I beni culturali demoetnoantropologici 8843038648, 9788843038640

I beni demoetnoantropologici sono stati di recente riconosciuti come parte del patrimonio culturale italiano. La loro sp

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I beni culturali demoetnoantropologici
 8843038648, 9788843038640

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ANTROPOLOG lA

r ri stam pa, maggio 2015 la edizion e, gi ugno 2006 © copyright 2006 by Ca rocci ed ito re S.p.A., Roma ISBN

978-88-430-3864-0

Ri pro d uzione vietata ai sensi d i legge (art. 171 d ella legge 22 a p rile 1941, n. 633) Senza regolare a utorizzazi o n e, è vietato ri prod u rre q uesto vol u m e a nche parzialm ente e c o n q u alsiasi mezzo, com presa la fotocopia, a nche per uso i nte rno o d id attico. l letto ri che desidera n o i nformazi o n i s u i vol u m i p u b bli cati d alla c a s a editri ce posso no rivolge rsi d i rettame nte a: Ca rocci ed ito re Corso Vittorio E m a n u ele 11, 229 oot86 Roma tel 06 42 81 84 17 fax 06 42 74 79 31

Siamo su: http://www.carocci.it http://www.facebook.com/caroccieditore http://www.twitter.com/carocciedi tore

Gian Luigi Bravo

Roberta Tucci

l beni culturali demoetnoantropologici

Carocci editore

I due autori hanno elaborato in comune il progetto e l' articolazio­ ne del testo, del quale condividono la responsabilità. Quanto alla stesura, a Gian Luigi Bravo vanno attribuiti i capitoli 1, 3 e 6, a Roberta Tucci i capitoli 2, 4 e 5·

Indice Prem essa

7

1.

Il patrim o nio de m oetn oa ntropologico

1.1.

Beni culturali e cultura

1.2.

La formazione dei beni demoetnoantropologici

1.3.

La rivitalizzazione delle tradizioni popolari

1.4.

Conclusioni

9

9 13

17

24

Per riassumere...

27

2.

Be ni mate riali e im m ate riali: te rritorio, rileva m e nto, docum entaz ione 29

2.1.

Rilevamento sul terreno dei beni materiali

2.2.

Rilevamento sul terreno dei beni immateriali 35

2.3.

Beni etnomusicali

40

2.4. Archivi sonori e audiovisivi Per riassumere...

29

44

49

3.

Be ni m ate ri ali e im m ate riali: feste, m u sei

3.1.

Beni materiali e immateriali

3.2.

Feste

3-3·

Musei, ecomusei

3-4·

Conclusioni

51

51

53 57

67

Per riassumere...

69

4.

Istituzio ni e legislazio ni

4.1.

Lo Stato

71

71

5

4.2.

Le Regioni e gli enti locali

4.3.

Le organizzazioni internazionali

4.4. Le organizzazioni italiane Per riassumere...

5.

Catalogazio n e

78

83

86

88

89

5.1.

Specificità demoetnoantropologiche

5.2.

Le schede FK

5.3.

Le schede BDM e BDI

5.4. Le schede s.s.

FPF

91

92 93

e AMRP

102

Altre esperienze catalografiche Per riassumere...

104

105

6.

Ricerca sci entifica e fo rmazione

6.1.

La ricerca scientifica

6.2.

La formazione

110

Per riassumere...

Bibliografia

6

120

122

106

106

Premessa Il campo dei beni culturali demoetnoantropologici è oggi in espan­ sione, fornisce stimoli per la ricerca e per la valorizzazione e al tempo stesso può offrire interessanti occasioni di lavoro . Tra il patrimonio delle collezioni concernenti popolazioni extraeuropee e quello che attinge alla tradizione popolare è il secondo che si caratterizza per sviluppo e dinamicità e registra un 'ampia iniziati­ va di valorizzazione da parte di attori sociali locali. In questa pro­ spettiva i beni culturali, ampiamente diffusi sul territorio, tendono a configurarsi come una risorsa per la sua crescita. Infine, essi pon­ gono problemi inediti di catalogazione e di tutela anche a motivo della crescente acquisizione di quelli immateriali. Nel patrimonio di origine popolare si manifestano elementi di continuità e al tempo stesso fenomeni di innovazione; quest'ultima non va con­ trapposta alla tradizione ma è piuttosto la modalità in cui non pochi suoi lasciti oggi vengono presentati. È un quadro comples­ so, per affrontare il quale sono necessarie solide competenze etna­ antropologiche e catalografiche, ma al tempo stesso la disponibili­ tà a confrontarsi con le comunità locali e i loro intellettuali. Nel volume si è inteso proporre una formazione organica, tenen­ do conto, in concreto, delle opportunità di lavoro e della varietà di ruoli in cui opereranno gli esperti nel settore. Si sono forniti così: fondamenti teorici in campo antropologico, mirati alla tematica del patrimonio e corredati di riferimenti a materiali e m pirici e alle iniziative di riproposta e promozione; indicazioni e istruzioni par­ ticolareggiate sui metodi e tecniche per la rilevazione e la cataloga­ zione; notizie sulle principali sedi istituzionali attive nel settore del patrimonio e sui più importanti archivi; un quadro delle opportu­ nità di formazione a livello universitario. Infine si è voluto tra­ smettere un atteggiamento duttile e creativo quale è necessario nei confronti di una problematica tuttora in elaborazione. Vari colleghi hanno offerto il loro contributo di discussione e con­ sulenza, reperimento di documen razione e lettura cri tica dei testi. 7

Si tratta di : Giulio Angioni, Mario Atzori, Laura Banato, Alberto Borghini, Antonino Buttitta, Pietro Clemente, Enrico Ercole, Giulia Fassio, Piercarlo Grimaldi, Maria Teresa Mara Francese, Mariagrazia Margarita, Antonello Ricci, Luigi Ruggiu, Luigi M. Lombardi Satriani, Tullio Seppilli. Va a essi il nostro più sentito e cordiale ringraziamento .

8

1.

Il patrimonio demoetnoantropologico

1.1. Be n i culturali e cultura I beni culturali demoetnoantro­ pologici possono essere considerati un sottoinsieme di quel sistema composito che chiamiamo " cultura" . Nel campo delle scienze antropologiche si tratta di un concetto molto importante che, nel corso dei decenni, è stato sottoposto a più analisi e revisioni criti­ che. Ai nostri fini, tuttavia, possiamo accettare e ritenere utile una delle prime definizioni di " cultura" e certamente la più no ta; essa risale al 1871 ed è dovuta a uno dei padri fondatori, Edward Burnett Tylor, che nel testo Primitive Culture così la formula: «La cultura o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico , è quel­ l'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume, e qualsiasi altra capacità e abitudi­ ne acquisita dall'uomo come membro di una società» (citato da Fabietti, Remotti, 1997, s.v. Cultura) . Lo stacco è netto : la cultura non corrisponde più all'istruzione, all'erudizione, alla conoscenza delle grandi tradizioni letterarie e figurative dell'Occidente, perde la connotazione elitaria, non riman­ da alla distinzione tra colti e incolti e non è un fatto che concerne l'individuo isolato. In senso antropologico sono " cultura" tutte le conoscenze, credenze, modelli di comportamento e prodotti di un gruppo umano, e di tutti questi è portatore ed elaboratore l'uomo, ogni uomo, in quanto a tale gruppo appartiene. Ne consegue anche che sono caratterizzate da cultura e creatrici di cultura tutte le società umane in quanto tali, siano esse ampie o ristrette, dota­ te o meno di scrittura e fornite di apparati tecnologici più o meno elaborati. Infine, in quanto " capacità e abitudine acquisita", la cul­ tura è oggetto di trasmissione da una generazione a quella succes­ siva, è dunque tradizione. Precisiamo che la cultura in quest'accezione comprende anche i manufatti, la varietà di oggetti, i prodotti materiali dell'attività di 9

questi uomini in società, svolta secondo i saperi, le tecniche e le credenze che tale società caratterizzano; come risulta da più defi­ nizioni tra le quasi duecento elencate e analizzate in un'opera non recente e ormai classica dedicata da due antropologi statunitensi proprio a Il concetto di cultura (Kluckhohn, Kroeber, 1972) . Infine è importante chiarire che gli studiosi e i ricercatori che hanno operato nel campo delle scienze antropologiche, variamente defini­ ti come antropologi culturali o sociali, etnologi, etnografi, demolo­ gi, fokloristi, non si sono occupati di ogni cultura. La loro tradizio­ ne disciplinare ha sostanzialmente privilegiato due tipi di culture: quelle dei popoli extraeuropei non provvisti di scrittura, gruppi umani un tempo variamente definiti " primitivi " , " selvaggi " o " di natura" , e quelle delle comunità, soprattutto rurali, solo scarsamen­ te o per nulla alfabetizzate e istruite, delle popolazioni europee. L'insieme dei beni culturali demoetnoantropologici (d'ora in avan­ ti D EA ) del nostro paese si costituisce attingendo sostanzialmente a questi due tipi di bacini culturali . Appare utile delimitarli più ade­ guatamente; iniziamo dal secondo che, in ambito D EA, è quello che ha oggi maggior peso quanto a diffusione sul territorio e a inter­ venti di riproposta e valorizzazione. Per meglio circoscriverlo dob­ biamo fare riferimento alle strutture sociali e alle differenziazioni culturali di società come la nostra, spesso definite " complesse " . Si tratta in effetti di società caratterizzate da marcate differenze di red­ dito, di potere e di prestigio, di stili di vita e di consumo, di acces­ so all'istruzione formale, e da un'ampia varietà di figure professio­ nali e di ruoli funzionali . Assai spesso queste differenze sono state ricondotte all'articolazione della società in classi sociali: pur nel contesto di un'unica società e di un quadro culturale e linguistico più o meno condiviso, ognuna di queste classi sarebbe provvista di un suo specifico sottoinsieme culturale, trasmesso al suo interno e in comunicazione solo parziale con i sottoinsiemi delle altre classi . Di questi, il campo demoetnoantropologico comprende dunque le culture delle classi popolari, con una forte componente di oralità, un campo spesso indicato negli studi con i termini di " folklore" , " tradizioni popolari " , " cultura popolare" . lO

Questa impostazione è stata ampiamente elaborata nel nostro paese a partire dagli anni sessanta del secolo scorso ; sviluppando alcune osservazioni di Antonio Gramsci sul folklore, pubblicate nei Quaderni del carcere (vedi in particolare Quaderno 27) , Alberto Mario Cirese ridefinisce il folkore come la cultura - ovviamente in senso antropologico - delle classi strumentali e subalterne, quelle cioè che sono caratterizzate da una specifica condizione socioeco­ nomica, sostanzialmente il lavoro manuale ed esecutivo, e che sul piano politico e più in generale culturale hanno assai più ridotto accesso agli strumenti del potere e subiscono l'egemonia delle clas­ si dominanti, dei loro intellettuali e dei valori e modelli di com­ portamento che essi trasmettono loro. In questo quadro teorico le cosiddette " tradizioni popolari " vengono ricondotte a quelli che Cirese definisce i «dislivelli interni di cultura» delle società com­ plesse. E nel nostro paese le classi strumentali e subalterne coinci­ devano con quelle rurali, cioè con il mondo agropastorale, e poi con la classe operaia (Cirese, 1973, capp. Q II e I I I ; 1976, pp. 65 ss.) . Al momento attuale manca un flusso consistente di aggiornate ricerche antropologiche e sociologiche, e di elaborazioni teoriche, su classi sociali così concepite. Gli operai, dopo la crescita nume­ rica che li porta, nel 1971, a un terzo circa degli occupati, e alla metà del totale considerando anche gli altri salariati, si sono oggi attestati sopra i 5 milioni, un quarto circa, e sopra i 7 milioni con il resto dei salariati . Ma oltre al calo numerico e percentuale è significativa un 'altra circostanza: i fenomeni che, negli anni ses­ santa e settanta del secolo scorso, potevano essere letti come ela­ borazione culturale degli operai e il crescente peso politico delle loro organizzazioni storiche, sindacati e partiti, hanno subito una netta battuta d'arresto, mentre calava l'attenzione e l'interesse tra l'opinione pubblica e da parte dei media. Quanto al mondo agro­ pastorale che, al momento dell'unificazione del paese, forniva sostentamento e reddito ai quattro quinti della popolazione, ha subito un vero e proprio dissanguamento: oggi la quota dei conta­ dini sugli occupati è scesa ormai sotto il 5 per cento (Bravo, 2001a, pp. 68, 90 ss. , 117 ss. ) . 11

Nonostante il peso che hanno avuto nelle scienze antropologiche i tali an e le elaborazioni sulla linea delle osservazioni gramsciane, va detto che gli studiosi delle tradizioni popolari (spesso chiamati in Italia " demologi " o " demoantropologi ") non risultano però esser­ si dedicati a entrambe le classi subalterne di maggior peso. Mentre i lavori sulla classe operaia sono sporadici, anche se contano alcu­ ne importanti ricerche sul canto e utili raccolte di biografie, i ricer­ catori hanno continuato a procedere, in pratica, secondo le tradi­ zioni disciplinari precedentemente acquisite, occupandosi princi­ palmente del mondo agropastorale e secondariamente di pescato­ ri, artigiani e altre figure del lavoro preindustriale. Erano dunque riferite a questo mondo le conoscenze che venivano elaborate e il materiale che era raccolto. E mentre il paese via via si industrializzava e si urbanizzava, le campagne perdevano addetti e le comunità rurali si trasformavano o si depauperavano , i demolo­ gi concentravano il loro interesse soprattutto sugli aspetti di cultu­ ra antecedenti a quei processi, meno uniformati in un quadro nazionale e più localmente differenziati, talora più arcaici. L'effetto di tutto ciò, e concretamente anche della progressiva e drastica riduzione di contadini, artigiani preindustriali e altre figure consi­ mili, è che i ricercatori hanno elaborato conoscenze sostanzial­ mente rivolte al passato, anche con un certo orientamento per quanto apparisse tipicamente locale. Risultavano quindi così con­ figurati i sottoinsiemi di cultura che erano documentati e resi di­ sponibili per costituirne dei beni culturali. Per converso continua­ no a rimanere scarsi i lavori sia sugli operai, ieri e oggi, sia sulle altre classi subalterne nel presente, compresi i contadini produtti­ vamente inseriti nel contesto attuale (cfr. PAR. 6.1). Il secondo bacino culturale da cui si costituiscono i beni D EA riguar­ da invece gli oggetti raccolti durante viaggi, esplorazioni, ricerche etnografiche e missioni negli altri continenti. Questi oggetti sono conservati in un numero ristretto di collezioni meno diffuse nel paese e tra queste ne abbiamo una centrale e importante a Roma, il Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini. Si tratta nel complesso di acconciature, armi, strumenti di lavoro, maschere e 12

una vasta gamma di reperti, tra i quali le sculture e gli intagli, che vengono in alcune esposizioni ricondotti alla produzione artistica in senso occidentale moderno, qualunque ne fosse la destinazione ori­ ginaria, magico-religiosa, votiva, rituale, politica o altro. 1.2. La fo rmazio n e dei be n i de m oetn oa ntropologici Ve­ diamo come ha luogo la costituzione del patrimonio dei beni D EA. Iniziamo da quelli attinenti alla cultura delle classi subalterne del nostro paese - già abbiamo detto che il riferimento empirico è in larga parte alle comunità rurali -; per questa cultura useremo an­ che il termine di " tradizione popolare " . Trattare di beni culturali, della delimitazione del loro sottoinsieme a partire da un insieme che è una cultura, implica immediatamen­ te il riferimento ad attività di conservazione e tutela. Ma per i beni D EA di tradizione popolare si pone con forza un problema preli­ minare che è quello del loro riconoscimento, della loro individua­ zione entro il complesso dei tratti di cultura. In effetti per questi beni, sul piano delle definizioni ufficiali - che pure hanno via via visto crescere una sensibilità, certo ancora limitata - disponiamo solo di elencazioni generiche, come appare anche dal recente Codi­ ce dei beni culturali e del paesaggio del ministero per i Beni e le Attività culturali ( M I BAC ) del 2004 (Cammelli, 2004) (sull'attività del ministero vedi il paragrafo 4. 1) . Una genericità burocratica nell'elencazione si manifesta anche in rapporto al campo più ampio del patrimonio non D EA. Qui però il riferimento implicito è a una tradizione colta e di élite e a disci­ pline ben consolidate, a valori estetici e storici, civili e di identità nazionale, ampiamente condivisi, a ben noti e riconosciuti " ogget­ ti " , prodotti figurativi e architettonici, centri storici, reperti e si ti archeologici : si attribuisce inoltre importanza, per molti beni, all'antichità e ovviamente, quando è possibile, all'identità e alla fama dell'autore, anche quest'ultima in genere fuori discussione. Comunque tale campo possa ulteriormente evolversi e ampliarsi, è innegabile questa base di largo e indiscusso consenso che rende l'individuazione di massima dei beni quasi un fatto scontato. 13

Per quanto concerne il settore D EA queste premesse valgono molto meno. La cultura delle classi subalterne è diventata assai più di recente un settore di ricerca e di studio, è stata a lungo ignorata o considerata oggetto di condiscendente e divertita curiosità dagli esponenti delle classi colte. Ricostruirne poi le origini e tracciarne le vicende è un problema di notevole complessità: ci sono , è vero, dei casi di oggetti materiali per i quali è recuperabile una datazio­ ne più o meno precisa, e di vari elementi non materiali è possibile trovare tracce seri tte in testi della produzione letteraria colta, negli Atti dei Concili e Sinodi ecclesiastici, nei documenti relativi ai processi per stregoneria e in altra documentazione consimile, ma si tratta pur sempre di notazioni casuali e mirate ad altri intenti . È solo a partire dal XIX secolo che possiamo parlare di raccolte e ricerche più esplicitamente e organicamente dedicate allo studio della tradizione popolare . Ma questa, in quanto caratterizzata dalla trasmissione orale, non possiede memorie esterne, non ha prodot­ to archivi, biblioteche, musei o gallerie d'arte, non ha sistemi for­ mativi istituzionalizzati; soprattutto è priva di intellettuali specia­ lizzati nella registrazione scritta, nell'elaborazione e nella trasmis­ sione di cronologie, genealogie ed eventi, filosofie e teologie, miti, scienza o morale. Quanto viene dagli studiosi riferito al passato, anche negli aspetti ritenuti arcaici, è in fin dei conti quello che il ricercatore riesce a evocare dalla memoria a lui contemporanea dei membri di quelle classi, sebbene integrato dal lavoro sulle fonti disponibili; è quindi essenzialmente il passato della memoria. In­ fine la tradizione popolare non è atta a mantenere tracce di appor­ ti singoli ben individuati, i suoi elementi sono diffusi, condivisi, e risultano di trasmissione e di elaborazione prevalentemente comu­ nitaria o familiare. Quanto a considerazioni sui valori civili, storici e identitari delle tradizioni popolari, va detto che nel periodo risorgimentale e sotto l'influenza del pensiero romantico soprattutto la poesia popolare è stata considerata testimonianza e veicolo di un messaggio di spon­ taneità e di genuinità, di virtù identitarie, prodotto dell"' anima" di un popolo . Successivamente, con l'affermarsi, nella seconda metà 14

del Novecento, delle osservazioni gramsciane sul folklore e delle elaborazioni che da esse prendono le mosse, questa " cultura delle classi subalterne" viene nuovamente ad acquisire una dimensione valoriale: essa si configura come un contributo alla creazione di una nuova coscienza sociale e concezione del mondo, come " cul­ tura di contestazione " e di contrapposizione alla logica dominante del profitto, in ultima analisi come componente e strumento della lotta di classe. Queste posizioni, energicamente sostenute, hanno trovato momenti di notevole attenzione e diffusione, ma non appaiono attualmente in primo piano (Cirese, 1973, in particolare parte Q e 1976; Lombardi Satriani, 1973, 1974) . In questa situazione quelle che si sono affermate e sono state rece­ pite sono sostanzialmente le acquisizioni della ricerca demoetnoan­ tropologica. E in effetti è di qui che parte il primo grosso impegno di elaborazione di schede di catalogo presso l'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione, nella seconda metà degli anni set­ tanta, a opera di demoantropologi ed etnomusicologi, la nota serie FK ( PAR. 5.2). Su questa stessa base si fondano le collezioni del Museo nazionale di arti e tradizioni popolari di Roma, create con materiali raccolti agli inizi del Novecento ( PAR. 4.1). Va anche detto che il Museo, il quale non a caso esplicita nella sua denomi­ nazione un termine, " arti " , che configura un settore di attività in senso proprio estraneo alla tradizione popolare, rispecchia nella sua originaria impostazione una concezione del popolo che ne pro­ muove un'immagine da idillio pastorale - e nello stesso spirito all'atto della raccolta dei materiali che poi vi confluirono si rifiuta­ rono, per il settore abbigliamento, i tristi vestiti quotidiani e da lavoro e si privilegiarono i costumi festivi e " belli " all'occhio del­ l' osservatore colto. In tal modo, accanto alla selezione dei beni cul­ turali D EA che si rifà più o meno esplicitamente alle cons uetudini della scienza demoantropologica, interviene una scelta di carattere ideologico; permane a lungo un 'immagine del " bello " popolare, intrisa di implicito evoluzionismo , che lo vede come primitivo, semplice e schietto, ma che risponde in ultima analisi a una cate­ goria del gusto borghese, e una concezione delle classi subalterne 15

come un pittoresco insieme di varianti locali in un armonico con­ testo nazionale. Si realizza così un distanziamento dell'immagine del popolo, racchiuso nelle bacheche di un mondo senza tempo né problemi, senza miseria né ribellione, qui cristallizzato a futura memoria come produttore immutabile di ingenua bellezza e di curiosità. Un discorso in certa misura analogo può essere fatto per le colle­ zioni dei musei che conservano reperti provenienti da popoli di altri continenti. Anche qui i criteri di scelta sono gli interessi degli etno­ grafi e le loro linee di ricerca, ma anche il loro gusto, e, quando non sono essi i raccoglitori, le curiosità e le predilezioni estetiche di viag­ giatori, missionari e altri ancora; un posto importante risultano occupare gli oggetti di rilevanza simbolica e magico-religiosa, o, come abbiamo detto, quelli che vengono ricondotti a una dimen­ sione estetica o artistica, ancora una volta, come per le testimo­ nianze materiali di tradizione popolare, in riferimento a una cate­ goria di " arte " che è occidentale e colta. E nuovamente, con i reper­ ti messi in mostra nelle bacheche dei musei, i popoli extraeuropei sono sequestrati in una dimensione lontana e poco connessa con la loro e la nostra storia, poco problematica. Le testimonianze mate­ riali schedate e conservate nei grandi musei rappresentano sostan­ zialmente un patrimonio stabile, conservato ed esposto. Ciò non significa tuttavia che si tratti di un settore statico, è diventata ormai frequente la progettazione e l'organizzazione di mostre temati che, come pure di percorsi didattici con gli alunni delle scuole. Si apre anche qualche nuova istituzione come il Museo degli sguardi ­ Raccolte etnografiche di Rimini inaugurato il 17 dicembre 200 5 ; questo, sotto l a direzione scientifica del noto antropologo francese Mare Augé, colloca e valorizza in nuovi allestimenti i reperti di varie raccolte dovute a viaggiatori e collezionisti e provenienti da Africa, America, Asia e Oceania. Quello dei beni culturali di tradizione popolare è chiaramente un patrimonio in espansione. Ciò vale per la diffusione territoriale, con la crescita esponenziale di musei locali, di iniziative, di feste, di mostre e di eventi che si rifanno ad aspetti della storia e della 16

tradizione comunitaria, come pure per la sempre maggior impor­ tanza assun ta dai beni D EA immateriali. Tutto questo si riflette sui procedimenti canonici della cataloga­ zione e della tutela. Come affrontare la schedatura di testimonian­ ze materiali molto numerose, disperse nel territorio o in una miria­ de di musei locali, non di rado simili, ripetitive e non identificabi­ li come singole, specifiche opere di pregio ? Come procedere per i beni immateriali, come e quando schedare una festa o i prodotti dell'immaginario ? Come tutelare e difendere un patrimonio diffu­ so, e soprattutto la sua parte immateriale, in particolare feste o ceri­ monie tuttora in uso ? Di contro al moltiplicarsi dei beni, che in vaste zone paiono quasi coincidere con il territorio e la sua storia, come proporsi una catalogazione e con quali criteri di selezione ? 1.3 . La rivitalizzazi o n e delle tradizi o n i popola ri Si tratta di questioni complesse, oggi in discussione, e non è agevole e forse neanche utile proporsi di giungere a risposte e soluzioni categori­ che e conclusive. I problemi sollevati sono però importanti, gli interventi e le ricerche nel settore comunque procedono e impli­ cano dunque decisioni per lo meno parziali; è quindi opportuno cercare di ricostruire e analizzare aspetti e processi significativi che possano contribuire a una visione più chiara e articolata della situa­ zione e dei suoi sviluppi. Prendiamo dunque in esame l'interessante fenomeno della rivita­ lizzazione delle tradizioni popolari e locali, o folk revival. In un primo momento, tra gli anni sessanta e settanta del Novecento, oggetto privilegiato è soprattutto il canto popolare; qui siamo di fronte a intellettuali impegnati, ricercatori, etnom usicologi, che operano in polemica con la musica leggera corrente e interpretano sostanzialmente quella di tradizione popolare come una cultura di classe, autonoma e antagonista, da riscoprire e da diffondere tra le masse popolari (vedi PAR. 2.3.1). Ma il vero e proprio avvio della rivitalizzazione ha altri protagoni­ sti, la cui attività ha effetti importanti ed è destinata a durare nel tempo . Siamo al Nord, a partire dall'ultimo quarto del Novecento, 17

anche se i primordi possono essere ricondotti alla seconda metà degli anni sessanta. Questi protagonisti sono ora membri attivi delle com unità locali e la loro presenza è molto diffusa sul terri to­ rio; può trattarsi di lavoratori dipendenti, talora studenti o conta­ dini. Sono quelli che vorremmo definire, con riferimento alle con­ cezioni gramsciane, " intellettuali " locali, in quanto organizzatori di cultura e suoi diffusori. Il loro ventaglio di interessi presenta una certa varietà, aprendosi anche al canto popolare, ma il posto cen­ trale è occupato certamente dalla festa tradizionale. L'esame di sin­ goli casi e dello sviluppo di questo movimento di riproposta ci aiu­ terà a chiarirne meglio le peculiarità. Il Gruppo spontaneo di Magliano Alfieri ( CN) si impegna già verso la metà degli anni sessanta del secolo scorso in un 'attività che anti­ cipa di molto e quasi traccia le linee di quella che sarà la riproposta della tradizione contadina e preindustriale. Si tratta appunto di in­ segnanti, studenti, impiegati e qualche contadino, che lavorano alla raccolta e registrazione, soprattutto mediante l'intervista nella loro comunità, di canti del repertorio locale e di informazioni sul ciclo festivo e sulle competenze necessarie per realizzarlo. Essi inoltre rac­ colgono testimonianze materiali, concernenti in primo luogo la costruzione dei soffitti in gesso locali e il ricco apparato iconografi­ co con il quale sono decorati, in vista della creazione di un museo che sarà effettivamente inaugurato solo nell'estate del 1994, il che sta anche a testimoniare la continuità e la perseveranza del gruppo . Infine i suoi membri sono attivi anche nella difesa dell'ambiente, del paesaggio, delle edicole votive e degli affreschi di carattere reli­ gioso, dei fabbricati rurali tradizionali. L'analisi del loro lavoro ci permette di individuare alcuni aspetti che caratterizzeranno la riproposta e altri invece loro peculiari . Innanzitutto essi appaiono sostanzialmente reagire a quella che sentono come un'aggressione da parte della società urbana e indu­ striale, un'aggressione che depaupera la campagne sul piano demo­ grafico e mette in crisi la cultura e l'economia contadina; in una sorta di controffensiva essi in tendono salvaguardare, anche im pa­ rando a meglio conoscerli e registrandoli, i lasciti della tradizione 18

locale. Si impegnano inoltre a ritessere la rete dei rapporti comu­ nitari, messi in difficoltà dai mutamenti professionali, dalle molte occupazioni fuori paese e dall'invadenza dei modelli urbani e mediatici. Lo strumento principale adottato a questo fine è pro­ prio il vecchio apparato festivo e cerimoniale, e in effetti la festa sarà un aspetto fondamentale dei loro in te ressi. Ma la festa sarà, proprio per questo, non solo studiata ma attivamente rimessa in scena, comunicata, rappresentata per i compaesani nelle scadenze canoniche; e non a caso tra le cerimonie prescelte avranno una parte fondamentale proprio i riti di questua, i cui attori, con il pas­ sare dall'una all'altra casa a cantare e richiedere doni, riannodano materialmente le fila della vita locale (Bravo, 1999a) . L'adesione del Gruppo spontaneo a un 'ideologia comunitaria e contadina, peraltro, a Magliano Alfieri, in una versione progressi­ sta e pacifista, è una com pone n te che sarà ampi amen te condivisa dai successivi protagonisti della riproposta della tradizione popola­ re e locale, sia pure in forme spesso più approssimative e mitizza­ re. Così pure l'attenzione alla memoria locale, assai più raramente però così approfondita sul piano della rilevazione e della ricerca. Rimarrà in assoluto la festa l'oggetto principale delle iniziative di rivitalizzazione. E nuovamente una preoccupazione fondamentale e caratterizzante sarà quella di reintrodurre le feste nelle comunità, di riportarne la coreografia e le scansioni agli abitanti, sempre me­ no contadini. Meno diffuso, invece, l'impegno nella tutela del pae­ saggio costruito e rurale; sui musei torneremo tra poco (Bravo, 2001a, cap. 9) . Siamo dunque di fronte all'individuazione di un patrimonio dise­ gnato in funzione di una sorta di resistenza, e controparte, alla vio­ lenza dei processi di urbanizzazione e di industrializzazione. E il primo destinatario è visto proprio nelle comunità locali. Si tratta insomma di interventi intesi a una valorizzazione, e più o meno implicitamente a una tutela, che si risolve nella dimensione di una fruizione comunitaria. Uno dei riti di questua rimessi in vita dal Gruppo spontaneo - il quaresimale C an to delle uova (nel dialetto locale Canté i eu v) , che 19

prevede percorsi notturni tra le case del paese e delle colline per raccogliere uova e altri doni richiesti con strofe canoniche - regi­ stra un successo e una diffusione che ne fanno un caso emblema­ tico; al tempo stesso implica una sostanziale innovazione: da que­ stua virile e giovanile diventa aperta a tutti, in particolare alle ragazze del Gruppo stesso. Inoltre nell'aprile 1979 Canté i eu v darà il nome a una grande manifestazione musicale di più giorni orga­ nizzata in provincia di Cuneo dall'ARei Langhe di Bra, con l'impe­ gno personale di Carlo Petrini, futuro ideatore e promotore di Slow Food: si alternano complessi musicali diversi e il canto di questua o più in generale la tradizione musicale locale sono ben lungi dal coprire il loro repertorio. Si tratta insomma di un 'etichetta che, più che indicare un genere di musica e di canto unico e preciso, allu­ de a una concreta rivalutazione delle tradizioni locali, dei rapporti comunitari, del paesaggio e dei saperi contadini. Ormai nel XXI secolo un caso in qualche misura analogo, ma più legato al busi­ ness dello spettacolo, raccoglierà successo e grande affluenza nel Salento, La notte della taranta, una manifestazione in cui si inten­ de conferire a danze, melodie e canto, di provenienza molto varia, anche extraeuropea, una comune ispirazione riferita a tradizioni musicali e coreutiche locali: un 'ispirazione sintetizzata nel richia­ mo al ragno, la taranta appunto, il cui morso in quel territorio, nel quadro delle concezioni della medicina popolare, era creduto pro­ vocare stati di agitazione motoria che erano curati con la danza; è il tarantismo salentino, oggetto di classiche ricerche di Ernesto de Martino nel secondo dopoguerra (de Martino, 1961 ) . Traiamo da quanto sopra alcune considerazioni. Innanzi tutto l'inseri­ mento delle ragazze tra gli attori di un rito maschile. Ora, proprio nella prassi di uno dei gruppi impegnati nella difesa e riproposta della tradizione popolare in modo più articolato, consapevole e aperto alla ricerca, assistiamo nel più importante dei riti rimessi in vita all'intro­ duzione di un mutamento che rispecchia il ruolo quanto mai attivo delle donne nel gruppo. Su questo piano la festa non è più la stessa. Per un interessante caso ancora in provincia di Cuneo abbiamo parla­ to di bricolage: a Belvedere Langhe nel 1978 viene riattivata o rein20

ventata una Passione, una sacra rappresentazione che in paese si dice riprenda una celebrazione ottocentesca. Nonostante la trama pratica­ mente obbligata, la sua messa in scena presenta forti elementi di ibridazione. Ne ricordiamo per brevità solo pochi, sottolineando che questa Passione è intrisa comunque di pathos e vissuta religiosità: il manifestarsi di ironia contadina nel ricorso, per le scenografìe tutte create nel luogo, a materiali "bassi " come i pezzi di tubi residui delle fognature municipali, come pure nella presentazione di legionari romani muniti di elmi ricavati da vecchie pentole di alluminio e comandati da un duro sergente come le vecchie reclute paesane. Infine il trattamento riservato a Gesù e ai !adroni che dovranno affrontare seminudi il percorso fino al Calvario, un'altura di Belvedere, ed essere poi issati sulle croci ivi erette: come campioni dello sport di massa essi prima saltellano in un luogo lontano da occhi indiscreti, poi sono accuratamente massaggiati con prodotti specializzati per proteggerli dalla fredda primavera di Langa. Un altro aspetto di contaminazione riguarda l'importanza delle competenze organizzative attuali in rela­ zione ai contatti e ai rapporti esterni, alle opportunità di finanziamen­ to e di promozione; queste si affiancano alle competenze rituali tradi­ zionali e possono interagire con le stesse modalità di attuazione della festa (Bravo, 1984, p. 23 e passim; 2005a, pp. 21 ss.) . La riproposta, presentandoci elementi tradizionali contaminati pro­ prio nell'impegno a ricuperarli, rivitalizzarli e comunicarli, in realtà accentua e mette in evidenza quella che è una componente di ibri­ dità di ogni cultura, tradizione popolare compresa. Una conseguen­ za importante, per quanto concerne la delimitazione dell'insieme dei beni culturali D EA è che, come da un lato gli attori della riproposta hanno mostrato creatività e innovazione, dall'altro i ricercatori, i catalogatori, i vari esperti, consulenti e funzionari, non potranno farsi guidare nel loro operato, si tratti di decisioni e scelte relative alla schedatura, alla tutela o alla promozione e al supporto finanziario, da prevalenti considerazioni di carattere puristico quanto al caratte­ re genuino, originario o tipico dei tratti di cultura presi in esame. Ciò non equivale assolutamente ad affermare che, di conseguenza, si debba adottare un atteggiamento neutrale verso ogni tipo di propo21

