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Italian Pages 126 Year 1999
ISTITUTO GRAMSCI EMILIA-ROMAGNA DIPARTIMENTO DI SCIENZE DELL’EDUCAZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
SE I BAMBINI STANNO A GUARDARE Trasmissioni televisive, modelli culturali, immaginario infantile a cura di MATILDE CALLARI GALLI e GUALTIERO HARRISON
Settembre 1999
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© 1999 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
Se i bambini stanno a guardare, trasmissioni televisive, modelli culturali, immaginario infantile / a cura di Matilde Callari Galli e Gualtiero Harrison. – Bologna : CLUEB, 1999 125 p. ; 21 cm (In testa al front. Istituto Gramsci Emilia-Romagna) ISBN 88-491-1332-3
CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com Finito di stampare nel mese di settembre 1999 dalla XEROX - Anzola dell’Emilia (BO)
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INDICE pag.
Premessa, di Matilde Callari Galli e Gualtiero Harrison ...............
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Il nostro presente: schermi televisivi e contemporaneità, di Matilde Callari Galli ............................................................................
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Dalla galassia Gutenberg alla galassia Marconi. Il ruolo dell’antropologia nella comunicazione totale, di Gualtiero Harrison .......
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Libri e tv, nuove letture e vecchi nemici, di Anna Maria Gianotti ..
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Immagini scarnificate. Le “metamorfosi” della violenza nei mass media, di Giovanna Guerzoni .........................................................
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Mamme, campanili e vampiri. Immagini del “medesimo” e dell’“altro” nella televisione che i bambini guardano, di Cristina Rossi ...............................................................................................
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Bibliografia ....................................................................................
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Premessa di Matilde Callari Galli e Gualtiero Harrison
Produttrice di discorsi, immagini, storie, la televisione è anche spazio e oggetto di discorsi; un campo, quest’ultimo, cruciale per coloro che si occupano di educazione nei diversi settori formativi – dalla scuola all’extra-scuola, dai servizi rivolti agli stranieri all’educazione degli adulti – che caratterizzano la società in cui viviamo. A differenza della maggior parte della letteratura in circolazione – per lo più di taglio psicologico, pedagogico e sociologico – il testo propone un’analisi antropologica della televisione nella società contemporanea privilegiando alcuni nuclei tematici per le loro ricadute in ambito formativo. La trasmissione dei messaggi massmediologici appare oggi sempre più ambigua e antinomica: da un lato, essi formano una “grande famiglia televisiva”, una sorta di unità culturale e sociale allargata sino a comprendere milioni di individui, accomunati dalle stesse immagini, dalle stesse notizie, dallo stesso tipo di fruizione della comunicazione, dallo stesso linguaggio e, almeno in parte, dalle stesse emozioni, dalle stesse attese, dalle stesse aspirazioni; dall’altro, i materiali culturali che essi forniscono vengono percepiti, interpretati e rielaborati in modo assai difforme, a seconda delle differenti realtà individuali e locali su cui si innestano. Tra unità e differenziazione, il messaggio televisivo si caratterizza per la sua multivocalità inculturativa – “metafora”, quasi, della contemporaneità – in cui i messaggi veicolati dalle reti televisive che, sempre più, si avviano ad una diffusione planetaria, contribuiscono a costituire immaginari collettivi che influenzano direttamente i meccanismi della formazione del senso di appartenenza e/o di spaesamento rispetto a questo o a quel gruppo, che guidano l’elaborazione di processi identitari complessi e dinamici i quali spesso si alternano nel corso della vita di uno stesso individuo, anche in modo contraddittorio. È su questa dinamica incessante tra vicino e lontano, tra messaggi orali e messaggi scritti, tra rapporti diretti e virtuali, tra il materiale e l’immateriale, che buona parte dell’umanità pro5
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duce, interpreta e trasmette alle giovani generazioni visioni del mondo, modelli di comportamento, rappresentazioni del sé e dell’altro individuali e collettive. La complessità e l’importanza dei mass media nella nostra cultura ha provocato accesi dibattiti e schieramenti spesso contrapposti, ma soprattutto, crediamo abbia sollecitato negli insegnanti e negli educatori l’esigenza di approfondire la conoscenza dei processi che legano e trasformano la cultura contemporanea nel suo essere “mediata” dal poliforme linguaggio televisivo riconoscendone l’importanza quale “spazio” formativo di cui fruiscono le nuove generazioni. Il discorso sui mass media – sul loro ruolo nell’informazione, nella politica, nell’educazione – è oggi un campo al centro della ricerca sociale, cui questo libro intende contribuire fornendo il punto di vista dell’analisi antropologica. I contributi del libro rimandano a uno “sfondo” comune, ma, al tempo stesso, approfondiscono tematiche specifiche e trasversali: i temi del rapporto tra identità e alterità continuamente ridisegnati dalla televisione immettono nuove visioni e pratiche dei rapporti tra locale e globale (Matilde Callari Galli); è lo sfondo su cui si collocano nuove interpretazioni della realtà in cui viviamo: ad esempio del diritto alla comunicazione quale diritto dell’infanzia (Gualtiero Harrison), del discorso oscillante tra il sé e l’“altro” che continuamente rielabora i processi identitari (Cristina Rossi), delle trasformazioni che le immagini televisive della violenza apportano al “discorso” sulla violenza come rappresentazione culturale (Giovanna Guerzoni), del rapporto tra fruizione televisiva e letteratura per l’infanzia (Anna Maria Gianotti). Questo libro è frutto di un’esperienza di ricerca pluriennale, condotta dall’équipe di antropologia culturale del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, sul linguaggio televisivo con particolare riguardo ai processi che legano la televisione alla costruzione dell’identità e, dunque, all’infanzia-telespettatrice delle società complesse. Siamo debitori del titolo del libro – Se i bambini stanno a guardare... – ad un importante video, realizzato da Matilde Callari Galli, Francesco Conversano, Nene Grignaffini, promosso dalla Regione Emilia-Romagna, ormai alcuni anni fa. Il video – anzi i video, uno rivolto ai maestri, l’altro ai genitori – proponeva percorsi di “lettura” del messaggio televisivo per sollecitare, nelle famiglie e nella scuola, un nuovo modo, più consapevole, di rapportarsi alla televisione. Il video ha anche ricevuto una nomination al concorso internazionale degli audiovisivi educativi di New York (1997), ma, purtroppo, scarsa diffusione nelle scuole della stessa regione Emilia-Romagna. Con questo libro si propone un’analisi culturale del messaggio della 6
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televisione degli anni ’90 quale uno dei nuovi processi di trasmissione culturale che qualificano, per la prima volta nella storia dell’umanità, la cultura contemporanea ridisegnandone innanzitutto il rapporto tra locale e globale; ma esso è anche uno strumento di lavoro rivolto, in particolare, a coloro che operano in ambito educativo (gli insegnanti della scuola di base, gli educatori scolastici e dell’extrascuola, i formatori di formatori) in cui i diversi temi che articolano la nostra analisi culturale si integrano rispetto ad ipotesi di ricerca comuni. Il libro esprime, in fondo, la necessità – e l’auspicio – di nuovi percorsi di educazione all’immagine e al linguaggio televisivo – campo decisivo nell’educazione all’infanzia – in grado di aprire la scuola al linguaggio della telvisione come uno dei linguaggi della contemporaneità nel quale tutti siamo immersi, ma anche come possibile dispositivo per far emergere nella scuola la multivocalità della cultura in cui viviamo e dei suoi piccoli allievi.
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Il nostro presente: schermi televisivi e contemporaneità di Matilde Callari Galli
I. Mondi contemporanei 1. Globalizzazione e particolarismi Ogni anno, quasi seicento milioni di individui varcano un confine internazionale per seguire le mode e le occasioni del turismo di massa, mentre sono centinaia di milioni le persone – donne e uomini soli, famiglie, interi gruppi – che emigrano per motivi economici, si ritrovano esuli o profughi a seguito di conflitti e deportazioni o scelgono semplicemente di vivere all’estero, disegnando così i loro destini all’interno di spazi tanto vasti quanto il pianeta. Come appare da questi dati (Dhombres D., 1997), la nostra epoca è caratterizzata da una sempre crescente mobilità degli individui che la abitano: si nasce ricchi in Bangladesh e si crescono i propri figli nei quartieri popolari di una grande città europea e francofona; si diventa “ahragas” – ovvero “si brucia” il proprio passato – aggrappati ad un’imbarcazione troppo affollata che, con un po’ di fortuna, ci farà attraversare il Mediterraneo da Sud verso Nord; si passa la propria giovinezza all’estero per completare gli studi; si trascorrono le vacanze in paesi lontani alla ricerca di evasione, esotismo o conoscenza; si “soggiorna” in campi profughi attraverso la cui rete invalicabile si osservano pezzi di un mondo che, visto alla televisione, sembrava ben più allettante; si lavora in una città di cui i nostri nonni sospettavano appena l’esistenza. La figura del migrante appare oggi come la più adeguata per descrivere noi stessi e i nostri contemporanei (Chambers I., 1996), poiché anche coloro che nascono, vivono e moriranno nel medesimo luogo partecipano di un movimento di dislocazione collettiva attraverso i mass media e le nuove tecnologie comunicative. Ed è proprio in questo che consiste la peculiarità del nostro tempo: televisione, telefono, fax e computer immergono ognuno di noi in un “flusso culturale globale” (Callari Galli 9
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M., 1998 a)) veicolante non soltanto semplici informazioni, ma anche idee, rappresentazioni del mondo, linguaggi, immaginari e ideologie. La maggior parte dei messaggi che ci sfiorano o ci colpiscono, infatti, circolano sotto forma di immagine, la quale, come vedremo in seguito, “esercita un’influenza, possiede una forza, che eccede di molto l’informazione di cui è portatrice” (Augé M., 1993, p. 34). Nel mondo che abitiamo, disseminato di schermi piccolissimi e giganti, tutto sembra darsi e farsi in tempo reale, “qui ed ora”: nella percezione di ciascuno, gli avvenimenti si moltiplicano producendo una sorta di accelerazione della storia (Augé M., 1993); lo spazio attorno a noi si dilata e paradossalmente si restringe poiché ogni luogo è raggiungibile in poche ore di volo e qualsiasi messaggio può pervenire in pochi istanti ad un destinatario che fisicamente si trova a migliaia di chilometri. Questi movimenti di individui, immagini e messaggi sono strettamente connessi ai processi di globalizzazione dei mercati economici (Barber B., 1998) e sono spesso determinati da meccanismi finanziari le cui logiche ed il cui controllo sfuggono non soltanto ai cittadini, ma anche ai governi nazionali. Ed essi producono nuove rappresentazioni culturali e nuovi criteri di aggregazione politica e sociale, mentre, sotto il loro impatto, altri sembrano dissolversi o comunque trasformarsi: nuove identità si formano nell’incrocio e nell’ibridazione di esperienze, modelli, consumi ed immaginari collettivi dalle provenienze più eterogenee. La soggettività sembra, così, accentuarsi, ponendosi sempre più come scommessa centrale dei destini individuali: la proliferazione di immagini e modelli spesso difformi da quelli in base ai quali siamo stati educati, l’indebolimento di istituzioni aggreganti quali sindacati, partiti, associazioni confessionali, l’onnipresente inno all’“io”, declamato dalla pubblicità e dalle riviste di moda, ci spingono verso configurazioni identitarie da un lato sempre più omogenee ma dall’altro, paradossalmente, sempre più singolari: “a ciascuno la propria cosmologia, ma, al contempo, a ciascuno la propria solitudine” (Augé M., 1997, p. 41). Quello che oggi appare veramente nuovo è la diffusione della consapevolezza di questi mutamenti, la percezione – negli immaginari collettivi – di possibilità e di sviluppi molteplici e contraddittori che attraversano contemporaneamente la vita quotidiana di milioni di individui fino a qualche decennio fa ignoti gli uni agli altri e oggi, almeno virtualmente, posti, invece, gli uni di fronte agli altri. La consapevolezza dell’interconnessione, della differenza e della molteplicità degli stili esistenziali potenzialmente adottabili si traduce in una sorta di dereificazione e di denaturalizzazione della propria identità d’origine (Callari Galli M., 1998 a)), come se attraverso il contatto culturale – vissuto o virtuale che sia – o at10
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traverso la planetarizzazione dei consumi, ognuno di noi prendesse coscienza del fatto che la propria “tradizione” è contingente, soggetta all’azione della storia, “cosa umana”, relativa, passibile di modifiche, aggiustamenti, contaminazioni. In un pianeta in cui i destini di individui e nazioni divengono sempre più manifestamente interdipendenti, composto da megalopoli e da paesi i cui cittadini sono sempre più eterogenei per provenienze, origini e vissuti, tale presa di coscienza ha senza dubbio una valenza positiva, poiché rappresenta un importante prerequisito per la convivenza democratica. Gli effetti sociali della globalizzazione, tuttavia, non si esauriscono in questi esiti ottimistici: nel contatto con usi, costumi e rappresentazioni profondamente diverse – che avviene senza mediazioni e per lo più esclusivamente tramite immagini – si verificano anche investimenti emotivi incontrollabili, dislocazioni di valori e di comportamenti imprevedibili e cariche di equivoci. Nel “turismo sessuale” praticato prevalentemente dagli occidentali, ad esempio, si fondono vantaggi economici e richiami dell’esotismo, attrazione per il viaggio e l’avventura e fantasie sessuali che colorano di perversione e sadismo inconfessato il rapporto tra i sessi e quello con realtà “altre”. I punti d’incontro reale sono spesso ben lontani dallo sfavillio delle immagini televisive: gli squallidi locali di Bangkok dove si esibiscono entreneuses-bambine “numerate” per facilitare la scelta del cliente, gli scaffali dei supermercati su cui troneggiano cibi “etnici” inscatolati e dai sapori artefatti, i free-shop degli aeroporti di tutto il mondo con la loro volgare, spesso falsa convenienza, i mercati “delle pulci” delle metropoli asiatiche e africane, i “centri di raccolta” dei cosiddetti clandestini che cercano una vita migliore nel nostro paese, le strade secondarie in cui aspiranti cameriere sono costrette a prostituirsi. Nonostante le lusinghe consumistico-televisive, nonostante le promesse della cultura “McWorld” (Barber B., 1998), il nostro non è un mondo in cui le chance di miglioramento della qualità della vita si siano realmente moltiplicate per i suoi abitanti: ci troviamo, piuttosto, di fronte ad un’umanità che nella sua interezza si avvia a prendere dolorosamente coscienza, oltre che della differenza, del divario incolmabile che esiste tra ciò cui viene educata ad immaginare come possibile e ciò che la vita sociale le consente di realizzare. Il neoliberalismo dilagante, infatti, rafforza e rende simili le élite di tutto il mondo, allargando spaventosamente la forbice della diseguaglianza; la mondializzazione dei mercati e dell’informazione mette in rapporto situazioni fisicamente lontane alimentando tensioni e conflitti; e i vissuti personali divengono sempre più intrisi di costruzioni immaginarie che a volte non restano solitarie esercitazioni o 11
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produzioni artistiche individuali, ma – divenute patrimonio di un gruppo – si trasformano in nuovi generi di espressione collettiva, in nuove richieste di spazi comunitari, in nuove proposte politiche che richiedono strategie inedite di sorveglianza e/o provocano risposte repressive da parte delle élite. 2. Dal “passing” alle “identità di sostegno” Ad analizzare i processi identitari dell’età contemporanea ci troviamo di fronte a due movimenti opposti ma coesistenti: da un lato siamo coinvolti in processi che potremmo definire uniformizzanti gli stili di vita e le aspirazioni identitarie, la planetarizzazione dei mercati tende a presentarci l’identità come una merce che si può vendere e comprare, il contatto alleggerisce e rarefà la consistenza ontologica dell’origine e della “tradizione”, da un paio di decenni le avanguardie culturali predicano la fine delle appartenenze stabili e l’affermarsi di modelli esistenziali basati sul passing, cioè sul tentativo di mutare razza e status, di oltrepassare un accesso vietato (Camaiti Hostert A., 1996). Dall’altro lato, tuttavia, un numero sempre crescente di individui, gruppi e nazioni rivendica l’irriducibilità della propria identità ed il proprio diritto a viverla pienamente, ovvero separatamente. A vari livelli e nel quadro di contesti storici, sociali e politici assai differenziati, in tutto il mondo si producono fenomeni di particolarismo identitario: le forme di comunitarismo incentrate sull’Islam in Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti (Kepel G., 1996), i regionalismi – di cui la Lega Nord-Liga Veneta costituisce un eloquente esempio nostrano (Diamanti I., 1996; Biorcio R., 1997) –, i nazionalismi che nelle loro manifestazioni più esasperate conducono a conflitti sanguinosi e duraturi, così come è avvenuto nella ex-Jugoslavia (Martelli F., 1997). Gli esempi da portare sarebbero, purtroppo, ancora numerosi: è stato calcolato, infatti – e si tratta di un dato che risale al 1974 – che a partire dalla seconda guerra mondiale 20 milioni di persone abbiano perso la vita a causa di conflitti classificabili come “etnici” (Poutignat Ph., Steiff-Fenart J., 1995). Ed è proprio il paradigma dell’etnicità, in molti casi, a dar forma e a “giustificare” l’irrigidimento o l’“invenzione” della tradizione (Hobsbawm E. J., Ranger T., 1987), l’attaccamento ad una propria identità culturale “autentica”, l’enfasi sulle radici. L’emergenza di particolarismi etnico-identitari – fenomeni complessi ed antinomici che non possono essere liquidati come forme di mero arcaismo e che coinvolgono un numero sempre crescente di società (Fabietti U., 1998) – si produce proprio mentre i confini e le prerogative degli stati-nazione si 12
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affievoliscono: nell’era della globalizzazione si continua a suscitare il conflitto e persino a morire per un “noi” che sta per patria, origine, sangue, tradizione, elementi che si affermano, così, come categorie quanto mai pertinenti per descrivere i meccanismi dell’appartenenza e dell’identità nel mondo contemporaneo. Paradossalmente, proprio la deterritorializzazione risulta essere uno dei fattori più rilevanti delle manifestazioni ipertrofiche del radicamento: le difficoltà di inserimento incontrate da chi si trasferisce in una società occidentale, ad esempio, possono determinare, in coloro che hanno abbandonato paese natale e lingua madre, un nuovo sentimento di attaccamento, un nuovo senso di lealtà nei confronti di ciò che con l’emigrazione essi avevano tentato, piuttosto, di cancellare o di mutare. Le aggregazioni fondamentaliste trovano alimento ideale e sostegno pratico nelle condizioni di vita degli immigrati, nella reazione all’esclusione e allo sradicamento cui li sottopone la loro condizione di stranieri e – spesso – di emarginati, nelle difficoltà “oggettive”, “materiali”, di praticare la propria fede religiosa nei paesi d’accoglienza, nella facilità con cui, su tutto questo, si innestano la propaganda e il fanatismo di alcuni gruppi politici e dei loro leader locali (Sofri G., 1996; Kepel G., 1996). In fondo, membri delle società dette “tradizionali”, cittadini delle excolonie o dei paesi industrializzati, siamo tutti nella medesima situazione: se i movimenti – reali o virtuali – trasportano gli “altri”, gli abitanti delle campagne e delle megalopoli africane ed asiatiche o i fuggiaschi delle regioni orientali dell’Europa, in habitat per essi nuovi e sconosciuti, anche in Occidente i cambiamenti si susseguono senza posa. Per parlare dei più quotidiani, non possiamo non vedere che le case in cui siamo stati bambini sono oggi edifici smantellati, che i giardini dove abbiamo giocato da piccoli si sono trasformati in quartieri a sviluppo edilizio intensivo, che le dune di sabbia delle vacanze della nostra giovinezza sono state ricoperte di hôtel, mini-golf e discoteche. Per molti aspetti, poi, il mondo che avevamo “conosciuto” sui banchi di scuola non esiste più, ed i modelli di identità e di relazione assimilati durante l’infanzia e l’adolescenza risultano spesso, nell’attuale contesto della nostra vita, inapplicabili, inservibili o addirittura “pericolosi”. A tutto ciò corrispondono e si uniscono trasformazioni più generali: la fine del mondo organizzato secondo la polarità Est/Ovest ed il conseguente estinguersi del “nemico tradizionale” (Amselle J. L., 1994), l’indebolimento del paradigma politico sinistra/destra, i processi di integrazione europea e la progressiva sparizione dei confini ad essa relativa, la riorganizzazione delle politiche interne nazionali spesso effettuata ai danni dei “paracaduti sociali”, le trasformazioni demografiche, l’immer13
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sione continua e in molti casi passiva nel “flusso culturale globale” sembrano generare un disagio esistenziale e materiale, uno sperdimento cognitivo e identitario, che molti dei nostri contemporanei – che siano essi migranti reali o virtuali – faticano a colmare. Così, il fascino esercitato dalla forza e dalla non-complessità delle “identità di sostegno” (Devereux G., 1975) di tipo etnicizzante colpisce sempre di più anche coloro i quali vivono la deterritorializzazione in qualità di autoctoni. 3. Deterritorializzazione e trasversalità Migrazioni, circolazione vertiginosa di immagini e di rappresentazioni, economie interdipendenti governate da ineffabili equilibri finanziari, ibridazione continua di modelli, visioni del mondo e immaginari, omologazione degli stili e delle aspirazioni, rivendicazioni di identità talmente particolari e “sacrali” da non poter sopportare l’esistenza dell’“altro”: la complessità del mondo contemporaneo risiede anche nel fatto che i suoi luoghi, i “dove” in cui si producono e si articolano questi elementi, sembrano non corrispondere più alle categorie, anche spaziali, che fino ad oggi hanno conferito senso e conoscibilità all’esistente, al “medesimo” e all’“altro”, al “noi” e al “loro”. I movimenti reali e simbolici che percorrono capillarmente l’intero pianeta mettono in discussione, infatti, l’unilinearità del rapporto tradizionalmente postulato tra individuo, gruppo e territorio. Anche la costruzione degli oggetti della ricerca antropologica, fino a pochi decenni fa fondata sulla pertinenza e sull’omogeneità della triade “una comunità, un territorio, una cultura”, si rivela oggi assai problematica, poiché il legame esistente tra i tre termini è divenuto – ma probabilmente lo è sempre stato (Amselle J. L., 1990) – evanescente e complesso. L’elaborazione del concetto di cultura rappresenta certamente uno dei contributi più rilevanti dell’antropologia alle scienze umane: l’aver separato gli ambiti culturali da ogni determinazione biologica e razziale ha avuto importanti implicazioni teoriche e politiche. Ciò è stato possibile grazie a decenni di ricerche, nel corso delle quali gli antropologi, lavorando nei contesti più diversi, hanno ricostruito le connessioni culturali che collegano le molteplici particolarità umane all’unicità della nostra specie. L’individuazione di sistemi culturali diversi, analizzati nei loro aspetti più minuti e idiosincratici, ha tuttavia finito per modellare l’immagine di un mondo costituito da un insieme di società separate le une dalle altre ed aventi ciascuna una cultura propria e peculiare (Stocking G., 1982; Bazin J., 1985). La distinzione teorica tra cultura umana e culture umane 14
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ha determinato l’intero quadro di sviluppo della disciplina. Dal punto di vista metodologico, essa ha permesso di operare un’importante mediazione tra l’affermazione dell’unicità della specie e l’evidente differenziazione delle sue manifestazioni, ovvero delle culture. Sul piano politico, questa distinzione ha inoltre consentito di lottare contro il razzismo esplicitamente affermato in Europa negli anni Trenta e Quaranta e al tempo stesso di non trascurare e di difendere sempre e comunque le differenze, persino le più estreme (Callari Galli M., 1974). Il modello costituito da un mondo-mosaico composto di tessere-culture ha portato a studiare ogni cultura come un mondo chiuso in sé, il cui senso si esaurisce e si produce essenzialmente “dall’interno”. Del resto l’immagine delle culture prodotta da tale modello corrispondeva all’assetto politico di un mondo che, dovendo cedere la propria supremazia “assoluta”, era ben deciso a conservare quella “relativa” attraverso rapporti diseguali, affermati e difesi politicamente ed economicamente. Cercando un esempio concreto, le descrizioni delle culture “altre” della prima metà del nostro secolo potrebbero essere paragonate ad una serie di foto istantanee che ritraggono le singole culture come chiuse in sé, immobili, intatte fino al momento fatale nel quale il contatto con l’Occidente avrebbe conferito loro movimento, cambiamento, storicità, facoltà di scambio. Fin dall’inizio del secolo, questo modello indusse a pensare che “una cultura” fosse indissociabilmente legata ad un popolo, ad un’etnia, ad una nazione, ad un territorio. L’accelerazione ed il moltiplicarsi degli spostamenti di individui e di materiali culturali, la velocità e la forza inculturativa delle immagini che passano quotidianamente davanti agli occhi di un numero sempre crescente di individui, scardinano la rappresentazione delle culture come monadi, come tessere a sé stanti dell’umano mosaico. La trasversalità che oggi manifestamente coinvolge l’intero pianeta fa sì che non sia più possibile immaginare comunità “naturalmente” coese intorno a valori comuni e particolarissimi, né comunità i cui membri accettino o rifiutino all’unisono l’adesione a modelli interni; né, al contrario, comunità i cui membri accettino concordemente l’oppressione da parte di un’altra comunità altrettanto coesa ed univoca nell’accettare le proprie regole o nell’opprimere altri gruppi. I conflitti scoppiati in megalopoli occidentali come Londra, Los Angeles e Parigi o nei grandi aggregati urbani dell’Oriente, le guerriglie urbane durate giorni, portano alla luce il ribollire di tensioni, antagonismi e odii che contrappongono coreani e portoricani, afroamericani e cinesi, cambogiani e vietnamiti, ma anche il disoccupato e il wasp upper-class, lo squatter e il poliziotto, il militante di Sos Racisme e il suo concittadino che vota Front National. 15
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Numerose, poi, sono le forme di produzione artistica “emergenti” che – pur descrivendo l’incommensurabilità di certe differenze, la violenza coloniale che insegue le sue vittime fin nel mondo contemporaneo, lo sperdimento del migrante – testimoniano le contaminazioni, i meticciati, le trasversalità, i nomadismi reali e culturali della nostra epoca. Con una certa casualità costruisco, a scopo esemplificativo, una loro rapida carrellata, e ricordo le opere letterarie di Amos Tutuola in cui si fondono lingua inglese e tradizione yoruba; quelle di Hanif Kureishi, “vero inglese nato da padre pakistano”; i romanzi del bengalese Amitav Ghosh – laureato in antropologia all’Università di Oxford – che incrociano storie, tradizioni, tempi e luoghi diversi rendendo con grande efficacia le commistioni culturali di oggi e di sempre. E ad esse accosto il nomadismo e la tradizione raccontati per proverbi africani in odore di fumetto e per frammenti d’immagini un po’ televisive e un po’ “gauguiniane” nelle tele del pittore zairese Chèri Samba; le sculture di Romuald Hazoumé che coniugano arte povera e canoni stilistici tradizionali, plastica e capelli umani; le “autobiografie-saggio-romanzo” scritte in un francese arricchito di creolo da Edouard Glissant e da Patrick Chamoiseau, anch’essi etnologi: le innumerevoli contaminazioni che animano queste produzioni rivelano i limiti epistemologici di ogni idea etnocentrica e monoculturalista. Esse ci invitano a superare il paradigma della purezza culturale e ad assumere come dato rilevante di ogni analisi, di ogni riflessione, di ogni attività di trasmissione culturale, la nomadicità e la contaminazione insite nelle configurazioni identitarie del nostro tempo. Soprattutto ci spingono a porre contaminazione e nomadismo alla base di nuovi modelli di trasmissione culturale, di educazione, di istruzione che contribuiscano ad allontanare dalla nostra contemporaneità, insieme alle “patrie immaginarie”, anche i lager, i gulag, le “pulizie etniche” e i “killing fields” (Rushdie S., 1991). 4. Coesistenza ed incrocio di modelli Se trasversalità, deterritorializzazione e contaminazione culturale si rivelano concetti-chiave per descrivere, interpretare, comprendere ed agire nel mondo contemporaneo, se la triade “una comunità, un territorio, una cultura” non rispecchia più – se mai lo ha fatto in termini rigorosi – l’assetto delle società in cui viviamo, dobbiamo tuttavia tener conto del fatto che la dimensione locale continua a funzionare come produttrice di rappresentazioni e di immaginari. La nostra analisi, infatti, non intende negare l’esistenza di comunità 16
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che organizzano la loro vita sulla base di una certa stabilità sociale e territoriale, di legami familiari, di continuità generazionali e culturali, di forme tradizionali di divisione del lavoro. Ma queste comunità sono oggi attraversate e in parte modellate da correnti globalizzanti che permeano e trascendono la dimensione locale configurandosi come richiami alla necessità o al desiderio di cambiare residenza – e con essa lingua, lavoro e abitudini – o come immagini e suoni teletrasmessi che si trasformano in nuovi materiali culturali ibridando gli immaginari locali. Il “dove” si producano identità e culture nel mondo contemporaneo si rivela, ancora una volta, complesso: così come avviene per la triade “cultura, comunità, territorio”, anche il paradigma della globalizzazione rappresenta, più che una realtà materiale e monolitica, un modello di analisi. È necessario, inoltre, introdurre parole pacate ed analisi approfondite nell’affannoso disegnare scenari apocalittici al quale di frequente si abbandonano i mass media, ma anche le scienze umane. Quando ci interroghiamo sugli esiti prodotti dalle contrapposte e parallele correnti che percorrono il mondo contemporaneo – planetarizzazione culturale legata agli equilibri economici e allo sviluppo delle tecnologie comunicative e rivendicazioni più o meno virulente delle molte identità e delle molte culture, globalizzazione e localismi – dobbiamo ricordare che “la mondializzazione interessa solo alcuni settori del sociale, anche in quei paesi che ne sono il fulcro. La storia (infatti) si gioca negli strati più profondi di una sociologia in cui si accavallano elementi pre-moderni, moderni e sovramoderni” (Augé M., 1995, p. 27). La circolazione di flussi culturali globali rappresenta uno degli aspetti del mondo contemporaneo: la coesistenza, in esso, di più modelli, richiede griglie d’interpretazione che non si limitino a coglierne le caratteristiche più macroscopiche o più “spettacolari”. Quelle che ci occorrono – come studiosi, insegnanti, genitori e cittadini – sono categorie interpretative che ci permettano di descrivere e comprendere il farsi delle identità e delle culture all’incrocio tra locale e globale (Kilani M., 1989), dimensioni che gli attori sociali nostri coevi sperimentano simultaneamente grazie alla possibilità di “vedere” nello stesso tempo il vicino e il lontano (Peters J. D., 1997). Fin dal diciottesimo secolo, infatti, i giornali, i romanzi, le statistiche, le enciclopedie, i dizionari, gli atlanti geografici – rappresentando invisibili totalità sociali, “comunità immaginate” (Anderson B., 1996) – hanno permesso ai loro lettori e fruitori di avere una visione bifocale del mondo. A questi strumenti di trasmissione culturale si sono aggiunti, nel mondo contemporaneo, i mass media audio-visivi. Questi ultimi, pur svolgendo la stessa funzione narrativa e aggregante, sono tecnicamente strutturati in modo tale da fornire visioni del globale apparentemente coerenti e facil17
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mente afferrabili, mentre il locale, la cui percezione dipende dalla nostra sensorialità, viene esperito come incoerente e fluttuante: la nostra percezione di un cielo azzurro, ad esempio, è minata dall’immagine teletrasmessa da un satellite che “vede” il temporale avvicinarsi. La televisione scardina la nozione secondo la quale i luoghi rappresenterebbero contenitori di culture integrate: le sue immagini e i suoi messaggi viaggiano verso di noi senza aspettare che noi viaggiamo verso di loro. I contenuti e le forme televisive sono mediati dall’economia e dal mercato. Essi non sono radicati in un luogo, in una tradizione, in una località. Probabilmente nessuna comunità, oggi, si caratterizza attraverso una visione meramente localistica, e la relazione tra locale e globale andrebbe pensata in termini di configurazione e costruzione piuttosto che come giustapposizione ed articolazione di universi conchiusi e disgiunti: la persona che interpreta il cielo blu passando per la mappa del satellite rappresentata sullo schermo televisivo inverte la fiducia nella propria capacità di percezione incrociando quest’ultima con un tipo di conoscenza appartenente ad un altro ordine. Il “punto di vista dell’indigeno”, allora, si produce tanto attraverso la fruizione televisiva, quanto grazie all’esperienza diretta e sensoriale relativa alla propria localizzazione spaziale ed al proprio gruppo di appartenenza: la televisione, infatti, può rappresentare una parte integrante – o, meglio ancora, una parte costitutiva – dell’esperienza quotidianamente vissuta dalle comunità. L’idea di guardare il mondo attraverso la stessa lente bifocale con cui lo vede un numero sempre crescente di attori sociali giustifica l’interesse che dagli anni ’60 la corrente antropologica poststrutturalista dei cultural studies manifesta per i media, il cinema e la televisione in quanto “luoghi di processi culturali” (Pandolfi M., 1997). La complessità dei vettori economici e politici, delle costruzioni culturali, delle immaginazioni in gioco nei mondi contemporanei – e le loro tutt’altro che trascurabili componenti emotive, affettive e simboliche (Callari Galli M., 1997 a)) – ci spingono a percorrere analiticamente i territori dell’arte, della letteratura, della televisione, della produzione di immaginari. Compito della ricerca antropologica diviene, per molti di noi, quello di tentare di catturare l’impatto che la deterritorializzazione esercita sulle capacità immaginative delle esperienze locali e dei vissuti personali.
