido aveva scoperto che l’arciprete aveva una specie di idea fissa, piuttosto complicata ma approssimativamente riducibile a questi termini: che tutti i bambini uccidono il loro padre, e qualcuno, qualche volta, anche il Padre Nostro che è nei Cieli […]. Che l’arciprete pensasse questo di tutti i bambini, a Candido dispiaceva più per l’arciprete stesso che

275 per i bambini. Che poi lo pensasse di lui, gli parve bisognasse disingannarlo: e pazientemente. (II, 376-377)

Don Antonio aveva da tutto ciò «una crisi di coscienza», perché Candido «suo padre l’aveva ucciso davvero». Per anni la loro conversazione tocca gli «Atti degli Apostoli e le opere di Freud e Jung», parlando di tante cose, «ma sempre, entrambi, con quel pensiero», per arrivare così «a volersi bene, al di là dei padri e del Padre Nostro» (II, 377). Ma c’è un episodio, gustosissimo, in cui don Antonio, e con lui la psicanalisi, sembrano capitolare, nell’apoteosi del «candore». Candido sembra identificare la madre con una donna nuda dipinta nel soffitto di casa sua. L’arciprete è in agguato: «ecco, per respingere sua madre, per condannarla d’averlo lasciato, l’ha identificata con la donna nuda del soffitto: perché la mamma, nell’idea che lui ha della mamma e nell’idea che ha della nudità, non può essere nuda» (II, 379). Ma il bello è che, quando il prete vede la donna del soffitto, ne ha come un colpo, perché effettivamente somiglia alla madre di Candido: «Che identificando sua madre in quella donna nuda agisse in Candido l’oscura volontà di degradarla, non si poteva scandagliare, da quel che Candido candidamente diceva». Col risultato che il prete, sentendo insorgere di fronte a quella figura di donna «una strana e insana» passione decide di non parlare più a Candido di sua madre (II, 380). Abbiamo già accennato al fatto che Sciascia sembri, da Todo modo in poi, orientarsi in direzione di una contro-psicanalisi: possiamo aggiungere che il rovescio positivo, e propositivo, di essa pare risiedere in questa nuova forma di razionalità e saggezza che è il «candore». Perché Sciascia, dopo Candido, e per un lungo periodo, non ha più scritto racconti di pura immaginazione? Un problema critico di non facile soluzione, e solo in parte spiegabile con quella «paura», confessata su Tutto libri del 1° novembre 1986, della propria immaginazione, quasi si fosse trovata, «alla Bioy Casares», ad anticipare, nei gialli, certi fatti accaduti in Italia

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dopo la pubblicazione del libro. Certo è che, in quel 1977, molti eventi costringono lo scrittore ad abbandonare, sul terreno dell’utopia, quella miracolosa condizione di accettazione della vita, nella sua pienezza e semplicità, a cui Candido sembrava disporlo: le dimissioni, a inizio di anno, da consigliere comunale, che aprono una nuova e durissima fase di scontro politico con il Pei; la polemica, che lo vede protagonista, sulla diserzione dei giudici popolari al processo contro le Brigate rosse. Ancora pochi mesi e saremo al 16 marzo 1978: il giorno del rapimento di Aldo Moro. Un evento tremendo, e tremendamente simbolico, nella vita del paese, in cui veniva come suggellata tutta la storia della nuova Italia, e nei termini in cui, con sempre crescente inquietudine, Sciascia l’aveva posta. Un evento che costringerà lo scrittore, come vedremo, a ridefinire i suoi impegni di uomo di lettere. Consolo, in una pagina assai intensa, sembra rivelare persuasivamente quel che la vicenda Moro avesse rappresentato nella storia, soprattutto morale, di Sciascia: Il mondo, il mondo civile, sembra dire lo scrittore, si è fatto così tenebroso, così orrendamente e indecifrabilmente antisociale e criminale che non è più possibile, stando nella piazza, al circolo, alla luce del sole, alcuna narrazione che possa rappresentarlo e interpretarlo. A meno che, con mortale rischio morale, non si voglia scendere nei gidiani sotterranei, nei bui meandri del potere di misteriose e criminose sette di balzachiani Devorants.34

L’affaire Moro appare contemporaneamente in Italia per Sellerio e in Francia per Grasset, tradotto da Jean-Noel Schifano. Nella ristampa del 1983, sempre per i tipi Sellerio, collana «La memoria», verrà pubblicata in appendice anche la Relazione di 34.  V. Consolo, La conversazione interrotta, in La Sicilia, il suo cuore. Omaggio a Leonardo Sciascia, Fondazione L. Sciascia-Fondazione G. Whitaker, Racalmuto-Palermo 1992, p. 37.

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minoranza presentata dal deputato Leonardo Sciascia. A rileggerlo oggi, in questa calda estate del 1993, dopo che molta acqua, rossa del sangue di tanti morti più o meno eccellenti, è passata sotto i ponti di questa fragile democrazia, l’effetto è ancora d’incredulità. E colpisce particolarmente l’ingenuo lettore, che voglia riconsiderare quella vicenda libero da ogni pregiudizio, il fatto che, dopo un libro di tale chiarezza e intensità, la classe politica che gestì il caso Moro non avesse sentito l’imperativo di dimettersi in blocco. Perché delle due, Luna: o Sciascia diceva delle inoppugnabili verità, irrevocabilmente accusando quegli uomini di aver in qualche modo voluto la morte di Moro, o di aver perlomeno peccato di grave inefficienza; o Sciascia avanzava delle incredibili menzogne, da scatenare in quegli stessi uomini, se una coscienza avevano, un’orgogliosa e decisa reazione, un’altrettanto puntuale e plausibile ricostruzione dei fatti: cosa che non fu. Da come sono poi andate le cose nel nostro paese, forse tutto è da mettere nel conto dell’eterno cinismo italico. Ma torniamo al nostro libro: anomalo, assolutamente eccentrico nella tradizione letteraria nazionale. Nel titolo, chiara l’inscrizione a un’anagrafe francese. L’affaire Calas: Voltaire, L’affaire Dreyfus: Zola. Ma per come il libro è tramato, per come è giuocato il rapporto tra il mondo dei libri e il libro del mondo, non siamo poi così vicini ai due scrittori francesi, se non per una superficiale coincidenza di civile e politica militanza dalla parte della ragione e la giustizia. Siamo, insomma, a un libro molto sciasciano, quasi naturale punto d’approdo del percorso dello scrittore, se non ci fosse stata la non naturale morte di Moro. In esso convergono: quella contro-storia d’Italia tracciata dalle Parrocchie in poi, riletta ora in un momento di tragico snodo e come a verifica delle ipotesi da molti anni postulate35; un commercio con la tradizione letteraria universa35.  Dentro questa prospettiva sta anche il libro di A. Sofri, L’ombra di Moro, Sellerio, Palermo 1991.

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le, intesa come sistema trascendentale, repertorio di possibilità, della verità; «un’articolata tragedia della comunicazione»36, quale punto culminante della più vasta tragedia del Potere dei romanzi precedenti. Ma tutto, all’insegna della nuova attitudine gnoseologica ed etica del «candore»: Delle lettere di Moro direi che bisogna innanzi tutto farne una lettura candida. Voglio dire: bisogna prima sgombrare la nostra mente dal pregiudizio […] che Moro non era se stesso, che era diventato un altro Moro.37

L’affaire, non a caso, si apre nel nome di Pasolini, sull’onda di una divagazione a margine dell’articolo dedicato alle lucciole38, «come riprendendo dopo più che vent’anni una corrispondenza»: Era proprio una lucciola, nella crepa del muro. Ne ebbi una gioia intensa. E come doppia. E come sdoppiata. La gioia di un tempo ritrovato – l’infanzia […] – e di un tempo da trovare, da inventare. Con Pasolini. Per Pasolini. Pasolini ormai fuori del tempo ma non ancora, in questo terribile paese che l’Italia è diventato, mutato in se stesso («Tel qu’en Lui-même enfin l’éternité le change»). Fraterno e lontano, Pasolini per me. (II, 467-468)

Tra un proustiano tempo ritrovato e un utopico tempo da inventare, quello della ragione e la giustizia, ma potremmo aggiungere della pietà, la lucciola pasoliniana si carica di una duplice valenza. Da una parte, come a simboleggiare la fioca speranza della luce, in un tempo (e in un paese come l’Italia) che sembra ormai del tutto avvolto dalle tenebre della menzo-

36.  C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 232. 37.  L. Sciascia, La palma va a Nord, cit., p. 61. 38.  P.P. Pasolini, Il vuoto del potere in Italia, ora col titolo 1° febbraio 1975, in Id., Scritti corsari, pref. di A. Berardinelli, Garzanti, Milano 1992, pp. 128134.

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gna e del crimine. Dall’altra, a risolvere senza più incertezze le proprie ipotesi di contro-storia nazionale, «dentro una più vasta e disperata visione delle cose italiane» (II, 470), che era quella, appunto, cui era approdato Pasolini in quel celebre articolo. Proprio il Pasolini che aveva parlato del linguaggio di Moro in alcune note degli anni Sessanta poi raccolte in Empirismo eretico39, interpretandolo come un sintomo «del correre verso il vuoto di quel potere democristiano che era stato, fino a dieci anni prima, “la pura e semplice continuazione del regime fascista”» (II, 470). Note che nascevano da conferenze sulla lingua o che in conferenze si traducevano, sulle quali Sciascia, con giudizio non dissimile da quello che troviamo nell’Affaire, si era già pronunciato in un articolo pubblicato su «L’Ora» del 30 gennaio 1965: L’onorevole Moro è un uomo politico meridionale: il che è abbastanza, ma vale la pena di sottolinearlo, se Pasolini si riferisce a un suo testo come alla carta di Capua della lingua che nasce sull’asse Milano-Torino. E dell’uomo politico meridionale ha tutte le qualità, e principale quella del non dire. Fino a ieri, il classico modello dell’oratoria politica meridionale poteva considerarsi il discorso che il principe di Francalanza rivolge ai suoi elettori nei Viceré di Federico De Roberto […]. Genialmente, bisogna riconoscerlo, l’onorevole Moro ha inventato un più rigoroso, quasi scientifico non dire. È sua, se non ricordo male, la trovata delle convergenze parallele: che non significano assolutamente niente, né nella logica astratta né in quella delle cose concrete. (Q., 36-37)

Una condanna politica e culturale durissima, e che nell’Affaire viene in tutto riconfermata. Ma una condanna che, nel tragico e spietato contesto della morte, si carica di complicate rifrazioni, a svelare l’atroce contrappasso, dantesco contrappasso, toccato al Moro prigioniero delle Brigate rosse, che, nel ten39.  P.P. Pasolini, Empirismo eretico, cit., pp. 5-48.

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tativo di comunicare con i suoi colleghi e “amici” di partito, si vede costretto a «dire col linguaggio del nondire», a «farsi capire adoperando gli stessi strumenti che aveva adottato e sperimentato per non farsi capire» (II, 471). Trovandosi in una condizione che Pasolini, in quelle note, sembrava appunto aver presentito e come prefigurato. Pasolini «non sa decifrare il latino di Moro», ma intuisce che dentro «quella incomprensibilità» si è come stabilita «una “enigmatica correlazione” tra Moro egli altri: tra colui che meno avrebbe dovuto cercare e sperimentare un nuovo latino […] e coloro che invece necessariamente, per sopravvivere sia pure come automi, come maschere, dovevano avvolgervisi» (II, 470-471). Con il rapimento, con la morte, tutto sembra mutarsi, contraffarsi: «trasumanar significar per verba non si porla». Il politico da falsario del linguaggio si ritrova, come per sortilegio, nell’identità linguistica trasformato, misconosciuto, insomma “falsato”. E la metamorfosi della «persona» in «personaggio». Siamo alla parodia della trasumanazione. Moro che, pur non avendone necessità, conia «un nuovo latino», «ancora il “latinorum” che fa scattare d’impazienza Renzo Tramaglino» (II, 471), per uomini i quali, «maschere» della perenne pantomima del Potere, ne hanno profondamente bisogno, e che quel linguaggio recisamente disconoscono, non ritenendolo suo, quando leggono le lettere inviate dal carcere brigatista. Moro prigioniero, di cui si celebrano le grandi virtù di statista40, la grande saggezza e lungimiranza di politico, mentre Io si considera, in quelle lettere, men che incapace di intendere e di volere. Moro che si monumentalizza mentre, di fatto, lo si lascia morire. E ciò, a fronte di brigatisti, «figli, nipoti o pronipoti del comunismo stalinista», che si fanno grottescamente 40.  «Grande e spiccata menzogna, tra le tante in quei giorni rigogliose. Né Moro né il partito da lui presieduto avevano mai avuto il “senso dello Stato”» (II, 482).

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interpreti di «un’etica […] carceraria maturata sulla lettura – o sul sentito dire – dei testi di Foucault», a introdurre un’«esile vena libertaria nella loro pietrificata ideologia» (II, 471). Con questo Moro annientato, dalle Br nella «prigione del popolo», dalla Dc e dal Pci metafisicamente stretti intorno a uno Stato che non c’era mai stato, Sciascia sceglie «di identificarsi, di immedesimarsi», nel segno di una strategia simile a quella del cavaliere Dupin di Poe (II, 489). In uno straziante giuoco delle parti, il politico aborrito, tra i maggiori responsabili della “morte” dello Stato italiano, si muta agli occhi di Sciascia, nell’individuo degno della massima pietà, riconosciuto e celebrato in tutta la sua verità e libertà di uomo, in quella piena sofferenza di «creatura» che si rifiuta di essere metamorfosizzato in «personaggio». Da dove nasce la pietà di Sciascia per Moro, simbolo di quel regime democristiano le cui nequizie trovano suprema rappresentazione in Todo modo41? Non tanto e non solo, secondo Giuseppe Traina, «dalla condivisione […] del giudizio pasoliniano su Moro come “il meno implicato di tutti”», quanto dalla «pirandelliana condizione di “uomo solo”», in cui lo precipita il comportamento del «partito della fermezza», che non soltanto provoca la sua condanna a morte, ma lo defrauda «del potere che aveva fin allora esercitato, fondato sulla parola, sulla scrittura». E ciò, nella convinzione che la «religiosità» dell’Affaire passi «anche per la tensione ermeneutica che anima l’autore e lo porta a rimettere in valore le lettere del prigioniero, nella loro corposità testuale (che non esclude, in Moro scrivente, l’intenzionale allusività intertestuale) che viene così sottratta alla condanna di inau-

41.  Si ricordi quel che, a proposito dello Stato, dice don Gaetano ai suoi ospiti democristiani: «Ma signori […] spero non mi darete il dolore di dirmi che lo stato c’è ancora… Alla mia età, e con tutta la fiducia che ho avuto in voi, sarebbe una rivelazione insopportabile. Stavo così tranquillo che non ci fosse più» (II, 196).

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tenticità fondata su un pregiudizio contestuale (le minacce dei brigatisti)»42. Ci pare che Traina abbia toccato un punto chiave. La risposta di pietà e religione di Sciascia sembra giuocarsi dentro una scommessa ermeneutica, quasi nella parafrasi di quella che quotidianamente compie il critico letterario, una scommessa in cui il linguaggio del Potere, una volta impiegato per «nondire», e ora per «dire», possa diventare il luogo della verità morale di un uomo che da carnefice è stato trasformato in vittima sacrificale. E si capisce perché lo scrittore debba necessariamente mutarsi in agguerrito e strumentato lettore di testi: se la letteratura non è altro che la «più assoluta forma che la verità possa assumere» (II, 834), il critico letterario diventa, per ciò stesso, la perfetta incarnazione del detective. Non staremo qui a ricapitolare la «romanzesca» (II, 492) indagine di Sciascia, tutta fondata sulla convinzione che le lettere di Moro nascondessero un sotto-testo ricco di messaggi cifrati nel linguaggio del «nondire», con persino indicazioni utili al suo ritrovamento. Né staremo a vagliarne ipotesi e risultati43. Né è nostro fine riassumere le varie modalità, mirabilmente esaminate da Sciascia, attraverso cui i compagni di partito di Moro riescano a cancellarne l’identità psicologica e morale. Né ricordare fino a che punto giunse l’infamia e la malafede di taluni. Né ricostruire lo spietato processo che Sciascia in questo pamphlet ha intentato alla Dc e al cattolicesimo italiano, sulla scorta di quanto aveva già scritto in Todo modo. Ci interessa notare, invece, che la ricostruzione della vicenda si apre (e ancor più enigmaticamente si chiude) con un’allusione al Borges di Ficciones, quello di Pierre Menard, autore del 42.  G. Traina, Il candore e la pietà di un polemista, cit., p. 169. 43.  È ciò che acutamente ha fatto A. Sofri, L’ombra di Moro, cit., passim, sulla scorta del ritrovamento in un covo delle Br a Milano, il 9 ottobre 1990, di nuovi documenti di Moro.

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«Chisciotte», nell’«invincibile impressione che L’affaire Moro fosse già stato scritto, che fosse già compiuta opera letteraria» (II, 477), e per tante ragioni: È da dire, intanto, che, come il Don Chisciotte, l’affaire Moro si svolge irrealmente in una realissima temperie storica e ambientale. Allo stesso modo che don Chisciotte dai libri della cavalleria errante, Moro e la sua vicenda sembrano generati da una certa letteratura. Ho ricordato Pasolini. Posso anche – non rallegrandomene ma nemmeno rinnegandoli – ricordare due miei racconti, almeno due: Il contesto e Todo modo […]. Lasciata, insomma, alla letteratura la verità, la verità – quando dura e tragica apparve nello spazio quotidiano e non fu più possibile ignorarla o travisarla – sembrò generata dalla letteratura. (II, 479)

Eccoci, come si vede, a una letteratura che non è più rispecchiamento della realtà, ma che della realtà, tra profezia e allucinazione, sembra diventata genitrice. Si tratta di una concezione che prolunga e precisa le acquisizioni degli Atti relativi. La scomparsa e Candido. Ne vedremo meglio le articolazioni nel prossimo capitolo, in riferimento ad alcune pagine di Nero su nero. Ma torniamo a quella risposta di pietà e religione, viva anche nella convinzione, molte volte ribadita da Sciascia, di aver scritto un libro più «religioso» che «politico» (S.M., 132; C.S., 31). Una risposta offerta a un uomo finito vittima di un duplice «stalinismo», termine ormai elevato a categoria più etica che storica: Lo stalinismo consapevole, apertamente violento e spietato delle Brigate rosse che uccide senza processo i servitori del SIM e con processo i dirigenti; e lo stalinismo subdolo e sottile che sulle persone e sui fatti opera come sui palinsesti: raschiando quel che prima vi si leggeva e riscrivendolo per come al momento serve. (II, 508)

Lettera dopo lettera, in messaggi che «sembrano arrivare a noi dall’antica ed eterna tragedia del potere» (II, 836), nella cre-

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scente consapevolezza di essere stato abbandonato dai suoi ex “amici”, «Moro comincia, pirandellianamente, a sciogliersi dalla forma, poiché tragicamente è entrato nella vita. Da personaggio ad “uomo solo”, da “uomo solo” a creatura: i passaggi che Pirandello assegna all’unica possibile salvezza» (II, 513). Una condizione di estrema lontananza da cui poteva ormai contemplare, senza più veli né reticenze, «il volto laido, stupido, feroce» (II, 543) di quel Potere che lo aveva immolato. L’«intatta e appagata musica dell’uomo solo», la «catena di causalità sospesa a un atto di libertà»: siamo di nuovo al Pirandello di Debenedetti. E Moro sembra aggiungersi a quella schiera di personaggi che, come Candido, hanno deciso di sovrapporre, alla maschera di un giuoco delle parti sempre dettato dal Potere, il proprio volto di creatura. Come disponendosi, dopo la morte, al fraterno abbraccio di Sciascia. Come prestandosi al ruolo di personaggio supplente, in un apologo che pare avere anche un risvolto autobiografico. Pensiamo alla pagina in cui si riflette sulla paura di morire del prigioniero, sul pessimismo meridionale: Non credo abbia avuto paura della morte. Forse di quella morte: ma era ancora paura della vita. «Secoli di scirocco», era stato detto, «sono nel suo sguardo». Ma anche secoli di morte. Ronchey aveva scritto: «È l’incarnazione del pessimismo meridionale». Che cosa è […] il pessimismo meridionale? Nel vedere ogni cosa, ogni idea, ogni illusione […] correre verso la morte. Tutto corre verso la morte: tranne il pensiero della morte, l’idea della morte. «Nonché un pensiero, il pensiero della morte è il pensiero stesso». Penetra ogni cosa, come lo scirocco: nei paesi dello scirocco. (II, 498)

Lo scirocco. La camera dello scirocco ingegnosamente escogitata nelle case patrizie siciliane nel XVIII secolo: ma esiste «una camera in cui rifugiarsi, in cui difendersi dal pensiero della morte» (II, 498)? Moro incarcerato. Moro che sente la vita fuggire e i tanti pensieri, dentro una secolare storia di pessi-

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mismi che è quella del Meridione, coagulargli in un solo, vasto e ricorrente pensiero, il pensiero della morte. Non è difficile, in questa pagina aperta e ventosa, avvertire lo stormo di una più personale preoccupazione, e più personale perché più universale, soprattutto se la si legge a fronte di quello che, pochi mesi dopo, Sciascia avrebbe confessato alla Padovani. Sta parlando del suo pessimismo («Come mi si può accusare di pessimismo se la realtà è pessima?») e torna a citare, questa volta non tacendone la fonte, la frase di Savinio sul pensiero della morte. Una citazione con cui dichiara l’emergente interesse per i «nuovi filosofi», nei quali non trova soltanto una salutare liquidazione del marxismo, ma anche, appunto, «un invito a tornare ai grandi temi della filosofia, e specialmente al tema della morte» (S.M., 6-7). Un avvertimento di cui dovremo ricordarci a tempo debito: per ora lo prendiamo come la prova generale di una più vasta e articolata autobiografia dell’ombra. Siamo nel 1979. Sciascia si presenta con il Partito Radicale alle elezioni per il Parlamento europeo e per la Camera dei deputati. Eletto in entrambe le consultazioni, opta per la Camera, ove sarà assiduamente impegnato nella Commissione d’inchiesta «su la strage di via Fani, il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro»: i suoi interventi parlamentari verranno poi raccolti, per i «Quaderni Radicali», nella Palma va a Nord e, più recentemente, nel numero 3-4 del 1993 di «Euros», con uno scritto di Consolo e interventi di Madeo, Boato, Man e Savater. In questo stesso anno dà alle stampe Dalle parti degli infedeli per Sellerio, ove abbiamo di nuovo a che fare con un epistolario, con un problema, per così dire, di critica testuale, in una storia di ordinaria inquisizione. Il libro racconta la vicenda del vescovo di Patti, uomo meditativo e tollerante, fermo credente «nel Dio della verità, nel Dio della giustizia» (II, 869), che, negli anni della guerra fredda, non si allinea alle direttive delle autorità vaticane, che lo vorrebbero più solerte nel sostenere le forze politiche cattoliche. Siamo, ancora una volta, a un «uomo

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di estremo candore» (II, 872), come Candido, come Moro nei giorni della sua prigionia. Ma siamo anche a un libro in cui la letteratura, sommamente nei Promessi sposi letti come preconizzazione della storia d’Italia (II, 866, 885), si pone come unico ed esclusivo orizzonte della verità, a riproporre un problema critico non più procrastinabile.