sta o riproposta, ma che è invece opportuno fare riferimento ad altro e più adeguato tipo di criteri. Su questo ritorneremo tra breve. Manifestazioni come il Canté i euv spettacolarizzato rappresentano una delle linee di sviluppo della rivitalizzazione della tradizione contadina e locale. Quanto era stato inizialmente ricuperato e riproposto alla fruizione comunitaria diventa, da un lato, parte di un progetto di comunicazione e spettacolo più ampio, inteso a coinvolgere territori più estesi e ad attrarre anche da lontano un pubblico assai più largo ed eterogeneo. Dall'altro fornisce però a questo progetto una qualità particolare, nel riferimento a radici "vere ", che sanno di terra e di vecchie generazioni. Del resto anche le iniziative di riproposta più limitate sono via via passate da un obiettivo comunitario al riferimento a un pubblico esterno e a pos­ sibili flussi turistici; ciò ha portato tra l'altro a iniziative fondate più sull'imitazione di casi di successo o su mode superficialmente rece­ pite che sul radicamento e l'interrogazione della memoria locale. Si può inoltre affermare che su questa linea di più allargata attenzione all'esterno, alle occasioni di spettacolo e ai visitatori, si collocano anche gli attori della riproposta più seri e qualificati; e le stesse feste tradizionali che hanno mantenuto un carattere di continuità risul­ tano ormai inserite in questo quadro di comunicazione. Infine sempre più spesso celebrazioni ed eventi implicano la possibi­ lità di consumare cibo di tradizione locale, non di rado preparato da mani femminili del posto, vini e altri prodotti: si viene così a confi­ gurare una proposta più allettante, con richiami nuovamente alla genuinità e alla terra, ma si apre anche un nuovo campo di ricerca e di intervento, sul cibo, sui saperi a esso connessi, sulle piccole unità produttive e sui prodotti locali in quantità limitata; nel caso del già citato Slow Food, questo campo finirà per assumere un carattere pla­ netario e ampliarsi poi alla formazione, anche universitaria, nel set­ tore. Da parte sua, la comunicazione mediatica, spesso sollecitata, non di rado segue o talora addirittura precede questo tipo di eventi. Un altro aspetto importante del rinnovato interesse per la tradi­ zione popolare, anch'esso anticipato dal Gruppo spontaneo di Magliano Alfieri, è quello dei musei contadini e locali . Nell'ultimo 22

quarto del Novecento essi si costituiranno in numero sempre mag­ giore, anche in località di non grandi dimensioni, fino a raggiun­ gere un numero superiore al migliaio con diffusione soprattutto nel Nord del paese ( PAR. 3.3). Il tema privilegiato è quello del lavoro contadino e dei mestieri preindustriali, dei quali si raccolgono sul posto utensili e attrezzatu­ re, spesso simili in musei diversi delle stesse zone. Ciò ha indotto talora studiosi e funzionari delle articolazioni regionali del ministe­ ro per i Beni e le Attività culturali e delle amministrazioni locali a considerare di minor interesse e utilità le collezioni in quanto ripe­ titive. Bisogna al contrario far notare che innanzitutto la rilevazione di dati, in questo caso di oggetti, consimili in zone territoriali diver­ se, e la constatazione della loro diffusione su un territorio, rappre­ sentano già un 'acquisizione di carattere scientifico, un contributo in ultima analisi a delineare diffusione e scambi di cultura; in secondo luogo non appare lecito applicare a reperti D EA criteri di originalità e unicità, quali potrebbero eventualmente valere per la produzione delle arti figurative colte e connessi capolavori; infine, quella raccol­ ta di oggetti è un patrimonio costituito spontaneamente e a prezzo di impegno volontario da una comunità, una risorsa di memoria, appartenenza e comunicazione, negli ultimi anni spendibile anche per lo sviluppo, che sarebbe del tutto fuor di luogo deprezzare altez­ zosamente o burocraticamente scoraggiare (Bravo, 2005a, pp. 118-9) . Quanto al predominante interesse per le testimonianze materiali dei mestieri preindustriali, alcuni dei promotori intervistati riferi­ scono di sentirsi impegnati a conservare il ricordo del lavoro, delle conoscenze e della fatica dei padri; questo ricordo consente certo di misurare i progressi economici com p i uti, ma salvando la memo­ ria di tante vite industriose e tenaci sta anche opportunamente a testimoniare i prezzi per essi pagati: come si esprime Alberto Maria Cirese (1977, pp. 24-6) , tali progressi concedono «Un più genera­ lizzato accesso [ . . . ] ad una sfera di disponibilità economiche supe­ riori, ma insieme ci sono l'emigrazione, lo sradicamento, l'esilio, e più in generale la dura perdita di quel rapporto diretto e proprio con gli oggetti [corsivo nostro] e le condizioni del sia pur misero e 23

faticoso lavoro», cui si accompagna, aggiungiamo, l' obliterazione dei vecchi saperi e lo sbiadirsi dell'immaginario e della ritualità ( Bravo, 1999a, 1999b, 2005a, pp. 11 5-28) . Le scelte tematiche più frequenti dei musei locali definiscono dun­ que un altro importante e prevalente oggetto di interesse tra i pro­ tagonisti della rivitalizzazione della cultura contadina tradizionale, accanto alla festa, quello del lavoro, quasi a voler rappresentare nella memoria e nelle performance i due momenti costitutivi dello scor­ rere dell'esistenza nelle comunità agro pastorali: il tempo quotidiano della fatica e del lavoro e il tempo cerimoniale della comunicazione. Ciò corrisponde inoltre a un fatto nuovo e importante: la costruzio­ ne del passato e la produzione dei suoi documenti diventano attivi­ tà diffusa se non di massa, così come la loro fruizione; esse vengono sottratte al monopolio di esperti, specialisti, cultori delle arti e lette­ re, in un processo che possiamo definire, in senso ampio ma ben reale, di democratizzazione (Bravo, 2005a, pp. 78-9 e 118) . 1.4. Co nclu s i o n i Quella che abbiamo chiamata riproposta, ma che oggi si presenta ormai come un ampio campo di iniziativa cul­ turale e diventa con il tempo osservabile in tutto il paese, rimanda a pratiche e fornisce suggestioni di grande interesse. Il suo rilievo ha stimolato lavori di ricerca che ne hanno talora in anticipo rico­ nosciuto e documentato il peso e i caratteri e ormai le indagini sulla tradizione agropastorale e preindustriale non possono non tener conto di queste analisi della rivitalizzazione (Bravo, 1984, 2005a; Clemente, Mugnaini, 2001 , pp. 195 ss. ) . È importante ricordare che ricuperare e rimettere in circolo il patri­ monio della tradizione si configurano sempre più chiaramente come produzione di risorse per il territorio, almeno in due sensi, tra loro connessi ma non coincidenti o riducibili. Internamente alla comunità contribuiscono a ricostruire o rinsaldare reti di rapporti, a fornire occasioni di associazione e di attività creativa comune e alternativa alle forme più standardizzate di uso del tempo libero, mettendo in primo piano elementi condivisi di storia e di apparte­ nenza. La fruizione della propria tradizione e memoria diventa un 24

importante campo di interazione, di socialità e di espressività; non tanto in quanto ne sostituisca altri, connessi alle più recenti moda­ lità di rapporti, di consumo e di uso del tempo libero, troppo spes­ so e banalmente dichiarati " in crisi ", passivi o alienanti, ma come complemento, alternativa e arricchimento dei percorsi di vita, in una sorta di multiculturalismo interno e fra generazioni. All'esterno, coltivare le tradizioni, le memorie, le radici fornisce un'immagine oggi ampiamente apprezzata come positiva della comunità e del territorio. Una sorta di marchio di qualità, anche in chiave ecologica, con il quale essi si presentano nell'arena più ampia per attrarre risorse, finanziarie, mediatiche e soprattutto turistiche, e promuovere il mercato dei prodotti locali - anche immateriali: apertura di punti vendita, agriturismi e più in generale sviluppo della ristorazione e dell'accoglienza, ma anche organizzazione di incontri, spettacoli e passeggiate per ammirare l'ambiente antropiz­ zato e le emergenze tradizionali più interessanti. Con l'affermazione e l'articolazione della riproposta, cresce l' atten­ zione da parte di importanti attori esterni. Si tratta principalmente di amministrazioni comunali, provinciali e regionali e di fondazio­ ni bancarie: si finanziano tra l'altro manifestazioni ed eventi, spese in attrezzature o edilizia per musei, ma anche operazioni di scheda­ tura e di ricerca, con l'apporto di università e soprintendenze . La complessità e il rilievo anche economico di questi processi pon­ gono problemi, in particolare quelli già indicati quanto alla qualità delle iniziative, alle possibili concessioni a mode superficiali, all'imi­ tazione approssimativa e strumentale di casi di successo, al tentativo di compiacere, a qualunque prezzo, i detentori di potere finanziario, commerciale, mediatico e politico. Gli addetti ai lavori, ricercatori e museografi, esperti di catalogo, funzionari e consulenti, ideatori di progetti, hanno una loro respon­ sabilità nel contribuire alla valutazione, alla promozione, allo svilup­ po scientifico e documentario . Ci sentiamo di proporre fin d'ora alcuni criteri, che certo dovran­ no essere ulteriormente integrati, per un esame critico circostan­ ziato. Considereremo positivamente: 25

i casi in cui si manifestano interesse e impegno documentario, ricerca sul terreno e interviste, meglio se con archiviazione e con­ servazione dei materiali; • la capacità e l'impegno a radicarsi nel territorio, il coinvolgi­ mento dei testimoni interessati e intervistati, la riproposta o la ripresentazione locale dei materiali o delle loro elaborazioni, le atti­ vità associative nella comunità; • la collaborazione con istituzioni scolastiche di vario livello, a partire da quelle locali; • quanto ai rapporti con l'esterno, la tendenza a privilegiare i supporti di enti pubblici, fondazioni e simili, piuttosto che rivol­ gersi in primo luogo ed esclusivamente a partner commerciali; inoltre, e soprattutto, il ricorso a consulenze qualificate, universi­ tarie, delle soprintendenze e di altri esperti, per la ricerca ed even­ tualmente la schedatura, ma anche per l'allestimento di mostre e l'organizzazione di eventi (un'opportunità che in effetti alcuni promotori e musei hanno già sfruttato) . Per le iniziative invece di più discutibile qualità s i potrebbero avan­ zare riserve costruttive e offrire alternative, attività complementari e cons ulenze, avendo cura di evitare imposizioni esterne centrali­ stiche o burocratiche. Dalle considerazioni qui svolte risulta che il disegno concreto del­ l' ambito dei beni culturali D EA e dei relativi oggetti di ricerca, dei metodi d'indagine e di catalogazione, è un 'impresa che nasce dalle tradizioni delle discipline scientifiche interessate, ma deve fondar­ si sullo studio attento e articolato del territorio, delle iniziative e dei loro contenuti e finalità, degli attori sociali che ne sono i pro­ tagonisti . Si tratta in altri termini di lavorare alla luce di progetti scientifici sempre specifici e innovativi. Questa impostazione tra l'altro, più che il richiamo formale e un occhiuto controllo dall'esterno, consente di valorizzare al meglio il contributo di studiosi e ricercatori, della loro professionalità e delle loro istanze critiche. La loro creatività professionale viene quindi a esercitarsi nel quadro di un progetto di patrimonio, flessibile e in •

progress. 26

Infine, e ciò è fondamentale, i beni D EA diffusi sul territorio non possono essere tutelati semplicemente registrandoli, schedandoli o rinserrandoli e m ummificandoli in un enorme archivio che finisce per coincidere con il territorio stesso e con la sua popolazione (al massimo se ne possono archiviare supporti multimediali e scritti). La loro tutela, soprattutto per quelli immateriali, sta nel renderli disponibili per la fruizione comunitaria e più ampiamente per quella di ogni visitatore interessato, la loro valorizzazione sta nel renderli oggetto di comunicazione . In effetti va ricordato che l'attuale attenzione, o addirittura moda, per quanto concerne le tradizioni contadine e locali, si colloca in un contesto in cui gli addetti al settore dell'agricoltura hanno subito una drastica contrazione e in cui le comunità rurali sono principal­ mente abitate da occupati in altri settori, spesso pendolari, e forte­ mente interagenti con l'esterno. Insomma, le feste e le cerimonie non sono oggi strumentali alla scansione della vita e del lavoro di una comunità contadina, e le testimonianze materiali rimandano a saperi, occasioni e tecniche ormai estranee ai più. Tutto questo evi­ denzia concretamente un dato di fondo e in genere non sufficien­ temente esplicitato: gli elementi di cultura contadina e locale rive­ stono una funzione prima non ignota ma oggi prevalente di rap­ presentazione e comunicazione, la messa in scena di simboli, valori, oggetti, immagini e modelli di comportamento da inserire come " tradizionali " nel quadro complesso delle culture, delle esperienze e dei consumi del presente. Si apre, in conclusione, uno spazio stimolante di problemi da approfondire e di soluzioni da sperimentare. Pe r riassum e re . . . l b e n i cu ltu ra l i dem o etn oa ntro pol ogici sono u n sotto i ns i e m e d e l l a "cu ltu ra". • La "cu ltu ra" i n senso a ntro p o l o gico è i l co m p l esso d e i prod otti mate ri a l i e n o n m ateria l i (q u a l i cred enze, rel i giosità , sa peri, feste ecc.) d i o g n i gru p po u m a n o, q u a l u n q u e ne sia l ' este n s i o n e, l a sede geo gra•

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fica, l a tec n o l o gi a , l a pote nza m i l ita re; essa è tra m a n d ata da o g n i ge n e ­ raz i o n e a q u e l l a su ccess iva . • La d el i m itazi o n e d e l patrimo n i o DEA a l l ' i ntern o d e l la c u ltu ra è co m ­ p l essa, s i a perc h é l e d isci p l i n e sci entifi c h e c h e s e n e occu pa n o so no rel ativa m e nte rece nti , sia perc h é q u esti b e n i te n d o n o a co i n cid e re co n u n a va ri età d i p rodotti u m a n i d i a m p i a d iffusi o n e territo ria l e. • l d u e baci n i d i cu ltu ra a i q u a l i tra d izi o n a l m e nte si atti n ge per l a costitu zio n e d e l patri m o n i o DEA s o n o q u e l l o d e i re perti m usea l i d e i popol i extra e u ro pei e q u el l o d e l l e tra d izi o n i popo l a ri , p reva l ente m e nte agro pasto ra l i. I l p ri m o è u n u n iverso p i ù pred efi n ito, il seco n d o è i n cre­ scita e a esso si riferisce la gra n d e d iffu s i o n e su l territorio d e l l e i n izi a­ tive d i ri l evazi o n e e va l o rizzaz i o n e. • D u e riferi menti co ncreti i n base ai q u a l i si vi e n e costitu endo q u esto seco n d o aspetto del patri m o n i o DEA so n o le acqu isizi o n i e la ricerca s u l ca m po d e i d emo l ogi, e l e scelte e l e i n iziative rea l izzate d a i protago n isti d e l l a rivita l izzazio n e d e l l e tradizi o n i po p o l a ri. Qu este scelte e i n iziative p ro p o n go n o u n ifo rm emente a l cu n i d efi n iti co nten uti: l e feste e le ceri ­ m o n i e, l e testi m o n i a nze m ateri a l i del l avo ro prei n d ustri a l e, i n seco n d o l u ogo i l ca nto e l 'a l i m entazio n e; pongo n o i n o ltre i n evi d e nza co m e oggi la tutela dei ben i DEA vada sosta nzia lmente i ntesa in termi n i n o n so l o e n o n ta nto d i vi n co l i , ma d i va l o rizzazio n e attraverso la co m u n i cazi o n e e la ra ppresentazi o n e del m o n d o po pol a re, che si rivela u n elemento i m po rta nte d e l l a co m p l essità cu ltu ra l e d e l p resente; i nfi n e q u esti ben i si co nfigu ra n o sem pre pi ù co m e risorsa per l o svi l u ppo del territo rio. • Per ricercato ri, stu diosi, esperti i n docu mentazio n e e cata l ogo q ueste circosta nze ra ppresenta no u n o sti m o l o a consid era re q u el l o dei ben i DEA u n patri m o n io i n movi mento e in progress; a i m pegnarsi i n i ndagi n i speci ­ fiche che sappiano tener co nto n o n so l o d i singo l i oggetti d'i nteresse, ma del territorio nelle sue a rticolazi o n i e d egli atto ri soci a l i che vi opera n o.

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2.

Beni materiali e immateriali: territorio, rilevamento, documentazione

In questo capitolo cercheremo di esaminare come è possibile indi­ viduare i beni D EA sul territorio, riconoscerli e, all'occorrenza, farli emergere alla luce. Per questi beni, il rilevamento sul terreno assu­ me particolare significato, del tutto diverso rispetto ad altre tipolo­ gie di beni culturali maggiormente stabilizzate e oggettivate. Come abbiamo già detto (CAP. 1), infatti, i beni D EA non sempre hanno in sé immediata visibilità, in quanto fanno parte della vita stessa delle comunità che li esprimono e li producono. Un primo approc­ cio, dunque, non può prescindere dall'osservazione diretta sul campo e dalla conseguente realizzazione di documentazioni scritte e/o audiovisive (sonore, fotografiche, videofilmiche) secondo la metodologia e la pratica di ricerca sul campo proprie dell'area disciplinare. 2.1. Rileva mento sul te rreno dei be n i mate ri ali Il rileva­ mento dei beni materiali D EA richiede anche il possesso di specifi­ che competenze tecniche intorno ai beni immobili o mobili cui va ad applicarsi: si tratta di competenze fra loro molto diversificate, da quelle tecnologiche a quelle meccaniche, a quelle riguardanti materie e tecniche di esecuzione-fabbricazione e così via. Pre­ suppone, dunque, delle vere e proprie specializzazioni, che esclu­ dono genericità e che la figura dello specialista in beni D EA non sempre possiede . In alcuni casi ci si può avvalere di repertori con­ solidati, come, ad esempio, il testo di Scheuermeier (1980) relati­ vamente agli oggetti agropastorali e in parte anche artigianali, seb­ bene lo stesso non sia stato prodotto per questo scopo, ma sia il risultato di uno studio di carattere linguistico. N ella maggioranza dei casi, tuttavia, mancano testi di riferimento e, in assenza di competenze specifiche altrove maturate, diventa difficile, a volte, 29

anche il mero riconoscimento di un manufatto . D'altra parte le nozioni tecniche non sono sufficienti a restituire la com p lessi tà di un bene materiale D EA in un dato territorio e in un dato contesto: esso, infatti, va compreso non soltanto per le sue caratteristiche tecniche, ma anche per tutti quegli aspetti immateriali che lo qua­ lificano e che soltanto il coinvolgimento degli attori sociali o degli in terlocutori locali con se n te di far emergere (cfr. fra gli altri Clemente, 1996, p. 203 ; Di Valeria, 1999 ; Faeta, 2005, pp. 58-72; Lombardi Satriani, 2004) . Così, ad esempio, il rilevamento di uno strumento di lavoro agrico­ lo in un dato luogo dovrà effettuarsi tanto individuando con preci­ sione la categoria tecnologica a cui esso è riconducibile, quanto rac­ cogliendo testimonianze sul campo intorno al suo contesto di uso, alla sua storia individuale, alla sua eventuale rivitalizzazione, agli attori sociali coinvolti, alle tecniche e alle pratiche a esso abbinate, alle norme consuetudinarie che ne regolano l'etica sociale, alla ge­ stualità, alla prossemica del lavoro, ai proverbi e ai modi di dire, ai riferimenti simbolici e metaforici e così via. Senza tale corredo docu­ mentario, da realizzarsi attraverso un denso rilevamento condotto entro il contesto socio culturale e geografico di appartenenza, l' og­ getto resta svuotato della sua vera essenza e poco comprensibile: pro­ prio un approccio esclusivamente oggettuale ha fatto sì che spesso i beni D EA siano stati trattati come beni storico-artistici " minori" dagli storici dell'arte, oppure come beni archeologici " recenti " dagli archeologi, con il conseguente snaturamento dei beni stessi . Nel rilevamento sul terreno è possibile coniugare i due approcci in modo flessibile utilizzando gli strumenti metodologici propri del­ l'indagine antropologica, secondo quella concezione di patrimonio in progress già delineata nel capitolo 1: un aiuto ci viene, ad esem­ pio, da alcune griglie per la gestione delle interviste elaborate da Gian Luigi Bravo (2005a, pp. 136-41 ) . Possiamo esaminare, ad esempio, la griglia relativa alla vitivinicoltura in Piemonte per ren­ derei conto di come, nell'acquisizione dei dati, gli aspetti materia­ li si integrino con quelli immateriali e come gli uni e gli altri siano in funzione del territorio e degli attori sociali che vi operano. 30

l.

TECNICHE E OGGETTI

1.1.

Esa m e d e l l ' ute nsi le: le pa rti co m po n e nti.

1.2.

Mod i di fa b b ricazione o acq u isizi o n e.

1.3-

Mate ria l i , u s u ra, ri pa razio n e, sca rto, ricic la ggi; le pa rti i n fe rro e i l lavo ro d e l

fa b b ro.

1.4.

Uti l izzo d e l l ' ute n s i l e n e l p rocesso p rod uttivo vitivi n ico lo; cic lo p rod uttivo e a ltri

attrezzi.

1.5.

Cicl o p rod uttivo e d ifesa d a i pa rassiti; la crisi d e l la fi l lossera e d e l la peronospora .

1.6.

La p ro d uzio n e vitivi n ico la e l ' a n d a m e nto c l i m atico ; i d a n n i da m a lte m po e i l

fla ge l l o d e l la g ra n d i n e.

1.7.

Prod otti c h i m ici, n ocività del lavo ro, i n q u i na m e nto a m b i e nta l e .

2.

RAPPORTI DI LAVORO, REDDITO, IMPRESA

2.1.

Il cic lo d e l la vite n e l l ' eco n o m ia d e l l 'azie n d a co nta d i n a ; vi n o, m e rcato, d e na ro

l i q u i d o.

2.2. Co ltu re e p rod otti p e r i l m e rcato ; este n s i o n e d e l l e co ltu re ; z ucc h e ra ggio e sofi­ stica z i o n i .

2.3. Divis i o n e d e l lavo ro tra i s essi e l e ge n e ra zio n i i n fa m i g l i a ; c h i p re n d e l e d eci­ s io n i; lavo ro sa la riato e s e rv i l e ; trovate l l i .

2.4. Fo r m e d i coo p e razio n e e co nco rre nza tra le azie n d e ru ra l i e n e l la co m u n ità co nta d i n a ; coo p e razio n e e n o l ogica ve ra e p ro p ri a ; i nvesti m e nti in p ro p ri età d e l la te rra e i n p rod uzio n i ; i m p re n d ito ria l ità d e i picco l i p ro p ri eta ri.

2.5. l ra p po rti di m e rcato a m o nte (ca pita l i , p ro d otti c h i m ici, vetro ecc . ) e a va l l e ( ra p po rti co i m ed iato ri, co m m e rcia nti, e n o lo g i ) .

2.6. Prod u z i o n e e co n s u m o d i a u to s u ssiste nza e sca m bi i n natu ra . 3.

LAVORO E VITA CONTADINA

3.1.

Ciclo p rod uttivo vitivi n ico lo: la fatica e il ri poso.

3.2. Ce ri m o n ie, costu m i, cred e nze, ca nti, d etti e p roverbi, col l egati co n esso; i sa nti; riti e usi di p reve nzio n e d e l la gra n d i n e e d e l te m po ra le; feste, occasio n i di socia l ità e pas­ sate m pi, ve n d e m m ia .

3-3-

Sca d enze e tec n iche p rod uttive e a n d a m e nto c l i matico nei sa peri tra d izio n a l i ;

ca l e n d a rio co nta d i n o e co m puto d e l l e fasi l u n a ri .

3.4. L'a utoco n s u m o d e l vino e i l bere i n a m bie nte co nta d i no ; vino co m e a l i m ento e be­ va nda, med ica m e nto, m ezzo di evasione; vino e vite co m e e l e m e nti s i m bo l ici e ritu a l i .

31

Un altro, diverso esempio di come sia possibile coniugare i due approcci ci viene da Ettore G uatelli, museografo spontaneo inter­ no al mondo contadino: nel suo scritto La falce (1999, pp. 104-32) , accanto a una quantità di dati squisitamente tecnici, egli ci offre un ampio e articolato quadro antropologico, di carattere autobio­ grafico, che attiene all'etica e all'estetica di uso dello strumento di lavoro (ivi, pp. 110-1) : Qua n d o c ' e ra la fa lciata ( l a zgiida) , q u a n d o cioè i vici n i ve n iva n o a d a rti u n a m a n o a fa lcia re u na be l la d istesa d ' e rba, a g u a rd a rl i e ra u n god i m e nto : i l p i ù b ravo a l l ' i ­ n izio, e d i etro, i n sca l a , a nc h e u na d ec i n a , a s i ncro n izza rs i e a d a re tutti i n s i e m e l o stesso co l po. E a d o g n i co l po se n e ta g l iava i n s p esso re u na s pa n n a , d i la rg h ezza u n m etro o poco p i ù , m a a nc h e m e n o s e i l p rato e ra fitto e l ' e rba e ra a lta , d a n o n pote r tro p po ca rica re la fa lce d e l m ucc h io ta g l iato c h e a n d ava " po rtato fu o ri " , a p p e n a a lato d e l l ' e rba c h e ri m a n eva i n p i e d i . E d i q u est' e rba fitta , " po rtata fu o ri " , s i fo rm a ­ va n o e s i a l l u n gava n o fi l e co nti n u e e pa ra l l e l e. C h e po i , natu ra l m e nte, p e rc h é l ' e r­ ba secca sse, occo rreva s pa rpa g l ia re. E a nc h e rivo lta re, co n la fo rch etta . E a nc h e q u i a rrivava n l e giorn a l ie re, i n sca l a , o g n u n a a l s u o tratto. Via via c h e u n fa lciato re a rri­ vava in fo n do , sa l iva a rico m i ncia re e a rifo rm a re la sca l a . E ra co n s u etu d i n e, e n ecess ità , c h e a l fe rm a rs i d e l p ri m o p e r d a r d i cote, a nc h e g l i a ltri lo fa cesse ro, cosicc h é tutti facesse ro la stessa cos a . Si rico m i nciava e tutti si ra ggi u stava n o a l m ovi m e nto d e l p ro p rio p reced e nte. [ ... ] Ad avvia rc i , d a i 13 ai 15 a n n i , e ra no i vecc h i , che ti i n seg nava no l e pri m e rego l e , m a poi la sciava n o c h e l e " m a l izie" l e p e rfez i o n assi d a s o l o, t e n e acce n n ava no, t i g u a rd ava n o , d iceva n o co m e n o n fa re: m a q u e l l o d e l fa lciato re è u n lavo ro co m e u n a ltro e o g n u n o , a l p ro p rio m eg l io, d eve a rriva rci con l a s u a testa , co n i l s u o fa re. Mio frate l lo ha u n a n n o e m ezzo m e n o d i m e, m a è s e m p re stato assa i p i ù ro b u sto, p e r c u i ai " lavo ri da g ra n d i " ci ha n n o avviati i ns i e m e. E li aveva m o a p p resi b e n e , d a fa rl i a nc h e c o n la testa . Qu a n d o s i lavo ra i ns i e m e l ' o rgo g l i o n o n t i perm ette d i esse­ re d a m e n o , di non fa re co m e fa n n o gli a ltri . Lu i a fa lcia re non faceva fatica , ten eva natu ra l m e nte d i etro a i vecc h i . lo, p u r b raviss i m o , facevo fatica . Zio G u i d o , z i o Pe po e po i m io frate l lo e ra n o rico n osci uti co m e fa lciato ri "d i p ri m a " . E q u a n d o mi i m bat­ tevo co n zio G u ido e ra ta nta l ' a n s ia d i sta rg l i d i etro c h e, per pa u ra d i n o n fa rce l a , o g n i ta nto m i avva nta ggiavo e m i accostavo tro p po d a fa rlo volta re i n d i etro a sgri ­ d a rm i . C ' e ra u na d ista nza d a ris petta re tra u n fa lciato re e c h i l o s e g u e , ed io l o sa pe-

32

vo, m a q u a n d o m i p re n d eva la sta nch ezza e ro s p i nto a fo rza rm i . E n o n s o n o d u ra ­ to ta nto. Lavo ra re n e i ca m p i è faticoso, e ci vuo l e u n fis ico ro b u sto, d a n o n ric h i e ­ d e rti d i sta re i n sfo rzo d i co nti n u o. Qua n d o i l m io fis ico h a co m i nciato a ced e re, d o po l ' a m m i ra zio n e s uscitata per la b rav u ra co n cu i e ro a rrivato a fa re i lavo ri è ve n uto i l d is p rezzo: p e rc h é " n o n avevo vo g l ia d i lavo ra re" .

Ma quali sono i beni demoetnoantropologici materiali e dove è pos­ sibile rinvenirli ? Fino a un recente passato tali beni venivano indivi­ duati soprattutto nei manufatti propri dei contesti rurali preindu­ strali: gli strumenti del lavoro contadino e pastorale, gli oggetti di uso quotidiano e festivo (il costume, l'oreficeria ecc.) e i " mestieri tradizionali " (falegname, fabbro, ciabattino ecc.) . Si tratta di produ­ zioni prevale n temen te artigianali, seriali ma spesso personalizzate a livello individuale, oppure frutto di autocostruzione e di bricolage. Oggi esse appaiono in disuso, musealizzate (cfr. CAP. 3), soppiantate da prodotti industriali . Sebbene sia da notare come anche questi ultimi vengano fatti oggetto di una diffusa prassi di riuso funziona­ le: si pensi, ad esempio all'impiego di vecchie reti da letto, di carcasse di elettrodomestici o di copertoni di pneumatici da parte dei pasto­ ri, per la costruzione di recinti e di altre attrezzature connesse all'al­ levamento . C'è da aggi ungere che un diffuso revival dei mestieri artigiani ( cfr. PA R. 1.3) interessa da un po' di anni l'intero territorio italia­ no, soprattutto i paesi, con la ripresa di produzioni di carattere locale ormai desuete ( cesti, pizzi , gioielli, giocattoli, modelli n i in scala ridotta di attrezzi di lavoro ecc. ) , indirizzate a fini turistici e connesse al tema del " come eravamo " . Naturalmente tali pro­ duzioni materiali, così rifunzionalizzate, non sono destinate a reali usi e gli oggetti restano spesso dei souvenir o dei polarizza­ tori di memoria. Occorre, tuttavia, distinguere fra produzioni artigianali innestate su effettivi saperi ed effettive pratiche locali socialmente consolidate e condivise e situazioni improvvisate , disancorate dalla realtà locale e create artificialmente a meri fini turistici . In taluni casi le ricostruzioni vengono eseguite con estrema cura 33

filologica da appassionati o da eredi di determinate tradizioni familiari, che, nella finzione di far rivivere il mondo perduto del passato, si ingegnano a offrire qualcosa di " realmente " funzionan­ te: sintomatico di questo atteggiamento sono, ad esempio, i tanti mulini restaurati e fatti funzionare, nella maggior parte dei casi per un uso meramente dimostrativo . Si tratta, nel loro insieme, di processi di patrimonializzazione che riguardano la gestione della cultura da parte dei diversi gruppi sociali locali (cfr. CAP. l) e che ci interessano forse più per gli aspet­ ti antropologici connessi alle politiche locali che non per il valore intrinseco dei beni mobili o immobili. Resta l'esigenza di aggiornare il concetto di bene D EA materiale, rendendolo coerente con la contemporaneità. Che cosa si deve intendere oggi per beni D EA materiali ? È possibile individuare, al di là della cultura materiale contadina del passato, beni oggettuali che acquistino specificità e valore nell'ambito degli attuali diversi contesti socioculturali ? È un tema aperto, sul quale c'è ancora da riflettere prima di poter dare una risposta. Un'interessante proposta, che costituisce un concreto terreno di sperimentazione, è quella avanzata e messa in pratica da Pietro Clemente intorno agli " oggetti di affezione " (Clemente, Rossi, 1999) , derivata dalla necessità di «uscire dalla natura " generale " e " media" degli oggetti per comprenderne la dimensione d'uso per­ sonalizzato, il loro appartenere e vivere entro biografie» (ivi, pp. 1 51-2) . In tal senso, il legame di un oggetto con una specifica pro­ duzione o una specifica funzione perde di importanza: è il suo valore simbolico che ci interessa, nell'ambito di un particolare con­ testo di vita. Nella sperimentazione effettuata con gli studenti dell'Università di Siena sono stati individuati e schedati una pluralità di " oggetti di affezione " fra i più svariati, tra cui: foto di uomo con buoi, cote e contenitore della cote, campana da cavallo, camicia da notte del 1913, scarpe da ginnastica, seggiolone, martello, bambola di stoffa (ivi, pp. 1 59-71 ) . Si tratta di una proposta stimolante nell'ambito della ricerca scientifica e della connessa riflessione antropologica, 34

anche se il criterio di attribuzione di valore su cui si basa resta distante da quello normativamente applicato ai beni culturali in Italia (cfr. CAP. 4). Va infine precisato che il patrimonio D EA materiale si compone anche di una pluralità di beni effimeri che non hanno una durata stabile nel tempo: addobbi floreali, strumenti musicali vegetali, rico­ veri pastorali temporanei, costumi di carnevale, preparazioni ali­ mentari ecc. (Simeoni, 1994) sono beni che costituiscono ulteriori specificità D EA, il cui rilevamento esige un adeguato approccio. 2.2. Rileva m e nto sul te rre n o de i be n i i m m ateri ali Il rile­ vamento e la documentazione dei beni D EA immateriali presenta­ no notevole complessità. Questi beni, infatti, non hanno una sta­ bile presenza sul territorio, ma prendono vita soprattutto come atti performativi in occasioni determinate o indeterminate, al di fuori delle quali non sono osservabili . Si deve ad Alberto Cirese (1996, p. 251) l'aver posto in rilievo l'esi­ stenza dei beni immateriali - da lui definiti "volatili" - in quanto specifici del patrimonio demoetnoantropologico: «Canti o fiabe, feste o spettacoli, cerimonie e riti che non sono né mobili né immo­ bili in quanto, per essere fruiti più volte, devono essere ri-eseguiti o rifatti, ben diversamente da case o cassepanche o zappe la cui frui­ zione ulteriore [ . . . ] non ne esige il ri-facimento. [ . . . ] I beni volatili sono insieme identici e mutevoli e vanno perduti per sempre se non vengono fissati su memorie durevoli» (cfr. anche Cirese, 2002) . Fino a un recente passato i più immediati riferimenti ai beni immateriali hanno riguardato alcuni settori del patrimonio folklo­ rico nazionale sui quali si sono maggiormente concentrati gli studi demologici italiani dell'Ottocento e di gran parte del Novecento, vale a dire le tradizioni orali, le feste, i riti, l'espressività (musica, narrativa ecc. ) . Al riguardo ci sembra interessante ricordare come, all'inizio degli anni sessanta dello scorso secolo, Paolo Toschi (1962) abbia elabo­ rato dei questionari allo scopo di guidare il rilevamento delle tra­ dizioni popolari connesse al ciclo della vita e dell'anno, ai san tua35

ri e ai pellegrinaggi. Esaminiamo qui di seguito, ad esempio, le voci relative al " battesimo ", nel ciclo della vita (i vi, pp. 64-5) : 10.