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II. Trasmissione culturale e mass media 1. Cultura ed identità nell’era della comunicazione televisiva I processi di trasmissione culturale costituiscono la caratteristica che distingue la specie umana dalle altre specie animali: mentre la possibilità di sopravvivenza di queste ultime dipende in massima parte da “programmi” geneticamente determinati, quella dell’homo sapiens è legata soprattutto alla capacità di memorizzare, simbolizzare e trasmettere attraverso le generazioni una determinata gamma di saperi e comportamenti (LeroiGourhan A., 1977). In ogni società umana, nessuna esclusa, vi è dunque trasmissione culturale: ogni gruppo, in ogni epoca e in ogni luogo, elabora modalità specifiche attraverso le quali i materiali prodotti dall’interazione dinamica di insegnamento-apprendimento vengono veicolati, interpretati, modificati nel passaggio da una generazione ad un’altra (Callari Galli M., 1993). Ogni società, in altre parole, fornisce ai propri membri, ed in particolare a quelli più giovani, materiale culturale sul quale esercitare la fantasia, imparare a conoscere la vita che li attende, capire quali potranno essere i vantaggi, i pericoli e le trappole di determinate scelte. I mezzi di comunicazione di cui una società dispone per trasmettere i propri saperi, valori e modelli giocano un ruolo importante nella strutturazione della sfera cognitiva e della percezione della realtà degli individui che ne fanno parte, contribuendo a determinare alcuni aspetti del pensiero quali le concezioni del tempo, dello spazio e del rapporto tra l’individuo e la collettività (Goody J., 1987). Tenendoci a dovuta distanza da semplicistici e pericolosi determinismi, e ricordando che “tutti gli uomini hanno la testa ugualmente ben fatta” (Lévi-Strauss C., 1964), dobbiamo ricordare che molte ricerche hanno da tempo dimostrato che oralità, scrittura, e tecnologie elettroniche sono mezzi di espressione simbolica le cui specificità influiscono sui contenuti e sulle modalità di organizzazione del pensiero e dell’azione umana nelle sue variegate espressioni storiche e contemporanee (Harrison G., Callari Galli M., 1971; Havelock E. A., 1973; Callari Galli M., Harrison G., 1974; Vernant J. P., 1974, 1996; Seppilli A., 1979; Ong W., 1986; Goody J., 1987; De Kerckhove D., 1995; Stiegler B. e al., 1993; Augé M., 1997). I processi che hanno condotto l’umanità verso una sempre più spiccata “esteriorizzazione” delle proprie capacità tecniche, mnemoniche e simboliche attraverso l’utensile e la macchina, l’oralità, la scrittura e le nuove tecnologie comunicative (Leroi-Gourhan A., 1977), si incrociano, oggi, in un mondo nel quale un numero sempre crescente di individui ri19
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ceve ed invia messaggi utilizzando quotidianamente il linguaggio orale, quello scritto e quello iconico audiovisivo di televisioni e computer. Questa varietà di codici conferisce a molti abitanti del pianeta la possibilità di vivere al contempo nel “vicino” e nel “lontano” allargando considerabilmente lo spazio all’interno del quale si producono i processi di trasmissione culturale (Callari Galli M., 1996). Se accettiamo di definire la cultura come l’insieme di norme, valori, saperi, credenze, atteggiamenti, comportamenti e tecniche che un individuo apprende in una data società, ancora una volta ci sembra necessario, per comprendere i meccanismi che sorreggono la trasmissione culturale nell’epoca contemporanea, abbandonare il vecchio paradigma della cultura intesa come totalità impermeabile, come “pacchetto” che si trasmette intatto da una generazione ad un’altra attraverso rapporti lineari e vincolati ad una dimensione locale e territorializzata. Se questo schema interpretativo si rivela di per sé fuorviante e scarsamente operativo anche quando sia applicato a società del passato, esso si conferma addirittura improponibile qualora venga applicato alle società contemporanee in cui mass media e nuove tecnologie comunicative esaltano il carattere complesso e trasversale insito in ogni processo di creazione culturale e identitaria. È nella dinamica incessante tra il vicino e il lontano, tra messaggi orali e scritti, tra rapporti diretti e virtuali, tra il materiale e l’immateriale, che buona parte dell’umanità produce, interpreta e trasmette alle giovani generazioni visioni del mondo, modelli di comportamento, rappresentazioni del sé e dell’altro individuali e collettive. Se la metafora del “pacchetto” si rivela oggi inadatta per descrivere i meccanismi della trasmissione culturale, nell’immaginario collettivo e nello stesso ambito scientifico continuano ad esistere rappresentazioni tra loro molto differenti dell’identità. Esse sono riassumibili attraverso l’uso di altre due metafore: quella del “sacco” – assai prossima all’immagine della cultura che abbiamo or ora messo in discussione – e quella del “cammino”(Fabbri D., Formenti L., 1991). Nel primo caso, “l’individuo è una sorta di ‘contenitore’ dotato di confini suoi, chiaramente disegnati, che delimitano un dentro (cui apparterrebbero i processi mentali, il sé, la coscienza e l’identità personale) e un fuori (cui apparterrebbero tutte le cose da cui riceviamo informazione, gli altri e in genere l’ambiente)”. In questa prospettiva, la dimensione spazio-temporale è definita a priori dagli stessi confini corporei e non è suscettibile di altro divenire se non quello fisico-biologico. Secondo la metafora del cammino, invece, il sé “non è un’entità materiale, esistente nel mondo fisico. In quanto processo, non appartiene al mondo degli oggetti, ma a quello della comunicazione. [...] In questo quadro, le categorie del dentro e del fuori sono so20
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stituite da quella di differenza, di passaggio, di incontro” (Fabbri D., Formenti L., 1991, pp. 42-43). Anche se attualmente stiamo assistendo ad un recupero della metafora del cammino, è pur vero che i due grandi modelli di identità continuano a coesistere in modo più o meno sottilmente conflittuale determinando teorie e concezioni piuttosto differenti per quanto riguarda la formazione dell’identità ed il rapporto dell’individuo con l’Altro-da sé. Senza voler spingere ad alcuna drastica scelta tra le due ipotesi, mi appare più produttivo immaginare l’identità come cammino, come processo di continua costruzione, non necessariamente cumulativa, che avvenga attraverso l’assorbimento e l’elaborazione di materiali culturali che oggi più che mai si configurano variegati, sfaccettati e contraddittori nei loro contenuti e nelle loro modalità di circolazione. Al carattere già di per sé complesso dei mondi contemporanei e delle loro culture, si aggiunge inoltre la polifonia e la multiforme stratificazione degli elementi insiti in ogni segmento di trasmissione culturale: a prescindere, infatti, dal mezzo di comunicazione utilizzato, nel corso di ogni processo di trasmissione – di tecniche, di saperi, di comportamenti, di credenze e di qualunque altro item culturale – viene anche veicolato, in maniera inconsapevole, un modo di interpretarli: è come se ogni messaggio esplicito fosse circondato e collegato agli altri da una sorta di rete invisibile, non immediatamente percettibile, ma che ha il potere di strutturare una certa visione del mondo fino a farla coincidere con il mondo stesso affermando silenziosamente, ma in maniera totalizzante, la propria verità e “naturalità” (Callari Galli M., 1993). Attraverso la trasmissione sotterranea ma pregnante di materiali culturali che trascendono quelli intenzionalmente veicolati, si emettono e si ricevono messaggi impliciti che riguardano il “medesimo” e l’“altro”, il “noi” contrapposto al “loro”; messaggi su cosa significhi e comporti l’appartenere al genere femminile o maschile, ad un gruppo generazionale, ad una suddivisione sociale, ad una razza, ad una nazione. Questi messaggi “nascosti”, che spesso assumono la forma di stereotipi e pregiudizi e facilmente si traducono in lapidarie certezze o in paure fobiche, proprio in virtù della loro azione strisciante si sedimentano lungo i percorsi di formazione individuale e collettiva cristallizzandosi in visioni positive del proprio gruppo e negative del gruppo “altro”, in rigide rappresentazioni delle identità di genere, in supine accettazioni dei rapporti di potere e di prevaricazione. I codici espressivi che prefigurano l’utilizzo dell’immagine rappresentano una sorta di apoteosi dell’accavallarsi di messaggi impliciti ed espliciti. Ogni immagine figurativa contiene infatti una miriade di elementi e rimandi culturali che si fissano in modo più o meno consapevole 21
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nella memoria dello spettatore. Occorre aggiungere, inoltre, che quest’ultimo assimila i materiali iconici che gli vengono sottoposti interpretandoli sulla base del proprio stile cognitivo e del proprio vissuto creando a sua volta nuovi significati che confermano o progressivamente sovvertono saperi e credenze: ogni immagine, potenzialmente, scatena effetti la cui intenzione ed il cui controllo sfuggono a chi l’ha inizialmente concepita (Gruzinski S., 1990). La forza inculturativa dell’immagine, scientemente ed ampiamente utilizzata, non a caso, per colonizzare l’immaginario dei popoli conquistati dall’Occidente (Gruzinski S., 1994), si manifesta oggi in tutta la sua pregnanza attraverso i media audiovisivi: “L’immagine contemporanea si instaura come presenza che satura il quotidiano imponendosi come unica e ossessionante realtà. Al pari dell’immagine barocca [...], essa trasmette un ordine visuale e sociale, diffonde modelli di comportamento e di credenza, anticipa nel campo visuale evoluzioni che ancora non hanno dato luogo ad elaborazioni concettuali o discorsive” (Gruzinski S., 1990, p. 334). Anche se nelle nostre società convivono mezzi di comunicazione differenziati, non possiamo non riconoscere che quelli audiovisivi, e la televisione in particolare, giocano un ruolo che in molte esistenze rischia di divenire preponderante rispetto a quello degli altri veicoli di comunicazione e trasmissione culturale. Se nel passato, ad esempio, un bambino sviluppava capacità cognitive, sensi ed emozioni nel contatto fisico con la natura, gli oggetti, gli altri individui ed i libri scritti ed illustrati, un bambino di oggi sviluppa probabilmente le proprie capacità soprattutto a contatto con i nuovi mezzi elettronici e con i loro linguaggi. Il mondo che lo accoglie è un mondo “segnato” e in parte organizzato dalla presenza dei media audiovisivi: le numerose implicazioni della fruizione televisiva cominciano infatti sul piano del vissuto quotidiano, delle abitudini di vita, della suddivisione dei tempi e degli spazi familiari. Il cambiamento introdotto dall’ingresso della televisione nelle nostre abitazioni investe la relazione tra i membri del nucleo di convivenza (Callari Galli M., 1979; Callari Galli M., Colliva C., Pazzagli I., 1989), le relazioni amicali e sociali, il rapporto con la lettura, con la fruizione di altre fonti di informazione e persino il “colloquio” che l’individuo è in grado di intrattenere con sé stesso. La “sovra”-esposizione, sin dalla prima infanzia, all’azione pervasiva, capillare e “sotterranea” dei mezzi di trasmissione culturale audiovisivi – anche in virtù delle modalità apparentemente “facili” della loro recezione – può contribuire ad un irrigidimento dei modelli culturali che costituiscono la trama su cui si intessono apprendimenti, atteggiamenti e scelte future.
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2. Messaggi espliciti ed impliciti e potere dell’immagine: la pubblicità e non solo I messaggi pubblicitari sono oggi onnipresenti. Essi dilagano nel quotidiano attraverso cartelloni, riviste, giornali e trasmissioni radiofoniche, ci inseguono nelle sale cinematografiche, negli autobus, nei tunnel della metropolitana, nei taxi; ammiccano accattivanti nelle sale d’attesa di aeroporti e stazioni ferroviarie, interrompono ogni sorta di trasmissione televisiva. Invadendo tutti i media, coinvolgendo molteplici linguaggi, l’espressione pubblicitaria forma attualmente un’ampia sovrastruttura che esercita un’enorme influenza in campo commerciale, economico e culturale pur godendo, apparentemente, di vita autonoma. La funzione più diretta ed esplicita della pubblicità è quella di offrire merci e d’incrementare il mercato stimolando i cosiddetti consumatori agli acquisti. Tuttavia, per raggiungere questi scopi e per destreggiarsi nell’universo selvaggio della concorrenza, essa “attacca” gli individui proponendosi ad essi attraverso strutture di significato che trascendono i suoi intenti dichiarati. L’attività dei “pubblicitari” consiste infatti nel trasfigurare le merci in messaggi che raggiungano l’emotività dei potenziali acquirenti captando i “segni del tempo” spesso in anticipo rispetto alla società stessa e sfruttandone le aspirazioni e le tensioni identitarie. Il mondo che abitiamo risulta così pullulante di continui inviti all’acquisto mascherati da promesse di identità vincenti: i beni, la felicità, la ricchezza sembrano essere alla portata di tutti, disponibili e facili da raggiungere come facile e disponibile è l’universo incantato della televisione. Uno dei messaggi impliciti che si possono ricavare da tanta felicità profusa è l’esclusione di coloro che felici, brillanti e sorridenti non riescono ad essere. A livello educativo, ciò che dovremmo sfatare non è solo il fascino che proviene dall’acquisto continuo, ma la connessione pubblicitaria, immediata e priva di problematicità, tra felicità e possesso dei beni, connessione spesso stabilita attraverso la proposta di modelli dell’identità e della relazione incentrati sulla seduzione e sottilmente violenti (Baudrillard J., 1980). L’imperativo trionfo di un “io”, di un’identità che si ottiene comprando, passa attraverso l’invito incalzante e talvolta ricattatorio ad essere belli e attraenti, dovendo piacere a tutti, a costo di qualunque artificio. Il corpo diviene il proprio destino, la propria fortuna: le numerose allusioni pubblicitarie al piacere sessuale si mischiano alla conquista dei beni, delle relazioni sociali e del successo. La seduzione, dai mille registri e dalle mille sfumature, è onnipresente e messa in scena con la massima intensità: tenera e sognante, perversa e maliziosa, sfacciata o sottintesa si insinua tra automobili e aperitivi, motorini e profumi, alimenti e 23
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biancheria in modo artificioso, truccato, irreale ed iper-reale al contempo. Quale immagine dell’ordine dei ruoli sociali riesce a ricostruire un giovanissimo spettatore esposto al pastiche pubblicitario che mescola mode, tradizioni e innovazioni, inviti al consumo e modelli identitari, stereotipi tra i più vieti e messaggi che inneggiano ad un mondo libertario ed egualitario? Nella pubblicità e nella maggior parte delle trasmissioni televisive, tra cui quelle espressamente dedicate all’infanzia, cogliamo infatti una sorta di “deriva” culturale che diffonde implicitamente, ma a piene mani, stereotipi e pregiudizi che a livello esplicito sono ormai banditi poiché smentiti dalle conoscenze scientifiche e contrari ai principi ispiratori del nostro vivere sociale: se l’idea della superiorità di un gruppo, di un’“etnia”, di un genere sessuale è stata radiata dalle istituzioni, dalla scienza e dalle visioni del mondo di molti individui, essa rientra subdolamente nelle nostre vite attraverso il teleschermo. Prendendo ancora una volta la pubblicità come esempio che dimostra questa nostra ipotesi – ma senza dimenticare che la televisione funziona nel complesso secondo lo stesso registro – analizziamo brevemente l’immagine dell’identità di genere che ci viene offerta dagli spot pubblicitari dedicati al pubblico infantile (Callari Galli M., 1997 b)). I messaggi rivolti ai giovanissimi utenti si rivelano diversificati su base sessuale: diversi infatti sono gli atteggiamenti, gli abiti, i giocattoli presentati dai piccoli attori degli spot come materiali sui quali allenare propensioni, abilità e scelte future. Mentre i bambini vengono allettati con kit di costruzioni, macchinine, videogiochi e mostri guerrieri, alle bambine sono dedicati morbidi animaletti da coccolare, bambolotti con cui addestrare il loro inevitabile futuro di mamme, diari e cofanetti per i primi segreti d’amore, scatole per il trucco e Barbie da cui attingere spunti per il loro avvenire di seduttrici dalle misure canoniche. La decisione, l’avventura, la libertà, la disinvoltura scanzonata e sfrenata, l’abilità nelle nuove tecnologie sono appannaggio dei maschietti; le manifestazioni di affetto, i vezzi, la compostezza, le atmosfere edulcorate, la leggiadria più leziosa, l’imitazione dei tradizionali ruoli femminili qualificano il mondo delle bambine. Musiche forti e cadenzate, toni marziali delle voci fuori campo, colori accesi, ripresa televisiva dai ritmi incalzanti ed aggressivi caratterizzano tanto la pubblicità di prodotti destinati ai maschi, quanto i cartoon che esaltano la potenza fisica e le capacità di leader dei protagonisti maschi. A contrasto, i commenti musicali soft, i colori pastello, i toni soffusi e dimessi delle riprese accompagnano i giochi e i giocattoli presentati alle bambine e la narrazione delle avventure al femminile. Anche nei casi in cui alle bambine siano offerti modelli apparentemente alternativi, l’identità femmini24
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le resta per lo più ancorata alla tradizione che pone in primo piano il fascino e l’avvenenza. Così Sailor Moon, nelle sue molteplici e fantastiche personificazioni, pur dimostrando una forza ed un potere in genere propri ai personaggi maschili, è “prigioniera” di un corpo bellissimo, sinuoso e provocante. Analogamente Lady Oscar, che ripercorre le tappe della Rivoluzione francese incarnando un modello di donna apparentemente ardita e incline all’avventura, si rivela in realtà appassionata e facile all’amore romantico. I telefilm e i serial che si rivolgono più direttamente al pubblico degli adolescenti confermano la distinzione tra i sessi implicitamente affermata nelle pubblicità e nelle trasmissioni per bambini. La linea dominante dell’identità femminile adolescenziale e giovanile nella sua versione televisiva prevede eroine fragili, perennemente innamorate, pronte a sedurre i loro partner con tutte le armi del ricettario tradizionale: la dolcezza, la debolezza, l’incapacità di far fronte alle situazioni complesse, la bellezza e persino l’ostentazione di una certa dose di stupidità. Da parte loro, i giovani maschi dell’universo televisivo rafforzano la propria identità sottovalutando le qualità femminili, esercitando la propria capacità di irretire il maggior numero di “prede”, sovente disprezzando le loro adoranti “fidanzatine” attratti soprattutto dall’aspetto fisico di occasionali e stereotipate maliarde di passaggio. Le regole del gioco, infine, non cambiano di molto quando eroi ed eroine televisive raggiungono la maggior età: il fascino maschile risulta ancora legato alla forza e alla virilità, alla sicurezza e all’intraprendenza nel corteggiamento, nelle avventure e nello sport. L’affermazione femminile continua ad essere legata a corpi giovani e attraenti di casalinghe felici, di stizzose donne in carriera, di creature fragili e indifese o provocanti e appassionate. 3. La grande famiglia Il miscuglio televisivo – per molti aspetti subdolo – che combina la spinta all’affermazione individuale e la riproposizione di modelli identitari rigidi e obsoleti, eventi e sentimenti di segno opposto e facilità di linguaggi, intenti moralizzatori e monetizzazione delle azioni, tende a ridurre l’“altro”, ma anche il soggetto stesso, a pura apparenza e rende l’incontro – ogni incontro – evento momentaneo o, paradossalmente, consuetudine codificata una volta per tutte. La trasmissione di modelli di identità e di relazione operata dalla televisione appare, anche in questo senso, ambigua ed antinomica: se, da un lato, i materiali culturali veico25
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lati prefigurano la formazione di una “grande famiglia”, di una sorta di unità culturale e sociale allargata fino a comprendere milioni di individui accomunati dalle stesse immagini, dalle stesse notizie, dallo stesso linguaggio e dagli stessi input culturali, dall’altro lato le immagini e le rappresentazioni televisive possono essere percepite, interpretate e rielaborate in modo assai difforme a seconda delle differenti realtà locali e individuali su cui si innestano. Se a causa della standardizzazione di programmi ideati, venduti ed acquistati sul mercato internazionale, gli adulti e soprattutto i bambini di tutto il mondo tendono ad organizzare i loro desideri, giudizi, pratiche ed aspirazioni sulla base omologa ed in fondo elementare della “grande famiglia” che cancella apparentemente le differenze, queste ultime vengono continuamente ribadite, indurite, riprodotte e persino prodotte dai mass media ed in particolare dal livello implicito dei messaggi da essi veicolati. Se ognuno di noi può essere ammesso alla “grande famiglia” comprando nuove merci e con esse nuove identità apparentemente singolarissime, partecipando all’artificiosa felicità degli show del sabato sera o piangendo davanti ai funerali di Lady Diana in mondovisione, ognuno di noi è anche implicitamente chiamato a riconoscersi e a riconoscere l’altro in base a ruoli di genere rigidamente descritti, a stereotipi etnici a tutt’oggi disinvoltamente veicolati, a posizioni sociali gerarchiche legate al possesso di beni. Se l’Europa “bianca” trema davanti alla Cnn che ci presenta Saddam Hussein come il feroce Saladino, i giovani beur delle banlieues francesi plaudono davanti allo stesso spettacolo; se le paillettes, le fanciulle in fiore e gli arredi faraonici degli spettacoli d’intrattenimento delle reti televisive italiane servono a far dimenticare la piattezza e talvolta la miseria che possono caratterizzare le vite dei nostri connazionali, essi denotano invece ricchezza reale e abbondanza di possibilità agli occhi di chi, al di là del Mediterraneo, capta il segnale delle televisioni italiane e vede l’Italia come terra d’emigrazione. Nell’analisi dei processi inculturativi multivocali e complessi che caratterizzano la nostra epoca contribuendo in misura notevole alla costruzione di immaginari collettivi sempre più planetarizzati ed influenzando la formazione del senso di appartenenza o di spaesamento rispetto a questo o a quel gruppo, dobbiamo dunque tener conto dell’ulteriore elemento di complessità insito nella televisione come fattore omologante da un lato e come meccanismo generatore di diseguaglianze dall’altro.
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III. La televisione: linguaggi ed effetti 1. Flussi di informazioni Per meglio comprendere i meccanismi che sottostanno ai processi di trasmissione culturale propri della nostra epoca, è necessario analizzare le caratteristiche del linguaggio utilizzato dal mezzo televisivo: in molti anni di riflessione e di ricerche abbiamo sviluppato (Callari Galli M., Colliva C., Pazzagli I., 1989; Callari Galli M., Conversano F., Grignaffini N., 1997b) l’ipotesi secondo la quale la velocità, il ritmo incalzante e la frammentazione che strutturano e accompagnano i messaggi televisivi modificano la percezione del tempo e dello spazio fino a che lo stesso senso di realtà a cui erano abituate le precedenti generazioni e sul quale continuano ad essere organizzate istituzioni ed attività, si perde nella fascinazione di una finzione totalizzante, nella ripetizione, nel marasma di un’informazione ipertrofica che elimina ogni gerarchia tra gli eventi, tende ad appiattire le reazioni e toglie spessore e vigore alle emozioni. Nel corso degli ultimi due decenni, i processi produttivi hanno assunto forme per le quali il possesso di saperi – e quindi la capacità di elaborare informazioni e di trasformarle in comunicazione – contende il primato al possesso di beni come mai prima d’ora: è stato detto che dopo la rivoluzione meccanico-siderurgica e dopo quella della chimica, stiamo oggi vivendo la rivoluzione dell’informazione. La televisione, oggetto-simbolo di questa trasformazione epocale, costituisce un mezzo di intrattenimento, di trasmissione culturale, di informazione puntuale e capillare alla portata di tutti. Essa fa pervenire nelle nostre abitazioni notizie che riguardano città e continenti lontani, ci rende familiari i volti dei protagonisti della vita politica nazionale ed internazionale, ci aggiorna su eventi che hanno luogo nella nostra città o che coinvolgono popoli sconosciuti. Il mondo “iper-informato” ed “iper-comunicante” nel quale viviamo contiene, tuttavia, numerosi paradossi, tra cui forse il più immediato e completo nella sua concisione ed immediatezza è che all’accumulo sempre crescente di informazioni corrisponde una sorta di eclissi del senso (Baudrillard J., 1996). La quantità esorbitante dei messaggi che riceviamo, infatti, sembra costituire un ostacolo, più che un aiuto, alla comprensione; e la comunicazione, sempre più diffusa e pervasiva, sembra inibire la nostra capacità di elaborazione delle informazioni e bloccare la volontà e le competenze stesse legate al comunicare. La televisione – fonte caleidoscopica d’immaginari e, probabilmente, matrice di stili cognitivi – si offre ai bambini come finestra su un mondo 27
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che mai prima d’ora si era presentato a sguardi infantili come tanto vario e vasto. Quello televisivo è un mondo che “spazia dai dinosauri ai cyborg” (Ceruti M., 1995), popolato in modo casuale e caotico tanto da individui e fatti reali, quanto da personaggi fantastici, posti tutti sullo stesso piano: leader politici, presentatori televisivi, protagonisti di film e telefilm, vittime di guerre civili, foreste in fiamme, città devastate da terremoti o da disordini, balene salvate dall’inquinamento e da feroci balenieri, popolazioni che festeggiano vittorie e indipendenze, profughi kurdi, signore “della porta accanto”, principi arditi che salvano bionde fanciulle, vampiri, top-model, nonni da pubblicità e coppie che litigano in diretta. Questo mondo tutto visivo, non vissuto, non letto, non discusso, non scelto, appare e scompare dal salotto di casa a proprio piacimento, premendo un bottone: con esso non si interagisce, lo si accetta o lo si respinge, ma non si ha la possibilità di modificarlo. Davanti all’universo televisivo siamo inermi – quando ci abbandoniamo alla suggestione delle immagini – ed al contempo onnipotenti – quando, premendo i tasti del telecomando, cambiamo direzione nel flusso televisivo e, così facendo, alteriamo il significato delle immagini o, più drasticamente, le cancelliamo. Nel fluire incessante dei messaggi televisivi, il tempo e lo spazio – categorie-chiave attraverso le quali individui e società organizzano le loro rappresentazioni del mondo – esplodono sotto i colpi della frammentazione estetica in momenti e luoghi privi di continuità. Le condivise ed esperite coordinate spazio-temporali e le loro differenze si annullano e si confondono in narrazioni estemporanee prodotte non da un autore, ma dal flusso televisivo stesso, che pone uno accanto all’altro i messaggi e le immagini più eterogenei – l’impero romano e la seconda guerra mondiale, New York, le foreste del Borneo ed il pianeta Marte, la piazza del paese in cui viviamo e l’Antartico – come se fossero equivalenti e/o contemporanei. I frammenti di mondo e di umanità più disparati si condensano in una serie incalzante di schegge colorate e sonore che, ricomponendosi in modo inaspettato, finiscono per costituire nuovi racconti. Schegge, frammenti, sequenze visive e discorsive, della cui creazione nessuna redazione televisiva è veramente responsabile, inseguono – come avviene al piccolo Rachid (Ben Jelloun T., 1997) – senza tregua giovanissimi telespettatori raggiungendoli fino all’intimità esclusiva dei sogni e fornendo loro innumerevoli stimoli. Tuttavia, la quantità e la velocità delle informazioni è tale da non permettere ai bambini di elaborarle e trasformarle attraverso il filtro della riflessione e dell’esperienza. Il proliferare delle informazioni, il loro incessante susseguirsi, scomporsi e ricomporsi nel flusso televisivo tendono così a divorare il tempo e lo spa28
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zio, la comunicazione ed il senso. L’eccesso quotidiano di messaggi rischia, inoltre, di produrre ulteriore disorientamento in ragione del fatto che i materiali culturali che pervengono allo spettatore risultano, spesso, in contraddizione tra loro. 2. Estasi televisive Durante i primi anni di vita, la fascinazione esercitata dal piccolo schermo risiede essenzialmente nel flusso veloce delle immagini, dei colori, dei suoni che le accompagnano: tutti stimoli, questi, che possono essere potenziati attraverso l’uso del telecomando. La bellezza delle immagini, le tecniche di ripresa sempre più sofisticate, gli effetti speciali, le colonne sonore, i virtuosismi del montaggio, che contribuiscono alla rapidità del ritmo, costituiscono ulteriori fonti d’incantamento. La dimensione estetica, in ragione del suo alto potere di coinvolgimento, si afferma sempre più come elemento centrale del linguaggio televisivo. Essa si manifesta innanzitutto come accumulo continuo di stimoli percettivi che non lascia tempo né al raccoglimento né alla riflessione. Nel piacere estetico immediato, la dimensione del presente si dilata, mentre il ricordo e la memoria tendono a cancellarsi, sostituiti da continue citazioni e ripetizioni che tengono lo spettatore inchiodato al presente televisivo; dinamicità, incessante movimento dell’immagine, continua confusione di generi compromettono l’interezza e l’unità narrativa. Anche l’informazione, inserita in questa infinita rappresentazione estetizzante, ne rispetta le leggi: velocità, affastellarsi di immagini ed eventi privi di connessione, taglio “feuilletonistico”, ricostruzione di avvenimenti resa attraverso i mezzi della fiction, utilizzo di effetti speciali, rendono la struttura discorsiva di telegiornali, documentari e servizi di attualità assai simile a quella delle trasmissioni d’intrattenimento. Così, soprattutto agli occhi degli spettatori più giovani, i confini tra realtà e finzione possono farsi labili, indefiniti, poco espliciti. Nel confronto tra la realtà ed un immaginario esteriorizzato (Leroi-Gourhan A., 1977) tramite modalità espressive sempre più efficaci, tramite nuove forme narrative e linguistiche e dispositivi tecnologici sempre più sofisticati e innovativi, è il secondo termine ad apparire “vincente”: come abbiamo visto a proposito della pubblicità, alcune rappresentazioni televisive, per esempio quelle della seduzione, risultano così attraenti da far apparire sbiadita ogni realtà.