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Capitolo VII

L’ordine delle somiglianze 1979-1985

Qualora si volesse riguardare, come da una lontananza storiografica e in rapida sintesi, la ricerca letteraria di Sciascia negli anni Sessanta e Settanta, trascegliendo, tra i tanti temi possibili, quello del Potere, ci si accorgerebbe subito di una netta cesura. Se, infatti, dal Giorno della civetta al Contesto, lo scrittore sembra dipanare la sua analisi a parte rei, concentrandosi, cioè, sul congegno e gli ingranaggi della grande macchina inquisitoriale, sulle ferree leggi che la governano oltre e sopra gli individui. Con Todo modo, e in maniera più decisa e consapevole con La scomparsa, l’attenzione sembra invece spostarsi a parte hominis, a isolare e scandagliare le ragioni e le non ragioni, i sentimenti e i risentimenti degli individui, nella loro strenua e disperata lotta con quella macchina inquisitoriale, che finisce sempre per stritolarli nella formulazione, come in Candido, di un nuovo tipo di saggezza. E si tratta di individui sempre più felicemente murati in un «sorvegliato spazio di moralità e ironia»1. Non sorprende, perciò, che sul finire di questi anni Settanta, e contemporaneamente a Dalle parti degli infedeli, appaia un diario «non regolare, non assiduo, occa1.  N. Tedesco, Un sorvegliato spazio di moralità e ironia, cit., p. 71.

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sionale e precario piuttosto», composto di note pubblicate sul «Corriere della Sera», «La Stampa» e «L’Ora», tenuto dall’estate del 1969 al 12 giugno 1979, stando a ciò che si legge nel risvolto di copertina per i tipi Einaudi: e come a sanzionare, a suggellare nella scrittura («la nera scrittura sulla nera pagina della realtà») quella dimensione di solitaria e libera meditazione, di affilata riflessione. E dopo aver constatato, nello stesso risvolto, che Nero su nero contiene «in nuce» tutti i libri scritti in quell’arco di tempo, Sciascia significativamente aggiungeva: Ho avuto come modello, forse, il Journal di Jules Renard; ma rileggendo, mi accorgo di essere andato vicino al Diario in pubblico di Vittorini. Pochi – alla Sainte-Beuve – i veleni; al minimo le malignità; discrete le confessioni; molti gli appunti di lettura o di rilettura; nessun ritratto (alla Saint-Simon o alla Retz). Un libro, tutto sommato, molto italiano; forse molto siciliano.

Un libro, dunque, «molto italiano; forse molto siciliano»: e non gli si può dare torto, constatando con quale tenacia, una tenacia che rasenta l’ossessione, lo scrittore abbia vissuto la storia italiana di quegli anni. Ci piace avviarne l’interpretazione proprio affrontandolo, rapidamente, a tre fondamentali taccuini, che lo scrittore deve aver avuto ben presenti: la già citata opera vittoriniana (1957), il Diario romano (1968) di Brancati, Quasi una vita. Giornale di uno scrittore (1950), cui si può anche aggiungere Ultimo diario (1959), entrambi di Alvaro. E si dovrebbero citare anche i nomi di Cajumi, Longanesi, Pavese, Delfini e Flaiano: nomi che Sciascia propriamente fa, nella prefazione al Diario brancatiano2. Osserviamo subito che la collocazione di Nero su nero dentro una tradizione letteraria 2.  L. Sciascia, Prefazione (1984) a V. Brancati, Diario romano, in Id., Opere 1947-1954, a cura di L. Sciascia, postfaz. e apparati di D. Perrone, Bompiani, Milano 1992, p. 310.

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nazionale dice molto di più, in termini di poetica, di quel che non appaia immediatamente. Soprattutto se la si rapporta con ciò che si legge in quella prefazione al Diario: Non si può dire che la letteratura italiana sia ricca di memorie, di autobiografie, di diari. Si può anzi senz’altro dire che ne è povera: e, a misura di tal povertà, esiguo e discontinuo è il corso di quelli che Pirandello chiamava «scrittori di cose», a fronte del corso sempre pieno e fluente degli «scrittori di parole». Da Petrarca vedeva Pirandello dipartirsi un gran fiume; e da Dante un torrente soltanto in certe stagioni copioso.3

Come risulta da questo passo, la decisione di pubblicare un diario non può che avere una duplice valenza: l’approdo di Sciascia a quell’esile striscia di territorio che il genere autobiografico e diaristico ha ritagliato nella più vasta e rorida regione della letteratura italiana, in ciò confermando una scelta di appartata e orgogliosa solitudine intellettuale; la sua autoinscrizione, anche per questa via, in quella magra schiera di scrittori «di cose» che, con sdegno e risentimento, Pirandello aveva celebrato nel suo discorso su Verga4. Ma Sciascia in quella prefazione si spinge più avanti, indicando subito una delle ragioni di questa carenza: la mancanza di una lingua che alla letteratura memorialistica «si adattasse, che la esprimesse»5. Col risultato di ritrovarci diari scritti in francese (Casanova, Goldoni, Palmieri di Miccichè), o «in una lingua italiana approssimativa, contorta, vernacolare e a momenti indecifrabile»6, sepolti nelle patrie biblioteche. Il fatto che la letteratura italiana, a partire dalla seconda guerra mondiale, abbia offerto una cospicua messe di scritti memoriali, lo si deve considerare, spiega Sciascia, come «un avvento delle “cose” e un mutamento 3.  Ivi, p. 309. 4.  L. Pirandello, Discorso di Catania, cit., p. 73. 5. L. Sciascia, Prefazione (1984), cit., p. 309. 6.  Ibidem.

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della società civile», nel segno della necessità di riconsiderare il fascismo e la sua fine, e, angoscioso e stringente per molti, del «dovere di giudicarlo o di giudicarsi in esso»7. Pur in un clima politico radicalmente cambiato, questa necessità, questo senso del dovere, nella convinzione che il fascismo italiano non finisca mai di finire, Sciascia mutua dalle pagine di Brancati, Alvaro e Vittorini. Ma è un’eredità che non si ferma a questo. Da Alvaro e Brancati, e probabilmente nel loro comune guardare a Gide, Renard e i Goncourt, cava quel gusto per la memoria letteraria, per gli appunti di lettura e rilettura, quella facilità di piegare un fatto a nota morale e di costume, nel segno di un’idea di diario che corra in parallelo all’attività narrativa, nutrendola, nutrendosene, qualche volta confondendosi con essa. Da Vittorini, più scopertamente, riceve l’idea di tracciare una sorta di autobiografia intellettuale, con speciale attenzione alle ragioni problematiche di una militanza politica sempre eterodossa: ma con la differenza che, mentre Sciascia scrive giorno per giorno e con finalità di quotidiana demistificazione, Vittorini ricostruisce, più precisamente restaura, il suo passato, in vista dell’edificazione di un mito di se stesso8. Solo da Brancati, invece, Sciascia eredita quella disposizione a ricreare, nel sentimento e nel giudizio, la Sicilia vista e vissuta, negli anni come introvertita, a farne metafora di una più generale condizione umana. Per non dire dell’anticonformismo, del conservatorismo (oh Longanesi! oh Cajumi!), così controcorrente tra gli intellettuali italiani, che portava Brancati, negli anni ’47-’54, a celebrare Croce quando per i più non 7.  Ivi, p. 309. 8.  Ha scritto Anna Panicali nel suo Vittorini Pasolini e l’erede Sciascia. Grigio su grigio, in «Il Ponte», XXXVI, n. 5, 1980, pp. 481-501: p. 498: «Mentre in Nero su nero Sciascia annota fatti e impressioni che si riferiscono alla letteratura, al costume politico, ma anche alla sua vita, in Diario in pubblico, Vittorini ricostruisce à rebours il proprio passato di scrittore e di militante; delinea una figura, traccia un ritratto, un’immagine di sé da offrire al pubblico».

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era che un cane morto, oppure a deridere Sartre, mentre tutti lo idolatravano. Resta da aggiungere che in Sciascia quel puntiglio etico, quel risentimento civile che lo accomuna a Brancati, Vittorini e Alvaro, per ovvi motivi, acquista una malizia diversa, per così dire, post-psicanalitica, con un’attenzione ai messaggi, ai reperti della civiltà informatica, che è propria di chi si è trovato a scrivere in un clima decisamente segnato da nuove scienze come l’antropologia culturale e la linguistica. Si legga un passo come questo, dove una polemica di ordine politico viene consegnata a una sottile analisi psicolinguistica: Di solito non vedo i manifesti: camminando per le strade mi si abbuiano come se dentro un tunnel. E non avrei visto questo del Partito Comunista, se un amico non me lo avesse indicato: «Decidi / lotta / governa /col Pci / diventa comunista». I due verbi – lottare, governare – sono graficamente separati ma aspirano, evidentemente, alla fusione, all’unione, all’univocità, nascerà il verbo lottagovernare? Dopo la non sfiducia, il lottagovernare. Siamo ai neonevrologismi. (II, 845)

Ma c’è un altro elemento, in Nero su nero di decisiva importanza, che allontana lo scrittore da questi suoi modelli: una peculiare concezione della letteratura che, come abbiamo visto, lo ha portato ad abbandonare un’opzione realista per una tutta da definire, ma che realista certo non è più. Perché Sciascia è e rimane scrittore «di cose», come lo erano stati, nei loro taccuini, Vittorini, Brancati e Alvaro, ma di cose che, in virtù delle parole, sembrano ora dileguare. Si pensi a questo curioso passo di Nero su nero, così lontano dalla temperie estetica e ideologica dei diari di quei maestri: Petrarca morì nella notte tra il 18 e il 19 luglio del 1374 […]. Stroncato da una sincope improvvisa, reclinò la testa sul libro che stava leggendo. Accorso a sollevarlo, il fedele discepolo Lombardo della Seta vide «come una nuvoletta in su salire» l’anima del maestro.

292 La sera del I marzo del 1938, Gabriele D’Annunzio moriva allo stesso modo. Nessuno vide la sua anima in su salire. Ma stava leggendo Petrarca. Se non sapessimo che cosa Petrarca stava leggendo quando la morte lo colse, diremmo che – nel labirinto del tempo o nella siderale circolarità fuori del tempo – stava leggendo D’Annunzio. (II, 769)

Una nota, si direbbe, di ascendenza borghesiana, come poco più avanti, nel riferimento a Borges, l’autore ci attesta, in una suggestiva divagazione su Petrarca (che si innamorò di Laura de Noves, andata in sposa a un Sade) e il più noto, e divino, marchese de Sade, a leggere il Canzoniere «secondo oscurità invece che, come facciamo, secondo chiarezza» (II, 771). Ascendenza, questa borghesiana, di evidenza fin quasi lapalissiana, se non ci ricordassimo che, nei lontani anni dell’apprendistato, in particolare sulla «Gazzetta di Parma» del 22 dicembre 1955, Sciascia aveva coniugato Borges agli amati, e senz’altro più frequentati, Savinio e Cecchi. Ci viene pure in mente Trompeo. E Borgese, per ragioni che presto diremo. Ma andiamo con ordine, concedendoci qualche altro assaggio testuale: Un operaio pugliese (tornitore meccanico alla Pignone Sud di Bari) mi manda un suo libretto di versi. Si chiama Tommaso Di Ciaula: e il cognome inevitabilmente rimanda alla novella di Pirandello Ciaula scopre la luna (un mio amico, uomo di scienza che profondamente ama la letteratura, parlò di questa novella, a Houston, a uno dei reduci dalla Luna: e l’astronauta ne ebbe vivissima impressione… E io trovo bellissimo e consolante il fatto che uno che ha messo piede sulla Luna abbia risentito lo stupore e la commozione del povero carusu siciliano che scopre la luna lontana). E anche Di Ciaula, uscendo dalla Pignone Sud come Ciaula dalle tenebre della zolfara, scopre la sua luna. (II, 665)

Una pagina di Pirandello: lo sgomento e la commozione di Ciaula che si comunica intatta, attraverso i decenni, all’uo-

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mo che mette per la prima volta piede sulla Luna, al tornitore meccanico che lavora alla Pignone Sud di Bari. La letteratura, a sé stessa identica, che ripete e preconizza, anticipa e prolunga un sentimento, un pensiero: magari qualcosa di oscuro e inquietante, attinente ai tempi della civiltà, dell’etica e della politica, che potrebbe avvenire e, probabilmente, accadrà. Un presentimento che, ancora, la letteratura sembra annunciare da una lontananza di secoli: Leggendo Chateaubriand, avverto ad un certo momento – e precisamente alle pagine sulla Restaurazione – pungente l’impressione di star vivendo in quell’atmosfera. Razionalmente, nella realtà, non c’è nulla che ne dia avvertimento o sospetto; tutto anzi sembra affermare il contrario. Ma l’impressione mi resta, non riesco a cancellarla. Un’apprensione senza oggetto. E ne sento disagio. (II, 781)

Non solo il libro del mondo sembra essere compreso nel mondo dei libri. Anche nel mondo dei libri esistono le ripetizioni, gli incontri in una storia letteraria che sembra contratta in un eterno presente: Svegliandomi da un sonno lungo, quieto, senza sogni, mi affiora questo pensiero: quel sonno diciamo buono che più somiglia alla morte. L’ho pensato io o l’ha pensato Leopardi? Il mio rapporto con certi libri, con certi scrittori, è ormai senza scarti, senza confini. (II, 781)

Si potrebbe continuare a lungo, spigolando di citazione in citazione. Ciò che conta sottolineare è questo: che Sciascia muove tali divagazioni, extravaganze e riflessioni non per caso, ma all’insegna di una precisa strategia ermeneutica, fondata su una peculiare idea di letteratura. Un’idea formulata con chiarezza, e come ricapitolando una riflessione sempre più incalzante dagli Atti relativi e dalla Scomparsa in poi. Un’idea, ed è fatto assai significativo, germinatagli a margine di una polemica sull’Affaire Moro. Tutto comincia con le obiezioni di Eugenio Scalfari a fronte di due interviste concesse da Sciascia a «L’E-

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spresso» e «Panorama», prima della pubblicazione del libro. Lo scrittore ha un’angosciosa preoccupazione: «Mi viene il sospetto […] voglia dire che quello che io ho scritto sul caso Moro va lasciato a cuocere nel brodo del “mistero dell’arte”, e che nulla ha a che fare con la realtà» (II, 823). La strategia di Scalfari, per Sciascia, è chiara: delegittimare, quanto a verità, ciò che lo scrittore ha sostenuto, ascrivendolo a immaginazione di letterato, a fantasia di letteratura. Come se letteratura e realtà, letteratura e verità, rispondessero a due diversi ordini gnoseologici. Una chiarificazione è quanto mai urgente, e la troviamo, immancabilmente, qualche pagina più avanti. Si torna ancora all’Affaire, ai giorni passati a rileggerlo e a ritoccarlo prima di affidarlo alle stampe: «Senza che lo volessi, la mia mente svolgeva una meditazione sulla letteratura: ansiosa, febbrile, come sdoppiata, come dialogata». Quindi, dopo aver accennato che quella meditazione gli era dislagata nel sonno, nel sogno, aggiungeva: «nell’insonnia, con frammentaria e incandescente perspicuità, mi pareva di essere arrivato a una risposta sulla letteratura, su che cosa è la letteratura. Ma ora, qui, non so ripeterla» (II, 827). E invece, alla fine di una nota che divaga febbrile e allucinata, tra Giambattista Biffi e Stendhal, Gonzalve de Nervo e Tuzet, sulle cui pagine dice di averla verificata (II, 828), troviamo la risposta, semplice e lapidaria: E allora: che cosa è la letteratura? Forse un sistema di «oggetti eterni» (e uso con impertinenza questa espressione del professor Whitehead) che variamente, alternativamente, imprevedibilmente splendono, si eclissano, tornano a splendere e ad eclissarsi – e così via – alla luce della verità. Come dire: un sistema solare. (II, 830)

Una definizione che trova conferma e articolazione, in altre notazioni disseminate in Nero su nero, come quella da noi già citata ove si dice che la realtà, prima o poi, sempre si adegua alla poesia (II, 652), o affidate al libro-intervista della Padovani, uscito contemporaneamente al diario:

295 E che cos’è uno scrittore? Da parte mia, ritengo che lo scrittore sia un uomo che vive e fa vivere la verità, che estrae dal complesso il semplice, che sdoppia e raddoppia – per sé e per gli altri – il piacere di vivere. Anche quando rappresenta terribili cose. (S.M., 78)

Per non dire dell’altra considerazione ove si distingue la vera letteratura da quella falsa e mistificante, per apparentarla, quanto a verità, alla filosofia, ponendola un gradino più in alto della storia: Lo scrittore rappresenta la verità, la vera letteratura distinguendosi dalla falsa solo per l’ineffabile senso della verità. Va tuttavia precisato che lo scrittore non è per questo né un filosofo né uno storico, ma solo qualcuno che coglie intuitivamente la verità. Per quanto mi riguarda, io scopro nella letteratura quel che non riesco a scoprire negli analisti più elucubranti, i quali vorrebbero fornire spiegazioni esaurienti e soluzioni a tutti i problemi. Sì, la storia mente e le sue menzogne avvolgono di una stessa polvere tutte le teorie che dalla storia nascono. (S.M., 82)

Alla luce di tali dichiarazioni, e in relazione a quanto abbiamo via via accennato, circa tale questione, nel nostro libro, abbiamo un buon numero di dati per tirare una conclusione. La letteratura, per Sciascia, e con piena consapevolezza dopo La scomparsa di Majorana (II, 834), sembra disporsi come «la più assoluta forma che la verità possa assumere», e come involta in una sorta di memoria universale, entro cui un sistema di «oggetti eterni» ritornano, imprevedibilmente, immancabilmente, inesorabilmente, a imprimere un senso, una molteplicità di sensi, a una catena di eventi. Questo repertorio della memoria universale, si direbbe un vero e proprio iperuranio, consente una sorta di semplificazione, di chiarificazione di una realtà che altrimenti rimarrebbe tortuosa e oscura, come spesso accade nelle ricostruzioni storiche. Tale semplificazione coincide anche con uno sdoppiamento e un raddoppiamento

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di tale realtà, un potenziamento della vita stessa, come un contributo dato, nelle forme vicarie del leggere e dello scrivere, al piacere stesso di vivere. Siamo, lo avevamo anticipato, entro un orizzonte di ascendenza borghesiana, ma del Borges declinato nelle venturose peregrinazioni, nelle erratiche analogie di cui, per Sciascia, erano stati, ed erano ancora maestri, Cecchi, Savinio e Trompeo, non a caso oggetto, quest’ultimo, di un saggio scritto da Sciascia nel 1954 (lo abbiamo esaminato nel I capitolo) e reinserito in Cruciverba (II, 1047-1050), addirittura a giustificare il titolo della raccolta (II, 1282). Le antiche posizioni degli anni dell’apprendistato sembrano dunque ritornare, ma come caricate delle immani responsabilità assunte, nel corso dei tanti anni di risentimento civile e politico, di fronte alla verità. Ci sono, però, ulteriori fonti da indicare a margine di queste riflessioni di Sciascia sulla letteratura. Una fonte, più scoperta e appariscente, perché si tratta di autore che larga fortuna ha avuto nei corsi e ricorsi delle mode letterarie di questi anni: il Roland Barthes del Piacere del testo9. Un’altra, più occulta, ma più profondamente operante, oscuro nutrimento della sua linfa meditativa: il Giuseppe Antonio Borgese degli scritti critici ed estetici, in particolare quello di Figurazione e trasfigurazione (1926), saggio redatto, non a caso, dopo quella «conversione», non priva «di motivazioni che si potrebbero dire religiose, laicamente e politicamente religiose», che Borgese avrebbe subito, secondo Sciascia, nel «passaggio dalla critica al romanzo, alla poesia» (II, 1168). Si veda, a conferma di ciò, quanto Borgese scriveva sulla missione dell’artista, in un linguaggio che è, certo, quello maturato nel clima del neo-idealismo italiano: 9.  «Il riposo e il divertimento della scrittura, il piacere di fare un testo (e questo piacere è, per un autore, la sola misura di quello che sarà per il lettore e per il critico – ma per il critico che riuscirà a non perdere la condizione di lettore – il piacere del testo)» (II, 827).