Do po q u a nto te m po d a l la na scita si usa battezza re i l n eo nato?

11.

Co m e si sta b i l isce i l n o m e d e l battezza n d o?

12.

C h i po rta i l ba m b i no i n c h iesa?

13.

Costu m e del ba m b i n o .

14.

Seg n i d isti ntivi d e l sesso ( p e r es. co l o re d e l vestito ) .

15.

Pri m a d i a n d a re a l battes i m o si po n go n o i nto rno a l co l lo d e l ba m b i n o , con

n a stro, d eg l i a m u l eti c h e s e rvo n o a p rese rva rlo dal m a l occ h io? Qu a l i sono e co m e s i c h i a m a no?

16.

C h i po rta i l cero?

17.

C h i po rta a ltri o ggetti?

18.

C'è il co rteo? Co m e vie n e o rd i na to ?

19.

I n c h i es a , d u ra nte il rito, i l pa d re si a l l o nta na o si co l loca q ua lc h e sca l i n o p i ù

i n basso d e l pad ri no?

20.

Si s u o n a n o le ca m pa n e, e d ove?

21.

Do po la fu nzio n e si usa fa re u na passeggiata?

22.

Si s pa ra no fu c i late o m o rta retti?

23.

Si getta n o co nfetti a i ba m bi n i?

24.

Pa d ri n i e m a d ri n e, e rega l i c h e ess i s o n o so l iti fa re a l ba m b i no e a l la m a m m a .

25.

Ci s o n o pa d ri n i e m a d ri n e in ra p p rese nta nza d 'a ltri pa d ri n i ass e nti?

26.

C ' è p ra nzo d i battes i m o , e d ove?

27.

N i n n e - n a n n e . Trascrive rle i n d ia l etto, poss i b i l m e nte co n la m e lod ia.

28.

C re d e nze e s u pe rstizio n i .

29.

Rega l i a l ba m bi no.

30.

Proverbi re lativi a l la n a scita e a l battes i m o.

Oppure, le voci relative a " 17 gennaio - sant'Antonio Abate " , nel ciclo dell'anno (ivi, p. 71) : 50.

Co m e si festeggia q u esto Sa nto? Si fa n no ra p p rese ntazio n i p o po la ri?

51.

Vi è l ' usa nza di d i stri b u i re a l l e b esti e sa l e e gra n o?

52.

C ' è la b e n ed izi o n e d eg l i a n i m a l i ? Co m e e d ove avvie n e? C'è la cava lcata d i

rito rno? L e bestie co m e s o n o a d o rn a te?

53 .

Si fa n n o g i ri d i q u estua ? C h i vi pa rteci pa ? C h e cosa otte n go n o i n d o n o ? De n a ro

o ci ba rie? C h e cosa ne fa n no ? 54.

Ci s o n o m a sc h e rate o co rte i p e r d a re i n izio a Ca rn eva l e?

55 .

Si acce n d o n o fu ochi pe r l e stra d e? Si co m p iono riti s pecia l i i nto rno a d ess i?

5 6.

C h e cosa s i m a n g ia di s pecia l e?

N egli ultimi anni il concetto di patrimonio immateriale si è andato ampliando e per certi versi trasformando fino ad acquisire un'acce­ zione fortemente estensiva e articolata, che comprende una plura­ lità di beni fra loro anche molto differenziati i quali caratterizzano le culture nelle forme di vita, nelle peculiarità e nelle differenze (Clemente, Candelora, 2ooo; Tucci, 2002) . Tale concetto include pertanto, accanto ai beni di più consolidata tradizione di studio come quelli indicati da Cirese o come i giochi, le danze, le consue­ tudini giuridiche ecc. , anche altri beni quali spettacoli, comunica­ zioni non verbali (cinesica e prossemica) , storie di vita, lessici orali, saperi, tecniche ecc. , con riferimento non più soltanto all'ambito demologico, ma all'intero patrimonio D EA nella sua accezione uni­ taria secondo cui lo stesso è riconosciuto dalla legislazione italiana e dalla comunità scientifica (CAPP. l, 4 e 6). Volendo per chiarezza tentare di schematizzare, potremmo dire che una parte del patrimonio D EA immateriale è rappresentata da even­ ti (festivi, cerimoniali, rituali, spettacolari) connessi a scadenze cicliche annuali o pluriennali: si tratta di eventi facilmente accessi­ bili nei loro aspetti fenomenici, ma che richiedono anche, per una piena comprensione, una preliminare " osservazione partecipante " all'interno delle comunità. Un'altra, ampia, parte del patrimonio D EA immateriale è data da performance connesse alla vita familia­ re, sociale e lavorativa interna alle comunità locali: si tratta di beni assai meno visibili, costituiti soprattutto da saperi, tecniche, espres­ sività, che è difficile cogliere in funzione nei loro naturali contesti. Il loro rilevamento è possibile seguendo il naturale svolgimento delle attività e della vita entro determinati contesti sociali; se ne può anche provocare l'esecuzione su richiesta, a fini di revival e di ani­ mazione locale ( PAR. 1.3), oppure a fini di ricerca (PAR. 1.2, CAP. 6). 37

Quando il bene è frutto di un qualche specialismo, ad esempio in ambito musicale, coreutica, teatrale, se ne può addirittura provoca­ re lo slittamento dal suo terreno " naturale " ad altri diversi terreni: scuole, teatri, studi di registrazione ecc. Luogo privilegiato in cui i beni immateriali possono venire colti nel loro divenire e nelle loro potenzialità espressive e performative resta, in ogni caso, il territorio, dove tali beni si legano ai contesti locali. Il territorio rappresenta una sorta di "vivaio " per questi beni, che si possono incontrare o meno in un dato spazio e in un dato tempo, ma che comunque costituiscono delle reali, intrinseche, potenziali­ tà. La dimensione territoriale si associa inoltre alla loro contempora­ neità, laddove è possibile osservarli in contesti attuali, viventi e socia­ lizzati. I beni immateriali disegnano il territorio, qualificandolo nelle sue realtà e nelle sue "vocazioni ", costruiscono identità e memoria e rappresentano importanti risorse locali per uno sviluppo sostenibile, come suggerisce Hugues De Varine (2005, p. 128) : Qu esto ti po d i patri m o n io c u ltu ra l e, p i ù a nco ra d i q u e l l o i m m o b i l ia re o m o b i l e c h e po n e p ro b l e m i d i p ro p ri età g i u ri d ica, ra p p rese nta i l n u c l eo d e l l a vita c u ltu ra l e e d e l l o svi l u p po co m u n ita rio . Ess e n d o poco vis i b i l e, tuttavia, è i m po rta nte trova re i m ezzi p e r fa r n e e m e rge re, d o po i l ce n s i m e nto, g l i e l e m e nti p i ù s i g n ificativi e p i ù u ti l i p e r l o svi l u p po, i n n a nzitutto a g l i occ h i d e g l i stessi d ete nto ri , c h e a vo lte n o n h a n no co nsa pevo l ezza d e l va l o re d e l p ro p rio s a p e re, e p o i a g l i occ h i d i vis itato ri o d i i nvestito ri este r n i . Qu esto patri m o n i o c u ltu ra l e è i n effetti u n e l e m e nto d i fi d u ­ cia i n se stess i, d i fi e rezza i n d ivid u a l e e co l l ettiva e q u i n d i u n ca pita l e da m ette re a frutto.

La visibilità del patrimonio culturale immateriale, al di fuori delle comunità locali che lo creano e al tempo stesso ne fruiscono, dipende comunque sempre dalle attività di rilevamento e di ricer­ ca che vi vengono applicate e che ne consentono l'aggettivazione . Naturalmente, per questi beni il rilevamento sul terreno è già una prima forma di ricerca: effettuato dopo aver acquisito una solida preparazione scientifica (cfr. PAR. 6.2) e un 'adeguata conoscenza della problematica, consente di osservarli e di fissarli in modo sta-

bile in supporti audiovisivi di varia natura (fotografie, nastri magnetici e digitali, pellicola ecc. ) . Tali supporti rappresentano, dunque, degli espedienti di conservazione e di restituzione dei beni stessi; non dei sostituti di essi, in quanto non possono, evidente­ mente, trattenere tutte le complesse dinamiche delle performance che solo l'osservazione diretta consente di cogliere. Proprio grazie al loro spessore diacronico, per l'irripetibilità e l'u­ nicità che li contraddistinguono, i beni immateriali fissati su sup­ porti audiovisivi e conservati in archivi m ultime di ali rappresenta­ na una grande ricchezza. Al tempo stesso la loro fruizione li ripro­ pone sempre identici, privati di quelle qualità di fluidità e di dina­ mica che caratterizzano il patrimonio vivente. È necessario dun­ que, per i beni immateriali, promuovere costantemente la ricerca scientifica: una ricerca dinamica, che preveda un'intensa attività di rilevamento e di verifica sul terreno e che consenta di coglierne la mutevolezza attraverso la moltiplicazione dei rilevamenti e l'arti­ colazione delle documentazioni audiovisive. 2.2.1. Al cu n i pu nti criti ci Può essere utile riassumere succintamen­ te alcuni problemi che attengono al rilevamento dei beni demoet­ noantropologici immateriali sul terreno. Un primo problema riguarda la realizzazione delle documen tazio­ ni audiovisive, che devono rispondere a determinati standard di qualità per poter essere pienamente utilizzabili. In tal senso, il rile­ vatore dei beni D EA immateriali deve anche possedere competenze metodologiche e tecniche in relazione all'utilizzo delle strumenta­ zioni di ripresa sonora, fotografica e videofilmica, in modo da poter restituire a pieno il bene osservato , la cui natura unica e irri­ petibile non consente ulteriori, successivi approcci. Un secondo problema è quello di rendere esplicita la soggettività del ricercatore, inevitabilmente messa in atto nel rilevamento, di­ chiarando il punto di vista e le scelte di volta in volta adottate. Il ricercatore deve assumersi in prima persona la responsabilità scien­ tifica e metodologica del rilevamento , facendosi garante di tale importante opera di mediazione . L'attendibilità delle fonti da lui 39

prodotte dipende dallo scrupoloso esercizio della sua professiona­ lità. Infatti il suo lavoro è difficilmente controllabile sul campo, così come è difficilmente controllabile la sua deontologia profes­ sionale, da cui dipende il rispetto verso gli attori sociali e le comu­ nità locali alle quali si rivolge. Infine, un terzo problema attiene al ricorso all'intervista nel rileva­ mento dei beni immateriali, soprattutto di quelli non connessi a scadenze calendariali. Dobbiamo chiarire che l'intervista non co­ stituisce un bene culturale in sé, ma può essere un mezzo median­ te cui ottenere esecuzioni di beni immateriali, oppure acquisire informazioni o dati di varia natura intorno agli stessi . L'intervista può anche contenere meri elementi colloquiali: molto dipende da come viene condotta, dalla scelta degli attori sociali o degli infor­ matori coinvolti, dalla metodologia applicata ecc. Abbiamo anche visto come sia possibile, e spesso utile, strutturare l'intervista attra­ verso l'utilizzo di specifici questionari. 2 .3 . Be n i etn omus icali Nell'ambito dei beni D EA immateriali i beni etnomusicali si distinguono per la loro polifunzionalità, per il valore estetico a essi attribuito anche al di fuori dei contesti ori­ ginari e per i processi di patrimonializzazione che gli stessi suscita­ no. Tali beni consistono sostanzialmente in esecuzioni musicali connesse a forme, stili, generi e repertori di tradizione orale, nel­ l' ambi to di sistemi m usi cali locali caratterizzati da diversità rispet­ to alla tradizione colta ( Giannattasio, 1992) . Nei beni etnomusicali quella mutevolezza, che caratterizza in gene­ rale i beni immateriali, si evidenzia nell'estetica della variazione e della microvariazione: un brano non viene mai ri-eseguito in modo identico, ma viene di volta in volta leggermente variato e rielabo­ rato a partire da un modello improvvisativo socialmente condivi­ so. L'esecutore riplasma costantemente il materiale musicale tradi­ zionale secondo il contesto e secondo lo stato d'animo del momen­ to e ne è dunque autore oltre che interprete. Le performance musi­ cali possono legarsi a eventi comunitari (feste, riti, cerimonie) , a contesti sociali di quartiere, familiari, amicali, lavorativi (i canti di 40

lavoro o sul lavoro) , oppure a occasioni estemporanee (ad esempio, le serenate) , anche solitarie (le suonate dei pastori all'aria aperta) . Un a norma non scritta regola i diversi modi di esecuzione, secon­ do le occasioni e i repertori: si hanno così, non casualmente, canti per voce sola o a voci alterne, oppure esecuzioni corali; canti accompagnati da strumenti musicali; brani strumentali espressi da vari abbinamenti. Il patrimonio etnomusicale comprende anche beni materiali costi­ tuiti da strumenti musicali (Tucci, 1991) , che possono essere esclu­ sivi delle diverse tradizioni popolari locali (ad esempio, le zampo­ gne) , oppure condivisi con lo strumentario colto (ad esempio, il violino) . Nel corpus degli strumenti musicali popolari troviamo anche tipologie che non hanno una stabile vita nel tempo perché effimere: ricavate da materiali vegetali freschi (foglie, steli, cortec­ cia ecc.) , oppure costruite appositamente per determinate occasio­ ni e poi smembrare ( ad esempio, i tamburi a frizione) . Inoltre vi sono strumenti musicali popolari " a occasione determinata" , i quali trovano impiego esclusivamente nell'ambito di alcune sca­ denze rituali del ciclo dell'anno: ad esempio le raganelle per la set­ timana santa. Il rilevamento che si applica ai beni etnomusicali richiede una ancora maggiore precisione per ciò che attiene alla registrazione sonora, la cui fedeltà deve consentire una riproduzione utilizzabile sia a fini di studio sia a fini di diffusione e valorizzazione. Nel rile­ vamento sul terreno è bene distinguere la figura del musicista popolare " professionale" , vale a dire riconosciuto dalla comunità e da se stesso come tale, da quella dell'informatore comune che si limita a condividere un sapere musicale collettivo. Il primo è il protagonista della vita musicale delle comunità locali. Ai suoi sape­ ri e alla sua pratica strumentale è legata la continuità di azioni e comportamenti di alto valore economico, rituale, cerimoniale, estetico : in un certo senso il musicista popolare rappresenta in se stesso un bene culturale vivente. Registrare le musiche orali non è un 'operazione qualunque. È un atto che produce fonti sonore primarie: imprime su un supporto 41

qualcosa di non presente prima, materializza un bene immateriale, fissa un 'esecuzione "volatile " e la conserva a futura memoria, ren­ de fruibile e pubblico un evento con tinge n te, allarga la geografia e le differenze culturali, pone i musicisti tradizionali alla ribalta della storia. In virtù del valore estetico che nei beni etnom usi cali si evidenzia come valore aggiunto, l'etnomusicologia ha coltivato la prassi di realizzare prodotti discografici a partire dalle registrazioni sul campo . Il disco rappresenta un 'importante forma di mediazione culturale e di patrimonializzazione e valorizzazione delle musiche etniche e dei musicisti popolari, che hanno così l'opportunità di venire conosciuti oltre le proprie comunità di appartenenza. 2.3.1. Al cu n i p u nti criti ci Nell'ambito dei beni D EA immateriali, i beni etnomusicali si distinguono per essere, oltre che oggetto di stu­ dio e di valorizzazione da parte degli addetti ai lavori, anche al cen­ tro di una serie di processi riguardanti la produzione di spettacoli e di dischi nell'ambito del circuito della cosiddetta musica popolare. Si tratta di processi che prendono avvio negli anni sessanta del Novecento con il movimento del folk music revival: un importante fenomeno di mediazione culturale e musicale che ha avuto il meri­ to di mettere in circolazione musiche per quel tempo sconosciute alla più parte degli italiani. Il movimento ha avuto una chiara impo­ stazione politico-culturale delineata soprattutto da Gianni Bosio (Cirese, 19 73, p. 222) , secondo cui la restituzione della musica popo­ lare alla gente avrebbe potuto costituire un veicolo di presa di co­ scienza. In tale accezione la musica popolare veniva intesa soprat­ tutto come canto - dunque in grado di veicolare significati - e in senso allargato: canto contadino, canto operaio, canto sociale e poli­ tico, nuova canzone. Gli interpreti erano principalmente intellet­ tuali e musicisti, a cui si affiancavano alcuni protagonisti popolari: fu soprattutto il N uovo Canzoniere Italiano a concretizzare le teorie di Bosio, attraverso un'intensa e appassionata attività musicale, spet­ tacolare e discografica. Negli anni settanta dello scorso secolo, nel clima generale di parte42

cipazione e di democratizzazione della cultura proprio di quel perio­ do storico e in seguito a un'intensificazione della ricerca sul terreno, soprattutto nel Sud Italia, gli interpreti popolari uscirono alla ribal­ ta, dimostrando la vitalità e la forza musicale di patrimoni vivi, par­ ticolarmente apprezzabili se colti nei loro contesti. Così, in quegli anni gli eventi connessi con la musica (feste religiose, pellegrinaggi ai santuari, carnevali ecc. ) non venivano seguiti solo dagli studiosi ma anche da schiere di appassionati. Le attività di ricerca e le pub­ blicazioni discografiche effettuate in ambito accademico circolavano in modo allargato e i dischi venivano ascoltati per il loro valore musicale, oltre che per quello documentario e scientifico . Oggi un'ulteriore fase contraddistingue la cosiddetta musica popo­ lare: quella della frammentazione delle culture musicali locali, in­ sieme alla mescolanza e all'ibridazione fra generi e ambienti diver­ si e all'affermazione di uno specifico circuito musicale commercia­ le. Si tratta di processi che spesso mettono in campo notevoli risor­ se economiche, di cui tuttavia non beneficiano le comunità locali le quali ne restano sostanzialmente escluse, mentre la gestione ruo­ ta in torno a una serie di figure (appassionati, m usi cisti, giornalisti, manager ecc.) non sempre all'altezza di muoversi con la dovuta competenza nei delicati e complessi contesti culturali dei patrimo­ ni orali . D'altra parte, le comunità locali cominciano a porre con forza la questione del diritto d'autore e a rivendicare la proprietà intellettuale delle proprie tradizioni musicali . Si tratta di questioni aperte, al centro di un vivace dibattito a livello internazionale, che vede esiti e proposte diversificati. Resta, comunque, l'esigenza di affrontare la salvaguardia e la valorizzazione dei patrimoni etna­ musicali viventi con la dovuta correttezza e il giusto rispetto nei confronti delle comunità locali e in particolare degli attori sociali protagonisti. I processi di patrimonializzazione delle musiche e dei musicisti tra­ dizionali possono costituire elementi di valorizzazione se gestiti con attenzione e consapevolezza. A volte, però, tali fenomeni tendono a opacizzare i significati e le pratiche connessi a determinati reperto­ ri musicali, di cui spesso viene colto solo l'aspetto musicale di43

sgiunto da altre funzioni che sono invece ritenute importanti a livello locale, come ad esempio quelle rituali (cfr. PAR. 6.1). Para­ digmatici di tali processi sono i casi della pizzica sale n ti n a e delle tammurriate campane. Infine va rilevato come negli attuali contesti etnomusicali, soprat­ tutto quelli connessi a eventi festivi, rituali o spettacolari, i prota­ gonisti delle diverse tradizioni m usi cali locali non appaiono più così immediatamente riconoscibili e distinti, affiancati come sono da una quantità di altri soggetti con i quali si vanno a determina­ re incontri e mescolanze. Ciò rende sicuramente meno agile il lavoro del ricercatore sul campo, che deve affinare e potenziare i suoi strumenti metodo logici. 2.4. Arch ivi sonori e a u diovisivi Abbiamo visto come le documentazioni audiovisive dei beni immateriali, derivate dal loro rilevamento sul terreno, costituiscano delle fonti primarie che tro­ vano collocazione e conservazione in archivi m ultimediali. Come esecuzioni " congelate " di beni immateriali, queste documentazio­ ni audiovisive consentono la fruizione e la valorizzazione di quegli stessi beni, oltre alla valorizzazione degli attori coinvolti e dei con­ testi territoriali e sociali interessati. Come beni audiovisivi, tali documentazioni consistono in supporti materiali che vengono archiviati, conservati e tutelati secondo quanto previsto dalla legi­ slazione e dalle conoscenze tecnologiche.

2.4.1. G l i a rch ivi nazio n a l i La costituzione di archivi sonori e audiovisivi in Italia ha preso avvio nell'immediato secondo dopo­ guerra (1948) con la nascita del Centro nazionale studi di musica popolare dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia, evento che ha rivoluzionato la raccolta dei dati, prima di allora sostanzialmente affidata al taccuino , vale a dire al resoconto scritto . Ora, invece, si ritiene che l'espressività verbale, le forme e i comportamenti musi­ cali, gli eventi di tradizione popolare necessitino di venire rilevati sul campo mediante apparecchiature di registrazione-ripresa per una loro stabile conservazione nel tempo e per una loro riproduci44

bilità ai fini di studio e di diffusione . Ciò comporta la costituzione di équipe di ricerca e l'utilizzo di attrezzature tecniche portatili. Dal 1948 a oggi sono nati una pluralità di archivi sonori e visivi, che complessivamente conservano un patrimonio sterminato di nastri magnetici, di fotografie, di pellicole e che costituiscono un impre­ scindibile punto di riferimento per gli studi antropologici ed etno­ musicologici. Arch ivi d i etn om usicologia d e l l 'Accademia nazionale d i Sa nta Ceci l ia

Il Centro nazionale studi di musica popolare ( C N S M P ) , oggi Archivi di etnomusicologia, avvia la sua attività nel 1948 sotto gli auspici dell'Accademia nazionale di Santa Cecilia e con l' assisten­ za tecnica della RAI Radiotelevisione italiana. Definito per statuto come " istituto per la raccolta e lo studio del folklore musicale ita­ liano " , riceve fin dall'inizio un'impostazione specificamente etna­ m usico logica, avvalendosi dei migliori ricercatori e studiosi i tali a­ ni e stranieri, fra cui Giorgio Nataletti, direttore fino al 1972, Diego Carpitella, Luigi Colacicchi, Paul Collaer, oltre a demoan­ tropologi come Ernesto de Martino e Alberto Mario Cirese. Le raccolte di questo archivio (Folk documenti sonori, 1977) si carat­ terizzano per la puntualità metodo logica e per l'accuratezza tecni­ ca delle registrazioni sonore, quasi tutte effettuate con l'ausilio di fonici e di attrezzature professionali della RAI , spesso anche con l'aggiunta, nelle varie équipe di ricerca, di altre figure professiona­ li come fotografi (Faeta, Ricci, 1997, pp. 189-220) . Dopo un lungo periodo di inattività seguito alla morte di N ataletti (1972) , nel 1990, per iniziativa di Diego Carpitella, il centro è stato riaperto agli studiosi con la sua nuova denominazione, sulla base di una serie di progetti fra cui il riordino e la schedatura informatiz­ zata di tutto il materiale sonoro, l'acquisizione di nuove raccolte, la pubblicazione di dischi: tutte iniziative attualmente in corso. L'Archi­ vio etnico linguistico-musicale ( AELM ) della Discoteca di Stato na­ sce nel 1962 per iniziativa della allora direttrice Anna Baroni, con lo Archivio etn ico li nguistico-m usicale d e l la Discoteca di Stato

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scopo di documentare le varie forme dell'espressività orale tradizio­ nale. Così le sue raccolte si classificano in M (musicali) , L (linguisti­ che) , LM (linguistico-musicali) e fra i raccoglitori dell'archivio figu­ rano, oltre a etnomusicologi, fra cui Roberto Leydi, anche demolo­ gi e linguisti come Alberto Mario Cirese, Aurora Milillo, Antonino P agli aro. Fino al 1982 l 'AELM ha promosso in prima persona attività di rile­ vamento sonoro sul terreno, incrementando in modo sostanziale le proprie raccolte (Biagiola, 1986) . Ha anche pubblicato un bolletti­ no di informazione e prodotto un considerevole numero di dischi . La Discoteca di Stato possiede inoltre la più ampia raccolta italia­ na di dischi di etnomusicologia e di demologia. Di recente ha ampliato le sue funzioni e i suoi compiti divenendo Museo del­ l' audiovisivo . L'Archivio sonoro e l'Archivio fotogra­ fico moderno del Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari ( MNATP, PAR. 4.1) nascono alla metà degli anni sessanta dello scorso secolo, per iniziativa dell'antropologa Annabella Rossi, con lo scopo di conservare e ordinare le documentazioni di ricerca prodotte dalla studiosa e da suoi collaboratori soprattutto in relazione alla religiosi­ tà e alla ritualità popolari (feste, cerimonie, processioni, pellegrinag­ gi) . Con il tempo l'archivio fotografico moderno si è arricchito di nuove acquisizioni di immagini ugualmente connesse con la ricerca scientifica; proprio la specializzazione disciplinare distingue in modo peculiare tale archivio, anche se non mancano altri esempi a esso assi­ milabili a livello nazionale e locale (Faeta, Ricci, 1997) . Il MNATP possiede inoltre uno dei più importanti archivi nazionali di antropologia visiva ( Faeta, 2003; http://www.a ntro pologiavisu a l e.org) , costituito dalla stessa Rossi nei medesimi anni: comprende più di 8oo titoli ed è costantemente implementato dalla rassegna Materiali di antropologia visiva, fondata da Diego Carpitella nel 1985. Archivi audiovis ivi del

M NATP

L'Archivio sonoro dell'Istituto Ernesto de Martino, con sede a Sesto Fiorentino ( F I ) ,

Arch ivio sonoro d e l l ' Istituto Ern esto de Marti no

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si è andato costituendo nell'ambito dell'istituto stesso, fondato a Milano nel 1966 da Gianni Bosio come luogo «per la conoscenza critica e la presenza alternativa del mondo popolare e proletario». Dopo la morte di Bosio, nel 1972, l'istituto è divenuto Asso­ ciazione istituto Ernesto de Martino. Nei suoi quarant'anni di atti­ vità, l'Istituto de Martino è stato «un punto di raccordo tra inte­ ressi storici, socio-storici, antropologici ed etnomusicologici, un laboratorio per l'analisi del comportamento sociale del mondo oppresso e antagonista, per la valorizzazione della cultura orale e del canto sociale vecchio e nuovo» ( http://www. i ed m . it) . Nell'archivio sonoro dell'istituto sono confluiti i risultati delle ricerche sul campo di numerosi studiosi del mondo popolare e proletario . Nel complesso vi si trovano materiali di carattere musi­ cale (canti popolari e sociali, danze, riti, rappresentazioni popola­ ri) , testimonianze sui momenti più significativi della storia del movimento operaio, biografie di militanti, registrazioni di manife­ stazioni sindacali e politiche. All'istituto si deve anche un'importante etichetta discografica, " I dischi del sole " , la cui ampia produzione è stata di recente trasfe­ rita su C D . 2.4.2. G l i a rch ivi loca l i N o n è possibile dare qui un quadro esau­ riente dei tanti archivi locali presenti in tutto il territorio naziona­ le . Si può fare solo qualche esempio fra i più significativi. Nell'Italia del Nord, l'Archivio di etnografia e storia sociale ( AE s s ) della Regione Lombardia ( http://www.aess. regi o n e. l o m ba rd ia. it) o­ pera per la conservazione, lo studio e la valorizzazione di docu­ menti sonori, fotografici e videocinematografici inerenti alla vita e alle trasformazioni sociali, alla letteratura e alla storia orale, alla cultura materiale e ai paesaggi antropici del territorio lombardo. N ella stessa area geografica sono anche da ricordare, fra gli altri: il Laboratorio di antropologia visiva e multimediale del Diparti­ mento di studi umanistici dell'Università del Piemonte orientale (Vercelli) , l'Archivio della teatralità popolare della Casa degli Alfieri (Castagnole Monferrato, AT ) ; il Centro etnografico canave47

sano (Baio Dora, TO) ; il Centro etnografico ferrarese (Ferrara) . Nell'I talia centrale, il Centro di documen tazione della tradizione orale ( c o r o ) di Piazza al Serchio (Lu ) svolge ricerche sull'imma­ ginario nella narrativa popolare; congiuntamente con l'omonimo Centro di Sulmona (AQ) , sua filiazione, ha in progetto la costitu­ zione di un archivio nazionale della letteratura orale. L'Asso­ ciazione culturale tradizioni popolari " Taranta" (Firenze) gestisce un archivio audiovisivo specializzato nella documentazione etna­ coreutica. L'Archivio delle tradizioni popolari della Maremma grossetana (Grosseto) raccoglie documentazioni demo logiche ter­ ritoriali. Il Centro per la documentazione e la ricerca antropologi­ ca in Valnerina ( C E D RAV; Cerreto di Spoleto, PG) ha costituito un archivio audiovisivo con particolare attenzione per le feste e i patri­ moni etnomusicali. Il Circolo Gianni Bosio (Roma) , attivo dall'i­ nizio degli anni settanta del Novecento e collegato all'Istituto de Martino, documenta la presenza alternativa della cultura, della memoria e dell'espressività orale e musicale delle classi non ege­ moni e del mondo popolare, con particolare in te resse per lo studio delle fonti orali. L'Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico (AAMOD) (Roma) , nato nel 1979, svolge la sua attivi­ tà nel campo degli audiovisivi (cinema, TV, multimedialità) , per favorire la costruzione di una memoria collettiva dei movimenti sociali e dei loro protagonisti. L'archivio audiovisivo del Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini (Roma) è intera­ mente dedicato alle culture extraeuropee. Nell'I tali a meridionale si distinguono una serie di archivi audiovi­ sivi universitari: il Centro interdipartimentale di ricerca audiovisiva per lo studio della cultura popolare dell'O niversità Federico 11 di N apoli, il Laboratorio audiovisivo Annabella Rossi del Dipar­ timento di analisi delle componenti culturali del territorio dell'Università di Salerno, l'Archivio demo-antropologico (ADA) dell'Università di Potenza, il Centro interdipartimentale di docu­ mentazione demo-antropologica Raffaele Lombardi Satriani ( C I D D ) dell'Università di Cosenza. A Nola (NA) il Museo etnomu­ sicale I Gigli di Nola ha di recente costituito un archivio audiovisi48

vo dedicato alle tradizioni musicali campane, mentre un'analoga iniziativa è in fase di attuazione da parte del Museo etnom usi cale di Montemarano (Av) . A Palermo il Folkstudio, nato nel 1970, e l'Archivio etnomusicale siciliano promuovono attività di ricerca nel settore della musica tradizionale siciliana e dispongono di ricchi archivi sonori e visivi. A Nuoro, infine, si segnala l'archivio video­ filmico dell'Istituto superiore regionale etnografico ( PAR. 4.2), che cura, dal 1982, la Rassegna internazionale di documentari etnografici. Pe r riassum e re ...

Il ri l eva mento dei beni DEA mate ri a l i e i mmate ri a l i sul territo rio co m po rta a nzitutto il l o ro ri co n osci m e nto a l l ' i nterno d e l l e co m u n ità l o ca l i che l i es pri m o n o e l i prod u co n o. Le s u ccessive o pe razi o n i di osse r­ vazio n e, ri l eva m e nto e documentazio n e d egl i stessi ri ch i ed o n o l ' eserci ­ zi o d i a p p rofo n d ite co m petenze n e l l ' ambito d isci p l i n a re DEA. • I l ri l eva m ento dei ben i DEA materi a l i rich iede l a co n osce nza d i nozi o n i tecn i c h e i n erenti ai materi a l i , a l l a costruzio n e ecc. d e i diversi m a n ufatti . Occo rre i n o ltre co l l ega re gl i aspetti oggettu a l i d e i b e n i m o b i ­ l i e i m m ob i l i co n gl i aspetti i m m ateri a l i a essi co n n essi , c h e co ntri b u i ­ sco n o a co nfe ri re l o ro p i e n o s i gn ifi cato. Pe r fa re q u esto, è n ecess a ri o rivo l ge rs i agl i atto ri soci a l i l oca l i , l e c u i testi m o n i a nze e i c u i co m po rta ­ me nti co nsento n o d i ori enta re l ' i n d agi n e co noscitiva s u l terreno. • I l ri l eva m e nto d e i b e n i DEA i m materi a l i risu lta pa rtico l a rm e nte i m pegn ativo a ca usa d e l l a l o ro n atu ra di b e n i "vo l atil i", u n i ci e i rri peti ­ b i l i , osserva b i l i so lta nto m entre ven go n o esegu iti . Pa rte d i ta l e patri ­ m o n i o cu ltu ra l e è ra p p resentata d a eventi festivi e ritu a l i ; pa rte d a per­ fo rma n ce co n n esse a l l a vita d e l l e co m u n ità : beni meno visi b i l i di c u i a vo lte occo rre provoca re l ' esecuzi o n e per pote rl i osserva re e ri l eva re. La ri presa a u d i ovisiva d e i b e n i i m m ateri a l i costitu isce l ' u n ico m ezzo per una l o ro i n d ivi d u a l e co nservaz i o n e n e l tem po e per u na l o ro sta b i l e va l o rizzazio n e. • l beni etn o m usica l i , stu di ati d a l l 'etn o m usico l ogia, si d i sti n gu o n o p e r la l o ro s pecifi cità , co nsiste n d o i n esecuzi o n i m u sica l i co n n esse a fo rme, sti l i , gen e ri e reperto ri d i tra d iz i o n e o ra l e n e l l ' a m bito d e i d iver•

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s i sistem i m usica l i l oca l i. Per i l va l o re esteti co a essi attri bu ito ta l i b e n i si p resta n o a fo rme d i ri - uti l izzo a n che a l d i fu o ri d e l l e co m u n ità c h e l i p rod u co n o, n e l l ' a m b ito d i p rocessi d i patri m o n ia l izzazi o n e c h e i nvesto ­ n o , ad esem pio, la prod u zi o n e d iscografi ca . • Le docu m e ntazi o n i a u d i ovisive d i b e n i i m m ateri a l i ri l evati su l ter­ ren o costitu isco n o i m p o rta nti fo nti p ri m a ri e per il patri m o n i o DEA, o ltre a ra p p resenta re be n i a u d i ovisivi che è poss i b i l e co nserva re e tute l a re n e i l o ro su p p o rti mate ria l i . Ta l i docume ntazi o n i s o n o i n gra n pa rte rac­ co lte presso a rch ivi s o n o ri e visivi , n azio na l i e l o ca l i , c h e, sorti i n Ita l i a a pa rti re d a l seco n d o d o poguerra, ra p p resenta n o oggi i m presci n d i b i l i p u nti d i rife ri m e nto p e r gl i stu d i a ntro p o l ogici ed etn o m usico l o gi ci.