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3. Materiali culturali “al grezzo” L’accumulo di informazioni, l’“effetto flusso”, le tendenze estetizzanti proprie dell’universo televisivo producono materiali culturali aleatori, multiformi e volatili: le informazioni veicolate dal mezzo ci colpiscono come influenze transitorie, frammenti di conoscenza, schegge di idee che ci impressionano a caso. Gli incalzanti tempi televisivi costringono lo spettatore alla superficie dei fenomeni: riflessione ed elaborazione sono bandite dalla velocità, ma anche dall’accessibilità disarmante ed insidiosa dei contenuti e dei linguaggi di molti programmi, compresi quelli dedicati all’infanzia, che spesso divengono veicoli di trasmissione di saperi, credenze e visioni del mondo di senso comune. Come educatori, genitori, studiosi di scienze umane, come abitanti di un mondo nel quale i processi di trasmissione culturale avvengono sempre di più attraverso mezzi di comunicazione aventi le caratteristiche che stiamo cercando di descrivere, siamo chiamati a cercare di comprendere il tipo di impatto cognitivo, relazionale ed affettivo che un medium come la televisione può avere sugli spettatori più giovani. Spettatori, non dimentichiamolo, che in alcuni casi dedicano più tempo al piccolo schermo che non al gioco con i coetanei, bambini che conoscono i personaggi delle telenovelas meglio dei propri vicini di casa, uomini e donne futuri esposti sin dalla prima infanzia ad un “mondo parallelo” di immagini, suoni, linguaggi, narrazioni “semplici” e accattivanti, patinati e cruenti, di facile accesso, che quasi pensano ed immaginano al loro posto. Quale immaginario si forma, dunque, tra le quasi infinite sollecitazioni televisive mescolanti realtà e finzione, banalità ed eccezionalità, mondi “in rosa” e violenze efferate? In quali modi i giovanissimi telespettatori organizzano nella loro mente miriadi di frammenti televisivi apparentemente semplici, ma profondamente ambigui, omologanti, ma inneggianti all’“io”? Ed ancora: come si collegano i disparati materiali culturali veicolati dalla televisione alle esperienze, ai vissuti, alle storie individuali e collettive di ogni bambino? Quali sono le possibilità delle quali noi adulti disponiamo per interagire con l’incessante e frenetico flusso televisivo e per meglio comprendere il modo in cui le sue schegge si integrano nella rete di conoscenze dei bambini? Questa domanda richiama alla memoria due testimonianze di due allievi delle scuole elementari: il primo, originario del Maghreb, al suo arrivo in Italia passa ore ed ore davanti alla televisione per imparare la lingua ed “ambientarsi”: “... ormai conosco tutti i personaggi più famosi d’Italia: Toto Cutugno, Gigi Sabani, Rambo, Cristoforo Colombo, Totò e naturalmente Roberto Baggio e gli altri giocatori di calcio...” (Caliceti 30
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G., 1995). Il secondo bambino, in una prova scritta di storia, alla domanda “Chi ha scoperto l’America?” risponde in bella e sofferta grafia: “L’America fu scoperta dal Tenente Kojak” (Mezzini M., Rossi C., 1997). Mentre nelle parole del primo allievo intravediamo un mondo all’insegna dell’“indistinto” televisivo descritto da Jean Baudrillard, la stesura del compito di storia ci aiuta ad immaginare le possibili difficoltà di organizzazione e catalogazione delle informazioni nel magazzino della memoria di un ragazzino di dieci anni. Collegare personaggi e messaggi in modo improprio, non coglierne la natura di fiction, non distinguere realtà e narrazioni fantastiche: questi i rischi di lunghi pomeriggi unicamente visivi, spesso solitari, trascorsi immergendosi per ore nel flusso televisivo, senza pause di riflessione, di rielaborazione cosciente di quanto visto, di inseguimento ed arricchimento intenzionato di un sogno, di una fantasia, di un gioco scatenati dalle immagini, dai suoni, dalle storie che sono state narrate. 4. Vissuti senza esperienza Nelle società arcaiche ed in quelle definite “tradizionali”, lo spazio ha proprietà di connessione: attraverso saperi individuali e collettivi, infatti, gli uomini e le donne vivono e si rappresentano lo spazio come un insieme di parti fisicamente collegate . Ogni luogo, anche il più selvaggio, è “investito” di cultura, è sede di senso: attraverso la pratica del girovagare ad esempio, alcuni gruppi di aborigeni australiani conferiscono significati a territori che ai nostri occhi sembrerebbero dominio assoluto della natura – più che della cultura – svolgendo periodicamente pellegrinaggi individuali e collettivi durante i quali si celebrano, attraverso canti, miti e racconti, i nomi e le qualità delle montagne, delle pianure, dei corsi d’acqua (Chatwin B., 1988). Tra le tante società che si sono avvicendate sulla scena della storia, la nostra sembra essere la prima ad aver spezzato queste connessioni (Leroi-Gourhan A., 1977): lo spazio personale di ogni individuo è esploso in molteplici centri separati, fisicamente e simbolicamente lontani, costituiti dalla propria abitazione, dal luogo di lavoro, da alcuni siti della città a vario titolo significativi: la zona degli acquisti, il mitico “altrove” del tempo libero e dell’evasione. Lo spazio che separa – ma che al contempo connette – questi centri, spesso si presenta alla nostra percezione come una sorta di selva, come sequenza di non-luoghi “in cui non si lasciano cogliere né l’identità, né la relazione, né la storia” (Augé M., 1993). Nonluoghi privi, dunque, di significato, ansiogeni, a volte affollati di pericoli 31
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presunti o reali che cerchiamo di non vedere attraversandone l’opacità il più rapidamente possibile. Questa frantumazione, questo spazio-scacchiera fatto di “pieni” e di “vuoti” di senso è dovuto a molteplici fattori: la scarsa lungimiranza di certe scelte nell’assetto urbanistico-territoriale, il sistema dei trasporti che “dimentica” interi quartieri delle nostre città, i mezzi di comunicazione di massa che preselezionano per noi segmenti di mondo e di umanità conferendo loro visibilità, e dunque esistenza, ad altro e ad altri negata. Se la televisione non ha veramente ucciso la realtà (Baudrillard J., 1996), essa ne ha comunque spezzato l’interezza, la continuità, sostituendo il gusto della scoperta e dell’avventura esperita con il proprio corpo con l’offerta in un mondo vastissimo, ma “predigerito”, già dato, e accessibile solo attraverso la vista e l’udito. Nella vita di un bambino che, come vogliono molte ricerche (Di Nicola P., 1989), trascorra quattro o cinque ore al giorno davanti al piccolo schermo, vengono sacrificate le corse nel parco o nella strada, i giochi con i coetanei, i sogni ad occhi aperti che collegano i frammenti della sua immaginazione. I reiterati pomeriggi televisivi di molti bambini corrispondono ad una rinuncia a momenti d’importante apprendistato cognitivo e comunicativo: la parola, il riso, il pianto, il “fare” con il proprio corpo, con gli altri, con l’ambiente. Notiamo, a proposito di quest’ultimo, un ulteriore paradosso televisivo: molti giovani spettatori vedono quotidianamente sfilare davanti ai loro occhi campi di grano, fattorie e “alimenti sani e naturali”, apprendono dettagli sui cicli di flora e fauna esotiche, ammirano bellissimi paesaggi da punti di vista talvolta inusitati. Tuttavia il tipo di conoscenza così acquisita è tutta visiva e non vissuta, non partecipata. Queste esplorazioni televisive “virtuali” non possono in alcun modo sostituire un’osservazione ed una conoscenza alla quale tutti i sensi partecipano: odori, sensazioni tattili, rumori, fatica e sudore, sono parte integrante dell’umana esperienza del mondo. Esperire, attribuire senso e finalità, scegliere, vivere la casualità e l’imprevisto con il proprio corpo costituiscono modalità cognitive che partecipano a pieno titolo alla formazione di individui capaci di orientarsi nell’esistenza costruendo percorsi personali, non limitandosi a quelli precostituiti, preconfezionati da uno solo per tanti. Attraverso la televisione, molteplici e variegati spazi irrompono nelle nostre abitazioni. Alcuni di essi risultano familiari, ricollegabili all’esperienza quotidiana, altri sono invece tanto esotici che molti di noi non li vedranno mai “davvero” nel corso della loro esistenza. Accanto agli spazi, entrano nelle nostre case immagini di oggetti, di uomini, di donne, di bambini, di attività, di animali, e città e oceani, e deserti e montagne, tutto a portata di mano, uno dopo l’altro senza che la successione, la commistione, la ripetizione, l’assenza siano giustificate da altro criterio se non 32
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quello del flusso di trasmissioni aventi ciascuna una propria logica interna indipendente, autosufficiente e, spesso, incoerente e contraddittoria con quella del programma precedente o di quello spot pubblicitario che la interrompe. I telespettatori-bambini ignorano i meccanismi che regolano il palinsesto, essi non conoscono con il corpo e con la vita la maggior parte degli spazi, dei volti, delle situazioni teletrasmesse, la loro giovane età prefigura una gamma di esperienze ristrette, insufficiente al fine di collegare le innumerevoli schegge di mondo catodico al vissuto quotidiano: se i contenuti veicolati dal mezzo televisivo si fissano, unicamente per frammenti scarsamente elaborabili, i meccanismi generali, invece, modellano, a mio parere, molte delle caratteristiche dell’intera personalità infantile, e quindi molti dei modelli culturali e comportamentali che guideranno la comprensione e l’azione degli adulti futuri. Tramite le televisione, i nostri bambini conoscono visivamente molteplici spazi, ma è proprio il verbo “conoscere” che stiamo mettendo in discussione: senza la mediazione dell’esperienza diretta, quale livello di conoscenza producono le variegate ed innumerevoli immagini dello spazio inviate quotidianamente dal mezzo televisivo? Fino ai nostri giorni, lo spazio è stato conosciuto, in età infantile, grazie al movimento del proprio corpo, di oggetti e persone intorno a noi. È attraverso il gioco che i bambini, progressivamente, prendono coscienza delle proprie possibilità di dominare lo spazio e di agire su di esso modificandolo e, talvolta, sovvertendolo. Come sappiamo, un bambino può passare ore ed ore spostando mobili ed oggetti, può percorrere innumerevoli volte – a passo lento o correndo, saltando su un piede solo o strisciando carponi – lo stesso tratto di strada, lo stesso sentiero, il corridoio di casa: è anche attraverso questi giochi di movimento che i bambini “addomesticano” lo spazio assimilandolo e traducendolo in schemi corporei ed in coordinate cognitive. In quale rapporto, allora, possiamo collocare questa esigenza di appropriazione fisica dello spazio con l’immobilità corporea cui la fruizione televisiva costringe? 5. Televisione e possibili “effetti collaterali”: il caso della violenza Numerose sono oggi le antropologie spontanee che tendono a vedere e a rappresentare il nostro presente “locale” e “globale” come particolarmente violento rispetto al passato. Nei discorsi quotidiani di molti abitanti delle nostre città ricorre l’immagine di tempi in cui lo stesso agglomerato urbano ed il mondo in generale sarebbero stati più sicuri, più tranquilli, meno minacciati dalla violenza, quasi che quest’ultima costituisse l’ennesimo frutto anomalo ed inedito della modernità. 33
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Eppure la violenza ha caratterizzato tutte le epoche, si è profusa nei sistemi educativi di molte civiltà, si produce a tutt’oggi nelle strade di tutti i continenti. “Il gusto del sangue”, scrive Camporesi a proposito dell’Europa medioevale e rinascimentale, “permeava la vecchia società violenta, crudele, eccessiva: dalla nascita alla morte la vista e l’odore del sangue facevano parte del corredo umano e sociale di ognuno. Le forche e i patiboli, le carrette dei carnefici fumiganti per le strade ... le teste infilzate sulle picche o inchiodate alle porte ... la macelleria degli uomini si confondeva con quella degli animali ingombranti, sgozzati all’aperto ...” (Camporesi P., 1984). Dai giochi dei gladiatori dell’antichità alle atroci “performance” punitivo-scientifiche dell’epoca moderna fino alle esecuzioni capitali teletrasmesse, dalle interminabili torture con esito cannibalico inflitte dagli Uroni ai prigionieri di guerra ai riti d’iniziazione e ai sacrifici umani istituiti in molte società “altre”, la violenza fisica ha costituito, in molti luoghi, non solo una realtà attestata e istituzionalizzata, ma un vero e proprio spettacolo collettivo, consumato di fronte a folle che urlano di soddisfazione guardando il supplizio del condannato o che assistono alle cerimonie più cruente in religioso silenzio. Al gesto, tramandatoci dalla tradizione, del padre che obbliga il figlioletto a guardare gli ultimi sussulti del delinquente suppliziato sul patibolo sperando che l’orribile spettacolo lo dissuada da un futuro di devianza, corrisponde l’intento educativo sottostante alle tremende sofferenze inflitte dagli Uroni ai prigionieri: si trattava infatti, oltre che di un’offerta alla divinità solare, di una “lezione” che mostrava ai bambini, futuri guerrieri, la probabile ed assai poco allettante conseguenza di un eventuale momento di esitazione o di mancanza di coraggio in battaglia (Harris M., 1990). L’intento pedagogico è riscontrabile anche nella cruenta violenza di alcuni riti di passaggio quali, ad esempio, la scarnificazione del ventre o della schiena presso i Guayaki del Paraguay, simbolizzante la quota di male, di dolore e di morte che ogni adolescente deve imparare ad accettare, insieme al benessere, al piacere, alla vita, per divenire aché, individuo adulto e completo (Clastres P., 1980). Molte delle culture dette tradizionali hanno tentato di “addomesticare” la violenza integrandola alle proprie rappresentazioni del mondo ed istituzionalizzandola nella società. Mentre le linee di sviluppo seguite dal pensiero occidentale tendono a negare, a rimuovere la “parte maledetta”, quelle di molte altre civiltà hanno portato a trattare il problema del male accettandone l’esistenza e riservando a questo “disordine” (Balandier G., 1991) spazi, tempi e contesti delimitati e distinti nell’ambito della vita simbolica e sociale del gruppo: i rituali d’inversione presso i Balante della Guinea Bissau, le “feste dei folli” e i carnevali dell’Europa medioeva34
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le, i potlach dei nativi nordamericani, i saturnali romani rappresentano momenti nei quali ogni legge che regola il vivere sociale può essere sovvertita. Quando – secondo l’espressione usata negli antichi regni del Benin – “fa notte nel paese” (Balandier G., 1991, p. 185) trasgressioni sessuali, furti e violenze di ogni tipo diventano momentaneamente lecite per poi tornare ad essere rigorosamente proibite e sanzionate durante il resto dell’anno. La violenza, oltre ad essere presente, in molte società, sia nella vita quotidiana che a livello simbolico e rituale, è spesso ampiamente diffusa nelle forme di trasmissione culturale espressamente dedicate ai bambini e largamente accettate e apprezzate dagli adulti per il loro fascino e la loro valenza educativa: la fiaba ed i classici della letteratura per l’infanzia della nostra società ce ne forniscono un vivido esempio. Se la violenza, ed in particolare la sua istituzionalizzazione, rientra nel vissuto, nell’immaginario e persino nella pedagogia di molte delle società che si sono avvicendate sul pianeta, come spiegare il fatto che molti contemporanei percepiscano la nostra epoca come particolarmente violenta? Nelle società contemporanee non esistono “contenitori” spaziotemporali nei quali l’aggressività, il male, la trasgressione delle regole del vivere sociale trovino un senso ed un’accettazione collettivamente condivisi: le rappresentazioni del “lato oscuro”, al contrario, sembrano debordare ed assalirci da ogni dove. Esse ci inseguono sin nelle pieghe più intime e rassicuranti del quotidiano comparendo, spesso inattese, sotto forma di spettacolo televisivo che invade camere e camerette, cucine e salotti delle nostre abitazioni. Tralasciando in questa sede le numerose forme di violenza implicita veicolate dalla televisione – le quali meriterebbero, peraltro, un’attenta analisi – ci concentreremo sulle rappresentazioni televisive della violenza esplicita. Queste ultime, insinuandosi subdole anche nel bel mezzo di allegre trasmissioni dedicate all’infanzia sotto forma di trailer pubblicizzanti i film che andranno in onda più tardi o esplodendo all’improvviso nel corso di un telefilm, producono paura, angoscia e tensione, ma al contempo suscitano una fascinazione derivante, ancora una volta, dalla bellezza delle immagini, dalla “sapienza” dei colori e delle colonne sonore che le accompagnano, dalla forza dell’impatto dei suoi personaggi-icona, vittime o carnefici che siano, sull’immaginario degli spettatori più giovani: osservando i giochi di imitazione teatrale “inventati” dai bambini, ritroveremo gli sguardi supplici e terrorizzati, ma esteticamente composti, delle vittime di violenze carnali televisive, i volti contratti dalla fatica e dal dolore di giovani e maschi eroi o criminali, le altrettanto “maschie” parolacce urlate e giustificate dall’urgenza e dalla gravità dell’azione. Se, come indicano alcuni pedagogisti 35
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“coraggiosi” (Faeti A., 1993), le rappresentazioni fiabesche, letterarie e cinematografiche della violenza esplicita – e le rielaborazioni immaginative e ludiche ad esse connesse – possono svolgere un ruolo di catarsi e di esorcismo assumendo così una valenza educativa, i problemi sollevati dalla violenza televisiva sono legati alle caratteristiche del mezzo stesso: la violenza appare sul teleschermo con una frequenza assai elevata e spesso in maniera totalmente decontestualizzata. Essa esplode nell’infinito presente del flusso televisivo, sovente senza alcun legame significativo con i frammenti di unità narrative che la precedono e la seguono. Le scene violente che il piccolo schermo ci impone, magari interrompendo all’improvviso un cartone animato, appaiono fini a se stesse, auto-esplicative, svincolate, come accade nei sogni, dalle leggi che governano i fenomeni fisici e soprattutto prive di conseguenze, affrancate dalla responsabilità e dal dolore che ogni atto di violenza implica e produce. Violenze afferenti all’attualità, alla storia o alla fiction si avvicendano nella velocità, nella ripetitività e nell’“indistinto” televisivo producendo una sorta di assuefazione che rende possibile consumare una cena in famiglia mentre vanno in onda le immagini del massacro in Algeria. Che si tratti di realtà o di finzione, la violenza spettacolarizzata dalla televisione appare come “raffreddata”, paradossalmente vicina e pregnante, ma al contempo lontanissima e priva di spessore ontologico, iper-reale ed onirica: la sua apparizione continua, decontestualizzata ed improvvisa, rischia di allenarci ad un distacco dalla realtà che può atrofizzare in alcuni individui (forse in molti) quella componente emotiva del rapporto con il reale che costituisce la base di ogni senso di responsabilità verso noi stessi e verso i nostri simili. Attirando l’attenzione dei produttori televisivi sull’ingiustificabile eccesso di questa violenza “fredda”, preconfezionata e tuttavia evocatrice di modelli comportamentali e cognitivi, ma soprattutto attivando spazi di comunicazione nei quali analizzare e riflettere criticamente su tali messaggi assieme ai bambini, forse potremmo contribuire a ridurre i rischi connessi ad una fruizione televisiva, spesso solitaria, che può portare gli spettatori più giovani ad assimilare passivamente, a temere fobicamente, ad invocare o ad alimentare un immaginario violento. 6. La recezione televisiva tra passività ed interpretazione: un campo problematico Il problema dell’assimilazione solipsistica e prevalentemente recettiva dei messaggi televisivi non riguarda soltanto la violenza e le sue rap36
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presentazioni: numerose, infatti, sono le voci che indicano la diffusione della fruizione televisiva come la radice stessa della passività con cui un numero sempre crescente di individui vive la propria partecipazione alla vita politica e culturale del gruppo di appartenenza (Stiegler B. e al., 1993). In effetti, sin dalla prima infanzia, molti bambini sviluppano le proprie potenzialità emotive e relazionali a stretto e quotidiano contatto con un mezzo di comunicazione che li spinge a reagire a messaggi e a stimoli già dati piuttosto che ad agire in modo indipendente ed attivo. In bambini ed adolescenti che trascorrano ore ed ore davanti al teleschermo, sentimenti quali l’indignazione, la paura o l’entusiasmo tendono a generarsi meno frequentemente in rapporto alla società reale, all’interazione con altri individui, al dispiegarsi di un evento cui si è partecipato, e più spesso in relazione ad immagini che si possono cambiare o far sparire premendo un tasto del telecomando. Ma la realtà non è uno spettacolo televisivo, ed interromperla significa morire. Oltre alla passività emotiva, la fruizione televisiva può indurre, soprattutto nei giovanissimi spettatori, un certo grado di passività cognitiva riducendo i processi di acquisizione di informazioni a mero divertimento, esaltando implicitamente l’idea dell’apprendimento come intrattenimento a discapito di modalità conoscitive forse più faticose e “sofferte” quali la ricerca, la lettura, lo studio, l’ascolto ed il confronto con gli altri. È inoltre ovvio che più tempo si trascorra davanti alla televisione, meno tempo si avrà a disposizione per esplorare in modo attivo il proprio ambiente, per partecipare alla vita quotidiana “locale”, per leggere, studiare e giocare. Nella vita di un bambino, la riduzione del tempo dedicato a quest’ultima attività può risultare particolarmente problematica: il gioco spontaneo – in tutte le sue diverse e variegate forme riconducibili alla competizione, al caso e all’esplorazione, all’imitazione, alla simbolizzazione e alla finzione, alla corporeità e alla vertigine (Caillois R., 1981) – è assai importante affinché l’individuo, sin dall’infanzia, apprenda a conoscere se stesso, il proprio ambiente e le relazioni che reciprocamente li collegano. Attraverso il gioco, i bambini sperimentano una vasta gamma di attività verbali, esperiscono ed elaborano diversi stati emotivi, imparano a distinguere differenti attività cognitive, preparano se stessi ai futuri ruoli sociali. Nel gioco e tramite il gioco si apprende a discernere l’aggressività e la violenza dall’affermazione del sé, l’impulsività dall’azione finalizzata, l’egocentrismo dall’altruismo, la dipendenza dalla richiesta di aiuto, la propria sessualità dall’intimità interpersonale. Come molte ricerche dimostrano (Bertolini P., Callari Galli M., 1980; Callari Galli M., 1982), il gioco non può essere assimilato ad un comportamento di tipo reattivo poiché esso fornisce al piccolo giocatore una base pratica per or37
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ganizzare nuovi schemi, per elaborare ed introiettare materiali culturali ed esperienze che troveranno più tardi una vera e propria espressione trasformandosi in progetti, azioni, capacità di verbalizzazione e riflessione. Anche se la fruizione televisiva non può sostituirsi al gioco nel creare le condizioni favorevoli per uno sviluppo armonico delle personalità, non appare legittimo, né dal punto di vista teorico né sul piano storico, sostenere che essa conduca automaticamente a stati di deprivazione culturale. Un simile esito potrebbe forse verificarsi se i giovanissimi telespettatori fossero lasciati soli, privi di strumenti di analisi e di critica davanti ad una totalizzante immersione nella fruizione televisiva: ma del resto, questo avrebbe buone probabilità di accadere se ricevessero un’analoga esposizione ad un qualsiasi altro mezzo di comunicazione e trasmissione culturale. Nel caso della televisione, ciò che rende particolarmente necessaria una dotazione di strumenti di decodifica e di analisi, risiede nell’apparente – e solo apparente – immediatezza di lettura e di comprensione dei messaggi da essa veicolati: ogni segmento televisivo, infatti, contiene numerosi dati culturali espliciti ed impliciti che andrebbero individuati, svelati, e ricostruiti. Ogni immagine teletrasmessa si presta, poi, a molteplici letture ed interpretazioni. Non tener conto di questa complessità significherebbe, oltretutto, negare la varietà e la dinamicità di quel coacervo di differenze individuali costituito dal pubblico televisivo: pericolose semplificazioni definiscono gli spettatori “passivi recettori”, attribuendo loro standard di gusti e di preferenze che in realtà si rivelano, sin dalla primissima infanzia, distribuiti con andamenti estremamente variabili. Sul piano dell’analisi culturale, limitarsi ad una simile definizione omologante e standardizzante equivarrebbe a trascurare l’esistenza e la circolazione delle svariate letture ironiche dei luoghi comuni televisivi ampiamente prodotte dalla cultura familiare e dai gruppi informali. Tali pungenti parodie, non prive di accenti di ribellione, veicolate nei discorsi quotidiani di larghi strati della popolazione possono anche essere almeno in parte condivise ed apprezzate dagli stessi giovani telespettatori che tendiamo ad immaginare sempre e univocamente stolidi e succubi fruitori del teleschermo. Dal punto di vista politico, ritengo che anche l’identificazione diretta tra produzione mediatica, e televisiva in particolare, e produzione di ideologie – intese come sistemi di valori – vada problematizzata. Se ogni trasmissione televisiva – che si tratti di film, telefilm, pubblicità o spettacolo di intrattenimento – può essere giustamente considerata come vettore di ideologia, negli ultimi due decenni il modello di televisione “pedagogica” veicolante contenuti specifici, unilaterali e prossimi alla pro38
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paganda politica è stato quasi interamente soppiantato da “un unico flusso irresponsabile di immagini e sensazioni” (Bruno M. W., 1994, p. 19). Secondo questa interpretazione, i messaggi calibrati da un’“emittentegrande fratello” sarebbero scomparsi in favore di “testi che la audience attivamente decodifica secondo i propri codici e sottocodici antropologico-culturali” (Bruno M. W., 1994, p. 35). Interrogandoci su questo tema, scopriamo ulteriori complessità: se la televisione come emanazione di un Grande Fratello ha ceduto il passo ad un flusso televisivo che contiene “testi” e frammenti variegati e contraddittori, non mi sembra tuttavia che il demiurgo ipotizzato da George Orwell abbia totalmente rinunciato alla sua azione persuasiva: in una sola giornata del settembre 1998, ad esempio, troviamo nel palinsesto delle reti nazionali due sceneggiati televisivi che pur rappresentando una società nella quale i rapporti tra i sessi hanno assunto nuove e più liberali connotazioni, non demordono nel trasmettere un’immagine della maternità biologica come valore fondante da preservare ad ogni costo, prescindendo dall’età, dalla condizione, dalla volontà stessa della donna. Tuttavia, il fatto stesso che simili momenti di televisione “a messaggio” affiorino episodicamente all’interno di un flusso molteplice ed indistinto, probabilmente ne ridimensiona la forza inculturativa. Non dobbiamo infine dimenticare che ogni telespettatore, dal più giovane al più anziano, dal più disincantato al più appassionato fruitore di stucchevoli serial televisivi conserva, seppur a livelli cognitivi e percettivi diversi, una certa consapevolezza di trovarsi di fronte a materiali culturali che gli giungono attraverso il filtro della spettacolarizzazione. Nell’analisi antropologica della televisione considerata mezzo di trasmissione culturale, il problema della recezione si rivela centrale. Se la ricerca sui linguaggi e sui contenuti veicolati dalla televisione appare fruttuosa e ricca di spunti per la riflessione e l’azione educativa, appare a mio parere sempre più necessario concentrare la nostra attenzione di studiosi, insegnanti, genitori e cittadini sulle modalità di recezione, elaborazione ed interpretazione del pubblico televisivo ed in particolare di quello infantile. Soltanto attraverso l’apertura di campi d’indagine empirica, che sul piano educativo possono essere pensati come laboratori di ricerca-azione, potremo infatti precisare, comprovare o smentire le ipotesi formulate.
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IV. Che fare? 1. Non solo televisione Il “villaggio globale” che abitiamo – reso tale dalla mondializzazione dell’economia, dalla velocità dei trasporti, dalle molteplici e capillari reti immateriali della comunicazione, dal dilagare di modelli univoci e potenti che tendono ad uniformizzare i bisogni, le aspettative e le aspirazioni identitarie, ma al contempo proliferante di differenze, di identità particolari che chiedono a gran voce di essere riconosciute e lacerato da odi insanabili e da conflitti sanguinosi – è un luogo vasto e complesso che per essere compreso e vissuto pienamente necessita sempre più di offerte educative molteplici e differenziate, di spazi di comunicazione e di trasmissione culturale che contemplino la multivocalità delle sue espressioni, la dinamicità delle scelte possibili, la complessità che dal “globale” si rispecchia nel “locale” e nel quotidiano, la coesistenza di modelli di vita diversi, ma non per questo necessariamente e irrimediabilmente opposti. Mi sembra ovvio che la televisione non possa contenere in sé la problematicità che riteniamo fondamentale affinché un percorso educativo risulti adatto alla nostra epoca. Imprigionata nella trappola economica della audience ed episodicamente precettata come grancassa del Grande Fratello, la televisione tende ad inviare messaggi privi di problematicità, indirizzandosi ad uno spettatore sconosciuto e pertanto immaginato come “medio”, ovvero animato da bisogni, aspirazioni, desideri e sentimenti ipotizzati come comuni. Ed è proprio un senso comune spesso ammantato di connotazioni “nazionali” e/o “naturali” quello che emerge in molte delle trasmissioni televisive, nelle quali sopravvivono comportamenti e rappresentazioni che appartengono più al passato che al presente o che riconducono scelte ed atteggiamenti “moderni” entro schemi tradizionali non più condivisi come un tempo, ma facenti parte della memoria e del vissuto della maggior parte degli spettatori. Questo senso comune viene continuamente riproposto attraverso toni accattivanti ed ambientazioni prestigiose, trasformandosi così in inviti identitari lusinghieri che ne rafforzano e ne alimentano la pregnanza e la forza inculturativa. Attraverso simili messaggi, che fungono anche da narrazione di un “noi” nazionale o “etnico”, stereotipi e pregiudizi ormai da tempo largamente smentiti dalle conoscenze scientifiche e dalle conquiste sociali vengono diffusi a piene mani, presentando secondo i vecchi schemi della superiorità/inferiorità, del centro/periferia, della sopportazione benevola o della derisione più caustica, le abilità e le caratteristiche di un sesso, di un gruppo generazionale, di un’“etnia”, di una regione. 40
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Chiudendosi nell’incanto del piccolo schermo, nell’essenzialità stereotipata delle sue rappresentazioni, il mondo può apparire senza contraddizioni: a volte tenebroso e gonfio di minacce, a volte brillante e felice, ma sempre semplice da capire e da conoscere. Questa apparente immediatezza, questa falsa semplicità, aboliscono la complessità della realtà appiattendo il mondo sulla sua rappresentazione. Se è giusto e doveroso chiedere ai produttori televisivi di migliorare i programmi, ed in particolare quelli dedicati ai bambini, non possiamo tuttavia investire la televisione di responsabilità che strutturalmente non può e non deve assolvere da sola. Ciò che possiamo fare – ciò che come educatori siamo chiamati a fare – è non lasciare che il silenzio avvolga i messaggi televisivi, non lasciare che essi si depositino in modo confuso, ma paradossalmente rigido e dogmatico, nell’immaginario dei suoi più giovani fruitori. Analizzando segmenti del flusso televisivo, scoprendone e decodificandone i linguaggi, possiamo renderne espliciti i messaggi: possiamo così aiutare i bambini ad individuare nelle trasmissioni televisive uno dei possibili modi di organizzare i propri sogni, di decifrare i propri desideri e di ampliare le proprie conoscenze, ma dobbiamo sapere che esse non costituiscono certamente l’unico materiale di cui disponiamo. 2. “Creandoci il mondo da soli” Perdita del senso, mondo ridotto alla sua rappresentazione, straniamento emotivo e comunicativo, sentimento di impotenza individuale: nonostante queste siano le possibili conseguenze finora indicate di una fruizione televisiva che tende ad invadere il tempo dei bambini, demonizzare la televisione non rientra nelle mie intenzioni. Ritengo infatti che i mezzi di comunicazione di massa contengano infinite potenzialità di svelare il mondo, trasmettere conoscenze, informare centinaia di milioni di individui: dibattiti, notiziari, documentari, spettacoli e chat-line sempre più rimbalzeranno dallo schermo televisivo a quello del computer unendo immagini e scrittura, cronaca e riflessione, ascolto e presa di parola. Al di là delle numerose “profezie” entusiastiche (Lévy P., 1996) o più spesso catastrofiste (Virilio P., 1992), risulta difficile prevedere quali effetti avranno le nuove tecnologie sulla nostra specie in termini cognitivi, creativi ed esistenziali, quali cambiamenti esse comporteranno rispetto agli stili di vita, ai modelli che organizzano i tempi del lavoro, alle mode ed ai divertimenti, alle stesse relazioni amicali, sentimentali e familiari. L’errore più pericoloso che possiamo compiere consiste comunque 41
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nel ritenere che il medium televisivo – così come qualsiasi altro medium – sia in sé e di per sé in grado di costruire percorsi educativi che aiutino gli individui nel processo di acquisizione della loro autonomia individuale e sociale: il compito di questa costruzione deve essere assolto dall’intera società che attraverso la progettualità, le istituzioni ed i mezzi di comunicazione di cui dispone è chiamata ad offrire a tutti i suoi cittadini strumenti conoscitivi e pratici per vivere la loro esistenza sociale ed individuale in modo consapevole. Riteniamo indispensabile rivendicare il primato di un’educazione e di un’istruzione che abbiano scopi e finalità ma che organizzino i loro interventi tenendo conto delle fonti d’informazione e dei modelli che maggiormente riempiono il tempo e attirano l’attenzione dei nostri bambini. La loro lunga esposizione quotidiana all’informazione televisiva risulta da molte ricerche ed è oramai nota a tutti. Sappiamo infatti che la media di fruizione televisiva infantile si attesta su ore ed ore giornaliere e che bambini di poco più di un anno sono in grado di riconoscere le musiche e gli slogan degli spot pubblicitari più popolari. Le indagini svolte denunciano un precoce dispotismo infantile nella scelta dei programmi ed una notevole ambivalenza nell’atteggiamento di molti genitori circa l’onnipresenza del mezzo televisivo nell’ambiente familiare: si vorrebbe intervenire per limitarne l’invadenza, si teme che i messaggi da esso veicolati non siano in linea con il clima educativo instaurato, ma si ricorre alla televisione per occupare il proprio tempo e quello dei propri figli. L’influenza che i materiali culturali proposti dalla televisione possono esercitare sui modelli di comportamento quotidiani e sulle stesse visioni della realtà elaborate dai bambini viene poi spesso sottovalutata. Uno dei problemi più frequentemente sollevato dai genitori consiste nella difficoltà da essi incontrata nel cercare di interagire con i figli in merito ai messaggi teletrasmessi ed in particolare sul modo in cui i bambini li assimilano e li interpretano. A mio parere, il problema educativo che si pone con maggior vigore non consiste tanto nella necessità di “spiegare” i messaggi televisivi, quanto in quella di elaborare modalità che ci permettano di integrarli in un più generale processo di apprendimento, di collegarli ad altre idee, informazioni e rappresentazioni che fanno parte del vissuto quotidiano o dei cosiddetti saperi scolastici. In questo senso, una delle finalità da perseguire potrebbe essere quella di innestare sui materiali culturali teletrasmessi un personale processo narrativo che reintroduca la soggettività – e quindi la scelta e l’elaborazione – nel caleidoscopio delle immagini televisive. Per poter operare in tale direzione, un’incisiva azione formativa deve essere svolta al fine di fornire in primo luogo agli adulti, siano essi geni42
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tori o educatori, gli strumenti necessari per svolgere quotidianamente, assieme ai bambini, attività di lettura e decodifica dei messaggi televisivi. La formazione degli insegnanti, in particolare, dovrebbe prevedere l’acquisizione di strategie metodologiche e didattiche adeguate per intervenire nella scuola secondo pratiche e politiche educative che organizzino le informazioni televisive, costruiscano modelli di elaborazione, stimolino il dibattito partendo da segmenti di cultura mediatica, affianchino alla fruizione televisiva altre forme di interazione con l’ambiente, con gli adulti, con i coetanei, con la propria interiorità e soprattutto riconducano i materiali culturali veicolati dalla televisione ad un più generale processo di narrazione attraverso il quale ogni bambino possa saldare in modo personale e significativo le visioni e le rappresentazioni offerte dal piccolo schermo con gli altri frammenti della propria esperienza e della propria fantasia. Da un punto di vista teorico va poi ricordato che i diversi codici di espressione ed il moltiplicarsi delle informazioni contribuiscono a strutturare le caratteristiche dei processi conoscitivi e le modalità stesse della concettualizzazione: la consapevolezza di ciò dovrebbe costituire la base su cui articolare un modo nuovo di considerare i processi di socializzazione e di inculturazione. Dobbiamo prendere atto che sin dai primi anni di vita i nostri bambini possiedono una vastissima gamma di informazioni: il problema più urgente non è dunque costituito dal fatto di aggiungerne altre, ma di riuscire ad organizzarle in un quadro di riferimento coerente, fornendo raccordi e collegamenti tra le schegge di cultura mediatica e tra queste e l’esperienza quotidiana. È inoltre necessario completare e saldare l’apprendistato tutto mentale ed essenzialmente visivo “vissuto” davanti al teleschermo di casa con un’educazione all’esperienza, all’intervento attivo sull’ambiente, alla creazione personale di oggetti, situazioni e relazioni. In tal senso si rivela assai importante l’ideazione di percorsi educativi tesi al recupero della corporeità, che diviene tanto più necessario quanto più vediamo avvicinarsi un futuro in cui, per molta parte dell’umanità, il rapporto conoscitivo si svolgerà indipendentemente dalla presenza fisica degli interlocutori, con i quali colloquieremo, forse esclusivamente, attraverso lo schermo del sempre più indispensabile computer. Se la scuola rinunciasse a questi compiti, ed in particolare a quello di conciliare descrizione e spiegazione, di mettere in rapporto oggetti e conoscenza, di definire i confini tra le diverse realtà e le loro infinite possibili rappresentazioni, le giovani generazioni rischierebbero davvero di credere che esista una sola realtà, e la troverebbero nei media. Se i loro linguaggi divenissero, invece, argomento di studio e di riflessione, po43
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trebbero costituire un’occasione di arricchimento dei curricoli scolastici, trasformandosi in ulteriori modelli espressivi: proficuamente essi potrebbero affiancare quelli tradizionali ed in particolare la scrittura, basata più sulle connessioni unilineari proprie del mezzo alfabetico che non sull’allusività e sulle metafore che pure rappresentano modalità espressive feconde, padroneggiabili sin dall’infanzia e particolarmente gradite ai bambini. L’analisi, la decodifica, la critica, l’appropriazione da parte dei bambini dei linguaggi televisivi possono rientrare nelle attività espressive che anche se con fatica e lentezza stanno entrando nella nostra scuola: potremmo immaginare di organizzarle in percorsi che muovendo dall’osservazione di un backstage di una trasmissione televisiva giungano alla produzione di materiali video, passando per rielaborazioni e documentazioni della pista seguita attraverso testi, cartelloni, disegni e rappresentazioni teatrali. Così come i mezzi di comunicazione letterari, iconici, musicali e corporei, il genere ed i sottogeneri della produzione televisiva hanno caratteristiche, finalità, potenzialità espressive specifiche e proprie ed al contempo rappresentano e veicolano modelli e stereotipi, valori e comportamenti che ogni individuo, fin da bambino, deve imparare a riconoscere anche al di là della forma narrativa secondo la quale gli vengono presentati. Moltiplicando e differenziando i materiali, i luoghi, le situazioni e gli incontri offerti all’infanzia, presentando linguaggi, abitudini, comportamenti e generi espressivi diversi, legando le conoscenze al passato, aprendole al contempo ai nostri molti presenti, percorrendo assieme ai bambini ambienti reali e simbolici fluidi e variegati li prepareremo ad appartenere a se stessi, alla comunità locale, ma anche, se non soprattutto, a quella mondiale. Il nostro sforzo in campo educativo deve orientarsi verso la creazione di spazi e tempi che offrano ai bambini stimoli e possibilità per lavorare attivamente con il loro immaginario, per elaborare ed organizzare individualmente e collettivamente le innumerevoli informazioni che ricevono, per ideare, muoversi e trasformare divenendo “inventori di sogni” (McEwan I., 1994), per abituarsi a crescere nel rapporto con se stessi e con gli altri.