297 Egli sa che non accetta i suoi fantasmi come subisce i sogni: che sceglie e elegge, migliora e esplora; che le figurazioni ch’egli adotta e legittima, nella gran folla di cui la sua immaginazione brulica, non sono le arbitrarie e capricciose ma quelle dalla commozione e dal ritmo rivelategli come in qualche modo rispondenti a un modello, il quale è sì in lui, ma non è di lui.10

E ancora: La sovrannatura dell’arte non è in nessun luogo; è Utopia e Ucronia; non vi si approda da nessun navicello di fantasmi né vi si atterra da alcun cavallo alato. Questa sovrannatura non è un’altra natura. E l’artista non dà la conoscenza della perfezione divina, dell’ipersensibile, del mondo assoluto e noumenico; ma ne dà il sentimento, o, meglio ancora, l’esigenza. Non li descrive, ma li simboleggia.11

Una concezione, questa, che spiega perché, a un certo punto, Borgese avesse sentito il bisogno di passare dalla critica al romanzo e la poesia, dalla riflessione sull’arte all’arte stessa. Una concezione di cui si potrebbe dare ampia e circostanziata esemplificazione. Comunque: «figurazione», «trasfigurazione», «sovrannatura», attuazione simbolica e sentimentale «dell’ipersensibile»: immergete una cartina con questi elementi in una soluzione borghesiana e barthesiana e avrete il vino della cantina estetica di Sciascia12. Curioso percorso questo di Sciascia, a ricapitolarlo velocemente. Era partito da posizioni realistiche, per cui la realtà veniva a essere come rispecchiata e riprodotta nella letteratura, è ap10.  G.A. Borgese, Poetica dell’unità, Mondadori, Milano 1952 (19341), p. 127. 11.  Ivi, p. 129. 12.  Una sola, segreta, ma significativa spia, di quanto Sciascia si riconoscesse nella concezione estetica di questo suo conterraneo, si trova nel saggio Borgese: «Egli vedeva nella letteratura una sintassi – parola che gli era cara – della vita, del mondo, dell’uomo, di tutti gli uomini» (II, 1173).

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prodato a una concezione che veramente può dirsi platonica, la realtà finendo per essere una copia più oscura e degradata dei suoi archetipi letterari13. Un vero e proprio rovesciamento, un mutamento irreversibile, se è vero che, da Nero su nero in poi, il mondo dei libri fornirà la sola possibile chiave per penetrare nel libro del mondo. Ecco, allora, che la pirandelliana Come tu mi vuoi potrà distenebrare il caso dello smemorato di Collegno nel Teatro della memoria (1981); un passo di Montaigne fare luce sul processo della Sentenza memorabile (1982); una pagina dei Promessi sposi e una nota della Storia di Milano di Pietro Verri glossare un fatto di stregoneria del XVII secolo nella Strega e il capitano (1986); citazioni da Stendhal, Verga, D’Annunzio, Lawrence e Zweig chiosare le vicende giudiziarie di 1912 + 1 (1987) e Il cavaliere e la morte (1988); il nome di Pirandello enigmaticamente accompagnare, in Una storia semplice (1989), la rivelazione dell’assassino. Si potrebbe anche dire di più. E cioè che Sciascia, in limine a questa meditazione letteraria, si sia provato a tradurre, come per giuoco, questa sua strategia ermeneutica in due nuovi generi, perfettamente organici a queste sue nuove convinzioni, nel segno di una centrifugazione della realtà nella letteratura: il «cruciverba» saggistico, che contemplerebbe, oltre alla raccolta omonima, anche le Ore di Spagna, che riuniscono le corrispondenze iberiche di Sciascia del 1982 e 1984, libro per così dire inventato da Natale Tedesco, e i Fatti diversi di storia letteraria e civile; la «cronachetta» narrativa, a cui possiamo ascrivere senz’altro, oltre alle Cronachette (1985), Il teatro della memoria, La sentenza memorabile, La strega e il capitano, e 13.  Ha scritto felicemente A. Di Grado, in Leonardo Sciascia, cit., pp. 10-11: «la stessa letteratura […] si configura come un mutevole teatro di finzioni e messinscena di benefiche imposture. Benefiche e logiche: ché la razionalità è, antihegelianamente, solo dell’irreale, dell’immaginario; e certi geometrici affaires di Sciascia accadono – è lui stesso a dirlo – “in letteratura”, e cioè nell’astratta conseguenzialità di un ordine puramente intellettuale».

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1912 + 1, se solo volessimo forzare i confini necessariamente stretti, quasi sullo scatto di folgoranti accensioni della fantasia, che la «cronachetta», a rigore, deve avere. Cruciverba raccoglie i saggi scritti da Sciascia negli anni Settanta fino ai primissimi Ottanta, con l’eccezione, come sappiamo, di Un cruciverba su Carlo Eduardo (1954), Letteratura e mafia (1964) e L’ordine delle somiglianze (1967). Se la volessimo confrontare con la raccolta del decennio precedente, La corda pazza, interamente dedicata a scrittori e cose di Sicilia, ci accorgeremmo subito, quanto alla materia, che tutto ciò che alla passione per l’isola e i suoi artisti non sia riconducibile, va esattamente a coincidere con l’allestimento di un personalissimo altarino della memoria letteraria, su cui è stato acceso il lume di una passione, di una frequentazione diuturna e cordiale: e sono gli stessi nomi, perlopiù, che abbiamo incontrato nei primi anni della formazione. Ecco, allora, tra i saggi non siciliani: Il secolo educatore, di cui sarebbe «chiave» (II, 1015) Diderot, piuttosto che Voltaire, a fronte di due scrittori non amati, che Sciascia considera nel Settecento, per l’inattualità con cui lo vissero, come “postumi” (II, 1013); L’utopia di Casanova e Casanova o la dissipazione, a cui abbiamo già accennato; Goethe e Manzoni e Storia della colonna infame, opera nella quale lo scrittore ravvisava lo scrutinio di un passato di errori e mali «mai passato» (II, 1073); In margine a Stendhal, elogio della velocità e la leggerezza, della mistificazione, quale forma di superiore verità, di cui la letteratura è capace; Appunto su «Bouvard e Pécuchet», a leggere Flaubert come autore che massimamente, supremamente, della stupidità scrisse14; Savinio, ove l’autore della Nuova Enciclopedia, viene letto sotto il segno di Stendhal, e nell’elogio del «dilettantismo», come «rifiuto della noia» (II, 1177), e della «superficialità», quale attitu14.  Per quanto concerne questo tema nell’opera di Sciascia, cfr. G. Marrone, Stupidità e scrittura, Flaccovio, Palermo 1990, pp. 89-97.

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dine a far affiorare nella trasparente superficie dell’intelligenza, tutto ciò che è oscuro e profondo (II, 1178). Tra i saggi di argomento isolano ci piace ricordare: Il mito del Vespro, quale recupero di quel gusto per la contro-scrittura storica, puntigliosa e demistificante, di cui abbiamo esempio sin dai tempi di Pirandello e la Sicilia; Verga e la memoria, Note pirandelliane, Borgese, interventi di grande importanza, su cui torneremo, in cui Sciascia riconsidera e riformula il rapporto con tre fondamentali punti di riferimento della propria memoria letteraria; Villa Palagonia e Houel in Sicilia, Le acque della Sicilia, Palermo felicissima, I paesi dell’Etna e Caltagirone, tutti scritti ove il sentimento dei luoghi si accompagna a una meditazione etica e civile, a una fantasia storica, ma sempre sull’onda di un’intermittenza della memoria letteraria; Guttuso e, soprattutto, L’ignoto marinaio dove, a proposito di Consolo, in occasione dell’uscita del Sorriso dell’ignoto marinaio, si formulano giudizi, si indicano fonti e ascendenze, si intravedono sviluppi, che ci sembrano, ora, quasi consustanziali allo scrittore che stimiamo e amiamo. Abbiamo accennato alle differenze tra Cruciverba e La corda pazza, quanto alla materia. Perché se ci spostassimo allo stile, ai modelli e ai modi della scrittura, alla forma dentro cui i saggi trascorrono, il discorso sarebbe diverso nei risultati, più complesso: e ne possiamo dare facile dimostrazione. Del bellissimo saggio Il volto sulla maschera (1980), dedicato a Mosjoukine, l’attore russo che interpretò, nei film di L’Herbier, Casanova e Mattia Pascal, esiste, infatti, un’antica anticipazione, pubblicata su «L’Ora» del 16 gennaio 1965. Dall’articolo ricaviamo questo passo: Mosjoukine passava […] da Casanova a Mattia Pascal: ed io, che l’ho visto da ragazzo, prima di sapere chi fosse Casanova e di aver letto il libro di Pirandello, lo ricordo come Casanova e come Mattia Pascal, senza che l’immagine dell’uno abbia interferenza su quella dell’altro. Non mi capita, insomma, […]

301 di vedere in Mattia Pascal l’ombra di Casanova e in Casanova l’ombra di Mattia Pascal. (Q., 28)

Quindici anni dopo, il rapporto tra le due figure, attraverso la mediazione dell’attore, e come in un’esperienza medianica, è affrontato in termini opposti. Sciascia sta riflettendo su un’affinità tra Casanova e Mattia Pascal che non può essere dovuta al solo fatto di averli visti entrambi impersonati da Mosjoukine: non è possibile che attraverso Mosjoukine, per il tramite della sua immagine, per la mediazione del suo corpo, del suo volto, delle sue espressioni, si sia realizzato un incontro predestinato e necessario tra due personaggi apparentemente lontani e diversi ma segretamente e sottilmente identici? Che attraverso Mosjoukine, […] Casanova e Mattia Pascal scoprano – facciano cioè a noi scoprire – di essere, un po’ come i due teologi nemici di Borges, la stessa persona? Una stessa persona cui si può dare un nome anche più universale di quello delle due che la compongono. Il nome di don Giovanni (II, 1150).

Che cosa è successo in questo lasso di tempo, al punto da causare, nel passaggio dall’uno all’altro scritto, un tale rovesciamento d’impostazione? La risposta ci sembra semplice: sono cambiati nell’opera di Sciascia i paradigmi estetici. Una volta concepita la letteratura, l’arte nel suo complesso, come «sistema di oggetti eterni», attraverso cui la verità, le verità, vengono a risplendere sulle umane vicissitudini, non sorprende che alcuni splendidi fotogrammi di L’Herbier vengano a fornire la scintilla memoriale grazie a cui una rivelazione inaspettata e improvvisa si accende. Cruciverba non è avara di tali epifanie: come a rappresentare un campionario di saggi in cui trova conferma e verifica quella strategia ermeneutica e critica che, lo abbiamo visto, viene teorizzata in Nero su nero e nella Sicilia come metafora. Ma non si tratta solo di mera esemplificazione. Ci sono degli scritti, infatti, che sembrano spingersi ancora più in là, quasi a fornire

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nel giro di una formula, di una definizione, come il correlativo metaforico di questa strategia, la felicissima traduzione e chiarificazione di questa sorta di processo alchemico che vede impegnato lo Sciascia critico e saggista. Uno di questi è L’ordine delle somiglianze, l’intenso e precoce articolo dedicato ad Antonello da Messina, il cui titolo, non a caso, abbiamo scelto per questo capitolo. Qui, a un certo punto, si legge: Non c’è ordine senza le somiglianze, non c’è conoscenza, non c’è giudizio. I ritratti di Antonello «somigliano»; sono l’idea stessa, l’archè, della somiglianza. […] A chi somiglia l’ignoto del Museo Mandralisca? Al mafioso della campagna e a quello dei quartieri alti, al deputato che siede sui banchi della destra e a quello della sinistra, al contadino e al principe del foro; somiglia a chi scrive questa nota (ci è stato detto); e certamente somiglia ad Antonello […]. «Somiglia», ecco tutto. (II, 989-990)

Citiamo questo passo non per dire che siamo di nuovo a Borgese: «oggetto dell’arte è il mondo delle somiglianze»15. Ma per confrontarlo con quest’altro che si trova in Nero su nero: «la nostra giornata è fatta, come tutta la vita, di misteriose rispondenze, di sottili collegamenti» (II, 790). Eccoci, dunque, al punto: la vita, la realtà, sarebbe consegnata alla più completa oscurità, avvolta dalle tenebre, se l’arte, attraverso i suoi archetipi di verità, come nel caso dei ritratti di Antonello, non ne declinasse rispondenze e collegamenti, non ne ordinasse eventi e sentimenti entro una razionale gerarchia di somiglianze, entro un sistema teleologico, all’incrocio di profezia e destino16. 15.  G.A. Borgese, Poetica dell’unità, cit., p. 128. 16.  L’«ordine delle somiglianze» non è il solo correlativo metaforico che si potrebbe indicare per la strategia ermeneutica di Sciascia. Antonio Di Grado, nel suo intenso Lo scrittore e il saggista, in Z. Pecoraro - E. Scrivano (a cura di), Omaggio a Leonardo Sciascia, cit., pp. 13-24: p. 14, ha preferito parlare, aristotelicamente, di «entelechia», come «ricongiungimento […] d’immagine e destino, di finzione e di senso, di maschera e volto che la

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Dell’argomento dei diversi saggi abbiamo più volte detto e diremo ancora. Vogliamo solo aggiungere qualche nota su Luciano e le fedi che apre la raccolta, non senza segnalare un certo sgomento esistenziale in articoli come La medicalizzazione della vita, ove, sulla scorta degli Essais sur l’histoire de la mort en Occident di Ariès, si intrama una riflessione sull’atteggiamento dell’uomo occidentale di fronte alla morte, o come D’anima vuoti, in cui non si nasconde, circa le catacombe dei Cappuccini di Palermo, un religioso disagio di fronte a quello che viene definito il culto della morte «più ateo che si conosca» (II, 1089). Ma veniamo al saggio, il cui oggetto è il rapporto tra Luciano di Samosata e il cristianesimo. Preoccupazione di Sciascia è quella di mostrare che la posizione lucianea nei confronti della nuova religione non fu di sarcasmo, come vuole Marcel Caster nel libro Lucien et la pensée religieuse de son temps, ma di estremo rispetto. Per dire solo che Luciano intuì con grande tempestività, in «uno di quei momenti di libertà che raramente intercorrono nella storia umana» (II, 974), e nell’apprezzamento di alcune grandi novità morali e dottrinarie, quale fosse l’anello che del cristianesimo, sin da le sue origini, sembrava non tenere: i cristiani non si preoccupano che la scelta della povertà, la pratica della comunione dei beni, sia da ciascuno e da tutti rigorosamente provata, e cioè testimoniata, vissuta. Ci si può dire cristiani senza effettualmente esserlo: e dunque quella legge, quella sapienza, in sé mirabili, altro non sono che utopia; un’utopia foriera di un nuovo (e antico) modo di sfruttamento dei molti da parte dei pochi, degli ingenui da parte dei furbi. Questa breve frase – «credenza che essi ammettono senza preoccuparsi che sia rigorosamente testimoniata» – cade come un’epigrafe tombale sulla speranza cristiana. (II, 971) scrittura […] opera cristallizzando per un momento e come per caso in una figura il massimo dell’esemplarità, della definitività, dell’assolutezza», ma anche, stendhalianamente, di «cristallizzazione», nei termini di De l’Amour.

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Queste considerazioni sembrano il rovescio di Todo modo e L’affaire Moro, ove si assiste all’apoteosi di un cattolicesimo cinico e ateo che sulle speranze cristiane, appunto, ha deposto una pietra tombale. C’è tutto lo sgomento, il lucido sgomento di chi, nella pratica mondana del cattolicesimo, ha visto offeso il suo cristianesimo nativo e naturale, pur se privo di referente divino. Fernando Gioviale scrive che qui Sciascia trova in Luciano una «sapiente guida alla satira morale del futuro»17, intendendo il futuro di Voltaire. Le cose stanno così? Certo, questo Luciano che parla del cristianesimo «con maggiore rispetto di Voltaire» (II, 972), per di più letto da Sciascia alla luce di Savinio, da Voltaire così lontano, ci fa molto pensare. Nel senso che sembra porsi come guida alla futura satira morale di Sciascia, ma oltre Voltaire. Contro Voltaire? Nel 1981 Einaudi pubblica Il teatro della memoria, ispirato al caso dello smemorato di Collegno che appassionò e fece discutere tutta l’Italia tra il 1927 e il 1931, quando la cassazione pronunciò il verdetto definitivo che ne stabiliva l’identità. È il 10 marzo 1926, quando nel cimitero ebraico di Torino viene sorpreso a rubare un tale che, totalmente dimentico della propria identità, è ricoverato nel manicomio di Collegno. Dopo la pubblicazione della foto sulla «Domenica del Corriere», viene riconosciuto dalla moglie e alcuni amici come il prof. Giulio Canella, dato per disperso in Macedonia durante la guerra. Le indagini della polizia, suffragate dai vari gradi di giudizio, riconoscono, invece, nello smemorato il tipografo e truffatore Mario Bruneri. A credere all’identità del redivivo Canella, senza il minimo dubbio, al di là di ogni evidenza processuale, e contro le stesse risultanze delle impronte digitali, resta solo la moglie che, per salvare il marito dal carcere, emigra con lui in Brasile, da dove, anche per i due figli nati dalla ritrovata unione, continuerà la sua battaglia. Nella Nota finale, Sciascia 17.  F. Gioviale, Sciascia, cit., p. 76.

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avverte i lettori di aver scritto il libro come «un puro divertimento, una vera vacanza», come a controparte di «un’attività per nulla divertente» che lo impegna da due anni (II, 962): chiaro il riferimento allo snervante lavoro parlamentare per la Commissione Moro. Più interessante l’osservazione che, se il titolo rimanda all’arte della memoria di trattatisti come Giulio Camillo, Giordano Bruno e Robert Fludd, colui che di questi trattati si provi a riutilizzare le formule finisca per assomigliare al borghesiano Pierre Menard, autore del «Chisciotte», trovandosi «nell’impossibilità di parlare della memoria senza tener conto di Proust e, per altro verso, di Pirandello» (II, 962). Eccoci al punto: la memoria e ogni eventuale discorso in cui essa ne sia, insieme, soggetto e oggetto. Il libro, infatti, assume il caso come mero pretesto e verifica per alcune riflessioni sulla memoria come teatro, sul teatro come memoria, sulla natura e possibilità del teatro18, ma, soprattutto, sulla memoria reale e artificiale degli uomini, sul rapporto che le due forme, reale e artificiale, intrattengono con la verità: «Constat igitur artificiosa memoria ex locis et imaginibus». Memoria reale per la signora, artificiale per lo smemorato. O per entrambi reale? O per entrambi artificiale? Grande e insondabile è il mistero della memoria. (II, 915)

Sciascia non ha dubbi nel preferire, quanto a possibilità di attingere la verità, la memoria artificiale, quando si dota di una sua rigorosa sintassi ordinatrice, quando, cioè, va a coincidere con la letteratura. Si veda quel che scrive a proposito del disguido burocratico di cui diviene oggetto lo smemorato nella questura di Torino, con l’apertura di due fascicoli a suo carico, uno relativo al furto di cui fu protagonista, l’altro al ricovero in manicomio:

18.  Di questo avviso, S. Addamo, La teatralità in Leonardo Sciascia (1986), in Id., Oltre le figure, Sellerio, Palermo 1990, p. 113.

306 Prassi o errore che fosse della memorizzazione burocratica, quei due distinti fascicoli ponevano il caso sotto il segno dell’ambiguità, dell’ambivalenza, dello sdoppiamento o dimezzamento; e lo destinavano a prender nome – e poi forma – dallo scrittore che nella realtà di quegli anni, nella vita di quegli anni, aveva inventato […] casi a questo rassomiglianti o consimili. Casi pirandelliani. Ed ecco già pirandelliana, già destinata a Pirandello, la vicenda che fu detta dello smemorato di Collegno. (II, 907)

Alcuni dati sono obbligatori: il processo, dopo annose indagini, si tiene dal 22 ottobre al 5 novembre 1928; Pirandello rappresenta per la prima volta la commedia Come tu mi vuoi, che dal caso sembra trarre spunto, il 18 febbraio 1930; la sentenza definitiva viene emessa il 17 dicembre del 1931. Ma Sciascia non ha dubbi: «il “responso” veramente “alto” era venuto l’anno prima: da Luigi Pirandello» (II, 953). E si capisce perché: il tribunale aveva risolto il caso, attestando l’identità al di là di ogni dubbio, in ordine al principio di realtà, ma solo l’opera pirandelliana lo risolve in ordine al principio di verità, illuminando per intero il dramma della signora Canella che nello smemorato non poteva non vedere il marito, in quanto voleva riconoscerlo. Il caso, insomma, va interpretato e risolto dentro «una perfetta circolarità pirandelliana»: «da un pirandellismo di natura al Come tu mi vuoi di Pirandello» (II, 960). Come a dire che un fatto oscuro e complicato ma certo, dalla realtà trapassando nella letteratura, dalla letteratura alla realtà più vero venga restituito. E ciò, a fare del Teatro della memoria un libro veramente emblematico di quella strategia ermeneutica, di quella concezione estetico-letteraria, che ha avuto fondazione in Nero su nero, e troverà perfetta esecuzione nelle Cronachette19.