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3 . Beni materiali e immateriali: feste, musei 3 .1. Beni m ate riali e im m ate riali Abbiamo visto come la ripresa di attenzione verso le tradizioni agropastorali e comunita­ rie, e la loro riproposta, si manifestino soprattutto in due settori, la rivitalizzazione di feste e cerimonie e la creazione di musei etno­ grafici locali, e amplino l'insieme dei beni dalle testimonianze materiali a quelle immateriali. La problematica dei cosiddetti beni " immateriali" è trattata ampiamente nel paragrafo 2 . 2. In ogni caso ci pare utile sottolineare che la distinzione tra beni, e più in generale fra tratti culturali, materiali e immateriali, non va in tesa in modo troppo rigido ed esclusivo : in ogni artefatto si esprimono sia strumentalità sia espressività e saperi. Anche un arnese da lavo­ ro non particolarmente elaborato rimanda a un sistema tecnologi­ co , a una serie o ciclo di operazioni che lo comprende, ad esempio una falce messoria al lavoro della mietitura e al quadro più ampio della cerealicoltura; rinvia poi a regole e saperi, e alle esperienze connesse, ma pure a dimensioni rituali e simboliche - si pensi nuo­ vamente alla carica simbolica e rituale della falce - e infine alle sue modalità di acquisizione e ai rapporti che essa implica, ad esempio l'acquisto della lama da un fabbro o dell'attrezzo stesso a una fiera. È in altri termini la concrezione di una porzione organica del patri­ monio tradizionale complessivo, della comunità, delle famiglie. Ogni oggetto materiale, insomma, in quanto tratto di cultura, implica una sua immaterialità. E in fondo proprio per questo, in quanto prodotto umano e storico, ci interessa. Da parte loro i trat­ ti che chiamiamo immateriali si reggono su supporti fisici vari, dal repertorio di accessori usati per una festa o un culto, agli strumen­ ti musicali e ritmici, alla voce e al corpo stessi per il canto o la danza, la rappresentazione e la narrazione; e ovviamente i saperi della tecnica e del lavoro sono in stretta connessione con utensili e attrezzature. Abbiamo visto ( PAR. 2.2) la posizione interessante di Alberto Mario Cirese ( 2002 ) , con la proposta del termine "volatile " che 51

mette in evidenza il fatto essenziale che il bene immateriale è rile­ vabile in quanto prende vita in una performance, al termine della quale cessa la sua esistenza osservabile per essere nuovamente custodito fino a una prossima interpretazione negli archivi della memoria. Porre l'accento s ulla performance implica una conse­ guenza di fondo : l'importanza, per i beni volatili, dell'aspetto della comunicazione. Osserviamo inoltre che un bene materiale, ad esempio un aratro, trasferito in un museo perde la sua funzione originaria, lavorativa, strumentale o altra, per acquisirne un 'ulteriore che Cirese defini­ sce di documento (1976, parte seconda, cap. 1) ; diventa appunto una testimonianza di cultura e come tale deve essere fornito degli opportuni supporti informativi da parte degli studiosi e degli alle­ stitori. Ciò significa nuovamente, nella nostra impostazione, attri­ buirgli una funzione di comunicazione, ed elaborare e fornirgli questi supporti equivale a ricostruire tutta la sua immaterialità di oggetto materiale, che rischia di evaporare nel contesto museale e che invece gli è propria in quello d'uso originario: proprio là, infat­ ti, sono collocati coloro che lo usano e che comunicano e realiz­ zano la sua immaterialità con la parola, la memoria, il corpo. Quindi, di nuovo, anche un bene durevole come quello dell' esem­ pio, concepito nella sua reale dimensione culturale, è materiale solo per un suo aspetto ed è in una porzione significativa volatile . Pone concretamente gli stessi problemi di ricerca e di strumenti di comunicazione dei risultati della stessa che pone ogni altro ele­ mento che debba essere inserito nel patrimonio . Anche qui sono necessarie performance, come minimo le narrazioni e le dimostra­ zioni dei soggetti competenti intervistati dai ricercatori . Ne nasce l'esigenza che ogni campagna di ricerca e di catalogazione prenda in considerazione tutta la gamma di riferimenti, materiali e imma­ teriali o volatili, ricostruibile per un dato insieme di beni D EA (vedi anche le griglie per l'intervista riportate ai paragrafi 2 . 1 e 2. 2 ) e che poi si indirizzi secondo questi stessi aspetti l'opera di valorizzazio­ ne e offerta alla fruizione degli utenti di tali beni. Ora ci proponiamo di riprendere più ampiamente i temi della festa e dei musei . 52

3 . 2 . Feste Nelle comunità locali, contadine, prima delle frattu­ re provocate dai processi di industrializzazione e urbanizzazione il te m p o era scandito da un ciclo annuale di feste e cerimonie; esso veniva per così dire " ritagliato " a misura della comunità stessa e delle sue attività: attraverso la performance rituale si attuava uno stacco dal tempo delle attività produttive, domestiche e familiari, e ci si apriva a quell'orizzonte di significati più ampio che aveva a che fare con le credenze religiose e i miti, i saperi simbolici. I riferimenti erano innanzitutto al calendario liturgico, con partico­ lare rilievo al periodo della natività, alla Passione, alla Quaresima e alla Pasqua, alle celebrazioni mariane, ai patroni di paesi, borgate e cappelle e ai santi folklorici più importanti, quali san Rocco e san Giovanni Battista. Bisogna aggiungere che i casi in cui sull'uffìciali­ tà liturgica si innestano forme di cristianesimo popolare o addirittu­ ra elementi a esso non riferibili sono innumerevoli, come risulterà anche dagli esempi che addurremo più avanti. Non meno impor­ tanti sono i ritmi impressi dall'andamento ciclico della natura, delle attività produttive agropastorali; nel periodo di risveglio della terra fra tardo inverno e primavera si collocava il Carnevale, me n tre le celebrazioni della primavera si concludevano con i Maggi. Per il primo giorno di questo mese si sceglievano, si portavano dal bosco, si piantavano in paese alberi, abeti o pini, o semplicemente se ne staccava un ramo ; intorno alle piante o recando un ramo si faceva­ no cortei e giri di questua maschili o femminili, talora con re, regi­ ne, spose o personificazioni del maggio (Bravo, 20o1a, pp. 172 ss. ) . Infine, oltre al tempo comunitario, feste e cerimonie scandiscono il ciclo della vita umana, solennizzano nascite, fidanzamenti, ma­ trimoni, morti ecc. ; nell'Italia del Nord sono interessanti i festeg­ giamenti dei coscritti, dei giovani di leva, che segnano una sorta di passaggio dei giovani all'età adulta e alla maturità sessuale (per un'analisi degli interessanti fenomeni di rifunzionalizzazione di tali festeggiamenti vedi Bravo, 20o5b, cap. 2) . Delle cerimonie di que­ sto tipo non ci occuperemo però in questa sede. Le operazioni della riproposta e i casi di continuità non riguardano uniformemente tutte le scadenze del ciclo calendariale e di quello della vita umana ma risultano concentrarsi su alcuni particolari tipi 53

di ricorrenze e di ritualità. Vediamo ora, seguendo la successione calendariale, di metterne in luce le principali. Nel periodo del ciclo natalizio e del nuovo anno sono ricomparse forme di teatralità popolare dedicate alla Natività. Sacre rappre­ sentazioni della nascita di Cristo, cortei di pastori e presepi viven­ ti sono allestiti con sempre maggior frequenza negli anni più recenti, avendo come interpreti la gente del posto . Considerata ormai scomparsa intorno alla metà del Novecento, con i grandi mutamenti avvenuti, questa teatralità diffusa inaspettatamente mostra un 'inversione di tendenza, e da parte sua il pubblico pare trovare di suo gradimento una performance il cui andamento grave, lento e solenne, talora cupo, il linguaggio elaborato ed enfa­ tico, l'impronta fortemente religiosa, appaiono quanto mai lonta­ ni dall'attuale gusto e stile della comunicazione. O forse proprio in questo sta una delle sue attrattive. Il periodo più ricco di forme drammatiche di tradizione popolare, ampiamente diffuse in Italia, è però quello della settimana santa; si tratti di vere e proprie rappresentazioni della Passione di Cristo, nuovamente con interpreti locali, di processioni con personaggi veri e propri o con " macchine " (gruppi statuari su piattaforme sor­ rette sulle spalle da uomini) , di quadri viventi, " parlate " o canti di lamentazione. La Passione compare precocemente tra i fenomeni di rivitalizzazione della tradizione agropastorale. Nel capitolo 1 abbiamo già parlato di quella da noi incontrata negli anni settanta a Belvedere Langhe. Proseguendo la ricerca fu possibile ben presto constatare che i protagonisti e i promotori si contavano in mag­ gioranza tra le persone più mobili nel territorio, attive nel contesto più ampio, piuttosto che tra quelle più legate ai limiti del paese e a un vecchio mestiere contadino . Sono quelli che definimmo i " pendolari " , non solo in quanto regolarmente pendolavano, ap­ punto, fra Belvedere e i centri maggiori o le zone industriali per attività lavorative o di studio, ma anche in quanto, più in genera­ le, svolgevano normalmente attività in con testi culturali e sociali moderni (dalle amministrazioni locali alla scuola) . Un a successiva survey su campione dei belvederesi confermò in termini di analisi statistica l'ipo tesi che i promotori e gli attori della festa fossero 54

effettivamente i nostri pendolari, e lo stesso risultato si riscontrò poi per altre feste in diverse zone della regione ( Bravo, 1984, 2005a, pp. 21 ss . ; R. Grimaldi, 1987) . Così pure questo tipo particolare di misurazione mise in chiara evidenza il rapporto organico tra i feno­ meni della riproposta e i processi dello sviluppo . Sono i pendolari stessi che, in quanto nell'alternanza tra contesti sociali e culturali differenti sono oggetto di aspettative di ruolo diverse se non diverge n ti, trovano nella Passione un riferimento e un orientamento importante, una sorta di punto fermo, sia pure rituale, nei loro percorsi; al tempo stesso fungono da mediatori di esigenze e modalità espressive, contribuendo ad assegnare alla Pas­ sione codici e valenze inedite rispetto alla vecchia comunità. Ma anche per gli altri belvederesi questa Passione composita rappre­ senta un 'opportunità di mediazione verso la complessità della cul­ tura e della realtà esterna. Infine, anche per quanti risiedono e ope­ rano nei contesti urbanizzati ed economicamente avanzati la pos­ sibilità di partecipare a questa offerta di ritualità e di compattezza d'interazione, sia pur concentrate in un tempo cerimoniale, funge da controparte ai disagi conseguenti a un periodo di intense tra­ sformazioni socioeconomiche, demografiche e culturali. Riprendendo il calendario, dopo il ciclo di Natale e Capodanno osserviamo un importante oggetto di riproposta ma anche con molti casi di continuità: la ritualità del Carnevale. La vitalità di queste performance è osservabile in tutto il paese. Tra l'altro, in molti Carnevali si manifesta una presenza animale che ha suscita­ to l'attenzione dei protagonisti del revival ed è stata ripristinata in alcuni casi. Si tratta della capra e di un selvatico, l'orso, ben noto nella tradizione popolare anche nel resto d'Europa (Bravo , 2005a, pp. 71 ss. ; 2005b, pp. 44-8) . Ancora una volta a Magliano Alfieri, già verso la metà degli anni settanta, il Gruppo spontaneo reintroduce nel rinato Carnevale le maschere della capra e dell'orso, dei quali riproduce i costumi secondo tradizione. Insieme alla capra, l'orso torna in vita nel 1995 anche a Volvera, nella cin tura industriale torinese, ad opera di gio­ vani impiegati, professionisti, studenti e operai; la maschera ripren­ de i suoi giri per il paese con il suo comportamento aggressivo, spe55

cialmen te nei confronti delle giovani, atteggiamento che solo un domatore e un cacciatore armato di fucile riescono a contenere. Probabilmente maschere animali come l'orso, più che per le loro valenze simboliche meno leggibili nel contesto attuale, hanno attratto interesse come forti marcatori di identità e stimolato curio­ sità per il loro carattere insolito e a suo modo rudemente trasgres­ sivo. Si riscontra insomma, come rileva Bravo ( 2005a, p. 79) , u n a l o ro es p ress ività g rottesca e i n ge n ua , m i nacciosa e a l te m po stesso estra n ea e fa m i l ia re, c h e l e d isti n g u e n etta m e nte d a l l e fi g u re a n i m a l i m ed ia tic h e p i ù co n s u e ­ t e : l e p rese nze p i e n e d i g razia d e i d oc u m e nta ri natu ra l istici [ ... ] l e b e n d iseg nate, n iti d e e u m a n izzate besti o l e d is n eya n e; l e e l a b o ra te fie re, u n ico rn i o d ra g h i d eg l i effetti s pecia l i . O rso e ca p ra ci pa rla n o d e l l ' i rri p eti b i l ità d i q u e l pa ese e d i q u e l la cu ltu ra , p u re a n o i così vici n i .

Anche in Campania un orso fa nuovamente la sua comparsa dopo una lunga interruzione a Chiusano San Domenico (Av) , dove si esibisce nei consueti comportamenti aggressivi controllato da cac­ ciatori armati di fucile che lo trattengono con lunghe catene. A conferma del carattere trasgressivo e contadino dell'orso vogliamo riportare il caso di Satriano di Lucania, in un tempo e una zona ancora lontani dalle correnti della riproposta: qui l'orso, nuova­ mente trattenuto con una grossa catena dai suoi conduttori, nel corso di più giorni girava di casa in casa, vi si in traduceva di pre­ potenza e cercava di impadronirsi di ogni genere di alimento. Ma al momento della rilevazione, febbraio 1980, le cose non stanno più così. Ormai l'orso si limita a sfilare in corteo un solo giorno, una maschera " normale " tra le altre, la sua sfera di comportamen­ ti si è limitata e ha perso aggressività: secondo il ricercatore, si trat­ ta dell'effetto di " suggerimenti " dei " rappresentanti locali del clero e dell'ordine pubblico " , con " l'appoggio della borghesia e dei ben­ pensanti locali " . Qui la tradizione agro pastorale non è ancora patrimonio D EA, ma un'imbarazzante eredità dei villani da nascon­ dere e reprimere (Spera, 1982, pp. 12-7) . Segue il Carnevale il periodo quaresimale, per il quale abbiamo già notato l'importanza delle cerimonie di questua, in particolare del

riproposto Canto delle uova. Dopo la settimana santa e le Passioni, il calendario ci conduce alla tuttora diffusa ritualità del maggio. Continuità rivelano infine le numerosissime feste patronali, nelle quali nuovamente non mancano interventi di rinnovamento con l'organizzazione di eventi e la presenza di visitatori e turisti. Lo stes­ so vale per le ricorrenze dei santi più importanti, per i molti culti e pellegrinaggi locali e per le celebrazioni dedicate alla Vergine; qui, accanto a singolari persistenze cerimoniali e simboliche, può anche proseguire l'azione repressiva e normalizzatrice delle autorità eccle­ siastiche, come nel caso del settembrino pellegrinaggio al santuario di Montevergine sul monte Partenio ( Av) per la devozione alla loca­ le Madonna nera, la Mamma Schiavona dei napoletani. Prima è stato imposto il divieto di passare la notte precedente alla celebra­ zione nella chiesa, come era per molti consuetudine, al quale i fede­ li hanno risposto trascorrendo le ore notturne all 'esterno e cantan­ do e danzando al suono del tamburello tammurriate dedicate alla Vergine nera (Niola, 2000, pp. 66-7) . Più di recente si sono decisa­ mente scoraggiate le esibizioni dei femminielli, travestiti e transes­ suali, per i quali questo pellegrinaggio era tradizionalmente un'im­ portante occasione di devozione e di incontro . La definizione in progress dell'insieme di questi beni culturali D EA, la loro tutela e valorizzazione, si situano dunque in un contesto assai articolato e dinamico, in cui possono persino permanere vec­ chie contrapposizioni tra ufficialità della chiesa e delle classi lette­ rate e tradizione contadina, e in cui, soprattutto, oggi s'intreccia­ no ri proposte e persistenze rifunzionalizzate in modo organico e inedito ; tutto ciò esige da chi si accinga a operare nel settore soli­ da preparazione antropologica e storica, ma anche attenzione e sensibilità al concreto e al nascosto . 3.3. Musei, ecomusei Sappiamo che la seconda componente importante in cui si esplica il rinnovato in te resse per la tradizione agropastorale è quella dei musei contadini e locali, musei etnografici di dimensioni molto varie, in cui sono esposti principalmente reper­ ti attinenti al lavoro manuale preindustriale: di coltivatori, poi di pastori, pescatori, fabbri ferrai, carradori, bottai, minatori, carbonai . . .

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La crescita numerica di questi musei negli ultimi due decenni del Novecento è stata singolarmente rapida e diffusa. Nel 1985 un Primo censimento dei musei etno-agricoli in Italia ne rileva solo un centinaio e mezzo (Togni, Forni, Pisani, 1997, p. 11) . Poco più tardi, all'inizio degli anni novanta del secolo scorso, un altro cen­ simento, L 1talia dei musei: indagine su un patrimonio sommerso ( Primicerio, 1991 ) , prende in considerazione tutti i tipi di musei e ne registra un totale di J . J 1 1 . È interessante un esame più articola­ to dei dati che esso raccoglie: praticamente la metà dei musei si è costituita nel Nord, anche se i più lenti ritmi di sviluppo, la con­ seguente presunta conservatività e la consistenza dei ben noti patrimoni archeologici e artistici indurrebbero a prima vista a ipo­ tizzare un maggior peso per il Centro, che invece arriva soltanto a un terzo circa, e per il Sud, che sfiora appena un quinto del tota­ le. È inoltre notevole l'ampia diffusione sul territorio; un comune su cinque, e uno su due di quelli tra i 1o.ooo e i 1oo.ooo abitanti, registra almeno un museo . Benché non siano previste categorie specifiche che permettano di distinguere immediatamente i musei che ci interessano, l'analisi e la rielaborazione dei dati e delle tabel­ le consentono di individuarne poco più di 400, un settimo circa del totale. Negli anni novanta del secolo scorso si succedono varie rilevazio­ ni. Un 'indagine del 1997 registra precisamente 476 musei, definiti " etnografici " . Nuovamente la maggiore densità risulta al Nord del paese e il Piemonte è al primo posto con 70 musei (Togni, Forni, Pisani, 1997) . Al febbraio 1999 i nostri musei sono stimati in tota­ le 464, dei quali nuovamente 261 nell'Italia settentrionale, secon­ do i dati del sito Museinrete, costituito nel 1998 dal Museo nazio­ nale di arti e tradizioni popolari di Roma ( http: //www. m usei n re­ te. n et) . Infine una ricognizione dei musei contadini, etnografici, locali, su tutto il territorio nazionale, promossa e coordinata dalla Commissione nazionale per i beni demoetnoantropologici costi­ tuita presso il M I BAC , rileva per l'inizio del 2000 poco meno di 1 . 200 casi, dei quali ci risulta che più di un sesto sono in Piemonte, un totale probabilmente sottostimato . Si tenga conto che si tratta di una realtà in movimento: molti nuovi musei, anche di ridotte

dimensioni, sono progettati e allestiti sul territorio, altri invece chiudono dopo un'esistenza effimera (Bravo, 2005a, pp. 115 ss .; M I BAC, 2004) . Tutti questi censimenti presentano dati che confermano in modo sostanziale molte delle posizioni che sono state sostenute in questo volume. La larga distribuzione sul territorio e nei comuni, anche piccoli, dei musei, il prevalere della proprietà comunale e privata, sono infatti leggibili come espressione di un impegno capillare, dell'ampia disponibilità locale di leader, intellettuali, insegnanti, imprenditori, politici e associazioni a investire nella loro creazione e gestione energie, risorse e tempo - come del resto è avvenuto per la riproposta delle feste -, con un 'importanza essenziale del lavoro volo n tar io non solo nella fase fondativa, ma per l'apertura dei musei e la guida ai visitatori. Ci troviamo di fronte, insomma, a una mobilitazione popolare, spontanea e non eterodiretta, per la costituzione e la tutela attiva del patrimonio D EA. Va detto tuttavia che la situazione presenta alti e bassi. È indubbio che gli esemplari del patrimonio materiale locale vengono comun­ que in ogni sede messi al riparo, difesi dall'impatto del tempo , del­ l'uso e delle intemperie. Ma, dato che gli oggetti per le collezioni sono il più delle volte raccolti presso le famiglie della comunità e offerti in un primo periodo alla fruizione locale, almeno inizial­ mente la conoscenza di quelle che abbiamo chiamato le compo­ nenti immateriali di tali oggetti, i riferimenti tecnologici, rituali, simbolici, sociologici, è ancora data per scontata come sfondo del vivere quotidiano o almeno affidata alla memoria dei più anziani. Anche per questo i supporti di vario tipo, cartelli, scritte, schede ecc. , mostrano una diffusione limitata e irregolare. È però vero che, senza lavoro di ricerca sul terreno e di documentazione, quel tipo di memoria e di conoscenza per esperienza sbiadisce velocemente con il passare degli anni e con la scomparsa dei testimoni più anzia­ ni, e non è più possibile comunicarla, tanto più se il museo dura nel tempo e inizia a rivolgersi a un pubblico esterno, alle scuole, ai turisti. Commentiamo infine la distribuzione territoriale dei musei locali, con l'addensamento al Nord. Questa circostanza conferma, an alo59

gamente alla riproposta delle feste e cerimonie, come l'attenzione alle tradizioni agro pastorali sia soprattutto l 'effetto dello stesso svi­ luppo, dell'esperienza non indolore del mutamento e delle frattu­ re e perdite che esso ha implicato . La riproposta contribuisce a for­ nire al mondo contemporaneo una sorta di controparte, a collo­ carvi il richiamo alle radici e alla comunità, a inserire nel globale il locale con la sua irriducibile vitalità. 3.3.1. Svi l u p p i nei m usei Nel corso della loro esistenza ormai di alcuni lustri, i musei locali mostrano segni di evoluzione quanto a trattamento delle collezioni e a rapporti con l'utenza e con le isti­ tuzioni. In questo quadro vanno distinti alcuni casi particolari, che si collocano fin dall'inizio su posizioni avanzate e sono stati proget­ tati e attualmente diretti da esperti di qualità. Oltre al Museo nazio­ nale degli usi e costumi della gente trentina (cfr. Kezich, Poppi, 2006) , va ricordato il Museo degli usi e costumi della gente di Ro­ magna, costituito nel 1971 a Sant'Arcangelo di Romagna (RN ) , con materiali sulla cerealicoltura, i mulini, il ciclo della canapa, il me­ stiere del fabbro ferraio e l'abbigliamento; esso organizza convegni e collabora con il Museo di arti e tradizioni popolari di Roma e con l'università ( M I BAC, 2004, pp. 173 ss. ; Togni, Forni, Pisani, 1997, pp. 223-34 e 288-90) . Infine a Rocca Grimalda nell'Ovadese ( AL ) , il locale Museo della maschera nasce dal Laboratorio etnoantropolo­ gico con sede nel paese, voluto da studiosi esterni che intorno alla metà degli anni novanta del secolo scorso si erano recati in paese per assistere alla Lachera, una mascherata del periodo carnevalesco di notevole interesse e complessità: dal laboratorio e dalla Lachera germina l'idea di un museo, appunto, della maschera, che sarà prontamente realizzato. Qui dunque l'iniziativa parte direttamente da addetti ai lavori e sarà sostenuta dal Comune, dalla Provincia di Alessandria e dalle Università del Piemonte orientale e di Genova: con queste il museo di Rocca Grimalda ha rapporti regolari, come pure con altri musei europei, e realizza ogni anno un ampio conve­ gno internazionale (Bravo , 2005b, pp. 102-3) . Questi casi esemplari propongono alcune linee di attività su cui si collocheranno molti dei restanti musei nel loro sviluppo e anche

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quelli di recentissima formazione. Intanto si diffonde il ricorso a esperti esterni, sia antropologi, e non di rado altri studiosi, storici, archeologi, facenti capo a università, per contenuti e ricerche, sia architetti e art director, artisti, grafici, per allestimenti, sia infine studiosi delle Soprintendenze. Come a Rocca Grimalda, qualche nuova struttura museale nasce già con il contributo di antropologi, vedi l'Etnomuseo di Roccagorga in provincia di Latina (nato nel 1999) o il Museo delle feste e tradizioni popolari di Casertavecchia (inaugurato nel 2005) , per fare solo due esempi. Parallelamente la semplice funzione della conservazione cessa di essere sempre quella primaria; assume via via una più esplicita importanza quella della comunicazione, con la conseguenza di rilievo che il museo viene considerato e trattato sempre più come una macchina per rappre­ sentare e comunicare; a questo proposito Pietro Clemente (1996, pp. 115 7) concepisce l'insieme delle modalità di comunicazione del museo come una " scenografia unitaria", in cui l'aspetto scenografi­ co si rivolge all'immaginario degli utenti, va incontro alla loro sog­ gettività, superando i limiti di un approccio puramente di " mes­ saggio intellettuale " (vedi anche M I BAC, 2004, contributi vari, in particolare su Lazio, Piemonte e Toscana) . In questo impegno a comunicare si va oltre il semplice ricorso a scritte, tabelloni, planimetrie, schemi e didascalie, né ci si limita a riorganizzare le esposizioni; si fa uso in realtà di tutta una gamma di supporti e tecniche multimediali e informatiche, dalle più sem­ plici videocassette ai più complessi prodotti audiovisivi, alle zone computer, per la navigazione in ipertesti o con la possibilità di seguire percorsi virtuali tra più musei, alle installazioni scenografi­ che. In alcuni casi le soluzioni presentano un particolare interesse: cito a questo proposito due musei laziali in via di realizzazione, il Museo della zampogna a Villa Latina e il Museo della pastorizia e della transumanza di Picinisco, entrambi in provincia di Frosinone: qui, con l'apporto di un antropologo dell'Università La Sapienza di Roma, si è voluta realizzare per l'utente, in modo originale, l'espe­ rienza dell'ascolto oltre a quella visiva. L'audizione di brani musi­ cali per zampogna, nel primo, e quella dei richiami, canti, voci dei pastori, e dei suoni e dei campanacci del gregge, nel secondo, costi-

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tuiscono una parte fondamentale della rappresentazione offerta, progettata autonomamente come comunicazione non subordinata anche se complementare alle informazioni visive e informatizzate; in altri termini è l'ascolto che può collocare il visitatore nella realtà culturale e territoriale che ha al centro il museo (Ricci, 2004) . I musei comunicano ormai la loro esistenza e informano delle loro collezioni e attività anche mediante Internet, in siti propri o più spesso inseriti in quelli delle amministrazioni regionali e provincia­ li. A questo proposito vogliamo ricordare almeno l'esperienza pio­ nieristica del METL (Musei etnografici della Toscana e del Lazio) , un sistema che presenta schede articolate dei musei e collezioni delle due Regioni, spesso accompagnate da apposite, brevi monografie, e la rete DEMOS, il sistema regionale del Lazio . DEMOS si propone di coordinare, collegare e indirizzare, nel quadro di una griglia remati­ ca e non soltanto territoriale, le attività dei musei già presenti o in via di formazione e le informazioni connesse, e la sua innovazione importante è quella di ampliare l'attenzione anche ai beni DEA vola­ tili o immateriali, inizialmente trascurati dai promotori del revival museale (de Martino, Tucci, 2002; M IBAC, 2004, p. 238) . Una conseguenza di rilievo di questo insieme di innovazioni è che sempre più musei tendono a presentarsi come un centro di attività per la lettura, lo studio, la presentazione di un territorio, dei suoi caratteri etnografici e storici, delle sue memorie e delle sue testi­ monianze materiali. Cresce quindi la loro importanza come refe­ renti per la definizione e per la gestione del patrimonio D EA. Anche su un altro piano si produce un avanzamento : i primi inventari, le etichette sommarie, le prime schede, che pure in diversi formati erano state qua e là sperimentate, vengono con il tempo sostituite con i modelli informa rizzati standard elaborati nell'ambito del­ l'ICC D , Istituto centrale per il catalogo e la documentazione del M I BAC (per i caratteri di questi ultimi vedi i paragrafi 5 . 2 e 5.3) . Queste innovazioni sono accompagnate e promosse da ammini­ strazioni locali, le quali, in numerose Regioni, nel quadro della loro programmazione culturale, prendono vieppiù in considera­ zione i musei locali, iniziano a sostenerli e coordinarli, ma richie­ dono in contraccambio un più formale e articolato impegno ai 62

loro promotori, progetti più precisi e organici per quanto riguarda le loro attività, la catalogazione e il ricorso a competenze qualifica­ te. In complesso Regioni, Province, comunità montane e Comuni si rendono conto delle potenzialità del tessuto dei musei D EA loca­ li per lo sviluppo del territorio; essi stessi si rivolgono a specialisti, universitari e liberi professionisti, per garantire allestimenti e linee di sviluppo efficienti e coerenti. L'impostazione di questo multi­ forme lavoro di qualificazione e sviluppo dei musei ha anche luogo nel quadro del recente Atto di indirizzo sui criteri tecnico-scientifici e sugli standard difunzionamento e sviluppo dei musei del 2001, che prevede, per il riconoscimento delle collezioni e il loro accesso a supporti e finanziamenti, criteri precisi e rigorosi, talora anche troppo e immediatamente stringenti per il sistema diffuso e in movimento dei musei locali. Infine i musei locali ampliano la loro attività in direzione sia della formazione sia dell'organizzazione di mostre, convegni e altri even­ ti . Quanto al primo aspetto , il loro rapporto con la scuola ai vari livelli, anche su proposta e stimolo di quest'ultima, è abbastanza consolidato, mentre talora essi sono coinvolti in corsi di formazio­ ne o master per i loro collaboratori e volontari promossi dall'uni­ versità, dalle Regioni e altri enti; infine possono ospitare studenti per il tirocinio previsto dalle lauree triennali ( PAR. 6.2). Quanto al secondo, l'organizzazione di convegni e seminari, contributo im­ portante alla visibilità del museo stesso, è attività che si sta diffon­ dendo e che permette di stabilire utili e duraturi contatti con il mondo della ricerca scientifica; nello stesso spirito e talora in con­ nessione con i convegni, si realizzano in più casi mostre tempora­ nee, qualche volta concerti o altri eventi. 3.3.2. Eco m usei L'ecomuseo rispetto al museo vero e proprio è una nuova emergenza, anche se in Europa ha vari precedenti storici; esso ha origine, sia per quanto riguarda le prime realizzazioni, sia per il termine stesso, in Francia, dove probabilmente risente del clima generale di contestazione delle istituzioni creatosi con il Ses­ santotto studentesco . È infatti necessario risalire, per questa " inven­ zione francese " , agli inizi degli anni settanta del Novecento, e al la-

voro museografico e organizzativo di importanti museologi quali Georges-Henri Rivière e Hugues De Varine, il quale racconta di aver coniato il nuovo termine nella primavera del 1971. La nuova concezione intende mettere in rilievo, come preciso orientamento per l'attività, il carattere essenziale e organico del rapporto di que­ sta istituzione con il suo territorio, con l'ambiente e con la popola­ zione, e insiste sul coinvolgimento attivo di quest'ultima (De Varine, 2005, pp. 43 ss. e postfazione di D. ]alla) . Un primo esempio di eco museo francese vede affiancarsi nel pro­ getto e nella realizzazione Rivière e De Varine: si tratta del territo­ rio che fa capo al grande centro carbonifero e metallurgico di Le Creusot (Saone-et-Loire) . Qui, all'affermazione di queste attività industriali, che hanno segnato l'esistenza della popolazione e il pae­ saggio dopo quelle rurali e artigianali, segue la crisi dell'acciaio : tutto un mondo cresciuto intorno agli insediamenti delle acciaierie e delle fornaci, ai trasporti per l'acciaio e ai quartieri operai, vive un periodo di precarietà e di incertezza. Il progetto è pensato nel 1971 e presto attivato ; si mobilitano la popolazione, le imprese, i sinda­ cati, gli operai negli allestimenti espositivi, che si fondano sulle memorie, il recupero dei siti delle attività produttive, la documen­ tazione e le ricerche sulle condizioni di vita attuali e passate: si riper­ corrono con ampia partecipazione collettiva e sforzo di comunica­ zione la storia e i problemi del presente, quasi a creare un tessuto condiviso che consenta di inserirvi la crisi e intravedere possibili sbocchi (Bravo, Cafuri, 2004, pp. 8-9 ; De Varine, 2005 , pp. 287 ss .) . Un'altra significativa realizzazione francese è quella più tarda di Fresnes, un comune della banlieue parigina. Essa risale agli anni ottanta del Novecento ed è connessa a un aspetto molto particola­ re del territorio . Fresnes ospitava infatti un carcere che nel corso della Seconda guerra mondiale gli occupanti tedeschi trasformaro­ no in un disumano luogo di detenzione per ebrei, perseguitati politici e condannati a morte. Oppressa da questa eredità così odiosa e pesante, la popolazione aveva chiesto a Parigi di cambia­ re nome al comune, per obliterarla. Ma l'etnologa direttrice dell'e­ co museo, coadiuvata poi da un 'équipe multidisciplinare, operò di­ versamente su quella memoria così persecutoria; invece di tentare 64