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Dalla galassia Gutenberg alla galassia Marconi. Il ruolo dell’antropologia nella comunicazione totale di Gualtiero Harrison
Nel nostro tempo leggiamo troppi libri nuovi e siamo oppressi dal pensiero di quelli che trascuriamo di leggere: leggiamo molti libri, poiché non possiamo conoscere abbastanza persone; e non possiamo conoscere tutti coloro che ci interesserebbero perché sono troppi. T. S. Eliot, 1948
1. Un ambiente di significati condivisi Ho tratto l’exergo, che avvia questo mio contributo, da un saggio, tra i più celebri dei suoi, dove Eliot si trova quasi condotto, dal nostro concetto antropologico di cultura, a ricomporre la fenomenologia complessa della comunicazione. “Non soltanto ci affanna il numero dei troppi libri nuovi – prosegue T. S. Eliot, nei suoi celebri Appunti (1952, p. 107) – ancor più ci imbarazzano i troppi periodici, bollettini e documenti che circolano [...]. Nel tentativo di seguire le più intelligenti tra queste pubblicazioni, possiamo sacrificare le tre permanenti ragioni di ogni lettura: l’acquisto di saggezza, il gusto dell’arte, e il piacere dello svago”. Aveva già notato del resto come sia proprio la letteratura che leggiamo per passatempo ad esercitare su noi gli influssi “maggiori e meno sospettabili”: com’è il caso della letteratura contemporanea che la gran parte di noi legge con questo atteggiamento di puro diletto. Ma Eliot ci mette appunto in guardia. In questo caso infatti: “È vero che possiamo leggere la produzione letteraria soltanto per diletto, passatempo o godimento estetico: ma questa lettura ci colpisce come esseri umani interi, ed influisce infatti sulla nostra stessa esistenza morale e religiosa”. Lo stesso vale per la televisione. Anche di televisori, come di libri, ce 45
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ne son troppi. Presente ormai in tutte le case; e, in molte case, in tutte le stanze: inutile quindi esorcizzarla, pensando che sarebbe meglio che non ci fosse. Al contrario, e come ci suggerisce Guido Petter (1994, p. 12), dobbiamo considerarla come un elemento stabile, oramai, della nostra esistenza, che sarebbe inutile cercare di bandire dalla nostra vita familiare nell’illusione di sottrarre ad essa i nostri bambini: cercherebbero infatti ogni buona occasione per recarsi da parenti ed amici che, essi sì, vedono la cosa meravigliosa a loro invece proibita. “Impariamo allora a fare i conti con lei”: se vogliamo fare, come ci raccomanda Petter, Il mestiere di genitore. Perché un fatto fermo ed incontrovertibile è che “ai bambini, universalmente, la televisione piace”: come ai loro padri – o forse, ormai ai loro nonni – piace la letteratura: per godimento estetico, per il piacere dello svago. Ma, parafrasando il convincimento di Eliot, anche per la televisione può dirsi che il puro diletto finisce con l’influire sulla stessa esistenza morale (e, come ci hanno insegnato le “apparizioni” di Giovanni Paolo II, anche sul comportamento religioso giovanile: perché superando piazze e pulpiti il discorso religioso si rifrange nel discorso televisivo e raggiunge l’intero sociale). Sarà nelle telecomunicazioni dei prossimi decenni del sopravveniente millennio che la tecnologia promette le sue più strepitose rivoluzioni. Ma già nello scorso autunno ne abbiamo avuto una eclatante anticipazione: quando è stato avviato il servizio della costellazione satellitare Iridium che con i suoi sessantasei satelliti in orbita consente, a chiunque tenga un cellulare a portata di mano, di parlare con ogni altro uomo, dotato anche lui d’una equivalente tecnologia, in ogni altro continente del globo terrestre. Nello stesso trascorso autunno siamo stati, però, anche avvisati che erano state ritrovate, in un capannone della periferia che s’è approssimata a Roma, le registrazioni televisive di “duecentocinquantamila ore di video”, e fotografie per più d’un milione di scatti. Costituiscono, questi reperti di immagini della contemporaneità, una parte dell’archivio iconico della Rai: che a detta di chi se ne intende è cosa relativamente più modesta a paragone della collezione corrispondente della britannica Bbc. Per rivedere tuttavia, in una serrata successione, senza intoppi e senza soste, questo materiale registrato da due (e solo due) delle centinaia e centinaia di emittenti del pianeta dovremmo (o meglio: dovranno, coloro che verranno) impiegare la totalità delle ore, dei giorni e degli anni di gran parte del primo secolo del prossimo, fatidico terzo millennio! Nell’attuale ordine del discorso alla moda sulla globalizzazione è utile ricordare, a questo proposito, che il “villaggio globale” è una rappresentazione culturale e non una cosa naturale: non è insomma un contenitore concreto e fattuale, ma piuttosto un costrutto logico per indicare, e quindi 46
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descrivere e interpretare, tutte quelle relazioni che danno fondamento storico ai concetti di informazione, comunicazione, conoscenza, comprensione: con una sineddoche che tutto contiene, di cultura. Come è stato ripetutamente ribadito, questa (ed ogni altra) trasformazione contemporanea sembra mossa soprattutto dalla influenza della televisione, perché secondo il famoso paradosso di Marshall McLuhan: “I nuovi mezzi di comunicazione non sono ponti tra uomo e natura: sono la natura” (Carpenter E., McLuhan M., 1966, p. 255). La televisione, insomma, è il nostro ambiente attuale. E quando personalmente non la vediamo, poiché però interagiamo con altri che l’avranno vista, leggeremo il loro apprendimento nel loro modo d’essere e di comportarsi, di atteggiarsi e di agire: attraverso le nostre relazioni quotidiane con il pubblico della televisione noi, quindi, entriamo in iterazione in ogni caso e in ogni modo con lo schermo che è dunque “sempre acceso per la comprensione pubblica del mondo”. Tutti noi dunque guardiamo la televisione, “non perché siamo pigri, passivi, intontiti”, ma perché siamo al mondo: che nella televisione ha la sua più estesa e completa descrizione. “Gli uomini hanno sempre pensato di abitare il mondo – ha scritto del resto Umberto Galimberti – ma in realtà non sono mai usciti dalla descrizione che le varie epoche hanno dato del mondo” (1994, p. 200): nel tempo antico, quando il mondo era descritto dal mito, o nel Medioevo quando a descriverlo era stata la religione, o nell’evo moderno, quando fu descritto dalla scienza. In tutti questi “passaggi” gli uomini hanno “abitato la descrizione” prima mitica, poi religiosa, quindi scientifica del mondo. “Forse l’uomo non ha mai avuto a che fare con le cose ma sempre e solo con le idee che confezionano la cose”. Se così non fosse stato – aggiunge Galimberti – non potremmo parlare di storia e di successione di epoche; mentre è proprio in tale prospettiva che si può pensare che l’età della scrittura sia passata, e che, avendo superato la scrittura, “abbiamo fatto nascere un uomo che è insieme super-civilizzato e sub-primitivo”. “La stampa ha creato l’infanzia, la televisione sta annullandola”. Il mutamento della scena simbolica dominante alla quale è esposto il bambino contemporaneo comporta per lui, insieme all’onnipotenza del video nella sua scena familiare, fondamentalmente anche un mutamento nella sua formazione personale: il declino della sua educazione formale, quando è ormai vero che “il percepire prevale sul pensare” (Postman N., 1984). A mo’ di metafora, e per dare struttura a tale pensiero – per cui le stesse cose connettendosi a impianti di significato di volta in volta differenti, appaiono come cose del tutto differenti – ricorrerò alla memoria di quando i bambini vivevano in uno spazio acustico. “Quando la neve e le brine invernali coprono le campagne – scriveva 47
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Cesare Cantù – sogliono i contadini temperar lo stridore della stagione facendo crocchio nelle stalle; e a quel tepore animale lavorando, discorrendo, pregando, dispensare i giorni melanconici e le eterne serate”. Questa usanza contadina, di cui ci parla lo scrittore nella sua novella brianzola, è oggi del tutto desueta; ma vivissima invece era ancora due generazioni fa, e per tutta la campagna veneta. Si tratta del filò; che nel nome sembra già voler alludere alla attività che per consuetudine doveva occupare la donna in veglia: il filare e il tessere. Il suo sostrato materiale richiama la condivisione del calore e della luce, e per secoli costituì il luogo/modo – il topos – in cui sera dopo sera si è tramandato il sapere orale del mondo contadino. Oggi filò, nella letteratura sul folklore, sta ad indicare quei racconti popolari che si inventavano e si comunicavano in queste “veglie di stalla”, e che così passavano di generazione in generazione. Ulderico Bernardi ha curato una antologia sul filò, e tra gli autori raccolti ci sono quelli e tanti che lamentano la “poca convenienza” per le donne e per i bambini di prender parte a tali veglie; e ci sono altri che addirittura dipingono a fosche tinte tali riunioni dove “l’ignoranza si alimenta di fole”. Sono autori di quegli anni che giudicano il filò e ne scrivono mentre l’istituzione era viva e vegeta. Oggi, nel ricordo, Bernardi ne rimpiange “il calore comunitario che quella istituzione era capace di fornire” e che oggi è diventato “bisogno insoddisfatto”. Chissà cosa racconterà un futuro storico della cultura materiale, vivente in era di realtà virtuale, delle ore passate dai nostri bambini davanti alla televisione. Forse, al modo di Bernardi ne parlerà con nostalgia e scriverà un’antologia degli attuali convegni e congressi, tavole rotonde e seminari, dove, invece, la televisione è costantemente attaccata, vilipesa, demonizzata. 2. Comunicare con i bambini La comunicazione per il bambino comincia molto prima che venga al mondo: comincia molto prima, all’interno dell’utero. Ma è una cosa questa che i nostri nonni già dicevano anticipando gli scienziati odierni, mentre oggi diciamo di saperne scientificamente troppo poco. Le madri delle società tradizionali sapevano e dicevano della reazioni del feto ad una loro paura, a un’emozione, ad una gioia. E sapevano e dicevano delle voglie che avevano loro perché le aveva il feto e che, se non soddisfatte, sarebbero divenute segni, stimmate, iscrizioni nel corpo del nascituro. Oggi sappiamo che, da feto, il futuro individuo già sogna: in sintonia con l’attività cosciente e con l’attività onirica della madre. 48
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Limitiamoci però a quando il distacco del parto rende il nato individuo. In questa operazione inizia la comunicazione sociale e relazionale: colei, colui, che lo fa nascere avvia la comunicazione corporale e tattile. La madre – e cioè l’allevatrice, l’educatrice, la nutrice, e quindi non solo necessariamente colei che l’ha generato – moltiplicherà per infinite volte i contatti tra i corpi e svilupperà la struttura della personalità sociale infantile. Successivamente il bambino acquisirà la comunicazione verbale e dell’oralità; e successivamente ancora l’istruzione scolastica gli fornirà lo strumento comunicativo della scrittura; mentre la società delle immagini gli darà competenze ed occasioni di performance nei codici audiovisivi ed iconici. Questa successione, però, ha seguìto queste tappe lungo la storia evolutiva della specie: nell’individuo odierno itinerari e tappe si intersecano e si sovrappongono in una mappa assai più articolata e complessa: perché tra l’acquisizione della competence nella comunicazione orale e quell’altra competence che riceverà dall’istruzione scolastica alla comunicazione scritta il bambino sarà stato intanto socializzato, da migliaia di ore di trasmissioni televisive, alla cultura dell’epoca nostra. Quella cultura che lo psicologo sociale Abraham Moles ha definito (1971) “cultura a mosaico”, intendendo che si presenta come un insieme di frammenti giustapposti senza costruzione, senza punto di riferimento, in cui nessuna idea è necessariamente generale. Il problema più importante posto da questo nuovo tipo di cultura è quello di stabilire se si può ritrovare al suo interno una sua struttura caratteristica o, almeno, una possibilità di strutturazione che dall’esterno le venga indotta. Il sociologo Franco Rositi, che era intervenuto nel dibattito sulla Sociodinamica della cultura di Moles, faceva osservare che la parola “mosaico” farebbe emergere l’idea di un insieme bene organizzato e strutturato. Mentre la cultura di massa si offre invece, in maniera estremamente fluida, come un disgregato flusso di messaggi. Il concetto sembrerebbe allora doversi riferire “all’attività di coloro che ricevono i messaggi; e che appunto li dispongono come tanti tasselli, in un determinato pattern”. Si tratterebbe, insomma di una attività strutturante del fruitore. Questo tentativo di separare, nello studio della cultura di massa, ciò che è riferibile all’emittenza da ciò che è riferibile all’utenza è di notevole rilievo per una critica intorno al ruolo dell’azione culturale svolta dalla scuola. Perché come ha osservato Matilde Callari Galli (1993), è sorprendente quanto siano scarse ed esitanti le ricerche sul rapporto che esiste tra i processi di inculturazione e l’esposizione ai mezzi di comunicazione di massa, propria dei nostri bambini, sin dai primi anni di vita. E se le ricerche sono esitanti, “le istituzioni educative sono addirittura latitanti”. Tra 49
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le immagini estremamente composite che vediamo fluire susseguendosi ed inseguendosi nel trascorrere della cultura a mosaico, quella del bambino è la più difficile da circoscrivere per i messaggi contraddittori che vengono a comporla. Di fatto la “cultura contemporanea” non ci deriva più da una attività orientata dalla nostra personalità, che prolunga lo slancio della nostra educazione, quanto piuttosto da un flusso continuo di items granulari, più o meno agglomerati dal funzionamento generale della comunicazione mass-mediale. La nozione stessa di cultura contemporanea viene riportata da Moles all’universo specifico della comunicazione di simboli, e non invece all’universo generico delle relazioni sociali: quando giustappongono nel rapporto di dominanza/subordinazione la divisione di maschio e femmina, la divisione dei gruppi di età, la divisione per ruoli educativi. E così veniamo indirizzati a farci carico dei rapporti di interdipendenza percettiva prima ancora che comunicativa. “Nel ricevere i messaggi che ci offrono i nostri sensi – come ci propone Abraham Moles (1971, p. 46) – disponendo di un determinato arredamento del nostro cervello, l’immagine degli oggetti circostanti viene prelevata dai nostri occhi, poi riproiettata (ed è questa operazione che si può chiamare percezione) su una specie di schermo costituito dell’insieme delle conoscenze a priori: che dà il suo valore, il suo significato e la sua importanza al messaggio ricevuto. Una siffatta integrazione è la prima messa in opera del pensiero”. Ma i messaggi che si riflettono sullo schermo di riferimento del soggetto, durante la sua inculturazione, gli provengono nell’oggi dell’era televisiva, tanto dalla memoria del mondo – cioè dalla somma di tutte le cose e le rappresentazioni che sono contenute in una sorta di Museo universale o di Biblioteca universale, dove dovrebbe venire idealmente racchiusa e cristallizzata tutta la produzione intellettuale del passato – quanto dal flusso continuo delle comunicazioni di massa – delle quali la televisione dovrebbe essere l’ideale e simultanea dispensatrice di un nuovo processo educativo, rivolto ad un pubblico vasto, eterogeneo ed anonimo. Nell’antica battaglia tra differenti saperi e linguaggi, e di fronte ad una scuola che dà prova di credere in un sapere della filosofia che edificherebbe continuamente principi e deduzioni, o nell’altro sapere, quello della scienza, che si costruirebbe per ipotesi e prove, emerge, con uno spiazzamento integrativo rispetto alla prospettiva dell’istruzione scolastica, l’opportunità di una apertura di credito per una antropologia fenomenologica della comunicazione per immagini. E dovrebbe essere una antropologia nella quale, integrandosi la rivoluzione elettronica a quella grafica (com’è quest’ultima scandita da cartelloni pubblicitari e fumetti, disegno industriale e vignette della satira) si riesca a disvelare un mondo simbolico nuovo. Un mondo in cui, rimodellando il sistema delle 50
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idee in figure ed immagini alla velocità della luce, sia possibile il cambiare la forma stessa dell’informazione: da discorsiva a non-discorsiva, da propositiva a figurativa, da razionale ad emotiva. E si tratterebbe, quindi, di mettere in discussione lo statuto culturale della ricezione, e di raffrontarlo allo statuto della interazione produttiva: cioè di quel topos in cui la ricezione e la comunicazione, l’interiorizzazione e l’espressione articolano il paradigma della “cultura contemporanea” come cultura della complessità e della ipercodificazione. Quella cultura nella quale proprio i bambini sembrano muoversi con una grazia ed una disinvoltura che verrebbe proprio voglia di dirla innata. Da piccolo nessun bambino è mai – né, a maggior ragione lo sarà crescendo – un semplice manichino ricoperto dai panni culturali che l’educazione del suo gruppo si è incaricata di cucirgli addosso. Come mi è già capitato di dire (Harrison G., 1997) – argomentando sul “diritto umano all’educazione”, sancito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti dell’Infanzia – il pulviscolo umano si caratterizza, nel suo insieme, per la polimorfa virulenza di progetti e di azioni, di stati d’animo e di condizioni sociali, di valori e di atteggiamenti, che si incontrano e si scontrano in ogni gruppo sociale e in ciascuno dei suoi componenti. L’antropologia è stata definita come il tentativo di tracciare, con accurata preoccupazione, le mappe dei rapporti, delle interazioni e delle connessioni, che legano l’acquisizione di competenze nella comunicazione sociale con l’esercizio di autonome esperienze esistenziali attraverso le quali è possibile fondare una identità che sia al contempo individuale e collettiva. La cultura del fanciullo, almeno nella prospettiva antropologica, manifesta un sapere disciplinare sull’infanzia cui è stato impedito, per tanto tempo, di estrinsecarsi; e che è emerso solo in pieno XX secolo quando, con una vera e propria rivoluzione copernicana, i bambini sono stati riconosciuti capaci di fondare sistemi relazionali con il mondo degli adulti, e di attivare una presenza fatta di bisogni che richiedono vengano loro soddisfatti, ma anche di strategie per catturare l’attenzione e di atteggiamenti seduttivi che convogliano l’interesse degli adulti: siano essi genitori naturali o sociali, siano parenti o conoscenti, educatori od operatori preposti alla cura ed alla tutela. L’infanzia ha assunto così, tra le cosiddette scienze umane, la valenza di “un polo relazionale con cui la cultura degli adulti sa di dover entrare in rapporto”. Un documento del Comitato Nazionale per la Bioetica, pensato per offrire spunti per una riflessione sulla convivenza tra mondo degli adulti e mondo dell’infanzia – ed è un documento che presuppone che “la realtà dell’infanzia sia complessa e si conosca e comprenda solo se è pensata nella sua complessità, se i comportamenti nei suoi confronti non sono im51
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prontati a stereotipie, al semplicismo che la banalizza” (1994, p. 77) – tale documento, dal catturante titolo Bioetica con l’infanzia, pone a suo tema centrale la constatazione che, nel riconoscimento delle debolezze che rendono l’infanzia dipendente dall’ambiente, ma al tempo stesso nel riconoscimento delle manifestazioni di autonomia che l’infanzia è in grado di dare, sia possibile attribuirle un ruolo nella “costruzione di dinamiche relazionali antropologicamente piene, cioè capaci di dare più senso all’esistere nella natura”. L’ordine secondo cui si costruiscono le relazioni diventa per tanto ordine fondamentale della convivenza umana se sono anche i minori a determinarlo. La riflessione sul minore, che ha costituito il paradigma dell’antropologia psicologica statunitense a partire dagli anni ’30, ha condotto al riconoscimento del fatto che il minore sia strutturalmente aperto all’alterità; mentre reciprocamente è del tutto indebito il presupposto contrario, e teoreticamente ingiustificato, per cui “la soggettività del minore venga a corrispondere ad un in sé assolutamente irrelato”. È stato quindi, e più di recente, ribadito dall’antropologa italiana Matilde Callari Galli, in un autorevole contesto interdisciplinare, che se il minore trova nell’alterità l’unica possibilità di difesa e promozione, non solo perché l’alterità costituisce l’unica via per giungere alla conquista della propria identità, dovremmo tuttavia, al contempo, ricordare che “sempre più, in bambini e bambine che trascorrono ore ed ore davanti agli schermi televisivi, indignazione, paura, orrore, entusiasmo, nascono e si generano non in rapporto con la realtà quotidiana, non in relazione con un individuo, non in risposta ad un fatto, ad un evento, ma in conseguenza di alcune immagini che si possono, se si vuole, interrompere e cambiare a piacimento” (Callari Galli M., 1998 b), p. 137). Ed in tal senso la diffusione della fruizione televisiva alla quale viene educata la sfera emotiva di molti bambini viene chiamata in causa da più parti come causa e radice della “passività sociale”. Ma è opportuno ricordare anche l’apparente banale truismo di Neil Postman quando ci ricorda che “il linguaggio è un’astrazione dell’esperienza mentre le immagini ne sono una rappresentazione concreta; un’immagine, infatti, può valere anche mille parole, ma in nessun caso è l’equivalente di mille o più parole” (p. 95). E sarebbe probabilmente il caso di ampliare ulteriormente la discussione sulle contrastanti tendenze epistemologiche riguardo a tali differenti forme di simbolizzazione: o almeno ricordarci che, a differenza di una frase, un’immagine è inconfutabile, perché non vi sono regole di dimostrazione o di logica alle quali deve conformarsi. Da qui in poi il mio personale contributo, all’argomento di cui dibat52
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tiamo insieme in questo nostro libro, potrebbe indirizzarsi a delineare quel nuovo paradigma culturale di cui già si scorgono ed agiscono alcuni tratti: e che riguarda il rapporto tra “lingua digitale” e “lingua analogica”. Ed occorrerebbe allora mettere in evidenza l’asimmetria funzionale degli emisferi cerebrali umani: l’emisfero sinistro che sarebbe la sede della memoria, della logica, del ragionamento, dell’analisi della parola, del calcolo, della linearità (cioè di tutte le funzioni cosiddette razionali), e l’emisfero destro in cui sarebbero invece localizzate le funzioni globalizzanti quali la sintesi, l’intuizione, l’estetica, la sensazione, le immagini, le metafore, l’istantaneità. E ricorrendo a Roman Jakobson (1978) porci inoltre, anche noi, l’intricato problema dell’interrelazione tra le nostre percezioni sequenziali e simultanee: precipuamente tra i fenomeni temporali che nello specifico sono sequenziali (com’è il caso del discorso e della musica), ed i fenomeni tipicamente spaziali (com’è il caso della percezione delle arti visive). Ma, per ritornare al nostro bambino che sta a guardare il suo schermo televisivo, è probabilmente sufficiente limitarci a dire che tutte le volte che applica esperienze apprese – attraverso l’istruzione scolastica – mette in movimento la parte sinistra del suo encefalo; mentre quando ricorre alla creatività, e può farlo in modo elevato durante questa sua età, si esprime tipicamente con la parte destra del suo cervello: o almeno vorrebbe farlo ma ne viene limitato, e proprio dal processo educativo, che sembra più interessato a trasmettergli comportamenti standardizzati. L’insegnamento e l’educazione sembrano quindi interessati assai più al cervello sinistro (ed al suo rigore) ed assai meno a quello destro (e alla sua immaginazione). Le due sfere del nostro sistema conoscitivo, sin ora sin troppo disgiunte, è tempo, però, che non vengano più considerate separate ed incomunicabili, perché se lo sono nelle strategie dell’istruzione, non lo sono certo nell’esperienza dei vissuti infantili. 3. Lo jus communicationis L’homo è faber: nel senso che ogni società si articola a partire da una “tecnologia”; e nella società mondiale globale, nella fase attuale che vuole assumere al cambio di millennio, è tecnologia di raccolta e trasmissione delle informazioni, ma anche essenzialmente “società delle scienze umane”: e nel doppio senso oggettivo e soggettivo del genitivo: una società, cioè, che è conosciuta e costruita dalle scienze umane come oggetto adeguato, ma anche una società che si esprime in queste scienze come in un suo aspetto determinante. Il comportamento umano è il suo farsi in un 53
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contesto sociale: ogni azione si attualizza nel contesto in cui si colloca, e l’ambiente sociale deve essere inteso come sistema delle relazioni interpersonali e delle relazioni che il singolo ha l’opportunità d’avere nei confronti dell’insieme sociale. Il comportamento risente quindi delle caratteristiche del singolo, ma sempre in relazione con le persone del gruppo con cui è interrelato. Ed il gruppo sociale rappresenta quindi una presenza continua: e proprio per il suo esprimersi con proprie comunicazioni costantemente significative, anche se non sempre decisamente efficaci da un punto di vista relazionale, per cui la percezione che il singolo ha nel gruppo in cui è inserito risulta funzionale alla condivisione delle regole alle quali viene sollecitato ad uniformarsi, secondo tendenze più o meno consapevoli. Dal punto di vista della comunicazione sociale – e privilegiando l’analisi classica di Karl Deutsch (1962, p. 70) – ogni popolo può essere definito “un gruppo di persone legate da abitudini e da mezzi di comunicazioni complementari”. E, se la “sufficiente complementarità” di un insieme di apparati per la comunicazione sta nella sua efficienza (a comunicare l’informazione nei termini compositi di frequenza, rapidità e fedeltà) e nella sua efficacia (nell’essere capace di comunicare una gamma di temi più vasta ai membri di un gruppo sempre più numeroso), allora il “carattere nazionale” si potrà dire consistente in maniera essenziale con la vasta rete relazionale che interconnette i suoi membri nella complementarità della comunicazione. Il bisogno di riconoscersi induce ogni gruppo sociale ad identificarsi con quelle raffigurazioni che diventano capaci di contenere riferimenti comuni, e che siano sufficienti perché ogni individuo possa riconoscersi nell’immagine speculare e rifratta all’infinito che le raffigurazioni prodotte in serie gli rimandano come molteplicità di oggetti sociali. Per ricomporre la fenomenologia complessa della comunicazione occorre allora partire dai rapporti della cultura con la cittadinanza; e sono rapporti d’identità e di distinzione: “perché non vi può essere cultura dove l’identità non sia differenziata”. Qualunque sia il tipo di dialogo che venga attivato in una comunicazione, tre piani devono intrecciarsi: vicendevolmente influenzandosi. Per primo quello del “potere” – e cioè della politica, se è vero, come si dice tra gli storici delle idee, che gli antesignani fondatori dei primi mass media furono les philosophes – Montesquieu e Voltaire e Condorcet, e sopra tutti J. J. Rosseau – preoccupati di dotare la nascitura opinione pubblica dell’evo contemporaneo di nuovi strumenti che potessero politicamente illuminarla. Poi sopraggiunge il piano del “valore” – e cioè dell’interesse economico, e quindi dell’egoismo del macellaio, come avrebbe detto Adamo Smith: “Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pran54
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zo, ma dal fatto che essi hanno cura del proprio interesse. Noi non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma al loro egoismo e con loro non parliamo mai delle nostre necessità mai dei loro vantaggi”. Ed infine il piano della “identità” – e cioè degli incontri, dei confronti e degli scontri comunicativi, quando mondi culturali diversi sono chiamati – costretti, anzi, tra loro – a dialogare. Secondo la definizione che Gianni Vattimo ha proposto nel 1989, si possono comprendere sotto la dizione di “scienze umane” tutti quei saperi che Emmanuel Kant faceva rientrare nell’ambito della Antropologia prammatica: quei saperi, cioè, che forniscono una definizione “positiva”, e quindi non filosofico-trascendentale, dell’uomo. L’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, in connessione con la sua matrice neo-kantiana, ha studiato l’uomo non per ciò che questi ha fatto – e fa – “per natura”, ma a partire da ciò che “l’uomo ha fatto di sé”: e dunque dalle istituzioni interagenti con le forme simboliche, in senso lato, cioè, dalla “cultura”. L’antropologia (culturale) può essere quindi definita come una “scienza umana” in quanto descrive positivamente ciò che l’uomo, in situazione comunicativa, fa di sé nella cultura e nella società. Di certo la sociologia e forse anche la psicologia tendono a rientrare in “tale descrizione”: indipendentemente da una delimitazione esatta dei confini dei loro ambiti. Vattimo nota ancora che, storicizzando nascita e sviluppo delle scienze umane, queste forme di sapere devono essere poste in rapporto con la “società della comunicazione generalizzata”. Le scienze umane, infatti, sono condizionate in un rapporto di “reciproca determinazione” dal costituirsi della società moderna come società della comunicazione. Si può quindi convenire con il filosofo che l’antropologia, e la stessa psicologia, siano ad un tempo effetto e mezzo di ulteriore sviluppo della società della comunicazione. L’idea di poter e dover descrivere positivamente l’uomo – ed il piccolo dell’uomo – in “situazione culturale” è essa stessa “essenzialmente condizionata dal dispiegarsi, in modo visibile e accessibile ad analisi comparative, di una tale positività del fenomeno umano; il che, nella forma più evidente si dà proprio con lo sviluppo della società moderna nei suoi aspetti comunicativi”. Esaminando i fondamenti dei communication rights, lo studioso H. Hindley ha scritto, un quarto di secolo fa, che nei termini dei Diritti di comunicazione, “la informazione, organizzata con proprietà, sta alla base della conoscenza, e che la conoscenza stessa non solo è sorgente del potere ma anche chiave per accedere alla comprensione”. Comunicazione e comprensione allora non coincidono. Ma, nella interrelazione fra soggetti sociali, all’interno dei medesimi universi culturali, allo stesso modo che tra universi culturali distinti, tanto il produttore che il ricettore del 55
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messaggio vengono coinvolti nell’azione comunicativa, e non resteranno per tanto mai inalterati. Comunicare, inoltre, implica, in questo necessario entrare in relazione con universi distinti, anche il mettere in gioco preliminarmente continue transizioni da un universo all’altro, e successivamente verificare le modificazioni del nostro universo percettivo e l’arricchimento che ne deriva. Parlare quindi di diritti di comunicazione – cioè di quei diritti che richiedono il riconoscimento e la tutela ad informare ma anche a ricevere informazioni, ad ascoltare e ad essere ascoltati, alla parola così come al silenzio – rimanda a concetti di interdipendenza, di reciprocità, di complementarità che conferiscono consistenza e puntualità ad un ambito di pensiero e di analisi per quella fenomenologia della complessità che sa riferirsi ai processi comunicativi come ambiti relazionali dell’attività simbolica. Dello jus communicationis si cominciò a parlarne già dai tempi della scoperta dell’America; e non è un caso. Francisco de Vitoria, che pure ha legittimato la pratica della conquista dei territori d’oltre oceano, ha però anche affermato in modo geniale, per il suo XVI secolo, che il diritto di comunicazione si costituisce nel momento in cui i confini del mondo si allargano: nel momento in cui si viene a sapere dell’esistenza d’altre genti, di altri uomini. Lo jus communicationis sta ad indicare il riconoscimento della inevitabilità di pacifiche relazioni fra società umane, perché fondate sul “diritto naturale” ad entrare in relazione, a penetrare pacificamente nei territori di altri uomini per commerciare con loro o per evangelizzarli: è, insomma, il diritto a liberamente comunicare tra uomini. Capovolgendo siffatta concezione, Theodor Adorno, agli inizi degli anni ’50 vaticinò, esaminando la vita quotidiana della società di massa, che la televisione (ma in realtà all’inizio aveva parlato solo della radio) avrebbe avuto come effetto quello di produrre, attraverso la “integrazione culturale” il fenomeno della omogeneizzazione e della omologazione dei sistemi di valori-atteggiamenti sociali. L’impostazione adorniana si articola fondamentalmente nella critica del consumismo culturale – e cioè della cultura delle comunicazioni di massa – che inevitabilmente si traduce in una manipolazione che il produttore della televisione commerciale compie nella prospettiva dei gusti preesistenti della utenza, ma con l’obiettivo di crearne di nuovi per i suoi fini di mercato. Quando poi la televisione è di stato, l’obiettivo diventa allora quello di rendere conformista la pubblica opinione. Adorno prevedeva che una sorta di Grande Fratello avrebbe inesorabilmente esercitato un controllo politico-culturale sui cittadini: attraverso una distribuzione di slogan di propaganda tanto politica quanto mercantile, e quindi di visioni del mondo stereotipate. 56
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Nel deciso schema precostituito di una pessimistica lettura per qualunque forma sociale della massificazione, l’interpretazione adorniana non fa scorgere, neanche in prospettiva, una via d’uscita affinché la moltiplicazione vertiginosa della comunicazione possa evitare l’incremento aggiunto d’un appiattimento conoscitivo e comportamentale: perché in ogni caso è già connaturato alla Konsumentenkultur. Per di più, la manipolazione del consenso da parte dei mass media, uniformizzando i valori etici di riferimento ed i corrispondenti modelli comportamentali di identificazione, toglierebbe ogni possibile chance positiva di trasformazione, di rinnovamento, di crescita. Quel che di fatto è accaduto è invece una grande proliferazione delle visioni del mondo, l’emergere, cioè, della “passione per le differenze”. E proprio perché la realtà è divenuta il risultato degli incroci, dei meticciati, delle contaminazioni, delle immagini molteplici delle interpretazioni delle alterità, delle ricostruzioni testuali di appartenenze e consistenze aliene. Tutte, ed ognuna, in reciproca e concorrente contrapposizione, ci vengono distribuite dai media, e nella società che essi costituiscono si fa strada un’ideale di emancipazione che, come dice ancora Gianni Vattimo, ha alla propria base l’oscillazione, la pluralità, e in definitiva l’erosione dello stesso “principio di realtà” (1989, p. 15). Proprio l’evoluzione del sistema delle comunicazioni, che permette una circolazione delle informazioni in tempo reale su tutto il pianeta, e l’intensità e l’accelerazione del flusso delle informazioni hanno fatto emergere le sub-culture, hanno consentito la “presa di parola” a soggetti e gruppi che si identificano nella diversità e nella specificità. Non siamo ancora alla parità del diritto di accesso e di partecipazione, di cui parla Ralf Dahrendorf (1988), ma è certo che nonostante i rischi del controllo unilaterale ed oligarchico dei nuovi strumenti e delle nuove tecnologie, emerge – e proprio come conseguenza della logica dei mass media – il contatto, il coinvolgimento, la compresenza. Dobbiamo però anche recepire la sollecitazione che di recente ci ha proposto Matilde Callari Galli (1998 b), p. 187) di non considerare la pluralizzazione che oggi appare irresistibile, come passibile di venire limitata all’hic et nunc del “tutto è diventato oggetto di comunicazione”. Ci ricorda, invece la Callari Galli che “la storia di tutti i gruppi umani esaminata nella sua profondità temporale e nella sua indeterminatezza spaziale dissolve e confonde i confini delle singole comunità, dimostra come ogni gruppo umano abbia incontrato, abbia commerciato, si sia mescolato, si sia opposto a un gran numero di altri gruppi: ogni contesto nazionale o regionale o comunale è in realtà un transito in cui si sono incontrati molteplici linguaggi, in cui si sono confrontati modi di vita diversi, in cui la piccola comunità e la so57
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cietà più ampia confluiscono e si compenetrano l’una nell’altra su più livelli, tanto da rendere difficile dire cosa sia locale e cosa invece non lo sia”. Il problema oggi, come ieri, non è quello della “comunicabilità” quanto piuttosto quello della cosiddetta “comprensione minima”, in una comunicazione interculturale in cui il produttore del messaggio è membro d’una cultura e il ricevente è membro d’una altra, il messaggio è codificato in una cultura ma deve essere decodificato in un’altra. E vi sono differenze culturali nei processi mentali che sono alla base dei linguaggi, differenze culturali nei processi verbali e soprattutto non-verbali delle interazioni comunicative: espressioni del corpo e del volto, modi di guardare, silenzio e parola, contatto fisico, percezioni ed usi del tempo e dello spazio. Come a noi antropologi ha insegnato Gregory Bateson “è impossibile non comunicare”. E mi sentirei di aggiungere che questo è ancora più impossibile fra culture differenti, in cui proprio la differenza percepita diventa messaggio e ordine del discorso. 4. Il bambino televisivo messo in mezzo tra i “child savers” ed i “kiddy libbers” Dalle molte ricerche che sono state condotte, dall’inizio del decennio, emergono dati che stupiscono, anche se non inaspettati: che i bambini, cioè, inizino la loro fruizione televisiva precocemente: dai due anni in su; che durante la scuola dell’obbligo vedano la televisione tutti i giorni, usualmente, e almeno per metà di loro per più di quattro ore al giorno; che assai più di un terzo fruisca di un televisore “personale” e a colori. Se s’aggiunge, stando al seguito dell’inchiesta sulla violenza in TV di “CQResearcher (Clark, 1994), che un bambino americano – ma quello nostro non se ne discosta poi troppo – assiste in media a 8.000 omicidi e a 100.000 atti di violenza prima di aver terminato le scuole elementari, la tesi di Karl Popper – “purtroppo abbiamo bisogno della censura” – sembra essere più che la semplice provocazione di un filosofo in vena d’eccentricità. Di fronte ad una fruizione televisiva siffatta, e soprattutto così massiccia, sembrerebbe giustificato il grido di dolore che si solleva da più parti per la teledipendenza delle nuove generazioni. Soprattutto dovrebbe spingere la riflessione scientifica di una antropologia dell’educazione ad interrogarsi sulle nuove realtà formative risultanti dal sistema complesso e polisemico dei numerosi condizionamenti vicendevoli e delle reciproche sinergie che la pluralità degli strumenti educativi, formali ed informali, mettono in essere nella loro complessiva pluralità. In questo 58
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nuovo contesto vengono immerse le nuove generazioni che, come qualunque altra le abbia precedute, sono però, come sempre, alla ricerca di collocazione consone alla realtà sociale dove sono chiamate a recitare i loro ruoli esistenziali ed esperienziali. Cattiva maestra, la televisione, come si dice, non farebbe bene in assoluto ai bambini e ai giovani per la grande quantità di tempo che essi vi passano davanti – e John Condry l’ha chiamata allora “ladra di tempo” e “serva infedele” – ma anche per l’immensa influenza che essa eserciterebbe su di loro: suggestionandoli – come ha detto Karl Popper – nella loro capacità di trovare la propria strada lungo la vita. Nel suo equipaggiamento, che la natura umana gli trasmette quando viene al mondo, ogni bambino nasce attrezzato in modo da potersi adattare a qualunque ambiente in cui si troverà a crescere e a vivere; ma in pratica, ed in misura considerevole, sarà tuttavia dipendente, per la sua evoluzione mentale, dal concreto contesto sociale che storicamente si assumerà il compito di educarlo. Noi abbiamo quindi la responsabilità di creare le migliori condizioni ambientali possibili. “Il punto – aggiunge Popper (1994, p. 25) – è che la televisione è parte dell’ambiente dei bambini; ed una parte per la quale noi siamo ovviamente responsabili, perché si tratta di una parte dell’ambiente fatta dall’uomo (man-made)”. Ma anche il saper leggere e scrivere è, ed è sempre stato, un prodotto del “condizionamento culturale”. Dopo tutto, come ci ricorda Eric Havelock (1980), la “condizione naturale” della comunicazione umana è il dominio della parola, “rafforzata dal canto”: “biologicamente siamo tutti degli oralisti”. E Neil Postman arriva ad dichiarare che “Jean-Jacques Rousseau aggiungerebbe ad una simile affermazione che se gli uomini dovessero vivere in modo quanto più conforme alla natura, essi dovrebbero disprezzare libri e letture”(1984, p. 26). Del resto, nell’Emilio, Rousseau stesso scrive che “la lettura è il flagello dell’infanzia, perché i libri ci insegnano a parlare su cose delle quali non sappiamo nulla”. Da Platone a Rousseau, e quindi a Popper si ripete così la “preghiera del filosofo a Pan”, perché il Dio aiuti ed assicuri il saggio perché, così come fa l’agricoltore, sappia trascegliere i semi giusti in modo che, nel campo adatto e a tempo debito, possano essere piantati; e la piccola, giovane pianticella allora sia in grado di maturare e di dar frutti. Ma ogni nuovo linguaggio è sempre funzione di nuove realtà, ed il loro avvento esige nuovi tipi di comunicazione. Perché allora Karl Popper, massimo teorico della “società aperta”, ed uno dei maggiori interpreti del pensiero liberale, può arrivare ad invocare la censura? “Una democrazia non può esistere se non si mette sotto controllo la televisione”, dichiara espressamente. La televisione, ci condizio59
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na: è vero, ed ancor più condiziona l’infanzia con le sue “debolezze” e le sue “dipendenze” dall’ambiente. Ma il rapporto tra medium e fruitore – anche il più giovane ed inesperto – sempre si iscrive in una relazione dinamica di alta complessità comunicativa, cognitiva ed esperienziale: ben aldilà del semplice modello stimolo-risposta, quando i livelli di varietà e complessità sono molto ridotti, ovvero perché sono validi solo in alcuni sistemi chiaramente non-biologici. L’educazione, invece, è “formazione secondo modelli, prescrizioni e norme”, ma inoltre – secondo l’opinione del gruppo interdisciplinare Crescita, coordinato da Sergio Nordio – “l’educazione è vera educazione se è anche disponibilità alla reciprocità, alla complementarità”. Per restar fedele alla sua radice etimologica – educere – una siffatta formazione deve garantire gli accessi perché le potenzialità dei bambini e degli adolescenti possano palesarsi, e tutto ciò che portano in se stessi possa esternarsi ed esplicitarsi: possa, in situazione favorevole, esprimersi. In prospettiva antropologica l’educazione deve essere, come vorrebbe Matilde Callari Galli, riconoscimento della complessità infantile; ma, allo stesso tempo, supporto che vien assicurato ai “minori” affinché imparino ad accettare la complessità che li circonda, ed imparino ad adattarsi ad essa nel costruire la loro cultura. Karl Popper, con la sua proposta di un insegnamento e di un controllo (quand’anche non di una censura) per coloro che si candidano “a produrre televisione”, si colloca sul versante di coloro che considerano gli educatori – ed in primis, se stessi – come i sostenitori dell’infanzia come un’età fiorita ma soprattutto fragile. Sono quegli educatori che il New York Times ha definito i child savers, i “salvatori dell’infanzia”: coloro che, nella difesa dei diritti dei bambini, puntano tutto su un protezionismo accentuato. Maurizio Andolfi, constatando che questa concezione salvifica rischia di “condurre ad una forma di paternalismo post-moderno”, le contrappone la posizione diversa e contrastante dei kiddy libbers: quegli educatori, cioè, i quali puntano invece tutto sulla “autodeterminazione del minore”. “Per comporre l’apparente antinomia – aggiunge Andolfi – sarebbe necessario ritrovare un equilibrio dinamico tra libertà e limitazioni, tra autodeterminazione e vigilanza e sostegno”. Con una concisa, ma corrosiva, constatazione che potrebbe servire da commento al tentativo conciliante di una antinomia che mi pare ben più che apparente, un autorità nazionale in tema di tutela dei diritti del fanciullo – Alfredo Carlo Moro – mette in guardia dai pericoli di “letture distorte dei diritti dei soggetti in età evolutiva” (Moro C., 1991). Una enfatizzazione dei diritti si traduce in sostanziale abbandono del minore a se stesso; mentre un riconoscimento di autonomia senza protezione accentua il disagio di chi va costruendo faticosamente la sua personalità individuale e sociale. 60
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Ed è opportuno in ogni caso ricordare che sin dalla nascita – ma poi, anche, per tutto il resto della vita – qualunque nuovo essere umano deve imparare a vedere il mondo come lo conoscono coloro che son venuti prima di lui. Ovvero anche, e forse meglio, sin dalla nascita, la “descrizione delle cose” che ci viene imposta dai nostri educatori forgia la nostra mappa mentale culturale, al cui interno si articolano le cose come il senso educativo ce le fa percepire, conoscere, trattare. La televisione, erogando e spartendo a ritmo incalzante l’uso variegato delle cose ci educa senza sosta al loro essere anche rappresentazioni collettive e quindi al loro significato sociale. In tal senso diventa il “luogo eminente della costruzione del vero e del falso”, non già perché manipola, inganna, mente, ma semplicemente perché descrive il mondo che non esiste se non nella sua descrizione. Ha detto McLuhan (Carpenter E., McLuhan M., 1966) che le nuove forme di comunicazione non sono soltanto degli artifici meccanici, ma nuovi linguaggi con nuovi ed unici poteri d’espressione. Riproponendo quindi, anche se con una formulazione troppo riassuntiva, e perciò forse apodittica, un’opinione tra le consimili che da qualche tempo vanno diffondendosi tra i professionisti dell’informazione e gli operatori dei mezzi di comunicazione di massa, può ripetersi che “la televisione prosegue il lavoro dell’educazione”: perché dal modo di alimentarsi, al modo di vestire, dal modo di abitare al modo di comunicare, tutto è appreso attraverso il video. È infatti in TV dove ogni spettatore, attraverso microprocessi di identificazione, “compra la sua identità”, dice Galimberti, per declinarla nella gioia o nel dolore, nella bontà o nell’odio, nel protagonismo, nella sessualità, nella morte” (p. 203). 5. La televisione nuovo strumento di formazione Alfredo Carlo Moro (1991), analizzando la TV come nuovo strumento di formazione, critica i meccanismi di demonizzazione, spesso mistificanti, che gli educatori adoperano per contrapporre la televisione alla lettura: sottolineando le carenze formative dello strumento audiovisivo che di per se stesse finiscono così con l’esaltare le potenzialità educative del libro. Nella realtà, infatti, la debolezza di un mezzo di comunicazione rappresenta il punto di forza di un altro mezzo. Una “dieta” eccessiva di lettura – commenta Alfredo Moro – può, al contrario, essere egualmente dannosa di una dieta eccessiva di televisione. È vero, come riconosce ancora Moro, che la lettura permette al bambino di differenziare il contenuto del mondo reale da quello dell’episodio 61
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narrato, e contemporaneamente di imporre una forte partecipazione del giovane lettore per completare quei vuoti lasciati non svelati nella vicenda narrata. È vero che la lettura consentendo pause di riflessione e di metabolizzazione del messaggio sviluppa modalità di pensiero concentrate e riflessive, e così riesce a descrivere i pensieri meglio del mezzo televisivo. “Ma è anche vero che la televisione, più che la lettura, è in grado di meglio rappresentare i sentimenti di una persona (una immagine – è stato detto – vale mille parole); che essa attraverso immagini visive dinamiche rende più facile la memorizzazione dell’informazione; che essa abitua ad una comunicazione gestuale che non ha minore valenza della comunicazione meramente verbale; che anche la televisione, se recepita non passivamente, stimola anch’essa in qualche modo la fantasia” (p.123). “Fare della TV il capro espiatorio delle nostre comuni responsabilità significa esonerarci troppo facilmente dalle nostre insufficienze individuali e collettive”: la violenza della vita è precedente, infatti, a quella che viene rappresentata, amplificandola, sugli schermi televisivi, i quali riflettono sempre ciò che è già presente nella realtà. Non si può dimenticare, tuttavia, che la televisione può avere effetti negativi devastanti in quello che viene definito il pianeta dei soggetti deboli: costituzionalmente il mondo infantile e giovanile. Ed è questa la tesi di coloro che, a partire dalla denominazione – il minore – considerano il fanciullo come intrinsecamente ed inevitabilmente un debole, bisognoso di essere protetto dalla forza e dalla superiore esperienza degli adulti, nonché dalla corruzione e dallo sfruttamento. Ma a questa concezione, dei “salvatori dell’infanzia” rappresentata al meglio, come ho già accennato, da Karl Popper, si contrappone, e drasticamente, quella dei “liberatori dell’infanzia” che, ancora al meglio, può essere invece rappresentata da Ivan D. Illich, soprattutto come l’autore di Descolarizzare la società (1972). Illich, ridefinendo il rapporto dei bambini con la scuola affermò che quella che moltissimi considerano una istituzione benefica per la società deve invece esser considerata una forma di sopraffazione e di violenza. Così, per altro, la valutammo anche noi – intendo Matilde Callari Galli ed io – come risultato di una nostra ricerca che, nello stesso anno di quella di Illich, conducemmo tra gli analfabeti in età scolastica del Sud Italia. Tanto la nostra, quanto quella di Illich, convergevano, reciprocamente “alla cieca”, sullo stesso risultato: e che cioè il minore escluso dal sistema dell’istruzione scolastica è capace di prendere decisioni riguardanti la sua vita indipendentemente dagli adulti (genitori ed insegnanti) ed in un’età inferiore a quella in cui diventano maturi i suoi coetanei scolarizzati. La considerazione della condizione minorile specifica – che per i “pa62
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ternalisti post-moderni” sarebbe caratterizzata dalle ridotte attitudini del minore a gestire i propri interessi e a far valere i propri diritti – non ha rappresentato una remora perché con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1989 si operasse una notevole correzione di tiro nel valutare la preminenza dell’interesse del bambino, trapassando così dalla “protezione dell’infanzia” al “riconoscimento di alcuni fondamentali diritti dei quali il minore è diretto titolare”. E tra gli altri espressamente viene ribadito il diritto alla comunicazione e all’informazione, all’educazione e all’istruzione del fanciullo riconoscendogli inoltre la garanzia di poter “esprimere liberamente la sua opinione, su ogni questione che lo interessa”.