19.  Ha ragione S. Addamo, La teatralità in Leonardo Sciascia, cit., pp. 116117, quando nota che quest’opera ci porta «nel cuore stesso del sistema di

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Nel 1982 appariva per Sellerio La sentenza memorabile, dedicato, sulla scorta di Montaigne, a un caso simile a quello Bruneri-Canella, ma avvenuto nel XVI secolo. Nel risvolto di copertina, a firma di Sciascia, si poteva leggere un’interessante dichiarazione di poetica: Mi piace sempre più scrivere cose come questa; e sempre più mi piace pubblicare piccoli libri come questo. Forse è che ad un certo punto della vita si vuole essere in pochi. Mi avviene persino di credere di aver inventato un genere letterario: illusione che accresce il piacere di praticarlo. Ma so anche che non è vero. Il prototipo, altissimo, resta La storia della Colonna infame: ci sono poi le «inquisiciones» di Borges e – per me – le inquisizioni filologiche e critiche di Salvatore Battaglia, indimenticabile maestro ed amico.

E, con non meno profitto, si legge nel testo: Di divagazione in divagazione – e nulla è più delizioso, per uno scrittore, del divagare, dell’estravagare: lo scrivere sembra diventare pura, trasparente esistenza. (III, 1217)

Le Cronachette non erano state ancora pubblicate, forse nemmeno pensate. Appariranno, infatti, come simbolico numero 100 della collana «La memoria» di Sellerio nel 1985. Ma queste dense note ne precisano già i confini di «genere letterario», perfettamente disegnato grazie all’indicazione di alcune fonti. Che Sciascia abbia prima operato nella convinzione di provarsi in un nuovo genere, e solo dopo abbia pensato di inscrivere questo genere all’anagrafe della «cronachetta», ci pare confermato da un fatto: uno degli scritti, che andrà poi a comporre il volume del 1985, aveva già trovato autonoma pubblicazione. Pensiamo alla Storia della povera Rosetta, data alle stampe da

Sciascia», a dimostrare che «occulta non è l’arte, bensì la realtà», e che lo scrittore scriva «meno per chiarire, e molto più per restituire la tragica coscienza dell’oscurità che ci concerne e ci avvolge».

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Sciardelli nel 1983. Per non dire di Eufrosina (1973), vera e propria «cronachetta» ante litteram, nella misura e nelle modalità di composizione, come già ci è capitato di osservare. Non resta, allora, che completarne l’elenco: Don Alonso Giron, Don Mariano Crescimanno, Il principe Pietro, Mata Hari a Palermo, L’uomo dal passamontagna, L’inesistente Borges. A cui si devono aggiungere Manzoni e il linciaggio del Prima e Garibaldi e il padre Buttà, che furono inseriti nell’edizione francese del libro (1986). Abbiamo visto quali siano i modelli: l’implacabile investigazione storica e giudiziaria del Manzoni, le fantastiche inquisizioni di Borges, i saggi di vasta cultura e stringente argomentazione di Battaglia. Ma per Sciascia i nomi, nonché designare le cose, finiscono per diventare le cose stesse. Non può essere casuale, nell’assoluta causalità delle sue predilezioni lessicali, il termine scelto, stante il fatto che a praticare la «cronachetta», in qualche modo presupponendola come «genere letterario», siano stati tre scrittori a Sciascia assai cari: Tommaseo, Savarese e Brancati. La Cronichetta del ’66, pubblicata solo nei 1939 per Einaudi da Raffaele Ciampini, è un testo in cui Tommaseo, dopo aver partecipato al Risorgimento, non senza lividi accenti di angusto regionalismo, guarda con sospetto al processo d’unificazione nazionale sotto la stella dei Savoia. Siamo lontani dalla temperie delle Cronachette, ma non poteva non piacere a Sciascia il gusto per il fatto minimo dentro la storia più grande, la propensione alla divagazione apparentemente senza ordine, magari affidata alle intermittenze della memoria. Della Cronachetta siciliana di Savarese abbiamo già detto nel I capitolo, per dire come, pur avendo stesso argomento, si differenziasse radicalmente dal racconto dello scrittore esordiente. Ma ora, nell’incrudire del suo pessimismo, non poteva dispiacere a Sciascia il passo meditativo di questo libretto, la costante presenza del pensiero della morte. Come dimenticare, infine, quelle Cronachette del ’46 di Brancati, pubblicate

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da «Il Tempo» in quello stesso anno, ristampate nel 1973 in Il borghese e l’immensità, in cui il racconto divagante e arguto si accende sempre di moralità e risentimenti polemici? Se ai nomi citati, aggiungiamo quelli di Stendhal e Savinio, l’elenco delle fonti può dirsi più o meno completo. Dunque: la scrittura come raddoppiamento della gioia di vivere, le erratiche peregrinazioni nelle regioni della storia minima sullo schermo della grande, l’ossessiva attenzione alle nequizie inquisitoriali della macchina giudiziaria, la pietà per le vittime anonime e dimenticate, la modulazione di una larga erudizione, la risentita e scettica riflessione esistenziale, lo spunto polemico e morale. Sono tutti elementi assemblati nella costante frequentazione di questi auctores. Ma dentro una peculiarissima nozione dell’evento storico, dell’avventura ermeneutica che tale evento sollecita. Si legge significativamente in Mata Hari a Palermo: I piccoli fatti del passato, quelli che i cronisti riferiscono con imprecisione o reticenza e che gli storici trascurano, a volte aprono nel mio tempo, nelle mie giornate, qualcosa di simile alla vacanza. Diventano cioè riposo e divertimento […]. L’imprecisione o la reticenza con cui il fatto viene riferito è, naturalmente, la condizione indispensabile perché il divertimento scatti. Che è poi il gusto della ricerca, del far combaciare i dati o del metterli in contraddizione, del fare ipotesi, del raggiungere una verità o dell’istituire un mistero là dove o la mancanza della verità non era un mistero o la presenza di essa non era misteriosa. Un giuoco cui spesso si accompagna, e lo eccita, un senso di puntiglio; ma qualche volta interviene anche una sorta di pietà. (III, 150)

Lasciando per ora cadere questa nota di pietà che suggella il passo, su cui torneremo, ci pare evidente che lo scrittore cerchi, e sistematicamente trovi sul solido terreno dei fatti, la possibile crepa, l’eventuale smagliatura, quella che gli consenta magari di scoprire che dentro una pacifica verità si celi invece una menzogna, che dietro un’univoca concatenazione d’eventi

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si nasconda un mistero. La realtà, sempre sul punto di sfaldarsi, va dunque messa sotto accusa, diffidata, se non addirittura abiurata. Si potrebbe pure arrivare a dire, con Renard, che cessi d’esistere, tornando a imporsi solo grazie ai libri20. Quel che conta, infatti, è il filo fuori posto di quella maglia corrotta. Basta tirarlo, per aprire un tempo di felice vacanza mentale, per dipanare un divertimento che è sempre diversione, digressione, divagazione, conversione di un fatto in un’ipotesi, di un’ipotesi in una verità, di una verità in un dubbio. Ha ragione Di Grado, stia attento il lettore nel ben intendere questa svagatezza di Sciascia: la divagazione, il divertimento, sembrano ormai il percorso conoscitivo più adeguato per «ricalcare […] le forme aleatorie d’una sempre più evanescente e ineffabile verità». Come a dire che, per raggiungerla, sia molto più proficuo aggirarla, prenderla alle spalle, che non incamminarsi per i «rettilinei tracciati delle strade maestre»21. Inutile dire che il divertimento, la divagazione, si vanno sempre a inscrivere nel cerchio di una citazione, nel giro di una pagina tratta dalla letteratura universale. Si è osservato che le diverse «cronachette» possono leggersi come «un’ideale galleria di quadri à la manière de», quasi in una sorta di auto-­riscrittura e nella maliziosa esibizione dei modelli22. Vero, purché si tenga presente che in questa prosa la realtà viene come calamitata e centrifugata dentro un lacerto della memoria letteraria universale, per ritrovare un nuovo e inedito significato. Quasi che, sulla falsariga di quanto avveniva nel Teatro della memoria, e sotto la stella di una citazione, si realizzasse in questi racconti una sorta di «invenzione» del vero, nel duplice senso di immaginare e invenire, di anticipazione fantastica della verità, sub 20.  Ph. Renard, Quando Sciascia ritrova Borges (1984), in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 357-359. 21.  A. Di Grado, Sciascia e il suo «doppio», cit., p. 115. 22.  Ivi, p. 124.

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specie litterarum, e di suo ritrovamento. Un esito che ci sembra ben definito nei termini di un «ontologismo estetico», per stare alla felice formula di Vincenzo Paladino23. In questa prospettiva, le Cronachette, il genere della «cronachetta», si caratterizzano come congegni in cui la realtà, assunta nel dominio della scrittura, sembra porsi, per così dire, in essere. Quasi che la precipua costellazione di testi letterari chiamata in causa le generasse, di volta in volta, dal suo stesso seno. Ne diamo rapida esemplificazione. Nella Sentenza memorabile, tanto per cominciare, non è difficile scoprire che il processo del 1560 preso in esame viene interpretato come suggestiva chiosa a un’affermazione di Montaigne che Sciascia trova «del più sublime laicismo»: «Dopotutto, è un mettere le proprie congetture a ben alto prezzo, il volere, per esse, fare arrostire vivo un uomo» (III, 1208). In Don Mariano Crescimanno si riesce a illuminare il rapporto del fanatico inquisitore, il marchese di Villabianca, con l’eretico, il benedettino don Mariano, ricorrendo a I teologi di Borges, dove Aureliano e Giovanni di Pannonia, l’ortodosso e l’eretico che si erano combattuti e odiati in vita, finiscono per riconoscersi in morte, nell’imperscrutabile mente di Dio, come la stessa persona. Nel racconto Il principe Pietro, il Bonaparte che a Canino fu autore di un omicidio, si muove dalla Certosa di Parma per arrivare a sciogliere «un piccolo mistero»: «che, tra i personaggi di Stendhal, Fabrizio del Dongo è dei meno intelligenti. Appunto – abbiamo visto – come il suo modello» (III, 135). In Il capitolo XIII. Manzoni e il linciaggio del Prina, alcune pagine dei Promessi sposi diventano la chiave di volta per ricostruire, in tutte le sue ombre, un episodio della vita del Manzoni. Nel testo La povera Rosetta, addirittura, abbiamo la spiegazione di come il modello letterario, per fortuite coinci23.  V. Paladino, L’ultimo Sciascia. Il senso del limite, in «Critica letteraria», XVIII, n. 69, 1990, 719-731: p. 729.

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denze, incroci il fatto di cronaca e lo chiarifichi. E il personaggio finisca per trovare il suo autore: Ma a che questo tentativo di ricostruire la storia della Rosetta? Forse soltanto perché un amico siciliano di Milano, che a questa storia si è appassionato, mi ha offerto al momento giusto tutti gli elementi che era riuscito a raccogliere. Al momento giusto: e cioè mentre rileggevo, per ripubblicarla, la Storia della Colonna Infame di Alessandro Manzoni. (III, 149)

Ma il punto di convergenza di tutte le Cronachette, in cui Sciascia sembra voler scoprire le carte, fino in fondo, il punto in cui meglio si palesa quella nuova concezione estetico-letteraria che stiamo inseguendo sin dagli Atti relativi, è la bellissima divagazione L’inesistente Borges. Una divagazione tramata a margine della notizia che Borges non esiste, che «è stato interamente creato da un gruppo di scrittori tra cui Leopoldo Marechal (morto), Adolfo Bioy Casares e Manuel Mujica Lainez», i quali, per il loro scopo, «hanno assunto a loro servizio un attore di secondo piano, Aquiles Scatamacchia» (III, 160). Una notizia che, assunta nell’ordine delle finzioni borghesiane, viene come ad assumere, rispetto alle cose scritte e dette da Borges, «valore di prova» (III, 162). Ma andiamo alle importanti affermazioni di Sciascia: Qualche anno fa ho definito Borges un teologo ateo. È da aggiungere che è un teologo che ha fatto confluire la teologia nell’estetica, che nel problema estetico ha assorbito e consumato il problema teologico, che ha fatto diventare il «discorso su Dio» un «discorso sulla letteratura». Non Dio ha creato il mondo, ma sono i libri che lo creano. E la creazione è in atto: in magma, in caos. Tutti i libri vanno verso «il» libro: l’unico, l’assoluto. Intanto, i libri sono come dei ribollenti «accidenti» rispetto alla «sostanza» in cui confluiranno e che sarà il libro («substantia sive deus»: spinozianamente). (III, 163)

Affermazioni che possiamo senz’altro intendere come confessione, se è vero che, in un passo ove si tocca il punto di mas-

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simo avvicinamento alle posizioni di certo decostruzionismo contemporaneo, Sciascia pare identificarsi completamente con lo scrittore argentino: Un libro non è che la somma dei punti di vista sul libro, delle interpretazioni. La somma dei libri, comprensiva di quei punti di vista, di quelle interpretazioni, sarà il libro. E dunque che importa che un uomo di nome Jorge Luis Borges ne abbia scritti dieci o venti o nessuno, se peraltro non si sa che cosa veramente abbia scritto? E così sia di noi. (III, 163)

Come si vede, si tratta di passi in cui si compendiano tutte le definizioni che abbiamo avanzato nel corso di questo libro per descrivere e chiarire la visione estetica che Sciascia stava via via concependo: letteratura come cosmo autonomo e ordinato di valori entro cui si ricompone il caos della vita, come sistema di oggetti eternamente splendenti nella luce della verità, come congegno in cui si allestisce l’«invenzione» del vero. Ancora: neoplatonismo letterario, ontologismo estetico. E, ora, si potrebbe aggiungere: teologia estetica, neospinozismo. Tutti termini, che in misura più o meno metaforica, stanno a indicare la precisa svolta in funzione antirealistica che Sciascia si trova, da un certo punto in poi, e non senza complicazione, a operare. Non ci pare sia necessario aggiungere altro. Un’ultima considerazione. Abbiamo accennato a quell’inedito elemento di pietà che chiude il passo di Mata Hari a Palermo citato. E ci viene da pensare che Borges, proprio nell’opera in cui pare totale l’adesione di Sciascia, riveli la sua natura di scrittore «dello schermo», come ha notato Di Grado, a dissimulare «altre e più compromettenti passioni»24, a nascondere ben più segrete identificazioni. Del resto, nel corso di questo libro, abbiamo visto come l’idea di letteratura di Sciascia si

24.  A. Di Grado, Lo scrittore e il saggista, cit., p. 14.

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sia formata in quell’orbita estetica disegnata da Cecchi, Trompeo, Savinio e Borgese, che poi l’assidua frequentazione con lo scrittore argentino è venuta come a confermare, inverare e risollecitare. Che non avesse ragione Alberto Cavallari quando, già a proposito di Dalle parti degli infedeli, si chiedeva se non fosse il caso di ridimensionare la troppa esibita matrice borghesiana? Per il critico, infatti, sembrava giunto il momento di riconoscere che, dietro la «lunga inchiesta sul male come “mafia metafisica”», si profilava la vera vocazione di Sciascia: quella di «scrittore morale e cristiano»25. In effetti, a riguardare le Cronachette nel loro insieme, non è difficile riscontrare un trattenuto sentimento d’orrore e di pena, sempre insinuantesi nella divagazione, nella diversione, nel divertimento, come un brivido sul punto di raggelare la scrittura. Pensiamo a Don Alonso Giron, prima «cronachetta», che si apre con una sconcertante contemplazione della morte, quella di un corpo senza testa ritrovato nei giardini della Favara nel 1613, e si chiude con l’atroce esecuzione e il «cupo, solenne funerale» (III, 115) del protagonista. Pensiamo, soprattutto, a L’uomo dal passamontagna, colui che, col volto nascosto, passando tra i prigionieri ammassati nello stadio di Santiago del Cile, soltanto col gesto della mano, sceglieva gli uomini da destinare alla tortura e alla morte. Un racconto che, significativamente, si conclude con queste parole: si è voluto, con l’uomo dal passamontagna, creare una indelebile, ossessiva immagine del terrore. Il terrore della delazione senza volto, del tradimento senza nome. Si è voluto deliberatamente e con macabra sapienza evocare il fantasma dell’Inquisizione, di ogni inquisizione, dell’eterna e sempre più raffinata inquisizione. (III, 160)

25.  A. Cavallari, Sciascia all’incrocio con Manzoni, in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 243-247: p. 247.

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Come si vede bene, la borghesiana peregrinazione dentro la storia della letteratura universale, la digressione più svagata e aerea, lo scetticismo radicale ed estremo, la sconfidenza nella verità, non riescono a distogliere lo scrittore da una costante ossessione morale, che si traduce in un ostinato e puntiglioso non recedemus di fronte agli eterni crimini del Potere, nell’irrazionale sentimento d’inaccettabilità del male. Per questo, se proprio si vuole rintracciare in queste Cronachette una confessione, siamo inclini a ravvisarla in questo passo dedicato a Manzoni: Ricostruendo l’eccidio del Prina […], Luigi Ceria forse è stato il primo a collegare l’11 novembre 1628, qual nei capitoli XII e XIII del romanzo, al 20 aprile 1814: e cioè a quel che Manzoni vide e sentì in quella tremenda giornata e poi […] rivisse con sempre più netta e minuziosa analisi, commiserando e commiserandosi con quella misura, con quella chiarezza e serenità, con quella capacità di dire tutto abbreviando al massimo, che sarebbero da dire classiche: qualità sue peculiari, per cui le passioni più violente e le confessioni più ardue stanno nelle sue pagine come segrete, aspettando un lettore che a tali qualità sia attento, confidente, affine. (III, 935)

Capacità di dire tutto quel che c’è da dire abbreviando, concentrando al massimo. Chiarezza e serenità. Gli «happy few», quella piccola consorteria di venticinque lettori in grado di andare al di là del testo, di leggerne il sotto-testo tramato di «ardue confessioni», attraversato da «violente passioni». Non sono state queste tra le più profonde e tenaci aspirazioni di Leonardo Sciascia? Nel 1982, sempre per Sellerio, era apparso Kermesse, una silloge di modi di dire in dialetto raccolti a Racalmuto e nel suo circondario, stampati in ordine alfabetico, nella forma di un dizionarietto non immemore degli amati Tommaseo e Battaglia. Due anni dopo, questa volta per i tipi di Einaudi, l’esile libretto veniva ampliato e rifuso in Occhio di capra, che pren-

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de il titolo dalla voce più antica, quella registrata per prima, uocchiu di crapa, a dire «del sole quando, al tramonto, è tagliato obliquamente da strisce di nuvole», per i contadini sicuro «indizio di pioggia» (III, 93). A rivelarne la natura di opera in fieri e incompiuta, altre voci, fino a quel momento inedite, sono state pubblicate nel 1991 da Ambroise, nell’Appendice I al III volume delle Opere. Una Nota che apre Kermesse, poi sostituita dalla Notizia dell’edizione Einaudi, ben ci dice della natura e della genesi di questo lavoro: Intitolo questo libretto Kermesse per collegarlo, anche se vagamente, a quell’altro di venticinque anni fa, Le parrocchie di Regalpetra: poiché «kermesse» è, nei Paesi Bassi e nel settentrione della Francia, la festa della parrocchia. La parrocchia è quella di Racalmuto, in provincia di Agrigento: dove sono nato e dove effettualmente vivo. La festa che si celebra in queste mie note – scritte tra il 1975 e l’altroieri – è quella della memoria.26

Siamo, come si vede, alla chiusura di un cerchio. Un titolo che ricalca perfettamente quello del racconto pubblicato nel 1949 su «Galleria». Un preciso richiamo alle Parrocchie. Un ritorno a una dimensione di memoria soggettiva, dopo averla abbandonata proprio nelle Parrocchie, per risolverla interamente in una più vasta e articolata autobiografia della nazione. Fatti che, per altro, si inverano in precise scelte dello Sciascia, per così dire, editore, o comunque ispiratore delle scelte della casa editrice Sellerio: la pubblicazione, nel volume successivo a Kermesse, di Museo d’ombre di Gesualdo Bufalino e, un anno dopo, dell’Incominciamento di Giuseppe Bonaviri: libri entrambi dedicati a memorie e fantasie relative al luogo natio. Inutile dire, a conferma dell’indicazione di Sciascia, che nel libro si ritrovi qualcuno degli aneddoti che ha nutrito Le par-

26.  L. Sciascia, Kermesse, Sellerio, Palermo 1982, p. 11.

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rocchie. Ci limitiamo a ricordare quelli raccontati nelle voci Ci sputassi vossia e Nun mi futtinu: dintra ci su’ li cavaddri. Nel primo si narra la storia di un certo Salvatore Provenzano che la pronunziò quando gli fu consegnata la scheda, per esprimere consenso o dissenso al fascismo, con sopra già stampato il sì. La seconda rammenta invece l’ostinazione di Camillo Picataggi che non volle mai arrendersi all’evidenza che una locomotiva a vapore potesse muovere le carrozze di un treno, con la motivazione che dentro, ben nascosti, vi fossero i cavalli. Ma non mancano passi che ci rimandano a opere dell’apprendistato come le Favole, quale quello che leggiamo in Lu sceccu di Silvestru: «L’asino di Silvestro, mentre tendeva il collo e levava e storceva la testa nel raglio, era per me bambino immagine e grido di un dolore senza nome» (III, 63). Con l’avvertimento che Occhio di capra si inizia nel nome del­ l’eretico racalmutese Diego La Matina, protagonista di Morte dell’inquisitore, lasciamo volentieri al lettore il piacere di ritrovare in queste pagine, ancora viva sotto le ceneri di un privatissimo focolare, qualche scintilla della memoria, «che con gli anni si fa lunga ed aguzza a cogliere le cose lontane», magari accesasi nel ricordo del nonno venuto a Racalmuto a fare «il mestiere di conciatore di pelli» (III, 68), o nella rievocazione di «lu zi Nardu» e «la ze Cuncittina» (III, 98). Così come lo invitiamo a ricostruire, sulla scorta di questa fantasia lessicografica e lessico-logica, il modo di vivere e sentire di questi conterranei, nei totem e nei tabù, nei neri pessimismi e nelle rosse ilarità, nel costante sentimento e presentimento della morte, che abbiamo più volte esaminato in questo libro. A noi premono altre constatazioni, cominciando col notare che il nome di Pirandello, sull’onda di molte citazioni, si solleva su tutti di molte spanne, nella convinzione che «non c’è fatto pirandelliano che in questa parte della Sicilia, prima o dopo Pirandello, non sia realmente accaduto» (III, 74). E ciò, come a definitiva consacrazione:

318 ’Na manu lava l’antra e tutti du lavanu la mascara. Traduzione del detto italiano «una mano lava l’altra e tutte e due lavano la faccia», ma con una essenziale variante: la maschera al posto della faccia. Luigi Pirandello intitolò il suo teatro Maschere nude. Nude, tolte le maschere, dovrebbero essere le facce. Sono invece invisibili, ignote, forse non esistono. Non ci sono che maschere. Non siamo che maschere. (III, 68)

Racalmuto, dunque. E ancora levitata nelle fantasmagoriche pagine di Pirandello. A riconsiderarla ora, questa comunità viva e sofferente, dopo che dalla consuetudine quotidiana, passando per il reame letterario di Regalpetra, ci è stata restituita nella piccola enciclopedia di una secolare e popolare tradizione sapienziale, non possiamo non ravvisarvi l’estrema trincea ove lo scrittore combatte la sua ultima battaglia contro la modernizzazione traviata, degradata e corrotta27. È una certa nostalgia dell’antico, infatti, che anima costantemente questa prosa: basti qui, ad esemplificazione, l’accenno alla voce Cu happi luci campà, cu happi pani muri, in cui si contrappone l’animata conversazione di una volta, davanti al focolare, al triste silenzio di oggi, di fronte a un televisore (III, 40). Questo vagheggiamento del passato non si traduce mai in una patetica lode del tempo andato, ma si spalanca, come una sorta di contro-passato remoto, nel futuro dell’utopia, un’utopia che, come sappiamo, è di natura etica. E ciò, nella conferma di un dato della letteratura siciliana di questo secolo che, quan-

27.  In questo senso, non sorprende trovare il nome di Pasolini nell’intervista concessa a Dauphiné nel 1987, ora in «Linea d’ombra», IX, n. 65, 1991, p. 47: «Poiché l’unità italiana è stata fatta con il rullo compressore della televisione, io tento modestamente di ritrovare nella memoria quel che rischia di venir dimenticato, soffocato, perduto, tanto più che c’è una costante scomparsa dei caratteri specifici degli abitanti di ogni regione. Pasolini aveva analizzato acutamente l’uniformità e somiglianza dei giovani moderni. E anche questo, ciò che io deploro. Occhio di capra è una specie di diario della memoria più lontana, quella dell’infanzia».