di neutralizzarla con la ricostruzione idilliaca del passato rurale, promosse l'impostazione di una ricerca e documentazione tra la popolazione proprio sul carcere e su F resnes durante l' occupazio­ ne. N e risultarono una mostra fotografica e un volume: il passato così temuto ed esorcizzato rivelò invece episodi di solidarietà con gli ebrei, le difficoltà affrontate dagli abitanti nel periodo bellico, vicende e volti quotidiani di allora. Ancora una volta la rielabora­ zione della memoria e dell'appartenenza al territorio si attua con gli strumenti della partecipazione e della creazione di conoscenza come prodotto diffuso e condiviso . Negli anni successivi l'ecomu­ seo di Fresnes continuerà la sua attività e si occuperà di una varie­ tà di temi locali, con interviste, memorie, coinvolgimento degli interessati nell'elaborazione di dati e notizie e negli allestimenti (Cafuri, 2002) . Nel corso del tempo l'idea dell'ecomuseo si diffonde e realizzazioni diverse sono oggi osservabili in tutti i continenti. Ovviamente que­ ste si articolano in modo differenziato e in vari casi, con gli anni, si trasformano in una sorta di centro d'iniziativa che promuove la vita delle comunità, le sensibilizza alla loro storia e trasformazioni, le organizza ai fini della raccolta delle loro memorie, della documen­ tazione dei loro problemi e delle condizioni d'esistenza attuali, della discussione delle loro prospettive e della progettazione e attuazione di forme di comunicazione dei risultati acquisiti. Una definizione di ecomuseo non può essere molto stringente pro­ prio per i suoi caratteri qualificanti: si tratta intanto della varietà delle esperienze che si sono succedute nei diversi contesti. Inoltre, il territorio stesso che esso interessa non viene tanto fatto corri­ spondere a una ben tracciata delimitazione di carattere puramente amministrativo, il più delle volte viene invece individuato in base a una o più caratteristiche diffuse, di tradizioni locali, di attività e produzioni tradizionali, paesaggistiche, storiche, urbanistiche, in­ dustriali; può dunque avere un'estensione molto variabile e, come abbiamo visto, essere riconducibile anche a uno spazio urbano. In­ fine abbiamo il dato costitutivo e specifico del coinvolgimento della popolazione del territorio stesso, con le sue articolazioni economi­ che e sociali, le amministrazioni, le imprese, gli studiosi locali, i te-

stimoni ed esperti delle tradizioni. In effetti è proprio in interazio­ ne continua e creativa con questa realtà complessa, stimolando e accettando ogni forma di partecipazione, che i promotori, esperti, funzionari e volontari degli eco musei, provvederanno a delineare e ad attuare le attività. La presenza di un'associazione culturale, tea­ trale o di un coro, ad esempio, può intervenire a integrare un pro­ getto con ulteriori forme di iniziative, apparentemente collaterali al tema principale e originario già definito, ma in realtà sentite e radi­ cate nel territorio; insomma, l'ambito di attività e i contenuti pro­ posti possono essere assai mutevoli, i risultati non scontati, l' aper­ tura di nuovi campi di interesse fisiologica. In ogni modo possiamo concludere che gli ecomusei non consistono in un contenitore chiuso, ma coprono e collegano organicamente in un programma di ricerche, mostre, interventi, itinerari, una serie di emergenze e problematiche in un dato territorio, tra le quali emergenze possono rientrare anche uno o più musei e collezioni locali. In Italia si tratta di un tipo di realizzazione recente, che ha inizio più tardi dello sviluppo dei musei contadini e locali: allo stato attuale gli ecomusei nel nostro paese, a quanto risulta dal sito http:/ /www.eco m u sei . n et, sarebbero 83, dei quali circa un quarto in Piemonte, seguito da Toscana, Trentino ed Emilia Romagna; il Piemonte è stato anche la prima Regione ad approvare nel 1995 una legge intesa a coordinare, qualificare e sostenere gli sforzi degli ecomuse1. Presentiamo infine pochi sommari esempi per meglio comunicare i caratteri di questo nuovo tipo di istituzione nel nostro paese. L'Ecomuseo della montagna pistoiese, sull'Appennino tosco-emilia­ no, intende rappresentare le vicende della comunità locale nella rete dei rapporti tra bosco, acqua e ambiente montano. L'esperienza di questo contesto è fornita al visitatore attraverso sei percorsi nel ter­ ritorio: quelli del ferro, dell'arte sacra e popolare, della vita contadi­ na, del bosco, della pietra e del ghiaccio, quest'ultimo con la serie delle ghiacciaie, strutture circolari con il tetto in paglia usate per immagazzinarlo e conservarlo durante il periodo caldo. In provincia di Reggio Calabria, l'Ecomuseo delle ferriere e fonderie di Calabria, promosso dall'Associazione calabrese di archeologia industriale, ha 66

in progetto la salvaguardia e il riuso del sistema complesso di risor­ se idriche, forestali, minerarie, infrastrutturali, che, intorno alle fer­ riere e fonderie, produsse nel periodo borbonico lo sviluppo di un polo industriale con 2 . 5 00 occupati. Infine sta crescendo l'Ecomuseo urbano comunale di T orino, per il quale sono mobilitate le circo­ scrizioni in un programma articolato che prevede, in collaborazione con enti diversi, una molteplicità di iniziative: tra queste la Mostra fotografica sulla Manifattura tabacchi e il suo borgo, l'esposizione di fotografie e cimeli di un eroe della Resistenza, la documentazione sulla vita di lavandaie e lavandai di Bertolla, un quartiere cittadino, e altro ancora (Ecomusei, 2003; Maggi, Falletti, 2000, pp. 69-81; http:/ /www.co m u n e.tori n o. it/eco m useo) . Questi dati sommari confermano anche in I tali a la grande variabi­ lità delle realizzazioni ecomuseali. Per quanto concerne il patrimo­ nio, l'attività degli eco musei apre agli spazi urbani, alle organizza­ zioni e alle istituzioni della modernità, alle produzioni industriali, all'ambiente, e le ricerche che essa richiede e promuove implicano apporti multidisciplinari : tutto ciò pone problemi e dovrebbe sti­ molare creatività ed elaborazioni per quanto concerne l'insieme dei beni D EA, una concezione di cultura o tradizione popolare che non sia solo agropastorale e preindustriale. 3.4. Co nclusioni I caratteri specifici degli ecomusei mettono ulteriormente in rilievo una considerazione importante, già anticipa­ ta a proposito delle feste, che riguarda i consulenti e gli esperti chia­ mati a dare il loro apporto nel settore del patrimonio D EA, si tratti di interventi di ricerca, rilevazione e comunicazione dei suoi risultati, di schedatura, di allestimenti e di valorizzazione, o infine di valutazione della qualità delle iniziative che si sviluppano sul territorio. Quello che vogliamo qui mettere in evidenza è la necessità, per ogni operatore esterno, di lavorare mantenendo un rapporto orga­ nico con la popolazione, le comunità, e d'intrattenere con queste una regolare negoziazione, una contrattazione di senso su quanto si sta realizzando . E poiché queste non sono entità indifferenziate e amorfe, si tratta in realtà di rapportarsi al contesto nelle sue arti­ colazioni territoriali, socioeconomiche, culturali, associative, e agli

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attori sociali in gioco, leader, intellettuali e quanti altri contino nella scena locale, come pure alle sue istituzioni, scuole, strutture produttive; questo significa al tempo stesso tener conto di intera­ zioni e conflitti, delle strategie identitarie in corso di attuazione, come dei rapporti con l'esterno, con i centri di potere economico, politico e mediati co , dell'accesso ai flussi delle risorse, finanziarie, turistiche, d'immagine . Questo stile di lavoro implica certamente doti di sensibilità e di attenzione, uno sguardo acuto e imparziale, che tra l'altro eviti di concepire esplicitamente o implicitamente tutto il territorio soltan­ to come lo scenario per la conservazione e la rappresentazione di un patrimonio, nel quale le attività produttive e le connesse esigenze finiscano per essere più che altro un elemento di disturbo . Implica inoltre la volontà e la capacità di impegnarsi in una prima docu­ mentazione sui caratteri del contesto : per questo si può fare ricorso a molte informazioni quantitative utili e già disponibili, custodite negli uffici provinciali, delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura, delle sedi I STAT, e negli archivi e uffici comunali. Si potrà così venire a conoscenza di una molteplicità di dati rilevanti, a partire da quelli demografici, sull'occupazione, sulle unità produttive, sul turismo, sulle associazioni e così via. Anche facendo tesoro delle conoscenze così acquisite sarà poi utile già pre­ liminarmente realizzare interviste e colloqui con testimoni chiave locali, per raccogliere informazioni e opinioni sulle comunità e le loro articolazioni, i notabili, gli interessi in gioco, i processi e le ini­ ziative in corso, le prospettive. In secondo luogo l'esperto e consulente esterno avrà cura, prima di affrontare gli specifici impegni ai quali è chiamato, di costruirsi, sulla base della letteratura e della documentazione disponibili, una sufficiente conoscenza storico-etnografica, fattuale e precisa, del territorio, con particolare riferimento alle tradizioni popolari e loca­ li e ai fenomeni della loro rivitalizzazione, ma anche, dove il terri­ torio considerato lo richieda, e come ci insegnano molti ecomusei, alle strutture industriali, alle memorie operaie, agli insediamenti urbani. Questo aggiornamento preliminare è essenziale non solo per affrontare correttamente, in modo al tempo stesso informato e 68

creativo, gli interventi che si è chiamati ad attuare, ma per stabilire e m an tenere su fondamenti concreti, e significativi sul piano loca­ le, una rete di rapporti, interazione, dialogo e cooperazione. Un corretto e lucido ordinamento di tutte queste conoscenze e il supporto di un'efficiente rete di rapporti forniranno certamente una solida base per interventi riusciti ed efficaci, e soprattutto, il che è fondamen tale per una reale tutela e valorizzazione del patri­ monio, durevoli. Pe r riassumere ...

La d isti nzi o n e tra ben i materi a l i e i m m ateri a l i ha u n ' uti l ità prati ca pu rc h é ve n ga i ntesa in m o d o corretto: i n rea ltà tutti i b e n i cosi d d etti materi a l i h a n n o u n a co m pon ente n o n materi a l e, d i tecno l ogia, di s a pe­ ri , di m e m o rie, a l l u d o n o a i nterazio n i tra l e pers o n e, m entre q u el l i i m m ateria l i o vo lati l i si rea l izza n o i n ge n e re attrave rso oggetti o u na m ediazi o n e m ateri a l e. • N e l co m pl esso cic l o d e l l e feste n o n tutte h a n n o m a n ifestato co nti ­ n u ità o avuto l o stesso ri l i evo n e l fen o m e n o d e l l a ri p ro posta ; q u i n d i esse h a n n o avuto u n accesso d iffere nziato a l l a patri m o n i a l izzazi o n e. Tra q u e l l e c h e vi h a n n o assu nto m a ggi ore i m porta nza citi a m o la sa cre ra p­ presentazi o n i , i Ca rn eva l i e le ceri m o n ie di q u estu a . • l m usei etno grafi ci loca l i , seco n d o e l e m e nto fo n d a m e nta l e d e l l a rivita l izzazi o n e d el l a cu ltu ra agro pasto ra l e, m ostra n o u n a crescita n u m e ri ca n otevol e n el l ' u lti mo q u a rto del N ovecento, a rriva n d o fi n o a 1 . 2 0 0 agl i i n izi d e l D u e m i l a . L' a m pia d iffu s i o n e su l territo ri o e l a mag­ gi o r presenza n e l N o rd n e i n d ica n o i l ca rattere d i risposta attiva a l l o svi ­ l u ppo u rba n o e i n d ustri a l e, q u asi a fo rn i re u n a controparte a i d isagi provocati da ta l e svi l u p po e una so rta d i m u lticu ltu ra l is m o i nterno, su c u i gioca re i pro p ri tem p i d i vita . • La rea ltà dei m usei è i n evo l uzione: si d iffo n d e i l ri co rso a sta n d a rd cata l ografi ci ufficia l i ; si ad otta n o a l l esti m e nti p i ù e l a borati co n i l rico rso a docu m entazio n i i n vi d eo, a co m puter, i pertesti, perco rsi vi rtua l i e s u p ­ porti a u d i ovis ivi va ri ; si presenta no l e co l l ezi o n i m edia nte siti web; si rico rre a esperti d el l ' u n iversità , d el l e so pri nten d enze e a l i beri p rofes­ sion isti . Qu este i n n ovazi o n i sono a p poggi ate e o ri entate d a gl i enti terri •

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to ria l i , Regi o n i , Provi n ce, co m u n ità m o nta n e e Co m u n i , a n ch e n el q ua ­ d ro d i n o rm ative ce ntra l i ; i n pa rtico l a re l e Regi o n i i nserisco n o i m u sei l oca l i n e l l a l o ro pia n ifi cazio n e cu ltu ra l e e ta l o ra li co l l ega no in rete. • U n o svi l u ppo s u ccessivo di n otevo l e i nteresse è q u e l l o d egl i eco­ m usei: non si tratta q u i d i ed ifi ci o co nte n ito ri m a d i u n p rogetto di docu m e ntazi o n e, ricerca e co m u n i cazi o n e c h e rig u a rd a tutto un territo ­ rio e l e s u e em ergenze e p u ò a n c h e co m p re n d e re gl i stessi m usei p re­ senti. Costitutivo ed essenzia l e è il ra pporto di coi nvo l g i m ento d e l l a popolazi o n e ; l 'attività d e l l 'eco m useo p rocede rà d u n q u e, si evo lverà o m uterà d i o ggetto p ro prio i n ris po n d enza a l l ' evo lversi d i ta l e s i n ergi a. • Il ca rattere d i n a m ico, i n n ovativo e d iffuso delle rea l izzazi o n i festive, m usea l i ed eco m usea l i p o n e co m piti i m pegnativi agl i es perti e ai co n ­ su l e nti ch ia mati a d a re i l l o ro co ntri buto. Co n d izi o n e d i base per i l s u c­ cesso e l a d u rata n el tem po d i o g n i i n iziativa è i l ra pporto d i coo pera ­ zi o n e che si ri esce a i n sta u ra re co n l a popolazio ne, n e l l e s u e co n c rete a rti co lazi o n i , sti m o l a n d o e a ccetta n d o p ro poste e co l l a borazi o n e. È i m ­ po rta nte prepara rsi co n l ' esa m e d e i d ati c h e l a d escrivo n o , a pa rti re d a q u el l i soci o-statisti ci , e co n l ' i ntervista a testi m o n i chiave. Pa ri m e nti, l ' i ­ d eazi o n e e l ' attuazio n e d i ogni p rogetto s pecifi co va n n o s itu ate n e l q ua ­ d ro d i u n o stu d i o s ufficiente m e nte a p p rofo n d ito d e l l ' etnografi a e del l a sto ria regi o n a l e e l o ca l e.

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4 . Istituzioni e legislazioni Lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni e gli altri enti locali sono i soggetti istituzionalmente preposti alla conservazione, tute­ la e valorizzazione del patrimonio culturale. Il Titolo v della parte seconda della Costituzione italiana, recentemente riformato (Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) , stabilisce le attribu­ zioni allo Stato e alle Regioni in materia di beni culturali, asse­ gnando al primo la potestà legislativa esclusiva (art. 117) e alle seconde la valorizzazione in via concorrente con lo Stato . Lo Stato attua la tutela nei musei e sul territorio mediante gli orga­ ni centrali e periferici (Direzioni generali, Comitati tecnico-scien­ tifici, Direzioni regionali, Soprintendenze periferiche) del ministe­ ro per i Beni e le Attività culturali (MI BAC) allo scopo di conser­ vare e trasmettere il patrimonio culturale alle future generazioni. Le Regioni attuano la valorizzazione dei patrimoni culturali regio­ nali nei musei e sul territorio, attraverso le proprie strutture e me­ diante gli strumenti propri della programmazione. I processi di conservazione, tutela e valorizzazione dei beni D EA riguardano, dunque, tanto le istituzioni statali quanto quelle regio­ nali, secondo modalità differenziate. Sicuramente per questi beni gli aspetti legati alla valorizzazione hanno finora prevalso su quelli legati alla tutela. 4.1. lo Stato Il recente riassetto normativa statale, avviato nel 1998, ha ormai ratificato i beni demoetnoantropologici come parte integrante del patrimonio culturale nazionale, nominandoli con un termine di significato unitario condiviso dalla comunità scien­ tifica italiana (Clemente, Candelora, 2000) . La legislazione italiana in materia di beni culturali precedente al 1998 fa riferimento a tali beni in modo parziale e spesso ambiguo, attraverso terminologie non unificate, legate a significati compren­ sibili solo se storicamente contestualizzati. Tale confusione è evi­ dente nella prima importante legge di tutela, la legge 1° giugno 71

1939, n . 1089, Tutela delle cose d'interesse artistico e storico, il cui art. 1 recita: «Sono soggette alla presente legge le cose, immobili e mobili, che presen tano in te resse artistico, storico, archeologico o etnografico, compresi: a) le cose che interessano la paleoetnologia, la preistoria e le primitive civiltà»; laddove i riferimenti all"' etno­ grafia" e alle " primitive civiltà" vanno colti nella realtà italiana di quel periodo storico, in cui con il termine " etnografia" veniva indicato l'ambito disciplinare successivamente definito come " de­ mologia" (Cirese, 1973) , mentre le " primitive civiltà" si collegava­ no fondamentalmente alle discipline paleoetnologiche e preistori­ che, ma con un 'ambiguità terminologica di fondo che generava confusione e intrecci interdisciplinari con l"' etnologia" extraeuro­ pea (Lattanzi, 1990) . C'è da dire che il riferimento della legge 1089l1939 alle «cose che interessano la paleoetnologia, la preistoria e le primitive civiltà» non è stato mai rivisto né aggiornato ed è rimasto prese n te e inva­ riato in tutta la successiva legislazione in materia, fino a quella attuale. In seguito alla legge 1089l1939, nel D.P.R. 27 luglio 1977, n. 616, At­ tuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382, si ritrova un accenno al " patrimonio etna-antropologico " (art. 48) . Ma nella sostanza, il quadro legislativo in materia di beni culturali, ante 1998, individua il patrimonio culturale da tutelare essenzialmente nei beni archeologici, storico-artistici e architettonici. Con l'emanazione del D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 112, Conferimento

di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, i beni D EA entrano a far parte a pieno titolo dei beni cul­ turali; questi ultimi, infatti, vengono definiti nell'art. 148 come : «quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monu­ mentale, demoetnoantropologico , archeologico , archivistico e librario e gli altri che costituiscono una testimonianza avente valo­ re di civiltà così individuati in base alla legge». Questa impostazione viene confermata nel D.Lgs . 20 ottobre 1998, n. 368, Istituzione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, e soprattutto nel D . Lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, Testo Unico delle 72

disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, che riassume e innova le preceden ti leggi di tutela. Nel testo di legge, fra i beni culturali disciplinati a norma del Ti to lo 1 , vi sono (art. 2) «le cose immobili e mobili che presentano interesse artistico, storico, archeologico, o demo-etna-antropologico». Il Regolamento di organizzazione del ministero per i Beni e le Attività culturali (D.P.R. 29 dicembre 2000, n. 441 ) , emanato in attuazione del D.L. 368/1998, colloca le competenze dei beni D EA nella Direzione generale per il patrimonio storico, artistico e demo­ etnoantropologico, nel Comitato tecnico-scientifico per il patri­ monio storico, artistico e demoetnoantropologico e nelle Soprin­ tendenze per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropolo­ gico. A seguito di tale regolamento, il M IBAC ha costituito il profi­ lo professionale di etnoan tropologo, che tuttavia, allo stato attuale, risulta ancora inapplicato. Con l'emanazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42) la normativa in materia di beni cul­ turali è stata ulteriormente rivista e integrata. Il Codice rappresenta il frutto di una riforma organica della disciplina (Cammelli, 2004) e tratta la materia dei beni culturali in modo onnicomprensivo, secondo una logica unitaria che include anche i beni paesaggistici. L'art. 2 recita, infatti: «Il patrimonio culturale è costituito dai beni culturali e dai beni paesaggistici» . Per meglio comprendere il senso del Codice, può essere utile la lettura della relativa Relazione illu­ strativa (www.aed o n . m u l i n o. it/riso rse/co d i ce/co d ice_re l azi o n e. pdf) . Nel Codice, i beni DEA sono riconfermati come parte del patrimo­ nio culturale nazionale, ma vengono rinominati in beni etnoan­ tropologici . La Relazione illustrativa sottolinea tale modificazione (p. 16) , motivandola con la scelta di un aggettivo che sarebbe «scientificamente più corretto» . In realtà, l'aggettivo " demoet­ noantropologico " corrisponde al settore scientifico-disciplinare universitario M - D EA/01 - Discipline demoetnoantropologiche (ve­ di CAP. 6) e, insieme al suo acronimo D EA, è ormai largamente conosciuto e utilizzato in Italia anche al di fuori dell'ambito degli addetti ai lavori, costituendo di fatto un'espressione normalizzata 73

sul cui contenuto vi è ampia convergenza. L'introduzione di un aggettivo più snello può rappresentare una semplificazione termi­ nologica, soprattutto nei confronti dei paesi esteri dove il suffisso " demo " appare spesso di non chiaro significato; resta tuttavia necessario che la riduzione non comporti la perdita di quell'unita­ rietà disciplinare di cui si è detto . Al di là delle dizioni, è importante vedere che cosa nel Codice si intenda per " beni etnoantropologici " , i quali peraltro sono presen­ ti in soli cinque articoli del testo (artt. 2, 10, 12, 101 e 174) e appaio­ no poco assimilati all'impianto di base su cui si fonda il testo stes­ so : un impianto che si configura come pensato e costruito su beni di altra natura, di più antico riconoscimento e di più consolidata tradizione legislativa. Infatti, tutto il resto è orientato sulla natura materiale dei beni e sul valore dato dall'antichità o dal pregio arti­ stico (T ucci, 2005b) . Già nell'art. 2 (Patrimonio culturale) del Codice emerge la natura di " cosa" attribuita al bene culturale: «Sono beni culturali le cose immobili e mobili che [ . . . ] presentano interesse artistico, storico, archeologico, etnoantropologico, archivistico e bibliografico e le altre cose individuate dalla legge o in base alla legge quali testimo­ nianze aventi valore di civiltà» . La dialettica, a volte contraddittoria, fra " beni " e " cose " è sempre stata presente nella legislazione italiana in materia di beni culturali ( Testo Unico, 2000, pp. 7-1 6) . A essa fa riscontro la nozione aperta di bene culturale coniata dalla Commissione F ranceschini alla metà degli anni sessanta dello scorso secolo, secondo cui «bene culturale» è quello che costituisce «testimonianza materiale avente valore di civiltà» (ivi, pp. 18-9) : definizione che è stata poi acquisita, privata dell'aggettivo " materiale " , tanto nel D.Lgs . 112/1998, quanto nel Testo Unico, e infine, come si è visto, nel Codice (art. 2) . La scelta di fermarsi alla materiali tà del bene culturale male si adat­ ta al patrimonio D EA, costituito in larga parte di beni immateriali ( PARR. 2 e 3), che, per loro stessa natura, non sono né mobili né immobili e la cui salvaguardia e valorizzazione richiedono un' at­ tenzione e una progettazione tutte particolari . 74

Anche quando il Codice pone l'attenzione sulle questioni identita­ rie connesse al patrimonio culturale visto come «elemento costi tu­ tivo e rappresentativo dell'identità nazionale» (art. t ) , il riferimen­ to resta sempre alle " cose " , come nell'art. 10: «Le cose immobili e mobili [ . . . ] che rivestono un interesse particolarmente importan­ te a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell'arte e della cultura in genere, ovvero quali testi­ monianze dell'identità e della storia delle istituzioni pubbliche, collettive o religiose». Inoltre, per i beni D EA il Codice fissa parametri cronologici e d' au­ tore analoghi a quelli che sono alla base della tutela del patrimonio archeologico e storico-artistico . Infatti, l'art. 10, che prende in con­ siderazione le " cose " di interesse etnoantropologico, esclude, al comma 5°, quelle di autore vivente o di esecuzione non anteriore a cinquant'anni. Il che vuoi dire che, fatto salvo le poche collezioni museali, tutti gli altri beni etnoantropologici sul territorio e in museo non hanno alcuna possibilità di venire tutelati. Si tratta, infatti, di beni quasi mai " d'autore " (nel senso che al termine " autore " viene dato in campo storico-artistico) e raramente data­ bili (se si eccettuano le collezioni storiche dei musei nazionali) . Inoltre, i l concetto di autore e il concetto di antichità di un manu­ fatto non sono elementi pertinenti alla valutazione dei beni D EA, il cui valore va piuttosto individuato nell'essere essi testimonianze di forme di vita, di differenze culturali colte nelle dinamiche sincro­ niche dei con testi sociali. Questo problema non è di poco conto nella definizione del patri­ monio D EA. Se si esclude proprio il suo carattere vivente e con­ temporaneo , se non si comprende come esso caratterizzi la società di oggi e sia al centro di estesi processi di patrimonializzazione, non resta, di tale patrimonio, che una pallida proiezione in senso passatista ( cfr. CAP. 2). C'è da aggiungere che proprio la natura contemporanea dei beni D EA, soprattutto di quelli immateriali, collega tali beni alle opere d'arte contemporanea, per le quali il MI BAC ha mostrato grande sen­ sibilità istituendo, nel 2001, la Direzione generale per l'architettura e 75

l'arte contemporanee, con il compito di integrare «la tutela del patri­ monio culturale e del paesaggio con l'attenzione per l'architettura e l'arte contemporanee, cui si riconosce pari dignità rispetto alle testi­ monianze del passato» ( http://www.da rc. ben i cu ltu ra l i . it) . Nell'ambito del M I BAC è stata anche creata, dall'Istituto centrale per il catalogo e la documentazione ( cfr. CAP. 5), un'apposita scheda di catalogazione per le opere d'arte contemporanea (scheda OAC ) , che include anche le performance artistiche: beni altrettanto immateriali, che analoga­ mente ai beni D EA - sia pure nella diversità strutturale che passa fra opere d'autore e patrimoni socialmente condivisi - vengono fissati su supporti audiovisivi per mantenerne memoria. C'è dunque da chiedersi quali sono i beni etnoantropologici indi­ viduati e riconosciuti dal Codice: se solo quelli afferenti alle grandi raccolte storiche museali, oppure se anche i beni viventi sul terri­ torio . Se solo i primi possono avere pieno riconoscimento, allora, la gran parte del patrimonio D EA resta di fatto escluso dalla tutela. E poi, quale tipo di tutela ? È evidente che la logica di una tutela realizzata attraverso l'apposi­ zione di vincoli e di una valorizzazione subordinata alla tutela stes­ sa (art. 2) appare poco compatibile con l'insieme del patrimonio D EA materiale e immateriale; abbiamo visto, in particolare, come i beni immateriali non siano conservabili in quanto tali, per la loro natura "volatile" connessa alle contingenze performative, e come l'unica forma di " tutela" a essi applicabile sia proprio quella di un'allargata e condivisa valorizzazione basata sulla conoscenza e quindi sulla ricerca. Dunque, immaginare delle forme inedite di tutela, dinamiche e non statiche, potrebbe essere un impegno per rendere maggiormente coerente l'intervento legislativo in questo set­ tore. La terza parte del Codice, dedicata ai beni paesaggistici, presenta notevole interesse anche per i beni D EA , benché questi non vi siano mai citati. Ma fin dai primi articoli, appare evidente come la nozione di paesaggio sia antropologicamente costruita. Il primo articolo (art. 131) recita infatti: «Ai fini del presente Codice, per paesaggio si intende una parte omogenea del territorio i cui carat76

teri derivano dalla natura, dalla storia umana o dalle re ci pro che interrelazioni. La tutela e la valorizzazione del paesaggio salvaguar­ dano i valori che esso esprime quali manifestazioni identitarie per­ cepibili». L'applicazione del Codice ai beni DEA, in museo e sul territorio, sarà in funzione delle risorse professionali che il M I BAC saprà mettere in campo in questo settore, finora gravemente trascurato. Infatti, no­ nostante il " Regolamento di organizzazione " attuativo del Codice stesso (D.P.R. 8 giugno 2004, n. 173) confermi la presenza delle competenze etnoantropologiche nelle diverse strutture ministeriali, resta ancora da attuare il ruolo di etnoantropologo e conseguente­ mente da provvedere all'assunzione di etnoantropologi. Anche la richiesta, da più parti avanzata (Lattanzi, Simeoni, Tucci, 2001) , per la costituzione di un istituto speciale per i beni etnoan­ tropologici non è stata finora presa in considerazione (Testo Un i co, 2000, p. 12) . I beni etnoantropologici sono attualmente rappresentati, presso il M I BAC , principalmente dal Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari ( MNATP ) e dalla Soprintendenza al Museo nazionale prei­ storico etnografico Luigi Pigorini, ambedue situati a Roma; in tali strutture operano anche la maggior parte degli etnoantropologi già presenti nell'Amministrazione dello Stato. Questi due istituti, oltre a possedere collezioni storiche di notevole entità e di grande importanza per la storia del pensiero antropologico italiano, svol­ gono anche com p i ti di consulenza a livello nazionale. Il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari nasce nel 1923 come Regio museo di etnografia italiana, a partire dalle collezioni del Museo di etnografia i tali an a di Firenze, in te grate attraverso la grandiosa opera di raccolta in tutta Italia coordinata da Lamberto Loria per la Mostra di etnografia italiana, nell'ambito dell'Espo­ sizione universale di Roma del 1911 (Puccini, 2005) . Il museo fu allestito soltanto nel 1956, con l'attuale denominazione, a opera di una commissione guidata, fra gli altri, da Paolo T aschi . Il Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini, inaugu­ rato nel 1876 con il titolo di Regio museo preistorico ed etnografi77

co Luigi Pigorini, si è costituito intorno alle collezioni extraeuro­ pee di Luigi Pigorini e di altri, a partire dal più an ti co nucleo della collezione Kircher ( xvn secolo) . Presenta una doppia identità, preistorica ed etnografica, e da oltre un secolo testimonia degli intrecci fra due discipline, la paletnologia e l'etnologia, che hanno contribuito in tutta Europa alla nascita di musei dell'uomo e delle culture e che ancora oggi m an tengono un rapporto di com ple­ mentarietà scientifica fra di loro. Pur compresenti nel medesimo Dipartimento per i beni culturali e paesaggistici, i due musei nazionali sono finora rimasti separati nelle loro competenze: il MNATP afferisce alla Direzione generale per il patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico; il Museo nazionale preistorico etnografico Luigi Pigorini alla Direzione generale per i beni archeologici; il primo è competente in materia di beni etnoantropologici italiani, il secondo in materia di beni etnoantropologici extraeuropei. Tale separazione contraddice la concezione unitaria dei beni DEA ed è fonte di confusioni ed equi­ voci, tali da rendere difficoltosa l'organizzazione e la gestione com­ plessive del settore. Nel 1998 il M I BAC ha istituito, nell'ambito della Direzione genera­ le per il patrimonio storico, artistico e demoetnoantropologico, la Commissione nazionale per lo studio e la conservazione dei beni demoetnoantropologici, costituita da un elevato numero di docen­ ti universitari del settore sotto il coordinamento di Valeria Pe­ trucci. La Commissione persegue la promozione dei beni DEA a tutto campo ; a testimonianza dei lavori condotti è un importante volume dedicato ai musei DEA italiani ( MIBAC, 2004) . 4.2. Le Regi o n i e gli enti locali Fin dalla loro nascita alcune Regioni hanno prestato particolare attenzione ai beni DEA, veden­ doli come testimonianze di identità e di memoria fortemente inne­ state sul territorio . Per questo motivo, forse, alcune normative regionali volte alla conoscenza, salvaguardia e valorizzazione dei beni D EA appaiono innovative e anticipatorie rispetto a quelle dello Stato . 78

Come si è visto, con l'accennata riforma costituzionale del Titolo v, le Regioni e le Province autonome si trovano a operare in materia di beni e attività culturali con un ruolo concorrente con quello dello Stato: a esse spetta, in particolare, la valorizzazione. Taie più importante ruolo era stato già attribuito dal D.Lgs . 112/1998, che aveva assegnato alle Regioni funzioni concorrenti con quelle statali in una serie di materie (conservazione, metodologie di catalogazio­ ne e di restauro, gestione di musei e beni culturali statali) . I l ruolo delle Regioni nella politica dei beni culturali è dunque ormai sussidiario e complementare a quello statale. In quanto enti territori ali le Regioni guardano ai beni culturali con un 'ottica mag­ giormente focalizzata, concentrata sulle peculiarità dei propri ter­ ritori di riferimento e sulle istanze espresse dalle comunità locali. Tutte caratteristiche che riguardano in modo particolare i beni D EA , soprattutto per ciò che attiene alle istanze identitarie, molto sentite in alcune aree italiane e in espansione un po ' ovunque. Le normative regionali fanno riferimento al patrimonio culturale D EA utilizzando una pluralità di terminologie: beni demoetnoantro­ pologici, beni antropologici, beni demoantropologici, beni etnoan­ tropologici, beni etnografici, beni folklorici, di etnologia, di tradizio­ ni popolari ecc. ccfr. http://www. region i benicu ltu ra l i . it/l eggi/a ltro/dwd/ l egislazione/cata l ogazio n e/Scheda + Leggi.doc) . Già a livello dei singoli Statuti regionali, di recente modificati o in via di modifica, troviamo espliciti riferimenti ai beni D EA. Ad esempio, nello Statuto del Piemonte (art. 7 : «La Regione difende l'originale patrimonio linguistico, di cultura e di costume delle comunità locali e ne favorisce la valorizzazione») , nello Statuto del Lazio (art. 9: «La Regione promuove la conservazione e la valoriz­ zazione delle tradizioni e degli usi delle com unità locali») , nello Statuto del Molise (art. 4: «la Regione [ . . . ] tutela il patrimonio linguistico e storico e le tradizioni popolari delle comunità etniche esistenti sul suo territorio e, d'intesa con i Comuni interessanti, ne favorisce la valorizzazione») . A livello normativa, il quadro regionale relativo ai beni D EA appare più articolato e in certi casi anche più soddisfacente di quello statale, 79

con importanti esperienze pionieristiche come quelle delle Regioni Lombardia e Sardegna e della Provincia autonoma di Trento. La Regione Lombardia già nel 1972 ha istituito il Servizio cultura del mondo popolare, preposto a raccogliere una specifica docu­ mentazione in questo settore attraverso rilevamenti e ricerche effet­ tuati in proprio o affidati a esperti; il servizio ha pubblicato due importanti collane, una di libri dedicati a singole Province e una tematica di dischi, oltre a vari prodotti videofilmici, valorizzando in modo particolare il patrimonio etnomusicale regionale . La Regione Sardegna, nello stesso anno ha istituito l'Istituto supe­ riore regionale etnografico, con sede a Nuoro ( L. R. 26/1972) «ai fini dello studio e della documentazione della vita sociale e cultu­ rale della Sardegna nelle sue manifestazioni tradizionali e nelle sue trasformazioni» . L'istituto è anche titolare del Museo della vita e delle tradizioni popolari sarde. La Provincia autonoma di Trento ha istituito, con L. P. 1/1972, il Museo degli usi e costumi della gente trentina come ente funzio­ nale con lo scopo di «creare un centro di cultura nel campo etno­ grafico». Il Museo, che da tempo si avvale di un direttore antro­ pologo , rappresenta un polo di specifico riferimento per le Regioni dell'area alpina e anche una struttura di rilevanza nazionale nel­ l' ambito della museologia D EA. La stessa Provincia autonoma ha anche istituito gli Istituti cultu­ rali T re n tino, Ladino e Mocheno-cimbro, che svolgono le loro attività in relazione ai gruppi etnici presenti nel territorio, effet­ tuando studi, ricerche, attività di valorizzazione delle identità loca­ li e delle tradizioni popolari. Fra le esperienze regionali più rilevanti è sicuramente da citare quella della Regione autonoma siciliana, che con la L. R. 8o/1977,

Norme per la tutela, la valorizzazione e l'uso sociale dei beni cultura­ li e ambientali nel territorio della Regione siciliana, ha istituito le Soprintendenze uniche per i beni culturali e ambientali, articolate in sezioni tematiche, fra cui quelle dedicate ai beni etnoantropolo­ gici, esercitando su tali beni anche funzioni di tutela. Di recente, la sezione beni etnoantropologici della Soprintendenza unica per i Bo

beni culturali e ambientali di Palermo si è impegnata nella riaper­ tura del Museo Pitrè, insieme al Comune di Palermo. La stessa Regione Sicilia ha anche disciplinato il personale degli organi tec­ nici (L.R. 116/1980) , istituendo sezioni tecnico-scientifiche dirette da dirigenti tecnici inquadrati in una serie di qualifiche professio­ nali, fra cui quella di " etnologi e antropologi " . La Regione Lazio, avendo elaborato nel 1979 un Piano di Cen­ simento e catalogazione dei beni culturali e ambientali del Lazio, ha istituito il Centro regionale per la documentazione dei beni cultu­ rali e ambientali del Lazio (L.R. 18/1981 e L. R. 31/1991) , dotando­ lo di personale tecnico-scientifico con diversi profili professionali, fra cui quello di " antro p o lo go " . Una legge regionale specificamente dedicata ai beni D EA immate­ riali è la L. R. 32/1990 della Regione Liguria, Norme per lo studio, la

tutela, la valorizzazione e l'uso sociale di alcune categorie di beni cul­ turali e in particolare dei dialetti e delle tradizioni popolari della Liguria. La legge individua analiticamente le categorie dei beni tutelati negli ambiti dei «beni culturali linguistici, etnomusicali e delle tradizioni popolari presenti nel territorio regionale» e ne pre­ cisa la consistenza (art. 2) : a ) patri m o n i l i n g u istici a uto n o m a m e nte rico n osci uti i n p o rzi o n i d e l te rrito rio regio­ n a l e, i n q ua nto l e gati a l l e tra d izio n i sto rico -socia l i del territo rio stesso, sia n e l la l o ro es p ress io n e o ra l e c h e n e l l e fo rm e l ette ra ri e i n essi es p resse; b) ri m e po pola ri, fi lastrocc h e, fia be, p rove rbi e i n d ovi n e l l i, rico rd i e m e m o rie ri g u a r­ d a nti a nc h e l ' a l i m e ntazio n e e la m ed ic i n a popola re, il tutto es p resso in l i n gu a o i n d ia l etto, i n fo rm a o ra l e o scritta [ . . . ] ; c) ca nti e m u siche stru m e nta l i tra m a n d ati i n fo rma o ra l e e d a nze p o po la ri d i tra d i ­ zio n e d oc u m e nta bi l e; d ) feste, riti e c re d e nze, gioc h i e pa ssate m p i popola ri.