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Libri e tv, nuove letture e vecchi nemici di Anna Maria Gianotti
1. La guerra è finita “La verità non è quella sui giornali! La verità non è nel vostro televisore! [...] la verità non vi sarà mai recapitata nella cassetta delle lettere” (Pennac D., 1998). Così, nel romanzo Signori Bambini di Daniel Pennac, sentenzia con la sua “voce di gesso” l’inossidabile professor Crastaing. È ancora quella vecchia ricetta, passata indenne tra generazioni e generazioni di discenti, che si ripropone come un’eco lontana. Per i ragazzi di oggi come quelli di ieri l’insegnamento martellato, il chiodo pedagogico alla Crastaing, che invita perentoriamente ad amare la verità e la ricerca di questa attraverso una faticosa applicazione allo studio, cui si connette direttamente il mezzo librario, è una realtà difficile se non impossibile da recepire, soprattutto se la realtà riguardante il sistema di comunicazione dominante viene osservata in una prospettiva statica ed immutabile, non tenendo conto dei continui processi di ridefinizione in cui è immersa. Parlare di libri e di lettura porta spesso alla riscoperta di vecchie formule, di qualche buon proposito difficilmente realizzabile e ad alcuni possibili colpevoli. Ed ecco che nel denunciare una mancanza di profondità dei giovani, e di conseguenza la loro disaffezione verso la lettura di un buon libro, la nostra mente viaggia in velocità verso gli scintillanti media elettronici. Il nesso è lì, pronto per essere stabilito: un mezzo dalla facile fruizione, dall’accesso immediato e dalla sconvolgente banalità che allontana le giovani menti da un rapporto privilegiato con la lettura. L’approccio oppositivo tra libri e TV, che ha dominato per anni la scena accademica all’ombra della polemica tra apocalittici ed integrati, sembra ormai definitivamente cancellato dall’estrema staticità delle sue posizioni. Ma molto spesso ai toni allarmistici ed agli approcci disinvolti vengono ora sostituiti atteggiamenti sospettosi o improntati alla rasse65
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gnazione, cui si alternano i sopraggiunti entusiasmi per l’arrivo del digitale. Tutto questo senza che la realtà del mezzo televisivo abbia conosciuto uno studio sistematico di applicazione nella realtà sociale che la svincoli dal suo isolamento di medium forte cui è stata condotta giocoforza. Se è infatti vero che l’avvento dell’era elettronica ha portato a cambiamenti irreversibili nel sistema dei media, questi non possono essere considerati esclusivamente in senso monodirezionale: come passaggio dal libro all’elettronico e dall’elettronico al digitale. Come osserva Joshua Meyrowitz, un medium non smette di esistere perché ne è subentrato uno nuovo e, d’altro canto, i nuovi media non hanno bisogno di distruggere i media preesistenti per affermarsi. Se è infatti vero che i media elettronici inserendosi nello spettro comunicativo modificano il rapporto tra i media, non possiamo certo dimenticare che la fruizione di immagini elettroniche avrà certo un diverso impatto a seconda del contesto sociale e culturale che le riceve. In altre parole, ogni nuovo medium, o sistema di comunicazione, non si inserisce in uno spazio vergine, al contrario esiste una “matrice” che si modifica in seguito alla comparsa di nuovi media e che costituisce la rete di interdipendenza all’interno della quale tutti agiscono (Meyrowitz J., 1993). L’alternativa che sembra emergere è quella di un approccio complesso al sistema dei media in cui ogni elemento, anziché trovare giustificazione alla propria esistenza al suo interno, sia fortemente interrelato al contesto, in un scambio continuo di elementi in cui di volta in volta vadano stabiliti, ruoli, funzioni ed eventuali interconnessioni. Interrogarsi dunque sugli incerti destini del libro, argomento affascinante quanto dibattuto, diviene assai poco significativo e determinante se la prospettiva è quella esclusiva della lettura e del medium alfabetico. L’interesse principale è piuttosto quello di conoscere le trasformazioni del libro e gli adattamenti all’attuale sistema di comunicazione. Un’attenzione particolare merita in tal senso il libro per ragazzi le cui trasformazioni e modifiche funzionali, che saranno affrontate più avanti, sono parte integrante di un più ampio cambiamento che coinvolge direttamente i modelli di trasmissione culturale in atto. È infatti sempre più difficile immaginare la cultura o l’identità culturale come mere “entità”, trasmissibili alle nuove generazioni in base alla metafora sapiriana del “pacchetto”. Allo stesso modo non possiamo fare a meno di considerare i profondi cambiamenti intervenuti a determinare un vero e proprio stravolgimento nell’ordine e nella selezione degli elementi assimilabili come parte di una cultura e nei paradigmi formativi alla base di una identità culturale. Dobbiamo immaginare questa formazione culturale, non già come la trasmissione di un sapere codificato ed ordinato, un sa66
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pere in cui sia possibile distinguere i soggetti principali da quelli di minor rilievo e porli in un ordine gerarchico che non possa essere alterato senza comprometterne la correttezza formale. Una trasmissione culturale fedele a questo modello presupporrebbe, infatti, un’insegnamento anch’esso unitario e precostituito, mentre, al contrario, nella realtà contemporanea esso sembra sfaldarsi sotto i colpi di una costante interazione comunicativa tra i soggetti di apprendimento ed un numero sempre maggiore di agenzie di trasmissione culturale. Ecco che la gerarchia di concetti e le idee fondamentali, anziché riferirsi ad un modello prestabilito, viene sollecitata “statisticamente” ora da una conversazione, ora da un cartellone pubblicitario o da un servizio televisivo e sempre più il legame tra conoscenza e conoscenza è stabilito attraverso serie di combinazioni casuali e spesso estemporanee (Moles A. A., 1971; Callari Galli M., 1978, 1993). In tale contesto, in cui le tradizionali agenzie di trasmissione culturale, quali la famiglia e la scuola, sembrano perdere terreno a vantaggio di quelle cosiddette “informali” quali il gruppo dei pari o le comunicazioni di massa (Morcellini M., 1992), sembra prendere forma quella società “postfigurativa”, annunciata da M. Mead, in cui il divario generazionale guadagna spazio nella misura in cui “oggi non esiste più un solo luogo al mondo in cui in cui gli anziani conoscano ciò che conoscono i giovani, non importa quanto remote o semplici siano le società in cui vivono” (Mead M., 1972). Da qui i profondi cambiamenti intervenuti a modificare la funzione di veicolo culturale del libro in genere e di quello per ragazzi in particolare, che vedono in primo piano il mutato rapporto con l’utente finale di questa trasmissione – il bambino/ragazzo – visibile non più soltanto nel ruolo tradizionale di discente, ma in numerosi ruoli alternativi tra i quali non va dimenticato quello, tutt’altro che secondario, di consumatore di prodotti. Ed è proprio in questo ruolo, inedito ma decisivo, che Daniel Pennac individua il punto di non ritorno tra il potenziale lettore di oggi e quello di ieri: “[...] quando eravamo adolescenti non eravamo i clienti della nostra società. Commercialmente e culturalmente parlando era una società di adulti. Vestiti comuni, cibi comuni [...] un unico e identico canale [...] e in materia di letture l’unica preoccupazione dei nostri genitori era quella di mettere certi libri su scaffali inaccessibili” (Pennac D., 1993). Se passaggio da una società di bambini ad una società di clienti “targettizzati” non è sicuramente un elemento neutro nella trasformazione del libro e delle sue funzioni sociali, non si può dire lo stesso di quel genitore “avveduto” che nasconde il libro “su scaffali inaccessibili”, si tratta infatti di una ingenua preoccupazione in quanto i libri, se offrono da un 67
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lato vaste possibilità di conoscenza, si caratterizzano dall’altro come “sistemi informativi isolati” e pronti ad offrire quindi un regime selettivo di informazioni e conoscenze separate in base ai livelli di età; ebbene questa realtà è stata completamente stravolta dalle “reti informative uniformi dei media elettronici”, grazie alle quali si garantisce a soggetti prima esclusi da determinati ruoli sociali un “accesso alle informazioni” che, pur partendo da dati semplici e di basso livello, determina alla fine e per effetto cumulativo “una nuova visione del mondo” (Meyrowitz J., 1993; Postman N., 1984). Questi elementi di cambiamento sono estremamente utili per chiarire ed eventualmente modificare la già citata prospettiva statica di analisi del sistema culturale, altresì individuabile come determinante della situazione di estrema frustrazione che coglie molti ragazzi nel loro accesso alla lettura; sottoposti di fatto ad una situazione che Gregory Bateson definirebbe di “doppio vincolo”, tra desideri ed aspettative di conoscenza che verranno deluse e richiesta pressante di prestazioni che essi non possono e non vogliono soddisfare. 2. Tra una TV libera ed un libro d’obbligo “Solo che noialtri “pedagoghi” siamo usurai impazienti. Detentori del sapere, lo prestiamo contro interessi e vogliamo che renda, in fretta! Se ciò non accade è di noi che dubitiamo” (Pennac D., 1993). Se porre l’accento sui cambiamenti in atto circa il sistema di comunicazione dominante ci è sembrato necessario, non possiamo certo escludere dall’analisi figure tradizionali di riferimento quali la scuola e la famiglia, il cui ruolo determinante nella trasmissione culturale, seppur ridimensionato, non è certo stato annullato dai nuovi media. Scuola e famiglia sono, oggi come ieri, elementi essenziali nel rapporto tra ragazzi e lettura, ma è certo che anche questa mediazione ha risentito dei profondi cambiamenti intervenuti, causando spesso incomprensioni, equivoci e molti appuntamenti mancati. In riferimento all’attività di lettura l’equivoco è nato soprattutto quando l’immagine di libro tramandata – considerato esclusivamente come pilastro educativo dell’infanzia o, in alternativa, come libro di studio – non ha più avuto una corrispondenza nella realtà: il libro non è certo scomparso ma è come se i mediatori scolastici o familiari non lo riconoscessero nella sua veste inedita di “prodotto” indirizzato ad un preciso target, senza particolari finalità che non siano quelle dell’intrattenimento ludico. Da qui una lunga serie di nuove e paradossali censure o comunque una strategia di orientamento alla lettura estremamente miope che vorrebbe contrattaccare i media elettronici ma in realtà 68
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riesce soltanto a chiudere il libro in una torre di aspettative sempre più alta ed irraggiungibile. L’influenza familiare nell’esperienza di lettura non è certo un fattore marginale e come tale circoscrivibile ad un atteggiamento di favore all’uso del mezzo, al contrario essa agisce direttamente sulla acquisizione di competenze. Con un paradosso efficace potremmo definire l’attitudine alla lettura come una caratteristica “ereditaria”, senza per questo scomodare fattori di tipo biologico: il rapporto con la tecnologia alfabetica ed il medium libro viene profondamente influenzato sin dalla primissima età ed in modo determinante dal gruppo di appartenenza, si diventa alfabeti spesso in modo assolutamente inconscio, giocando magari a segnare su di un foglio delle linee ondulate, ma ci si predispone in tal modo a condividere con gli altri alfabeti la stessa struttura mentale (Harrison G., Callari Galli M., 1971). Ma oltre a ciò, è elemento essenziale la presenza di un “iniziatore” in rapporto affettivo con il bambino, che trasformi quella della lettura in una esperienza “sentimentale” piuttosto che “strumentale” e determinante a raggiungere quel “piacere della lettura” spesso contrapposto ad un’attività vista come “dovere” o “fatica”. Daniel Pennac, nel suo Comme un roman, esemplifica questo rapporto elettivo nella lettura a voce alta, attraverso la quale l’adulto-lettore trasporta, con la sola forza del racconto, il suo uditorio non-lettore in un mondo per lui sconosciuto, un mondo in cui i classici del passato scendono dal loro piedistallo per divenire semplicemente delle storie. Si tratta di una lettura che non chiede nulla in cambio ed in cui l’aspetto sentimentale ha la meglio su ogni tecnicismo formale. Opposto a questa è il sentimento che ci spinge a pretendere una perfezione formale, un parlare intorno in modo adeguato, a cogliere con ansia ogni miglioramento nella dizione del ragazzo e con profonda delusione il contrario (Pennac D., 1993). Molto spesso esiste una tendenza a marcare l’accesso ai vari mezzi di comunicazione in modo estremamente netto, differenziando così i ruoli e le aspettative assegnate: ecco che al libro viene subitamente assegnata una funzione educativa, un’azione a livello profondo con funzioni strettamente pedagogiche, mentre dalla TV non ci si aspetta nulla, essa viene più o meno ignorata in ambito scolastico e guardata con sospetto in ambito familiare; nondimeno le vengono assegnati gli spazi di relax in cui spesso il ragazzo si trova solo davanti al video. Secondo Bruno Bettelheim, il compito di genitori, insegnanti e di quanti altri si prendano cura del bambino e della sua educazione sociale e sentimentale è quello di aiutarlo a trovare il significato della vita. Egli indica, a questo proposito, l’esperienza della lettura come attività fondamentale ed insostituibile tra quelle adatte a promuovere le sue capacità. In una tale ottica, una lettura 69
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per l’infanzia che semplicemente informi o diverta diviene priva di senso. L’apprendimento della lettura è vuoto se non è accompagnato dall’esperienza della letteratura, dall’accesso “ad un significato più profondo” (Bettelheim B., 1977). Da qui il valore della lettura ed in particolare della fiaba, attraverso la quale il bambino struttura i propri sogni ad occhi aperti, adeguando un contenuto inconscio a fantasie consce che gli permettono di prendere in considerazione un tale contenuto. L’esperienza letteraria offre così dimensioni di scoperta insostituibili. Riportando il discorso su di un piano di attualità dobbiamo, comunque, constatare che molti sono i fatti intervenuti a modificare questo stato di cose. Infatti, se la funzione della lettura come esperienza fornitrice di immaginario non è certo venuta meno, non è lo stesso per ciò che riguarda l’esclusività di questa funzione. Questa considerazione dalla sorprendente banalità non è certo senza conseguenze nelle profonde modifiche di ruolo che diversi veicoli culturali vanno assumendo. Il fatto che, come rivelano numerose ricerche sull’argomento, fin dalla primissima infanzia i bambini abbiano accesso ad un considerevole numero di informazioni, sollecitazioni audiovisive, fa sì che lo stesso materiale immaginario proposto dall’esperienza letteraria sia, se non completamente sostituito, almeno fortemente integrato da altri tipi di attività e di esperienze. Ma dov’è nell’immaginario elettronico l’adulto mediatore con la sua doppia funzione di iniziatore-censore? Chi decide quali notizie possano raggiungere un bambino e quali sono invece meno adatte? Ed ancora, chi è vicino al bambino aiutandolo a decodificare con la propria esperienza questa nuova realtà fantasmagorica? Nell’attuale panorama televisivo è innegabile, in virtù di vicende commerciali a tutti note (Statera G., Bentivegna S., Morcellini M., 1990), una significativa mancanza di finalità pedagogiche, con rare eccezioni, o di contenuti funzionali ad una fruizione classificabile come formativa. La velocità e il divertimento più immediato sono sicuramente i principali parametri della produzione televisiva per l’infanzia (Bertolini P., Manini M., 1988; Manna E., 1982; D’Amato M., 1988). Ciononostante concentrare l’attenzione esclusivamente su questo fatto ci porterebbe necessariamente ad un ritorno alla vecchia quanto falsa dicotomia tra il medium buono e medium cattivo. Il rischio è di non uscire mai dall’analisi contenutistica sull’effetto dei media potenti e di lasciarsi sfuggire un elemento, non certo nuovo, ma essenziale per qualunque approccio comunicativo verso le nuove generazioni: la TV ha evidentemente creato una zona franca, di accesso diretto alle informazioni che va ad aggiungersi alla notevole accessibilità economica e tecnologica con conseguenze decisive sul piano delle abitudini di consumo culturale. A questo punto c’è da do70
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mandarsi perché un prodotto televisivo è buono quando non evidenzia ed esalta gli aspetti peggiori del genere umano, mentre al contrario ciò che rende un libro per ragazzi un buon libro è tradizionalmente la sua efficace trasmissione dei valori culturali dominanti e di conseguenza adulti. Se dalla mediazione familiare ci si sposta a quella determinata dall’istituzione scolastica le cose si complicano ulteriormente in quanto, se attraverso l’istituzione scolastica il bambino si confronta, forse per la prima volta, con un libro – o comunque per la prima volta questo libro diviene strumento per trasmettergli qualcosa di formalizzato – ha nondimeno alla spalle, nella quasi totalità dei casi, una lunga carriera di fruitore televisivo. L’incontro con il libro scolastico è un aspetto del consumo librario infantile che non può assolutamente essere banalizzato. Infatti è in questo contesto che si apre una dicotomia che si rivela spesso determinante nei rapporti tra il bambino e la lettura: quella tra libro di studio e libro di piacere. Il primo, il libro di studio o libro di testo è infatti il parametro con cui il bambino che si avvicina al medium alfabetico deve confrontarsi. Il “manuale” si pone da subito come intermediario accreditato tra il “soggetto di apprendimento” e l’istruzione. Si tratta in realtà di una mediazione assai ingrata, infatti le aspettative di conoscenza e curiosità che legittimamente esistono in un giovane soggetto vengono da subito inibite da questo vero e proprio distillato di formalismi, che aprirà un profondo solco tra ogni storia personale e le materie di insegnamento. Antonio Faeti e Franco Frabboni ne Il lettore ostinato individuano, proprio nel manuale scolastico, uno dei nemici giurati della lettura: un anacronistico e senescente strumento, lontano dal campo motivazionale dell’allievo e vero braccio secolare del conservatorismo scolastico precostituito, preselezionato, arbitrariamente imposto e difeso in virtù di una vigilanza superiore, di un giudizio di bello e brutto che prescinde dal fruitore e spesso anche dall’insegnante, il quale, in modo più o meno convinto o convincente, lo somministrerà a chi, denutrito di libri e cultura, si avvicina per la prima volta alla cultura scritta (Faeti A., Frabboni F., 1983). Si tratta evidentemente di una considerazione del bambino come minus habens, il cui accesso alle informazioni va rigidamente preregolato. Questa cittadella fortificata della cultura è tanto più paradossale se riferita alle migliaia di sollecitazioni culturali che derivano al bambino dal piccolo schermo, stimoli spesso casuali che nessuno cerca di interpretare predigerire o organizzare su un piano di coerenza. Ritornando al manuale e al suo ruolo all’interno dell’istituzione scolastica non possiamo non riflettere sulla sua funzione “strutturale” di strumento ordinatore della realtà che, inserito nella cultura storicistica e gentiliana che tanta parte ha avuto nei de71
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stini della nostra scuola, trasforma la realtà in una connessione di avvenimenti ordinati, dove la regola principale è l’ordine a cui tende ogni sviluppo; ed è così che scienza, storia e letteratura si trasformano in una lunga lista di nomi, luoghi ed avvenimenti che sostituiscono valori e concetti alla base di una simile giustapposizione. In un raffronto con l’informazione elettronica, se da un lato sembra emergere una perfetta quadratura del cerchio e dall’altro un caleidoscopio di informazioni subito contraddette, in entrambi i casi dobbiamo rilevare un substrato di semplificazione e di stereotipia. Se il libro di studio è lo strumento principe dell’istituzione scolastica, l’abitudine alla lettura è dunque una competenza che si acquisisce in classe, attraverso l’esercizio, come per le operazioni aritmetiche. Ma dov’è in un simile contesto il libro di piacere, il libro scelto? È relegato al di fuori dell’orario scolastico, alla buona volontà dei ragazzi durante i periodi di vacanza. Spesso la fortuna dell’attività di lettura dipenderà più dalla fornitura dei libri presente nella biblioteca di casa piuttosto che dall’efficienza del sistema di biblioteche scolastiche o dalla promozione di queste svolta dagli degli insegnanti. Ecco che l’attività del leggere diviene sempre più una competenza che verrà applicata, al di fuori dell’impegno scolastico, in quelle occasioni in cui essa verrà espressamente e socialmente richiesta, una competenza di conseguenza limitata che porterà ad un uso faticoso del mezzo (Piccone Stella S., 1964). Per usare un paradosso, chi di noi spenderebbe il proprio tempo libero esercitando la propria mente in divisioni a due o a tre cifre, soprattutto dal momento che esistono dei comodi calcolatori? Dunque saremo forse un popolo di “alfabetizzati”, ma ciò non ci salverà dall’essere dei non-lettori. La riflessione in profondità, il tanto decantato piacere letterario, spesso legato ad una età in cui alla padronanza del mezzo si uniscono gli stimoli culturali, sarà dunque sempre per pochi fortunati, cui il caso, fattori “ereditari” o un insegnamento illuminato avranno fornito la competenza necessaria acquisita giocoforza attraverso un piacere che non passa attraverso i “testi dell’obbligo”. 3. Leggere con l’emisfero sbagliato Se immagine elettronica ha segnato un punto di non ritorno nella comunicazione culturale, le sue ricadute non sono limitate ad un progressivo ed inarrestabile ampliamento dei contenuti disponibili, ma hanno determinato delle precise modifiche negli stili cognitivi dei fruitori: una progressiva emancipazione dell’aspetto formale del messaggio televisivo 72
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rispetto al discorso narrativo, una decostruzione del testo a vantaggio di una percezione sempre più varia e veloce, cui ha corrisposto una soglia di attenzione necessariamente alta ma frammentaria, estremamente limitata nel tempo ed avvezza a dei rapidi cambi di situazione (Dallari M., 1997). Tutto ciò ha evidentemente generato delle conseguenze nel rapporto che i bambini instaurano con il mezzo alfabetico. Secondo David Krugman, citato da Derrick De Kerckhove circa la distinzione tra un emisfero sinistro alfabetico e un emisfero destro televisivo, la televisione insegnerebbe al bambino piccolo a “imparare a imparare” attraverso “occhiate veloci”; in seguito, nell’approccio al mezzo alfabetico, il bambino proverà ad applicare le abitudini acquisite in precedenza, si sforzerà di comprendere i caratteri con occhiate veloci, ma non funzionerà: “Imparare a leggere è difficile e faticoso e arriva come un fulmine a ciel sereno, in molti casi intollerabile” (De Kerckhove D., 1993, pp. 61-62). Pur non condividendo completamente questa affermazione, dobbiamo certo convenire che l’atteggiamento “globale” del fruitore davanti allo schermo in virtù della varietà e della velocità degli stimoli percepiti è ben diverso dall’atteggiamento analitico e sequenziale del lettore; ma se rinunciassimo definitivamente ad un approccio oppositivo potremmo osservare che questo atteggiamento non determina necessariamente un rifiuto del testo, quanto piuttosto una trasformazione, una deformazione nei modi d’uso che di esso vengono tradizionalmente dati. In una simile ottica non è sicuramente il testo ad essere in pericolo, quanto il concetto di linearità e sequenzialità, come elemento aprioristicamente determinato, proprio dell’attività di lettura tradizionalmente intesa. Numerose ricerche segnalano il progressivo aumento di una attività di lettura, definibile come frammentaria o interstiziale che, ben lungi dallo svolgersi nelle solitarie e silenziose pareti di una stanza o di una biblioteca, si svolge al contrario nei ritagli di tempo ed in luoghi più o meno di fortuna. Questa lettura veloce, casuale, disordinata si sta progressivamente sostituendo ad una lettura dalla intensa concentrazione ed estensiva sul piano dei contenuti. Il destino del libro è sempre più rapido nella sua obsolescenza e lo zapping continuo che si svolge sui testi, sembra caratterizzarsi come precisa risposta ad una quantità di informazioni tali da scomparire, come direbbe Baudrillard, nell’oscenità del loro significato. Si tratta, per altro verso, di un approccio verso il testo perfettamente compatibile con ciò che Abrahm Moles definisce come “cultura a mosaico” (Moles A., 1971), determinata da una realtà in cui l’eccesso di informazioni infrange ogni gerarchia ed ordine precostituito. In altre parole, la continua perdita di un centro, di un punto focale o principio organizzativo determinerebbe, secondo Moles, un accesso alle informazioni random. 73
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Un’analisi estremamente lucida, cui vorremmo tuttavia affiancare l’ipotesi di un percorso non del tutto casuale che si intersechi, al contrario, con percorsi personali, in cui la perdita di un centro o principio gerarchico stabile dipenda da precise scelte di lettura del soggetto. Immediato in tal senso è il legame con la logica ipertestuale in cui troviamo un sistema di testi collegati ma non organizzati lungo un asse principale, nel quale ogni punto di focalizzazione, necessariamente transitorio, dipende dal lettore (Landow G. P., 1993). L’ipertesto si caratterizza infatti per la sua decisa non-linearità in quanto il percorso, lungi dall’essere prestabilito in modo sequenziale, spetta unicamente al fruitore, il quale aprirà questo o quel link in riferimento ai propri interessi e in base alla propria idea di cos’è più o meno importante. Del resto, chiunque abbia una, pur banale, esperienza di videoscrittura sa come l’ingresso del medium alfabetico nel supporto elettronico permetta modifiche nelle struttura del testo, ed una velocità nello stabilire collegamenti tra le varie parti, difficilmente immaginabile nell’immobilità del foglio scritto. 3. Il fanciullo invecchiato e i ragazzi “fluorescenti” “Certo che sono cambiati i bambini, da quando ero piccolo io! Sono diventati fluorescenti, hanno scarpe da ginnastica che luccicano quando loro schizzano via nella notte [...] smadonnano come a noi era proibito fare e si sparano film che a noi era proibito vedere” (Pennac D., 1997). Gli anni Ottanta hanno segnato nel mercato dell’editoria per ragazzi un punto di non ritorno, una trasformazione di proporzioni tali da porre in primo piano la produzione legata a questa fascia di pubblico rispetto a tutto il resto del settore librario. Ma prima di parlare delle trasformazioni, che certo ci interessano, non sarà inutile ricordare come era la situazione del mercato editoriale nel suo complesso, e di quello per ragazzi in particolare, nella prima parte degli anni Ottanta. Si tratta di una situazione di accesa crisi ed al tempo stesso di forti cambiamenti che interessano tutto il settore. Le case editrici tendono ad ottimizzare le proprie risorse in termini imprenditoriali, strategie che vedranno i propri frutti solo dopo la metà del decennio (Vigini G., 1993, Turchetta G., 1991). In questo contesto il libro per ragazzi rappresenta un settore composto per la maggior parte dai così detti “classici per l’infanzia”. Un mercato di dimensioni assai più ridotte rispetto a quelle di altri paesi europei e caratterizzato da un forte andamento stagionale, come ricorda Giovanni Peresson: “Oltre il 60% delle vendite avveniva in occasione delle festività natalizie e nei 74
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mesi delle cresime e delle comunioni” (Peresson G., 1995, p. 11; Vigini G., 1998). Si tratta in altre parole di un mercato con uno scarso appeal sul proprio pubblico ed indirizzato a genitori e nonni che selezionano e determinano le scelte di acquisto. È evidente come una tale situazione di immobilismo vada a cozzare contro l’estrema vivacità che caratterizza in quegli stessi anni il panorama dell’industria culturale. La fine del monopolio Rai e la presenza di un’ampia offerta televisiva per ragazzi determina una forte apprensione circa il rapporto tra libri e TV. La televisione è molto spesso associata al basso gradimento del libro e al suo scarso acquisto. Come sottolinea lo scrittore Marcello Argilli, bisognerebbe riflettere su di un aspetto della trasmissione letteraria, “fino a 140 anni fa l’uomo si è sempre spostato alla velocità massima del cavallo. Tutta la favolistica classica, popolare è stata creata nel corso di questa esperienza [...] e oggi ci spostiamo in jet alla velocità del suono [...] mi limito solo a pensare che non si può continuare a fantasticare alla velocità del cavallo” (Argilli M., 1986, p. 117). Un pubblico come quello attuale, segmentato e complesso, ha bisogno di strumenti del tutto nuovi, questa è stata la prima realtà cui l’industria culturale ha dovuto adattarsi per non perdere questo ulteriore appuntamento, attraverso una ristrutturazione al proprio interno che ha progressivamente fatto coincidere la produzione, non più con il simulacro di pubblico dei ragazzi di ieri, ma con le esigenze dei ragazzi fluorescenti di oggi. I risultati non hanno tardato a manifestarsi ed ecco che il libro per ragazzi ha fatto registrare, negli ultimi anni, delle performance migliori rispetto a quelle generali del settore del libro. Naturalmente “la svolta”, per dirla con Antonio Faeti, da lui simbolicamente collocata nel 1987 con la nascita della collana “gli Istrici”, non ha cambiato soltanto l’assetto produttivo della letteratura per ragazzi, ad esserne coinvolto è stato per primo il modo di scrivere letteratura per l’infanzia. Nuovi personaggi, nuove trame e un nuovo modo di raccontare si sono fatti largo nella “nuova biblioteca delle finzioni” (Faeti A., 1995). Questi cambiamenti, determinati dal massiccio ingresso nella realtà italiana della letteratura per l’infanzia di autori stranieri (Pennac D., Dahl R., Ridley P. e molti altri) il cui stile o modello di scrittura ha rapidamente stravolto le regole fino ad allora vigenti, hanno reso espliciti fenomeni di influenza o di interdipendenza tra media diversi fino a pochi anni fa solo immaginabili o auspicabili.