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do recupera le proprie radici antropologiche, non mira mai a un’impossibile restaurazione del passato, ma a un polemico e risentito, insomma antagonistico, rapporto col presente. Il cuore di questa nostalgia dell’antico ci pare batta in un denso periodo che leggiamo nella Notizia dell’edizione Einaudi: Ho detto che mi pare di conoscere il paese anche nei suoi silenzi. Che non sono quelli della prudenza e dell’omertà. O più esattamente: che non sono soltanto quelli. Chi scelse […] come stemma del Comune […] un uomo nudo che fa il segno del silenzio di fronte a una torre ermetica, e sotto, in latino, la scritta «nel silenzio mi fortificai», forse alludeva al silenzio che prudenza vuole si faccia di fronte al potere, ma non a un silenzio di desistenza, di quiescenza. A un silenzio di preparazione, piuttosto, a un silenzio memore e, sulla realtà effettuale, intelligente. E questa prescrizione del silenzio […] si è come introvertita, per lungo ordine d’anni, nella gente, in ciascuno; è diventata una qualità, una peculiarità, un elemento distintivo del carattere. Si ama più tacere che parlare. E quasi che i lunghi silenzi davvero servano a fortificare il raro parlare, quando si parla si sa essere precisi, affilati, acuti ed arguti. (III, 9)

Siamo a una densissima pagina che consente di fugare, una volta per tutte, le illazioni di qualche esegeta grossolano. Ci è chiaro ormai come, a cominciare dai primi scritti degli anni di formazione, Sciascia abbia sentito la necessità di liberarsi dal «pirandellismo in natura» che caratterizzava quella realtà in cui si era trovato a vivere e operare. Abbiamo anche visto quale idea di letteratura Sciascia abbia inizialmente coltivato, scegliendo di stare dalla parte dei diseredati, degli oppressi. Sin da subito, entro questo contesto, Racalmuto fu il paese in cui regnava il costume dell’ingiustizia e del crimine, dell’omertà che di quel crimine si nutriva, che quell’ingiustizia copriva e proteggeva. Ma fu anche il paese in cui era nato l’eretico Diego La Matina, e tanti altri piccoli uomini che l’esempio morale di quel concittadino non avrebbero esitato a seguire.

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Scegliere di raccontare Racalmuto implicava, dunque, la decisione di camminare su un crinale ambiguo e pericoloso, in cui il silenzio della virtù poteva confondersi con l’omertà del mafioso, la quiescenza del servo con l’accortezza e la muta tenacia del resistente. Alla luce di questo passo, possiamo dire che il fine di Sciascia, in questo rapporto con la sua terra, sia stato quello di estrarre il nocciolo razionale dal guscio criminoso, quel nocciolo da cui era cresciuta, dentro una secolare storia di atrocità e sopraffazioni, la robusta pianta di una sorvegliata moralità, di un’attitudine al parlare raro e concentrato, affilato e acuto. Solo in questo contesto, che niente concede alle mitologie dell’omertà, è possibile intendere, come già dicevamo, un personaggio come il Carini del Quarantotto, che seppe sgusciare il nocciolo razionale di quel silenzio, e il don Mariano del Giorno della civetta, che invece, per tante ragioni da lui spesso non dipendenti, non vi riuscì. Con questa apologia del silenzio28, del raro parlare e del pensare lungo, siamo davvero alle porte di quella sorta di autobiografia dell’ombra che occuperà gli ultimi anni di vita dello scrittore.

28.  Su questo aspetto, cfr. anche D. Starnone, Ci sputassi vossia, in A. Motta (a cura di), Leonardo Sciascia, cit., pp. 361-364: pp. 362-363.

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Capitolo VIII

Autobiografia dell’ombra 1985-1989

In un articolo apparso su «L’Ora» del 20 febbraio 1965, Sciascia affermava che solo due scrittori, oltre quelli più impegnati «nel pensiero e nell’atto politico», avevano giudicato il fascismo «al suo primo apparire per quel che effettivamente era» (Q., 45): Hemingway e Borgese. E dopo aver parlato di Rubè come a risarcimento di una lontana incomprensione, scriveva: Dall’improbabile e ambigua esistenza del personaggio Rubè nasceranno più tardi dei personaggi veri e propri: gli indifferenti di Moravia, da un lato, i gerarchi fascisti, gli innamorati e i don giovanni, i costruttori di torri, gli antifascisti della penultima ora di Brancati, dall’altro. Non per niente Borgese è stato il primo critico italiano a riconoscere l’importanza degli Indifferenti di Moravia; e non è senza significato che alla sua diretta influenza si debba la conversione di Brancati all’antifascismo. (Q., 46)

Una tempestiva e libera valutazione del fascismo, l’apparizione di Rubè che, per quanto ambigua e improbabile, carica com’era «dei significati e simboli della storia in atto», avrebbe ispirato i più probabili e meno ambigui personaggi di Moravia e Brancati: erano queste le acquisizioni critiche che inducevano Sciascia a riaprire il «caso» Borgese, a riproporlo all’attenzione di lettori distratti e smemorati. Iniziava, così, quella vicenda

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di riletture, sempre più partecipi spregiudicate e intelligenti, di un autore che, lo abbiamo già visto, condizionerà a fondo il giudizio di Sciascia sulle cose italiane, la sua disponibilità e disposizione critica, la visione dei fatti letterari: da prima, in A ciascuno il suo, le cifrate allusioni, i cifrati riconoscimenti, il cifrato recupero dell’idea borghesiana di fascismo, ma attraverso personaggi vicari; quindi, l’inaspettata e imprevedibile convergenza estetica e filosofica delle pagine di Nero su nero; infine, l’intenso saggio del 1982, raccolto in Cruciverba, ove si traccia un bilancio della vicenda umana e letteraria di Borgese, a consacrarne il ciò che è vivo, il tanto che non potrà mai morire1. In quest’ultimo scritto, i debiti contratti da Sciascia sono certo cresciuti, la sua interpretazione si è articolata e approfondita, ma senza contraddire i presupposti di quel primo articolo sul quotidiano palermitano. Rubè, ora nel segno di una più convinta adesione al personaggio, viene ancora letto, non «come un’autobiografia, una confessione, una storia personale ambiguamente e aporisticamente in atto», ma «come l’analitica contemplazione di una spoglia già deposta della propria storia, della propria disperazione, che però continuava ad essere la storia di altri, la disperazione di altri» (II, 1168). Il fascismo continua a essere indicato come la chiave di volta della

1.  Che quella per Borgese fosse diventata per Sciascia una vera ossessione negli ultimi anni, lo testimonia Mario Farinella, che così ricorda le circostanze che portarono lo scrittore a redigere uno scritto introduttivo al libro che raccoglie gli interventi di Borgese su «L’Ora» nei primi anni del secolo: «Borgese era tra gli scrittori che più amava […]. Ne parlava con noi con partecipazione vivissima ad ogni incontro in redazione, nella sua casa di Palermo, nel suo rifugio di campagna, al “Noce”. Non immaginava che la morte gli girava attorno, ma quando se ne rese conto, in quel giorno che doveva essere il suo ultimo, dal suo letto dettò alla figlia trenta righe per Borgese de L’Ora. Le ultime. L’impegno, anche se non compiutamente, era stato mantenuto» (Q., XIV).

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vicenda borghesiana, se si celebra il Golia come un libro «di radicale importanza», quello da cui si dovrebbe muovere per conoscerla al meglio e in giusta prospettiva (II, 1170). La novità sta nel riconoscimento del Borgese editore, quale direttore della «Biblioteca Romantica» di Mondadori, «in cui si raccoglieva il meglio della narrativa mondiale in traduzioni di scrittori», opera di editore che viene considerata come una vera e propria «summa della sua attività di critico» (II, 1170). C’è poi un deciso apprezzamento dei tre volumi di La vita e il libro, «una mole ingente di lavoro critico tanto intelligente e sagace da resistere al senno di poi, da essere ancora oggi illuminante» (II, 1172): e si capisce, se Sciascia doveva servirsene, più di una volta, nel suo appassionato lavoro editoriale, come nel caso della riscoperta di Maria Messina per i tipi di Sellerio. Ma il punto fondamentale è l’affermazione che Rubè (1921) e le Poesie (1922) «interamente appartenevano alla sua conversione, all’uomo di fede che […] ormai era» (II, 1168). Una conversione con motivazioni «religiose», ma, si capisce, assolutamente laica, di natura estetica e filosofica, suggellata nel passaggio «dalla critica al romanzo» (II, 1168). Un fatto di non poco conto, questa nuova «fede all’arte» sancita dalla nascita di Rubè, se spinge Sciascia a una interessante meditazione di ordine storico e letterario: quando scrive Rubè, scrivendo Rubè, Borgese è già salvo. Si è come rifugiato in quella terra di nessuno (o di qualcuno), in quell’esile striscia di territorio intellettuale e morale in cui – come sulla luna il senno di Astolfo e di tutti gli uomini che l’hanno perduto – sta il senno e il senso della storia d’Italia. Di una storia, tralignata, impedita; ma che pure esiste, se negli italiani migliori sempre trova testimonianza e altissima l’ha trovata in Dante e in Manzoni. (II, 1168)

E, come a disegnare e profilare con più precisione la mappa di questa regione dello spirito, occupata dagli italiani di libero pensiero vigile sentimento e fiera indipendenza, aggiungeva:

324 In questa terra quasi di nessuno si ritrova tutto ciò che nella pratica italiana, nel farsi della storia italiana, è stato ridotto a puro nominalismo, a vana retorica, a fittizia conflittualità, da un machiavellismo endemico e a momenti epidemico: vi si ritrova il cristianesimo nella sua essenzialità, il cattolicesimo nelle sue vene più limpide anche se tenui, il diritto più certo, l’aspirazione alla giustizia più fervida, gli ideali del Risorgimento più veri. E Borgese ve li ha ritrovati. (II, 1168-1169)

Siamo, come si vede, in un territorio ove ogni formalismo ipo­ crita è stato bandito, e di dimensioni così sottili da comprendere solo quegli uomini di lettere che avevano respinto l’endemico ed epidemico machiavellismo italico in nome del primato della morale sulla politica, dell’intelligenza e del sentimento sulla ragion di Stato e il Potere, di un cristianesimo naturale e pietoso sui fanatismi delle chiese. E si tratta di una sparuta e offesa schiera, magari coincidente con quella degli scrittori «di cose», di cui aveva già parlato Pirandello2. Dopo Rubè, con la rinuncia a giurare fedeltà al regime mussoliniano e l’esilio in terra americana, Borgese vi approda definitivamente, con Gobetti, Momigliano, Rensi, Buonaiuti, Martinetti e Cajumi: odiato dai fascisti, detestato da Croce e da «La Ronda», non amato da Tilgher, quasi deriso da Gramsci (II, 1171). Non sarebbe difficile, per stare al solo Novecento, fare i nomi di quei pochi altri che Sciascia collocherebbe in questa desolata landa della libertà: Pirandello, Savinio e Brancati. E ciò, a ulteriore avallo di quelle ipotesi di contro-storia d’Italia che, come abbiamo visto, lo ossessionano. Una contro-storia, si potrebbe dire, da sciogliere e riannodare come una gobettiana autobiografia della nazione. Su ciò torneremo tra breve. Per ora, ci preme solo aggiungere che, senza queste considerazioni preliminari, non sarebbe possibile intendere appieno Per un ritratto dello scrittore da giovane, pubblicato da Sellerio nel 1985. Il libro, infatti, non è altro 2.  Cfr. L. Pirandello, Discorso di Catania, cit., p. 73.

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che un divagante commento ad alcune lettere di Borgese allo zio Giovanni, dal tempo in cui fu in grado di tenere la penna in mano fino al 1913, e ritrovate per caso in provincia di Ragusa da un notaio. Siamo di nuovo all’interpretazione di un epistolario, come nell’Affaire Moro e in Dalle parti degli infedeli. Questa volta, però, non si tratta di risarcire la vittima di una congiura inquisitoriale, restituirla alla sua integrità e dignità di «uomo solo». A Sciascia sembra interessare, invece, un sistema di indizi che consenta di ricavare dalle lettere un oroscopo di precocità, di diversità. E ciò, ci pare, come nell’allestimento di un mito etico e letterario. Borgese viene subito presentato come membro «di una famiglia “diversa”», in un remoto paese di montagna, votata al culto della corrispondenza epistolare, alla scrupolosa conservazione di ogni minimo documento domestico, «come a prepararvi l’avvento di colui che l’avrebbe resa più illustre» (III, 170). Sin dalla prima infantile lettera, Sciascia pare interpretare l’incerta grafia di Borgese sotto il segno della premonizione: È una lettera in cui par di leggere un destino (cosa del tutto ovvia poiché lo conosciamo), e soprattutto in quel rivelarsi e affermarsi attraverso il fatto nuovo della scrittura: «io sono peppino», Peppino che ora sa scrivere, che tu non sapevi che ora sa scrivere. Una specie di «scrivo, dunque sono», di seconda nascita nella scrittura. Ma – lo riconosciamo – è una nostra forzatura. (III, 171)

Ma ecco che, sotto la stella di un personaggio la cui autorevolezza, il cui prestigio, la cui facilità e felicità di scrittura crescono velocemente, pagina dopo pagina, sembra insorgere una più segreta e compromettente vicenda. Troviamo, allora, una notazione su Borgese lettore precocissimo, onnivoro e smemorato (III, 171); una golosa divagazione su un ricco pranzo siciliano a base di pasta col burro, galletti «abbraciati» con patate, uova fritte, insalata, albicocche, nespole domestici e cassata (III, 173); una rievocazione della Palermo del 1894,

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bellissima e «avvolta in un’aura di frittura» simile a quella che vide per la prima volta, a dodici anni, lo scrittore (III, 174); un ricordo del ghiaccio che in estate, ancora durante l’infanzia di Sciascia, le famiglie siciliane erano solite comprare (III, 174). Ci pare inutile continuare, a dimostrare un intento che lo stesso scrittore confessa assai presto: Queste lettere del giovane Borgese sono per noi (il lettore lo avrà già capito) non solo un cogliere uno scrittore assai amato negli anni che di solito restano i meno conosciuti, i più oscuri (e sono invece quelli decisivi), ma anche una ricerca del tempo perduto, del nostro tempo perduto (III, 174).

Nella rilettura, nella riscrittura, dell’epistolario siamo, dunque, all’autobiografia dell’ombra, della propria ombra, che lentamente si allunga su una comune «sicilitudine»: basterebbe solo pensare alle note sull’apprensione di Borgese in Germania, sullo strano sentimento di infelicità come paura che quel momento di felicità possa finire (III, 191). Non si faccia ingannare il lettore dalla reviviscenza proustiana del tempo perduto. Proprio nel saggio di Cruciverba che citavamo, e grazie a «una delle più esatte e splendide pagine critiche di Borgese» (II, 1172), Sciascia torna a prendere le distanze da Proust. In filigrana al ritratto dell’autore di Rubè, lo scrittore traccia infatti un autoritratto non psicologico, ma intellettuale e etico3. Quel che Sciascia insegue nella vita di Borgese non è, dunque, un’umbratile e privatissima recherche, ma i segni di una autobiografia ideale, idealizzabile, che quella reale possa illuminare e orientare. E si tratta di segni che sembrano ricapitolare e prefigurare il ricorrente destino culturale dello scrittore che ha la ventura di nascere in Sicilia. C’è una pagina

3.  Su questo aspetto, cfr. S. Addamo, Occasioni e pretesti, in Id., Oltre le figure, cit., pp. 41-110: p. 44, che ha parlato del ritratto di Borgese come «utopia di un ideale letterario» o «metafora per un letterato ideale».

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del libro che cade in perfetto taglio, a chiarire il nostro discorso. Sciascia sta parlando del dannunzianesimo come costante della recente storia italiana: bisognerebbe fare un lungo discorso su D’Annunzio in rapporto a tre generazioni di italiani: la generazione di Borgese, quella di Brancati, la nostra. Ma lo abbreviamo, il discorso, considerando come tutte e tre le generazioni abbiano dovuto fare – ovviamente con sempre minore intensità – lo stesso sforzo per liberarsene: e minore di quello di Borgese, e grazie appunto a Borgese, lo sforzo di Brancati (anche se d’altra difficoltà per la presenza del fascismo); e minore di quello di Brancati, e grazie anche a Brancati, il nostro. (III, 181)

Una pagina da affrontare a quella di stessa intelligenza, di medesimo pensiero, che si legge nel saggio Stendhal e la Sicilia (1984), poi raccolto in Fatti diversi di storia letteraria e civile, ove si parla della «passione stendhaliana» di Borgese, per assegnarla a una linea letteraria tutta isolana, come preconizzata dallo stesso Stendhal, che va da Navarro della Miraglia a Capuana, Verga e De Roberto, da Vittorini a Tomasi di Lampedusa, Brancati e, ovviamente, Sciascia (III, 720-722). Due luoghi critici in cui si pone un problema di storia della cultura siciliana, che sembrano trovare una più profonda spiegazione in quel passo di Per un ritratto, ove si dice, proprio citando Stendhal, che Borgese e Brancati «sono, in successione, i più veri ed effettuali scrittori liberali di questo secolo», il primo «di fronte al fascismo», il secondo, «da un certo punto in poi, di fronte al fascismo e poi di fronte al marxismo», fatto che li pone «come in disparte, solitari e quasi dimenticati» (III, 183). Siamo al punto. Sulla scorta della vicenda di Borgese, come a riconoscervi una peculiare autobiografia ideale, risalendo e discendendo per i frondosi rami di un albero genealogico tutto isolano, Sciascia ha finito per disegnare un modello intellettuale e morale fortemente «agonistico», per estendere una

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nozione utilizzata da Borsellino circa l’attività critica borghesiana4. Un modello, non dimentichiamolo, fondato sul termine «liberale», che possiamo tradurre in una serie di significati ascrivibili tanto all’area semantica della liberalità che a quella del liberalesimo. La liberalità di chi è propenso a spendersi con larghezza munifica, con prodigalità; la liberalità di chi si dota di inderogabili doveri intellettuali e civili e professa ideali di libertà e tolleranza. Il liberalesimo che non consiste tanto in quello storicamente affermatosi nello sviluppo della società e del pensiero, quanto nell’altro che ha carattere metastorico e si pone come integrale difesa della libertà, contro il Machiavelli di tutti gli intellettuali organici; un liberalesimo convinto del primato della coscienza memore e giudicante, che si risolve in un più vasto e articolato «esistenzialismo», nel senso che Tedesco ha dato alla nozione5. Questa sorta di riformulazione delle gerarchie etiche e intellettuali, dentro un proprio sistema letterario di riferimento, non poteva non toccare, dopo Borgese, colui che era stato l’interlocutore principale di una vicenda che, purtroppo, si stava avviando alla conclusione: Pirandello. Nel 1986, come supplemento a «L’Espresso» del 6 luglio, appare, in forma di dizionarietto, Pirandello dall’A alla Z, che verrà poi rifuso e ampliato tre anni dopo, per Adelphi, con il titolo di Alfabeto pirandelliano. Vi si trova confermata, approfondita e articolata, in una prosa più concisa e erratica, quella riduzione di Pirandello alla Sicilia, della Sicilia a Pirandello, che come abbiamo visto, ha occupato lo scrittore in pressoché tutte le 4.  N. Borsellino, Borgese agonista (tra Verga e Pirandello), in G. Santangelo (a cura di), G. A. Borgese. La figura e l’opera, Atti del Convegno nazionale di Palermo-Polizzi Generosa, 18-21 aprile 1983, Stass, Palermo 1985, pp. 527-533. 5.  Cfr. N. Tedesco, Per Bratteati: conclusioni provvisorie (1986), in Id., L’occhio e la memoria, cit., pp. 79-80.