Una quantità di altre normative regionali riguardano, totalmente o parzialmente, i beni D EA, ad esempio: le L. R. 5/1 976 e 57/1979 del Friuli Venezia Giulia, Provvedimenti per lo studio della storia del

paesaggio agrario regionale, dell'architettura rurale spontanea e per la 81

raccolta dei reperti e strumenti de/ lavoro contadino; le L.R. 58/1974 e 41/1985 della Campania che prevedono il restauro, l'acquisto e la valorizzazione dei beni di privati di rilevan te interesse storico, arti­ stico ed etnologico; la L. R. 31/1995 del Piemonte per l'Istituzione di ecomusei del Piemonte; la L. P. 13/2000 della Provincia di T re n to per

l'Istituzione degli ecomusei per la valorizzazione della cultura e delle tradizioni locali; la L. R. 26/1995 della Regione Veneto , con la quale viene istituito il " Sistema regionale veneto dei musei etnografici " e a seguito della quale viene dato avvio agli " Itinerari etnografici del Veneto " . Si distinguono , infine, alcune leggi regionali interamen­ te dedicate alle lingue e ai dialetti : la L. R. 45/1994 dell'Emilia Romagna ( Tutela e valorizzazione dei dialetti dell'Emilia Romagna) ; la L.R. 26/1997 della Sardegna (Promozione e valorizza­ zione della cultura e della lingua della Sardegna) ; la L. R. 15/2003 della Calabria (Norme per la tutela e la valorizzazione della lingua e

del patrimonio culturale delle minoranze linguistiche e storiche di Calabria) ; la L. R. 21/2005 del Lazio ( Tutela e valorizzazione dei dialetti di Roma e del Lazio) . Presso molte Regioni sono stati creati specifici Centri di docu­ mentazione dedicati al patrimonio culturale, compreso quello D EA. Il quadro è ricco e include: il Centro regionale per la catalo­ gazione e l'inventario del Friuli-Venezia Giulia; il Centro provin­ ciale per la catalogazione e l'inventario del patrimonio storico, arti­ stico e popolare del Trentina; il Centro regionale per i beni cultu­ rali delle Marche; il Centro regionale per l'inventario, la cataloga­ zione e la documentazione grafica, fotografica, aerofotografica, fotogrammetrica e audiovisiva della Sicilia; il già citato Centro regionale per la documen razione dei beni culturali e ambientali del Lazio; il Centro regionale di documentazione dei beni culturali e ambientali del Veneto; il Centro regionale di documentazione, ricerca e valorizzazione del patrimonio linguistico, etnomusicale e delle tradizioni popolari liguri della Liguria; il Centro regionale per i beni culturali dell'Abruzzo; il Centro regionale di documen­ tazione dei beni culturali del Piemonte; il Centro regionale del catalogo e della documen razione della Sardegna; il Centro di cata82

logo e documentazione della Campania; il Centro della musica e del canto popolare arberesh della Calabria. A fronte di un crescente interesse per i beni D EA da parte delle Regioni e degli enti locali, resta da affrontare la questione della professionalità nel trattamento di questi beni. Finora tale aspetto è stato piuttosto trascurato : quasi nessuna Regione possiede specifi­ ci profili professionali e la gestione dei beni D EA viene affidata, spesso con casualità, ad altre figure professionali. Le eccezioni su citate non fanno che confermare la regola. Il documento del coor­ dinamento interregionale degli assessori alla Cultura del 10 feb­ braio 2005 ( http://www. regi o n i . it/m isce l l a n ea/C U LTU RAb e n i /tofebos_ asses_s u_co n_b e n i_cu lt/d o c u m e nto d e g l i a ssesso ri s u co d i ce b e n i eu l tu ra ­ l i s_o ) , che traccia le linee di indirizzo i n merito all'applicazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, esprime la necessità, fra le altre, di assicurare «l'idoneità tecnica del personale e delle struttu­ re organizzative, quale che sia il tipo di funzione (tutela, valorizza­ zio ne, gestione ecc. ) » e afferma che «la professionalità e l'autono­ mia tecnico-scientifica del personale addetto [ . . . ] costituiscono un elemento che condiziona sia il recupero della dimensione unitaria del bene culturale sia ogni possibilità di intervento». 4.3 . Le o rga n i zzazi o n i i n te rnazi o n a li L'organizzazione internazionale delle Nazioni Unite dedicata all'educazione, alla scienza e alla cultura, l ' uNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultura! Organization) già nel 1989 ha cominciato ad affrontare in modo serio e impegnato la questione della salva­ guardia della " cultura tradizionale e popolare " quale parte del patrimonio mondiale dell' umanità, attraverso la Recommendation for the Safeguarding of Traditional and Popular Culture, emessa in occasione della xxv Conferenza generale. In questo documento viene riconosciuta «la fragilità estrema di certe forme della cultura tradizionale e popolare, particolarmente quelle concernenti gli aspetti che provengono dalle tradizioni orali e il rischio che questi aspetti possano andare perduti» e viene quindi fornita una serie di indicazioni in materia agli Stati membri.

A partire dal 1997, l'uNESCO è andato sviluppando una particola­ re attenzione per il patrimonio culturale immateriale (Intangible Cultura! Heritage) , per il quale ha costituito, all'interno della Divisione del patrimonio culturale, una sezione appositamente dedicata (Section oflntangible Heritage) , con responsabilità verso le lingue locali e le forme di espressività popolari e tradizionali. A partire dal 1998 l'uN ESCO ha intrapreso una serie di azioni concre­ te in questo settore con il progetto Preserving and revitalizing our lntangible Heritage, articolato in diverse azioni: Masterpieces of Ora! and lntangible Heritage of Humanity riguarda i patrimoni orali e immateriali dell'umanità meritevoli di riconoscimento; Living Human Treasures promuove i depositari di saperi e tecniche trasmessi oralmente (artigiani, artisti ecc. ) ; Endangered Languages pone l'attenzione sulle lingue a rischio di estinzione; Traditional Music of the World pubblica dischi dedicati alle culture musicali mondiali ( http://po rta l . u n esco.org/cu ltu re) . L'uNESCO include nei patrimoni immateriali dell'umanità tanto le «espressioni popolari e tradizionali» (lingue, letteratura orale, musica, danza, giochi, mitologia, riti, costumi, saperi e pratiche artigiane) , quanto gli «spazi culturali», antropologicamente intesi come «luoghi» in cui si concentrano le attività popolari e tradizio­ nali e «tempi» in cui ricorrono determinati eventi. Il riconoscimento dei Masterpieces of Ora! and lntangible Heritage of Humanity avviene ogni due anni su segnalazione dei comitati nazionali, a partire dal 2001 , anno in cui sono stati attribuiti di­ ciannove riconoscimenti, fra cui uno all'Italia per l'Opera dei pupi siciliani. A quel riconoscimento concorreva anche la festa dei Gigli di Nola (Lucarelli, Mazzacane, 1999) . Nel 2003 sono stati attribui­ ti ventotto riconoscimenti; nel 2005 quarantatré, fra cui un secon­ do all'Italia per il " canto a tenore " : una pratica polivocale pastora­ le esclusiva della Sardegna. La xxxi i sessione della Conferenza generale dell'uNESCO ( Parigi, ottobre 2003) è stata dedicata al tema della tutela del patrimonio immateriale dell'umanità. In tale occasione, i paesi membri hanno adottato, a maggioranza, la Convenzione internazionale per la sal84

vaguardia del patrimonio culturale immateriale ( Convention for the Safeguarding oflntangible Cultura! Heritage) , prevedendo, fra l'al­ tro, di giungere a compilare elenchi nazionali dei beni da tutelare, di istituire una Commissione intergovernativa per la tutela del patrimonio immateriale, di creare due liste riguardanti la prima, i beni immateriali rappresentativi del patrimonio culturale dell'u­ manità; la seconda, i beni culturali immateriali a rischio. È anche da ricordare la Dichiarazione universale sulla diversità cul­ turale ( Universal Declaration o n Cultura! Diversity) , adottata nella xxxi Conferenza generale dell'uNESCO (Parigi, novembre 2001) ; in essa si afferma, fra l'altro, che la diversità culturale è patrimonio condiviso dell'umanità ed è necessaria per il genere umano come la biodiversità lo è per la natura. La dichiarazione mira a preserva­ re la diversità culturale come una risorsa vivente e quindi rinnova­ bile. Fra le principali linee di azione vi sono: la salvaguardia del patrimonio linguistico dell' umanità; la conservazione e lo sviluppo del patrimonio culturale, soprattutto orale e immateriale; il rispet­ to e la protezione dei saperi tradizionali. Anche l'ICOM (International Council of Museums) ha da tempo avviato un programma di attività sul tema del patrimonio immate­ riale. Ricordiamo, al riguardo, la conferenza dal titolo Preserving eu/tures: documenting non-materia! heritage, tenuta nel 2002 a Porto Alegre, in Brasile, nell'ambito del CIDOC (International Committee for Documentation) , e la Giornata internazionale dei musei (18 maggio) , dedicata, per il 2004, a Musei e patrimonio immateriale. Ma è soprattutto con la xx Conferenza generale, ancora dal titolo Musei e patrimonio immateriale, tenuta a Seul nell'ottobre del 2004, che l'ICOM ha affrontato il tema in modo approfondito ed esteso ( http://ico m . m u s e u m ) . Nel presentare la Conferenza di Seul ( http:/ lico m . m useu m/gen era l -co nferen ce2004. htm l ) l'I COM p un tua­ lizza che, sebbene i museologi abbiano abitualmente a che fare con oggetti materiali, pure la c u ltu ra n o n si m a n ifesta solta nto i n fo rm e ta n g i b i l i, ma a nc h e attrave rso fo r m e i m m ate ria l i . Qu este so n o tra s m esse d i ge n e razio ne i n ge n e razio n e m e d ia nte la l i n gua,

la m us ica , i l teatro, i co m po rta m e nti, i gesti, le p ratiche, g l i usi e u n 'a m pia ga m ma d i u lte ri o ri fo rm e d i m ed iazio n e. I l patri m o n i o i m mate ria l e co m p re n d e voci, va l o ri, tra ­ d izio n i, l i n gu e, sto ria o ra l e, vita po pola re, creatività e tutto c i ò c h e ca ratte rizza u na popolazione.

A seguito della Conferenza generale di Seui, l'I C O M ha anche rivi­ sto la sua definizione di museo, integrandola con la nozione di immaterialità: «Il museo [ . . . ] compie ricerche che riguardano le testimonianze materiali e immateriali dell'umanità e del suo ambiente [ . . . ] » (http://ico m . ita l i a . o rg) . Sul fronte della Comunità europea, il Consiglio d'Europa ha adot­ tato, nel 2001 , la " Risoluzione n. 1 sul ruolo del patrimonio cultu­ rale e la sfida della globalizzazione " , nell'ambito della v Confe­ renza dei ministri responsabili del patrimonio culturale. Nel docu­ mento viene sottolineato come «la diversità dei patrimoni cultura­ li, a livello locale, regionale e nazionale, assicuri alle popolazioni un senso primario di identità» e come dunque occorra operare affin­ ché le comunità locali scoprano identità e senso di appartenenza attraverso un'aumentata consapevolezza dei propri patrimoni cul­ turali materiali, linguistici e spirituali, anche preservando l' artigia­ nato tradizionale regionale e sviluppando la trasmissione dei sape­ ri delle tecniche. Nella successiva " Risoluzione n. 2 sulle future attività del Consiglio d'Europa nel campo del patrimonio cultura­ le, 2002-2005 " , si aggiunge che il concetto di patrimonio culturale va esteso a comprendere l'intero contesto culturale e i suoi valori, materiali, immateriali e spirituali, così come vengono percepiti dalla gente. 4.4. Le o rga n izzazi o n i itali a n e Una grande vivacità caratte­ rizza questo settore della cultura italiana, dove, tuttavia, vanno distinte le organizzazioni scientifiche e professionali da quelle ama­ toriali, che si sono venute a determinare soprattutto su alcuni temi di allargato interesse, quali le feste o la musica. Fra le organizzazioni nazionali, l' AI S EA - Associazione italiana per le scienze etnoantropologiche ( http:/ /www.a isea.it) - riunisce la gran 86

parte dei demoetnoantropologi italiani accreditati presso le univer­ sità, i musei e le istituzioni pubbliche e private. Al tema dei beni culturali demoetnoantropologi l 'AI SEA ha dedicato, in particolare, due congressi nazionali: l'vi i i Festa. Tradizione Riproposta Reinven­ zione (Torino, giugno 2003) e il IX Antropologia e Territorio: musei e politiche comunicative ( Roma, luglio 2004) (Banato, 2005; 2006) , oltre al seminario Beni culturali, identità, politiche, mercato ( Roma, giugno 2001) . L 'AISEA gestisce la rivista " Etnoantropologia", che, nei suoi nove numeri ha ospitato numerosi scritti dedicati ai beni culturali. Dal 1992 al 2001 è stata attiva, all'interno dell' associazio­ ne, la sezione di Antropologia museale, il cui ulteriore sviluppo ha dato vita alla S I M B D EA-AM - Società italiana per la museografìa e i beni demoetnoantropologici - antropologia museale. La Società italiana per la museografìa e i beni demoetnoantropo­ logici si propone come luogo di riflessione sui beni D EA e sul museo. Persegue il pieno riconoscimento del settore D EA nel siste­ ma dei beni culturali italiano e ha anche carattere professionale, offrendo competenze sotto forma di studi, ricerche, formazione, nel campo dell'antropologia museale e dei patrimoni culturali, a favore di enti pubblici e privati. S I M B D EA-AM fa anche parte della Conferenza permanente delle Associazioni museali italiane e colla­ bora attivamente con il Comitato nazionale italiano di I C O M , pre­ sieduto da Daniele J alla, anche in relazione alla definizione della Carta nazionale delle professioni museali. Alla Società afferisce la rivista "Antropologia museale " , nata nel 2002, interamente dedi­ cata ai musei e ai beni demoetnoantropologici. Fra le riviste che hanno attinenza con i beni DEA sono anche da ricordare : " Lares " , fondata nel 1912 da Lamberto Loria, diretta da Pietro Clemente e " La Ricerca Folklorica", diretta da Glauco Sanga; per quest'ultima si segnalano diversi numeri monografìci dedicati alla cultura popolare, all'antropologia visiva, all'abbiglia­ mento popolare, all'arte popolare, all'alimentazione, alle leggen­ de, ai saperi tecnici e naturalisti ci, all'alpeggio ecc. , fra cui, in par­ ticolare, quello concernente !'"Antropologia museale " (Turci, 199 9) . 87

Pe r ri ass u m e re . . .

In Ita l ia i soggetti istituzio n a l m e nte p re posti alla co nservazi o n e, tute l a e va l o rizzazi o n e del patri m o n io cu ltu ra l e so no l o Stato, l e Regi o n i , l e P rovi n ce, i Co m u n i e gl i a ltri e nti l oca l i . L a Costituzi o n e ita l ia n a sta b i ­ l isce l e attri buzi o n i a l l o Stato (tutela) e a l l e Regio n i (va l o rizzazi o n e) . • L a n o rm ativa stata l e i n m ateria d i ben i cu ltu ra l i p revede l a tute l a e l a va l o rizzazio n e dei ben i D EA. I l recente Codice dei beni culturali e del paesaggio tratta i ben i cu ltu ra l i i n m odo u n ita rio co n i ben i paesaggisti ­ ci . L ' i m postazi o n e a l l a base d e l l ' i n d ivi d u azi o n e d e l ben e resta tuttavia a n cora d ista nte da l l e specifi cità D EA, s e b b e n e l 'a pertu ra a l paesaggi o a p ra n u ovi i nteressa nti sce n a ri . • A l ive l l o regi o n a l e, l a p l u ra l ità d e l l e no rm ative ch e affro nta n o l a m ateria dei beni cu ltu ra l i prese nta u na cresce nte attenzio n e a l patri m o ­ n i o D EA, co m e e l em e nto d i d isti nzi o n e e d i i d e ntità l o ca l e. A esse fa n n o risco ntro i n u m erosi centri d i d oc u m entazi on e, so rti i nto rn o a l l ' esige n ­ z a d i i n d aga re i l te rrito ri o p e r pote rl o co n oscere. • A l ive l l o i nternazi o n a l e, l e pol iti c h e d el l ' u N E s co e d el l ' 1 coM h a n n o a pe rto i m p o rta nti fro nti d i attenzi o n e e d i va l o rizzazi o n e p e r i l patri m o ­ n i o D EA m ateri a l e e i m m ateri a l e, c o n pa rti co l a re ri gu a rdo per q u est' u l ­ ti m o . • F ra l e orga n izzazi o n i nazi o n a l i di settore, l 'Associ azi o n e ita liana pe r l e scienze etn oa ntropol ogiche (AI S EA) e la Soci età ita l ia na per la m useo­ grafia e i beni demoetn oa ntropol ogici - a ntropol ogia m usea l e ( S I M B DEA­ AM) si occu pa n o, i n tutto o i n pa rte, del l a pro m ozio n e del patri m o n io DEA. •

88

s . Catalogazione La catalogazione dei beni D EA si colloca nell'ambito delle più gene­ rali operazioni applicate ai beni culturali e ambientali, volte al rico­ noscimento e alla conoscenza del patrimonio culturale, ai fini della sua conservazione, tutela e valorizzazione (Corti, 2003; Vasco Rocca, 2002, pp. 17-24) . A livello statale la struttura competente per la catalogazione del patrimonio culturale è l'Istituto centrale per il catalogo e la docu­ mentazione ( I e c o ) , nato nel 1968 con la dizione di Ufficio centra­ le per il catalogo e la documentazione e divenuto poi uno degli isti­ tuti centrali del ministero per i Beni e le Attività culturali con il compito, fra gli altri, di elaborare programmi di catalogazione gene­ rale dei beni fissandone la metodologia. Con l'attuale Regolamento di organizzazione del MI BAC ( PAR. 4.1), l ' I c c o mantiene i suoi compiti di indirizzo in relazione alle metodologie di catalogazione, acquisendo anche competenze nell'ambito della formazione per lo stesso settore disciplinare. Già a partire dall'inizio degli anni settanta dello scorso secolo, l'Ufficio centrale per il catalogo e la documentazione comincia a progettare modelli di schede cartacee, da applicare alla cataloga­ zione di diverse tipologie di beni culturali. Alla fine di quello stes­ so decennio, l'ufficio, ormai divenuto Istituto centrale, comincia a strutturare le schede per la loro informatizzazione mediante appo­ siti database, fino ad arrivare, nel 2003, alla creazione di un elabo­ rato Sistema informativo generale del catalogo ( s i G E C ) . Il S I G EC non accoglie solo schede, ma anche documenti mutimediali a esse connessi (foto, audio, video, cartografie, grafici ecc. ) . Paralle­ lamente l ' I c c o affina e amplia la produzione di schede, per offri­ re degli strumenti sempre più mirati a restituire la complessità dei beni, mobili e immobili, all'interno delle varie categorie previste dalla normativa statale (beni storico-artistici, archeologici, archi­ tettonici, etnoan tropo logici ecc. ) . Con l'introduzione del S I GE C tutte le schede, già progettate fra Bg

loro in modo omogeneo, sono state ulteriormente " allineate " , vale a dire uniformare mediante l'introduzione o la ristrutturazione di paragrafi comuni, che consentono la registrazione di dati uniformi e un'analoga possibilità di ricerca di base per le diverse tipologie di beni. Tali normative catalografiche, derivate dall'applicazione del SI GEC, sono segnalate dalla sigla 3 . 00. Alle normative schedografi­ che si affiancano anche quelle riguardanti la ripresa fotografica, gli apparati multimediali e il loro trasferimento digitale. Tutte le nor­ mative citate si posssono consultare nel sito Internet dell'IccD, http:/ /www. i ccd. ben i eu l tu ra l i . i t. I principali soggetti pubblici che si occupano di catalogazione del patrimonio culturale sono le strutture del M I BAC ( PAR. 4.1) e gli assessorati alla Cultura o i Centri di documentazione delle Regioni a statuto ordinario o speciale e delle Province autonome ( PAR. 4.2). In misura estremamente minore vi collaborano anche le universi­ tà, soprattutto nell'ambito delle programmazioni regionali. Le strutture del M I BAC hanno sempre utilizzato, com'è ovvio, le schede emanate dall'1ccn. Le Regioni, molte delle quali fortemen­ te impegnate nelle attività di catalogazione, si sono comportate, in passato, in modi piuttosto differenziati : alcune hanno fatto proprie le schede ICCD, altre le hanno utilizzate modificandole, altre anco­ ra si sono dotate di proprie schede autonome. In ogni caso si può dire che fino al 2001 Stato e Regioni abbiano condotto le proprie attività di catalogazione in modo separato, anche se non sono man­ cati casi di dialogo e di concrete collaborazioni. Nel 2001 lo Stato, le Regioni e le Province autonome hanno sigla­ to l'Accordo tra il ministero per i Beni e le Attività culturali e le Regioni per la catalogazione dei beni culturali e ambientali, che sta­ bilisce una serie di obiettivi com uni in materia prevedendo, fra l'al­ tro, l'unificazione delle metodologie di catalogazione - vale a dire delle schede - e l'attuazione e la messa in rete dei sistemi informa­ tivi, sia quello generale dell'Iccn, sia quelli regionali approntati e da approntarsi da parte delle Regioni. La premessa, e soprattutto l'art. 2 dell'Accordo, sottolineano il valore conoscitivo attribuito alla catalogazione: go

La cata l o ga z i o n e costitu isce lo stru m e nto co noscitivo ba s i l a re per i l co rretto ed effi­ cace es p l eta m e nto d e l l e fu nzio n i l e ga te a l la gesti o n e d e l te rrito rio ai fi n i d e l co nse­ g u i m e nto di rea l i o bi ettivi di tutela ed è stru m e nto esse nzia l e d i s u p po rto pe r la gestio n e e la va l o rizza z io n e d e l patri m o n io i m m o b i l e e m o b i l e n e l territo rio e nel m u seo, nonché pe r la pro m ozio ne e la rea l izzazi o n e d e l l e attività di ca ratte re d i dat­ tico , d iv u l ga tivo e d i rice rca .

Diverse Regioni hanno già approntato, nel rispetto dell'Accordo, i pro­ pri sistemi informativi, ad esempio, la Lombardia ( s i RBEC Sistema informativo regionale beni culturali), le Marche ( S I RPAC Sistema informativo regionale per il patrimonio culturale) , il Lazio ( SIT Sistema territoriale informativo dei beni culturali e ambientali) . -

-

-

5.1. Specificità de m oetn oa ntropologich e Per i beni D EA l'attività di catalogazione si presenta in modo articolato e si collo­ ca lungo due assi dicotomici: beni in musei e archivi l beni sul ter­ ritorio; beni materiali l beni immateriali . La catalogazione delle collezioni museali o di meno strutturate rac­ colte di oggetti (PAR. 2.1) e quella dei documenti audiovisivi d'archi­ vio ( PAR. 2.4) presentano caratteristiche in comune, pur riguardan­ do fondamentalmente, la prima beni materiali (oggetti) , la seconda beni immateriali (feste, riti, canti, racconti ecc. ) fissati su supporti materiali (nastri magnetici e digitali, pellicole, fotografie ecc. ) . In ambedue i casi, le operazioni catalografiche si applicano a beni già raccolti o già rilevati, i cui dati sono rintracciabili nelle documenta­ zioni cartacee esistenti: inventari museali, schede da campo, relazio­ ni di ricerca ecc. , oppure nella memoria storica di museografi, rac­ coglitori o rilevatori. In tali casi, per poter procedere alla cataloga­ zione dei singoli beni, si rende spesso necessario integrare le docu­ mentazioni esistenti con la raccolta di dati aggiuntivi sul terreno (fonti orali e/o documentazioni audiovisive) : operazione sicuramen­ te possibile se applicata a musei e ad archivi locali, i cui territori di riferimento sono immediatamente adiacenti, ma più difficile quan­ do si lavora alle collezioni storiche dei musei nazionali, i cui riferi­ menti ai territori di origine sono lontani nel tempo e nello spazio. 91

Per la catalogazione dei beni materiali e immateriali sul territorio occorre effettuare sopralluoghi e rilevamenti, in modo da indivi­ duare i beni da schedare. Il patrimonio materiale può apparire fa­ cilmente rintracciabile in virtù della sua oggettualità; tuttavia, al di fuori di raccolte e collezioni precostituite, non è facile rinvenire oggetti sul terreno . Di fatto la catalogazione dei beni materiali sul territorio viene applicata quasi esclusivamente ai musei. La catalo­ gazione dei beni immateriali appare più complessa e presenta una serie di problemi derivati dalla natura performativa di tali beni, che per poter venire schedati devono essere osservati, rilevati e docu­ mentati ( PAR. 2.2). Vi sono anche prassi catalografiche connesse a ricerche tematiche territoriali, che si realizzano attraverso scheda­ ture integrate di beni materiali e immateriali. 5. 2. Le schede F K Nell'ambito delle metodologie di catalogazio­ ne emesse dall'Icco, nel 1978 furono progettate, in collaborazione con il Museo nazionale delle arti e tradizioni popolari, quattro sche­ de denominate FK (Folklore) , da utilizzarsi per catalogare alcuni fra gli aspetti più significativi delle culture di tradizione orale (Ricerca e catalogazione, 1978; Simeoni, 1998; Tucci, 2000; 2005a) : • scheda F KO per la cultura materiale, con la vari an te F K O - S M per gli strumenti musicali; • scheda F KM per i documenti etnomusicali; • scheda FKN per la narrativa di tradizione orale; • scheda FKC per le cerimonie, i riti e le feste. Queste schede, che riflettevano lo stato degli studi nei diversi ambiti disciplinari presi in considerazione, furono progettate in via sperimentale da autorevoli studiosi e ricercatori di area demoan­ tropologica italiana: Diego Carpitella e Sandra Biagiola ( F KM ) , Aurora Milillo ( F KN ) , Annabella Rossi ( F KC ) , Elisabetta Silvestrini ( F KO ) . I quattro modelli presentavano disomogeneità anche signi­ ficative fra di loro, prima fra tutte quella di basarsi su differenti forme di mediazione: dal prelevamen to di oggetti ( F KO ) , all' osser­ vazione diretta di eventi ( F KC ) , all'uso di fonti orali ( F KM , F KN ) . Alla base della loro compilazione vi erano, in tutti i casi, dati rile-

92

vati sul terreno, utilizzati in modo primario o secondario a secon­ da che la schedatura fosse contestuale al rilevamento oppure venis­ se applicata a rilevamento già avvenuto, vale a dire a materiali d' ar­ chivio o di museo. Delle quattro schede, la F KO , pur con le sue specificità, presentava molte analogie con la scheda OA dell'IcCD per i beni storico-arti­ stici, sia nella scelta delle voci, sia perché connessa a beni materiali e dunque contenente dati relativi a materie, misure, stato di con­ servazione ecc. Le F KM , F KN e F KC , invece, apparivano più specifi­ che, ma anche, e proprio per questo, più problematiche per la par­ ticolare natura dei beni a cui le stesse rinviavano. La loro applica­ zione ha in molti casi generato sospetti e chiusure, tanto che le tre schede, mai sottoposte a revisione, sono progressivamente cadute in abbandono . La scheda F KO, invece, è stata nel tempo più volte discussa, riesaminata, riprogettata e strutturata per l'informatizza­ zione nel 1989; quindi ristrutturata nella attuale B D M (ICCD, 2000 ) . Oltre alle schede FK, l'ICCD ha anche elaborato una scheda E, spe­ cifica per i beni etnografici materiali extraeuropei, che è stata uti­ lizzata soprattutto dal Museo preistorico etnografico Luigi Pigorini; tale scheda non è mai stata rivista né strutturata ed è pertanto dive­ nuta desueta. Sulla base dell'accezione unitaria dei beni D EA, la scheda E è oggi da considerarsi inglobata nell'attuale scheda B D M , seppure quest'ultima non n e accolga tutti i contenuti specialistici. 5-3· Le sch ede B D M e B D I Le schede B D M ( Beni demoetnoan­ tropologici materiali) e B D I (Beni demoetnoantropologici immate­ riali) hanno per oggetto non più soltanto i beni demologici (folklo­ rici) , ma tutta l'ampia gamma dei beni DEA nella loro accezione uni­ taria con cui gli stessi sono riconosciuti dalla odierna legislazione (PAR. 4.1). Derivano da una nuova fase di produzione schedografica dell'I ccD, basata sull'informatizzazione e sulla normalizzazione dei tracciati. N asco no, dunque, come schede informatizzate: la prima nell'ambito del software T3 , la seconda nell'ambito del SIGEC. La scheda è costituita dal tracciato, dalla normativa e dai vocabo­ lari . Il tracciato è suddiviso in paragrafi di dati omogenei. Ogni

93

paragrafo, graficamente rappresentato da una tabella, è individua­ to da un acronimo di due lettere e da una denominazione in lette­ re maiuscole. All'interno dei paragrafi vi sono campi semplici e campi strutturati . I primi sono segnalati da acronimi di tre lettere e da denominazioni in grassetto minuscolo; i secondi sono segna­ lati da acronimi ugualmente di tre lettere e da denominazioni in grassetto maiuscolo . I campi strutturati si compilano soltanto nei loro sottocampi, segnalati da acronimi di quattro lettere: e

AA - PARA G RAF O ;



B B B-

e

CCC - CAMPO STRUTTURATO ;

Campo semplice;

ceco - Sottocampo. La normativa di ciascuna scheda definisce dettagliatamente le modalità per la compilazione di ogni paragrafo, campo e sotto­ campo , fra cui: le obbligatorietà; il numero dei caratteri inseribili; i paragrafi, i campi e i sottocampi che possono essere ripetuti. Inoltre molti campi e sottocampi vengono compilati mediante vocabolari predefiniti che possono essere chiusi, oppure aperti e dunque implementabili . I vocabolari obbligano a utilizzare lin­ guaggi normalizzati, indispensabili per potere effettuare ricerche nei cataloghi informatizzati, senza perdere dati. Alcuni vocabolari sono standardizzati per tutte le schede (ad esempio la lista degli enti) , altri sono specifici per ciascun ambito disciplinare. Per le schede B D M e B D I si fa provvisoriamente uso di alcuni thesauri già approntati in altri contesti (cfr. PAR. 2.1), che tuttavia necessitano di venire incrementati e aggiornati: la costruzione di vocabolari specifici è ancora in gran parte da affrontare e sicuramente impe­ gnerà I C C D , Regioni e università nell'immediato futuro . I primi due paragrafi delle schede B D M e B D I sono comuni a tutte le schede ICCD . Il primo è relativo ai Codici (TAB. 1). Il secondo ( Relazioni) si basa su un concetto di relazionalità fra i beni, ampia­ mente sostenuto dall'Iccn (Vasco Rocca, 2002, pp. 65-136) , per cui è possibile collegare ciascuna scheda ad altre schede, dello stesso tipo o di tipologie diverse, riguardanti beni che presentano fra di loro rapporti di varia natura (TAB. 2). •