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a) La fine del modello pedagogico È quasi un luogo comune, tra gli scrittori per l’infanzia fare riferimento ad una sorta di “io fanciullo” cui delegare il compito di creare mondi immaginari e di tradurre in “linguaggio bambino” la complessità del reale. Per generazioni questo piccolo folletto ha acceso la fantasia dei suoi piccoli amici, ma spesso dietro la maschera l’adulto ha fatto capolino non solo per creare una realtà che fosse intellegibile o emozionante per i bambini, ma per selezionarla in modo scrupoloso “adatto” ai piccoli lettori o ancora per inserirla all’interno di una cornice in cui il mondo degli adulti fosse ben presente con le sue leggi. Del resto, come afferma Emy Beseghi: “L’aprirsi al mondo misterioso e imprevedibile delle verità infantili si è spesso scontrato, nella storia della letteratura infantile, con la prevaricazione di uno sguardo adulto diffidente verso le immagini dell’infanzia che non coincidono con la sua o con le aspettative del sistema sociale; di qui i tentativi di veicolare, attraverso la miscela narrativa, esempi e modelli di vita” (Beseghi E., 1994, p. 70). La lettura italiana per l’infanzia, in effetti, è tradizionalmente individuabile in due filoni: uno ludicoricreativo definibile come collodiano e l’altro, di gran lunga predominante, pedagogico, moralistico e deamicisiano, ma in ambedue i casi la narrazione è sempre e comunque stata una narrazione adulta. Anche quando la realtà è stata descritta attraverso gli occhi dei piccoli, lo sguardo adulto non ha mai abbandonato la scena; sempre presente in due modi: attraverso le regole morali che hanno fatto da cornice al racconto edificante e di conseguenza al percorso di formazione del protagonista o attraverso la presenza di personaggi adulti positivi e di riferimento; non possiamo non individuare in questa descrizione il personaggio di Enrico, protagonista di Cuore, ma a ben guardare anche Le avventure di Pinocchio non sfuggono a questa descrizione. Per questa narrativa il bambino è sempre stato essenzialmente un non-adulto, qualcuno per cui la piena adesione alle regole della società adulta e borghese è stata vista come meta di riferimento e la cui formazione è sempre stata la formazione del buon cittadino (Spinazzola V., 1997). Immaginiamo ora che questa idilliaca realtà sia stata, per così dire, bombardata da una quantità di messaggi. Immaginiamo quindi che questi messaggi abbiano modificato quella che era la percezione dell’età adulta da parte ragazzi, facendoli all’improvviso passare da una posizione di spettatori a quella di utenti accreditati al back stage delle rappresentazioni. Essi assisteranno giornalmente a conversazioni, relazioni, informazioni ed intrighi assolutamente inimmaginabili per loro coetanei di qualche generazione fa. Assisteranno, in altre parole, al simulacro di qualcosa che, una volta, si sarebbe svolto ben lontano da loro. Essi non sono più i piccoli adulti da educare ma dei soggetti attivi sulla 76
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scena della comunicazione culturale che reclamano una piena partecipazione alle rappresentazioni collettive di essa. Nella nuova narrativa per ragazzi il discorso adulto ha decisamente ceduto il posto a storie ad altezza di bambino. Storie il cui svolgimento è spesso tutt’altro che edificante, che non persegue finalità formative ma esclusivamente di tipo ludico ed in cui il percorso di formazione lascia il posto a più semplici esperienze di vita permeate di lucida ironia. L’occhio che l’infanzia getta sull’adulto è un occhio spesso impietoso che ne svela le pochezze, le ipocrisie, gli egoismi. Matilde di Roald Dahl (Salani, 1989), un vero e proprio libro culto per i bambini, vede una vivace bambina combattere e vincere la sua battaglia contro una direttrice arida e ottusa, mentre Christophe, il giovane protagonista di Spaccato in due, del francese Michel Lucet (E. Elle, 1992) “subisce” la separazione dai genitori che lo porterà, al termine del racconto, anche al doloroso distacco dalla sorella. Una sconfitta impotente contro il potere adulto, spesso incomprensibile e dalle catastrofiche conseguenze. Il protagonista della nuova narrativa non è il “bambino buono”, o che deve diventare tale, Egli combatte, trionfa e subisce, ma il suo modello di riferimento non è mai l’adulto, piuttosto il coetaneo; ma gli esempi si potrebbero elencare all’infinito. b) L’invasione delle nuove tematiche Se nell’approccio ai più piccini la nuova narrativa si riveste di grottesco e di disincantata ironia, le collane che si rivolgono agli adolescenti si caratterizzano per il loro focalizzarsi su tematiche contemporanee e di attualità. Rappresentazioni della realtà tradizionalmente tenute ai margini della narrativa per ragazzi, ma nondimeno vissute attraverso le esperienze quotidiane o attraverso la cronaca televisiva, hanno rotto gli argini e invaso decisamente l’universo, reale o fantastico, della lettura. Non esiste alcuna differenziazione di generi: nella quotidianità più assoluta come in una realtà horror, mostri ed incubi, assai più inquietanti di quelli sinora conosciuti, fanno capolino o diventano padroni assoluti della scena. Ne Lo zio vampiro di Cynthia D. Grant (Mondadori, 1995), Carolyn, cheerleader e studentessa modello, nasconde tra i sorrisi il suo dramma: uno zio che succhia il sangue alla sua famiglia, dietro l’horror e il salto nella descrizione fantastica una violenza troppo dura da affrontare. È evidente che, come ricorda Antonio Faeti: “C’è stato un rinnovamento autentico, decisivo, a volte dirompente [...] ma non si può censurare una obiezione pedagogicamente fondata: dove conduce questa svolta? Che significato educativo assumono questi nuovi temi?” (Faeti A., 1995, pp. VII-VIII). È evidente che la zona franca dell’immaginario infantile determinata dall’esperienza televisiva, così come ha determinato all’interno della 77
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produzione editoriale una zona off limits agli adulti e alle loro leggi, ha sgombrato il campo da ogni censura aprendo le porte ad una pioggia di argomenti fino ad allora esclusi ed a problematiche abitualmente epurate da contenuti ritenuti non adatti: divorzi, problemi familiari, Aids, violenze, disagi sociali vengono dunque e affrontati ed inseriti nel tessuto narrativo. c) Il diritto al seriale ed il genere Ricordando Pennac ed il suo decalogo dei diritti del lettore non possiamo non affermare quello che ci sembra un ulteriore, fondamentale diritto del lettore di oggi: il diritto a leggere il già noto. L’abbandono di ogni finalità educativa e di formazione nella nuova narrativa ha determinato l’affermazione di numerose collane di tipo seriale. Queste produzioni, attraverso l’uso di un linguaggio semplice ed immediato, si rivolgono ad un pubblico di lettori “debole” e quindi poco avvezzo all’uso del mezzo librario, cui offrire una cornice consolatoria e rassicurante attraverso l’iterazione degli stessi schemi narrativi di episodio in episodio, con poche variazioni significative, e di conseguenza la ricerca di quella gratificazione procurata dal già noto, dal familiare, attraverso cui i soggetti ritrovano ciò che già sanno e conoscono (Eco U., 1969, 1985); liberi dalla frustrazione e dalla fatica di dover entrare di volta in volta in sintonia con il nuovo; una serialità che trova il suo modello di origine proprio nel modello televisivo, con cui lo stretto legame si conferma anche attraverso le numerose novellizzazioni da telefilm. Ormai celebre, fra le varie produzioni seriali, è la collana Piccoli Brividi (Mondadori) di R. L. Stine che si caratterizza per un horror ironico e casalingo, la sapiente uniformità stilistica e l’uso di poche variabili strutturali: la vita quotidiana viene alterata da una presenza mostruosa che viene combattuta e sconfitta dai piccoli protagonisti tra il salotto e la loro cameretta, quindi tutto torna alla normalità. Ma oltre al ritrovamento del già noto, Piccoli brividi offre un collegamento con altri testi horror all’interno dei quali la competenza del piccolo lettore si muove; ancora una volta il salto dall’esperienza elettronica a quella libraria è assai breve, come ci ricorda R. Grandi: “Nessun testo trasmesso dalle comunicazioni ha mai i caratteri della completa unicità, ma al contrario presenta tutta una serie di caratteristiche che vengono riconosciute da una data realtà socioculturale come tipiche non di un dato testo, ma della serie paradigmatica in cui il testo si inserisce” (Grandi R., 1991, p. 69). Attraverso il filtro del genere lo spettatore/lettore si muove con sicurezza, coglie una “struttura profonda” al di là del testo superficiale e ciò gli permette di fare previsioni o sopperire ai veloci passaggi del testo. La struttura seriale ed il filtro del genere lo pongono quin78
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di in una dimensione culturale nella quale egli si sente, anche se lettore inesperto, al sicuro come un abile navigatore. d) Per una visualizzazione del testo La visione di immagini in continuo movimento, la velocità nei passaggi, la varietà e l’attrazione che esercita il piccolo schermo non può non determinare un preciso influsso anche nei ritmi di narrazione della nuova narrativa per ragazzi. Ma come fare per rendere “visiva” la pagina? Bianca Pitzorno, già nel 1986, affermava la necessità di “molti dialoghi e molte descrizioni ‘visive’ di azioni in atto, per lo più rafforzate da illustrazioni vere e proprie” (Pitzorno B., 1986, p. 101). Nello stesso testo Marcello Argilli propone di ripensare la scrittura modificando, ad esempio, “i dialoghi, le descrizioni, la rapidità dell’azione, l’uso del colore e della musica nel racconto, gli effetti di suspance, l’invenzione di linguaggi che partano dal parlato reale dei bambini” (Argilli M., 1986, p. 118), in altre parole una piena trasposizione su un piano letterario degli effetti propri di un racconto filmico. La nuova narrativa sembra incarnare questi propositi e contemporaneamente rendere esplicite le nuove dimensioni spazio-temporali del racconto letterario: una narrazione segmentata in vere e proprie scene con numerose ellissi; un deciso dominio dei dialoghi e dell’azione sulla narrazione descrittiva; una descrizione del non-presente attraverso le modalità filmiche del flash back; una progressiva accelerazione del narrato. Ma ci piace vedere in questa nuova produzione la realizzazione di una vendetta, quella di un medium “intriso di cultura e certamente propedeutico ad una buona frequentazione dei libri” che è quello dei Comics; per lungo tempo osteggiato da genitori ed insegnanti sembra ora fare il suo ingresso nella narrativa “alta” che assorbe il suo procedere “per salti: per astrattizzazioni. Si decide cosa è importante dello/nello sviluppo dell’azione e lo si ferma in immagini [...] già note che garantiscono la loro riconoscibilità”; ed ecco che il fumetto è l’anticipatore delle “sintesi grafiche prodotte dall’elettronica” (Faeti A., Frabboni F., 1983, pp. 78-80) e come tale lo vogliamo riconoscere all’interno della nuova letteratura per l’infanzia. Ecco un breve estratto della ormai famosissima collana Piccoli Brividi: “Vidi solo cambiare espressione sulla faccia di mio papà. Vidi i suoi occhi dilatarsi e la sua bocca aprirsi in un grido allarmato. Mentre stava per cadere si aggrappò al lampadario appeso al soffitto. – Noooo! Il lampadario gli precipitò in testa. Papà scivolò giù dalla scala e cadde sul pavimento del corridoio rimanendo perfettamente immobile. 79
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– Mamma! Maammaaa! – gridai – Corri! Papà è caduto!” (Stine R. L., 1997). Dice Faeti: “Vanno presi in mano con animo disponibile questi libri nuovi e diversi”, ed ancora, rivolgendosi agli insegnanti: “Si deve pensare alle ragioni che li hanno fatti nascere si deve essere anche un po’ umili, nei loro confronti, e guardare alla strana, complessa scommessa di cui sono i protagonisti” (Faeti A., 1995). Strumenti nuovi per tempi nuovi, per fugare nuove ansie e accendere rinnovati entusiasmi, in cui esistono prestiti da questo o quel modo di espressione ed esiste soprattutto una sfida, quella del libro, di sopravvivere con la consapevolezza di non poter essere sostituito. Infatti, se esiste una contaminazione di moduli e stilemi propri della comunicazione elettronica, la realtà che abbiamo di fronte è certo ben lontana da una passiva, e ancora una volta monodirezionale, trasformazione di un libro che “si sfoglia con il telecomando”: non dobbiamo sottovalutare la ricerca di senso che lo strumento letterario svolge nella continua e affannata ricomposizione di una realtà “che giunge al giovane, ma anche all’adulto, in forma di spezzoni, brandelli, lacerti, come un gigantesco e continuo blob iperrealistico [...] una realtà che si presenta in forma magmatica davanti agli occhi e all’intelligenza” (Rotondo F., 1997). Il panorama che si presenta è dunque quello di una parola scritta che, non certo sconfitta e sul punto si scomparire ad opera delle oscure forze del disordine, al contrario metabolizza contenuti e stilemi, agendo da filtro selettivo e ordinatore, assemblando, grazie alla sua duttilità, linguaggi diversi.
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Immagini scarnificate. Le “metamorfosi” della violenza nei mass media di Giovanna Guerzoni
Mi chiedevo se riuscivo veramente a vedere quello che stavo vedendo mentre lo stavo vedendo. P. Gourevitch, The beautiful land of death, “The Guardian”, 6 marzo 1999
A guisa di premessa. Violenza e mass media: un dibattito aperto Il dibattito sulla violenza in TV è tra i più accesi fra quelli che hanno come oggetto i mass media, ed esso si riaccende periodicamente di fronte alla percezione di una sempre più diffusa violenza nella società in cui viviamo o di fronte ai casi di “bambini e adolescenti violenti” che spesso segnano la cronaca dei nostri giornali e che sembrano mettere in crisi i nostri modelli educativi. Eppure, a parere di alcuni eminenti studiosi (Eron, Donnerstein e Slaby, in Popper K. R., Condry J., 1994, p. 57) il dibattito scientifico sugli effetti della violenza televisiva sarebbe ormai “concluso”; negli ultimi quarant’anni, le ricerche sulla violenza in TV sono state nell’ordine di alcune migliaia (anche se solo poche centinaia di esse avrebbero fornito nuove informazioni) e il dibattito è dilagato dall’ambiente della ricerca, a quello dei programmatori televisivi, ai membri dei movimenti nati in difesa dei telespettatori, specie dei più piccoli. Il dibattito sugli effetti della violenza veicolata dai mass media sul processo di costruzione dell’identità appare attraversato dal confronto tra coloro che ne sottolineano i rischi (Popper K. R., Condry J., 1994; Postman N., 1987), tra i quali spiccherebbe, ad esempio, l’incitamento a imitare modelli di comportamento violento, e coloro che ne segnalano, al contrario, la funzione di “esorcizzazione/metabolizzazione” che la rappresentazione simbolica della violenza realizza e di cui molti esempi sono reperibili nel patrimonio fiabesco, mitico e nella letteratura per l’infanzia. Per i primi, la cor81
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relazione tra fruizione della violenza veicolata dai mass media e comportamento violento presente nella realtà, in particolare in quella dei giovani – e che si può concretizzare in comportamenti violenti agiti nella realtà “come in TV”, e/o nella paura di essere “vittima” di azioni violente, e/o nell’indifferenza rispetto alla violenza subita dagli altri, è stata più volte dimostrata; per i secondi, invece, il fenomeno della violenza è, nella società contemporanea, un fenomeno complesso e multifattoriale e, allo stato attuale delle ricerche, tale correlazione – nella sua immediatezza – non sarebbe dimostrabile. Comune ad entrambi gli orientamenti è la constatazione di come la televisione debba essere considerata una delle “agenzie formative” delle giovani generazioni di oggi a fianco – e spesso in contrasto – della scuola e della famiglia e rispetto alla quale occorra, in qualche modo, misurarsi (Oliverio Ferraris A., 1997; Moro W., 1997; Farné R., 1994, ecc.). Davanti al piccolo teleschermo, la violenza appare “fredda”, multidimensionale e polisemica, esibita e latente, poliforme e iperrappresentata, strumentale all’evolversi delle storie – nella cronaca come nella fiction – ma anche frammentata e decontestualizzata, mostrata sul filo del ripetersi continuo e veloce delle immagini. Il discorso sulla violenza appare “multimediale” in senso stretto mediato com’è non solo da un bombardamento di immagini, ma anche di suoni e differenziato dal linguaggio, definito perlopiù da “contesti d’azione”, ma agito nello spazio delle emozioni. È un “frammento” (Clifford J., 1993; Featherstone M., 1994) – e forse un codice – di una contemporaneità continuamente ridisegnata dalla circolazione di beni, gruppi e individui, messaggi e materiali culturali differenti e contraddittori (Callari Galli M., 1996) che – sotto il segno dell’accelerazione del tempo e dell’implosione dello spazio (Augé M., 1997) – sembrano collocare, in modo nuovo rispetto al passato, il tema della violenza sia nell’immaginario collettivo che nel rapporto tra rappresentazione/interpretazione della realtà e azione individuale e collettiva nella storia. 1. La rappresentazione televisiva della violenza: una “categoria” della complessità? E, allora, come definire, in modo specifico, la violenza come “tema” “messo in scena” dai media? E cosa “intendere/includere” con la categoria “violenza” proprio nella sua qualità di “tema” veicolato dal mezzo televisivo? Nel cercare di cogliere la rappresentazione della violenza in televisione particolarmente efficace appare l’analisi antropologica condot82
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ta da Françoise Heritier che definisce la violenza, nella realtà, come “ogni costrizione di natura fisica o psichica che porti con sé il terrore, la fuga, la disgrazia, la sofferenza o la morte di un essere animato; o ancora qualunque atto intrusivo che ha come effetto volontario o involontario l’espropriazione dell’altro, il danno o la distruzione di oggetti inanimati” (Heritier F., 1997, p. 15). La fenomenologia della violenza illustrata dall’antropologa francese appare però ancora più complessa e articolata: per descrivere la violenza come fenomeno che attraversa le culture e le epoche, peraltro secondo forme e modalità sempre particolari, è necessario indagarne gli aspetti semantici, filosofici, morali, religiosi e rituali, simbolici all’interno di una tensione – che definirei discontinua ed ibrida – tra violenza e non violenza e che si radica in specifici territori geografici, ma anche simbolici e, innanzitutto, corporei (Heritier F., 1997, 1999). Tutti questi aspetti (ed altri) sono inequivocabilmente presenti in un’analisi della rappresentazione della violenza nei mass media svolta nella prospettiva dell’antropologia. Accanto all’esperienza della violenza – agita o subita – accanto alla sua rappresentazione simbolica – nei miti, nelle fiabe, nella letteratura, nell’arte – quali dimensioni della violenza proprie a tutte le culture, una delle specificità della contemporaneità è la rappresentazione “visiva e in movimento”, ma al tempo stesso mediata da un mezzo tecnologico (TV, cinema, video, e oggi internet) della violenza. Si tratta di una dimensione specifica ed inedita tra le forme di narrazione della violenza che, nella contemporaneità, taglia trasversalmente differenti culture e appartenenze identitarie; i processi trasformativi che hanno segnato la narrazione visiva della violenza, la capacità di mettere in gioco il campo delle emozioni esplorato attraverso il racconto per immagini, la forma narrativa che il tema della violenza assume nel mezzo televisivo qualificano tale rappresentazione come uno dei “livelli di esperienza”, ma anche di rielaborazione simbolica della contemporaneità. Lo spostamento dello sguardo dalla violenza come fenomeno della realtà alla sua rappresentazione nei mass media rivela dunque l’appartenenza di questo tema allo spazio della complessità così come è definito dalla modernità. “La violenza moderna è messa in scena, il che evidentemente ne aumenta la visibilità. Poiché è diventata più visibile, essa appare in espansione, dunque più contagiosa, e sembra generarsi da se stessa, moltiplicandosi per metamorfosi. [...] Attraverso l’immagine mediatica, quella delle informazioni, delle fictions violente, essa invade le coscienze e l’immaginario individuale. Si è detto che la sua presentazione spettacolare genera un processo a spirale perché stimolerebbe il desiderio della sua rappresentazione, ma resta difficile da provare che la “sindrome del 83
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voyeur conduce ad un’esplosione della violenza civile” (Balandier G., 1991, p. 258). Il tema della violenza in TV e i suoi effetti su bambini ed adolescenti è stato affrontato sia attraverso ricerche sperimentali e studi statistici che indagano gli effetti della televisione sui suoi fruitori, sia attraverso analisi volte a “quantificare” la violenza televisiva dalle quali emergerebbe il numero impressionante di omicidi o percosse che, in media, un bambino “fruirebbe” dalla televisione nel giro dei pochi anni della sua infanzia. Queste due prospettive si sono spesso saldate nel considerare gli effetti della violenza nei processi di costruzione dell’identità. Ma al di là, o al di sotto, di questa doppia dimensione di analisi è possibile – ed è questo l’oggetto del mio contributo – rintracciarne una terza, che consiste nell’analisi del modello culturale della violenza che emerge dalla rappresentazione della violenza nei mass media. La nozione di modello culturale è, da qualche decennio, al centro delle scienze sociali nonostante che tuttora non manchi di ambiguità e di una certa “evanescenza”; l’idea di modello sta ad indicare non solo la forma di un dato fenomeno, ma anche la sua trama e il suo interrelarsi ad altri campi semantici propri ad una data cultura in modo unico e irripetibile; ancora, utilizzare come strumento euristico la nozione di modello significa fare riferimento non solo alla forma apparente di un fenomeno ma anche alle sue strutture latenti e alle loro reciproche relazioni (Beals R.L., Hoijer H., 1965). Con la nozione di “modello culturale” l’antropologia avvia un processo di revisione del proprio “oggetto di ricerca” e di individuazione di nuove categorie interpretative di fronte al “mondo delle rappresentazioni” che qualifica la nostra contemporaneità (Callari Galli M., 1996, 1998a)); è un processo che si confronta con quello di altri campi disciplinari che, nella loro specificità, vi insistono: che si parli della nozione di pattern (Foucault) o ci si riferisca a quella di paradigma (Kuhn) o a di rappresentazione sociale (Moscovici, Doise) o di habitus (Bourdieu) o di stile (Maffesoli). A parere di molti studiosi, abitare la contemporaneità significa, sempre di più, essere immersi in un universo simbolico e catodico complesso di segni e di immagini, al limite fra sogno e realtà, caratterizzato da una crescente opacità e da significati “misteriosi” (Maffesoli M., 1996). L’antropologia ha, per prima, messo in luce la pluralità di rappresentazioni che attraversa ogni cultura, ma che connota in modo specifico la contemporaneità nella presenza pervasiva e quotidiana dei mass media che mettono in contatto culture e visioni del mondo un tempo lontane e, tra loro, inaccessibili (Callari Galli M., 1996; 1998a)). Inserito in questo contesto, il tema della violenza nei mass media assume i connotati di una categoria complessa e pluristratificata, la cui “forma narrativa” ap84
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pare sfumare nel continuum e nelle “fratture” che ne articolano il racconto, giocarsi nelle ambivalenze e nelle contaminazioni tra piano del discorso esplicito e implicito e, al tempo stesso, radicarsi in specifici – talvolta stereotipizzati – rapporti tra identità e alterità dei personaggi, tra buoni e cattivi, tra bene e male. La rappresentazione della violenza nei media si nutre di continui ammiccamenti alla realtà, ma anche del suo continuo superamento – realizzato sia nella forma iper-realistica che surreale – insieme ansiogeno e seducente, del ritmo delle immagini nella costruzione “ad arte” delle spazialità e delle temporalità che ridisegnano l’evolversi della narrazione; si alimenta con i sempre più “abusati” effetti speciali, con una rete di citazioni e “percorsi ipertestuali” che legano il “tema” della violenza ad altri “temi” e “racconti” della modernità, o, ancora si afferma nel suo strutturarsi come “codice” della contemporaneità, espediente narrativo per raccontare, mediante la violenza, l’“altro”. Lo strutturarsi e l’evolversi della rappresentazione della violenza nei media la identifica dunque come uno dei “nodi tematici” – dei “themata” (Moscovici S., Vignaux G., 1994) – della contemporaneità, non tanto per i suoi contenuti quanto piuttosto per la “forma narrativa” che assume nello specchio di altri racconti, nelle opacità che la qualificano in modo specifico come campo delle emozioni, rendendo forse possibile fornire di altre spiegazioni la potenzialità degli effetti che esercita sul telespettatore e, in particolare, nel processo di costruzione dell’identità dei più piccoli. Per ricomporre una “definizione” della violenza in TV occorre peraltro, ricordare quanto i bambini siano “immersi” in una molteplicità di discorsi intorno alla violenza; “navigare” – e su diverse fasce orarie – nella TV significa per i bambini fruire quotidianamente di una molteplicità di messaggi – di genere e con funzioni differenti tra loro – violenti. Così come, d’altra parte, non possiamo dimenticare le profonde, spesso drammatiche, differenze che dividono il destino dei bambini nel nostro stesso paese (e altrove) rispetto ai diversi livelli in cui essi fanno “esperienza” – in modo diretto o indiretto – della violenza: una violenza di cui si parla sempre più spesso, di cui sono spesso oggetto in particolare i bambini, e che è, purtroppo per molti di loro, esperienza vissuta, subita o agita (sul piano fisico, psicologico ecc.). 2. “Iconologie” della violenza “Iconologie” come percorso che svolge una serie di topoi (Callari Galli M., 1997b)) attraverso cui si dipana il tema della violenza mediata 85
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dal piccolo teleschermo: l’analisi che si propone intende costituire una serie di “ipotesi di lettura” per tematizzare il campo della violenza come “tema” rappresentato nei media. Ricostruire il modello culturale della violenza sotteso al messaggio televisivo significa individuare la molteplicità di temi e piani attraverso cui la televisione ri-elabora continuamente il discorso sulla violenza, sia sul piano esplicito che implicito. Se consideriamo, infatti, la violenza come fenomeno “complesso”, essa non è riducibile al numero degli omicidi o delle percosse messe in scena sul teleschermo, ma si allarga, ad esempio, al piano dell’interpretazione, al modo con cui, un dato gruppo, una data cultura “legge”, interpreta, rappresenta la realtà. La percezione della violenza è dunque diversa a seconda del “contesto” che la rende comprensibile (o incomprensibile), a seconda delle forme che la narrazione assume (la logica degli eventi, i personaggi e stereotipi in gioco, le ragioni della violenza), ma anche delle modalità di trasmissione del messaggio (velocità, ritmo incalzante delle immagini, tipologia delle inquadrature, frammentazione del messaggio). 2.1 Narrare la violenza o il “tabù” della violenza Sul piano di un’analisi quantitativa, non si può che constatare quanto la “violenza esplicita” abbia bassa frequenza nella fascia oraria – quella pomeridiana – considerata come spazio di fruizione rivolto ad un pubblico televisivo infantile, anche se forse occorrerebbe misurarsi con il fatto che non pochi indicatori inducono a ipotizzare una fascia oraria di fruizione televisiva, da parte dei bambini, ben più ampia (dunque anche serale). Diversi processi hanno modificato la rappresentazione della violenza veicolata dai media passando da una descrizione della violenza in modo per lo più soltanto allusivo – sottolineata dall’inviolabilità del corpo e dall’allontanamento (dal “velarsi”) dello “sguardo” sulla scena del delitto – basti pensare, tra i serial televisivi per ragazzi a Zorro, o a Indiana Jones, o tra i “classici” del cinema, dai western alla John Ford di Ombre Rosse (1939) ai film di Alfred Hitchcock: Psyco (1960), La donna che visse due volte (1958) – alla ostentazione/ossessione per l’infrazione violenta del corpo e per uno sguardo quasi “chirurgico” come forma narrativa sulla violenza (si veda ad esempio la serie di film che ha come protagonista Freddy Krueger, Nightmare, 1984, 1985, 1987, 1988, 1989, 1991, 1994). In particolare la produzione cinematografica e televisiva degli ultimi anni ha visto un’escalation nell’uso di immagini violente: dall’uso “poli86
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tico” della violenza come racconto massmediologico (Arancia Meccanica di Stanley Kubric, 1971) a narrazioni che si caratterizzano come estremamente violente sia in modo iper-realistico (emblematici i più recenti film di guerra: Salvate il soldato Ryan, 1999 e La sottile linea rossa, 1999) che in modo decisamente “surreale” (un esempio per tutti Pulp Fiction, 1994 di Quentin Tarantino, ma anche, di tutt’altro genere, The Mask di Charles Russell, 1994). Tecnologie ed effetti speciali, inoltre, avviano un processo di enfatizzazione delle potenzialità distruttive in “dotazione” ai personaggi della narrazione televisiva e filmica, inaugurando una serie di eroi dotati di un potenziale violento in termini tecnologici (basti pensare, in TV, al serial anni ’70 L’incredibile Ulk) o di un corpo “barbaro e ipertrofico” (è il caso di Arnold Schwarzenegger nella serie di Conan) e più spesso corredati, da ogni tipo di arma (Schwarzenegger nella serie di Terminator). Una violenza “potenziata” che sembra sedurre lo spettatore in un compiacimento determinato dagli effetti paradossali (nel suo determinarsi come eccessiva rispetto allo scopo) dell’onnipotenza esibita delle immagini e rafforzata da una descrizione “selettiva” sugli esiti distruttivi della violenza (persone e ambiente). Storie di guerrieri armati (di speciali “poteri” o di tecnologie fantascientifiche) sono oggetto dei cartoons venuti dall’Oriente le cui successive generazioni hanno segnato la TV dei ragazzi dilagando in giocattoli e gadget: dalle Tartarughe Ninja Mutanti a Ken Shiro a Lady Oscar, l’avventura si colora della lotta tra il bene e il male, di eroi alle volte “sofferenti” alle volte ironici, ma che per lo più si distinguono per le loro “armi” in un qualche modo “esotiche” (proiettate in un futuro robotizzato, o in un passato leggendario, o in un oriente che si caratterizza per la magia delle tecniche di trasfigurazione delle potenzialità guerriere del corpo). L’importanza di analisi del modello culturale della violenza trasmessa dalla televisione è evidente nel caso dei cartoni animati; se ad un’analisi quantitativa il National Coalition on Television Violence inserisce nella categoria dei cartoni “molto violenti” Tom e Jerry e Bugs Bunny, e in quella dei “violenti” Braccio di ferro e Il mago di Oz (al pari del più complesso dal punto di vista della comprensione Beetlejuice), appare, in queste analisi, assente una lettura approfondita del piano dei processi di mediazione culturale che diversi contesti discorsivi realizzano secondo modalità, ed esiti, differenti: il tipo di trama, la forma narrativa, il contesto in cui “prendono senso” le scaramucce, le percosse, le uccisioni ecc. Sul fronte opposto, appare paradossale che il Venerdì di Repubblica (n. 580, 30/4/1999) inserisca nella rubrica La TV dei bambini, i Simpson, cartone che va in onda alle 14 su Italia1 – dunque nel pomeriggio, ma in orario da soap opera, e che è seguito, si tratta di un cartone “satirico” che ha per 87
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oggetto una famiglia-media americana, più volte definito “cinico” e trasgressivo, da un pubblico di adulti. 2.1.1 Piccoli carnefici, piccole vittime: processi di addomesticamento della violenza L’analisi del modello culturale della violenza esplicita evidenzia alcuni processi di “addomesticamento” della violenza che è possibile peraltro ricondurre ad ipotesi interpretative differenti proprio sul piano della fruizione dello spettatore. Alcune scene, in un qualche modo esplicitamente violente, appaiono “contenute” e spiegate dal contesto in cui si realizzano: è il caso delle risse, delle battaglie all’arma bianca, delle scene di guerra del televisivo Il giovane Indiana Jones (Rai Sat 2, 19/6/1998). Questo tipo di scene non sono particolarmente cruente e appartengono a un contesto di “film d’azione” in cui lo spettatore si attende che l’avventura della caccia al tesoro sia piena di insidie e di avvenimenti imprevedibili che sembrano travolgere i protagonisti dell’avventura ma che evolvono verso un prevedibile lieto fine. In altro modo, subiscono un “processo di addomesticamento” le situazioni in cui le scene di violenza sono inserite in un contesto, questa volta, definito da una “morale superiore” che spiega e connota negativamente il comportamento violento. Chi agisce con violenza nei confronti di altri esseri umani o della natura deve pagare secondo giustizia o imparare dai propri errori. È il caso di molti telefilm per ragazzi, ad esempio, Nilus, l’Omino dei sogni “Il re dell’universo” (Rai Sat 2, 7/6/1999), in cui il giovane protagonista è apertamente in conflitto con gli adulti (o chi ne fa le veci) fino ad “impersonare”, attraverso il passaggio ad una dimensione fantastica, il più violento tra i dinosauri. È un’avventura “di formazione”: trama del racconto e forma narrativa respingono il piano della violenza descrivendo l’esperienza tragica di chi sceglie di basarsi sulla forza nel rapporto con gli altri; proprio il conflitto interiore vissuto dal protagonista e l’evolversi della storia focalizzata sulle conseguenze che la pratica della violenza comporta nelle relazioni tra il protagonista e gli altri, permette allo spettatore di immedesimarsi e, al tempo stesso, di prendere le distanze dalle scelte del protagonista intento, suo malgrado, a fare esperienza sulla propria pelle delle conseguenze delle sue scelte. È un modello applicato dalla televisione e dal cinema anche ai bambini, o meglio all’immagine di essi: dai bambini che subiscono violenze dai telefilm-verità ai cartoni come Orson & Olivia (Solletico, 2/4/1999), ai bambini – al contrario – “guastafeste”, i bambini “terribili” (si pensi alla serie di film iniziata con Mamma ho perso l’aereo di Chris Colum88
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bus, 1990, 1992), fino ai bambini “killer” (Baby Killer di Larry Cohen, 1974, 1987); in questo caso i bambini sono i protagonisti di una violenza alle volte “addomesticata” proprio perché “miniaturizzata” e dalle sembianze innocue (ma non per questo a basso grado di violenza), alle volte invece “ingigantita” nei suoi aspetti di horror proprio perché agita da “innocenti bambini”. 2.1.2 Una violenza “vampirizzata” Risultano assenti o marginali – nella fascia oraria della TV riservata alla programmazione per i ragazzi – i generi del “terrore”, dell’horror, del noir che invece sembrano pervadere l’immaginario dei ragazzi dilagando dai film e dalla televisione ad altri “mezzi” e generi (basti considerare il successo di alcuni fumetti, giochi, gadget incentrati sul genere del terrore). Alcuni cartoni e telefilm, costituiscono un esempio particolare di “addomesticamento” della violenza e della paura. Nella loro rappresentazione tradizionale, i vampiri affascinano bambini e adulti proprio perché fanno paura, perché sono delle “alterità” mostruose. I vampiri buoni, privati cioè delle loro caratteristiche, sono molto meno interessanti. Il cartone per bambini Vampiri al Ketchup (Rai Sat 2, 17/6/1998) mette in scena le storie che legano e dividono vampiri buoni – che bevono ketch-up –, vampiri cattivi – che non riescono a essere davvero cattivi – e umani. Il cartone allude al genere del terrore, ma è stato “prosciugato” della propria “specificità” senza tradursi peraltro in qualcosa di definito o di originale, ad esempio, contaminandosi con altri generi: tra cinema e TV, un esempio è quello della Famiglia Adams le cui scene cruente sono ricontestualizzate da una certa comicità “noir”. 2.1.3 Pseudocronaca Velocità, ritmo, frammentarietà del messaggio televisivo contraddistinguono la forma narrativa delle notizie di cronaca che, fuori dalla consueta configurazione dei telegiornali, vive al confine tra cronaca e fiction e si traduce in una serie di programmi televisivi su fatti di cronaca di forte impatto emotivo (Verissimo, Tutti i colori della cronaca, Canale 5; Prima, La cronaca prima di tutto, Rai1; La vita in diretta, Rai 2) che vanno in onda nel pomeriggio e certo non sono scevri dalla cronaca più violenta (cfr. “Vendetta Barbara”, cronaca di un regolamento di conti in Verissimo del 6/5/1999). I “film verità”, le ricostruzioni di cronaca pervadono i pomeriggi televisivi sul filo ambiguo della cronaca che mette i panni del film “a suspence”. L’illusione indotta dal messaggio televisivo di poter affrontare, attraverso lo sguardo “innocente” del quotidiano mediatizzato – in una 89