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sue sillogi saggistiche, dagli anni Cinquanta in poi. Ecco, allora, dalla voce Alcozèr (anticipata, nella seconda edizione, dal lemma Abba), il protagonista esile e tossicoloso del Turno, alla voce Zolfo, ripresentarsi di nuovo tutti quei temi che ci sono ormai familiari: la lettura dell’intera opera pirandelliana in chiave di dialettalità, sotto il segno di Gramsci; l’analisi dell’ossessionante rapporto, considerato in tutti i suoi aspetti, tra Pirandello e Tilgher; le considerazioni sulle pagine di critica pirandelliana più amate, da Tozzi a Bontempelli e Debenedetti; le divagazioni autobiografiche che di Pirandello e del pirandellismo s’intridono, nel giuoco del detto e del non detto. Inutile sottolineare ancora gli elementi di continuità che legano questi ultimi interventi alla precedente produzione saggistica di argomento pirandelliano. Più proficuo ci sembra, invece, registrarne le cesure, i mutamenti, soprattutto alla luce di quella svolta che, nel rapporto con Pirandello, abbiamo visto maturare in Sciascia all’altezza della Scomparsa e di Candido. E converrà iniziare proprio con quelle Note pirandelliane, raccolte in Cruciverba, composte a ridosso di quelle due opere: le sorprese non mancano. Si veda quel passo in cui Sciascia, dopo aver registrato la freddezza di certe pagine di I vecchi e i giovani dedicate alla rivolta dei Fasci siciliani, scrive: È un po’ come il Siegfrid di Giradoux: dai confini dello smarrimento esistenziale, dai confini del nulla, Pirandello si affaccia sulla storia, su un particolare e locale momento storico – e sceglie di essere siciliano. Soltanto questo: ma con tante e aggrovigliate implicazioni. Ed è una scelta da cui non sorgono o insorgono altre scelte: ideologiche, politiche. Queste non sono, per Pirandello, che illusioni: rispettabili in quanto illusioni, sgradevoli nella pratica, e, ancora di più, nei personaggi che le professano. (II, 1133)

Ricordando che, nella Sentenza memorabile, il nome di Giradoux torna congiunto a quello di Pirandello e, significativamente, di Borges (III, 1217), ci limitiamo a notare che, in

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questo passo, nell’evocazione di uno smarrimento metafisico, il rapporto tra il libro pirandelliano e la realtà storica siciliana si fa più problematico e oscuro, contingente, e come liberato da ogni implicazione ideologica. Basta procedere nella lettura di poche pagine, per accorgersi che la storia dello scrittore di Agrigento è stata completamente risolta nelle siderali vicende della letteratura universale. Sciascia va con la memoria a un articolo di Savinio dedicato ai Giganti della Montagna, osservando che molto si guadagnerebbe nel considerare l’opera di Pirandello a prescindere da «generi, “ismi”, tempi e luoghi» (II, 1139), per arrivare a questa conclusione: Sto andando forse al di là di quel che Savinio intendeva […]. Ma ci sono tante cose, in quel suo breve articolo del ’37, che vanno colte: «Arte superiore è arte come passaggio a un mondo superiore. E arte che risolve il problema della vita, che immette in una soluzione felice e immutabile. Luigi Pirandello fa parte di questi orgogliosi traghettatori. Sta in compagnia di Picasso, di Giorgio de Chirico, di Stravinskij. Artisti che non si possono esaminare, che non si possono attaccare, tanto meno con gli strumenti comuni della critica: invulnerabili alla critica comune». (II, 1140)

Acquisizione densissima. E ne viene fuori una nozione di arte come «passaggio ad un mondo superiore», in direzione del quale i grandi artisti salpano come «traghettatori», nel segno di una concezione estetica che conferma e invera quella che abbiamo ricostruito in Nero su nero. Ne emerge un Pirandello enigmatico e inesplicabile, refrattario a qualsiasi interpretazione, invulnerabile e inattaccabile, affratellato ad alcuni mostri sacri della cultura novecentesca. Il nuovo e diverso Pirandello, a cui Sciascia era approdato nella Scomparsa e Candido, non poteva non risollecitare inediti approcci critici. Entro questo contesto, vanno considerate le novità ermeneutiche di Pirandello dall’A alla Z, come la voce Pascal, ove le ragioni pirandelliane di certo smarrimento religioso e esistenziale vengono

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riaffermate per la mediazione del grande giansenista francese. Sciascia ha appena almanaccato sul nome di Mattia Pascal, per inscriverlo, appunto, a un’anagrafe pascaliana: In quanto a Pirandello lettore di Pascal, e di segreta affezione, possiamo avanzarne il sospetto, ma senza la minima prova: non c’è un Pascal, tra i suoi libri; ma nemmeno c’è un Montaigne, che pure ben conosceva e certamente amava […]. Invincibilmente, comunque, certi momenti della sua opera, certe fenditure da cui guarda gli abissi cosmici, certi – diremmo oggi – «buchi neri», ci richiamano a Pascal. (III, 491)

Siamo, come si vede bene, alla delimitazione di una zona d’ombra, in cui respira, tra Montaigne e Pascal, una certa religiosità pirandelliana. Del «candore» che Bontempelli attribuisce a Pirandello, tradotto significativamente da Sciascia in «cristianesimo naturale» (III, 475), abbiamo già detto nel VI capitolo di questo libro. Ci resta solo da aggiungere che questo tema è declinato in numerose voci, tra cui vogliamo almeno ricordare Hotel des temples, Indice e Goj, aggiunto, però, solo nell’Alfabeto. Per stare ancora alle novità, di non poco conto ci pare il lemma Psicanalisi, dove ci si compiace del mancato appuntamento di Pirandello con Freud: Un proverbio siciliano dice: «cu scanza ura scanza priculu». Alla lettera: chi scansa l’ora scansa il pericolo; e vuol significare che a chi non è puntuale […], a volte accade di scampare a un qualche agguato o disastro. Da ciò l’impuntualità dei siciliani, i loro ritardi: e forse scansano qualche pericolo, tanti altri però creandosene. Ma nel caso di Pirandello il proverbio è di splendente verità: l’aver scansato l’ora di Freud è stato un bel colpo di fortuna. (III, 492)

Bella battuta, dopo decenni di torbide complicazioni psicanalitiche dell’interpretazione dell’opera pirandelliana: e detta con lo stesso gusto anticonformistico, saviniano, con cui lo scrittore ha più volte allontanato la sirena di Proust. Per quanto ci riguarda, viene a confermare la nostra ipotesi che

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Sciascia si serva molto spesso di Pirandello in chiave, per così dire, contropsicanalitica6. Ma il tratto più interessante di questo Pirandello dall’A alla Z ci pare in quel che si dice di Giuseppe Rensi. Nella voce a lui dedicata, Sciascia ha appena citato un passo di Rensi a proposito delle convergenze oggettive tra la sua filosofia, scettica e irrazionalistica, e l’opera di Pirandello: la cosa è davvero evidente e innegabile, se proprio si vuole collegare Pirandello a una filosofia; né si può dire che sia stato il fascismo – come Rensi si illudeva – a impedire che venisse riconosciuta. La pigrizia intellettuale, piuttosto; e una sorta di provincialismo per cui il far richiamo alla filosofia di Georg Simmel si credeva meglio giocasse ad alzare il livello e a dar risonanza al discorso critico su Pirandello. (III, 495)

Lampeggiante rivelazione, nel ritrovato rapporto con Pirandello, questo riferimento a Rensi, soprattutto se si pensa che Sciascia, nel 1987, proponeva ai lettori uno dei libri più belli del filosofo, le Lettere spirituali. E nella prefazione, dopo averne datato la conoscenza agli anni della scuola superiore, dopo aver ricordato l’amore per libri come quello dedicato a Spinoza, o come il Gorgia e l’Autobiografia intellettuale, dopo aver celebrato l’ideale Italia di Rensi (e di Salvemini, Martinetti, Borgese, Buonaiuti), si trovava a definirne tutta l’opera come una possibile risposta alle proprie inquietudini, «una risposta “spirituale”, nella delusione delle risposte “materiali” tanto cercate e tentate»7. Sciascia e Pirandello, dunque. Sciascia che, tramite Pirandello, ritorna a Rensi, quel Rensi a cui, non dimentichiamolo, guardò il poeta più laicamente religioso

6.  Per il severo giudizio dell’ultimo Sciascia sulla psicanalisi, cfr. L. Sciascia, Fuoco all’anima. Conversazioni con Domenico Porzio, a cura di M. Porzio, Mondadori, Milano 1992, p. 68. 7.  L. Sciascia, Prefazione, in G. Rensi, Lettere spirituali, Adelphi, Milano 1987, p. 5.

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e metafisico dei nostri anni, Giorgio Caproni8. Non ha torto Umberto Silva quando osserva che Sciascia, «per una sua strada autonoma», si era trovato a sfiorare le stesse conclusioni cui era giunto Rensi col suo Gorgia, per il quale, tra un vero assoluto inattingibile e un altro relativo, si estendeva come una zona «intermedia che abbraccia il non-vero e il non-falso»9, entro cui collocarsi con profitto. Ma sono altri i tratti che potrebbero affratellare lo scrittore di Racalmuto al filosofo di Villafranca: una definizione del sapiente inteso come colui che «non sa» ma guarda, «esprimendo» come i poeti una personalissima visione del mondo; una concezione della storia come tragica successione di delitti e follie; la consapevolezza di una coincidenza tra razionalità e irrealtà; un sentimento della vita nel segno di uno scetticismo radicale e vanificante; una morale antiegoistica e antiutilitaria. Un’ultima considerazione. C’è una voce, di quelle aggiunte nell’edizione del 1989, in cui Sciascia, con molta partecipazione, si sofferma su Stefano Landi, sulla necessità di mutar nome che il figlio di Pirandello, a un certo punto, invincibilmente sentì, in relazione a «quella che Savinio chiama “l’invadente importanza del padre”, del padre che per lui non ci voleva» (III, 483). Comprendiamo le ragioni profonde di questo interesse, leggendo un intenso articolo apparso in quello stesso anno su «MicroMega», dove, tra l’altro, si associa il nome di Pirandello a quello di Kafka e Borges e si mostra vivo apprezzamento per le pagine del cattolicissimo Mignosi sulla religiosità pirandelliana: Tutto quello che ho tentato di dire, tutto quello che ho detto, è stato sempre, per me, anche un discorso su Pirandello: scon8.  Cfr. B. Frabotta, Giorgio Caproni. Il poeta del disincanto, Officina, Roma 1993, pp. 191-193. 9.  U. Silva, Il modello rensiano nello scetticismo di L. Sciascia, in «Pragma», I, n. 2, 1990-1991, pp. 22-28: pp. 23-24.

334 trosamente, e magari con un certo rancore, prima; cordialmente e serenamente poi. C’era dapprima, a darmi volontà di allontanarmene e di essergli ostile, il suo fascismo: negli anni in cui l’antifascismo più urgeva […]; ma c’era, soprattutto, il fatto, che sentivo come una costrizione […] di non poter vedere la vita – nell’immediatezza del luogo e del tempo in cui la vivevo […] – […] altrimenti di come lui la vedeva. Sicché posso dire – come altrove ho già detto – che il mio rapporto ha una qualche somiglianza col rapporto col padre: che si sconta dapprima sentendola come ingiusta e ossessiva autorità e repressione, poi sollevandoci alla ribellione e al rifiuto; e infine liberamente e tranquillamente vagliandolo e accettandolo, più nel riscontro delle somiglianze che in quello, tipicamente adolescenziale, delle diversità.10

Confessione densissima, di grandi e aggrovigliate implicazioni, quelle che speriamo di aver districato nel corso di questo libro, a dimostrazione, appunto, della centralità del rapporto di Sciascia con Pirandello. Nel 1986, questa volta per i tipi di Bompiani, viene pubblicato La strega e il capitano, pensato in occasione del centenario della nascita di Manzoni, così come Stendhal e la Sicilia era nato per celebrare quella dello scrittore francese, e l’Almanacco Bompiani 198711, di cui Sciascia fu curatore, per commemorare il cinquantenario della morte di Pirandello. Ambroise, non a torto, ha notato che, per quanto su sollecitazione del mercato editoriale, questi testi rappresentano «un modo di situarsi nei confronti della morte e dei morti, degli scrittori morti, tramite la scrittura»12. Non senza aggiungere però che, pur nel segno di questo pensiero costante, Sciascia va come ricomponendo 10.  L. Sciascia, Pirandello, mio padre, in «MicroMega», n. 1, 1989, pp. 3151: p. 31. 11.  L. Sciascia (a cura di), Omaggio a Pirandello. Almanacco Bompiani 1987, Bompiani, Milano 1986. 12.  C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., p. 254.

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la propria biblioteca ideale e reale, il teatro della propria memoria letteraria, in funzione di quell’autobiografia dell’ombra che, come abbiamo visto, si è ormai accinto a scrivere. Ma torniamo a La strega e il capitano. Scritto come una sorta d’appendice al XXXI capitolo della terza stesura dei Promessi sposi, a fronte di alcune pagine della Storia di Milano di Pietro Verri, ove il fatto è riportato, vi si narra la storia di Caterina Medici, «strega» reo confessa al pari degli «untori» della Colonna infame, condannata al rogo nel 1617. La vicenda della donna, accusata per gli strani e misteriosi dolori di stomaco patiti dal suo padrone, il senatore Melzi, viene ricostruita, fino al tragico epilogo, sugli atti del processo con puntiglio e partecipazione, nel sovrapporsi e accavallarsi delle testimonianze, nella considerazione dei pregiudizi popolari e delle turpi credenze mediche, non senza lucida attenzione alla soffocante misoginia degli uomini che ebbero a che fare con questo personaggio carnale e sensuoso, che ricorda a Sciascia la «Lupa del Verga» (III, 232). Non staremo qui a dire cose sul rapporto di Sciascia col Manzoni della Storia della colonna infame, qui di nuovo assunto a modello, che abbiamo ripetuto nel corso di questo libro. Ci preme, piuttosto, un breve e rapido bilancio. Ha giustamente osservato Giuseppe Pontiggia che Sciascia «converge con Manzoni nell’angoscia dello scacco, non nella speranza della redenzione»13. Una verità che vogliamo completare così: se il cattolico Manzoni era passato dalla disperazione storica dell’Adelchi, per un mondo in cui non si poteva che far torto o subirlo, alla concezione provvidenzialistica dei Promessi sposi, il laico Sciascia aveva percorso un cammino eguale e contrario, trascorrendo dalle speranze di riscatto della Resistenza a un pessimismo storico che sconfinava ormai nello sgomento 13.  G. Pontiggia, L’avversione al gregge (1989), ora in «Nuove Effemeridi», III, n. 9, 1991, p. 138.

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esistenziale. Ci piace congedarci da questo libro con una citazione, a conferma di un modo d’intendere la letteratura che rimane immutato: «Poiché nulla di sé e del mondo sa la generalità degli uomini, se la letteratura non glielo apprende» (III, 207). In quello stesso anno appare per Adelphi il gustoso e divertito 1912 + 1, che, non a caso, porta come epigrafe quattro versi della Passeggiata di Palazzeschi, mentre toglie il titolo da una scaramantica dedica che D’Annunzio fece, per non scrivere il 13, su una copia del Martyre de Saint Sébastien (III, 263)14. Nel libro ci si occupa di un episodio di cronaca nera accaduto l’8 novembre 1913, giorno in cui la contessa Maria Tiepolo in Oggioni uccide il bersagliere di leva Quintiliano Polimanti, attendente del marito. Siamo, sia detto per inciso, nello stesso anno in cui moriva atrocemente la povera Rosetta, della quale Sciascia si era occupato in un delle sue Cronachette. Lo scrittore esamina con attenzione le carte processuali, misura la tenuta delle opposte tesi della difesa e dell’accusa (legittima difesa o omicidio premeditato? Delitto d’onore o passionale?), insegue, tra incongruenze e contraddizioni, le testimonianze di cameriere e caffettieri, di conoscenti e vicini di casa Oggioni, di amici e familiari del Polimanti, spigola gustose citazioni dalle cronache d’epoca e dalle arringhe infiammate di facondi avvocati. Pagina dopo pagina, si delinea un ritratto vivo dei protagonisti della vicenda: bellissima, sospirosa e vaga d’amore la contessa, ma votata, pur tra incertezze e trasalimenti, alla difesa del marito, capitano del regio esercito; giovane, ardente e svelto di mano, il bersagliere, ma un po’ sciocco e vanaglorioso. Sullo sfondo, non l’Italia ormai al crepuscolo di Verga, Capuana

14.  Sull’impiego malizioso e divertito che Sciascia fa dei numeri nei suoi libri, cfr. C. Ambroise, Invito alla lettura di Sciascia, cit., pp. 200-201.

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e De Roberto, ma quella del mondanissimo Guido Da Verona, di Mussolini direttore dell’«Avanti!», e soprattutto del divino D’Annunzio, quello delle Canzoni delle gesta d’oltremare. Un’Italia, insomma, indignata e offesa, come appare dalle oltre mille lettere anonime giunte in tribunale durante il processo, ma anche spettatrice morbosa e compiaciuta, tra grottesche perizie su un buco della serratura e dirimpettaie intente a spiare i vizi proibiti della contessa. Alla fine, la vicenda restituitaci è di quelle nelle quali i pregiudizi collettivi hanno il sopravvento sul diritto e la giustizia, e un caso di omicidio passionale, con l’assoluzione dell’incriminata, finisce per mutarsi in una difesa a oltranza della pubblica decenza e del sacro valore della famiglia. Su tale vicenda, Sciascia proietta le ombre degli eventi più diversi di quell’anno: il patto Gentiloni e il primo suffragio universale maschile, le imprese belliche in Cirenaica, il ritrovamento della Gioconda rubata due anni prima, il dilagare della moda del tango. Ancora una volta, è la letteratura a gettare una luce inedita e chiarificatrice sulla realtà, ad accogliere i fatti nel dominio della verità, come quando l’apologia marinettiana della virilità della forza e della volontà, che si legge nella Lettera futurista circolare di quell’anno, viene coniugata con gli umori sessuofobici e misogini del processo Tiepolo, quasi comica deformazione dal sapore brancatiano. Come quando, quasi per folgorazione, e sulla scorta di una bellissima ed enigmatica citazione da Huxley, Sciascia arriva a convincersi della premeditazione della contessa nell’uccisione di colui che era certamente stato suo amante. C’è un passo, in questo intenso finale, che sembra fare proprio al caso nostro, per introdurci al successivo libro di Sciascia, pubblicato l’anno seguente, ancora da Adelphi: Il guaio del vivere e del morire degli uomini è che Dio c’è, ma se ne saprà, da morti, meno di quanto se ne sappia da vivi: poiché da vivi, come diceva Borges, almeno ne facciamo tema della migliore letteratura fantastica […]. Non facciamo, da

338 vivi, che pronunciare invano il nome di Dio. Da morti, forse non lo pronunceremo più. E crediamo, da vivi, che parole come «verità», «giustizia», «poesia», lo scavarle dentro di noi e nei fatti dei nostri simili, ce lo avvicinino. (III, 316)

Dio, borghesianamente, come oggetto della migliore letteratura fantastica. Il Dio che la prosa di Sciascia, con cautela, con ironia, forse con sospetto, pare con più frequenza sfiorare. Il Dio che pronunciamo «involgendolo nella parola “giustizia”» (III, 317). E la giustizia, il cui nodo cruciale si stringe attorno al problema della pena di morte. La giustizia non più distinguibile dal giudicare. Con Porte aperte Sciascia ritorna, inaspettatamente, al romanzo. E lo stesso scrittore a confessare a Porzio che era sua intenzione scrivere un libro-inchiesta ma, messosi alla macchina da scrivere dopo averci tanto pensato, gli era venuta fuori «la battuta di un dialogo»15. Il titolo deriva dall’opinione, cara ai nostalgici del regime, che sotto il fascismo si dormiva, appunto, «con le porte aperte» (III, 337), e che qui sembra caricarsi di simboliche risonanze, involgendo i più diversi significati: le «porte aperte» del socialismo, da cui «si entrava ed usciva» prima dell’avvento di Mussolini (III, 333), la «porta aperta» del suicidio che si spalancava come unica soluzione all’assassino del romanzo (III, 353), le «vere porte aperte» di Palermo, «quelle che soltanto l’amicizia apriva» (III, 355), la «porta aperta al Brennero che cominciava ad inquietare» (III, 375). Sicché, ci pare non abbia torto Lo Dico quando parla di emblematicità e ambivalenza del titolo, a segnalare però l’aprirsi del libro sul flusso dei più privati ricordi dello scrittore16. In effetti, Porte aperte è un romanzo che accoglie dentro di sé un vero e proprio antiromanzo filosofico, giuocato com’è

15.  L. Sciascia, Fuoco all’anima, cit., p. 95. 16.  O. Lo Dico, La fede nella scrittura, cit., p. 203.

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su una meditazione che tocca il problema della giustizia e del giudicare, che declina i temi dell’omicidio, della tortura, della paura della morte, dell’agonia, che si interroga insomma sul senso del vivere e del morire. Problema della giustizia e del giudicare che, come ha ben visto Di Grado, sembra rimbalzare dal colloquio di Rogas e Riches nel Contesto a queste pagine17. Non senza, però, essere passato al vaglio del don Gaetano di Todo modo, il quale, nel segno del suo nichilistico cristianesimo, ritiene che a giudicare debbano essere i «peggiori», «in forza delle loro colpe […] ma dopo essersene confessati e liberati» (II, 175-176), dopo essersi, cioè, inchinati all’autorità della Chiesa. Ma torniamo al romanzo. La vicenda è nota ed effettivamente accaduta. Ne è protagonista un compaesano di Sciascia18, un «piccolo giudice» che, contro ogni aspettativa dei propri superiori e della gente, con danno per la sua carriera, in opposizione alle stesse leggi fasciste, si rifiuta di condannare a morte un efferato pluriomicida, per di più reo confesso e senza l’attenuante della minorità mentale. Piccolo giudice, abbiamo detto. E lo stesso autore, in uno dei suoi interventi nella narrazione, a spiegarci il senso di questo aggettivo: mi è avvenuto di chiamarlo il piccolo giudice non perché fosse notevolmente piccolo di statura, ma per una impressione che di lui mi è rimasta da quando per la prima volta l’ho visto. Era insieme ad altri […], qualcuno mi disse: «Aveva una brillante carriera da fare, se l’è rovinata rifiutando di condannare uno a morte» […]. Da quel momento, ogni volta che poi l’ho visto […] il dirlo piccolo mi è parso ne misurasse la grandezza: per le cose tanto più forti di lui che aveva serenamente affrontato. (III, 388)

17.  A. Di Grado, Sciascia e il suo «doppio», cit., p. 117. 18.  Cfr. G. Nascimbeni, Il grande sogno del piccolo giudice, in «Corriere della Sera», 4 novembre 1987.