94

TA B E LLA 1

Pa ra grafo Cod i ci Ripetitività Dimensione Obbligatorietà Vocabolario CD

CO D I C I

no

TSK

Ti po scheda

no

LIR

Livello ricerca

no

NCT

CODICE U N IVOCO

no

NCTR

Cod ice Regio n e

no

NCTN

N u m e ro cata l o go

*

4

*

chiuso

5

*

chiuso

*

2

*

chiuso

no

8

*

chiuso

no

2

no

25

*

a pe rto

*

a pe rto

ge n e ra l e NCTS

S uffisso n u m e ro

chiuso

cat. ge n . ESC

Ente schedatore

ECP

Ente com petente

no

25

EPR

Ente proponente

no

25

a pe rto

TA B E LLA 2

Pa ra grafo Re l a zio n i Ripetitività Dimensione Obbligatorietà Vocabolario RV

RELAZ I O N I

RVE

STRUTIURA COM PLESSA

RVEL

Live l l o

25

RVER

Co d ice b e n e ra d ice

25

RSE

RELAZ I O N I D I RETTE

RSER

Tipo re lazi o n e

RSET

*



Tipo sc h e d a

70

*

chiuso

lO

*

a pe rto

25

*

RSEC

Co d ice b e n e

ROZ

Altre relazioni



25

RSP

Cod ice scheda



25

pregressa

95

Gli altri paragrafi che seguono sono in parte specifici di ciascuna scheda, in parte ora condivisi (" allineati ") con le altre schede I C C D . 5.3.1. L a sch eda B D M La scheda B D M per i beni D EA materiali, pubblicata nel 2000, rappresenta, come si è detto, uno sviluppo e una successiva strutturazione della scheda F KO . Il relativo volume ( I C C D , 2ooo) contiene il tracciato , la normativa e un buon nume­ ro di esempi di schede compilate, esemplificative di diverse casisti­ che. La scheda, che non è ancora stata allineata alle più recenti nor­ mative 3 . 00, si compone di 18 paragrafi: • C D - Codici; • RV - Gerarchia; • LC - Localizzazione; • U B - Ubicazione; • LA - Altre localizzazioni; • D R - Rilevamento; • O G - Oggetto; • A u - Autore fabbricazione/ esecuzione; • MT - Dati tecnici; • UT - Uso; • c o - Conservazione; • RS - Restauri; • DA - Dati analitici ; • T U - Condizione giuridica e vincoli; • D O - Fonti e documenti di riferimento; • S K - Riferimento ad altre schede; • CM - Compilazione; • AN - Annotazioni . I paragrafi Gerarchia e Riferimento ad altre schede corrispondono, nel loro complesso, all'attuale paragrafo Relazioni delle normative 3 . 00. La compilazione del paragrafo Gerarchia consente di classifi­ care gli oggetti schedati come " se m p l ici " , " com p lessi " o " aggrega­ ti " ( I C C D , 2000, pp. 14-5) . La distinzione fra oggetti " semplici " e oggetti " complessi " si lega alla natura stessa degli oggetti, composti di più parti, oppure al modo in cui gli stessi vengono trattati per

g6

" convenzione " all'atto della catalogazione. «L'oggetto semplice è un oggetto catalogato come oggetto singolo, i cui dati, riportati nella scheda, si riferiscono all'oggetto nella sua totalità [ . . . ] . L'oggetto complesso è un oggetto [ . . . ] fisicamente o logicamente composito. Le sue componenti sono analizzate, quindi, separata­ mente» (ivi, p. 14) . Un esempio di oggetto " complesso " può essere un abito, inteso come il risultato di una sommatoria di parti (cami­ cia, corsetto, gonna, grembiule, calze ecc. ) . Nel caso di un oggetto " complesso " verrà compilata una scheda " madre " (livello o) che ri­ porterà i dati relativi all'oggetto nella sua globalità e tante sotto­ schede (livelli da 1 a n) per quante sono le componenti. Oggetti definiti come " aggregati " sono invece quelli che, pur aven­ do distinte individualità, presentano fra di loro dei collegamenti, «come ad esempio, mortaio e pestello, ceppo e incudine, collana con medaglione, pentola con coperchio» (ivi, p. 15) . La normativa B D M stabilisce con molta precisione le obbligatorie­ tà previste per la sua compilazione, che può avvenire a due livelli: catalogazione, con la compilazione di tutte le voci presenti nel tracciato inerenti al bene schedato, e precatalogazione, con la com­ pilazione di un più ridotto numero di voci. Resta da affrontare, per questa scheda, la costruzione di thesauri spe­ cifici che consentano, fra l'altro, la compilazione, del campo Definizione dell'oggetto (paragrafo Oggetto) nei tre sottocampi: Definizione della categoria generale, Definizione della categoria spe­ cifica, Tipologia specifica. Per gli oggetti di uso agropastorale e arti­ gianale si è finora generalmente convenuto di utilizzare le definizio­ ni assegnate nel già citato testo di Scheuermeier (1980; cfr. PAR. 2.1), che restano però assolutamente insufficienti e non sistematiche, né assimilabili a un vero e proprio thesaurus. La scheda B D M è applicabile tanto a beni conservati in museo quan­ to a beni presenti sul territorio, sebbene la struttura del suo traccia­ to la renda maggiormente indirizzata a un uso museale, o comun­ que nell'ambito di collezioni e raccolte. Uno dei punti problematici della sua applicazione al terreno è proprio l'organizzazione delle rela­ zioni fra oggetti complessi e loro componenti: un'organizzazione 97

che, se è facilmente applicabile ai beni " congelati " presenti nei mu­ sei e nelle collezioni, mostra i suoi limiti sul campo per l'eccessiva rigidità che entra in contraddizione con le pratiche di variazione, di riutilizzo, di composizione/scomposizione, di bricolage, che caratte­ rizzano l'uso concreto degli oggetti nelle comunità di riferimento. Nell'esigenza di allineamento al SIGEC e alle normative 3.00, la sche­ da BDM dovrà venire ulteriormente ristrutturata. In tale occasione si potrà riesaminare il tracciato e procedere a renderlo più puntual­ mente coerente con la complessità dei beni DEA. Al tempo stesso si dovrà ampliarlo a comprendere, nelle loro specificità, i beni etnogra­ fici extraeuropei, come da tempo viene richiesto dagli etnologi. 5.3.2. La scheda B D I La scheda B D I per i beni DEA immateriali è stata pubblicata nel 2002 in un primo fascicolo che com prende il tracciato e la normativa ( I C C D , 2002) , a cui si aggiunge un secon­ do fascicolo ( I C C D , 2006) contenente gli esempi di schede compi­ late e alcuni saggi introduttivi. Le modalità di progettazione di questa scheda si sono discostate da quelle praticate in passato. Essa è infatti il risultato dell'applicazione del D.Lgs. 112/1998, art. 149 ( PAR. 4.1), che assegna alle Regioni il compito di collaborare con lo Stato in materia di " metodologie comuni da seguire nelle attività di catalogazione". La scheda è nata a partire da una proposta della Regione Lazio, suc­ cessivamente sviluppata da un esteso gruppo di lavoro istituito dal­ l'ICCD, composto da soggetti afferenti allo Stato, alle Regioni e alle Province autonome, all'Associazione italiana per le scienze etnoan­ tropologiche, con il coordinamento scientifico della stessa Regione Lazio. È dunque una scheda costruita in modo pluralistico, per la quale ci si è potuti confrontare fra soggetti diversi con esigenze ed esperienze differenziate. La scheda è stata progettata secondo un 'accezione dei beni imma­ teriali fortemente estensiva e articolata (cfr. CAPP. 2 e 3). Si tratta, pertanto, di un tracciato del tutto nuovo, sperimentale, mediante il quale si è cercato di offrire uno strumento unificato per catalo­ gare una pluralità di beni, quali giochi, danze, spettacoli, tecniche,

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comunicazioni non verbali, autobiografie, onomastica e topono­ mastica orali, saperi, tecniche, consuetudini giuri di che ecc. Il tracciato è unico per tutti i beni D EA immateriali e dunque necessariamente duttile, in grado di con se n ti re la registrazione di una notevole quantità di dati relativamente a beni fra loro diffe­ renziati. Si applica tanto a beni rilevati contestualmente sul terre­ no (schedatura sul terreno) , quanto a beni rilevati in precedenza, fissati su s upporti audiovisivi conservati in archivio (schedatura d'archivio) . In questo secondo caso la scheda è utilizzabile anche per la catalogazione di beni D EA immateriali extraeuropei, laddove i supporti audiovisivi siano conservati in Italia o nelle sedi estere previste dalle normative dell'I C C D . I n considerazione della natura specifica, "volatile " , di questi beni, la schedatura sul terreno prevede obbligatoriamente la realizzazio­ ne di un corredo audiovisivo per una stabile restituzione e fruizio­ ne del bene . Tale corredo può consistere in registrazioni/riprese sonore e/ o videocinematografiche e/ o fotografiche. I supporti, così ottenuti, da allegarsi alla scheda, costituiscono, a loro volta, dei beni audiovisivi la cui conservazione e la cui tutela potranno avere dei riflessi sugli stessi beni D EA immateriali, per loro natura diffi­ cilmente tutelabili (Tucci, 2006) . Nella schedatura d'archivio sarà invece sufficiente fare riferimento alla documentazione audiovisiva già conservata nell'archivio stes­ so, di cui la scheda erediterà tutti i dati. In entrambi i casi, è comunque prevista anche la possibilità di alle­ gare documentazioni audiovisive integrative del bene, che possono venire realizzate direttamente dal catalogatore nel corso del rileva­ mento (ad esempio, interviste, fotografie) , oppure al di fuori del rilevamento (documenti d'archivio, documenti reperiti in loco, dischi, prodotti audiovisivi ecc. ) . I l tracciato è impostato in modo descrittivo: fornisce un'ampia quantità di dati rinunciando ad analizzarli, anche se per questi beni la descrizione è già una prima forma di analisi. Sono state per­ tanto escluse alcune voci, presenti nelle vecchie schede F K, come e soprattutto " funzione" , che richiederebbero, per poter essere vali99

damente compilate, un livello di approfondimento e di interpreta­ zione non previsti dalla prassi catalografica. L'articolazione del tracciato rispecchia le peculiarità dei beni im­ materiali, e pur mantenendosi allineata con le schede I C C D , presenta non pochi punti di originalità e di differenziazione. Si compone di 25 paragrafi, di cui 19 contenenti dati sul bene e 6 contenenti dettaglia­ ti dati sulle documentazioni audiovisive primarie o integrative: • C D - Codici; • RV - Relazioni; • AC - Altri codici; • D B - Definizione del bene; • RD - Redazione; • LA - Altre localizzazioni geografico-amministrative; • D R - Dati di rilevamento ; • o c - Area di origine e cronologia; • CA - Occasione; • RC - Ricorrenza; • eu - Comunicazione; • DA - Dati analitici ; • AT - Attore individuale; • TC - Attore collettivo; • PC - Parole chiave; • D U - Documento audio; • DV - Documento video-cinematografico; • D F - Documento fotografico ; • AI - Documento audio integrativo; • VI - Documento video-cinematografico integrativo, • FI - Documento fotografico integrativo, • D O - Fonti e documenti di riferimento; • AD - Accesso ai dati; • CM - Compilazione, • AN - Annotazioni. La scheda B D I si applica ai beni D EA immateriali nei loro aspetti performativi: concretizzazioni uniche e irripetibili di modelli a­ stratti presenti nel territorio . 100

Nella catalogazione di beni di particolare articolazione, quali pos­ sono essere le feste, i pellegrinaggi, i riti ecc. , è buona norma com­ pilare più schede, ciascuna relativa a un segmento del bene com­ plessivo, individuabile come bene nel bene e dotato di una relati­ va autonomia. Ad esempio, in una festa religiosa popolare si po­ tranno individuare una processione, dei canti, una leggenda di fondazione del culto , dei comportamenti devozionali e così via. Sulla base di valutazioni di varia natura, dettate anche dalle con­ tingenze (singolo catalogatore o équipe, quantità di schede previ­ ste dal finanziamento ecc. ) , si potrà valutare se e come collegare tali schede fra di loro e/ o con altre medi an te il paragrafo Relazioni. Per dare maggiore leggibilità alle relazioni è stato di recente aggiunto, nel paragrafo Dati analitici, il campo Specifiche relazio­ nali, nel quale si potrà dare conto dei collegamenti e dei criteri adottati. Analogamente alla scheda B D M , anche per la B D I sono previsti due soli livelli di ricerca: precatalogazione e catalogazione. Il primo livello si applica di preferenza alla schedatura d'archivio; il secon­ do al rilevamento diretto sul terreno . Il livello di catalogazione pre­ suppone la compilazione di tutti i campi pertinenti alla tipologia specifica del bene preso in esame, nonché la realizzazione di alme­ no un allegato audiovisivo di restituzione del bene stesso . Per i vocabolari generici della scheda ci si è attenuti agli standard delle altre schede I C C D , mentre per i vocabolari specifici si è fatto riferimento al thesaurus di Parole chiave etnoantropologiche, elabo­ rato da Bravo (1995) . Il rilevamento dei dati e la compilazione della scheda B D I richie­ dono un'elevata professionalità che include anche il possesso di specifiche competenze metodologiche e tecniche, necessarie per la realizzazione del corredo audiovisivo. Il corretto uso della scheda richiede , quindi, che si progetti uno specifico percorso formativo per catalogatori D EA, attraverso cui vengano fornite le opportune conoscenze e competenze, in aggiunta a quelle già acquisite nei percorsi di studio accademici (cfr. PAR. 6.2).

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5.4. Le sch ede FPF e AM RP Due specifiche schede per la catalo­ gazione delle feste sono state elaborate, nel 2000, da parte di grup­ pi di lavoro coordinati da Gian Luigi Bravo nell'ambito di proget­ ti di ricerca interuniversitari e del C N R : la scheda Festa progetto finalizzato ( F P F ) e la scheda Archivio multimediale della ritualità piemontese ( AMRP ) , che costituiscono una versione " grande" e una versione " piccola" di un unico modello (Bravo, 1999a, 2001b, 2005c; Porporato, 2001) . Le schede, dotate di apposito software con colle­ gamenti multimediali, sono state progettate per la catalogazione delle feste a partire da fon ti differenziate secondo un ampio ven ta­ glio : fonti scritte, fonti audiovisive, fonti derivate dal rilevamento diretto sul terreno. Analogamente alla scheda B D I , anche la scheda F P F è stata progettata per schedare specifiche performance in dati contesti, come spiega Gian Luigi Bravo (2005a, pp. 108-9) : Pe r l ' a rc h ivio fpf ho d eciso d i cata l o ga re s e pa rata m e nte o g n i eve nto festivo effettiva ­ m e nte registrato, d a l l ' a uto re d i u na fo nte o d a a p po s ita ri l evazio n e d i ca m po, i nvece di a cc u m u la re in un solo reco rd n otizie di d ive rsa o ri gi n e, ta l o ra d iverge nti se n o n co ntra d d itto ri e, e d i d ive rsi p e ri o d i, co n l e d e riva nti i n co n g ru e nze, a n co ra p i ù m a n i ­ feste p e r l e i m m a g i n i ed i s u o n i, e g l i i nso l u bi l i p ro b l e m i d i i nteg razio n e o d i sce lta . Otte n ia m o così u na scheda p e r u na sola occa s io n e, o g n u na rife rita a d u na s pecifica p e rfo rm a n ce e ad u no s pecifi co co ntesto. Si posso n o q u i n d i co m pi l a re a n c h e p i ù s c h e d e per u na ce ri m o n ia e si è i n gra d o d i va l u ta re va riazio n i e trasfo rm azio n i .

La scheda F P F , la più ampia delle due, si compone di 14 paragrafi e di com p lessive 77 voci : • Dati identificativi (15 voci) ; • Dati temporali (10 voci) ; • Dati spaziali (1 voce) ; • Agenti (6 voci) ; • Risorse (3 voci) ; • Elementi caratterizzanti (6 voci) ; • Azioni rituali (11 voci) ; • Descrizione (4 voci) ; • Fonti (2 voci) ; 102

Rilevazione (3 voci) ; • Informatore ( 6 voci) ; • Schedatore ( 2 voci) ; • Sottoarchivi (4 voci) , • Multimedia (4 voci) . N el suo insieme la scheda con se n te di registrare una vasta gamma di dati di rilevanza antropologica (Bravo, 20o1b, p. 29 2) . •

Essa p rese nta , oltre a i d ati ide ntificativi e d i co l locazio n e te m po ra le, u n 'a m pia a rticola­ zio n e delle i nfo rmazio n i relative a l l e m o ltep l ici co m po n e nti che g l i a ntro pologi a na l iz­ za no i n q u e l fen o m e n o stratificato, e rea l izzato i n m o lti cod ici d iversi, che è a pp u nto la festa . Citia mo così: gli attori d e l la ce ri m o n ia , i loro costu m i , l e azio n i i n cui ogn u no s' i m pegna ; i l ti po d i o rga n izzato ri e d i pa rteci pa nti a l la festa ; ed il tipo d i riso rse d i cu i ci si giova ; la p rese nza ritua l e d i a n i m a l i, vegeta l i , a l i m e nti , e l e m e nti fig u rativi, so n o ri e gestua l i e a ltri a n co ra oggettua li. Si registra no le co m po n e nti ritua l i tipiche q ua l i pro­ cess io n i, da nze, acro bazie, azio n i d ra m matiche, q u estu e, ecc. e l e cre d e nze e la docu­ m e ntazio n e o ra le co n n essa .

La scheda AM R P , più ridotta, si compone di 10 paragrafi e di com­ plessive 46 voci: • Dati identificativi (13 voci) ; • Dati temporali (9 voci) ; • Spazi e percorsi rituali ( 1 voce) ; • Elementi della festa (3 voci) ; • Fonti (2 voci) , • Rilevazione osservazione (2 voci) ; • Informatore ( 6 voci) ; • Schedatore ( 2 voci) ; • Sottoarchivi (4 voci) ; • Multimedia (4 voci) . Strutturata in modo meno analitico, la scheda offre una restituzio­ ne più concentrata delle informazioni essenziali (ibid. ) La s c h e d a [ ... ] registra , o ltre a q u e l l i i d e ntifi cativi d i p i ù co n s u eto i nte resse d o c u ­ m e nta rio va ri d ati d i ri l ievo scie ntifico: g l i s pazi e p e rco rs i ritu a l i , g l i atto ri e i co l l e -

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ga m e nti co n i c i c l i ca l e n d a ria l i e p rod uttivi ; essa è m i rata i no ltre a d u na p ro nta rico­ g n izio n e d e l la d istri b u zio n e d e l l e ce ri m o n i e s u l territo rio , a l l ' a cce rta m e nto d e l la q ua l ità d eg l i i nfo rmato ri e d e l l e fo nti c u i s o n o dovute l e n otiz i e registrate, e d i co n ­ s e g u e nza a l la p red is posizi o n e d i u n o stru m e nto s e rio d i tute l a , soste g n o e eve n ­ tua l m e nte i n d i rizzo e o ri e nta m e nto n e l q ua d ro d i u na p ro g ra m m a z io n e te rrito ria l e. L'a rricc h i m e nto co n la d i m e n s i o n e m u lti m ed ia l e è assicu ra to sia m ed ia nte l e i n d i ­ cazio n i re lative a d a rc h ivi so n o ri , foto g rafici, fi l m ici, v i d eo , i co n o g rafici, p e rti n e nti, sia m e d ia nte l ' a pertu ra d i retta d i co ntri b uti a u d io , vi d eo e foto g rafici d a ogni sche­ d a ( B ravo, 2001b, p. 292 ) .

Le schede F P F e A M R P sono state utilizzate per una pluralità di ricer­ che svolte nel territorio piemontese, fra cui quelle relative al teatro popolare, alle danze delle spade (P. Grimaldi, 2001) , al Carnevale, alla settimana santa ecc. (Porporato, 2001) . s .s . Altre esperi e nze catalografiche Nell'ambito di ulterio­ ri sistemi catalografici elaborati nel tempo per i beni D EA al di fuori dell'I c c n , sicuramente l'esperienza più originale e interessante è stata quella della Scheda centro di documentazione ( s e n ) , elabo­ rata da Renato Grimaldi per la Provincia di Torino nel 1988 : un 'unica scheda generale di rilevazione per i beni culturali demoet­ noantropologici materiali e immateriali, che in un secondo livello si diversifica per categorie, tenendo anche conto delle corrispettive schede F K ; il tutto all'interno di un articolato sistema informativo ( R. Grimaldi, 1988) . Ulteriori esperienze di schede, dotate di una certa autonomia ma comunque collegate alle F K , sono le schede Oggetto , Documenti orali e Festa della Regione Sicilia, elaborate dalla cattedra di Antropologia culturale dell'D niversità di Palermo agli inizi degli anni ottanta dello scorso secolo . Nella seconda metà del medesimo decennio sono da ricordare le schede per la rilevazione delle feste elaborate dagli antropologi afferenti alla ditta Video Italia, nel­ l'ambito dei " Giacimenti culturali " (legge 28 febbraio 1986, n. 41 , cfr. Lattanzi, 1990) .

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Pe r ri assumere . . .

La cata l ogazi o n e dei b e n i DEA è o p e razi o n e co n oscitiva vo lta a l rico­ nosci m ento del patri m o n i o ai fi n i d e l l a sua co nservazio n e, tute l a e va l o ­ rizzazi o n e. Si a p p l ica ta nto ai b e n i m ateri a l i , q u a nto ai b e n i i m materia­ l i ; ta nto a l terre n o, q u a nto a m u sei e a rch ivi a u d i ovisivi . • La cata l o gazi o n e dei b e n i DEA s u l te rre n o pres u ppo n e l a m essa i n atto d i m eto d o l ogie d i osservazi o n e, ri l eva m e nto e rea l izzazio n e d i d o ­ cu m enti a u d i ovisivi , c h e atte n go n o a l l e co m petenze e a l l e p rassi spe­ cia l isti c h e d egl i a ntro p o l ogi. • Pe r l a cata logazi o n e d ei b e n i DEA l ' I stituto centra l e per il cata l o go e l a d o c u m e ntazi o n e h a e l a b o rato la sch ed a B DM ( B e n i dem oetn oa ntro ­ p o l o gici m ateri a l i ) e l a s c h e d a B DI ( Be n i d e m oetnoa ntro p o l o gici i m m a ­ teri a l i ) . • U lteri o ri sch ed e d i cata l o gazi o n e dei b e n i dem oetnoa ntro p o l o gici sono state e l a bo rate, nel tem po, n e l l ' a m bito d i u n ive rsità , istituti di ricerca , Regi o n i . •

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6 . Ricerca scientifica e formazione 6.1. La ricerca sci entifica Quello dei beni culturali D EA è un patrimonio che si viene continuamente costituendo entro il più ampio sistema cultura. In prima istanza dunque sono rilevanti per la conoscenza di questo patrimonio e l'attività nel suo ambito tutte le ricerche finalizzate a rilevare e documentare aspetti della cultura di un dato territorio. Tanto per fare qualche esempio può trattar­ si del ciclo calendariale o di una singola festa quale un Carnevale, di forme di religiosità e di culto, di tecniche produttive quali la pastorizia, e della loro strumen razione e sa peri tradizionali, di forme drammatiche, di canto o di danze. Saranno di particolare interesse le indagini che mettano in evidenza anche i fatti della riproposta e i fenomeni di innovazione; esse infatti ci permette­ ranno di inserire meglio nel quadro attuale la problematica della patrimonializzazione, della tutela attiva e della valorizzazione. Abbiamo visto che il lavoro dei ricercatori si è fin dall'inizio con­ centrato sul mondo agropastorale: è sostanzialmente da questo materiale e da questi presupposti che hanno preso avvio le consi­ derazioni di carattere più generale, si sono indirizzate le ricerche e si è costruita la cassetta degli attrezzi della disciplina, e questo rimane un dato rilevante del suo D NA, pur se la ricchezza delle sue attuali articolazioni non può certo essere rinchiusa in quei limiti . Per quanto riguarda il contesto urbano e operaio e le classi popo­ lari quali oggi si configurano, il problema è dunque complesso : rimane un ampio campo da affrontare, in un percorso lungo il quale potrà essere fruttuoso l'incontro con le discipline sociologi­ che e storiche. Riteniamo utile citare, come esempio recente di ricerca in nuove direzioni, l'indagine di un'antropologa sulle operaie della FIAT- SATA in un periodo di mutamento culturale e dell'organizzazione del lavo­ ro (D'Aloisio, 2003) . Ma è soprattutto di notevole rilievo il lavoro dedicato all'antropologia urbana da Amalia Signorelli, che illustra vari casi empirici, uno dei quali tocca direttamente proprio l' atteg­ giamento degli abitanti di Pozzuoli, rilevato attraverso numerose

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interviste sul terreno, nei confronti del ricco patrimonio archeologi­ co della loro città. I suoi grandi monumenti vengono per essi a con­ figurarsi come mediatori di un rapporto con la loro storia che si costruisce a poco a poco nella familiarità della vita quotidiana; e ciò avviene perché i monumenti stessi sono funzionalmente inseriti in questo contesto, nel lavoro e nel tempo libero trascorso nelle vie della città. Potremmo parlare per essi di una sorta di polifunzionali­ tà che comprende la memoria, la costruzione di un fiero senso di appartenenza al luogo e l'inserimento nelle vicende del tempo quo­ tidiano e attivo (Signorelli, 1996, cap. 8, ulteriori sviluppi in 2001 ) . Ricorrendo a un concetto usato ancora da Signorelli, la " desacraliz­ zazione " dei monumenti, possiamo presentare qualche ulteriore spunto sulla tutela e sulla valorizzazione: lo stesso patrimonio D EA può acquisire vitalità, continuità e impatto comunicativo quanto meno venga, appunto, " sacralizzato ", separato per un momentaneo consumo univocamente " culturale" , e quanto più invece sia lasciato alla sua normale polifunzionalità nel territorio. Ciò è stato vero soprattutto per la prima fase della riproposta, ma rischia di essere rimesso in questione proprio dal suo successo, con il condiziona­ mento esterno sempre più pesante dello show business, dei media, della moda e dell'attuale stile di consumo del tempo libero. Si pon­ gono nuovamente e in modo diverso problemi di tutela. Qui potrebbero avere effetto proprio voci provenienti dalle comu­ nità locali, come è successo in Puglia per il sito http://www. pizzicata . it, che ha ospitato interventi in difesa della festa di san Rocco che a metà agosto si celebra a Torrepaduli ( LE ) : essa prevede tra l'altro danze circolari notturne (ronde) , eseguite al santuario, e la cosiddet­ ta " scherma", una tarantella suonata da armonica a bocca e tambu­ rello in cui i danzatori mimano un combattimento al coltello . Nel quadro del successo delle manifestazioni musicali legate almeno nominalmente alla tradizione popolare salentina, la comunità locale ha subito un netto esproprio di questa festa: un'invasione di pubbli­ co giovanile che finisce per escludere gli anziani del posto, un uso della musica continuo e rumoroso, che vede l'impiego di strumenti e percussioni estranee, anche africane (djembè) , la mancanza di attenzione alle modalità locali delle danze, l'indifferenza per i mo10 7

menti e le pratiche di devozione della comunità. Il progetto " Proteggiamo Torrepaduli " lanciato dal sito Internet è centrato sulla tematica del rispetto, per restituire centralità alla comunità locale, alla sue competenze e devozioni tradizionali; un rispetto da diffon­ dere e pubblicizzare attraverso una sensibilizzazione di base, e che prevede anche parole d'ordine precise, quali: no all'inquinamento acustico; no ai djembè in piazza San Rocco; rivogliamo gli anziani nelle ronde; rispetto per la scherma; rispetto per i devoti di san Rocco (Tucci, 2004-2005) . È difficile prevedere quanto questo inter­ vento possa funzionare, ma si tratta certame n te di una via in teres­ sante da esplorare. Tornando al problema delle classi subalterne urbane e delle loro culture, precisiamo che la questione non riguarda soltanto la di­ sponibilità di ricerche, ma in modo altrettanto sostanziale le moda­ lità e i criteri con cui si possano tracciare, in riferimento a queste classi e culture, linee di delimitazione di un patrimonio D EA e di accesso a esso . In effetti il modo in cui questo finora si è costituito non è neutrale né fuori della storia, i suoi interpreti, antropologi e intellettuali locali della riproposta hanno certamente fissato moda­ lità di riconoscimento e accesso, di tutela, catalogazione e valoriz­ zazione, mirate prevalentemente al mondo contadino . L'attenzione al presente non contadino implica dunque anche un lavoro non indifferente di osservazione ed elaborazione, con ogni probabilità in una prospettiva multidisciplinare, un ripensamento delle modalità di rilevazione, tutela e comunicazione; potrà forse anche essere utile concepire beni culturali che non siano acquisiti in modo definitivo, ma la cui collocazione dipenda dalle vicende in cui sono stati coin­ volti, dalla propensione dei loro portatori a mantenerli in vita, dalla loro aderenza a problematiche sentite dalla popolazione e dai suoi intellettuali - ad esempio i prodotti documentali, gli allestimenti, le esperienze di coinvolgimento, connessi all'attività di un eco museo come quello di Le C reuso t sono destinati a durare oltre le con tin­ genze critiche che li hanno motivati ? E il moltiplicarsi delle attivi­ tà, solo esemplificate nel paragrafo 3 . 3 , di un ecomuseo urbano come quello di T orino, che cosa produce per il patrimonio ? Per concludere, precisiamo che fanno ovviamente parte del quadro 108

delle ricerche di più specifico interesse per la problematica trattata in questo testo tutti i lavori dedicati alla progettazione di strutture di archivio e di modelli di schede e alle campagne di catalogazione, alla conservazione e valorizzazione, alle realizzazioni museali ed ecomu­ seali. Ma questi, oltre alla trattazione specifica dei capitoli 3 e 5, sono appunto oggetto privilegiato d'esame nell'intero volume e risultano nella sua bibliografia. Vale tuttavia la pena di richiamare concisa­ mente due ricerche, che sono riuscite a coinvolgere più squadre di antropologi. La prima corrispondeva a un progetto ministeriale uni­ versitario di rilevante interesse nazionale per la costituzione di un Archivio multimediale della ritualità tradizionale (anni 1998-99 ) ; riuniva, tra l e altre, équipe dell'Università d i Palermo (coordinatore A. Buttitta, che era anche coordinatore centrale) , di quella di Torino (Bravo) e di quella del Piemonte orientale (P. Grimaldi) . Di parti­ colare importanza la seconda, realizzata nel quadro del Progetto finalizzato Beni culturali del CNR, e da questo finanziata, che tra il 1996 e il 2001 ha visto l'impegno coordinato di antropologi facenti capo a sei università italiane: Cagliari (coordinatore Angioni) , Mes­ sina (Faeta) , Palermo (A. Buttitta) , Perugia (Seppilli) , Roma La Sa­ pienza (Clemente) , Torino (Bravo) . Il programma quadro delle ricerche era intitolato: Sistema ipermediale interattivo relativo ai culti, alle pratiche e alle tecniche agrarie tradizionali [. }. Al suo interno, pur mantenendo il coordinamento, ogni équipe elaborò un proget­ to più specifico; in vari casi, come a Messina, Palermo e Torino, si procedette alla catalogazione multimediale di eventi festivi, con una scheda progettata principalmente a Torino sviluppando il modello elaborato da Antonino Buttitta per la Regione Sicilia (vedi PARR. 4.2 e 5.5); a Torino si creò inoltre un archivio multimediale di circa 160 feste e cerimonie, gestito con software originale, mentre la squadra di Messina approfondì l'analisi di dieci feste del ciclo della settima­ na santa in Calabria, producendo anche un vasto apparato fotogra­ fico, confluito in un volume appena pubblicato; infine la squadra di Roma realizzò la rete M ETL (vedi PAR. 3.3), quella di Cagliari un CD multimediale ipertestuale sulle tradizioni del pane in Sardegna, quella di Palermo vari contributi scritti e visivi (Bravo, 2005c; Faeta, Ricci, 2006) . .