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frammentazione di prese di posizione a “volo d’uccello” – i temi più scottanti dell’attualità (spesso largamente connessi con la violenza) corre il rischio di sfociare, in realtà, nell’enumerazione di luoghi comuni che impoveriscono e irrigidiscono in stereotipi il tema affrontato, impedendo di coglierne la complessità e la problematicità. Questi aspetti “critici” possono assurgere a “indicatori” in vista di una TV che risponda davvero al diritto all’informazione sancito dalle Dichiarazioni Internazionali per l’infanzia: la possibilità di elaborare un tema, la cui drammaticità appare peraltro evidente anche ai bambini, attraverso i diversi punti di vista che lo compongono, la dimensione interattiva che è possibile mettere in scena con il mezzo televisivo attraverso approfondimenti successivi o in una forma potremmo dire “ipertestuale”, l’immissione di contenuti di natura diversa, possono costituire alcuni “strumenti” in grado di mettere in crisi irrigidimenti preconcetti a favore di una responsabile opera di informazione a “misura di bambino”. 3. La violenza nascosta 3.1 Natura violenta L’estremo interesse per il genere documentario – sulla natura, ma anche sull’archeologia, le culture “esotiche”, la tecnologia, la medicina – è sempre più espresso dal grande pubblico (e indicato dal proliferare di programmi televisivi di questo tipo: SuperQuark, Rai1; Geo & geo, Rai 3; KingKong, Un pianeta da salvare, Rai 3; La macchina del tempo, Retequattro ecc.). Sotto la parvenza di un materiale “neutro”, i documentari appaiono fortemente ideologizzati: il mondo della natura è descritto sotto la feroce logica della selezione che distingue le specie esclusivamente in prede e predatori – “la foresta ha assediato le rovine, violento passato, nuovi padroni, predatore e preda; [...] fantasmi, questa è l’unica vita possibile, uccelli predatori; [...] il maschio va a caccia e fa da guardiano per ogni attacco; [...] né terra né cielo sono luoghi sicuri; [...] con il colore della sera emerge il lato oscuro [...]” (National Geographic Explorer, I nuovi Signori di Tikal, Rai Sat 2, 27/4/1998) – è la vita come lotta per la sopravvivenza. Attraverso il genere del documentario si veicola dunque una lettura unilaterale del mondo della natura – che rimanda, anche in modo esplicito, a quello umano – e che sottolinea la natura violenta degli animali (e, in modo analogo, degli uomini). Non solo si descrive il mondo animale come regolato esclusivamente dalla violenza, ma si attua un processo di “naturalizzazione” della violen90
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za che appare come tratto naturale e ineliminabile anche per l’uomo. È un modello “biologizzante” della violenza definito come attributo istintuale di tutti gli esseri animali, uomo compreso, dunque imprescindibile dalla sua stessa natura. Le analogie tra mondo animale e mondo degli uomini non sono solo implicite ma anche esplicite e, più spesso, segnate da una visione etnocentrica: un documentario (National Geographic Explorer, I nuovi Signori di Tikal) su di una cultura esotica – i Maya – descrive la crudeltà della natura che regolerebbe la foresta fornendo come spiegazione lo stereotipo della crudeltà o ferocia “selvaggia” del popolo “ignoto”. Queste civiltà “misteriose” sono ricordate (nonostante scorrano le bellissime immagini delle zone archeologiche) solo per la loro crudeltà (enunciata come un dato di fatto) che sembra passare per osmosi al mondo animale. Ma la logica della “lotta per la sopravvivenza” – la tela di fondo dei documentari sul mondo della natura – può essere segnata più che dalla drammaticità, da un processo di “banalizzazione”: la catena alimentare predatori-prede appare, in questo caso, più “mitigata”, meno cruenta perché inframmezzata da commenti, spezzoni di film che paragonano – in una specie di “danza delle immagini” – le modalità di procurarsi il cibo degli animali alla quotidianità del momento del pasto degli uomini (National Geographic, Wild. I magnifici selvaggi, Una vera foresta pluviale, Rai Sat 2, 7/6/1998). Un altro processo è quello subito da animali per lo più “domestici” cui si attribuiscono, comportamenti volontari, scelte alimentari, sentimenti come se fosse un dato di realtà; questo “processo di antropomorfizzazione” ad esempio dei cani “nasconde” il rapporto di forza uomo-animale e il contesto – ad esempio i reportage di contesto agonistico-sportivo – entro cui si svolge il racconto. Anche in questo caso immagini e narrazione rimandano a un’ideologia che vede il rapporto con la natura implicare dominio o sfida; talvolta l’uomo si impegna nel proteggere la natura, molto raramente si pone in posizione di semplice contemplazione. Non si intende certo misconoscere l’importanza (tantomeno giustificare un “oscuramento”) della dimensione della “lotta per la sopravvivenza” nel mondo della natura, ma sottolineare, nel constatare l’efficacia-seduttiva di ogni “discorso” mediatico, la sovrarappresentazione in termini quantitativi e qualitativi di questo modello di lettura della realtà a fronte della complessità del mondo-animale peraltro sempre più sottolineata in ambito scientifico. I più recenti studi etologici, ad esempio, hanno mostrato l’estrema varietà del comportamento animale: basti pensare alla cura e alla dedizione, talvolta fino al rischio della propria vita, di molte specie animali nei confronti dei loro piccoli o alla fedeltà al gruppo a sca91
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pito della vita individuale; ancora, l’estrema varietà e creatività di tipo comunicativo, al limite “giocoso”, di alcune specie animali (foche, delfini, ecc.) o l’estrema complessità in termini di organizzazione collettiva di altre (formiche, api, ecc.). Questi stessi studi, inoltre, ammettono quanto ampiamente sconosciuto resti ancora il mondo della natura e come molte delle “antiche certezze” sulle motivazioni del comportamento animale siano, alla luce di recenti e più approfondite ricerche, radicalmente mutate. 3.2 Solidarietà o barbarie: violenza sull’altro ed “eroicizzazione” del medesimo nei modelli di rappresentazione dell’alterità Se la violenza è innanzitutto un modello di interpretazione della realtà attraverso il quale si ammette o si ritiene inaccettabile l’azione violenta, allora il trattamento mediatico riservato agli “altri”, soprattutto alle categorie più deboli (le culture “altre”, le donne, gli anziani, i bambini ecc.), colti, ad esempio, attraverso la loro riduzione a modelli di separatezza o di dominio/sottomissione costituiscono inequivocabili “spazi” di violenza implicita (e di forte – proprio perché “silenziosa” – induzione a comportamenti violenti). L’a-problematicità e la de-contestualizzazione che connotano l’istituirsi di pregiudizi e stereotipi frutto di tali modelli del rapporto noi/altri, rischiano di cristallizzarsi nella mente dei piccoli telespettatori come ulteriori forme di ideologie non complesse e monolitiche trasmesse nella consuetudine dei discorsi quotidiani veicolati dai media. Subdola e carica di pregiudizi la violenza implicita rivolta verso chi ha comportamenti “devianti”: le opinioni negative sulle persone con l’orecchino e il codino (associate a furti e droghe), gente strana che si vede per strada e che fa paura, così il trattamento riservato agli stranieri, alle persone diverse per “alterità fisica”, per religione, ecc.. Lo stereotipo apre la strada alla negazione della dignità dell’altro in qualche modo enfatizzato dalla forma narrativa che può indurre, nella sua a-problematicità (indotta anche dalla forte frammentarietà del messaggio) una forte identificazione da parte del telespettatore. Il modello di sottomissione/inferiorità che rischia di aprire la strada all’accettazione della negazione della dignità dell’altro a partire dalla sua diversità, compare a volte in modo esplicito, più spesso in modo subdolo e nascosto, nel rapporto di genere. Numerosi sono gli esempi nella pubblicità – onnipresente nei pomeriggi televisivi dei bambini –: lo stereotipo che vuole la donna casalinga o maliarda e l’uomo affermato professionalmente e cosmopolita è ossessivamente ribadito dalla pubblicità sia che vesta i panni dei prodotti per adulti sia quelli del consumo (giocattoli) per bambini (Callari Galli M., 1993; Callari Galli M., Colliva C., Pazza92
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gli I., 1998). Tale modello è confermato anche dall’immagine del bambino veicolata dalla televisione – con le dovute eccezioni –: abbigliato e “addomesticato” come un piccolo adulto, anzi come un piccolo attore televisivo, è raramente soggetto attivo di scelte o di opinioni (per quanto a “misura di bambino”). 3.3 Tra fiction e informazione: le ambiguità della violenza Il messaggio televisivo è portatore di una tendenza particolarmente “pericolosa” per i piccoli telespettatori in rapporto ai processi di costruzione dell’identità: quella di un modello della violenza potremmo dire “trasversale” che è possibile cogliere nella continua mescolanza – tipica del messaggio televisivo – tra fiction e realtà, tra rappresentazione della violenza reale e quella della violenza fantastica o virtuale. Nel mondo della rappresentazione in cui è immerso il bambino – e, in senso lato, la nostra stessa contemporaneità – può risultare difficile distinguere la violenza reale da quella della fiction, dei film e dei telefilm, della pubblicità. Questa ambiguità è tanto più pericolosa, in quanto non riguarda soltanto il piano cognitivo quanto quello delle emozioni, in cui il telespettatore è immerso talvolta fino ad esserne travolto, tal’altra mettendo in atto un processo di presa di distanza, sia che si tratti della violenza-fiction che di quella reale. La televisione appare come un contenitore-domestico di rappresentazioni della realtà che mescola realtà-inventata a realtà-reale: ai film succedono i telegiornali, ai film-verità i documentari ecc. La possibilità di “cambiare programma” – per noia o eccesso di coinvolgimento emotivo – accelera questo processo, permettendo una visione del mondo e delle sue rappresentazioni dai crinali sfumati e indecisi. Se questo procedimento appare evidente ad un’“analisi del flusso” televisivo – che è poi quello che succede ai bambini a conclusione del loro pomeriggio di televisione – analoga commistione compare spesso all’interno di programmi che oscillano tra informazione e fiction: negli stessi documentari, ad esempio, è possibile correre il rischio di “nascondere” e mescolare dato informativo, ipotesi interpretative, rielaborazioni fantastiche. 4. In conclusione: percorsi per un’educazione alla non-violenza “La paura, la catastrofe, l’apocalisse ossessionano le scene della modernità, quasi fossero vecchi mostri che fanno ritorno. Sul corpo mutevole della cultura attuale si inscrive una cultura del terrore: ed ecco che quest’epoca viene percepita in ciò che è attraverso la lacerazione apoca93
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littica e definita nella sua essenza dalla forma catastrofica” (Balandier G., 1993, p. 260). L’analisi condotta mostra la continua contaminazione tra realtà e rappresentazione che proprio il tema della violenza – come spazio politico della contemporaneità – coagula; ne emerge un modello della violenza come fenomeno complesso e pervasivo, criptico, difficilmente decifrabile, contraddittorio, segnato da ambiguità sia esplicite che in qualche modo “silenziose”, opache. Gli studi sulle fiabe e sulla letteratura per l’infanzia (Beseghi E., Faeti A., 1993), hanno mostrato – in ogni cultura e attraverso le epoche – la grande rilevanza educativa che ha la rappresentazione simbolica della violenza contestualizzata attraverso racconti (fiabe, miti, leggende) radicati nel sapere e nella visione della realtà di una comunità specifica. Non c’è racconto fiabesco – o mitico, letterario ecc. – che non dia “spazio” alla violenza: dalle belve che danno un “volto” all’azione violenta del precipitare degli eventi innescata da alcuni comportamenti “trasgressivi” o arrischiati dei bambini (Cappuccetto rosso), al rapporto di amore, ma anche di odio che lega adulti e bambini (Pollicino, Hans e Gretel, Biancaneve e i sette nani), alle vicissitudini di un principe nell’atto di salvare la principessa di cui si è innamorato, prigioniera di un drago (Il drago del lago). Lo spostamento in una dimensione chiaramente fantastica e del racconto “orale” – che può essere così più volte ri-raccontato – l’inserimento in una trama che può avere esiti differenti, l’impersonificazione del “cattivo” in un personaggio di fantasia, i tempi e i modi della forma narrativa fiabesca rendono manipolabile – in un orizzonte di senso specifico, quello, più ampio, della cultura a cui si appartiene – le emozioni aperte dai momenti di azione violenta del racconto. La forma narrativa della televisione può liberare espedienti narrativi forse inaspettati quanto interessanti: ad esempio, il “mettersi nei panni dell’altro” come possibilità di ri-scrittura delle emozioni in cui la paura e l’azione “violenta” possono essere mediate anche da un movimento ironico del vestire i panni della “persona sbagliata”. Sul piano di una critica a modelli interpretativi della realtà troppo unilineari e rigidi, i documentari mostrano anche nuove possibilità tecniche di videoregistrazione in grado di aprirsi non solo su luoghi lontani e inaccessibili, ma anche, ad esempio, sull’infinitamente piccolo o condensando, attraverso un’osservazione continua, un evento che si svolge in natura in un tempo dilatato ecc.; in questi “racconti” lo spettatore diventa partecipe di uno sguardo “eccezionale” (che non potrebbe mai realizzare in prima persona) sulla natura. 94
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È possibile cioè ripensare alla TV come produttrice di una cultura della “non violenza” proprio a partire dalla possibilità che il mezzo televisivo ha non solo di informare, ma di aprire i piccoli telespettatori alla complessità – molteplicità, non unilinearità, versatilità – del sistema mondo: fornire modelli di lettura del mondo diversi assumendo, ad esempio, differenti “punti di vista” narrativi; ridare uno spessore storico – e non necessariamente evoluzionista – al processo di conoscenza del circostante (natura o società); inserire i racconti sulla realtà all’interno di letture e contesti più ampi. L’analisi culturale di messaggi televisivi se ne ha mostrato i rischi, non può non sottolinearne le sfide per una TV che intenda qualificarsi come “non violenta”, ad esempio sul piano dei modelli interpretativi e cognitivi di lettura della realtà, nella possibilità di aprire il telespettatore a una visione più complessa e multivocale della realtà. In conclusione dunque, alla necessità – periodicamente riemergente – di una regolamentazione della fruizione televisiva nelle fasce orarie di libero accesso per i bambini (ad esempio sui temi della violenza e della pubblicità) sarebbe auspicabile avviare un’approfondita riflessione sulla cultura della violenza nella società contemporanea nella sua qualità di discorso “veicolato” dai mass media per arrivare a pensare ad interventi e progetti per una TV in grado di promuovere una “cultura della non-violenza”. Se si assume il tema della violenza come fenomeno pervasivo e complesso della contemporaneità – inteso cioè sia come fenomeno della realtà che come “rappresentazione” diffusa – il dibattito politico e l’analisi scientifica non possono tralasciare di approfondre – sia in termini di contenuto che di ipotesi di lavoro – il passaggio dal piano dell’analisi del tema della violenza in televisione a quello di elaborazione di programmi televisivi per l’infanzia orientati alla “non-violenza”. I dibattiti e le pressioni dell’opinione pubblica che hanno sostenuto misure d’autoregolamentazione in particolare sulla violenza nella TV per i bambini, si sono spesso semplicemente ridotti a “depurare” le trasmissioni dalla “violenza esplicita” intesa come uso della forza fisica volta ad eliminare o opprimere l’altro, per alcune fasce orarie. Ad un’analisi culturale del materiale televisivo appare difficile valutare “in negativo” – cioè come “assenza” – la violenza nella sua ampia fenomenologia: cosa può determinare nel piccolo fruitore il semplice “oscuramento” delle immagini e delle trame violente a fianco di una TV “degli adulti” (che misteriosamente esplode, più volte preannunciata – nella stessa fascia oraria pomeridiana –, da una certa “ora” in poi) – ma, ancor più, in quella continua produzione in senso lato di “rappresentazio95
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ni” – impregnate di violenza – in cui tutti noi siamo immersi? L’esperienza e l’assunzione di responsabilità educative sul tema della violenza che alcuni network – e alcuni movimenti “a difesa” dei telespettatori – iniziano a intraprendere, mi pare dunque più un punto di partenza che un punto di arrivo in vista di una televisione che, in particolare (ma non solo) sul tema della violenza, intenda operare a difesa dei diritti dell’infanzia. Ad uno sguardo più complessivo, resta infatti il dubbio se la semplice “depurazione” della violenza, non rischi di opacizzare la possibilità di una rielaborazione più approfondita del campo delle emozioni che la rappresentazione simbolica della violenza mette in gioco determinando, da un lato, un effetto contraddittorio di “oscuramento” della violenza televisiva, su un tema, nonostante tutto, così insistente nella cultura di massa contemporanea, dall’altro forse, un effetto, “paradossale” di scarso coinvolgimento cognitivo-emotivo dello spettatore. Al pari della sofferenza, della morte, della malattia, ma anche delle emozioni, della fisicità, dei sentimenti, della sessualità, la violenza appare, nella cultura contemporanea, attraversata dal paradosso di essere onnipresente e, al tempo stesso “silente” quale oggetto di una riflessione educativa specifica. Gli studi storici e antropologici, sulle culture del passato, e su quelle caratterizzate dalla trasmissione orale (Harrison G., Callari Galli M., 1971; Callari Galli M., 1993; Havelock E. A., 1973), hanno sottolineato il ruolo determinante degli adulti – genitori e nonni, cantastorie, gruppi di vicinato – nella trasmissione culturale svolto attraverso il racconto di fiabe, miti, racconti ai bambini; un racconto fantastico attraverso cui gli adulti trasmettevano e mediavano una molteplicità di discorsi – e un universo simbolico – all’interno del quale il tema della violenza trovava una sua interpretazione e un giudizio etico. A maggior ragione, nella società contemporanea, gli adulti – genitori e maestri, ma anche altre “agenzie educative” (dalla scuola all’extra-scuola, al gruppo di pari) – non possono, eludere questa funzione di “mediazione” dei “prodotti” culturali della cultura cui appartengono, oggi continuamente elaborata e prodotta (tra le agenzie culturali presenti) anche dalla televisione. E questa funzione non può che essere un “parlare” insieme – adulti e bambini – davanti e sulla televisione, rielaborandone il messaggio televisivo, i suoi contenuti più o meno coinvolgenti – fra i quali le dinamiche della violenza – il fascino seducente delle sue immagini, per affiancare ad esso altre modalità del racconto, attraverso un’oralità la cui ripetitività “rallentata” costituisce l’unico strumento per “metabolizzare” il discorso sulla violenza decostruendone e delimitandone l’enfasi che, tra realtà e rappresentazione, i media immettono nella società contemporanea. 96
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Mamme, campanili e vampiri. Immagini del “medesimo” e dell’“altro” nella televisione che i bambini guardano di Cristina Rossi
Ricordo d’infanzia, ricordo televisivo. Dallo schermo in bianco e nero, una conduttrice di programmi a tutt’oggi notissima allietava le serate famigliari prefestive con un’esibizione canora che in modo un poco triviale – e per me, bambina, molto imbarazzante – inneggiava alla nazione: in una scenografia che richiamava l’“Italia in miniatura” (parco delle attrazioni e meta di gite nei giorni piovosi che funestavano le nostre vacanze sulla riviera romagnola) la bionda dea televisiva sorridente, rassicurante e solitamente asessuata cantava quella sera “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù ... tanti auguri a chi tanti amanti ha ... in campagna ed in città” volteggiando ammiccante tra le riproduzioni dei più celebri monumenti-simbolo del paese. “Da Trieste in giù” era dunque il luogo di un “noi” per celebrare il quale si poteva persino evocare il piacere di congiungimenti carnali molteplici e promiscui in un’epoca in cui Baciami, stupido! (B. Wilder, Usa, 1964) era sconsigliato ad un pubblico infantile in quanto film “piccante”. La passeggiata in quel sunto d’Italia di colei che ricordavo come l’innocente Maga Maghella estendeva improvvisamente la mia consapevolezza del mondo a due fatti che né la scuola né la famiglia né il gruppo dei pari mi avevano trasmesso con tanta vividezza: gli adulti e persino quelli a me più famigliari – come la simpatica e domestica presenza del sabato sera – nutrivano interesse per il sesso e lo dichiarano apertamente; “da Trieste in giù”, locazione del “fare l’amore” più volte ribadita dal testo della canzone e dalle immagini, suggeriva un “noi” cosa-sola definito da confini geografici che improvvisamente mi apparivano densi di significato.
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Televisione e legame sociale La televisione può essere considerata come un mezzo per rappresentare ed allo stesso tempo costruire la “comunità immaginata” della nazione. Benedict Anderson, cui dobbiamo la nozione di “comunità immaginata”, definisce la nazione nei termini seguenti: “Una comunità politica immaginata, e immaginata come intrinsecamente insieme limitata e sovrana. È immaginata in quanto gli abitanti della più piccola nazione non conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno, né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine del loro essere comunità. [...] In realtà è immaginata ogni comunità più grande di un villaggio primordiale dove tutti si conoscono (e forse lo è anch’esso). Le comunità debbono essere distinte non dalla loro falsità/genuinità, ma dallo stile in cui esse sono immaginate” (Anderson B., 1996, p. 25). Quanto a questo “stile”, strettamente connesso ai mezzi di comunicazione di cui ogni società dispone, l’autore ci presenta un’interessante panoramica dei modi di immaginare la comunità – e dunque di concepirla e di viverla – che hanno segnato il corso della storia umana. Tra questi, a guisa di esempi, ricordiamo le grandi culture religiose, che attraverso mezzi di comunicazione quali la lingua sacra (come il latino o l’arabo classico), le Scritture ed i codici orali e visivi creano comunità deterritorializzate, globali ed universalizzanti (nel senso che prefigurano la potenziale assimilazione di qualsiasi “altro”), ma anche i regni dinastici dai confini porosi e dai lignaggi reali talmente imparentati tra loro da “scolorire impercettibilmente” l’uno nell’altro, fondati su di un’autorità che si vuole divina, ma già prefiguranti la nazione in quanto coevi della diffusione – tramite la stampa – delle lingue volgari e del parallelo declino, in Europa, del latino come unica lingua insegnata e nella quale si insegna. A partire dal XVIII secolo, infatti, in seguito alla progressiva secolarizzazione delle rappresentazioni dominanti del tempo e della società (Anderson B., 1996; Landes D.,1984; Le Goff J., 1977), in Occidente si sviluppa una nuova figura dell’appartenenza comunitaria: nuovi mezzi tecnici di comunicazione, messi a disposizione dal “capitalismo-a-stampa”, diffondono giornali e romanzi, identificati da Anderson come generi discorsivi che permettono alla comunità di immaginarsi in quanto nazione, in quanto “organismo sociologico che si muove ordinatamente in un tempo vuoto e omogeneo”(Anderson B., 1996, p. 41; Benjamin W., 1995). I libri, oramai scritti in lingue vernacolari piuttosto che in lingue colte e veicolari, costituiscono la prima merce a produzione di massa, cosa che permette “ad un numero sempre crescente di persone di pensare 98
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a sé e di porsi in relazione ad altri in modi profondamente nuovi” (Anderson B., 1996, p. 51). Il quotidiano “quasi simultaneo consumo (“immaginazione”) del giornale-racconto” viene descritto dall’autore come una cerimonia di massa: il giornale, “vivida raffigurazione della secolare, storicamente cadenzata, comunità immaginata”, indica ed al contempo produce il visibile radicamento di quest’ultima nella vita di tutti i giorni. In questo senso, alla stessa stregua del giornale e del romanzo, la televisione generalista può essere concepita come mezzo per immaginare la comunità del “noi” nazionale e dunque per rappresentare, produrre e perpetrare un “noi” fondato su di un’appartenenza connotata anche in senso “etnico” (Smith A., 1992). Nel periodo post-bellico, all’interno delle società occidentali si determinano importanti trasformazioni economiche e culturali: in questo contesto, attraverso i suoi programmi e le sue facili e sempre più diffuse modalità di accesso, la televisione inaugura la propria attività di mediazionecomunicazione tra situazioni sociali che tendono sempre più a differenziarsi offrendo ai cittadini modelli di comprensione, interpretazione ed adesione alle nuove condizioni di vita che si vanno delineando (Wolton D., 1990). Attraverso i notiziari, gli spettacoli d’intrattenimento, gli sceneggiati televisivi, i personaggi-icona il piccolo schermo tesse narrazioni del “noi” nazionale fornendo in questo modo punti di riferimento che consentono agli spettatori – cittadini di una nazione – di situarsi rispetto al “puzzle di una modernità che sempre più obbliga a vivere simultaneamente identità ed aspirazioni contraddittorie”(Wolton D., 1990, p. 125). Il ruolo di legame sociale svolto dalla televisione generalista prende corpo, dunque, proprio mentre meccanismi di frammentazione – gli esodi dalle campagne verso i centri urbani, la migrazione da Sud verso Nord, la ripresa economica, il mutamento delle condizioni di lavoro, ed in particolare di quelle delle donne, e l’aumento dei consumi (Bodei R., 1998) – allentano, indeboliscono e mettono in discussione identità e relazioni “tradizionali”. Nonostante la forte presenza di programmi di produzione straniera nei palinsesti, nonostante la transnazionalizzazione accelerata dell’industria delle comunicazioni (pensiamo alle grandi holding mondializzate come gli “imperi” Murdoch, Berlusconi e Time-Warner) (Ang I., 1992) ed i nuovi mezzi tecnici quali la trasmissione via cavo, la parabola satellitare (Rouard D., 1996) ed i video (Gillespie M., 1995), il filtro attraverso il quale la televisione generalista propone immagini del mondo permane a tutt’oggi quello di uno sguardo essenzialmente nazionale. Da dietro il piccolo schermo, infatti, “noi” offre una visione di se stesso e di ciò che è “altro” da sé prodotta da un punto di osservazione linguisticamente e 99
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politicamente connotato come italiano; davanti al piccolo schermo, un singolo spettatore, una famiglia, un gruppo di amici accendendo la televisione si aggrega ad altri singoli, ad altre famiglie, ad altri gruppi elettivi, formando un pubblico potenzialmente immenso ed anonimo che simultaneamente si trova confrontato alle medesime immagini ed ai medesimi testi. Organizzando questa quotidiana “riunione invisibile” (Gheude M., 1994), la televisione si configura come legame sociale, come strumento di integrazione ad una comunità che in questo modo non solo guarda se stessa, ma si forma e si trasforma. In che modo? In base a quali meccanismi? I processi che abbiamo brevemente delineato, se osservati con gli occhi dell’etnologo, rivelano aspetti contraddittori e profonde complessità. Se, da un lato, la televisione generalista rappresenta una delle sole narrazioni nella quale la società si riflette come in uno specchio, se essa costituisce il solo spettacolo per il “grande pubblico” messo a disposizione e realmente fruito da un paese, se la televisione generalista svolge il ruolo di vestale di una certa rappresentazione della coscienza collettiva di una nazione, se essa riafferma quotidianamente i legami che uniscono i cittadini di una stessa comunità fungendo da passeur tra differenti classi di età e condizioni sociali (Wolton D., 1990, p. 139), dall’altro, le immagini del “noi” riflesse nel piccolo schermo sono il risultato al contempo sfuocato e nitidissimo, in perpetuo divenire e statico in modo talvolta disperante di molteplici fattori. La natura polisemica dell’immagine, il modello attualmente prevalente della televisione “a flusso” (Williams R., 1981; Bruno M. W., 1994), la velocità, la frammentarietà, la commistione/confusione dei generi narrativi ci inducono a riflettere circa la natura polivalente – e tuttavia, come vedremo, paradossalmente univoca – dei modelli d’identità, di relazione e di appartenenza proposti dalla televisione in particolare agli spettatori bambini. La complessità che si cela dietro messaggi apparentemente semplici, chiari ed invitanti ad una sorta di coralità “nazional-popolare” ci induce dunque a problematizzare le tesi di Wolton: se la televisione generalista può effettivamente fungere da “collante sociale”, essa tende anche a riprodurre e talvolta a creare ex novo rappresentazioni del “medesimo” e dell’“altro” che tendono a confermare e ad approfondire distanze, spaccature ed esclusioni sociali: tra processi di omogeneizzazione ed emergenza di particolarismi, il “miscuglio di unità e diversità appare tanto più sconcertante in quanto viene riprodotto e moltiplicato dai media che ne sono l’espressione e allo stesso tempo uno degli agenti” (Augé M., 1998, p. 16). Un esempio piuttosto eloquente di questa doppia tendenza – che talvolta si configura come tensione tra rappresentazioni dell’identità e della 100
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relazione che registrano e confermano i mutamenti sociali in corso e rappresentazioni che propongono ai telespettatori immagini e modelli identitari riaffermanti più o meno esplicitamente visioni del mondo obsolete e stereotipi e pregiudizi tra i più vieti – è costituito dalla reiterata messa in onda (Rai 2, estate-autunno ’97) dei due spot che ci accingiamo a descrivere. Il primo è costituito da una “pubblicità progresso” commissionata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri. In esso si inneggia ad “una società libera e multirazziale” simboleggiata da bambini molto piccoli – e visibilmente eterogenei quanto al colore della pelle – che giocano insieme. Nello scenario, il colore dominante è il bianco. Lo spot termina con il primo piano di una bambina nera che guarda in macchina e sorride gioiosa. Il secondo spot pubblicizza una nota marca di carta igienica. In esso compare un gruppo di bambini della medesima età altrettanto numeroso ed “eterogeneo”: i piccoli sono seduti ciascuno su di un “vasino” e simulano una riunione aziendale che si svolge attorno ad un tavolo di un biancore abbacinante. Si parla di affari con voci artefatte e prive di accenti particolari. L’ultimo personaggio inquadrato dalla telecamera è un bambino nero che batte il pugno gridando “Gombro!” (“Compro!”). È interessante notare, da un lato, la forte analogia formale esistente tra i due spot data dalla scelta dei testimonial, dalle loro attività, dal montaggio delle immagini e dalle ambientazioni immacolate, e dall’altro, la profonda divergenza dei messaggi da essi veicolati e dei significati attribuibili ai simboli utilizzati: nel primo spot il bianco sta per “innocenza”, nel secondo richiama più prosaicamente il colore del prodotto pubblicizzato; nello spot ministeriale si ricorre ad attori bambini per evocare l’idea di una convivenza possibile e spontanea e l’immagine di una futura società cosmopolita, mentre nel secondo i piccoli servono a sdrammatizzare gli aspetti imbarazzanti legati al prodotto reclamizzato; nella “pubblicità progresso”, infine, la scena si conclude con il primo piano di un’“altro” serenamente integrato al “noi”, mentre nel secondo spot il bambino nero si ricollega ai tanti personaggi neri “addomesticati”, sottoposti ed un po’ comici che popolano il nostro immaginario (dalla Mamy di Via Col Vento a “Bingo Bongo che sta bene solo al Congo”, dallo Zio Tom al testimonial dei panettoni al cioccolato, dal piccolo servitore nero del Santa Claus olandese al “vu’cumprà” reificato in quanto tale dai media). In uno stesso contenitore troviamo, dunque, messaggi contrastanti, veicolati talvolta addirittura attraverso immagini simili che tuttavia denotano cose completamente diverse. Come reagiscono gli spettatori confrontati a ciò? In che modo immagini e testi televisivi, spesso ambivalenti e contraddittori, si innestano sulle immagini e sui testi che costituiscono saperi, credenze e visioni del mondo degli spettatori? 101
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Un ulteriore rilevante fattore di complessità di cui tener conto nell’analisi dei materiali culturali veicolati dalla televisione e degli “effetti sociali” sortiti dai medesimi (Wolf M., 1992) è costituito dalla recezione, ovvero dai modi in cui gli spettatori comprendono, elaborano ed interpretano le narrazioni offerte dal piccolo schermo. Se molti studi teorici mettono infatti in evidenza i problemi legati alla passività ed alla mutazione cognitiva che l’avvento delle nuove tecnologie comunicative produce o rischia di produrre in particolare nelle giovani generazioni prefigurando un “deficit simbolico” che blocca le capacità di mediazione dirette proprie ad ogni società (Augé M., 1998), un declino del mezzo alfabetico (De Kerckhove D., 1995), la fine della democrazia (Stiegler B., 1993) ed un’inquietante incapacità d’immaginare un futuro che abbia una qualità diversa dal presente (Berardi F., 1997), i fautori di un approccio etnografico alla fruizione dei media problematizzano queste posizioni. Pur muovendo da una prospettiva teorica che affonda le proprie radici nella diade cultura egemonica/cultura popolare (Lombardi Satriani L., 1980; Hall S., 1982), alcuni di questi autori cercano di superare paralizzanti dicotomie quali spettatore passivo/spettatore attivo, medium manipolatore/medium liberatore (Ang I., 1992), testo/lettore (Dayan D., 1992), cultura globale/cultura locale focalizzando l’attenzione proprio sulle relazioni complesse che collegano – piuttosto che separare nettamente – gli elementi costitutivi di queste polarità. Essi considerano i media come “luoghi di processi culturali” (Pandolfi M., 1997), come zone simboliche dalle quali gli individui attingono – rimodellandoli – elementi da integrare alla propria esperienza. Gli studi sulla recezione dei media audiovisivi dimostrano infatti che gli spettatori – che non possiamo considerare a priori meri e passivi “riceventi” – rielaborano i contenuti proposti da piccoli e grandi schermi reinterpretandoli alla luce della propria “conoscenza locale” e dei propri enjeux identitari. Già negli anni ’30, alcune ricerche svolte negli Stati Uniti mettevano in luce come il cinema – che in quell’epoca suscitava in molti adulti sospetti ed inquietudini assai simili a quelli che oggi nutriamo nei confronti della televisione – costituisse per gli spettatori bambini ed adolescenti un’esperienza cognitiva, emotiva e persino fisica focalizzata essenzialmente attorno alla questione dell’identità di genere (Blumer H., 1933). In questo senso, i film visti al cinema costituivano una fonte di apprendimenti riguardanti “gesti e comportamenti [...], ovvero maniere di manifestare l’emozione amorosa e di esternare il desiderio di seduzione. È al cinema che si può imparare se si devono o meno chiudere gli occhi quando ci si bacia, in che modo un uomo deve cingere con il braccio le spalle di una donna, il modo in cui una donna può rendersi desiderabile [...]” 102