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Ha ragione Di Grado quando inscrive il «piccolo giudice» in quella folla di personaggi, «di pacata fierezza e d’inevitabile sconfitta»19 che escono dal Vecchio con gli stivali (1946) di Brancati, e che nutrono la fantasia di Sciascia sin dagli anni dell’apprendistato, ad accrescere quella schiera di antieroi, caparbi e risoluti, il cui archetipo grande e terribile è rappresentato, come sappiamo, da fra Diego La Matina di Racalmuto. Ma non è difficile riconoscere nelle fattezze di questo giudice un autoritratto dello scrittore: lo sguardo scettico come da un’annoiata lontananza (III, 329); la disposizione a un silenzio rotto da «poche e affilate parole» (III, 336); il gusto del contraddire e del contraddirsi (III, 333); la felice vocazione alle erratiche e gratuite divagazioni (III, 384-385); il culto antico per Courier il cui nome risuona al giudice come una «patria» (III, 366); un identico patrimonio di letture che comprende persino autori come Giuffredi e Pitré (III, 368-369); la guerra di Spagna intesa come «la chiave di volta di quel che minaccia il mondo» (III, 394); il ricordo quasi traumatico della morte di Matteotti (III, 331-332) e, addirittura, quello del parente che, avendo versato una lira per il monumento di Matteotti, si trova poi con l’avvento del fascismo rovinato (III, 372-373), episodio che, nelle Parrocchie, vede protagonista, in termini simili, un familiare dello scrittore (I, 35-36). Si potrebbe indugiare ancora nei riscontri. Preferiamo, invece, soffermarci sul fatto che il «piccolo giudice», di laicissima formazione, sembri vivere il suo laicismo alla stregua di una fede. E ciò, in vista di un discorso entro cui possa trovare precisa soluzione la questione di quel giusnaturalismo di Sciascia, che abbiamo visto complicarsi, fino alla contraddizione, nel Contesto. Ma andiamo con ordine e leggiamo il passo in cui il narratore, sul filo dei divaganti pensieri del giudice, ricorda, senza citare la fonte, la frase di Montaigne che avevamo tro19.  A. Di Grado, Sciascia e il suo «doppio», cit., p. 116.

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vato nella Sentenza memorabile, ove si ironizza con quelli che danno un «bel peso alle proprie opinioni», se per esse sono disposti a far «arrostire» un uomo: Grandi parole: tutto è opinione, di relativo o irrisorio valore; tranne quella che non si può fare arrostire vivo un uomo soltanto perché certe opinioni non condivide. E tranne quella, qui, oggi, anno 1937 (anno 1987), che l’umanità, il diritto, la legge – e insomma lo Stato che la filosofia idealistica e dottrina del fascismo dicevano allora etico – rispondere con l’assassinio all’assassinio non debbano. (III, 340)

Ma non si creda che questa sia una momentanea sovrapposizione dell’autore sul suo personaggio. La convinzione che la pena di morte debba essere in modo assoluto rifiutata, che questo rifiuto sia un valore non assoggettabile al contingente giuoco delle opinioni che gli uomini hanno sostenuto nel corso dei secoli, il «piccolo giudice» vive con un puntiglio morale che non accetta né contraddizioni né smentite, quand’anche si trovasse da solo a ribadirla: «è un principio di tale forza, quello contro la pena di morte, che si può essere certi di essere nel giusto anche se si resta soli a sostenerlo» (III, 397). Siamo al punto. Il «piccolo giudice», come il Rogas del Contesto, è un uomo che ha ancora dei principi in un paese che non solo non ne ha più, ma li conculca e li cancella. Non possiamo non notare, comunque, che questo principio, il fermo rifiuto della pena di morte, valore supremo del «miglior diritto» e della «giustizia giusta», acquisti qui un’autoevidenza non razionale, ma sentimentale, nel segno di un vero e proprio atto di fede. Volendo, potremmo definire il nostro giudice come uno «scettico credente», avvalendoci della formula che Buonaiuti impiegò per Rensi. Non per nulla, le sue qualità migliori si devono a un’ostinazione etica radicata in una fiducia del tutto irrazionale nell’umanità, quasi sempre smentita dai fatti, qualità che, per altro, i suoi familiari affettuosamente gli rimproverano come difetti:

342 il credere, fino a contraria evidenza, e anche all’evidenza guardando con indulgente giudizio, che in ogni uomo il bene sovrastasse il male e che in ogni uomo il male fosse suscettibile di insorgere e prevalere come per una distrazione, per un inciampo, per una caduta di più o meno vaste e micidiali conseguenze, e per sé e per gli altri. (III, 341-342)

Sulla scorta di questa religiosità, fondata, rensianamente, su una morale che nasce «dalla distruzione dell’egoismo»20, impegnato compassionevolmente a comprendere l’imputato nella «sua contorta e feroce umanità» (III, 363), solo di fronte alla «propria coscienza», alla «propria “degnità”», nel sentimento di una solitudine che si fa sempre più estrema persino in famiglia (III, 364), il «piccolo giudice» avverte che in questo processo la partita si fa alta fino a implicare la necessità di «fare i conti con la parte più oscura di sé, la più nascosta» (III, 350). Nell’inquietudine crescente, nell’orrore che gli suscitano «i corpi del reato», gli strumenti di un mostruoso rito omicida (III, 351), nell’angosciato pensiero dei momenti d’agonia che toccheranno al condannato (III, 399-400), ignaro se la vita sia «caso e assurdità» o parte di «un disegno imperscrutabile» (III, 400), il nostro «scettico credente» va svolgendo un metafisico monologo informato sul pensiero della morte. È nel segno di questo luttuoso sentimento, nella percezione dell’«orrore e il fascino del vuoto, dell’abisso» (III, 350), che sorge la necessità di un ordine che possa riscattare le atrocità del mondo, convertendo il caos della vita nel cosmo della giustizia e della verità. In questo contesto, la difesa a tutti i costi del diritto trova la sua più autentica giustificazione. Si veda quel che il giudice risponde a un’obiezione del procuratore, dopo la mancata condanna a morte del pluriomicida: È vero che in me la difesa del principio ha contato più della vita di quell’uomo. Ma è un problema, non un alibi. Io ho 20.  L. Sciascia, Prefazione, in G. Rensi, Lettere spirituali, cit., pp. 5-6.

343 salvato la mia anima, i giurati hanno salvato la loro: il che può anche apparire molto comodo. Ma pensi se avvenisse, in concatenazione, che ogni giudice badasse a salvare la propria. (III, 400-401)

Siamo al nocciolo del discorso. In una realtà sempre sul punto di precipitare nell’irrealtà, solo un anelito di giustizia sembra offrire l’unico ancoraggio possibile a che tutto non precipiti, un sentimento e una speranza che le cose si possano rimettere per un verso umano e pietoso, come auspica la fantasia borghesiana21 del «piccolo giudice» che si legge alla fine del romanzo: Ma mi conforta questa fantasia: che se tutto questo, il mondo, la vita, noi stessi, altro non è, come è stato detto, che il sogno di qualcuno, questo dettaglio infinitesimo del suo sogno, questo caso di cui stiamo a discutere, l’agonia del condannato, la mia, la sua, può anche servire ad avvertirlo che sta sognando male, che si volti su altro fianco, che cerchi di avere sogni migliori. E che almeno faccia sogni senza la pena di morte. (III, 401)

Abbiamo finalmente tutti gli elementi per richiamare la questione del giusnaturalismo di Sciascia. Eravamo usciti dal Contesto sotto il segno di un’implicita aporia che converrà sciogliere. Il primato del diritto, che ogni giusnaturalismo postula, presuppone una nozione di ragione, di recta ratio, capace di distinguere il giusto dall’ingiusto. Come è stato possibile, allora, dal Contesto in poi, ove non sembra esserci altro che un relativistico giuoco di verità, di ragioni, continuare a tener fermo questo primato? La risposta, dopo Porte aperte, ci pare semplice: il diritto, come principio inderogabile da far valere anche in contrasto con le leggi di uno Stato che non lo rispetta, è autoevidente e si giustifica per via sentimentale, nell’approdo, sulle macerie di un relativismo gnoseologico, a una verità 21.  N. Zago, nel suo Il primo e l’ultimo Sciascia, cit., pp. 136-137, ha opportunamente richiamato il racconto di Borges, Ciascuno e nessuno.

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unica e indefettibile, ma di natura esclusivamente etica22. Ecco perché la difesa intransigente di esso non può che risolversi in una questione, insieme gratuita e suprema, di dignità personale, come si capisce da quel che il «piccolo giudice» dice al giurato che ha combattuto con lui una stessa battaglia: Le dirò che anch’io potevo sottrarmi a quel processo, mi è stato anzi autorevolmente consigliato. Ma l’ho visto come il punto d’onore della mia vita, dell’onore di vivere. (III, 395)

Siamo, insomma, a una questione che investe lo stesso «onore del vivere», che dirama dalle più profonde radici morali della vita, quella che si trovò ad affrontare Diego La Matina nella sua tormentata ma libera esistenza. Una questione che mette in giuoco un preciso concetto di libertà. È questa libertà, infatti, la controparte fondamentale del «miglior diritto», la sua sola condizione di possibilità. Di un diritto, appunto, «migliore» e «giusto», proprio perché garante di tale libertà. Una libertà, lo ripetiamo, essenzialmente morale, identificabile con l’onore e la dignità, da difendere sempre e comunque, magari fino alla contraddizione: «Di me come individuo, individuo che incidentalmente ha scritto libri, vorrei che si dicesse: “ha contraddetto e si è contraddetto”, come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante “anime morte”, a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano» (S.M., 88). Nel 1988 Sciascia torna inaspettatamente al giallo con Il cavaliere e la morte23. Protagonista del romanzo è un Vice, malato di cancro, coinvolto col suo Capo in una vicenda, ambientata in una città del Nord, che inizia con lo scambio, come per giuoco, di un biglietto tra due potenti: il Presidente delle industrie Riunite Aurispa e l’avvocato Sandoz. Nel biglietto Aurispa mi-

22.  Cfr. a questo proposito A. Di Grado, Lo scrittore e il saggista, cit., p. 20. 23.  Per quanto concerne l’episodio che ha ispirato il romanzo, cfr. L. Sciascia, Fuoco all’anima, cit., p. 95.

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naccia Sandoz di morte, evento che avviene con matematica consequenzialità, ma per essere rivendicato dal fantomatico gruppo, «I figli dell’ottantanove», nel richiamo a quella rivoluzione francese che ci si appresta a celebrare. La pista, su cui si butta a corpo morto la polizia, sollecitata dalla stampa e dall’opinione pubblica, non convince il Vice, per cui il colpevole è invece Aurispa, delle cui responsabilità diviene certo, dopo aver parlato con Rieti, un ebreo al soldo di misteriosi servizi segreti, il cui genitore era stato salvato dal padre del Vice in Sicilia, negli anni delle persecuzioni razziali. Il problema del Vice, a questo punto, è uno solo: «i figli dell’ottantanove sono stati creati per uccidere Sandoz o Sandoz è stato ucciso per creare i figli dell’ottantanove?» (III, 426), propendendo sempre più per la seconda ipotesi. Una verità che resterà ignota, perché il romanzo si chiude con l’omicidio del Vice, a poche ore da quello del Rieti. Non staremo qui a dimostrare come, per tanti tratti (l’amore da collezionista per le incisioni e le stampe, le predilezioni letterarie, il piacere del fumo, la malattia incurabile), il Vice sia stato costruito in chiave autobiografica, perché è proprio lo scrittore ad ammetterlo chiaramente24. Dobbiamo invece spiegarci perché, dopo averne saggiato tutte le possibilità, Sciascia sia tornato al romanzo poliziesco. Non sono pochi, infatti, gli elementi di continuità con i gialli precedenti, a cominciare dalla disattesa punizione dei colpevoli, costante in Sciascia. Ma ritorna pure il motivo dell’uccisione dell’investigatore (Il contesto), l’inscrizione dei fatti criminosi in una sorta di perenne strategia della tensione (Il contesto), la riproposizione del contrasto, di ipotesi sui delitti, di concezione del mondo, tra l’investigatore e il suo superiore (Todo modo). Per non dire che, gidianamente, il romanzo si presenta come una sotie, uno scherzo, come sotie e scherzo si era rivelato, con quel riferi24.  Ivi, p. 117.

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mento a Les caves du Vatican, Todo modo. Tema che, nel Cavaliere e la morte, compare ricorrentemente nelle parole del Vice: «ancora uno scherzo, pensò il Vice, questa gente non fa che scherzare» (III, 415); «Curioso, pensò il Vice, che la parola scherzo si affacciasse con tanta frequenza, in quelle ultime ore» (III, 420); «Siamo, dunque, dentro una sotie» (III, 443). L’unica novità è il cancro del Vice. Novità, si badi, nella storia di Sciascia, ma non nel quadro della tradizione poliziesca, se malato di tumore è anche il Barläch del Giudice e il suo boia e del Sospetto di Dürrenmatt, vecchia conoscenza dello scrittore siciliano, come sappiamo. Quel ripetersi della parola «scherzo», infatti, ci pare un chiaro indizio del fatto che Sciascia abbia voluto scherzare con gli strumenti del giallo, per toccare una ben più grave e greve materia. Ecco il punto: la detective story, pur non rinunciando a confrontarsi con le nequizie della ricca e crassa Italia della fine degli anni Ottanta, è come il mastice isolante con cui lo scrittore ha voluto fasciare il fuoco bianco, bianchissimo, di una sua meditazione sulla malattia e la morte che ruota attorno all’incisione di Dürer, Il cavaliere, la morte e il diavolo, da cui è ricavato il titolo del romanzo (che campeggia in copertina dell’edizione Adelphi) e che il Vice tiene nel suo ufficio. Un’incisione che, come è stato notato, «iconicamente e sincreticamente», sembra cristallizzare «i termini del destino del Vice, il personaggio-protagonista, dal nome, appunto, allusivamente (come al solito in Sciascia) vicariale», «allegoria trasparente», dalla cui angolazione pare possibile cogliere «il vero interrogativo dell’inchiesta»25. E si tratta di un’incisione così potente, quanto a forza di suggestione, da catalizzare l’attenzione di due interpreti di riguar25.  V. Paladino, L’ultimo Sciascia, cit., p. 721. Che il romanzo porti in primo piano una preoccupazione di tipo etico e metafisico, è dimostrato anche da un mutato registro stilistico che sembra accentuare un’istanza lirica, affettiva ed effusiva, come nota O. Lo Dico, La fede nella scrittura, cit., p. 214.

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do, Alberto Moravia e Vincenzo Consolo, tutti e due intenti a cogliere nascosto sotto le spoglie di quel Cavaliere, vicario appunto il Vice, lo stesso Sciascia. Il primo, con l’aiuto del libro di Panofsky, La vita e le opere di Albrecht Dürer (1943), a vedere simboleggiata nell’incisione «la vita del cristiano nel mondo pratico della decisione e dell’azione», a ravvisare nell’imperturbabilità e nella noncuranza del Cavaliere, di fronte alla Morte e il Diavolo, l’«eroismo stoico e disperato» del Vice nella sua lotta contro la mafia26. Il secondo, per sottolineare la solitudine e la disperazione di Sciascia nei suoi ultimi anni, affrontando l’incisione di Dürer a una di Max Klinger, con parole che vale la pena di riportare: Per noi quel cavaliere del Dürer, insidiato dalla Morte e dal Diavolo, che solido dentro la sua armatura, sicuro in groppa al suo robusto cavallo procede solitario verso la turrita città in cima alla lontana collina, la città ideale o d’utopia che mai raggiungerà, rimanda a un altro cavaliere, al Cavaliere disarcionato di Max Klinger: l’uomo è a terra, schiacciato dal corpo del suo cavallo, inerme anche per la spada (la penna) che gli è caduta di mano, solo e moribondo in mezzo alla foresta, un nugolo di neri corvi che gli volteggiano sopra, pronti a ghermirlo […]. I neri uccelli del potere, fra cui, il più sinistro e il più famelico e divorante, un goyesco «buitre carnivoro».27

Ma il rapporto tra il romanzo e l’opera di Dürer non può essere interamente sciolto se non ci si domanda perché, come ha fatto Giuseppe Traina, nel titolo di Sciascia cada il riferimento al diavolo28. E la risposta starebbe in due ragioni: una testuale

26.  A. Moravia, Il cavaliere di Sciascia, in «Corriere della Sera», 2 gennaio 1989. 27.  V. Consolo, La conversazione interrotta, cit., p. 38. 28.  G. Traina, L’«ars moriendi» di Leonardo Sciascia: «Il cavaliere e la morte», in «Siculorum Gymnasium», XLIV, n. 1-2, 1991, pp. 183-199: p. 185.

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e un’altra, per così dire, di «ordine intertestuale»29. Questa, la ragione rintracciabile nel romanzo, così come si svolge in una riflessione del Vice sull’incisione: Stanca la Morte […], nonostante i minacciosi orpelli delle serpi e della clessidra, era espressiva più di mendicità che di trionfo. «La morte si sconta vivendo». Mendicante, la si mendica. In quanto al diavolo, stanco anche lui, era troppo orribilmente diavolo per esser credibile. Gagliardo alibi, nella vita degli uomini, tanto che si stava in quel momento tentando di fargli riprendere il vigore perduto: teologiche terapie d’urto, rianimazioni filosofiche, pratiche parapsicologiche e metapsichiche. Ma il diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui. (III, 449)

Il diavolo, dunque, uscirebbe di scena perché gli uomini sanno assolvere ai suoi antichi compiti molto meglio di quanto questa stremata e gaglioffa figura düreriana saprebbe fare. Una tesi che dovevamo aspettarci dopo opere come Todo modo, ove Belzebù si era incarnato in don Gaetano, e La scomparsa di Majorana. Per quanto concerne la ragione di «ordine intertestuale», Traina avanza l’idea, ben argomentata, che questa diversificazione dal modello di Dürer sia dovuta al fatto che Sciascia, supplente il Vice malato di cancro, avanzi nel romanzo una sua peculiare ars moriendi 30, in ciò confutando tutta una varietà di opere, richiamate appunto per via intertestuale, in cui si può rintracciare una serie di proposte alternative per una «buona morte». Quali sarebbero queste opere? La Morte di Ivan Il’ich di Tolstoj, espressamente citato da Sciascia (III, 453), il Journal d’un curé de campagne di Bernanos, di cui si respingerebbe il «pur travagliatissimo cristianesimo»31, Illness as Metaphor di Susan 29.  Ibidem. 30.  Ivi, p. 187. 31.  Ibidem.