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6. 2. La formazione Va da sé che una preparazione sufficiente­ mente ampia e articolata nel campo delle scienze antropologiche debba costituire una componente importante della formazione di chi si accinge a operare nel campo dei beni culturali D EA, intorno ai quali si articola l'altro aspetto qualificante della formazione. Nelle università italiane una prima cattedra di Antropologia risale al 1869-70, a Firenze, ed è ricoperta dal noto antropologo ed etno­ logo Paolo Mantegazza; più recente è il primo corso di quella che allora fu chiamata " Demopsicologia", inaugurato a Palermo nel 1911, e tenuto da Giuseppe Pitrè, uno dei padri fondatori della de­ mologia nel nostro paese. Vediamo la situazione del presente dopo le varie trasformazioni subite dalle università italiane. L'ordinamento attuale prevede una laurea, dopo un triennio di studi e la discussione di una tesi di estensione con te n uta (ora compendiati in 180 crediti formativi universitari , C F U ) e una lau­ rea specialistica, dopo un ulteriore biennio e una dissertazione finale più impegnativa (altri 1 20 C F U ) . Il passaggio dal triennio al biennio specialistico non è scon tato : con una laurea triennale si può accedere a specialistiche diverse, e ciò può comportare il riconoscimento completo degli studi compiuti oppure soltanto parziale, con l'obbligo di aggi ungere al piano di studi le materie essenziali che risultino mancanti (debito formativo) . Infine l'in­ teressato può accedere a un livello superiore che è quello del dot­ torato di ricerca, tre anni di alta formazione. Prima di procedere oltre dobbiamo precisare che il nuovo ordinamento è stato defi­ nito nel 2ooo; successivamente le sue articolazioni e i suoi conte­ nuti sono stati oggetto di discussione come pure dell'analisi di appositi gruppi, i cosiddetti Tavoli, cos tituiti presso il M I U R ( ministero dell'Istruzione, Università e Ricerca) , e del Consiglio nazionale universi tario (c U N ) ; sono stati reperibili in circolazio­ ne documenti e proposte di fonti diverse, non completamente concordanti , ma nessuno ancora ufficializzato , almeno fino alla chius ura del presen te volume. Faremo quindi innanzitutto riferi­ mento ai dati quali ris ultano dall'offerta formativa universitaria per il 2005, oggi consultabile s ul sito del M I U R, e ad altri dispo­ nibili sullo stesso sito o sui siti di varie università; tutti questi dati

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rien trano nel quadro dell'ordinamento form ulato nel 2000 ( http://offf. m i u r. it e http://www. m i u r. it) . Per quanto concerne il percorso triennale, tutti i corsi di laurea precedenti sono stati riordinati in 42 classi di laurea. Per ogni clas­ se il M I UR ha determinato una tabella che indica gli Obiettivi for­ mativi qualificanti e le Attività formative indispensabili . Tra que­ ste classi di laurea e in queste tabelle prenderemo in considerazio­ ne quelle di interesse per la problematica dei beni culturali e per la presenza delle discipline demoetnoantropologiche. Le diverse ma­ terie che lo studente deve affron rare sono indicate nelle Attività formative. Qui è però necessaria una precisazione : le indicazioni non riguardano singole discipline o loro suddivisioni, ad esempio, per le scienze antropologiche, Antropologia culturale, Antropo­ logia medica, Storia delle tradizioni popolari e così via, ma i cosid­ detti settori scientifico-disciplinari, de fini ti nel 1999 (per l'elenco completo vedi nuovamente il sito del M I UR) . Ogni settore è con­ traddistinto da una sigla e da una denominazione e raggruppa un nucleo di indirizzi di ricerca caratterizzati dalla comunanza di campi di lavoro, finalità, metodi e storia; segue un testo conciso che espone in sintesi tali caratteri. In ogni facoltà i corsi di studio proposti agli studenti dovranno rientrare nei criteri di una specifi­ ca classe di laurea, secondo la sua tabella, e indicheranno quindi innanzitutto i settori scientifico-disciplinari a essa pertinenti; po­ tranno anche usare intitolazioni ad hoc, in aggiunta alle indicazio­ ne del settore, per meglio precisare gli indirizzi didattici e scienti­ fici di singoli corsi, ad esempio, sempre nel nostro campo , An­ tropologia del Mediterraneo o Metodologia della ricerca antropo­ logica. Il nostro settore scientifico-disciplinare ha l'intitolazione M-DEA/ 0 1 Discipline demoetnoantropologiche e precisa tra gli ambiti d'indagine sia lo studio delle diverse aree territoriali del pia­ neta sia quello delle culture delle classi subalterne delle società occidentali; esiste inoltre un settore L-ARTI o8 Etnomusicologia che concerne «gli studi [ . . . ] condotti con le metodologie proprie della musicologia e dell'antropologia, relativi alle forme e ai com­ portamenti musicali che caratterizzano società e culture a preva­ lente tradizione orale». 111

Nel passare all'esame delle classi di laurea per noi più rilevanti chiariamo ancora che nelle tabelle, e quindi nei corsi di studio atti­ vati dalle facoltà, sono previsti tre diversi tipi di attività formative, ovvero di materie indicate secondo i settori scientifico-disciplinari, in ordine decrescente di importanza e di attinenza agli obiettivi qualificanti : di base, caratterizzanti e affini o integrative. Ogni ta­ bella contiene una suddivisione secondo questi tre tipi, all'interno di ognuno compaiono inoltre dei gruppi, aggregati con criteri e denominazioni differenti nelle diverse tabelle, e infine ogni grup­ po consta di precisi settori scientifico-disciplinari . Il peso di ogni tipo (di base, caratterizzanti, affini) è stabilito e misurato in termi­ ni di C F U , e per ognuno la tabella stabilisce il minimo di crediti da attribuire. La gamma non di rado ampia dei settori compresi in ogni gruppo e tipo e il fatto che siano indicati solo dei minimi con­ sentono una limitata libertà di movimento alle facoltà nell'attivare i corsi di studio entro le classi; tuttavia va notato che i crediti lasciati alla libera scelta dello studente per materie di altri settori o per la reiterazione di esami sono soltanto un minimo di 9 sui 180 del triennio . Tra le 42 classi di laurea non ne è stata prevista alcuna dedicata specificamente agli studi D EA, anche se in alcuni casi, come presso le Facoltà di Lettere e Filosofia delle Università di Bologna, Paler­ mo, Roma La Sapienza, Siena e Torino , sono stati istituiti dei per­ corsi con forte impronta antropologica entro corsi di laurea com­ presi in classi di laurea diverse, nei limiti concessi dalle tabelle . Compare invece una classe, la 13, intitolata alle Scienze dei beni culturali. Vediamo ne alcuni aspetti. Qui il settore M - DEA! 01 è compreso tra quelli caratterizzanti, come pure L-ART/ o 8 Etnomu­ sicologia, ma quello che più colpisce di questa classe è una sventa­ gliata, per un totale di un centinaio, di gruppi di settori disparati, la cui stessa collocazione nei tipi non è affatto chiara e convincen­ te: così nel tipo degli insegnamenti di base compaiono ben tre set­ tori scie n tifì co-disci p li n ari intitolati a Letteratura i tali an a, Letteratura italiana contemporanea e Filologia della letteratura ita­ liana - che tra l'altro ricompare anche tra i caratterizzanti -, men­ tre risultano solo affini o integrativi i settori di un gruppo dedica112

to alle cosiddette Tecnologie dei beni culturali , tra i quali però rien trano Zoologia, Paleontologia e paleoecologia, Scienza e tec­ nologia dei materiali polimerici, e altri ancora, dei quali non è affatto evidente la diretta portata tecnologica per l'attività profes­ sionale dei laureati triennali. Un esame più approfondito della tabella richiederebbe molto spazio : numerosi settori concernenti le antichità classiche e orientali, i beni culturali archivistici, librari, storico-artistici, archeologici, D EA, ambientali, musicali, cinemato­ grafici e teatrali, alcuni settori chimici e biologici, tutti caratteriz­ zanti, le lingue e filologie classiche, queste solo affini, appaiono più sensati, ma quelli attinenti alla letteratura italiana, alla fisica o alla biologia sono comunque molto abbondanti ed è abbastanza curio­ so veder comparire tra i caratterizzanti Fisica nucleare e subnu­ cleare o Fisica della materia. Probabilmente entra qui in gioco la vastità dell'ambito dei beni culturali stessi e dei problemi connes­ si, da quelli giuridici a quelli del contesto storico, filosofico e let­ terario, dall'analisi chimica al restauro; ma si tratta anche del fatto che, poiché quello dei beni culturali è un settore nuovo e interes­ sante, con possibilità di attrazione per gli studenti, forse molte categorie accademiche si sono preoccupate di !asciarvi una loro impronta e garantirsi possibili sviluppi. È inoltre non poco importante notare quanto non compare nella tabella. È vero, nella parte sugli obiettivi formativi qualificanti si dichiara esplicitamente che i laureati «svolgeranno attività profes­ sionali presso enti locali e istituzioni specifiche, quali ad esempio, soprintendenze, musei, biblioteche, archivi, cineteche, parchi na­ turali e orti botanici, ecc. , nonché presso aziende e organizzazioni professionali operanti nel settore della tutela e della fruizione dei beni culturali»; e tuttavia nella tabella, a parte Sociologia dell' am­ biente e del territorio, non compare alcun settore che abbia a che fare con l'economia e la gestione del territorio e delle aziende, le strategie dell'innovazione, del fund raising e del marketing, impor­ tanti per aprire e gestire un nuovo campo di risorse e di utenza come quello del patrimonio (mentre ne sarebbero disponibili almeno tre, Economia applicata, Economia aziendale ed Eco­ nomia e gestione delle imprese) . 113

Poco o nulla sono rappresentate le discipline museografiche o rela­ tive alla problematica della catalogazione e archiviazione, tanto più se informatizzata e multimediale, del resto ampiamente trascurate anche nell'ambito dei settori scientifico-disciplinari decisi dal M I U R . Nella tabella è indicato soltanto, tra i settori caratterizzanti, Museologia e critica artistica e del restauro . In complesso l'impostazione della tabella appare più che altro inte­ sa a far acquisire allo studente nozioni, classificate secondo uno schema disciplinare rigido e datato, con poche aperture all' appli­ cazione e all'innovazione. Competenze essenziali sulle quali abbia­ mo insistito in questa trattazione, come quelle concernenti la comunicazione e gli allestimenti, il rapporto con la popolazione e il territorio, la sua promozione, la gestione e lo sviluppo del patri­ monio come risorsa, la schedatura multimediale e le nuove tecni­ che di presentazione, risultano oggetto secondario di apprendi­ mento e addestramento . Soltanto i corsi di laurea attivati dalle facoltà per la classe 13 potranno, sia pure in un quadro tabellare ristretto e limitante, utilizzare i diversi settori per piegarli a inse­ gnamenti più mirati a un'adeguata e aggiornata professionalità. A questo fine sarà importante anche il contributo dei docenti. I corsi della classe 13 risultano oggi prese n ti in 47 sedi universi ta­ r i e, per un totale di 73, quasi tutti istituiti presso Facoltà di Lettere e Filosofia. Il settore M- DEA/ o 1 , come abbiamo visto , è secondo la tabella caratterizzante, ma lo è insieme a moltissimi altri e per un numero minimo di soli 45 crediti per il totale; non è quindi scon­ tato che insegnamenti a esso riconducibili siano attivati in tutte quelle facoltà. A un esame più approfondito dei programmi risul­ ta, per il 20 0 5 , che i corsi in cui tali insegnamenti sono effettiva­ mente previsti sono soltanto 40 su 73 · Più vicini ai nostri interessi sono altri casi, in numero assai più ridotto, in cui all'interno dei corsi di studi attinenti alla classe 13 compaiono veri e propri curri­ cula o percorsi di indirizzo demoetnoantropologico; risultano a noi 9 in tutto, presso le Università della Basilicata, di Bologna, di Firenze, di Foggia, di Napoli Suor Orsola Benincasa, di Perugia, del Piemonte orientale, di Sassari, di Venezia Ca' Foscari; presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Palermo, poi, è atti114

vo un corso di studi intitolato specificamente ai Beni demoet­ noan tropologici. Insegnamenti di interesse per la problematica dei beni culturali, e in particolare quelli afferenti al settore antropologico M - D EA/ 0 1 , possono essere riscontrati anche nei corsi di studio che rientrano nella classe di lauree di S cienze del turismo (n. 39) , attivati in numero di 23; questa classe prevede tra gli obiettivi formativi anche l'acquisizione delle " metodiche disciplinari nelle tecniche di promozione e fruizione dei beni e delle attività culturali " . Qui il settore DEA è nuovamente caratterizzante, e la tabella ne prevede molti altri attinenti all'etnomusicologia, alla storia dell'arte, all' ar­ cheologia, alle civiltà classiche e orientali, mentre compaiono anche Economia aziendale ed Economia e gestione delle imprese. Tra i 23 corsi di studio 13 hanno attivato insegnamenti del settore M-D EAI o 1 . Infine la classe di laurea 41, come suona la sua stessa intitolazione, è dedicata essenzialmente alle Tecnologie per la con­ servazione e il restauro dei beni culturali, ris ulta più compatta e registra nella tabella le discipline demoetnoantropologiche solo tra quelle affini ( http://offf. m i u r. it e http://www. m i u r.it) . Le classi delle lauree specialistiche successive alle lauree triennali sono in totale 104 e la prima di esse risulta dedicata ad Antropologia culturale ed etnologia. Nella parte della tabella relativa agli obietti­ vi formativi qualificanti si specifica tra l'altro che i laureati dovran­ no acquisire conoscenze avanzate «per la predisposizione e condu­ zione di progetti nel campo della salvaguardia e valorizzazione dei beni etnoantropologici» e potranno quindi «operare in strutture preposte alla salvaguardia e alla valorizzazione del patrimonio cul­ turale delle comunità locali e nazionali». Il quadro delle discipline indicate è qui abbastanza compatto : il settore M-DEA/ 0 1 compare sia tra quelle di base sia tra quelle caratterizzanti insieme a quello etnomusicologico e a Museologia e critica artistica e del restauro; oltre ai non pochi settori storici, filosofici, psicologici e di lingue e civiltà classiche e orientali, giuridici, rileviamo Urbanistica e varie sociologie, in particolare quelle attinenti ai processi culturali e comunicativi, ai processi economici e del lavoro, all'ambiente e ter­ ritorio (i primi due di base e caratterizzanti) . Tuttavia per operare 11 5

effettivamente «in strutture preposte alla salvaguardia e alla valoriz­ zazione del patrimonio culturale», risultano nuovamente assai scar­ se le basi per l'acquisizione di molte delle competenze essenziali delle quali abbiamo or ora criticato la ridotta presenza nella tabella della classe triennale 13, intitolata alle Scienze dei beni culturali. Le lauree specialistiche in Antropologia culturale ed etnologia ( clas­ se LS1) registrano corsi di studio in undici università, quasi sempre presso Facoltà di lettere e filosofia, per la precisione a Bologna, Firenze, Milano Bicocca, Modena e Reggio Emilia, Palermo, Pe­ rugia, Roma La Sapienza, Sassari, Siena, Torino, Venezia Ca' Fo­ scari. Solo in quest'ultimo corso di laurea specialistica risulta un curriculum dedicato ai beni culturali, ma si tratta di un aspetto della formazione curato anche a Sassari. L'ordinamento attuale prevede inoltre una classe di lauree specia­ listiche in Conservazione e restauro del patrimonio storico-artisti­ co (LS12) , entro la quale sono stati istituiti quindici corsi. Tra gli obiettivi formativi è citata anche la «valorizzazione dei beni cultu­ rali», ma nel complesso la Tabella specialistica appare come il ten­ tativo di integrare preparazione e competenze delle già esaminate lauree triennali 13, Scienze dei beni culturali, e 41, Tecnologie per la conservazione e il restauro dei beni culturali, con una forte pre­ valenza della conservazione e restauro e dei settori chimici, fisici, biologici e geologici corrispondenti . Il settore M - D EA/o1 compare comunque tra quelli caratterizzanti, ed è attivato in sei corsi affe­ renti a questa classe sui quindici del totale (Calabria, Firenze, Napoli Suor Orsola Benincasa, Parma, Perugia, Urbino) ; tra gli affini abbiamo Economia applicata, Economia aziendale, Econo­ mia e gestione delle imprese, Sociologia dei processi culturali e comunicativi e Sociologia dell'ambiente e del territorio ; Etnomu­ sicologia è del tutto asse n te. Le classi delle lauree specialistiche in Conservazione dei beni archi­ tettonici e ambientali (LS 1o) e in Conservazione dei beni scientifi­ ci e della civiltà industriale (LS11) mostrano obiettivi formativi e sbocchi professionali piuttosto lontani da quelli che qui ci interes­ sano; la prima ha comunque il settore M - D EA/ o1 tra quelli affini, la seconda tra quelli caratterizzanti . Un caso singolare è quello 116

della classe specialistica in Musicologia e beni musicali (LS51) , atti­ vata in undici sedi universitarie: la tabella si apre con settori di base attinenti a lingua e letteratura italiana, lingue e letterature classi­ che, e un buon numero di lingue e letterature straniere, mentre Musicologia e storia della musica ed Etnomusicologia compaiono solo tra i settori caratterizzanti e non di base; manca M - D EA/ o l mentre sono presenti molti dei settori consueti per l e classi che hanno a che fare con il patrimonio. La classe LS55 è quella delle lauree specialistiche in Progettazione e gestione dei sistemi turistici e tra gli obiettivi formativi fa alcuni riferimenti al " saper operare " anche nel quadro dell'offerta di beni culturali e ambientali, alla progettazione e attuazione di interventi nelle località «impegnate nella valorizzazione di beni culturali e ambientali», alla gestione di eventi culturali e all'organizzazione di attività museali . La tabella, oltre ai molti settori storico-artistici, linguistici, giuridici, storici, sociologici ed economici e gestionali, comprende tra quelli affini M- DEA/ol (insegnamento attivato nel corso di Torino) , mentre è assente Etnomusicologia. È di qualche interesse una breve verifica di alcune delle nuove tabelle corrispondenti, in una versione non ancora ufficializzata ma di provenienza ministeriale: esse sono infatti destinate a influi­ re sull'ordinamento universitario nel futuro prossimo; tra l'altro è previsto un minor numero di crediti vincolati dalle tabelle stesse, il che lascia più libertà d'iniziativa e di scelta alle facoltà nell' orga­ nizzare i corrispondenti corsi di laurea. Tra le classi di laurea trien­ nali, sempre una quarantina, continua a non comparirne nessuna dedicata alle scienze antropologiche. Risulta invece al numero 1 una classe delle lauree in Beni culturali. La sua tabella mostra alcu­ ni degli stessi caratteri e limiti che abbiamo già rilevato per quella ora in vigore e si apre addirittura con quattro settori scientifico­ disciplinari di base che hanno a che fare con la letteratura e la lin­ guistica italiana; il settore M - D EA/ ol compare ora sia tra quelli di base sia tra quelli caratterizzanti, e tra questi ultimi vi è anche Etnomusicologia. Bisogna però precisare che la gamma dei settori proposti è un po' meno ampia e disparata, e sono scomparsi casi come quello di Fisica nucleare e subnucleare o di Fisica della mate117

ria; sono introdotti invece Politica economica e Scienza delle fi­ nanze. L'altra classe di lauree triennali che presentava un certo interesse per l'ambito dei beni culturali, la 3 9 , S cienze del turismo, compare ora al numero 1 5 e non presenta novità di rilievo, mante­ nendo il settore delle discipline demoetnoantropologiche tra quel­ li caratterizzanti, mentre è assente Etnomusicologia. Infine la clas­ se di laurea 41 , Tecnologie per la conservazione e il restauro dei beni culturali, diventa ora la 44, mantenendo lo stesso titolo, e registra nella tabella il settore M- o E Al o 1 tra i caratterizzanti, in tra­ ducendo un limitato aumento della presenza dei settori attinenti alle discipline biologiche, chimiche, geologiche. In questa nuova formulazione le lauree specialistiche, ora ridefini­ te " magistrali " , risultano un po' meno di un centinaio, e al nume­ ro LMl troviamo nuovamente la classe delle lauree magistrali in Antropologia culturale ed etnologia. Qui la presentazione degli obiettivi formativi appare più ordinata e precisa e inoltre un po ' più specificamente orientata alla preparazione e al lavoro nel campo delle scienze antropologiche, mentre ricompare tra gli sboc­ chi professionali quello della «predisposizione e conduzione di progetti nel campo della salvaguardia e valorizzazione dei beni etnoantropologici». Anche se la gamma dei settori disciplinari è piuttosto simile a quella precedente, nell'elenco delle attività for­ mative ora compaiono settori di più specifico interesse: S toria e istituzioni delle Americhe, Storia e istituzioni dell'Africa, e Storia e istituzioni dell'Asia; rimangono, dal punto di vista che qui ci interessa, le carenze che abbiamo già segnalato . Con denominazione simile alla specialistica L S 1 2, compare ora al numero LMll la classe di lauree magistrali in Conservazione e restauro dei beni culturali. Gli obiettivi formativi sono incentrati su diagnostica, recupero , conservazione e restauro , mentre scom­ pare ogni riferimento alla valorizzazione dei beni culturali; nel complesso la tabella appare di nuovo fortemente orientata ai setto­ ri chimici, fisici, biologici e geologici, ingegneristici, pur conser­ vando un gruppo definito " interdisciplinare " dove risulta il setto­ re M-DEA/ ot accanto a vari altri storico-artistici, storici e di anti­ chistica. Per quanto riguarda i beni musicali abbiamo una classe 118

magistrale LM45 , Musicologia e beni musicali, che pur con una gamma di settori rido tta e presentandoli tutti come caratterizzan­ ti, poco si discosta dalla corrispondente specialistica LS51. Obiettivi formativi e attività formative molto simili alla laurea specialistica LS55 sono previsti per la magistrale LM 59, ugualmente intitolata alla Progettazione e gestione dei sistemi turistici, che però elimina il settore M- D EAI o 1 . Dopo l a laurea specialistica o magistrale è possibile essere ammessi a un dottorato per un periodo triennale di formazione e di ricerca, il cui sbocco si presenta come la ricerca stessa, l'insegnamento uni­ versitario o un'attività professionale di alto livello. N o n vincolati da una tabella ministeriale ma approvati dalle singole università interessate, i dottorati registrano programmi alquanto diversi, mi­ rati a scopi specifici, non di rado a cavallo tra discipline. Dare con­ to nei particolari di questa varietà e articolazione richiederebbe qui troppo spazio; poiché tuttavia ogni anno viene organizzato un nuovo ciclo di dottorati, forniremo indicazioni per il XXI ciclo, anno accademico 2005-2006: i dottorati attinenti alla problematica dei beni culturali risultano una quindicina, ma solo in casi singoli ci sono aperture alle scienze antropologiche, come a Bologna, indi­ rizzo di ricerca etnomusicologico nel dottorato in Musicologia e beni musicali. Risulta invece una dozzina di dottorati con un mar­ cato orientamento antropologico, presso le università di Bergamo, Cassino, Milano Bicocca, N apoli orientale, Parma, Roma La Sa­ pienza, Sassari, Siena (tre dottorati) , Verona, Torino, T usci a. La preparazione in riferimento alla problematica dei beni culturali è esplicitata solo in qualche caso, come per il dottorato romano e quello di Sassari . Nel complesso, per quanto risulta dai dottorati, un'alta formazione che associ scienze antropologiche e campo dei beni D EA non appare finora molto rappresentata. Un'ulteriore vasta gamma di opportunità, che va in parte a coprire quegli aspetti della formazione sui beni culturali dei quali abbiamo indicato la carenza nelle classi di laurea e laurea specialistica, è offer­ ta da una serie di percorsi di studio e di ricerca istituiti in genere presso le stesse università e variamente denominati scuole di specia­ lizzazione, corsi di perfezionamento o master. In un repertorio di11 9

sponibile in rete nell'inverno 2005-2006 riscontriamo un centinaio di casi riconducibili al patrimonio, il più delle volte storico-artistico e archeologico; sono assenti scuole di specializzazione per i beni D EA mentre ne risultano attive numerose per quelli storico-artistici e archeologici: poiché queste scuole sono un impegnativo percorso post laurea inteso ad approfondire la preparazione scientifica e a for­ nire le competenze professionali finalizzate alla tutela, conservazione e valorizzazione del patrimonio, questa mancanza costituisce un limite pesante per la formazione in campo D EA e per l'inserimento professionale degli etnoantropologi nel settore dei beni culturali. Ritornando al repertorio in esame, sul centinaio di offerte didatti­ che di nostro interesse poco più di un terzo presenta una prepara­ zione che ha a che fare con aspetti di progettazione e valorizzazio­ ne, di gestione, di marketing territoriale e di sviluppo locale . Compaiono anche turismo , organizzazione di eventi, procedure informatiche e multimediali, allestimenti e spazi espositivi, in tota­ le per una decina di casi e tre di didattica museale. Infine, per quanto concerne la catalogazione, abbiamo un master per i beni librari e un solo corso specificamente per i beni D EA: questo è stato attivato nel 2004-2005 dalla Fondazione Fitzcarraldo di Torino per la Regione Piemonte, con la consulenza delle Università di Torino e del Piemonte orientale e il progetto prevedeva anche una forma­ zione etnografica e una gestionale, e ha contato tra i do ce n ti gli autori di questo volume. Per tenersi al corrente di questo tipo di opportunità di formazione è necessaria una periodica consultazio­ ne delle università, dei loro siti e di repertori come quello di ini­ ziativa della Regione Piemonte qui utilizzato ( http://www. riso rse be­ n i c u ltu ra l i . it) . Pe r ri ass u m e re ...

Po i c h é sa p p i a m o c h e i l patri m o n io DEA si costitu i sce co m e un sot­ toi n s i e m e d e l la cu ltu ra, ogn i ricerca in q u el ca m po scie ntifica m e nte a d eguata s a rà di i nteresse per q u a nti s o n o c h i a mati a d a re u n co ntri ­ b uto p rofess i o n a l e n e l setto re. • Un p ro b l ema di un ce rto ri l i evo si prese nta q u a n d o si p re n d a i n •

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esa m e i l contesto o p e raio, q u e l l o c u ltu ra l e e socia l e attu a l e e l e cl assi popo l a ri nel p rese nte. Qu i è assai m i n o re l a dispon i b i l ità d i rice rche; i n o ltre s o n o gl i stessi crite ri e m o d a l ità della patri m o n i a l izzazio n e e d e l l a co m u n icazio n e a essersi co nfigu rati s u l l a base d e l p reva l e nte i nte­ resse per la trad izio n e agro pasto ra l e. Si i m po n e q u i n d i un m a ggi o r i m pegno d i attenzio n e e creatività , d i ri cerca d e l l e fo nti , d i rei m posta ­ zi o n e d i q u ei criteri e m o d a l ità . • I l q ua d ro d e l l a fo rmazi o n e u n iversita ria va visto entro i l n u ovo o rd i ­ n a m e nto: co rsi d i la u rea trien n a l i segu iti da corsi d i l a u rea special istica o magistra l e bie n n a l i e i nfi n e dotto rato trien na l e. La prepa razi o n e a l lavo ro nel ca m po dei beni cu ltu ra l i D EA p u ò aver l u ogo soprattutto n e l l a classe 13, Scie nze d ei beni cu ltu ra l i , n e l l a cu i ta bel l a il setto re M - DEA/01 è carat­ terizza nte; ris u lta n o n e l l e nostre u n iversità setta ntatré co rsi atti n e nti a q u esta cl asse, i n q u a ranta dei q ua l i gli i nsegn a menti DEA sono stati effet­ tivam e nte attivati, m entre i n u n a d eci n a di casi sono stati orga n izzati veri e pro p ri perco rsi o cu rricu la DEA. Apro n o in pa rte a l l a n ostra problemati ­ ca a n ch e i corsi d i stu dio che rientra n o n e l l a classe d i l a u ree d i Scienze del tu rismo (3 9 ) , attivati i n ventitré sed i u n iversita ri e. • Tra le cl assi d i l a u rea speci a l istica d i i nteresse ri entra n o la p ri m a , dedicata ad Antro p o l o gia c u ltu ra l e ed etn o l ogia, e la LS12, l a u rea spe­ cia l istica i n Co nservazio n e e resta u ro d e l patri m o n i o sto ri co -a rtisti co. Qua nto ai dotto rati , u n a q u i n d i ci n a m i rati a l l a preparazio n e per o p e ra ­ re n e l ca m po d e i b e n i cu ltu ra l i e u n a d ozzi n a per q u el l o a ntro p o l o gico, mostra n o rid otte i ntegrazi o n i tra i due ca m p i . • Nel s u o co m p l esso la fo rmazi o n e u n iversita ria risu lta i n sufficiente­ m e nte i ntesa a crea re u n a ca pacità p rofess i o n a l e n el l 'a m bito d ei ben i cu ltu ra l i D EA che sa ppia co n n ette re l e co n oscenze etn ografi c h e e sto ri ­ che co n l e co m petenze m u seo grafi c h e e cata l ografi che, da u n lato, e q u e l l e p rogettu a l i e gesti o n a l i , d a l l ' a ltro. Pi ù attenta a q u este es igenze è l ' a m pia offe rta d a pa rte d e l l e stesse u n iversità d i master e scu o l e d i s peci a l izzazi o n e, a n ch e s e i l setto re d e m o etn oa ntro po l ogico è poco p re­ sente; la va ria bi l ità d e l l ' offe rta es ige c h e sia n o peri o d i ca m e nte co nsu l ­ tate l e fo nti , i n pa rtico l a re i n I ntern et.

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Bibliografia lettu re co nsigl iate Ca pitolo 1 Per una definizione chiara e ben articolata del mondo popolare dal quale attingiamo tanta parte dei beni culturali DEA come pure dei processi culturali che lo hanno coin­ volto, infine per un'analisi attenta degli studi e ricerche ad essi dedicati, è tuttora utile la consultazione dei primi capitoli del manuale di C I RE S E (1973). Chi è interessato alle ela­ borazioni del pensiero di Antonio Gramsci può consultare i testi, di diversa impostazio­ ne, di C I R E S E (1976) e di L O M BARDI SATRIAN I (1973, 1974) . Sul concetto di "cultura" è utile la voce corrispondente in FAB I ETTI, REMOTTI (1997) e il classico di KLUCKH O H N , KRO E B E R (1972) . Sullo sviluppo della riproposta delle tradizioni, delle feste e delle testimonianze mate­ riali e sulla problematica che li riguarda in relazione al patrimonio D EA si vedano il capitolo 9 di Italiani di B RAVO (2001a), dello stesso autore, La complessità della tra­ dizione (200 5a) e C L E M E N T E , M U G N AI N I (2001 ) . Ca pitolo 2 Sulle metodologie di rilevamento dei beni culturali D EA, materiali e immateriali, si rinvia in generale a CI RE S E (1973, 1996), C L E M E N T E , RO S S I (1999), DI VAL E R I O (1999), L O M BA R D I S AT R I A N I (2004), T U C C I (2002) . Per i beni etnomusicali, in par­ ticolare, si consiglia la lettura del saggio di CARP I T E LLA (1978) e del manuale di G IAN NATTA S I O (1 992) ; mentre per i beni connessi alla narrativa di tradizione orale si raccomanda la consultazione di M I LI L LO (1983 ) . Per l'uso di questionari applicati al rilevamento sul campo si rimanda alle griglie elaborate da B RAv o (200 5a) per le inter­ viste e a quelle precedentemente proposte da T O S C H I (1962) , che appaiono ancora utilmente applicabili nonostante il tempo trascorso. Per ciò che attiene agli archivi sonori e audiovisivi, si consiglia la consultazione dei rispettivi cataloghi a stampa, fra cui soprattutto Folk Documenti sonori (1977) ed Etnomusica ( B I A G I O LA, 1986), oltre ai vari siri internet indicati nel capitolo. Ca pitolo 3 Sui beni culturali materiali e immateriali o volatili è fondamentale il contributo di C I RE S E (2002), utile e chiara la trattazione di T U C C I (2002) . Per avere un quadro aggiornato delle ricerche sulle feste e le contaminazioni tra ele­ menti tradizionali e innovazioni, si possono vedere gli Atti dell'vi ii Congresso nazio­ nale dell' A I S EA, dedicato a Festa: tradizione riproposta reinvenzione (Torino, 26-28 giugno 2003), appena pubblicati ( B O NAT O, 2005 e 2006) . Una prima indagine che già tra gli anni settanta e ottanta del Novecento le analizza nel loro contesto sociocultu­ rale è quella di B RAVO (1984) ; si veda anche AT Z O R I (2003 ) ; per una particolare atten­ zione agli aspetti di continuità con le tradizioni rituali della cultura agropastorale vedi

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1. E. BUTTITTA (2002) . Per una rassegna etnografica secondo le singole regioni italia­ ne vedi FALAS S I (1988 ) . Una documentazione recente su tutti i musei DEA italiani sta nei contributi raccolti in MIBAC (2004) . Interessanti le posizioni espresse in CLEMENTE (1996) e in CLE­ MEN TE, ROSSI (1999 ) ; vedi anche la seconda parte di BRAVO (2005a) e A. B UTTITTA (2002) , e vari altri contributi nello stesso volume. Un esempio molto elaborato di intervento regionale per la programmazione e il coordinamento dell'attività e dello sviluppo dei musei è il sistema laziale DEMOS (DE MARTINO, TUCCI, 2002) . Utile infine il sito sulle Risorse di antropologia museale di M. Turci, http://www. a ntro po­ logia m usea l e . it; per gli ecomusei vedi http: //www.eco m us e i . n et Sulla problematica degli ecomusei sono stati pubblicati gli ATTI ECOM USEI (2004) ; si veda anche DE VARI NE (2005) .

Ca pitolo 4 Un sintetico panorama critico, sia pure non aggiornato, riguardo alla presenza dei beni DEA e al loro trattamento presso le istituzioni statali e regionali si trova in LAT­ TAN ZI, SIMEONI, TUCCI (2001 ) ; sullo stesso argomento si può anche consultare il volume curato dal ministero per i Beni e le Attività culturali (MIBAC, 2004) . Per una lettura critica del Codice dei beni culturali e del paesaggio si consiglia il volume curato da CAMMELLI (2004) , a cui può essere utile abbinare la consultazione della rela­ tiva Relazione illustrativa, in http://www.aed o n . m u l i n o. it/ riso rse/co d i ce/cod ice_relazione. pdf, mentre alcune sintetiche riflessioni riguardanti la collocazione dei beni DEA nel testo di legge sono in TUCCI (2005b). Per un panorama delle organizzazioni internazionali si rinvia all'accurato spoglio di TESTA (2002), e al relativo sito internet http://www. mcisa d u . let. u n i ro mal. iUglotto/a rchi­ vio/ mate ri a l i_d i d attici/testa/APC2002_sito.d oc, senza tralasciare la consultazione diretta al­ meno dei siti http://po rta l . u nesco . o rg/cu ltu re, http://ico m . m use u m e http://ico m . ita l ia . o rg . In­ fine, per quel che riguarda le organizzazioni nazionali di settore si rimanda ai siri inter­ net http://www.a isea . it dell'Associazione italiana per le scienze etnoantropologiche e http://www. a m rivista .org della rivista "Antropologia Museale", organo della Società ita­ liana per la museografìa e i beni demoetnoantropologici. Ca pitolo 5 In CORTI (2003) si può trovare un quadro generale e ordinato della catalogazione dei beni culturali, sia pure scarsamente attento ai beni DEA, oltre alla normativa di rife­ rimento. Un approccio maggiormente critico e più attuale, attento anche ai beni DEA, è quello fornito da VAS CO RO CCA (2002). Per un quadro storico generale della storia della catalogazione dei beni DEA in Italia si consiglia la lettura di SIMEONI (1998) e di TUCCI (2000 e 2005a), mentre uno specifico thesaurus di Parole chiave etnoantropologiche è stato elaborato da BRAVO (199 5) . Per le normative di cataloga­ zione dei beni DEA emanate dall'ICCD si vedano RICERCA E CATALO GAZIONE (1978), ICCD (2ooo, 2002, 2006) e htt p : //www. iccd . be n i c u lt u ra l i . it/n o rm ative300. htm l . Ulteriori

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diverse proposte di schede per i beni (1988 ) .

D EA

sono in

B RAVO

(1999b, 2001b, 2005c) e in

R. G R I MA L D I

Ca pitolo 6 In assenza di repertori bibliografici periodici, informazioni sulle ricerche e sulle rela­ tive pubblicazioni possono essere ricavate dalle riviste del settore. Citiamo qui: "Etnoantropologia", dell'associazione AI S EA, "Antropologia museale", dell'associa­ zione S I M B D EA, "Annali di San Michele", del Museo degli usi e costumi della gente trentina, " La Ricerca folklorica", " Lares ", e, più recenti, "Archivio di Etnografia", "Archivio antropologico mediterraneo" e "Voci " . Sulle opportunità per l a formazione e sull'assetto dell'università, poiché l a situazione si presenta in movimento, è opportuno seguire le informazioni in Internet, in particola­ re nei siti delle diverse università, delle amministrazioni regionali e nei seguenti: http://offf. m i u r.it, http://www. m i u r. i t, http ://cu n . it, http://www. risorsebe n icu ltu ra l i . it.

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