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(Pasquier D., 1995, p. 12). L’idea centrale che anima le ricerche citate è quella secondo cui i modelli assimilati al cinema venivano poi “sperimentati” nella vita reale ed integrati, così, al proprio vissuto. Studi più recenti mettono poi in luce il ruolo svolto dalle narrazioni televisive nei processi di formazione, trasformazione e negoziazione individuale e collettiva delle identità “etniche” e delle identità di genere presso gruppi di bambini ed adolescenti (Gillespie M., 1995; Pasquier D., 1995) dimostrando in questo modo che culture globali e culture locali – culture egemoniche e culture popolari – si compenetrano e si forgiano a vicenda (Augé M., 1993; Peters J. D., 1997; Callari Galli, 1998a); ivi p. 17). Alla luce del quadro che abbiamo cercato di delineare, nel presente saggio si intendono analizzare alcune immagini del medesimo e dell’“altro” ed alcuni frammenti di “narrazione della nazione” proposti dalla televisione italiana in particolare agli spettatori bambini. Poiché le nostre ricerche nell’ambito della recezione dei materiali culturali veicolati dal piccolo schermo sono ancora agli inizi, gli spunti di riflessione proposti verteranno essenzialmente sui fattori di complessità riguardanti le caratteristiche del linguaggio del mezzo televisivo ed i contenuti da esso proposti. Tra le trasmissioni citate, i lettori troveranno programmi che non sono esplicitamente rivolti ad un pubblico infantile. I dati a nostra disposizione rivelano che le fasce orarie maggiormente “frequentate” dai bambini coincidono solo in parte con quelle in cui vanno in onda programmi per essi espressamente concepiti: le percentuali di ascolto più forti si attestano infatti nei seguenti momenti della giornata: dalle 16 alle 18, dalle 18 alle 20 e dalle 20 in poi (Di Nicola P., 1989), mentre i programmi per bambini si concentrano essenzialmente nella prima mattinata e nella fascia oraria 16-18. Socio-paesaggi in un piccolo schermo: mamme, canzoni e gente “di una volta” La televisione generalista svolge il ruolo di vestale di una certa rappresentazione della coscienza collettiva di un paese (Wolton D., 1990). Di questa rappresentazione fanno parte alcune esplicite auto-definizioni del “noi” nazionale: “I giovani italiani sono mammoni, disoccupati e single per necessità”. Si dedicano numerosi al volontariato, ma sono i “meno” laureati d’Europa. “In compenso sono creativi” (TG2 Sera, 29/11/ 97). “Milioni d’italiani non amano la matematica, la geometria, amano l’improvvisazione”, afferma un noto scrittore commentando una corsa 103
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automobilistica (TG2 Sera, 26/10/97). Lo stesso Presidente della Repubblica, nel messaggio alla nazione del 31/12/98 ricorda agli spettatori che “gli italiani danno il meglio nell’impossibile”. Nel momento dedicato alla cucina nel corso della trasmissione Solletico (Rai 1, 9/7/97) si prepara il gaspacio. Dopo aver abbozzato qualche frase in uno spagnolo volutamente approssimativo, l’animatore ci informa che gaspacio e paella sono cibi spagnoli che “noi possiamo interpretare alla maniera nostra, come al solito con un po’ di originalità”. Secondo la pubblicità di una nota marca di spumante, poi, “gli italiani non sono secondi a nessuno”, stando alle immagini, almeno nel campo della seduzione (Rai, novembre 1997). L’Italia è la patria di “bellezze cresciute a spaghetti”, che non sanno spiegare, tanto è “naturale”, il segreto della loro intramontabile bellezza. A domanda esplicita, Sofia Loren risponde: “Che ne sacc’io!” (TG2 Sera, 1/11/97). Ancora il TG2 Sera (2/10/97) informa gli spettatori dell’istituzione dell’ennesimo “gratta e vinci”, questa volta abbinato alla festa della mamma “e non alla festa del papà, il papà non conta niente”. Un noto neuropsichiatra infantile, chiamato a commentare notizie di cronaca riguardanti episodi di abusi sessuali sui minori, per scongiurare questi pericoli suggerisce ai genitori la formula “amore, esempio, ascolto” ed aggiunge: “I genitori amano tutti i figli d’Italia. È un popolo dove i genitori amano i figli. Forse in tutto il mondo, ma specificatamente in Italia è palese” (TG2 Sera, novembre 1997). Ancora nel TG2 Sera del 29/11/97, subito dopo il servizio sui giovani italiani “mammoni, ma creativi”, scorrono le immagini del matrimonio Pivetti-Brambilla: l’attenzione è tutta concentrata sulle consuocere. In sovrimpressione leggiamo: “Emozioni di mamma”. La moglie del Primo Cittadino (Rai 2, 17/9/97) ogni domenica sera parte per Roma, dove lavora. Un’amica le chiede: “È proprio necessario che tu lavori?”. “Anche tu lavori, no?”. “Si”, risponde l’amica, ma io sono sola”. Più tardi la moglie confessa le proprie ansie al marito: “Non mi sento né una buona moglie, né una buona madre”, ma egli bonariamente la rincuora: “Io ti ammiro perché tieni al tuo lavoro malgrado tutto”. Intanto le donne dell’isola continuano a sostenere che si tratti di una “famiglia strana”: “La moglie deve fare la moglie!”. E una di loro: “Ma ora tutto è cambiato!”. Sul piano dei messaggi impliciti troviamo poi mamme di bambini rapiti e di presunti rapitori (TG2 Sera, 27/10/97) che lanciano appelli; madri/mogli castratrici di padri inetti ed uniche dispensatrici dei cibi giusti negli spot; mamme sciupate ed in vestaglia che si affannano a cucinare la pasta fuori orario per figli quarantenni che la ordinano quasi fossero a ristorante (Un prete tra noi, Rai 2, 29/11/97). I figli d’Italia rimangono 104
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dunque “mammoni” anche una volta cresciuti: nella pubblicità di un’elegante utilitaria, il protagonista si interroga circa le cose che contano oggi nella vita. “Le donne”, dice tra sé, mentre le immagini lo ritraggono intento in un walzer assieme ad un’attempata signora che lo guarda piena di amore. La scena si svolge tra sedie impagliate e tovaglie a quadretti in un’aia addobbata a festa. Tutto fa pensare che la donna sia sua madre (Canale 5, 14/6/97). Nello spot di una compagnia che produce cellulari, un bel giovane bruno in costume da bagno si allontana da una spiaggia mediterranea – seguito dagli sguardi adoranti ed un po’ delusi delle sue coetanee – per raggiungere un’affascinante signora di mezza età. I due partono su un’auto sportiva chiacchierando animatamente e lanciandosi sguardi languidi e pieni d’intesa. Scopriremo che la bella signora, l’unica donna cui il giovane dedichi delle attenzioni, altri non è che sua madre (Rai 1, estate 1997). I modelli di identità e relazione messi in scena negli spot pubblicitari ricoprono un interesse particolare nello studio degli “effetti sociali” prodotti dalla televisione: alcune ricerche (Kapferer J. N., 1985; Sultan J., Sartre J. P., 1988) dimostrano infatti che gli spettatori bambini, in particolare, risultano “molto più sensibili ai messaggi sull’ordine famigliare e sessuale che a quelli concernenti il prodotto reclamizzato. Di una pubblicità di pannolini”, pubblicità di cui pullulano le fasce orarie nelle quali vanno in onda i programmi per ragazzi, “un bambino ricorda le immagini di cura materna (la madre che si preoccupa del benessere del bambino) e non quelle concernenti le qualità del prodotto presentato. Le immagini pubblicitarie costituiscono uno strumento di socializzazione degli archetipi legati ai ruoli di genere” (Pasquier D., 1995, p. 13; Callari Galli M., ivi, p. 24; Callari Galli M., Colliva C., Pazzagli I., 1989). Se le immagini dei rapporti madre-figlio che risultano prevalenti nella televisione italiana tendono complessivamente ad essere coerenti alle auto-definizioni televisive concernenti il “mammismo” italiano – caratteristica attorno alla quale sono state imbastite teorie del tipo “morale e carattere nazionale” (Gambino A., 1998) – è importante ricordare la recente apparizione, in ambito pubblicitario, di immagini veicolanti modelli differenti: nello spot di una nota marca di prodotti per la prima infanzia vediamo (finalmente) un padre che si occupa della cura di un bebè mentre la madre lavora al computer. Altro item culturale massivamente presente nella televisione italiana è costituito dalle canzoni: tralasciando i numerosi programmi ad esse espressamente dedicati, si canta nei giochi a premi che su molte reti coprono la fascia oraria 18-20, si canta nelle trasmissioni sulla diaspora italiana (Italiani nel mondo, Canale 5; Carramba che sorpresa, Rai 1) ed in 105
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quelle di intrattenimento trasmesse in prima serata (Va ora in onda, Rai 1; Beato tra le donne, Canale 5). Cantano i concorrenti, mentre i presentatori avvicinano informalmente il microfono alle loro bocche; canta il giovane e piacente animatore bruno aggirandosi per lo studio seguito da uno stuolo di signore e signorine del pubblico (canta Mamma di Beniamino Gigli suscitando sorrisi e occhi lucidi nella sua “corte” e qualche brivido – dobbiamo ammetterlo – nella spettatrice avvertita che guarda la trasmissione con gli occhi dell’etnologa); cantano le coriste dell’orchestra per lanciare un nuovo gioco o per accompagnare, con un testo ed un’emozione di cui tutti gli spettatori hanno esperienza, le battute e le interazioni che si producono nel corso del programma. In questi contesti, la musica sembra fungere da collante identitario nazionale. Implicitamente si afferma in questo modo un “noi” le cui vite sono accomunate e scandite da quei brani, la conoscenza dei quali viene testata e fatta “ripassare” a concorrenti e spettatori attraverso giochi basati sull’associazione motivo-titolo-autore o sulla ricostruzione della sequenza del testo. Il denaro, importante co-protagonista di questi show, si vince nella misura in cui si conoscono le canzoni italiane. L’ascolto di questi programmi sembra assicurare la trasmissione di un repertorio musicale nazionale che copre gli ultimi trenta-cinquant’anni e che si arricchisce di elementi ad ogni stagione. È interessante notare come questi meccanismi si riproducano, su una scala temporale più compressa sul presente e più globalizzata, anche nelle trasmissioni espressamente dedicate all’infanzia: i giovanissimi concorrenti di Disney Club (Rai 1, sabato ore 15.30) si cimentano in una prova che consiste nel riconoscere tre brani musicali che vengono mandati in onda contemporaneamente. Chi sa farlo – ovvero chi segue da vicino le ultime novità delle hit-parade nazionali ed internazionali – ottiene punteggio. Più i ragazzini aderiscono alla cultura pop del loro tempo, più sono premiati. Ciò vale, seppur in modo meno sistematico, anche per la trasmissione Solletico (Rai 1, ore 15.45): nella puntata dell’8/1/99 il presentatore chiede ad un piccolo concorrente che telefona da casa quale sia la scheda telefonica più preziosa della sua collezione, dando così per scontato che il bambino collezioni schede telefoniche. Quanto alla concorrente seguente, gli spettatori vengono informati del fatto visibilmente entusiasmante – almeno stando agli occhi spalancati e sorridenti dell’animatrice – che “Francesca ogni pomeriggio si chiude in camera e balla le Spice Girls”. Se a questi elementi aggiungiamo l’utilizzo “rituale” di espressioni quali “sei un mito” (formula resa celebre da una canzone italiana di qualche anno fa), le lezioni televisive di danza hip-hop, i costumi di scena giovanilistico-edulcorati otteniamo l’immagine di una televisio106
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ne per bambini che spinge gli spettatori ad aderire a modelli identitari tendenzialmente univoci, preconfezionati e mutuati dalle mode: l’identità collettiva proposta ai bambini che seguono queste trasmissioni è fatta di musica commerciale ed abiti impersonali, di Disney e di McDonald (i cui spot punteggiano l’andamento del programma), di collezioni di carte telefoniche e di nozioni “in pillole”, di stucchevole amore per gli animali e stupefacente omogeneità “etnica” del “noi” rappresentato. Tra gli elementi che costituiscono la narrazione della comunità immaginata nazionale, vi sono poi gli oggetti e gli scenari che descrivono la quotidianità del “noi” (Anderson B., 1996). È interessante notare come, accanto ad ambientazioni decisamente credibili nella loro attualità ed “italianità” – le cucine da Mercatone o di design, le villette anni ’90 dei “nostri” hinterland, gli zainetti di plastica colorata degli scolari, gli onnipresenti “telefonini”, le camerette dei ragazzi con i poster dei loro beniamini di oggi – compaiano sullo stesso piano discorsivo elementi più datati e semi-scomparsi dalla vita quotidiana: fiaschi di vino con la base di paglia troneggiano sulle tavole delle cucine (Un medico in famiglia, Rai 1, 28/3/99) e dei salotti mentre trecce d’aglio penzolano dalle porte (Va ora in onda, Rai 1, 19/6/97); valige di cartone pressato compaiono negli sketch (Parodia Nazionale, Canale 5, 31/5/97) o contengono doni da recapitare a parenti emigrati in America cinquant’anni prima (Italiani nel mondo, Canale 5, 14/6/97); veli da messa e scialli neri sono indossati da donne che escono dalle chiese (Un prete tra noi, 27/11/97), dai VIP ripresi dalla troupe del telegiornale ai funerali, dalle ragazze al capezzale dei morti (Disokkupati, Rai 2, novembre 1997), nelle processioni di paese reinventate dai pubblicitari. Lo stesso scarto temporale caratterizza le rappresentazioni campagna/città: nonni in camicia a quadri che si aggirano indaffarati tra balle di fieno e carri dalle ruote di legno, aie pullulanti di animali, case da museo della civiltà contadina disseminate di rigogliose ceste di frutta e verdura, lenzuoli, tovaglie ed ancora camicie a quadri stesi su fili retti da bastoni di legno con l’estremità a forcella: nessun oggetto di plastica compare nelle campagne contemporanee descritte in questo spot che reclamizza candeggina. Nella partita di calcio tra gli olivi che costituisce lo scenario di uno spot che pubblicizza olio, i personaggi indossano improbabili abiti che stanno tra l’inizio del secolo e l’immediato dopoguerra pur giocando con un pallone iper-tecnologico. Nella processione sopra citata, messa in scena per reclamizzare attualissime scarpe da tennis, i personaggi richiamano quelli di una novella verghiana. È interessante notare come la diade campagna/città si confonda con quella presente/passato: l’Italia metropolitana dei telegiornali e dell’attualità sembra cercare un nostalgico ristoro in un “altrove” spazio-tem107
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porale costituito da un’improbabile Italia paesana, campagnola e indifferente al mutamento presentata dalla pubblicità e da alcuni sceneggiati televisivi. Il tema del paese avito emerge, ad esempio, nel trailer di Amarcord (Italia, 1974; Rai 2, 2/7/97): su immagini tratte dal film, una voce fuori campo recita: “Lontano, ma misteriosamente vicino, da qualche parte in una regione della memoria, per tutti noi c’è un piccolo paese dove vivono per sempre e per sempre possiamo ritrovare le cose importanti”. Tra gli sceneggiati ascrivibili a questo filone ricordiamo La voce del cuore (Canale 5, 15/6/97), in cui il cinquantenne protagonista abbandona vita cittadina e successi professionali per tornare al paese natio. Gli amici di un tempo, tutti in camicia a quadri, festeggiano l’evento al bar. Egli ritrova la casa avita, non più abitata, ma intatta: mobili di legno, caminetto, pentole di rame, centrini e tende di pizzo, sedie impagliate e vecchie foto, tra le quali quella che ritrae la fidanzata di allora con le trecce ed il fazzoletto legato dietro la nuca. La di lei figlia, adolescente nel presente narrativo, veste allo stesso modo. Il contrasto tra l’entourage cittadino e quello del paese è fortissimo: ricchezza e status symbol contro vita semplice e piacere delle piccole cose; una moglie dai capelli tinti, di nero vestita, con occhiali scuri e cellulare contro una ex-fidanzata acqua e sapone che indossa abiti a piccoli fiori; una figlia morta in un notturno incidente stradale contro una figlia che corre nei prati e cuoce il pane nel forno a legna. Come si può notare, assistiamo ad una sorta di pre-datazione dell’altrove presentato: gli oggetti, l’abbigliamento dei personaggi, il loro piccolo mondo “incontaminato” non trovano riscontro nella realtà temporale nella quale sono immersi i protagonisti. Ulteriore ed ultimo esempio di simili rappresentazioni televisive è costituito da uno spot che reclamizza cellulari. La scena si apre nel presente: il trentenne protagonista (nome ed età compaiono in sovrimpressione) beve un caffè al bancone di un bar. Flash-back sulla sua infanzia. Le immagini sono ora in bianco e nero. Il protagonista bambino, in calzoncini corti, camicia e gilet di lana è solo in casa. Panoramica sulle stanze arredate con mobili di legno e centrini e tende di pizzo. Suona il telefono, un vecchio telefono nero di bachelite. Il bambino risponde, poi si affaccia alla finestra per chiamare il padre che si trova nel dehors del bar sotto casa. Il genitore, in coppola, giacca sulle spalle e camicia a quadri – elemento che evidentemente, secondo pubblicitari e sceneggiatori, caratterizza passati e campagne nostrane – risponde all’appello. Ciò che colpisce in questo spot è la scelta di rappresentare un’infanzia anni ’70 attraverso immagini che richiamano piuttosto gli anni ’40-’50. Perché caratterizzare l’infanzia di un trentenne di oggi con 108
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elementi che fanno piuttosto riferimento a quella della generazione precedente? Le immagini e le narrazioni della nazione di cui abbiamo cercato di rendere conto ci inducono ad ipotizzare che la televisione generalista contribuisca alla longue durée di segmenti culturali ed icone identitarie sempre più evanescenti e caduchi sul piano delle creazioni culturali che prendono vita al di fuori del “virtuale” (Callari Galli M., ivi, p. 40). Le auto-definizioni televisive che propongono un’Italia delle mamme e delle canzoni – un’Italia paesana e neorealista di belle donne e seduttori, peraltro stranamente coincidente con alcune stereotipiche eso-definizioni del “noi” (Fabietti U., 1998) prodotte principalmente dagli “altri” europei – esistono oramai più dietro allo schermo che non davanti ad esso. È come se personaggi e modelli che progressivamente scompaiono dalla “vita vera” ricomparissero – riprendessero virtualmente corpo – nell’universo dell’immagine televisiva (Augé M., 1997), come se esistesse una circolazione da presepe barocco tra il mondo “al di qua” e il mondo “al di là” del video: curiosando tra i banconi degli artigiani di San Gregorio Armeno a Napoli, la commistione delle statuette dei santi, dei morti e dei personaggi politici maggiormente mediatizzati non può non colpire. Su di un piano più prettamente sociologico, a questo proposito è stata avanzata l’ipotesi secondo cui la televisione generalista tenderebbe a farsi carico della trasmissione culturale di norme e valori nella misura in cui le istituzioni sociali ad essa preposte tendono ad abdicare da tale ruolo (Mehl D., 1996). Le ambivalenze del “noi” Se mamme, canzoni e “gente di una volta” segnano con la loro massiva presenza immagini e testi televisivi, se norme, valori e relazioni “tradizionali” riemergono in modo più o meno esplicito tra le pieghe di un’apparentemente accettata moderna “confusione del vivere” aspirando al ruolo di modelli nei quali la nazione possa riconoscersi all’unisono, è interessante notare come questa “certa rappresentazione della coscienza collettiva del paese” sia, da un lato, fortemente orientata verso un “centro”, e dall’altro – così come accade per ogni “narrazione della nazione” (Bhabha H., 1997) – essa sia segnata da elementi di ambivalenza che mettono implicitamente in discussione l’unitarietà del “noi” cosa-sola che la nazione storicamente si vorrebbe. “Far l’amore da Trieste in giù” è senz’altro auspicato, tuttavia la televisione generalista italiana sembra non perdere occasione per ricordare 109
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agli spettatori la pertinenza delle appartenenze “di campanile”. Gli animatori dei giochi a premi per grandi e per piccini chiedono “ritualmente” ad ogni concorrente telefonico o realmente partecipante alla trasmissione di specificare la propria provenienza comunale o regionale: “Bruno, da dove chiami?”; “Sonia, da dove chiami?” (Game Boat, Rete 4, estate 1997). Nel corso dei programmi di intrattenimento, i dati raccolti in proposito vengono talvolta ossessivamente ripetuti fino a sostituire il nome del concorrente: “Il nostro boxeur napoletano”; “il prestante salernitano di ventotto anni”; “lo stile vicentino del nostro concorrente”; “È il momento di Napoli! (Beato tra le donne, Canale 5, ottobre 1997). Il “campanile” diviene spesso oggetto di battute ed (inconsapevole) pretesto per ripassare, insieme agli spettatori, specificità, inflessioni linguistiche e stereotipi locali: “Da dove vieni?”. “Da Rimini”. “Ah, mangiate la piadina!”. “Io veramente no”. “L’unico riminese che non mangia la piadina!” (In bocca al lupo, Rai 1, gennaio 1999); “Da dove chiami?”. “Da Bari”. “Eh, Beri” ripete il presentatore alzando la voce ed ammiccando verso il piccolo concorrente di Manfredonia presente in studio; “Vi pare che uno di Manfredonia disegni le castagne?!” (Disney Club, Rai 1, 9/1/99). Anche del caso delle trasmissioni sull’Italia diasporica si tende ad insistere sulle appartenenze locali: “Arturo sente la mancanza del suo Friuli e lo ama”; “Non mi dire che ti sei dimenticato Napoli! [...] Se i tuoi figli parlassero napoletano, al telefono ci capiremmo!” (Italiani nel mondo, Canale 5, 14/6/97). Le appartenenze regionali costituiscono una fonte inesauribile di stereotipica comicità: il vigile urbano zelante è bolognese, lo sboccato istruttore di fitness è toscano, lo scippatore e il manovale pigro sono meridionali (Va ora in onda, Rai 1, 19/6/97); l’esploratore “da operetta” rustico ed impacciato è sardo (Game Boat, 9/7/97); il teschio virtuale volante che anima la trasmissione Solletico cambia poi accento – e di conseguenza personaggio – ad ogni puntata. Come ultimo ed estremo esempio di questa tendenza “regionalista” da riportare in questa sede citiamo alcuni brani di un servizio del TG 2 Sera (novembre 1997) avente per oggetto un ballo delle debuttanti svoltosi a Genova: “[...] sono proprio loro il futuro della Liguria, anzi l’ultima spiaggia. Di liguri non ne nascono quasi più. Il loro indice di fecondità è dello 0.9, e a 0.8 c’è l’estinzione della razza. Che i liguri facciano tutto con parsimonia, anche la procreazione, è battuta banale [...]. Nel 2030 si troverà facilmente parcheggio, ma i quindici scolari dell’unica classe rimasta chiederebbero alla maestra: “Ma chi erano i Liguri?”. Dal TG 2 apprendiamo che gli abitanti di questa regione costituirebbero addirittura una “razza” a sé stante. L’ambivalenza della narrazione televisiva della nazione trova, a nostro 110
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parere, una propria apoteosi nelle immagini relative al Nord e al Sud del paese: se il primo risulta quasi “irrappresentabile” se non attraverso le istanze e le “imprese” dei movimenti leghisti, il secondo viene, da un lato, presentato come dark side caratterizzato da malavita, inefficienza, ignoranza e sottosviluppo, e dall’altro considerato come irrinunciabile “serbatoio” dell’identità nazionale cui attingere immagini pubblicitarie, riferimenti culturali e canzoni – seppur spesso sottotitolate se cantate in napoletano – in grado di riempire il contenitore del “noi” che più si avvicina all’Europa e più sembra temere di scoprirsi svuotato (Rossi C., 1999). Le rappresentazioni del “noi” cosa-sola non costituiscono, dunque, un insieme coerente ed omogeneo, e le immagini del “medesimo” e dell’“altro” non vanno sempre nella stessa direzione. “Il “luogo” della cultura nazionale non è unitario e coeso e non può essere semplicemente considerato come “altro” rispetto a ciò che esiste al di là o al di fuori di se stesso: la frontiera è bifronte ed il problema interno/esterno si trasforma in processo di ibridazione che incorpora nuova gente” (Bhabha H., 1997, p. 38) o etnicizza ed esotizza quella “vecchia”. Il centro del “noi” nazionale proposto dalla televisione generalista permane tendenzialmente quello di un’Italia “bianca” proiettata verso l’Europa. I margini – che si contrappongono al centro come figure dell’“altro” da sé – vengono identificati, da un lato, nel Sud arretrato, e tuttavia sorgente d’identità, e dall’altro negli immigrati, “altri” per eccellenza e tuttavia simbolo dell’ascesa economica di un paese che da terra di emigrazione si è trasformato in pochi decenni in terra di immigrazione. Il trattamento mediatico riservato ai cittadini stranieri provenienti “dai Sud” del mondo ben si presta ad illustrare l’idea proposta da Bhabha circa una frontiera discorsiva fluttuante che di volta in volta include ed esclude dal cuore della nazione determinati settori della popolazione: se nei telegiornali gli immigrati sono rappresentati per lo più come vittime conniventi dei conterranei “scafisti”, come clandestini o genericamente malavitosi – e comunque irrimediabilmente “altri” – nella versione televisiva della manifestazione anti-secessionista del 20/9/97 alcuni di essi sono accolti a pieno titolo nel “noi”: “Vi presento i Fratelli Senegalesi: l’Italia cresce unita!” dichiara la presentatrice. Se aspiriamo a diventare “una società libera e multirazziale” come da spot ministeriale sopracitato, nella fiction ci adoperiamo alacremente per rimpatriare ragazzini orfani giunti sulle coste italiane su di una zattera (i piccoli, del resto, si rivelano ben presto inclini a delinquere e nonostante ciò la municipalità dell’isola, nel suo buon cuore, accende per loro un programma di adozione, rigorosamente a distanza) (Primo cittadino, Rai 2, 17/9/97). Se includiamo gli “altri” nella narrazione della nazione in qualità di presentatori 111
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e personaggi comici, non mancheremo di canzonarne l’italiano imperfetto (Solletico, 4/1/99) né di sottolinearne l’inintelligibile e barbara lingua madre (Va ora in onda, Rai 1, 19/6/97). A questo proposito, va comunque ricordata l’eccezione costituita dalla trasmissione Quelli che il calcio... (Rai 3, domenica pomeriggio): essa sembra accettare la sfida di narrare, in tutta la sua polivalenza, una nazione di fatto sempre più eterogenea e cosmopolita avvalendosi di collaboratori autoctoni e stranieri, giovani ed anziani, professionisti del mezzo e neofiti. L’immagine del “noi” che ne risulta, credibile e rasserenante, costituisce a nostro parere una delle rare isole televisive accoglienti e dialogiche nell’oceano delle immagini che cercano e propongono quasi aggressivamente un “noi” omogeneo, patinato e passatista anche attraverso rappresentazioni di un “loro” a tutt’oggi ancorate a banchine etnocentriche. L’assenza e la “vampiricità” degli “altri” Per costruire e rappresentare l’identità del “noi” è infatti sempre necessario definire ed illustrare l’alterità del “loro”. Nessuna simbolizzazione ed istituzione del “medesimo” è realizzabile senza una simmetrica ed opposta operazione cognitiva ed emozionale compiuta sull’“altro” (Barth F., 1995; Poutignat Ph., Streiff-Fenart J., 1995). Ogni identità, per darsi come tale, necessita, seppur en creux, di un’alterità (Remotti F., 1996; Fabietti U., 1998; Augé M., 1995). Ed a colpire l’attenzione dello spettatore che cerca di analizzare le immagini dell’identità e delle differenze veicolate dalla televisione generalista italiana è proprio la tendenziale sotto-rappresentazione dell’“altro”. Tale orientamento si configura globalmente come assenza dell’“altro” in senso quantitativo: il carattere cosmopolita e métis della società in cui viviamo risulta ben più evidente nelle strade di piccoli e grandi centri urbani che non in quelle virtuali percorse quotidianamente dai telespettatori. È da rilevare, poi, un’assenza di tipo qualitativo: le immagini televisive dell’“altro” denotano a tutt’oggi una sua locazione marginale rispetto al “centro” della società narrato ed una posizione subalterna rispetto a quella occupata dal “noi-bianco”. Esempi eloquenti di questa seconda figura dell’assenza sono rintracciabili nel pomeriggio televisivo del 9/7/97: ne analizzeremo brevemente alcuni frammenti che rivelano come l’“irresponsabile flusso di immagini e sensazioni” (Bruno W. M., 1994, p. 19) costituito dai testi televisivi contemporanei trasformi i singoli programmi in una forma discorsiva unitaria dando luogo ad una sorta di potenziale “effetto cumulativo” dei contenuti veicolati generante significati inattesi. 112
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Immaginiamo dunque un giovanissimo telespettatore che “navighi” nel piccolo schermo munito di telecomando: nel primo pomeriggio, il programma-contenitore Solletico (Rai 1) propone una puntata di Boy meets world, commedia statunitense ambientata principalmente a scuola. In classe sono presenti alcuni alunni neri, ma nessuno di essi rientra nel novero dei compagni con cui il protagonista interagisce. Nel corso del telefilm, nessuno di essi pronuncia una battuta: la loro è una presenza costante, ma silenziosa, quasi uno sfondo visivo alle vicende dei vivaci e loquaci ragazzini bianchi. Poco dopo il telefilm, va in onda il trailer di Piccole Meraviglie, documentario riguardante una sperimentazione educativa nordamericana finalizzata a “trasformare l’odio delle strade in amore per la musica, amore per gli altri”: nelle immagini, un gruppo di bambini, questa volta in netta prevalenza “colored”, si cimenta in prove d’orchestra. Premendo i tasti del telecomando incappiamo nel serial di produzione statunitense Hai paura del buio? (Italia 1). La puntata di oggi, Storia dei vicini notturni, ha come protagonisti la preadolescente Emma e suo fratello minore. Dalla finestra della villetta situata nel quartiere residenziale in cui vivono, essi assistono all’arrivo dei nuovi vicini: madre, padre e figlio bruni, vestiti di nero, gentili in modo formale e di poche parole. “Saranno artisti o diplomatici stranieri? Forse sono in lutto! [...] Non saranno spie del Kgb che non sanno che l’Urss si è spaccata o zingari in cerca di una nuova patria?”, si chiedono i protagonisti per poi concludere che, in ogni caso, non si tratta di “gente normale”. Più tardi, i nuovi arrivati si recano a far visita al vicinato: nonostante provengano dall’Ucraina (“uno di quei paesi con le leggende e i castelli, come la Romania, la Bulgaria e la Transilvania”, spiega la ragazzina al fratello), il loro modo di parlare è curiosamente assai simile ad un eloquio da “bovero negro”. Emma intuisce che i vicini sono vampiri. Armata della strumentazione necessaria (aglio, croci e paletti di frassino), essa si introduce nella loro abitazione allo scopo di eliminarli: “Se non li ammazziamo prima noi, loro ci ammazzeranno!”. Alle porte di un mondo stanziale e wasp (nell’oscurità della cantina dei vicini Emma si spaventa alla vista della statua di un capo indiano) nomadi, individui simbolicamente neri, spie del nemico, gente “non normale”, migranti da paesi ricchi di tradizioni premono per entrare. Pubblicità. Tra telefoni cellulari, deodoranti e succhi di frutta compare uno spot che reclamizza vernice: un angelo immacolato dipinge di bianco un muro nero: “È una pittura così buona che copre tutte le magagne”. Lo zapping conduce infine ad un cartone animato di Topo Gigio (Ga113
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me Boat, Italia 1): nel cortile della scuola, una bambina arrivata da poco resta in disparte mentre i compagni giocano tra loro. Il topino la esorta ad unirsi agli altri, ma la fanciulla declina l’invito: “Sono figlia di un girovago ...”, confessa imbarazzata. “Oh!”, geme Topo Gigio abbassando lo sguardo come chi si rende conto di aver posto una domanda inopportuna. Le immagini dell’alterità offerte ai piccoli telespettatori nel corso di questo pomeriggio televisivo possono essere così riassunte: gli “altri” non hanno la parola; gli “altri” costituiscono i margini “a rischio” della società; gli “altri” sono vampiri che intendono nutrirsi di “noi”; l’alterità è difetto: ciò che è nero va “imbiancato”; l’“altro” risulta imbarazzante anche se “visto da sé”. Tali rappresentazioni costituiscono purtroppo un esempio significativo della “riduzione” dell’“altro” spesso operata dalla televisione generalista: tranne rare eccezioni, infatti, anche nelle fasce orarie televisive espressamente dedicate all’infanzia gli “altri” risultano a tutt’oggi costretti nei paradigmi di un immaginario che sembra non riuscire ad affrancarsi da visioni evoluzioniste e coloniali che descrivono il mondo in termini di centro e margini. I neri, ad esempio, continuano ad essere “narrati” essenzialmente sulla base di vetusti stereotipi: essi compaiono come corpi atletici o come silenti e pittoresche figurine che aggiungono colore ai paesaggi esotici negli spot, come musicisti, cantanti e virtuosi della danza che non celano la propria “naturale” sensualità (Hooks B., 1998) nei video-clip, come sottoposti e come figure di sfondo prive di parola nella fiction. Nell’universo simbolico del piccolo schermo, neri ed altri “altri” rarissimamente rivestono ruoli attivi e propositivi in grado di suscitare nei giovani telespettatori processi di identificazione empatica. Tale orientamento è confermato dal fatto che persino le narrazioni incentrate sull’alterità del protagonista, nella loro attuale versione televisiva perdono questa caratteristica: nel cartone animato Sandokan (Rai 1, ore 7.30), l’eroe salgariano ed il suo mondo – concepiti sul piano letterario all’insegna di uno “straniamento” certo esotista (Faeti A., 1972, p. 131), ma efficace quanto all’evocazione di un “altrove” in cui non solo gli occidentali parlano ed agiscono – risultano infatti “imbiancati”. La Tigre della Malesia viene rappresentata come un giovanotto imberbe dalla pelle chiarissima e dai lineamenti del tutto simili a quelli dell’europea Marianna. Il linguaggio utilizzato, le descrizioni dell’abbigliamento dei personaggi e degli spazi in cui essi si muovono – studiati e curati da Salgari per suscitare “quel senso di attesa, quel desiderio di saperne di più” (Faeti A., 1972, p. 134) – nel cartone animato risultano “addomesticati” in una narrazione che siamo tentati di definire insipida sul piano dell’immaginario ed insi114
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diosamente etnocentrica su quello dell’analisi culturale: nemmeno attraverso Sandokan il piccolo schermo riesce infatti a riunire le caratteristiche di “eroe” e di “altro” in una sola individualità. Infine, se l’autore de Le Tigri di Mompracem a modo suo si dedicava alacremente alla ricerca di un linguaggio adatto a rendere conto dell’alterità, la televisione generalista ci appare a questo proposito molto distratta: termini che le scienze biologiche e sociali hanno dimostrato obsoleti e fortemente connotati in senso politico quali “razza” ed i suoi aggettivi derivati continuano, infatti, ad essere utilizzati o sottintesi nell’universo del piccolo schermo. Alla società “multirazziale” ed alla “razza ligure” sopracitate, possiamo aggiungere, a guisa di ulteriori e purtroppo non esaustivi esempi, altri due frammenti televisivi: Topo Gigio si nasconde nella cartella della sua padroncina svelando la propria presenza durante una lezione. La bambina lo ammonisce: “Ti avevo detto che non dovevi venire a scuola!”. La bestiola risponde: “Questa è discriminazione razziale bella e buona! Anche io ho diritto allo studio” (Game Boat, 9/7/97). In occasione dell’appuntamento settimanale dedicato agli animali domestici, due ospiti adulti della trasmissione Solletico (4/1/99) presentano ai giovani spettatori un cane in cerca di padrone: “Betty è un meticcio tipo pastore”. L’analogia implicita e discorsiva tra animali ed “altri” umani che in questo modo si produce rischia di sommarsi alle figure dell’assenza che abbiamo sinora cercato di descrivere contribuendo potenzialmente alla creazione ed alla riproduzione di un immaginario etnocentrico e razzista. Il “noi” televisivo permane dunque nel complesso legato all’immagine obsoleta – eppure tragicamente attuale – di un mondo diviso tra centro civile e periferie da “addomesticare” (Chambers I., 1996), tra “noi” e “loro”, tra occidente leader e bianco e resto del pianeta gregario e policromo. Simili rappresentazioni – unite ad altre che tendono a veicolare soltanto gli aspetti superficiali e banalmente omologanti della globalizzazione trascurandone i lati universalizzanti, ovvero la crescente consapevolezza che il “noi”, per un futuro che non condanni le giovani generazioni alla violenza, è chiamato ad assumere dimensioni planetarie (Callari Galli M., 1996) – ci appaiono inoperative ed anzi pericolose proprio nella misura in cui esse sono rivolte ad una audience di giovanissimi individui che vivono la propria infanzia e che vivranno come adulti in contesti sociali che si annunciano sempre più interconnessi, cosmopoliti e métis. La comunità che potremmo aiutare le nuove generazioni ad immaginare (Anderson B., 1996) attraverso il mezzo televisivo dovrebbe, a nostro parere, proporre narrazioni maggiormente dialogiche adoperandosi 115
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per dare la parola a tutti, problematizzando – invece che trasmettere – stereotipi e pregiudizi, fornendo modelli di identificazione molteplici e decentrati rispetto alla norma dell’eroe, del protagonista, del narratore occidentale e bianco.
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