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Sontag del quale si rifiuterebbe «il pragmatismo scientista»32, Il sospetto di Dürrenmatt, che con il romanzo di Sciascia avrebbe molti punti in comune33, ma soprattutto, e qui sta la vera scoperta filologica di Traina, Il cavaliere, la morte e il diavolo di Fritz Zorn, stampato nel 1979 da Mondadori e riproposto negli Oscar nel 1986, in cui il tumore viene assunto dall’autore, che di quella malattia di lì a poco sarebbe morto, come condizione privilegiata per un’implacabile atto d’accusa all’ipocrita e borghese società svizzera. Tanti sono gli elementi che Traina adduce per dimostrare che il testo di Zorn costituisca il costante punto di riferimento del Cavaliere e la morte34. Non staremo qui a richiamarli tutti, ci piace solo ricordare la maliziosa allusione all’autore elvetico nel nome di un personaggio del romanzo, la signora Zorni. La lista è senz’altro completa, ma ci si consenta di citare anche le meditazioni sulla morte del Principe di Salina nel Gattopardo, che sembrano talvolta balenare nel romanzo35. C’è un punto, però, di cruciale importanza, sul quale non concordiamo con il giovane critico, relativo a un passo che occorre riportare. Il Vice, sempre guardando l’incisione, passa ora a riflettere sul Cavaliere: E il Cavaliere: dove andava così corazzato, così fermo, tirandosi dietro lo stanco Diavolo e negando obolo alla Morte? Sarebbe mai arrivato alla chiusa cittadella in alto, la cittadella della suprema verità, della suprema menzogna? Cristo, Savonarola? Ma no, ma no. Dentro la sua corazza forse altro Dürer non aveva messo che la vera morte, il vero diavolo:

32.  Ibidem. In questa battuta, la presa di distanza di Sciascia dalla Sontag: «Non voglio morire coi religiosi conforti della scienza: che non solo sono religiosi quanto gli altri, ma strazianti in di più» (III, 439). 33.  Ivi, pp. 195-196. 34.  Ivi, pp. 185-186. 35.  Cfr. N. Zago, Il primo e l’ultimo Sciascia, cit., pp. 138-139.

350 ed era la vita che si credeva in sé sicura: per quell’armatura, per quelle armi. (III, 449-450)

Sulla scorta del fatto che il freddo e imperturbabile Cavaliere sia effigiato di profilo, e il Presidente Aurispa appaia per la sua freddezza alla signora De Matis (altro alter-ego di Sciascia) come sul profilo di una moneta (III, 429), Traina propende a identificarli36. Tesi che non ci induce a lasciar cadere la convinzione di Consolo e Moravia che il Vice sia il Cavaliere. E per una ragione che pare possa suffragare meglio e con più forza proprio l’idea di Traina cui accennavamo, e cioè che Sciascia stili in questo libro una sua peculiare ars moriendi. Quella «vita in sé sicura», che il Cavaliere nasconde dentro la corazza, infatti, non è altro che la vita degli uomini che se ne vanno impettiti e boriosi, quando rimuovono il pensiero della morte, forse la stessa vita del Vice, prima di ammalarsi di cancro. Quella vita ignara di sé, «vera morte», «vero diavolo», che ci rende ciechi rispetto alle ragioni profonde del vivere, quelle ragioni che ormai il Vice fa proprie vivendo, appunto, «per la morte», nel segno e nella luce della morte. Non a caso, nel romanzo, subito dopo queste battute, si svolge il dialogo tra il Capo e il Vice, in cui il primo constata la drammatica condizione del secondo, e lo invita a prendersi una vacanza, un periodo di congedo: quella vacanza, quel congedo, che sono, simbolicamente, abbandono definitivo dell’ottusa condizione di sanità. In questa prospettiva, ci pare abbia ragione Ambroise: «Il cavaliere di Dürer è un inquisitore della morte. Il Vice-Sciascia esperisce la propria morte» (III, XVIII), una morte addirittura anticipata e descritta nelle ultime pagine del romanzo, quasi inseguita fino alle soglie del non-essere: Gli spari li udì incommensurabilmente prima, gli parve, di sentirsene colpito. Cadde pensando: si cade per precauzione e

36.  G. Traina, L’«ars moriendi» di Leonardo Sciascia, cit., pp. 196-197.

351 per convenzione. Credeva di potersi rialzare, ma non ce la fece. Si sollevò su un gomito. La vita se ne andava fluida, leggera; il dolore era scomparso. […] Il gomito non lo sostenne più, ricadde. Vide il volto bello e quieto della signora Zorni animarsi di malizia; lo vide poi dissolversi, nella fine del tempo di cui stava varcando la soglia, nei titoli dei giornali dell’indomani […]. Pensò: che confusione! Ma era già, eterno e ineffabile, il pensiero della mente in cui la sua si era sciolta. (III, 464-465)

Abbiamo detto, non a caso, di morte come non-essere. È arrivato il momento di fugare alcuni possibili equivoci. Nel corso del libro, infatti, non abbiamo esitato a usare termini come religiosità, religione naturale, cristianesimo naturale. Un punto deve essere chiaro. Se Sciascia arriva a recuperare, attraverso Pirandello, attraverso la nozione di «candore» bontempelliana, una dimensione simile, ciò avviene per il polemico rifiuto di un mondo solo nella forma cristiano, ma nella sostanza irreligioso, materialista e cinico, quando non addirittura superstizioso: il mondo che emerge, come abbiamo visto, da tutti i suoi saggi siciliani, particolarmente dalle Feste religiose in Sicilia, o da libri come Todo modo, Candido, L’affaire Moro. Nel suo caso, infatti, siamo semmai di fronte a un cristianesimo agnostico, senza referente divino, ma che mantiene la centralità del problema della morte. Un cristianesimo fondato su semplici risposte di pietà opposte alle atrocità della storia, nutritosi di una morale antiegoistica, quello di un laico ostinato, che oscilla tra il sublime disincanto di Montaigne e gli strenui paradossi di Pascal, nel fermo e fideistico rifiuto dell’irrazionalità morale e dell’ingiustizia. Come appare dal passo citato, come si evince dalla passione per lo Spinoza di Rensi37, la sua 37.  L. Sciascia, Prefazione, in G. Rensi, Lettere spirituali, cit., pp. 2-3. Masi veda anche quello che scriveva in una lettera al prete Nino Nuzzo, dopo aver affermato, quanto a una possibile fede, la sua «certezza che non ci siano certezze»: «Il problema di Dio – mai risolto una volta per tutte – lo risolvo ogni volta con Spinoza (fin dagli anni della scuola)», lettera che troviamo in

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religiosità potrebbe tradursi al massimo in una specie di panteismo, quasi una sorta di scioglimento della ratio individuale in quella cosmica, l’unico aldilà possibile essendo quello della letteratura, che, per altro, ha provato con ironia e malizia a descriverci nel finale di 1912 + 1 (III, 316-318). In questo senso, Il cavaliere e la morte, il suo libro più palesemente religioso, non lascia dubbi. Il Vice, in un dialogo col Capo sulle fobie degli ex fumatori impegnati in crociate igienistiche contro il fumo, coglie l’occasione per lanciare un monito a tutti i convertiti: «ci si converte sempre al peggio, anche quando sembra il meglio. Il peggio, in chi è capace di conversione, diventa sempre il peggio del peggio» (III, 409). Ma c’è un passo che sembra far meglio al caso nostro. Il Vice, ancora divagando sulla morte, su quello che il mondo era drammaticamente diventato nella sua inarrestabile degradazione, è còlto da un sentimento di «dilagante pietà» per tutti coloro che restavano, per i bambini che di quel mondo erano il futuro: Ci saranno, pensava, nel 1999, nel 2009, nel 2019: e che cosa il susseguirsi di questi decenni avrebbe portato per loro? E si accorse, così pensando, di essere arrivato come al cancello della preghiera, intravedendola come un giardino desolato, deserto. (III, 460-461)

La morte e la malattia. Una risposta di ferma dignità, di decorosa e composta resistenza al dolore che avanza (III, 452-453). La pietà per chi rimane. La vita oltre la vita come un desolato deserto. Al Vice non resta che voltarsi indietro a riconsiderare i momenti pienamente vissuti e assaporati, come quelli legati a una sua storia d’amore: S’incontravano sempre con gioia – la gioia dei corpi, la sola di cui reciprocamente potevano esser certi: e più non bisognava

N. Nuzzo, Sciascia e un prete, in L. Fava Guzzetta (a cura di), Nelle regioni dell’intelligenza, cit., pp. 141-146: p. 143.

353 domandare; insieme facevano dei viaggi, a volte di imprevista lunghezza e varietà; ma sempre più raramente negli ultimi anni. Tutto si allontanava, era ormai lontano. Restava in lui un senso di tenerezza, e quasi era diventata pietà. Curioso come in lui, ora, ogni sentimento che era stato di amore o di avversione si mutasse in pietà. E ancora più curioso che la memoria trasfigurasse in bellezza quelle lontane sofferenze e disperazione. (III, 457)

Il lettore risentirà in queste battute l’eco della vicenda d’amore di Candido e Francesca. Un Candido e una Francesca che sono ormai invecchiati. Un Candido che sta morendo. Nessun altro obolo porterà con sé nell’aldilà del non essere, se non quello d’aver pienamente, profondamente vissuto: amando. Nel 1989, scritta d’estate in brevissimo tempo, come per ultima e suprema distrazione dai morsi della malattia che si facevano lancinanti, appare per Adelphi Una storia semplice. Siamo, ancora una volta, a un romanzo giallo con soluzione, insomma, a una storia che, come la precedente, diviene pretesto per ben altre divagazioni38, e ancor più compromessa con quell’autobiografia dell’ombra che, quasi in forma di testamento morale e intellettuale Sciascia stava ormai completando. Il racconto ruota attorno alla misteriosa morte di un certo Roccella, diplomatico in pensione, tornato improvvisamente in Sicilia: una morte dalla quale altre, ancor più inesplicabili, scaturiranno. Una vasta folla di personaggi, tagliati in modo svelto ed essenziale, si muove sulla scena: un magistrato inetto e cretino; un questore, un commissario e un colonnello dei carabinieri con l’ansia di semplificare una storia complicatissima; un prete all’antica, bello alto e solenne, che si rivelerà, ma solo al lettore, coinvolto nella vicenda criminosa; un testimone oculare che si trova a subire, senza nulla aver commesso, i rigori (la cella di rigore) della giustizia e che, alla fine, riconosciuto per 38.  Su questo aspetto, cfr. O. Rossani, Leonardo Sciascia, cit., pp. 131-132.

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caso uno degli assassini, preferisce tacere e non complicarsi la vita; la moglie della vittima, laccata e inanellata, preoccupata solo del patrimonio, e il figlio, penosamente chiuso nell’amoroso ricordo del padre; il professor Franzò, vecchio amico del morto, personaggio che si trova a collaborare col sottufficiale Antonio Lagandara, il quale, «aritmeticamente» (III, 756) svolgendo la catena delle deduzioni, arriva alla verità, terribile ad ammettersi, uccidendo, per legittima difesa, l’ispiratore degli omicidi, e cioè il commissario, suo diretto superiore. Abbiamo detto del preponderante e prioritario dato autobiografico, sempre, s’intende, dietro lo schermo dell’ironia. Questa volta, però, coinvolgendovi più personaggi. Al professor Franzò, l’intellettuale ammalato costretto come lo scrittore a penose dialisi, Sciascia sembra affidare la meditazione esistenziale e metafisica lasciataci in eredità dal Vice, come quando gli impresta questo pensiero: «ad un certo punto della vita non è la speranza l’ultima a morire, ma il morire è l’ultima speranza» (III, 754). Altri tratti spettano invece al brigadiere Lagandara, membro di una famiglia siciliana che era riuscita a elevarsi socialmente, con un sogno nel cassetto (III, 748), quello della laurea in legge. Nel suo pensiero vigile e secco, essenziale e selettivo, nelle sue ansie e preoccupazioni legate alla scrittura, Sciascia coglie la condizione emblematica degli uomini di lettere siciliani: curiosamente, il fatto di dover scrivere delle cose che vedeva, la preoccupazione, l’angoscia quasi, dava alla sua mente una capacità di selezione, di scelta, di essenzialità per cui sensato ed acuto finiva con l’essere quel che poi nella rete dello scrivere restava. Così è forse degli scrittori italiani del meridione, siciliani in specie: nonostante il liceo, l’università e le tante letture. (III, 736)

Ma la considerazione più significativa, la nota che costantemente rintocca nelle intercapedini del romanzo, è affidata al figlio della vittima, còlto in uno scatto nei confronti della madre che gli fa balenare, sarcasticamente, una segreta verità:

355 Vuoi dire che non era mio padre?… Guarda: le madri non si possono scegliere, che io di certo non ti avrei scelto… D’altra parte, tu sicuramente non mi avresti scelto come figlio… Ma i padri si scelgono: e io ho scelto Giorgio, l’ho amato, piango la sua morte. Era mio padre. Tu attribuisci troppa importanza al fatto di essere andata a letto con un altro; o con altri. (III, 751-752)

Non poteva mancare in questa autobiografia dell’ombra una riconsiderazione del rapporto con la figura paterna. Una riconsiderazione che si suggella, come a specchio del coevo Alfabeto pirandelliano, nel nome di Pirandello. Perché questo Una storia semplice è: un ultimo, filiale omaggio al grande scrittore conterraneo. E bastino questi pochi dati. La vittima si chiama Roccella, certamente nome diffuso in Sicilia, come vuole Sgroi39, ma, ci piace credere, come evocato in ricordo del protagonista del romanzo pirandelliano A suo marito, Giustino Roncella nato Boggiolo. Un personaggio che, non a caso, ritorna nell’isola alla ricerca delle sue radici, per ritrovare, appunto, le lettere spedite a suo nonno da Pirandello. Ma, soprattutto, il fatto che la rivelazione del responsabile dei delitti avvenga con un riferimento allo scrittore agrigentino, come a proiettare sulla vicenda una definitiva luce di verità. Il brigadiere si chiede come possa aver fatto il suo superiore a tradirsi in modo così grossolano, consentendo la soluzione del caso. Risponde il professor Franzò: «Forse un fenomeno di improvviso sdoppiamento: in quel momento è diventato il poliziotto che dava la caccia a sé stesso». Ed enigmaticamente, come parlando tra sé, aggiunse: «Pirandello». (III, 756)

39.  S.C. Sgroi, «Una storia semplice» di Leonardo Sciascia, in Id., Per la lingua di Pirandello e Sciascia, Sciascia, Caltanissetta-Roma 1991, pp. 355368: p. 356.

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La cara immagine di Pirandello: il padre con cui alla fine ci si riconcilia, ci si identifica. Il padre che gli era capitato e che non avrebbe voluto, a fronte dei tanti che, poi, si sarebbe scelto come antidoti a quell’irrazionale Sicilia dell’uno nessuno centomila. Tutti insieme ritornano, questi fantasmi, nel bilancio steso in Fatti diversi di storia letteraria e civile, che appare per Sellerio in questo stesso 1989, a raccogliere i saggi del trascorrente decennio: pretesti, occasioni, brevi cronache, rapide escursioni che, con la scusa di dipanare un minimo caso, una minima vicenda, si portano dietro l’infinito di una storia privata e pubblica. In questa prospettiva, si capisce che il vero centro del libro non sta nei pur splendidi scritti su Stendhal, D’Annunzio e Tomasi di Lampedusa, ma in quelli che, con nostalgia, con malinconia, ritornano ai decisivi anni dell’adolescenza e dell’apprendistato, come C’era una volta il cinema e L’Omnibus di Longanesi. Particolarmente toccante quest’ultimo, dedicato alla rivista di Longanesi, nella quale, secondo Sciascia, si erano radunate le forze migliori del ventennio tra le due guerre. Un ventennio in cui avevano dato ottima prova di sé tutti gli scrittori decisivi nella sua formazione, diversi e spesso in conflitto, eppure uniti in quel tentativo di sprovincializzare l’Italia autarchica e fascista. E ne diamo qui elenco: Borgese, Cecchi, Savinio, Barilli, Tilgher, Rensi, De Lollis, Cajumi, Longanesi, Brancati, Vittorini, Pavese, Praz, Trompeo, Alvaro, Soldati, Buzzati, Morovich, Piovene, Moravia. Come se, nel tempo estremo, quando i tanti libri scritti gli si scioglievano, gli si confondevano, nei tantissimi libri letti, avesse voluto ricordarli tutti questi scrittori, e tutti chiamarli per nome, uno a uno, a futura memoria. A futura memoria, come il titolo dell’ultimo libro, la cui prefazione è stata scritta pochi giorni prima della morte. Il lettore vi scoprirà ancora la brace delle infiammate requisitorie civili e politiche di Sciascia degli anni Ottanta. Vi leggerà i partecipi ritratti del giudice Terranova e del generale dei carabinieri

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Candida; vi troverà le drammatiche polemiche su Dalla Chiesa e Calvi, su Tortora e Sofri, sui «professionisti dell’antimafia», sulla nomina di Borsellino a procuratore della repubblica di Marsala, sul «teorema Buscetta». Vi ravviserà una nozione di mafia che quel «teorema», con la teoria della «cupola», contesta: Non ho mai creduto che la mafia fosse un fatto fortemente unitario e piramidale; e ritengo che il crederlo produca fuorviazioni […]. La mia opinione è stata sempre che la mafia è una confederazione di mafie: qualche volta in pace, qualche volta in accordo, spesso in conflitto. Conflitti che è da credere nascano appunto dalla volontà di prevaricare, di sconfinare, di sconvolgere l’equilibrio federativo per fame uno stato unitario e assolutistico. (III, 884)

Questioni che, ad affrontarle in questa sede, ci indurrebbero a riscrivere la storia d’Italia di questi ultimi e terribili quindici anni. Specie la questione della mafia, a discutere la quale, dopo tanti studi pregevoli, ma non privi, quando si tocca il caso Sciascia, di qualche fraintendimento40, ci vorrebbe un libro intero. Preferiamo invece leggere, in queste appassionate pagine, i segni di un impegno che nello scrittore ci è sempre parso controvoglia e recalcitrante, dentro una nozione di ragione in cui si rigirava, ormai, come in una gabbia. Quasi che alla sua corda civile avesse affidato la vibrazione di un più privato e profondo disagio esistenziale. Come se quell’8 gennaio 40.  Pensiamo, tra gli altri, al lucido e documentatissimo saggio di S. Lupo, Storia della mafia, Donzelli, Roma 1993, p. 220, dove, quando si parla della polemica con i «professionisti dell’antimafia», e nel segno di una precisa comprensione della posizione di Sciascia circa il «teorema Buscetta», si arriva a dire che lo scrittore, nell’articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 10 gennaio 1987 (III, 862-869), attacchi le ambizioni politiche di Borsellino, come molti subito gli rimproverarono. Cosa non esatta, come Sciascia si trovò amaramente a constatare, e seccamente smentire, su «L’Espresso» del 25 gennaio 1987 (III, 872-874).

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del 1921 Leonardo Sciascia si fosse affacciato, per vaticinio del dio della letteratura, su un paese, Racalmuto, e su un tempo storico, quello dell’incipiente fascismo, della ritornante inquisizione e vi avesse accolto un destino. Non sappiamo dove ora sia, se sia. Ma vogliamo che l’epigrafe incisa sulla lapide della sua tomba nel paese natale, possa suonare per noi come il segno di una non disperata speranza: «Ce ne ricorderemo di questo pianeta».

Indice

Prefazione alla nuova edizione Ventisette anni dopo (per il centenario della nascita)

p. 9

Premessa Dieci anni dopo

p. 13

Postilla

p. 19

Sigle e abbreviazioni

p. 21

Capitolo I Il lungo apprendistato. 1949-1955

p. 23

Capitolo II Da Racalmuto a Regalpetra. 1956-1958

p. 65

Capitolo III Le ragioni del vero. 1959-1964

p. 103

Capitolo IV Per una controstoria d’Italia letteraria e civile. 1961-1969

p. 137

Capitolo V Una microfisica del potere. 1970-1974

p. 187

Capitolo VI Il volto sulla maschera. 1975-1979

p. 243

Capitolo VII L’ordine delle somiglianze. 1979-1985

p. 287

Capitolo VIII Autobiografia dell’ombra. 1985-1989

p. 321

La prima edizione di Storia di Sciascia esce nel 1994 per Laterza. Salutata con entusiasmo da Luigi Baldacci sul Corriere della Sera, cambierà profondamente la storia della ricezione critica del grande siciliano. Riedito da Laterza nel 2004, con una premessa dell’autore riportata anche in questa nuova edizione, Storia di Sciascia si configurò prestissimo come un classico imprescindibile della critica italiana contemporanea. Classico che, 27 anni dopo, nell’anno del centenario della nascita di Leonardo Sciascia, non smette di essere contemporaneo, di farsi interrogare e di interrogarci.

Opere I

Storia di Sciascia

«Ne è venuto fuori uno Sciascia sottratto all’etichetta di superficialità giornalistica cui ancora, non di rado, lo si riconduce: quella dell’illuminismo. Nella convinzione, credo suffragata qui da una vasta mole di documenti, che gli stessi indici di razionalità e laicità della sua opera possano e debbano essere fortemente problematizzati. Per uno scrittore che fu profondamente suggestionato dai meccanismi inquisitoriali del Potere, dalla sua natura costitutivamente controriformistica: e che, sotto le rigorosissime arcate della sua ipotassi, sotto la limpida architettura della sua prosa, mi s’è rivelato come lo scrittore d’un suggestivo barocco mentale. Per non dire della questione del realismo, che lo ossessionò nelle vesti di lettore e interprete dei suoi conterranei, come perlustratore della «sicilitudine»: ed in effetti, scrittore della realtà quale fu, si trovò a sostenere, soprattutto negli anni ultimi, che la realtà può essere generata dalla letteratura, e che dalla letteratura acquisti il suo sigillo di verità».

Opere di Massimo Onofri | I ISSN: 2724-6027 € 24,00

ISBN ebook 9788855290432